A DETECTIVE'S INSIGHT di balakov (/viewuser.php?uid=56690)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAP. I ***
Capitolo 2: *** CAP. II ***
Capitolo 3: *** CAP. III ***
Capitolo 1 *** CAP. I ***
A DETECTIVE'S INSIGHT
Cap.
I
Il mio sogno,
da grande, è quello di fare l’investigatore.
Ovviamente l’investigatore privato, dato che ho sempre
sofferto un po’ le istituzioni, vista la mia indole focosa ed
un po’ anarchica. E per mia grande fortuna ho un maestro da
seguire: il grande Alberto Gervasoni. Come “chi
è”? È il più grande di tutti
gli investigatori privati. Il numero uno indiscusso. Almeno qui a
Poggibonsi…
Una volta ha perfino ritrovato il gatto della signora Tancredi, la mia
vicina di casa.
Ma del resto che vi aspettate da un investigatore privato che lavora a
Poggibonsi?
Qui di casi da risolvere ce ne sono ben pochi, quando va bene.
Altrimenti c’è solo da girarsi i pollici seduti in
poltrona negli altri giorni oziosi (che rappresentano la
maggioranza…). Però vi giuro che Alberto
Gervasoni ha un fiuto infallibile. Il problema è che in
questa dimensione così ristretta non
c’è alcuna eco ad assisterlo, ma meriterebbe di
essere conosciuto almeno a livello nazionale. Ogni caso che gli viene
affidato lo risolve in un batter d’occhio, con il mio stupore
sempre a sottolineare le sue straordinarie imprese. Anche lui,
però, ha un nemico impossibile da sconfiggere: sua madre. La
signora Gervasoni gli dice sempre che ha sbagliato lavoro, che in
questo modo non farà mai nulla di buono nella vita, e lo
apostrofa costantemente come “sciagurato d’un
figlio!”. Povera donna, anche lei ha le sue ragioni: del
resto un figlio così brillante perché si ostina a
fare l’investigatore privato a Poggibonsi?
Io invece mi chiamo Giorgio, ma tutti mi chiamano Gino. Sono un
ragazzino di tredici anni e faccio l’aiutante di Alberto
Gervasoni. Anche la mia mamma non ha parole buone con me, ed una volta
ha pure tentato di picchiare selvaggiamente Alberto Gervasoni,
accusandolo di avermi plagiato e di portarmi sulla strada sbagliata,
facendo diventare anche me un fallito come lui. Ma Alberto Gervasoni
non è un fallito. È un genio. Il più
grande di tutti. E se il mio papà fosse ancora in vita,
senz’altro capirebbe che non mi sto sbagliando.
Del resto un investigatore non è altro che un alchimista di
pensieri, un elaboratore di congetture che sfidano le leggi della
natura umana. Insomma, per farla breve, un investigatore è
sempre il migliore dei maghi: è l’unica persona in
grado di svelare i trucchi che stanno dietro ad un mistero che non ha
causato lui. E vi assicuro che non c’è cosa
più difficile. Voi immaginate che sforzo ha fatto Alberto
Gervasoni per ritrovare quella volta il gatto della signora Tancredi:
si è immedesimato nel gatto stesso, cercando di capire tutti
gli spostamenti che avrebbe potuto fare un micio, le sue prede, i suoi
ritmi pigri ed oziosi di vita. In quei giorni, non lo posso di certo
negare, Alberto Gervasoni era talmente entrato nella parte che a
tratti, nel suo convulso sonno, miagolava pure.
Ma il caso che più mi ha colpito, è stato quando
era scomparsa Betta, la più bella ragazza di Poggibonsi. In
tanti dicevano che s’era andata a suicidare buttandosi nel
fiumiciattolo che scorre vicino alla nostra cittadina, il
“notissimo” Borro de’ Carfini:
sostenevano che per una delusione d’amore aveva
più volte manifestato la sua ferrea decisione di farla
finita. Non vi dico i poveri genitori in che stato erano…
Sempre a piangere disperati. E non poterono esimersi
dall’incaricare Alberto Gervasoni di ritrovare la loro amata
figliola, confidando nel fatto che non si fosse ancora data alla morte.
Il nostro segugio, Alberto Gervasoni, accettato l’incarico,
passò subito all’azione, senza perdere neanche un
minuto, essendo – in un caso del genere – ogni
istante di vitale importanza. Batté le piste più
ovvie come quelle più imperscrutabili, senza trascurare
nessuna ipotesi, perché – come dice sempre lui
– “a volte il caso più difficile si
risolve nel modo più facile”. Così
incaricò pure me di tendere l’orecchio fra i
ragazzini della mia età e tra quelli un po’
più grandi, cercando di carpire anche il più
minimo particolare che sarebbe potuto essere utile alle indagini. Io,
sinceramente, non ci tirai fuori niente dai miei appostamenti. Ma lui,
Alberto Gervasoni, stava seguendo una pista impensabile, che
l’avrebbe portato di certo a qualche cosa. Difatti si era
recato anche a San Gimignano, il paese più vicino al nostro,
ed aveva scoperto che già da qualche giorno un ragazzo del
posto, tale Corradino, era partito con la sua piccola decappottabile
per una breve gita. I genitori di questo Corradino raccontarono ad
Alberto Gervasoni che il loro figliolo era andato via da solo, ed aveva
loro detto che sarebbe andato ad Arezzo a trovare degli amici, restando
fuori casa per al massimo quattro o cinque giorni. Tutto questo puzzava
non poco per Alberto Gervasoni: c’era sicuramente un nesso
tra la breve gita fuori porta di Corradino e la misteriosa scomparsa di
Betta. Fatte le dovute congetture al proposito, Alberto Gervasoni si
mise ben presto alla ricerca della piccola decappottabile nera di
Corradino: era convinto che trovata l’auto, si sarebbe in
qualche modo risolto anche l’enigma che avvolgeva Betta.
Le ricerche andarono avanti tra mille difficoltà ed
impervie, ma proprio quando sembrava essere giunto al punto di gettare
la spugna, il nostro Alberto Gervasoni, casualmente fermatosi con la
sua auto lungo il ciglio di una strada per un improrogabile bisogno di
far pipì, scorse tra le boscaglie in lontananza qualcosa che
non avrebbe potuto non destare la sua attenzione. Le colline della
Toscana ogni tanto, nel loro incedere riposato ed asciutto, si
interrompono in improvvisi boschi, dalle dimensioni più
disparate. Il bosco che in lontananza aveva scorto Alberto Gervasoni
era particolarmente fitto e tenebroso, e nonostante questo non gli
sfuggì un innaturale riflesso della luce: pareva esserci
qualcosa di “strano” in mezzo alle tante foglie ed
ai tanti rami. Così, sgrullatesi ben benino le scarpe
dall’orina che accidentalmente gli era piovuta addosso (a
causa della scuotimento che gli aveva dato la sorprendente scoperta),
si diresse deciso verso il bosco incriminato. Lasciò
l’auto abbastanza lontano dall’inizio
dell’angusta vegetazione, e con tutte le cautele del caso,
pistola alla mano, si introdusse furtivo tra la famelica vegetazione.
La sua intuizione si era per l’ennesima volta dimostrata
azzeccata: infrattata tra i copiosi cespugli ed i pesanti rami che
piegati si protendevano verso il sottobosco ricoperto di foglie
appassite, si celava astutamente la piccola decappottabile nera che
stava affannosamente cercando da giorni. Impossibile scorgere se ci
fosse stato qualcuno al suo interno, dato che i vetri erano appannati,
e naturalmente la capote era tirata su. Così, assicurandosi
di non essere visibile ad anima viva, un po’ strisciando in
mezzo alle foglie cadute ed un po’ impantanandosi nel fango,
riuscì a raggiungere l’auto. Con il fiatone che
gli faceva appannare i cerchioni in lega della macchina, stringendo
più forte l’impugnatura della sua revolver e
scattando improvvisamente in piedi, aprì con violenza ed
impeto lo sportello anteriore di guida dell’auto, sempre
brandendo la pistola. La scena che si trovò di fronte era a
dir poco inquietante: Corradino e Betta, tutti e due nudi ed
avvinghiati l’uno all’altro. I due poveretti,
interrotti nel loro tenero (ma pur lungo: quattro giorni, cavolo!)
amoreggiamento, sbarrarono gli occhi e si lasciarono prendere da una
paura che mai più in seguito avrebbero provato sulla loro
pelle.
Quando tutto fu finito, e le rispettive famiglie riabbracciarono i
propri figlioli, io ovviamente chiesi ad Alberto Gervasoni che cosa
fosse successo, e come li aveva ritrovati: lui glissò sul
discorso, dicendomi che ero ancora troppo piccolo per capire certe
cose. Questo mi piace di lui: il grande detective è sempre
un duro fino in fondo, che non cede neppure ai sentimenti, ed
è pragmatico, di poche essenziali parole. Con quelle
semplicissime ed apparentemente sibilline parole, Alberto Gervasoni era
riuscito a farmi capire tutto senza dirmi effettivamente niente. E
così fa con tutti, e l’ha sempre fatto. Un uomo di
poche parole, ma che quando parla sputa laconiche sentenze. Un uomo che
con un solo sguardo ti legge dentro, fin nelle ossa, i pensieri
più remoti ed indicibili.
Certo che a guardarlo non si direbbe mai che è un
investigatore: l’aspetto è totalmente opposto a
quello dello stereotipo di detective. Non beve, non fuma, non passa
notti insonni tra locali e belle donne, non ha informatori. Non fa
nella più assoluta maniera una vita sregolata, essendo un
salutista convinto. Ha una pipa, che però nulla ha a che
vedere con il detective creato da Sir Arthur Conan Doyle: quella pipa
è il ricordo di suo nonno, e la tiene gelosamente custodita
nella sua bacheca. Non penso che l’abbia mai accesa in vita
sua. Dice sempre che è la cosa più preziosa che
ha, perché “nulla è più
prezioso del ricordo di una persona”.
Insomma, per tagliare corto, potremmo dire che Alberto Gervasoni
è un investigatore autarchico ed autodidatta. Ma pur sempre
un infallibile detective.
Voi ovviamente non ne sarete ancora convinti: abituati come siete a
vivere in città metropolitane dove gli efferati delitti
neanche si contano più, non potete capire una
realtà così ristretta e provinciale come la
nostra. Qui i casi su cui investigare sono sciocchezzuole agli occhi di
un cittadino metropolitano: ma solo perché non scorre
sangue, non vuol dire che siano meno difficili. Voglio vedere se
Maigret sarebbe stato in grado di ritrovare il gatto della signora
Tancredi!
Il trucco sta sempre nell’assecondare la natura delle cose,
nel rendersi invisibile e confondersi col mondo circostante: solo in
questo modo si potranno vedere le cose che gli altri non vedono.
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Capitolo 2 *** CAP. II ***
Ringraziamenti:
-
a Beab per
la recensione al Cap. I e per avermi inserito fra i suoi autori
preferiti;
-
a Caterozza
per la recensione al Cap. I;
-
a Fujiima
per la recensione al Cap. I e per aver inserito la storia tra i
preferiti;
-
a Luisina
per aver inserito la storia tra i preferiti.
Cap. II
Comunque
anche Alberto Gervasoni ha avuto a che fare, una volta, con un efferato
delitto di cronaca nera. Un caso che ebbe risonanza a livello
nazionale, più o meno.
Una notte di maggio, fu ritrovato il corpo senza vita di un uomo sul
greto del fiumiciattolo che ci lambisce: il cadavere era tutto nudo, e
portava i segni di violenze subite. I polsi e le caviglie imbrattati di
sangue, lividi ovunque, ed un enorme squarcio sul ventre da cui si
scorgevano tutte le interiora del poveruomo. Uno scenario
raccapricciante.
Il corpo, che non sembrava in alcun modo che si fosse cercato di
occultare, era stato ritrovato da Nello, l’ubriacone di
Poggibonsi. Durante una sua dinoccolata passeggiata notturna, alla
disperata quanto placida ricerca dell’uscio di casa, il buon
vecchio Nello vagava con il vino che gli scorreva nelle vene. Quando,
nel suo peregrinare a zig-zag, giunse sul greto del fiumiciattolo,
inciampò sul cadavere e, rotolando, cadde nelle fredde
acque. Ci mancò poco che i morti diventassero due! Nello non
sapeva neppure nuotare, e poi, anche se fosse stato capace, che stile
avrebbe adottato con tutto quel vino che gli stordiva il cervello?
La mattina seguente tutti gli abitanti di Poggibonsi si recarono sul
luogo del ritrovamento. La polizia non fece neppure nulla
perché la folla fosse smobilitata: del resto ci si conosce
tutti da queste parti, e pure il capo della polizia locale è
un caro amico. Immaginate voi, vista la terrificante scena che si
presentava davanti agli occhi atterriti di tutti, quanti furono coloro
che vomitarono per il disgusto… Io, vista anche la calca,
non riuscivo a vedere il cadavere (e non avevo neppure il coraggio), e
mi facevo descrivere minuziosamente da mia madre lo stato in cui era
stato ridotto.
Ovviamente non poteva mancare Alberto Gervasoni: non fu però
il primo ad arrivare, abituato com’è ad alzarsi
tardi la mattina.
Il tale ucciso non era del posto, ed apparentemente nessuno lo
conosceva. Dunque fu naturale ipotizzare che l’assassino o
aveva portato lì il poveretto per ucciderlo lontano da occhi
indiscreti, oppure vi aveva trasportato il cadavere dopo averlo ucciso
da un’altra parte. Ma forse era più giusto parlare
al plurale, e cioè di assassini: infatti il morto era
personaggio assai robusto, e perciò non facile da
“trattare” individualmente; ed inoltre lo stato in
cui fu ritrovato lasciava facilmente immaginare che si fosse trattato
di un rituale da messa nera, e si sa che questi rituali vengono
compiuti da più o meno corposi gruppi, e non da singole
persone.
Alberto Gervasoni scrutava lo scenario delittuoso come se nulla fosse:
neanche un sopracciglio inarcato gli fece mutare la sua imperturbabile
sembianza tipica di colui che la sa lunga. I suoi pensieri erano
imperscrutabili, ed il suo volto impassibile. Ma conoscendolo bene,
sapevo con una certezza pressoché assoluta che invece nella
sua testa stava già mettendo su una ricostruzione possibile
degli eventi.
Ovviamente il caso spettava alla polizia, e qui non siamo in uno di
quei film in cui il protagonista ficcanaso malgrado tutto si avventura
a suo (gratuito) rischio e pericolo nel mistero. Difatti Alberto
Gervasoni non era uno avvezzo a lavorare gratis (se così si
può dire…), ma i misteri li svelava solo dietro
remunerazione (anche se il più delle volte, si trattava di
una remunerazione “pro forma”). Così,
nonostante che il caso stuzzicasse non poco la sua fantasia,
restò inattivo. Questo stato delle cose durò
però appena tre giorni: il quarto giorno successivo al
ritrovamento del cadavere, suonò il suo campanello di casa.
Era una donna bellissima: bionda, alta, elegante, sinuosa e…
ricca. Appena il nostro detective le aprì la porta di casa,
lei si intrufolò nell’appartamentino di Alberto
Gervasoni senza tanti complimenti e senza proferire parola alcuna.
Continuando a celare il motivo della sua misteriosa visita, camminava a
passo di femme fatale andando di stanza in stanza, e ben osservando il
mobilio e l’arredamento della casa. Passava attenta
l’indice sui mobili in legno, per vedere quanta polvere era
depositata su di essi. Ma non trovava niente, vista la perizia
maniacale che ci metteva Alberto Gervasoni nel mantenere in ordine il
proprio appartamentino.
“E bravo il nostro detective” proferì di
spalle ad un certo punto la milady.
Poi, voltandosi e guardando in faccia Alberto Gervasoni, aggiunse:
“Se lei è altrettanto bravo a risolvere casi
quanto a tenere in ordine casa, beh… è
assunto”
Devo ammetterlo: quando la milady fissò negli occhi Alberto
Gervasoni, per la prima volta vidi nitidamente nelle pupille di
quest’ultimo una luce che non ho veduto più in
seguito.
Dopo queste prime parole della milady, la conversazione divenne tale, e
seduti davanti ad un tè si svelarono i ruoli. Lei era la
vedova del morto che era stato rinvenuto quattro giorni prima: questo
era (stato) un pezzo grosso, un imprenditore che aveva messo da parte
un patrimonio da far impallidire la maggior parte degli esseri umani
che costellano questo mondo. Ora lei, unica erede, inevitabilmente era
tra i possibili indiziati della polizia. Non tanto perché
scorresse tra lei ed il defunto marito qualche attrito, ma
più che altro per il fatto che l’omicidio era
stato così assurdo e misterioso che la polizia brancolava
nel più totale buio, e quando non si sa che pesci prendere
si parte dal sondare le piste più banali, che
però offrono sempre moventi attendibili. E quel patrimonio
fatto di un numero sterminato di zeri era senz’altro un
movente appetibile. Comunque la stessa polizia non ci credeva poi tanto
in questa pista, ed anche e soprattutto dopo le prime indagini
sembrò più che altro una forzatura continuare a
batterla. Però andava fatto.
Lei era rimasta turbata da tutto ciò: dalle domande
incalzanti della polizia, dall’intrusione dei mass media
nella sua sfera privata. E chiedeva solo giustizia: per sé e
per il suo povero marito. Voleva assolutamente che fosse scoperto
l’assassino.
Di solito gli uomini ricchi hanno sempre una lunghissima lista di
nemici: è un caso di diretta proporzionalità, che
difficilmente può essere contraddetto. Eppure il morto,
nonostante il conto in banca, era una persona ammirata e benvoluta da
tutti. Almeno apparentemente. Era un uomo che faceva beneficenza, e che
sembrava si fosse fatto da solo senza mai tirare colpi bassi a
qualcuno, o mettere il bastone tra le ruote a qualcun altro. Insomma i
suoi soldi erano stati sudati, e non erano sporchi né di
sangue né di imbrogli.
Ad Alberto Gervasoni il tutto sembrò non poco strano, e sin
da subito pensò che il caso sarebbe stato a dir poco arduo
da risolvere. Sta di fatto che però la sua mente solo in
minima parte era impegnata dalle fagocitanti congetture volte a
dirimere il fumoso mistero, mentre per il resto era volta a pensare a
tutt’altro: e sì, Alberto Gervasoni si era
innamorato. Era cotto di quella milady.
E chi non lo sarebbe stato?
Alberto Gervasoni era sempre stato un cuore solitario, barricato nella
sua torre d’avorio a combattere i fantasmi
dell’ignoto ed i misteri più imperscrutabili. Per
quanto ne so io, non ha mai avuto una love story. E per love story non
va intesa solo la classica storia d’amore da film americano
strappalacrime, ma anche qualsiasi altra forma più o meno
marcata di scambio di sentimenti fra due persone. Insomma, per farla
breve, Alberto Gervasoni con molta probabilità non si era
mai innamorato in tutta la sua vita. E mai parlava di donne.
Ora il problema era questo: Alberto Gervasoni mi aveva sempre spiegato
che per risolvere un caso bisogna essere il più possibile
liberi da vincoli di ogni genere, avere la mente sgombra da qualsiasi
gravame e soprattutto non frapporre mai i propri sentimenti alla fredda
e razionale verità. Inoltre aggiungeva sempre che, o queste
condizioni venivano rispettate, oppure lui un caso non
l’avrebbe mai potuto assumere. La definiva
“deontologia professionale” tutta questa lunga e
vorticosa congettura.
Adesso, senza dubbio, questo teorema non poteva essere in alcun modo
rispettato, e di rigore Alberto Gervasoni avrebbe dovuto rassegnare le
proprie dimissioni e lasciare il caso. Però, abbandonare le
indagini sarebbe anche equivalso ad abbandonare la milady, forse per
sempre. E questo il suo cuore non l’avrebbe potuto mai
accettare.
Si era, insomma, proprio di fronte ad un bivio: cosa avrebbe dovuto
fare Alberto Gervasoni?
In quei giorni, dire che appariva ai miei occhi pensieroso e
preoccupato è a dir poco un eufemismo. Ed alla fine si
giunse, con fatica di tutti, alla conclusione più
irrazionale ma al contempo più logica: assecondare il cuore
facendo un piccolo torto alla mente.
Mai e poi mai Alberto Gervasoni avrebbe però ammesso questa
sua “sgarrata”, questa sua deviazione rispetto ai
suoi granitici principi professionali: e così, ad ogni
apprezzamento che gli veniva fatto sulla sua cliente (sotto il profilo
estetico, si intende…), lui storceva ogni volta il naso,
glissando sul punto, quasi a voler dimostrare in maniera inconfutabile
la propria freddezza e l’assoluta mancanza
d’interesse che nutriva verso la milady.
Tutte cose false, che però erano necessarie a mantenere
integro il suo onore e la sua reputazione di detective.
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Capitolo 3 *** CAP. III ***
Ringraziamenti:
- a Beab per la recensione al Cap.
II;
- a Caterozza per la recensione al Cap.
II;
- a Emily
Doyle
per la recensione al Cap. II, per aver inserito la storia fra i
preferiti e per avermi inserito fra i suoi autori preferiti (e chi
più ne ha più ne metta! Grazie di cuore, Emily
Doyle!)
- a Fujiima per la recensione al Cap.
II;
- a Luisina per le recensioni ai Capp.
I e II;
- a Pigna per aver inserito la
storia tra i preferiti;
- a tutti quelli
che commenteranno quest'ultimo capitolo.
Cap.
III
Le indagini andavano avanti in modo febbrile: si trattava
però di una febbre assai alta, comportante deliri notturni.
Dunque, per farla breve, si brancolava nel buio.
Né la polizia né il nostro infallibile detective,
Alberto Gervasoni, avevano trovato anche la più piccola
traccia che potesse aprire almeno uno spiraglio nella fumosa
oscurità che contornava il caso.
Di persone ne erano state interrogate a centinaia, eppure nessuno era
in grado di spiegare l’accaduto. Si erano battute le piste
più disparate, concentrando una certa attenzione attorno
alle sette sataniche ed alle messe nere. Alberto Gervasioni, da par
suo, si era letto tomi su tomi a proposito di queste così
oscure tradizioni, che sono radicate da secoli e forse pure da millenni
in qualsiasi società del mondo, ma che emergono solo in
maniera subdola e meschina, senza volersi far notare in alcun modo.
Comunque a qualche risultato le indagini avevano pur condotto: infatti,
con infiltrati e appostamenti di non facile realizzazione, la polizia
era riuscita a scoprire e smantellare due grosse sette sataniche che
avevano animato per anni le convulse e misteriose notti toscane.
Tutto questo, se da un lato riempiva alcuni titoli di importanti
quotidiani, dall’altro non aveva però condotto a
nulla per il caso che ci interessava.
La milady, nel frattempo, era diventata personaggio pubblico di spicco:
non riusciva a darsi pace per la scomparsa del marito, e
così non perdeva occasione di comparire in televisione o sui
giornali per esibirsi in drammatici e commoventi appelli rivolti a
chiunque poteva essere d’aiuto alle indagini. Pregava,
implorava chiunque avesse saputo qualcosa di farsi avanti, di andare
dalla polizia o di farsi vivo direttamente con lei. Alla fine decise
perfino di porre una ricompensa in favore di chi avesse saputo fornire
indicazioni inerenti al caso.
Appena la ricompensa fu pubblicizzata dalle maggiori testate
giornalistiche, furono tantissimi i millantatori che si fecero avanti:
megalomani, scriteriati o morti di fame che cercavano solo i soldi
promessi, inventavano storie favoleggianti ed incredibili che gettavano
la polizia e soprattutto la vedova nel più completo
sconforto. Ma non nella rassegnazione. Almeno per ciò che
concerne la milady. Infatti, dopo più di un anno di
indagini, la polizia, con un pugno di sabbia tra le mani, fu costretta
ad archiviare il caso. La vedova non accettò mai questo
frequente meccanismo che investe le attività giudiziarie, e
continuò dritta per la sua strada. E la sua strada aveva un
nome: Alberto Gervasoni.
In questo anno che cosa era riuscito a scoprire il nostro detective?
Niente. E lo dico mestamente, ma anche con estrema onestà.
Il caso era davvero impossibile da risolvere: non un indizio, non una
traccia, non un testimone, non una prova. Alberto Gervasoni, data
l’assurdità dell’inchiesta, aveva
battuto le piste più assurde, quelle che la polizia aveva
trascurato a priori. Eppure, nonostante che le strade più
impensabili portino spesso ad incredibili verità, queste
tracce seguite si rivelarono sempre troppo labili, sconfinanti a volte
nel patetico e nell’illusorio.
Io su tutto ciò mi ero fatto un’idea che a
distanza di tempo ancor oggi non me la sento di confutare: Alberto
Gervasoni non era più lo stesso. Aveva accantonato la
propria proverbiale sagacia intellettiva, il proprio fiuto di cane da
tartufi, per assecondare infelicemente il proprio cuore. Eppure la
milady non mostrava nei suoi confronti alcun interesse, se non
un’imprescindibile ansia legata all’esito delle
indagini. Più di una volta mi era capitato di spiare,
origliando da dietro la porta, i colloqui che periodicamente aveva
Alberto Gervasoni con la milady: a volte avevo udito la vedova
sconfortata concedersi ad un sonoro pianto che a fatica il nostro
detective riusciva a sedare; altre volte invece erano perfino volate
parole accese, in cui la milady rimproverava Alberto Gervasoni di non
essere stato produttivo nelle proprie investigazioni.
La vedova, in fondo, confidava molto in Alberto Gervasoni, ma il caso
da risolvere era davvero impervio ed inestricabile, e come minimo
sarebbe servito perseverare nelle indagini, e tutto ciò
richiedeva inevitabilmente del tempo. Ma il tempo è sempre
troppo crudele con tutti noi: quasi sempre, oltre alle persone, uccide
anche il loro ricordo. E la milady sembrava avere troppa paura di
scordare suo marito, così da non riuscire a concepire in
alcun modo il tempo che passava arido e sterile senza portare i frutti
sperati per le indagini.
Poi arrivò un pomeriggio d’ottobre: la quadratura
del cerchio.
Alberto Gervasoni era ospite al castello della milady: era ormai
consuetudine che, almeno una volta alla settimana, il nostro detective
e la ricca vedova si vedessero per discutere delle indagini e delle
piste ancora da battere. Così, se di solito era lei a
recarsi nella più modesta abitazione di lui, a volte, dati
improcrastinabili impegni di lei, succedeva che dovesse essere lui a
recarsi al castello di lei. E così avvenne quel pomeriggio.
La milady doveva sbrigare delle impellenti pratiche col suo
commercialista, che era la persona che le era stata più
vicino da quando il marito era defunto. Nell’attesa Alberto
Gervasoni, ricevuto sempre con notevole garbo dal personale di servizio
della milady, si comportava come se fosse stato in casa propria: girava
per le infinite stanze del castello, cercando di ammazzare il tempo. Il
suo sguardo, impigrito dalla prolungata aridità delle
indagini che stava seguendo, si soffermava volentieri a rimirare le
bellissime (e costosissime…) tele che adornavano il
castello: gli splendidi arazzi colorati lo incuriosivano, le antiche
armature erette a statue gli trasmettevano un certo senso di arcaica
tensione verso l’ignoto, e le mille e altre
preziosità che si trovavano sparse in tutte le stanze
attiravano il suo vivace interesse da amante di antiquariato.
C’era poi una stanza in cui era dato sfoggio a tutte le
preziosissime collane della milady: ce n’erano di tutti i
tipi, ma una in particolare colpì il nostro detective. Era
una collana con uno strano ciondolo a forma di pipistrello, tutta
dorata e con incastonato un topazio. Senza dubbio una collana alquanto
particolare. Ma, se la memoria non lo ingannava, Alberto Gervasoni era
convinto di averla veduta già da qualche altra parte. Ma
dove?
Così con la propria mente si buttò a capofitto
nel ricordo, cercando affannosamente il posto o la circostanza in cui
in precedenza aveva già visto quella stranissima collana. E
proprio mentre era catturato da simili pensieri (così
pruriginosi per certi versi…), la voce della milady
interruppe d’improvviso tali ragionamenti invitando il
detective al suo colloquio. Così Alberto Gervasoni, come un
bambino svegliato al mattino dalla madre mentre stava facendo un sogno,
ritornò in sé ritornando al presente, e si
diresse celere nella stanza in cui l’attendeva la milady. Il
commercialista stava abbandonando la sala con la sua valigetta
sottobraccio quando il nostro detective giunse sulla soglia, e proprio
in quell’istante si ricompose in qualche modo un puzzle nella
sua mente: mentre lui stava entrando nel salone il commercialista stava
uscendo, ed inevitabilmente gli sguardi dei due si incrociarono, ed un
fugace saluto per parte ruppe il silenzio reciproco. Alberto Gervasoni
ora si ricordava in quale precedente occasione aveva già
avuto modo di vedere una collana come quella prima ammirata: un giorno,
recatosi nello studio del commercialista per sbrigare alcune pratiche
relative all’onorario che gli spettava per i servigi da
detective prestati alla milady, Alberto Gervasoni aveva nitidamente
scorto quella collana nella valigetta aperta sul tavolo del
commercialista. Una semplice coincidenza? Difficile da credersi. Molto
più probabilmente quella collana c’era finita per
sbaglio là dentro, e difatti ora si trovava nuovamente al
suo posto nel castello della milady. C’era qualcosa sotto, ed
anche la mente meno ingegnosa di questo mondo non ci avrebbe messo
ancora molto a formulare una maliziosa congettura al proposito.
Alberto Gervasoni aveva un fortissimo sospetto: tra il commercialista e
la vedova esisteva qualcosa.
Una pruriginosa complicità avrebbe dunque avvolto i due, che
dopo la morte del marito di lei, erano stati a contatto continuo,
vicini costantemente l’uno all’altro.
Dentro di sé, però, Alberto Gervasoni faceva di
tutto per scacciare questa supposizione: troppo forte era
l’amore che provava per la milady, e avrebbe dato qualsiasi
cosa perché non fosse stato vero quanto aveva immaginato.
Però un detective e pur sempre un detective, ed
un’indole investigativa non potrà mai essere del
tutto assecondata dai dettami del cuore.
Così il nostro investigatore iniziò a battere la
pista che fino a quel punto aveva volontariamente evitato: il
commercialista era uomo assai grosso e robusto, ancor più
del defunto; perciò non ci sarebbe stato niente di
sconvolgente nello scoprire che il cadavere fosse stato trasportato
giù al fiume proprio dal commercialista stesso. Ma questa di
certo non è una prova. E per il nostro Alberto Gervasoni non
vale neppure il postulato della Christie secondo cui tre indizi fanno
una prova: bisogna essere esigenti nella vita.
Labirintiche ricerche portarono però qualche
novità utile alla risoluzione del caso: Alberto Gervasoni,
tramite un amico che lavorava nella biblioteca di Firenze,
scoprì che il commercialista aveva preso in prestito alcuni
libri di stregoneria in tempi addietro. Tutto questo, forse, avrebbe
potuto spiegare lo stato in cui fu ritrovato il cadavere, che fin da
subito aveva fatto pensare a dei riti di messa nera.
Arrivati a questo punto, entrai in gioco io: Alberto Gervasoni mi
mandò come al solito in avanscoperta, nei miei consueti
appostamenti. Dovevo seguire, spiare e fotografare nella vita privata
gli incontri dei due sospetti, cercando di scoprire che fra la milady
ed il commercialista vi fosse una relazione sentimentale. Devo dire che
i due erano assai discreti, e dunque di materiale compromettente non ne
ricavai proprio nulla.
Ma se da un lato il mio intervento era stato vano, dall’altro
Alberto Gervasoni aveva un piano di riserva: il nostro detective aveva
assoldato Carrugia. Carrugia era il soprannome di un abitante di
Poggibonsi che aveva una fedina penale assai poco pulita: precedenti di
poco conto, ma pur sempre una personalità iraconda e
violenta. Così Carrugia aveva ricevuto il preciso compito di
spaventare e minacciare uno dei domestici della milady (precisamente
quello che Alberto Gervasoni aveva ritenuto essere il più
volubile, in base alla sua frequentazione del castello)
affinché questo gli potesse confessare la presunta relazione
tra la vedova ed il commercialista.
Alberto Gervasoni non è mai stato avvezzo a tali metodi
così poco ortodossi, però il caso (e
l’ira che covava dentro) lo avevano portato a percorrere
anche questa strada forse un po’ meno professionale ma
senz’altro efficace. Infatti quella che poc’anzi ho
definito presunta, si rivelò a tutti gli effetti
un’autentica relazione: del resto certe cose non sfuggono mai
ad un domestico…
Ora serviva il movente: l’allettante eredità
poteva bastare? Questa è una domanda retorica, lo sappiamo
tutti. Ma perché allora la milady avrebbe assoldato a sue
spese un detective? Alberto Gervasoni conosceva la risposta a questo
quesito, e si trattava di una risposta amara, che lo feriva
nell’orgoglio. Infatti la milady dal giorno del ritrovamento
del cadavere aveva fatto di tutto per depistare da sé le
indagini, recitando ottimamente la parte della vedova inconsolabile:
aveva organizzato l’omicidio come se si fosse trattato di una
messa nera; aveva prepotentemente fornito di sé ai mass
media l’immagine di una donna derubata del proprio amore (e
l’istituzione della ricompensa era la ciliegina sulla torta
di siffatto piano); ed infine aveva assoldato per confutare qualsiasi
illazione sul suo conto perfino un investigatore privato. Ma con i
soldi di cui disponeva, e tenuto conto del fittissimo alone di mistero
che circondava il caso, perché affidare l’incarico
ad un anonimo detective di provincia? Un detective che in questo campo
non aveva esperienza alcuna. Ed inoltre, perché nonostante
il perdurare dell’infruttuosità delle indagini non
l’aveva ancora sostituito con un più rinomato
investigatore, magari di fama internazionale anziché
limitata alla sola cittadina di Poggibonsi? Ovviamente tutto questo
serviva da diversivo: la milady era convinta che Alberto Gervasoni non
sarebbe mai stato in grado di risolvere il caso. E si sbagliava.
Ora, da bravo detective che aveva raccolto buoni indizi che potevano
anche assurgere al ruolo di prove, necessitava però della
prova principe: la confessione. Si sa che per ottenere certe cose non
bisogna andarci giù leggeri, ed i modi signorili non servono
granché. Dunque ritornò utile l’aiuto
di Carrugia, ma ovviamente Alberto Gervasoni non avrebbe mai permesso
che a venire spaventata e coartata fosse la milady, quindi la
“vittima” sarebbe stata il commercialista.
Così, una notte, il nostro investigatore e Carrugia, a bordo
della macchina di quest’ultimo, pedinarono il commercialista.
Dopo aver lasciato il castello della vedova per il consueto e
quotidiano incontro con la bella femme fatale, il commercialista si
diresse con la propria automobile verso casa, percorrendo le tortuose e
solitarie strade di collina che disegnano la mappa stradale della
nostra regione. Ovviamente, vista l’assoluta assenza di altre
automobili, il pedinato non ci mise poi molto a capire di essere
seguito: inoltre l’auto di Carrugia procedeva costantemente
con gli abbaglianti accesi, in modo da dare ancor più
fastidio al commercialista, e certamente in questo modo non poteva
passare inosservata. Poi, quanto furono su una strada rinomata per non
essere mai attraversata da anima viva, l’auto di Carrugia
accelerò bruscamente, invase la corsia opposta e, dopo aver
sorpassato l’auto del commercialista, sterzò
d’improvviso, costringendo l’auto
dell’inseguito a finire fuori strada. L’urto contro
il guarderail non fu indolore, ed il commercialista perse i sensi.
Carrugia scese dalla sua auto assieme al nostro detective, e accorse il
ferito: due belle sberle lo fecero rinvenire, e poi, con modi alquanto
triviali, lo spinse in terra. La scena, dunque, si presentava in questo
modo: il commercialista contuso (e confuso) aveva puntato in volto la
luce abbagliante di uno dei fari dell’auto di Carrugia, che
gli impediva di distinguere Alberto Gervasoni (che stava in piedi
accanto all’auto), attento ad ogni parola, in febbrile attesa
della tanto agognata confessione. Ed a confessare con ci mise molto il
commercialista, dati i modi ruvidi ma efficacissimi di Carrugia.
Alberto Gervasoni, sentendo il commercialista disperato che ammetteva
ogni colpa, che confessava il complotto con la milady ai danni del
marito, non poté restare impassibile: una lacrima gli
rigò furtiva il volto teso ed indurito dal tempo. Sentiva
dentro di sé l’odio più profondo per
quella donna falsa e traditrice. Eppure sentiva ancora un barlume
d’amore. Forse certe cose non si posso spiegare a parole, e
si capiscono solo mentre vengono vissute in prima persona: ed Alberto
Gervasoni, in quel preciso momento, si trovava in questo stato di
confusione. Lui odiava quell’assassina, ma al contempo
l’amava ancora.
Tornato a casa dopo aver lasciato andare il commercialista come un
coniglio, Alberto Gervasoni non riuscì a dormire ripensando
di continuo a tutta la losca faccenda. Ed al suo mal di cuore.
La donna che amava l’aveva sfruttato, l’aveva
utilizzato come pezza da piedi puntando sulla sua (presunta)
incapacità. Lui era stato uno dei tanti ingranaggi ben
oliati che avevano permesso al meccanismo criminale architettato dalla
vedova di poter funzionare senza incepparsi. Almeno fino ad allora.
Ora non restava altro che avvisare la polizia: ma questo Alberto
Gervasoni non lo fece mai.
Il grande detective che aveva saputo risolvere un caso praticamente
impossibile preferì assecondare il proprio cuore. Questo gli
sarebbe costato caro: in primis l’orgoglio.
Decise così di andare al castello per parlare con la milady:
quell’ultima volta che la vide non la guardò mai
in volto per tutto il tempo del brevissimo incontro, nel quale
rassegnò le proprie dimissioni dal caso dicendo che non era
stato in grado di risolverlo. La milady cercò invano di
farlo tornare sui suoi passi. Lui non le concesse neanche uno sguardo,
neanche una parola di conforto: sapeva tutto quello che era accaduto ma
non lasciò trapelare nulla. Preferì fingersi un
incapace, un detective che aveva fallito nella propria missione. E
tutto questo per assecondare il proprio cuore, per non tradire
l’amore che aveva provato (e forse provava ancora) per la
milady. Mai e poi mai avrebbe voluto far marcire in cella
l’unica donna che in tutta la propria vita aveva saputo
amare, anche se sarebbe stato giusto il contrario. Ma al cuor non si
comanda…
Questa che ci diede Alberto Gervasoni fu una lezione immensa, una
dimostrazione unica di che cosa vuol dire avere un’anima: ci
rimise forse il nome (o quel poco che aveva guadagnato in quegli anni a
Poggibonsi…), ma face vincere il suo essere uomo sul suo
essere detective.
Qualche mese più tardi arrivò un nuovo caso, il
primo dopo l’inchiesta svolta per conto della milady: doveva
ritrovare Augello, il mulo della signora Pallotti. Alberto Gervasoni si
sentì rinato, e affinò nuovamente il suo grande
fiuto da segugio infallibile. Gli occhi tornarono ad illuminarsi di
quella luce che era andata scomparendo: Alberto Gervasoni era tornato!
In men che non si dica ritrovò il cocciuto mulo: il
quadrupede si era imboscato nella fitta macchia che circonda
Poggibonsi, e fu ritrovato mentre cercava di accoppiarsi con Buretta,
l’asina del signor Ponchielli (che però aveva
preferito non denunciarne la scomparsa).
Del resto la vita va così: da una parte
c’è chi fa l’amore, e
dall’altra c’è chi investiga. E non
è forse vero che l’amore è il
più grande mistero al mondo?
NOTA
DELL’AUTORE:
questa
storia è stata suddivisa non a caso in tre capitoli: tutto
ciò perché si tratta di un’operazione
complessa e dinamica, in cui progressivamente il racconto muta. Il
primo capitolo è il più parodistico e comico; nel
secondo il tono ilare si allenta; nel terzo si ribalta il tutto, con un
tono drammatico e fortemente introspettivo. Basti pensare, ad esempio,
all’espediente utilizzato per la voce narrante:
all’inizio è molto forte la presenza narrativa del
ragazzino che racconta la storia, ed addirittura si fanno accenni anche
a fatti e cose che concernono la sua vita privata (e non quella del
detective); poi, però, progressivamente è come se
scomparisse il personaggio del ragazzino, e la voce al contempo diviene
sempre più onnisciente. Nonostante questi mutamenti
stilistici continui (che Beab
aveva già denotato dal secondo capitolo) che rappresentano
una cifra stilistica costante nell’opera del sottoscritto
autore (fondata sulla contaminatio di generi), vi sono comunque aspetti
costanti nella narrazione, a partire dall’ironia che anche
nei momenti drammatici stempera un po’ la tensione narrativa.
Ho voluto poi scrivere sempre “Alberto Gervasoni”,
senza mai scindere prenome e cognome, per creare un effetto parodistico
e capace di riprodurre un ricorso onomastico diffuso tuttora in certe
realtà rurali.
Questa
storia, che soprattutto nell’ultimo capitolo svela il
ragionamento investigativo del protagonista in un modo anomalo per una
detective story, vuole essere una riflessione sull’amore in
fondo, e sulla contrapposizione fra cuore e mente, istinto e
razionalità: due cose che per il sottoscritto sono un
tutt’uno, con differenti “tempi di
reazione” però.
Ringrazio
chi ha seguito questa storia così particolare e mutevole
nello stile (per dirla alla Queneau, è una sorta di
“esercizio di stile”…), e ringrazio Harriet per avermela
ispirata con il suo contest.
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