Nei panni dell'altro (etero e non) di Dew_Drop (/viewuser.php?uid=127372)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si accettano scommesse? ***
Capitolo 2: *** The World's Under There ***
Capitolo 3: *** Qualcosa come un... ***
Capitolo 4: *** Fuga d'amore (e fabbrica di gelato) ***
Capitolo 5: *** Corse clandestine fra tavoli... o no? ***
Capitolo 1 *** Si accettano scommesse? ***
1. Si accettano scommesse?
-
1. Si accettano scommesse?
«Cosa
ne penso?» Magnus, in piedi nel bel mezzo del salotto,
rimase ad osservare gli ospiti per un lungo istante, le braccia incrociate e
l’espressione grave e assorta. C’era una certa intensità, nel suo sguardo, che
suggeriva il sincero impegno cui si stava affidando per soddisfare le loro
aspettative. E c’era anche perplessità, quella sarcastica, quella che sa di
ammutolita e teatrale sorpresa. «Ovvero siete venuti a casa mia solo per
chiedermi cosa ne penso? Il fatto che il Presidente abbia lasciato la stanza
deve farvi riflettere: con il vostro autoinvito avete interrotto la sua
toeletta.»
«C’era
qualcuno che teneva ad avere un tuo parere», lo incalzò Jace, piantato vicino al divano. «Ah,
non sono io.»
Alec, sprofondato nella poltrona, girò gli
occhi in quella che ebbe tutta l’aria di un’imprecazione mentale. Giusto perché
dirne non gli piaceva. In faccia aveva un’espressione grigia, rigida come
marmo. Non rilasciò commenti.
L’idea di passare dallo stregone era stata sua.
Quella che precedeva questa conseguenza, quella che aveva teso un filo
dell’alta tensione fra lui e il suo parabatai, era invece stata di Izzy. A
voler essere sinceri, e lo riconosceva, si era trattata di una proposta
sbadata, gettata sul tavolo con una certa noncuranza durante uno dei soliti
battibecchi, con il problema che a lei era piaciuta. Ed era piaciuta anche a
Clary. C’erano volte in cui era sicuro che quelle due assieme godevano
enormemente nel mettere alla prova il suo particolarissimo rapporto con Jace.
Magnus buttò un sospiro e fece qualche passo,
muovendosi con lo stesso atteggiamento di un gatto infastidito da schiamazzi
umani. Le sue dita ingioiellate avevano preso a muoversi appena, a tamburellare
le braccia con metodica leggerezza, quasi a voler dichiarare
l’incommensurabilità del favore che stava loro facendo. Non sarebbe stato
troppo restio a dare la propria opinione se solo quell’allegro gruppetto avesse
deciso di passare il giorno dopo; aveva troppe cose da fare, quella sera, e non
gli andava di spendere tempo per un gioco così idiota. Arricciò il naso, consapevole
degli occhi che lo seguivano, e aggrottò le sopracciglia in un gesto di muto
assenso, solo per il gusto di gustarsi l’attesa cui li aveva relegati. Poi,
tutto d’un tratto, si fermò, si voltò verso Isabelle, a cui era toccato il
compito di spiegare la faccenda, e chiese, nel tono serio e interessato di un
possibile acquirente:
«Si
accettano scommesse?»
Una domanda netta. Se a Jace cascò quasi la
mandibola, uno solo dei tanti dettagli che gli inchiodarono in faccia
un’espressione di tradita incredulità, Alec si strofinò il volto fra le mani e
si lasciò sfuggire un verso, qualcosa di simile al mugolio di un animale
ferito. O forse era un borbottio. O entrambe le cose.
Quanto ad Isabelle, accomodata sul bracciolo
del divano, sfilò un sorriso eloquente. «Si
può combinare qualcosa.»
«Non
puoi dire sul serio!»
«Jace,
sei melodrammatico.»
Jace si rivolse al padrone di casa, offeso
quanto potrebbe esserlo un eroe shakespeariano. «Magnus, mi deludi.»
«Questo
non intacca la mia reputazione», si giustificò lo stregone. «Volevate
un mio parere e io l’ho dato. Sono interessato, a patto che possa divertirmi
anche io.»
«Non
sarà divertente»,
biascicò Alec, con la faccia ancora affondata nei palmi.
«Su,
coriandolo, non esagerare. Non può essere così tremendo.»
«Ti
ho già detto che anche “coriandolo” non va bene.»
«Non capisco tutta questa vostra
indisposizione. Trovo che sia un’idea meravigliosa.» Magnus buttò nel camino
uno spruzzo azzurro, dando fuoco alla legna già pronta da ardere. Solo una
scintilla, complice il lancio piuttosto sbarazzino, finì fuori, spegnendosi
contro il marmo in una sottile linea di fumo. «Evitiamo la vecchia storia che
vuole che i Nascosti non sappiano niente di queste cose: siete parabatai, è un
vincolo raro e sacro. Mettersi per un giorno nelle scarpe dell’altro sarebbe un
gesto onorevole.»
«Il giuramento lo ricordo» osservò Jace,
pungente, «ma non credo che nella frase “dove andrai tu, andrò anche io” siano
compresi tutti i casi. Parafrasando,
non penso che Raziel mi voglia vedere andare a uomini.»
Alec lasciò cadere le mani e fissò lo sguardo
su di lui. «Non mi è giunta notizia che Raziel sia omofobo.»
«Non è quello che ho detto.»
«Io penso volesse dire» li interruppe Izzy,
alzando la voce quanto bastava per infilarsi tra le loro frecciatine, «penso
che Jace intendesse che le scommesse sarebbero inutili, dato che nessuno di voi
sarebbe in grado di fare meglio dell’altro, ma tentare non nuoce.»
«L’hai detto.» Il Sommo Stregone sorrise con
palese delizia ed entusiasmo. «E poi si tratta solo di un giorno. La persona
più etero e quella più gay del mondo che si scambiano i ruoli... è elettrizzante: mi sembra di essere
tornato ai tempi di Tesla. A voi no?»
«Mi spiace non poter condividere, ma ancora
non c’eravamo», puntualizzò Jace.
«Era per fare un po’ di poesia. Hai rovinato
il momento.»
«Sei proprio sicuro di voler lasciare che il
tuo ragazzo ci provi con le donne, anche se solo per una stupida sfida?»
«Sì», fu la serafica risposta. «Non posso
essere geloso. Tanto so che non ha speranze, e lo stesso vale per Clary con te.»
Alec si lasciò andare contro lo schienale e
chiuse gli occhi. Una statua di resa, esasperazione, sgomento. Rivisse
mentalmente il momento in cui, il giorno prima, sua sorella lo aveva scovato a
bisticciare con Jace e se n’era uscita con il suo famoso: “Siete ridicoli,
tutti e due! Dovreste mettervi nei panni dell’altro, ogni tanto. Farebbe bene
ad entrambi”. Appunto, nei panni dell’altro. Solo che, nel suo caso, i panni
dell’altro erano panni eterosessuali. Oh, Raziel.
«Trovi la cosa divertente solo perché tu non
avresti problemi», stava intanto dicendo Jace, il dito impietosamente puntato
contro Magnus. «Tu infili il piede in qualunque scarpa, e mi trattengo dal
tradurre.»
Lo stregone non si mosse. Portava avanti la
causa senza scomporsi, fiero e ritto nel bel mezzo del tappeto. «Non fare di
questa storia la tua scusante. Inoltre la tua affermazione è incorretta, dato
che ho di recente modificato la mia patente sessuale.»
«La tua cosa?»
«Dopo “bisessuale disinvolto” ho aggiunto “salvo
Alexander”. Piuttosto chiaro, direi. Quindi sì, anche io avrei problemi a
sostenere una sfida del genere, ma lo farei per divertimento. E solo dopo aver
presentato la già citata patente, per mettere in chiaro le cose.»
Jace lo guardava un po’ come si guarderebbe un
lampione parlante. La foga della sua invettiva si era slavata in un’espressione
di attonito e impressionato stupore. «Tu non sei normale.»
«No, infatti. Il mio nome comincia per M.»
Detto ciò, Magnus si voltò verso Alec, senza però muovere un solo passo. «Se è
stato il timore della mia reazione a convincerti a chiedere prima il mio
parere, non angustiasti. Non mi sentirò tradito.»
Nel suo tono c’era un tale sentimento di
drammaticità televisiva da persuadere Alec a riaprire gli occhi per sostenere
il suo sguardo. «Non era questo il punto», rispose. «Piuttosto, speravo e
credevo che avresti detto di no. Sai benissimo che non mi piace mettermi in
gioco. Quest’idea della mia giornata da etero è la cosa più stupida che potesse
venire fuori. È matematicamente impossibile, non riuscirei a fingere per un
solo secondo.»
Dall’altra parte del salotto si sollevò una
mano. Jace. «Confermo. Non per demotivarti.»
«Nessun problema.»
«Però siete d’accordo che è una trovata
originale», ricominciò Izzy, dondolando la gamba che teneva accavallata. «È un
bel modo per dimostrare il vostro legame come parabatai. Non posso credere che
non troviate carino calarvi nei panni dell’altro.»
«Un modo carino?»
proruppe Jace, gli occhi scattati su di lei come lingue di serpente. «Trovi carino che io debba per un giorno
guardare il sedere degli uomini? Senza offesa, Alec.»
«Questo è solo un insensato luogo comune», si
difese lui, con un certo impeto. «Essere gay non vuol dire fissare il... il
didietro di tutti quelli che passano.»
Magnus aprì le braccia ad indicare entrambi. «Visto?
È assodato. Non riuscite a capire il mondo dell’altro, e questa è una cosa
imperdonabile tra due parabatai.»
«Magnus, per favore...»
«Non adesso, fogliolina», lo bocciò il Sommo
Stregone, sventagliando la mano con cui lo indicava quasi potesse passargli un
cancellino sulle labbra. «Si tratta di mancanze che devono essere riparate.
Ognuno ragiona sulla sessualità dell’altro tramite vuoti luoghi comuni.»
«All’improvviso ti sei trasformato nel più
accanito sostenitore di questa follia. Potevi dire sin da subito che la
circostanza ti piaceva, senza prenderti del tempo per passeggiare sul tappeto
come Platone tra gli ulivi», lo beccò Jace, visibilmente contrariato.
«Se vuoi saperlo, una volta ho provato a piantare
degli ulivi qui in salotto. L’idea mi ispirava giovinezza, filosofia e natura»
spiegò il padrone di casa, «ma lo stile dei fanciullini greci mi ha ben presto
stancato.»
«Che strano.»
Se c’era della malizia in quella risposta,
Alec evitò di soffermarvisi. «Allora è un sì?» chiese. Più o meno come un uomo
che domanda quando salirà sul patibolo. «È definitivo?»
Isabelle arricciò le labbra. «Il tuo
entusiasmo è illuminante. Potresti almeno ringraziarmi.»
«Ringraziarti? Ti rendi conto della situazione
in cui mi hai messo?»
«Ci
hai messo», lo corresse Jace. Aveva incrociato le braccia e i suoi occhi
passarono dal parabatai a Izzy in poco meno di un secondo. Non c’era bisogno di
impegnarsi per leggergli in faccia l’indisposizione più assoluta. La sua
mandibola era rigida come quella di un mastino in procinto di spiccare il balzo.
«È vero, abbiamo visioni del mondo un po’ diverse, ma questo non significa che
non siamo buoni compagni in battaglia.»
«Quanto militarismo. Tipico.» Magnus si mosse
e si lasciò sedere sul bracciolo della poltrona, guadagnandosi un’occhiataccia
da parte di Alec, neanche avesse violato un confine invalicabile. Non ci badò;
quella del Nephilim, e lo sapeva con certezza, era la rabbia passeggera di un
capriccio infantile. Un altro lato che gli faceva guadagnare punti. «Esiste un momento
in cui non pensi al tuo istinto per la devastazione?»
«Non voglio deluderti, davvero, ma no.»
«Stavolta la questione è diversa», lo riprese
lo stregone, in un tono di voce volutamente leggero e civettuolo. «Alexander lo
ha sicuramente capito, anche se non vuole ammetterlo. Vero, nocciolina?»
Alec si mosse un poco, evitando con
premeditazione lo sguardo dei presenti e puntandolo verso il caminetto acceso.
Non teneva a rilasciare dichiarazioni. Quel suo sciopero della parola convinse
il padrone di casa a chinarsi un poco verso di lui e a soffiargli in un
orecchio, un gesto accompagnato da un sorrisetto vago e divertito:
«Non fare l’offeso.»
«Non soffiarmi nell’orecchio. E non sono
offeso; sono seccato.»
«Già, con il problema che le tue emozioni sono
monocrome come una vergognosa gamma di grigi. O come il tuo vestiario»,
aggiunse l’altro, sempre con un’espressione di deliziata ironia, salvo poi
ritrarsi di colpo con un giocoso lamento quando il Nephilim gli mollò uno
schiaffo bruciante sulla gamba.
Jace, che aveva forzato se stesso al silenzio
mentre si consumava quel siparietto, alzò le mani di punto in bianco e le
lasciò cadere. «Okay, basta. Va bene.»
«Ti butti nella mischia così, all’improvviso?»
lo pizzicò Izzy.
«No, non per ispirazione divina. Lo faccio
solo perché so che altrimenti tu e Magnus sareste in grado di tirarci scemi.»
«Finalmente ci sei arrivato.»
«Alec?» la ignorò il ragazzo. Nella sua voce
si indovinava la frase “diamo lo
zuccherino ai cavalli”. «Non rendere le cose ancor più difficili.»
Il parabatai sollevò gli occhi nei suoi, blu
nell’ambra. Il suo era il tipico sguardo poco raccomandabile di un gatto la cui
unica voglia è sfigurare le prime facce che si trova davanti. In barba al
sentimento che gli si leggeva in volto, sventolò la mano in un gesto svagato e
si strinse nelle spalle, tornando poi con le pupille fisse in un punto non ben
definito del pavimento. Okay, voleva
dire. Va bene, basta che finisca il più
in fretta possibile.
A quella conferma, Magnus batté le mani,
neanche equivalesse al martelletto di un giudice. «Andata!»
«“Andata”?» chiese Jace, dichiaratamente colto
alla sprovvista.
«Andata. Non è così che dite voi giovani?»
Alec buttò uno sbuffo, reclinò il capo contro
lo schienale e si passò le mani sul viso un paio di volte. Sembrava si stesse
sciacquando di dosso quell’ultima, raccapricciante uscita dello stregone.
Quanto ad Isabelle, le reazioni del fratello
le scivolavano addosso come acqua piovana. Non aveva ancora smesso di rivolgere
a tutti quanti un radioso sorriso da imbonitrice. «Allora quando si comincia?
Domani?»
«Domani», tagliò corto Jace. «Il primo e unico
giorno. Giuralo sull’Angelo.»
Lei si soffiò via dalla fronte una ciocca
scura e cantilenò, dondolando il piede: «Lo giuro sull’Angelo.»
«Magnus?»
«Non posso giurare su un bel niente, ma mi
impegnerò per farti credere di averlo fatto», rispose lo stregone. Le sue
labbra erano arricciate in un bel sorriso soddisfatto. «Però ho ancora una
domanda. C’è una cosa che abbiamo lasciato in sospeso.»
«Illuminami, allora, prima che io cambi idea.»
« ...Ma allora le scommesse si accettano, vero?»
Oh, Raziel, perché?
Sapete,
questa ff è il mio esordio nel fandom, anche se conosco la saga
da mesi. Cose da sapere su di me? Malec. Fine. Applausi! _ Ok,
basta (?) <3 Era da parecchio che scrivevo solo originali, ed era
anche da tanto che mi ero ripromessa di fare questo, ehm, esperimento,
ovvero di proporre uno "scambio di ruoli" fra Jace e Alec.
Perché mi sono sempre chiesta, con la sclerotica
complicità di mia sorella, come e se Jace vivrebbe una giornata da gay e come e se
Alec vivrebbe una giornata da etero. Ovviamente non può essere
una storia seria, su questo non piove *yep* Avanti, sono parabatai;
mettersi nelle scarpe dell'altro anche se solo per una sfida è
un chiaro segno di affetto e complicità reciproche. Ah, quanto
al fattore temporale, pensate alla fine del sesto libro di TMI, andate
avanti di qualche mesetto... Ecco, ci siete, benvenuti. (?)
Non
ho idea di quanti capitoli saranno, so solo che ho in testa un po' di
scenette da condividere con voi. Spero, e prego, di non andare OOC - la
circostanza è insolita, okay, e riconosco che sfidarsi a
scrivere di uno scambio di ruoli del genere potrebbe portarmi a
traviare un poco i personaggi. Non è il mio obiettivo e quindi,
se notate dei WTF estremi, ditemelo. Supportatemi - e sopportatemi, non
si sa mai. In barba alla stupidità di questa cosa (?), voglio
cercare di rendere una certa credibilità.
...Jace
che finge di essere omosessuale e Alec che tenta di corteggiare le
donne? AHAH, ok, già l'idea non è credibile. Scusa,
Raziel3
Dew_
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Capitolo 2 *** The World's Under There ***
2. The World's Under There
2. The
World's Under There
Il locale, aveva garantito Magnus, era uno dei
migliori. Era incastrato tra una tabaccheria e un Internet point, ridotto,
almeno agli occhi di chi non sapeva vedere, ad una vetrina spoglia e
incerottata. Lo stregone aveva impegnato i minuti di tragitto per spiegare che
qualche anno prima quello spazio aveva ospitato un bar niente male, e che
qualche anno prima ancora era invece stato una lavanderia, e che ancora qualche
tempo prima era stato un rivenditore di dischi usati. Alec e Jace, che lo
seguivano con una certa riluttanza, si erano fermati alla versione, datata anni
Quaranta, secondo cui il famoso locale che stavano per visitare fosse stato una
macelleria gestita da un poco raccomandabile italo-americano. Oltre non lo
ascoltarono.
Nessuno dei due era stato entusiasta di sapere
che con “domani” Magnus e Izzy avevano inteso “subito dopo la mezzanotte”. Così,
solo qualche ora dopo la chiacchierata con il Sommo Stregone, erano stati
costretti a calarsi anima e corpo in quella sfida che ancora non li convinceva
nemmeno per metà. Quanto a chi prima dovesse abbracciare la causa dell’altro,
Magnus aveva avuto la grande idea di lasciare che a decidere fosse il
Presidente.
«È un ottimo giudice», aveva asserito con una
punta di sdegno quando Jace aveva sollevato delle perplessità. «Sapete che in
base alla curva della sua coda si riesce a leggere l’oroscopo?»
Non che ci credessero. A detta sua, quel gatto
sarebbe stato persino in grado di giocare una partita a Risiko, peraltro
vincendo. Gli concessero l’affermazione solo perché non volevano ricascare in
un’altra discussione con il rischio di sorbirsi i commenti di Isabelle,
accoccolata sul bracciolo del divano e pronta ad intervenire per il solo, sadico
gusto di vederli coinvolti in quella stupidaggine. Quasi si divertiva. Togliamo
il quasi.
Fu una decisione sofferta; non per il
Presidente, che se ne rimase quasi un quarto d’ora seduto in mezzo al tappeto a
fissare prima uno e poi l’altro, nel completo silenzio dell’appartamento,
dilettandosi nel frattempo in una metodica pulizia dei cuscinetti delle zampe. Cento
dollari tondi che non sapeva neanche di quale incarico fosse stato investito. Poi
si era alzato ed era sgambettato da Jace, che aveva avuto da ridire per il
semplice fatto che dietro di lui c’era la porta del bagno, e che il gatto, che gli
era passato oltre e si era infilato nella porta socchiusa, si era per ovvi
motivi mosso verso di lui. In tutta risposta, Magnus si era stretto nelle
spalle e se n’era uscito con un “Dura
lex, sed lex” dichiaratamente ironico e deliziato.
E poi aveva deciso di far loro da mentore per
la prima spedizione, e aveva annunciato che li avrebbe portati in uno squisito localino
per Nascosti, con buona musica, buona gente, buon tutto. Un localino gay. Lex un corno.
Arrivarono di fronte al The World’s Under There quando già erano scoccate le due del
mattino. La colpa del ritardo – o il merito, dipendeva dai punti di vista – era
di Magnus, che aveva impiegato più del previsto per decidere come vestirsi.
Alla fine si era messo addosso un completo viola che trasudava un’eleganza
allegra e sbarazzina, lasciando che da sotto la giacca si indovinasse la
camicia giallo limone.
Erano fermi da qualche istante di fronte
all’insegna luminosa, scritta in caratteri morbidi e arzigogolati e piantata
sopra all’ingresso a due porte, quando Jace, mani affondate risolutamente nelle
tasche del giubbotto di pelle nera e sguardo inchiodato sul neon rosso, aprì
bocca e disse, nel tono di chi esprime un dato di fatto:
«Ho sempre trovato molto meschina questa
storia dei locali per soli gay.»
Magnus si ravvivò il foulard bianco che si era
annodato al collo a mo’ di cravatta, facendo rilucere le paillettes che ne
tempestavano i contorni. «Io trovo molto meschino il tuo cinismo.»
«Ti ricordo che a quest’ora dovrei essere impegnato
a proteggere il mondo. E poi che razza di nome è The World’s Under There? No, aspetta», aggiunse dopo un attimo,
cogliendo la sua alzata di sopracciglia. «Ho cambiato idea. Non voglio saperlo.»
Alec, immobile in mezzo a loro, sembrava più a
disagio di lui. Era forse l’unico gay nel giro di chilometri, se non il solo al
mondo, capace di sentirsi scomodo di fronte ad un locale zeppo di gente che avrebbe
capito il suo modo di essere. «Solo Nascosti, hai detto?»
«Girano anche Nephilim» spiegò lo stregone, «e
girano anche curiosi, di tanto in tanto. È un ambiente pacifico, relativamente
nuovo. Di solito si è troppo impegnati a guardarsi le spalle per bersi qualcosa
in santa pace. Vogliamo muoverci?»
Furono dentro ancor prima che Jace potesse
chiedere in che modo avrebbe dovuto intendere il “guardarsi le spalle”. Aveva
l’orrenda sensazione che fosse un’espressione da tradurre alla lettera.
All’improvviso, chiara e tangibile come ferro, avvertì un’immensa nostalgia per
le ronde notturne al Pandemonium.
Il posto, per così dire, non era nemmeno
pessimo. Linee pulite, basse, arredamento moderno. La pista da ballo, irradiata
da un colorato gioco caleidoscopico, era circondata da divanetti e tavolini
affollati. Tutto era imballato in un’avvolgente semioscurità in cui saettavano
le luci dei lampadari. Persino la musica giungeva quasi sorda, profonda come se
passasse attraverso uno spesso strato di ovatta.
Il primo istinto di Jace fu di sfiorarsi il
fianco alla ricerca di un’arma. Con il problema che di armi non ne aveva. Lo
stregone aveva raccomandato ad entrambi di liberarsi persino di eventuali
forcine per capelli, soprattutto perché, parole sue, non era nemmeno il caso di
mostrarsi diffidenti come cani da caccia. Dopo gli eventi che avevano
interessato Idris, i rapporti con i Nascosti si erano di nuovo rilassati. D’altronde
avevano combattuto la stessa guerra. Magnus li aveva perdonati per la loro
iniziale intenzione di portarsi dietro almeno un’arma, riconoscendo di essere
ben consapevole di quanto i Nephilim si sentissero praticamente nudi quando
erano privi della possibilità di ammazzare qualcuno. Era stata un’uscita che
non era piaciuta nemmeno ad Alec, che gli aveva scoccato uno sguardo gelido
come ghiaccio.
«Wow, hai fatto in fretta», osservò lo
stregone, dando uno sguardo al movimento abitudinario con cui Jace aveva
cercato il conforto di una lama. «Rilassati e goditi l’atmosfera. Qui non c’è
nessun demone brutto e cattivo; siamo tutti favolosi. Tira fuori il gay che è
in te.»
«Non c’è nessun gay in me», lo ribeccò
l’altro. «È questo il problema.»
«Già, è una triste conclusione. Siamo qui per
rimediare.»
Si immersero nella folla solo per poter
raggiungere il bancone del bar. Non videro nessun altro Nephilim, ma solo fate,
qualche vampiro, un pugno di lupi mannari. Il resto era una giostra di stregoni
e streghe dal vestiario eccentrico; qualche coppia ballava sulla pista. L’unico
conforto della circostanza, rifletteva Jace mentre seguiva gli altri, era non
aver ancora beccato qualcuno conciato come un membro dei Village People.
Soprattutto, a rincuorarlo era che Magnus non si fosse impegnato per
somigliarci.
Si era accorto del modo in cui lo stregone
faceva di tutto per tenersi vicino Alec. All’ingresso, prima di tuffarsi fra la
gente, lo aveva acchiappato per la manica della giacca e non lo aveva ancora
lasciato andare, neanche volesse a tutti i costi evitare di perderlo di vista.
A dirla tutta, ora che ci faceva caso, se lo stava praticamente trascinando dietro. L’idea era di
osservare un uomo impegnato a strattonare per il guinzaglio un cane poco
disposto a fare la sua passeggiata. Qualcuno avrebbe potuto vederci del tenero,
in quel gesto, e invece Jace non riusciva a scollarsi di dosso il pensiero che
Magnus si stesse comportando in quel modo per dimostrare alla gente che stava
attorno che quel ragazzo era già impegnato. Via, proprietà privata, mio. E
quello, per l’Angelo, quello era divertente.
Si infilarono in un angolino relativamente
tranquillo del bancone. La barista, una vampira alta e dai lunghi capelli neri,
era impegnata a scambiare quattro chiacchiere con alcuni suoi simili accalcati
poco più in là. Prima che qualcuno fosse colto dalla sua stessa idea, Jace
scivolò a sedere sullo sgabello imbottito. Non aveva ancora smesso di guardarsi
attorno, gli occhi socchiusi in un’eterna ricerca del pericolo.
«Niente nomi», disse, rivolgendosi a Magnus. Era
costretto ad alzare la voce per colpa della musica. «Non ho voglia di farmi
della pubblicità. Con la storia del nostro viaggetto verso Sebastian, ne
abbiamo già avuta troppa.»
«Detto da uno che cerca sempre di mettersi in
mostra suona quasi come una barzelletta.» Lo stregone si schiaffò la mano sul
petto in un gesto esageratamente teatrale. «Niente nomi, accordato.»
«Né rimarremo qui per troppo tempo.»
«Non cominciare a fare i capricci. Abbiamo
appena cominciato, e c’è ancora un’intera giornata davanti a voi. Non ti
scoccia, vero?» domandò poi, sollevando la manica di Alec e, di conseguenza,
anche il suo polso.
Jace lo osservò per un lungo istante,
l’espressione interdetta. «Cosa?»
«Se io e lui andiamo a ballare. Tu
approfittane per ambientarti senza cercare guai.»
«Noi cosa?»
Alec gli rovesciò addosso uno sguardo spiazzato. Sembrava che gli avessero
chiesto di mettersi a saltare su un piede per tutto il locale. «Magnus, io non so ballare.»
L’altro batté le ciglia un paio di volte. «Alexander,
mi stai dicendo che c’è qualcosa che un Nephilim non sa fare?»
«Sì, esattamente.»
«Non esiste nemmeno una Runa del Ballo?»
chiese lo stregone. «Dovreste chiedere a Clary di crearne una, proprio per
rimediare a questi spiacevoli inconvenienti.»
«Dovrebbe creare una Runa del Mutismo,
piuttosto», borbottò Jace, e con uno sbuffo si mise più comodo e si voltò verso
il bancone. Si trovò faccia a faccia con la barista, che lo accolse con un
sottile sorriso. Doveva essersi avvicinata mentre erano impegnati in
quell’insensato battibecco.
«Il Sommo Stregone ha con sé degli ospiti?»
esordì lei, una linea di seduzione nella voce. Il vestito sbracciato che
portava, con la complicità del colore scuro, faceva risaltare la sua carnagione
chiara come fine porcellana. «Amici Nephilim?»
«Sì e no», rispose Magnus, ringalluzzito
nell’espressione e nei modi di fare. Aveva lasciato la manica di Alec per
passargli un braccio attorno alla vita, spingendolo appena in avanti. «Questo è
il mio ragazzo. Il biondo è invece una conoscenza. Perdonalo se ti sembrerà
schivo», puntualizzò, abbassando appena la voce. «Ecco, ha appena fatto coming-out. Deve ancora accettare la sua sessualità,
così gli sto dando l’occasione di uscire dal guscio.»
Jace si voltò a guardarlo con la mandibola
cascata per metà. Non sapeva se ritenersi più offeso dall’essere stato
etichettato come una conoscenza quando invece si conoscevano da tempo, oppure
se graffiargli via di dosso la soddisfazione che di certo aveva avvertito non
appena gli aveva dato del gay alle prese con le prime conferme su se stesso.
Stava macinando una risposta con i fiocchi, una di quelle toste, una di quelle
che avevano bisogno di una profonda rincorsa, quando Magnus prese ancora
parola, ignorando la sua stizza e dando qualche allegra pacca sul fianco di
Alec:
«Lo lascio alle tue amorevoli cure, Lydia. Ho
intenzione di trascinare questo bel ragazzo in pista.»
Non aggiunse altro. Dopo aver accolto il cenno
della vampira, si ritirò nella folla trascinando Alec con sé, senza nemmeno dargli
il tempo di avanzare un tentativo di protesta. Svanirono in quel turbine di
voci, luci e corpi.
Poi accaddero due cose contemporaneamente. Jace
se ne accorse quando fece per voltarsi di nuovo verso il bancone; la barista si
allontanò nello svolazzo dei capelli scuri, richiamata da un trio di ragazze
che chiedevano a gran voce da bere, e sullo sgabello accanto al suo si sistemò
un tipo dall’abbigliamento un po’ sciatto, con una scarmigliata chioma castana
ad incoronargli la testa. Riconobbe l’odore all’istante. Lupo mannaro.
Gli diede una sola occhiata, rapida e indifferente,
con l’intenzione di fargli intendere che non era il ragazzo più raccomandato
con cui scambiare quattro chiacchiere. Invano.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» chiese lo
sconosciuto, scoccandogli un sorriso a trentadue denti.
Jace, gomiti piantati sul tavolo ed
espressione rabbuiata, si guardò prima dietro una spalla e poi dietro l’altra,
e solo per tornare a guardare il suo audace interlocutore e rispondergli con un
pungente: «Parli con me?»
«Con te.»
«Allora no.»
L’altro sollevò un sopracciglio. La risposta
lo aveva stranito, ma non abbastanza da togliergli di dosso quella fastidiosa
espressione da eroe della serata. «Sei qui con qualcuno?»
Doveva davvero dirgli con chi era lì? E
spiegargli peraltro la circostanza per cui era seduto in un locale per soli
gay? No. «No.» Appunto.
«Adesso mi dirai che di nome fai “No”.»
«Sbagliato.»
«Almeno possiamo chiacchierare un po’?»
Avrebbe voluto dargli ancora un quattro di
picche, e l’avrebbe fatto volentieri. Non fece in tempo, perché il lupo mannaro
aveva già ricominciato a parlare.
* * *
«E
così sono arrivato a Brooklyn», concluse il ragazzo, stringendosi nelle spalle
come a dire “Eccomi qui”. «Ci sono
delle cose che avrebbero potuto trattenermi là, ma non è che ci pensi molto.
San Francisco non sarebbe male se non fosse per la gente che ho incontrato.» A
questo punto si fermò e girò gli occhi su Jace. «Tu cosa mi racconti?»
“Cosa mi racconti”? Era la prima domanda che
gli poneva dopo un quarto di secolo, Dio.
Jace, che era rimasto ad ascoltarlo senza dire
una parola, si limitò a ricambiare lo sguardo. Il grande orologio ovale che
troneggiava in cima allo scaffale delle bottiglie testimoniava che fuori il
mondo si stava preparando ad accogliere le quattro del mattino. Proprio lui,
che aveva voluto sottolineare l’intenzione di non restare per troppo tempo in
quel posto, era rimasto seduto al bar quasi per due ore. Si era sorbito
l’apocalittico discorso di presentazione di quel tizio e aveva digerito le sue
vicende senza battere ciglio, restandosene semplicemente seduto a guardare un
po’ di fronte a sé, verso un rincuorante nulla, e un po’ attorno, a controllare
se nelle vicinanze ci fosse segno di Magnus ed Alec. Dei due neanche l’ombra;
aveva cominciato a prendere in esame l’orrenda ipotesi che se la fossero filata
senza di lui. Oh, l’avrebbe fatta pagare ad entrambi. Soprattutto l’avrebbe
fatta pagare allo stregone, aggiungendo al conto anche le due acque toniche che
si era preso da bere.
Ora che osservava il lupo mannaro mentre se ne
stava zitto, capì che avrebbe anche potuto essere di buona compagnia se solo non
fosse stato così logorroico. Tanto per rincarare la dose, c’era la certezza
assoluta che il tipo avesse attaccato bottone solo per dei secondi fini. Non
era qualcosa che riusciva a digerire.
«Okay, adesso te lo dico, cucciolotto», rispose
all’improvviso, spostando le gambe per girarsi del tutto verso di lui. «La
gente continua a ripetermi che dovrei avere più tatto quando parlo, ma non ci
riesco. Ti faccio tante scuse. Non ho ascoltato una sola parola di quel che mi
hai detto e non mi interessi. Sono qui dentro perché dovevo accompagnare un
amico.»
L’altro affrontò ogni frase di petto, e solo
per tornarsene di colpo a sorridere e dire: «Non vedo nessun amico con te.»
«È via.» Poi, dopo un attimo: «Credo sia
impegnato da qualche parte.»
«Senti, la storia dell’amico gay è vecchia,
Nephilim», fece il ragazzo, con una leggera risata a far capolino tra le
labbra. «Ormai non ci crede più nessuno. Se sei troppo timido per dire che sei
entrato qui dentro per curiosità, nessun problema.»
Jace ebbe la chiara, viva sensazione di
sentirsi formicolare le dita. Si era teso come un’asse di legno. «Hai due
sfortune dalla tua parte: sei logorroico e sei uno sbruffone. Hai cinque
secondi per alzarti e sparire. Comincio a contare.»
«Non vuoi neanche sapere come mi chiamo?»
«Due...»
«L’iniziale?»
«Tre...»
«Okay, okay.» Il lupo mannaro si alzò, alzando
le mani e sventolandole in un cenno. La sua era un’espressione di impressionato
e sarcastico sdegno. «Se vuoi un consiglio, datti una calmata. Non c’è bisogno
di comportarsi da preziosa principessa. E comunque non sei neanche quel gran
schianto da potertelo permettere.»
Touché. Definitivamente. «Ti spalmo sul bancone, se
insisti.» Ben scandito, anche.
«Non ce n’è bisogno.»
Jace lo seguì con lo sguardo mentre il tizio
ripescava la giacca dallo schienale e si allontanava, non senza avergli
scoccato un’ultima occhiata di diffidenza. E poi gli altri lo rimproverano
quasi sempre per il suo modo diretto di esprimersi? Dio, a volte mancare di
tatto era più efficace di una lama angelica.
Aveva una mezza idea di armarsi di cellulare e
di chiamare Alec quando, spiando il ragazzo che se ne andava, lo indovinò
insieme a Magnus. Stavano tornando al bar. Per una qualche ragione, il foulard
colmo di paillettes era finito attorno al collo del suo parabatai. Non volle
interrogarsi oltre.
«Chi era il baldo giovane?» gli domandò lo
stregone, facendo un cenno in direzione del lupo mannaro, che era intanto
svanito verso la pista. In faccia aveva un sorriso sicuro e radioso. Pareva di
ritorno da una festa spaziale. «Hai fatto conquiste mentre non c’eravamo?
Ma-non-mi-dire!»
«Evita quel tono da allegro conduttore
televisivo», gli soffiò contro Jace, bruciandolo con lo sguardo. «Non è
successo assolutamente nulla.»
«Hai sentito quell’inflessione nella sua voce,
tesoro?» lo ignorò l’altro, gongolando con soddisfazione. «Quel retrogusto da
“voglio tenermi i miei favolosi segreti tutti per me”?»
Alec spostò gli occhi in un punto non ben
precisato. In barba al tempo trascorso là dentro, sembrava ancora un orso
polare abbandonato nel deserto del Sahara. «È più uno sfondo da voglia di
omicidio, ma sono pareri», rispose, dando l’impressione di parlare più a se
stesso che agli altri.
«Si può sapere dove siete stati fino ad
adesso?» Jace si era alzato per metà dallo sgabello, una mano rigida sul
bancone e gli occhi iniettati di tradita e furente impazienza. «Mi avete
abbandonato ad un bar, in un locale per soli gay, con un tizio che ci ha
provato con me fino a un minuto fa!»
«E non è bello?» lo illuminò Magnus,
arricciando le labbra in un sorrisetto. Per quanto lì dentro facesse caldo, il
trucco non gli era sbavato di un solo millimetro e tutto quanto era ancora al
suo posto, con una nota di merito per l’ombretto giallo, i glitter e la linea
di matita nera. «Non trovi che sia romantico essere abbandonati in un locale e
trovare così l’amore della propria vita?»
«Ti dimentichi di Clary. Sono già impegnato.»
«Ma sentilo, il galletto.»
«Siete degli sporchi traditori.»
«Oh, quante storie.» Il Sommo Stregone si
lasciò sfuggire uno sbuffo drammatico e sventagliò la mano, quasi una piroetta,
mentre si voltava. «Tranquilla, Sissi. Adesso ce ne andiamo. Passo domani a
pagare quel che hai bevuto.»
«Come mi
hai chiamato?» Jace si mosse in fretta per seguirlo, non senza perdersi il
gesto con cui Alec strinse di colpo le labbra e tentò di trattenere una risata.
Anche se un verso gli scappò lo stesso. «Alec, non osare. Stai zitto.»
«Comunque, se vuoi saperlo, non siamo stati
tutto il tempo sulla pista», intervenne Magnus, che apriva la strada verso
l’uscita. Camminava tranquillo, mani nelle tasche del completo e postura ritta
e aggraziata. «Ad un certo punto ci siamo stancati. Siamo andati a fare cose
nostre.»
«Non voglio saperlo.»
«Cose ciccipucci.
È anche un aggettivo.»
«Ho detto che non voglio saperlo.»
«Magnus» s’intromise Alec, in un tono quasi
straziato, «ti prego.»
«Già, ti prego.» Jace schivò una fata e non
rallentò. Aveva la testa così piena di musica e luci da sentirsela pesante come
piombo. «Soprattutto per me. Ho bisogno di dormire.»
«Poche ore», raccomandò lo stregone. «Non
vorrete certo perdere tempo prezioso, giusto? Una giornata vola in fretta.
Spero tu abbia già qualche idea.»
«Per cosa?»
«Per Alexander. Il prossimo turno è suo.»
Alec guardò prima uno e poi l’altro, salvo
ricacciare poi gli occhi in basso e tirare un sospiro che era tutto fuorché
voglia di partecipare.
«In questo momento voglio solo far finta che
nulla di tutto ciò stia accadendo sul serio», se ne uscì Jace mentre si
avvicinavano all’uscita. Era una benedizione non essere più in mezzo a quel
trambusto. Non era mai stato così felice di tornarsene all’Istituto, anche se
solo per qualche ora.
«Ah, un’altra cosa.» Magnus si arrestò di
botto a pochi passi dalle due porte e si frugò nella tasca posteriore dei
pantaloni. Ne trasse un foglietto bianco, ripiegato un paio di volte su se
stesso, e lo tese a Jace. «Ad un certo punto sono andato in bagno», dichiarò,
con una naturalezza imbarazzante. «Ne ho approfittato per scarabocchiare
qualcosa. Lo porterai a Clary.»
Il Nephilim, che tentò in tutti i modi di
togliersi dalla testa l’idea di un Magnus Bane impegnato a disegnare nella
toilette di un locale per gay, lo spiò con un’occhiata scettica prima di prendere
il foglio. Persino Alec, benché si impegnasse a mostrare scarso interesse,
allungò un poco il collo quando il parabatai lo aprì.
«So che lei vede le rune prima di crearle»
stava intanto dicendo lo stregone, «e che pertanto non le inventa partendo da zero,
ma vorrei comunque dare un mio contributo.»
Quando Jace vide quel che Magnus aveva
disegnato, corrugò la fronte. «Non voglio offendere le tue doti artistiche, ma
questo cosa sarebbe?»
«Chi,
per l’esattezza. È Michael Jackson, o meglio la sua silhouette mentre sta in
punta di piedi», rispose l’altro, in tono spaventosamente convinto. «Ho pensato
che potesse essere un buon suggerimento per un’eventuale Runa del Ballo. Perché
lo ammetto, voi Nephilim siete un caso davvero disperato. Vraiment terrible. Senza nulla togliere al tuo impegno, Alec.»
Persino il suo bel sorriso soddisfatto aveva qualcosa di orribile. «Allora? Lo
consegnerai a Clary?»
Oh, Raziel, perché?
Gente, mi perdonerete, ma l'idea di trascinare Jace in un locale per soli gay mi faceva impazzire.
Dovete sapere che non stravedo per lui - anzi, lui e Will sono proprio
due dei personaggi che non riesco a sopportare, nel senso buono del
termine, eh (?) Non avrei nemmeno un quarto di pazienza per avere a che
fare con uno di loro due, e così, voilà, ho voluto
prendermi una soddisfazione. Adesso mi sento meglio (?)
Oltre a ciò, non credo ci
sia bisogno di tradurre il nome che ho scelto per questo delizioso
posticino in cui Magnus li ha portati, ma lo faccio per amor di
completezza; ebbene, "the world's under there" significa "il mondo
è laggiù". Capirete perché Jace decide di non
indagare il motivo per cui il locale si chiama proprio così.
Sono libere interpretazioni.
Un avviso importante: una di voi
mi ha fatto notare di avere dei problemi con la lettura (caratteri
piccoli e necessità di scorrere per arrivare a fine frase). Sul
mio pc la lettura non presenta nessuna di queste due scocciature. Mi
piacerebbe sapere se qualcun altro ha problemi di questa sorta,
perché nel caso, davvero, se interessa tutti quanti,
potrò vedere di modificare il formato di pubblicazione - non ci
sarebbero problemi <3 Nel mio caso, c'è solo quello spazio
blu sulla destra che mi fa salire il nazionalsocialismo tedesco, ma ci
marcio sopra, dato che almeno si legge bene (?)
Quanto al resto... Non faccio
numeri, ma davvero in tantissimi/e avete inserito la storia nelle
preferite, nelle seguite e nelle ricordate, e solo leggendo il primo
capitolo. Grazie <3 Spero vivamente di non deludere le vostre
aspettative. Sono rimasta piacevolmente sconvolta dal numero di
silenziosi lettori che hanno voluto dare una possibilità a
quest'immane nonsensata (?), considerando che è la mia prima ff
nel fandom.
---Jace non ve l'ha detto, ma ve
lo dico io. So già cosa combinare per Alec. Mi odio al solo
pensiero, soprattutto perché è il mio favorito.
Grazie, grazie e grazie, e alla prossima <3
Dew_
|
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Capitolo 3 *** Qualcosa come un... ***
3. Qualcosa come un...
3.
Qualcosa come un..
«Io
però non l’ho fatto.»
«Cosa?»
«Questo.» Alec girò gli occhi in un gesto che
poteva dire due cose: non era nei piani
e ma tanto lo devo fare lo stesso. A
ben vedere, poteva trattarsi di una somma di entrambe le frasi. «Non ti ho costretto a parlare da solo con il
rischio che la gente ti prendesse per matto.»
Jace, che gli camminava accanto, atteggiò il volto
in un’espressione di cinematografico sdegno. «Ma sentitelo. Giusto, tu e Magnus
mi avete abbandonato a parlare con un lupo mannaro che voleva portarmi a letto.
Io questo lo chiamo par condicio.»
L’altro aveva in mente una parola diversa,
qualcosa che cominciava per v e
finiva per “-endetta”, ma la tenne
per sé. Se ne rimase zitto, impettito nel cappotto scuro, le mani inchiodate
nelle tasche e il mento accomodato nel confortevole abbraccio della sciarpa
grigia. Camminavano su quella via da quelli che gli sembravano secoli, ma uno
sguardo lanciato al grande orologio circolare che torreggiava di fianco ad una
pensilina per autobus gli disse che erano passati solo quindici minuti da
quando avevano lasciato l’Istituto. E un’altra cosa, una considerazione pratica
ed evidente, gli suggerì invece che il verbo più corretto era camminava.
Jace si era reso invisibile a tutti, mondani e
non, e la gente se ne stava semplicemente lontana da lui, aggirando la sua zona
di competenza con spontaneità e noncuranza. C’era chi lo evitava mentre
chiacchierava al telefono, chi passava oltre rispettando una misteriosa e
intangibile distanza di sicurezza. Alec aveva cercato di illuminarlo sulla poca
correttezza di quella decisione, ma il parabatai si era limitato ad un “adesso
è il tuo turno, non il mio”. Semplice e conciso, con lo stesso tono con cui ci
si vuole prendere una soddisfazione o agire per ripicca. Aveva ottimi motivi
per credere che l’opzione giusta fosse la seconda.
Era una mattina fredda, una di quelle in cui
il cielo è basso, gravido e grigio come piombo. Izzy era impegnata con gli
allenamenti e Magnus, almeno a quanto aveva detto, aveva delle urgenze da
sistemare. Non c’era nulla di entusiasmante nel pensiero che Jace avesse quindi
un’estrema libertà d’azione, non quando la notte prima lo avevano trascinato al
The World’s Under There e costretto a
trascorrere due indimenticabili ore in compagnia di uno spasimante logorroico.
C’erano parecchie cose, rifletteva Alec, che già non gli piacevano, prima fra
tutte il fatto che, qualunque cosa fosse stato sfidato a fare, avrebbe dovuto
farla completamente da solo, ben visibile ai mondani, senza la possibilità di
cercare la soluzione negli occhi del parabatai. Naturale; il suo parabatai non
sarebbe esistito, non tra la gente comune, non tra i Nascosti, non quella
mattinata. Fantastico.
«Dove stiamo andando?» domandò, senza mancare
di fargli intendere con uno sguardo che non aveva voglia di accogliere le sue
provocazioni. «Hai almeno idea delle strade che abbiamo preso?»
«Andiamo in un posto», rispose Jace. In faccia
gli era spuntato un sorriso vago, quell’indizio di noncuranza che avrebbe
potuto precedere anche un suo più classico Andiamo
a cercare qualche demone da ammazzare. Ad Alec, neanche a dirlo, non
piacque. «Dovresti goderti un po’ la routine dei mondani. Non è male.
Conosceresti anche più luoghi da frequentare.»
«Non ci sono luoghi che voglio frequentare.
Anzi, non voglio frequentare e basta.»
Due signore che venivano dalla direzione
opposta gli scoccarono uno sguardo e passarono oltre, scambiandosi un’occhiata interrogativa.
Forse, diceva l’espressione di una delle due, il ragazzo aveva delle auricolari
nascoste dalla sciarpa e stava parlando con qualcuno al telefono.
«Ho pensato, dato che sono appena le nove, di
fare colazione e di prenderci un caffè», annunciò Jace. Poi, complice un rapido
calcolo: «Prenderti, ecco. I soldi me
li ha dati Clary.»
«Potresti renderti visibile e prenderlo con me.»
«Hai detto qualcosa?»
«No, niente.» Alec macinò qualche altra
parola, tra cui tanto, che e diverti. Dubitava che Jace lo avesse
sentito, ma fermo restava che il messaggio gli si poteva benissimo leggere in
faccia. Poche cose erano più trasparenti delle maschere di sopportazione che si
metteva addosso quando cominciava a perdere la pazienza.
A Jace, che non colse il borbottio, bastò la
sua faccia. «O preferisci la cioccolata? Il caffè non va bene?»
«Non è questo», si arrese l’altro, continuando
a camminare a passo svelto. «Se non ricordo male, quando abbiamo deciso di fare
questa stupidaggine non abbiamo compreso l’aggravante della crudeltà.»
«Oh, è stato crudele abbandonarmi al bancone
di quel locale per gay», e il suo tono era solenne il giusto per sapere di
sarcasmo. «Mi avete spezzato il cuore.»
«E allora dillo.»
«Dire cosa, Alec?»
«Che mi hai chiesto di rendermi visibile ai
mondani solo per vendetta.»
Un momento di silenzio. Poi Jace, con un
sorriso da orecchio ad orecchio: «Non lo dirò. Preferisco continuare a fartelo
credere; questo genere di crudeltà psicologica è ancora più soddisfacente.»
* * *
Aveva con ingenuità creduto che Magnus e Izzy avrebbero
fatto da giudici per tutto l’arco della giornata. Date le premesse, lo avrebbe
preferito. Jace non era quel tipo di persona da lasciarsi sfuggire l’occasione
di girare una carta a proprio favore; le sue ripicche erano metodiche e, cosa
più importante, indolori solo all’apparenza. Quando si trattava di aguzzare
ingegno e sarcasmo era praticamente insuperabile. Riflettendo su quel che lui e
Magnus lo avevano costretto a fare, Alec si scoprì abbastanza maturo da
riconoscere che una piccola vendetta l’avrebbe meritata. La colpa era più stata
dello stregone che sua (neanche avevano ballato a lungo, a dire il vero), ma
non gli andava di fare polemica. Jace aveva probabilmente patito l’Inferno
seduto al bancone di quel locale, e lui, da bravo parabatai qual era, avrebbe
affrontato la propria parte senza fiatare. Ammesso e non concesso che la sfida
si sarebbe rivelata moralmente accettabile.
Il luogo davanti a cui si erano fermati non
aveva un aspetto malvagio. Era schiacciato fra una libreria e un negozio di
vestiti, con i mattoni rossi ben in vista sulla facciata. Il nome stampato
sulla porta di vetro in simpatici caratteri verdi – The Cloak - non gli era nemmeno nuovo. Di fronte a quel bar doveva
essere passato almeno qualche volta, senza però mai fermarsi. Poi si accorse
che la strada su cui si affacciava era quella che cinque isolati più avanti
incrociava la via in cui abitava Magnus. Quella considerazione topografica
bastò a dirgli che sì, allora ricordava bene. Non se n’era accorto prima perché
avevano preso scorciatoie che lui, di norma, puntualmente scartava.
«È rincuorante sapere che la tua terribile
vendetta è un bar», commentò Alec, ma non nel tono sicuro che avrebbe voluto. Forse
aveva indovinato l’obiettivo del parabatai.
«Già» disse Jace, «sono caritatevole. Ripassa
mentalmente le regole del nostro mondo, perché ti serviranno.»
«Devo considerarlo come un grado di difficoltà
in più?»
«Se può esserti d’aiuto. Dovrai entrare,
mettere gli occhi su una bella ragazza e attaccare bottone. Lo so» aggiunse
alzando la mano quando Alec lo guardò come se avesse appena imprecato, «per te questo
è già improponibile.»
«Perché? C’è anche altro?»
«Offrile qualcosa, forse, e dalle il tuo
numero di telefono. Il tuo.» Jace fece spallucce, neanche stesse affermando che
due più due fa quattro. «Ovvero, detto in breve, rimorchia come se non ci fosse
un domani. In effetti un domani non c’è, dato che la tua giornata da etero è
oggi.»
«Non posso darle il mio numero», si difese
l’altro, non senza un certo impeto. Una coppia che passava in quel momento gli
lasciò addosso uno sguardo incuriosito prima di passare oltre. Auricolari sotto
la sciarpa, sempre. Ovvio, cos’altro? «Là dentro ci sono solo mondani!»
«Il tuo», ribadì il biondo, scoccandogli ora
un’occhiata truce. «Altrimenti mi spieghi dove sta la difficoltà? Certo, tolto
il fatto che parlare con una ragazza è già di per sé un’impresa biblica, per
te. E poi ti basterà sparire dalla circolazione e non rispondere se ti chiamerà
o scriverà. Dato il mestiere che fai, svanire nel nulla non sarà difficile.»
«Grazie tante», sbuffò Alec. Non aveva ancora
mosso un passo verso la porta del bar, attraverso il cui vetro indovinava
qualche tavolino occupato e la curva del bancone di legno verniciato di verde
scuro. C’erano forse sette, dieci persone.
«Il tuo
numero», sottolineò Jace per la terza volta. Aveva fissato gli occhi verso
quelli del parabatai sebbene questi stesse sbirciando nel piccolo locale con
una diffidenza e un’indisposizione quasi teatrali. «Se per il momento non c’è
dentro nessuno di interessante, aspetterai. Il tuo. Giuralo. Giuralo sull’Angelo, o stasera ti trascino in uno
strip club e ti lego davanti al cubo di una spogliarellista per costringerti a
guardare.»
Non era necessario sondare il suo tono di voce
per sapere che sarebbe stato in grado di farlo. Alec incrociò le sue pupille,
rigido nel cappotto e nell’espressione. «E va bene», si buttò. «Lo giuro
sull’Angelo. Felice?»
«Come il sole che sorge su Idris. Prendi i
soldi e entriamo.»
«Ah, entri anche tu? Per controllare?»
«Per accertarmi che non rimorchi un
transessuale. Sarebbe barare.»
Stava scherzando, ma l’altro dovette
contenersi dalla voglia di mollargli uno pugno o uno schiaffo sul braccio. A
trattenerlo fu soprattutto la certezza che, se l’avesse fatto, la gente attorno
lo avrebbe visto picchiare l’aria. Quel genere di attenzione, quella che si
riserva ai matti o alle persone strambe, era proprio quella che voleva evitare.
L’interno era più spazioso di quanto sembrava
promettere l’esterno. Il bar si sviluppava in profondità, diviso in un secondo
locale a cui si poteva accedere varcando un’arcata, così i dieci tavolini nel
primo spazio diventavano venti sommandoli a quelli del secondo. Era un ambiente
ordinato, luminoso a dispetto del suo essere incastrato tra due altre attività.
Al bancone era accomodato solo un trio di uomini che discutevano animatamente
di sport. Non sembravano troppo interessati ai cappuccini che il barista aveva
messo loro davanti da probabilmente cinque minuti tondi, considerando che dalle
tazze saliva ben poco vapore. Quanto ai tavolini, qualcuno c’era, ma Alec non
si soffermò ad osservare con attenzione; supponeva che guardarsi intorno come a
giudicare la clientela non fosse sinonimo di educazione nemmeno fra i mondani.
«D’ora in avanti non cercarmi», dichiarò Jace,
non senza un bel sorriso a coronargli il volto. «Sappi che ho scelto uno dei
migliori bar di Brooklyn. Qui fanno dei caffè ottimi. Ringraziami.»
«Sì, certo», mormorò il parabatai, decisamente
poco convinto. Puntò verso il bancone e si mosse. «Non fiatarmi sul collo.»
Desiderava mettere lì il punto del loro
dialogo, chiudere il caso con quel gentile invito a non mettergli pressione, e
l’altro dovette intenderlo, perché gli offrì un certo vantaggio prima di
andargli dietro, mani nelle tasche e occhi scappati a sbirciare i dintorni
quasi che potesse esserci puzzo di demone nell’aria. Nulla di eccezionale; era
poi sempre quella l’impressione che dava quando si aggirava nella
caleidoscopica realtà mondana. Ottenere una visione d’insieme era di
fondamentale importanza anche mentre non si era a caccia.
Alec si era intanto guadagnato una delle
seggiole accostate al bancone. Tra sé e i tre uomini aveva lasciato un posto di
distanza, come se quell’ostacolo equivalesse ad un confine di sicurezza. Dando
uno sguardo a Jace, lo vide proseguire oltre, verso la seconda stanza del
locale, con passo ora tranquillo e disinvolto. Il pensiero che stesse andando a
farsi un’idea della clientela che sedeva dall’altra parte gli fece provare, se
non disagio, almeno una punta di irritazione.
Poi una domanda. Lì di fronte. «Cosa ti porto?»
Quando tornò a guardare davanti a sé, di
scatto, vide che il barista si era avvicinato e lo osservava con un lieve
sorriso di cortesia. Era magro come un chiodo, brizzolato, guance
inaspettatamente piene. Trovò qualcosa di straniero nel suo accento e nei suoi
occhi color nocciola. Doveva essere qualcosa di europeo.
Rimase qualche istante a fissarlo e basta,
colto totalmente alla sprovvista. La sua espressione, ci giurava, era quella di
uno appena caduto da un pero. O da un campanile, a seconda delle
interpretazioni. Quando si accorse che l’occhiata dell’uomo si era fatta quasi
interrogativa, sfilò un breve e rapido sorriso e pescò un: «Caffelatte. Basta
questo, grazie.»
A caso, si disse. Non gli andavano né il caffè
né il latte, ma forse una somma dei due sarebbe andata bene. Per la verità lo
stomaco gli si era strizzato come un guanto di lattice, ma anche questo era un
dettaglio trascurabile. Doveva essere ansia da prestazione.
Il barista lasciò lo strofinaccio che teneva
in mano in un sottoripiano del bancone. «Subito.»
Stava ancora sorridendo mentre si allontanava
per preparargli quanto chiesto. Alec approfittò di quella tregua per dare
un’occhiata ai tre uomini, che ancora non avevano smesso di commentare, a
quanto poteva intendere, una certa partita di un certo torneo di baseball. Si
domandò cosa i mondani trovassero di entusiasmante in un gioco in cui si doveva
correre dietro ad una pallina come barboncini isterici. Ci stava ancora
pensando, gomiti inchiodati sul bancone e testa appena incassata fra le spalle,
quando una voce gli parlò all’orecchio:
«Poi vai di là. Secondo tavolo a destra.»
Jace. Ovviamente.
Sobbalzò e si voltò di scatto, trovandosi
faccia a faccia con lui. Con il suo sorrisetto. «Ti ho detto di non fiatarmi sul collo», sibilò tra i
denti, dando uno sguardo ai tre per accertarsi che non lo avessero sentito. «Dammi
tempo.»
«La ragazza seduta a quel tavolo potrebbe
anche non averne, di tempo», spiegò il biondo in tono insopportabilmente serio
e competente. Aveva persino arcuato appena le sopracciglia nell’espressione del
mentore che dà consigli pratici al suo diletto, e parlava a bassa voce, neanche
qualcuno avesse potuto sentirlo. L’ipotesi più accreditata era che lo facesse solo
per agire da scomoda e irritante vocina della coscienza. «Forse tra poco se ne
andrà a qualche corso universitario, o al lavoro, o a badare ai poppanti di
qualche sua amica rimasta incinta troppo presto per colpa di un...»
«E va bene, va bene, per l’Angelo», lo interruppe l’altro, alzandosi così di colpo
da rischiare di rovesciare la seggiola. Fece un cenno al barista, indicando
l’altra saletta, e l’uomo, che stava preparando la tazza in quel momento, alzò
la mano di rimando in un gesto disinvolto e noncurante che a parole sarebbe
stato un okay quasi cameratesco.
L’intenzione di Alec era raggiungere quello
stato emotivo per cui si è pronti ad accettare passivamente qualsiasi cosa. La
formula di quella condizione miracolosa e liberatoria era il classico vada coma vada. Funzionava spesso, e
funzionava bene. Aveva funzionato anche con Magnus, durante quel periodo di
frequentazioni vaghe e allusive che promettevano tante belle cose per il
futuro; e se aveva funzionato con lui, con il Sommo Stregone di Brooklyn, con
una personalità così eccentrica, stramba e carnevalesca, perché non avrebbe
dovuto funzionare per far abboccare una stupida, ingenua mondana che si crogiolava
nelle sue stupide, ingenue certezze?
Vada come vada. Facciamolo e basta. Cosa vuoi
che sia. Non può essere più difficile dell’ammazzare un demone. Una convincente
catena di pensieri che si spezzò quando si fermò sull’uscio della seconda
saletta. D’altronde osservare un muro da lontano è molto più semplice che
sbatterci contro il muso.
Là dentro c’era davvero molta più gente. A
giudicare dall’età media della clientela, che si aggirava attorno ai venti,
venticinque anni, quel bar doveva essere la meta favorita da molti studenti e
giovani del posto. Sul fondo della stanza scendeva una scaletta, da cui
presumibilmente si raggiungevano i bagni, e una seconda a chiocciola saliva
invece al piano superiore, dove forse, a giudicare dal cartello “privato”, alloggiava il proprietario.
Solo in un secondo momento guardò verso destra e cercò il tavolo di cui Jace
gli aveva parlato.
Una ragazza in effetti c’era, seduta da sola.
Capelli corti e castani, tagliati sulle spalle, e borsa a tracolla sistemata
sulla sedia accanto. Era presa a leggere un tascabile, o forse era una rivista
esageratamente piccola, e con la mano libera stringeva il bicchierone colmo di
succo d’arancia rossa. Dagli abiti non sembrava una studentessa; più probabile
che stesse semplicemente bevendo qualcosa prima di riprendere una passeggiata.
O prima di andare dalla famosa amica rimasta incinta a cui Jace aveva accennato
giusto per mettergli fretta.
Alec sapeva che il parabatai lo stava
osservando dal bancone. Non c’era bisogno di affidarsi alla runa che li legava
perché si sentisse addosso i suoi occhi. Decise di non dargli la soddisfazione
di vederlo immobile per più di cinque secondi, così si mosse in direzione della
ragazza. Com’è che si diceva? “Via il dente, via il dolore”? Ecco un altro modo
di dire che si addiceva alla perfezione alla circostanza.
Accostate al tavolo c’erano in tutto quattro
sedie. Tolte le due già occupate dalla sconosciuta e dalla sua borsa,
rimanevano quelle giusto di fronte. La cosa davvero positiva era che non c’era
un tavolo completamente libero. Una scusante per sedersi con lei, quindi,
l’aveva. Il pensiero lo consolò.
Non che avesse ben in mente come presentarsi.
I mondani erano però semplici, piuttosto malleabili ed elementari. Non c’era
bisogno di prepararsi un discorso per poter chiedere a uno di loro se ci si
poteva sedere proprio di fronte, a patto di non beccare un evaso o un paranoico
cronico. La tizia non sembrava rispondere a nessuno di quei due casi, così
qualcosa come un “ehi”, chiaro ed essenziale, avrebbe potuto funzionare. Qualcosa
come un...
«Ciao», se ne uscì, fermandosi davanti a lei. Ciao? Sul serio aveva esordito con un
imbarazzante, banale ciao?
La ragazza alzò gli occhi di colpo.
Dall’espressione che gli rivolse, un moto di sbigottimento misto a sorpresa
pura e semplice, doveva essere stata strappata ad una lettura attenta e
appassionata. Portava un paio di occhiali, una montatura nera, grande e lucida,
di quelle che andavano di moda. Le lenti sottili mettevano in risalto la
basilare linea di matita con cui si era truccata gli occhi.
Era carina, si disse Alec. Il suo orientamento
sessuale non gli impediva di riconoscere la bellezza femminile. E la tizia,
anche se semplice, anche se decisamente diversa nel volto e nell’atteggiamento
da Izzy, non era male. Carina, per l’appunto.
Dopo un momento di confusione, lei sfilò un
sorriso sbadato. «Ciao.» Così, per puro riflesso. Poi rimase a guardarlo, con
in faccia una domanda che Alec non tardò ad interpretare.
«Posso sedermi?» chiese. «Non ci sono altri...»
«Oh, sì, certo.» Chiuse quel che stava
leggendo, consegnandogli così il titolo. Una guida turistica. «Fai pure, non ci
sono problemi.»
Il Nephilim capì che probabilmente lei era più
in imbarazzo di lui. Fu una realizzazione rincuorante. Ringraziò e si sedette,
non senza una certa rigidità che, anche volendo, non sarebbe riuscito a
correggere. Si era infilato le mani nelle tasche del cappotto, come a
comprimersi nel minor spazio possibile o, preferibilmente, come a volersi far
assorbire dallo schienale della sedia. L’animata discussione dei tre uomini al
bancone era stata sostituita dal chiacchiericcio vivace dei giovani che
affollavano gli altri tavoli. Ogni tanto, da qualche parte e per qualche
motivo, si levava una risata.
«Sei di qui?» domandò la ragazza. Il suo era
un tono da conversazione.
«Sì. Di qui.» Meditò di limitarsi a quello, e
invece trovò la giusta ispirazione per ricambiare la domanda. «Tu?»
«Sono della Florida. Graceville, contea di
Jackson», disse lei, e batté la mano sulla guida turistica. «Sono qui in
vacanza. È un bel posto.»
«Già.» Alec si mosse, ma giusto il minimo, per
sistemare meglio le gambe sotto al tavolo. Fu allora che un movimento
famigliare gli consigliò di gettare un’occhiata sulla sinistra. Mancò poco che
mollasse la mandibola.
Jace aveva fatto il suo ingresso e, con un
balzo, si sedeva proprio in quell’istante su un tavolo giusto oltre il
passaggio lasciato libero. Mani nel giubbotto, appoggiò la punta dei piedi sul
pavimento e se ne rimase così, accomodato tra due persone che ovviamente non
potevano vederlo e che continuarono a chiacchierare del più e del meno. Quando
si accorse che il parabatai lo aveva notato, gli indirizzò un’alzata di
sopracciglia, un lieve sorriso e un cenno del mento. Di incoraggiamento, forse.
Si era sistemato deliberatamente lì per agire da pubblico.
La ragazza seguì la direzione in cui
guardavano gli occhi di Alec, ma non disse nulla in merito. «E quindi... che
fai, studi?» chiese invece, e lui tornò subito a guardarla, con la sensazione
fisica di essere impallidito di colpo.
«Sì. Cioè, no. O meglio» si riallacciò dopo
qualche tentativo di risposta, «lavoro di qua e di là. Mi adatto.»
Pregò che ci fosse del senso in quel che aveva
detto, poi si ricordò che una delle regole del fascino era il mistero. Un punto
a suo sfavore, dato che restare nel vago e mentire non erano abilità in cui
eccelleva. Magnus gliel’aveva ripetuto così tante volte da fargli venire il mal
di testa. La gente si divertiva a fargli notare che quand’era agitato, in
imbarazzo o nervoso, la sua faccia era un libro aperto.
Lei però non sembrò farci caso. Il suo disagio
pareva anzi darle un po’ di coraggio. Sorrise, poi gli tese la mano. «Monica»,
si presentò.
Alec si sorprese ad accettare la stretta quasi
subito. «Alexander. Alec.» Ritirò il braccio in tempo per permettere al barista
di piazzargli davanti la tazza di caffelatte. Ringraziò con una certa
distrazione.
«Sai, devi essere forse la prima persona del
posto con cui parlo. Eccetto quelli dell’hotel, ovvio.»
«Sì?»
«Sì. Vivi lontano da questa zona?»
Fu tentato di dirle che in realtà aveva il
domicilio in un altro mondo, ma era un pensiero malvagio. Non era poi
un’interlocutrice così fastidiosa. «Non molto», rispose, girando il cucchiaio
nella tazza. «Qualche isolato.»
«E vieni qui spesso?»
«Ogni tanto.» Rettifica: era irritante subire
un interrogatorio. Così sollevò gli occhi e chiese, a bruciapelo: «Sei in
vacanza da sola?»
«Con papà e la sua compagna», disse lei. Dal
tono, era facile capire che la cosa non la entusiasmava. «Non si fida ancora a
lasciarmi viaggiare da sola. I miei diciotto anni non gli bastano.»
«Ce ne vuole, per accontentarli», se ne uscì
Alec, e solo dopo si rese conto di averlo detto. Dopo un attimo sollevò la
tazza e prese qualche sorso, forse nel tentativo di annegare l’argomento
insieme al latte e al caffè. Invano.
Monica sollevò le sopracciglia. «Come sono i
tuoi?»
Senza guardarla, lui si strinse nelle spalle
con atteggiamento blando e rimise la bevanda sul tavolino. «Vanno bene,
immagino», rispose, pensando a quando suo padre gli aveva chiesto perché era
diventato gay. «Né nero né bianco. Sono nella norma.»
Diede un’occhiata a Jace, e quello,
intercettando lo sguardo, sfilò le mani dalle tasche e sfarfallò le dita
nell’aria a mo’ di mulinello, corrugando la fronte in un invito a continuare, a
fare conversazione, per l’Angelo, a parlare, su, quanto ci metti, è così
difficile improvvisare?
«Perché Brooklyn?» domandò, voltandosi di
nuovo verso la ragazza. Era giunto alla conclusione che preferiva la sua faccia
a quella del parabatai. «Ci sono molti altri posti più belli di questo.»
«Scherzi, vero?» Monica scosse la testa e il
suo caschetto castano dondolò allegramente. «Questo posto è la fine del mondo!
Ci sono un sacco di cose da fare e da vedere; da dove vengo io non c’è molto.
Non è esattamente Miami Beach.»
«Dovresti venire sotto Natale. Organizzano un mucchio
di eventi.» Era vero? Clary aveva accennato a qualcosa in merito, qualche tempo
prima. Non aveva idea di cosa si organizzasse per le feste, né di cosa i
mondani fossero soliti combinare di norma per l’occasione.
«Troppo caos», si giustificò lei. «A te piace?»
«Cosa?»
«Il Natale.»
Stava riflettendo sulla risposta quando sentì
lo sbuffo di Jace. Spiò a sinistra, dove lo vide scoccargli uno sguardo
spazientito. Gesticolava furiosamente, gli occhi spalancati e decisamente
eloquenti, e bisbigliava qualcosa come “dai, dai!”, come se con quei gesti potesse cancellare del tutto quel
dialogo che quasi per certo riteneva mortalmente noioso o inutile.
Alec tornò a guardare Monica prima che lei
cominciasse a chiedersi cosa mai trovasse di interessante nel tavolo dall’altra
parte del corridoio. «No», rispose. Poi, vinto dall’irrefrenabile voglia di
convincere il parabatai a smetterla con quel tifo insensato e pressante: «Senti,
mi sono seduto qui perché sei quella più carina del bar. Non l’ho chiesto a te
solo per caso o per una qualche sdolcinata e idiota regola del destino. E poi
pensavo che ti andrebbe un caffè. Se poi posso darti il mio numero, ancora
meglio.» Pausa. «Non sono un maniaco, giuro.»
Sentì qualcosa schioccare, da qualche parte a
sinistra, e si rese conto che Jace si era sbattuto le mani in faccia. Quanto a
Monica, era ghiacciata sul posto.
Ogni tanto gli capitava di trovare del
coraggio. Gli capitava soprattutto con Magnus, che una volta gli aveva fatto
notare quanto le sue uscite improvvise cogliessero sempre tutti quanti di
sorpresa. Gli capitava di perdere la pazienza, di smettere di contare le
pecorelle o di fare qualsiasi altra cosa si facesse per mantenere un certo
margine di neutralità, e il risultato erano frasi chiare, nette, da “questo è quello che penso: o ti va bene, o
ti arrangi”. Era un atteggiamento piuttosto brusco ma giustificabile,
almeno dal punto di vista di uno che, come lui, riteneva potenzialmente
imbarazzante qualsiasi cosa. Se da una parte la gente si lamentava della sua
quasi abituale acidità e tendenza alla prudenza, dall’altra tutti quanti
avevano poi da dire quando lui decideva finalmente di, detto chiaro e tondo,
tirare fuori le palle, quasi non apprezzassero il modo in cui decideva di
accontentarli. Un po’ come Jace in quel momento, intento, lo sentiva di
sfuggita, a recitare qualche maledizione nei palmi delle mani. Era arrivato al
sodo, proprio come voleva, e non gli andava bene? E che diavolo.
C’era però il rovescio della medaglia. Quando
esauriva quella voglia di esporre un pensiero diretto, quando girava
improvvisamente le carte con un atteggiamento da fattelo bastare, addosso gli crollava la certezza di aver fatto o
detto qualcosa di sbagliato. Un po’ come quando era praticamente saltato
addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata
resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di
inciampare. In quel momento, seduto davanti a quella ragazza, la sensazione che
lo colse fu di un gelo che gli bucò lo stomaco.
Monica lo stava ancora fissando. Sembrava
essersi scordata del succo d’arancia o della piccola guida turistica su cui
ancora teneva la mano. Lo guardava, semplicemente, senza fare nulla, senza
rispondere, con le labbra leggermente socchiuse e il respiro inceppatosele in
gola.
Forse era il caso di parlare. Di fare marcia
indietro, di buttare lì qualcosa di meno, come dire, terroristico. Alec pensò
che forse avrebbe fatto meglio a chiedere a Jace se esistesse un modo giusto
per chiedere il numero ad una ragazza.
Stava per parlare, per balbettare una
qualsiasi cosa, quando una giovane donna si accostò al tavolo, sollevò la borsa
di Monica dalla sedia e si sedette con un sospiro.
«Tuo padre mi ha tenuta al telefono fino ad
adesso», sbuffò, passando la tracolla alla ragazza, che la accolse in grembo
con un certo impaccio. Poi guardò Alec, un angolo della bocca arricciato in una
virgola di curiosità, mentre si frugava nella borsetta – una di quelle grandi
come un pacchetto di sigarette, rifletté il Nephilim – per affondare il
telefono in un qualche antro irraggiungibile. Affiorò un sorriso, uno di quelli
deliziati. «Chi è il tuo nuovo amico, Mo?»
Era forse vicina ai trenta, a dir tanto. A
giudicare dall’espressione, dall’abbigliamento frivolo e ricercato e dalla
pelle ancora liscia, poteva avere sì e no ventisette, ventotto anni. Solo in un
secondo momento Alexander scorse qualcosa di innaturale attorno ai suoi occhi
chiari. Doveva trattarsi di una di quelle diavolerie mondane, lifting o
qualcosa di simile. E allora i conti tornavano e l’età della sconosciuta poteva
aggirarsi attorno ai trentacinque.
«Alec», rispose Monica, ma in tono ancora
distratto. Doveva essersi mentalmente fermato a quel “non sono un maniaco”.
Forse era stato il giuro ad aver
gettato un’ombra sinistra sul messaggio. «È di qui. Stavamo... chiacchierando.»
«Alec?» ripeté la donna. Non aveva ancora
messo da parte il sorriso. C’era qualcosa di civettuolo nel modo in cui lo
guardava. «È un nome singolare.»
«Alexander, a dire il vero», rispose il
Nephilim. Non seppe come, ma ci riuscì. Era affiorato a sua volta da quel
terribile momento di gelo che gli aveva preso lo stomaco.
«Io sono Bev. È un piacere.»
«Mamma... Beverly», si corresse la ragazza.
Sembrava quasi a disagio. Le diede uno sguardo e mosse la mano in un cenno
riassuntivo in direzione di Alec. «È la compagna di papà. Te ne ho parlato.»
«Sì, mi ricordo.»
C’era qualcosa di scomodo, ora. Il patto era
sedersi con una signora, non con due, e le cose peggioravano se la seconda
entrava in scena così, senza preavviso, prosciugandogli il palato e
rovesciandogli addosso l’imbarazzante sensazione che ci fossero dei secondi
fini nel modo in cui la nuova arrivata lo guardava e sorrideva. Trucchi medici
o meno, era comunque giovane per convivere con un uomo che probabilmente aveva
il doppio dei suoi anni. E questo diceva un mucchio di cose poco rassicuranti
sul suo conto.
Alec si umettò le labbra, un gesto rapido e
quasi impercettibile, mentre puntellava le mani sul bordo del tavolo e faceva
per scostare un poco la sedia all’indietro. «Io dovrei...»
Beverly tuffò la mano e gliela posò sul polso,
annullando ogni sua intenzione. E la circolazione. Anche quella. «No, resta,
resta ancora un poco», lo invitò, aprendo il sorriso in una grande espressione
da reginetta del ballo. «Vuoi qualcosa? Cielo, hai degli occhi meravigliosi,
sai? Devi ancora finire quella tazza o sbaglio? Posso offrirti un caffè, un
succo, un...»
«Ho delle cose da fare.» Scappare, in breve.
Eppure non mosse la mano, non tentò di togliersi di dosso le sue dita, se non
altro per paura di parere scortese. Vedeva Jace con la coda dell’occhio e aveva
notato che persino a lui la situazione non andava a genio. Forse a stonare era
il fatto che l’idea iniziale era rimorchiare e non essere rimorchiati, certo non dalla simbolica madre della ragazza
di partenza. Perché non ci stava forse spudoratamente provando? «Non posso
permettermi di fare tardi, davvero. È stato un...», e fu allora che gli suonò
il telefono.
Non ci pensò e affondò la mano nella tasca dei
jeans neri, sfilando l’apparecchio con un’agilità impacciata e precipitosa.
Quando vide che si trattava di un messaggio e che il messaggio era di Magnus,
gli giunse in soccorso la fantastica ipotesi che lo stregone avesse voluto
avvisarlo di un suo prossimo arrivo. Qualcosa come “Ho finito quello che avevo
da fare, arrivo!” o come “Dove siete? Adesso posso raggiungervi!”, sarebbe
stato a dir poco salvifico. E invece, quando aprì l’sms, lesse solo un
Da: Magnus
Spero stia
andando tutto alla grande, coccinella :3 Rendimi orgoglioso (il Presidente ha dato una
testata al cellulare; vuole che ti trasmetta il suo supporto)! Ci vediamo più
tardi
«Mamma e papà?» chiese Beverly.
Con un principio di panico, Alec colse il
movimento con cui la donna si allungò un poco in avanti come a sbirciare.
Chiuse l’sms e si rimise il telefono in tasca. «Solo il mio...» “Ragazzo”? «...amico»,
terminò, deviando in extremis.
«Quello che ti aspetta? È da lui che devi
andare così di corsa?»
«Da lui.» Si alzò, seguito dallo sguardo
adorante di Beverly e da quello perplesso di Monica.
«Senti» cominciò Bev, sempre sorridendo, «non
è che sei gay?»
Lo aveva chiesto nel tono più innocente del
mondo, ma forse fu proprio quella spontaneità a valere come una fucilata. Lui
la guardò, improvvisamente immobile, e Monica sgranò gli occhi voltandosi verso
la compagna di suo padre con la bocca spalancata in una O di incredulo
sgomento:
«Beverly!
Che razza...?»
«È solo una domanda, Mo, e non c’è nulla di
sbagliato!», si giustificò l’altra, lasciandosi sfuggire una risatina. «Voi
giovani siete così suscettibili sul
tema.»
Strisciò la parola suscettibili in un modo tanto melodrammatico da costare ad Alec un
brivido di orrore. «No», rispose, scrostandosi mentalmente di dosso il ghiaccio
che gli aveva puntellato la bocca. Un sì avrebbe reso la sfida non valida, e
non gli andava di rovinare tutta la fatica che aveva fatto per arrivare fino
alla fine. Per l’Angelo, no. «No, non lo sono.»
«Scusami, ma sai, di solito i più carini lo
sono sempre.»
«Beverly!»
«Oh, Mo, sei un disco rotto. Cioè, guardalo!
Non è carino?»
La situazione stava decisamente decollando.
Alec sfilò un fazzoletto dal portatovaglioli che c’era in mezzo al tavolo,
trovò una penna nella tasca del cappotto e scarabocchiò qualcosa.
«Quello è il tuo numero?» chiese la donna,
senza curarsi dell’imbarazzo che stava colorando la faccia della figliastra. «Il
tuo?»
«Se
ti va», biascicò il Nephilim, ma rivolto a
Monica. Poi si fermò, sbirciò Jace, che premeva le labbra
nel tentativo di non
ridere, e fece una considerazione interessante. C’era una cosa su
cui in
effetti non aveva giurato. Aggiunse così un’altra riga di
numeri e passò il
tovagliolo alla ragazza, che si limitò a guardarlo con, negli
occhi, una
vergogna quasi fisica. «Il primo è il mio numero»,
le spiegò, preparandosi alla bugia che sarebbe seguita.
«Cioè, anche il
secondo. Ne ho due.»
«Due!» Beverly. In tono estasiato.
«Uso di più il secondo...»
«Il secondo.» Sempre Beverly, stavolta attenta
e concentrata.
«...a dire il vero. Se vuoi, ripeto.»
Aveva una voglia matta di tirarsi via da quel
teatrino. Le cose erano precipitate troppo in fretta. Sperava, data l’emozionata e fraterna partecipazione di Jace – era ancora seduto sul tavolo, ora
vuoto, e cercava in tutti i modi di non scoppiare a ridere -, che Monica gli
avrebbe scritto, ma sul secondo numero che le aveva dato. O anche Beverly. Una
delle due, insomma. Ovviamente non aveva due telefoni.
La ragazza prese il tovagliolo e mosse le
labbra in un silenzioso “scusa”. Era chiaro che l’atteggiamento della compagna
del padre l’aveva seppellita sotto metri e metri di imbarazzo. Lui abbozzò un
sorriso, un modo per dirle di non preoccuparsi, e questa volta lo fece con una
certa sincerità. Monica era simpatica, dopotutto; aveva la faccia di una buona
amica. Allora non tutti i mondani erano insopportabili. Le avrebbe volentieri
detto che sapeva bene cosa si provava ad essere messi in imbarazzo dai
genitori, ma archiviò la frase semplicemente perché aveva più voglia di levarsi
di torno.
«Allora... vado», annunciò, rimettendo la
penna a posto. «Buona vacanza.»
«Grazie», rispose Monica. Sorrideva, complice
il silenzioso scambio di battute di poco prima. «Buon qualsiasi-cosa-tu-debba-fare.»
Beverly alzò la mano in uno sventolio. «Ciao, Alec.» E lo disse con una certa
inflessione, nella voce, un’inflessione da leggi
tra le righe e capirai.
Tempo di girare i tacchi. Di corsa.
* * *
«Il
caffè», disse Jace.
«Cosa?»
«Non le hai offerto il caffè.»
Alec si arrestò di botto in mezzo alla
scorciatoia che stavano percorrendo e si voltò, l’espressione sorpresa e
indignata. Era chissà come riuscito a non arrossire là dentro, ma stava
recuperando alla grande ora che erano fuori, quasi una reazione tardiva. Pallini
rossi gli erano fioriti sulle guance e un’oscena sensazione di calore gli aveva
preso la punta delle orecchie e la fronte. In confronto, il freddo di quella
mattinata newyorkese era rigido come quello della Groenlandia. «Una tizia di
trent’anni e più ha tentato di provarci con me e tu pensi al caffè che non ho offerto?»
Jace, piantato lì di fronte, forzò una certa
serietà. Non ci riuscì e in faccia gli si allungò, sincero ed esaltato, un gran
sorriso. «È stato uno spettacolo, Alec. Uno spettacolo.»
«Non mi interessa. Scusa, ma l’hai vista?
L’hai vista bene? Quella donna era una pervertita!»
«Parli come se fosse colpa mia.»
«Potrei persino credere che l’abbia ingaggiata
tu.»
«Cosa impossibile, lo sai. Sei stato solo
sfortunato. Con le donne, in fondo, non ti è mai andata alla grande.»
Alec si bevve l’ironia. Rimase a guardarlo per
un lungo istante, la bocca semiaperta in un’espressione di sdegno. Poi, chiaro
e netto: «Allora ti stai divertendo. Ammetti che l’idea di questa giornata ti
piace.»
«Diciamo che ha i suoi vantaggi», si
giustificò Jace, in tono vago e allusivo. «Le tue espressioni sono impagabili.»
«Non sai quanto mi piacciono le tue», lo
rimbeccò l’altro, poi si voltò e riprese a camminare a passo svelto.
«Adesso dove andiamo?»
«Istituto.»
«Istituto?» Il parabatai gli stava alle
costole. «Hai bisogno di una pausa? Sei così traumatizzato?»
Nessuna risposta. Forse era un’affermazione.
«Scrivo a Magnus?» insistette Jace, armandosi
di cellulare. O meglio, cercandolo. Si frugò per qualche secondo nel giubbotto
prima di uscirsene con un: «Merda, l’ho scordato.»
«Era ora che te ne accorgessi. A lui scriviamo
dopo», rispose Alec. C’era un piccolo sorriso sulle sue labbra, un principio di
soddisfazione. Se sul tovagliolo aveva messo quel secondo numero di telefono quando
già si era accorto che il parabatai aveva dimenticato il cellulare all’Istituto,
un motivo c’era. «Mi serve per quel che ho in mente.»
«Cosa?»
«Magnus. Per il tuo turno.»
«Non puoi continuare ad avvalerti di lui per
vendicarti su di me. è un alleato
potente.»
«Io non ti ho vietato di ingaggiare Izzy, mi
sembra.»
«Già.»
«Appunto. Già.»
«Hai ragione, Alec. Non ci avevo pensato.»
Silenzio. E Alec, cogliendo il momento: «Ma
non pensarci adesso. Pensa solo a camminare; voglio allontanarmi da quel bar il
più in fretta possibile.»
Jace sollevò le sopracciglia. «Però era carina
anche lei. La mamma, dico.»
«Jace.»
«Certo immaginarla insieme ad uno che potrebbe
avere anche cinquant’anni...»
«Jace.»
«Okay, la smetto.» Una pausa, poi: «Ti
conviene sbollire l’imbarazzo prima di arrivare all’Istituto. Non vorrai che i
tuoi ti facciano un interrogatorio, vero?»
Oh, Raziel, perché?
Gente. Oh,
gente. Giugno mi è saltato addosso come un Raziel decisamente
inca**ato, mi ha piantato le mani sulle guance, mi ha fissato e mi ha
detto, sillabando tutto quanto: "Ti succhierò il tempo libero
dall'agenda come sangue dalle vene". In effetti, lo ha fatto.
Ho
avuto un sacco di cose da fare e a cui pensare. Sono mortificata per
avervi fatto aspettare così a lungo per un aggiornamento; sono
impegnata, 'kay, ma prima o poi il capitolo successivo arriva sempre.
Voglio che lo sappiate, nel caso in cui dovessi impiegare ancora due
settimane tonde per pubblicare. Non vi abbandono *Momento Harmony*
Cestinato
questo momento insopportabilmente sdolcinato (?), mi sono divertita a
mettere Alec nel panico. Ci sono cose che di lui preferisco, e una di
queste è la sua tendenza a entrare in paranoia di fronte a sfide
apparentemente semplici. Di fronte a cose etero, per mettere le cose in
chiaro. Insomma, questo ragazzo ammazza demoni, è un arciere dal
talento infernale, ha un equilibro e una grazia invidiabili, fa a botte
quando deve... ma mi entra in terapia intensiva davanti alle ragazze.
Ammettiamolo: è adorabile anche e soprattutto per questo.
Ho accennato ad un momento raccontato, se non sbaglio, nelle Cronache. Mi riferisco a quel "Un po’ come quando era praticamente saltato
addosso a Magnus per la prima volta, salvo poi tradurre una sua abbozzata
resistenza come un divieto e alzarsi dal divano tanto in fretta da rischiare di
inciampare".
Momento epico per noi fan della Malec, vero? Quando lessi quel
passaggio per la prima volta rimasi estasiata (?) dal coraggio che Alec
a volte riesce a tirar fuori. Cioè, se vuole una cosa e non
riesce a pensare ad altro, la fa, punto e basta. Una ragione in
più per amarlo.
...Sì, Jace, ma tanto sai bene che non ti considero mai se c'è in giro Alexander. Abituati.
Detto (o scritto?) ciò, passo e chiudo - vi ringrazio, as usual,
e stavolta ci aggiungo un "grazie" extra per la pazienza. Mi
perdonerete qualche possibile errore di battitura in giro, ma ora come
ora sono strafatta e non avrei le forze per rileggere tutto con la
dovuta calma; insomma, qui piove, l'aria è mogia, triste. Non
ispira voglia di vivere (?) Se vorrete picchiarmi o punirmi in qualche
doloroso modo per via del ritardo dell'aggiornamento, fatelo pure - mi
sono già riempita di rune del Pentimento per evenienza <3
Dew_
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Capitolo 4 *** Fuga d'amore (e fabbrica di gelato) ***
4. Fuga d'amore e fabbrica di gelato
4. Fuga d'amore ( e fabbrica di gelato )
Sulle prime trovarono solo Church. Il gatto,
che doveva aver colto lo sferragliare dell’ascensore in arrivo, si era
appostato in mezzo al corridoio con la piumosa coda grigia avvolta sulle zampe.
I suoi occhi grandi come monete li osservarono con autorità, quasi a voler loro
chiedere dove diavolo fossero stati. Sembrava che volesse ottenere
un’ammissione di colpa o una motivazione abbastanza convincente da scagionarli.
Jace, incrociando le sue pupille, gli rovesciò
addosso un cipiglio irritato mentre chiudeva dietro di sé le porte
dell’ascensore. «Da quando l’animale domestico ci guarda come se fosse lui il
padrone di casa?»
«Da sempre», fu la svelta risposta di Alec. Non
si attardò e tirò dritto, limitandosi ad evitare il gatto. Quanto al parabatai,
lontano dall’accontentarsi di quel genere di spiccia indifferenza, rivolse una
smorfia a Church e lo scavalcò con un lungo passo, prendendosi così la sua
fetta di vittoria.
«Avremmo dovuto insegnargli a non sostare in
mezzo al corridoio.»
«Se il dettaglio ti urta così tanto, Jace, prova
a spiegarglielo.»
«Eri serio quando hai detto che chiamerai
ancora Magnus in causa?»
«Serissimo.» Alec svoltò nel corridoio che
proseguiva verso l’ala delle camere da letto. Nella sua camminata c’era una
fretta non indifferente. «Verrà a prenderti tra mezz’ora.»
«“Prenderti”?»
«Non verrò con voi.»
Parole rapide come schiaffi. Jace lo afferrò
per il braccio e lo strattonò il necessario per costringerlo a fermarsi e a
voltarsi. Il suo sguardo scoppiettava di incredulità mista a confusione. «Tu non verrai?»
Alexander capì che l’altro non era consapevole
dell’espressione che gli si era piantata in faccia. Mentalmente, e non senza
una vena di sadismo, la incorniciò e l’appese nella sua personalissima galleria
dedicata alle reazioni più spassose del suo parabatai. «No», dichiarò, ma dopo
qualche momento. «Non stavolta. Non posso.»
«Non provarci, Alec. Non se ne parla. Avevamo
deciso che avremmo fatto questa cosa assieme.»
«Non è una cosa che dipende da me. Forse.
Cioè, dipende da me, ma non posso farci niente.»
«Cosa? Ma perché non sai mai spiegarti?»
«Ti dirà tutto Magnus. Davvero, non credo di
volerci essere.»
Ci fu una leggera inflessione, nella sua voce,
che a Jace non piacque. Era stata una sfumatura quasi invisibile, uno
scricchiolio tanto veloce da poter passare inosservato, ma lui lo colse comunque.
Quello che si era infilato fra il non
e il credo di Alec era stato un
inciampo da voglio evitarmi lo spettacolo.
Il biondo allentò la stretta sul suo braccio e
lo guardò con la bocca appena schiusa in un gesto di teatrale sgomento. Non che
avesse paura dell’immediato futuro, questo no, eppure realizzò un indesiderato
sentimento di allerta, qualcosa che azionò il suo sempre vigile istinto di
sopravvivenza, fisica o morale che fosse. Perché di mezzo c’era Magnus e se
Alec se ne tirava fuori, allora l’idea era solo dello stregone. E se era solo farina
tirata fuori dal suo psichedelico e poco sano sacco delle meraviglie...
«Alexander Gideon Lightwood», pronunciò, molto
lentamente, «adesso mi devi spiegare cosa...»
«Tu
devi spiegarmi qualcosa, Jace», lo interruppe la voce di Clary. Improvvisa, del
tutto inaspettata.
I due alzarono gli occhi lungo il corridoio e
la videro, la camminata rapida e il braccio teso in avanti a mostrare quel che
reggeva in mano. Sembrava che, più che volerlo esibire a loro, sarebbe stata in
grado di piantarlo sotto agli occhi del mondo.
Dopo un momento di mutismo, Jace riconobbe
quel che la ragazza allungava. Il suo telefono. «Eccolo, il bastardo», disse, e
lasciò il braccio di Alec per fare un passo in avanti, verso di lei. «Ti giuro,
credevo di averlo portato con me. Mi sono accorto di averlo dimenticato qui
solo quando...»
Clary, piantata ora di fronte a loro e colto
il gesto con cui lui fece per prendere il cellulare, allontanò bruscamente la
mano. «Non te lo sto porgendo. Hai frainteso. Voglio delle spiegazioni.»
«Ovvero devo spiegarti perché ho scordato il
telefono? L’aria dell’Istituto ti fa così male?»
«Smetti di fare lo spiritoso e dimmi da dove
salta fuori questo messaggio.»
Sollevò di nuovo il telefono, imperiosamente. Sullo
schermo tirato a lucido era aperto un sms, scritto nei caratteri standard della
messaggistica mondana. Alec, che mise a fuoco prima di Jace, ebbe un singulto.
Sei tanto interessante, sai? Monica è troppo
timida per riconoscere gli ottimi partiti. Quando ci rivediamo?
Bev
«Bev? Sta per Beverly?» insistette Clary, le
sopracciglia chiare sollevate in una domanda sarcastica. «Sai che le peggiori
di solito hanno proprio questo nome?»
Jace rimase zitto per un lungo momento. I suoi
occhi si erano piantati su quel nome con una certa intensità prima di passare
all’emoticon sbarazzina che concludeva il testo. Quella faccina sorridente, con
tanto di occhiolino, sembrava promettere più di un rivedersi. E il silenzio
improvviso e teso che era cascato alle sue spalle come un peso di piombo lo
fece riflettere. Il silenzio del suo parabatai.
«Non posso crederci», se ne uscì alla fine, e
girò lo sguardo su Alec, che sembrava non muovere nemmeno i polmoni. «È opera
tua! Ti avevo chiesto di darle il tuo numero. Me l’avevi giurato, l’avevi
giurato sull’Angelo!»
«Il mio numero l’ho dato», spiegò l’altro in
tono inaspettatamente calmo. «Gliene ho lasciato anche un secondo.»
«Il mio? Aspetta, hai dato il mio numero a quella psicopatica?»
«Alla ragazza. E poi non me l’hai vietato, mi
pare. Non rispondo delle azioni della matrigna.»
Jace lo fissò a bocca aperta, poi tornò con
gli occhi su Clary, che aveva assistito senza battere ciglio. «Va bene, ci
provo.»
«A fare cosa?» chiese la ragazza. Non aveva
ancora abbassato il telefono, come se lasciarglielo davanti agli occhi
equivalesse all’inquietante e bianca luce di una lampada per gli interrogatori.
«A spiegarti. Avrei preferito che a saperlo
fossero solo Izzy e Magnus. Sono gay. No, aspetta», si corresse. «L’ho detto
male. Solo per oggi. Abbiamo... Io e Alec ci siamo prestati le scarpe a
vicenda, per così dire.»
Clary lo guardò come se gli avesse appena
visto fiorire dell’edera in testa. «Cioè?»
«Un esperimento sociale», disse Jace, benché
si stesse sentendo insopportabilmente stupido.
«Un modo elegante per dire che state facendo
un’idiozia. Credevo che dopo Edom foste almeno un poco maturati.»
«È come dice», s’intromise Alec. Non si era
ancora mosso e, dall’espressione frenetica che gli aveva acceso il volto, si
sarebbe detto ansioso di fondersi con la parete giusto dietro. «Stiamo cercando
di cambiare il modo in cui vediamo la sessualità dell’altro.»
La ragazza gli indirizzò la stessa occhiata
scettica che aveva dedicato all’altro. Aveva abbassato il braccio, ma tutto
nella sua postura lasciava intendere quanto ancora fosse poco propensa a
riconsegnare il telefono al legittimo proprietario. «Okay», disse, anche se con
una convinzione decisamente ironica. «È stata un’idea di Magnus.»
«Mia, a dire il vero.» Isabelle svoltò
l’angolo mentre ancora si abbottonava con metodo il corsetto nero. I tacchi che
aveva ai piedi, più che scarpe, erano fiordi norvegesi. «Clary, mi aiuti con la
collana?»
Clary aspettò che Izzy li raggiungesse. Stava
studiando il suo abbigliamento, i lunghi pantaloni scuri e la giacchetta aperta
tagliata ai fianchi, e dedusse, con la semplicità con cui si fa un due più due,
che era sul punto di uscire. Mollò il telefono a Jace, piantandoglielo in petto
tanto improvvisamente da costringerlo ad un sussulto mentre pescava il
cellulare alla bell’e meglio – sì, gli occhi gli erano cascati sul vestiario
poco cristiano della sorella -, quindi prese la collana che Isabelle le stava
porgendo. «Dove vai?»
«Izzy», disse Jace, osservandola con occhi
critico, «ti voglio annunciare che non è ancora sera. Sono solo le dieci del
mattino, nel caso non te ne fossi accorta.»
Lei gli rovesciò addosso uno sguardo mentre
Clary le girava alle spalle e le agganciava il ciondolo al collo. «Ti seguo. Mi
ha scritto Magnus; ci aspetta a due isolati tra quindici minuti.»
«Tu con me?»
«Alec resta all’Istituto con Clary. Non
possiamo lasciare questo posto incustodito, lo sai meglio di me. Così sì, vengo
io con te.»
Jace guardò il parabatai come se potesse
infilargli un piccone in mezzo alla fronte. «Sei sadico.»
«È la regola dell’esclusione», si giustificò
l’altro. «Serve un testimone, dato che io non ho intenzione di assistere.»
«Dai, muoviti.» Isabelle arraffò il biondo per
un braccio e se lo tirò dietro il necessario perché lui cominciasse a camminare
di sua spontanea volontà. Poi, gettandosi un gesto alle spalle: «Torneremo per
il pranzo!»
«Allora tu hai il tempo di spiegarmi cosa sta
succedendo», disse Clary, ma rivolta ad Alec. La differenza di altezza quasi
biblica che li separava non riusciva a minimizzare l’espressione risoluta che
lei gli scagliò addosso. «La storia di quell’sms, soprattutto.»
Lui trasse un sospiro, quasi un mugolio
decisamente poco disposto, e lanciò uno sguardo a Izzy e Jace, che scomparivano
in quel momento dietro l’angolo. Il corridoio, per quanto lungo, consegnava
ugualmente l’eco delle lamentele pungenti del suo parabatai e le risposte per
le rime della sorella. «Va bene», disse alla fine, tornando a guardare Clary. «Deduco
di non avere scelta.»
* * *
Magnus li aspettava di fronte all’edicola. La
giacchetta azzurra che indossava, complici le spalline imbottite e volutamente
esagerate, bastava a fare di lui il protagonista indiscusso del marciapiede. Se
ne stava appoggiato ad un lampione, gli occhi camuffati da un incantesimo e
puntati verso le riviste esposte su un lato del chiosco. Dalla sua espressione
critica e dal leggero arricciarsi delle labbra, quasi una smorfia trattenuta a
stento, Jace concluse che quasi per certo stava mentalmente criticando le
letture mondane.
Rendersi visibili al mondo intero era una
scocciatura sotto molti punti di vista. A Isabelle, che gli camminava accanto a
passo spedito, le occhiate dei passanti sembravano fare solo piacere, per
quanto si trattasse di quel genere di soddisfazione leggera e disinvolta,
tipica insomma di una bella ragazza consapevole dei pensieri che passano in testa
agli uomini. Abituata agli sguardi altrui, proseguiva fiera per la sua strada
mordendo il marciapiede con i tacchi. Quanto a Jace, non si negava certo
l’attenzione delle ragazze che lo sbirciavano – stare sotto ai riflettori,
diavolo, gli piaceva -, ma a distrarlo da quella bella sensazione c’era il
pensiero, fastidioso e pressante come un tappo ermetico, di quel che Magnus
aveva in serbo per lui. Pensò ad Alec, che si era quasi per certo chiuso in
camera a leggere o a sonnecchiare; decise che lo avrebbe preferito ad Izzy, e
questo perché aveva il bellissimo pregio di imbarazzarsi prima di chiunque
altro. Era un vantaggio grazie a cui Jace aveva sempre avuto la possibilità di
passare per lo spaccone di turno. Il disagio del suo parabatai era, ecco, un
incentivo, una scorciatoia con cui poter urlare al mondo divertitevi con lui, non con me. Se era un pensiero malvagio? Perché
non era forse stato crudele ricevere il messaggio della psicopatica e sorbirsi
le punture di Clary per colpa sua?
«Ricordate la runa del Ballo?» esordì Magnus
quando li vide arrivare. Si spinse via dal lampione e andò loro incontro,
fermandosi davanti ai due. «Fate in modo di inventarvi anche quella della Puntualità.
Avete dieci minuti di ritardo.»
«Come vorresti che funzionasse?» lo rimbeccò
Jace. «Ti teletrasporta sul luogo allo scadere del tempo limite?»
«A dire il vero pensavo all’elettroshock. Una
scarica per ogni minuto che passa.»
«Come quelle con cui ti sei pettinato?»
Lo stregone lo fulminò con un cipiglio. In
qualche modo, per colpa della linea di glitter che gli illuminava le
sopracciglia scure, la sua espressione risultò più buffa che spazientita. «È
alta moda. Non pretendo che tu capisca, putto.»
Il Nephilim reagì come qualcuno gli avesse
girato la faccia con uno schiaffo. Stava per aprire bocca, e non per parlare di
un trattato di pace, quando Isabelle si precipitò a precederlo:
«Tolta questa parentesi, dove vogliamo andare?»
«Il mio amico edicolante mi ha consigliato un
ottimo posto», rispose Magnus. Pareva ringalluzzito, tanto che le sue labbra si
allungarono in un gran sorriso da venditore di zucchero filato. Allungò il
braccio verso l’edicola e mosse qualche passo per avvicinarsi al chiosco,
inquadrando con quel gesto l’ometto che se ne stava in piedi dietro al ripiano.
Questi, più per riflesso che altro, sfoderò un sorrisetto. «Al, ti presento Kate
e Jerome, le persone che aspettavo. Ora posso togliere il disturbo.»
«Jerome?»
starnazzò Jace. I suoi occhi passarono dall’edicolante allo stregone con la
velocità di due frecce infuocate. «Si può sapere che cosa...?»
Muovendosi velocemente, Magnus allungò il
braccio il necessario per afferrare il suo, per poi accostarsi a lui. «Cos’è,
non ti va bene? Ma a voi Nephilim non va mai bene niente?»
«Per quale dannato motivo ci hai dato nomi
falsi? E poi Jerome; non chiamerei
così neanche un gatto. Se proprio volevi tentare qualcosa con la J, avresti
potuto sforzarti.»
«Oh, che seccatura.» Lo stregone mollò la
presa e parlò stretto stretto, gettando nel contempo un’occhiata
all’edicolante, che cominciava ad allungare il collo. «Siete voi quelli fissati
con la segretezza, e avete anche da ridire. Mai una volta che vi accontentiate.»
Poi tornò a guardare Al, sfilando dal nulla un gran sorriso: «Strada a
sinistra, tre isolati e poi strada a destra, avevi detto?»
«Affermativo, Atahualpa», rispose l’uomo. «Ricordati
l’incrocio.»
«È tutto nella mia meravigliosa mente. Andiamo»,
aggiunse subito dopo, e infilò di nuovo il marciapiede costringendo Izzy e Jace
ad un inseguimento serrato.
«“Atahualpa”?» chiese il Nephilim, le mani
nelle tasche e gli occhi fuggita a incrociare un’ultima volta il viso allegro
dell’edicolante. «Ti prego, dimmi che non ti sei fatto passare con quel nome.»
«Atahualpa è stato l’ultimo imperatore inca.»
Magnus aveva assunto un tono da maestro paziente e baciato dalla luce
dell’elevazione spirituale. «Perù, hai presente? Ancora una volta non mi
stupisco della tua ignoranza. Purtroppo non l’ho conosciuto; in quegli anni ero
altrove, forse a Firenze a godermi il Rinascimento.»
«E il mondano ci ha creduto? Cioè, crede sul
serio che qualcuno possa portare quel nome senza avvertire la voglia di fare
una visitare all’anagrafe o tentare un giustificato suicidio?»
«Niente scherzi. È un nome importante.»
«Allora dove si va? Cosa ti ha consigliato il
nostro amico edicolante?»
Camminavano controcorrente. Erano un gruppo
insolito persino per le vie dell’eccentrica Brooklyn e ogni volta che passavano
di fronte alle vetrine, queste riflettevano due ragazzi e una ragazza che
filavano svelti schivando mondani dall’espressione quasi sempre indaffarata. Se
qualcuno avesse avuto occhio, e si parla dell’occhio della mente, l’occhio che
legge qualsiasi cosa sotto qualsiasi luce, avrebbe capito che quei tre
sembravano troppo indifferenti alla comune atmosfera di quotidianità che
animava la città.
Magnus arricciò le labbra e parve pensare per
un lungo istante. Poi, quasi assaggiando le parole in bocca: «Oggi voglio
portare il mio ragazzo a fare shopping, perché mi sono stancato del suo noioso
nero pipistrello.»
«Alec non è qui, se hai notato. Credevo ti
avesse avvisato che non ci raggiungerà.»
«Non ho fatto il suo nome.»
Jace impiegò un decina di secondi. La mente
gli aveva giocato un conto meccanico, sistemando il nome del suo parabatai e la
parola ragazzo in un unico campo
semantico. Perché Alec era a tutti gli effetti il ragazzo di Magnus, e la
proposizione sarebbe stata vera al cento per cento se quello fosse stato un
giorno come tutti gli altri. Ma non era un giorno come altri, non quando ai
piedi portava almeno metaforicamente scarpe un po’ più grandi, graffiate ai
lati, quasi di certo con le stringhe in procinto di slacciarsi. Le scarpe di
Alec, per l’appunto.
Si arrestò in mezzo al marciapiede così di
colpo che Izzy e Magnus lo distanziarono di qualche passo prima di accorgersene
e fermarsi a loro volta. Lo guardarono con un misto di aspettativa e impazienza.
«Ti prego, non svenire», disse Magnus, con
blanda nonchalance. «Se devi farlo, mira al marciapiede. Giù del gradino c’è la
strada e sulla strada passa il tram; non mi va di riattaccarti la testa se per
caso dovesse passare mentre tu sei riverso con il collo sulle rotaie.»
«Non puoi essere serio», se ne uscì Jace. E
non parlava del tram. «Tu non puoi
essere serio.»
«L’idea non è stata di Alec, giusto per la
cronaca», osservò Izzy. «E neanche mia. È stata sua.»
«Mia. Non puoi davvero credere di trascorrere
la tua giornata da gay senza sapere che effetto fa il giudizio degli altri su
di te», spiegò lo stregone. «Una delle cose più complicate è riuscire a
convivere con le occhiate dei più diffidenti. È tutto troppo facile finché sei
in un locale come quello della scorsa notte. Quindi sì, per qualche ora sarai
il mio ragazzo. La vera sfida è alla luce del sole. Tra la gente, sui
marciapiedi. Anche se, lo ammetto, detta così suona male.»
Jace lo guardò per degli istanti. Sembrava che
stesse osservando un idrante addobbato per Natale. «Adesso torno all’Istituto»,
dichiarò.
«Non fare i capricci. Oh, accidenti.» Isabelle
macinò la distanza fra loro e lo afferrò per il gomito, tirandoselo poi dietro
in una camminata svelta. «Magnus, io ti avevo avvisato. Poi non venire a dirmi
che pensavi che sarebbe stato più semplice.»
Quello aspettò che la ragazza gli passasse
oltre con Jace al seguito prima di andar loro dietro. «Peccato, mi ero già
preparato la frase. Tranquillo, putto, non ho intenzione di baciarti.»
«Se lo fai ti strappo le labbra», ruminò Jace.
Si scrollò di dosso la mano di Izzy. «So camminare anche da solo.»
«Dammi almeno la mano.»
«Ti prego, no.»
«Sei un fidanzato crudele. Non credevo che
potessi farmi questo. Mi tradisci?»
«Magnus», masticò Jace, mentre tentava in
tutti i modi di negare a se stesso l’incipit di imbarazzo che gli stava
montando sottopelle. «Magnus, cuciti la bocca e muoviamoci.»
* * *
Sperava che si sarebbero persi. Forse le
informazioni dell’amico edicolante si sarebbero rivelate semplici buchi
nell’acqua, e allora sarebbero stati costretti a fermarsi, riguardare la
situazione e decidere per un’altra iniziativa. Purtroppo per Jace non accadde.
L’unica difficoltà fu trovare la strada che svoltava
a destra, perché nessuno aveva detto loro che, più che una via, era un vicolo
incastrato tra due palazzi. Era stato quello il momento in cui il Nephilim
aveva creduto che la cosa si sarebbe risolta con un nulla di fatto e che
Isabelle avrebbe dichiarato l’annullamento di quell’enorme idiozia – Magnus era
oggettivamente un bell’uomo, con il problema che farsi passare per il suo
ragazzo non sarebbe comunque mai rientrato nella sua lista dei desideri -, e
invece lo stregone si era guardato attorno, aveva ripercorso il marciapiede
simile nell’atteggiamento ad un cane da tartufo e aveva scovato la viuzza di
cui l’edicolante aveva parlato.
E cane
da tartufo era l’espressione corretta se si tiene in conto che quel che
stavano cercando era una boutique d’abbigliamento. Non era tra le più
sofisticate e conosciute, ma il lavoro di sartoria, come spiegò Magnus mentre
infilavano la stradina, era uno dei migliori di tutta New York.
«È da tanto che volevo visitarla, anche se non
sapevo dove fosse», aggiunse mentre si dirigevano all’ingresso a due porte. «Girare
da solo per negozi non è divertente. Alec non mi vuole mai accompagnare.»
«Nessuno ti vorrebbe accompagnare, credo»,
borbottò Jace, alzando un’occhiata scettica all’insegna della boutique. «Soprattutto
quando si parla di shopping. Io stesso mi sento un ostaggio.»
«Perché il sentimento fra noi è tanto forte da
far invidia alla sindrome di Stoccolma.»
«Non penso che la ragione sia questa.»
Izzy entrò per prima, portandosi dietro il
rumore dei tacchi sul lucido marmo del negozio. La temperatura era gradevole,
piacevolmente viziata in confronto al fresco dell’esterno. Nell’aria aleggiava
un vago ma riconoscibilissimo sentore di lavanda mista ad ovatta, una fragranza
che si sposava alla perfezione con le tonalità pastello delle pareti. Un’ampia
scala saliva ad un pianerottolo su cui si poteva indovinare una fila di
camerini; quanto al resto, gli abiti erano presumibilmente esposti in un
secondo spazio, un suggerimento che Isabelle colse quando notò un breve
corridoio di specchi che scappava sotto alla scala.
«Puoi chiudere fuori il tuo sarcasmo?» stava
nel frattempo rispondendo Magnus, nel tono permaloso di chi subisce un torto
irreparabile. «Vorrei godermi la vacanza.»
«Vacanza? Tu sei sempre in vacanza.»
«Non quando sono a Washington a mandare avanti
la nostra attività.»
A quel punto Jace lo guardò con un’espressione
che esprimeva al contempo incredulità, confusione e una generosa dose di
disgusto. «Cosa? Si può sapere che stai dicendo?»
«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dai tuoi
genitori. Non saremmo mai dovuti scappare insieme per aprire la fabbrica di
gelato per cui abbiamo tanto risparmiato.» Lo stregone sbirciò la commessa, che
si era lasciata il bancone alle spalle e li stava raggiungendo, e fu colto
dalla splendida idea di improvvisare un sorriso e dire, in tono dispiaciuto e
imbarazzo: «Mi scuso per la chiassosa entrata, signorina. Cose nostre.»
Lei scosse il capo mentre la sua mano coronata
da unghie smaltate di verde si muoveva in un gesto di benevolenza. Qualcosa
nella sua espressione, forse la leggera vena di divertimento che le arricciava
le labbra, lasciò capire a Jace che doveva aver sentito le parole di Magnus. «Nessun
problema», li accolse. «Come posso aiutarvi?»
«Stavamo cercando...», cominciò lo stregone,
ma poi si fermò e riavvolse il nastro. «Qualcosa di blu. Per lui.»
Indicò Jace, sollevando un angolo della bocca in un sorrisino per poter
concludere, in un tono quasi di confidenza: «Niente di troppo appariscente,
però. Non mi va che altri gli mettano gli occhi addosso.»
«Certo.» La giovane donna ricambiò quel
leggero arcuarsi delle labbra. «Ho capito.»
E fu allora che il Nephilim lo vide. Vide
quello sguardo, la rapida sbirciata della commessa, il modo in cui sembrò per
un istante incasellarli entrambi in una cornice immaginaria. In faccia le passò
una limpida e chiara realizzazione, tanto che Jace se la sentì addosso come
colla vinilica. Allora stanno assieme,
era stato il significato di quell’espressione. Oh, ma dai? Che teneri.
Alec gli diceva spesso quant’era facile capire
cosa pensava la gente, ma aveva colto il reale senso delle sue parole solo in
quel momento, di fronte a quella donna. Era come se esistesse una differenza
matematica fra il guardare una coppia etero e il guardare una coppia gay, una
legge immutabile e istintiva che convinceva le persone a cambiare atteggiamento
a seconda della sessualità dell’interlocutore. Potevi star certo che quasi
nessuno sarebbe stato troppo interessato agli affari tuoi se cercavi il sesso
opposto, e allo stesso modo non potevi invece esserlo quando a destare il tuo
interesse era il tuo stesso genere. Sembrava un comandamento dell’universo.
Se Dio aveva creato gli uomini, allora doveva essere stato sempre lui a dire: “Ecco, figli miei; osservate apertamente gli
etero, ma limitatevi a spiare i gay”. Il pensiero, neanche a dirlo, non gli
piacque. Nemmeno lo divertì, per quanto fosse profondamente ironico.
Magnus si era nel frattempo mosso insieme alla
commessa verso il breve corridoio di specchi. Jace se ne accorse solo quando
Izzy gli diede uno schiaffo sul gomito.
«Stai giocando al bel bambolotto di
porcellana?» gli chiese. Evidentemente doveva aver colto il suo improvviso e
inedito silenzio di riflessione. «Avanti.»
«Ma l’hai vista?»
«Cosa?»
«Lei. Il modo in cui mi ha guardato.» Camminavano
a qualche passo di distanza dallo stregone e dalla donna, ma non abbastanza da
convincere Jace ad alzare la voce. Mormorava. O meglio, borbottava. E sbirciava la commessa come se avesse potuto
inchiodarle un giavellotto fra le scapole. «Non l’hai notato?»
«Vedo che la giornata sta cominciando a dare i
suoi frutti», dichiarò Isabelle. Poi non aggiunse altro e allungò il
passo, costringendo il ragazzo a fare altrettanto.
«Il problema è che di recente la moda è solo un
affare di denaro», stava dicendo Magnus, gesticolando ampiamente. «Ma lei ha
idea delle vere e proprie guerre che gli stilisti si dichiarano? Una volta ci
si vestiva senza tutte le pretese che ci sono oggi.»
«“Una volta” quando, per la precisione?» La
commessa, che procedeva lì accanto, si era lasciata scappare una risatina. «La
moda è denaro.»
«Nel Quattrocento era più una questione di
buongusto, ad esempio.»
«Difficilmente qualcuno in carne ed ossa potrebbe
testimoniarcelo.»
Lui le fece un sorrisetto sornione, quasi
l’arricciarsi dei baffi di un gatto. «Oh. Vero. Me ne dimentico spesso.
Preferisci il blu notte o il blu elettrico?» chiese poi, girando uno sguardo
su Jace. «Promettimi che non guarderai il cartellino. Pago io: voglio che sia
un regalo, quindi non sbirciare il prezzo.»
«Nessun rischio, credimi», disse il Nephilim,
ma a voce così bassa da rischiare di non essere udito da nessuno. Il modo in
cui la commessa li guardava era irritante. Si domandò come Magnus facesse a
tollerarlo. Esperienza, tirò ad indovinare.
«È solo un po’ imbronciato», si giustificò
Magnus all’indirizzo della donna, in un tono da canarino che plana nell’aria
estiva. «Di solito è molto più socievole.»
Ammesso
che nel “socievole” siano comprese anche le voglie omicide, rifletté Jace, e per poco non lo disse. Da
qualche parte nel cervello aveva una penna con cui segnava forsennatamente
mille e più modi per fargliela pagare. Poi capì che avrebbe potuto rifarsi con
Alec, che con tutta probabilità era steso sul letto a leggersi qualcosa con un
impettito e imperiale Church sistemato sulla pancia, e allora si sentì un poco
meglio.
Il suo mentale blocco per gli appunti ebbe
modo di riempirsi dall’inizio alla fine nel giro di un’ora scarsa. Decise
persino di prenderne un secondo, perché dubitava che un quaderno solo sarebbe
bastato. Più che Magnus, la protagonista indiscussa fu la commessa: c’erano
dettagli nel suo atteggiamento che gli impedivano quasi la digestione, come la
maniera che aveva di girare gli occhi ogni tanto per inquadrarli in un unico
scatto neanche in coscienza stesse progettando un servizio fotografico. Lo
stregone si divertiva a dare gli input, a lasciar intendere questo o quello –
la storia, per come l’aveva messa giù, li ritraeva come due giovani innamorati fuggiti
a Washington per poter avviare una fabbrica di gelato specializzata in gusti
esotici; Jace non aveva idea del perché si fosse inventato un racconto così
assurdo, ma si chiese come la giovane donna riuscisse a crederci -, e lei lo
assecondava, sbirciava, ricambiava i sorrisi di confidenza, ma con quel
qualcosa di non-detto, in sottofondo, che rendeva il suo atteggiamento
decisamente snervante, come se servire una coppia gay in una boutique fosse più
appagante che servirne una etero.
Furono costretti a stringare i tempi per via
dell’orari di chiusura. Quando uscirono mancava mezz’ora all’una e le strade
erano più calde di come le avevano lasciate. Magnus teneva la bella giacca blu
piegata sul braccio, attento a non spiegazzare l’involucro di morbida carta in
cui era stata impacchettata. Era senza ombra di dubbio un bel capo, con il
problema che le spalle restavano a Jace un po’ larghe. Quando chiese
spiegazioni allo stregone, lui si strinse nelle spalle e picchiò la mano libera
sulla giacca, in un gesto soddisfatto e realizzato.
«Ebbene, ho mentito», disse, ma con
naturalezza. «Questa dolcezza è per Alexander. Lui non vuole mai accompagnarmi
nei negozi, te l’ho detto; così mi sono servito di te per avere almeno una vaga
idea sulla misura giusta.»
Jace fece una smorfia senza rallentare il
passo. Aveva una gran voglia di allontanarsi da quel negozio. «Degradato da
parabatai a manichino. Non so se sia peggio questo o il fatto d’essere stato
sbirciato da quella donna come se fossi un raro esemplare di rinoceronte
bianco.»
«Non è un paragone del tutto sbagliato. In
quanto a grazia ed eleganza, tu e i rinoceronti siete sullo stesso livello»,
puntualizzò Magnus.
Izzy sollevò la mano e ammirò il bracciale che
si era comprata a spese dello stregone. «Qualunque cosa tu voglia combinare per
il pomeriggio», s’intromise prima che il ragazzo potesse lanciarsi in un
battibecco, «io non ci sarò. Ho da fare.»
«Li accompagnerò io.» Lo stregone aveva preso
a pizzicare l’involucro, ma con gentilezza. «Ah, questa giacca è così magnifique.»
«Non
penso che Alec apprezzerà la tua presenza», informò Jace, abbandonando il
marciapiede per poter infilare un vicolo. Era abituato a schivare la folla
mondana ovunque fosse possibile. «Però, a ben pensarci, il tuo regalo gli
servirà.»
«Cosa?»
«La giacca.»
Magnus mise quasi il broncio. Strinse la
giacca a sé, stropicciando la carta in cui era avvolta. «Niente da fare. La
indosserà la prima volta per me.»
«Mio turno, Magnus. Ho il diritto di scegliere
qualsiasi cosa. Alec se la metterà; non è colpa mia se la sua eleganza si
limita a maglioni sfilacciati. Per quello che ho in mente mi serve però che sia
davvero presentabile, quindi quella
giacca casca di proposito.»
«Allora è meglio che lo sappia», disse Izzy. «Qualcuno
deve informarlo perché si possa preparare psicologicamente a vestirsi con
decenza.»
«Ho fame. Informa che stiamo arrivando per
pranzo, piuttosto.»
«Rettifico», dichiarò lo stregone. «I
rinoceronti sono meno primitivi di te.»
«I rinoceronti sono anche in via d’estinzione»,
se ne uscì Jace. «Vuoi far loro compagnia?»
«È una gentile proposta, ma sono costretto a
rifiutare: in un mondo di bassezze morali e fisiche, io sono già in via d’estinzione. Sono un raro
esemplare di bellezza fatta persona.»
«Sarebbe comunque bello renderti un po’ più in via d’estinzione,
soprattutto perché mi hai costretto a farmi passare per il tuo ragazzo.»
«Non ci sono problemi», annunciò Magnus,
chiudendo gli occhi e prendendo un respiro. «Ci siamo già lasciati. Sono
inconsolabile; credo me ne andrò a casa a pettinare il Presidente e a farmi
coccolare dal suo disinteressato amore felino.»
Il Nephilim gli girò addosso uno sguardo
livido. Quel gioco di ruoli, più che instillare in lui il divertimento che si
leggeva sull’espressione di Izzy, gli faceva solo venire voglia di chiedere al
sole di tramontare il più in fretta possibile. Peccato che non fosse ovviamente
possibile. «Dammi la giacca», disse invece, sorprendendo anche se stesso, e
allungò la mano in modo sbrigativo senza smettere di camminare. «La porto
all’Istituto e convincerò Alec a mettersela addosso. Ti voglio reperibile per
le due, Magnus.»
«Sai come si dice? “L’erba ‘voglio’ non cresce neanche del giardino
del re”.»
«Appunto», rispose Jace. Mosse le dita in un movimento
più che eloquente, un modo per dirgli di consegnargli la giacca e di farlo in
fretta. «Non cresce nel suo perché cresce nel mio. Dai, mollala.»
Oh, Raziel, perché?
Ho due cose da dirvi.
La prima: per un bel periodo ho avuto problemi con Nvu, il programma
che uso per caricare i testi in html. Semplicemente, al momento della
pubblicazione, la pagina mi si presentava con i tag. Avevo avvisato del
problema sulla mia pagina Facebook - che non uso troppo spesso, a dire
il vero, ma per una volta si è resa utile -, e spero quindi che
qualcuno di voi sapesse già di questa contrattempo. Poi un'anima
pia mi ha suggerito di scaricare Publisher; in più ho scaricato
di nuovo Nvu, e ora funziona. Ovvero, adesso ho un salvagente nel caso
in cui dovesse ricapitare *fa corna*
La seconda: il lavoro mi ha tenuta impegnata. Lavorando a chiamata, non so mai quando ho del tempo libero. Ma sono immensamente
felice di essere riuscita a terminare e a postare questo capitolo.
Avete atteso qualcosa come sette anni per un aggiornamento, tanto che
qualcuno dovrebbe farvi santi/e (?)
Poi... Ormai sapete che odio Jace c:
Lo odio con il cuore in mano, con tanto, infinito affetto. Non credo mi
spingerei mai a shippare la Jagnus - "Jagnus"? Si chiamerebbe
così? -, ma il senso di sadica soddisfazione che ho provato
scrivendo di questa sua uscita con Magnus è stato davvero degno
di nota. Semplicemente, mi piace fargli perdere la pazienza un po' come
mi piace far imbarazzare Alec.
Dal momento che ho ben in mente cosa combinare al nostro Alexander, non
credo proprio che vi farò ancora aspettare così tanto per
un aggiornamento. Vi ringrazio a prescindere, perché ho notato
che qualcun altro si è messo a seguire la ff benché non
aggiornassi da tempo <3
Dew_
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Capitolo 5 *** Corse clandestine fra tavoli... o no? ***
5. Corse clandestine fra tavoli... o no?
5. Corse clandestine fra tavoli... o no?
«Credo
mi stia un po’ stretta», disse Alec.
Jace gli indirizzò un’alzata di sopracciglia.
Se ne stava seduto sul divano, al centro, le mani tra le ginocchia e l’espressione
contesa fra sarcasmo e insofferenza. «A me sta larga e a te stretta? Pensavo
che il tuo fiuto per il vestiario fosse infallibile, Magnus.»
Lo stregone si lasciò passare le sue parole da
un orecchio all’altro. Rimase semplicemente fermo in mezzo al salotto, quasi
non avesse ancora realizzato di avere ospiti a casa propria. Si era sistemato il
mento fra pollice ed indice e scrutava Alec senza battere ciglio, con gli occhi
stretti in un indizio di intensa concentrazione, come a chiedersi come diavolo
fosse possibile che il suo ragazzo se ne fosse uscito con un annuncio simile.
Poi, in tono convinto e professionale:
«La taglia è giusta. È solo il modello.»
«Il modello?»
«Le giacche hanno modelli diversi, Jace.
Questa ha le spalle strette; è fatta così.»
Alec guardò prima uno e poi l’altro e decise
di trattenersi dal rilasciare dichiarazioni. Erano a casa di Magnus da quasi
un’ora e l’orologio a forma di gufo segnava ormai le tre del pomeriggio. Ancora
nessuno gli aveva detto perché mai dovesse andarsene in giro con addosso una
giacca del genere, ma la consapevolezza che non avrebbe ottenuto delle risposte
bastava a farlo desistere dal domandare delucidazioni. L’unica cosa che fece, se
non altro preferibile al farsi coinvolgere dai discorsi del parabatai e dello
stregone, fu di voltarsi verso lo specchio a figura intera che Magnus aveva fatto
comparire nel salotto.
La giacca, lo ammetteva, gli stava anche bene.
Era di un blu poco più chiaro di quello degli occhi, ma era un dettaglio
trascurabile, senz’altro secondario. A preoccuparlo era l’estrema eleganza dei
bottoni e del colletto, con una nota di merito per la tasca in cui, parola
dell’esperto, avrebbe potuto mettere un bel fazzoletto di seta. L’unica cosa
che lo rincuorava era l’assenza di Izzy, rimasta all’istituto con Clary. Per il
resto c’erano cose che stonavano, una vaga eppur percepibile puzza di bruciato.
E non era il classico e intrigante aroma di fiammiferi accesi che Magnus si
lasciava dietro.
«Come vuoi», concedeva Jace nel frattempo. «Adesso
devi pettinarti, Alec.»
Alec gli girò addosso lo sguardo sorpreso e
instupidito di chi riceve uno schiaffo dietro la nuca. «Cosa?»
«Oh, Raziel.» Poi, impietosamente: «Magnus,
pettinalo.»
«Magnus non farà proprio niente!»
«Io pettinarlo?» chiese lo stregone. «È più
facile pettinare il Presidente.»
Jace arcuò un sopracciglio. «Il Presidente non
ha i capelli.»
«Questo è quello che credi tu.»
«La mia testa è sufficientemente in ordine», s’impuntò
Alec. Si allontanò dallo specchio e cadde a sedere sul divano, chinandosi in
avanti per recuperare le scarpe. «Non sto uscendo per un appuntamento. Devo
solo fare qualcosa di cui il mio parabatai non mi ha ancora detto niente.»
Aveva già preso a sistemare le stringhe in
modo disordinato e precipitoso quando si rese conto del silenzio caduto
all’improvviso attorno. Si arrestò con uno dei lacci in mano e alzò la testa, uno
spruzzo di ciuffi neri a pizzicargli la fronte e gli occhi che corsero a Jace
in poco meno di un secondo. Capì, più per intuito che per altro, che la puzza
di bruciato era diventata più concreta. Fisica.
«Non sto uscendo per un appuntamento, vero?»
chiese, in tono cauto.
«No», rispose Magnus. La sua faccia, forse per
colpa del leggero sorriso che gli arricciava le labbra, prometteva una
spiegazione che invece non ci fu. Le parole che seguirono valsero solo come il
minuscolo assaggio di qualcos’altro lasciato tra le righe. «Non definirei
troppo corretta questa frase, in effetti.»
«Ma?»
«Ma devi pettinarti», s’intromise Jace, e si
alzò senza preavviso, piantandosi in viso un’espressione di artificioso e
divertito dispiacere. «Sai come si dice dalle nostre parti: dura lex, sed lex.»
Alec sembrò prendere in considerazione l’idea
di rispondergli per le rime, preferibilmente riciclando per l’occasione qualche
altro bel detto in latino. Alla fine borbottò qualcosa, terminò con foga di
affrancarsi le stringhe e si allungò sul divano per recuperare dal mobile una
borsa nera. «Evitate di farmi commentare questa situazione, o la sola parola
che mi verrebbe in mente sarebbe “pluriomicidio”.»
«Perché la borsa? Non stiamo andando in gita.
Devi portarti dietro dei panini?»
«È una borsa da uomo», spiegò a quel punto
Magnus dando uno sguardo fiero e deliziato ad Alec, che si alzava dal divano. «Ed
è assolutamente perfetta per quella giacca. Aspetta, non dire niente: sei un
po’ troppo barbaro per poter commentare. Fidati e basta.»
Jace fece una smorfia mentre si voltava per
raggiungere la porta. «Preferirei giocare a bingo con dei pinguini piuttosto
che fidarmi dei tuoi gusti in fattore di moda.»
«E perderesti, perché i pinguini sono ottimi
giocatori.» Lo stregone sventagliò la mano in sua direzione come se quel gesto
valesse a scacciarlo, poi agganciò il braccio di Alec e lo spinse in avanti,
verso l’uscio. Le sue dita si mossero in uno sfarfallio e i capelli del
Nephilim scivolarono indietro, quasi un pettine li avesse finalmente
addomesticati. «Non starlo a sentire», mormorò poi, mentre si spostavano verso
la porta. «È solo geloso.»
«Puoi almeno dirmi perché anche voi siete
vestiti di tutto punto?»
Era una piccola esagerazione, soprattutto se
si teneva in conto che Jace indossava solo abiti meno inquietanti del solito e
che Magnus si era messo addosso un completo arancione, ma il fatto restava. In
fin dei conti il suo parabatai sembrava essersi sistemato a dovere, almeno
secondo i suoi standard di puntigliosa semplicità, e lo stregone aveva
giustificato la scelta del proprio abbigliamento dicendo di voler dare una
buona impressione – ammesso e non concesso che si potesse fare bella figura
assomigliando ad un’arancia ambulante, rifletteva Alec.
Magnus alzò gli occhi senza lasciare da parte
quel suo sorrisetto zuccherato. «Perché si tratta di una cosa che dobbiamo fare
anche noi due se la fai tu, Alexander. Non potremmo restare a guardare,
capisci?»
Alec capì solo che là dentro poteva benissimo
starci un messaggio poco casto. Si guardò dal farlo intendere. «Tutti e tre?»
«Tutti e tre. Vuoi un indizio?»
«Farebbe comodo.»
«Ci saranno dei numeri.»
«Ah», fece il Nephilim. Fu la sola cosa che
gli uscì mentre Magnus schioccava le dita e la porta dell’appartamento si chiudeva
alle loro spalle. Quanto a Jace, li aspettava in fondo alle scale, le mani
affondate nelle tasche della giacca nera e gli occhi alzati verso di loro.
«Romeo e Giulietta, muovetevi.»
«Jace, non vedo cosa ci sia di etero nel gioco
della tombola», gli disse Alec. Era un bel tentativo per sdrammatizzare.
Il parabatai lo guardò dal basso con una certa
intensità prima di rivolgersi a Magnus. «Gli hai detto dei numeri?»
«Che intuito, Herondale!»
«La tombola non c’entra. È un gioco per
vecchi.» Jace fece un sorrisetto, uno di quelli improvvisi, uno di quelli che
sapevano davvero di bruciato. «Noi
andiamo a fare una cosa per giovani.»
Si voltò senza aggiungere altro e uscì dal
portone, svanendo nella luce del giorno.
«Non posso crederci», disse Magnus. Si era arrestato
sulle scale e la sua espressione sarebbe potuta passare per sincera
indignazione. «Alexander, credo che il tuo parabatai mi abbia appena scaricato.
Escluso.»
Alec, che stava scendendo con lui gli ultimi
gradini e si era fermato a sua volta, corrugò la fronte. «Non sei vecchio.»
Poi, nel tono di una correzione e con un certo imbarazzo: «Almeno, non troppo.»
«Dimentichi che, facendo quattro conti, potrei
essere andato a letto con qualcuno dei tuoi avi.»
«Tu cosa?»
«Sto scherzando. Sei troppo suscettibile.» Lo
stregone buttò un sospiro in cui si srotolò una mezza risata e riprese a
scendere, costringendo il Nephilim a fare altrettanto.
* * *
La prima cosa che Alec pensò di fronte al
locale fu che all’apparenza sembrava inoffensivo. Il primo ripensamento arrivò
quando Magnus disse loro di aspettare fuori.
«Ho bisogno di essere persuasivo», si
giustificò, «e con voi due attorno non credo di poterci riuscire.»
«È illegale?» chiese Alec. La domanda gli
sorse spontanea, forse perché lo stregone pretendeva che lui e Jace se ne
restassero immobili in mezzo ad un marciapiede affollato di mondani come due ragazzi
che fanno da pali durante una rapina. E il paragone no, non gli piaceva. «Perché
sai, dopo questa tua uscita comincio a pensarlo.»
Il parabatai girò gli occhi verso il cielo. «Ti
ricordo che stai parlando con un tizio che ruba tutto il possibile e
immaginabile utilizzando la magia. Lui è il barone dell’illegalità.»
«Si tratta di un validissimo do ut des», lo rimbeccò Magnus. «Sono un
acquirente. Mando avanti l’economia mondiale. Adesso non muovetevi e
aspettatemi.» Si voltò e si diresse all’ingresso socchiuso del locale,
sventagliando la mano oltre la spalla.
Quello che Jace fece, anziché cominciare a
gironzolare per l’isolato come in altre occasioni avrebbe forse fatto, fu
spostare il peso da una gamba all’altra e incrociare le braccia, gli occhi
puntati dritti sull’insegna che troneggiava di fianco alla porta a vetro. «Ti
dico cosa sta per succedere», disse a quel punto, le labbra sottili che si
mossero giusto il necessario.
Alec alzò le sopracciglia, ma non lo guardò. Anche
lui era concentrato sul nome che qualcuno dalla prorompente fantasia aveva dato
a quelle quattro mura. «Sento le trombe squillare», dichiarò. «Comincia con
l’insegna. “The Speed Tables”? Si organizzano
corse clandestine fra tavoli? Questo sì che è da etero.»
«Di solito qui si entra con una prenotazione
in mano», lo ignorò l’altro. Parlava a voce così bassa da dare l’impressione di
masticare ogni sillaba fra i denti. «Ma dato che l’idea della tua perfetta
giornata sull’altra sponda è nata solo ieri, di tempo per prenotare non ne ho
avuto. Magnus ci farà ottenere l’ingresso.»
«Come?»
«Come? E dovrei saperlo?» Jace si voltò ad
incrociare il suo sguardo. «Sa fare tante cose. Qualcosa gli verrà in mente. Potrebbe
anche convincere le signorine alle casse mostrando loro qualcosa di magico.»
Calcò bene sull’ultima parola, perché Alec se
la figurò come una grande bolla che si gonfiava con flemma ed eloquenza. Storse
le labbra, per nulla divertito da quell’allusione decisamente maliziosa, e
tornò a guardare l’ingresso scoprendosi in ansia. Gli ci volle meno di un
secondo per decidere che a quell’attesa avrebbe preferito un’intera e frenetica
battuta di caccia per le umide vie di Brooklyn. A quanto capiva c’era però la
possibilità di non ottenere l’ingresso, e il pensiero non era male; Jace
avrebbe dovuto pensare ad altro e forse ci avrebbe speso un’altra ora.
«Considerando che cominciano tra dieci minuti,
siamo anche puntuali», osservò Jace dopo una pausa di silenzio. «Fai anche un
quarto d’ora, il tempo per la gente di sedersi.»
Alec lo guardò con un cipiglio in cui una
punta di allarmismo era la protagonista. «Cominciano cosa? E chi?»
«Ah», fece il biondo, e sfilò il sorriso più
pacifico del mondo. Guardava verso l’ingresso. «Eccolo che arriva. A quanto
pare ce l’abbiamo fatta.»
Magnus usciva in quel momento a passo leggero.
Non si curò nemmeno di chiudersi la porta alle spalle, lasciandola platealmente
spalancata. Sfoggiava una bella espressione di trionfo e, in una mano, un mazzo
di tre targhette numerate. «Baciatemi i piedi!», esordì, trotterellando verso
di loro. «Vi prego, niente autografi: ho smesso di firmarli più o meno quando è
stata inventata la stampa. Avevano cominciato a girare troppe fotocopie delle
mie dediche e i falsari sono diventati troppo ricchi.»
Jace nemmeno lo ascoltò. Si prese quel che
aveva tra le dita e ci mise gli occhi addosso. Tre bei rettangoli di plastica
con tanto di spilla dietro e un numero di fronte. «Va bene, hai fatto la tua
parte. Quando cominciano?»
«Non l’ho chiesto», rispose lo stregone, «ma
credo tra poco. Ho promesso alla signorina che saremo ospiti molto educati, per
quanto ritardatari. Non voglio guai.»
«Non trovo niente di eccitante in questa moda
malata dello speed dating, per cui nemmeno mi sentirai fiatare.» Si accorse di
aver detto qualcosa di molto specifico e forse fu per questo che i suoi occhi
corsero in quelli di Alec. «Vedi?» disse a quel punto, all’apparenza
indifferente al pallore che aveva preso le guance del suo parabatai. «Niente a
che fare con droga o prostituzione. È una cosa noiosamente legale.»
«Lo
speed date?»
«Prenditi un numero, mettitelo addosso.» Jace
gli piantò in mano una delle targhette e lasciò l’altra allo stregone. «Goditi
il pomeriggio. Devi solo sederti ad un tavolo. Hai due minuti di tempo per
convincere le ragazze che ti si siederanno di fronte che sei esageratamente,
completamente e meravigliosamente etero al cento per cento.»
«Ci sistemeremo attorno», aggiunse Magnus. Il
tono in cui lo disse era morbido, quasi stesse rincuorando un bambino alle
prese con il suo primo giorno di scuola. Poi assunse un’espressione
particolare, un misto di accoramento e affetto che rese tutto quanto ancor meno
realistico, più assurdo di un teatrino di marionette. «Controlleremo la
situazione. È una prova difficile, lo so, e per questo la facciamo con te,
scoiattolo.»
Alec, che aveva ascoltato entrambi senza dire
una parola, venne per un istante colto dalle vertigini. Per come gli avevano
parlato, la sensazione era quella di essere un giovane in partenza per la
guerra. Non era incoraggiante. Abbassò gli occhi sulla targhetta, vide che il
numero che gli era toccato era un arzigogolato 8 e sollevò di nuovo lo sguardo.
«Devo farlo sul serio?» domandò. Con voce
perfettamente articolata. «Jace, hai visto con i tuoi stessi occhi che sono a
malapena in grado di attaccare bottone con una ragazza. Non puoi gettarmi in un
recinto di femmine.»
«Stai pensando gay», rispose il parabatai in
un tono quasi solenne. «Pensa etero.»
«Sai anche che nemmeno questo mi riesce molto
bene. E poi cosa dovrei raccontare?»
Jace gli rovesciò addosso uno sguardo seccato.
«Che ammazzi demoni. Che ti disegni ossessivamente dei ghirigori sul corpo. Che
sei impegnato con uno insano stregone che organizza feste di compleanno per il
suo gatto.» Poi, dopo una pausa: «Alec, inventati qualcosa. I mondani non si
fanno tutti i problemi che ti fai tu. Consolati pensando che ti crederebbero un
pazzo se cominciassi a parlare di mostri cattivi che girano per la città; la
tua normalità dipenderà dalle stupidaggini che ti inventerai. Non so, un cane,
una zia, la passione per i muffin ai frutti di bosco. Facile, no?»
Si mosse per primo verso l’ingresso con passo
svelto e sbadato, senza aspettare una risposta che l’altro non avrebbe comunque
avuto intenzione di dargli. Alec lo osservò per qualche istante prima di
guardare Magnus, che si strinse nelle spalle con un sorrisetto, prese a
giocherellare con la targhetta come se fosse una monetina e si avviò con fare
tranquillo dietro al biondo. All’unico dei tre rimasto fermo in mezzo al
marciapiede non rimase altro da fare che seguirlo.
Non era un brutto ambiente. Alec, che si era
figurato quel locale più o meno alla stregua di un covo degli orrori, trovò invece
qualcosa di piacevole nella luce soffusa che saliva dalle piccole lampade
sistemate al centro dei tavolini ovali. Quel chiarore sbiadito era di certo un
ottimo espediente per evitare che i tuoi ospiti si accorgessero di ogni minima
espressione che assumevi. Una punto a favore.
Giusto poco dopo la porta, una signorina aveva
consegnato a ognuno di loro un volantino blu notte. I caratteri argentati
spiccavano con malizia sul cartoncino lucido.
Un caloroso
benvenuto!
Due
minuti, un futuro intero
Conosci la gente della tua vita,
vivi la gente che conosci!
«Trovo tutto ciò leggermente inquietante»,
osservò Alec, girando il cartoncino per leggere se ci fosse dell’altro scritto
dietro. Scovò solo l’indirizzo del locale, il numero di telefono e l’e-mail. «I
mondani si divertono sul serio con queste cose?»
«Esiste anche di peggio», mormorò Jace,
guardandosi attorno. «Come la pesca di anatre di plastica nei parchi a tema.»
«O il body painting», s’intromise Magnus. «I
patiti del genere vi fanno concorrenza, credetemi.»
La saletta tempestata da tutti quei tavoli si
apriva solo oltre un bel paravento in legno. Forse per questa divisione fra
ingresso e locale vero e proprio, Alec ebbe la spiacevole sensazione di salire
su un palcoscenico.
C’era già della gente, nei paraggi. Alcuni
chiacchieravano in piedi, altri si alzavano per fare una corsa al bar e
ordinare qualcosa. C’erano poi persone già accomodate, che parlavano
improvvisando sorrisi imbarazzati o risate dal retrogusto inaspettatamente
meccanico tenendo un occhio sul cronometro digitale che occupava il loro
tavolo. Il conto era di due minuti, come predetto da Jace, ed era alla
rovescia.
«Tre tavoli liberi», annunciò Jace, indicando
un gomito della sala dove il traffico mondano era meno intenso. «Propongo un
tuffo di massa.»
Alec prese il consiglio alla lettera e puntò
dritto in quella direzione. Quando vide che gli altri due lo stavano seguendo,
decise di giustificarsi. «Lasciatemi quello in mezzo. Penso che da lì sarei
meno visibile.»
Il parabatai girò gli occhi verso il soffitto,
ma non disse nulla. Riflettendo però su quante possibilità ci fossero che Alec
vivesse quell’esperienza come un incubo, si sentì un po’ meglio. Non era un
pensiero crudele, in fondo, soprattutto dopo che lo aveva abbandonato nelle mani
di Magnus costringendolo a fare shopping con lui e a spacciarsi per il suo
ragazzo. No, era semmai una meritata vendetta.
Si sistemarono. Alec si guadagnò il suo
tavolino, scivolando a sedere con un occhio puntato verso Jace, che si
accomodava al tavolo accanto, e l’altro a spiare invece Magnus, che aveva fatto
suo il posto più a sinistra. Era in un certo senso rincuorante sapere di averli
attorno, e lo era ancor più se pensava ai vantaggi che poteva trarne; un bel
ragazzo biondo e un altro dai tratti asiatici che aspettavano in quel locale
come i fiori aspettano le api. Aveva molte ragioni per credere che loro si
sarebbero presi gran parte dell’attenzione di qualsiasi femmina che fosse
transitata per quella zona. Cento volte meglio così.
Se n’era quasi convinto quando la prima
ragazza che passò di lì toccò invece a lui.
* * *
Aveva lunghi capelli biondo cenere. Fu la prima
cosa che notò non appena lei scivolò a sedere lì di fronte.
Allora Alec si era già guadagnato un bel frappé
alla fragola. Doveva essere al tavolo da neanche quindici minuti e il destino
non gli concedeva nemmeno il tempo di gustarsi quel meritato spuntino. Non che
si aspettasse pietà da una giornata da spendere nel modo più etero possibile,
ma aveva creduto che il cielo gli avrebbe almeno dato del tempo extra per
prepararsi psicologicamente. E invece quella ragazza, senza dargli l’occasione
di dire una sola lettera dell’alfabeto, aveva piantato la mano sul cronometro
azionando il conto alla rovescia, fino a quel momento rimasto fermo sui
sacrosanti 2:00. Così, come per ispirazione divina. Come se non avesse nulla di
meglio da fare.
«Ciao, Otto», gli disse. Sempre sorridendo.
Il Nephilim rimase ad osservarla di sottecchi
per qualche secondo. Aveva ancora la cannuccia del frappé infilata tra le
labbra e la tizia non sembrava rendersi conto di avergli rovinato quel momento
di pacifica degustazione. Quasi stentava a credere che ora avesse di fronte
quel viso smaliziato che attendeva sfacciatamente una risposta. Poi planò di
nuovo sulla realtà e si sfilò con calma la cannuccia dalla bocca. «Ciao.» Diede
uno sguardo alla targhetta che aveva aggrappata alla camicia gialla, lì su una
curva del seno. « ...Dodici», terminò, leggendo il suo numero.
«Che fai nella vita?» chiese lei, a
bruciapelo. Aveva una gomma americana, da qualche parte nella bocca, perché i
suoi denti masticavano.
Alec aprì le labbra per dire qualcosa, senza
però riuscirci. Gli sembrava assurdamente fuori posto che una sconosciuta si
fosse seduta lì davanti, peraltro ruminando come un lama, e gli avesse subito posto
una domanda così personale. «Cosa?»
Lei assunse un cipiglio particolare, un
leggero arcuarsi delle sopracciglia tracciate con la matita. «Sei ritardato?»
Era un dubbio sincero, e bastava guardarla in
faccia. Da qualche parte, mascherato da un colpo di tosse ma chiaro come il
sole, giunse il risolino di Jace. Il suono che ne conseguì fu qualcosa a metà
strada fra uno starnazzo e un grugnito. Alec si convinse di non aver sentito
niente.
«Come vuoi», resse al gioco, spostando appena
il frappé. Era un modo per consegnarsi anima e corpo a quella mondana
impertinente. «Sono un arciere.»
«Un arciere?»
«Sai cos’è un arciere? O sei ritardata?»
Mise su quella parola ogni briciola di se
stesso. Tra le righe, la traduzione del tono che aveva impiegato si sarebbe
avvicinata ad un deliziato Prendi questo,
mondana. La ragazza fece una smorfia, si piegò per recuperare la borsetta e
si alzò indignata, senza scordarsi di coronare l’uscita alzando in sua
direzione un molto carismatico dito medio.
«Alexander», disse Magnus dal tavolo accanto.
Si stava dondolando sulle gambe posteriori della sedia e gli sorrideva con un
misto di ammirazione, resa e pazienza. «Credo tu abbia appena preso un po’
troppo alla lettera il significato della parola “speed date”. Quanti secondi è
durata la vostra storia d’amore?»
Il Nephilim si riprese il suo frappé e fermò
il cronometro, sospendendolo ancora sui due minuti. «Qualcuno dovrebbe
spiegarmi le regole di questa stupidaggine», soffiò. Poi, gettando un’occhiata
a Jace: «Il mio parabatai, ad esempio.»
«Tempo limite, domande dirette. Niente nomi;
si usano i numeri», rispose quello. «Non vedo cosa ci sia di difficile.» Poi,
quando si accorse che una ragazza stava puntando dritta verso di lui, alzò
l’indice come a mettere chiunque in attesa e riportò le gambe composte sotto al
tavolo, sfoggiando uno studiatissimo sorriso quando la mondana cominciò a
sedersi.
Alec, che lo sbirciava, borbottò qualcosa e si
dedicò al frappé. Se quelle erano le regole, nulla toglieva che fossero
piuttosto stupide. Aveva almeno realizzato che la ragazza che gli era toccata
non era sfacciata – almeno non troppo -, ma che porre domande nel modo più nudo
e crudo possibile era esattamente parte del gioco. Non che cominciasse a
sentirsi in colpa per com’erano andate le cose con la sua prima ospite; nulla
toglieva che quella prima esperienza di speed dating fosse stata spiacevole.
Per dieci minuti buoni se ne rimase
tranquillo. Sulla destra, Jace aveva già reimpostato il cronometro tre volte.
Non passava mai troppo prima che un’altra ragazza adocchiasse il suo tavolo e
gli si sistemasse di fronte. Non era però verso di lui che il parabatai guardava
assiduamente, bensì verso Magnus. Poteva solo immaginare quali stramberie
raccontasse alle mondane che avevano la sfortunata idea di accomodarsi con lui.
Ogni tanto le sentiva ridere. Poi lo stregone cominciò ad impiegare i due
minuti di tempo per allietare le sue ospiti con qualche ingenuo trucco di magia,
e Alec, che aveva ormai terminato il suo frappé, avvertì un brivido di orrore
infilarglisi nelle ossa.
Avrebbe cercato un modo per dissuaderlo da
quell’insano passatempo se solo un’altra ragazza non si fosse seduta in quel
momento al suo tavolo. Il Nephilim incrociò i suoi occhi nell’esatto secondo in
cui la mano di lei faceva partire il conto alla rovescia.
«Ciao, Otto», esordì.
Fu come un déjà-vu, con la differenza che ora
non aveva un frappé con cui distrarsi. Il bicchierone era ormai vuoto e la
cannuccia meticolosamente mordicchiata. Alec, con la testa ancora impostata sul
terrore che Magnus esagerasse, si sforzò di sfilare un convincente seppur mezzo
sorriso di benvenuto. «Ciao, Tredici.»
«Sei di qui?»
«Della zona. Tu?»
«Del Bronx. Magari vivessi a Brooklyn»,
rispose la ragazza. Sembrava annoiata, come se di appuntamenti di quel genere
fosse assuefatta. O drogata, che era poi la stessa cosa. «Che fai di bello?»
«Intendi di lavoro?»
«Sì.»
«Non lavoro. Studio.»
«Cosa?»
Demonologia,
lingue demoniache, bestiari. Sai, cose di tutti i giorni, pensò di poter rispondere. Poi, lavorando
d’immaginazione: «Medicina.»
«Ah. Forte.»
Tredici era anche una bella mondana,
oggettivamente parlando. L’idea che dava era però di superficialità, come se
basasse la vita solo sulle cinque W: who, what, when, where, why? Esaminando la situazione, Alec si
accorse che erano poi le colonne portanti di quella strana moda di conoscersi
in due minuti. Poi si rese conto anche di un’altra cosa. Già. Soprattutto, Why?
«Senti», ricominciò la ragazza, guardandolo
fisso, «non è che per caso sei interessato a una cosa veloce?»
«Una... cosa?»
«Una cosa», ripeté lei con terrificante
naturalezza. «Sei piuttosto carino. Tra quanto ci troviamo?»
Allora lui capì che evidentemente esisteva
anche la moda di rimorchiare in due minuti. Buttò un sbuffo, un sorriso
incredulo e imbarazzato gli arricciò le labbra. «No, aspetta. Non mi sembra di
averti detto di sì.»
Tredici corrugò la fronte. Non doveva essere
abituata a ricevere un quattro di picche. “Tredici di targhetta e quattro di
picche”; in un’altra occasione, Alec avrebbe contenuto l’insano istinto di mettersi
a ridere.
«Quindi no?» chiese la mondana. «Cos’è, hai
paura? Sei fidanzato?»
«Non sono il tipo.»
«Non sei il tipo.» La ragazza rimase ad
osservarlo intensamente, poi si strinse nelle spalle. «Okay. Fa niente. Sarebbe
stato fantastico, sei davvero figo. Vado all’altro tavolo.»
Così, come mandar giù una pastiglia. Si alzò
nel frullio dei riccioli neri e marciò fino alla sedia successiva, sistemandosi
in modo quasi imperioso davanti a
Magnus
«Oh, Magnus», borbottò Alec, e si inchiodò le
mani in faccia pregando che Tredici non avesse portato con sé l’intento di fare
anche a lui la stessa richiesta. Sentì Magnus attaccare bottone con quella
spontaneità con cui sarebbe stato in grado di convincere persino una pietra al
sesso al primo appuntamento. Lo stregone era di tutt’altra pasta; avrebbe
senz’altro rifiutato – ovviamente, certo, per
forza -, ma la ragazza avrebbe guardato a lui come ad un amante delle
avventure di una notte. Cosa peraltro vera.
Cielo, quella situazione era così insensata.
Quell’esperienza stava diventando un’intera, disastrosa follia.
Lasciandosi scivolare di dosso le mani, Alec
vide che Jace salutava in quel momento una ragazza che si alzava dal suo
tavolo. Il suo parabatai era bravo a tenere in scacco le mondane per i due
minuti previsti dall’appuntamento. Non c’era nulla di sconvolgente nella
conclusione che fosse lui il migliore in quella disciplina: aveva una generosa
dose di carisma, seminava testosterone nell’aria e sopra ogni cosa era
infinitamente etero. Anche se, viva
la sincerità, Alec sapeva che non gli sarebbe andata meglio nemmeno se quella
sessione di speed dating fosse stata dedicata alla sponda opposta.
Quando vide Jace alzare gli occhi verso di
lui, non perse tempo e indicò l’uscita con un cenno del capo. Fuori di qui, gli disse con lo sguardo,
le labbra serrate in un’espressione urgente ed esasperata. Fuori. Adesso.
«Non posso credere che tu non riesca a tenere
una ragazza al tuo tavolo nemmeno per due minuti», gli rispose a voce il
parabatai, puntellando i palmi delle mani sul tavolo per potersi dondolare
sulla sedia. «Anzi, aspetta: ci credo.»
L’altro lo guardò. Lo sdegno che gli si era
incollato in faccia aveva un che di plateale. «Questa cosa ci è un po’ scappata
di mano, se noti.»
«Ehi», s’intrufolò con un sorriso Magnus,
posando il gomito sullo schienale e voltandosi verso di loro. Aveva gettato il
pollice ad indicare Tredici, che si era alzata e galoppava verso un altro
tavolo. «La mondana mi ha appena proposto una...»
«Okay, lo so, non dirlo», si precipitò Alec.
«Cosa?» domandò Jace.
«Tu stanne fuori.»
«Io mi sto divertendo.»
«Io no.»
«Lo so», rispose Jace. «Non tutte le giornate di
noi etero sono allegre. Hai la mia comprensione.»
«Andiamo.» Alec si alzò senza nemmeno
preoccuparsi di reimpostare il cronometro.
Magnus rimase a guardarlo mentre si chinava
per recuperare la borsa. C’era una spolverata di delusione nella curva che le
sue labbra avevano assunto. «Cosa? Ti arrendi? Siamo qui dentro da soli trenta
minuti», annunciò, sollevando le sopracciglia. «Per vostra informazione ho
pagato per un’ora.»
«Magnus, per favore», disse Jace, che ancora
non aveva smesso di dondolarsi sulla sedia. «Non hai sborsato neanche un
dollaro. Le mondane ci hanno fatto entrare gratis e non so neanche come hai
fatto a convincerle. Non che voglia saperlo. L’unica cosa che hai pagato è il
frappé di Alec.»
«Appunto. Un frappé che nelle mie intenzioni
doveva durare un’ora.»
«Magnus»,
gemette Alec, quasi una supplica. «Alzati e usciamo.»
Alzò gli occhi al soffitto e si diresse verso la
porta, schivando il viavai di chi si alzava e si spostava di tavolo in tavolo.
Il parabatai e lo stregone si scambiarono un’occhiata prima di arrendersi
all’idea di seguirlo.
Lasciarono al banco le targhette numerate e
due minuti più tardi erano sul marciapiede. Per la prima volta in vita sua, il
rumore del traffico e della vita mondana giunse alle orecchie di Alec come il
piacevole scampanellio del collare di un agnello.
«Non esiste un solo frappé al mondo che duri
un’ora, comunque», disse, rivolto a Magnus. La luce del sole rivelò le chiazze
rosse che gli accendevano appena le guance. Era una fortuna che quel locale
fosse strategicamente dominato dalla semioscurità. «Giusto perché tu lo sappia.»
Jace fece un sorrisetto. «Mai dire mai. Ad
esempio fino ad oggi io non credevo possibile che un appuntamento potesse
durare meno di due minuti.»
Alec gli rovesciò addosso un’espressione
omicida prima di incamminarsi. Decise saggiamente di non rilasciare commenti.
Sentiva di avere una ragnatela di parole in testa, con il problema che non si
trattava di frasi educate. Le uniche sillabe che gli sbocciavano con nitidezza
dietro la fronte formavano un mantra che recitava qualcosa come porca merda, porca merda, ancora porca merda,
ma voleva conservare una certa pulizia, in bocca. Non se le sarebbe lasciate
sfuggire anche se la tentazione avesse raggiunto l’apice.
«Avevo scommesso con tua sorella che non te la
saresti cavata», rivelò ad un certo punto Magnus. «Ho ufficialmente vinto.
Ragazze, tempo limite, appuntamento; Alexander, eri spacciato fin dall’inizio.»
«Stai tranquillo», rispose Alec. «Non ho
creduto in me stesso neanche per un istante. La tua assenza di appoggio non ha
quindi cambiato le cose.»
«Quanto sei dolce.»
«Devo venire un attimo a casa tua.»
Lo stregone arrangiò un bel sorriso da
furfante. «Dimmelo ancora.»
«Hai capito benissimo. Dobbiamo fare una cosa.»
«Se è la cosa che la mondana mi ha proposto,
allora è un sì.»
«Non è la cosa di Tredici.»
Lo disse con così tanta prontezza da lasciare Magnus
di stucco. «Non vuoi fare Tredici con me?» chiese, sinceramente dispiaciuto.
Jace, che camminava davanti a loro di qualche passo,
borbottò qualcosa. Pretese di non star ascoltando nulla di quello che si stavano
dicendo.
«Devo preparare il prossimo turno», rispose Alec.
Si era quasi irrigidito tant’era palese lo sforzo che stava facendo per ignorare
la sua malizia. «Dovrai darmi una mano. Jace, ti voglio a casa di Magnus alle cinque
esatte.»
Il parabatai sventolò la mano oltre la spalla in
segno di assenso, ma non si voltò. «Prendetevi tutto il tempo che vi serve», concesse.
«Non ho fretta.»
«Sentito?», di tuffò lo stregone. «Non ha fretta.»
«Io sì», disse Alec. C’erano già alcune idee a
frullargli in testa, ma dubitava che ne esistesse una in grado di far assaggiare
a Jace la vendetta che si meritava. Forse qualcosa... in un modo o nell’altro...
Qualcosa. «Io ne ho parecchia.»
Oh, Raziel, perché?
Pensate
a questo capitolo come a un sogno a occhi aperti. Mi spiego; entrate in
questo locale, uno di quelli che organizzano queste sessione di speed
dating, e scoprite che in un angolo della sala, messi un po' in
disparte ma più che visibili, ci sono questi tre. Io morirei.
Sì, sarebbe davvero forte.
Io mi fionderei immediatamente al tavolo di Magnus, credo (ammesso che
non sia già occupato; nella mia immaginazione, quel posto a
sedere è -perennemente- presidiato da un'altra ragazza), o da
Alec. Ah, c'è anche Jace. Ehm, tanto ormai sapete cosa penso di
lui - di fianco agli altri due, sfiorisce (?) Jace, tanto amore per te <3
Agosto è stato un mese
intensissimo. Figuratevi che sono di fretta pure ora che sto scrivendo,
perché tra un'ora dovrei essere al lavoro e invece sono qui a
fantasticare su un mio incontro con questo trio in un locale di speed
dating. AHAH 3 Non posso fare a meno di notare che ancora una
volta, benché gli aggiornamenti siano molto disciolti nel tempo
(?), il numero di chi segue la storia e di chi l'ha piazzata tra le
ricordate e le preferite si è alzato. Siete tutti dei piccoli e
sadici fantasmini che se la ridono alle spalle di Alec e Jace, ma vi
adoro perché so che ci siete - conto su un vostro intervento,
prima o poi <3
Dopo aver concluso il capitolo, mi
sono ripromessa di concentrarmi sulla storia che devo stendere per un
Contest. Non riesco a scrivere due cose contemporaneamente, non se ne
parla e non se ne parlerà mai. Ho sempre paura di, sapete,
confondere le atmosfere, le idee, il tono e il colore della narrazione.
Per cui, non appena terminerò il lavoro per il racconto,
tornerò con il prossimo capitolo. Non morirò; la pagina
su FB vi terrà aggiornati, se vorrete.
Un enorme bacio <3
Dew_
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