Nei panni dell'altro (etero e non)

di Dew_Drop
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si accettano scommesse? ***
Capitolo 2: *** The World's Under There ***
Capitolo 3: *** Qualcosa come un... ***
Capitolo 4: *** Fuga d'amore (e fabbrica di gelato) ***
Capitolo 5: *** Corse clandestine fra tavoli... o no? ***



Capitolo 1
*** Si accettano scommesse? ***


1. Si accettano scommesse?


1. Si accettano scommesse?

 

«Cosa ne penso?» Magnus, in piedi nel bel mezzo del salotto, rimase ad osservare gli ospiti per un lungo istante, le braccia incrociate e l’espressione grave e assorta. C’era una certa intensità, nel suo sguardo, che suggeriva il sincero impegno cui si stava affidando per soddisfare le loro aspettative. E c’era anche perplessità, quella sarcastica, quella che sa di ammutolita e teatrale sorpresa. «Ovvero siete venuti a casa mia solo per chiedermi cosa ne penso? Il fatto che il Presidente abbia lasciato la stanza deve farvi riflettere: con il vostro autoinvito avete interrotto la sua toeletta.»

«C’era qualcuno che teneva ad avere un tuo parere», lo incalzò Jace, piantato vicino al divano. «Ah, non sono io.»

Alec, sprofondato nella poltrona, girò gli occhi in quella che ebbe tutta l’aria di un’imprecazione mentale. Giusto perché dirne non gli piaceva. In faccia aveva un’espressione grigia, rigida come marmo. Non rilasciò commenti.

L’idea di passare dallo stregone era stata sua. Quella che precedeva questa conseguenza, quella che aveva teso un filo dell’alta tensione fra lui e il suo parabatai, era invece stata di Izzy. A voler essere sinceri, e lo riconosceva, si era trattata di una proposta sbadata, gettata sul tavolo con una certa noncuranza durante uno dei soliti battibecchi, con il problema che a lei era piaciuta. Ed era piaciuta anche a Clary. C’erano volte in cui era sicuro che quelle due assieme godevano enormemente nel mettere alla prova il suo particolarissimo rapporto con Jace.

Magnus buttò un sospiro e fece qualche passo, muovendosi con lo stesso atteggiamento di un gatto infastidito da schiamazzi umani. Le sue dita ingioiellate avevano preso a muoversi appena, a tamburellare le braccia con metodica leggerezza, quasi a voler dichiarare l’incommensurabilità del favore che stava loro facendo. Non sarebbe stato troppo restio a dare la propria opinione se solo quell’allegro gruppetto avesse deciso di passare il giorno dopo; aveva troppe cose da fare, quella sera, e non gli andava di spendere tempo per un gioco così idiota. Arricciò il naso, consapevole degli occhi che lo seguivano, e aggrottò le sopracciglia in un gesto di muto assenso, solo per il gusto di gustarsi l’attesa cui li aveva relegati. Poi, tutto d’un tratto, si fermò, si voltò verso Isabelle, a cui era toccato il compito di spiegare la faccenda, e chiese, nel tono serio e interessato di un possibile acquirente:

«Si accettano scommesse?»

Una domanda netta. Se a Jace cascò quasi la mandibola, uno solo dei tanti dettagli che gli inchiodarono in faccia un’espressione di tradita incredulità, Alec si strofinò il volto fra le mani e si lasciò sfuggire un verso, qualcosa di simile al mugolio di un animale ferito. O forse era un borbottio. O entrambe le cose.

Quanto ad Isabelle, accomodata sul bracciolo del divano, sfilò un sorriso eloquente. «Si può combinare qualcosa.»

«Non puoi dire sul serio!»

«Jace, sei melodrammatico.»

Jace si rivolse al padrone di casa, offeso quanto potrebbe esserlo un eroe shakespeariano. «Magnus, mi deludi.»

«Questo non intacca la mia reputazione», si giustificò lo stregone. «Volevate un mio parere e io l’ho dato. Sono interessato, a patto che possa divertirmi anche io.»

«Non sarà divertente», biascicò Alec, con la faccia ancora affondata nei palmi.

«Su, coriandolo, non esagerare. Non può essere così tremendo.»

«Ti ho già detto che anche “coriandolo” non va bene.»

«Non capisco tutta questa vostra indisposizione. Trovo che sia un’idea meravigliosa.» Magnus buttò nel camino uno spruzzo azzurro, dando fuoco alla legna già pronta da ardere. Solo una scintilla, complice il lancio piuttosto sbarazzino, finì fuori, spegnendosi contro il marmo in una sottile linea di fumo. «Evitiamo la vecchia storia che vuole che i Nascosti non sappiano niente di queste cose: siete parabatai, è un vincolo raro e sacro. Mettersi per un giorno nelle scarpe dell’altro sarebbe un gesto onorevole.»

«Il giuramento lo ricordo» osservò Jace, pungente, «ma non credo che nella frase “dove andrai tu, andrò anche io” siano compresi tutti i casi. Parafrasando, non penso che Raziel mi voglia vedere andare a uomini.»

Alec lasciò cadere le mani e fissò lo sguardo su di lui. «Non mi è giunta notizia che Raziel sia omofobo.»

«Non è quello che ho detto.»

«Io penso volesse dire» li interruppe Izzy, alzando la voce quanto bastava per infilarsi tra le loro frecciatine, «penso che Jace intendesse che le scommesse sarebbero inutili, dato che nessuno di voi sarebbe in grado di fare meglio dell’altro, ma tentare non nuoce.»

«L’hai detto.» Il Sommo Stregone sorrise con palese delizia ed entusiasmo. «E poi si tratta solo di un giorno. La persona più etero e quella più gay del mondo che si scambiano i ruoli... è elettrizzante: mi sembra di essere tornato ai tempi di Tesla. A voi no?»

«Mi spiace non poter condividere, ma ancora non c’eravamo», puntualizzò Jace.

«Era per fare un po’ di poesia. Hai rovinato il momento.»

«Sei proprio sicuro di voler lasciare che il tuo ragazzo ci provi con le donne, anche se solo per una stupida sfida?»

«Sì», fu la serafica risposta. «Non posso essere geloso. Tanto so che non ha speranze, e lo stesso vale per Clary con te.»

Alec si lasciò andare contro lo schienale e chiuse gli occhi. Una statua di resa, esasperazione, sgomento. Rivisse mentalmente il momento in cui, il giorno prima, sua sorella lo aveva scovato a bisticciare con Jace e se n’era uscita con il suo famoso: “Siete ridicoli, tutti e due! Dovreste mettervi nei panni dell’altro, ogni tanto. Farebbe bene ad entrambi”. Appunto, nei panni dell’altro. Solo che, nel suo caso, i panni dell’altro erano panni eterosessuali. Oh, Raziel.

«Trovi la cosa divertente solo perché tu non avresti problemi», stava intanto dicendo Jace, il dito impietosamente puntato contro Magnus. «Tu infili il piede in qualunque scarpa, e mi trattengo dal tradurre.»

Lo stregone non si mosse. Portava avanti la causa senza scomporsi, fiero e ritto nel bel mezzo del tappeto. «Non fare di questa storia la tua scusante. Inoltre la tua affermazione è incorretta, dato che ho di recente modificato la mia patente sessuale.»

«La tua cosa

«Dopo “bisessuale disinvolto” ho aggiunto “salvo Alexander”. Piuttosto chiaro, direi. Quindi sì, anche io avrei problemi a sostenere una sfida del genere, ma lo farei per divertimento. E solo dopo aver presentato la già citata patente, per mettere in chiaro le cose.»

Jace lo guardava un po’ come si guarderebbe un lampione parlante. La foga della sua invettiva si era slavata in un’espressione di attonito e impressionato stupore. «Tu non sei normale.»

«No, infatti. Il mio nome comincia per M.» Detto ciò, Magnus si voltò verso Alec, senza però muovere un solo passo. «Se è stato il timore della mia reazione a convincerti a chiedere prima il mio parere, non angustiasti. Non mi sentirò tradito.»

Nel suo tono c’era un tale sentimento di drammaticità televisiva da persuadere Alec a riaprire gli occhi per sostenere il suo sguardo. «Non era questo il punto», rispose. «Piuttosto, speravo e credevo che avresti detto di no. Sai benissimo che non mi piace mettermi in gioco. Quest’idea della mia giornata da etero è la cosa più stupida che potesse venire fuori. È matematicamente impossibile, non riuscirei a fingere per un solo secondo.»

Dall’altra parte del salotto si sollevò una mano. Jace. «Confermo. Non per demotivarti.»

«Nessun problema.»

«Però siete d’accordo che è una trovata originale», ricominciò Izzy, dondolando la gamba che teneva accavallata. «È un bel modo per dimostrare il vostro legame come parabatai. Non posso credere che non troviate carino calarvi nei panni dell’altro.»

«Un modo carino?» proruppe Jace, gli occhi scattati su di lei come lingue di serpente. «Trovi carino che io debba per un giorno guardare il sedere degli uomini? Senza offesa, Alec.»

«Questo è solo un insensato luogo comune», si difese lui, con un certo impeto. «Essere gay non vuol dire fissare il... il didietro di tutti quelli che passano.»

Magnus aprì le braccia ad indicare entrambi. «Visto? È assodato. Non riuscite a capire il mondo dell’altro, e questa è una cosa imperdonabile tra due parabatai.»

«Magnus, per favore...»

«Non adesso, fogliolina», lo bocciò il Sommo Stregone, sventagliando la mano con cui lo indicava quasi potesse passargli un cancellino sulle labbra. «Si tratta di mancanze che devono essere riparate. Ognuno ragiona sulla sessualità dell’altro tramite vuoti luoghi comuni.»

«All’improvviso ti sei trasformato nel più accanito sostenitore di questa follia. Potevi dire sin da subito che la circostanza ti piaceva, senza prenderti del tempo per passeggiare sul tappeto come Platone tra gli ulivi», lo beccò Jace, visibilmente contrariato.

«Se vuoi saperlo, una volta ho provato a piantare degli ulivi qui in salotto. L’idea mi ispirava giovinezza, filosofia e natura» spiegò il padrone di casa, «ma lo stile dei fanciullini greci mi ha ben presto stancato.»

«Che strano.»

Se c’era della malizia in quella risposta, Alec evitò di soffermarvisi. «Allora è un sì?» chiese. Più o meno come un uomo che domanda quando salirà sul patibolo. «È definitivo?»

Isabelle arricciò le labbra. «Il tuo entusiasmo è illuminante. Potresti almeno ringraziarmi.»

«Ringraziarti? Ti rendi conto della situazione in cui mi hai messo?»

«Ci hai messo», lo corresse Jace. Aveva incrociato le braccia e i suoi occhi passarono dal parabatai a Izzy in poco meno di un secondo. Non c’era bisogno di impegnarsi per leggergli in faccia l’indisposizione più assoluta. La sua mandibola era rigida come quella di un mastino in procinto di spiccare il balzo. «È vero, abbiamo visioni del mondo un po’ diverse, ma questo non significa che non siamo buoni compagni in battaglia.»

«Quanto militarismo. Tipico.» Magnus si mosse e si lasciò sedere sul bracciolo della poltrona, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Alec, neanche avesse violato un confine invalicabile. Non ci badò; quella del Nephilim, e lo sapeva con certezza, era la rabbia passeggera di un capriccio infantile. Un altro lato che gli faceva guadagnare punti. «Esiste un momento in cui non pensi al tuo istinto per la devastazione?»

«Non voglio deluderti, davvero, ma no.»

«Stavolta la questione è diversa», lo riprese lo stregone, in un tono di voce volutamente leggero e civettuolo. «Alexander lo ha sicuramente capito, anche se non vuole ammetterlo. Vero, nocciolina?»

Alec si mosse un poco, evitando con premeditazione lo sguardo dei presenti e puntandolo verso il caminetto acceso. Non teneva a rilasciare dichiarazioni. Quel suo sciopero della parola convinse il padrone di casa a chinarsi un poco verso di lui e a soffiargli in un orecchio, un gesto accompagnato da un sorrisetto vago e divertito:

«Non fare l’offeso.»

«Non soffiarmi nell’orecchio. E non sono offeso; sono seccato.»

«Già, con il problema che le tue emozioni sono monocrome come una vergognosa gamma di grigi. O come il tuo vestiario», aggiunse l’altro, sempre con un’espressione di deliziata ironia, salvo poi ritrarsi di colpo con un giocoso lamento quando il Nephilim gli mollò uno schiaffo bruciante sulla gamba.

Jace, che aveva forzato se stesso al silenzio mentre si consumava quel siparietto, alzò le mani di punto in bianco e le lasciò cadere. «Okay, basta. Va bene.»

«Ti butti nella mischia così, all’improvviso?» lo pizzicò Izzy.

«No, non per ispirazione divina. Lo faccio solo perché so che altrimenti tu e Magnus sareste in grado di tirarci scemi.»

«Finalmente ci sei arrivato.»

«Alec?» la ignorò il ragazzo. Nella sua voce si indovinava la frase “diamo lo zuccherino ai cavalli”. «Non rendere le cose ancor più difficili.»

Il parabatai sollevò gli occhi nei suoi, blu nell’ambra. Il suo era il tipico sguardo poco raccomandabile di un gatto la cui unica voglia è sfigurare le prime facce che si trova davanti. In barba al sentimento che gli si leggeva in volto, sventolò la mano in un gesto svagato e si strinse nelle spalle, tornando poi con le pupille fisse in un punto non ben definito del pavimento. Okay, voleva dire. Va bene, basta che finisca il più in fretta possibile.

A quella conferma, Magnus batté le mani, neanche equivalesse al martelletto di un giudice. «Andata!»

«“Andata”?» chiese Jace, dichiaratamente colto alla sprovvista.

«Andata. Non è così che dite voi giovani?»

Alec buttò uno sbuffo, reclinò il capo contro lo schienale e si passò le mani sul viso un paio di volte. Sembrava si stesse sciacquando di dosso quell’ultima, raccapricciante uscita dello stregone.

Quanto ad Isabelle, le reazioni del fratello le scivolavano addosso come acqua piovana. Non aveva ancora smesso di rivolgere a tutti quanti un radioso sorriso da imbonitrice. «Allora quando si comincia? Domani?»    

«Domani», tagliò corto Jace. «Il primo e unico giorno. Giuralo sull’Angelo.»

Lei si soffiò via dalla fronte una ciocca scura e cantilenò, dondolando il piede: «Lo giuro sull’Angelo.»

«Magnus?»

«Non posso giurare su un bel niente, ma mi impegnerò per farti credere di averlo fatto», rispose lo stregone. Le sue labbra erano arricciate in un bel sorriso soddisfatto. «Però ho ancora una domanda. C’è una cosa che abbiamo lasciato in sospeso.»

«Illuminami, allora, prima che io cambi idea.»

« ...Ma allora le scommesse si accettano, vero?»


Oh, Raziel, perché?

Sapete, questa ff è il mio esordio nel fandom, anche se conosco la saga da mesi. Cose da sapere su di me? Malec. Fine. Applausi!  _ Ok, basta (?) <3 Era da parecchio che scrivevo solo originali, ed era anche da tanto che mi ero ripromessa di fare questo, ehm, esperimento, ovvero di proporre uno "scambio di ruoli" fra Jace e Alec. Perché mi sono sempre chiesta, con la sclerotica complicità di mia sorella, come e se Jace vivrebbe una giornata da gay e come e se Alec vivrebbe una giornata da etero. Ovviamente non può essere una storia seria, su questo non piove *yep* Avanti, sono parabatai; mettersi nelle scarpe dell'altro anche se solo per una sfida è un chiaro segno di affetto e complicità reciproche. Ah, quanto al fattore temporale, pensate alla fine del sesto libro di TMI, andate avanti di qualche mesetto... Ecco, ci siete, benvenuti. (?)

Non ho idea di quanti capitoli saranno, so solo che ho in testa un po' di scenette da condividere con voi. Spero, e prego, di non andare OOC - la circostanza è insolita, okay, e riconosco che sfidarsi a scrivere di uno scambio di ruoli del genere potrebbe portarmi a traviare un poco i personaggi. Non è il mio obiettivo e quindi, se notate dei WTF estremi, ditemelo. Supportatemi - e sopportatemi, non si sa mai. In barba alla stupidità di questa cosa (?), voglio cercare di rendere una certa credibilità.

...Jace che finge di essere omosessuale e Alec che tenta di corteggiare le donne? AHAH, ok, già l'idea non è credibile. Scusa, Raziel

Dew_







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Capitolo 2
*** The World's Under There ***


2. The World's Under There




2. The World's Under There

 

Il locale, aveva garantito Magnus, era uno dei migliori. Era incastrato tra una tabaccheria e un Internet point, ridotto, almeno agli occhi di chi non sapeva vedere, ad una vetrina spoglia e incerottata. Lo stregone aveva impegnato i minuti di tragitto per spiegare che qualche anno prima quello spazio aveva ospitato un bar niente male, e che qualche anno prima ancora era invece stato una lavanderia, e che ancora qualche tempo prima era stato un rivenditore di dischi usati. Alec e Jace, che lo seguivano con una certa riluttanza, si erano fermati alla versione, datata anni Quaranta, secondo cui il famoso locale che stavano per visitare fosse stato una macelleria gestita da un poco raccomandabile italo-americano. Oltre non lo ascoltarono.

Nessuno dei due era stato entusiasta di sapere che con “domani” Magnus e Izzy avevano inteso “subito dopo la mezzanotte”. Così, solo qualche ora dopo la chiacchierata con il Sommo Stregone, erano stati costretti a calarsi anima e corpo in quella sfida che ancora non li convinceva nemmeno per metà. Quanto a chi prima dovesse abbracciare la causa dell’altro, Magnus aveva avuto la grande idea di lasciare che a decidere fosse il Presidente.

«È un ottimo giudice», aveva asserito con una punta di sdegno quando Jace aveva sollevato delle perplessità. «Sapete che in base alla curva della sua coda si riesce a leggere l’oroscopo?»

Non che ci credessero. A detta sua, quel gatto sarebbe stato persino in grado di giocare una partita a Risiko, peraltro vincendo. Gli concessero l’affermazione solo perché non volevano ricascare in un’altra discussione con il rischio di sorbirsi i commenti di Isabelle, accoccolata sul bracciolo del divano e pronta ad intervenire per il solo, sadico gusto di vederli coinvolti in quella stupidaggine. Quasi si divertiva. Togliamo il quasi.

Fu una decisione sofferta; non per il Presidente, che se ne rimase quasi un quarto d’ora seduto in mezzo al tappeto a fissare prima uno e poi l’altro, nel completo silenzio dell’appartamento, dilettandosi nel frattempo in una metodica pulizia dei cuscinetti delle zampe. Cento dollari tondi che non sapeva neanche di quale incarico fosse stato investito. Poi si era alzato ed era sgambettato da Jace, che aveva avuto da ridire per il semplice fatto che dietro di lui c’era la porta del bagno, e che il gatto, che gli era passato oltre e si era infilato nella porta socchiusa, si era per ovvi motivi mosso verso di lui. In tutta risposta, Magnus si era stretto nelle spalle e se n’era uscito con un “Dura lex, sed lex” dichiaratamente ironico e deliziato.

E poi aveva deciso di far loro da mentore per la prima spedizione, e aveva annunciato che li avrebbe portati in uno squisito localino per Nascosti, con buona musica, buona gente, buon tutto. Un localino gay. Lex un corno.

Arrivarono di fronte al The World’s Under There quando già erano scoccate le due del mattino. La colpa del ritardo – o il merito, dipendeva dai punti di vista – era di Magnus, che aveva impiegato più del previsto per decidere come vestirsi. Alla fine si era messo addosso un completo viola che trasudava un’eleganza allegra e sbarazzina, lasciando che da sotto la giacca si indovinasse la camicia giallo limone.

Erano fermi da qualche istante di fronte all’insegna luminosa, scritta in caratteri morbidi e arzigogolati e piantata sopra all’ingresso a due porte, quando Jace, mani affondate risolutamente nelle tasche del giubbotto di pelle nera e sguardo inchiodato sul neon rosso, aprì bocca e disse, nel tono di chi esprime un dato di fatto:

«Ho sempre trovato molto meschina questa storia dei locali per soli gay.»

Magnus si ravvivò il foulard bianco che si era annodato al collo a mo’ di cravatta, facendo rilucere le paillettes che ne tempestavano i contorni. «Io trovo molto meschino il tuo cinismo.»

«Ti ricordo che a quest’ora dovrei essere impegnato a proteggere il mondo. E poi che razza di nome è The World’s Under There? No, aspetta», aggiunse dopo un attimo, cogliendo la sua alzata di sopracciglia. «Ho cambiato idea. Non voglio saperlo.»

Alec, immobile in mezzo a loro, sembrava più a disagio di lui. Era forse l’unico gay nel giro di chilometri, se non il solo al mondo, capace di sentirsi scomodo di fronte ad un locale zeppo di gente che avrebbe capito il suo modo di essere. «Solo Nascosti, hai detto?»

«Girano anche Nephilim» spiegò lo stregone, «e girano anche curiosi, di tanto in tanto. È un ambiente pacifico, relativamente nuovo. Di solito si è troppo impegnati a guardarsi le spalle per bersi qualcosa in santa pace. Vogliamo muoverci?»

Furono dentro ancor prima che Jace potesse chiedere in che modo avrebbe dovuto intendere il “guardarsi le spalle”. Aveva l’orrenda sensazione che fosse un’espressione da tradurre alla lettera. All’improvviso, chiara e tangibile come ferro, avvertì un’immensa nostalgia per le ronde notturne al Pandemonium.

Il posto, per così dire, non era nemmeno pessimo. Linee pulite, basse, arredamento moderno. La pista da ballo, irradiata da un colorato gioco caleidoscopico, era circondata da divanetti e tavolini affollati. Tutto era imballato in un’avvolgente semioscurità in cui saettavano le luci dei lampadari. Persino la musica giungeva quasi sorda, profonda come se passasse attraverso uno spesso strato di ovatta.

Il primo istinto di Jace fu di sfiorarsi il fianco alla ricerca di un’arma. Con il problema che di armi non ne aveva. Lo stregone aveva raccomandato ad entrambi di liberarsi persino di eventuali forcine per capelli, soprattutto perché, parole sue, non era nemmeno il caso di mostrarsi diffidenti come cani da caccia. Dopo gli eventi che avevano interessato Idris, i rapporti con i Nascosti si erano di nuovo rilassati. D’altronde avevano combattuto la stessa guerra. Magnus li aveva perdonati per la loro iniziale intenzione di portarsi dietro almeno un’arma, riconoscendo di essere ben consapevole di quanto i Nephilim si sentissero praticamente nudi quando erano privi della possibilità di ammazzare qualcuno. Era stata un’uscita che non era piaciuta nemmeno ad Alec, che gli aveva scoccato uno sguardo gelido come ghiaccio.

«Wow, hai fatto in fretta», osservò lo stregone, dando uno sguardo al movimento abitudinario con cui Jace aveva cercato il conforto di una lama. «Rilassati e goditi l’atmosfera. Qui non c’è nessun demone brutto e cattivo; siamo tutti favolosi. Tira fuori il gay che è in te.»

«Non c’è nessun gay in me», lo ribeccò l’altro. «È questo il problema.»

«Già, è una triste conclusione. Siamo qui per rimediare.»

Si immersero nella folla solo per poter raggiungere il bancone del bar. Non videro nessun altro Nephilim, ma solo fate, qualche vampiro, un pugno di lupi mannari. Il resto era una giostra di stregoni e streghe dal vestiario eccentrico; qualche coppia ballava sulla pista. L’unico conforto della circostanza, rifletteva Jace mentre seguiva gli altri, era non aver ancora beccato qualcuno conciato come un membro dei Village People. Soprattutto, a rincuorarlo era che Magnus non si fosse impegnato per somigliarci.

Si era accorto del modo in cui lo stregone faceva di tutto per tenersi vicino Alec. All’ingresso, prima di tuffarsi fra la gente, lo aveva acchiappato per la manica della giacca e non lo aveva ancora lasciato andare, neanche volesse a tutti i costi evitare di perderlo di vista. A dirla tutta, ora che ci faceva caso, se lo stava praticamente trascinando dietro. L’idea era di osservare un uomo impegnato a strattonare per il guinzaglio un cane poco disposto a fare la sua passeggiata. Qualcuno avrebbe potuto vederci del tenero, in quel gesto, e invece Jace non riusciva a scollarsi di dosso il pensiero che Magnus si stesse comportando in quel modo per dimostrare alla gente che stava attorno che quel ragazzo era già impegnato. Via, proprietà privata, mio. E quello, per l’Angelo, quello era divertente.

Si infilarono in un angolino relativamente tranquillo del bancone. La barista, una vampira alta e dai lunghi capelli neri, era impegnata a scambiare quattro chiacchiere con alcuni suoi simili accalcati poco più in là. Prima che qualcuno fosse colto dalla sua stessa idea, Jace scivolò a sedere sullo sgabello imbottito. Non aveva ancora smesso di guardarsi attorno, gli occhi socchiusi in un’eterna ricerca del pericolo.

«Niente nomi», disse, rivolgendosi a Magnus. Era costretto ad alzare la voce per colpa della musica. «Non ho voglia di farmi della pubblicità. Con la storia del nostro viaggetto verso Sebastian, ne abbiamo già avuta troppa.»

«Detto da uno che cerca sempre di mettersi in mostra suona quasi come una barzelletta.» Lo stregone si schiaffò la mano sul petto in un gesto esageratamente teatrale. «Niente nomi, accordato.»

«Né rimarremo qui per troppo tempo.»

«Non cominciare a fare i capricci. Abbiamo appena cominciato, e c’è ancora un’intera giornata davanti a voi. Non ti scoccia, vero?» domandò poi, sollevando la manica di Alec e, di conseguenza, anche il suo polso.

Jace lo osservò per un lungo istante, l’espressione interdetta. «Cosa?»

«Se io e lui andiamo a ballare. Tu approfittane per ambientarti senza cercare guai.»

«Noi cosa?» Alec gli rovesciò addosso uno sguardo spiazzato. Sembrava che gli avessero chiesto di mettersi a saltare su un piede per tutto il locale. «Magnus, io non so ballare.»

L’altro batté le ciglia un paio di volte. «Alexander, mi stai dicendo che c’è qualcosa che un Nephilim non sa fare?»

«Sì, esattamente.»

«Non esiste nemmeno una Runa del Ballo?» chiese lo stregone. «Dovreste chiedere a Clary di crearne una, proprio per rimediare a questi spiacevoli inconvenienti.»

«Dovrebbe creare una Runa del Mutismo, piuttosto», borbottò Jace, e con uno sbuffo si mise più comodo e si voltò verso il bancone. Si trovò faccia a faccia con la barista, che lo accolse con un sottile sorriso. Doveva essersi avvicinata mentre erano impegnati in quell’insensato battibecco.

«Il Sommo Stregone ha con sé degli ospiti?» esordì lei, una linea di seduzione nella voce. Il vestito sbracciato che portava, con la complicità del colore scuro, faceva risaltare la sua carnagione chiara come fine porcellana. «Amici Nephilim?»

«Sì e no», rispose Magnus, ringalluzzito nell’espressione e nei modi di fare. Aveva lasciato la manica di Alec per passargli un braccio attorno alla vita, spingendolo appena in avanti. «Questo è il mio ragazzo. Il biondo è invece una conoscenza. Perdonalo se ti sembrerà schivo», puntualizzò, abbassando appena la voce. «Ecco, ha appena fatto coming-out. Deve ancora accettare la sua sessualità, così gli sto dando l’occasione di uscire dal guscio.»

Jace si voltò a guardarlo con la mandibola cascata per metà. Non sapeva se ritenersi più offeso dall’essere stato etichettato come una conoscenza quando invece si conoscevano da tempo, oppure se graffiargli via di dosso la soddisfazione che di certo aveva avvertito non appena gli aveva dato del gay alle prese con le prime conferme su se stesso. Stava macinando una risposta con i fiocchi, una di quelle toste, una di quelle che avevano bisogno di una profonda rincorsa, quando Magnus prese ancora parola, ignorando la sua stizza e dando qualche allegra pacca sul fianco di Alec:

«Lo lascio alle tue amorevoli cure, Lydia. Ho intenzione di trascinare questo bel ragazzo in pista.»

Non aggiunse altro. Dopo aver accolto il cenno della vampira, si ritirò nella folla trascinando Alec con sé, senza nemmeno dargli il tempo di avanzare un tentativo di protesta. Svanirono in quel turbine di voci, luci e corpi.

Poi accaddero due cose contemporaneamente. Jace se ne accorse quando fece per voltarsi di nuovo verso il bancone; la barista si allontanò nello svolazzo dei capelli scuri, richiamata da un trio di ragazze che chiedevano a gran voce da bere, e sullo sgabello accanto al suo si sistemò un tipo dall’abbigliamento un po’ sciatto, con una scarmigliata chioma castana ad incoronargli la testa. Riconobbe l’odore all’istante. Lupo mannaro.

Gli diede una sola occhiata, rapida e indifferente, con l’intenzione di fargli intendere che non era il ragazzo più raccomandato con cui scambiare quattro chiacchiere. Invano.

«Posso offrirti qualcosa da bere?» chiese lo sconosciuto, scoccandogli un sorriso a trentadue denti.

Jace, gomiti piantati sul tavolo ed espressione rabbuiata, si guardò prima dietro una spalla e poi dietro l’altra, e solo per tornare a guardare il suo audace interlocutore e rispondergli con un pungente: «Parli con me?»

«Con te.»

«Allora no.»

L’altro sollevò un sopracciglio. La risposta lo aveva stranito, ma non abbastanza da togliergli di dosso quella fastidiosa espressione da eroe della serata. «Sei qui con qualcuno?»

Doveva davvero dirgli con chi era lì? E spiegargli peraltro la circostanza per cui era seduto in un locale per soli gay? No. «No.» Appunto.

«Adesso mi dirai che di nome fai “No”.»

«Sbagliato.»

«Almeno possiamo chiacchierare un po’?»

Avrebbe voluto dargli ancora un quattro di picche, e l’avrebbe fatto volentieri. Non fece in tempo, perché il lupo mannaro aveva già ricominciato a parlare.  


* * *

 

«E così sono arrivato a Brooklyn», concluse il ragazzo, stringendosi nelle spalle come a dire “Eccomi qui”. «Ci sono delle cose che avrebbero potuto trattenermi là, ma non è che ci pensi molto. San Francisco non sarebbe male se non fosse per la gente che ho incontrato.» A questo punto si fermò e girò gli occhi su Jace. «Tu cosa mi racconti?»

“Cosa mi racconti”? Era la prima domanda che gli poneva dopo un quarto di secolo, Dio.

Jace, che era rimasto ad ascoltarlo senza dire una parola, si limitò a ricambiare lo sguardo. Il grande orologio ovale che troneggiava in cima allo scaffale delle bottiglie testimoniava che fuori il mondo si stava preparando ad accogliere le quattro del mattino. Proprio lui, che aveva voluto sottolineare l’intenzione di non restare per troppo tempo in quel posto, era rimasto seduto al bar quasi per due ore. Si era sorbito l’apocalittico discorso di presentazione di quel tizio e aveva digerito le sue vicende senza battere ciglio, restandosene semplicemente seduto a guardare un po’ di fronte a sé, verso un rincuorante nulla, e un po’ attorno, a controllare se nelle vicinanze ci fosse segno di Magnus ed Alec. Dei due neanche l’ombra; aveva cominciato a prendere in esame l’orrenda ipotesi che se la fossero filata senza di lui. Oh, l’avrebbe fatta pagare ad entrambi. Soprattutto l’avrebbe fatta pagare allo stregone, aggiungendo al conto anche le due acque toniche che si era preso da bere.

Ora che osservava il lupo mannaro mentre se ne stava zitto, capì che avrebbe anche potuto essere di buona compagnia se solo non fosse stato così logorroico. Tanto per rincarare la dose, c’era la certezza assoluta che il tipo avesse attaccato bottone solo per dei secondi fini. Non era qualcosa che riusciva a digerire.

«Okay, adesso te lo dico, cucciolotto», rispose all’improvviso, spostando le gambe per girarsi del tutto verso di lui. «La gente continua a ripetermi che dovrei avere più tatto quando parlo, ma non ci riesco. Ti faccio tante scuse. Non ho ascoltato una sola parola di quel che mi hai detto e non mi interessi. Sono qui dentro perché dovevo accompagnare un amico.»

L’altro affrontò ogni frase di petto, e solo per tornarsene di colpo a sorridere e dire: «Non vedo nessun amico con te.»

«È via.» Poi, dopo un attimo: «Credo sia impegnato da qualche parte.»

«Senti, la storia dell’amico gay è vecchia, Nephilim», fece il ragazzo, con una leggera risata a far capolino tra le labbra. «Ormai non ci crede più nessuno. Se sei troppo timido per dire che sei entrato qui dentro per curiosità, nessun problema.»

Jace ebbe la chiara, viva sensazione di sentirsi formicolare le dita. Si era teso come un’asse di legno. «Hai due sfortune dalla tua parte: sei logorroico e sei uno sbruffone. Hai cinque secondi per alzarti e sparire. Comincio a contare.»

«Non vuoi neanche sapere come mi chiamo?»

«Due...»

«L’iniziale?»

«Tre...»

«Okay, okay.» Il lupo mannaro si alzò, alzando le mani e sventolandole in un cenno. La sua era un’espressione di impressionato e sarcastico sdegno. «Se vuoi un consiglio, datti una calmata. Non c’è bisogno di comportarsi da preziosa principessa. E comunque non sei neanche quel gran schianto da potertelo permettere.»

Touché. Definitivamente. «Ti spalmo sul bancone, se insisti.» Ben scandito, anche.

«Non ce n’è bisogno.»

Jace lo seguì con lo sguardo mentre il tizio ripescava la giacca dallo schienale e si allontanava, non senza avergli scoccato un’ultima occhiata di diffidenza. E poi gli altri lo rimproverano quasi sempre per il suo modo diretto di esprimersi? Dio, a volte mancare di tatto era più efficace di una lama angelica.

Aveva una mezza idea di armarsi di cellulare e di chiamare Alec quando, spiando il ragazzo che se ne andava, lo indovinò insieme a Magnus. Stavano tornando al bar. Per una qualche ragione, il foulard colmo di paillettes era finito attorno al collo del suo parabatai. Non volle interrogarsi oltre.

«Chi era il baldo giovane?» gli domandò lo stregone, facendo un cenno in direzione del lupo mannaro, che era intanto svanito verso la pista. In faccia aveva un sorriso sicuro e radioso. Pareva di ritorno da una festa spaziale. «Hai fatto conquiste mentre non c’eravamo? Ma-non-mi-dire

«Evita quel tono da allegro conduttore televisivo», gli soffiò contro Jace, bruciandolo con lo sguardo. «Non è successo assolutamente nulla.»

«Hai sentito quell’inflessione nella sua voce, tesoro?» lo ignorò l’altro, gongolando con soddisfazione. «Quel retrogusto da “voglio tenermi i miei favolosi segreti tutti per me”?»

Alec spostò gli occhi in un punto non ben precisato. In barba al tempo trascorso là dentro, sembrava ancora un orso polare abbandonato nel deserto del Sahara. «È più uno sfondo da voglia di omicidio, ma sono pareri», rispose, dando l’impressione di parlare più a se stesso che agli altri.

«Si può sapere dove siete stati fino ad adesso?» Jace si era alzato per metà dallo sgabello, una mano rigida sul bancone e gli occhi iniettati di tradita e furente impazienza. «Mi avete abbandonato ad un bar, in un locale per soli gay, con un tizio che ci ha provato con me fino a un minuto fa!»

«E non è bello?» lo illuminò Magnus, arricciando le labbra in un sorrisetto. Per quanto lì dentro facesse caldo, il trucco non gli era sbavato di un solo millimetro e tutto quanto era ancora al suo posto, con una nota di merito per l’ombretto giallo, i glitter e la linea di matita nera. «Non trovi che sia romantico essere abbandonati in un locale e trovare così l’amore della propria vita?»

«Ti dimentichi di Clary. Sono già impegnato.»

«Ma sentilo, il galletto.»

«Siete degli sporchi traditori.»

«Oh, quante storie.» Il Sommo Stregone si lasciò sfuggire uno sbuffo drammatico e sventagliò la mano, quasi una piroetta, mentre si voltava. «Tranquilla, Sissi. Adesso ce ne andiamo. Passo domani a pagare quel che hai bevuto.»

«Come mi hai chiamato?» Jace si mosse in fretta per seguirlo, non senza perdersi il gesto con cui Alec strinse di colpo le labbra e tentò di trattenere una risata. Anche se un verso gli scappò lo stesso. «Alec, non osare. Stai zitto.»

«Comunque, se vuoi saperlo, non siamo stati tutto il tempo sulla pista», intervenne Magnus, che apriva la strada verso l’uscita. Camminava tranquillo, mani nelle tasche del completo e postura ritta e aggraziata. «Ad un certo punto ci siamo stancati. Siamo andati a fare cose nostre.»

«Non voglio saperlo.»

«Cose ciccipucci. È anche un aggettivo.»

«Ho detto che non voglio saperlo.»

«Magnus» s’intromise Alec, in un tono quasi straziato, «ti prego.»

«Già, ti prego.» Jace schivò una fata e non rallentò. Aveva la testa così piena di musica e luci da sentirsela pesante come piombo. «Soprattutto per me. Ho bisogno di dormire.»

«Poche ore», raccomandò lo stregone. «Non vorrete certo perdere tempo prezioso, giusto? Una giornata vola in fretta. Spero tu abbia già qualche idea.»

«Per cosa?»

«Per Alexander. Il prossimo turno è suo.»

Alec guardò prima uno e poi l’altro, salvo ricacciare poi gli occhi in basso e tirare un sospiro che era tutto fuorché voglia di partecipare.

«In questo momento voglio solo far finta che nulla di tutto ciò stia accadendo sul serio», se ne uscì Jace mentre si avvicinavano all’uscita. Era una benedizione non essere più in mezzo a quel trambusto. Non era mai stato così felice di tornarsene all’Istituto, anche se solo per qualche ora.

«Ah, un’altra cosa.» Magnus si arrestò di botto a pochi passi dalle due porte e si frugò nella tasca posteriore dei pantaloni. Ne trasse un foglietto bianco, ripiegato un paio di volte su se stesso, e lo tese a Jace. «Ad un certo punto sono andato in bagno», dichiarò, con una naturalezza imbarazzante. «Ne ho approfittato per scarabocchiare qualcosa. Lo porterai a Clary.»

Il Nephilim, che tentò in tutti i modi di togliersi dalla testa l’idea di un Magnus Bane impegnato a disegnare nella toilette di un locale per gay, lo spiò con un’occhiata scettica prima di prendere il foglio. Persino Alec, benché si impegnasse a mostrare scarso interesse, allungò un poco il collo quando il parabatai lo aprì.

«So che lei vede le rune prima di crearle» stava intanto dicendo lo stregone, «e che pertanto non le inventa partendo da zero, ma vorrei comunque dare un mio contributo.»

Quando Jace vide quel che Magnus aveva disegnato, corrugò la fronte. «Non voglio offendere le tue doti artistiche, ma questo cosa sarebbe?»

«Chi, per l’esattezza. È Michael Jackson, o meglio la sua silhouette mentre sta in punta di piedi», rispose l’altro, in tono spaventosamente convinto. «Ho pensato che potesse essere un buon suggerimento per un’eventuale Runa del Ballo. Perché lo ammetto, voi Nephilim siete un caso davvero disperato. Vraiment terrible. Senza nulla togliere al tuo impegno, Alec.» Persino il suo bel sorriso soddisfatto aveva qualcosa di orribile. «Allora? Lo consegnerai a Clary?»   




Oh, Raziel, perché?

Gente, mi perdonerete, ma l'idea di trascinare Jace in un locale per soli gay mi faceva impazzire. Dovete sapere che non stravedo per lui - anzi, lui e Will sono proprio due dei personaggi che non riesco a sopportare, nel senso buono del termine, eh (?) Non avrei nemmeno un quarto di pazienza per avere a che fare con uno di loro due, e così, voilà, ho voluto prendermi una soddisfazione. Adesso mi sento meglio (?)
Oltre a ciò, non credo ci sia bisogno di tradurre il nome che ho scelto per questo delizioso posticino in cui Magnus li ha portati, ma lo faccio per amor di completezza; ebbene, "the world's under there" significa "il mondo è laggiù". Capirete perché Jace decide di non indagare il motivo per cui il locale si chiama proprio così. Sono libere interpretazioni.
Un avviso importante: una di voi mi ha fatto notare di avere dei problemi con la lettura (caratteri piccoli e necessità di scorrere per arrivare a fine frase). Sul mio pc la lettura non presenta nessuna di queste due scocciature. Mi piacerebbe sapere se qualcun altro ha problemi di questa sorta, perché nel caso, davvero, se interessa tutti quanti, potrò vedere di modificare il formato di pubblicazione - non ci sarebbero problemi <3 Nel mio caso, c'è solo quello spazio blu sulla destra che mi fa salire il nazionalsocialismo tedesco, ma ci marcio sopra, dato che almeno si legge bene (?)
Quanto al resto... Non faccio numeri, ma davvero in tantissimi/e avete inserito la storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate, e solo leggendo il primo capitolo. Grazie <3 Spero vivamente di non deludere le vostre aspettative. Sono rimasta piacevolmente sconvolta dal numero di silenziosi lettori che hanno voluto dare una possibilità a quest'immane nonsensata (?), considerando che è la mia prima ff nel fandom.
---Jace non ve l'ha detto, ma ve lo dico io. So già cosa combinare per Alec. Mi odio al solo pensiero, soprattutto perché è il mio favorito.

Grazie, grazie e grazie, e alla prossima <3


Dew_


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Capitolo 3
*** Qualcosa come un... ***


3. Qualcosa come un...





3. Qualcosa come un..

 

«Io però non l’ho fatto.»

«Cosa?»

«Questo.» Alec girò gli occhi in un gesto che poteva dire due cose: non era nei piani e ma tanto lo devo fare lo stesso. A ben vedere, poteva trattarsi di una somma di entrambe le frasi.  «Non ti ho costretto a parlare da solo con il rischio che la gente ti prendesse per matto.»

Jace, che gli camminava accanto, atteggiò il volto in un’espressione di cinematografico sdegno. «Ma sentitelo. Giusto, tu e Magnus mi avete abbandonato a parlare con un lupo mannaro che voleva portarmi a letto. Io questo lo chiamo par condicio

L’altro aveva in mente una parola diversa, qualcosa che cominciava per v e finiva per “-endetta”, ma la tenne per sé. Se ne rimase zitto, impettito nel cappotto scuro, le mani inchiodate nelle tasche e il mento accomodato nel confortevole abbraccio della sciarpa grigia. Camminavano su quella via da quelli che gli sembravano secoli, ma uno sguardo lanciato al grande orologio circolare che torreggiava di fianco ad una pensilina per autobus gli disse che erano passati solo quindici minuti da quando avevano lasciato l’Istituto. E un’altra cosa, una considerazione pratica ed evidente, gli suggerì invece che il verbo più corretto era camminava.

Jace si era reso invisibile a tutti, mondani e non, e la gente se ne stava semplicemente lontana da lui, aggirando la sua zona di competenza con spontaneità e noncuranza. C’era chi lo evitava mentre chiacchierava al telefono, chi passava oltre rispettando una misteriosa e intangibile distanza di sicurezza. Alec aveva cercato di illuminarlo sulla poca correttezza di quella decisione, ma il parabatai si era limitato ad un “adesso è il tuo turno, non il mio”. Semplice e conciso, con lo stesso tono con cui ci si vuole prendere una soddisfazione o agire per ripicca. Aveva ottimi motivi per credere che l’opzione giusta fosse la seconda.

Era una mattina fredda, una di quelle in cui il cielo è basso, gravido e grigio come piombo. Izzy era impegnata con gli allenamenti e Magnus, almeno a quanto aveva detto, aveva delle urgenze da sistemare. Non c’era nulla di entusiasmante nel pensiero che Jace avesse quindi un’estrema libertà d’azione, non quando la notte prima lo avevano trascinato al The World’s Under There e costretto a trascorrere due indimenticabili ore in compagnia di uno spasimante logorroico. C’erano parecchie cose, rifletteva Alec, che già non gli piacevano, prima fra tutte il fatto che, qualunque cosa fosse stato sfidato a fare, avrebbe dovuto farla completamente da solo, ben visibile ai mondani, senza la possibilità di cercare la soluzione negli occhi del parabatai. Naturale; il suo parabatai non sarebbe esistito, non tra la gente comune, non tra i Nascosti, non quella mattinata. Fantastico.

«Dove stiamo andando?» domandò, senza mancare di fargli intendere con uno sguardo che non aveva voglia di accogliere le sue provocazioni. «Hai almeno idea delle strade che abbiamo preso?»

«Andiamo in un posto», rispose Jace. In faccia gli era spuntato un sorriso vago, quell’indizio di noncuranza che avrebbe potuto precedere anche un suo più classico Andiamo a cercare qualche demone da ammazzare. Ad Alec, neanche a dirlo, non piacque. «Dovresti goderti un po’ la routine dei mondani. Non è male. Conosceresti anche più luoghi da frequentare.»

«Non ci sono luoghi che voglio frequentare. Anzi, non voglio frequentare e basta.»

Due signore che venivano dalla direzione opposta gli scoccarono uno sguardo e passarono oltre, scambiandosi un’occhiata interrogativa. Forse, diceva l’espressione di una delle due, il ragazzo aveva delle auricolari nascoste dalla sciarpa e stava parlando con qualcuno al telefono.

«Ho pensato, dato che sono appena le nove, di fare colazione e di prenderci un caffè», annunciò Jace. Poi, complice un rapido calcolo: «Prenderti, ecco. I soldi me li ha dati Clary.»

«Potresti renderti visibile e prenderlo con me.»

«Hai detto qualcosa?»

«No, niente.» Alec macinò qualche altra parola, tra cui tanto, che e diverti. Dubitava che Jace lo avesse sentito, ma fermo restava che il messaggio gli si poteva benissimo leggere in faccia. Poche cose erano più trasparenti delle maschere di sopportazione che si metteva addosso quando cominciava a perdere la pazienza.

A Jace, che non colse il borbottio, bastò la sua faccia. «O preferisci la cioccolata? Il caffè non va bene?»

«Non è questo», si arrese l’altro, continuando a camminare a passo svelto. «Se non ricordo male, quando abbiamo deciso di fare questa stupidaggine non abbiamo compreso l’aggravante della crudeltà.»

«Oh, è stato crudele abbandonarmi al bancone di quel locale per gay», e il suo tono era solenne il giusto per sapere di sarcasmo. «Mi avete spezzato il cuore.»

«E allora dillo.»

«Dire cosa, Alec?»

«Che mi hai chiesto di rendermi visibile ai mondani solo per vendetta.»

Un momento di silenzio. Poi Jace, con un sorriso da orecchio ad orecchio: «Non lo dirò. Preferisco continuare a fartelo credere; questo genere di crudeltà psicologica è ancora più soddisfacente.»


* * *

 

Aveva con ingenuità creduto che Magnus e Izzy avrebbero fatto da giudici per tutto l’arco della giornata. Date le premesse, lo avrebbe preferito. Jace non era quel tipo di persona da lasciarsi sfuggire l’occasione di girare una carta a proprio favore; le sue ripicche erano metodiche e, cosa più importante, indolori solo all’apparenza. Quando si trattava di aguzzare ingegno e sarcasmo era praticamente insuperabile. Riflettendo su quel che lui e Magnus lo avevano costretto a fare, Alec si scoprì abbastanza maturo da riconoscere che una piccola vendetta l’avrebbe meritata. La colpa era più stata dello stregone che sua (neanche avevano ballato a lungo, a dire il vero), ma non gli andava di fare polemica. Jace aveva probabilmente patito l’Inferno seduto al bancone di quel locale, e lui, da bravo parabatai qual era, avrebbe affrontato la propria parte senza fiatare. Ammesso e non concesso che la sfida si sarebbe rivelata moralmente accettabile.

Il luogo davanti a cui si erano fermati non aveva un aspetto malvagio. Era schiacciato fra una libreria e un negozio di vestiti, con i mattoni rossi ben in vista sulla facciata. Il nome stampato sulla porta di vetro in simpatici caratteri verdi – The Cloak - non gli era nemmeno nuovo. Di fronte a quel bar doveva essere passato almeno qualche volta, senza però mai fermarsi. Poi si accorse che la strada su cui si affacciava era quella che cinque isolati più avanti incrociava la via in cui abitava Magnus. Quella considerazione topografica bastò a dirgli che sì, allora ricordava bene. Non se n’era accorto prima perché avevano preso scorciatoie che lui, di norma, puntualmente scartava.

«È rincuorante sapere che la tua terribile vendetta è un bar», commentò Alec, ma non nel tono sicuro che avrebbe voluto. Forse aveva indovinato l’obiettivo del parabatai.

«Già» disse Jace, «sono caritatevole. Ripassa mentalmente le regole del nostro mondo, perché ti serviranno.»

«Devo considerarlo come un grado di difficoltà in più?»

«Se può esserti d’aiuto. Dovrai entrare, mettere gli occhi su una bella ragazza e attaccare bottone. Lo so» aggiunse alzando la mano quando Alec lo guardò come se avesse appena imprecato, «per te questo è già improponibile.»

«Perché? C’è anche altro?»

«Offrile qualcosa, forse, e dalle il tuo numero di telefono. Il tuo.» Jace fece spallucce, neanche stesse affermando che due più due fa quattro. «Ovvero, detto in breve, rimorchia come se non ci fosse un domani. In effetti un domani non c’è, dato che la tua giornata da etero è oggi.»

«Non posso darle il mio numero», si difese l’altro, non senza un certo impeto. Una coppia che passava in quel momento gli lasciò addosso uno sguardo incuriosito prima di passare oltre. Auricolari sotto la sciarpa, sempre. Ovvio, cos’altro? «Là dentro ci sono solo mondani!»

«Il tuo», ribadì il biondo, scoccandogli ora un’occhiata truce. «Altrimenti mi spieghi dove sta la difficoltà? Certo, tolto il fatto che parlare con una ragazza è già di per sé un’impresa biblica, per te. E poi ti basterà sparire dalla circolazione e non rispondere se ti chiamerà o scriverà. Dato il mestiere che fai, svanire nel nulla non sarà difficile.»

«Grazie tante», sbuffò Alec. Non aveva ancora mosso un passo verso la porta del bar, attraverso il cui vetro indovinava qualche tavolino occupato e la curva del bancone di legno verniciato di verde scuro. C’erano forse sette, dieci persone.

«Il tuo numero», sottolineò Jace per la terza volta. Aveva fissato gli occhi verso quelli del parabatai sebbene questi stesse sbirciando nel piccolo locale con una diffidenza e un’indisposizione quasi teatrali. «Se per il momento non c’è dentro nessuno di interessante, aspetterai. Il tuo. Giuralo. Giuralo sull’Angelo, o stasera ti trascino in uno strip club e ti lego davanti al cubo di una spogliarellista per costringerti a guardare.»

Non era necessario sondare il suo tono di voce per sapere che sarebbe stato in grado di farlo. Alec incrociò le sue pupille, rigido nel cappotto e nell’espressione. «E va bene», si buttò. «Lo giuro sull’Angelo. Felice?»

«Come il sole che sorge su Idris. Prendi i soldi e entriamo.»

«Ah, entri anche tu? Per controllare?»

«Per accertarmi che non rimorchi un transessuale. Sarebbe barare.»

Stava scherzando, ma l’altro dovette contenersi dalla voglia di mollargli uno pugno o uno schiaffo sul braccio. A trattenerlo fu soprattutto la certezza che, se l’avesse fatto, la gente attorno lo avrebbe visto picchiare l’aria. Quel genere di attenzione, quella che si riserva ai matti o alle persone strambe, era proprio quella che voleva evitare.

L’interno era più spazioso di quanto sembrava promettere l’esterno. Il bar si sviluppava in profondità, diviso in un secondo locale a cui si poteva accedere varcando un’arcata, così i dieci tavolini nel primo spazio diventavano venti sommandoli a quelli del secondo. Era un ambiente ordinato, luminoso a dispetto del suo essere incastrato tra due altre attività. Al bancone era accomodato solo un trio di uomini che discutevano animatamente di sport. Non sembravano troppo interessati ai cappuccini che il barista aveva messo loro davanti da probabilmente cinque minuti tondi, considerando che dalle tazze saliva ben poco vapore. Quanto ai tavolini, qualcuno c’era, ma Alec non si soffermò ad osservare con attenzione; supponeva che guardarsi intorno come a giudicare la clientela non fosse sinonimo di educazione nemmeno fra i mondani.

«D’ora in avanti non cercarmi», dichiarò Jace, non senza un bel sorriso a coronargli il volto. «Sappi che ho scelto uno dei migliori bar di Brooklyn. Qui fanno dei caffè ottimi. Ringraziami.»

«Sì, certo», mormorò il parabatai, decisamente poco convinto. Puntò verso il bancone e si mosse. «Non fiatarmi sul collo.»

Desiderava mettere lì il punto del loro dialogo, chiudere il caso con quel gentile invito a non mettergli pressione, e l’altro dovette intenderlo, perché gli offrì un certo vantaggio prima di andargli dietro, mani nelle tasche e occhi scappati a sbirciare i dintorni quasi che potesse esserci puzzo di demone nell’aria. Nulla di eccezionale; era poi sempre quella l’impressione che dava quando si aggirava nella caleidoscopica realtà mondana. Ottenere una visione d’insieme era di fondamentale importanza anche mentre non si era a caccia.

Alec si era intanto guadagnato una delle seggiole accostate al bancone. Tra sé e i tre uomini aveva lasciato un posto di distanza, come se quell’ostacolo equivalesse ad un confine di sicurezza. Dando uno sguardo a Jace, lo vide proseguire oltre, verso la seconda stanza del locale, con passo ora tranquillo e disinvolto. Il pensiero che stesse andando a farsi un’idea della clientela che sedeva dall’altra parte gli fece provare, se non disagio, almeno una punta di irritazione.

Poi una domanda. Lì di fronte. «Cosa ti porto?»

Quando tornò a guardare davanti a sé, di scatto, vide che il barista si era avvicinato e lo osservava con un lieve sorriso di cortesia. Era magro come un chiodo, brizzolato, guance inaspettatamente piene. Trovò qualcosa di straniero nel suo accento e nei suoi occhi color nocciola. Doveva essere qualcosa di europeo.

Rimase qualche istante a fissarlo e basta, colto totalmente alla sprovvista. La sua espressione, ci giurava, era quella di uno appena caduto da un pero. O da un campanile, a seconda delle interpretazioni. Quando si accorse che l’occhiata dell’uomo si era fatta quasi interrogativa, sfilò un breve e rapido sorriso e pescò un: «Caffelatte. Basta questo, grazie.»

A caso, si disse. Non gli andavano né il caffè né il latte, ma forse una somma dei due sarebbe andata bene. Per la verità lo stomaco gli si era strizzato come un guanto di lattice, ma anche questo era un dettaglio trascurabile. Doveva essere ansia da prestazione.

Il barista lasciò lo strofinaccio che teneva in mano in un sottoripiano del bancone. «Subito.»

Stava ancora sorridendo mentre si allontanava per preparargli quanto chiesto. Alec approfittò di quella tregua per dare un’occhiata ai tre uomini, che ancora non avevano smesso di commentare, a quanto poteva intendere, una certa partita di un certo torneo di baseball. Si domandò cosa i mondani trovassero di entusiasmante in un gioco in cui si doveva correre dietro ad una pallina come barboncini isterici. Ci stava ancora pensando, gomiti inchiodati sul bancone e testa appena incassata fra le spalle, quando una voce gli parlò all’orecchio:

«Poi vai di là. Secondo tavolo a destra.»

Jace. Ovviamente.

Sobbalzò e si voltò di scatto, trovandosi faccia a faccia con lui. Con il suo sorrisetto. «Ti ho detto di non fiatarmi sul collo», sibilò tra i denti, dando uno sguardo ai tre per accertarsi che non lo avessero sentito. «Dammi tempo.»

«La ragazza seduta a quel tavolo potrebbe anche non averne, di tempo», spiegò il biondo in tono insopportabilmente serio e competente. Aveva persino arcuato appena le sopracciglia nell’espressione del mentore che dà consigli pratici al suo diletto, e parlava a bassa voce, neanche qualcuno avesse potuto sentirlo. L’ipotesi più accreditata era che lo facesse solo per agire da scomoda e irritante vocina della coscienza. «Forse tra poco se ne andrà a qualche corso universitario, o al lavoro, o a badare ai poppanti di qualche sua amica rimasta incinta troppo presto per colpa di un...»

«E va bene, va bene, per l’Angelo», lo interruppe l’altro, alzandosi così di colpo da rischiare di rovesciare la seggiola. Fece un cenno al barista, indicando l’altra saletta, e l’uomo, che stava preparando la tazza in quel momento, alzò la mano di rimando in un gesto disinvolto e noncurante che a parole sarebbe stato un okay quasi cameratesco.

L’intenzione di Alec era raggiungere quello stato emotivo per cui si è pronti ad accettare passivamente qualsiasi cosa. La formula di quella condizione miracolosa e liberatoria era il classico vada coma vada. Funzionava spesso, e funzionava bene. Aveva funzionato anche con Magnus, durante quel periodo di frequentazioni vaghe e allusive che promettevano tante belle cose per il futuro; e se aveva funzionato con lui, con il Sommo Stregone di Brooklyn, con una personalità così eccentrica, stramba e carnevalesca, perché non avrebbe dovuto funzionare per far abboccare una stupida, ingenua mondana che si crogiolava nelle sue stupide, ingenue certezze?

Vada come vada. Facciamolo e basta. Cosa vuoi che sia. Non può essere più difficile dell’ammazzare un demone. Una convincente catena di pensieri che si spezzò quando si fermò sull’uscio della seconda saletta. D’altronde osservare un muro da lontano è molto più semplice che sbatterci contro il muso.

Là dentro c’era davvero molta più gente. A giudicare dall’età media della clientela, che si aggirava attorno ai venti, venticinque anni, quel bar doveva essere la meta favorita da molti studenti e giovani del posto. Sul fondo della stanza scendeva una scaletta, da cui presumibilmente si raggiungevano i bagni, e una seconda a chiocciola saliva invece al piano superiore, dove forse, a giudicare dal cartello “privato”, alloggiava il proprietario. Solo in un secondo momento guardò verso destra e cercò il tavolo di cui Jace gli aveva parlato.

Una ragazza in effetti c’era, seduta da sola. Capelli corti e castani, tagliati sulle spalle, e borsa a tracolla sistemata sulla sedia accanto. Era presa a leggere un tascabile, o forse era una rivista esageratamente piccola, e con la mano libera stringeva il bicchierone colmo di succo d’arancia rossa. Dagli abiti non sembrava una studentessa; più probabile che stesse semplicemente bevendo qualcosa prima di riprendere una passeggiata. O prima di andare dalla famosa amica rimasta incinta a cui Jace aveva accennato giusto per mettergli fretta.

Alec sapeva che il parabatai lo stava osservando dal bancone. Non c’era bisogno di affidarsi alla runa che li legava perché si sentisse addosso i suoi occhi. Decise di non dargli la soddisfazione di vederlo immobile per più di cinque secondi, così si mosse in direzione della ragazza. Com’è che si diceva? “Via il dente, via il dolore”? Ecco un altro modo di dire che si addiceva alla perfezione alla circostanza.

Accostate al tavolo c’erano in tutto quattro sedie. Tolte le due già occupate dalla sconosciuta e dalla sua borsa, rimanevano quelle giusto di fronte. La cosa davvero positiva era che non c’era un tavolo completamente libero. Una scusante per sedersi con lei, quindi, l’aveva. Il pensiero lo consolò.

Non che avesse ben in mente come presentarsi. I mondani erano però semplici, piuttosto malleabili ed elementari. Non c’era bisogno di prepararsi un discorso per poter chiedere a uno di loro se ci si poteva sedere proprio di fronte, a patto di non beccare un evaso o un paranoico cronico. La tizia non sembrava rispondere a nessuno di quei due casi, così qualcosa come un “ehi”, chiaro ed essenziale, avrebbe potuto funzionare. Qualcosa come un...

«Ciao», se ne uscì, fermandosi davanti a lei. Ciao? Sul serio aveva esordito con un imbarazzante, banale ciao?

La ragazza alzò gli occhi di colpo. Dall’espressione che gli rivolse, un moto di sbigottimento misto a sorpresa pura e semplice, doveva essere stata strappata ad una lettura attenta e appassionata. Portava un paio di occhiali, una montatura nera, grande e lucida, di quelle che andavano di moda. Le lenti sottili mettevano in risalto la basilare linea di matita con cui si era truccata gli occhi.  

Era carina, si disse Alec. Il suo orientamento sessuale non gli impediva di riconoscere la bellezza femminile. E la tizia, anche se semplice, anche se decisamente diversa nel volto e nell’atteggiamento da Izzy, non era male. Carina, per l’appunto.

Dopo un momento di confusione, lei sfilò un sorriso sbadato. «Ciao.» Così, per puro riflesso. Poi rimase a guardarlo, con in faccia una domanda che Alec non tardò ad interpretare.

«Posso sedermi?» chiese. «Non ci sono altri...»

«Oh, sì, certo.» Chiuse quel che stava leggendo, consegnandogli così il titolo. Una guida turistica. «Fai pure, non ci sono problemi.»

Il Nephilim capì che probabilmente lei era più in imbarazzo di lui. Fu una realizzazione rincuorante. Ringraziò e si sedette, non senza una certa rigidità che, anche volendo, non sarebbe riuscito a correggere. Si era infilato le mani nelle tasche del cappotto, come a comprimersi nel minor spazio possibile o, preferibilmente, come a volersi far assorbire dallo schienale della sedia. L’animata discussione dei tre uomini al bancone era stata sostituita dal chiacchiericcio vivace dei giovani che affollavano gli altri tavoli. Ogni tanto, da qualche parte e per qualche motivo, si levava una risata.

«Sei di qui?» domandò la ragazza. Il suo era un tono da conversazione.

«Sì. Di qui.» Meditò di limitarsi a quello, e invece trovò la giusta ispirazione per ricambiare la domanda. «Tu?»

«Sono della Florida. Graceville, contea di Jackson», disse lei, e batté la mano sulla guida turistica. «Sono qui in vacanza. È un bel posto.»

«Già.» Alec si mosse, ma giusto il minimo, per sistemare meglio le gambe sotto al tavolo. Fu allora che un movimento famigliare gli consigliò di gettare un’occhiata sulla sinistra. Mancò poco che mollasse la mandibola.

Jace aveva fatto il suo ingresso e, con un balzo, si sedeva proprio in quell’istante su un tavolo giusto oltre il passaggio lasciato libero. Mani nel giubbotto, appoggiò la punta dei piedi sul pavimento e se ne rimase così, accomodato tra due persone che ovviamente non potevano vederlo e che continuarono a chiacchierare del più e del meno. Quando si accorse che il parabatai lo aveva notato, gli indirizzò un’alzata di sopracciglia, un lieve sorriso e un cenno del mento. Di incoraggiamento, forse. Si era sistemato deliberatamente lì per agire da pubblico.

La ragazza seguì la direzione in cui guardavano gli occhi di Alec, ma non disse nulla in merito. «E quindi... che fai, studi?» chiese invece, e lui tornò subito a guardarla, con la sensazione fisica di essere impallidito di colpo.

«Sì. Cioè, no. O meglio» si riallacciò dopo qualche tentativo di risposta, «lavoro di qua e di là. Mi adatto.»

Pregò che ci fosse del senso in quel che aveva detto, poi si ricordò che una delle regole del fascino era il mistero. Un punto a suo sfavore, dato che restare nel vago e mentire non erano abilità in cui eccelleva. Magnus gliel’aveva ripetuto così tante volte da fargli venire il mal di testa. La gente si divertiva a fargli notare che quand’era agitato, in imbarazzo o nervoso, la sua faccia era un libro aperto.

Lei però non sembrò farci caso. Il suo disagio pareva anzi darle un po’ di coraggio. Sorrise, poi gli tese la mano. «Monica», si presentò.

Alec si sorprese ad accettare la stretta quasi subito. «Alexander. Alec.» Ritirò il braccio in tempo per permettere al barista di piazzargli davanti la tazza di caffelatte. Ringraziò con una certa distrazione.

«Sai, devi essere forse la prima persona del posto con cui parlo. Eccetto quelli dell’hotel, ovvio.»

«Sì?»

«Sì. Vivi lontano da questa zona?»

Fu tentato di dirle che in realtà aveva il domicilio in un altro mondo, ma era un pensiero malvagio. Non era poi un’interlocutrice così fastidiosa. «Non molto», rispose, girando il cucchiaio nella tazza. «Qualche isolato.»

«E vieni qui spesso?»

«Ogni tanto.» Rettifica: era irritante subire un interrogatorio. Così sollevò gli occhi e chiese, a bruciapelo: «Sei in vacanza da sola?»

«Con papà e la sua compagna», disse lei. Dal tono, era facile capire che la cosa non la entusiasmava. «Non si fida ancora a lasciarmi viaggiare da sola. I miei diciotto anni non gli bastano.»

«Ce ne vuole, per accontentarli», se ne uscì Alec, e solo dopo si rese conto di averlo detto. Dopo un attimo sollevò la tazza e prese qualche sorso, forse nel tentativo di annegare l’argomento insieme al latte e al caffè. Invano.

Monica sollevò le sopracciglia. «Come sono i tuoi?»

Senza guardarla, lui si strinse nelle spalle con atteggiamento blando e rimise la bevanda sul tavolino. «Vanno bene, immagino», rispose, pensando a quando suo padre gli aveva chiesto perché era diventato gay. «Né nero né bianco. Sono nella norma.»

Diede un’occhiata a Jace, e quello, intercettando lo sguardo, sfilò le mani dalle tasche e sfarfallò le dita nell’aria a mo’ di mulinello, corrugando la fronte in un invito a continuare, a fare conversazione, per l’Angelo, a parlare, su, quanto ci metti, è così difficile improvvisare?

«Perché Brooklyn?» domandò, voltandosi di nuovo verso la ragazza. Era giunto alla conclusione che preferiva la sua faccia a quella del parabatai. «Ci sono molti altri posti più belli di questo.»

«Scherzi, vero?» Monica scosse la testa e il suo caschetto castano dondolò allegramente. «Questo posto è la fine del mondo! Ci sono un sacco di cose da fare e da vedere; da dove vengo io non c’è molto. Non è esattamente Miami Beach.»

«Dovresti venire sotto Natale. Organizzano un mucchio di eventi.» Era vero? Clary aveva accennato a qualcosa in merito, qualche tempo prima. Non aveva idea di cosa si organizzasse per le feste, né di cosa i mondani fossero soliti combinare di norma per l’occasione.

«Troppo caos», si giustificò lei. «A te piace?»

«Cosa?»

«Il Natale.»

Stava riflettendo sulla risposta quando sentì lo sbuffo di Jace. Spiò a sinistra, dove lo vide scoccargli uno sguardo spazientito. Gesticolava furiosamente, gli occhi spalancati e decisamente eloquenti, e bisbigliava qualcosa come “dai, dai!”, come se con quei gesti potesse cancellare del tutto quel dialogo che quasi per certo riteneva mortalmente noioso o inutile.

Alec tornò a guardare Monica prima che lei cominciasse a chiedersi cosa mai trovasse di interessante nel tavolo dall’altra parte del corridoio. «No», rispose. Poi, vinto dall’irrefrenabile voglia di convincere il parabatai a smetterla con quel tifo insensato e pressante: «Senti, mi sono seduto qui perché sei quella più carina del bar. Non l’ho chiesto a te solo per caso o per una qualche sdolcinata e idiota regola del destino. E poi pensavo che ti andrebbe un caffè. Se poi posso darti il mio numero, ancora meglio.» Pausa. «Non sono un maniaco, giuro.»

Sentì qualcosa schioccare, da qualche parte a sinistra, e si rese conto che Jace si era sbattuto le mani in faccia. Quanto a Monica, era ghiacciata sul posto.

Ogni tanto gli capitava di trovare del coraggio. Gli capitava soprattutto con Magnus, che una volta gli aveva fatto notare quanto le sue uscite improvvise cogliessero sempre tutti quanti di sorpresa. Gli capitava di perdere la pazienza, di smettere di contare le pecorelle o di fare qualsiasi altra cosa si facesse per mantenere un certo margine di neutralità, e il risultato erano frasi chiare, nette, da “questo è quello che penso: o ti va bene, o ti arrangi”. Era un atteggiamento piuttosto brusco ma giustificabile, almeno dal punto di vista di uno che, come lui, riteneva potenzialmente imbarazzante qualsiasi cosa. Se da una parte la gente si lamentava della sua quasi abituale acidità e tendenza alla prudenza, dall’altra tutti quanti avevano poi da dire quando lui decideva finalmente di, detto chiaro e tondo, tirare fuori le palle, quasi non apprezzassero il modo in cui decideva di accontentarli. Un po’ come Jace in quel momento, intento, lo sentiva di sfuggita, a recitare qualche maledizione nei palmi delle mani. Era arrivato al sodo, proprio come voleva, e non gli andava bene? E che diavolo.

C’era però il rovescio della medaglia. Quando esauriva quella voglia di esporre un pensiero diretto, quando girava improvvisamente le carte con un atteggiamento da fattelo bastare, addosso gli crollava la certezza di aver fatto o detto qualcosa di sbagliato. Un po’ come quando era praticamente saltato addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di inciampare. In quel momento, seduto davanti a quella ragazza, la sensazione che lo colse fu di un gelo che gli bucò lo stomaco.

Monica lo stava ancora fissando. Sembrava essersi scordata del succo d’arancia o della piccola guida turistica su cui ancora teneva la mano. Lo guardava, semplicemente, senza fare nulla, senza rispondere, con le labbra leggermente socchiuse e il respiro inceppatosele in gola.

Forse era il caso di parlare. Di fare marcia indietro, di buttare lì qualcosa di meno, come dire, terroristico. Alec pensò che forse avrebbe fatto meglio a chiedere a Jace se esistesse un modo giusto per chiedere il numero ad una ragazza.

Stava per parlare, per balbettare una qualsiasi cosa, quando una giovane donna si accostò al tavolo, sollevò la borsa di Monica dalla sedia e si sedette con un sospiro.

«Tuo padre mi ha tenuta al telefono fino ad adesso», sbuffò, passando la tracolla alla ragazza, che la accolse in grembo con un certo impaccio. Poi guardò Alec, un angolo della bocca arricciato in una virgola di curiosità, mentre si frugava nella borsetta – una di quelle grandi come un pacchetto di sigarette, rifletté il Nephilim – per affondare il telefono in un qualche antro irraggiungibile. Affiorò un sorriso, uno di quelli deliziati. «Chi è il tuo nuovo amico, Mo?»

Era forse vicina ai trenta, a dir tanto. A giudicare dall’espressione, dall’abbigliamento frivolo e ricercato e dalla pelle ancora liscia, poteva avere sì e no ventisette, ventotto anni. Solo in un secondo momento Alexander scorse qualcosa di innaturale attorno ai suoi occhi chiari. Doveva trattarsi di una di quelle diavolerie mondane, lifting o qualcosa di simile. E allora i conti tornavano e l’età della sconosciuta poteva aggirarsi attorno ai trentacinque.

«Alec», rispose Monica, ma in tono ancora distratto. Doveva essersi mentalmente fermato a quel “non sono un maniaco”. Forse era stato il giuro ad aver gettato un’ombra sinistra sul messaggio. «È di qui. Stavamo... chiacchierando.»

«Alec?» ripeté la donna. Non aveva ancora messo da parte il sorriso. C’era qualcosa di civettuolo nel modo in cui lo guardava. «È un nome singolare.»

«Alexander, a dire il vero», rispose il Nephilim. Non seppe come, ma ci riuscì. Era affiorato a sua volta da quel terribile momento di gelo che gli aveva preso lo stomaco.

«Io sono Bev. È un piacere.»

«Mamma... Beverly», si corresse la ragazza. Sembrava quasi a disagio. Le diede uno sguardo e mosse la mano in un cenno riassuntivo in direzione di Alec. «È la compagna di papà. Te ne ho parlato.»

«Sì, mi ricordo.»

C’era qualcosa di scomodo, ora. Il patto era sedersi con una signora, non con due, e le cose peggioravano se la seconda entrava in scena così, senza preavviso, prosciugandogli il palato e rovesciandogli addosso l’imbarazzante sensazione che ci fossero dei secondi fini nel modo in cui la nuova arrivata lo guardava e sorrideva. Trucchi medici o meno, era comunque giovane per convivere con un uomo che probabilmente aveva il doppio dei suoi anni. E questo diceva un mucchio di cose poco rassicuranti sul suo conto.

Alec si umettò le labbra, un gesto rapido e quasi impercettibile, mentre puntellava le mani sul bordo del tavolo e faceva per scostare un poco la sedia all’indietro. «Io dovrei...»

Beverly tuffò la mano e gliela posò sul polso, annullando ogni sua intenzione. E la circolazione. Anche quella. «No, resta, resta ancora un poco», lo invitò, aprendo il sorriso in una grande espressione da reginetta del ballo. «Vuoi qualcosa? Cielo, hai degli occhi meravigliosi, sai? Devi ancora finire quella tazza o sbaglio? Posso offrirti un caffè, un succo, un...»

«Ho delle cose da fare.» Scappare, in breve. Eppure non mosse la mano, non tentò di togliersi di dosso le sue dita, se non altro per paura di parere scortese. Vedeva Jace con la coda dell’occhio e aveva notato che persino a lui la situazione non andava a genio. Forse a stonare era il fatto che l’idea iniziale era rimorchiare e non essere rimorchiati, certo non dalla simbolica madre della ragazza di partenza. Perché non ci stava forse spudoratamente provando? «Non posso permettermi di fare tardi, davvero. È stato un...», e fu allora che gli suonò il telefono.

Non ci pensò e affondò la mano nella tasca dei jeans neri, sfilando l’apparecchio con un’agilità impacciata e precipitosa. Quando vide che si trattava di un messaggio e che il messaggio era di Magnus, gli giunse in soccorso la fantastica ipotesi che lo stregone avesse voluto avvisarlo di un suo prossimo arrivo. Qualcosa come “Ho finito quello che avevo da fare, arrivo!” o come “Dove siete? Adesso posso raggiungervi!”, sarebbe stato a dir poco salvifico. E invece, quando aprì l’sms, lesse solo un

 

Da: Magnus

Spero stia andando tutto alla grande, coccinella :3 Rendimi orgoglioso (il Presidente ha dato una testata al cellulare; vuole che ti trasmetta il suo supporto)! Ci vediamo più tardi

 

«Mamma e papà?» chiese Beverly.

Con un principio di panico, Alec colse il movimento con cui la donna si allungò un poco in avanti come a sbirciare. Chiuse l’sms e si rimise il telefono in tasca. «Solo il mio...» “Ragazzo”? «...amico», terminò, deviando in extremis.

«Quello che ti aspetta? È da lui che devi andare così di corsa?»

«Da lui.» Si alzò, seguito dallo sguardo adorante di Beverly e da quello perplesso di Monica.

«Senti» cominciò Bev, sempre sorridendo, «non è che sei gay?»

Lo aveva chiesto nel tono più innocente del mondo, ma forse fu proprio quella spontaneità a valere come una fucilata. Lui la guardò, improvvisamente immobile, e Monica sgranò gli occhi voltandosi verso la compagna di suo padre con la bocca spalancata in una O di incredulo sgomento:

«Beverly! Che razza...?»

«È solo una domanda, Mo, e non c’è nulla di sbagliato!», si giustificò l’altra, lasciandosi sfuggire una risatina. «Voi giovani siete così suscettibili sul tema.»

Strisciò la parola suscettibili in un modo tanto melodrammatico da costare ad Alec un brivido di orrore. «No», rispose, scrostandosi mentalmente di dosso il ghiaccio che gli aveva puntellato la bocca. Un sì avrebbe reso la sfida non valida, e non gli andava di rovinare tutta la fatica che aveva fatto per arrivare fino alla fine. Per l’Angelo, no. «No, non lo sono.»

«Scusami, ma sai, di solito i più carini lo sono sempre.»

«Beverly

«Oh, Mo, sei un disco rotto. Cioè, guardalo! Non è carino?»

La situazione stava decisamente decollando. Alec sfilò un fazzoletto dal portatovaglioli che c’era in mezzo al tavolo, trovò una penna nella tasca del cappotto e scarabocchiò qualcosa.

«Quello è il tuo numero?» chiese la donna, senza curarsi dell’imbarazzo che stava colorando la faccia della figliastra. «Il tuo?»

«Se ti va», biascicò il Nephilim, ma rivolto a Monica. Poi si fermò, sbirciò Jace, che premeva le labbra nel tentativo di non ridere, e fece una considerazione interessante. C’era una cosa su cui in effetti non aveva giurato. Aggiunse così un’altra riga di numeri e passò il tovagliolo alla ragazza, che si limitò a guardarlo con, negli occhi, una vergogna quasi fisica. «Il primo è il mio numero», le spiegò, preparandosi alla bugia che sarebbe seguita. «Cioè, anche il secondo. Ne ho due.»

«Due!» Beverly. In tono estasiato.

«Uso di più il secondo...»

«Il secondo.» Sempre Beverly, stavolta attenta e concentrata.

«...a dire il vero. Se vuoi, ripeto.»

Aveva una voglia matta di tirarsi via da quel teatrino. Le cose erano precipitate troppo in fretta. Sperava, data l’emozionata e fraterna partecipazione di Jace – era ancora seduto sul tavolo, ora vuoto, e cercava in tutti i modi di non scoppiare a ridere -, che Monica gli avrebbe scritto, ma sul secondo numero che le aveva dato. O anche Beverly. Una delle due, insomma. Ovviamente non aveva due telefoni.

La ragazza prese il tovagliolo e mosse le labbra in un silenzioso “scusa”. Era chiaro che l’atteggiamento della compagna del padre l’aveva seppellita sotto metri e metri di imbarazzo. Lui abbozzò un sorriso, un modo per dirle di non preoccuparsi, e questa volta lo fece con una certa sincerità. Monica era simpatica, dopotutto; aveva la faccia di una buona amica. Allora non tutti i mondani erano insopportabili. Le avrebbe volentieri detto che sapeva bene cosa si provava ad essere messi in imbarazzo dai genitori, ma archiviò la frase semplicemente perché aveva più voglia di levarsi di torno.

«Allora... vado», annunciò, rimettendo la penna a posto. «Buona vacanza.»  

«Grazie», rispose Monica. Sorrideva, complice il silenzioso scambio di battute di poco prima. «Buon qualsiasi-cosa-tu-debba-fare.»

Beverly alzò la mano in uno sventolio. «Ciao, Alec.» E lo disse con una certa inflessione, nella voce, un’inflessione da leggi tra le righe e capirai.

Tempo di girare i tacchi. Di corsa.


* * *

 

«Il caffè», disse Jace.

«Cosa?»

«Non le hai offerto il caffè.»

Alec si arrestò di botto in mezzo alla scorciatoia che stavano percorrendo e si voltò, l’espressione sorpresa e indignata. Era chissà come riuscito a non arrossire là dentro, ma stava recuperando alla grande ora che erano fuori, quasi una reazione tardiva. Pallini rossi gli erano fioriti sulle guance e un’oscena sensazione di calore gli aveva preso la punta delle orecchie e la fronte. In confronto, il freddo di quella mattinata newyorkese era rigido come quello della Groenlandia. «Una tizia di trent’anni e più ha tentato di provarci con me e tu pensi al caffè che non ho offerto?»

Jace, piantato lì di fronte, forzò una certa serietà. Non ci riuscì e in faccia gli si allungò, sincero ed esaltato, un gran sorriso. «È stato uno spettacolo, Alec. Uno spettacolo

«Non mi interessa. Scusa, ma l’hai vista? L’hai vista bene? Quella donna era una pervertita!»

«Parli come se fosse colpa mia.»

«Potrei persino credere che l’abbia ingaggiata tu.»

«Cosa impossibile, lo sai. Sei stato solo sfortunato. Con le donne, in fondo, non ti è mai andata alla grande.»

Alec si bevve l’ironia. Rimase a guardarlo per un lungo istante, la bocca semiaperta in un’espressione di sdegno. Poi, chiaro e netto: «Allora ti stai divertendo. Ammetti che l’idea di questa giornata ti piace.»

«Diciamo che ha i suoi vantaggi», si giustificò Jace, in tono vago e allusivo. «Le tue espressioni sono impagabili.»

«Non sai quanto mi piacciono le tue», lo rimbeccò l’altro, poi si voltò e riprese a camminare a passo svelto.

«Adesso dove andiamo?»

«Istituto.»

«Istituto?» Il parabatai gli stava alle costole. «Hai bisogno di una pausa? Sei così traumatizzato?»

Nessuna risposta. Forse era un’affermazione.

«Scrivo a Magnus?» insistette Jace, armandosi di cellulare. O meglio, cercandolo. Si frugò per qualche secondo nel giubbotto prima di uscirsene con un: «Merda, l’ho scordato.»

«Era ora che te ne accorgessi. A lui scriviamo dopo», rispose Alec. C’era un piccolo sorriso sulle sue labbra, un principio di soddisfazione. Se sul tovagliolo aveva messo quel secondo numero di telefono quando già si era accorto che il parabatai aveva dimenticato il cellulare all’Istituto, un motivo c’era. «Mi serve per quel che ho in mente.»

«Cosa?»

«Magnus. Per il tuo turno.»

«Non puoi continuare ad avvalerti di lui per vendicarti su di me. è un alleato potente.»

«Io non ti ho vietato di ingaggiare Izzy, mi sembra.»

«Già.»

«Appunto. Già.»

«Hai ragione, Alec. Non ci avevo pensato.»

Silenzio. E Alec, cogliendo il momento: «Ma non pensarci adesso. Pensa solo a camminare; voglio allontanarmi da quel bar il più in fretta possibile.»

Jace sollevò le sopracciglia. «Però era carina anche lei. La mamma, dico.»

«Jace.»

«Certo immaginarla insieme ad uno che potrebbe avere anche cinquant’anni...»

«Jace

«Okay, la smetto.» Una pausa, poi: «Ti conviene sbollire l’imbarazzo prima di arrivare all’Istituto. Non vorrai che i tuoi ti facciano un interrogatorio, vero?»







Oh, Raziel, perché?

Gente. Oh, gente. Giugno mi è saltato addosso come un Raziel decisamente inca**ato, mi ha piantato le mani sulle guance, mi ha fissato e mi ha detto, sillabando tutto quanto: "Ti succhierò il tempo libero dall'agenda come sangue dalle vene". In effetti, lo ha fatto.
Ho avuto un sacco di cose da fare e a cui pensare. Sono mortificata per avervi fatto aspettare così a lungo per un aggiornamento; sono impegnata, 'kay, ma prima o poi il capitolo successivo arriva sempre. Voglio che lo sappiate, nel caso in cui dovessi impiegare ancora due settimane tonde per pubblicare. Non vi abbandono *Momento Harmony*
Cestinato questo momento insopportabilmente sdolcinato (?), mi sono divertita a mettere Alec nel panico. Ci sono cose che di lui preferisco, e una di queste è la sua tendenza a entrare in paranoia di fronte a sfide apparentemente semplici. Di fronte a cose etero, per mettere le cose in chiaro. Insomma, questo ragazzo ammazza demoni, è un arciere dal talento infernale, ha un equilibro e una grazia invidiabili, fa a botte quando deve... ma mi entra in terapia intensiva davanti alle ragazze. Ammettiamolo: è adorabile anche e soprattutto per questo.
Ho accennato ad un momento raccontato, se non sbaglio, nelle Cronache. Mi riferisco a quel
"Un po’ come quando era praticamente saltato addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di inciampare". Momento epico per noi fan della Malec, vero? Quando lessi quel passaggio per la prima volta rimasi estasiata (?) dal coraggio che Alec a volte riesce a tirar fuori. Cioè, se vuole una cosa e non riesce a pensare ad altro, la fa, punto e basta. Una ragione in più per amarlo.
...Sì, Jace, ma tanto sai bene che non ti considero mai se c'è in giro Alexander. Abituati.
Detto (o scritto?) ciò, passo e chiudo - vi ringrazio, as usual, e stavolta ci aggiungo un "grazie" extra per la pazienza. Mi perdonerete qualche possibile errore di battitura in giro, ma ora come ora sono strafatta e non avrei le forze per rileggere tutto con la dovuta calma; insomma, qui piove, l'aria è mogia, triste. Non ispira voglia di vivere (?) Se vorrete picchiarmi o punirmi in qualche doloroso modo per via del ritardo dell'aggiornamento, fatelo pure - mi sono già riempita di rune del Pentimento per evenienza <3


Dew_










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Capitolo 4
*** Fuga d'amore (e fabbrica di gelato) ***


4. Fuga d'amore e fabbrica di gelato






4. Fuga d'amore ( e fabbrica di gelato )



Sulle prime trovarono solo Church. Il gatto, che doveva aver colto lo sferragliare dell’ascensore in arrivo, si era appostato in mezzo al corridoio con la piumosa coda grigia avvolta sulle zampe. I suoi occhi grandi come monete li osservarono con autorità, quasi a voler loro chiedere dove diavolo fossero stati. Sembrava che volesse ottenere un’ammissione di colpa o una motivazione abbastanza convincente da scagionarli.

Jace, incrociando le sue pupille, gli rovesciò addosso un cipiglio irritato mentre chiudeva dietro di sé le porte dell’ascensore. «Da quando l’animale domestico ci guarda come se fosse lui il padrone di casa?»

«Da sempre», fu la svelta risposta di Alec. Non si attardò e tirò dritto, limitandosi ad evitare il gatto. Quanto al parabatai, lontano dall’accontentarsi di quel genere di spiccia indifferenza, rivolse una smorfia a Church e lo scavalcò con un lungo passo, prendendosi così la sua fetta di vittoria.

«Avremmo dovuto insegnargli a non sostare in mezzo al corridoio.»

«Se il dettaglio ti urta così tanto, Jace, prova a spiegarglielo.»

«Eri serio quando hai detto che chiamerai ancora Magnus in causa?»

«Serissimo.» Alec svoltò nel corridoio che proseguiva verso l’ala delle camere da letto. Nella sua camminata c’era una fretta non indifferente. «Verrà a prenderti tra mezz’ora.»

«“Prenderti”?»

«Non verrò con voi.»

Parole rapide come schiaffi. Jace lo afferrò per il braccio e lo strattonò il necessario per costringerlo a fermarsi e a voltarsi. Il suo sguardo scoppiettava di incredulità mista a confusione. «Tu non verrai?»

Alexander capì che l’altro non era consapevole dell’espressione che gli si era piantata in faccia. Mentalmente, e non senza una vena di sadismo, la incorniciò e l’appese nella sua personalissima galleria dedicata alle reazioni più spassose del suo parabatai. «No», dichiarò, ma dopo qualche momento. «Non stavolta. Non posso.»

«Non provarci, Alec. Non se ne parla. Avevamo deciso che avremmo fatto questa cosa assieme.»

«Non è una cosa che dipende da me. Forse. Cioè, dipende da me, ma non posso farci niente.»

«Cosa? Ma perché non sai mai spiegarti?»

«Ti dirà tutto Magnus. Davvero, non credo di volerci essere.»

Ci fu una leggera inflessione, nella sua voce, che a Jace non piacque. Era stata una sfumatura quasi invisibile, uno scricchiolio tanto veloce da poter passare inosservato, ma lui lo colse comunque. Quello che si era infilato fra il non e il credo di Alec era stato un inciampo da voglio evitarmi lo spettacolo.

Il biondo allentò la stretta sul suo braccio e lo guardò con la bocca appena schiusa in un gesto di teatrale sgomento. Non che avesse paura dell’immediato futuro, questo no, eppure realizzò un indesiderato sentimento di allerta, qualcosa che azionò il suo sempre vigile istinto di sopravvivenza, fisica o morale che fosse. Perché di mezzo c’era Magnus e se Alec se ne tirava fuori, allora l’idea era solo dello stregone. E se era solo farina tirata fuori dal suo psichedelico e poco sano sacco delle meraviglie...

«Alexander Gideon Lightwood», pronunciò, molto lentamente, «adesso mi devi spiegare cosa...»

«Tu devi spiegarmi qualcosa, Jace», lo interruppe la voce di Clary. Improvvisa, del tutto inaspettata.

I due alzarono gli occhi lungo il corridoio e la videro, la camminata rapida e il braccio teso in avanti a mostrare quel che reggeva in mano. Sembrava che, più che volerlo esibire a loro, sarebbe stata in grado di piantarlo sotto agli occhi del mondo.

Dopo un momento di mutismo, Jace riconobbe quel che la ragazza allungava. Il suo telefono. «Eccolo, il bastardo», disse, e lasciò il braccio di Alec per fare un passo in avanti, verso di lei. «Ti giuro, credevo di averlo portato con me. Mi sono accorto di averlo dimenticato qui solo quando...»

Clary, piantata ora di fronte a loro e colto il gesto con cui lui fece per prendere il cellulare, allontanò bruscamente la mano. «Non te lo sto porgendo. Hai frainteso. Voglio delle spiegazioni.»

«Ovvero devo spiegarti perché ho scordato il telefono? L’aria dell’Istituto ti fa così male?»

«Smetti di fare lo spiritoso e dimmi da dove salta fuori questo messaggio.»

Sollevò di nuovo il telefono, imperiosamente. Sullo schermo tirato a lucido era aperto un sms, scritto nei caratteri standard della messaggistica mondana. Alec, che mise a fuoco prima di Jace, ebbe un singulto.

 

Sei tanto interessante, sai? Monica è troppo timida per riconoscere gli ottimi partiti. Quando ci rivediamo?

Bev

 

«Bev? Sta per Beverly?» insistette Clary, le sopracciglia chiare sollevate in una domanda sarcastica. «Sai che le peggiori di solito hanno proprio questo nome?»

Jace rimase zitto per un lungo momento. I suoi occhi si erano piantati su quel nome con una certa intensità prima di passare all’emoticon sbarazzina che concludeva il testo. Quella faccina sorridente, con tanto di occhiolino, sembrava promettere più di un rivedersi. E il silenzio improvviso e teso che era cascato alle sue spalle come un peso di piombo lo fece riflettere. Il silenzio del suo parabatai.

«Non posso crederci», se ne uscì alla fine, e girò lo sguardo su Alec, che sembrava non muovere nemmeno i polmoni. «È opera tua! Ti avevo chiesto di darle il tuo numero. Me l’avevi giurato, l’avevi giurato sull’Angelo!»

«Il mio numero l’ho dato», spiegò l’altro in tono inaspettatamente calmo. «Gliene ho lasciato anche un secondo.»

«Il mio? Aspetta, hai dato il mio numero a quella psicopatica?»

«Alla ragazza. E poi non me l’hai vietato, mi pare. Non rispondo delle azioni della matrigna.»

Jace lo fissò a bocca aperta, poi tornò con gli occhi su Clary, che aveva assistito senza battere ciglio. «Va bene, ci provo.»

«A fare cosa?» chiese la ragazza. Non aveva ancora abbassato il telefono, come se lasciarglielo davanti agli occhi equivalesse all’inquietante e bianca luce di una lampada per gli interrogatori.

«A spiegarti. Avrei preferito che a saperlo fossero solo Izzy e Magnus. Sono gay. No, aspetta», si corresse. «L’ho detto male. Solo per oggi. Abbiamo... Io e Alec ci siamo prestati le scarpe a vicenda, per così dire.»

Clary lo guardò come se gli avesse appena visto fiorire dell’edera in testa. «Cioè?»

«Un esperimento sociale», disse Jace, benché si stesse sentendo insopportabilmente stupido.

«Un modo elegante per dire che state facendo un’idiozia. Credevo che dopo Edom foste almeno un poco maturati.»

«È come dice», s’intromise Alec. Non si era ancora mosso e, dall’espressione frenetica che gli aveva acceso il volto, si sarebbe detto ansioso di fondersi con la parete giusto dietro. «Stiamo cercando di cambiare il modo in cui vediamo la sessualità dell’altro.»

La ragazza gli indirizzò la stessa occhiata scettica che aveva dedicato all’altro. Aveva abbassato il braccio, ma tutto nella sua postura lasciava intendere quanto ancora fosse poco propensa a riconsegnare il telefono al legittimo proprietario. «Okay», disse, anche se con una convinzione decisamente ironica. «È stata un’idea di Magnus.»

«Mia, a dire il vero.» Isabelle svoltò l’angolo mentre ancora si abbottonava con metodo il corsetto nero. I tacchi che aveva ai piedi, più che scarpe, erano fiordi norvegesi. «Clary, mi aiuti con la collana?»

Clary aspettò che Izzy li raggiungesse. Stava studiando il suo abbigliamento, i lunghi pantaloni scuri e la giacchetta aperta tagliata ai fianchi, e dedusse, con la semplicità con cui si fa un due più due, che era sul punto di uscire. Mollò il telefono a Jace, piantandoglielo in petto tanto improvvisamente da costringerlo ad un sussulto mentre pescava il cellulare alla bell’e meglio – sì, gli occhi gli erano cascati sul vestiario poco cristiano della sorella -, quindi prese la collana che Isabelle le stava porgendo. «Dove vai?»

«Izzy», disse Jace, osservandola con occhi critico, «ti voglio annunciare che non è ancora sera. Sono solo le dieci del mattino, nel caso non te ne fossi accorta.»

Lei gli rovesciò addosso uno sguardo mentre Clary le girava alle spalle e le agganciava il ciondolo al collo. «Ti seguo. Mi ha scritto Magnus; ci aspetta a due isolati tra quindici minuti.»

«Tu con me?»

«Alec resta all’Istituto con Clary. Non possiamo lasciare questo posto incustodito, lo sai meglio di me. Così sì, vengo io con te.»

Jace guardò il parabatai come se potesse infilargli un piccone in mezzo alla fronte. «Sei sadico.»

«È la regola dell’esclusione», si giustificò l’altro. «Serve un testimone, dato che io non ho intenzione di assistere.»

«Dai, muoviti.» Isabelle arraffò il biondo per un braccio e se lo tirò dietro il necessario perché lui cominciasse a camminare di sua spontanea volontà. Poi, gettandosi un gesto alle spalle: «Torneremo per il pranzo!»

«Allora tu hai il tempo di spiegarmi cosa sta succedendo», disse Clary, ma rivolta ad Alec. La differenza di altezza quasi biblica che li separava non riusciva a minimizzare l’espressione risoluta che lei gli scagliò addosso. «La storia di quell’sms, soprattutto.»

Lui trasse un sospiro, quasi un mugolio decisamente poco disposto, e lanciò uno sguardo a Izzy e Jace, che scomparivano in quel momento dietro l’angolo. Il corridoio, per quanto lungo, consegnava ugualmente l’eco delle lamentele pungenti del suo parabatai e le risposte per le rime della sorella. «Va bene», disse alla fine, tornando a guardare Clary. «Deduco di non avere scelta.»


* * *

 

Magnus li aspettava di fronte all’edicola. La giacchetta azzurra che indossava, complici le spalline imbottite e volutamente esagerate, bastava a fare di lui il protagonista indiscusso del marciapiede. Se ne stava appoggiato ad un lampione, gli occhi camuffati da un incantesimo e puntati verso le riviste esposte su un lato del chiosco. Dalla sua espressione critica e dal leggero arricciarsi delle labbra, quasi una smorfia trattenuta a stento, Jace concluse che quasi per certo stava mentalmente criticando le letture mondane.

Rendersi visibili al mondo intero era una scocciatura sotto molti punti di vista. A Isabelle, che gli camminava accanto a passo spedito, le occhiate dei passanti sembravano fare solo piacere, per quanto si trattasse di quel genere di soddisfazione leggera e disinvolta, tipica insomma di una bella ragazza consapevole dei pensieri che passano in testa agli uomini. Abituata agli sguardi altrui, proseguiva fiera per la sua strada mordendo il marciapiede con i tacchi. Quanto a Jace, non si negava certo l’attenzione delle ragazze che lo sbirciavano – stare sotto ai riflettori, diavolo, gli piaceva -, ma a distrarlo da quella bella sensazione c’era il pensiero, fastidioso e pressante come un tappo ermetico, di quel che Magnus aveva in serbo per lui. Pensò ad Alec, che si era quasi per certo chiuso in camera a leggere o a sonnecchiare; decise che lo avrebbe preferito ad Izzy, e questo perché aveva il bellissimo pregio di imbarazzarsi prima di chiunque altro. Era un vantaggio grazie a cui Jace aveva sempre avuto la possibilità di passare per lo spaccone di turno. Il disagio del suo parabatai era, ecco, un incentivo, una scorciatoia con cui poter urlare al mondo divertitevi con lui, non con me. Se era un pensiero malvagio? Perché non era forse stato crudele ricevere il messaggio della psicopatica e sorbirsi le punture di Clary per colpa sua?

«Ricordate la runa del Ballo?» esordì Magnus quando li vide arrivare. Si spinse via dal lampione e andò loro incontro, fermandosi davanti ai due. «Fate in modo di inventarvi anche quella della Puntualità. Avete dieci minuti di ritardo.»

«Come vorresti che funzionasse?» lo rimbeccò Jace. «Ti teletrasporta sul luogo allo scadere del tempo limite?»

«A dire il vero pensavo all’elettroshock. Una scarica per ogni minuto che passa.»

«Come quelle con cui ti sei pettinato?»

Lo stregone lo fulminò con un cipiglio. In qualche modo, per colpa della linea di glitter che gli illuminava le sopracciglia scure, la sua espressione risultò più buffa che spazientita. «È alta moda. Non pretendo che tu capisca, putto.»

Il Nephilim reagì come qualcuno gli avesse girato la faccia con uno schiaffo. Stava per aprire bocca, e non per parlare di un trattato di pace, quando Isabelle si precipitò a precederlo:

«Tolta questa parentesi, dove vogliamo andare?»

«Il mio amico edicolante mi ha consigliato un ottimo posto», rispose Magnus. Pareva ringalluzzito, tanto che le sue labbra si allungarono in un gran sorriso da venditore di zucchero filato. Allungò il braccio verso l’edicola e mosse qualche passo per avvicinarsi al chiosco, inquadrando con quel gesto l’ometto che se ne stava in piedi dietro al ripiano. Questi, più per riflesso che altro, sfoderò un sorrisetto. «Al, ti presento Kate e Jerome, le persone che aspettavo. Ora posso togliere il disturbo.»

«Jerome?» starnazzò Jace. I suoi occhi passarono dall’edicolante allo stregone con la velocità di due frecce infuocate. «Si può sapere che cosa...?»

Muovendosi velocemente, Magnus allungò il braccio il necessario per afferrare il suo, per poi accostarsi a lui. «Cos’è, non ti va bene? Ma a voi Nephilim non va mai bene niente?»

«Per quale dannato motivo ci hai dato nomi falsi? E poi Jerome; non chiamerei così neanche un gatto. Se proprio volevi tentare qualcosa con la J, avresti potuto sforzarti.»

«Oh, che seccatura.» Lo stregone mollò la presa e parlò stretto stretto, gettando nel contempo un’occhiata all’edicolante, che cominciava ad allungare il collo. «Siete voi quelli fissati con la segretezza, e avete anche da ridire. Mai una volta che vi accontentiate.» Poi tornò a guardare Al, sfilando dal nulla un gran sorriso: «Strada a sinistra, tre isolati e poi strada a destra, avevi detto?»

«Affermativo, Atahualpa», rispose l’uomo. «Ricordati l’incrocio.»

«È tutto nella mia meravigliosa mente. Andiamo», aggiunse subito dopo, e infilò di nuovo il marciapiede costringendo Izzy e Jace ad un inseguimento serrato.

«“Atahualpa”?» chiese il Nephilim, le mani nelle tasche e gli occhi fuggita a incrociare un’ultima volta il viso allegro dell’edicolante. «Ti prego, dimmi che non ti sei fatto passare con quel nome.»

«Atahualpa è stato l’ultimo imperatore inca.» Magnus aveva assunto un tono da maestro paziente e baciato dalla luce dell’elevazione spirituale. «Perù, hai presente? Ancora una volta non mi stupisco della tua ignoranza. Purtroppo non l’ho conosciuto; in quegli anni ero altrove, forse a Firenze a godermi il Rinascimento.»

«E il mondano ci ha creduto? Cioè, crede sul serio che qualcuno possa portare quel nome senza avvertire la voglia di fare una visitare all’anagrafe o tentare un giustificato suicidio?»

«Niente scherzi. È un nome importante.»

«Allora dove si va? Cosa ti ha consigliato il nostro amico edicolante?»

Camminavano controcorrente. Erano un gruppo insolito persino per le vie dell’eccentrica Brooklyn e ogni volta che passavano di fronte alle vetrine, queste riflettevano due ragazzi e una ragazza che filavano svelti schivando mondani dall’espressione quasi sempre indaffarata. Se qualcuno avesse avuto occhio, e si parla dell’occhio della mente, l’occhio che legge qualsiasi cosa sotto qualsiasi luce, avrebbe capito che quei tre sembravano troppo indifferenti alla comune atmosfera di quotidianità che animava la città.

Magnus arricciò le labbra e parve pensare per un lungo istante. Poi, quasi assaggiando le parole in bocca: «Oggi voglio portare il mio ragazzo a fare shopping, perché mi sono stancato del suo noioso nero pipistrello.»

«Alec non è qui, se hai notato. Credevo ti avesse avvisato che non ci raggiungerà.»

«Non ho fatto il suo nome.»

Jace impiegò un decina di secondi. La mente gli aveva giocato un conto meccanico, sistemando il nome del suo parabatai e la parola ragazzo in un unico campo semantico. Perché Alec era a tutti gli effetti il ragazzo di Magnus, e la proposizione sarebbe stata vera al cento per cento se quello fosse stato un giorno come tutti gli altri. Ma non era un giorno come altri, non quando ai piedi portava almeno metaforicamente scarpe un po’ più grandi, graffiate ai lati, quasi di certo con le stringhe in procinto di slacciarsi. Le scarpe di Alec, per l’appunto.

Si arrestò in mezzo al marciapiede così di colpo che Izzy e Magnus lo distanziarono di qualche passo prima di accorgersene e fermarsi a loro volta. Lo guardarono con un misto di aspettativa e impazienza.

«Ti prego, non svenire», disse Magnus, con blanda nonchalance. «Se devi farlo, mira al marciapiede. Giù del gradino c’è la strada e sulla strada passa il tram; non mi va di riattaccarti la testa se per caso dovesse passare mentre tu sei riverso con il collo sulle rotaie.»

«Non puoi essere serio», se ne uscì Jace. E non parlava del tram. «Tu non puoi essere serio.»

«L’idea non è stata di Alec, giusto per la cronaca», osservò Izzy. «E neanche mia. È stata sua.»

«Mia. Non puoi davvero credere di trascorrere la tua giornata da gay senza sapere che effetto fa il giudizio degli altri su di te», spiegò lo stregone. «Una delle cose più complicate è riuscire a convivere con le occhiate dei più diffidenti. È tutto troppo facile finché sei in un locale come quello della scorsa notte. Quindi sì, per qualche ora sarai il mio ragazzo. La vera sfida è alla luce del sole. Tra la gente, sui marciapiedi. Anche se, lo ammetto, detta così suona male.»

Jace lo guardò per degli istanti. Sembrava che stesse osservando un idrante addobbato per Natale. «Adesso torno all’Istituto», dichiarò.

«Non fare i capricci. Oh, accidenti.» Isabelle macinò la distanza fra loro e lo afferrò per il gomito, tirandoselo poi dietro in una camminata svelta. «Magnus, io ti avevo avvisato. Poi non venire a dirmi che pensavi che sarebbe stato più semplice.»

Quello aspettò che la ragazza gli passasse oltre con Jace al seguito prima di andar loro dietro. «Peccato, mi ero già preparato la frase. Tranquillo, putto, non ho intenzione di baciarti.»

«Se lo fai ti strappo le labbra», ruminò Jace. Si scrollò di dosso la mano di Izzy. «So camminare anche da solo.»

«Dammi almeno la mano.»

«Ti prego, no.»

«Sei un fidanzato crudele. Non credevo che potessi farmi questo. Mi tradisci?»

«Magnus», masticò Jace, mentre tentava in tutti i modi di negare a se stesso l’incipit di imbarazzo che gli stava montando sottopelle. «Magnus, cuciti la bocca e muoviamoci.»  


* * *

 

Sperava che si sarebbero persi. Forse le informazioni dell’amico edicolante si sarebbero rivelate semplici buchi nell’acqua, e allora sarebbero stati costretti a fermarsi, riguardare la situazione e decidere per un’altra iniziativa. Purtroppo per Jace non accadde.

L’unica difficoltà fu trovare la strada che svoltava a destra, perché nessuno aveva detto loro che, più che una via, era un vicolo incastrato tra due palazzi. Era stato quello il momento in cui il Nephilim aveva creduto che la cosa si sarebbe risolta con un nulla di fatto e che Isabelle avrebbe dichiarato l’annullamento di quell’enorme idiozia – Magnus era oggettivamente un bell’uomo, con il problema che farsi passare per il suo ragazzo non sarebbe comunque mai rientrato nella sua lista dei desideri -, e invece lo stregone si era guardato attorno, aveva ripercorso il marciapiede simile nell’atteggiamento ad un cane da tartufo e aveva scovato la viuzza di cui l’edicolante aveva parlato.

E cane da tartufo era l’espressione corretta se si tiene in conto che quel che stavano cercando era una boutique d’abbigliamento. Non era tra le più sofisticate e conosciute, ma il lavoro di sartoria, come spiegò Magnus mentre infilavano la stradina, era uno dei migliori di tutta New York.

«È da tanto che volevo visitarla, anche se non sapevo dove fosse», aggiunse mentre si dirigevano all’ingresso a due porte. «Girare da solo per negozi non è divertente. Alec non mi vuole mai accompagnare.»

«Nessuno ti vorrebbe accompagnare, credo», borbottò Jace, alzando un’occhiata scettica all’insegna della boutique. «Soprattutto quando si parla di shopping. Io stesso mi sento un ostaggio.»

«Perché il sentimento fra noi è tanto forte da far invidia alla sindrome di Stoccolma.»

«Non penso che la ragione sia questa.»

Izzy entrò per prima, portandosi dietro il rumore dei tacchi sul lucido marmo del negozio. La temperatura era gradevole, piacevolmente viziata in confronto al fresco dell’esterno. Nell’aria aleggiava un vago ma riconoscibilissimo sentore di lavanda mista ad ovatta, una fragranza che si sposava alla perfezione con le tonalità pastello delle pareti. Un’ampia scala saliva ad un pianerottolo su cui si poteva indovinare una fila di camerini; quanto al resto, gli abiti erano presumibilmente esposti in un secondo spazio, un suggerimento che Isabelle colse quando notò un breve corridoio di specchi che scappava sotto alla scala.

«Puoi chiudere fuori il tuo sarcasmo?» stava nel frattempo rispondendo Magnus, nel tono permaloso di chi subisce un torto irreparabile. «Vorrei godermi la vacanza.»

«Vacanza? Tu sei sempre in vacanza.»

«Non quando sono a Washington a mandare avanti la nostra attività.»

A quel punto Jace lo guardò con un’espressione che esprimeva al contempo incredulità, confusione e una generosa dose di disgusto. «Cosa? Si può sapere che stai dicendo?»

«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dai tuoi genitori. Non saremmo mai dovuti scappare insieme per aprire la fabbrica di gelato per cui abbiamo tanto risparmiato.» Lo stregone sbirciò la commessa, che si era lasciata il bancone alle spalle e li stava raggiungendo, e fu colto dalla splendida idea di improvvisare un sorriso e dire, in tono dispiaciuto e imbarazzo: «Mi scuso per la chiassosa entrata, signorina. Cose nostre.»

Lei scosse il capo mentre la sua mano coronata da unghie smaltate di verde si muoveva in un gesto di benevolenza. Qualcosa nella sua espressione, forse la leggera vena di divertimento che le arricciava le labbra, lasciò capire a Jace che doveva aver sentito le parole di Magnus. «Nessun problema», li accolse. «Come posso aiutarvi?»

«Stavamo cercando...», cominciò lo stregone, ma poi si fermò e riavvolse il nastro. «Qualcosa di blu. Per lui.» Indicò Jace, sollevando un angolo della bocca in un sorrisino per poter concludere, in un tono quasi di confidenza: «Niente di troppo appariscente, però. Non mi va che altri gli mettano gli occhi addosso.»

«Certo.» La giovane donna ricambiò quel leggero arcuarsi delle labbra. «Ho capito.»

E fu allora che il Nephilim lo vide. Vide quello sguardo, la rapida sbirciata della commessa, il modo in cui sembrò per un istante incasellarli entrambi in una cornice immaginaria. In faccia le passò una limpida e chiara realizzazione, tanto che Jace se la sentì addosso come colla vinilica. Allora stanno assieme, era stato il significato di quell’espressione. Oh, ma dai? Che teneri.

Alec gli diceva spesso quant’era facile capire cosa pensava la gente, ma aveva colto il reale senso delle sue parole solo in quel momento, di fronte a quella donna. Era come se esistesse una differenza matematica fra il guardare una coppia etero e il guardare una coppia gay, una legge immutabile e istintiva che convinceva le persone a cambiare atteggiamento a seconda della sessualità dell’interlocutore. Potevi star certo che quasi nessuno sarebbe stato troppo interessato agli affari tuoi se cercavi il sesso opposto, e allo stesso modo non potevi invece esserlo quando a destare il tuo interesse era il tuo stesso genere. Sembrava un comandamento dell’universo. Se Dio aveva creato gli uomini, allora doveva essere stato sempre lui a dire: “Ecco, figli miei; osservate apertamente gli etero, ma limitatevi a spiare i gay”. Il pensiero, neanche a dirlo, non gli piacque. Nemmeno lo divertì, per quanto fosse profondamente ironico.

Magnus si era nel frattempo mosso insieme alla commessa verso il breve corridoio di specchi. Jace se ne accorse solo quando Izzy gli diede uno schiaffo sul gomito.

«Stai giocando al bel bambolotto di porcellana?» gli chiese. Evidentemente doveva aver colto il suo improvviso e inedito silenzio di riflessione. «Avanti.»

«Ma l’hai vista?»

«Cosa?»

«Lei. Il modo in cui mi ha guardato.» Camminavano a qualche passo di distanza dallo stregone e dalla donna, ma non abbastanza da convincere Jace ad alzare la voce. Mormorava. O meglio, borbottava. E sbirciava la commessa come se avesse potuto inchiodarle un giavellotto fra le scapole. «Non l’hai notato?»

«Vedo che la giornata sta cominciando a dare i suoi frutti», dichiarò Isabelle. Poi non aggiunse altro e allungò il passo, costringendo il ragazzo a fare altrettanto.

«Il problema è che di recente la moda è solo un affare di denaro», stava dicendo Magnus, gesticolando ampiamente. «Ma lei ha idea delle vere e proprie guerre che gli stilisti si dichiarano? Una volta ci si vestiva senza tutte le pretese che ci sono oggi.»

«“Una volta” quando, per la precisione?» La commessa, che procedeva lì accanto, si era lasciata scappare una risatina. «La moda è denaro.»

«Nel Quattrocento era più una questione di buongusto, ad esempio.»

«Difficilmente qualcuno in carne ed ossa potrebbe testimoniarcelo.»

Lui le fece un sorrisetto sornione, quasi l’arricciarsi dei baffi di un gatto. «Oh. Vero. Me ne dimentico spesso. Preferisci il blu notte o il blu elettrico?» chiese poi, girando uno sguardo su Jace. «Promettimi che non guarderai il cartellino. Pago io: voglio che sia un regalo, quindi non sbirciare il prezzo.»

«Nessun rischio, credimi», disse il Nephilim, ma a voce così bassa da rischiare di non essere udito da nessuno. Il modo in cui la commessa li guardava era irritante. Si domandò come Magnus facesse a tollerarlo. Esperienza, tirò ad indovinare.

«È solo un po’ imbronciato», si giustificò Magnus all’indirizzo della donna, in un tono da canarino che plana nell’aria estiva. «Di solito è molto più socievole.»

Ammesso che nel “socievole” siano comprese anche le voglie omicide, rifletté Jace, e per poco non lo disse. Da qualche parte nel cervello aveva una penna con cui segnava forsennatamente mille e più modi per fargliela pagare. Poi capì che avrebbe potuto rifarsi con Alec, che con tutta probabilità era steso sul letto a leggersi qualcosa con un impettito e imperiale Church sistemato sulla pancia, e allora si sentì un poco meglio.

Il suo mentale blocco per gli appunti ebbe modo di riempirsi dall’inizio alla fine nel giro di un’ora scarsa. Decise persino di prenderne un secondo, perché dubitava che un quaderno solo sarebbe bastato. Più che Magnus, la protagonista indiscussa fu la commessa: c’erano dettagli nel suo atteggiamento che gli impedivano quasi la digestione, come la maniera che aveva di girare gli occhi ogni tanto per inquadrarli in un unico scatto neanche in coscienza stesse progettando un servizio fotografico. Lo stregone si divertiva a dare gli input, a lasciar intendere questo o quello – la storia, per come l’aveva messa giù, li ritraeva come due giovani innamorati fuggiti a Washington per poter avviare una fabbrica di gelato specializzata in gusti esotici; Jace non aveva idea del perché si fosse inventato un racconto così assurdo, ma si chiese come la giovane donna riuscisse a crederci -, e lei lo assecondava, sbirciava, ricambiava i sorrisi di confidenza, ma con quel qualcosa di non-detto, in sottofondo, che rendeva il suo atteggiamento decisamente snervante, come se servire una coppia gay in una boutique fosse più appagante che servirne una etero.

Furono costretti a stringare i tempi per via dell’orari di chiusura. Quando uscirono mancava mezz’ora all’una e le strade erano più calde di come le avevano lasciate. Magnus teneva la bella giacca blu piegata sul braccio, attento a non spiegazzare l’involucro di morbida carta in cui era stata impacchettata. Era senza ombra di dubbio un bel capo, con il problema che le spalle restavano a Jace un po’ larghe. Quando chiese spiegazioni allo stregone, lui si strinse nelle spalle e picchiò la mano libera sulla giacca, in un gesto soddisfatto e realizzato.

«Ebbene, ho mentito», disse, ma con naturalezza. «Questa dolcezza è per Alexander. Lui non vuole mai accompagnarmi nei negozi, te l’ho detto; così mi sono servito di te per avere almeno una vaga idea sulla misura giusta.»

Jace fece una smorfia senza rallentare il passo. Aveva una gran voglia di allontanarsi da quel negozio. «Degradato da parabatai a manichino. Non so se sia peggio questo o il fatto d’essere stato sbirciato da quella donna come se fossi un raro esemplare di rinoceronte bianco.»

«Non è un paragone del tutto sbagliato. In quanto a grazia ed eleganza, tu e i rinoceronti siete sullo stesso livello», puntualizzò Magnus.

Izzy sollevò la mano e ammirò il bracciale che si era comprata a spese dello stregone. «Qualunque cosa tu voglia combinare per il pomeriggio», s’intromise prima che il ragazzo potesse lanciarsi in un battibecco, «io non ci sarò. Ho da fare.»

«Li accompagnerò io.» Lo stregone aveva preso a pizzicare l’involucro, ma con gentilezza. «Ah, questa giacca è così magnifique

 «Non penso che Alec apprezzerà la tua presenza», informò Jace, abbandonando il marciapiede per poter infilare un vicolo. Era abituato a schivare la folla mondana ovunque fosse possibile. «Però, a ben pensarci, il tuo regalo gli servirà.»

«Cosa?»

«La giacca.»

Magnus mise quasi il broncio. Strinse la giacca a sé, stropicciando la carta in cui era avvolta. «Niente da fare. La indosserà la prima volta per me.»

«Mio turno, Magnus. Ho il diritto di scegliere qualsiasi cosa. Alec se la metterà; non è colpa mia se la sua eleganza si limita a maglioni sfilacciati. Per quello che ho in mente mi serve però che sia davvero presentabile, quindi quella giacca casca di proposito.»

«Allora è meglio che lo sappia», disse Izzy. «Qualcuno deve informarlo perché si possa preparare psicologicamente a vestirsi con decenza.»

«Ho fame. Informa che stiamo arrivando per pranzo, piuttosto.»

«Rettifico», dichiarò lo stregone. «I rinoceronti sono meno primitivi di te.»

«I rinoceronti sono anche in via d’estinzione», se ne uscì Jace. «Vuoi far loro compagnia?»

«È una gentile proposta, ma sono costretto a rifiutare: in un mondo di bassezze morali e fisiche, io sono già in via d’estinzione. Sono un raro esemplare di bellezza fatta persona.»

«Sarebbe comunque bello renderti un po’ più in via d’estinzione, soprattutto perché mi hai costretto a farmi passare per il tuo ragazzo.»

«Non ci sono problemi», annunciò Magnus, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro. «Ci siamo già lasciati. Sono inconsolabile; credo me ne andrò a casa a pettinare il Presidente e a farmi coccolare dal suo disinteressato amore felino.»

Il Nephilim gli girò addosso uno sguardo livido. Quel gioco di ruoli, più che instillare in lui il divertimento che si leggeva sull’espressione di Izzy, gli faceva solo venire voglia di chiedere al sole di tramontare il più in fretta possibile. Peccato che non fosse ovviamente possibile. «Dammi la giacca», disse invece, sorprendendo anche se stesso, e allungò la mano in modo sbrigativo senza smettere di camminare. «La porto all’Istituto e convincerò Alec a mettersela addosso. Ti voglio reperibile per le due, Magnus.»

«Sai come si dice? “L’erba ‘voglio’ non cresce neanche del giardino del re”.»

«Appunto», rispose Jace. Mosse le dita in un movimento più che eloquente, un modo per dirgli di consegnargli la giacca e di farlo in fretta. «Non cresce nel suo perché cresce nel mio. Dai, mollala.»






Oh, Raziel, perché?


Ho due cose da dirvi.
La prima: per un bel periodo ho avuto problemi con Nvu, il programma che uso per caricare i testi in html. Semplicemente, al momento della pubblicazione, la pagina mi si presentava con i tag. Avevo avvisato del problema sulla mia pagina Facebook - che non uso troppo spesso, a dire il vero, ma per una volta si è resa utile -, e spero quindi che qualcuno di voi sapesse già di questa contrattempo. Poi un'anima pia mi ha suggerito di scaricare Publisher; in più ho scaricato di nuovo Nvu, e ora funziona. Ovvero, adesso ho un salvagente nel caso in cui dovesse ricapitare *fa corna*
La seconda: il lavoro mi ha tenuta impegnata. Lavorando a chiamata, non so mai quando ho del tempo libero. Ma sono
immensamente felice di essere riuscita a terminare e a postare questo capitolo. Avete atteso qualcosa come sette anni per un aggiornamento, tanto che qualcuno dovrebbe farvi santi/e (?)

Poi... Ormai sapete che odio Jace
c: Lo odio con il cuore in mano, con tanto, infinito affetto. Non credo mi spingerei mai a shippare la Jagnus  - "Jagnus"? Si chiamerebbe così? -, ma il senso di sadica soddisfazione che ho provato scrivendo di questa sua uscita con Magnus è stato davvero degno di nota. Semplicemente, mi piace fargli perdere la pazienza un po' come mi piace far imbarazzare Alec.
Dal momento che ho ben in mente cosa combinare al nostro Alexander, non credo proprio che vi farò ancora aspettare così tanto per un aggiornamento. Vi ringrazio a prescindere, perché ho notato che qualcun altro si è messo a seguire la ff benché non aggiornassi da tempo <3

Dew_

 






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Capitolo 5
*** Corse clandestine fra tavoli... o no? ***


5. Corse clandestine fra tavoli... o no?






5. Corse clandestine fra tavoli... o no?

 

«Credo mi stia un po’ stretta», disse Alec.

Jace gli indirizzò un’alzata di sopracciglia. Se ne stava seduto sul divano, al centro, le mani tra le ginocchia e l’espressione contesa fra sarcasmo e insofferenza. «A me sta larga e a te stretta? Pensavo che il tuo fiuto per il vestiario fosse infallibile, Magnus.»              

Lo stregone si lasciò passare le sue parole da un orecchio all’altro. Rimase semplicemente fermo in mezzo al salotto, quasi non avesse ancora realizzato di avere ospiti a casa propria. Si era sistemato il mento fra pollice ed indice e scrutava Alec senza battere ciglio, con gli occhi stretti in un indizio di intensa concentrazione, come a chiedersi come diavolo fosse possibile che il suo ragazzo se ne fosse uscito con un annuncio simile. Poi, in tono convinto e professionale:

«La taglia è giusta. È solo il modello.»

«Il modello?»

«Le giacche hanno modelli diversi, Jace. Questa ha le spalle strette; è fatta così.»

Alec guardò prima uno e poi l’altro e decise di trattenersi dal rilasciare dichiarazioni. Erano a casa di Magnus da quasi un’ora e l’orologio a forma di gufo segnava ormai le tre del pomeriggio. Ancora nessuno gli aveva detto perché mai dovesse andarsene in giro con addosso una giacca del genere, ma la consapevolezza che non avrebbe ottenuto delle risposte bastava a farlo desistere dal domandare delucidazioni. L’unica cosa che fece, se non altro preferibile al farsi coinvolgere dai discorsi del parabatai e dello stregone, fu di voltarsi verso lo specchio a figura intera che Magnus aveva fatto comparire nel salotto.

La giacca, lo ammetteva, gli stava anche bene. Era di un blu poco più chiaro di quello degli occhi, ma era un dettaglio trascurabile, senz’altro secondario. A preoccuparlo era l’estrema eleganza dei bottoni e del colletto, con una nota di merito per la tasca in cui, parola dell’esperto, avrebbe potuto mettere un bel fazzoletto di seta. L’unica cosa che lo rincuorava era l’assenza di Izzy, rimasta all’istituto con Clary. Per il resto c’erano cose che stonavano, una vaga eppur percepibile puzza di bruciato. E non era il classico e intrigante aroma di fiammiferi accesi che Magnus si lasciava dietro.

«Come vuoi», concedeva Jace nel frattempo. «Adesso devi pettinarti, Alec.»

Alec gli girò addosso lo sguardo sorpreso e instupidito di chi riceve uno schiaffo dietro la nuca. «Cosa?»

«Oh, Raziel.» Poi, impietosamente: «Magnus, pettinalo.»

«Magnus non farà proprio niente!»

«Io pettinarlo?» chiese lo stregone. «È più facile pettinare il Presidente.»

Jace arcuò un sopracciglio. «Il Presidente non ha i capelli.»

«Questo è quello che credi tu.»

«La mia testa è sufficientemente in ordine», s’impuntò Alec. Si allontanò dallo specchio e cadde a sedere sul divano, chinandosi in avanti per recuperare le scarpe. «Non sto uscendo per un appuntamento. Devo solo fare qualcosa di cui il mio parabatai non mi ha ancora detto niente.»

Aveva già preso a sistemare le stringhe in modo disordinato e precipitoso quando si rese conto del silenzio caduto all’improvviso attorno. Si arrestò con uno dei lacci in mano e alzò la testa, uno spruzzo di ciuffi neri a pizzicargli la fronte e gli occhi che corsero a Jace in poco meno di un secondo. Capì, più per intuito che per altro, che la puzza di bruciato era diventata più concreta. Fisica.

«Non sto uscendo per un appuntamento, vero?» chiese, in tono cauto.

«No», rispose Magnus. La sua faccia, forse per colpa del leggero sorriso che gli arricciava le labbra, prometteva una spiegazione che invece non ci fu. Le parole che seguirono valsero solo come il minuscolo assaggio di qualcos’altro lasciato tra le righe. «Non definirei troppo corretta questa frase, in effetti.»

«Ma?»

«Ma devi pettinarti», s’intromise Jace, e si alzò senza preavviso, piantandosi in viso un’espressione di artificioso e divertito dispiacere. «Sai come si dice dalle nostre parti: dura lex, sed lex

Alec sembrò prendere in considerazione l’idea di rispondergli per le rime, preferibilmente riciclando per l’occasione qualche altro bel detto in latino. Alla fine borbottò qualcosa, terminò con foga di affrancarsi le stringhe e si allungò sul divano per recuperare dal mobile una borsa nera. «Evitate di farmi commentare questa situazione, o la sola parola che mi verrebbe in mente sarebbe “pluriomicidio”.»

«Perché la borsa? Non stiamo andando in gita. Devi portarti dietro dei panini?»

«È una borsa da uomo», spiegò a quel punto Magnus dando uno sguardo fiero e deliziato ad Alec, che si alzava dal divano. «Ed è assolutamente perfetta per quella giacca. Aspetta, non dire niente: sei un po’ troppo barbaro per poter commentare. Fidati e basta.»

Jace fece una smorfia mentre si voltava per raggiungere la porta. «Preferirei giocare a bingo con dei pinguini piuttosto che fidarmi dei tuoi gusti in fattore di moda.»

«E perderesti, perché i pinguini sono ottimi giocatori.» Lo stregone sventagliò la mano in sua direzione come se quel gesto valesse a scacciarlo, poi agganciò il braccio di Alec e lo spinse in avanti, verso l’uscio. Le sue dita si mossero in uno sfarfallio e i capelli del Nephilim scivolarono indietro, quasi un pettine li avesse finalmente addomesticati. «Non starlo a sentire», mormorò poi, mentre si spostavano verso la porta. «È solo geloso.»

«Puoi almeno dirmi perché anche voi siete vestiti di tutto punto?»

Era una piccola esagerazione, soprattutto se si teneva in conto che Jace indossava solo abiti meno inquietanti del solito e che Magnus si era messo addosso un completo arancione, ma il fatto restava. In fin dei conti il suo parabatai sembrava essersi sistemato a dovere, almeno secondo i suoi standard di puntigliosa semplicità, e lo stregone aveva giustificato la scelta del proprio abbigliamento dicendo di voler dare una buona impressione – ammesso e non concesso che si potesse fare bella figura assomigliando ad un’arancia ambulante, rifletteva Alec.

Magnus alzò gli occhi senza lasciare da parte quel suo sorrisetto zuccherato. «Perché si tratta di una cosa che dobbiamo fare anche noi due se la fai tu, Alexander. Non potremmo restare a guardare, capisci?»

Alec capì solo che là dentro poteva benissimo starci un messaggio poco casto. Si guardò dal farlo intendere. «Tutti e tre?»

«Tutti e tre. Vuoi un indizio?»

«Farebbe comodo.»

«Ci saranno dei numeri.»

«Ah», fece il Nephilim. Fu la sola cosa che gli uscì mentre Magnus schioccava le dita e la porta dell’appartamento si chiudeva alle loro spalle. Quanto a Jace, li aspettava in fondo alle scale, le mani affondate nelle tasche della giacca nera e gli occhi alzati verso di loro.

«Romeo e Giulietta, muovetevi.»                                                                 

«Jace, non vedo cosa ci sia di etero nel gioco della tombola», gli disse Alec. Era un bel tentativo per sdrammatizzare.

Il parabatai lo guardò dal basso con una certa intensità prima di rivolgersi a Magnus. «Gli hai detto dei numeri?»

«Che intuito, Herondale!»

«La tombola non c’entra. È un gioco per vecchi.» Jace fece un sorrisetto, uno di quelli improvvisi, uno di quelli che sapevano davvero di bruciato. «Noi andiamo a fare una cosa per giovani.»

Si voltò senza aggiungere altro e uscì dal portone, svanendo nella luce del giorno.

«Non posso crederci», disse Magnus. Si era arrestato sulle scale e la sua espressione sarebbe potuta passare per sincera indignazione. «Alexander, credo che il tuo parabatai mi abbia appena scaricato. Escluso.»

Alec, che stava scendendo con lui gli ultimi gradini e si era fermato a sua volta, corrugò la fronte. «Non sei vecchio.» Poi, nel tono di una correzione e con un certo imbarazzo: «Almeno, non troppo.»

«Dimentichi che, facendo quattro conti, potrei essere andato a letto con qualcuno dei tuoi avi.»

«Tu cosa

«Sto scherzando. Sei troppo suscettibile.» Lo stregone buttò un sospiro in cui si srotolò una mezza risata e riprese a scendere, costringendo il Nephilim a fare altrettanto.


* * *

 

La prima cosa che Alec pensò di fronte al locale fu che all’apparenza sembrava inoffensivo. Il primo ripensamento arrivò quando Magnus disse loro di aspettare fuori.

«Ho bisogno di essere persuasivo», si giustificò, «e con voi due attorno non credo di poterci riuscire.»

«È illegale?» chiese Alec. La domanda gli sorse spontanea, forse perché lo stregone pretendeva che lui e Jace se ne restassero immobili in mezzo ad un marciapiede affollato di mondani come due ragazzi che fanno da pali durante una rapina. E il paragone no, non gli piaceva. «Perché sai, dopo questa tua uscita comincio a pensarlo.»

Il parabatai girò gli occhi verso il cielo. «Ti ricordo che stai parlando con un tizio che ruba tutto il possibile e immaginabile utilizzando la magia. Lui è il barone dell’illegalità.»

«Si tratta di un validissimo do ut des», lo rimbeccò Magnus. «Sono un acquirente. Mando avanti l’economia mondiale. Adesso non muovetevi e aspettatemi.» Si voltò e si diresse all’ingresso socchiuso del locale, sventagliando la mano oltre la spalla.

Quello che Jace fece, anziché cominciare a gironzolare per l’isolato come in altre occasioni avrebbe forse fatto, fu spostare il peso da una gamba all’altra e incrociare le braccia, gli occhi puntati dritti sull’insegna che troneggiava di fianco alla porta a vetro. «Ti dico cosa sta per succedere», disse a quel punto, le labbra sottili che si mossero giusto il necessario.

Alec alzò le sopracciglia, ma non lo guardò. Anche lui era concentrato sul nome che qualcuno dalla prorompente fantasia aveva dato a quelle quattro mura. «Sento le trombe squillare», dichiarò. «Comincia con l’insegna. “The Speed Tables”? Si organizzano corse clandestine fra tavoli? Questo sì che è da etero.»

«Di solito qui si entra con una prenotazione in mano», lo ignorò l’altro. Parlava a voce così bassa da dare l’impressione di masticare ogni sillaba fra i denti. «Ma dato che l’idea della tua perfetta giornata sull’altra sponda è nata solo ieri, di tempo per prenotare non ne ho avuto. Magnus ci farà ottenere l’ingresso.»

«Come?»

«Come? E dovrei saperlo?» Jace si voltò ad incrociare il suo sguardo. «Sa fare tante cose. Qualcosa gli verrà in mente. Potrebbe anche convincere le signorine alle casse mostrando loro qualcosa di magico

Calcò bene sull’ultima parola, perché Alec se la figurò come una grande bolla che si gonfiava con flemma ed eloquenza. Storse le labbra, per nulla divertito da quell’allusione decisamente maliziosa, e tornò a guardare l’ingresso scoprendosi in ansia. Gli ci volle meno di un secondo per decidere che a quell’attesa avrebbe preferito un’intera e frenetica battuta di caccia per le umide vie di Brooklyn. A quanto capiva c’era però la possibilità di non ottenere l’ingresso, e il pensiero non era male; Jace avrebbe dovuto pensare ad altro e forse ci avrebbe speso un’altra ora.

«Considerando che cominciano tra dieci minuti, siamo anche puntuali», osservò Jace dopo una pausa di silenzio. «Fai anche un quarto d’ora, il tempo per la gente di sedersi.»

Alec lo guardò con un cipiglio in cui una punta di allarmismo era la protagonista. «Cominciano cosa? E chi?»

«Ah», fece il biondo, e sfilò il sorriso più pacifico del mondo. Guardava verso l’ingresso. «Eccolo che arriva. A quanto pare ce l’abbiamo fatta.»

Magnus usciva in quel momento a passo leggero. Non si curò nemmeno di chiudersi la porta alle spalle, lasciandola platealmente spalancata. Sfoggiava una bella espressione di trionfo e, in una mano, un mazzo di tre targhette numerate. «Baciatemi i piedi!», esordì, trotterellando verso di loro. «Vi prego, niente autografi: ho smesso di firmarli più o meno quando è stata inventata la stampa. Avevano cominciato a girare troppe fotocopie delle mie dediche e i falsari sono diventati troppo ricchi.»

Jace nemmeno lo ascoltò. Si prese quel che aveva tra le dita e ci mise gli occhi addosso. Tre bei rettangoli di plastica con tanto di spilla dietro e un numero di fronte. «Va bene, hai fatto la tua parte. Quando cominciano?»

«Non l’ho chiesto», rispose lo stregone, «ma credo tra poco. Ho promesso alla signorina che saremo ospiti molto educati, per quanto ritardatari. Non voglio guai.»

«Non trovo niente di eccitante in questa moda malata dello speed dating, per cui nemmeno mi sentirai fiatare.» Si accorse di aver detto qualcosa di molto specifico e forse fu per questo che i suoi occhi corsero in quelli di Alec. «Vedi?» disse a quel punto, all’apparenza indifferente al pallore che aveva preso le guance del suo parabatai. «Niente a che fare con droga o prostituzione. È una cosa noiosamente legale.»

«Lo speed date?»

«Prenditi un numero, mettitelo addosso.» Jace gli piantò in mano una delle targhette e lasciò l’altra allo stregone. «Goditi il pomeriggio. Devi solo sederti ad un tavolo. Hai due minuti di tempo per convincere le ragazze che ti si siederanno di fronte che sei esageratamente, completamente e meravigliosamente etero al cento per cento.»

«Ci sistemeremo attorno», aggiunse Magnus. Il tono in cui lo disse era morbido, quasi stesse rincuorando un bambino alle prese con il suo primo giorno di scuola. Poi assunse un’espressione particolare, un misto di accoramento e affetto che rese tutto quanto ancor meno realistico, più assurdo di un teatrino di marionette. «Controlleremo la situazione. È una prova difficile, lo so, e per questo la facciamo con te, scoiattolo.»

Alec, che aveva ascoltato entrambi senza dire una parola, venne per un istante colto dalle vertigini. Per come gli avevano parlato, la sensazione era quella di essere un giovane in partenza per la guerra. Non era incoraggiante. Abbassò gli occhi sulla targhetta, vide che il numero che gli era toccato era un arzigogolato 8 e sollevò di nuovo lo sguardo.

«Devo farlo sul serio?» domandò. Con voce perfettamente articolata. «Jace, hai visto con i tuoi stessi occhi che sono a malapena in grado di attaccare bottone con una ragazza. Non puoi gettarmi in un recinto di femmine.»

«Stai pensando gay», rispose il parabatai in un tono quasi solenne. «Pensa etero

«Sai anche che nemmeno questo mi riesce molto bene. E poi cosa dovrei raccontare?»

Jace gli rovesciò addosso uno sguardo seccato. «Che ammazzi demoni. Che ti disegni ossessivamente dei ghirigori sul corpo. Che sei impegnato con uno insano stregone che organizza feste di compleanno per il suo gatto.» Poi, dopo una pausa: «Alec, inventati qualcosa. I mondani non si fanno tutti i problemi che ti fai tu. Consolati pensando che ti crederebbero un pazzo se cominciassi a parlare di mostri cattivi che girano per la città; la tua normalità dipenderà dalle stupidaggini che ti inventerai. Non so, un cane, una zia, la passione per i muffin ai frutti di bosco. Facile, no?»

Si mosse per primo verso l’ingresso con passo svelto e sbadato, senza aspettare una risposta che l’altro non avrebbe comunque avuto intenzione di dargli. Alec lo osservò per qualche istante prima di guardare Magnus, che si strinse nelle spalle con un sorrisetto, prese a giocherellare con la targhetta come se fosse una monetina e si avviò con fare tranquillo dietro al biondo. All’unico dei tre rimasto fermo in mezzo al marciapiede non rimase altro da fare che seguirlo.

Non era un brutto ambiente. Alec, che si era figurato quel locale più o meno alla stregua di un covo degli orrori, trovò invece qualcosa di piacevole nella luce soffusa che saliva dalle piccole lampade sistemate al centro dei tavolini ovali. Quel chiarore sbiadito era di certo un ottimo espediente per evitare che i tuoi ospiti si accorgessero di ogni minima espressione che assumevi. Una punto a favore.

Giusto poco dopo la porta, una signorina aveva consegnato a ognuno di loro un volantino blu notte. I caratteri argentati spiccavano con malizia sul cartoncino lucido.

 

Un caloroso benvenuto!

Due minuti, un futuro intero

 

Conosci la gente della tua vita,

vivi la gente che conosci!

 

«Trovo tutto ciò leggermente inquietante», osservò Alec, girando il cartoncino per leggere se ci fosse dell’altro scritto dietro. Scovò solo l’indirizzo del locale, il numero di telefono e l’e-mail. «I mondani si divertono sul serio con queste cose?»

«Esiste anche di peggio», mormorò Jace, guardandosi attorno. «Come la pesca di anatre di plastica nei parchi a tema.»

«O il body painting», s’intromise Magnus. «I patiti del genere vi fanno concorrenza, credetemi.»

La saletta tempestata da tutti quei tavoli si apriva solo oltre un bel paravento in legno. Forse per questa divisione fra ingresso e locale vero e proprio, Alec ebbe la spiacevole sensazione di salire su un palcoscenico.

C’era già della gente, nei paraggi. Alcuni chiacchieravano in piedi, altri si alzavano per fare una corsa al bar e ordinare qualcosa. C’erano poi persone già accomodate, che parlavano improvvisando sorrisi imbarazzati o risate dal retrogusto inaspettatamente meccanico tenendo un occhio sul cronometro digitale che occupava il loro tavolo. Il conto era di due minuti, come predetto da Jace, ed era alla rovescia.   

«Tre tavoli liberi», annunciò Jace, indicando un gomito della sala dove il traffico mondano era meno intenso. «Propongo un tuffo di massa.»

Alec prese il consiglio alla lettera e puntò dritto in quella direzione. Quando vide che gli altri due lo stavano seguendo, decise di giustificarsi. «Lasciatemi quello in mezzo. Penso che da lì sarei meno visibile.»

Il parabatai girò gli occhi verso il soffitto, ma non disse nulla. Riflettendo però su quante possibilità ci fossero che Alec vivesse quell’esperienza come un incubo, si sentì un po’ meglio. Non era un pensiero crudele, in fondo, soprattutto dopo che lo aveva abbandonato nelle mani di Magnus costringendolo a fare shopping con lui e a spacciarsi per il suo ragazzo. No, era semmai una meritata vendetta.

Si sistemarono. Alec si guadagnò il suo tavolino, scivolando a sedere con un occhio puntato verso Jace, che si accomodava al tavolo accanto, e l’altro a spiare invece Magnus, che aveva fatto suo il posto più a sinistra. Era in un certo senso rincuorante sapere di averli attorno, e lo era ancor più se pensava ai vantaggi che poteva trarne; un bel ragazzo biondo e un altro dai tratti asiatici che aspettavano in quel locale come i fiori aspettano le api. Aveva molte ragioni per credere che loro si sarebbero presi gran parte dell’attenzione di qualsiasi femmina che fosse transitata per quella zona. Cento volte meglio così.

Se n’era quasi convinto quando la prima ragazza che passò di lì toccò invece a lui.


* * *

 

Aveva lunghi capelli biondo cenere. Fu la prima cosa che notò non appena lei scivolò a sedere lì di fronte.

Allora Alec si era già guadagnato un bel frappé alla fragola. Doveva essere al tavolo da neanche quindici minuti e il destino non gli concedeva nemmeno il tempo di gustarsi quel meritato spuntino. Non che si aspettasse pietà da una giornata da spendere nel modo più etero possibile, ma aveva creduto che il cielo gli avrebbe almeno dato del tempo extra per prepararsi psicologicamente. E invece quella ragazza, senza dargli l’occasione di dire una sola lettera dell’alfabeto, aveva piantato la mano sul cronometro azionando il conto alla rovescia, fino a quel momento rimasto fermo sui sacrosanti 2:00. Così, come per ispirazione divina. Come se non avesse nulla di meglio da fare.

«Ciao, Otto», gli disse. Sempre sorridendo.

Il Nephilim rimase ad osservarla di sottecchi per qualche secondo. Aveva ancora la cannuccia del frappé infilata tra le labbra e la tizia non sembrava rendersi conto di avergli rovinato quel momento di pacifica degustazione. Quasi stentava a credere che ora avesse di fronte quel viso smaliziato che attendeva sfacciatamente una risposta. Poi planò di nuovo sulla realtà e si sfilò con calma la cannuccia dalla bocca. «Ciao.» Diede uno sguardo alla targhetta che aveva aggrappata alla camicia gialla, lì su una curva del seno. « ...Dodici», terminò, leggendo il suo numero.

«Che fai nella vita?» chiese lei, a bruciapelo. Aveva una gomma americana, da qualche parte nella bocca, perché i suoi denti masticavano.

Alec aprì le labbra per dire qualcosa, senza però riuscirci. Gli sembrava assurdamente fuori posto che una sconosciuta si fosse seduta lì davanti, peraltro ruminando come un lama, e gli avesse subito posto una domanda così personale. «Cosa?»

Lei assunse un cipiglio particolare, un leggero arcuarsi delle sopracciglia tracciate con la matita. «Sei ritardato?»

Era un dubbio sincero, e bastava guardarla in faccia. Da qualche parte, mascherato da un colpo di tosse ma chiaro come il sole, giunse il risolino di Jace. Il suono che ne conseguì fu qualcosa a metà strada fra uno starnazzo e un grugnito. Alec si convinse di non aver sentito niente.

«Come vuoi», resse al gioco, spostando appena il frappé. Era un modo per consegnarsi anima e corpo a quella mondana impertinente. «Sono un arciere.»

«Un arciere?»

«Sai cos’è un arciere? O sei ritardata

Mise su quella parola ogni briciola di se stesso. Tra le righe, la traduzione del tono che aveva impiegato si sarebbe avvicinata ad un deliziato Prendi questo, mondana. La ragazza fece una smorfia, si piegò per recuperare la borsetta e si alzò indignata, senza scordarsi di coronare l’uscita alzando in sua direzione un molto carismatico dito medio.

«Alexander», disse Magnus dal tavolo accanto. Si stava dondolando sulle gambe posteriori della sedia e gli sorrideva con un misto di ammirazione, resa e pazienza. «Credo tu abbia appena preso un po’ troppo alla lettera il significato della parola “speed date”. Quanti secondi è durata la vostra storia d’amore?»

Il Nephilim si riprese il suo frappé e fermò il cronometro, sospendendolo ancora sui due minuti. «Qualcuno dovrebbe spiegarmi le regole di questa stupidaggine», soffiò. Poi, gettando un’occhiata a Jace: «Il mio parabatai, ad esempio.»

«Tempo limite, domande dirette. Niente nomi; si usano i numeri», rispose quello. «Non vedo cosa ci sia di difficile.» Poi, quando si accorse che una ragazza stava puntando dritta verso di lui, alzò l’indice come a mettere chiunque in attesa e riportò le gambe composte sotto al tavolo, sfoggiando uno studiatissimo sorriso quando la mondana cominciò a sedersi.

Alec, che lo sbirciava, borbottò qualcosa e si dedicò al frappé. Se quelle erano le regole, nulla toglieva che fossero piuttosto stupide. Aveva almeno realizzato che la ragazza che gli era toccata non era sfacciata – almeno non troppo -, ma che porre domande nel modo più nudo e crudo possibile era esattamente parte del gioco. Non che cominciasse a sentirsi in colpa per com’erano andate le cose con la sua prima ospite; nulla toglieva che quella prima esperienza di speed dating fosse stata spiacevole.

Per dieci minuti buoni se ne rimase tranquillo. Sulla destra, Jace aveva già reimpostato il cronometro tre volte. Non passava mai troppo prima che un’altra ragazza adocchiasse il suo tavolo e gli si sistemasse di fronte. Non era però verso di lui che il parabatai guardava assiduamente, bensì verso Magnus. Poteva solo immaginare quali stramberie raccontasse alle mondane che avevano la sfortunata idea di accomodarsi con lui. Ogni tanto le sentiva ridere. Poi lo stregone cominciò ad impiegare i due minuti di tempo per allietare le sue ospiti con qualche ingenuo trucco di magia, e Alec, che aveva ormai terminato il suo frappé, avvertì un brivido di orrore infilarglisi nelle ossa.

Avrebbe cercato un modo per dissuaderlo da quell’insano passatempo se solo un’altra ragazza non si fosse seduta in quel momento al suo tavolo. Il Nephilim incrociò i suoi occhi nell’esatto secondo in cui la mano di lei faceva partire il conto alla rovescia.  

«Ciao, Otto», esordì.

Fu come un déjà-vu, con la differenza che ora non aveva un frappé con cui distrarsi. Il bicchierone era ormai vuoto e la cannuccia meticolosamente mordicchiata. Alec, con la testa ancora impostata sul terrore che Magnus esagerasse, si sforzò di sfilare un convincente seppur mezzo sorriso di benvenuto. «Ciao, Tredici.»

«Sei di qui?»

«Della zona. Tu?»

«Del Bronx. Magari vivessi a Brooklyn», rispose la ragazza. Sembrava annoiata, come se di appuntamenti di quel genere fosse assuefatta. O drogata, che era poi la stessa cosa. «Che fai di bello?»

«Intendi di lavoro?»

«Sì.»

«Non lavoro. Studio.»

«Cosa?»

Demonologia, lingue demoniache, bestiari. Sai, cose di tutti i giorni, pensò di poter rispondere. Poi, lavorando d’immaginazione: «Medicina.»

«Ah. Forte.»

Tredici era anche una bella mondana, oggettivamente parlando. L’idea che dava era però di superficialità, come se basasse la vita solo sulle cinque W: who, what, when, where, why? Esaminando la situazione, Alec si accorse che erano poi le colonne portanti di quella strana moda di conoscersi in due minuti. Poi si rese conto anche di un’altra cosa. Già. Soprattutto, Why?

«Senti», ricominciò la ragazza, guardandolo fisso, «non è che per caso sei interessato a una cosa veloce?»

«Una... cosa?»

«Una cosa», ripeté lei con terrificante naturalezza. «Sei piuttosto carino. Tra quanto ci troviamo?»

Allora lui capì che evidentemente esisteva anche la moda di rimorchiare in due minuti. Buttò un sbuffo, un sorriso incredulo e imbarazzato gli arricciò le labbra. «No, aspetta. Non mi sembra di averti detto di sì.»

Tredici corrugò la fronte. Non doveva essere abituata a ricevere un quattro di picche. “Tredici di targhetta e quattro di picche”; in un’altra occasione, Alec avrebbe contenuto l’insano istinto di mettersi a ridere.

«Quindi no?» chiese la mondana. «Cos’è, hai paura? Sei fidanzato?»

«Non sono il tipo.»

«Non sei il tipo.» La ragazza rimase ad osservarlo intensamente, poi si strinse nelle spalle. «Okay. Fa niente. Sarebbe stato fantastico, sei davvero figo. Vado all’altro tavolo.»

Così, come mandar giù una pastiglia. Si alzò nel frullio dei riccioli neri e marciò fino alla sedia successiva, sistemandosi in modo quasi imperioso davanti a

Magnus

«Oh, Magnus», borbottò Alec, e si inchiodò le mani in faccia pregando che Tredici non avesse portato con sé l’intento di fare anche a lui la stessa richiesta. Sentì Magnus attaccare bottone con quella spontaneità con cui sarebbe stato in grado di convincere persino una pietra al sesso al primo appuntamento. Lo stregone era di tutt’altra pasta; avrebbe senz’altro rifiutato – ovviamente, certo, per forza -, ma la ragazza avrebbe guardato a lui come ad un amante delle avventure di una notte. Cosa peraltro vera.

Cielo, quella situazione era così insensata. Quell’esperienza stava diventando un’intera, disastrosa follia.

Lasciandosi scivolare di dosso le mani, Alec vide che Jace salutava in quel momento una ragazza che si alzava dal suo tavolo. Il suo parabatai era bravo a tenere in scacco le mondane per i due minuti previsti dall’appuntamento. Non c’era nulla di sconvolgente nella conclusione che fosse lui il migliore in quella disciplina: aveva una generosa dose di carisma, seminava testosterone nell’aria e sopra ogni cosa era infinitamente etero. Anche se, viva la sincerità, Alec sapeva che non gli sarebbe andata meglio nemmeno se quella sessione di speed dating fosse stata dedicata alla sponda opposta.

Quando vide Jace alzare gli occhi verso di lui, non perse tempo e indicò l’uscita con un cenno del capo. Fuori di qui, gli disse con lo sguardo, le labbra serrate in un’espressione urgente ed esasperata. Fuori. Adesso.

«Non posso credere che tu non riesca a tenere una ragazza al tuo tavolo nemmeno per due minuti», gli rispose a voce il parabatai, puntellando i palmi delle mani sul tavolo per potersi dondolare sulla sedia. «Anzi, aspetta: ci credo.»

L’altro lo guardò. Lo sdegno che gli si era incollato in faccia aveva un che di plateale. «Questa cosa ci è un po’ scappata di mano, se noti.»

«Ehi», s’intrufolò con un sorriso Magnus, posando il gomito sullo schienale e voltandosi verso di loro. Aveva gettato il pollice ad indicare Tredici, che si era alzata e galoppava verso un altro tavolo. «La mondana mi ha appena proposto una...»

«Okay, lo so, non dirlo», si precipitò Alec.

«Cosa?» domandò Jace.

«Tu stanne fuori.»

«Io mi sto divertendo.»

«Io no.»

«Lo so», rispose Jace. «Non tutte le giornate di noi etero sono allegre. Hai la mia comprensione.»

«Andiamo.» Alec si alzò senza nemmeno preoccuparsi di reimpostare il cronometro.

Magnus rimase a guardarlo mentre si chinava per recuperare la borsa. C’era una spolverata di delusione nella curva che le sue labbra avevano assunto. «Cosa? Ti arrendi? Siamo qui dentro da soli trenta minuti», annunciò, sollevando le sopracciglia. «Per vostra informazione ho pagato per un’ora.»

«Magnus, per favore», disse Jace, che ancora non aveva smesso di dondolarsi sulla sedia. «Non hai sborsato neanche un dollaro. Le mondane ci hanno fatto entrare gratis e non so neanche come hai fatto a convincerle. Non che voglia saperlo. L’unica cosa che hai pagato è il frappé di Alec.»

«Appunto. Un frappé che nelle mie intenzioni doveva durare un’ora.»

«Magnus», gemette Alec, quasi una supplica. «Alzati e usciamo.»

Alzò gli occhi al soffitto e si diresse verso la porta, schivando il viavai di chi si alzava e si spostava di tavolo in tavolo. Il parabatai e lo stregone si scambiarono un’occhiata prima di arrendersi all’idea di seguirlo.

Lasciarono al banco le targhette numerate e due minuti più tardi erano sul marciapiede. Per la prima volta in vita sua, il rumore del traffico e della vita mondana giunse alle orecchie di Alec come il piacevole scampanellio del collare di un agnello.

«Non esiste un solo frappé al mondo che duri un’ora, comunque», disse, rivolto a Magnus. La luce del sole rivelò le chiazze rosse che gli accendevano appena le guance. Era una fortuna che quel locale fosse strategicamente dominato dalla semioscurità. «Giusto perché tu lo sappia.»

Jace fece un sorrisetto. «Mai dire mai. Ad esempio fino ad oggi io non credevo possibile che un appuntamento potesse durare meno di due minuti.»

Alec gli rovesciò addosso un’espressione omicida prima di incamminarsi. Decise saggiamente di non rilasciare commenti. Sentiva di avere una ragnatela di parole in testa, con il problema che non si trattava di frasi educate. Le uniche sillabe che gli sbocciavano con nitidezza dietro la fronte formavano un mantra che recitava qualcosa come porca merda, porca merda, ancora porca merda, ma voleva conservare una certa pulizia, in bocca. Non se le sarebbe lasciate sfuggire anche se la tentazione avesse raggiunto l’apice.

«Avevo scommesso con tua sorella che non te la saresti cavata», rivelò ad un certo punto Magnus. «Ho ufficialmente vinto. Ragazze, tempo limite, appuntamento; Alexander, eri spacciato fin dall’inizio.»

«Stai tranquillo», rispose Alec. «Non ho creduto in me stesso neanche per un istante. La tua assenza di appoggio non ha quindi cambiato le cose.»

«Quanto sei dolce.»

«Devo venire un attimo a casa tua.»

Lo stregone arrangiò un bel sorriso da furfante. «Dimmelo ancora.»

«Hai capito benissimo. Dobbiamo fare una cosa.»

«Se è la cosa che la mondana mi ha proposto, allora è un sì.»

«Non è la cosa di Tredici.»

Lo disse con così tanta prontezza da lasciare Magnus di stucco. «Non vuoi fare Tredici con me?» chiese, sinceramente dispiaciuto.

Jace, che camminava davanti a loro di qualche passo, borbottò qualcosa. Pretese di non star ascoltando nulla di quello che si stavano dicendo.

«Devo preparare il prossimo turno», rispose Alec. Si era quasi irrigidito tant’era palese lo sforzo che stava facendo per ignorare la sua malizia. «Dovrai darmi una mano. Jace, ti voglio a casa di Magnus alle cinque esatte.»

Il parabatai sventolò la mano oltre la spalla in segno di assenso, ma non si voltò. «Prendetevi tutto il tempo che vi serve», concesse. «Non ho fretta.»

«Sentito?», di tuffò lo stregone. «Non ha fretta.»

«Io sì», disse Alec. C’erano già alcune idee a frullargli in testa, ma dubitava che ne esistesse una in grado di far assaggiare a Jace la vendetta che si meritava. Forse qualcosa... in un modo o nell’altro... Qualcosa. «Io ne ho parecchia.»   

Oh, Raziel, perché?


Pensate a questo capitolo come a un sogno a occhi aperti. Mi spiego; entrate in questo locale, uno di quelli che organizzano queste sessione di speed dating, e scoprite che in un angolo della sala, messi un po' in disparte ma più che visibili, ci sono questi tre. Io morirei.
Sì, sarebbe davvero forte. Io mi fionderei immediatamente al tavolo di Magnus, credo (ammesso che non sia già occupato; nella mia immaginazione, quel posto a sedere è -perennemente- presidiato da un'altra ragazza), o da Alec. Ah, c'è anche Jace. Ehm, tanto ormai sapete cosa penso di lui - di fianco agli altri due, sfiorisce (?) Jace, tanto amore per te <3

Agosto è stato un mese intensissimo. Figuratevi che sono di fretta pure ora che sto scrivendo, perché tra un'ora dovrei essere al lavoro e invece sono qui a fantasticare su un mio incontro con questo trio in un locale di speed dating. AHAH
Dopo aver concluso il capitolo, mi sono ripromessa di concentrarmi sulla storia che devo stendere per un Contest. Non riesco a scrivere due cose contemporaneamente, non se ne parla e non se ne parlerà mai. Ho sempre paura di, sapete, confondere le atmosfere, le idee, il tono e il colore della narrazione. Per cui, non appena terminerò il lavoro per il racconto, tornerò con il prossimo capitolo. Non morirò; la pagina su FB vi terrà aggiornati, se vorrete.
Un enorme bacio <3

Dew_








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