Quando cade la prima neve

di inkdropsintherain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il profumo del caffè ***
Capitolo 2: *** Non si accettano caramelle dagli sconosciuti ***



Capitolo 1
*** Il profumo del caffè ***


Vorrei costruire un pupazzo di neve. Sapete, quelli con una carota al posto del naso e la sciarpa rossa. A voi non piacciono i pupazzi di neve? Rendono l’inverno più inverno perché se non c’è neve qual è il motivo di tanto freddo?

Anche se in realtà so come andrà a finire. Il povero pupazzo potrebbe venir fuori anche paraplegico. Non sono il genere di persona che presta attenzione a qualcosa oltre il tempo massimo. Non sono così fedele. Perdo interesse molto in fretta. Questo spiega perché da piccola amavo i Backstreet Boys e adesso non riesco a ricordare nessuna delle loro canzoni. Oppure erano i Take That? Cambio telefono non appena esce il nuovo modello. Non mi affeziono alle cose – che perdo costantemente – e nemmeno alle persone.

Le piante che ho comprato sono morte di siccità e il pesce rosso che ho lasciato galleggiare a pancia in su qualche volta mi perseguita in sogno. Ho il terrore di prendere un cane!

Una volta ci ho pure provato, facendomi scudo con il senso di responsabilità ma quello è scappato perché avevo dimenticato la porta aperta e, anche se l’ho cercato per una settimana poi mi sono arresa. Mi piace pensare che abbia trovato un padrone con più senso di responsabilità e una soglia di attenzione discreta.

Ho una cane di peluche adesso. Non abbaia molto e non sporca in giro. Penso di esserci affezionata perché lo lascio dormire con me ogni notte. Si chiama Peluche – non sono in grado di dare nomi alle cose – e mi piace. Per ora siamo amici poi vediamo come andranno le cose in futuro.

«Peluche ha fatto il bravo?» chiedo a Jenny mentre entro in caffetteria. Saluto Carol e Mike seduti al tavolo centrale di fronte alla vetrata.

«Ha fatto un po’ di storie quando sei uscita ma poi si è calmato» risponde sorridendo. No, non mi sta prendendo in giro. È mia sorella e mi conosce. Sa che questa è una terapia per farmi guarire. Se riesco a conservare il mio interesse per Peluche tutto l’anno sono pronta a diventare una persona vera.

«Povero il mio cucciolo» gli faccio una carezza e me lo porto dietro il bancone.

«Come procede il tuo esperimento?» s’informa Carol sorseggiando il suo cappuccino decaffeinato.

«Per ora sono passati tre mesi e non è ancora scappato» dico seria.

«I cani sono fedeli» aggiunge Mike, suo marito.

«Hai ragione. Sono io a non esserlo» rifletto.

«Nemmeno molti uomini!» sbotta mia sorella. Le sue relazioni amorose non sono mai andate come sperava e l’ultimo ragazzo l’ha tradita con il suo migliore amico. Prendo Peluche e lo poso accanto a lei. Quando lo stringo o semplicemente lo guardo mi sento meglio così penso che possa avere lo stesso effetto anche su di lei.

La campanella della porta tintinna sospinta da Patty, proprietaria del negozio di scarpe all'angolo. Il corpo esile è avvolto dal cappotto scuro che fa risaltare i suoi capelli brizzolati tagliati cortissimi. È una bella donna intelligente e mi sono sempre chiesta perché non si sia mai sposata. Ogni tanto penso che potrebbe essere la compagna ideale per mio padre ma loro continuano a dire di essere solo amici e che i giovani non dovrebbero interessarsi alle questioni degli adulti.

«Buon pomeriggio Patty» la salutiamo io e Jenny con un sorriso ampio. Lei ricambia sedendosi al tavolo uno, quello piccolo, accanto alla cassa, dove mi trovo io ora. Guarda Peluche per qualche secondo e poi me.

«Dovresti prendere un cane vero. Dov’è il fidanzato di plastica?» storce la bocca e apre la prima pagina del giornale.

«Questo è un training per capire se sono pronta... al cane intendo» sottolineo.

«Hai intenzione di sposare un cane?» ribatte senza sollevare la testa.

«Tu e mio padre dovreste smetterla di parlare di me quando non ci sono» sospiro divertita. Mi avvicino al macinacaffè e ne faccio scendere uno slot sulla bocchetta che poi inserisco nella macchina del caffè.

«Mi serve pur qualcosa su cui spettegolare. Dopo il ragazzo di tua sorella che è scappato con il mio commesso ho bisogno di qualcosa per riempire le giornate» sospira inconsolabile.

«Patty! Come puoi essere così insensibile?» frigna Jenny sbattendo sulla piastra un panino innocente.

«Ti avevo detto che era una femminuccia ma tu dicevi che era solo particolarmente sensibile» solleva un sopracciglio guardandola attraverso gli occhiali abbassati sul naso.

«Che mi dici di Julio? Il tuo commesso? Tu lo sapevi che era gay?» solleva il mento in segno di sfida.

«L'unica a non saperlo eri tu, tesoro» gira pagina.

«Davvero?» mi guarda in cerca di conferma e io annuisco imbarazzata. Anche io le avevo espresso le mie idee riguardo gli atteggiamenti dei due ragazzi ma lei diceva che andava tutto bene.

«E dire che era stato lui a suggerirmi di mettermi in proprio e aprire una caffetteria» sospira.

«Almeno questa è andata bene» la incoraggio mentre poggio il white coffee accanto a Patty. Ho voluto seguire mia sorella in questa storia della caffetteria, circa tre anni fa, e sembra funzionare. Viviamo a Tunbridge Wells, nel Kent, da sempre e tutti quelli che ci conoscono fin da piccole sono diventati nostri clienti. Tutte le mattine fanno colazione e mangiano le nostre insalate e i nostri panini. Mi piace quest'atmosfera calda e famigliare. È intensa come il profumo del caffè. Non che mi piaccia il caffè in realtà – a parte quello istantaneo ma è un segreto per tutti –, non mi piacciono le cose amare.

Dicono che le persone cui piacciono le cose dolci sono più predisposte a innamorarsi e, considerando la quantità di cioccolata che ingurgito, dovrei esserlo perennemente. La verità è un’altra. Ho avuto anche io qualche interesse per quello o l'altro ragazzo ma il massimo di una mia relazione è stato quattro mesi. Dite che sono un caso disperato?

Alle sette meno un quarto chiudo la caffetteria dopo essermi accertata di aver spento tutte le luci e aver effettuato correttamente tutti i riti prima della chiusura. Tiro su il colletto della giacca e infilo la cuffietta di lana che mi ha regalato mia sorella. In realtà sono stata io a lavorare la lana con i ferri ma lei mi ha regalato proprio quella del colore che volevo. Non è dolce?

Ricambio il saluto di Jackson che sventola la mano dalla vetrina di McColl's e mi avvio verso casa col sole ormai tramontato e i lampioni che allungano la mia ombra sull'asfalto. Cerco di ricordare se devo acquistare qualcosa al Morrisons e infilo gli auricolari per isolarmi dal silenzio. Ci sono molte cose che non mi piacciono, sono un tipo difficile, e tra queste c'è anche il non sentire alcun rumore. Certo sporadicamente passa qualche macchina che mi illumina con gli abbaglianti come se volesse mandare segnali in codice a qualche ufo di passaggio ma, con questo freddo, non molta gente si avventura fuori casa. Siamo a gennaio, il periodo più morto dell'anno e le previsioni del tempo hanno detto che avrebbe nevicato. La temperatura continua ad abbassarsi ma nemmeno un misero fiocco di neve si è fatto vedere.

Proseguo lentamente ascoltando la musica a tutto volume nelle mie orecchie. Qualche volta canticchio e ancheggio a tempo immaginando di avere una chitarra elettrica ma la verità è che non so suonarla.

«Credi nel potere dell'amore eterno?» canto con convinzione seguendo Michael Learns nella sua Eternal Love. Mi piace questa canzone. Parla di un amore che non esiste, quello eterno intendo, però la canzone è così bella che anche se non credo ad una sola parola di quello che dice a volte penso che per qualcuno potrebbe succedere. Per inciso, quel qualcuno non sono io e non lo sarò mai.

Accertato che non devo comprare nulla al supermercato grazie ad un messaggio di Jenny che mi ha avvisato di essere andata a fare la spesa e di aver comprato il latte che era finito, mi guardo i piedi decidendo da che parte andare. Faccio un passo verso South Grove ma poi faccio inversione a U verso Soprano per salutare Mark e Sophie.

Ancora mi chiedo perché hanno voluto chiamare Soprano un ristorante di cucina spagnola quando a me questo nome fa venire in mente una serie tv che parla di un boss mafioso italo-americano.

Il locale è pieno, anche se è lunedì ma io ho bisogno di bere una birra e di una faccia amica prima di tornare a casa.

«Come va con il cane?» Sophie mi viene incontro sorridente. Ha in mano due birre fredde che trasudano goccioline. Guardo Peluche stretto sotto il mio braccio e lo poso sul bancone del bar per poi arrampicarmi su uno sgabello. «Potrebbe funzionare. Andiamo d'accordo» sono soddisfatta.

«Lo penso anche io» anche lei non mi sta prendendo in giro. Eravamo compagne di classe alle scuole superiori e poi all'università. Lei mi capisce sempre e non chiede mai. Come quella volta che ho deciso di lasciare la scuola di medicina senza una spiegazione apparente. Mentre tutti chiedevano semplicemente e tentavano di convincermi a cambiare idea lei mi ha trascinata fuori di casa in pigiama, ha comprato una confezione di birre da sei e mi ha fatta ubriacare finché ho vomitato l'anima. Dopotutto è questo il ruolo delle migliori amiche.

«Volevo essere come lei» avevo detto tra un conato e l'altro.

«A me piaci più tu» aveva detto.

«Non sarebbe comunque servito a farla tornare» aggiunsi.

«Puoi provare ad entrare in polizia» avvicinò la lattina di birra alle labbra ma non riuscì a bere perché scoppiò a ridere mentre io facevo altrettanto. Tutti sapevano che avevo voluto frequentare medicina per diventare un medico come mia madre. Da bambina pensavo che i miei genitori fossero una specie di super eroi. Mio padre era il poliziotto che catturava i cattivi e mia madre salvava la vita delle persone. Mi sentivo al sicuro.

Senza chiedermi cosa preferisco fa comparire una bottiglia di Desperado con una fetta di lime che spunta dal collo.

«Bevi. Mi occupo di due tavoli e poi parliamo» esce dal banco senza aspettare risposta.

Dominique, il nuovo barista, mi sorride e io ricambio sollevando la bottiglia e bevendo un sorso. All’angolo della piccola sala due musicisti e una ragazza dalla voce alla Nelly Furtado intrattengono i commensali. Ogni tanto tamburello le dita sul banco a ritmo lasciando andare i pensieri.

«Giornataccia?» chiede lui. Faccio di no con la testa e bevo un altro sorso. Lo guardo con interesse per la prima volta e gli chiedo quanti anni ha. Sembra giovane.

«Ho venticinque anni» sorride vagamente ammiccante.

«Sei fedele?» studio la sua reazione. Tira indietro la testa e deglutisce prima di rispondere. Non sono una di quelle persone che è in grado di decifrare il linguaggio del corpo e nemmeno dopo dieci serie di Lie to Me ne sarei capace perciò aspetto trepidamente la sua risposta.

«Sono stato tradito una volta e non penso sia qualcosa di piacevole!» dice infine.

«Promosso!» lo indico con la bottiglia.

«Vuoi uscire con me?» si sporge attraverso il bancone.

Indietreggio e rido. «Sei troppo piccolo. Il mio tipo ideale deve avere almeno trent’anni» dico seria.

«Troppo piccolo? Quanti anni hai?» è stupito.

«Non si chiede l’età di una signora» fingo di essere imbronciata.

«Ha ventinove anni ma crede di essere giunta al capolinea» interviene Sophie. Poi notando la reazione di Dominique aggiunge: «Lo abbiamo scioccato!».

«Se sei un tipo fedele devi uscire con mia sorella. Sei il suo tipo e avete anche la stessa età» gli spiego.

«Tua sorella?» è visibilmente confuso.

«Alta, carina, capelli biondi e sorriso luminoso. Ti serve il caffè tutte le mattine, come è possibile che tu non ne sia ancora innamorato? Mia sorella è un angelo!» sbotto e mi metto una mano sul cuore per rendere più solenne la frase. Il ragazzo, un po’ imbarazzato, annuisce stupidamente e finge di asciugare il bancone.

«Sei gay?».

«Eh?» solleva il viso di scatto.

«I gay non vanno bene per lei».

«Non sono che io… che io sappia» afferma molto seriamente.

«Bene! Sei un bel ragazzo e mi piaci. Facci un pensiero» mi sporgo per dargli un colpetto sul braccio.

«Eppure in genere reggi bene l’alcol e questa birra ha una gradazione irrisoria» riflette Sophie aggirando il bancone.

«Voglio che mia sorella si innamori di un bravo ragazzo che non scappi con il commesso di Patty o di chiunque altro».

«E tu?» mi indica con il mento.

«Non sono pronta» gli mostro Peluche come se fosse una spiegazione più che ovvia. Lei stappa un’altra Desperado e si siede accanto a me.

«Forse hai solo bisogno della persona giusta. Entrambe avete bisogno della persona giusta».

«Che frase fatta!» mormoro, «Sono io a non essere la persona giusta in questo momento. Forse in nessun momento».

«Stupidaggini! Perché non ti prendi un po’ di tempo per te stessa? Fai qualcosa di nuovo e scopri che tipo di persona sei» m’incoraggia.

«Non puoi dirmelo tu che tipo di persona sono? Mi risparmieresti un sacco di fatica».

«Scegli sempre la via più semplice» rigira la birra tra le mani. Anche se la sua affermazione è piuttosto tagliente lo ha detto con una voce così dolce e materna che non posso avercela con lei. Si chiama sincerità e la apprezzo. Penso che sarà una mamma straordinaria quando deciderà di avere un bambino.

«Avevo bisogno di parlare con te molto più di quanto mi rendessi conto» poggio la testa sulla sua spalla.

«Hai spezzato il cuore di Dominique» la sento sghignazzare divertita.

«Perché?».

«Nutriva un certo interesse nei tuoi confronti» spiega. Sollevo la testa e la guardo dritto in faccia. «Dovrebbe essermi grato, gli ho salvato la vita».

Sophie scoppia a ridere e non posso fare a meno di imitarla. Chiacchieriamo ancora per il tempo di un’altra birra e decido di tornare a casa.

L’aria fredda mi si appiccica addosso scacciando la sensazione di calore che mi avvolgeva poco fa. Non essendo particolarmente freddolosa mi lascio cullare da questa sensazione, come se il freddo fosse capace di scacciare i brutti pensieri e schiarirmi materialmente le idee. Respiro a fondo con gratitudine e soddisfazione. Allargo le braccia per aprire il petto e far entrare più aria possibile nei polmoni. Lascio cadere la testa all’indietro e resto così per un momento. Così concentrata sulla respirazione non mi rendo conto che stavo quasi per cadere all’indietro e vado a urtare un passante che cammina dietro di me.

«Chiedo scusa» dico automaticamente ma quello non risponde e abbassa la testa superandomi.

Mi riprendo e scuoto vigorosamente la testa, «Elizabeth Amanda Miller! Non puoi essere ubriaca dopo solo due birre… o erano tre?» mi rimprovero ma poi ricordo di non aver mangiato niente dalle undici di stamattina. Ero così carica di lavoro che ho dimenticato di mangiare qualcosa nel pomeriggio.

«Forse sei un po’ stordita ragazza» rido. Ma cosa avrò da ridere poi? Mi do qualche schiaffetto con le mani fredde e proseguo verso casa. Sento dei passi dietro di me e così mi fermo fingendo di allacciare una scarpa. Non mi piace avere qualcuno alle spalle, mi fa sentire spiata e mi irrigidisco come Pinocchio. Adesso che ci penso, ultimamente provo spesso questa sensazione, di percepire qualcuno che cammina alle mie spalle. Non saprei come definire la cosa dal momento che le persone camminano continuamente per strada e generalmente non mi infastidiscono. Eppure non è nemmeno questo. Si tratta di qualcosa di diverso. Come se fossi seguita ma il solo esprimere il concetto mi fa sembrare una con manie di persecuzione.

La figura mi sorpassa nell’oscurità e già mi sento meglio. Casa non è lontana, devo solo svoltare l’angolo e percorrere la salita. Ce la posso fare senza collassare sull’asfalto.

Di fronte alla porta di casa tiro un sospiro di sollievo e rido della mia stupidità. Chi mai avrebbe dovuto seguirmi?

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Capitolo 2
*** Non si accettano caramelle dagli sconosciuti ***


Londra mi piace. È frizzante, caotica, grande. Ogni volta è come incontrare una vecchia amica. Londra mi comprende.

Qui non sono la piccola Liz abbandonata da sua madre e nemmeno la ragazza incompleta che non sa mantenere una relazione. Sono una persona. Vera. E posso anche andare a teatro a vedere un musical trascinata da mia sorella e Dominique che ci ha procurato i biglietti.

«Vedi? Puoi fare cose normali come le persone normali» mi dice Jenny mentre facciamo la fila per entrare. Dominique ci guarda perplesso ponendo una domanda col pensiero.

«Mia sorella è convinta di non essere una persona» spiega, senza in realtà aver spiegato un bel niente. Infatti l’espressione del nostro accompagnatore è ancora più incerta.

«Saresti tipo un ibrido?» chiede senza alcuna ombra di derisione.

«Qualcuno una volta l’ha definita un soggetto con deficit di interessamento continuo» riflette mia sorella ricordando le parole di un mio ex. Se ancora ci penso mi vengono i brividi. Proprio non gli era andata giù la nostra rottura. E dire che lo avevo anche invitato a cena per spiegargli la cosa con calma ma adesso sto divagando.

«Non farci caso» lo tranquillizzo. Il mio scopo non è quello di attirare l’attenzione su di me piuttosto far sì che Dominique e mia sorella si avvicinino.

«Come hai fatto ad avere i biglietti?» chiede Jenny quando siamo più o meno all’inizio della fila.

«Un mio amico lavora per questa compagnia teatrale».

«Davvero?» gli occhi di mia sorella iniziano a brillare di interesse. Il ragazzo sta guadagnando punti. Sorrido soddisfatta.

«A proposito, di cosa parla questo musical?» chiedo. Iniziamo a cercare i nostri posti.

«È una storia molto famosa. Parla di un uomo determinato a commettere l’omicidio perfetto» snocciola. Io e mia sorella lo fissiamo a bocca aperta. «È famoso!» si difende.

«Thrill Me» legge Jenny sul biglietto.

«Non poteva essere tutto troppo normale» m’incoraggio, in bilico tra la disperazione e la ridarella.

«Un passo per volta, sorella!» aggiunge Jenny e poi scoppia a ridere con me che le vado dietro. Dominique sembra aver rinunciato a comprenderci e si fa da parte per permetterci di sedere ai nostri posti. Solo allora mi rendo conto di essere seduta proprio tra Jenny e Dominique. Devo inventarmi qualcosa perché questa disposizione di posti va contro tutti i miei piani.

«Devo andare in bagno!» annuncio saltando in piedi come una molla. Troppo tardi mi rendo conto di essere stata esageratamente impetuosa perché qualche testa si è voltata a guardarmi nonostante il vociare delle persone intorno a noi. Dominique spalanca gli occhi per la sorpresa guardandomi dal suo posto.

«Il musical sta per iniziare» mi ricorda Jenny.

«Non ti preoccupare, farò in tempo» la tranquillizzo, poi rivolta a Dominique, «visto che sei seduto a fine fila perché non ti siedi accanto a Jenny? Almeno quando torno non sarai costretto ad alzarti per farmi sedere».

«Ha ragione, siedi vicino a me» appoggia mia sorella e gongolo per la riuscita del mio piano. Dominique annuisce e scala di un posto.

«Fai in fretta» si raccomanda Jenny.

Faccio un cenno con la mano e mi avvio alla ricerca di un bagno nonostante non ne abbia la reale necessita ma non si sa mai. Inoltre mi sento leggermente in colpa nei confronti di Dominique per averlo imbrogliato in quel modo.

Con mia grande irritazione i bagni del piano sono fuori uso così sono costretta a recarmi al piano superiore. Naturalmente uso le scale e non l’ascensore che, oltre a sembrare antiquato, fa riaffiorare brutte esperienze nella mia labile mente. Ogni volta che mi è capitato di salire all’interno di uno di questi abitacoli è capitato un guasto e io soffro di claustrofobia. In genere un solo minuto non mi procura grandi problemi ma se dovesse realmente succedere di restarci chiusa dentro potrei avere un vero e proprio attacco di cuore.

Una volta essermi lavata le mani ripercorro la strada inversa per tornare al mio posto e mi accorgo di essere tremendamente in ritardo. Lo spettacolo è già iniziato e io odio non vedere l’inizio delle cose. Sbuffo e decido di prendere l’ascensore. Non possono mica capitare sempre tutte a me!

Trenta secondi posso reggerli e poi mica si deve bloccare proprio ora sto coso, no?

Quando le porte si aprono noto che c’è già una persona all’interno e mi sento un po’ meglio. Non mi soffermo troppo su di lui scorgendone la figura alta e slanciata di sfuggita a pochi passi dietro di me, poggiata alla parete specchiata.

Nello stesso momento in cui premo il pulsante per selezionare il piano ricevo un messaggio di Jenny che mi rimprovera per non essere ancora tornata. Sorrido e inizio a scriverle per tranquillizzarla di essere sulla via di ritorno ma un improvviso attimo di vuoto mi paralizza. L’abitacolo subisce uno scossone e le luci si spengono per lasciare posto alla lucetta d’emergenza che illumina tutto di rosso.

Il panico inizia a morsicarmi partendo dalle mani sudate per poi appropriarsi indebitamente di tutto il mio corpo. Sento caldo e freddo alternativamente e percepisco tutto il sangue che mi circola in corpo gorgogliare all’interno delle vene. Non c’è abbastanza aria, abbastanza spazio, abbastanza di niente e boccheggio. Stringo forte il cellulare cercando di riuscire a dissipare la nebbia che si è formata davanti ai miei occhi ma è quasi impossibile perché ho iniziato a piangere. Il cuore mi sfonda il petto e provo a fermarne il battito con una mano. So che è inutile ma mi sento priva di qualsiasi alternativa.

Provo a respirare profondamente nella speranza di raggiungere un qualche nirvana temporaneo e così riesco a prendere parzialmente coscienza del mio corpo e di quello della persona accanto a me. Avevo dimenticato di non essere sola il che è una fortuna. Mi sfiora appena mentre si avvicina alla tastiera dell’ascensore e preme il pulsante di emergenza.

«Presto arriverà qualcuno, stai tranquilla» è la voce di un uomo. Parla con un tono di voce pacato, come se stesse parlando con una bambina, cioè io, eppure non mi sento infastidita. Annuisco e guardo il cellulare che ormai non prende più nemmeno di una tacca. Stringo le dita fino a farle diventare bianche. I pensieri più funesti iniziano a farsi strada dentro la mia testa e il ricordo più spaventoso di me dentro un ascensore bloccato si fa vivo come il pagliaccio dentro quelle scatole a scatto odiose. Trasalisco e chiudo gli occhi. Adesso ho paura. Le gambe non mi reggono più e scivolo verso il pavimento.

«Oh!» le sue mani sono pronte ad afferrarmi poco prima che tocchi il pavimento. Sento che qualcosa urta la parete alle mie spalle ma non sono io perché la mia schiena è poggiata al petto dell’uomo. Mi sono completamente lasciata andare.

«So che non è una situazione facile e probabilmente per te tutto questo è estremo ma permettimi di fare qualcosa per aiutarti» la sua bocca è molto vicina al mio orecchio e il suo alito mi riscalda il collo. Rabbrividisco e mi lascio andare ancora di più quasi schiacciandolo. Si lascia scivolare giù completamente e mi stringe più forte abbracciandomi da dietro come fanno gli innamorati. Un mix di emozioni nuove si frappongono a quelle ormai note del panico.

«Vediamo» si schiarisce la gola, «non ci sono molte cose che io sappia fare o possa fare in questa situazione ma ce n’è una che mi viene piuttosto bene. Posso provare?» chiede un po’ incerto. Se non mi sentissi così fuori dal mio corpo sorriderei ma lo faccio con il pensiero. Annuisco ancora.

«Allora io inizio» annuncia con voce spezzata. Sento il suo petto gonfiarsi mentre prende un lungo respiro e poi inizia a cantare. Inizia con un tono delicato come il battito d’ali di una farfalla. Sembra la ninna nanna che si canta ai bambini per farli addormentare ma poi la voce si fa piano piano più intensa tanto che riesco quasi a sentire le sue corde vocali vibrare. Inizio a rilassarmi e lascio cadere all’indietro la testa verso la sua spalla, il suo mento poggiato sull’incavo del collo. Chiudo gli occhi dimenticandomi di essere chiusa dentro un ascensore bloccato. Sono dentro una bolla, in quella fase di dormiveglia in cui non sai se sei sveglio o ancora addormentato. Non importa perché qualunque cosa è meglio del panico. Rilasso le gambe stendendole davanti a me e m’incastro meglio a quel corpo dietro di me che mi avvolge con protezione.

Una volta finita la canzone mi chiede come sto ma non rispondo preferendo restare come sono. Mi sembra di sentirlo sorridere ma non ne sono certa, fatto sta che poco dopo inizia a cantare un’altra canzone ancora più intensa. La sua voce diventa più squillante, come se la paura di spaventarmi fosse svanita e nello stesso tempo sento che anche le mie di paure si sono dissipate.

Gli stringo il braccio e sento che anche lui fa lo stesso ma un rumore improvviso fa trasalire entrambi. Alcune voci provenienti dall’esterno s’intrufolano nell’abitacolo. Provo a rimettermi in piedi ma rischio di scivolare così vengo aiutata. Mi sento così in imbarazzo che non riesco a voltarmi e guardarlo.

«Resistete! Stiamo per aprire le porte» dice una voce rauca. In realtà inizio a sentire un coro di voci piuttosto confuso provenire dall’esterno.

«Liz! Lizzie sei lì dentro vero? Stai tranquilla, ti stiamo tirando fuori. Liz! Liz!» è mia sorella e sembra piuttosto preoccupata.

«Josh! Qui è pieno di giornalisti!» dice un’altra voce.

«Naturalmente!» mormora infastidito il mio compagno. Sospira e si accosta nuovamente al mio orecchio, «Credimi, quello che sto per fare è per il tuo bene» e, prima che io possa replicare mi butta in testa la sua giacca proprio un secondo prima che le porte si spalanchino. Mi sento stretta saldamente contro il suo corpo e trascinata via in mezzo a un vociare confuso e mani che cercano di afferrarmi. Continuiamo a camminare finché le voci si estinguono e riesco a sentire solo l’eco dei nostri passi.

«Josh! Che cosa stai facendo?» mi sembra la stessa voce che prima parlava di giornalisti.

«Prenditi cura di questa ragazza per me per favore, io vado a parlare con i giornalisti. Fai molta attenzione perché è piuttosto spaventata e ha appena attraversato una brutta esperienza» le sue mani mi lasciano andare ma la giacca continua a restare sulla mia testa e io posso solo vedere i suoi piedi che si allontanano. Un senso di abbandono s’impadronisce della mia testa e non so spiegarmene il motivo. Che sia una specie di sindrome di Stoccolma?

Sollevo un po’ la giacca per sbirciare ma posso vedere solo la sua schiena allontanarsi. È alto e ha i capelli castani tagliati corti. Oltre a sapere che ha un bella voce rassicurante sono le uniche due cose che so di lui.

«Signorina?» da sotto la giacca fa capolino un volto rotondo dagli occhi sottili. Ci guardiamo per un po’ esaminandoci a vicenda.

«Liz!» eccola che arriva, la sorella più apprensiva del pianeta che mi si fionda addosso come una di quelle manine appiccicose anni novanta. «Come stai? Ti sei fatta male? Perché hai preso l’ascensore? Oh mamma che spavento che mi sono presa! Mi riconosci?» mi prende il viso tra le mani e mi fissa appiccicando il suo naso al mio.

«Jen, sto bene» sorrido divertita.

«Perché hai una giacca sulla testa?» si allontana e mi studia. In quel momento mi rendo conto di sembrare una suora e mi libero della giacca.

«Perché ho una giacca sulla testa?» chiedo a tutti e a nessuno.

«Signorina è sicura di stare bene?» chiede l’uomo senza nome preoccupato dei giornalisti.

«Sì sto bene, grazie».

«Le chiamo un taxi e la faccio portare a casa» estrae il telefono dalla tasca interna della giacca ma lo fermo subito dicendogli che non ce n’è bisogno. «Josh mi ha chiesto di prendermi cura di lei» obietta.

«Non è necessario che lei faccia altro per me. Sono venuta con mia sorella e un amico e tornerò a casa con loro» spiego.

«Eppure…» sembra combattuto ma poi s’illumina come un albero di Natale ed estrae, sempre dalla tasca interna della giacca, un astuccio con dei biglietti da visita. Me ne porge uno.

«Se avesse bisogno di qualunque cosa mi chiami, ok?».

Sul biglietto c’è scritto il nome di una società, la Glorious Entertainment e il nome del tipo è Choi Han Eul e pare che sia un agente o qualcosa di simile. Il nome è senza dubbio coreano.

«Agente di chi?» lo guardo smarrita.

«Non sa chi era la persona con lei in ascensore?» i suoi occhi sottili si allargano e io ho la sensazione tangibile di essermi persa qualcosa di importante.

«Perché ci sono i giornalisti?» chiede mia sorella. Poco dopo ci raggiunge Dominique.

«Ci sono i giornalisti là fuori» indica un punto imprecisato dietro di lui. Ci voltiamo tutti e tre a guardarlo come una visione mistica sulla via di Damasco. «Dicevo così per dire» aggiunge un po’ intimorito. Jenny lo prende sottobraccio per tranquillizzarlo.

«Beh, ho un po’ di lavoro da sistemare. Mi dispiace che si sia persa lo spettacolo» guarda l’orologio apprensivo e dopo un piccolo cenno del capo si congeda scusandosi.

«Un tipo un po’ strano» commenta Dominique.

«Mi dispiace avervi rovinato lo spettacolo ma dovremmo essere in tempo per vedere il secondo atto» dico mortificata.

«Assolutamente no! Adesso ce ne torniamo a casa e ti rilassi per bene. Se penso all’ultima volta che è successa una cosa del genere mi vengono i brividi! Non ti sei svegliata per un giorno intero a causa dello shock!» Jenny mi abbraccia forte e la tranquillizzo accarezzandola. L’ultima volta cui lei si riferisce non è esattamente l’ultima ma questo non posso rivelarglielo perché dovrei raccontarle qualcosa di ancora più doloroso.

«Questa volta non si tratta della stessa situazione, sto bene, vedi?».

«Andiamo lo stesso a casa» guarda Dominique cercando una conferma che arriva subito. Il ragazzo estrae le chiavi della macchina dalla tasca dei jeans e le fa tintinnare sorridendomi.


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