Circus

di Nurelnico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


 
Bianco. Solo un’infinita distesa bianca, senza dettagli, senza ombre.
Un immenso e sconfinato spazio vuoto.
Impossibile orientarsi, definire se ci si stava muovendo realmente oppure se qualcosa si stava muovendo, poiché non c’erano punti di riferimento.
Ryan era cosciente di esistere in quello spazio, almeno credeva di esserlo ma non aveva minimamente idea di dove si trovasse.
«Dove sono?» Disse ad alta voce, oppure stava pensando di averlo detto?, ma niente o nessuno venne in soccorso per rispondere alla domanda. Era in un limbo, forse intrappolato per l’eternità.  «Sono morto.» fu il suo secondo pensiero. «Solo l’aldilà può essere un posto così vuoto e pieno di luce. »
Questa sensazione di vuoto lo stava facendo sentire male, tuttavia un leggero vento lo distolse dai suoi pensieri. Proveniva dal basso e aumentava a ogni secondo che passava, diventando quasi un getto d’aria simile a quello che aveva visto tante volte durante i documentari sui tornado. Immaginò di stare volando proprio come un supereroe, poi pensò di essere in caduta libera, pronto ad aprire il paracadute, anche se non era esattamente come lo aveva immaginato.
Un puntino nero comparve da fronte ai suoi occhi, proprio nella direzione da cui proveniva il vento, in un punto che il ragazzo definì come “orizzonte”. Quel puntino si stava avvicinando, diventando sempre più grande come se si stesse avvicinando, o forse era lui che si stava avvicinando a quell’oggetto misterioso, ora poteva distinguerne i contorni neri e squadrati, come se si stesse avvicinando a una scatola nera, ma questa s’ingrandiva ancora e ancora.
In un attimo capì che non era una scatola, ma una porta «forse è la mia via d’uscita!» pensò quasi sollevato.
Prima di schiantarsi contro quella porta misteriosa, tutto si fermò lasciandogli la possibilità di osservarla meglio: all’apparenza sembrava una normalissima porta di legno, a doppia anta, con delle maniglie in ottone lucido lavorate con una fantasia simile a delle foglie.
Fece un giro intorno al curioso passaggio e notò che anche sulla parte opposta rispetto a dove era arrivato, la porta era identica, perfettamente speculare.
Ryan si guardò intorno, perplesso, indeciso e insicuro sul da farsi; provò ad appoggiare prima una mano sulla porta, giusto per essere sicuro che fosse realmente lì, poi ci mise un orecchio contro, sperando di percepire qualche suono, sebbene fosse già riuscito a fare un giro completo intorno alla porta, ma non sentì alcun suono. L’unica soluzione era aprire la porta e vedere cosa c’era oltre.
Poggiò la mano sulla maniglia, rabbrividendo al contatto con il freddo metallo. Fece una leggera pressione facendola ruotare, fino a che non si aprì.
Sebbene la porta fosse aperta, Ryan non vedeva altro che il bianco, come se il passaggio non portasse a nulla. Mosse un passo in direzione dell’apertura e ci passò attraverso.
Lo stupore che lo colse fu enorme: si aspettava di ritrovarsi ancora in quel mondo bianco,, come gli occhi gli avevano suggerito, eppure adesso era in un corridoio come l’ingresso di un circo, con un pavimento a scacchi bianco e nero e delle pareti costituite da drappi di pesante velluto nero, mentre alcune candele rappresentavano l’unica forma di luce.
«Deve essere un sogno.» disse avanzando con circospezione. «E se avessi ragione, adesso dovrei svegliarmi.» continuò a voce più alta prima di fare una pausa, in attesa di qualcosa che non avvenne.
Fece un sospiro sentendosi sconfitto per la totale mancanza di controllo sulla situazione in cui si trovava e per farsi coraggio per continuare ad avanzare.
Il corridoio sembrava più corto di quanto si stesse realmente rivelando, ma alla fine si ritrovò in un enorme salone in stile vittoriano.
Un grande camino troneggiava al centro della stanza, facendo luce su due poltrone in pelle separate da un piccolo tavolino, ma quello che subito dopo attirò l’attenzione del ragazzo fu la quantità di libri che ricoprivano le pareti: non era in un normale salone. Era in un’enorme biblioteca.
Si avvicinò alle poltrone con il naso ancora all’insù a osservare i libri provando a stimarne il numero, ma senza successo. Come urtò una delle due sedie si girò e solo allora si rese conto che erano vuote, ma non si aspettava affatto di sentire una voce.
«Benvenuto nella mia umile dimora, giovane Ryan.» lo salutò una voce. Aveva qualcosa di familiare, era calda, sicura e decisa eppure si percepiva che non voleva incutere timore e non era ostile. L’uomo cui apparteneva la voce si trovava in cima alle scale, guardando in basso verso il giovane. Era ben vestito, come se dovesse partecipare a un evento pubblico, con un vestito gessato scuro, le mani appoggiate al parapetto lasciavano intravedere un anello alla mano destra che rifletteva la luce proveniente dal camino, tuttavia i lineamenti del suo viso rimanevano incerti: poteva vedere la sua mascella squadrata, ma nessun altro dettaglio era apertamente distinguibile, come se una leggera nebbia nascondesse il volto dell’interlocutore.
«È finalmente giunto il momento del nostro incontro, sebbene sia stato tu a decidere il momento e il luogo. » continuò l’uomo, iniziando a scendere lentamente le scale.
Ryan lo seguì con lo sguardo rimanendo abbastanza confuso dalle sue parole, cercando di comprendere effettivamente come fosse possibile che fosse stato lui a organizzare un incontro del genere con un perfetto sconosciuto che sembrava, tra le altre cose, conoscerlo direttamente.
«Sì, Ryan. Siamo in un sogno.» esordì la figura misteriosa prima che il ragazzo potesse esprimere i suoi dubbi «e non ha minimamente importanza chi io sia, poiché sono frutto del tuo subconscio. Una personificazione di qualcosa che hai sempre saputo e che non hai mai collegato alla realtà» continuò l’uomo prima di invitarlo a sedersi.
«Non hai mai notato che tutte le foto di famiglia hanno qualcosa di strano? Come se mancasse una parte importante o che fossero state modificate?» chiese guardandolo negli occhi.
Effettivamente il ragazzo ricordava che da piccolo i suoi genitori non gli avevano mai permesso di portare le foto di famiglia a scuola durante le giornate di “mostra e racconta”, ma era troppo piccolo per insistere e le spiegazioni ricevute erano state sufficienti a placare la sua curiosità.
«Non è il mio compito spiegarti queste cose, anche perché non posso, visto che sono una figura derivata dalle tue conoscenze, quindi neanche io so cosa stai cercando in maniera inconscia, né perché dovresti farlo,» si fermò alzandosi e dirigendosi verso una finestra «ma posso dirti dove andare a cercare qualcosa che potrebbe aiutarti. Vieni a vedere.»
Ryan si alzò accostandosi all’estraneo guardando fuori dalla finestra: da lì riusciva a vedere il vecchio tendone del circo di Hampton, una zona in periferia abbastanza larga da poter ospitare un circo e un parco divertimenti, anche se ormai era chiusa da diversi anni.
«Quale sarebbe il collegamento tra le foto, il circo e questo?» chiese il giovane «perché dovrei andare in un posto del genere? Senza neanche sapere cosa sto cercando?» continuò alzando la voce. Questa mancanza di certezze lo infastidiva visibilmente e andava peggiorando a causa della convinzione che non avrebbe ottenuto molte informazioni da quella conversazione.
«Capisco la tua frustrazione, Ryan,» disse l’uomo quasi come se gli avesse letto nel pensiero «ma tutto quello che so è esattamente quello che sai tu, solo che il mio compito è di farti ricordare qualcosa. Anche se non so a che scopo.» rispose l’uomo poggiandogli una mano sulla spalla. «Ora che ho assolto il mio dovere, è giunto il momento di congedarci».
Il giovane fece in tempo a sentire il fruscio della stoffa e il suono metallico del cane di una pistola che veniva caricata, prima che il rumore assordante dello sparo lo costrinse a tapparsi le orecchie.
Vide il corpo dell’uomo cadere a terra.
La testa ormai era diventata una massa informe e rossa.
Il ragazzo provò a cercare aiuto, a urlare, ma l’unica voce che sentì fu il suo urlo come si ritrovò nel proprio letto, nella sua camera, nella sua casa, nella realtà.
Dalla luce che entrava dalla finestra, ormai doveva essere giorno. Il ragazzo si mise seduto sul letto e si stropicciò gli occhi con ancora le ultime immagini del sogno stampate nella mente.
Finalmente tutto era finito, quel folle sogno era ormai acqua passata e presto lo avrebbe dimenticato come tutti gli altri sogni, anche se la sensazione di disagio rimaneva.
Fece un respiro profondo e si voltò a prendere il telefono e solo allora vide il biglietto lasciato davanti ad un pupazzetto di un clown.
 
VALIDO PER UN INGRESSO OMAGGIO AL CIRCO!
Ricorda di portare un amico, così ci divertiremo di più.
 
Il ragazzo prese il biglietto e lo osservò mentre un misto di emozioni, tra cui sorpresa, paura e perplessità, lo assaliva: evidentemente quel sogno non era del tutto infondato.
Il rumore di passi, però, interruppe i suoi ragionamenti.
Chi aveva lasciato il biglietto doveva essere ancora dentro l’appartamento.
Si alzò di scatto e, cercando di fare meno rumore possibile, uscì dalla stanza ma solo dopo avere impugnato la mazza da baseball poggiata di fianco alla porta.
Tese l’orecchio cercando di captare ogni minimo suono proveniente dalle stanze, ma tutto taceva. Controllò tutte le stanze fino a che non si rese conto che la porta era spalancata. L’intruso doveva essere già uscito.
Il ragazzo fece un sospiro per scaricare la tensione e tornò in camera per osservare meglio il biglietto: era un comunissimo biglietto del circo, come quelli che venivano lasciati dagli ambulanti ai semafori in cambio di una moneta, eppure questo risultava inquietante, quasi alieno, in relazione a quanto era successo poco prima.
Decise che era il caso di parlare di queste cose prima con il dottor Bennett e poi con la polizia, ma prima avvertì la necessità di una doccia, visto che l’appuntamento con lo psicologo era fissato per il primo pomeriggio del giorno stesso.

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Capitolo 2
*** 2. ***


Il dottor Luther Bennett era l’unico psicologo della città di Newton Creek, una piccola frazione appena fuori Aberdeen. Aveva scelto deliberatamente un posto un po’ fuori mano in modo da poter evitare le eccessive pressioni legate alla vita caotica delle città americane; la sua infanzia a New York era stata più che sufficiente a fargli comprendere che non si sarebbe mai abituato a correre per prendere la metro o al numero di turisti che giravano con le cartine e i nasi per aria, indicando quel monumento o quel museo.
Tutti i suoi conoscenti e i suoi parenti gli chiesero come mai un brillante psicologo, nonché un bell’uomo di soli trenta anni dovesse trasferirsi proprio in un posto simile per lavorare, quando le opportunità erano così tante, ma lui rispondeva sempre allo stesso modo: «Un luogo tranquillo aiuta quanto una buona terapia».
Così, impacchettate tutte le sue cose, partì lasciandosi tutto alle spalle per ricominciare da zero in un posto nuovo e la vista di cui godeva dalla vetrata del salone era stata un’accoglienza migliore di quanto si fosse mai aspettato.
La sua casa era ulteriormente in periferia, appena al limitare di un piccolo bosco che la vetrata inquadrava in tutto il suo splendore, con tutti quegli alberi così maestosi che offrivano rifugio a numerosissimi animali selvatici.
Adorava quella casa, così come i suoi pazienti. Si vedeva chiaramente quanto molti di loro fossero più sollevati nel trovarsi in un luogo così pacifico e spesso riceveva richieste per appuntamenti da tutto lo stato. Tuttavia doveva sbrigarsi ad annodarsi la cravatta perché a breve sarebbe arrivato Ryan Grent, un ragazzo di ventidue anni che seguiva da quando si era trasferito a vivere da solo a causa di una difficile situazione familiare.
Si guardò allo specchio per controllare che il nodo fosse ben fatto, si diede un’ultima sistemata alla folta chioma bionda e fece giusto in tempo a preparare una brocca d’acqua con due bicchieri prima di sentire il rumore di un’auto che imboccava il vialetto.
Con passo misurato si avviò alla porta e rimase sulla soglia ad attendere il giovane. Lo osservò scendere dalla macchina, una vecchia Camaro nera che forse aveva più anni di entrambi, e prendere un giubbotto di pelle che mise sopra la maglietta bianca.
Sebbene fosse già Aprile, il clima rimaneva ancora fresco, eppure il giovane sembrava non risentirne particolarmente.
«In orario come sempre.» esordì il dottore salutando il ragazzo dai capelli scuri con una vigorosa stretta di mano. «Sa’ bene che la parola “ritardo” non fa parte del mio vocabolario, dottor Bennett.» rispose il ragazzo, mentre lo specialista lo invitava ad entrare e insieme si dirigevano verso il salone, che in quei casi fungeva da studio.
«Sai bene che mi puoi chiamare Luther, Ryan. Non c’è bisogno che ti formalizzi così», rispose l’uomo. «prego, accomodati pure», aggiunse prima di prendere posto su una delle poltrone, mentre il ragazzo preferì come al solito il divano.
L’uomo guardò Ryan con attenzione per alcuni secondi prima di esprimere il suo sospetto.
«C’è qualcosa che ti preoccupa, per caso?» esordì poggiando il mento sulla mano, aspettando che le sue parole facessero effetto sul giovane, che alzò lo sguardo verso il suo terapista, guardandolo direttamente negli occhi.
Ryan fece un respiro profondo seguito da una breve pausa.
«Qualcuno questa mattina è entrato nel mio appartamento». iniziò a raccontare, mentre sentiva il cuore accelerare i battiti al pensiero del potenziale pericolo che aveva corso.
«A quanto pare non ha rubato nulla, perché ho trovato tutto al proprio posto» fece un’altra pausa mentre serrava i pugni, «questo mi fa credere che non fosse un ladro» disse mentre passava il biglietto al suo interlocutore.
Luther ascoltò la breve storia prima di prendere il biglietto dalle mani del ragazzo, visibilmente sorpreso dall’accaduto.
Rigirò il cartoncino tra le mani, notando che era un biglietto per il circo, ben sapendo che quel posto era chiuso da diversi anni. La cosa più interessante, però, rimaneva la qualità innaturale del biglietto: sembrava stampato da pochissimo tempo. Oggettivamente era troppo in buone condizioni per essere un biglietto originale del circo.
Lo psicologo alzò lo sguardo verso il ragazzo «spero che tu abbia già parlato con la polizia di questa storia» disse sperando in una risposta affermativa che non arrivò.
«Ryan, questa è una cosa seria. È necessario che la polizia in-» fu interrotto dal giovane prima che riuscisse a finire la frase.
«Non è questo il vero problema» riprese Ryan, «se fosse stato solo questo, avrei già risolto, ma ho realmente bisogno di parlare prima con lei» si alzò camminando fino ad arrivare alla grande vetrata. «Nel momento in cui questa persona è entrata, ho fatto un sogno molto strano in cui una persona mi parlava proprio del circo» si girò verso lo psicologo «non ricordo molti dettagli di questo sogno, ma ricordo chiaramente di aver visto il tendone e qualcuno che mi diceva che lì avrei trovato le risposte ad alcune domande che non mi ero mai apertamente posto, ma che sono sempre state nella mia mente».
Luther ascoltò attentamente tutto il discorso, ma rimase ancora perplesso dal fatto che Ryan si fosse rivolto a lui prima che alle autorità.
Riusciva comunque a leggere nei comportamenti del giovane quanto questa situazione lo avesse turbato.
«Quindi tu supponi che ci sia un collegamento tra questi due eventi» disse esprimendo ad alta voce le conclusioni a cui era arrivato. «Purtroppo posso aiutarti solo dal punto di vista della mia professione. Possiamo provare a cercare di recuperare qualche ricordo inconscio, ma vorrei che ti rivolgessi comunque alla polizia» disse lo psicologo, guardando intensamente il ragazzo «non fare cose avventate» aggiunse prima che nella stanza scendesse il silenzio.
Il dottore era visibilmente preoccupato per il ragazzo e, ovviamente, credeva alla storia che aveva appena sentito; anzi, non era neanche tra le più strane che gli fosse mai capitato di ascoltare: spesso aveva letto che un rumore reale, così come i pensieri e i desideri, era in grado di influenzare un sogno, di stimolare determinate associazioni.
«Vorrei provare a sottoporti a una breve seduta d’ipnosi» riprese, «credo che così potremo scoprire qualcosa che hai inconsciamente registrato, ma a cui non hai accesso in queste condizioni. Forse potremmo anche trovare le risposte a questi interrogativi» continuò guardando in ragazzo nel modo più calmo e conciliante possibile, per metterlo a proprio agio con la proposta appena avanzata.
Ryan rispose all’occhiata di Luther con uno sguardo carico di sospetto e di diffidenza «Non credo a queste cose, dottore» disse «così come non credo agli UFO, ai fantasmi, alle scie chimiche e al fatto che i vaccini siano la causa dell’autismo nei bambini» continuò con tono critico ma dal momento che non è qualcosa in grado di fare danni permanenti direi che possiamo provare, anche se, come ho già detto, non credo porterà a qualcosa di utile» si allungò sul divano, imitando la classica posa da psicanalisi che aveva visto molte volte nei film. «l’importante è che non mi faccia fare il pollo» disse ridendo alla sua stessa battuta.
Bennett si sforzò di ridere alla battuta, leggermente offeso dall’opinione del ragazzo, tuttavia la sua filosofia era che ognuno poteva pensarla a modo suo, così si alzò e andò ad accendere un grosso impianto stereo facendo partire un mantra tibetano che era utile per stimolare il subconscio e facilitare la terapia ipnotica.
«Adesso ho bisogno che tu chiuda gli occhi e respiri profondamente» disse mentre poggiava le mani sula fronte del ragazzo.
«Lentamente ti sentirai scivolare nel sonno e non devi opporti a questo movimento. Respira e lasciati andare». Con calma guidò il ragazzo in uno stato di trance ottimale per riportare alla luce ricordi nascosti.
«Dove ti trovi, Ryan?» chiese il dottore.
«Sono nel parco giochi, quello in cui andavo da piccolo. Sono vicino all’altalena» rispose lui.
«C’è una persona con me. Stiamo giocando insieme»
«Sai chi è questa persona, Ryan?»
«No, non ne ho idea.» rispose «eppure…» si fermò iniziando a sudare e ad agitarsi.
«Tranquillo, è solo un sogno. Non succederà niente di brutto» rispose lo psicologo provando a tranquillizzare il paziente. «Andiamo avanti fino al sogno che hai fatto la notte appena passata.
Dimmi cosa vedi?» chiese con voce conciliante prima di fare una pausa in modo che il ragazzo potesse passare da un ricordo all’altro «Dove ti trovi, Ryan?».
«Sono in un corridoio. Il pavimento è a scacchi» disse lui con voce flebile «sto camminando fino alla biblioteca» continuò.
«Benissimo» rispose lo psicologo «Senti qualche rumore mentre ti trovi nella stanza? Qualcosa che ti sembra strano?»
Il ragazzo rimase un momento in silenzio, come se stesse realmente in ascolto.
«Sento dei campanelli, come quelli dei cappelli. Sono vicini a me»
«C’è qualcuno con te nella biblioteca?» provò a chiedere lo psicologo.
«Vedo solo l’uomo che mi sta mostrando il tendone, ma sento ancora i campanelli. Sono più vicini» disse il ragazzo iniziando ad agitarsi.
«Non sono realmente con te i campanelli. Sono lontani e non ti possono fare niente» lo psicologo si avvicinò a lui provando a intervenire senza interrompere la trance in maniera brusca.
 «Ryan, concentrati» gli disse «c’è altro che non ti sembra essere congruente con la scena che stai vivendo?» attese di nuovo la sua risposta.
«Qualcuno sta parlando. Non è l’uomo. È un’altra voce» rispose in un sussurro «mi sta dicendo ce ci incontreremo presto perché lui mi conosce e mi potrà aiutare» continuò mentre lo psicologo ascoltava visibilmente turbato. «Dice anche che lui ha tutte le risposte e che vuole che porti anche la mia amica» terminò la frase e rimase in silenzio.
Poco dopo il ragazzo riprese a parlare.
«C’è anche qualcuno che ride, una risata da uomo».
«Bene, Ryan. Adesso ho bisogno che tu torni da me, non puoi rimanere nella biblioteca» disse con molta calma, anche se poteva sentire una punta di nervosismo.
«Apri la porta e torna nel mio studio, adesso» gli toccò la spalla e osservò il ragazzo mentre apriva lentamente gli occhi.
Lo guardò con un’espressione rassicurante, visto che molti non riuscivano a ricordare di essere stati ipnotizzati e spesso, appena svegliati, provavano un senso di disorientamento, non riuscendo a ricordare come o quando si fossero addormentati.
«Come ti senti?» chiese al giovane mentre spegneva la registrazione.
«Meglio…» rispose lui leggermente in imbarazzo per non aver creduto fin da subito a quella pratica.
«Ha scoperto qualcosa di utile? Un qualche collegamento tra gli eventi?» chiese con un tono che tradiva leggermente la sua emozione.
«Nulla» disse l’uomo girandosi verso il ragazzo «Hai parlato di quando eri piccolo, del parco in cui giocavi, poi anche del sogno che mi avevi raccontato, ma anche ripercorrendolo, non c’era niente di rilevante o di strano a mio parere» si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla «Secondo me non ci sono correlazioni tra il biglietto e il sogno, quindi il mio consiglio è di sporgere denuncia a causa dell’effrazione e poi di cambiare serratura, magari aggiungendo un chiavistello» disse sfoggiando un classico sorriso da repertorio per fugare ogni suo possibile dubbio.
«Ora torna a casa e butta questo biglietto. Così ti libererai anche da tutta questa faccenda. Lo dico per il tuo bene» concluse accompagnandolo alla porta, dove lo salutò e lo seguì con lo sguardo mentre saliva in macchina.
Sapeva benissimo di avergli mentito, ma era necessario. Non poteva lasciarlo in balia di una situazione del genere da solo, perché avrebbe scoperto solo cose spiacevoli.
Nello stesso momento in cui elaborava questi pensieri e il ragazzo raggiungeva la macchina, vide che la paziente dell’appuntamento successivo stava arrivando.
Una ragazza dai capelli castani acconciati in una lunga treccia posata sulla spalla sinistra, di corporatura minuta, nonostante avesse già superato i diciotto anni.
Si chiamava Victoria Skyfell ed era diventata da poco una dei suoi nuovi pazienti. Era alla seconda seduta di terapia, perché i genitori temevano che fosse rimasta turbata dopo che la sorella era stata rapita diversi mesi prima e non era mai stata ritrovata.
Notò anche che gli sguardi dei due giovani s’incrociarono per un attimo ma Ryan salì in macchina senza trattenersi ulteriormente e partì.
«Sono lieto di vederti di nuovo, Victoria» esordì stringendole la mano «accomodati pure» disse prima di invitarla a entrare.
«Grazie» rispose distrattamente «Dottore, posso farle una domanda? Chi era quel ragazzo che era qui poco fa?» chiese cercando con lo sguardo una finestra per vedere se il ragazzo era ancora nei paraggi.
«È un mio paziente, Victoria. Non posso dirti nulla sul suo conto per via del segreto professionale e per proteggere la riservatezza dei miei pazienti» rispose Luther in maniera molto diplomatica «anzi, non è bene neanche che vi siate incrociati. Devo gestire meglio gli orari» disse sedendosi sulla poltrona come tante altre volte.

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Capitolo 3
*** 3. ***


La sveglia strillava il suo richiamo. Era già la terza volta che ripeteva quel suono fastidioso.
Un braccio si allungò fuori dal letto cercando tentoni la fonte dell’allarme e, dopo averla trovata, la scaraventò a terra.
«Ho capito, ho capito.» Disse una voce assonnata. «Mi sto alzando!» Lentamente si liberò dal “bozzolo” creato con le coperte e si avviò verso il bagno strofinandosi gli occhi.
Chiuse la porta alle spalle e si guardò allo specchio.
«Perfetto…» commentò osservando la massa disordinata che la sera prima aveva chiamato capelli.
Victoria Skyfell, diciottenne brillante e arguta, era alle prese con il più classico dei suoi problemi: svegliarsi.
Si passò le mani tra le varie ciocche mentre sbadigliava, poi prese la spazzola e iniziò il rituale che sapeva perfettamente che le sarebbe costato l’ennesimo ritardo a scuola.
Dopo più di mezz’ora aprì nuovamente la porta e scese a fare colazione, portandosi dietro i vestiti da indossare. Sul tavolo c’erano già pronte la tazza con il latte e la scatola dei biscotti. Si sedette con calma e iniziò a mangiare mentre controllava il cellulare, assaporando la dolcezza dei biscotti fatti in casa dalla mamma il pomeriggio precedente.
Mangiò solamente tre biscotti prima di chiudere la scatola e di svuotare la tazza nel lavello.
Finì di vestirsi in cucina, prese le chiavi della macchina e il sacchetto con il pranzo. Uscì sul vialetto e salì in macchina e provò a mettere in moto il vecchio rottame Ford che i suoi genitori le avevano comprato spacciandolo per una “macchina”, ma com’era prevedibile, il mezzo singhiozzò un paio di volte, rimanendo fermo.
«Dai, brutto scemo! Muoviti!» urlò sbattendo una mano sul volante, girando nuovamente la chiave.
Questa volta l’auto sembrò collaborare e si accese scoppiettando, accompagnata da un sospiro di sollievo della ragazza, che finalmente riuscì a partire.
Impiegò poco meno di quindici minuti ad arrivare nel parcheggio della scuola e si sorprese nel notare di essere in ritardo di soli dieci minuti. Parcheggiò, scese e raggiunse con calma l’armadietto nel corridoio principale.
«9…7…1…9…» ripeté i numeri utilizzati per la combinazione del lucchetto. Afferrò veloce il quaderno di storia moderna e richiuse lo sportello, avviandosi lungo il corridoio piastrellato color panna che tanto odiava e che avrebbe dovuto sopportare ancora per poco.
Il corridoio era deserto, ma si sentivano ugualmente le voci dei vari professori che spiegavano a ragazzi palesemente ancora addormentati che annuivano in maniera poco convinta.
Si fermò davanti alla porta dell’aula del signor Fintch, il suo professore di storia moderna. Un uomo di una certa età, con dei folti baffi bianchi, considerati illegali in ventotto stati e cinque paesi europei, che spesso amava perdersi nei suoi ricordi della guerra del Vietnam e di com’era un’epoca differente.
Fece un respiro profondo ed entrò, andando con decisione verso il suo posto, nella speranza di passare inosservata.
«Oggi è nettamente in anticipo, signorina Skyfell.» Disse in tono sarcastico. «Sarei quasi tentato di chiudere un occhio, ma se lo avessi fatto nel ’65, ora mi ritroverei con un buco supplementare in testa grazie a quei maledetti vietcong!» sbatté un pugno sulla cattedra, come a voler rafforzare la sua affermazione, mentre fissava la ragazza con i suoi occhi azzurri come il ghiaccio.
«E adesso, se è così gentile da fare una passeggiata fino alla presidenza…» con un ampio gesto del braccio le indicò la porta.
La ragazza dai capelli castani si alzò molto lentamente dalla sedia, sperando che l’insegnante cambiasse idea, ma il suo sguardo duro non ammetteva repliche, così come il gesto di indicare la porta che aveva da poco varcato.
Alla fine era di nuovo in quell’orribile corridoio e sarebbe di nuovo dovuta andare a fare visita al preside McGrant.
Si avviò verso l’ufficio del preside, percorrendo un altro corridoio altrettanto anonimo in cui gli armadietti facevano da scudo per il muro.
La porta della presidenza era del tutto identica a quella delle altre aule, una semplice porta in compensato rivestita con un pannello che cercava di imitare un legno scuro e sul vetro opaco c’era stampata la scritta “preside McGrant”.
Bussò e attese di essere invitata a entrare.
Il preside era un uomo sulla cinquantina, con un fisico asciutto tipico di chi aveva passato una vita come atleta e solo da poco aveva appeso gli scarpini al chiodo. I capelli scuri contribuivano a dargli un’aria più giovanile, così come la perfetta rasatura, sinonimo di meticolosità e ordine mentale, così come il vestito grigio chiaro che indossava in quel momento.
«Signorina Skyfell,» esordì con calma, «anche oggi è mia ospite? Prego si sieda» disse indicandole la sedia di fronte alla sua scrivania.
«Che cosa è successo oggi? In ritardo come al solito?» chiese con tono pacato.
La ragazza abbassò lo sguardo evitando quello del suo interlocutore.
«Si, anche se questa volta è stato solo di dieci minuti!» rispose la ragazza cercando di far comprendere all’uomo il suo punto di vista.
«Il signor Fintch mi ha detto di uscire, nonostante mi sia impegnata molto per evitare di fare tardi!» aggiunse cercando di discolparsi, mentre guardava il preside negli occhi come a voler rafforzare la sia affermazione.
«Immagino.» Disse l’uomo dai capelli scuri. «So bene che sono cose che succedono. Ai miei tempi, che lei ci creda o no, ero un ragazzo molto fico!» mimò il gesto delle virgolette insieme all’ultima parola prima di farsi una grossa risata.
Alla fine il preside era una persona buona, sapeva farsi rispettare e capiva quando era il momento di essere intransigenti, ma riusciva sempre a dosare il giusto quantitativo di autorità.
«Purtroppo, però, i suoi ritardi sono stati già troppi, signorina Skyfell.» Esordì guardandola negli occhi e tornando a essere il preside serio e intransigente.
«Non posso più chiudere un occhio su questo problema, quindi vorrei che si trattenesse alcuni pomeriggi per recuperare le ore che ha perso. Cominciando da oggi.»
Victoria rimase immobile sulla sedia, ascoltando le motivazioni legate alla scelta della punizione.
-Adesso come lo dirò a mamma?- Pensò, iniziando già a immaginare tutti i rimproveri che facevano da gran finale a ogni brutta notizia riguardo alla scuola.
«Va bene.» Si limitò a rispondere, alzandosi dalla sedia e uscendo dall’ufficio per tornare in aula.
Il resto della giornata scolastica proseguì senza troppe emozioni.
La lezione di storia era andata praticamente tutta persa, ma riuscì a seguire normalmente quella di letteratura e quella di scienze. Almeno quelle non le avrebbe dovuto recuperare, perché non erano proprio le sue preferite.
Arrivò anche l’ora di pranzo. Il classico momento in cui si notava alla perfezione quanto poco fosse interessante per tutti gli altri studenti, specialmente dopo che la storia di sua sorella Diana era diventata di dominio pubblico.
Nessuno si sedeva più con lei, non la invitavano alle feste, non aveva amici, nessuno la salutava per i corridoi.
Prima la evitavano, temendo forse che il rapimento fosse una malattia contagiosa, pensò, poi col passare del tempo e con l’archiviazione del caso, era lentamente diventata invisibile.
Non aveva mai avuto grandi amici a causa di un carattere molto introverso che spesso era frainteso come “senso di superiorità” e anche quei pochi l’avevano lasciata sola nel momento più critico.
Però col passare dei mesi era diventata una situazione sopportabile in cui entrambe le parti sembrava avessero stretto un accordo di reciproca indifferenza: come se uno non esistesse per l’altro.
Finì di mangiare il panino che le aveva preparato la mamma e lasciò il cortile per andare nello studio del professor Fintch per scontare almeno parte della sua punizione.
Tanto vale andare a poggiare prima la borsa, pensò avviandosi ancora verso il suo armadietto con un sospiro sconsolato. Era solita finire in questo genere di situazioni, ma questa volta si era “impegnata” per non fare casini eppure aveva sbagliato ancora.
Aprì lo sportello e vide una busta bianca, tipo quelle da lettere, cadere ai suoi piedi.
La raccolse da terra e iniziò a esaminarla: una semplicissima busta bianca, nessun mittente, niente destinatario o francobollo.
Chi potrebbe averla messa qui dentro, si chiese mentre la apriva. In quel momento notò come le mani le tremavano e come il cuore le battesse, ma si diede subito della stupida per via di quest’ansia immotivata.
La busta conteneva una fotografia e un messaggio.
Tirò subito fuori la foto che ritraeva il profilo marcato di un ragazzo giovane, aveva i capelli scuri portati molto corti e si notava una barba nelle prime fasi della ricrescita che gli contornava il viso. Gli occhi erano castani e sembravano puntare qualcosa molto lontano.
Dopo aver esaminato attentamente la foto cercando di capire se conoscesse il ragazzo, prese il foglio e lo aprì per vedere cosa ci fosse scritto.
Sgranò gli occhi leggendo le poche parole stampate in mezzo al foglio.
 
Trova il ragazzo e troverai la tua sorellina.
Seguilo e ti porterà da lei.
 
Si guardò immediatamente intorno, ma il corridoio era deserto. Nessun rumore, tranne le voci ovattate provenienti dal cortile.
Guardò nuovamente il biglietto e la foto, mentre il cuore accelerava come se volesse balzarle fuori dal petto e le mani faticavano a tenere la presa.
Allora c’è qualcuno che sa’, pensò ancora incredula.
Chiuse lo sportello dell’armadietto e iniziò a correre fino ad arrivare alla macchina.
Salì e partì facendo stridere gli pneumatici sull’asfalto.
-Devo assolutamente tornare a casa.- questo era l’unico pensiero che riusciva a formulare insieme all’immagine di sua sorella.

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Capitolo 4
*** 4. ***


Era un freddo pomeriggio di dicembre. Le nuvole lasciavano presagire che in un paio d’ore avrebbe nevicato abbondantemente. Il freddo era quasi insopportabile, tanto da sentirlo nonostante il giaccone pesante e gli ultimi minuti di luce della giornata non erano di certo una soluzione efficace per riscaldarsi.
Il termometro elettronico già segnava i -20°C ed erano solo le quattro del pomeriggio.
«Oggi si congela proprio.» disse Diana mentre il suo viso era parzialmente coperto da una nuvola di condensa.
«Allora faremo meglio a sbrigarci a tornare a casa, altrimenti la mamma si arrabbierà se stiamo fuori con questo tempo.» Victoria prese per mano la sorella di cinque anni meno di lei, mentre con l’altra teneva i pattini.
Erano state alla pista di pattinaggio tutta la mattina, visto che la ragazzina aveva insistito tanto per poterci andare, ma i loro genitori erano troppo impegnati con i turni di lavoro per poterla accompagnare.
Vedere la ragazzina così contenta, il suo grande sorriso illuminarle il volto contornato dai capelli biondi, era una sensazione incredibile: riusciva a scaldare tanto da non sentire neanche il vento freddo sulla faccia.
La distanza che separava le due ragazze dalla casa non era molta, ma era sufficiente per farle tirare un sospiro di sollievo dopo aver chiuso la porta di casa alle loro spalle.
«Vado a farmi un bagno caldo.» disse la ragazza dai capelli castani dopo aver riposto le giacche e i pattini, poi guardò la sorella e le sorrise.
«Sai dove sono i biscotti. Basta che non ne mangi troppi, altrimenti la mamma se ne accorgerà e poi non mangerai a cena.» Aggiunse passandole una mano sulla guancia con fare gentile, poi salì in camera a prendere i vestiti puliti e iniziò a riempire la vasca di acqua calda.
Lentamente il vapore caldo riempì la stanza e Victoria iniziò a spogliarsi con calma. Senza tutti quei vestiti vide allo specchio una ragazza abbastanza minuta, dalla pelle chiara e morbida, un corpo tonico e giovane che iniziava a mostrare la propria femminilità con delle leggere curve sui fianchi e sul seno.
Si allontanò dallo specchio per entrare nella vasca ormai piena di acqua bollente, sovrastata da una vaporosa schiuma profumata. Scivolò dentro lasciandosi sfuggire un verso di piacere al caldo abbraccio del bagno che le avrebbe sciolto tutti i muscoli.
Quel piacevole tepore la condusse in uno stato di semiveglia in cui l’unico suono reale era quello delle gocce che dal rubinetto andavano a colpire il pelo dell’acqua sottostante.
Il tempo divenne un qualcosa di effimero; non ricordava da quanto tempo era nella vasca, ma a giudicare dalla pelle doveva trovarsi lì già da un pezzo, quindi decise di uscire per asciugarsi. Con calma si rivestì e uscì dal bagno.
Il corridoio era una galleria del vento e si guardò intorno perplessa. Forse Diana aveva aperto una finestra e aveva dimenticato di chiuderla.
«Diana!» la chiamò.
«Perché hai aperto le finestre?» Chiese ad alta voce seguendo la direzione del vento, ma non era una finestra a essere aperta, bensì la porta di casa.
La porta era spalancata e si affrettò a richiuderla prima di chiamare di nuovo la sorella, ma non ricevette risposta. Chiamò ancora andando verso la camera e la trovò vuota, così come la cucina e la sala.
Diana non era più in casa.
Corse fuori e fu subito investita da una raffica di vento che portava i primi fiocchi di neve, ma non era quello il problema.
«Diana!» urlò a pieni polmoni, però nessuno rispose. Urlò ancora fino a che alcune persone cominciarono ad affacciarsi alle porte. La ragazza dai capelli castani cadde in ginocchio iniziando a piangere.
Sua sorella non era più da nessuna parte.
Il suono del campanello la destò da quelle immagini che assomigliavano più a incubi che a veri e propri ricordi e subito un barlume di speranza si accese nel cuore.
Era davanti alla porta della stanza che fino a poco prima era stata la cameretta di Diana, con la mano che stringeva la maniglia tanto da essere diventata quasi totalmente esangue.
Corse fino alla porta, ma la sua gioia si spense nel vedere il postino.
«Avrei una lettera per la signorina Victoria Skyfell.»
«Sono io.» prese la lettera e chiuse la porta dopo un cenno di saluto, mentre l’uomo le sorrise augurandole una buona giornata.
Di nuovo il cuore riprese a battere, mentre la mente si sbilanciava in ipotesi tanto varie quanto fantasiose ancor prima di leggere il mittente.
L’involucro era di nuovo anonimo, riportava solo il suo nome e il suo indirizzo, oltre ad un francobollo da alcuni centesimi con un fiore raffigurato. Lentamente aprì la busta, rimanendo ancora di fronte alla porta.
Al suo interno trovò un semplice bigliettino scritto a mano in una calligrafia molto precisa e leggermente inclinata verso destra.
 
Gli indizi spuntano sempre nei luoghi più insoliti.
Forse un esperto potrebbe portarti sulla giusta strada.
 
«Un esperto,» ripeté ad alta voce cercando di capire il vero significato del messaggio.
-Chi può essere l’esperto che il mittente vuole che trovi?- Pensò iniziando a ripercorrere mentalmente tutte le persone che le venivano in mente.
Camminò pensierosa fino alla cucina, dove poggiò la lettera sul tavolo, prima di sedersi a riflettere.
Alzò lo sguardo che incrociò un cerchio rosso sul calendario: la data importante era proprio quella di oggi e dentro il cerchio lo spazio era riempito dalla nota “Dr. Bennett”.
Si alzò di colpo, rovesciando la sedia.
«È lui!» esclamò, eppure una sensazione strana si insinuò tra i suoi pensieri: come faceva qualcuno a sapere che il dottor Bennett avrebbe potuto aiutarla? A quella domanda subentrò il pensiero razionale che le suggerì che forse era stata una scelta casuale di parole e che quindi non si riferisse precisamente allo psicologo, oppure potevano semplicemente sapere o aver supposto che lei fosse una sua paziente.
Troppe possibilità, pensò, che portavano ad altrettante variabili. Non avrebbe mai ottenuto una risposta rimanendo a fare supposizioni in cucina.
Prese il cappotto e uscì per andare all’appuntamento, nonostante fosse leggermente in anticipo e il tragitto che separava le due abitazioni era di solo un quarto d’ora, tagliando per il parco. Non valutò neanche l’idea di andare in macchina perché avrebbe perso anche più tempo solo per farla partire, poi una camminata avrebbe potuto avere dei risvolti positivi sulla sua mente tormentata dai ricordi.
L’aria fresca di quel pomeriggio che non si poteva ancora dire di primavera le fece venire dei piacevoli brividi.
Inspirò a pieni polmoni l’aria frizzante e si sentì di nuovo in grado di mantenere il controllo sulle proprie emozioni. Doveva affrontare la situazione in maniera razionale, senza farsi sviare dalle emozioni. Per trovare un rapitore che aveva agito in maniera così scrupolosa, bisognava almeno avvicinarsi al suo livello per sperare di trovare qualche indizio.
Scacciò via quei pensieri scuotendo violentemente la testa e prese a camminare con passo deciso verso l’abitazione dello psicologo, ignorando la strana sensazione che quelle lettere le avevano lasciato addosso.
Vide la grande casa a ridosso del bosco e ricordò di quando la vide la prima volta, poche settimane prima: era rimasta sorpresa dalla perfezione e dall’armonia del luogo.
L’edificio in legno scuro e pietra, con il tetto a spiovente e le grandi finestre, sembrava essere nato proprio per appartenere a quel luogo, come se ci fosse un’intima connessione tra la casa e il bosco.
Il ricordo viaggiò fino all’immagine del salone e della sua grande vetrata, così semplice eppure era come una porta verso la pace e l’armonia. I suoni esterni giungevano ovattati, ma si aveva la sensazione di non essere in un ambiente chiuso, bensì all’aperto.
Il ricordo, però, andò a scontrarsi con la realtà.
Il vialetto che conduceva all’ingresso era occupato da una macchina nera.
Qualcun altro con dei problemi, pensò sarcasticamente, mentre vide la porta aprirsi e il dottore che accompagnava un uomo verso la macchina parcheggiata. L’uomo sembrava relativamente giovane, ma la distanza che li separava era ancora troppa per dare una valutazione precisa. Indossava un giubbotto di pelle sopra dei jeans, che nascondeva ancora la sua corporatura, però riusciva a distinguere chiaramente le spalle larghe e la sua altezza.
Come si avvicinò di più notò i capelli scuri tenuti corti e la sua espressione seria. Lui era vicino alla macchina e probabilmente sentì i suoi passi sul vialetto coperto di breccia, perciò si girò verso di lei mostrandole il suo volto.
Era effettivamente un ragazzo, non propriamente un uomo, ma neanche giovane. La leggera barba la portò a valutare un’età sul quarto di secolo, le labbra erano sottili e molto chiare, mentre gli occhi erano scuri e profondi come la notte stessa.
Sentì subito il suo sguardo addosso, come se con quegli occhi potesse vedere cosa nascondesse dentro, ma il contatto durò pochi istanti, perché aprì la portiera e salì in macchina.
Superò la macchina del ragazzo come il dottor Bennett la invitò a entrare, ma in quel momento le tornò in mente la foto che aveva ricevuto. Ci assomiglia, pensò, ma la valutò come una forma di suggestione.
«Chi era quel ragazzo che è appena uscito?» chiese, girandosi di nuovo verso la finestra osservando ancora il tipo seduto in macchina.
-Ci assomiglia troppo,- pensò di nuovo.
«È un mio paziente, ma non posso dirti nulla su di lui.»
-È lui la persona che dovrei trovare!- Pensò ancora sentendo salire l’agitazione. -Lui deve sapere di mia sorella…sempre che non sia stato lui,- si disse e le sembrò un’ipotesi terribilmente convincente.
Sentì la macchina avviarsi e le ruote muoversi scricchiolando sullo sterrato. Doveva prendere una decisione alla svelta: lasciarlo andare e cercare di scoprire qualcosa da Luther, oppure seguirlo.
L’auto si stava cominciando ad allontanare, così come le risposte che cercava.
Uscì di corsa, ma la macchina nera era già lontana.
La inseguì correndo dando fondo a tutte le sue energie e al suo fiato, tagliando sull’erba, recuperando terreno.
Il ragazzo sembrava non essersi accorto di essere seguito, perché non rallentò minimamente, ma riuscì a seguirlo solo fino al primo incrocio, dove svoltò verso il centro della città.
Si fermò sfinita, piegata in due sulle ginocchia per riprendere fiato. Imprecò tra i denti per aver perso una possibilità per ottenere delle informazioni in più su tutta quella situazione che stava diventando davvero assurda.


Angolo dell'autore:
Diciamo che la vicenda ha preso il lancio. Con questo capitolo le cose cominceranno a farsi serie e spero che non ci siano buchi logici nella trama.
poi volevo ringraziare tutte le persone che sono arrivate fino a questo punto, perchè mi avete dato molta fiducia per continuare.
Grazie del tempo che mi avete dedicato fino a ora.
 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Ryan era ancora fermo davanti alla macchina dopo essersi congedato dallo psicologo.
La seduta di ipnosi lo aveva lasciato leggermente turbato, perché non si aspettava che avrebbe effettivamente funzionato su di lui.
-Non immaginavo di essere così facilmente influenzabile,- si rimproverò.
Stava per aprire la portiera quando un rumore di passi lo fece girare: una ragazzina, presumibilmente molto giovane, a quanto poteva vedere, si stava avvicinando all’abitazione con passo deciso.
Indossava una giacca grigia leggermente avvitata che lasciava intuire un fisico magro. I capelli castani acconciati in una lunga treccia che ricadeva sulla spalla destra contornavano un viso serio, che sembrava assorto in mille pensieri, eppure era un viso interessante, che trasmetteva intelligenza, ma il vero fulcro erano gli occhi: le due sfere di ghiaccio lo fissavano con sospetto, come farebbe un predatore con la sua preda.
Sostenne il suo sguardo per quell’istante in cui lo incrociò, ma poi decise di salire in macchina per andare via.
Come chiuse la portiera sentì il telefono squillare, ma il numero era sostituito dalla scritta “utente riservato”.
«Pronto?»
Silenzio.
«Pronto?» ripeté, ma ancora una volta non ottenne risposta.
Qualcuno stava parlando, ma sembrava lontano dal ricevitore e non si riuscivano a distinguere bene le parole.
Inoltre si percepiva un suono di fondo, quasi ritmico e ripetuto, come se fosse una litania o una canzoncina.
«Pronto?» disse nuovamente, sperando che qualcuno prendesse il telefono e gli spiegasse cosa stava succedendo.
Spazientito staccò il cellulare dall’orecchio e un urlo lo fece trasalire.
Riavvicinò subito l’apparecchio, provando ancora ad attirare l’attenzione dell’interlocutore, ma riusciva a sentire solo la musichetta e qualcuno che stava piangendo.
-Polizia! Subito!- Fu l’unica cosa che riuscì a elaborare, mentre guidava e cercava di ascoltare cosa succedeva dall’altra parte della linea telefonica. Uscito dal vialetto e prese la prima svolta possibile cercando di fare il più in fretta possibile, perché la chiamata non era ancora stata chiusa e si sentivano sempre più distintamente i lamenti di qualcuno.
L’angoscia cresceva nel petto del ragazzo e il pianto passò a dei versi simili a quelli di un film horror, dove la vittima sapeva di essere ormai arrivata al capolinea. Il tono così acuto gli suggerì che probabilmente la persona che stava piangendo era una ragazza.
Urlava, piangeva, chiedeva pietà, poi gridava di nuovo e il ciclo si ripeteva.
Fino al silenzio.
«Mi sentite?!» gridò di nuovo mentre vedeva la stazione di polizia.
Ancora silenzio, ma la chiamata era ancora aperta.
Lasciò la macchina nel primo posto disponibile, senza curarsi troppo dei dettagli: c’era una persona in pericolo e non era il caso di perdere tempo.
Entrò nella stazione che, come al solito, era deserta tranne che per i soliti due che erano stati fermati per una rissa da ubriachi. Si avvicinò velocemente al bancone dietro il quale un poliziotto gestiva le varie necessità di chi entrava.
«Posso aiutarti ragazzo?»
«Sì, ho appena ricevuto una chiamata da un numero riservato e ho sentito una donna che chiedeva aiuto.»
L’uomo parve destarsi da un sogno come ascoltò il breve racconto, ma subito si rilassò quando, avvicinando all’orecchio il cellulare che Ryan gli stava porgendo, nessuno rispose.
«Hanno chiuso la chiamata, evidentemente.» disse il poliziotto con un tono leggermente sarcastico, restituendogli l’apparecchio.
Prese il telefono quasi incredulo e lo avvicinò all’orecchio come per controllare di non essere stato preso in giro.
Silenzio.
Un silenzio che non lasciava presagire nulla di buono.
«Dove posso trovare l’agente Buxton?». Ricevette delle indicazioni sommarie e si avviò in quella direzione.
Tom Buxton era un suo amico d’infanzia, erano amici fin da piccoli, anche se lui aveva quattro anni in più ed era entrato in polizia dopo aver capito che lo studio non era un mondo per cui era portato.
Trovò il ragazzo biondo nel suo ufficio, con le esili spalle chine sulla scrivania su cui era poggiato un computer smontato. L’ufficio era molto piccolo, con una libreria che occupava un’intera parete, piena di vecchi fascicoli di casi archiviati che ormai facevano solo povere, mentre una finestra alta forniva quella poca luce utile solo in quelle poche ore della mattina. Era talmente assorto nel suo compito che non si accorse dell’amico finché non bussò contro la porta aperta.
«Oh! Ma guarda chi è venuto a trovarmi!» Tom si alzò e andò incontro a Ryan abbracciandolo.
«Allora R, cosa ti porta nella grigia e sgangherata stazione di polizia di Newton, visto che non hai un panino in mano e che sembri uno che ha appena visto un fantasma?»
«Ho un favore da chiederti.» Ryan prese posto su una delle sedie dell’ufficio e raccontò all’amico tutta la storia, comprese le ultime vicende.
«Quindi secondo te è possibile risalire al numero se dovesse chiamare una seconda volta?»
«Mi dispiace, bello, ma credo sia impossibile.» disse il ragazzo lasciandosi andare sulla sua poltrona girevole, picchiettando un dito sulla gamba con fare pensieroso.
«Forse la compagnia telefonica potrebbe darci una mano, ma dovrebbe partire un’indagine, con delle prove concrete e ti posso garantire che non è una cosa rapida.
Se vuoi posso provare a mettere un microfono nel tuo telefono, così intanto registreresti la conversazione se per qualche motivo dovesse richiamare.» aprì un cassetto da cui tirò fuori un minuscolo microfono nero.
«Con questo puoi registrare fino a dieci ore di conversazione e le puoi inviare direttamente al mio computer. L’unico problema è che ascolterebbero tutte le tue conversazioni.» Aggiunse una certa enfasi nella parola “tutte”, come a sottolineare il conseguente annullamento di qualsiasi forma di privacy che la situazione avrebbe comportato.
«Lasciamo stare.» rispose il ragazzo dai capelli scuri.
-Non posso fare nulla.- pensò sconsolato.
«Per quanto riguarda l’effrazione,» riprese Tom «andrò subito dal capo e riuscirò a fare in modo che già da questa sera almeno un agente, anche a costo di essere io stesso, sia nei paraggi del tuo appartamento. Se non altro sarà più sicuro fino a che non cambierai la serratura.»
«Grazie, sei un amico.» Si alzò e abbracciò il ragazzo biondo prima di lasciarlo al suo lavoro, per tornare a casa perché stava cominciando a farsi tardi e doveva sbrigarsi se voleva chiamare anche un fabbro per la nuova serratura.
Uscì a passo svelto dalla stazione di polizia e tornò alla macchina, dove tirò un sospiro di sollievo nel notare che nessuno aveva deciso di multarlo per quello che non si poteva propriamente definire un parcheggio, visto che la vettura era rimasta nel mezzo dello spiazzo con tanto di finestrino dimenticato abbassato.
L’idea che qualcuno potesse aver chiamato per sbaglio il suo numero non lo abbandonava, ma lottava con l’ipotesi che la chiamata fosse intenzionale e collegata agli ultimi eventi, sebbene l’associazione appariva terribilmente forzata, quasi paranoica.
Il tragitto fino a casa però non riservò alcuna sorpresa. Tutto rientrava nei canoni normali.
Davanti alla porta dell’appartamento il dubbio e la paura tornarono a prendere il sopravvento.
-E se qualcuno fosse entrato e mi stesse aspettando?- Si ritrovò a pensare dopo aver poggiato una mano sulla maniglia.
-Che cosa farei se avesse messo delle cimici per spiarmi? Forse ha scoperto della telefonata e ora vuole prendere anche me, così come ha fatto con la ragazza!- Il panico stava prendendo il sopravvento sulla logica.
Sentiva le mani tremare e improvvisamente iniziò a sentire freddo, ma la sensazione peggiore fu quella di sentirsi osservato.
Sicuramente qualcuno lo stava osservando, anche se il corridoio era vuoto ed era certo di non aver sentito rumori sospetti.
Aprì la porta con eccessiva cautela e la richiuse subito alle sue spalle. Costatò che l’ingresso sembrava identico a come lo aveva lasciato poche ore prima, ma non si sentiva ancora tranquillo, perciò fece un giro completo dell’appartamento prima di sentirsi soddisfatto e al sicuro.
Prese il telefono e si fece mettere in contatto con il fabbro più vicino dalla voce del centralino.
«Capisco perfettamente il problema,» disse l’uomo all’altro capo della linea, «domani, se vuole, posso passare anche in tarda mattinata con la serratura nuova e dovrei risolvere la questione in massimo un’ora.»
«Perfetto. Allora a domani.»
I due si congedarono e il ragazzo sentì alleviarsi il senso di oppressione e di pericolo che lo perseguitava da quando si era svegliato.
Non passarono neanche dieci secondi che il telefono riprese a squillare.
Ryan rispose sovrappensiero, non notando l’identità riservata del numero.
«Ti è piaciuto lo spettacolo?» disse la voce dall’altro capo del telefono.
«Prova a chiamare la polizia e lei muore. Prova a dirlo a qualcuno e lei muore. Prova a non seguire le mie istruzioni e lei muore.» La voce molto profonda parlava in maniera perentoria e autoritaria.
«So benissimo che sei andato alla polizia dopo la mia telefonata, perché io ti vedo, Ryan. Ti vedo in ogni momento, anche adesso che sei nel tuo appartamento. Sai, mi piace molto. E forse dovrei farmi un altro giro, magari facendomi vedere questa volta. Sai com’è, l’altro giorno ero molto di fretta e non sono potuto rimanere neanche per un caffè.»
Il ragazzo sbiancò all’istante.
Era lui il rapitore e la stessa persona che era entrata e che gli aveva lasciato quello strano biglietto.
«Dimmi cosa vuoi da me e perché hai scelto proprio me?» rispose il ragazzo, cercando di mantenere la calma.
Anni di telefilm polizieschi gli avevano insegnato che era meglio non far alterare gli squilibrati, specialmente se avevano un ostaggio che minacciavano di uccidere.
«Scoprirai tutto a tempo debito. Vieni al circo a cercare le risposte. Preferibilmente senza polizia, e ricordati di portare un amico.» disse lo sconosciuto.
«E sarebbe utile anche una torcia, perché ci verrai questa notte, altrimenti lei morirà.»
Ryan stava per replicare ma la chiamata era già stata chiusa.

____________
Angolo dell'autore:
In questo periodo la mia fantasia è scesa ai minimi storici. sarà il caldo, la stanchezza o i mille impegni estivi, eppure non ho mai tempo per scrivere.
a parte queste banali scuse, voglio innanzitutto ringraziare tutte le persone che stanno leggendo e commentando la mia storia, perchè questi feedback mi danno la carica per andare acanti a scrivere.
Non commenterò il capitolo (questo è il vostro compito), ma credo di essere arrivato al punto della svolta e dai prossimi capitoli l'azione sarà sempre maggiore.

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Capitolo 6
*** 6. ***


«Stai zitta, stupida ragazzina!» sibilò la voce prima che l’eco generata dallo schiaffo riempisse la stanza.
«Puoi piangere quanto vuoi, tanto nessuno ti verrà a cercare qui.»
«Sai da quanto tempo sei qui? Sono passati quattro mesi e ventidue giorni.» la risata rauca accompagnò la constatazione, mentre il lamento della piccola Diana sembrava quello di un animale che aveva deciso di arrendersi al suo destino.
«Non sopporto il tuo continuo frignare!» questa volta lo schiaffo fu decisamente più violento, tanto da far cadere la ragazza a terra.
Lei rimase lì, con la guancia in fiamme e le lacrime agli occhi, cercando di trattenersi, sperando di non essere colpita di nuovo.
Senza questi aggiornamenti periodici avrebbe da tempo perso la cognizione del tempo. Spesso provava a tenere a mente il conto delle ore che passavano, basandosi sulle gocce che cadevano dalla tubatura del wc, ma ormai aveva capito che questo metodo l’avrebbe solo fatta impazzire prima.
Quattro mesi prima aveva urlato fino a sentire le fiamme nella gola, poi aveva provato a colpire la porta con i pugni, con le spalle, con i calci, ricavandone solo una serie di lividi e un dito rotto.
Dopo due settimane aveva capito che era tutto inutile, che nessuno la stava cercando e che non importava a nessuno che lei fosse sparita nel nulla e così aveva smesso di piangere fino ad addormentarsi e adesso sentiva di stare lentamente smettendo di vivere.
«Voglio tornare a casa.» sussurrò dopo aver sentito il suono del chiavistello.
Le aveva insegnato a stare in silenzio in sua presenza, ma a volte non ci riusciva e allora veniva colpita oppure sgridata, a seconda che fosse una giornata buona o cattiva.
Oggi era una giornata veramente pessima, perché sentì i primi bozzi doloranti che, nel giro di poco, sarebbero diventati dei lividi.
Lentamente si trascinò fino all’angolo che aveva battezzato come letto, perché nella sua prigione non c’era nulla tranne che una tazza dove poteva fare i suoi bisogni, ma che preferiva usare il meno possibile. Per il resto era una stanza in cemento abbastanza grezzo con una pesante porta di metallo come una via per tornare al mondo reale.
Un sonoro brontolio della pancia interruppe i pensieri di Diana: erano circa tre giorni che non riceveva da mangiare e di sicuro non sarebbe successo neanche in quel giorno, visto il trattamento extra ricevuto.
Si rannicchiò nel suo angolo stringendo le ginocchia al petto, mentre nuove lacrime tracciavano scie sulle sue guance sporche, mentre il suono delle gocce che colpivano il pavimento creava un eco fastidioso e monotono.
Il giorno seguente si svegliò tutta indolenzita come spesso capitava vista la mancanza di un letto vero.
Lentamente cercò di alzarsi, ma la testa prese a girarle in maniera selvaggia, obbligandola a rimanere distesa, mentre i crampi allo stomaco ricominciarono a farsi insistenti.
Diana ripensò alle parole dell’uomo: era rinchiusa in quella stanza da quasi cinque mesi e fino ad ora non aveva mai trovato una sola idea per provare a cambiare la situazione, perché era chiaro che ormai nessuno la stava più cercando, altrimenti l’avrebbero già trovata.
-A meno che non mi abbia portato in mezzo al bosco o in un’altra città- pensò sconfortata e un gemito di disperazione le sfuggì dalle labbra.
-Probabilmente morirò di fame, o peggio, ci penserà lui ad uccidermi in una delle sue brutte giornate- sentì le poche lacrime rimaste iniziare a rigarle nuovamente il viso, ma le asciugò immediatamente sentendo i passi avvicinarsi alla porta, che si aprì poco dopo seguita dal forte stridio metallico dei cilindri della serratura e dei chiavistelli.
Ricordava perfettamente il suono di ogni mandata, del fatto che spesso la terza era leggermente difettosa e ci volevano due tentativi, mentre il secondo chiavistello doveva essere uno di quelli con la catenella che si usano nelle abitazioni solo più grosso e pesante visto il suono che produceva andando a rimbalzare sulla porta.
Il familiare cigolio dei cardini leggermente usurati la costrinse a mettersi seduta, ma poggiò entrambe le mani a terra per contrastare e violente vertigini, ma vide subito che l’uomo aveva in mano il vassoio e subito percepì l’odore di minestra.
«Buongiorno.» Si limitò a dire lui, poggiando il pranzo o la cena a terra davanti alla ragazza.
C’erano due ciotole sul vassoio e una era piena di minestra di pomodoro calda, mentre l’altra conteneva del pane morbido, inoltre c’era anche una bottiglia d’acqua e delle posate.
-È una trappola.- pensò la ragazza osservando l’espressione apertamente innocua del suo carceriere, rimanendo ancora ferma al suo posto, ma lo stomaco, richiamato dall’odore della minestra, lanciò un sonoro brontolio che la fece arrossire vistosamente e stringere la pancia rapidamente.
«Mangia. Non posso lasciarti morire di fame.» disse l’uomo duramente, quasi con disprezzo, come se il doversi curare della sua sopravvivenza fosse una cosa insostenibile e disgustosa e le avvicinò il vassoio con la punta del piede.
«Vuoi forse farmi arrabbiare come ieri, stupida ragazzina?» replicò quasi urlando e avvicinandosi di un passo.
«Vuoi essere picchiata ancora? Non ti basta quello di ieri?!» le urlò quasi furioso per via della sua sostenuta immobilità.
Diana capì subito che il tono non ammetteva repliche e si avvicinò lentamente al vassoio iniziando a mangiare velocemente, mentre si preparava mentalmente a subire un altro periodo di digiuno forzato e probabilmente altre punizioni perché lo aveva fatto arrabbiare.
-Sei proprio una stupida. Fai sempre arrabbiare tutti.- disse la vocina dei suoi pensieri.
«O forse lo fai di proposito?» disse prendendola per il polso, costringendola a lasciare il cucchiaio e ad alzarsi in piedi.
«Ti piace essere picchiata? Sei una di quelle ragazzine che provano piacere dall’essere colpite?» le parlò a un soffio dal viso tanto che poteva sentire il calore del suo respiro inondarle il viso.
«N-no…» rispose scotendo appena la testa, cercando di trattenere le lacrime e di controllare la paura.
L’uomo la spinse via facendola cadere a terra, poi prese il vassoio e lo scaraventò contro uno dei muri, macchiandolo col denso liquido rosso della minestra e mandando in frantumi entrambe le ciotole, poi uscì infuriato dalla stanza chiudendo violentemente la porta alle sue spalle, senza degnare Diana di uno sguardo.
Le mandate veloci decretarono l’inizio di un nuovo periodo di totale isolamento.
Diana era terra, stanca e dolorante, ma soprattutto terrorizzata dalla reazione dell’uomo. Fino ad ora non era mai stato così violento e irascibile, anzi, di solito dopo ogni sfuriata tornava calmo e cercava di essere gentile, come se fosse dispiaciuto di aver reagito. Però questa volta lei aveva peggiorato la situazione e probabilmente ne avrebbe pagato le conseguenze.
Dopo quelle che sembrarono alcune ore l’uomo tornò a farle visita.
La sua mole sembrava quasi impedirgli di passare attraverso la porta di metallo che tanto odiava e che la teneva lontana dalla libertà, ma quando se la chiuse alle spalle, notò che portava con sé un sacchetto di plastica in cui erano contenute delle cose simili a delle schegge di legno, anche piuttosto piccole.
Si avvicinò alla ragazza, prese dal sacchetto una manciata di quelle schegge e gliele mise davanti al viso tenendole sul palmo della mano.
«Mangia.» Le intimò in tono duro, guardandola con i suoi inespressivi occhi neri, cerchiati da profondi solchi neri, probabilmente dovuti alla stanchezza.
Diana pensò di chiedere cosa le stesse offrendo, ma subito le tornarono in mente le prime volte in cui si era rifiutata di ubbidire agli ordini.
Rimase ancora un momento a fissare il cibo.
Ora che lo vedeva da vicino, sembravano proprio dei pezzi di funghi secchi, invece che legno, come aveva pensato all’inizio e questo la fece sentire più tranquilla.
Mise in bocca il primo dei pezzi e il sapore non le sembrò così strano, era proprio come quelli che le era capitato di mangiare altre volte e quest’ultima conferma la spinse a mangiare ancora, fino a terminare i pezzi che l’uomo le aveva offerto.
«Buoni…» sussurrò, guardando il suo carceriere gentile, provando ad abbozzare anche un sorriso, che non ricevette alcuna risposta né positiva, né negativa.
Invece lui si alzò e andò nuovamente verso la porta e iniziò ad armeggiare con tutte le varie serrature.
«Grazie.» disse la ragazzina a voce più alta, prima che l’uomo uscisse e la lasciasse alla sua solitudine per altri due giorni, facendosi vedere solo per l’unico pasto che le veniva concesso.
Il terzo giorno si svegliò con uno strano senso di fastidio, inoltre cominciava a sentire stranamente caldo visto che nella stanza non c’erano forme visibili di riscaldamento.
-forse ci sono dei tubi caldi nelle pareti.- pensò poggiando una mano sul muro trovandolo freddo come sempre. Tuttavia la sua mano era strana: era decisamente più arrossata rispetto ai giorni precedenti.
La bionda continuò a osservarsi le mani, scoprendo che il rossore era ben più esteso di quanto immaginasse: sul braccio sinistro arriva quasi alla spalla, lasciando qualche chiazza ancora normale, mentre sull’altro arto il rossore si interrompeva appena sotto il gomito.
Il suo cuore iniziò a battere molto più velocemente per la sconvolgente scoperta e la terribile sensazione che fosse qualcosa di grave, una qualche malattia, oppure una forma allergica di cui non era a conoscenza.
-Adesso che faccio?- iniziò a pensare sempre più nel panico, perché non sapeva quando e se il suo aguzzino sarebbe tornato.
Il respiro iniziò ad accelerare frenetico.
Gli occhi guizzavano a destra e a sinistra, cercando qualsiasi cosa le potesse essere utile.
Il cuore le martellava nel petto, quasi che volesse uscire ed esplodere.
Iniziò a sentire sempre più caldo, mentre sentiva il panico crescere nelle viscere.
Corse fino alla porta e iniziò a picchiare i pugni contro di essa.
«Ehi!» urlò continuando a tempestare la lastra di metallo di pugni. «Aiutami! Sto Male!» ripetè più volte.
«Stai indietro!» urlò di rimando l’uomo dopo alcuni minuti e iniziò ad aprire le varie serrature.
La giovane si fece indietro, cominciando a sentire le gambe tremare per la paura e quando vide l’uomo gli corse incontro.
«Ti prego, aiutami! Sto male!» disse mostrandole le braccia arrossate, ma lui non si preoccupò minimamente di controllarla, anzi ne approfittò per afferrarle entrambe le mani con una presa decisa, quasi che fosse quella di una tenaglia e le bloccò i polsi con una fascetta di plastica.
«Stai ferma.» le intimò come lei cercò di sottrarsi a quella reazione del tutto inattesa.
L’uomo la mise a terra schiacciandola con il suo peso e le bloccò allo stesso modo anche le caviglie, fino ad arrivare a coprirle gli occhi con una benda, prima che Diana sentisse svanire il peso che la tratteneva a terra.
«Cosa mi vuoi fare?» urlò di nuovo in preda alla paura.
Adesso sentiva ancora più caldo, non poteva muoversi, non poteva vedere nulla e sentiva le gambe cominciare a farle male.
Il panico cresceva e cercò di muoversi e di divincolarsi per liberarsi, ma invano.
«Si. Ho capito.» sentì dire all’uomo con la voce profonda.
«Adesso lo chiamo.» aggiunse subito dopo.
Poi di nuovo silenzio e si sentì il suono dei cardini che giravano soltanto una volta, come se la porta fosse stata lasciata aperta e l’uomo fosse uscito.
-È la mia occasione!- pensò mentre il panico si trasformò in quella risoluzione che solo nei momenti più estremi si riusciva a trovare.
Cercò di mettersi in piedi, ma un dolore atroce alle gambe glielo impedì.
Urlò alla sensazione di una violenta scarica elettrica che risalì dalla punta dei piedi fino alla testa, poi la stessa violenta scarica ripartì, ma questa volta dalle mani e urlò ancora.
Sentì i passi dell’uomo ritornare e poco dopo una musica simile a quella di un parco giochi, ma molto più sgranata e meccanica.
I dolori divennero sempre più intensi e la portarono a urlare ancora, a chiedere pietà, mentre aveva anche iniziato a piangere, sperando di suscitare pietà e per il dolore sempre più intenso.
Sentiva sempre più male alle mani e alle gambe, come se la stessero pungendo con degli spilli.
Faceva sempre più caldo.
La gola era irritata e secca per tutte le urla.
Anche le orecchie iniziarono a dolerle, come se stessero per esplodere.
Intanto nessuno la stava cercando di aiutare a liberarsi e non poteva fare altro che continuare a urlare e a chiedere che tutto questo finisse.

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