The Way We Were

di Briseide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Lisce, leggere, calde. ***
Capitolo 2: *** II Preferenze ***
Capitolo 3: *** III Excursus ***
Capitolo 4: *** IV Memoria ***
Capitolo 5: *** V Vincere e perdere ***
Capitolo 6: *** VI Concessioni ***
Capitolo 7: *** VII Insonnia ***
Capitolo 8: *** VIII Confessioni ***
Capitolo 9: *** IX Dover ***
Capitolo 10: *** X Boccoli, boccioli ***
Capitolo 11: *** XI Brindisi ***
Capitolo 12: *** XII Rivoluzioni ***
Capitolo 13: *** XIII Gusci ***
Capitolo 14: *** XIV Nemesi storica ***
Capitolo 15: *** XV Affari di famiglia ***
Capitolo 16: *** XVI: Congedi ***
Capitolo 17: *** 17. Oltremanica ***
Capitolo 18: *** Ricomposizione ***



Capitolo 1
*** I Lisce, leggere, calde. ***


Disclaimer: Come sempre niente del mondo e personaggi della Rowling mi appartiene; non scrivo a scopo di lucro ma solo perché faccio di tutto pur di non studiare al momento.

Note: Non so perché ho avuto questa malsana idea di iniziare una cosa simile. Comunque, dato che la Rowling mi ha fatto l’ennesimo dispetto e sono avversa alla famiglia Greengrass (Daphne e la sua innocenza escluse) e amo Draco e Pansy, ecco il tutto.

Se la coppia non vi piace ma volete leggere lo stesso, siete pregati di non farmi sapere quanto la coppia vi disgusti, perché avrebbe poco senso. Grazie. Per il resto, ci sarà qualcosa di OOC forse, su quello potete legittimamente inveire, se vi parrà opportuno =) Metto le mani avanti in merito a qualcosa: Blaise Zabini e l'amicizia con Pansy e Draco, che la Rowling non ha specificato. Blaise Zabini e il suo essere un seguace di Petronio. Credo ci sia dell'altro sparso un pò qui e là, sono licenze autorali che forse non avrei dovuto permettermi ma è il vantaggio di non essere romanzieri di professione ^^ Merci.

 

 

 

The way we were

 

 

I

Lisce, leggere, calde.

 

 

Memories light the corners of my mind
Misty water-colored memories of the way we were
Scattered pictures of the smiles we left behind
Smiles we gave to one another for the way we were

[The way we were – Barbra Streisand]

 

 

Avevo un ricordo ben preciso dell’ultima volta che sul mio viso era comparsa quell’espressione che la gente comune – quella che non vanta un padre latitante e un futuro appeso ad un filo mosso da un Lord Oscuro con manie di assolutismo – avrebbe potuto definire spensierata.

Erano le vacanze di Pasqua del quinto anno, quei quattordici giorni di respiro rubati alla soffocante coltre di ostinato buonismo e cieco pregiudizio che ammantava la bella Hogwarts, patria di giovani maghi in formazione, volti verso un brillante futuro che, ottusi com’erano, neanche avrebbero distinto.

Nel mio ricordo compaiono Draco e Blaise, e mi sembra superfluo aggiungerlo ora che in piedi sull’orlo, posso osservare tutto dall’alto, fredda e distaccata: qualsiasi cosa mi sia capitata nella vita, in un modo o nell’altro loro erano intorno a me, e se non c’erano, quel qualcosa era strettamente legato ad uno dei due. Quando coinvolgeva entrambi, di solito era un guaio.

Quel giorno di Aprile camminavamo per le strade di Provenza, tra accenti e colori francesi. Io e Blaise procedevamo affiancati ballando scioccamente al ritmo di una vecchia canzone di vent’anni prima; indossavo degli improbabili occhiali da sole, e la cravatta da studente di Blaise era appesa alla sua spalla in precario equilibrio ai suoi passi cadenzati. Alle nostre spalle, alle mie spalle, c’era Draco, in tutta la sua composta eleganza. Avanzava per la strada, dietro di noi, mani in tasca e un ghigno appena accennato a piegargli le labbra in nostra direzione, e nascosto in quel ghigno, un sorriso velato, per cui sarebbe morto se avesse corso il rischio che noi lo notassimo. Io e Blaise lo avevamo notato, e non abbiamo detto niente. Con Draco funziona così. Ti dà modo di amarlo per queste piccole cose (e di odiarlo per tutto il resto, che appare sempre come di contorno in confronto) ma di nascosto.

Scosse la testa quando mi sentì accennare il motivetto della canzone, così sciocca se consideravo le interminabili sonate per pianoforte che deliziavano tanto mio padre. Era troppo compiaciuto per avermi imposto di fare qualcosa che lo soddisfacesse per poter far caso all’espressione sul mio viso, o alla più totale freddezza con cui spingevo un tasto dietro l’altro sperando di arrivare presto alla fine. E mentre Draco scuoteva la testa e Blaise mi afferrava gentilmente il polso facendomi volteggiare verso di lui, pensai che era in quel modo che dovessero andare le cose: lisce, come una canzone anni sessanta; leggere, come il cotone della divisa libera del mantello ornato dallo stemma di una casata, accuratamente dimenticato sul pomello del letto, in Dormitorio; e calde, come la luce del sole che mi batteva sulla pelle.

Così ho imparato che i desideri non sono cosa da tutti, e che se non volevo ferirmi più di quanto mi spettasse, non avrei dovuto farlo più. Desiderare qualcosa per me.

 

Quelle erano le vacanze di Pasqua del 1997, Pansy Draco e Blaise, strada di Provenza.

L’ultimo ricordo che ad essere rievocato non mi avrebbe tolto il respiro. Avrei fatto bene a tenermelo stretto. Ed è quello che ho fatto. Per tutto questo tempo.

 

●●●

 

Il tempo dal canto suo aveva fatto la propria strada, e rincorso se stesso senza sosta, fedele al suo imperdonabile cinismo, ignorando impietoso le necessità e i desideri di chi travolge lungo la sua corsa inarrestabile, esente dal giusto o dall’ingiusto come le leggi sottese che governano la vita.

Pansy Parkinson, abile trasformista, aveva imparato ad accettare l’idea che le cose stessero così e che niente fosse in suo potere se non aggirarle e plasmarle a proprio favore, ma mai, in nessun modo, modificarle.

Quindi con il passare degli anni e il succedersi delle vicende umane – tragiche o comiche che fossero – aveva anche imparato a riporre in un luogo nascosto tra la sua mente e il suo cuore ogni piccolo desiderio a cui era stata costretta a rinunciare momentaneamente.

Ne aveva un cassetto pieno e lo custodiva gelosamente. L’ultimo ripiano di quel cassetto conteneva quello più bello e doloroso, quello da cui era fuggita con una ostinazione proporzionale solo all’intensità con cui lo aveva voluto per sé.

Lì aveva riposto Draco Malfoy, con una stretta sul cuore e un nodo alla gola; con la ferma decisione di una bambina che accetta di diventare grande; con la consapevolezza che quello sarebbe rimasto il suo posto per sempre e che mai vi avrebbe fatto visita con il ricordo, o avrebbe corso il rischio di rovinare tutto e chiudere se stessa in quel cassetto con lui.

●●●

 

La Sala si apriva agli occhi del visitatore in tutta la sua magnificenza, sobriamente addobbata con decorazioni eleganti, in un’armonia di colori e forme da fare invidia alla più classica delle costruzioni di età greca. Ogni particolare aveva trovato la propria soddisfazione, ogni cosa al suo posto, ogni colore accostato al giusto compagno corrispondente. La luce del giorno filtrava con parsimonia dalle tende di broccato appena tirate, quel tanto che basta da lasciar intravedere la vista sul giardino, curato da mani esperte e care agli alberi dalle sementi rigogliose fatti piantare anni addietro, con l’intenzione di rendere in futuro l’effetto splendente che quel giorno colorava l’intero palazzo.

Secondo il detto per cui gli elfi domestici assomigliano al padrone, non c’era niente che sfuggisse alle regole di ordine e misura, un trionfo di apollinea perfezione come la signora aveva deciso che dovesse essere, lottando contro il volgare gusto dell’ostentazione di quelli che di lì a poco sarebbero divenuti suoi parenti per tutta la vita. Una vita che per quanto la riguardava, si augurava dovesse durare il minimo indispensabile per ottenere qualche piccola rivincita e momento di piacere, e non si protraesse oltre, costringendola a fare i conti con una vecchiaia non voluta e una voragine al centro del petto, dove per chi ci crede risiede un’anima.

Nell’immacolata staticità di quella sala da ricevimento, sette teste amorfe scattarono d’improvviso nel percepire il netto rimbombo di tacchi sottili risuonare dietro la porta di ingresso. Il più anziano degli elfi domestici, a servizio quasi da un secolo presso la facoltosa famiglia dei Nott, radunò con un solo cenno della testa tutti gli altri inservienti, disponendoli in linea retta dinanzi alla porta, pronti a chinare il capo in riverenza e a mostrare gli esiti del loro lavoro.

Tuttavia, risultò ovvio a tutti che non fosse necessario allarmarsi più di tanto, nel momento in cui la porta del salone venne maldestramente aperta. La padrona non faceva mai niente con malagrazia, più per una dote di natura che per reale intenzione.

Semplicemente, pur volendo, non era in grado di risultare goffa in qualcosa.

Millicent Bullstrode ne sapeva qualcosa, destinata a rimanere nell’ombra dei propri sogni irrealizzabili; schiacciata dal peso di un cognome che mal si accosta a qualsiasi altro –  produce un suono cacofonico in ogni caso, farebbe notare Blaise Zabini in uno dei suoi letali e magnifici sorrisi abbaglianti – e che da sempre aveva confinato se stessa nel ruolo di damigella d’onore.

L’onore per altro le era dovuto dalla totale assenza di altre pretendenti al ruolo, più che per qualche sua dote, o prestanza fisica o particolare affezione da parte della sposa nei suoi riguardi.

Per inciso la sposa era la quintessenza dell’insofferenza e del netto rifiuto a qualsiasi forma di legame sociale, senza contare la niente affatto momentanea indisposizione con cui si apprestava a vedere celebrare le proprie nozze.

Con queste consapevolezze ben impresse nella testa e una scatola per la sposa saldamente impugnata tra le mani, Millicent varcava la soglia del salone in quel pomeriggio di novembre, ammirando la punta delle scarpe nuove riflessa sul marmo lucido sotto i suoi piedi e preparandosi psicologicamente ad affrontare uno degli incontri più pericolosi della sua vita.

 

Molte persone nell’arco della loro esistenza hanno finito con il desiderare di essere Blaise Zabini almeno per una volta, che vogliano accettarlo o meno, ammetterlo o negarlo, è certo che è successo. Chi perché Blaise Zabini aveva una classe innata e intrinseca; chi per il patrimonio che gli permetteva di acquistare capi che sottolineassero sfacciatamente quella eleganza; chi perché era una mente tanto brillante da non essere minimamente portato per la aritmanzia ma avere inspiegabilmente i voti più alti della classe. C’era anche chi lo invidiava perché volendo avrebbe potuto avere chiunque nel suo letto ogni sera, potendo scegliere persino l’orientamento sessuale del giorno, non avrebbe fatto differenza, uomini o donne, chiunque almeno una volta ha desiderato finire sotto le sue coperte con lui accanto.

C’era poi chi voleva essere Blaise Zabini per il semplice motivo che era il migliore amico di Pansy Parkinson, e non avrebbe avuto mai alcun genere di problema nel doversi rapportare con lei.

Tra queste persone spiccava il nome di Millicent Bullstrode, dilaniata da un non indifferente conflitto di interessi: se da una parte desiderava avere la benevolenza che Pansy riservava solo a lui, ed essere quindi Blaise Zabini, dall’altra parte voleva anche finire nel suo letto, ed essere quindi con Blaise Zabini. Questo indicibile tormento interiore andava avanti dai suoi undici anni, tuttavia forse era giunto il momento di attribuirgli l’importanza dovuta una volta tanto, considerando che con molte probabilità la sua vita finiva quel giorno, a ventidue anni, nella camera da letto di Pansy Parkinson, Nott Manor, Novembre 2004.

 

●●●

 

«Dove corre, Madmoiselle

Le intenzioni di Millicent vennero fermate dalla voce di qualcuno poco distante da lei. Volgendosi indietro, ebbe modo di notare Blaise Zabini, posatamente seduto in un angolo del divano nel salone, intento a sorseggiare del brandy che aveva tranquillamente ordinato come se fosse a casa sua. Fingendo di non aver trascorso sette lunghi anni a morire dietro la scia del suo profumo e l’orma dei suoi passi, Millicent si schiarì la voce approntando un sorriso.

«Devo portare queste a Pansy» rispose cercando di non guardarlo troppo a lungo e mostrando il plico delle partecipazioni che aveva in mano. Blaise la squadrò senza battere ciglio, prendendo un sorso di brandy e gustandone il sapore sulle labbra. Di nuovo, Millicent finse di non voler essere il contenuto di quel bicchiere.

«Capito» fu la risposta, accompagnata da un sopracciglio aristocraticamente inarcato in posizione di divertito scetticismo, e un sorriso sornione sulle labbra chiare. Se solo fosse stato un po’ più eloquente, Millicent avrebbe potuto trarre conclusioni certe, senza doversi domandare se quell’aria minacciosa di avvertimento che aveva assunto fosse o meno una sua impressione.

«Pansy è di sopra?» domandò con fare pratico, fremendo appena. Blaise annuì senza perdere quel sorriso indefinito.

«Nel suo loculo. Pardon, intendevo dire camera nuziale» si corresse mentre il sorriso mellifluo di poco prima lasciava il posto ad un bieco sarcasmo, per quanto filtrato dal tono carezzevole della sua voce.

Millicent mise da parte tutto l’amore che aveva per lui e lo fulminò con lo sguardo, riprendendo la propria strada.

«Non le sei di grande aiuto, Blaise, lo sai?» non poté fare a meno di soggiungere a pochi passi dalla rampa di marmo bianco che portava al piano superiore. Blaise le sorrise più indulgente, restando in silenzio per un po’. Lo sguardo adagiato sul piano in cristallo del tavolo che aveva davanti, sembrava stesse scrutando una verità più profonda nascosta nella goccia di liquore scivolata dal bicchiere.

«Non è nei miei piani esserlo».

Ancora più infastidita Millicent gli voltò definitivamente le spalle. Del resto quel legame tra Blaise e Pansy lei non era mai riuscita a comprenderlo. Aveva sempre pensato che forse c’era troppa affinità tra quei due perché un terzo potesse avere voce in capitolo, ma se così fosse stato, era costretta a chiedersi quale fosse il ruolo di Draco Malfoy lì in mezzo. Decisamente strano, continuava a ripetersi tutte le volte che finiva con il pensarci. Ogni tanto aveva provato a chiedere a Pansy di spiegarle come fosse successo che lei, Blaise e Draco fossero diventati tanto amici, ma non otteneva mai risposte. Un po’ perché Pansy non era a proprio agio con le domande, un po’ perché infondo una vera risposta non l’aveva neanche lei probabilmente, non esprimibile a parole quantomeno. Di certo però tutti e tre nascondevano accuratamente agli altri la chiave di volta di quel loro legame, e nessuno era mai riuscito a trovare quel nascondiglio. Erano stati dei custodi astuti, schivi, silenziosi ed irridenti.

Tipicamente Slytherin.

 

●●●

 

Can it be that it was all so simple then
Or has time rewritten every line
If we had the chance to do it all again,
Tell me, would we, could we?

[The way we were – Barbra Streisand]

 

Tuttavia parlare di Draco Malfoy adesso non era certamente una buona idea, e onestamente Millicent non riusciva a capire neanche come potesse Pansy trovare del conforto nel frequentare ancora Blaise Zabini, quando non faceva altro che sbatterle in faccia il fatto che il trio d’argento si era diviso da tempo, ormai.

Ben inteso che a lei non potesse che fare piacere, aveva molte più occasioni di girare intorno a lui in quel modo, ma le sembrava inequivocabile l’assenza che permeava ogni loro silenzio da quando gli anni di Hogwarts erano finiti e Draco Malfoy e Pansy Parkinson avevano smesso di rivolgersi la parola, di guardarsi, di incontrarsi, in qualsivoglia occasione.

«Pansy?» domandò bussando leggermente alla porta. Dall’interno non giunse alcuna risposta se non un fruscio di vestiti e un sospiro. Pensando che con molta probabilità stava provando il vestito per il ricevimento di quella sera, Millicent sospinse la porta ed entrò nella stanza immersa nella penombra, offrendo un sorriso conciliante all’amica.

«Volevo chiedere un parere a Blaise, visto che ha un indubbio buongusto, ma mi ha infastidito come al solito e ho lasciato perdere» comunicò sfogliando le diverse tipologie di partecipazione fino a trovare il prototipo che le sembrava più appropriato. «Secondo- ».

In piedi su quello che comunemente verrebbe chiamato sgabello da sartoria, Pansy sembrava poggiata su un piedistallo, avvolta nel bianco del suo vestito da sposa, lasciava che il tessuto di seta fine le fasciasse il corpo mentre ruotava di mezzo giro sulle punte, per potersi guardare meglio nello specchio. Aveva lasciato le tende semichiuse, così tutto quello che svettava nella penombra della stanza era il candore luminescente del vestito e la luce dei suoi occhi scuri, fissi nello specchio, eppure incredibilmente lontani.

Millicent non mosse un passo, restando a guardarla. I capelli neri erano raccolti in uno chignon approntato alla svelta poco dopo il risveglio, alcune ciocche le erano scivolate sul viso, adombrando la sua pelle chiara. Non le era mai parsa tanto bella e fragile come in quel momento, pensò distogliendo lo sguardo come abbagliata.

«Sei bellissima».

Quella frase era risuonata nella stanza come fosse colpevole, mormorata flebilmente come fosse un’accusa o una verità scomoda e sconveniente da dover tenere nascosta. Millicent sapeva che Pansy non voleva sentirselo dire, ma era così palese, quanto fosse diventata bella nel tempo, che non aveva potuto fare a meno di rendere giustizia alla verità e lasciarselo sfuggire a mezza voce, in un respiro mozzato.

Alle sue parole tutto quello finì.

Pansy scese dalle punte, tornando ferma sulle piante dei piedi, gli occhi abbandonarono il riflesso di se stessi dallo specchio, e recuperando la bacchetta Pansy ordinò alle tende di aprirsi alla giornata. La luce della mattina inondò la stanza, travolgendo la figura esile di Pansy e macchiando di colore il bianco perfetto del vestito. Lo chignon si disfece del tutto mentre la regina di ghiaccio scendeva dal suo piedistallo e si toglieva il vestito da cigno. Con una morsa allo stomaco ancora più colpevole, Millicent non poté fare a meno di pensare che era comunque troppo tardi per rinnegare, e che se fosse stato lì in quel momento, Draco Malfoy l’avrebbe trovata ugualmente bella. Con i capelli sparsi disordinatamente sulle spalle, un vestito troppo lungo e, soprattutto, con il cuore spezzato dal susseguirsi di eventi della sua vita.

«Fa vedere» replicò ignorando il commento di prima.

Non avrebbe permesso a nessuno di trovarla bella. Qualunque osservazione, qualunque complimento che le venisse rivolto aveva il potere di farla innervosire, di mandare in pezzi il suo autocontrollo, di violentare la sua intimità. Nessun altro avrebbe dovuto posare gli occhi su di lei, a stento permetteva a suo marito di toccarla; quando facevano l’amore lei teneva gli occhi chiusi e approfittava della distrazione nell’estasi di Theodore per poter cercare una via di fuga in cui annidare i propri pensieri fino a quando tutto quello non fosse finito.

Millicent le porse i cartoncini, sbottonando per lei la chiusura del vestito. La seta scivolava tra le dita con la stessa fuggevolezza con cui Pansy evitava lo sguardo di chi la conoscesse troppo bene.

«Blaise è ancora qui?» domandò continuando a scorrere i modelli di partecipazione, con una velocità che rasentava quasi la frenesia. 

«Beve brandy nella Sala da Ricevimento» rispose Millicent lasciando trapelare in tutta onestà un certo astio nella voce. Le labbra di Pansy si adagiarono nella morbidezza di un sorriso lontano.

«Con quel suo impeccabile manierismo, riesce ad offuscare del tutto la maleducazione del gesto in sé» proseguì mentre Pansy lasciava cadere il vestito ai propri piedi, dimenticandolo in terra mentre trovava qualcos’altro da mettere addosso.

«Sembra che non si ponga mai alcun problema lui, come ad esempio cosa penserà Theodore del fatto che qualcuno beve tutto il suo brandy».

Pansy scrollò le spalle con indifferenza, portando un pettine tra i capelli, davanti allo specchio.

Millicent si domandò se avesse sentito anche mezza parola di quanto le aveva detto, e notò che aveva lo stesso sguardo lontano e sornione di Blaise poco prima, tutto preso a guardare quella goccia di liquore.

«Theodore non sopporta il brandy. Lo trova stucchevole».

Millicent le lanciò un’occhiata sbalordita, ma non riuscì a perforare la coltre di pensieri segreti che Pansy condivideva con la propria immagine nello specchio.

Così a Nott Manor c’era una riserva speciale di Brandy per il signor Zabini.

«Pans. Certe volte mi chiedo come faccia Theodore a sopportare tutto questo».

Ammise lasciandosi cadere sul letto con un sospiro.

Pansy le offrì un sorriso un po’ triste.

«Non poteva avermi ad altre condizioni».

 

 

What’s next

 

“Forse tra tutti e due, poteva credere di amare più lui Pansy Parkinson di Draco Malfoy.

Si era dovuto ricredere, quando aveva assistito di nascosto all’ultimo sguardo che lui le lanciò.”

 

“Cosa mi avresti detto, Blaise? Se non ti avessi detto che mi sposo.”

Chiese infine, con la dolcezza di un perdono.

Lui non aspettava altro che il permesso di poter cedere.

“L’ho visto”.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** II Preferenze ***


The way we were

 

II

Preferenze.

 

I want to ride to the ridge where the west commences
And gaze at the moon till I lose my senses
And I can't look at hovels and I can't stand fences
Don't fence me in.

[Don’t fance me in – Bing Crosby]

 

Per quanto strano potesse sembrare a chiunque, e molto spesso anche a lui, Theodore Nott era un indefesso lavoratore. Non mancava mai una riunione, arrivava puntuale in ufficio, aveva sempre ordini da predisporre ai suoi sottoposti, e si occupava personalmente dei cavilli finanziari e legali dell’intera famiglia Nott.

«Sono tornato!»

Quindi al rientro a casa non era sfinito solo perché andava di moda dirlo nel togliersi la giacca, ma perché in effetti aveva avuto diversi problemi e imprevisti da affrontare durante la giornata, e perché aveva un sincero piacere nel tornare a casa, ricevere un saluto caloroso dalla sua consorte e avere un bicchiere di scotch liscio da uno dei suoi fedeli elfi domestici.

«Oh cielo, siamo quasi commossi».

Se con il tempo aveva accettato con la forza l’idea che Pansy Parkinson non fosse tipo da baci sulla guancia e da “Bentornato caro”, non aveva ancora fatto pace con l’idea di trovare spesso e malvolentieri Blaise Zabini non solo in casa propria, ma sul suo divano, a sorseggiare brandy da ottanta galeoni e a ricordare alla sua promessa quanto stupido fosse sposare Theodore Nott.

«Blaise».

La mascella serrata tanto da far stridere i denti tra loro, mentre più che togliersi la giacca la lanciava con evidente furia contro la spalliera del divano, fino a quando uno degli elfi non trotterellò prontamente a recuperarla. Blaise inclinò il bicchiere che stringeva tra le mani, con un sorriso di affettata indisponenza. Per quanto segretamente si rammaricasse del destino che era toccato a Pansy, avere l’occasione di inferire su Nott gli era cosa particolarmente gradita.

«Mia moglie?» domandò poi il padrone di casa, senza riuscire a mascherare il fastidio per essere costretto a racimolare certe informazioni da un ospite e da un ospite che era Blaise Zabini. Quello scrollò le spalle, posando il bicchiere sul tavolo.

«Non credo che risponderà al tuo richiamo prima del matrimonio, se continui ad usare quell’appellativo» gli fece notare lasciando ad intendere quanto lo disgustasse l’idea di dover assistere ad un tale scempio di lì a poco. «Tecnicamente, per non dire con sua salvifica fortuna, è ancora la tua futura consorte».

Theodore preferì non dargli ulteriore spago, e tantomeno soffermarsi sul pensiero piuttosto fastidioso secondo cui con somma probabilità Pansy non avrebbe risposto al suo richiamo neanche dopo il matrimonio. Come dire, né ora né mai.

La amena conversazione fu interrotta dai tacchetti di Pansy, che ne annunciavano l’ingresso imminente. In un turbine di buon profumo francese entrò nel salone, tra le mani ancora le partecipazioni che Millicent le aveva portato quella mattina e un cipiglio scettico al riguardo.

«Theo, sei qui» constatò arrestando i propri passi bruscamente, appena riconobbe la sua figura accanto a quella di Blaise. Lui le restituì un sorriso piuttosto ovvio e le baciò una tempia quando si fu avvicinata a sufficienza. Pansy gli concesse un sorriso di scuse per il poco calore con cui lo aveva accolto, per quanto non fosse assolutamente un’eccezione alla solita routine.

«Sì, e mi chiedevo se è strettamente necessario avere Blaise nel nostro salotto ogni sera».

La plateale scortesia dell’affermazione in presenza del soggetto in questione, cancellò ogni forma di maleducazione, proprio perché voluta e perché accompagnata da una vena di non sottile sarcasmo nella voce.

Pansy si soffermò sul pensiero una manciata di secondi, prima di chinare la testa di lato in una posa vezzosa e sorridere a Theodore, lanciando un’occhiata valutativa a Blaise.

«Sì, si intona con la tappezzeria, mi spiace» concluse altrettanto ironica, lasciando una carezza sulla spalla dell’amico mentre si versava da bere e offriva un secondo bicchiere a Theodore.

 

●●●

 

Pansy Parkinson non aveva affatto bisogno di consigli e consiglieri, questo era evidente a tutti.

Il presenzialismo di Millicent nei preparativi del suo matrimonio era tollerato a stento, tanto per dirne una.

Pansy non aveva chiesto consigli neanche quando si era trattato di accettare la proposta di matrimonio di Theodore Nott. Si era attardata nel rispondere, solo per godere della preoccupazione sorta nei suoi genitori, fin troppo favorevoli a quell’unione per i suoi gusti.

Quando da piccola aveva manifestato tutta la sua insofferenza nei riguardi di quel cumulo biondo di spocchia e antipatia, che altri non era se non Draco Malfoy, sua madre l’aveva incenerita con lo sguardo e suo padre non l’aveva degnata neanche di un sospiro. Era più che certo che il suo parere non avrebbe contato niente, di lì in futuro, per sempre. Poi era malauguratamente capitato, che Draco non le dispiacesse più così tanto, e che nel frattempo la lucentezza dei Malfoy fosse andata spegnendosi. Ancora una volta, i suoi genitori erano passati sopra i suoi desideri, ed entrambi avevano ignorato deliberatamente lo squarcio di dolore che le aveva attraversato lo sguardo, nel prendere atto che Draco non sarebbe mai stato suo.

Theodore Nott si era affacciato pochi anni dopo la fine di Hogwarts e della guerra.

Tutti erano presi a leccarsi le ferite, a contare le perdite finanziarie e piangere i propri morti. Lei non aveva nessuno per cui piangere se non se stessa e i sogni che erano andati infranti senza alcun rispetto della sua volontà.

Avrebbe voluto piangere anche per Draco, ma in qualche modo non ne era capace. Millicent aveva cinguettato tutto il tempo che succedesse perché non riusciva a metterlo da parte e accettare che tra loro fosse finita. Pansy non aveva perso tempo a spiegarle che semplicemente non era mai iniziata.

 

Il corteggiamento di Theodore fu esplicito ma discreto. Rispettò i canoni imposti dalla buona decenza, non varcò mai il confine, si dimostrò propositivo e non le impose mai alcuna sua scelta o richiesta. Per queste stesse ragioni, Pansy non perse mai la testa per lui. Inciso sul cuore aveva il nome di un altro, che le labbra si rifiutavano di pronunciare, ma Theodore poteva sentire il sapore di quel rimpianto e di quell’amore in ogni bacio scambiato con lei.

Finse senza troppe pretese che non fosse importante.

Qualcosa nella razionalità con cui curava il suo conto alla Gringott e si prendeva cura delle sue emozioni, gli suggerì sempre di non poter sostenere una sfida contro Draco Malfoy. Le avrebbe perse tutte, come sempre era stato.

La gara clandestina durante la lezione di Quidditch al loro secondo anno.

La sfida a chi fosse più ricco, il primo giorno di scuola, sul treno. Quella a chi avesse i capelli più biondi, la pelle più chiara, il padre più bello e il voto più alto in Pozioni. Draco copiava dal vicino di calderone, ma il voto più alto era comunque il suo.

Vinse anche la gara a chi fosse più stronzo e intrattabile, chi più ossessionato da Fleur Delacour e disgustato da Hermione Granger. Di qualsiasi cosa si trattasse, Draco era sempre di più.

Durante l’ultimo anno, Theodore d’improvviso aveva creduto di poter vincere in qualcosa.

Forse tra tutti e due, poteva credere di amare più lui Pansy Parkinson di Draco Malfoy.

Si era dovuto ricredere, quando aveva assistito di nascosto all’ultimo sguardo che lui le lanciò. Pansy non se ne era accorta, e lui ovviamente non lo avrebbe mai rivelato a nessuno. Certe notti lo consolava l’idea che Pansy potesse ritenerlo vincitore di quella sfida. Gli offriva scioccamente una maggiore sicurezza il pensiero che Pansy credesse che al mondo ci fosse qualcuno in grado di amarla più di Draco Malfoy. E che quel qualcuno le avesse chiesto di sposarla.

 

●●●

 

Memories may be beautiful and yet
What's too painful to remember
we simply choose to forget
So it's the laughter we will remember
Whenever we remember the way we were.

[The whay we were – Barbra Streisand]

 

Subito dopo aver detto a Theodore, meravigliandosi di se stessa per essere riuscita a guardarlo in faccia nel farlo, Pansy aveva saputo che se non lo avesse detto a qualcuno, il dolore l’avrebbe uccisa. Consapevole di ferire i sentimenti di Millicent e della tenera fiducia che riponeva in quella loro pseudo-amicizia, Pansy aveva cercato Blaise eleggendolo di nuovo come proprio confidente.

Tuttavia, una volta che lo aveva avuto davanti, non era riuscita a dire niente.

Blaise indugiò velatamente con lo sguardo nei suoi occhi, cercando lì le parole che non era in grado di dire. In cuor suo, conosceva perfettamente il contenuto di quell’annuncio.

E sebbene foderato di velluto pregiato, il cuore di Blaise Zabini si concesse un sentimento umano, di profondo dolore per la sua amica.

Non era rammaricato per la Pansy Parkinson degli articoli di giornale, per quella del conto intestato alla Gringott, per la Regina degli Slytherin e il Caposcuola di Hogwarts. Sapeva che per quella Pansy non serviva provare dolore, perché se la sarebbe cavata, trovando un modo per evadere alle costrizioni di un matrimonio.

Quel dispiacere insopportabile era tutto riservato alla Pansy che aveva conosciuto e che solo a lui si era mostrata, privandosi dei veli in cui era ammantata, con una certa inconsapevolezza prima, e con una rassegnata docilità dopo.

C’era una parte di Pansy che a tutto quello non sarebbe sopravvissuta, ed era la parte migliore. Quella dei progetti e dei desideri. Era la Pansy capace di una tenerezza e spaventata dalle sincerità del cuore. Era quella racchiusa nel guscio, che rare volte si era affacciata in quella che lui chiamava la volgarità del mondo. Quella di cui persino uno come Draco Malfoy si era innamorato.

«A quando l’annuncio della lieta novella?»

Le aveva chiesto scostandosi da lei per accendersi una sigaretta. Nella sua voce risuonò una durezza di cui si pentì un attimo dopo.

«Non lo so. Ci penserà la famiglia di Theodore. O la compiacenza di mia madre».

Rispose lei, avvezza ai graffi del sarcasmo, sporgendosi a rubargli la sigaretta dalle labbra. Poggiò le labbra nel punto in cui lui le aveva strette poco prima, soffiando una nube al sapore di bergamotto e amarezza.

«Millicent è scoppiata in lacrime, immagino».

«Ancora non è al corrente. Sei il primo».

Con un sorriso obliquo gli restituì la sigaretta.

«Allora piangerà di sicuro per questo».

Pansy non poté fare a meno di pensare a quanto indispensabile le fosse Millicent in fin dei conti. Con il tempo le era risultato chiaro quanto speculari fossero. Millicent non era altro che lo specchio delle proprie emozioni; metteva in scena i sentimenti che in Pansy restavano avvinghiati all’orgoglio e alla decenza. Era lei ad avere una gran voglia di piangere, ma i suoi occhi non conoscevano lacrime.

«Gli prenderà un infarto».

Sussurrò Blaise, scrollando un po’ di cenere e abbandonandosi sul letto, di colpo aggredito da una stanchezza che gli gravava più sull’anima – ovunque fosse finita – che sul corpo.

Pansy cercò in ogni modo di non lasciarsi trafiggere da quel pensiero. Fallì.

«Non credo».

Replicò ghiacciando ogni espressione.

Da quando gli eventi erano precipitati, in quegli anni, lei e Blaise parlavano di lui il meno possibile e quando capitava, nessuno dei due pronunciava mai il suo nome. Pansy sapeva che da parte di Blaise quella era una delicatezza, una tenera accondiscendenza alla propria incapacità.

La verità era che Draco era sempre tra loro, nella mancanza e nel ricordo di lui. Nello scorrere dei mesi e degli anni, che lo vedevano crescere come tutti, ma lontano da loro.

Pansy non chiedeva mai di lui, neanche a Blaise. A volte lo sguardo la tradiva, e Blaise sapeva bene che avesse i suoi modi per accertarsi che tutto procedesse bene nella vita di Draco, il patto era non chiedere mai ad alta voce, non adagiare mai il pensiero sul ricordo di lui, non lasciare la curiosità a briglia sciolta.

Rispondeva solo ad una necessità più forte di ogni ferrea imposizione della sua razionalità. L’unico bisogno che Pansy aveva, era quello di saperlo vivo e relativamente al sicuro, soprattutto da se stesso.

Blaise in segreto era sempre rimasto affascinato da quella conoscenza fine che Pansy aveva di Draco. Lui era l’amico, era il compagno di goliardia, il confidente maschio, lo aveva visto nudo molte più volte di Pansy, aveva diviso con lui una certa intimità quasi cameratesca, eppure non era mai stato in grado di infiltrarsi tanto intimamente nella sua psicologia.

Non conosceva gli anfratti remoti della sua personalità. Era un ottimo lettore, ma Pansy era molto più di quello, molto più di una attenta e affezionata lettrice: lei sapeva interpretarlo.

«Dovresti dirglielo».

Proseguì Blaise, ignorando l’ostilità con cui l’amica affrontasse l’argomento.

Pansy si lasciò cadere accanto a lui, confondendo lo sguardo nei bagliori del lampadario in cristallo.

«Non sono così vendicativa».

Mentiva spudoratamente.

«Lui te lo ha detto».

«Non aveva scelta».

Le parole sfuggivano alle loro labbra come battute di un copione scritto da tempo per loro e per quel momento, che entrambi già conoscevano, da sempre. Tanto da non aver bisogno di leggere sul testo.

Scese il silenzio su loro e su Draco, mentre il sipario faceva fatica a chiudersi del tutto sullo scenario desolato della loro malinconia.

Pansy aspettava paziente che Blaise le svelasse il segreto che aveva custodito fino a quel momento, da quando l’aveva trovata davanti alla porta della sua camera quel pomeriggio.

«Cosa mi avresti detto, Blaise? Se non ti avessi detto che mi sposo».

Chiese infine, con la dolcezza di un perdono.

Lui non aspettava altro che il permesso di poter cedere.

«L’ho visto».

Pansy chiuse gli occhi, sprofondando nell’immaginazione di quell’incontro. Lo vide in quel suo modo di non essere bello, e cercò subito di dimenticarlo.

«Può succedere».

Minimizzò cercando di sciogliere quel nodo alla gola che le impediva il respiro. A lei non capitava mai di incontrarlo né di vederlo, perché scioccamente faceva di tutto perché non accadesse. Si sentiva un po’ una bambina, tutta presa a remare controcorrente nel mondo degli adulti; dove si ostenta una eterna sicurezza, facendo finta che il cuore non possa spezzarsi.

«Lo inviterai al ricevimento?»

«Come ho invitato tutti gli altri».

Si tirò su, sistemando i capelli e la gonna, tornando a specchiarsi per recuperare la giusta impeccabilità. Blaise restò ad osservarla, meditabondo, sul letto. Pansy incrociò il suo sguardo nello specchio ma non riuscì a sostenerlo tanto a lungo.

«Preferirei che non ti sposassi, Pans».

Le venne da ridere, perché sembrava quasi un suo capriccio.

«Io invece preferirei che tu lo facessi» scherzò cercando di allontanare il desiderio di dargli ragione.

Blaise si ritrasse dalla carezza che fece per rivolgergli, con sguardo oltraggiato e ferito.

«Quella donna non mi avrà mai».

Pansy rise come rideva da bambina e Blaise ebbe l’impulso di abbracciarla. Invece la sua mano si fermò sul suo fianco sottile, fermato a metà da un impaccio di vecchia memoria. Fermi in quel modo, condivisero entrambi il desiderio di prendersi per mano e tornare a ballare quella canzone anni sessanta, in quella strada di Provenza, con Draco alle loro spalle e la certezza di avere tanto altro da condividere insieme.

 

 

What’s next

 

“Tra tutti loro, non c’era dubbio che Draco fosse stato quello che più direttamente aveva combattuto quella guerra.”

 

“Non era una promessa e sapeva che Pansy ne fosse consapevole”.

 

 

Thanking…

 

sweetchiara: Grazie *_* Sono onorata che sia finita tra i tuoi preferiti ^^  Per Draco c’è da pazientare ancora un poco, come sempre il pargolo Malfoy fa la sua comparsa per ultimo certo che tutte le attenzioni siano per lui =P

Nissa: Grazie anche a te =) Sono commossa al pensiero che qualcun altro veda tante altre cose in Pansy, vederla bistrattata in primo luogo dalla sua creatrice mi addolora molto ._.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III Excursus ***


The way we were

 

III

Excursus

 

Early dawning
Sunday morning
It's just the wasted years
so close behind

[...]

and I'm falling
I've got a feeling
I don't want to know

[Sunday Morning – Velvet Underground]

 

 

Blaise Zabini non amava convenevoli né contratti di buoncostume. Si prendeva da sempre la libertà di comportarsi secondo un suo personale codice di simpatie e antipatie, e per quanto questo causasse scompensi al resto del mondo, a lui e a chi godeva della sua benevolenza andava benissimo così.

Draco Malfoy e Pansy Parkinson facevano parte della categoria e avevano accettato di poter tollerare quel suo modo di fare spregiudicato e libertino, perché tutto sommato ricevevano in cambio i servigi di un ottimo amico.

«Sparisci» fu tuttavia l’accoglienza che Draco gli riservò trovandolo davanti alla porta della sua abitazione, plasticamente appoggiato al muro di ingresso, intento a scrollare la cenere della sua sigaretta sugli scalini d’entrata.

«Non posso, ho un lavoro da sbrigare».

Draco gli lanciò un’occhiata poco rispettosa, alzando gli occhi al cielo. Con il tempo era diventato ancora più insofferente di quanto non lo avesse plasmato la natura stessa. Lucius aveva trasferito nel figlio i geni dei suoi difetti, più che quelli dei suoi pregi, ma Draco e Narcissa avevano finito con il perdonarlo anche per quello. Averli venduti al Signore Oscuro era stato leggermente più difficile da mandare giù invece.

«Astoria cerca un amante a pagamento?»

Domandò senza il minimo tatto, lasciandogli tuttavia aperta la porta per entrare.

Blaise gettò la sigaretta per terra senza nascondere l’intenzionalità del gesto, e lo seguì all’interno della dimora Malfoy.

«Tu non la soddisfi?»

La sfacciataggine di Blaise e l’eleganza con cui elargiva a chiunque della sana ironia a sfondo sessuale era nota ai più, e del resto Draco l’aveva condivisa con lui più di una volta. Ma dal suo matrimonio erano finiti anche quei tempi. La guerra aveva esacerbato qualsiasi umorismo con i suoi lasciti, senza contare il resto.

«Cosa vuoi Blaise?»

«Quel paralume di tua madre. E’ delizioso».

«Non aspettavamo altro, Blaise, ti prego di prenderlo e privarci di tale orrore».

Si intromise una voce troppo femminile per poter essere quella di Draco. Cercando di non annegare nello zucchero del suo sorriso, Blaise si voltò verso Astoria un tempo Greengrass ora malauguratamente Malfoy, reclinando l’invito, senza perdere tempo a spiegare che differenza corresse tra ironia e serietà di intenti.

Per altro definire orrore un oggetto appartenuto a Narcissa Malfoy era quantomeno azzardato e indice di poca scaltrezza, oltre che di gusto estetico. A parte il suo mascolino disinteresse per un oggetto come un paralume, non c’era niente da ridire sulla sua qualità estetica. Del resto, portava il marchio della scelta di Narcissa.

«No, in realtà sono più interessato a Draco. Nell’altro senso».

Si divertì ad intingere l’affermazione nella più totale ambiguità, scoccando a Draco uno sguardo quasi inequivocabile. Mentre Astoria osservava di sottecchi i movimenti dei due, diretti verso il giardino della residenza, Blaise offriva al vecchio compagno una preziosa sigaretta al solito sapore di bergamotto, sancendo così una tregua momentanea tra loro; e assicurandosi la garanzia di scatenare una lite in casa Malfoy.

«Non avrei mai pensato che avresti sposato una non fumatrice».

Draco ignorò con abile maestria dettata solo da lunga esperienza, l’illazione di Blaise.

«Tua madre lo sa, che disprezza la sua oggettistica?»

Proseguì imperterrito l’altro senza il minimo riguardo di abbassare il tono di voce.

Draco continuò a non prestargli attenzione, concentrandosi sul possibile motivo della sua visita.

A Blaise, Malfoy Manor non era mai piaciuta. La trovava troppo gotica, troppo fredda, troppo austera pur nella sua eleganza. E adesso la trovava anche pacchiana, da quando Astoria Greengrass vi aveva introdotto il suo buonumore, intriso dei migliori propositi di novella sposa. Quella casa non era adatta al rumore della sua voce, alla confusione dei suoi vestiti, alla musica che la riempiva scontrandosi contro i soffitti alti.

Si chiedeva un po’ perplesso come Draco potesse accettare una vita fatta in quel modo.

In silenzio, Draco si poneva le stesse domande, giorno dopo giorno, da quando era diventato grande.

 

●●●

 

Tra tutti loro, non c’era dubbio che Draco fosse stato quello che più direttamente aveva combattuto quella guerra. Gli altri si erano visti cadere addosso il fallimento della mirabile costruzione dell’impero di Lord Voldemort, ed avevano dovuto prendere provvedimenti.

Ognuno aveva qualcosa da perdere e molto da difendere, si erano rimboccati le maniche e avevano impugnato le proprie bacchette. Le loro mani tremavano, nessuno escluso, il giorno della battaglia, nessuno era realmente pronto ad affrontare uno scontro diretto.

La decisione dei movimenti, la fermezza delle convinzioni, la sicurezza degli intenti teorizzate nelle cene di famiglia avevano ben presto svelato la loro fragilità. Nessuno voleva realmente una guerra, né rischiare la vita, né avere la vita di qualcuno sulla coscienza.

Draco lo aveva capito prima di tutti e non aveva saputo come spiegarlo.

Draco a differenza di altri non aveva avuto scelta, a lui era toccata una minaccia che non aveva saputo sopportare fino alla fine.

Il peso del suo segreto aveva scavato un solco profondo in lui.

Pansy Parkinson era stata la prima a vederne le tracce, a leggerne i perché. In preda al panico lui aveva chiuso il libro sotto il suo naso, perché non potesse leggervi oltre. Sapeva che sarebbe successo qualcosa di terribile se lei avesse scoperto ogni cosa, e già allora non riusciva a distinguere se la paura maggiore fosse per il piano che sarebbe fallito, o per Pansy, che ne sarebbe stata coinvolta.

Non che non volesse una spalla, un appoggio, qualcuno con cui dividere il fardello. Dopotutto Potter aveva i suoi fidi compagni, e Draco si sentiva svantaggiato in quel confronto. Pansy e Blaise avrebbero potuto molto, ma sentiva che non c’era spazio per loro.

Lui non era in grado di concederglielo e l’immagine di suo padre era un baluardo difficile da espugnare. Lucius Malfoy aveva fatto tutto da solo.

«E ha perso» gli disse una sera Pansy, con uno sguardo terribilmente serio.

Draco non trovò niente da dire sul momento, perché infondo gli sembrava la verità.

 

Da quella sera gli eventi precipitarono poi, senza un momento di tregua o di indecisione. Le cose iniziarono a sfuggirgli di mano, quando era ormai troppo tardi per chiedere aiuto e ammettere di non essere abbastanza bravo e scaltro da uccidere qualcuno. I giorni si susseguirono veloci e terribilmente lente le notti. Scoprì cosa fosse l’insonnia e cosa gli incubi. Desiderò avere qualcuno a cui raccontarli ma poi raccontò a se stesso di quanta incomprensione avrebbe trovato negli altri e mise a tacere in quel modo il suo bisogno.

Blaise e Pansy occuparono sempre le sue giornate, ogni spazio libero, per quanto lui fosse diventato ombroso e intrattabile. Theodore Nott gli dichiarò apertamente guerra un pomeriggio, ma Draco non prestò neanche ascolto alle sue parole, troppo preso a cercare di non far uccidere suo padre e sua madre.

La maggior parte della gente che divideva la sua stessa Casata avrebbe ritenuto che per uno come Lucius Malfoy neanche ne sarebbe valsa la pena. L’opinione comune vedeva suo padre come un venduto al prezzo più basso, incapace di vivere senza un padrone. Ribolliva di rabbia al solo pensiero che la considerazione per suo padre giungesse a livelli tanto bassi e soprattutto tanto ingiusti, ma non disse mai a nessuno quanto sbagliati fossero i loro pensieri, perché nessuno mai li espresse a voce alta.

Non spiegò mai a nessuno che genere di uomo fosse suo padre, quanto imperfetto e quanto facile da amare tuttavia per un figlio. Forse perché lui stesso non ne era tanto consapevole allora.

Scoprì l’idea che aveva di Lucius tutto in quel periodo, quando lui era lontano e non poteva coprirlo con la sua ombra.

Allora Draco si rese conto della mancanza che avesse di suo padre. La rigidità con cui era stato cresciuto gli tornò utile nei momenti più impensati. Tutta la rabbia provata verso il genitore, per l’austerità della sua figura che lo rendeva tanto irraggiungibile e difficile da emulare, scomparve nel giro di un niente, quando si rese conto che gli veniva da piangere al pensiero di non poterlo più avere per sé.

Era suo padre, questo avrebbe voluto spiegare a tutta l’altra gente. Ma che potevano saperne loro? Di quanto ci fosse nascosto nelle pieghe del suo mantello.

Certo che valeva la pena salvarlo, era suo padre e per suo padre lui avrebbe anche accettato l’idea di poter morire, l’unico pensiero che gli era insopportabile, era quello di fallire nel suo compito e di deluderlo una volta di più.

 

I'll be your mirror
reflect what you are, in case you don't know
I'll be the wind, the rain and the sunset
the light on your door to show that you're home

[I’ll be your mirror – Velvet Underground]

 

Non sopportava gli sguardi della gente, il giudizio degli altri – di cui lui aveva ampiamente fatto parte prima di finire dall’altro lato della barricata – non tollerava le mani sulle spalle di chi si sentiva triste per il suo muso lungo e soprattutto odiava le domande della gente.

Si sentiva un derelitto.

Certi giorni non faceva altro che mendicare attenzioni di nascosto dagli altri. Capitò una mattina.

Si alzò e scoprì che più che la soluzione al suo dilemma, avrebbe desiderato un po’ di comprensione. Che qualcuno gli chiedesse come stai invece di fingere che fosse il solito Draco, strafottente e sardonico. Però non era in grado di gestire quel suo bisogno, in verità.

Tanto è vero che quando fu Pansy a fargli capire implicitamente di essere preoccupata per lui, reagì come lo stronzo che era sempre stato, quando i giochi erano facili.

Quando non aveva bisogno di conforti e sicurezze, perché era capace di procurarsele da solo.

Pansy però non si ritrasse. Mascherò dietro un sorriso sornione la ferita al suo orgoglio; finse di averlo capito quando invece si domandava perché non le concedesse qualcosa di più. Perché non si concedesse qualcosa di più.

«Non sono affari che ti riguardano Pans».

Le disse bruscamente, guardandola storto.

«Draco, tu sei un affare che mi riguarda».

I suoi occhi neri non vacillarono nel dirlo, non mollarono la presa neanche un istante e lui ne fu spaventato e ipnotizzato al tempo stesso. Fu lui ad abbassare lo sguardo, incapace di ringraziare e di spiegare il suo stupore. Ancora una volta pensò a suo padre, a cosa sarebbe stato di loro se anche lui si fosse sentito dire una cosa simile, a tempo debito. Se fosse questo il genere di cosa capace di salvare qualcuno dalla fine.

«E’ complicato»

Borbottò allontanandosi da lei e dal suo profumo. Iniziava a confondersi.

«Fa un tentativo»

«No».

Sperò che la sua ostinazione la inducesse a lasciar perdere.

«Come vuoi»

Concluse lei, alzandosi dal divano e raccogliendo le sue cose. Draco si sentì quasi tradito da quella arrendevolezza, nonostante avesse sperato che lasciasse perdere sul serio. Si voltò a guardarla, mentre lei era impegnata in altro, con uno sguardo perso tra il sollievo e la delusione. Sarebbe tornato tutto come prima dopo quella parentesi. Lei avrebbe iniziato ad ignorare le sue occhiaie, il pessimo umore, lo sguardo assente, come facevano tutti gli altri, e avrebbe suggerito a Blaise di fare lo stesso.

«Vado a dormire. Dovresti farlo anche tu, a dire dalla tua faccia».

C’era un contegno offeso nella sua voce. In piccola parte lo sollevò di nuovo.

«Mhmh.»

Mormorò assente lui. Guardava fisso davanti a sé, dietro la finestra chiusa. Ma in realtà gli occhi seguivano i movimenti di Pansy, riflessi nel vetro. Osservò il suo indugiare, il rallentare gli ultimi gesti, prendendo tempo, incerta se aggiungere altro, se fare qualcosa, almeno la metà di tutto quello che avrebbe voluto fare. Ancora una volta sperò che lo facesse, temendolo al tempo stesso.

«Comunque, sei carino anche così».

Fece fatica a non voltarsi, a non muovere un muscolo, a non sorridere.

«Con le occhiaie».

Soggiunse lei. Draco non poteva vederla ma avvertì il sorriso tra le sue parole. Nel muoversi nel piccolo ambiente della Sala Comune non faceva il minimo rumore, era tutto un soffio leggero, che però spandeva il suo profumo ovunque.

«Fammi il favore di non dire a Blaise che ti ho detto queste…»

La sua voce si era spezzata quando lui l’aveva fermata, stringendole le dita gelide attorno al polso sottile. Da lì il profumo era ancora più forte. Delizioso avrebbe detto sua madre, come aveva detto del paralume nell’ingresso, regalatole da Lucius.

C’era un’attesa nei suoi occhi, che lui non seppe tradire.

La baciò e non fu per ringraziarla, ma perché tutto sommato gli andava di farlo. Non è che lo volesse e basta, è che gli sembrava quasi necessario, per se stesso. Dopotutto lei glielo aveva offerto, con tutto quell’insistere per farlo parlare. Era solo il suo modo di prendere l’offerta, non c’era niente di sbagliato, di disdicevole… niente di più perfetto.

Non era una promessa e sapeva che Pansy ne fosse consapevole.

Era troppo intelligente e tutto sommato lo conosceva troppo bene per poter credere diversamente.

Era solo un bacio e l’espressione di un desiderio.

L’ammissione di un progetto che più volte lo aveva sfiorato, di certo più volte di quanto lei si fosse concessa di credere, per non illudersi. Da quando i loro genitori li avevano presentati, lasciando ad intendere che una più che simpatia tra loro sarebbe stata gradita.

Da allora fino a quel momento, gli era capitato di pensare che avrebbe potuto baciarla molto a lungo e non sarebbe stato un favore fatto a nessuno se non a se stesso.

E lei era sembrata d’accordo.

 

●●●

 

Poi ogni cosa si era compromessa, fino a quel punto.

Al punto in cui lui aveva sposato una donna bella, forse più bella di Pansy, ma che non riusciva a comprendere fino in fondo gran parte delle ragioni di suo marito.

Astoria era allegra e propositiva. Era entrata a Malfoy Manor piena di idee in fatto di arredamento, e progetti su feste e ricevimenti, che avrebbero calcato le gesta della precedente padrona di casa. Lui l’aveva lasciata fare, stordito da tutto quello che era successo.

Poteva dire di essersi sposato con una certa inconsapevolezza.

Suo padre al matrimonio non c’era, ancora impegnato a scontare i suoi errori, ad Azkaban, e Draco non era stato in grado di spiegare l’intensità della sua mancanza.

«Forse dovresti aspettare» gli aveva detto Pansy, pochi giorni dopo la rivelazione dell’imminente matrimonio e lui non aveva capito.

Troppo preso a cercare il coraggio di guardarla ancora in faccia. A cercare un modo per resistere alla tentazione di prenderla tra le braccia e baciarla ancora come quella volta, come tutte le altre che c’erano state.

Non aveva capito che Pansy intendeva aspettare suo padre e non lei.

E quando il giorno del matrimonio aveva sentito quella fitta lancinante al pensiero che suo padre non fosse lì, e aveva compreso le parole di Pansy, si era accorto di tutto il sentimento che aveva per lei e di quanto fosse lei a meritarlo.

Se ne era accorto tragicamente, irrimediabilmente, troppo tardi.

 

●●●

 

When you think the night has seen your mind
that inside you're twisted and unkind
let me stand to show that you are blind
Please put down your hands
'Cause I see you

[I’ll be your mirror – Velvet Underground]

 

«C’è qualcosa che posso fare per te?»

Chiese con ironia rivolgendosi all’amico.

Blaise aveva alzato le spalle, con la sua solita aria di noncuranza. C’era molto che Draco Malfoy avrebbe potuto ma che era troppo pigro per fare effettivamente.

In un gesto di somma gentilezza ad esempio, avrebbe potuto mettere al lavoro la sua mente infida e machiavellica – quella che il mondo intero sapeva possedere – e trovare un escamotage per togliergli di dosso Millicent Bullstrode. O per renderla sufficientemente carina perché lui si sentisse lusingato e stimolato dal suo amore indefesso.

Avrebbe potuto lasciare sua moglie, su due piedi, e portare dentro Malfoy Manor la vera e giusta padrona di casa; che non sarebbe stata una perfetta donna di mondo, dal sorriso affabile e capacità oratorie invidiabili per intrattenere gli ospiti; né un amante sempre vogliosa o una futura amorevole madre dei pargoli Malfoy; e non sarebbe stata neanche la donna dei sogni scelta da Narcissa Malfoy o una discendente di stirpe reale o chissà chi altro. Sarebbe stata una donna elegante e intelligente, in grado di dare torto a Draco Malfoy con sfrontatezza e coraggio. Capace di amare il suo pessimo carattere e farsi amare per il proprio, di incastrarsi perfettamente con i lineamenti spigolosi del suo volto e avere in comune con lui una lunga serie di difetti.

Era così fastidiosamente banale, che fosse Pansy Parkinson, che quasi trovava imbarazzante dirlo.

Ma comprendeva la dolorosa consapevolezza di Draco, nel saperla la donna perfetta per lui perché altrettanto ambita e amata. E sapeva anche che se c’era qualcosa in grado di sfinire e distruggere Draco Malfoy, era non poter avere qualcosa di sinceramente desiderato.

«C’è qualcosa che io posso fare per te?»

Draco lo guardò con uno sguardo sinceramente preoccupato e irrisorio, e per riprendersi dallo shock si accese un’altra sigaretta.

«Ti ho già fatto capire in lunghi anni che non sono interessato alle tue prestazioni sessuali»

Rispose assaporando l’odore di bergamotto della sigaretta, rigorosamente senza filtro. Blaise finse di incassare il colpo e sfoderò la migliore faccia affranta che la sua vasta gamma di teatralità espressiva gli consentiva.

«Che vuoi farci, il bianchiccio della tua pelle accende in me fuochi roventi»

Portò nel mentre una mano all’interno della giacca, estraendone una busta rettangolare in perfetto stato di conservazione. Draco la guardò incuriosito.

«Naturalmente la sola idea mi repelle» si affrettò ad aggiungere dissacrante, con un tono molto deciso e un accento molto virile.

«Sono venuto per questa».

Draco esitò diffidente prima di allungare la mano a prendere la busta.

«Che cos’è?»

«Un avviso di sfratto».

Alla risposta a colpo sicuro di Blaise sopraggiunse un colpo molto forte da parte di Draco.

«Idiota»

«Ah-ah non piangere sul Crabble vessato»

Commentò serafico al tono poco cordiale usato dall’amico. Draco si riservò alcuni secondi per accertarsi che lo avesse detto davvero, prima di sollevare gli occhi dalla carta intestata della busta.

Blaise ebbe bisogno di alcuni minuti di sincera riflessione per giungere alla conclusione definitiva.

«D’accordo, era un po’ indelicata».

Draco annuì ridendo sotto i baffi, e fece per aprire la lettera, momento in cui Blaise recuperò il proprio mantello, rubò la sigaretta dalla bocca di Draco e annunciò che avrebbe tolto il disturbo.

«Credevo che avresti saccheggiato la riserva di liquore prima di sollevarmi dalla tua nefasta presenza» osservò Draco.

Blaise allacciò il mantello sotto al collo.

«Lungi da me essere presente al momento in cui diventerai un uomo distrutto. Le tristezze della guerra e i suoi orrori mi sono bastate».

A quel punto Draco si sentì legittimato a preoccuparsi per se stesso.

«Deduco che ci vedremo dopodomani sera».

Asserì indicando con un cenno del capo la lettera di invito al ricevimento a Nott Manor che Draco aveva ancora in mano. Draco abbassò lo sguardo sempre più perplesso.

«Porta i saluti alla tua incongrua metà».

Poi svanì in una nube di profumo francese e bergamotto.

 

 

What’s next

 

“Se Pansy Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla crudeltà del destino e l’inevitabilità delle leggi di natura. Ma Pansy era viva”.

 

“Nel silenzio di Malfoy Manor, di cui per quei due giorni e quelle due notti erano stati i soli padroni, avevano stappato una bottiglia di vino rosso”.

 

 

Thanking…

 

sweetchiara: Blaise è insopportabile, non vorrei mai avere a che fare con lui temo =P O potrei rischiare di cadere nella malattia di Millicent XD La solitudine degli Slytherin è un pensiero che condivido, li ho sempre immaginati un po’ così, scostati dal mondo comune un po’ per loro scelta un po’ per la natura che li riveste. Però penso anche prima o poi tutti i serpenti cambiano la muta, no? XD Grazie per i commenti che lasci, spero che questo Draco non deluda troppo.

Nissa: Se Theodore avesse una capacità d’agire credo che mi farebbe causa per diffamazione e per rovina dell’immagine pubblica XD Ma pazienza, al prossimo turno giuro che mi impegnerò a trovare un’altra vittima dell’angst che Pansy e Draco creano. -> ci crede poco anche lei, si è affezionata. Spero che anche questo capitolo sia all’altezza delle aspettative, un bacio =)

B e r t a: Grazie mille *_* Eccoti il seguito ^^ Bacio.

 

 

Piccolissimo appunto.

Mi rendo conto di essere un po’ monotematica con gli spunti con le citazioni musicali in ogni capitolo XD Sono tutte canzoni e artisti che amo visceralmente e ne consiglio l’ascolto però ^^

/ Fine pubblicità occulta a chi non ha bisogno che gliene venga fatta.

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Capitolo 4
*** IV Memoria ***


The Way We Were

 

IV

Memoria.

 


I saw you this morning.
You were moving so fast.
Can’t seem to loosen my grip
on the past.
And I miss you so much.
There’s no one in sight.
And we’re still making love
in my secret life.

[In my secret life – Leonard Cohen]

 

«Pansy, tesoro».

Theodore Nott aveva da sempre avuto la lesiva tendenza a cercare compromessi con Pansy Parkinson, fin dai tempi di Hogwarts. La maggior parte dei compagni di Casata, e i Caposcuola delle altre tre Case avevano capito ben presto quale fosse la cosa più conveniente da fare: darle ragione, o offrire qualcosa in cambio, per cui valesse la pena una sua ipotetica concessione.

Invece Theodore aveva quella ridicola ossessione che hanno tutti gli innamorati, ed era ancora convinto di poter ottenere un dialogo con lei.

Pansy non si era fatta scrupoli e sin dall’inizio della loro relazione aveva lasciato ad intendere di avere ben poca voglia di parlare, in primo luogo di sé. Theodore sosteneva di non averne bisogno. Era già innamorato di lei, di quello che lei non sapeva neanche di avere.

Pansy ci aveva riflettuto, poi aveva deciso di poter fingere che lui avesse ragione e che così fosse davvero. Di avere dei lati nascosti che meritavano l’affetto a tal punto sincero di un uomo onesto e generoso di sentimenti come era Theodore Nott. Si era sempre chiesta che ci facesse uno come lui a Slytherin, come avrebbe potuto sopravvivere lì in mezzo, lui che aveva ancora tanta fiducia nelle persone. Invece ce l’aveva fatta, perché lo aveva scoperto un ottimo calcolatore. Non gli piaceva ma all’occorrenza non opponeva principi. Lì giaceva la sottile differenza tra uno Slytherin e un Gryffindor dal cuore d’oro.

«Sei sicura? Possiamo sempre ritrattare su qualcosa di meno… estroso. So che odi discutere con mio nonno, ma per il nostro matrimonio potrebbe anche tacere una volta tanto».

Pansy lasciò ricadere i propri capelli sulle spalle, sciogliendo lo chignon.

Aveva addosso tutti gli odori della serata, un miscuglio di profumi e acque di colonia, e tutto quello che poteva desiderare era un po’ di silenzio e un bagno caldo.

«Theo, sono troppo stanca per pensarci ora. Il silenzio di tuo nonno vale cento orrori floreali».

La sua voce andò spegnendosi mentre riponeva collana e orecchini al loro posto, e lasciava riempire la vasca di acqua bollente, immergendovi scaglie di sapone da aromi particolari.

«Prima o poi dovrete andare d’accordo» borbottò Theo dalla camera da letto, riponendo la cravatta nel primo cassetto del suo comodino. Pansy finse di non sentirsi soffocare dalla meticolosità di quel gesto. Quella sera aveva dovuto fingere di non notare molte cose e il risultato era un pessimo umore, un terribile mal di testa e un vuoto all’altezza del cuore.

Una tristezza diffusa e irreparabile, che sperava sarebbe scivolata via con quel bagno di mezzanotte.

«Non lo trovo così necessario» mormorò lasciando scivolare in terra la sottoveste.

Theodore percorse con lo sguardo il profilo del suo corpo, cercando di conservare un po’ dell’amarezza per l’indifferenza di sua moglie verso i futuri parenti. Ma il candore della sua pelle e i segni appena lasciati dal corpetto del vestito che aveva indossato quella sera gli rendevano il compito difficile.

«E’ quanto di più simile a un padre abbia avuto, Pansy».

Tentò di giustificarsi e di farle capire le proprie ragioni, ma non ebbe risposta. Nel silenzio della stanza risuonò l’incresparsi dell’acqua, che avvolse il corpo di sua moglie.

Pansy non avrebbe mai dato ascolto a ciò che non voleva sentire. Era fatta così e quella sua reticenza lo faceva diventare matto e innamorare ogni giorno di più. Si sentiva stupido, un bambino davanti alla prima immagine di donna della sua vita. Eppure ne aveva viste tante.

Raggiunse cauto la porta del bagno, fermandosi sullo stipite.

Pansy aveva gli occhi chiusi, giaceva nella vasca con una serenità d’animo tale da sembrare che fosse raccolta nell’abbraccio di qualcuno.

«Pans».

Mormorò, la voce rauca che cercò di sembrare conciliante prima che desiderosa di lei.

«Lo so Theo, lo so. Mi dispiace».

Di cosa ti dispiace? Avrebbe voluto chiederle lui. Ma la risposta era un pericolo alla sua felicità. Non aveva sentito quello che aveva da dirle, eppure aveva pronunciato quelle scuse con una placida sicurezza, che avrebbe ingannato chiunque. Theo sorrise, tanto lei non avrebbe potuto vederlo.

Così le dispiaceva, a priori. O forse c’era della sincerità in quelle parole, e si scusava per tutto quello che a lui non voleva concedere, perché non era Draco Malfoy.

«Riparliamone domani mattina» le propose scostandosi dallo stipite e raggiungendo la vasca.

Respirò il profumo di fiori asiatici, nel chinarsi a baciarle la fronte. Immaginò il momento in cui Pansy lo avrebbe raggiunto a letto, per dormire. La sua pelle avrebbe avuto quel profumo e lo avrebbe impresso tra le lenzuola e sul cuscino, così il mattino dopo lui avrebbe avuto in piccola parte l’odore di Pansy.

Non resistette oltre, non potendo aspettare il mattino. Una mano andò a posarsi sul bordo della vasca, mantenendo un equilibrio.

L’ombra del corpo di Theodore ridestò Pansy dai suoi vagheggi. Dischiuse pigramente gli occhi, aprendoli su Theodore e lo sguardo di richiesta e intenzione che aveva nello sguardo e tra la piega delle labbra. Non disse niente, aspettò che facesse ciò che voleva.

Certi giorni non poteva a fare a meno di concedersi perché sapeva che non avrebbe mai potuto dargli altro che quello.

Così si lasciò baciare, accarezzando il suo collo con le dita umide e calde. Lo attirò a sé lentamente, con grazia ma senza tenerezza. Theodore si chiese se anche quello sarebbe stato così per sempre.

«L’acqua è ancora calda» mormorò lei, avvicinandolo ancora a sé. Theodore lasciò scivolare dalle spalle la camicia e tutto il resto lo gettò a terra, senza distogliere lo sguardo da Pansy e da quello che le sue mani stavano facendo su di lui.

Sapeva di essere vinto e di averla data vinta a lei, per i fiori, per suo nonno, per quella discussione.

Non riusciva a fermarsi. Si immerse nell’acqua, accarezzando il suo corpo e rabbrividendo per il calore dell’acqua e il contatto con Pansy. Lei gli lasciò sufficiente spazio, si adagiò contro il suo corpo possente e lasciò che la toccasse e baciasse e le parlasse all’orecchio.

I loro corpi sapevano stare vicini, eppure non combaciavano perfettamente.

Nessuno dei due aveva mai sentito quella perfetta unione, conoscevano un’armonia spezzata, che mai sarebbe stata sincronia.

«Pans…» si mossero le labbra di Theodore ma non finirono la frase. Forse non c’era niente da dire se non quello. Pansy. Era un’ossessione, lo era sempre stata da quando era diventata grande, e aveva smesso di avere le fattezze acerbe di una bambina. Pansy.

«Credo che-» aveva fatto per aggiungere, quando lei era scivolata tra le sue gambe, con un guizzo leggero dell’acqua e un aroma di fiori dalle radici lontane, come era lei. Tra le sue gambe, contro e dentro di lui, ma lontana, terribilmente lontana.

«Sssh» lo interruppe lei, poggiandogli le dita sulle labbra, poi sulla bocca, premendo perché ricacciasse indietro qualsiasi parola. Non voleva sentirsi dire niente. Perché quello era il momento in cui avrebbero fatto l’amore, in cui sarebbero divenuti una cosa sola, e tutto quello che lei avrebbe voluto era che al posto di chiunque altro ci fosse di nuovo Draco.

Non voleva sentire nessuna voce, né guardare nessun viso, o odorare nessun corpo. Non sarebbe stata la voce calda di Draco, così calda a dispetto della freddezza dei suoi occhi; né i lineamenti affilati e precisi del suo viso, né l’odore della sua pelle, che era suo e di nessun altro uomo. Non voleva saperne niente, continuava a pensare, mentre Theodore sprofondava in lei, rimpiangendola nel prenderla, rammaricandosi di averla voluta.

Chiuse gli occhi anche lui, mentre lei sospirava su un pensiero che vedeva un altro protagonista, e dietro gli occhi chiusi vedeva l’immagine di Pansy la prima volta che l’aveva desiderata, quando aveva davvero potuto pensare che un giorno sarebbe stata sua.

Su quel pensiero, la loro unione in quella vasca da bagno si accese e si spense, fievolmente, tra i loro gemiti che erano sospiri, e i loro desideri che in realtà erano ancora inappagati per entrambi.

 

●●●

 

Oh chosen love, Oh frozen love
Oh tangle of matter and ghost
Oh darling of angels, demons and saints
And the whole broken-hearted host
gentle this soul

[The window – Leonard Cohen]

 

Il giorno dopo Millicent si presentò di mattina presto a casa Nott, scortata dalla sarta rapita senza troppe cerimonie dal negozio di Madama McClan. Pansy l’aveva accolta in sottoveste e a piedi nudi, facendole cenno di raggiungerla nella camera da letto, al piano di sopra.

Millicent la seguì riluttante. Era sempre in imbarazzo quando si trattava di entrare nella stanza in cui qualcuno aveva dormito con un altro uomo. Sentiva che un posto del genere avrebbe dovuto essere off-limits, troppo privato per poterlo dividere con la presenza di un terzo, di un estraneo.

Pansy lasciò la porta aperta per lei e la sarta, e Millicent come altre volte non si oppose se non con uno sguardo vago.

«Theodore non c’è?»

Le chiese mentre la sarta in un silenzio meticoloso indicava a Pansy di salire in piedi sulla cassapanca riposta ai piedi del letto. Millicent cercò con lo sguardo lo sgabello della volta prima. Lo individuò nell’angolo della stanza, coperto da un telo, adagiato lì quasi per caso, come se Pansy non vi fosse mai salita con il suo abito da sposa indosso.

«Lavora»

Rispose Pansy distrattamene, mentre la sarta prendeva le misure per accorciare il vestito dell’abito da ricevimento per quella sera.

«Ma è domenica mattina».

Osservò Millicent facendosi di lato per non essere di intralcio alla donna. Quella la guardò con aria torva, appuntando uno spillo all’orlo del vestito.

«Non troppo corto».

Pansy ignorò l’appunto di Millicent, guardando ai propri piedi, pur senza prendere fuoco allo sguardo lanciatole dalla sarta. Srotolò un po’ del tessuto, per allungarlo come richiesto. Millicent assisteva alla scena senza perdersi un passo dell’operazione, ma trovava il tempo per puntare due occhi accusatori su Pansy ad ogni occasione.

Non solo il vestito doveva essere più corto secondo il modello; non solo aveva annunciato il matrimonio prima a Blaise che a lei, che era la sua migliore amica nonché damigella d’onore, ma si permetteva anche di fingersi del solito umore e di non menzionare affatto quel piccolo particolare riguardo il ricevimento di quella sera.

«Theodore non avrebbe avuto niente a che ridire, sull’orlo del vestito».

Commentò piccata dopo l’ennesimo sguardo scoccato a Pansy e che l’amica aveva prontamente evitato. Pansy la fissò glaciale, dall’alto della cassapanca. Era mezza svestita, con i capelli sciolti a coprire il viso e le spalle, a piedi nudi e senza un filo di trucco sul viso, ma aveva ancora la stessa fierezza e la stessa intransigenza nel portamento che aveva ad Hogwarts, con la spilla di Caposcuola appuntata sul petto.

«Theodore non ha mai niente da ridire».

Rispose seccata, con una certa punta di veleno. Millicent rise nervosamente.

«Lo sventurato è troppo innamorato».

«E’ una sua scelta amarmi, io non gli impongo niente».

La sarta per poco non si punse con lo spillo, colpita dal gelo nella voce di Pansy. Si sentiva pericolosamente di troppo in quella stanza, nel bel mezzo di una contesa taciuta e per questo ben peggiore di tante altre.

«A parte la sfacciataggine di Blaise Zabini e un invito in carta bollata a Draco Malfoy al ricevimento di questa sera».

Pansy si ritrasse di scatto, sbilanciandosi quasi all’indietro, come punta da uno spillo. La donna sollevò lo sguardo terrorizzata, eppure timidamente certa di aver fatto attenzione a non sfiorare la pelle liscia di Miss Parkinson neanche con un’unghia della sua mano callosa di sarta.

«Non si preoccupi, non è colpa sua, è la signora Nott che ha una allergia istintiva al nome Malfoy».

A quel punto Judith Hossas fu certa di essere nel bel mezzo di una guerra civile.

Le labbra di Pansy disegnavano una linea sottile ed esangue, a metà tra lo stupito e l’oltraggiato di tanta malignità proprio da parte di Millicent Bullstrode.

«Il vestito è perfetto così, grazie per il suo tempo» mormorò infine, scendendo dalla cassettiera con un movimento nervoso, nonostante l’usuale delicatezza della movenza. I piedi nudi a contatto con il pavimento gelido di marmo le mandarono un brivido lungo la schiena, ma era niente in confronto allo spillo che sentiva ruotare sulla propria punta, al centro dello stomaco.

«Soffri molto per il cuore del mio povero marito?» domandò mentre Miss Hossas lasciava la stanza il più in fretta possibile.

Millicent si voltò a guardare Pansy, cercandone lo sguardo per assistere vittoriosa alla perdita dell’usuale compostezza emotiva che gli era propria. Non lo faceva con la cattiveria che Pansy, sulla difensiva, le aveva certamente attribuito.

Per chi non conoscesse Pansy, era facile provare astio nei suoi confronti. Così fredda e scostante, altera e supponente, mai generosa verso gli altri, abile a contrattare, pessima nel chiedere scusa, restia a qualsiasi elargizione di affetto ed estranea ad ogni tenerezza.

Ma altrettanto era impossibile agire con cattiveria nei suoi riguardi, per chi conosceva la storia della sua glacialità.

«Soffro molto per te, stupida».

Rispose Millicent, senza fare niente per celare la durezza della propria voce. Non attese neanche di vedere quanto e come avesse colpito nel segno, quanto l’avesse stupita, in che modo Pansy avesse abbassato lo sguardo, e strattonato il vestito per sciogliersi dal nodo soffocante dei suoi lacci.

Uscì dalla stanza a testa alta, dispiaciuta per quella incapacità di Pansy di rendersi felice.

 

●●●

 

Walk me to the corner
Our steps will always rhyme,
You know my love goes with you
As your love stays with me,
It’s just the way it changes
Like the shoreline and the sea,
But let’s not talk of love or chains
And things we can’t untie,
Your eyes are soft with sorrow,
Hey, that’s no way to say goodbye.

 

[Hey, that’s no way to say goodbye – Leonard Choen]

 

Astoria Malfoy aveva chiuso gli occhi su molte cose, perché sua madre le aveva consigliato di farlo, e lei di sua madre si era sempre fidata ciecamente. Il modello di paragone da non seguire era sempre stato quello di sua sorella maggiore, e con il tempo era divenuta una rivale più che un esempio di scelte da non replicare.

Su quel matrimonio Daphne aveva gettato oscuri pronostici, con un’aria irrisoria e l’espressione sorniona di chi conosce molti retroscena che le consentono la certezza di quanto asserito.

Astoria non chiese mai di cosa fosse a conoscenza, perché credeva in quel matrimonio e nella sua possibilità di riuscita.

Per consolarla della malignità di Daphne – che forse altro non era che una manciata di sincerità proposta con troppo sarcasmo per poter essere colta nella sua veste di buona intenzione – sua madre le aveva svelato dei piccoli trucchi del mestiere.

Astoria venne a sapere che non in tutti i matrimoni l’amore è il presupposto, in alcuni si crea vivendo insieme, e così sarebbe stato nel suo caso.

Ma sua madre non le aveva detto di quanto fosse difficile combattere con il fantasma di un vivo.

 

Se Pansy Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla crudeltà del destino e l’inevitabilità delle leggi di natura. Avrebbe potuto parlare a suo marito della necessità di un compromesso storico, del bisogno che c’è di andare avanti, guardando sempre dritto e altre amenità retoriche di questo tipo.

Ma Pansy era viva.

Era viva nel cuore di suo marito, era viva tra le lenzuola del loro letto, e si insinuava in ogni suo timore, in ogni suo pensiero, in ogni desiderio partorito per sé e Draco.

«Astoria, sei tu che devi dargli sicurezze. Se non ti mostri sicura del vostro matrimonio, come pretendi che lo sia lui?» le disse sua madre la sera in cui la figlia minore si presentò pallida e tesa alla casa natia. Daphne era uscita in silenzio dalla stanza, biasciando qualcosa che Astoria preferì non ascoltare.

«Draco? Sei pronto?»

Si affacciò alla porta della loro camera, cercando con lo sguardo la figura del marito. Draco si voltò a guardarla, distratto. Era molto bella e i capelli raccolti in quel modo la facevano sembrare quasi una bambina. E invece, era sua moglie.

«Metti quella».

Aggiunse entrando e raggiungendolo davanti all’armadio. Si sporse sulle punte, per raggiungere la cravatta riposta più in alto. Le dita smaltate si allungarono fino a prenderla per un lembo, e con un sorriso soddisfatto la annodò al collo di Draco.

Lui la lasciò fare incurante, perso in tutt’altri pensieri, fino a quando lei non lo indirizzò verso lo specchio.

«No. Questa no. »

Replicò affrettandosi a sciogliere il nodo. Le dita si insinuarono velocemente tra la stoffa, desiderose di liberarsi di quel cappio, mentre lui lottava contro tutto quello che avrebbe preferito tenere rilegato lassù, nel posto tanto in alto che aveva riservato a quella cravatta.

«Perché no? Non la metti mai».

Finalmente Draco sciolse il nodo, lanciando la cravatta sul letto dietro di sé e massaggiandosi il collo. Astoria gli lanciò uno sguardo perplesso senza celare un’ombra di gelosia. Quella cravatta aveva una storia di cui lei non aveva fatto parte e che lui non le avrebbe mai raccontato, se non fosse stato per quell’incidente.

«E’ maledetta?»

Scherzò facendo per prenderla e rimetterla a posto, ma poi ci ripensò, lasciandola lì, gettata sul letto.

«L’ho messa al funerale del padre di Blaise».

Spiegò lui, chiudendo le ante dell’armadio.

«Niente cravatta, non importa».

Astoria annuì, mordendosi un lato di labbro. Blaise aveva avuto diversi padri e per nessuno di questi aveva mai versato una lacrima; e nessuno di loro gli aveva lasciato guai finanziari o dispiaceri troppo grandi nel morire. C’era qualcosa che le sfuggiva. La cravatta, quando Draco chiuse la porta della loro stanza, era ancora lì sul letto, dal lato di Draco.

 

«Secondo te si intona più il rosso o il blu al legno della bara?».

Pansy decise subito che a quella domanda non avrebbe risposto.

Aveva già espresso il suo parere in merito ai gemelli della camicia in abbinato ai fiori lungo la navata; alla riga dei capelli in ordine simmetrico con la disposizione delle teste dei presenti, ed era giunta alla conclusione che quello fosse un modo molto tenero, pur nel suo sarcasmo, per dare dimostrazione di essere preoccupato per il proprio migliore amico. Quindi aveva lasciato che le domande scivolassero lungo le pareti della stanza e la superficie piana dello specchio, davanti al quale Draco faceva oscillare due cravatte di stoffa pregiata di taglio classico.

Non essendogli giunta risposta, cercò nello specchio la sua interlocutrice. Alle sue spalle la figura minuta di Pansy Parkinson si rifletteva nitida. Il candore della sua pelle era rischiarato dal gioco di luce-ombra del vestito scuro.

 Sembrava un’opera d’arte, l’immagine di un dipinto. Invece si muoveva, lentamente, mentre chiudeva il cinturino dell’orologio sul polso sottile e alzava i suoi occhi su di lui. Neri. E tra il nero dei loro abiti, e il buio della stanza, quegli occhi erano l’unica oscurità che invece mandava bagliori. Draco la guardò, assottigliando impercettibilmente la piega delle labbra.

«Sei pronta?»

Le domandò portando le mani alle tasche dei pantaloni. Si sentiva impacciato in quel vestito da funerale. Pansy sorrise al suo disagio, e andò a recuperare una cravatta dall’armadio della sua stanza. Nel passargli accanto, baciò la piega del suo collo, nello stesso punto in cui aveva posato le labbra la notte prima, dopo che Blaise se ne era andato, lasciando detto ora e luogo della cerimonia.

Nel silenzio di Malfoy Manor, di cui per quei due giorni e quelle due notti erano stati i soli padroni, avevano stappato una bottiglia di vino rosso. Avevano brindato senza avere un reale motivo. Blaise aveva inventato che si potesse brindare in nome dei motivi futuri che avrebbero avuto, e in nome di quel pensiero surreale e poco credibile avevano finito la bottiglia.

Quando Blaise aveva fatto ritorno a casa, per vegliare una madre che non aveva bisogno di essere vegliata, lei e Draco erano entrambi un po’ ubriachi.

La bottiglia vuota era rotolata sul pavimento. Scivolò leggera e veloce sulle mattonelle, arrestandosi sotto al letto in cui loro fecero l’amore. Perché la mattina dopo ci sarebbe stato il funerale, e tutti e due volevano qualcosa a cui pensare quando avrebbero preso atto – insieme a Blaise – che la morte è reale, e che prima o dopo, arriva per tutti. 

 

 

What’s next

 

«Non c’erano possibilità di scelta».

«Questo perché non siamo stati educati a scegliere il rischio, Draco»

 

“La baciò e nel farlo ritrovò consistenza e misura di sé”.

 

 

Thanking…

 

valy88: Grazie mille! Essendo Draco/Pansy la mia droga cercherò indegnamente di far entrare il lettore nel tunnel… è quel che cerca di fare ogni onest- bravo spacciatore ^^

Hermione 93: Il vero motivo vorrei tanto saperlo anche io, almeno avrei una ragione seria per maledire la Rowling e Miss Greengrass. Davvero non capirò mai il senso di aver demolito per 5 libri la povera Pansy se alla fine neanche se l’è sposato Draco. Mah. XD Grazie per la recensione, qui c’è un piccolo assaggio di quel che verrà ^^

 

Entreri: *cerca di spiccicare qualche parola senza dare a vedere la commozione* XD Grazie, davvero *_* Millicent qui mi suggerisce che di sicuro in comune con l’altra fic c’è la costanza del suo amore per Blaise XD

 

sweetchiara: Mi consola sapere che è passato quello che pensavo io stessa di Draco =) Mi dispiace per la povera fine che è toccata in sorte anche a lui, la divinizzazione lo ha costretto a vedere il suo lato umano come la peggiore infamia che potesse capitare a un Malfoy. Io insisto a dire che è molto più verosimile lui che il SuperPottu dei primi libri. I Gryffindor alle volte mi sembrano OGM a metà tra la Fata Turchina e il Giudice Amy. / *apprezza che apprezzi la pubblicità* Oggi è il turno di Leonard Cohen XD Quell’uomo ha una voce che… *_*

 

B e r t a: Blaise ringrazia ma infondo non gli giunge niente di nuovo, tende ad essere adulato dal mondo intero e se ne compiace da prima ancora di essere nato, tanto per essere previdenti. Grazie per l’apprezzamento, spero che anche questo capitolo non deluda aspettative varie. un bacio.

 

 

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Capitolo 5
*** V Vincere e perdere ***


        The way we were

 

V

Vincere e perdere

 

 

In the dark
he could see
the trap that was lying in her
Sweet company
eating from her hand at last
Wild things run fast

What makes you run?
Wild thing
I thought you loved me

[Wild things run fast – Joni Mitchell]

 

 

Nonostante le speranze della futura padrona di casa Nott e i timori del già proprietario e futuro sposo, la sera del ricevimento giunse e precipitò sulle loro teste, come tristemente previsto.

Il salone della villa dispiegava le sue grazie ai presenti, avvolto in ornamenti speciali per l’occasione. Tutti gli invitati erano perfettamente consapevoli che la funzione di quella serata era un annuncio importante, e per quei tempi importante rendeva implicita la notizia di un matrimonio imminente.

I signori Parkinson spiccavano tra la folla per il bagliore dei loro sorrisi, già calati ad hoc nella loro parte, accompagnati dalla presenza di Abraham Theodore Nott, palesemente meno lieto delle circostanze dell’evento. La reciproca antipatia che correva tra lui e Pansy Parkinson non era mai stata un mistero, e nel segreto del suo animo era ben certo che il giorno della sua morte, avrebbe confermato a Miss Parkinson che il potere dei malefici esiste davvero.

«Nonno, volete ancora del vino?».

L’ex Ministro non perse occasione per rinfacciare il dubbio gusto delle sue scelte al nipote anche in quel frangente, con un cenno di diniego e un sorriso sulle labbra dalla pericolosa affabilità.

«Ti ringrazio nipote, ma temo che tua moglie abbia avvelenato gran parte dei bicchieri a me destinati» comunicò con un tono di voce sufficientemente alto perché almeno qualcuno potesse sentirlo. Theodore non si prese il disturbo di sminuire l’accusa, dopotutto era stato suo l’ordine di controllare il contenuto di ogni bottiglia e il fondo di ogni bicchiere, a pochi minuti dal ricevimento.

«Piuttosto, hai la più vaga idea di dove sia andata a finire?».

Il goliardico buonumore con cui aveva posto la domanda, non lasciava adito a dubbi sul fatto che Abraham Nott credesse che il nipote non avesse una risposta. Non si sbagliava, come sempre.

«Sarà certamente nella nostra stanza a-»

«Con l’immancabile compagnia del signor Zabini?» lo interruppe il patriarca senza darsi il minimo disturbo di sensibilità. 

Theodore fu costretto a farsi portare dello scotch liscio per l’occasione. Talete, eletto maitre della serata tra gli elfi domestici in servizio, non fece in tempo a raggiungere la riserva privata del padrone, che l’ordine venne corretto.

«Talete»

«Sì padrone»

«Doppio. Fammelo doppio».

Abraham Nott avrebbe di certo avuto da ridire anche sulla deprecabile abitudine del nipote, troppo vicino all’alcolismo per i suoi gusti, se non avesse seguito la linea dello sguardo del figlioccio, i cui occhi si erano appena posati duri e già furiosi, sul profilo tagliente di Draco Malfoy, al centro esatto della sala.

 

●●●

I've looked at life from both sides now,
from win and lose, and still somehow
It's life's illusions i recall.
It's cloud illusions i recall.
I really don't know clouds at all

[Both sides now – Joni Mitchell]

 

«Blaise».

La voce di Pansy si infranse contro il suono della musica e il vociare soffuso che riempiva la sala da ricevimento. Blaise Zabini, impeccabile nel suo buon gusto e nell’iridescenza del suo sorriso, abbassò lo sguardo in sua direzione, con un’aria di improbabile innocenza.

«La tua mano».

Gli fece notare lei, con una punta di divertimento nella voce. Blaise non fece niente per spostarla da dove era, un po’ troppo infondo, diceva lo sguardo di Theodore Nott qualche metro più in là. Perfettamente in sincronia con la musica e gli sguardi dei presenti, la costrinse gentilmente ad un volteggio sulle punte, recuperandola giusto in tempo per poter poggiare anche l’altra mano laddove non era poi così appropriato che fosse.

«Sto combattendo una battaglia su due fronti» si giustificò, ammiccando in direzione di Nott e riferendosi indubbiamente a Draco.

«Come dire, lo sento. E il resto della gente lo vede».

Lui finse di meravigliarsi, strappandole un sorriso alla rigida compostezza in cui si era rinchiusa, dal momento in cui aveva stretto i lacci del vestito per la serata.

I buoni intenti di Blaise Zabini erano sempre oggetto di una interpretazione relativistica e piuttosto critica da parte dell’etica e della morale comune, e Pansy non dubitò che fosse il giusto approccio anche per quell’ultima trovata.

Dal canto suo lei era perfettamente a proprio agio nell’avere le sue mani sul proprio corpo e questo forse gli rendeva più facile il compito di far impazzire suo marito e instillare nella mente di Draco Malfoy atroci piani di vendetta tipicamente Slytherin e affatto misericordiosi o memori di una passata amicizia tra i due.

«Perché lo fai?»

«Perché hai indubbiamente un bel -»

«Naturalmente» si affrettò a concludere lei, assestandogli una gomitata tra le costole ben dissimulata. Blaise incassò il colpo, come faceva da lungo tempo con tutti quelli che Pansy Parkinson era solita distribuirgli, con il tenero fervore dell’affetto che provava per lui.

Forse Theodore Nott si sarebbe persino rivelato un ballerino migliore di lui. Di certo il perfezionismo che lo rendeva noto ai più, e che agli occhi di Blaise lo qualificava come maniaco compulsivo, gli avrebbe consentito di seguire ogni nota e ogni variazione senza perdere un solo accento ritmico. Avrebbe stretto Pansy tra le sue braccia, conducendo un valzer d’altri tempi, con la carica erotica di un plastico in cemento di Gilderoy Allock.

Il solo pensiero si era rivelato essere troppo raccapricciante ai suoi occhi perché un amante del bello come lui amava definirsi potesse ritenerlo sopportabile.

E poi, c’era Draco Malfoy e il perfetto incastro che le sue braccia avrebbero trovato con il corpo di Miss Parkinson.

«Astoria Greengrass è molto carina stasera».

«E tu sei il solito-»

«Naturalmente» la bruciò sul tempo lui.

Poi si deliziò dello sguardo che offuscò gli occhi scuri di Pansy e del contegno che assunse per il resto della serata, decisa a vincere una battaglia che non aveva speranze di essere vinta.

Di guerre perse lui ne sapeva qualcosa. Per quanto la sua immagine fosse associata all’ospite d’onore di tutti i salotti della Londra magica borghese, e si raccontassero mirabolanti storie sulle sue avventure più disparate – di cui la metà erano palesemente false ma troppo divertenti perché lui potesse prendersi la fatica di smentirle – nessuno sembrava essersi accorto della più grande sconfitta di cui Blaise Zabini fosse stato protagonista.

Lui era un ottimo medico di se stesso, sapeva occultare le proprie ferite e niente nella perfezione del suo corpo lasciava ad immaginare quanto profondo fosse un taglio difficile se non impossibile da rimarginare. C’era stata una guerra, e Blaise Zabini non era riuscito a sfuggirne gli orrori, gli scempi, le mostruosità.

Al brutto del mondo, non era riuscito a sopravvivere interamente.

«Se pensi davvero di poterlo evitare, ti stai sopravvalutando».

Pansy non si scompose, perché tutto sommato non aveva sentito niente di nuovo, che lei già non sapesse.

«Un’altra parola su di lui, e farò in modo che Millicent sia la tua dama d’onore fino alle prime luci dell’alba».

 

●●●

 

Oh you are in my blood like holy wine
and you taste so bitter but you taste so sweet
Oh I could drink a case of you
I could drink a case of you darling
And I would still be on my feet
Oh I’d still be on my feet

[A case of you – Joni Mitchell]

 

Draco Malfoy non aveva mai avuto bisogno di essere coraggioso, prima.

Lungo la sua strada aveva incontrato difficoltà, grandi o piccole, come capita a tanta altra gente, e se non era riuscito a risolverle da solo, si era potuto permettere di lasciare questioni in sospeso, mettendole da parte e pretendendo di ignorarle.

Poi aveva scoperto di non poter ignorare né Lord Voldemort, né Pansy Parkinson, e in un primo momento il pensiero di questa equivalenza tra i due lo aveva schiacciato del tutto.

Gli era persino capitato di sopravvivere al primo. Gli era costato un padre, tutta la sua innocenza, dolore e frustrazioni, gli era costato una guerra. Avevano perso entrambi, ma dopo la sconfitta lui era ancora vivo, e l’Oscuro Signore giaceva in ceneri, e il suo unico posto sarebbe rimasto per sempre nell’inospitale memoria di tutti.

Ma vincere Pansy Parkinson sarebbe stato tutt’altro paio di maniche e aveva il sapore amaro dell’impossibile. Lo aveva percepito subito, vedendola quella sera.

L’immagine di lei aveva ferito il suo sguardo, costringendolo a distogliere gli occhi.

Per tutto quel tempo non aveva fatto altro che pensare a lei come a un ricordo, un frammento del proprio passato, con l’amarezza che si riserva ai rimpianti e con la rabbia per le occasioni perse, e si era crogiolato in quella condizione di passività con una certa rassegnazione, che lui però aveva – di nuovo codardamente – scelto di chiamare serenità.

Vederla di nuovo, nella concretezza del presente, era stato quanto di più doloroso avesse dovuto affrontare dopo l’incarcerazione di suo padre.

«Niente cravatta, stasera».

Cercò di non perdere il controllo di sé, quando la sentì parlare, nel buio di quel corridoio.

Si era rifugiato lì cercando di sfuggire ai colori troppo accesi della festa; ai suoni della vuota allegria della gente; all’astio di Theodore Nott, che lo faceva sentire ancora importante per Pansy; alle illazioni di Blaise, più sferzanti del solito quella sera. Erano una accusa e una sfida ben precise, a cui Draco non si era potuto sottrarre né per volontà né per imposizione di coscienza.

«Cosa c’è qui dentro, la camera degli orrori?».

Le chiese voltandosi a guardarla.

Era passato molto tempo dall’ultima volta che si erano ritrovati così vicini. Desiderò poterla sentire finalmente lontana. Sperò in una parte remota di sé, che tutto quel tempo passato a cercare di ridimensionare la loro vicenda fosse servito ad arginare l’impeto del sentimento. Scoprì che ogni tentativo sarebbe stato vano, e che era ora di smetterla con quel gioco.

«Non saprei» replicò lei, alzando le spalle, trovando una propria sincerità. Era la candida ammissione di quanto tutto quello le fosse estraneo: la sua casa, suo marito, la sua vita futura lì dentro in sua compagnia.

Tuttavia, nonostante si fosse sentito appagato e soddisfatto, per non dire consolato dal rifiuto di Pansy per ciò che l’aspettava, non era di una stanza sconosciuta quello di cui avrebbe voluto parlare con lei.

Avrebbe preferito che lei gli spiegasse come le fosse venuto in mente di accettare una proposta di matrimonio da Theodore Nott. Voleva sapere i particolari, uno per uno, pur sapendo quanto deleterio per se stesso sarebbe stato.

«Non sapresti».

Mormorò invece, perdendo lo sguardo altrove.

 

La guerra lo aveva cambiato.

L’ultimo ricordo che aveva di lui, era quello del doloroso passaggio dall’era delle illusioni a quella della cruda realtà. Si erano separati dopo aver sperimentato insieme le rivalità, i protagonismi, i giochi spietati e le vendette più stupide. Avevano scherzato con il fuoco ma si erano fermati sempre in tempo prima che il fuoco li bruciasse.

Fino a che non si erano bruciati, nel dirsi addio con la speranza che così non fosse.

Tutte le volte che aveva pensato a Draco, aveva sentito la nostalgia dilaniarla, ma non si era mai fermata a pensare un solo momento che avrebbe dovuto conviverci tanto a lungo come per sempre. Poi un giorno lo aveva visto, accanto ad un’altra donna, e aveva realizzato che niente più di Draco Malfoy sarebbe stato suo.

«Forse è il caso che torni di là».

Non c’era alcuna risolutezza nella sua voce, quando lo disse. Era solo l’ennesima via di fuga, il riparo da un dolore che era decisa a non voler provare definitivamente.

Aveva imparato che la nostalgia è qualcosa che ti corrode dentro con la dolcezza dei ricordi e l’inevitabilità del presente, ma non è violenta né crudele come parlare con l’uomo che hai imparato ad amare e che poi la vita ti ha strappato con il cinismo che le è proprio.

«…per Merlino, Pansy».

Si fermò di colpo, come se le sue parole si fossero strette attorno al suo polso, con la stessa forza che avrebbe avuto la sua mano fredda e pallida. Vibrò nell’aria l’eco di tutto quello che fino ad ora non si erano detti.

«Theodore Nott?»

Le chiese lui, d’un tratto libero da tutto quello che prima gli aveva impedito di porle quelle domande, di attraversare la stanza e strapparla dall’abbraccio di Blaise per stringerla e avvolgerla nel proprio. Pansy lo vide, e le sembrò furioso come mai era stato prima di allora.

Lo guardò senza capire, confusa e spaventata, eppure di nuovo capace di scorgere in Draco i tratti di quello che lei aveva conosciuto e fatto proprio nel passato che avevano condiviso.

«Avevi bisogno di puntare tanto in basso per punirmi?»

Proseguì lui, di nuovo vicino. Fumo e profumo, confusi e indistinti.

«Curioso. Credevo di essere io quella che sta per sposarlo»

Il gelo nella sua voce non lo ferì, come era sempre stato con Pansy.

Si erano sempre presentati così al mondo, alla voluta e ricercata incomprensione della gente, freddi e distanti, cristallizzati nella propria alterigia, ghiacciati nell’arroganza delle loro convinzioni, nella loro poca umiltà, nella mancanza di scrupoli e nel gioco sporco verso gli altri, che erano meno di loro.

Non avevano raccontato a nessuno la loro storia, si erano ritrovati a condividerne parti importanti, alcune persino combacianti, e in quel modo, in silenzio e con orgoglio avevano cercato di curarsi, pur facendosi male a vicenda la maggior parte delle volte.

«Non c’erano possibilità di scelta».

«Questo perché non siamo stati educati a scegliere il rischio, Draco»

E per la prima volte lo disse credendoci davvero. Quando ormai non c’era altro contro cui lottare, quando ogni scelta infine era stata accettata come obbligata e presa come tale. Senza armi di difesa, senza possibilità di vincere alcuna partita, forse valeva la pena dire la verità, ammettere i propri sbagli e le segrete incapacità, ora tanto palesi.

Draco la guardò senza dire niente, perché niente c’era da dire.

 

La verità poi era anche un’altra.

Era che la desiderava ancora e che non concepiva l’idea che qualcun altro potesse toccarla, accarezzarla, spogliarla, baciarla, come lui aveva potuto fare. La voleva ancora per sé, era ancora convinto di meritarla più di altri, di essere l’unico a conoscere parti di lei che a chiunque altro mai sarebbero state né svelate né concesse.

Come lui l’avrebbe toccata nessun altro avrebbe saputo fare.

Erano i suoi occhi quelli che avevano diritto di guardarla, sapendo dove e come leggere. Non ci sarebbe stato bisogno di parole, come con Astoria, che parlava in continuazione, di tutto, che a lui sembrava niente. Era sordo alle parole di sua moglie, quando invece il silenzio di Pansy, come in quel momento, era molto più eloquente e aveva un suono, faceva rumore.

Gli diceva che non voleva sposarsi, che la situazione era sfuggita di mano anche a lei, che lo desiderava, oh se lo desiderava, che tutto quello per cui si era concessa di sperare alla fine di quella guerra, era stato ritrovarlo e averlo un po’ per sé se non per sempre.

Non c’era molto altro che la vita potesse offrire a gente come loro.

Avevano già avuto tutto ciò che era inutile, e mai ricevuto quello di cui avevano bisogno.

Non c’era consolazione che il mondo potesse concedere loro se non la reciproca presenza.

Era impossibile da spiegare a terzi e qualcosa che loro stessi avevano accettato con difficoltà, ma alla fine era in quel modo che andavano le cose.

Non c’era una via di fuga certa e sicura, il tradimento era sempre l’ombra dei loro passi.

Era tutto lì, non c’era altro da aggiungere, né bugie da perpetrare inutilmente.

Quello che li spaventava tanto era il bisogno reciproco così intenso e la consapevolezza di essere altrettanto necessari per l’altro. Tanto da svegliarsi accanto ad estranei, vivere una vita non propria perché condivisa con le persone sbagliate.

Agli incubi ereditati dalla guerra si alternavano per entrambi quelli che loro stessi si erano inflitti, stando lontani. Al risveglio c’era sempre quella sensazione di incongruità, il sentirsi in una terra straniera, in vestiti scomodi di una taglia troppo piccola per contenere tutti i loro desideri.

 

Se mi guardi in quel modo è peggio, fallo, fallo e basta.

La baciò e nel farlo ritrovò consistenza e misura di sé.

Le sue labbra erano calde e morbide, avevano un sapore già conosciuto ma di cui non avrebbe saputo avere abbastanza. Si schiusero al suo bacio e lo accolsero per tutto quello che era e che non sarebbe potuto essere: giusto ed eterno.

Draco avrebbe voluto prometterle molto altro, oltre al giuramento di quel sentimento che aveva per lei, ma sapeva che lei non gli avrebbe creduto e che non era giusto per loro stessi concedersi altre illusioni.

La baciò ancora e ancora, affondando nella sua bocca e toccandola di nuovo. Tuffò le mani tra i suoi capelli, le dita sciolsero il complicato gioco di incastri e forcine che li tenevano legati con una naturalezza che le strappò il cuore. Le mani di Draco erano fredde ed esperte di lei. Accarezzarono le sue curve, insinuandosi sotto il vestito, sotto il mantello di impassibilità in cui lei si era nascosta per quegli anni in cui era stata di un altro.

Rabbrividì all’abbraccio in cui la strinse, le proprie mani esili tornarono padrone di luoghi che erano già stati suoi; nella frenesia con cui ripercorsero i sentieri della sua pelle le sembrò di recuperare la strada di casa.

 

●●●

 

«Vado a cercare Pansy».

Millicent depositò il quarto calice della serata, leggermente instabile sui tacchi alti delle decolleté.

«Io non lo farei» sibilò Blaise, serrando le dita della sua mano contro la spalla di Millicent, perché non cadesse rovinosamente sul pavimento.

Il gesto ebbe su di lei l’effetto di un quinto calice di champagne, ma Blaise finse con signorilità e un certo spirito di preservazione di non averlo notato, e si limitò a lasciare la presa appena in tempo perché lei non cercasse di concupirlo in presenza di tutta la Londra magica, o si inginocchiasse ai suoi piedi proponendogli un matrimonio riparatore di quello che di certo sarebbe fallito a breve tra Pansy e Theodore.

Millicent cancellò la delusione per la fugacità del contatto ma il risultato fu un broncio piuttosto comico e molto poco erotico.

«Ma tra poco è il suo grande momento».

Obiettò mentre la sua vista sbiadiva leggermente sui movimenti nervosi di Theodore.

Blaise ammirò il riflesso del proprio sorriso sul marmo bianco del pavimento.

«No Millicent, credo che adesso sia il suo grande momento».

 

 

What’s next

 

«Pans, il tuo grande momento è già finito?»

«Qualcuno direbbe che è appena iniziato, Milli»

 

“Sembrava una corsa contro il tempo che nessuno dei due aveva voglia di vincere”.

 

 

Thanking…

sweetchiara: La Rowling deve al suo pubblico un lungo elenco di spiegazioni u.u Astoria è un po’ vittima delle circostanze, di certo fossi stata al suo posto non avrei mai sposato un Malfoy senza essere certa che mi volesse un po’ di bene XD Già sono una piaga quando si parla di emozionalità e dimostrazioni  di sentimento, figuriamoci quando non c’è! XD / Leonard Cohen è nell’elenco di voci che venero XD insieme alla voce di Jim Morrison e Janis Joplin *_*

valy88: Oh ne sono lieta! *___* Infondo nel tunnel si sta bene, a parte il finale del settimo libro che ha un po’ rovinato l’atmosfera di festa u.u Sì il ricevimento ha preso due capitoli meritava di essere trattato in più dettagli data l’entità catastrofica XD Grazie per i complimenti =)

Entreri: Dispiace anche a me per Theodore, di fondo non credo che se lo meriti u.u Mi sento anche un po’ in colpa; ma avrà anche lui piccole soddisfazioni nella vita, d’altra parte ha avuto un istinto un po’ suicida a proporre un matrimonio addirittura! Al prossimo capitolo e grazie J

Kaho_chan: *sine verba ringrazia cercandone qualcuna* Era l’impressione che volevo trapelasse, l’inscindibilità del loro legame, ostacolato ma difficile da recidere del tutto. Gli Slytherin sono un mondo un po’ a parte, ma sono sempre stata incuriosita dal loro codice di regole segreto, ho il vizio di ficcare il naso dove forse non andrebbe messo XD Grazie ancora *.* sul serio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** VI Concessioni ***


        The way we were

 

VI

Concessioni

 

I can remember
standing, by the wall
and the guns, shot above our heads

and we kissed, as though nothing could fall.
And the shame, was on the other side
Oh we can beat them, for ever and ever
Then we could be Heroes, just for one day

[Heroes – David Bowie]

 

Le voci e i rumori provenienti dalla sala adiacente erano un promemoria dell’illegalità di quei baci e dei doveri che la aspettavano da lì a poco. Da lì a tutta la vita.

Eppure non riusciva a lasciare libere le sue labbra. I loro respiri erano confusi, il tutto era troppo compromesso perché potessero tornare indietro, e in ogni caso i loro egoismi lo avrebbero impedito.

La parete contro cui si era poggiata era fredda e scomoda, ma non aveva importanza. Niente in quel frangente sembrava avere importanza, ed era pericoloso, lo sapevano bene entrambi. La loro natura di Slytherin gli insegnava sempre a calcolare ogni cosa, ogni eventuale danno o pericolo, ma non poteva niente contro l’incoscienza e l’irruenza dei loro desideri.

«Vi ringrazio molto» frasi e parole cercavano di insinuarsi tra il rumore soffice dei loro sospiri ma con scarsi risultati «anche se l’entusiasmo dei vostri applausi è proporzionale a quello con cui avete bevuto dai vostri calici» risa e commenti sullo sfondo, mentre Abraham Nott prendeva parola oscurando ancora una volta suo nipote.

Mentre Draco la sollevava delicatamente da terra e le chiedeva di concedersi e concedergli qualcosa con una cautela che altre volte non gli aveva mai visto usare.

«Vuoi che…»

Lei si sentì stringere la gola dall’incertezza che tremava nella voce di Draco, da quella tenerezza recondita che le riempì il cuore e lo stomaco, e non disse niente, si strinse solo più decisa a lui. Le dita premute contro le sue spalle per sorreggersi, insofferenti al tessuto della sua camicia, chiedevano di più, chiedevano una libertà maggiore.

«Sì» disse soltanto, sì voleva che lui facesse l’amore con lei, che si riappropriasse di ciò che gli apparteneva, che la riempisse di nuovo di sé. Non era la prima volta, aveva la malinconia del ricordo di tutte le altre e la foga disperata della mancanza reciproca. Sembravano a tratti di nuovo spaventati, come se avessero ricominciato da capo, e a tratti quella timidezza e quei permessi educati che lui le chiedeva e lei gli concedeva venivano cancellati da baci roventi, dai segni delle dita di Pansy sulla sua pelle chiara, dai denti di lui contro il suo labbro, dalla presa forte delle sue braccia intorno al suo corpo.

«Ma forse stasera mio nipote ha qualcosa da dirvi»

Sembrava una corsa contro il tempo che nessuno dei due aveva voglia di vincere. Le dita di Pansy scivolarono sicure e frettolose alla sua cintura, mentre lui lasciava che le sue mani vagassero sul suo corpo. Era sempre stato così geloso della sua intimità, non permetteva mai a nessuno di toccarlo, non cedeva mai ad una carezza, disponeva e poi prendeva, fino a quando lei non aveva vinto. Trionfante e commossa, aveva soffocato quella commozione in un bacio, allora come oggi.

Lui aveva annuito, nel buio di quel corridoio si era spinto in lei, ritrovando un proprio posto. L’urgenza dei suoi movimenti era compensata dall’ineffabilità di quell’istante, che fosse stato per lui avrebbe replicato per anni, per un tempo infinito.

Oltre quel muro c’era solo l’incertezza del loro domani, ma lei era così viva e sicura sotto il suo tocco, e contro di lui. Affondò in lei ancora e ancora e la fretta svanì. Assaporarono ogni istante di quell’unione, imprimendo ogni dettaglio di quel nuovo e vecchio piacere.

Lei era bella come allora. I capelli sciolti a caderle lungo il viso, solleticavano il naso di Draco, avvolto tra le sue braccia, e adagiato contro il suo petto, ne sentiva il respiro accelerato, e lei tremava, e lo baciava e si stringeva a lui e tutto era racchiuso là, dentro di loro.

«Theodore, il palco è tutto tuo, da ora in futuro».

Ma oltre le spalle di Draco, e oltre le gambe di Pansy, oltre quello che stavano dividendo, non c’era mondo e non c’era futuro.

 

●●●

 

There's such a sad love
deep in your eyes.
A kind of pale jewel
open and closed
within your eyes.
I'll place the sky
within your eyes.

[As the word falls down – David Bowie]

 

Mentre Theodore si faceva largo tra la folla, con lo sguardo inquieto di chi non ha con sé quanto pattuito e quanto necessario, Pansy aveva sulla bocca il nome di un altro, e lo lasciava scivolare sulle labbra e vicino all’orecchio di Draco, in un singhiozzo e un sospiro sospesi tra piacere e dolore.

«Un applauso per Theodore ci vorrebbe, non trovi?» rideva Millicent portando alle labbra l’ennesimo calice di champagne, e Blaise non rispondeva perdendo il pensiero in tutt’altre fantasie, e Draco si stringeva Pansy contro il cuore, raccontando tremando in silenzio dentro di lei la storia del suo amore per lei.

Astoria Greengrass sorrideva leggiadra ad un distinto signore al suo fianco, chiacchierava del più e del meno come le avevano insegnato a fare e intanto si domandava che fine avesse fatto suo marito, eludendo lo sguardo irrisorio di sua sorella.

Abraham Nott aveva gli occhi che guardavano lontano, verso quel corridoio scuro, ma non abbastanza per poter vedere Draco Malfoy e Pansy Parkinson scivolare lentamente contro il muro e adagiarsi l’uno vicino all’altra, contro il pavimento lustro, e scorgere in quel riflesso i loro occhi lucidi.

«Devo andare».

Pansy cercò di sistemare i capelli, di ristabilire un ordine, di smettere di tremare, ma niente sarebbe più stato come prima. Draco seguì i suoi movimenti, si concesse di guardarla alle prese con se stessa, rincorse i movimenti delle sue mani tra i propri capelli, delineò con lo sguardo la piega sgualcita del vestito e la linea morbida del suo seno. E scoprì di essersi perso un vero spettacolo.

«Lascia, faccio io».

Non era esattamente una domanda o una richiesta come quella di prima. Di nuovo padrone di sé era un invito a lasciargli campo libero. Pansy glielo lasciò fare, senza opporsi. Non sarebbe mai stato in grado di rimettere in ordine ciò di cui lui era stato artefice, ma le piacque quel contatto per la prima volta tanto intimo.

«… hai troppi capelli».

Borbottò assorto e contrariato, quando si rese conto che per quanto provasse non stavano mai al posto che lui sceglieva per loro. Lei sorrise scuotendo la testa e facendo crollare l’ultimo tentativo di Draco.

«Sei tu che non hai la minima delicatezza».

Lui accettò il giudizio non senza una certa offesa allungandosi a recuperare la giacca. La indossò con gesti lenti e meccanici, sistemando il colletto della camicia e peggiorando la situazione. E per un momento entrambi considerarono il tutto. Quel stasarsene seduti lì, per terra, ad un passo dal matrimonio di Pansy, con i vestiti in disordine e il fiato corto. Con il sapore dell’altro sulle labbra, ancora così ebbri e pieni dell’altro. Si sentirono belli ma tristi.

 

●●●

 

C’è una cosa che Millicent Bullstrode non dimenticherà mai, per quanto quella sera fosse ubriaca, ed è la gravità nello sguardo di Blaise Zabini, quando Pansy raggiunse Theodore al centro della sala, il giorno dell’annuncio delle loro nozze.

L’usuale sorriso, che aveva avuto poco prima nel vietarle di andare a cercare Pansy, lasciò il posto ad una smorfia di serietà che non si addiceva affatto ai lineamenti del suo viso. Forse erano tutti troppo disabituati, pensò Millicent, ma lo trovò molto bello lo stesso.

La tristezza, negli occhi di Blaise Zabini, è qualcosa che pochi hanno visto, Millicent si compiacque di essere tra quei pochi.

«Maggio è un buon mese per un matrimonio» sentiva dire la madre di Pansy vicino al suo orecchio. Blaise non stava neanche fingendo di ascoltarla.

Braccia conserte e sguardo rivolto verso il basso, preda dei suoi pensieri o delle sue malinconie.

«Se hai intenzione di avere quella faccia per tutta la sera, dovresti considerare l’idea di ubriacarti».

Si voltarono tutti, chi preoccupato chi del tutto attonito, tranne Blaise, alla voce strascicata di Draco Malfoy, sopraggiunta alle loro spalle. Millicent rimase in disparte, consapevole di star assistendo ad uno scontro tra titani.

L’ironia dell’uno si scontrò con la granitica compostezza dell’altro, che sostituì ogni sarcasmo di risposta con uno sguardo piuttosto eloquente. Forse Pansy avrebbe saputo dargli un significato, a Millicent parve solo terribilmente bello e gelido, che avrebbe potuto spendere il resto della sua vita a guardarne la perfezione marmorea. Si sentì piuttosto stupida e senza senso come la maggior parte delle volte, ma quel leggero senso di giramento di testa che la pervadeva da metà serata le concesse un po’ di magnanimità nei propri confronti.

«E’ anche la stagione migliore per i fiori. Verranno fuori bellissime combinazioni».

Anche Millicent smise di prestare attenzione alla madre di Pansy, come del resto aveva scelto di fare sua figlia da inizio ricevimento.

L’immobilità di Blaise si spezzò d’improvviso. Un attimo dopo la sua mano era sulla spalla di Draco, e al posto di quello scontro di personalità ingombranti era tornata la goliardica simpatia dei tempi andati. Le spalle di Draco si rilassarono appena al tocco dell’amico, e i loro passi erano buffamente in sincronia, quando entrambi si allontanarono dalla “combriccola di donne” per andare a fumare una sigaretta nel patio.

Millicent rimase a fissare confusa le loro figure, camminare spalla a spalla, in netto contrasto tra loro e vi accostò con il pensiero quella di Pansy, immagine che del resto aveva visto milioni di volte negli anni di Hogwarts, nel loro passato.

Si chiese se per caso Blaise non avesse scelto di essere tanto amico di Draco e Pansy per quella sottile armonia estetica che si creava tra le loro figure.

Se così fosse stato, forse lei poteva avere una speranza, migliorandosi un po’, se davvero è dalla bellezza che nasce l’affetto di Blaise Zabini e non da altro.

 

●●●

 

Daphne amava sua sorella di un amore sincero, che esulava qualsiasi componente di stima o rispetto. La ritenne sempre vittima della sindrome di sua madre, che tendeva a ridurre oggetto di abbellimento qualunque “cosa” o “persona” risultasse abbastanza “carina” e “leziosa” secondo i suoi canoni. Lei nacque troppo forastica per potere fare le fusa a sua madre, e mai la lusingò con gesti di affetto e di adulazione come fu per sua sorella minore.

Per questo poté considerarsi salva, una volta in età da matrimonio. Era oggetto di critiche da parte del ramo femminile della famiglia per le sue scelte di partner sessuali o per la franchezza con cui ne faceva mostra al popolo, ma questo non la turbava più ormai. Niente che riguardasse se stessa la preoccupava realmente, quanto invece si rammaricava per sua sorella.

«Astoria» la richiamò quando le tagliò la strada con fare rischiosamente deciso. «Dove vai?».

Lei le rivolse un’occhiata spazientita, certa che come sempre Daphne volesse farle perdere tempo con prese in giro e illazioni sul suo matrimonio, ma si fermò lo stesso a parlare con lei.

«A congratularmi con la sposa» replicò facendo aria con la mano per dissipare il fumo della sigaretta di sua sorella. «Potresti non fumarmi in faccia?».

Daphne non chiese scusa e non prestò attenzione alla protesta.

«Da come camminavi sembrava che volessi sacrificarla su un altare, più che altro».

A dire dallo sguardo di sua sorella, indignato e imbarazzato, fu certa di aver colpito nel segno.

«E’quanto? O vuoi chiedermi come stanno i nostri genitori? O confidarmi che Pucey è il migliore sulla piazza?».

Daphne sorrise dell’ingenuo accalorarsi della sorella, destinato a raddoppiare di fronte alla sua impassibilità. Astoria era convinta di essere in grado di vincere l’amore di Daphne per la promiscuità e il ribellismo che stava vivendo dai primi anni della sua vita. Lei si divertiva a lasciarglielo credere di tanto in tanto.

«Non se la cava male, no. Ma vorrei provare altro».

Astoria alzò gli occhi chiari al soffitto, dandosi un’occhiata in giro. Suo marito era ancora molto preso da una fitta conversazione con Blaise Zabini, e non seppe se catalogare anche quello come problema, e in che livello metterlo sulla scala personale che aveva stimato.

Prima o dopo il tradimento e l’associazione a delinquere?

«In ogni caso, Astoria, non credo che Pansy si rammaricherà di non avere i tuoi auguri»

Al nome dell’altra, Astoria scattò come una molla. Se ne vergognò un po’ ma tutto sommato Daphne sarebbe rimasta sua sorella per sempre e in ogni caso. E la sua fedeltà era discutibile solo sul piano sentimentale.

«Mi stai avvertendo di qualcosa?».

«Ti risparmio una conversazione spiacevole».

Astoria valutò per qualche secondo se valesse la pena riproporre a sua sorella per l’ennesima volta di rivelarle tutta la verità di cui era a conoscenza, e che le svelava sibillina per indovinelli in diverse ed estenuanti puntate.

«Daphne, perché non mi dici tutto e subito?»

«Non c’è niente da dire oltre a quello che fingi di non vedere».

«D’accordo, la tua visionaria sorella va a farsi del male, allora».

Si congedò senza i soliti convenevoli a cui era tanto affezionata, e Daphne ne fu sollevata ma al contempo certa di averla fatta discretamente arrabbiare.

Quando sollevò lo sguardo dalla cenere in bilico sulla sua sigaretta, incontrò lo sguardo di Pansy Parkinson, a metà tra un saluto divertito e l’espressione sorniona di chi conosce già le mosse dell’altro, quelle attuate e quelle future.

Daphne ricambiò quel sorriso, spegnendo la sigaretta nel vaso della pianta al suo fianco. Di certo Pansy non se la sarebbe presa per quello.

 

●●●

 

All of my life I've tried so hard
doing my best with what I had
Nothing much happened all the same
Something about me stood apart
A whisper of hope that seemed to fail
Maybe I'm born right out of my time
breaking my life in two

[Thursday’s child – David Bowie]

 

Pansy si muoveva silenziosa e agile nello spazio della loro stanza, senza fare il minimo rumore. Theodore poggiò la testa sul cuscino, beandosi di quel silenzio. Pansy non faceva mai rumore, pensò rilassando il respiro e sbottonando la camicia.

Le lenzuola erano morbide e profumate, sapevano di pulito e innocenza, come nessuno dei due era più da molto tempo ormai.

Forse quella camera era anche troppo grande per due che come loro vi avrebbero trascorso il minor tempo possibile, abitandola come un albergo. Senza fotografie e senza cimeli affezionati, senza parti di loro, né oggetti della loro vita insieme.

«Millicent è ancora qui?»

Domandò d’un tratto, ricordando la sua artificiale allegria di quella sera. Alle sue parole Pansy sobbalzò, lasciandosi sfuggire dalle mani la collana che aveva intorno al collo fino a poco prima. Rimase a fissarla, mandare bagliori sotto la luce del lampadario, immobile per alcuni secondi. Theodore aprì gli occhi al suo silenzio, sollevandosi appena sui gomiti, per guardare in direzione di sua moglie.

Aveva ancora indosso il vestito di quella sera. Era riuscito a saggiare la consistenza del tessuto durante il ballo che lei sembrava avergli concesso, e per un attimo si era quasi illuso che stesse accarezzando la morbidezza della sua pelle. Quella collana, adagiata sul pavimento, riluceva sul suo collo sottile, e quando aveva avuto voglia di cercarla tra la folla, gli era bastato cercare lo sfavillio di quell’oro riflesso nel nero dei suoi occhi.

«No, ho chiesto a Blaise di accompagnarla a casa».

Rispose frettolosamente lei, sentendosi quasi nuda sotto lo sguardo di Theodore. Evitò il suo sguardo, fastidiosamente inerme come mai le capitava.

«Prima o poi nascerà del tenero tra quei due».

Commentò ridendo tra sé Theodore, lasciandosi di nuovo cadere con le spalle sul cuscino. Pansy sbuffò sarcastica, ritenendo di avere dei giusti dubbi in merito.

Diede le spalle a suo marito nello sfilare il vestito, e per un attimo le sembrò di sentire le mani di Draco accarezzarle la coscia e spogliarla di nuovo, come aveva fatto prima.

«Blaise non conosce tenerezze».

Mormorò sapendo di non dire la verità – ma quella infondo era troppo intima –  le parole scivolarono incerte sulle sue labbra. Sentiva l’eco del respiro di Draco vicino al suo orecchio, il suo profumo sul proprio collo, i segni dei suoi baci in ogni angolo di pelle, la voglia di lui dolorosa e inebriante, ancora viva, a strapparle un sospiro di languore.

«Sei stanca?» domandò Theodore confondendo quel sospiro, e lo chiese con una premura talmente innocente e fiduciosa che la costrinse ad allontanarsi da quei pensieri.

«Ho ballato molto» sorrise labile contro la federa del cuscino, occupando un posto che non le sarebbe spettato in quel letto.

Le lenzuola dalla sua parte erano ancora fredde e si ritrovò a rabbrividire, sentendosi di colpo infinitamente sola, e un po’ persa.

Theodore le disse qualcosa che non riuscì a comprendere, perché infondo stanca lo era davvero. Mai avrebbe pensato che sarebbero state delle emozioni a toglierle qualsiasi forza, che non fosse quella del pensiero. Chiuse gli occhi e rivide l’ultima immagine di Draco, incredibilmente vicina.

L’aveva guardata in un modo indecifrabile, al momento di congedarsi.

Sotto gli sguardi di tutti avevano costretto i loro pensieri in una formalità di convenienza; la fretta con cui aveva allontanano la propria mano dalla stretta di Draco era stata un tocco di classe, un trucco da esperti, invisibile come deve essere ogni inganno all’apparenza degli astanti.

Finsero di sentirsi a disagio, nessuno seppe che nel ritirare la mano, le dita di Draco avevano sfiorato il suo palmo in una carezza fuggevole e forse fuggita alla stessa volontà del suo artigiano; né che quel breve contatto aveva come sferzato la sua pelle, quasi tagliandola di netto.

Blaise aveva mantenuto la sua solita discrezione e da dietro le quinte aveva guardato le spalle agli attori, implicitamente a conoscenza della trama dei loro gesti e le tracce dei loro passi falsi.

«Millicent», la sua voce calda aveva perforato la coltre zuccherina della sua ubriachezza, e lei si era sporta in avanti, per assistere in parte alla scena e per perdersi nel profumo di Blaise Zabini.

«Immagino che dovrò riaccompagnarti a casa». Non era affatto un invito, ma nascondeva anche qualsiasi forzatura a cui Pansy lo avesse costretto con un solo sguardo pochi minuti prima.

«Vogliamo andare?» soggiunse porgendole il braccio. Era forte e sicuro, e Millicent seppe che da lì non sarebbe mai potuta cadere, neanche volendolo.  Vi si appoggiò, deliziata e commossa dalla raffinatezza con cui lui le stesse facendo quel favore sgradito.

 

•••

Sometimes I cried my heart to sleep
shuffling days and lonesome nights
Sometimes my courage fell to my feet
Lucky old sun is in my sky
Nothing prepared me for your smile
lighting the darkness of my soul
Innocence in your arms

[Thursday’s child – David Bowie]

 

«Pans!»

Millicent si era sporta dalla presa di Blaise, agitando una mano in sua direzione. Lei si era congedata da uno degli ultimi ospiti e li aveva raggiunti senza fretta. In lontananza le loro figure vicine facevano uno strano effetto, stonato eppure tenero al contempo, e dovette reclinare il proprio viso per nascondere un sorriso che tutto sommato volle risparmiare a Blaise.

«Pans, il tuo grande momento è già finito?» le domandò Millicent non appena fu abbastanza vicina.

Blaise scelse di guardare altrove e non negli occhi di Pansy, per non leggere lo sgomento alla presa di coscienza.

«Qualcuno direbbe che è appena iniziato, Milli» replicò accantonando il nodo che le serrava la gola e l’improvvisa voglia di togliersi scarpe, vestito e gioielli, tutto ciò che aveva indosso e andarsene da quella casa, a piedi nudi, con una leggerezza di cui non aveva mai conosciuto la consistenza se non nei suoi vagheggi.

Blaise le sorrise, baciandole la fronte, un gesto lento e infinitamente gentile. Lei lo fermò per portarlo con sé, le dita sottili poggiate contro il suo braccio, un cenno di muto ringraziamento per le parole che non le avrebbe rivolto e per i rimproveri che avrebbe lasciato correre come già detti, rimandati a un momento migliore, ad un altro tempo e in un altro spazio.

«Buonanotte Miss Parkinson».

«Buonanotte miei cari» mormorò lei, accarezzando con lo sguardo il loro profilo che scompariva alla vista un attimo dopo.

 

 

What’s next

 

“Ma quella volta, era stato completamente diverso.

Voleva chiederle se per caso se ne ricordasse anche lei, ma poi aveva avuto la conferma che fosse così”.

 

“Se non fosse stato per l’odore di fumo, Millicent avrebbe creduto che si fosse trattato di un lungo viaggio della sua immaginazione, da raccontare a Pansy a colazione”.

 

 

Thanking…

Entreri: Sì, poveri tutti in effetti. E Blaise non è da meno, del resto chiunque sia umano oltre che uomo è destinato a ricevere qualche ferita prima o dopo. Theodore con un po’ di pazienza avrà il suo riscatto don’t worry =P Il problema non è Draco né Pansy, il vero problema ce l’ha un po’ con se stesso. Grazie, un bacio.

valy88: Grazie mille *__* Draco e Pansy non possono stare lontani sennò all’autrice prende a male XD La Rowling evidentemente è stoica e non soffre di umani dolori come noi amanti della ship ç_ç

 

 

Piccola comunicazione di servizio.

Avendo due esami da preparare – sto fingendo di non avere minime preoccupazioni per la questione ma non è così XD – è probabile che rallenti un po’ ritmo per questi dieci giorni di ultimo ripasso/fine programmi. Spero di uscirne viva XD

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** VII Insonnia ***


The Way We Were

 

VII

Insonnia

 

I want to hold the hand inside you
I want to take a breath that's true
I look to you and I see nothing
I look to you to see the truth
You live your life
You go in shadows
You'll come apart and you'll go black
Some kind of night into your darkness
colors  your eyes with what's not there

[Fade into you – Mazzy Star]

 

Draco Malfoy poteva dire di aver imparato molto dagli sbagli dei suoi genitori, ma aveva anche ricevuto degli insegnamenti, e in parte aveva evinto qualche piccolo consiglio di vita dalla quotidianità del loro matrimonio.

Perciò aveva perfettamente chiaro che non è bene fumare in casa se tua moglie non sopporta l’odore del tabacco, ma non sapeva come ci si dovesse comportare nel caso in cui non riuscisse a provare neanche un briciolo di amore nei suoi confronti.

Il primo sguardo d’amore che aveva mai conosciuto era stato uno di quelli che suo padre era solito rivolgere a Narcissa Malfoy, quando lei era intenta a fare tutt’altro, e tutto si sarebbe aspettata tranne che uno sguardo tanto vivo negli occhi di suo marito.

Si chiese se fosse stato in quel modo che lui avesse guardato Pansy per tutta quella sera.

Se lei lo avesse notato e per questo lo avesse raggiunto nell’ombra del corridoio, o se era stato un ritrovo casuale, a conferma della inevitabile convergenza dei loro percorsi.

aveva detto lei e sentirglielo dire era stato il regalo migliore che potesse essere concesso ad un uomo.

Sentiva la propria testa leggera e il corpo intorpidito. Le sue mani avevano ancora impresse nei palmi la curva del suo seno. E il gelo che aveva sentito quando lei aveva sottratto la mano al suo saluto. La sigaretta bruciava tra le sue labbra pallide, piene dei suoi baci, e aumentava la sua confusione, stordendolo del suo odore e del ricordo del profumo di Pansy.

Non era così che sarebbero dovute andare le cose.

Avrebbe preferito averla tutta per sé, senza doverla condividere con le incombenze di un matrimonio. Avrebbe voluto fare tutto con più calma. Incontrare di nuovo Pansy Parkinson e fare l’amore con lei come lo avevano fatto la notte prima del funerale del padre di Blaise.

Non c’erano più state altre volte come quella.

 

All’inizio era stata una ridicola lotta tra personalità. Avevano iniziato a farsi una guerra, anticipando quella vera. Avevano conosciuto la frenesia del corpo dell’altro, si erano voluti, avevano preso senza chiedere, supplicato con dei baci, senza darsi il tempo di spiegarsi niente di tutto quello che stessero realmente vivendo.

Con una certa vergogna e un certo rimorso, Draco ricordò di tutte le volte in cui non si erano concessi affatto l’uno all’altro, in cui avevano perseguito il proprio egoismo, una volta lui e una volta lei. Erano inesperti e a nessuno dei due piaceva esserlo. Volevano bruciare le tappe, scoprire tutto quello che c’era da scoprire, avvolgersi l’uno nell’altra per estraniarsi da tutto il resto.

Si rifugiavano in una passione quasi ferina, senza leggi e senza compromessi.

Ma quella volta, era stato completamente diverso.

Voleva chiederle se per caso se ne ricordasse anche lei, ma poi aveva avuto la conferma che fosse così.

Nel modo in cui erano finiti contro quel muro, echeggiava il dispiacere di non poter avere una notte come quella ancora per loro.

Reclinò la testa contro il muro, a notte fonda, unica macchia di colore nel buio della notte, serrando tra le labbra il filtro della sigaretta, come se fosse la bocca di Pansy.

 

Draco.

Era stata la prima volta che lo aveva chiamato per nome. Le sue gambe magre erano strette intorno al suo corpo, e lui ormai era del tutto perso in lei, e Pansy aveva pronunciato il suo nome in un modo che mai avrebbe potuto dimenticare, da farlo sembrare una parola nuova, con un suono diverso, altre lettere, altre consonanti, un’altra storia, diversa, migliore.

Draco.

Le sue labbra vagarono sul viso di lei, cercarono le sue labbra, in una carezza, recuperandovi il proprio nome e con quello una parte di sé.

La bottiglia di vino era ancora sotto il letto, vuota, e loro ubriachi e tremanti, perché faceva freddo e il camino era lontano, le coperte gelate e i loro corpi nudi. L’inverno non li aveva raggiunti lì dentro però, e gli spilli acuminati del suo gelo si erano sciolti immancabilmente, nel groviglio dei loro corpi, in quell’abbraccio di cui avevano perso l’inizio e la fine, nell’unione delle loro labbra, nel fervore dei loro baci.

Non avrebbero mai avuto un’altra notte così, ma in quel momento si sentirono invincibili, belli e padroni di un mondo che di fatto non sarebbe mai esistito. Era tutto racchiuso in quella stanza.

Volarono parole incredibilmente sincere e irresponsabili che entrambi finsero di dimenticare il giorno dopo, perché troppo imbarazzati e un po’ spaventati.

Quella mattina Pansy gli era sembrata forse persino più bella della sera prima. Nuda dormiva al suo fianco, rannicchiata tra le lenzuola, appena scostata da lui. L’aveva guardata per un po’, senza trovare il coraggio di svegliarla, perché non avrebbe saputo cosa dire né mascherare tutte quelle sensazioni che si agitavano in lui.

 

Quando la luce dell’alba si fece largo tra la pesantezza della notte, la sigaretta era finita e giaceva ai suoi piedi, consumata, e Draco si sentiva un po’ come quella sigaretta.

Aveva in mente Pansy e il modo in cui avrebbe occupato il letto a Nott Manor.

La immaginò svestita, attorcigliata tra altre lenzuola, e trovò il pensiero insopportabile.

 

●●●

 

I think it's strange you never knew
A stranger's light comes on slowly
A stranger's heart without a home
You put your hands into your head
and then smiles cover your heart
Fade into you
Strange you never knew
Fade into you

[Fade into you – Mazzy Star]

 

 

Millicent si lasciò condurre docilmente, senza opporre resistenze.

Blaise assecondò i suoi movimenti invitandola con un gentile distacco a stendersi sul letto, e si preoccupò di tirare le tende nella sua camera, perché la luce della mattina non la svegliasse di lì a poche ore.

Nessuno gli aveva insegnato a prendersi cura di una donna o di qualsiasi altra persona, era stata una sua spiccata propensione naturale, a partire dal culto di sé, dal piacere del prendersi cura di se stesso per arrivare ad attenzioni di quel tipo, se riteneva l’altro all’altezza del suo tempo prezioso.

Forse per questo era facile scivolare nella trappola del suo fascino.

Perché era incredibilmente bravo a lusingare qualsiasi donna, e a dare davvero quello che prometteva a parole e con un sorriso. Le sue premure duravano poco, come succede per ogni cosa bella, e si allontanava dai brevi idilli con la solita eleganza, senza lasciare alcuna traccia di sé.

A volte sembrava che niente fosse successo e che tutto non fosse stato altro che un sogno.

Era un po’ il pensiero di Millicent, relegato orgogliosamente dietro le palpebre chiuse.

Non riusciva a tenere gli occhi aperti, la testa le girava incredibilmente.

«Blaise».

La sua voce risuonò flebile e impastata come quella di una bambina che cerca di vincere il proprio sonno per non perdersi i discorsi interessanti degli adulti.

Blaise si voltò a guardarla, gli occhi verdi screziati dalla spossatezza della serata.

«Sì?» domandò temendo domande scomode e richieste inappropriate.

«Theodore sopravvivrà».

«Alla noia di se stesso?»

La sua voce era morbida e calda, e si insinuò tra le coperte sotto cui si era rifugiata Millicent, accarezzandole l’orecchio. Ma lei era troppo stanca, troppo assorta dai suoi pensieri e dalla presenza di lui e troppo ubriaca per poter afferrare il suono argentino della sua ironia.

«Sopravviviamo sempre tutti a chi non ci ama».

Pur volendo, non avrebbe mai trovato né la forza né il coraggio di smentire la certezza già fragile di quella sua convinzione.

Millicent aveva ancora gli occhi chiusi, su di lei veleggiava in pace la quiete del sonno e tutto quello che avrebbe desiderato era che Blaise le desse ragione e dividesse quel sonno con lei, nel silenzio della notte, fino al giorno successivo. Ma non fece niente per convincerlo a restare, fingendosi più ubriaca di quanto fosse, perché un rifiuto le avrebbe spezzato il cuore, e perché certe cose sono semplicemente troppo perché lei potesse sopportarle. Avere Blaise Zabini a tal punto vicino a sé, sarebbe stata una di quelle.

Perciò si voltò su in fianco, tirando con sé la coperta, e si seppellì lì sotto, lontana dalla profondità dei suoi occhi. Poco dopo dormiva davvero, e quello che forse avrebbe preferito non perdersi, non raggiunse mai il caldo nascondiglio del suo sonno.

«Vorrei poterti dire che è così e che è questo che ci basta. Che ogni ferita trova la sua cura, che sia possibile riparare ogni strappo».

Si passò una mano sugli occhi stanchi, premendo per cancellare la stanchezza che si sentiva addosso, il peso dei sorrisi distribuiti in società, il sapore dolce e fuorviante dello champagne e quello stucchevole che Miss Sheridan gli aveva lasciato impresso sul colletto della camicia.

«Che una mattina ti alzi e ritrovi tutto come lo avevi lasciato prima che la realtà e i suoi conflitti invadessero il tuo spazio vitale. Che Pansy torni al posto che aveva prima, che Draco recuperi suo padre e quel pezzo di sé che gli manca. E che quello che condividono possa bastare ad entrambi. Però non funziona Millicent».

Chinò la testa, i lineamenti del suo viso contratti nello sforzo di far fronte alla sconfinata desolazione della notte e dei silenzi che lo aggredivano nella sua vita.

 

I could possibly be fading
or have something more to gain
I could feel myself growing colder
I could feel myself under your face
Under your face

[Into dust – Mazzy Star]

 

La guerra era arrivata di colpo, nessuno era stato interpellato, tutti avevano pagato le colpe delle scelte sbagliate o poco avvedute dei loro genitori, e lui aveva l’espiazione di una madre e sette padri a cui fare fronte.

Aveva creduto che tutto il bello che c’era nel mondo fosse sufficiente a convincerlo a non morire in quello scontro ad Hogwarts, era rimasto lì per un po’, troppo a lungo in realtà, convinto di poter vestire quel ruolo come tutti gli altri che aveva adattato alla misura del suo ego e allo splendore della sua presunzione.

Invece era stato vinto, sconfitto, calpestato, dalle deformità della vita vera, dalla crudezza della morte ingiusta, dall’odore di sangue e sudore, di carne bruciata. Il suo udito abituato alla più fine e delicata delle opere classiche era stato ferito e squarciato da grida che non avevano niente della fierezza dei grandi condottieri, e neanche dell’eco maestoso di un principio per cui morire. 

Era solo terrore e qualche preghiera, e suppliche di una pietà che mai era arrivata.

Aveva visto il castello crollare, uomini piangere come lui credeva non fosse possibile.

E lì in mezzo aveva perso ogni contatto con quello che era prima, in quella carneficina si era sentito strappare via con un dolore acuto, lancinante, per quell’attimo insopportabile, la sua scorza di uomo, il suo guscio di umanità.

Quello a cui era riuscito a pensare erano stati Pansy e Draco.

Era rimasto solo per loro, per il desiderio di ritrovarli e di conservarli per sempre, come monito a quello scempio di ferinità, come eterno ricordo di Blaise Zabini e del suo essere uomo, come prova e controprova della sua capacità di avere un sentimento e di provare amore per qualcuno, tanto da pensare di essere in parte già morto se uno dei due avesse anche solo osato precederlo.

«Non basta sopravvivere a chi non ci ama per vivere davvero.

Neanche lontanamente».

La voce spezzata da un dolore stanco ma in lui mai sopito da allora.

Non aveva raccontato a nessuno quello che i suoi occhi avevano visto e le sue orecchie ascoltato.

Non c’erano parole adatte né gesti giusti per raccontare della morte di qualcuno.

Aveva pensato di poterci provare, di concedersi un tentativo, quando si sentiva soffocare dalla polvere di quel ricordo, a tal punto da non riuscire a fingere la solita seraficità di sempre. Ma anche allora non aveva mai trovato il giusto modo che gli consentisse di spiegare quanto successo senza che lui stesso si spezzasse di nuovo. Allora ricacciava indietro tutto quanto, e diceva a Pansy di aver bevuto un po’ troppo la sera prima, e che le sigarette di Warrington avevano sempre quella punta di illegalità da confonderti i sensi al punto giusto.

 

Invece di dirle che quella sconosciuta gli era caduta ai piedi, e i suoi capelli neri si erano sparsi per terra proprio nello stesso identico modo in cui quelli di Pansy cadevano sulle sue spalle o sul bracciolo del divano nella Sala Comune la sera dopo cena.

A quella guerra Blaise Zabini non era sopravvissuto, ma era un segreto di cui lui solo era al corrente.

Pansy non avrebbe mai saputo che lui l’aveva vista morta per una terribile frazione di secondo.

Né che replicava quell’immagine, insieme a tutte le altre, molto spesso e che non c’era sollievo che Warrington potesse offrirgli perché quell’immagine scomparisse per sempre, invece che offuscarsi solamente.

Quando un raggio di luce colpì un lato della sua faccia, infiltrandosi nella fessura delle tende, Blaise seppe che era arrivata l’alba, che la notte era finita ed era solo un altro giorno. Si sollevò dal divano, lasciando correre le mani tra i capelli, e assestando il proprio respiro. I muscoli tesi si sciolsero lentamente, mentre estrasse una sigaretta, di quelle realmente magiche di Warrington, e la portò alle labbra.

Poi recuperò la propria giacca e uscì da casa di Millicent, evanescente come suo solito.

Se non fosse stato per l’odore di fumo, Millicent avrebbe creduto che si fosse trattato di un lungo viaggio della sua immaginazione, da raccontare a Pansy a colazione.

 

●●●

 

Maybe I'll just place my hands over you
and close my eyes real tight
There's a light in your eyes
and you know, yeah, you know
Look on down from the bridge
I'm still waiting for you

[Look on down from the bridge – Mazzy Star]

 

 

Quando si alzò, vincendo il torpore della sua sbornia, Millicent scoprì che Pansy aveva anticipato le sue mosse. Anche se più che in anticipo per la colazione era arrivata puntuale per il pranzo.

«Pansy».

Mormorò allargando gli occhi per abituarli alla luce del giorno.

«… Blaise è stato qui».

Soggiunse subito, riconoscendo l’odore di fumo, rimasto impregnato nel salone, a finestre chiuse, nella notte.

«Il tuo animagus qual è Millicent, un cane da tartufo?»

Domandò sferzante Pansy, passando oltre il piccolo dettaglio che Millicent non aveva ancora trovato il suo animagus da compagnia.

L’odore della tavola imbandita per il pranzo fu qualcosa di disgustoso al suo olfatto sensibile, e prima che potesse dare spettacolo di pessime scene, Pansy ordinò ad un elfo di passaggio che fosse portato via e sostituito con del tè. Per correggere la deplorevole gentilezza del gesto, si accese una sigaretta anche lei.

«E’ troppo chiedere cosa è successo ieri notte?».

Pansy la guardò per qualche istante, espirando una voluta di fumo.

«Avete fatto l’amore tutta la notte, dopodiché lui ti ha lasciato un anello di matrimonio nascosto sotto il ficus del salone. Ovviamente doveva essere una sorpresa».

Millicent le lanciò un cuscino, gettandosi sul divano dove era certa ci fossero ancora tracce di lui.

«Abbiamo parlato, se è per questo» protestò pur consapevole di non ricordare molto.

Pansy le lanciò un’occhiata incuriosita, o così sembrò.

«Di?»

«… non mi ricordo molto bene. Devo aver detto qualcosa su Theodore e lui—».

Pansy deviò la traiettoria del suo sguardo, spegnendo la sigaretta con un gesto nervoso.

«Ma adesso stai meglio, noto» tagliò corto interrompendola senza fingere che il discorso non le desse fastidio.

Millicent ammutolì lanciandole uno sguardo chiaramente offeso. Come sempre Blaise era a conoscenza di particolari piccanti che a lei non sarebbero mai stati riferiti. Eppure era la fedeltà fatta persona, se non si parlava di sua cugina Elenoire.

«Benissimo grazie. Dov’è il tuo anello di fidanzamento?»

Domandò a sua volta cambiando argomento bruscamente. Pansy portò lo sguardo alla propria mano sinistra, libera da anelli, immacolata.

«Impigliato tra i capelli di Draco? Perso nelle oscurità di un corridoio?».

«L’ho venduto per riacquistare la mia libertà».

Per un lungo istante Millicent pensò di poterle credere.

Poi il significato di quel sarcasmo e il languore inquieto negli occhi di Pansy le ricordarono che quel fuggire a scomode verità era una specialità di Pansy Parkinson. 

«E’ bello».

Rivelò infine, a voce troppo bassa perché fosse entusiasta. Millicent portò alle labbra la tazza di tè, scottandosi la lingua come sempre.

«L’anello?».

«Adamantino».

Come sempre ebbe la sensazione che Pansy parlasse con lei come ad uno specchio in realtà.

«Pregiato, immagino».

«Sopraffino».

Millicent cercò di alleviare il dolore con un biscotto.

«Beh, lui ha sempre avuto buon gusto» osservò salottiera.

Pansy perse il suo ultimo commento, impegnata a soffocare di nuovo il pensiero di lui.

«Fossi in te, a questo punto, ne farei pubblico vanto. È tuo».

Pansy la guardò allarmata e quasi timidamente, come a lei non si era mai rivelata.

Per la commozione, Millicent intinse un altro biscotto nel tè, fingendo che vi fosse caduto.

«Sarebbe un po’ sconveniente per entrambi».

Ad un passo dall’addentare la pasta friabile del pasticcino, Millicent si fermò.

«Oh. È animato da sentimenti?».

Pansy levò su di lei uno sguardo spazientito.

«Merlino Milli, perché devi sempre essere così sentimentale?».

«Io?» domandò indicandosi e mandando giù il biscotto con aria offesa. Strana affermazione pronunciata da una che decantava da lunghi minuti le lodi del suo anello di fidanzamento, parlandone come se fosse la quint’essenza del principe azzurro sfavillante nel suo esotico erotismo.

Fu allora, che si concesse il beneficio del dubbio.

«… ed è stato bello?» azzardò facendo la prova del nove.

Pansy sollevò di scatto la testa, alzandosi in piedi per accendersi un’altra sigaretta.

«Non sono affari che ti riguardano».

Un sorriso beffardo dipinse il volto di Millicent, consegnandole il premio di un altro biscotto.

«Lo immaginavo».

L’altra le rivolse un sorriso di scuse che durò poco sul suo viso, poi finì la sua sigaretta e le annunciò che aveva una lunga giornata a disposizione da occupare nel tentativo di sfuggire a suo marito.

 

 

What’s next

 

«Potresti non usare la parola sposa?»

«E tu, potresti far sparire quella fede?»

 

«Potresti smettere di fissarmi?»

Domandò con un mezzo sorriso sulle labbra che tradì il fastidio nella sua voce.

 

Thanking:

 

Entreri: grazie e speriamo bene! Sono un po’ distratta ultimamente, non giova molto alla mia preparazione XD Svelato il mistero su Blaise? =P L’edonismo non è tutto per quanto gliene dispiaccia! Un bacio.

B e r t a: Grazie ^__^ Li amo molto anche io XD

sweetchiara: tranquilla :* io l’ho presa non so quante volte questo inverno u.u è tappa fissa ogni anno (invece purtroppo gli esami sono tappa fissa ogni tot mesi XD). Me lo chiedo anche io cosa faranno in effetti, il fatto che ci siano dei matrimoni di mezzo non è molto d’aiuto, ma sapranno confidare nelle loro doti Slytherin… sennò che ci sono finiti a fare tra i pupilli del buon vecchio Salazar? =P / OT musicale: sì, David Bowie *___* altra passione viscerale. Quella di questo chap l’ho scoperta dal film di Bertolucci Io ballo da sola e l’ho amata subito subito *_*

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Capitolo 8
*** VIII Confessioni ***


The way we were

VIII

Confessioni

Why is the bedroom so cold
turned away on your side?
Is my timing that flawed,
our respect run so dry?
Yet there’s still this appeal
That we’ve kept through our lives
Love, love will tear us apart again

[Love will tear us apart, Joy Division]

I coniugi Parkinson da sempre vivevano un terribile dissidio interiore, causatogli dalla smania di essere al vertice d’onore della scala sociale, immancabilmente castigata dalla contingente impossibilità ad arrivarci. Loro figlia aveva cercato di prendere le misure da loro quanto prima le fosse possibile per mettere in salvo una parvenza di composta dignità, e le era riuscito discretamente bene.

Il matrimonio con i Malfoy era probabilmente l’unica idea che li trovava d’accordo.

Almeno per il breve tempo che era durata, prima che suo padre ritenesse una mossa poco saggia imparentarsi con loro dopo la performance di Lucius Malfoy.

Agli occhi di Pansy, Lucius Malfoy non era altro che un bell’uomo, di cui era stata previdibilmente innamorata a suo tempo, ma non incarnava niente più di quello e la sua pericolosità non la sfiorava neanche minimamente. Dopo il classico melodramma infantile di un amore segreto e struggente per l’uomo più grande sposato con la donna più bella, ebbe la sciagurata idea di rivolgere lo stesso tipo di sentimenti verso suo figlio.

E anche in quel momento, nel dividere il letto con lui, Pansy ritenne che tra le due cose, sarebbe stato di certo meno deleterio per lei continuare ad amare in segreto Lucius Malfoy. Probabilmente sarebbe stato anche più scaltro nel gestire una relazione clandestina che non suo figlio. O forse lo stava solo mitizzando, dopotutto il gene era sempre lo stesso.

«Potresti smettere di fissarmi?»

Domandò con un mezzo sorriso sulle labbra che tradì il fastidio nella sua voce.

Draco non prese neanche in considerazione il suggerimento, guardandola con un’espressione divisa tra la meraviglia e un innegabile divertimento.

«Da quando ti dà fastidio che lo faccia?» la rimbeccò e Pansy non dovette inventarsi strane arti divinatorie per indovinare quello a cui stava pensando. In tutti gli anni di Hogwarts era stata scostante e sgarbata con lui, a dispetto delle sceneggiate a cui si lasciava andare in pubblico.

Poteva adularlo con lo sguardo in qualunque situazione, ma nel privato delle loro conversazioni non c’era niente di quello che lui facesse o pensasse che non passasse sotto il vaglio critico di Pansy Parkinson. Sarebbe stato difficile per chiunque li conoscesse in quelle vesti immaginare che lei potesse nutrire dei sentimenti tanto sinceri nei confronti di Draco, e lei preferiva che il resto del mondo la ritenesse una seccante arrampicatrice sociale.

«Da quando sei diventato così esplicito» ammise candidamente, stavolta non senza una punta di imbarazzo. Gli occhi di Draco si velarono di ironia e tenerezza, e lei credette per un momento di esserselo immaginato.

«Scusa, ti ho rovinato il gioco».

Pansy rise delle sue parole, e la risata si spense in un sospiro nel sentire le sue mani sulla pelle. Le stesse mani che poco prima l’avevano privata di qualsiasi pudore o buonsenso e che ormai conoscevano tutto di lei, il permesso e il proibito, il conosciuto e il segreto.

Erano le stesse che si erano poggiate goffamente sui suoi fianchi al Ballo del Ceppo, la prima volta che avevano ballato insieme. Erano pessimi entrambi, e l’eleganza innata delle loro figure, e la stoffa pregiata dei loro vestiti, aveva nascosto ad occhi disattenti l’incertezza delle loro movenze.

«Quando mai tu giochi secondo le regole?» gli fece notare fermando la sua mano e guardandolo dissacratoria. Lui valutò che avesse ragione ma non perse tempo in un’arringa di difesa. Le proprie colpevolezze con Pansy si dimezzavano del loro peso.

Era lì, che lo guardava ancora con la stessa dolcezza negli occhi che non sapeva di avere, a cui lui non aveva voluto credere fino a quando non era riuscito a strapparle subdolamente la conferma della sua sincerità. Su quella torre avrebbe potuto uccidere un uomo, eppure lei lo avrebbe amato lo stesso, si era detto tempo dopo. Aveva iniziato ad amarlo da ben prima che uccidesse qualcuno.

«Rare volte».

Le sue mani tornarono impudenti esattamente dove erano prima, e questa volta Pansy assecondò la sua richiesta. Le sembrava che tutti i baci dati e ricevuti, presi senza permesso e immaginati al buio della sua stanza, non valessero niente in confronto a quelli attuali. Sapeva quanto tutto quello fosse sbagliato, scorretto nei confronti di altre persone, e soprattutto pericoloso e impietoso nei riguardi di se stessi.

Erano in quella camera da letto, nella residenza estiva dei Parkinson, e avevano chiuso il mondo fuori per non guardarlo in faccia. Ma il languore dei loro baci e la voluttà di quella tenerezza non sarebbero valsi a confortarli quando la crudeltà della vita reale li avrebbe richiamati ai loro ruoli.

Chiuse gli occhi su quel pensiero e sulle labbra di Draco sul suo collo.

«Cosa stai pensando?».

Le scivolò un sospiro sulle labbra, sentendolo allontanarsi da lei.

Puntò lo sguardo su di lui, i propri occhi raccontavano del suo desiderio per lui e del rimpianto per il tempo perso, per i sogni sprecati, per le occasioni mancate e quelle che ostinati si erano lasciati sfuggire solo per orgoglio.

«Nessuna sposa è mai andata in ritiro spirituale».

Nella sua voce risuonò una durezza che Draco non aveva previsto.

Avevano trovato delle scuse che erano sembrate ottime sul momento. Probabilmente Daphne Greengrass in quello stesso istante era dedita ad istruire sua sorella sugli inganni del matrimonio e sulla scarsa rettitudine morale di suo marito – proprio lei, da che pulpito – e Theodore Nott storceva il naso guardando la bottiglia di brandy nella sua riserva di liquori.

Cercava di non pensare a Theodore Nott, disabituato a sentimenti tanto intensi di odio per qualcuno.

L’ultimo a cui li aveva rivolti era stato Potter e il suo perfezionismo, la sua capacità di agire bene nel fare del bene, uscendone bene e ricevendo in cambio tutto il bene delle persone che gli erano intorno. Era stata invidia e senso di inadeguatezza, nei suoi confronti, ma poi un giorno l’odio era sparito, sommerso dalle incombenze di ben altri problemi molto più personali di quella sfida a senso unico con Potter.

Sposando Astoria aveva scoperto che è possibile vivere in un mondo ovattato. Dei sentimenti gli giungeva solo l’eco lontana e indistinta. Poi era tornata Pansy Parkinson, e aveva tirato fuori dal segreto in cui li aveva relegati tutta la violenza dei sentimenti e l’intensità di un bacio; il bruciore nello sguardo di due occhi ardenti; la docilità di una carezza, il calore di un corpo addormentato vicino al proprio. Il profumo inebriante, il languore di un sospiro e la malizia di un sorriso.

Era tornato a giocare con il proprio corpo, a ridere di sé, a correre lungo il filo di una provocazione, in un richiamo di passato e presente. Aveva riscoperto la frustrazione nel non sentirsi appagato di qualcosa, aveva persino ricordato il dolore sordo del congedo da lei, quando doveva lasciarla andare e tornare alle vesti di marito impegnato.

«Potresti non usare la parola sposa?» si ritrovò a dire, cercando di arginare la rabbia per quel pensiero in uno sguardo indisponente.

Pansy si voltò a guardarlo, compiaciuta e infastidita.

«E tu, potresti far sparire quella fede?» replicò glaciale non potendo fare a meno di posare gli occhi sulla sua mano sinistra.

Draco sentì la propria mano quasi bruciare, andare in fiamme e poi farsi terribilmente pesante, come del resto era la sua vita negli ultimi tempi. Grigia e pesante.

Scese il silenzio, sui loro corpi nudi, avvolti nell’abbraccio di un lenzuolo; su quella camera da letto, sulla loro incapacità di confessarsi onestamente, sulla tristezza degli occhi di Pansy e la tensione disegnata sul corpo dell’altro.

Non riusciva a capire come fosse possibile cercarsi così tanto e non riuscire a stare insieme.

«Me lo rinfaccerai molto a lungo?» le chiese sarcastico e volutamente maligno. Draco Malfoy e le sue difese.

“Per sempre” avrebbe voluto rispondere Pansy, ma sapeva che non avrebbe detto la verità.

«No, sei abbastanza vittimista di tuo, non sopporterei di darti un altro pretesto per esserlo».

La sfacciataggine delle sue parole colpì lì dove nessuno osa mai addentrarsi arrivando tanto lontano, nell’orgoglio di un Malfoy. Draco la guardò senza poter sollevare polemiche o accomodate giustificazioni. Il vittimismo era stata la tattica con cui aveva scelto di vivere e Pansy Parkinson gli stava rivelando – impietosamente svestita, al suo fianco – di averlo scoperto da lungo tempo.

«Mi compiaccio del mio vittimismo al confronto della brillante acutezza di tuo marito».

Replicò volutamente sarcastico e diretto, irrispettoso e maligno come solo un Malfoy si sarebbe potuto rivelare, senza perdere il minimo cenno di eleganza nella sua loquacità.

«Theodore è molto più di quello che sembra» mormorò lei a mezza voce, perdendo lo sguardo sul bianco delle lenzuola. Draco si lasciò cadere drammaticamente di schiena, con un sospiro da esperto attore di teatro. Pansy cercò di ignorarlo ma le risultò piuttosto difficile.

«Questo non ci tenevo a saperlo».

«Idiota» tagliò corto lei, colpendolo sul braccio senza alcuna remora. «Sto cercando di dire che non è meno furbo di noi e che di sicuro non ha creduto a quello che gli ho raccontato. Chiunque avrebbe capito che più di un ricongiungimento familiare si trattava di una fuga».

Tornò seduta, volgendo le spalle a Draco, perché guardarlo negli occhi in quel momento non le sarebbe stato possibile. Sentiva che qualcosa le stava sfuggendo di mano e per la prima volta in tutta la sua vita, Pansy Parkinson temette di non essere in grado di gestire una situazione.

Era stata un ottimo e terribile prefetto. Aveva amministrato la giustizia ad Hogwarts secondo canoni tutti suoi ma all’interno del codice d’onore Slytherin niente era mai sfuggito alla sua fredda intransigenza. E adesso doveva stringere le lenzuola sotto le dita per impedirne il tremore, e controllare la propria voce nella speranza di non lasciar trapelare il bisogno e l’illusione di cui erano colme le sue parole.

«Pansy».

La voce di Draco era decisa e consapevole. La gravità con cui l’aveva chiamata per nome non fece altro che darle la certezza della fine dell’idillio, per quella giornata. Non cedette al suo richiamo. «Pans». Lo sentì muoversi, il letto assecondava le sue movenze. Il suo respiro caldo le sfiorava il collo, confuso al profumo e all’odore del suo corpo, e dovette fare un ulteriore sforzo per non abbandonarsi alla conturbante presenza di Draco.

«Allora perché non è qui?».

«Questo non sarebbe una garanzia».

Un sorriso increspò la preoccupazione nei lineamenti del suo viso.

Draco scavalcò il muro della sua testarda convinzione che esistesse ancora qualcosa di giusto ed ingiusto nel loro mondo, e la raggiunse sull’altro lato del letto. La vide sorridere e qualcosa lo attraversò, tagliente come una lama, veloce e puntuale. Conosceva già le parole che le avrebbe sentito dire. Erano quelle per cui cercava di chiedere scusa nel fare l’amore con lei ogni volta, forse, cercando l’unica redenzione per cui avesse un reale e umano interesse nell’ottenerla.

«Noi Slytherin manchiamo sempre ai nostri appuntamenti».

●●●

We fought for good, stood side by side,
our friendship never died.
On stranger waves, the lows and highs,
our vision touched the sky.
Immortalists with points to prove,
I put my trust in you.

[A means to an end - Joy Division]

Il problema dell’essere avvezzi al buon sapore di brandy e qualsiasi altro suo degno surrogato, è che si finisce con il precludersi il piacevole sollievo dell’oblio di una sbronza.

Peccato, perché ne avrebbe di certo tratto giovamento, pensò Blaise aprendo la finestra della propria camera da letto e apprestandosi ad accendere una delle ottave meraviglie dei sensi appena importata da Warrington.

Ricordava tristemente quanto avvenuto nella camera da letto di Millicent. Anche se non si era trattato di qualcosa che compromettesse la sua rispettabile immagine. Tuttavia quando Pansy Parkinson piombò nel mezzo della sua camera da letto quella sera, si ricordò di maledirla per l’oneroso incarico che gli aveva affibbiato qualche sera fa.

«Pans» la salutò serafico, in una nuvola di fumo dolciastro.

Lanciando mantello e accessori femminili sul bordo del letto lei gli si fece vicina.

«Gli affari di Warrington vanno a gonfie vele» commentò lanciandogli uno sguardo confuso nel pensiero di doversi preoccupare dell’assiduo scambio di merci tra lui e Blaise.

Lui cancellò con un sorriso l’indugiare di Pansy, tirandola a sé con un gesto che per chiunque altro sarebbe stato brusco e scortese. Pansy cedette all’invito, lasciando che lui le porgesse la sigaretta, abbandonandosi alla memoria di tempi antichi, fatti di ore spese in una stanza chiusa dispersa tra le mura di Hogwarts con Blaise e Draco.

«Theodore sarà felice di sapere che passi nelle camere da letto di chiunque tranne che nella vostra» aggiunse poi dedicandole un sorriso di dispettosa malizia tutto per lei.

Pansy valutò la possibilità di ucciderlo o di ignorarlo, finendo per sottrargli la sigaretta e lanciarla nel camino spento.

«Sei di ottimo umore».

Blaise non si scompose, alzando le spalle alla misera fine della sua compagna per la serata. Del resto sapeva perfettamente che Pansy non avrebbe perso tempo nel sentirsi in colpa, dandogli una soddisfazione di quel genere.

«Devo affaticarmi a parlare del tuo?» domandò schiettamente lei, dandogli la certezza di non aver dimenticato né la sigaretta, né la sua provenienza.

«Se è colpa delle misere prestazioni di Draco—» proseguì lui con il solito sarcasmo irriverente, senza risparmiare mai niente a nessuno, soprattutto al suo migliore amico. Pansy lo tacitò con un’occhiata, abbandonandosi sul letto.

Guardandola di soppiatto nel cercare la propria camicia, Blaise pensò alla naturale dimestichezza con cui Pansy si destreggiava nella sua vita. Nessuna aveva mai saggiato la comodità del letto del signor Zabini con ancora i vestiti addosso, e nessuna aveva mai avuto il tempo di chiudere gli occhi e svegliarsi in quello stesso letto il giorno dopo.

Eppure era lo stesso letto che aveva ospitato il loro strano trio. Un marchingegno fascinoso, a quanto poteva leggere negli occhi degli altri intenti a guardarli pateticamente di nascosto, dai meccanismi sconosciuti e incomprensibili, e per questo silenziosamente temuti.

Rise di sé facendo ben attenzione a non darne conferma a Pansy.

Certe volte Blaise Zabini riusciva persino a convincersi di avere bisogno di una vacanza. Per quanto il termine vacanza richiami l’opposto concetto di lavoro, a cui lui era indecentemente estraneo quasi da sempre.

«Blaise».

Non si premurò di risponderle, finendo di abbottonare la camicia. Pansy non chiedeva quasi mai il permesso di fare qualcosa e del resto era implicito che in qualche parte remota della sua impegnatissima agenda di libero pensatore, Blaise le concedesse una minima porzione di attenzione.

«Sarai il mio testimone».

Se solo non si fosse trattato di Pansy Parkinson, Blaise avrebbe osato dire che nella voce con cui pronunciò quel verdetto, tremava un pianto antico e sotteso.

«Sono stato testimone di molte cose» replicò allusivo.

Anche della sua morte, se proprio ci teneva a saperlo, ma relegò quel pensiero sul fondo della sua mente, occupata con altri edonistici pensieri, avvolti nella solita raffinata ironia.

«Allora inserisci le mie nozze nella lista».

Pansy si voltò a guardarlo e nei suoi occhi riluceva la più dolorosa e ingiusta delle determinazioni.

Blaise considerò l’idea di ignorare quanto sentito, di mettere fine al discorso con una risata e brindare al sarcasmo Slytherin, che si diverte sempre a costruire abili castelli di carte truccate.

«Immagino che ci sia dell’altro da aggiungere» mormorò invece, scoprendo di avere ancora la voce impastata dal fumo e affievolita dalla reticenza a parlare di un argomento che a lui sembrava fin troppo scabroso.

«Non dirmi che non lo avevi messo in conto».

Pansy gli rivolse un sorriso sornione, scoprendo una punta di divertimento insperata. Di fronte a quel sorriso, Blaise scoprì con suo sommo disappunto di non avere più la forza di fare altro.

Avrebbe voluto chiederle il perché di quella scelta e confidarle di essersi persino concesso il lusso di sperare in una soluzione più avveduta da parte sua. Avrebbe preferito sbatterle in faccia la propria delusione nei suoi confronti e rivelarle che con quella assurdità stava tradendo la fiducia che aveva riposto in lei.

Blaise Zabini era un ottimo amante e un baro sopraffino, e forse un giorno sarebbe stato persino un esemplare marito per una moglie annoiata, che gli avrebbe concesso gli spogli della sua beltà e l’autorizzazione a vivere in assoluta libertà da reciproche obbligazioni affettive.

Ma se c’era qualcosa che davvero non era in grado di fare, era accettare a testa bassa qualsiasi tipo di resa.

In quel momento comprese di aver riversato in Draco e Pansy tutto il sentimento di cui poteva ritenersi capace e la sola idea che entrambi potessero anche solo concepire di buttare via la loro occasione di felicità in quel modo barbaro e primitivo – per timore – lo faceva sentire l’ultimo relitto sulla terra. Il naufrago che vede salpare l’ultima nave ed è costretto a prendere atto che d’ora in avanti regnerà solo il silenzio della solitudine.

Ricacciò indietro quel tumulto di pensieri, scuotendo la testa mentre cercava un’altra sigaretta, persa in qualche meandro della camera da letto.

Solo quando la risposta di Pansy al suo silenzio risultò altrettanto muta si decise a volgere lo sguardo su di lei, riconoscendo l’involucro di una sigaretta tra le sue dita sottili.

«Mettere in conto che ti sposassi sul serio?» rispose infine, raggiungendola sul letto.

Le porse la mano, conciliatorio.

Pansy accentuò il sorriso, accendendo la sigaretta.

«Che Millicent sarebbe stata la mia damigella d’onore».

«Sono un uomo fuori dal comune, Pans, non mi abbasserei mai a confermare un banale e pretestuoso luogo comune riguardo a testimoni e damigelle».

«Millicent non se lo aspetta, infatti» osservò lei, serafica. Blaise le sottrasse con gentilezza la sigaretta, con una cautela che la fece sorridere e al tempo stesso le inondò il cuore di un affetto da cui rare volte si lasciava pervadere.

Nel tumulto della guerra, e nelle difficoltà della loro vita, sempre in salita a dispetto degli scenari che si ostinavano a dipingere perché le allodole vi si specchiassero, Pansy aveva sempre avuto le sue piccole certezze, e queste la facevano sentire a casa anche quando era stata fatta terra bruciata intorno a lei.

Una era quello strano sentimento per Draco, incoerente e inarrestabile, temuto eppure di incredibile conforto. L’altra era quell’incondizionato affetto per Blaise, che lui le aveva strappato con la forza dei suoi sorrisi e l’ironia delle sue parole in quei lunghi anni di conoscenza.

«E’ per questo che è innamorata di te» proseguì in uno slancio di sincerità.

Blaise rimase in silenzio, certo di non volerne sapere di più ma in qualche modo incapace e restio a fermare le sue parole.

«Perché sei fuori dal comune».

Pansy chiuse gli occhi, e vide il trascorso della loro vita come fosse un sentiero dove – per quanto si fossero ostinati a cancellarle – fossero rimaste impresse le tracce dei loro passi, a ricordare ad entrambi la fatica e i compromessi a cui controvoglia avevano dovuto cedere, per ottenere la delicatezza con cui dividevano quel letto, alla fine di tutto, in quella camera.

«E conosci il valore di una promessa e sai che vale più di un giuramento, ma sai anche che adempiere è rischioso, perché implica confessare di avere cura di qualcosa. Fare tutto per dovere ci ha sempre messi in salvo, non è vero?»

Non era affatto una domanda, e lui non le rispose.

«Draco può dire di aver dato retta a tutte le scemenze di Lucius perché era suo padre e suo figlio ha il dovere di amarlo e venerarlo e di convincersi che non possa sbagliare. Mai.»

Per quanto quelle parole fossero dure, le labbra di Pansy le raccontavano con una nuova grazia. Come se fosse una storia di cui si conosce la fine, e di cui si è imparato ad accettare la morale.

Blaise ne rimase attonito prima che sollevato.

«Non ci hai mai detto perché sei rimasto ad Hogwarts, durante la battaglia».

La domanda aveva accompagnato gli anni della ricostruzione, in cui tutti e tre avevano cercato di rimettersi in piedi, ma a quel punto Pansy ne parlò come se la domanda in sé fosse già una risposta. E di nuovo Blaise desiderò trovarsi fuori da quella stanza e lontano da lei e dalle sue scomode verità, ma tutto sommato sapeva di non poterlo fare.

«Ma capisco che dovevi farlo. Perché eravamo i tuoi migliori amici e il dogma Slytherin ci ha costretto a giurare fedeltà tra noi tutti».

La storia poi, aveva raccontato di grandi e infami tradimenti tra gli umidi sotterranei della casata Slytherin, ma questo di fronte alla vastità del nulla eterno[*1] della morte non aveva più avuto importanza per nessuno.

«Avresti preferito una dedica o un poemetto in ottave?».

«Non ha più importanza, ormai. Sarai il mio testimone, e io sposerò Theodore Nott perché devo. Perché ho dato la mia parola, e perché Draco ha già dato la sua molto tempo prima di me».

Blaise le rivolse uno sguardo remoto, cercando di scavare nel fondo del suo sguardo, ma gli occhi neri di Pansy Parkinson rimandavano solo il bagliore della rabbia accecante per la scelta a cui era stata costretta.

In quanto a parole date in fatto di matrimoni Blaise sentiva di non avere voce in capitolo. L’esempio che sua madre gli aveva offerto era quello della vanità di una promessa. Nell’eternità dei sentimenti aveva smesso di credere da lungo tempo, preferendo crogiolarsi nella delizia di un lungo momento di piacere piuttosto che in altro.

Sapeva come prendersi cura di una donna e del suo corpo, ma di certo gli era sconosciuto cosa volesse dire coltivare un sentimento.

Per questo per tutti quegli anni aveva osservato incuriosito e sornione Draco e Pansy e i loro sguardi, l’impaccio dei loro movimenti, le loro discussioni e il modo in cui cercavano di imporsi l’uno sull’altro. Era stato forse l’unico testimone del momento in cui la loro guerra era finita, ed insieme erano diventati grandi, accettando in silenzio quello che c’era tra loro.

«Continuo a pensare che preferirei che non ti sposassi».

Pansy riconobbe la sincerità nelle sue parole. Si avvicinò a lui, appoggiandosi contro la sua spalla.

C’era stato un periodo in cui si era sentita forte e sicura di sé, e con lui e Draco aveva portato in giro la lucentezza della loro presunzione, appuntata al mantello, riconoscibile nella piega dei loro sorrisi, vivida e sfrontata negli sguardi che rivolgevano a tutti gli altri.

Ora, accanto a Blaise nel modo in cui lo era stata da sempre, si sentiva fragile e insignificante, come vinta da una vita che non era riuscita a fare sua.

«Anche io avrei preferito che non fossi rimasto durante la battaglia».

Sentì i muscoli di Blaise tendersi sotto la sua guancia, sebbene lui non avesse pronunciato una parola. Non alzò lo sguardo a cercare i suoi occhi, rispettando la sua volontà.

Sapeva che Blaise non si sarebbe mai immaginato di sentirglielo dire.

«Almeno adesso uno di noi tre sarebbe salvo».

Blaise non disse niente, chiuse gli occhi, preda di una stanchezza improvvisa e invincibile.

Si addormentò poco dopo, con il respiro leggero di Pansy contro il collo. Sognò la battaglia di Hogwarts, lo strazio di corpi e urla; rivide il corpo di Pansy cadere ai suoi piedi, abbagliato da una luce che confuse con il candore del suo abito da sposa; sognò di Draco e dei frammenti della loro amicizia, vivendo immagini di ricordi lontani, assaporati con amarezza e nostalgia; ricordò i tempi che aveva riconosciuto come facili dopo aver affrontato quelli difficili; sognò di sua madre e del funerale del suo quinto marito, dello sguardo angosciato di Draco tra le panche della chiesa, della fermezza con cui Pansy gli era stata accanto, già una donna, quando era venuto il momento di coprire la bara con la terra umida. Non aveva detto a nessuno che quel marito numero cinque gli era risultato persino simpatico, eppure aveva avuto l’impressione che in quella calca di sconosciuti loro due sapessero.

Allo stesso modo in cui Pansy aveva sempre saputo che non era affatto sopravvissuto a quella guerra come voleva far credere, e si era offesa della menzogna che aveva cercato di venderle; e allo stesso modo in cui Draco aveva perfettamente capito quanto logoranti fossero i ricordi di quello scontro, ma non era stato capace di vincere il senso di colpa per condividere con lui quei ricordi comuni.

Quando si svegliò era notte fonda, Pansy se n’era andata da un pezzo, dopo aver chiuso la finestra, tirato le tende e averlo riparato con una coperta. Sorrise di quella gentilezza, una sottesa premura, e pensò che sarebbe stato il suo testimone, perché tutto sommato glielo doveva.

What’s next

“Quel bisogno di accudimento e desiderio di cure e attenzioni che è insito in ogni animo Slytherin, e langue improvviso, sopraffacendo qualsiasi buona regola e salda imposizione del loro spartano dogmatismo”.

“A differenza di Pansy, troppo distratta dall’insofferenza per il mondo sociale, Millicent aveva una perfetta memoria per quanto riguardava le fisionomie. E non aveva dubbi che quella fosse la figura di Tracey Davis, nel bel mezzo del salone di Nott Manor”.

Thanking:

sweetchiara: Blaise è un personaggio deleterio, la sua imperfezione è talmente perfetta da renderlo crudelmente fittizio >_< Pensa che bello avere un mini Blaise portatile *_* che ti elogia quando deve, ti sorride quando ti senti l’ultimo sputo sulla terra e sorseggia brandy sul bordo del tuo comodino *_* -> il delirio è sopraggiunto, infine.

Pansy e Draco sono nati per la clandestinità secondo me, a partire dal fatto che clandestini lo sono stati l’uno nei confronti dell’altra per tutto il tempo in cui non si sono dichiarati il loro amore innegabile indissolubile incontrovertibile impeccabile ecc ecc. *_* / Sì, Mazzy Starr is Love (L), ha una voce bellissima e poi la sua musica è così evanescente *__* *ama trovare compatibilità musicali con qualcuno, in genere non le capita u.u* Passata l’influenza? Dai che l’inverno è quasi finito :D

valy88: Noooo non disperarti! XD Capita a tutti, e poi mica crolla il mondo :D Sono lieta che Blaise ti piaccia, qui gli ho dedicato un po’ più di spazio, perché in realtà non riesco a non parlare di lui u.u mi prudono le dita XD E basta scusarsi =P Grazie :* al prossimo capitolo!

Entreri: Lucius è un mio punto debole, non riesco a non amarlo e a non metterlo in mezzo in qualche modo *^^* So che è poco apprezzabile tutto quello che ha fatto ma sono in grado di costruirgli un lungo elenco di giustificazioni XD Sì, Blaise ha il suo bel trauma in effetti, ma le vie di Salazar sono infinite e troverà un modo per venirne fuori :D Gli esami sono di giurisprudenza, a breve saprò se ne uscirò viva o illesa XD I tuoi? Un bacio, grazie per la recensione sempre puntuale =)

Noticina

Nel prossimo capitolo tornerò ad occuparmi anche un po’ delle controparti bistrattate dall’adulterio XD Questo era un po’ di transizione per definire la posizione e il prossimo cambiamento di situazione. Un bacio a tutte, recensitori e non ^_^


[*1]Espressione foscoliana =P

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Capitolo 9
*** IX Dover ***


The way we were

 

IX

Dover

 

 

 

Better ask questions before you shoot
Deceit and betrayals bitter fruit
It's hard to swallow, come time to pay
That taste on your tongue don't easily slip away

[Lonesome day – Bruce Springsteen]

 

Quando Pansy fece ritorno da quello che ormai aveva imparato ad accettare di dover ipocriticamente chiamare ritiro spirituale, Theodore era impegnato in una riunione con suo nonno e lei non si affaticò ad interromperla. Sarebbe stato un ottimo pretesto per infastidire il futuro suocero, ma non era dell’umore adatto per giocare a fare gli Slytherin, e preferì chiudersi nel privato dolore della sua camera da letto.

Una volta chiusa lì dentro scoprì di avere come la sensazione di soffocare, non sapendo scegliere se tra i sensi di colpa – ipotesi poco probabile – la rabbia per tutta quella situazione o il cieco rammarico per la rinuncia a cui si era finta disposta.

«Pansy?».

Millicent l’aveva chiamata con una intonazione cauta e incerta, da dietro la porta.

Pansy valutò seriamente l’idea di fingersi assente, di non lasciarla entrare e di restare da sola in compagnia di un silenzio che per lei sarebbe stato lo stesso molto loquace. Le avrebbe parlato dei suoi dubbi e delle certezze che tristemente erano lungo la sua strada. L’avrebbe obbligata a prendere atto di un futuro ormai non più imminente e se c’è qualcosa che Miss Parkinson proprio non poteva sopportare era sentirsi i polsi in catene.

«Mh?» mormorò quindi, cedendo infine.

Millicent non aggiunse altro, sapendo che la cordiale risposta di Pansy nel suo gergo equivaleva ad un permesso accordato. Dischiuse la porta con una delicatezza che stupì Pansy, trovandola così impropria nell’impaccio con cui Millicent calcava la scena della sua vita.

«Bentornata» la salutò, sedendosi sul letto con un sorriso quasi intimidito.

Pansy indugiò in un sorriso di risposta, che non riuscì a nascondere la malinconia del suo ritorno.

Erano stati i tre giorni migliori dopo lungo tempo, quelli appena spesi con Draco.

Il pensiero recava ancora con sé il brivido dell’incoscienza con cui avevano preso quella decisione, su due piedi e con una irresponsabilità che il loro dogma Slytherin avrebbe punito severamente.

Ma quando lui le aveva preso la mano, chiedendole se era ancora proprietaria di quella residenza sulle lontane scogliere di Dover, quasi dimenticate dal mondo, Pansy si era sentita soltanto se stessa, dimenticando qualsiasi altra appartenenza.

Il disagio con cui aveva accolto quella dimensione era stato cancellato dal bacio con cui lui le aveva chiuso la bocca. Poche ore dopo, nel fare l’amore con Draco, sentiva che niente di tutto quello potesse essere sbagliato. Era stata una sensazione intensa, violenta e avvolgente al tempo stesso. Recava con sé un retrogusto di dolcezza e infinita serenità, mentre lui le baciava le spalle, e accarezzava la pelle, e le sussurrava all’orecchio segreti inconfessabili di cui loro erano i soli protagonisti. Era stato bello come poche cose nella vita.

Scacciò quei pensieri imbarazzata e colpevole, cercando di occultarli a Millicent.

Di nuovo padrona di sé, non fu troppo difficile.

«Grazie. Cosa è successo in mia assenza?» domandò, offrendole un bicchiere di brandy preso in prestito dalla riserva di Blaise. Non si sarebbe offeso.

Millicent – escludendo l’exploit del famoso ricevimento – non toccava un liquore di quella portata dall’ultima festa clandestina organizzata da Pucey ad Hogwarts – di cui aveva per altro portato i postumi per i due giorni successivi – ma accettò l’offerta con l’indecente pensiero che quello era il liquore dove Blaise bagnava le labbra. Nell’accostare il bicchiere alle proprie, si perse per un istante nell’odore di brandy e ingollandone un sorso immaginò che quello fosse il sapore dei baci di Blaise.

Poi tutto quello divenne troppo persino per una Slytherin di seconda categoria come si considerava da sola, e decise di tornare a volgere l’attenzione sull’amica. Con una gentilezza inusuale, Pansy finse di non aver letto sul suo viso tutti i pensieri appena avuti.

«Daphne Greengrass e Adrian Pucey hanno smesso di andare a letto insieme» annunciò con un sospiro di rammarico. Un pericolo in più libero sulla piazza, pronta ad attentare al letto di Mister Zabini.

«Sua madre ha pubblicamente affermato di esserne rammaricata perché Adrian le piaceva. Daphne per dispetto ha subito reso noto il nome del sostituto». Fece una pausa, per creare una certa aspettativa. Ma Pansy era molto presa a cercare qualcosa sul fondo di un cassetto.

«Miles Bletchey».

La sentì ridere, scuotendo la testa.

«Scelta prevedibile».

Millicent alzò le spalle, lasciando ad intendere che l’entità del danno per lei restava invariata. Quando Pansy le domandò se ci fosse dell’altro, lasciò che un colpo di tosse la tradisse. L’altra sospese la sua ricerca, voltandosi a guardarla con aria perplessa e vagamente tesa.

«Theodore e suo nonno si sono dedicati agli affari, questo fine settimana». Le spalle di Pansy si rilassarono.

«Non mi dire» commentò piatta, tirando fuori tutto il cassetto, con una certa stizza. Millicent spostò lo sguardo altrove, sentendo le guance tingersi pericolosamente del colore della sua disfatta.

«Con Tracey Davis».

Sul viso dell’altra comparve un principio di perplessità. A differenza di Pansy, troppo distratta dall’insofferenza per il mondo sociale, Millicent aveva una perfetta memoria per quanto riguardava le fisionomie. E non aveva dubbi che quella fosse la figura di Tracey Davis, nel bel mezzo del salone di Nott Manor.

«Ora è nell’ufficio di Theodore» sputò tutto d’un fiato, versandosi dell’altro brandy. Pansy la guardò molto più esplicitamente.

«Si può sapere che stai cercando in quel cassetto?»

«Tu come fai a saperlo?» domandò ignorando il suo patetico tentativo di cambiare discorso. Millicent rifletté se fosse il caso di prendere un altro sorso di liquore prima di rispondere, ma Blaise non era nei paraggi e il costo di un’altra ubriacatura non sarebbe stato ripagato dal passaggio a casa da parte sua.

«Ho incontrato Theodore, venendo qui. Lui mi ha detto che ti eri chiusa in camera».

Pronunciò quelle parole con troppa convinzione perché potessero essere solo una semplice risposta al quesito di Pansy. Theodore l’aveva accolta con un sorriso caloroso, come sempre, e scusandosi per non poter festeggiare subito il suo ritorno a casa per impegni di lavoro con Abraham Nott, le aveva accarezzato una guancia. Era la promessa che si sarebbe fatto perdonare per quella mancanza, ma al tempo stesso Pansy aveva avuto l’impressione che ci fosse dell’altro. La consapevolezza di doverle perdonare qualcosa, e l’amarezza rivolta solo a se stesso per averlo già fatto.

«Ora mi dici che diamine stai cercando?» propose conciliante Millicent, sollevata per aver fatto il suo dovere di ambasciatrice di sventure.

Pansy abbassò lo sguardo, le labbra serrate in segno di una preoccupazione fin troppo evidente per la seraficità con cui lei affrontava le peggiori notizie.

«Il mio anello di fidanzamento» rispose, abbandonando la ricerca con un sospiro stanco.

Nel prendere tra le mani il bicchiere di brandy che Millicent le offrì a sua volta, con aria dispiaciuta, Pansy rivide il momento in cui Theodore aveva accarezzato la sua guancia. Lei aveva appoggiato la propria mano sulla sua. Ma l’anello che avrebbe dovuto rimpiazzare la poca convinzione con cui era tornata a casa, non c’era.

 

●●●

 

In the darkness my fingers slip across your skin
I feel your sweet reply
The room fades away and suddenly I’m way up high
Just holdin’ you to me
As through the window the moonlight streams
Oh won’t you baby be in my book of dreams?

[Book of dreams  - Bruce Springsteen]

 

«Draco?».

Lo scroscio dell’acqua nella doccia gli offrì il pretesto per fingere di non aver sentito. Passandosi le mani tra i capelli, Draco lasciò che l’acqua cancellasse i segni delle sue ultime fatiche, dopo quel fine settimana di vacanza che si era deliberatamente concesso dal lavoro.

A dire la verità più che concesso lo aveva preso senza alcuna difficoltà se non quella di convincere Pansy.

Era stato difficile come ogni cosa con lei, che mai cedeva alle lusinghe di una tentazione se prima non avesse valutato il bilancio degli effetti che avrebbe potuto avere. Forse quello era il motivo per cui la spilla di prefetto si intonava di certo più alla divisa di Pansy che alla propria, pensò ghignando tra sé e le mattonelle della doccia.

Alla fine aveva avuto la meglio su di lei, compiacendosi di essere dovuto ricorrere a nessun altro mezzo se non i suoi baci.

«Ah, sei qui».

Alzò la voce in risposta, tanto per dare conferma a sua moglie di essere tornato e di essere sotto la doccia, nascondendo tra quelle due certezze anche il desiderio di non voler essere disturbato, almeno nella sua intimità.

Qualcosa gli diceva che in nessun modo avrebbe potuto cancellare i segni di quei tre giorni appena trascorsi. Pansy e il suo ritrovo si erano annidati in lui con una naturalezza che non lasciava adito ad alcun dubbio. Era stato come un ritorno al posto giusto, un ristabilire l’ordine nel caos.

Sentì i passi leggeri di Astoria allontanarsi da dietro la porta, e si rilassò appoggiando le spalle contro il marmo freddo.

Forse non era stata affatto una buona idea e Pansy avrebbe finito con l’avere ragione alla lunga, come sempre si era rivelato nell’arco della loro conoscenza. Ma il proprio egoismo, nutrito da sempre dalle attenzioni di figlio unico che non aveva mai dovuto spartire con nessuno, se non con l’interferenza fastidiosa di Lord Voldemort, ebbe la meglio anche in quell’occasione.

Avevano vissuto in quella casa come il re e la regina che nel suo immaginario sarebbero dovuti essere.

Lontani da tutto ma sufficientemente vicini tra di loro per poter vivere indisturbati per sempre.

La vista dal balcone della camera da letto era fantastica, e quella mattina si era perso ad osservarla, in silenzio, mentre Pansy si svegliava pigramente alle sue spalle, nel letto.

Oltre al fruscio delle lenzuola, sottofondo al risveglio di Pansy, Draco era stato circondato dal silenzio. Era stato assalito da una pace incredibile, vuota e semplice, fresca, leggera, inebriante.

Forse in tutta la sua vita era la prima volta che riusciva a credere davvero a quello che suo padre gli aveva raccontato, a proposito del sentirsi padroni di tutto, senza dover contrattare o rovinare la perfezione di un desiderio con l’artificio pagano di un compromesso.

Non c’era nessun ostacolo che lo separasse da Pansy in quel luogo, e se ne diede conferma tornando a letto, e stendendosi di nuovo accanto a lei. Le sue mani l’avevano cercata, e portata più vicino, e lei si era abbandonata alla sua guida, intorpidita e fiduciosa.

E quello che più lo preoccupava, era quella sensazione di confusione e smarrimento che lo aveva accolto quando si erano separati, e lui aveva rimesso piede in casa propria.

Da bravo Slytherin aveva operato i suoi calcoli, scegliendo un momento in cui era certo che Astoria fosse in visita a sua madre, per quelle terribili sessioni di confidenze e consulenze che le due erano solite scambiarsi nel tardo pomeriggio. Non aveva previsto che quel giorno sarebbe tornata tanto presto.

«Draco».

Di nuovo un richiamo da oltre la porta, dal mondo esterno, quello concreto degli obblighi e dei doveri. Sbuffò chiudendo il getto dell’acqua, esasperato.

«Arrivo!» rispose con poca grazia, senza nascondere il fastidio nella voce. Dall’altra parte seguì un silenzio compunto e quasi stizzito.

«Lo spero. Sono tua madre e sai bene quanto detesti le attese».

 

 

Quando venti minuti dopo si presentò in salone, con i capelli ancora bagnati e un sorriso di circostanza, Narcissa Malfoy nascose la propria nota di divertito disappunto dietro la tazza di tè che Astoria le aveva offerto poco prima.

«Mamma» salutò Draco, avvicinandosi a lei e baciandole la guancia, come quando era bambino. Sua madre fu vinta dalla tenerezza dei tempi passati, compiacendosi in silenzio della capacità recitativa di suo figlio all’occorrenza.

«Tentativo discreto» commentò poggiando la tazzina sul piatto, con un sorriso sornione. Draco rise liberamente, andandosi a sedere nella poltrona di fronte, seguito da Astoria, delicatamente appoggiata al bracciolo. Narcissa contemplò il quadretto familiare con un distacco quasi professionale, confermando per l’ennesima volta la poca convinzione con cui aveva preso atto di quel matrimonio.

«Cosa ti—» iniziò Draco, con fare casuale, prontamente interrotto da sua madre.

«Mi accerto di avere ancora un figlio» lo redarguì lei, inclinando indulgente la testa verso di lui. Draco la guardò con infinito affetto e altrettanta apprensione, sapendo di essere nel torto e di esserlo per un preciso motivo, che sua moglie avrebbe poco gradito.

«Beh. Ce l’hai. Bello come lo avevi lasciato» rispose cercando di deviare il motivo della visita sul binario della solita ironia auto celebrativa. Ma Narcissa aveva sposato a suo tempo Lucius Malfoy e con lui aveva concepito Draco, il che dava la certezza a tutti i presenti che il trucco non avrebbe funzionato.

Astoria finse di condividere lo scetticismo di Narcissa, perché le parve conveniente farlo. Sua madre insisteva sempre sulla saggezza del stringere alleanze con la propria suocera. E lei non aveva bisogno che le cose le venissero ripetute due volte, avendo ereditato dal prematuramente scomparso signor Greengrass una sagace tecnica strategica. La stessa con cui era riuscita a far credere a Draco Malfoy che valesse la pena sposarla.

«Sì, hai i tuoi pregi» concesse Narcissa sardonica, consegnando tazza e piattino all’elfo domestico in statica attesa all’angolo della stanza.

«Ma non avendoti visto per tutto questo fine settimana, ho pensato che fosse compito di una madre accertarsi della salute del proprio bambino» soggiunse e Draco nell’incontrare il suo sguardo ebbe l’inquietante certezza che sua madre sapesse qualcosa che nei propri piani avrebbe dovuto rimanere più che segreto.

Astoria rise leggera, con quella risata argentina che le era propria, e che Draco all’inizio aveva trovato rilassante perché lo confondeva dai cupi silenzi in cui si era trincerato una volta finita la guerra.

«Tuo figlio ha sviluppato una strana affezione al lavoro, Narcissa» lo giustificò con un sorriso affettuoso. Draco stese le labbra in un sorriso, versandosi da bere.

«Di sicuro non ha ripreso da suo padre, che si è presentato al Ministero tre volte in tutto il suo cursus honorum» osservò pacata Narcissa.

«Si cerca sempre di migliorare i propri genitori, pur nella loro emulazione» asserì Astoria, nella delizia di una frase confezionata che avrebbe reso orgogliosa sua madre se solo fosse stata presente.

«Questo è il motivo per cui io sono ancora a piede libero e mio padre no» aggiunse Draco, svuotando il bicchiere. Forse non avrebbe dovuto dirlo, pensò un attimo dopo, e sua madre gli regalò la conferma di tale preoccupazione.

Dalle labbra di Narcissa Malfoy non volò una parola, ancora morbidamente seduta al proprio posto, eppure persino Astoria sentì un brivido correrle lungo la schiena allo sguardo che lanciò a suo figlio.

Negli occhi di ghiaccio – ma non ghiacciati – di Narcissa riluceva il bagliore di una rabbia controllata ma profonda. Draco non ritirò quanto detto, tuttavia chiese scusa reclinando appena la testa, con la giustificazione di controllare che il bicchiere fosse davvero privo di liquore.

Nel silenzio sceso sui presenti era cristallizzato il monito di una madre verso suo figlio, che protegge la memoria del marito e l’onore della sua carriera di padre. Anche quando Lucius era stato arrestato la prima volta, Narcissa aveva concesso a Draco la promessa che ogni cosa si sarebbe risolta, ma non aveva ammesso la minima offesa o ingiuria alla figura di Lucius.

Draco durante quegli anni imparò a rispettare e amare suo padre per riflesso del sentimento di rispetto e lealtà che sua madre riversava in lui. Non aveva esitato a spiegargli come fossero andate le cose, raccontandogli onestamente la storia delle scelte di Lucius, ma gli aveva assicurato che ogni sbaglio era valso la pena di farlo, perché commesso unicamente in virtù di una protezione che aveva cercato di dare loro.

Draco le aveva creduto, ma crescere senza suo padre lo aveva debilitato nonostante Narcissa avesse tentato di ricoprire quel ruolo, troppo vasto perché lei sola bastasse a colmarne il vuoto dell’assenza.

«Ti fermi a cena, mamma?» ruppe il silenzio lui, sollevando lo sguardo su di lei.

La mascella contratta in una posa nervosa per l’errore commesso e il recondito dispiacere per quanto detto. Narcissa scosse la testa delicatamente, alzandosi dalla poltrona, di nuovo gentile verso di lui.

«No, ho degli affari da sbrigare» spiegò facendogli cenno di raggiungerla. Le sue dita sottili avvicinarono il viso di suo figlio al proprio, dove posò un bacio sulla sua tempia, sentendo i capelli ancora umidi. Lui la lasciò fare, perfettamente a suo agio con la fisicità di quell’affetto.

Fin da piccolo parlare gli piaceva poco.

«Mandami un gufo, se ti serve un consulto» si raccomandò lui, scostandosi da lei. Narcissa lo guardò quasi offesa, e nella smorfia altera che gli rivolse si riflesse l’orgoglio dei Black. Dall’incarcerazione di Lucius, ogni cosa era gestita da lei, abile affarista come da migliore tradizione.

«Non vorrei disturbare la tranquillità dei tuoi fine settimana, Draco. Vedo che sei molto impegnato, ultimamente» e con quello salutò cortesemente Astoria, volgendo a Draco un ultimo sguardo allusivo. Poi scomparve, lasciando i coniugi alla loro vita privata.

 

●●●

 

On my way up north
up on the ventura
I pulled back the hood
and I was talking to you
and I knew then it would be
a life long thing
but i didn't know that we
we could break a silver lining

[A sorta fairytale - Tori Amos]

 

Astoria non fece mai domande in merito a quel fine settimana di impegni lavorativi di Draco.

Non era stupida e la sua giovinezza non le impediva di certo di recepire l’ironia nella voce di Narcissa Malfoy, né tanto meno i giochi di sguardi che aveva scambiato con suo figlio.

Diventando moglie di Draco, aveva saputo da subito quali fossero le regole minime per la salvaguardia di quel matrimonio: essere parte del loro albero genealogico non le conferiva alcun permesso di intromettersi nei loro affari privati.

«Sono stata da mia madre, oggi pomeriggio» lo informò una volta che Narcissa li lasciò soli.

Draco la guardò distrattamente, perso nella certezza di dover mettere in chiaro qualcosa con sua madre.

«Ah sì?»

«Sì, indovina chi ho incontrato? Blaise Zabini».

Draco si riscosse al nome del proprio migliore amico. Tuttavia non fu attraversato dal minimo dubbio in merito alle motivazioni che lo conducessero in casa Greengrass. Astoria parve altrettanto conscia e scambiò con suo marito un sorriso di consapevolezza.

«Miles non è mai stato il tipo di mia sorella» commentò poggiando la testa sulla spalla di suo marito. Draco le lanciò un’occhiata sarcastica, affatto sensibile alle dinamiche dei meccanismi affettivi di Daphne.

«Tua sorella non ha un tipo» le fece notare.

Astoria gli assestò un colpo sulla spalla, sospirando tra le risa.

«Ma sì che ce l’ha. È chiunque non corrisponda ai canoni di nostra madre» convenne sollevando la testa per guardarlo negli occhi. Si sporse, cercando le sue labbra. Sapevano di scotch e di lontananza.

«Tu ad esempio non sei decisamente il tipo di mia sorella» chiarì in quella che era più una dedica che una battuta di spirito. Draco avvertì qualcosa tendersi e strozzargli il respiro con poca gentilezza. Il suo braccio, blandamente appoggiato alla spalliera del divano circondò le spalle esili della moglie, rimanendo lì senza uno scopo preciso e con una distratta convinzione.

«Stai dicendo che tua madre potrebbe avere delle mire su di me?» domandò ricorrendo di nuovo all’ironia per soffocare la claustrofobia del momento. Astoria lo guardò con aria di rimprovero, accarezzandogli la mano. Lui non si ritrasse, lasciandola fare, perché consapevole di essere in grado di mascherare quello che in realtà stesse provando, sotto pelle.

C’era qualcosa di sbagliato nel sedere su quel divano con una donna che non fosse Pansy Parkinson.

«Draco» lo richiamò lei, a bassa voce. Lui impiegò qualche secondo a liberarsi dalla tenaglia di quel sentimento. Quel bisogno di accudimento e desiderio di cure e attenzioni che è insito in ogni animo Slytherin, e langue improvviso, sopraffacendo qualsiasi buona regola e salda imposizione del loro spartano dogmatismo, era qualcosa che mai gli era capitato di provare nei confronti di sua moglie.

«Sì?».

«C’è una cosa che mi è capitato di pensare». Il tono della sua voce era stranamente serio. Per un attimo perse i connotati di quella di una ragazza appena divenuta adulta, quale era Astoria, e Draco si chiese se non fosse il caso di sciogliere quel contatto e prendere le giuste distanze. Fu un coraggio che gli mancò, nonostante pensò maledicendosi che avrebbe dovuto averlo.

«Del tipo?» domandò sperando che un cataclisma interrompesse quella conversazione. A suo modo anche lui era molto accorto, e remotamente sapeva che l’atteggiamento di sua madre aveva insinuato una certa inquietudine in Astoria, dissotterrando vecchi fantasmi.

«Sarei molto più tranquilla se parlassi di Pansy Parkinson con lo stesso astio che riservi a tuo padre».

In altre circostanze la sua sincerità lo avrebbe colpito positivamente, perché era qualcosa che lui non possedeva, neanche in minima parte. Quel mettere a nudo i propri sentimenti, vincendo ogni vergogna e resistenza imposta dal timore di un rifiuto, non gli apparteneva e lo rendeva in parte il codardo che era, costituendo il motivo fondante del disastro che aveva combinato con Pansy.

Scoprì che quella riflessione gli recava un dolore insopportabile.

«Non riservo alcun astio a mio padre» mormorò soltanto, con malinconia, sapendo di dire la verità.

Solo, la verità che meno interessava a sua moglie probabilmente. E con quello stabilì che il discorso fosse chiuso.

 

 

What’s next

 

«Credi che Draco Malfoy possa renderti felice, Pansy?».

 

«Sento di star perdendo le redini del mio matrimonio, mamma» ammise con un sospiro quasi timido. Sua madre accolse la notizia con autentico orrore.

 

«E’ successa una cosa gravissima Pans» […]

 

 

Thanking

 

Entreri: Grazie Sono felice che Blaise piaccia ^_^ E oooooh, filosofia *__* Se non avessi voluto prendere giurisprudenza dalla tenera età, crescendo filosofia sarebbe stata la mia seconda scelta =P Mi piace tantissimo *_* e hai tutto il mio rispetto :D

sweetchiara: Sì è vero, l’unico lato negativo di Blaise – ammesso e non concesso che ne abbia uno – è l’essere fastidiosamente presente nei pensieri di tutti XD E ti adoro. Dopo anche i Joy Division (che se non fosse stato per un saggio consiglio di rispolverarmeli avrei indecentemente ed ereticamente perso per strada ._. e me ne vergogno) hai tutto il mio cuore di musicomane persa in tempi andati e fastosi *__* (L)

suni: non so precisamente cosa dire perché la tua recensione mi ha indecentemente fatto piacere XD perciò… grazie *.* grazie, grazie. E, per inciso e amore della cronaca, me lo chiedo anche io se questa storia sia IC e inizio seriamente a credere che no, non lo sia. Mi concedo altri due capitoli prima di annunciarlo XD

B e r t a: Grazie =) Un bacio :*

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Capitolo 10
*** X Boccoli, boccioli ***


The way we were

 

X

Boccoli, boccioli

 

 

I could have knocked off the evening
But I was lonelily looking for someone to hold
In a way I lost all I believed in
And I never found myself so low
And you let me down
You could've called if you'd needed
But you lonelily got yourself locked instead

 [Lonelily - Damien Rice]

 

 

Londra aveva concesso a tutti un po’ di respiro dall’usuale coltre di nebbia e maltempo che tingeva di grigio le sue fattezze di vecchia signora. Probabilmente la più grata per la magnanimità dei capricci britannici era Evelyn Parkinson, tutta presa a rimirare i teneri boccioli della propria serra. Li guardava come se fossero stati figli suoi e Pansy si chiese se per caso non dovesse sentirsi in qualche modo gelosa o rimpiazzata. Del resto non aveva perso tempo ad accudire neanche quei boccioli, proprio come aveva fatto con sua figlia, il che le lasciava credere che fosse prerogativa dello scarso senso materno di sua madre, e non una spiccata e malcelata preferenza.

«Che ne dici di questi?» la sentì cinguettare da qualche parte vicino al suo orecchio.

«Sono rosa» commentò distogliendo lo sguardo annoiata. Sua madre alzò gli occhi al cielo, invocando il perdono di un Merlino in cui non aveva mai perso tempo a credere per aver desiderato strangolare sua figlia.

«Non mi stai ascoltando in realtà, Pansy» le comunicò decisamente offesa. Sua figlia si voltò a guardarla, fingendo un’espressione di meraviglia da cui trapelava tutto il sarcasmo della situazione.

«Non capisco come tu possa pensarlo» rispose porgendole un sorriso di scuse più falso dell’interesse che aveva cercato di dimostrare due ore prima, quando erano entrate nella serra.

«Fai come vuoi Pansy, ma ti ricordo che il matrimonio è il tuo, e che presumibilmente non ne avrai un altro».

Pansy ebbe la netta sensazione che avrebbe vomitato da un momento all’altro, ma tutto sommato era troppo aristocratica per concedersi certe umane attività. E a sua madre bastò leggere il disgusto che le arricciò le labbra pallide in una smorfia per afferrare il concetto. Proseguì oltre, senza sprecare commenti in merito.

«Così Theodore sta stringendo affari con la famiglia Davis» riprese poco dopo, facendole cenno di considerare una composizione di fiori che la figlia etichettò senza troppi complimenti come un aborto dell’estetica.

«Sì, mi è giunta voce» mormorò ancora più infastidita.

Da quando era tornata da Dover, Draco era stato il sottofondo delle sue giornate. Non aveva più avuto occasione di vederlo, perché entrambi potevano considerarsi adulti e troppo intelligenti per potersi permettere certe disattenzioni.

Dopo l’azzardo della loro partenza avrebbero dovuto dissipare ogni dubbio nell’opinione pubblica, ma a lei tutto quel complicato intreccio di menzogne e sotterfugi da tardo ottocento andava decisamente troppo stretto. Il suo spirito libertario in quel momento le suggeriva di lasciare sua madre in mezzo ai fiori e andare a cercare Draco per rotolarsi con lui su ben altri generi di prati.

«Mi sono sufficientemente informata al tuo posto».

Evelyn si schiarì la voce, pretendendo attenzione da sua figlia.

«E perché lo avresti fatto?» domandò lei, esasperata ancora prima di conoscere la surreale risposta che sua madre le avrebbe propinato.

«Perché, mia cara bambina, devi imparare a tutelare la tua posizione. Tracey Davis è una donna d’affari adesso, e tutti sappiamo che genere di… malaffare, può compiere una donna simile».

Pansy fu tentata di spiegarle la situazione e di chiederle se per caso lei non rientrasse nella categoria. Ovviamente ci ripensò.

«Theodore è libero di fare ciò che vuole, mamma, e io non gli porrò divieti. Mi lascia molto libera nei miei affari, del resto».

«Ma certo, perché lui è quello innamorato, tra voi due».

La naturalezza con cui lo disse gelò Pansy all’istante. Deglutì guardando sua madre con uno sguardo di ansia e sgomento. Evelyn le rivolse un sorriso clemente, concedendole un perdono che in ogni caso sua figlia non aveva intenzione di chiedere.

«Credevi che non lo sapessi? Sei il mio bocciolo, Pansy. Non c’è niente che mi sfugga in tutto quello che fai, nel modo in cui mi guardi quando ne parli... so tutto».

Forse fu per la tenerezza che era trapelata per la prima volta nelle parole che le aveva rivolto, o per la stanchezza che le gravava addosso, ma per un attimo sentì qualcosa stringerle la gola e premerle al centro del petto e si domandò se per caso non stesse per scoppiare a piangere, come una bambina.

«Lo sapevi dall’inizio?» domandò, guardando ostinatamente altrove finché non riuscì a recuperare un minimo di compostezza nello sguardo. Sua madre tacque per lunghi istanti, prima di confessare di averlo intuito dal primo momento.

«Ti ringrazio per i consigli che mi hai elargito» replicò freddamente sua figlia, camminando di qualche passo avanti a lei.

La prima volta che aveva conosciuto Draco era stato a casa sua. Suo padre doveva convincere Lucius Malfoy a rilevare chissà quale proprietà, e lei e sua madre lo avevano seguito per cortesia. E Narcissa Malfoy d’improvviso era apparsa nel salone, lasciandola senza fiato. Rimase abbagliata, tutto in lei emanava una luce fredda e dorata. Forse era stato il colore dei capelli, ai tempi lasciati morbidamente sulle spalle, diversamente dallo chignon con cui li raccoglieva da qualche anno. O la sua pelle chiara, o il sorriso evanescente con cui aveva accolto gli ospiti nella sua dimora.

Pansy si era sentita il brutto anatroccolo e aveva pensato che mai sarebbe riuscita ad eguagliare tanto splendore, neanche se fosse diventata la donna più bella del mondo come sua madre si premurava di ricordarle la sera, prima di dormire. Sarebbe stata l’eterna seconda, a Narcissa Malfoy.

«Ti ho dato dei consigli, Pansy» le rispose sua madre, arrestando la sua corsa nel prenderle il polso tra le dita gelide.

Per tutto il tempo della loro frequentazione, Pansy si era chiesta come potesse sentirsi così poco amato Draco, quando aveva una madre come Narcissa, che indugiava su di lui con lo sguardo più bello e amorevole che avesse mai visto negli occhi di una donna. Era la luce dei suoi occhi, lo copriva d’oro nel solo parlare di lui, e aveva quel modo di pronunciare il nome di suo figlio, che lo faceva sembrare la cosa più degna di amore e rispetto e riverenza presente sulla faccia della terra. Tutti vezzi a cui lei era estranea e che aveva invidiato a Draco senza troppa vergogna, ma in gran segreto.

«E tu li hai seguiti» aggiunse, incastrandola con i propri occhi scuri.

«Curioso, non me ne sono neanche accorta» Pansy si districò da quella presa, e nelle sue parole echeggiava una rabbia antica che aveva cercato di curare negli anni, ottenendo in cambio solo un bruciore maggiore ogni qualvolta i suoi tentativi erano falliti.

«Non ti ho detto niente perché era giusto che sposassi Theodore. È un buon partito, un affarista parsimonioso ed avveduto e per di più è innamorato di te, il che dovrebbe garantirti che non ti farà mai sentire sola, e ti tratterà sempre come una principessa, Pansy. Con lui non ti mancherà niente. Che altro pensi dovrebbe volere una madre per sua figlia?».

In una vita intera, forse quello era il primo rimprovero che riceveva da sua madre.

Né lei né suo padre avevano mai punito i suoi capricci, la loro tattica consisteva più nell’ignorarli che nel spiegarle il perché non potessero essere esauditi.

«Non mi piace essere sentimentale, mamma» rispose lei, e le sue parole furono taglienti, ostentando una sicurezza che le sue mani rivelavano non avere.

«Credi che Draco Malfoy possa renderti felice, Pansy?».

Non c’era alcuna pietà nel modo in cui sua madre le aveva fatto quella domanda.

Pansy la guardò oltraggiata e furiosa.

«Da quando hai stupidamente deciso di essere innamorata di lui non ti ho mai vista felice, neanche un giorno».

Sua figlia cercò di sfuggire alla tenaglia del suo sguardo. I suoi occhi erano la replica dei propri, giudici irremovibili di una sincerità spietata.

«Quella sei tu, mamma» disse infine, e nella propria voce tremava l’emozione di un segreto tenuto troppo a lungo. «Ti confondi quando mi guardi negli occhi, non è me che vedi. Quello che vedi sei tu e il poco amore che hai per papà».

Non fu gentile e tutto sommato non lo fece di proposito. L’aridità di sentimenti in mezzo a cui era cresciuta l’aveva risucchiata in un vortice di solitudine. Aveva vissuto ogni sensazione in astratto, dipingendo nella propria immaginazione il calore di una famiglia che non aveva mai sentito come proprio. Infatti era sempre stata una pessima pittrice. Le sembrava di sbagliare colori o strumenti, di vivere in una irrimediabile sinestesia.

Poi era arrivato Draco e le aveva insegnato che nella vita si soffre e si desidera davvero. Che i sentimenti ti lacerano dentro, ti straziano e ti consumano, ma poi ti lasciano qualcosa, che occupa spazio, qualcosa di incredibilmente materiale a dispetto del vuoto d’anima con cui era cresciuta.

Aveva scoperto che si può piangere fino allo sfinimento anche solo per stizza, e che dopo si ha fame e un gran mal di testa. E che la tenerezza è qualcosa di caldo e avvolgente, quasi vischioso. Che amare qualcuno è la cosa più difficile, tanto quanto prendere una decisione e sacrificare qualcosa.

Capì in quel momento quanto fosse terrorizzata all’idea di dover sposare Theodore, e costringersi alla stessa vita di sua madre. Comprese di non essere disposta a farlo, si ritenne per la prima volta qualcosa di più, meritevole di tanto altro.

«Non credo che tu abbia altro da insegnarmi» soggiunse poi, in un sussurro pieno di consapevolezza.

«Vuoi un consiglio per i fiori, allora?» accettò sua madre, cercando di vincere il desiderio contrastante di stringerla tra le braccia un’ultima volta, per rubare un ultimo istante con quella che da quel momento non sarebbe mai più stata la sua bambina, e lo schiaffeggiarla per l’affronto che le aveva lanciato.

«Più tardi» si congedò lei, approntando un sorriso confuso.

 

●●●

 

what i am to you is not real
what i am to you you do not need
what i am to you is not what you mean to me
you give me miles and miles of mountains
and i’ll ask for the sea

[Volcano - Damien Rice]

 

Astoria Malfoy si chiese per la quinta volta di seguito se per caso non stesse esagerando.

Non aveva chiuso occhio tutta la notte, dopo quello stralcio di conversazione con Draco. Lo aveva sentito addormentarsi piano piano, accanto a lei, nel loro letto qualche ora più tardi, non potendo fare a meno di indugiare con il pensiero sul contenuto dei suoi sogni.

La mattina lo aveva sentito uscire, per andare chissà dove, tanto per cambiare non glielo avrebbe detto e con il tempo lei aveva smesso di interessarsene, ma non di dispiacersi per il dialogo sempre a metà che c’era tra loro.

Cercava di chiedergli il meno possibile, perché sapeva quanto poco gli piacesse chiacchierare o rispondere a certi tipi di domande.

Sapeva relativamente poco di lui. Avrebbe voluto conoscere tutti i motivi per cui non riusciva a perdonare suo padre, e le cento e uno ragioni per cui aveva scelto come migliore amico Blaise Zabini; avrebbe voluto sentirsi raccontare la storia avuta con Pansy e il modo tanto brusco con cui era giunta ad una conclusione; e si sarebbe divertita nel sentir parlare delle disastrose dinamiche dei Black, a cui Narcissa si lasciava andare quando era di spirito malinconico in loro presenza.

E avrebbe voluto conoscere la storia della cravatta che non aveva voluto indossare per il ricevimento a casa Nott, per quanto fosse spaventata alla sola idea.

Aveva capito che doveva esserci di mezzo Pansy Parkinson.

«Tesoro, eccoti qui» la raggiunse la voce di sua madre, seguita dai passi poco convinti di sua sorella. Accolse entrambe con un sorriso di affetto, orgogliosa di riceverle in casa propria.

«Come mai qui?» domandò pregando sua sorella di aprire la finestra se proprio non poteva fare a meno di quella sigaretta.

«Mamma è convinta che tu sia in qualche guaio» le comunicò telegrafica Daphne, sedendosi sul davanzale con un salto felino.

«Draco non è in casa, vero?» si premurò sua madre, sedendosi sul bordo del letto. Astoria scosse la testa, chiudendo l’anta dell’armadio e levandosi da sotto gli occhi l’opprimente visione della cravatta incriminata. Sua sorella osservò l’ultima occhiata che lanciò oltre l’anta senza commentare.

«Ho pensato alle preoccupazioni che mi hai confidato l’altro giorno» iniziò la Signora, facendole cenno di sedersi accanto a lei.

Daphne valutò l’altezza della finestra, qualora fosse stata invitata a prendere parte al trittico Greengrass.

«Oh, quelle».

«Ce ne sono di nuove?» aggiunse apprensiva ma non del tutto a sproposito sua madre.

«Non fanno che accumularsi dal giorno dopo la cerimonia, madre» le suggerì la maggiore, scrollando la cenere di sotto. Astoria le rivolse un sorriso al veleno ma non poté darle torto, sentendo qualcosa stringerle lo stomaco, in una presa di frustrazione e dispiacere.

«Allora, Astoria?» incalzò la madre, riuscendo a fare tutt’altro che confortarla.

«Sento di star perdendo le redini del mio matrimonio, mamma» ammise con un sospiro quasi timido. Sua madre accolse la notizia con autentico orrore.

«Per Morgana, cosa aspetti a suicidarti allora?» ingiunse Daphne senza la minima sensibilità per gli occhi lucidi della sorellina. Astoria fu sul punto di lanciarle una fattura, quando loro madre intervenne a dividere le acque.

«Nessuno si toglierà la vita, per ogni cosa c’è un rimedio».

«Non credo. Non credo neanche che sia colpa mia. Voglio dire, sono giovane e carina, no? E so tenere viva una conversazione. Gestisco bene gli elfi della casa, e sto simpatica a tutti i colleghi di Draco, a parte Zabini».

Il nome di Blaise fu accolto da tre sospiri di diversa natura nella stanza.

«Una vita perfetta, Astoria. Sai fare delle torte? E parlare con gli uccelli?»

«Daphne il tuo sarcasmo non ci è di aiuto» la fermò sua madre, allungando la bacchetta per spegnere la sua sigaretta e chiudere la finestra dietro di lei. Con poca grazia Daphne si ritrovò sul pavimento, condendo il tutto con una imprecazione poco femminile.

«Poche cose sono di aiuto, mamma. Astoria non avrebbe dovuto sposarlo. Conosco Pansy da sette anni e fidatevi quando dico che sa ottenere quello che vuole» snocciolò risentita, incenerendo con lo sguardo madre e sorella.

Astoria la guardava con uno sguardo pieno di collera e di odio, al solo sentirla parlare di Pansy Parkinson. Daphne ignorò senza troppi problemi l’astio della sorella. Indicò invece con un cenno della testa l’armadio lì accanto. «Che nascondevi lì dentro, il suo cadavere?»

«No, ma c’è sempre posto per il tuo».

«Per Merlino, smettetela tutte e due! Io conosco Abraham Nott da una vita e sono certa che non permetterà che il matrimonio di suo nipote vada a rotoli solo perché sua nuora va a letto con il marito altrui».

«Mamma!» guaì Astoria, mentre Daphne rideva apertamente della insospettata audacia nei discorsi di loro madre.

«Mi sembra ovvio che le cose vadano così, tesoro».

La minore delle Greengrass non ebbe neanche il tempo di sentirsi disonorata che sua madre l’aveva messa in piedi, aveva aperto le ante dell’armadio e aveva posto il corpo esile della figlia davanti allo specchio.

«Sei molto carina, Astoria, e lo sai. Stasera e domani sera ti renderai bella più del solito. E spero tu non abbia alcun problema a convincere Draco a dividere il letto con te». Astoria le lanciò uno sguardo timoroso di aver compreso il succo della questione. Daphne si era accasciata sul letto ormai, e portandosi una mano alle tempie supplicò sua madre di non andare oltre: le aveva sentito dire abbastanza per la sola mattinata.

«Stai dicendo che—» iniziò Astoria, indugiando sullo sguardo di sua madre, riflesso nello specchio. La madre le sorrise alle spalle dei boccoli biondi della figlia.  

«Fatti impollinare sorella, ecco cosa sta dicendo» chiarì Daphne tagliando corto. Apprese con un triste rassegnazione di essere l’unica a trovare pessima e insultante quell’idea.

«Non l’avrei messa in quei termini. Ma è qualcosa che prima o poi ti sarebbe stato richiesto. Devi solo accelerare un po’ i tempi».

«Accelerare i tempi…» ripeté a mezza voce lei, per abituarsi all’idea.

«I tempi del concepimento, Astoria, non quelli della prestazione» le ricordò Daphne, guardandola allusiva appoggiata ai propri gomiti.

Loro madre preferì rimuovere quel dettaglio, mentre sentiva le sue figlie ridere tra loro, scena a cui non le capitava di assistere da un tempo troppo lungo. Detestava l’idea di dover diventare nonna tanto presto, ma per l’onore della famiglia Greengrass e la salute della sua bambina, avrebbe potuto accettare quel compromesso.

«Non credo che quello sia un problema, Dap. Finora Draco è sempre—»

«Bene. Possiamo andare ora» si intromise, recuperando scialle e mantello.

«Beh, adesso sappiamo cosa accomuna realmente lui e Blaise».

«Bambine! Ho detto andiamo».

 

●●●

 

We might kiss
when we are alone
when nobody’s watchin’
we might take it home
we might make out
when nobody's there
it's not that we're scared
it's just that it's delicate

[Delicate - Damien Rice]

 

 

«Non una parola».

Draco non aveva comunque nessuna intenzione di dirne alcuna, quando Pansy si era materializzata nel suo pseudo ufficio, senza il minimo preavviso.

«In mia difesa o in tua accusa?» domandò ironico lui, mettendo da parte atti di proprietà e scartoffie varie. Dopo la guerra non aveva avuto l’ardire di cercare un posto al Ministero: ottenere l’incarico ricoperto una volta da suo padre sarebbe stato oltremodo complicato e del resto non era di una grande carriera che gli interessava. Così si era dedicato allo scambio tra privati, sfruttando al meglio quella pratica di contrattualismo appresa nei sotterranei Slytherin.

«Stai parlando» replicò lei e un attimo dopo lo stava baciando. Lui si lasciò coinvolgere da quella iniziativa. Le sue mani trovarono subito, con una sicurezza dolorosa al pensiero, i fianchi di Pansy. Aderì contro il suo corpo con la antica perfezione di sempre, replicando quell’unione che li vedeva vicini e lontani, lottare contro il desiderio di stare insieme e l’incapacità di ricavarsi la legittimità di farlo.

«Draco—» mormorò lei, quando furono costretti a lasciar andare l’altro per respirare, ma lui sorrise saputo contro le sue labbra e la zittì con la dolcezza dello sguardo e la prepotenza di un nuovo bacio. «Ssssh, non una parola» la redarguì, continuando a baciarla e spogliandola rapidamente.

Sapeva che qualcosa non andava, che mai Pansy avrebbe concesso a se stessa una visita del genere, baciandolo in quel modo, così docile, quasi fosse un bisogno e non più un sincero desiderio.

L’atto di vendita del signor Cole cadde rovinosamente in terra, sparpagliando i fogli del suo contenuto sul pavimento, mentre il suo posto sulla scrivania veniva rimpiazzato dal corpo di Pansy.

Le sue mani lo spogliarono urgenti e febbrili, perfettamente sicure eppure incespicando di tanto in tanto in qualche bottone.

«Aspetta—» mormorò ridendo della loro foga, quando i suoi capelli si impigliarono ad un bottone. Lui li districò con una attenzione che Pansy non avrebbe potuto immaginare gli appartenesse, ridendo con voce roca. «Il solito disastro» la prese in giro, togliendosi la camicia e prendendole il viso tra le mani. Lo avvicinò al proprio, sebbene non avesse niente di nuovo da scoprire. Era solo la pura e semplice soddisfazione dell’averla tanto vicina e del poter contemplare quella che per lui era bellezza.

«Che stiamo facendo?» domandò lei senza volere realmente una risposta, chiudendo gli occhi quando le mani di Draco scivolarono su di lei, accarezzandole la pelle.

«Quello che ci riesce meglio» rispose Draco, la voce bassa e le labbra socchiuse vicino al suo collo, Pansy ebbe la certezza che fosse sincero e che avesse ragione, aveva ragione tanto quanto tutte le volte che in passato lei gli aveva dato torto per il semplice gusto di farlo, e non perché lo credesse veramente. A dirla tutta non sapeva cosa gli riuscisse meglio, se fare l’amore o amarsi nel modo sbagliato.

In quel momento non le interessò saperlo, perché aveva già la certezza che per quanto fosse sbagliato e anche se si fosse rivelato l’unico, sarebbe comunque stato il modo in cui lo avrebbe amato, per sempre.

 

«Ti tratti bene in questo ufficio» commentò ironica, quando Draco la raggiunse, porgendole un bicchiere di vino e una coperta. La sua camicia aveva perso quel bottone e non si chiudeva bene sul suo petto, e Pansy si compiacque di aver in qualche modo lasciato traccia di sé su qualcosa di suo.

«E’ praticamente la mia casa» spiegò lui, sedendosi accanto a lei, vicino al camino spento. Pansy si guardò intorno, abbracciando con lo sguardo il soffitto alto e i quadri appesi ai muri. Ritraevano tutti paesaggi lontani, e sogni di evasione, ma tra loro di tanto in tanto compariva un ritratto. I lineamenti familiari di quei volti spiegavano che fossero Black o Malfoy, e che fossero lì di compagnia, come ricordo di una parte di sé che non avrebbe mai rinnegato.

Poi pensò al camino, piuttosto inutile in un ufficio in cui si passano poche ore della propria giornata, e alla credenza con il vino rosso e del cibo. Le sembrò un rifugio, più che una casa.

«Malfoy Manor è cambiata» aggiunse, per farle capire cosa intendesse. Lei annuì, prendendo un sorso di vino e cercando di ricordare Malfoy Manor e il suo aspetto.

«Non ci metto piede da un po’» concordò posando il bicchiere sul pavimento. Quel rumore sordo si spanse nel silenzio della stanza. Draco sorrise, giocando con una ciocca dei suoi capelli neri.

«Si è come svuotata».

Pansy sollevò la testa in sua direzione, e i capelli le scivolarono sulla schiena e sul collo, sommergendo le dita di Draco. I suoi occhi erano persi nel ricordo del fasto della sua casa, ai tempi d’oro della sua famiglia.

«L’ego di mio padre occupa il suo spazio, sai» aggiunse ridendo tra sé. Lei rifletté su quel particolare, ritrovandosi a ridere con lui d’un tratto. Il suono delle loro risate si sovrappose e si confuse, si rincorsero nello spazio ristretto di quella succursale di casa Malfoy e infine si spensero, leggere e tintinnanti, sul bacio che si scambiarono.

«Perché sei venuta qui?» le domandò. Il braccio che le circondava la vita inconsciamente le impedì di sottrarsi alla vicinanza dei loro corpi. Pansy lo guardò e nel suo modo di guardarlo Draco lesse l’arrendevolezza e la maturità con cui lei aveva preso atto di aver raggiunto il limite, e di averlo varcato, facendo di nuovo l’amore con lui poco prima.

«Perché fare la cosa sbagliata è decisamente il mio forte».

Cercò di minimizzare, spaventata dalla grandezza del significato di tutto quello. Draco sciolse la presa su di lei, liberando i suoi movimenti, ma lei non si mosse.

«Ci ho pensato Pans e non vedo come possa essere sbagliato».

Concluse lui, recando nella voce le tracce di un certo disappunto. Pansy sospirò, facendo scivolare la coperta in cui lui l’aveva avvolta. Draco seguì il modo delicato con cui il suo seno si era scoperto e non poté fare a meno di pensare che anche quello fosse suo.

Il suo seno e il modo in cui lui lo avrebbe nascosto sotto quella coperta. Il suo collo e l’incavo della sua spalla. I capelli più sottili vicino alla nuca, e il lobo del suo orecchio. E poi ancora tutte e dieci le dita delle mani, e ogni singola ciglia dei suoi occhi. Ogni particolare di Pansy gli sembrava conosciuto e conquistato. Suo, come lei.

«E’ il modo che è sbagliato» replicò lei, e la sua voce ridotta ad un sussurro stanco e indolente si insinuò nella sua testa. Aveva incredibilmente ragione.

«Eravamo più liberi quando fingevi di snobbarmi ad Hogwarts» continuò lei, ridendo appena. Draco la guardò ridere, vide le sue labbra assottigliarsi e poi ricomparire. Lui non rise affatto.

«E’ successa una cosa gravissima Pans» le comunicò e quando lei si voltò a guardarlo perplessa, lo trovò infinitamente confuso intento a guardarla, dritto negli occhi come in rare occasioni lo aveva visto fare.

Una volta al Ballo del Ceppo, quando lei lo aveva sfidato a non pestarle i piedi per l’intera durata della festa in cambio di un bacio che in ogni caso non gli aveva mai dato, perché distraendosi all’ultimo ballo le aveva pestato il piede.

Una volta alla fine del quinto anno, affumicati dal vapore del treno nove e tre quarti, quando lui le aveva detto che Lucius era stato arrestato e non avrebbero avuto modo di vedersi per tutta l’estate, perché lui aveva cose più urgenti e importanti da fare. Come piangere disperato nella sua camera aveva pensato senza dirlo mai.

Una volta al loro penultimo anno ad Hogwarts, quando la mattina dopo che Madama Pomfrey gli aveva tolto il guinzaglio delle sue premure di infermiera, li aveva raggiunti al tavolo per la colazione, e tutti gli avevano chiesto che fosse successo tra lui e Potter nel bagno delle ragazze. Tutti tranne lei e Blaise, seduti vicini e molto presi ad imburrare una fetta di pane che nessuno dei due avrebbe mangiato, per mancanza di appetito.

Una volta al settimo anno, prima di sparire nel nulla, nella voluttà di un destino incerto e con ogni probabilità ingiusto, dopo averle detto di fargli il piacere di volatilizzarsi e non farsi trovare da nessuno, e di rendersi utile – se proprio doveva – solo denunciando Potter, ovunque fosse o non fosse.

Una volta poco tempo dopo la fine dei loro studi, quando – dopo averle detto fissando il pavimento che Astoria Greengrass sarebbe diventata sua moglie – aveva provato a chiederle scusa, senza riuscirci.

E poi quella volta, quando seduto per terra accanto a lei le disse che non avrebbe tollerato oltre il pensiero che un altro uomo posasse gli occhi su di lei e la toccasse, credendo che ogni più piccolo dettaglio del suo corpo e della sua persona potesse essere suo.

«E’ gravissimo» aveva risposto lei, baciandolo per non fargli capire che altrimenti avrebbe addirittura potuto piangere come una stupida, e per la seconda volta in una giornata.

 

 

What’s next

 

«Pans» la chiamò infine, mordendosi un labbro, pensieroso. […]«Non mi hai detto niente del tuo week end».

 

La verità è che erano tutti e tre già troppo ubriachi.

 

«Dunque, Abraham… quanta influenza hai sul ministro di Grazia e Giustizia, al momento?».

 

 

Thanking

Entreri: il mio ultimo esame devo darlo domani, perché oggi eravamo in troppi e il mio amabile professore ci ha divisi ,___, Anelo alla libertà fino alla sessione di giugno *__*

Spero che i tuoi siano andati bene J Mi manca un po’ filosofia ._. XD

Milli non demorde, in un certo senso la ammiro, mi sa che tra tanti lei è la meno vittima della noia sentimentale =P Un bacio cara :*

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** XI Brindisi ***


The way we were

 

XI

Brindisi

 

 

I'm not sure what I'm looking for anymore
I just know that I'm harder to console
I don't see who I'm trying to be instead of me
But the key is a question of control
Can you say what you're trying to play anyway?
I just pay while you're breaking all the rules

[A pain that I’m used to – Depeche Mode]

 

 

Prestare scarsa attenzione alle parole di Millicent, per Pansy era da sempre stata quotidiana abitudine, per quanto riservasse sempre un affetto segreto per lei. Quindi se non fosse stato per le insistenze di sua madre avrebbe lasciato cadere la questione Tracey Davis senza troppi problemi.

Quella mattina un gufo aveva svegliato il sonno di lei e Theodore, picchiettando con il becco contro il vetro fino a quando lui non aveva cercato di schiantarlo con la propria bacchetta.

«C’è il vetro, Theo» aveva mormorato lei, voltandosi di fianco e affondando il viso nel cuscino per tornare ad un sonno indisturbato. Il suo promesso sposo aveva ceduto all’evidenza dei fatti, e aveva aperto la finestra imprecando contro i gufi mattinieri.

«Ma chi è che rompe le palle a quest’ora?» disse a denti stretti, venendo investito dal gelo delle sette di mattina.

«Mia madre probabilmente» replicò Pansy ancora sprofondata sotto le coperte. «Rompe le palle a tutte le ore» chiarì tirandosi su di malavoglia e strappando con poca grazia la missiva dalle zampe del gufo. Inutile dire che il volatile lavoratore non ottenne alcuna ricompensa per i suoi servizi.

Theodore fu ben lieto di richiudere la finestra alle sue spalle e tornare al caldo delle coperte.

Accanto a lui Pansy era seduta a gambe incrociate, molto intenta a leggere le ultime di sua madre.

Non poté fare a meno di indugiare sulla sua figura.

«Cosa dice?» domandò più interessato alle sue gambe che alla corrispondenza con Evelyn Parkinson. Pansy non si scompose, accartocciò la pergamena scrollando le spalle con massima indifferenza.

«Che dovrei tenerti sotto occhio» rispose sincera con una certa ironia.

Theodore la guardò perplesso, perdendo ogni intenzione di dormire ancora. Essere spiato dalla madre di sua moglie non è esattamente il sogno di ogni futuro marito. Pansy gli sorrise cercando di tranquillizzarlo in merito alle sue intenzioni: ignorare sua madre.

«Non si fida di me?» domandò lui, insistendo, quasi offeso.

«Non si fida di Tracey Davis» specificò Pansy con un sospiro. Ed erano solo le sette di mattina. Un lampo di comprensione attraversò gli occhi di Theodore, mentre prendeva atto che sua nuora conosceva le sue transizioni finanziarie.

«Io e Tracey siamo in affari» asserì lui in tono solenne da giuramento. Pansy annuì minimamente toccata dalla faccenda. «Lo so. Sei il terzo che me lo dice». La confusione di Theodore aumentò in proporzione alla tranquillità con cui Pansy accettava l’idea che lui fosse in contatto con la sua acerrima nemica dei tempi scolastici e che sua madre ritenesse essere una minaccia per il loro imminente matrimonio.

«Non sei arrabbiata?» azzardò lui. Pansy rise, tornando a stendersi, al suo fianco. Appoggiato ad un gomito Theodore la osservò dall’alto: il candore della sua pelle quasi si confondeva con quello delle lenzuola, l’unica macchia di colore era il nero dei suoi capelli sparsi sul cuscino. Non riusciva a non trovarla calamitante, in un modo tutto suo.

Non era sempre stata così bella. Era sbocciata all’improvviso, come ogni cosa che faceva. All’improvviso aveva accettato di uscire con lui. All’improvviso aveva detto di averci pensato abbastanza e che sì, lo avrebbe sposato. Ma non era stato affatto imprevedibile che dopo aver rivisto Draco Malfoy al ricevimento fosse diventata ancora più elusiva del solito con lui.

«No, gli affari sono affari, non riguardano la simpatia, giusto?».

Lui annuì un po’ dubbioso. In un certo senso avrebbe preferito che fosse un po’ arrabbiata, ma si guardò bene dal farglielo sapere.

«Che combina adesso?» chiese lei, voltandosi a guardarlo, serena.

C’erano dei momenti – come quello – in cui l’irrequietezza che le vedeva sempre addosso si spegneva. Erano i momenti in cui riusciva a parlare con lei senza obbligarla ad essere attenta. In cui era lui a dover rispondere a qualche domanda che Pansy gli rivolgeva, senza dover condurre un terzo grado su come fosse andata la sua giornata. Erano anche le volte in cui smetteva i panni del marito, e le parlava come se fossero ancora a scuola, e tra loro non ci fossero stati baci né proposte. Come se non si fossero mai toccati, non avessero mai diviso altro che un calderone nelle ore di Pozioni o una fetta di pane a colazione.

Come se la loro storia non fosse esistita, come se niente di tutto quello fosse successo.

Quelle erano le volte in cui sentiva che Pansy gli voleva bene, nonostante tutto. E si chiese se con quelle premesse fosse giusto sposarla.

«Ha divorziato due volte. Lo sapevi?»

«No, ma non mi stupisco».

«L’ultimo è stato il nuovo preside di Durmstrang».

«… ha sempre avuto buon gusto, questo devo concederglielo».

«E’ molto cambiata, Pans» le comunicò Theodore, con una nota di tenera ammonizione nella voce. La vita a Slytherin era difficile di per sé e lui non si era mai messo in mezzo nelle beghe femminili del Dormitorio. L’inimicizia tra Pansy e Tracey era conosciuta in tutto il castello e ognuno aveva una personale teoria sul perché due persone potenzialmente tanto simili non riuscissero ad andare d’accordo.

Qualcuno ne era segretamente sollevato, perché se il trio d’argento era sufficientemente problematico da gestire, una coppia del genere avrebbe creato danni a chiunque avesse incrociato la loro strada. E si sa che l’ingegno e la massoneria femminile sono ben peggiori di una sbruffona goliardia maschile.

«Mi ha chiesto di te» aggiunse, sfiorandole un braccio. Pansy sorrise sorniona, tirandosi su.

«Le hai chiesto se tra i suoi nuovi interessi ci sono uomini attempati?» domandò, consapevole di tutto quello che Tracey aveva tratto dalle notizie dategli da Theodore. Primariamente, che lei e Draco non erano insieme e che questo piccolo dettaglio le martoriava l’anima. «Perché farebbero una coppia splendida, lucrando sulla mia morte».

Theodore rise, facendosi pensieroso subito dopo, e Pansy seppe che stava per chiederle qualcosa di cui non avrebbe voluto parlare.

«Adesso potete rivelare il perché del vostro odio?».

«Noiose questioni femminili Theo» rispose con forzata leggerezza, accompagnando la frase con un gesto vago della mano. Nella prima luce della mattina, l’anello che portava al dito riflesse la sua lucentezza. Theodore ne fu colpito per un momento, riconoscendolo al dito di Pansy e ricordando la sua assenza il giorno che era tornata dal fine settimana in famiglia.

Non disse niente, distratto da quel particolare, e Pansy si accorse di tutto.

Abbassò rapidamente la mano, portandola tra i propri capelli, d’improvviso fredda e lontana come tutti gli altri giorni.

Theodore perpetuò quel silenzio per lunghi secondi, prima di lasciarsi andare ad un sospiro. Avrebbe voluto dirle molte cose, ma già sapeva che non sarebbe stato possibile.

«Pans» la chiamò infine, mordendosi un labbro, pensieroso. Pansy si voltò a guardarlo, improvvisando un’impudenza che non avrebbe potuto permettersi.

«Non mi hai detto niente del tuo week end». Era una domanda infinitamente semplice rispetto alla gravità con cui aveva parlato, ma Pansy non si lasciò ingannare.

«Non c’è molto da dire» rispose, alzandosi dal letto e recuperando la propria vestaglia. Scivolò sulla sua pelle con leggerezza, aderendo al suo corpo senza il minimo rumore. Le calzava a pennello, proprio come Theodore avrebbe desiderato le calzasse la vita in comune con lui.

«Io e mia madre abbiamo scelto i fiori per le nozze» completò la frase, portandosi davanti allo specchio e sistemando i capelli nel solito chignon. Theodore pensò che avesse un bel collo, e che lo chignon le stesse bene e la facesse sembrare una donna di gran classe. Quando scioglieva i capelli invece, gli ricordava la Pansy ragazza, e gli piaceva lo stesso. Era un bel problema, in effetti.

«Ah sì? E come sono?» domandò ancora, sapendo che quella non fosse tutta la verità. Preferiva non saperlo. Logorarsi vivendo nel sospetto gli sembrava meno difficile che morire distrutto dal dolore della consapevolezza.

«… rosa» disse lei, guardandolo dallo specchio. Sussultò quando lo trovò alle proprie spalle. Le sue mani erano scivolate su di lei, accarezzandole il collo. La guardava riflessa nello specchio, con occhi scuri di desiderio e di pensieri e lei scoprì di stare quasi tremando.

«Come la tua bocca» disse lui, sorridendole.

Pansy detestava il rosa, e lui non lo aveva dimenticato.

«Non vesti mai di rosa».

Disse soltanto, scostandosi bruscamente da lei e uscendo dalla loro camera, in silenzio.

 

●●●

 

Even the stars look brighter tonight
Nothing's impossible
I still believe in love at first sight
Nothing's impossible
Even the stars look brighter tonight
Nothing's impossible
If you believe in love at first sight
Nothing's impossible

[Nothing’s impossible – Depeche Mode]

 

Tracey Davis in realtà non aveva mai riversato alcun odio nei confronti di Pansy Parkinson, e Pansy Parkinson ne era perfettamente consapevole.

Nei Dormitori Slytherin si svolgeva qualunque tipo di attività non conforme a ciò per cui il loro stesso nome suggeriva fossero adibiti, e tra quelle attività la meno illecita era parlare a sproposito e costruire tragedie intorno al più banale degli accadimenti.

Tracey e Pansy avevano avuto ai tempi un piccolo conflitto di interessi che avevano saputo perfettamente risolvere secondo una sorta di comunione di beni piuttosto raro dalle loro parti, e la loro acrimonia si sarebbe conclusa lì.

Poi Millicent aveva rivelato a tutta Hogwarts la sua viscerale passione per Blaise Zabini e mentre Pansy si affannava in gran segreto a ricucire gli strappi della sua dignità, cercando di non farle rendere conto di quanto fosse sbrindellata, Tracey non aveva avuto problemi a calpestare le sue fatiche e atterrare leggiadra nel letto di Blaise, una sera come tante, per ben due mesi di seguito.

Draco per l’occasione aveva rubato le vesti a Potter, calandosi nel ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura, e aveva avuto l’ardire di scendere nell’arena e trattenere Pansy per un polso, prima che potesse impugnare la bacchetta e agire sconsideratamente di fronte a tre quarti del settimo e sesto anno Slytherin.

Il suo coraggio era stato straordinario nel senso più stretto del termine e non si erano replicati ulteriori extra, quindi Blaise non aveva avuto alcun avvocato difensore durante il processo più fisico che verbale che Pansy aveva intentato contro di lui in seguito.

«Pans, per la millesima volta, non potevo pensare che volessi tanto bene a Millicent!» esclamò esasperato quel pomeriggio, di fronte allo sguardo furioso dell’amica.

Dall’altro lato della stanza Draco nascondeva un ghigno divertito nel fumo della sigaretta che si era acceso.

«Non le voglio così bene infatti» si affrettò a correggere la questione lei, incrociando le braccia al petto stizzita. Blaise e Draco non si fecero problemi a manifestarle il loro scetticismo in merito, ed entrambi si salvarono da una sequela di insulti solo per la nuova influenza che Draco poteva esercitare su Miss Parkinson.

«Quindi è tornata a Londra dalle brulle terre di Durmstrang?» continuò Blaise mentre Draco attirava a sé Pansy intimandole gentilmente di sedersi su di lui e sotterrare l’ascia di guerra per il momento.

«Sì, e si è intrufolata nell’ufficio di Theodore». Le dita di Draco si strinsero involontariamente contro il suo fianco, e Pansy non seppe se esserne deliziata o rammaricata. Blaise finse di non aver visto, come sempre fedele alla dimensione privata e tragicomica dei drammi dei suoi amici.

«Ricordavo avesse gusti migliori» aggiunse Blaise, civettando con se stesso.

«Anche io ricordavo che Daphne Greengrass avesse gusti migliori» ribatté Draco guardando sfacciatamente in direzione di Blaise. Fu il turno di Pansy di mordersi la lingua sentendo pronunciare l’eresia di quel cognome.

«Tua moglie è una portinaia» accusò Blaise quasi seccato ma minimamente preoccupato che la verità fosse venuta a galla. Pansy spostò lo sguardo dal mancato marito al suo migliore amico, facendo dei calcoli elaborati che la portassero alla soluzione dell’enigma.

«Vai a letto con Daphne?» domandò illuminata.

«Sì. Stai per picchiarmi di nuovo?». Si preparò all’eventualità mettendo mano alla bacchetta. Pansy scosse la testa senza impedirsi un sorriso.

«No, non credo. Millicent è adulta adesso» sentenziò prendendo la sigaretta dalle dita di Draco. Draco la guardò scettico, appoggiando il mento sulla sua spalla.

«Mi spiace deludere le tue convinzioni Pans, ma dorme ancora con la foto di Blaise sotto il cuscino, come al suo secondo anno» le comunicò. Pansy e Blaise gli lanciarono un’occhiata preoccupata, anche se negli occhi di Blaise si leggeva una nota di compiacimento ben lontana da quella di sgomento negli occhi di Pansy.

«Tu cosa ne sai?»

«Ce lo hai detto tu».

Pansy ignorò deliberatamente quel piccolo dettaglio sull’onestà con cui aveva trattato dati e informazioni personali di Millicent, appellandosi al fraintendimento della sua domanda.

«Intendevo dire… come fai a sapere che lo fa ancora».

Blaise lo guardò altrettanto interessato. Draco scrollò le spalle con aria casuale.

«Me lo ha detto Warrington».

«Il mio spacciatore?» domandò Blaise, iniziando ad essere inquietato dalla presenza di Millicent intorno tutto ciò che lo riguardasse. Draco annuì in tutta tranquillità. « A lui lo ha detto Montague».

Pansy schioccò le labbra, di colpo più tranquilla.

«Da quando è uscito dall’armadio delle meraviglie non ci sta tanto con la testa».

«No, vi assicuro che le meraviglie è passato a farle nell’armadio di Millicent» proclamò Draco, per niente dispiaciuto da quello che le dita di Pansy stavano facendo sul suo collo. Ci fu un momento di silenziosa confusione generale.

«Ma non avevi detto che la foto era sotto al cuscino?» domandò Blaise, perplesso.

«L’armadio era una metafora, mente vivace» lo zittì Draco tirando fuori calici e champagne dal mobiletto di Blaise, accanto a lui.

«… aspetta, vuoi dire che Milli ha una vita sessuale?» esclamò Pansy sprecando le ultime parole dopo uno shock di tale sorpresa. Ebbe appena il tempo di offendersi per quell’omissione di particolari da parte dell’amica, prima che Blaise aggravasse la situazione.

«Sul serio? Credevo sarei stato il primo a conquistare territori inesplorati» commentò meditabondo versandosi da bere. Draco porse un calice ad una Pansy ancora colpita dall’accaduto, ma per poco non le rovesciò il contenuto addosso.

«Hai concepito l’idea di poter fare sesso con Millicent?» domandò all’amico metà orripilato e metà virilmente interessato alla questione.

«No!» replicò l’altro, quasi urlando a dirla tutta.

«Ma, Blaise—lo hai appena detto» gli fece notare Pansy, bevendo il suo champagne per recuperare un po’ di forze. Blaise la guardò per la prima volta con aria confusa e del tutto inconsapevole di sé e lei ne ebbe quasi tenerezza, prima di ricordarsi che era andato a letto con Tracey, che in quel momento stesse concupendo la sorella della moglie del proprio amante e che si dedicasse ad alcool e droghe solo per non voler parlare con loro di cosa avesse vissuto in quella guerra.

«No di certo» insistette lui, porgendo il calice a Draco perché lo riempisse di nuovo. «Sono confuso» statuì infine, alzando il calice in direzione degli altri due.

«Ai vecchi tempi e alle nostre sbronze» proclamò Draco destando un sorriso nelle sue controparti.

«A Millicent, che è diventata grande» aggiunse Pansy, per ripagare Blaise di tutte le sue colpe.

«Agli adulteri, che vanno di moda» replicò lui, vendicandosi in un colpo solo delle due colombelle che aveva davanti.

La verità è che erano tutti e tre già troppo ubriachi per poter riflettere sulle serie implicazioni del contenuto del loro brindisi. Perché se così non fosse stato, non avrebbero trovato nessuna ragione per cui ridere e scherzare tutta la sera, come se niente fosse capitato; come se non avessero combattuto una guerra; come se Draco e Pansy si fossero sempre amati liberamente e nessuno dei due fosse sposato; come se le loro vite non fossero mai sfuggite loro di mano.

 

●●

 

We're damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of

[Damaged people – Depeche Mode]

 

 

«Il tempo non ti ha cambiato affatto, Abraham».

L’ex ministro Nott indugiò su quel sorriso di artefatta grazia il tempo necessario per declinare con un’espressione beffarda le lusinghe della ruffianeria.

«Non mi hai conosciuto prima che mi cambiasse» rispose lasciando scivolare il mantello dalle spalle, con la sicurezza di chi sa che qualcuno è già pronto a prenderlo al volo perché non cada in terra. L’elfo di casa Greengrass non deluse le sue aspettative.

«Perdona la poca cortesia con cui risparmio ad entrambi svenevoli preliminari, Olimpia» aggiunse volgendo alla donna uno sguardo piuttosto eloquente. «A cosa devo questo invito?» domandò facendosi strada nel salotto e prendendo posto sulla poltrona.

Olimpia Greengrass finse di poterlo perdonare per averle tolto il gusto di esibirsi nella sua dimostrazione di sopraffina conoscenza del galateo, e lo seguì, sedendosi sul divano. Davanti a loro sul tavolino basso troneggiava una bottiglia del miglior Ogden delle cantine Greengrass, e Abraham Nott pensò che il motivo della convocazione dovesse essere urgente o quanto meno importante, se Olimpia osava addirittura profanare la cantina del defunto marito.

«A tuo nipote, Abraham» acconsentì Olimpia, rinunciando a giri di parole.

Sul viso anziano del signor Nott comparve una ulteriore ruga al centro della fronte. La vecchiaia non aveva scalfito minimamente i segni della sua bellezza originaria. Suo figlio era morto troppo giovane perché potesse eguagliare il padre nello splendore della sua figura, ricordava Olimpia. In gran segreto, ai tempi in cui Abraham era uno dei ministri, lei ne era stata affascinata, come tutte le sue compagne. Sognava un posto al Ministero, per poterlo vedere da vicino e diventare sua segretaria, comparendo vicino a lui in tutti i reportage della Gazzetta del Profeta in merito a ricevimenti e galà di beneficenza.

Poi aveva incontrato suo marito e le cose erano andate molto diversamente.

«Spero di non aver sentito bene» rispose Abraham sporgendosi appena in avanti. Olimpia stirò le labbra in un sorriso nervoso.

«Theodore ha intenzione di sposare la figlia dei Parkinson?» domandò versandosi da bere, contravvenendo alle proprie abitudini. Nott non seguì il suo esempio, d’improvviso severo come l’espressione di un oplita raffigurato in marmo e duro come lo scudo di roccia che gli apparteneva.

«Qualcosa ti preoccupa, Olimpia?» rispose evadendo la domanda.

«Non vorrei che ti offendessi, Abraham, ma…»

L’uomo sbuffò spazientito, mostrandosi in tutta la scontrosità per cui era sempre stato rinomato negli ambienti ministeriali. Scacciò quelle premesse con un gesto della mano, di puro fastidio.

«Avanti Olimpia, la vita mi ha offeso abbastanza perché consideri le tue offese nella giusta proporzione. Cosa hai da dirmi?».

La signora Greengrass non nascose un certo disappunto per quel modo di fare, ma decise di comportarsi da professionale faccendiera mettendo da parte ogni disposizione morale.

«Ho tutte le intenzioni di tutelare il matrimonio di mia figlia Astoria. Credo tu possa capirmi, date le circostanze delle nozze di tuo nipote».

«Continuo a non capire la connessione» insistette brusco e inarrivabile.

«Pansy Parkinson e Draco Malfoy, il binomio non ti dice niente?».

Abraham Nott si versò da bere, iniziando a considerare l’ipotesi di trattenersi più a lungo di quanto pensato in un primo momento.

«Sconsideratezza e sentimentalismo. E allora?»

«Miss Parkinson era piuttosto decisa a sposarsi, prima di incontrarlo di nuovo, a quanto mi dicono».

«Immagino che dopo questo fatidico incontro il matrimonio di tua figlia sia colato a picco?» completò la frase per lei, senza celare una nota di derisione verso il tenero bocciolo della famiglia Greengrass. Aveva amato sua moglie come si venera una divinità, in passato, e il pensiero di quei matrimoni ridicoli e pretestuosi lo rendevano di pessimo umore. Per sua moglie aveva organizzato il funerale più degno e sontuoso che meritasse, e dopo quell’ultimo dono d’amore l’aveva messa da parte, per poter vivere ancora in quel mondo. Privo di suo figlio e di sua moglie, aveva concentrato tutte le sue forze sul nipote che gli era rimasto, ma la vita l’aveva ormai danneggiato troppo, risucchiando i suoi sentimenti in un cinismo utilitaristico. I Parkinson non erano di certo la famiglia più facoltosa della Londra magica, suo nipote avrebbe potuto – e dovuto – puntare a qualcosa di più. Ma aveva deciso di essere innamorato: guardava Pansy Parkinson come lui aveva guardato sua moglie prima di convincerla ad un appuntamento in privato con lui. Sua moglie aveva acconsentito con un entusiasmo diverso da quello di Miss Parkinson, ma d’altra parte aveva detto sì e lui era stato costretto ad accettare che così fosse, e che Theodore la sposasse.

«Ho dei progetti per Astoria, Abraham, sono certa che anche tu ne abbia per Theodore».

«Non hai bisogno di giustificare la tua malignità Olimpia, ad ognuno il suo. Vuoi che smettano di vedersi? La clandestinità ha i suoi vantaggi, se funziona».

«Credi tuo nipote tanto stupido da non potersi accorgere di niente?» domandò stizzita, ma compiacendosi in un angolo di sé per aver svelato ad Astoria la verità.

«Credo sia abbastanza innamorato per poter sperare che le cose si mettano a posto».

«Abraham, se il matrimonio di Theodore andrà in porto sarà meglio per tutti» sentenziò lei, sporgendosi verso di lui con fare non volutamente minaccioso. Abraham valutò per un istante l’idea di rimetterla al proprio posto, ma ricordò che non sarebbe stato carino usare certi toni con una vedova.

«Non nego che sia così. Lo spieghi tu ai giovani amanti che dovrebbero rinunciare al loro amore perché i nostri cuccioli possano essere felici della loro infelicità?» chiese sarcastico, vuotando il bicchiere.

Olimpia scosse la testa, imponendosi di non replicare al suo sarcasmo.

«Ho in mente qualcosa di più convincente, signor Ministro».

Abraham le fece segno di parlare liberamente. Olimpia prese un altro sorso di Ogden, cercando di ignorare il bruciore nella gola. Ci aveva pensato a lungo, e in fin dei conti aveva creduto che fosse la tattica migliore, consapevole che anche nel mondo Slytherin contasse la regola del bene migliore.

«Astoria darà alla luce un Malfoy, a breve» iniziò, già commossa alla sola idea, per quanto prematuro fosse esserlo.

«Quale gioia. E perché mai il giovane Draco dovrebbe dimostrarsi ligio ai suoi doveri di padre… per un figlio non voluto?».

«Perché tutti abbiamo la nostra storia, Abraham, e Draco sa quanto importante sia crescere con un padre accanto. Astoria non perde occasione di dirmi quanto Lucius –» Abraham la interruppe con un colpo di tosse.

«Dunque, Abraham… quanta influenza hai sul ministro di Grazia e Giustizia, al momento?».

Lui la guardò iniziando a capire di aver sottovalutato il potere dell’amore di una madre.

«Questa domanda potrebbe offendermi sul serio».

Olimpia poté rilassarsi, ritenendosi soddisfatta.

«Molto bene. C’è qualcosa su cui dovremo contrattare con lui».

 

 

What’s next:

 

«Sssh» lo interruppe prima di baciarlo per ottenere il suo silenzio. «Anche noi Greengrass abbiamo dei segreti».

 

Mama’s baby, papa’s maybe.

 

 

Thanking:

 

valy88: grazie per i complimenti *__*  sono immensamente lieta di aver introdotto una povera vittima—cioè, una nuova lettrice al mondo Dransy. XD I Greengrass hanno una furberia tutta loro ma purtroppo tocca sopportarli visto che sono stati creati u.u sapranno stare al posto loro, però XD Un bacio :*

 

sweetchiara: ammesso che con questi due basti incrociare le dita =P scherzi a parte, le cose sono un po’ ingarbugliate perché loro sono due stupidi che non sanno fare le cose a tempo debito (rotolarsi per terra e professare l’amore libero dal canon della Rowling, ad esempio) e perché la loro autrice ha deciso che dovesse esistere Astoria Greengrass. -_-‘ mi appello a Blaise e alla sua visione di pacifismo estetico del mondo XD vediamo che verrà fuori dal capello :D / Damien Rice is Love *_____* quando non mi mette ansia (perché a volte con quella nocetta accorata lo fa XD) amo crogiolarmi in tutto il suo struggente romanticismo non diabetico *.*

 

Entreri: come sempre io devo ringraziarti per i complimenti e la costanza =) Narcissa è Narcissa, credo in realtà che sia il mio termine di paragone e il mio complesso di inferiorità XD Ma del resto da una Black con contaminazioni Malfoy come poteva non nascere qualcosa di bellissimo? *_*  Draco tutto sommato è un bravo ragazzo su :D un demente, ma un bravo ragazzo che potrebbe persino piacere a qualche madre XD Grazie ancora ♥

 

Coco Lee: Io non so che dire. A parte “grazie” che però risulta un po’ banale, mi rendo conto. Pur drogandomi *coff* seguendo, Gossip Girl non avevo mai pensato a questo possibile accostamento, ma in effetti è vero, ci sono delle somiglianze :D E Millicent rappresenta secondo me una piccola parte che c’è in quasi tutti gli esseri umani u.u voglio dire, magari non ci ritroviamo a sniffare un bicchiere di brandy, ma disgraziatamente il mondo è pieno di Blaise Zabini da concupire (con il pensiero e non u.u) XD Sui Malfoy non mi pronuncio perché sono consapevole di non essere obiettiva. La mia adorazione per loro mi ottenebra il cervello, ma Cissa l’ho sempre immaginata così, dopotutto è una Black/Rosier, è una stirpe tosta =P

Grazie ancora, infinite volte per aver recensito e detto tali cose =) *ancora sine verba di senso compiuto*

 

Chiedo scusa se l’aggiornamento si fa un po’ aspettare, ma devo stare dietro a Miss Ispirazione, che è una ferma sostenitrice della propria autonomia dalla volontà dell’autore u_u E’ tutto delineato nella mia testolina però, se vi consola XD

Un bacio al solito tutti che passa di qua :*

 

 

 

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Capitolo 12
*** XII Rivoluzioni ***


The way we were

 

XII

Rivoluzioni.

 

 

She is frequently kind
And she's suddenly cruel
She can do as she pleases
She's nobody's fool
But she can't be convicted
She's earned her degree
And the most she will do
Is throw shadows at you

[Billy Joe Armstrong – She’s always a woman]

 

Blaise Zabini non era propriamente sicuro che ci fosse qualcosa che gli piacesse particolarmente di Daphne Greengrass. Apprezzava il suo sfacciato disprezzo per le abitudini di casa Greengrass ed era sollevato dai suoi atteggiamenti libertini, giacché poteva permettersi qualsiasi passo falso senza incorrere nel rischio di una denuncia per molestia.

Daphne non faceva mai niente contro la propria volontà, si divertiva maggiormente a forzare quella altrui e Blaise alle nove di sera in punto pensò che fosse questo il valido motivo in nome del quale si stava prendendo la libertà di toglierle di dosso anche l’ultimo indumento, sotto lo sguardo della prozia Amarinta.

«La tua prozia è viva, in quel quadro» si premurò di comunicare a Daphne quando gli occhi neri della donna per poco non gli perforarono le scapole. Daphne sorrise contro la sua spalla, senza per questo cedere di un millimetro dalla posizione sconveniente in cui si trovava. Le dita scivolarono con una sapienza piuttosto machiavellica sotto la camicia di Blaise, tracciando percorsi e scegliendo itinerari che con molte probabilità Amarinta Greengrass aveva solo potuto immaginare.

«Sssh» lo interruppe prima di baciarlo per ottenere il suo silenzio. «Anche noi Greengrass abbiamo dei segreti».

Blaise ritenne che fosse l’unica pretesa legittima che la famiglia di Daphne potesse vantare, e affatto disturbato dalla presenza di terzi assecondò i propositi della serata, condivisi con la padrona di casa.

Andare a letto con Daphne si era rivelato essere qualcosa di diverso. A dispetto di quanto le piacesse mettere alla prova i nervi di sua madre – già fragili da ben prima che la sua bambina rivelasse quella tenera opposizione a tutti i precetti che aveva cercato di inculcarle, con cucchiai di sciroppo di buonsenso e caramelle al buongusto – per un po’ aveva insistito per tenere nascosto il loro nuovo passatempo ai più.

Naturalmente Blaise lo aveva riferito a Draco, consapevole che la notizia non avrebbe tardato a giungere alle orecchie di Pansy, perché dopotutto loro non facevano parte dei più, ma il cerchio si era chiuso lì.

«Non ne dubito. Il più quotato è quello riguardo il contenuto del cervello di tua sorella» si lasciò sfuggire mordendo con delicata fermezza il collo di Daphne. La pelle chiara lo rese un marchio piuttosto evidente del suo passaggio in quei territori.

«Sei prevenuto» gemette lei, facendo della carezza sulla nuca un pretesto per strattonargli i capelli. Nei suoi occhi brillava il divertimento per un gioco tutto loro e la fierezza con cui avrebbe difeso fino allo sfinimento il nome di Astoria, nei confronti della quale solo lei si arrogava il diritto di esprimere pareri sardonici.

«Dimenticavo l’apporto di tua madre» si corresse Blaise, adagiandosi con la solita eleganza sfacciata sul divano del salone. Daphne lo guardò dall’alto, interrompendo il loro discorso confuso con un silenzio pesante, carico di una nuova consapevolezza. Blaise ne approfittò, rivolgendole un sorriso di false scuse per aver lasciato ad intendere che oltre ad essere un ottimo amante aveva anche il raffinato pregio di una arguta intelligenza. Niente sfugge a Blaise Zabini, volle ricordarle, inclusi gli strani girotondi di una madre e una figlia fresca di nozze, intorno alle magnificenze della famiglia Malfoy.

«A volte penso che la retorica per te sia più importante della concretezza dei fatti, Zabini» concluse Daphne, riscuotendosi dai suoi pensieri. Glaciale lo guardava dall’alto della propria posizione, e lui scavò nella propria memoria in cerca di un corpo altrettanto bello, senza trovarlo. Aveva il fascino antico e paradossale delle cose fragili: gli sarebbe bastato stringere le dita intorno al suo polso per farla cadere contro il proprio corpo e tirarla giù, dove vivono le persone qualunque. Ma il disprezzo per qualsiasi accondiscendenza e la libertà con cui disponeva del proprio corpo – esattamente come lui faceva un tempo – fermavano qualsiasi istinto in chi se la trovava di fronte.

«Sarà perché davvero gli opposti si—» prima che potesse finire la frase, Daphne era china su di lui, indecentemente vicina, prendendosi il deliberato permesso di varcare il confine.

«Hai delle preoccupazioni, Blaise? Questo lungo mese senza il tuo compagno di ventura ti ha provato, non è vero?» mormorò contro le sue labbra. Chiunque avrebbe perso il controllo senza troppo rammarico in quella situazione, ma Blaise Zabini non era chiunque e sentir parlare di Draco da labbra estranee alle proprie e a quelle di Pansy Parkinson, gli piaceva relativamente poco, a dispetto di quanto potesse piacergli avere Daphne Greengrass mezza nuda sopra di sé.

«O forse sei stato occupato in altro. Il matrimonio di Pansy è vicino, la damigella d’onore non aspetta altro che regalarti le sue grazie...»

«E’ in momenti come questo che si ha bisogno del proprio migliore amico infatti. Peccato che Astoria lo abbia posto sotto sequestro da settimane» replicò con l’intenzione di chiudere il discorso quanto prima.

Il ricorrere del nome di Astoria toglieva un certo erotismo alla situazione.

«Diritti e doveri matrimoniali. Fastidiosi come ogni necessità, non trovi?».

«Motivo in più per proseguire su quest’altra strada» sancì lui, avvicinandola a sé per avere il bacio che gli spettava.

 

●●●

 

The guilty undertaker sighs,
The lonesome organ grinder cries,
The silver saxophones say I should refuse you […]

But its not that way,
I wasn’t born to lose you.
I want you, I want you,
I want you so bad,
Honey, I want you.

[Bob Dylan, I want you]

 

«Astoria, passami la bacchetta. Li schianto» le ordinò perentoria la voce di Draco.

La sua consorte scosse la testa, spostando lo sguardo fuori dalla finestra. L’aria pungente delle ore seguenti all’alba entrò nella loro stanza quando suo marito pensò da solo a servirsi della bacchetta per mettere a tacere i canterini molestatori.

«Lasciali stare, sono carini!» si lamentò lei, stringendo il polso di Draco con le propria dita.

«Sono rumorosi, e nessuno gli ha chiesto di farci da sveglia» replicò bruscamente, lanciando la bacchetta sul comodino dando chiari segni di esasperazione.

«Ci siamo addormentati tardi, in effetti» osservò compiaciuta Astoria, infilandosi sotto le coperte nel tentativo di sfuggire a quell’aria fredda. Le sue parole furono seguite da un silenzio che avrebbe potuto definirsi eloquente, se lei non fosse stata tanto sorda alle evidenze dei fatti.

«Facciamoci portare del caffè» propose, scendendo dal letto per andare a chiamare uno dei fedeli elfi domestici che avevano seguito la famiglia alla volta della casa in campagna.

Draco approfittò di quel momento di pace per seppellire la testa sotto il cuscino e sperare in un soffocamento fortuito e letale.

Inutile illustrare con quale entusiasmo si fosse apprestato a seguire sua moglie e le sue volontà, alla notizia delle deliziose settimane che aveva organizzato nelle residenze estive dei Malfoy; altrettanto inutile elencare i numerosi epiteti con cui Blaise aveva definito Astoria e la virilità delle prese di posizione di Draco; e tristemente prevedibile era stata la reazione di Pansy alla lieta novella.

Con gli occhi chiusi contro la trama del cuscino, poteva rivedere il lampo di stizza che le aveva attraversato lo sguardo, e prima che potesse iniziare il solito gioco di sottili provocazioni , prima ancora che lei riuscisse a nascondersi dietro la rigida compostezza del proprio orgoglio,  Draco aveva riconosciuto distintamente il pensiero che le aveva squarciato il respiro, nell’immaginare quello che di certo Astoria avrebbe preteso da un marito.

Qualcosa come un po’ di amore. Come spogliarsi nella stessa stanza, e mettere le mani sul suo corpo riconoscendolo come proprio. Come guardarlo negli occhi e dedicargli nel silenzio di un bacio tutti i progetti che una vita insieme può contenere.

Draco riconobbe la ferita lancinante che lascia addosso la sola idea di sapere l’altro intento a fare l’amore con il legittimo proprietario del letto che avrebbero diviso. La riconobbe perché apparteneva anche a lui, e gli era appartenuta tutta la notte seguente a quel ricevimento, e quella dopo ancora.

La sua insonnia era dedicata al matrimonio di Pansy, ai preparativi, al futuro che avrebbe diviso con una persona che non era lui.

«Divertitevi, a cogliere fiori di campo» aveva sussurrato nell’uscire dal suo ufficio, giorni prima.

Draco non aveva cercato di fermarla, perché sapeva bene, forse meglio di lei, che a niente sarebbe valso ricordarle la differenza tra adempiere ad obblighi matrimoniali e fare l’amore con qualcuno.

Per Merlino, neanche ricordava che sapore avesse la pelle di Astoria!

Quale fosse il suo profumo, quale fosse il colore della sua camicia da notte, quanto zucchero mettesse nel tè a colazione. A ben vedere non sapeva neanche cosa potesse mai desiderare da un uomo, perché era troppo occupato a pensare a cosa stesse facendo Pansy mentre lui baciava una donna che avrebbe chiamato amante piuttosto che moglie.

Si rigirò nel letto, calciando via le lenzuola con la stessa frustrazione e impazienza con cui avrebbe voluto lanciare la fede che aveva al dito.

Se solo avesse avuto ancora quindici anni si sarebbe messo a saltare sul letto, lanciando cuscini per terra e inventando un pretesto per litigare con quegli idioti di Crabble e Goyle; come faceva quando Pansy si rivolgeva a lui con quella dignitosa freddezza che preannunciava il suo dissenso in merito a qualche questione e non lo degnava neanche di una parola.

Poi pensò che a quindici anni la sua vita aveva iniziato a prendere la piega disastrosa che lo avrebbe infine condotto a piangere le proprie lacrime e balbettare le proprie paure in faccia al fantasma di Myrtle, del tutto incapace di esternare né condividere una speranza o un timore con Pansy e Blaise.

«Draco? Stavo pensando di mandare un gufo a tua madre» si affacciò Astoria, tornando in camera seguita dai passi dell’elfo, in bilico sotto il vassoio in argento pieno di tazze, bricchi, piattini e posate.

Draco immaginò il sorriso sornione e di triste compiacimento riguardo alle scelte sbagliate del figlio, con cui sua madre avrebbe varcato la porta di ingresso, e se possibile si sentì peggio.

«E perché non far risorgere il vecchio Tom e denunciarsi alla squadra Auror del Ministero?» le fece eco con un certo sarcasmo. Astoria scosse la testa con uno sguardo che preannunciava tempesta.

In nome di quel matrimonio che aveva tutta l’intenzione di protrarre fino alla morte che l’avrebbe dolorosamente separata da Draco, si era sforzata di mandare giù tutte le sgradevolezze del pessimo carattere di suo marito, ma sul sarcasmo non riusciva a chiudere nessuno dei due occhi.

Si era sempre chiesta come facesse la gente a sostenere una conversazione con Draco senza uscirne divisa in due parti, dilaniata dalla sua lingua tagliente.

Con sommo fastidio ammetteva che gli unici a restare impassibili a quel sarcasmo erano l’impeccabile signor Zabini (che in ogni caso sarebbe rimasto calmo e pacifico anche nel bel mezzo di una guerriglia di Troll) e Miss Parkinson, con quello sguardo irridente che riservava a chiunque le rivolgesse parola.

Come se lei avesse in mano chissà quali carte, che le dessero la certezza di conoscere la fine della partita e il senso in cui il mondo stesse girando.

Astoria si era sempre domandata anche cosa facesse credere a Pansy di potersi permettere quella presunzione, visto che stava sposando un uomo diverso da Draco Malfoy. Era anche lo stesso motivo per cui a volte era colta da una sensazione di inquietudine, e si chiedeva se per caso non stesse avvenendo qualcosa sotto ai suoi occhi.

Erano tutti fin troppo placidi, mano a mano che la data del matrimonio dell’anno si faceva più vicina.

«A volte mi ricordi mia sorella» statuì offesa, aprendo le ante dell’armadio in cerca del vestito della giornata. Draco si lasciò cadere addosso il mezzo insulto.

«Dobbiamo tornare a Londra» disse invece, con lo sguardo perso nelle lontananze della sua solitudine.

Astoria si voltò a guardarlo perplessa, incapace di credere a quanto sentito.

Certo tutto poteva dire di suo marito tranne che fosse un compagno di vita, che le facesse compagnia in quel loro matrimonio.

«Hai degli affari da sbrigare? Delega a qualcuno» replicò chiaramente innervosita.

Ma Draco era del tutto estraneo a qualsiasi tipo di empatia con lei, e sembrò non farci caso. O peggio, esserne indifferente.

«Cosa ci trattiene qui?» fu la risposta con cui Draco si alzò dal letto, chiudendosi in bagno, fulmineo. Astoria rimase a fissare la porta chiusa, incerta se scoppiare in un pianto convulso, appellarsi ai saggi consigli di sua madre, chiamare sua sorella e ordinarle di ucciderla in quel preciso istante (certa che avrebbe dovuto insistere solo due o tre volte per convincerla a farlo), oppure bussare accanitamente alla porta fino a che Draco non le avesse aperto, costretto a fronteggiare la drastica situazione di quel matrimonio.

«L’anello che hai al dito!» gli urlò senza la solita grazia che si imponeva di solito.

Dall’altro lato della porta, Draco valutò l’ipotesi di lanciarsi un Avada Kedavra allo specchio.

Sicuramente Blaise avrebbe apprezzato l’ingegno.

Nello scaricare il peso contro il lavandino, l’anello sull’anulare sinistro sbatté contro la ceramica, producendo un suono sordo che si spanse fastidioso nelle orecchie di Draco.

E fu proprio in quel momento, avvertendo la stanchezza della finzione, che prese la decisione di dover rischiare nella vita, una volta per tutte. Adesso che non aveva niente da perdere.

Pensò che avrebbe potuto prendere Pansy per mano e farla ballare a tutti i ricevimenti a cui sarebbero stati costretti a partecipare; che avrebbe potuto camminare con lei in mezzo alla gente, e parlare all’orecchio o sfiorarle un fianco con la più sincera delle intenzioni, nascosta dietro una pretenziosa casualità; che avrebbe potuto concederle ogni stanza di Malfoy Manor e fare l’amore con lei ovunque ne avessero avuto voglia, facendolo sapere a tutti gli elfi in servizio, a sua madre, a Blaise, alla compita famiglia Greengrass e ai facoltosi dottori Nott, persino alla stampa, anche a quella estera se solo ne avessero avuto voglia!

Pensò che era sopravvissuto ad una guerra, ad un prezzo alto, ma che per questo non valesse la pena ridurlo a niente. Pensò alla noia e al rimpianto con cui avrebbe dovuto condividere gli anni futuri, e il logorio con cui avrebbe dovuto affrontare la stanchezza di vivere, per il semplice fatto di non avere Pansy accanto.

Pensò e ripensò alla fatica fatta per accettare l’idea che volesse davvero qualcuno accanto, alla fine dei propri giorni. E la fatica ancora più grande nel prendere atto che quel qualcuno aveva già un volto e un nome, gli occhi di un certo colore e la pelle con un certo odore impresso sopra. Che quel qualcuno lo conosceva già, e per questo poteva dire con certezza che fosse la persona giusta. Perché avevano già discusso, e avevano anche già scoperto che gli era possibile fare pace; perché avevano già fatto l’amore più di una volta, insegnandosi a vicenda come bisognasse fare; perché avevano già scoperto a costo della propria presunzione di non essere invincibili e di avere spesso torto, e lo avevano voluto confidare solo a se stessi e all’altro, senza dirlo in giro o a voce troppo alta.

«Ammesso che ti ricordi di averlo ancora, un anello al dito!» aggiunse Astoria, non avendo ottenuto risposta prima.

… e poi aveva già conosciuto cosa volesse dire perdere quella donna; come fosse una vita votata all’assenza di lei, il languore nel saperla vicina ma intoccabile, nel saperla di un altro, nel non poterla avere, nel non poter condividere con lei tutto quello che avrebbe voluto, cioè, a parte poche cose (come la partita di Quidditch la domenica, il brandy con Blaise, le discussioni con sua madre), tutto. La vita.

E pensò infine a sua madre e al vuoto che le cresceva dentro, dovendo vivere un giorno in più ogni mattina, con un letto freddo e un marito lontano. Se qualcuno gli aveva insegnato cosa fosse l’amore, come bisognasse trattarlo e difenderlo, e custodirlo e crescerlo, erano stati, in maniera del tutto indiretta, sua madre e suo padre.

D’un tratto comprese i sorrisi di sua madre, gli sguardi che gli lanciava quando sua moglie era al suo fianco, le allusioni e i sospiri a cui si lasciava andare quando erano soli nella stessa stanza.

E più di tutto, pensò in maniera decisiva a quello spillo che sentiva piantato a volte nel cuore, altre nel fianco, o nel cervello. Fisso e irremovibile. Era come se portasse il nome di Pansy.

Pensò che invece di quello spillo, giorno per giorno, avrebbe potuto portare lei con sé.

Infine uscì dal bagno, pallido e stravolto, e Astoria quasi non lo riconobbe.

«Io torno a Londra» le ripeté, ordinando alle sue poche cose di chiudersi nel baule.

Astoria puntò su di lui i propri occhi chiari, come spilli acuminati, cercando di richiamare la sua attenzione. Avrebbe dovuto pretenderla, ma sentiva di non averne le forze.

Chissà cosa avrebbe detto sua madre, e come avrebbe potuto giustificarsi con lei.

Avrebbe dovuto descriverle gli occhi di suo marito, in quel preciso momento.

Avrebbe dovuto spiegarle come le fosse sembrato bello, e fiero, e deciso. Come fosse suonata sicura la sua voce, rapidi i suoi gesti, e incredibilmente solenni. Avrebbe dovuto spiegare a sua madre che le era sembrato un’altra persona, un altro uomo. Quello che avrebbe voluto sposare, forse. Quello che la stava lasciando, implicitamente.

Forse avrebbe capito, che non stava tornando affatto a Londra, ma soltanto da lei.

Che tornava a prendere possesso di ciò che gli apparteneva, della vita che aveva scelto tempo prima senza avere il coraggio né modi né tempo di darle concretezza.

«Ci vediamo a casa, ti raggiungo domani» mormorò lei, senza aggiungere altro.

 

•••

 

I know that we don't talk
I'm sick of it all […]

Where are we now?
I've got to let you know
A house still doesn't make a home
Don't leave me here alone
And it's you when I look in the mirror
And it's you that makes it hard to let go

[U2 – Sometimes you can’t make it on your own]

 

Quando quel pomeriggio Theodore era uscito dal maniero aveva incontrato sull’uscio del proprio studio il Ministro di Grazia e Giustizia. Si era sentito salutare con aria un po’ imbarazzata, ma non ci aveva fatto caso, perché sul momento era troppo divertito a pensare che solo un uomo come suo nonno avrebbe potuto ottenere un colloquio con il Ministro in carica di Grazia e Giustizia e per giunta comodamente nel salotto di casa propria.

Si era materializzato a Diagon Alley con sulle labbra l’ironia di quella riflessione, e Tracey Davis non aveva resistito alla curiosità di sapere cosa mai potesse far ridere Theodore Nott, famoso in tutta la Londra magica per la serietà della sua espressione.

«Mio nonno» le spiegò sbrigando la faccenda con un gesto della mano, e poi tenendole aperta la porta del locale dove si erano dati appuntamento, per discutere d’affari.

La malizia non aveva abbandonato gli occhi di Tracey in tutti quegli anni, fu costretto a notare quando lei gli lanciò uno sguardo particolarmente significativo.

«Tuo nonno sa essere minimamente divertente, Theo?» domandò beffarda.

«Non immagini quanto» replicò lui deciso a non rivelarle di aver incontrato il responsabile del Ministero più spinoso, delicato e soprattutto ambito del governo magico londinese.

«La gente sottovaluta voi Nott» osservò prendendo posto al tavolo. Le unghie perfettamente curate batterono sulla copertina rigida del menù e Theodore pensò che stava per seguire qualcosa che avrebbe preferito non sentirsi dire. Aveva imparato a conoscere certi oscuri presagi femminili. «La prima a farlo è la mia amica Pansy, ho sentito dire» soggiunse infatti, guardando le offerte della casa. Theodore ordinò con un sospiro per tutti e due, al mezz’uomo che sembrava essere il cameriere.

«Se mai avrò bisogno di una divorzista saprò a chi rivolgermi» replicò senza scalfirsi minimamente. Tracey scrollò le spalle, e Theodore si preparò al resto della frase sconveniente ai propri danni. Come se non fosse abbastanza aver scoperto che tutta Londra avesse notato l’indifferenza con cui Pansy si apprestava alle nozze.

«Dubito che ne avrai mai bisogno, Theo, sono piuttosto scettica riguardo la celebrazione del tuo matrimonio» gli rivelò Tracey, puntandogli addosso due occhi felini e irrisori.

Theodore fece appello a tutte le sue risorse per non cedere alla tentazione di iniziare una sagace partita su chi fosse più abile tra i due a lanciare provocazioni e raccoglierle prontamente. Aveva anche lui una buona scorta di aneddoti riguardo i precedenti coniugi di Tracey, ma si considerava troppo di classe per poter proferire parola alcuna in merito.

«Credevo fossimo qui per parlare di affari» le ricordò restituendole lo sguardo perforante. L’altra abbassò lo sguardo, dedicando un sorriso a se stessa e alle proprie consapevolezze, e Theodore per la prima volta si ritenne all’oscuro di cosa volesse dire. Probabilmente era lo stesso motivo per cui stava per sposare una donna che non era affatto innamorata di lui.

«Chi ti dice che io non stia parlando di affari, adesso?» domandò a bassa voce, e per quanto si sforzasse di mantenersi fedele al proprio ruolo di femme fatale, Theodore scorse sul suo viso l’alone passeggero di un segreto custodito per lunghi anni, gelosamente, e di colpo la procace Tracey Davis, pluri-divorziata e abile trasformista, gli parve di nuovo la ragazzina che a quattordici anni si era macchiata il vestito con idromele al ballo del Ceppo.

«Non ti seguo» ammise, portando alle labbra il suo Ogden invecchiato.

Di nuovo Tracey sorrise a se stessa. «Probabilmente è meglio così» sancì, mettendo da parte il proprio aperitivo e tirando fuori il plico di documenti da firmare per concludere la transazione finanziaria.

Tra conti cifrati e trattative varie, Theodore trovò il tempo per pensare agli ultimi preparativi per le nozze, all’aria spettrale di Pansy nelle ultime settimane, al modo in cui lo aveva baciato la notte prima, come se volesse dirgli qualcosa per cui non trovava parole né voce, e al modo in cui gli occhi di Tracey si posavano irrequieti su Theodore spostandosi subito con un certo fastidio sui documenti che li separavano, sul piano del tavolo, quando le sembrava che se ne accorgesse.

Quando tornò a casa, due ore più tardi, incontrò di nuovo il Ministro, intento a restituire a suo nonno il bicchiere, vuoto, di whiskey che gli era stato offerto. Di nuovo replicò un saluto un po’ imbarazzato, sparendo con il solito pop.

«Le trattative sono andate per le lunghe» osservò suo nonno, dando un’occhiata all’ora di rientro del nipote. Theodore lanciò tutti i documenti e la propria giacca sulla spalliera del divano, incredibilmente sollevato di non trovarci Blaise Zabini con il proprio brandy in un bicchiere.

«Potrei dire lo stesso delle tue» rispose, servendosi da bere. Suo nonno non lo degnò di risposta, il che lo convinse a proseguire.

«Mediti di candidarti alle prossime elezioni?» insistette scherzoso ma non troppo. Abraham Nott si limitò ad una risata sommessa, scuotendo la testa. «Hai questo vizio della fantasia, Theodore… è il tuo difetto. Immagini cose che non esistono».

«Come una tua personale trattativa con il Ministro di Grazia e Giustizia?» chiese, sagace.

Suo nonno lo guardò severamente.

«O l’amore di Miss Parkinson».

«Danneggia solo me stesso, in tal caso» gli fece notare senza troppe remore. Il signor Nott non trovò le parole per convincere suo nipote di avere un briciolo di amore per lui, sul fondo di tutta l’acrimonia che riservava alla vita che gli restava e dell’asprezza con cui si approcciava a lui e alle sue scelte.

«La vita è fatta di anelli, Theodore, sono anche stanco di ripetertelo. Nessuno può mai lavarsi le mani di quello che fanno gli altri, prima o poi tutto si ripercuote sugli altri… tutto, si ripercuote sugli altri» continuò trascinandosi al piano di sopra, pensieroso.

Theodore seguì la traiettoria dei suoi passi stanchi e sentì l’impulso di percorrerli al suo posto; di raggiungerlo e guidare la sua mano grande e rugosa sul corrimano in marmo, come suo nonno aveva fatto con i suoi passi goffi e incerti di bambino. Tutto è una catena, avrebbe voluto dirgli, e un nonno ha tutto il diritto di incastrare il peso della propria esperienza al vigore dell’inesperienza di un nipote, anziché ostinarsi a governare la sua vita senza lasciargli spazio proprio ai suoi errori.

Ne avrebbe commessi molti di meno, se solo suo nonno gli avesse parlato.

Invece, ancora una volta, di qualunque cosa si trattasse, aveva preferito rivolgersi alle autorità istituzionali piuttosto che rivolgergli parola a cena.

Hai scomodato un intero ministero pensò sentendo l’affanno gravare sul respiro di suo nonno, quando ti sarebbe bastato bussare alla porta della mia stanza.

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Thanks to:

Entreri: Il problema è che ho finito con l'amare Theodore anche io XD In realtà non ho mai avuto niente contro di lui, si era proposto come povera vittima degli eventi ma giustamente ha reclamato pure lui la sua dignità e ne è venuto fuori un grand'uomo. Povero caro, ma sul fatto che avrà il suo riscatto puoi stare tranquilla, infondo i grandi uomini hanno valori che sanno tirare fuori al momento della scelta, no? =P Grazie per la recensione e per la condivisione dell'amore per Theo *_*, un bacio :*

sweetchiara: E' esattamente quello il motivo per cui Draco e Pansy ti mettono in croce. Sono incapaci di stare senza l'altro ma non sono neanche capaci di risolversi da soli le questioni per poter stare insieme. Sono due idioti in perfetto stile Slytherin ma sospetto che alla fine i motivi del loro amore verso entrambi sia anche quello. Anche se ammetto che in questo capitolo a Draco ho voluto particolarmente bene *_* In realtà poi penso che hai ragione, quando dici che se il cassetto fosse chiuso, Pansy e Theo avrebbero qualche chances in più, ma il fatto è che il cassetto non si chiude =P Certo fossi stata in Theo probabilmente lo avrei chiuso a forza, cambiato la serratura e buttato via la chiave, ma lui è uno Sly onesto... ogni tanto capita, non tutte le ciambelle escono col buco XD Un bacio cara :* sono felice che la storia si faccia amare :)

B e r t a: Grazie *_* E perdono per l'aggiornamento a lungo termine ^^''

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SCUSE DOVUTE SENZA SCUSE (ah ah)
Chiedo umilmente perdono per i tempi di aggiornamento. Potrei dire che ho avuto tante cose da fare, tante crisi esistenziali da risolvere che comunque non ho risolto, che mi hanno rapito gli alieni (uno era David Bowie e ho coronato il sogno di una vita), che la sveglia non ha suonato (la sveglia c'entra sempre dove ricorre la parola "scusa") e blablabla ma comunque resta il fatto che tutti questi motivi più o meno fittizi sono solo orpelli, la vera colpa è di Miss Ispirazione, che per tutto questo tempo si è presa una vacanza. Purtroppo sono perfezionista e ho ansia di essere all'altezza delle aspettative, quindi ho atteso che tornasse a pieno regime prima di pubblicare la versione finale del capitolo, anche perchè è un pò di svolta e andava trattato come si confà ai capitoli di svolta u_u Chiedo ancora scusa.
Non prometto niente sul prossimo aggiornamento, ormai sapete che in combutta con gli alieni e le crisi esistenziali vige sempre Miss Ispirazione.
Grazie comunque se avete avuto la pazienza di attendere tale aggiornamento, recensitori e non =) e buone vacanze a qualunque punto delle stesse voi siate :)

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Capitolo 13
*** XIII Gusci ***


The way we were

 

XIII

Gusci.

 
 
Wise men say only fools rush in
But I cant help falling in love with you
Shall I stay
Would it be a sin
If I cant help falling in love with you […]
Some things are meant to be
Take my hand, take my whole life too
For I cant help falling in love with you
[Elvis Presley – I
can’t help falling in love]


 

La vita ci aveva messo poco per far presente a Millicent che in rari casi sarebbe stata gentile e cordiale verso il genere umano, e quando aveva conosciuto Pansy Parkinson aveva compreso meglio cosa volesse dire. Poi, Pansy Parkinson le aveva involontariamente fornito gli indizi per notare la presenza di Draco Malfoy, e Millicent aveva dovuto ammettere che più scortese della vita stessa ci fosse certamente Draco.

Quella mattina ebbe la riprova di non essere stata affrettata nei suoi giudizi, quando le dita sottili di Draco si strinsero attorno alle sue spalle spingendola verso il camino nella camera di Pansy, invitandola senza alcuna carineria a tornarsene a casa propria.

«Io sono la damigella della sposa!» gli fece presente pestandogli un piede con tutte le intenzioni.

Draco non perse neanche tempo ad imprecare. Con un sorriso troppo triste per combaciare con il proverbiale sarcasmo del proprietario, mormorò «E io sono il suo amante».

Di fronte a questo, Millicent reclinò la testa, in segno di rammarico per la questione ma di rispetto per la posizione scomoda e dolorosa di Draco, e volgendo un sorriso tenero verso Pansy si congedò dalla sventurata coppia.

«Mi hai portato un mazzo di violette?» domandò Pansy non appena il camino inghiottì la figura di Millicent. Draco si voltò a guardarla, in piedi accanto allo specchio nella sua camera da letto; gli ricordò la mattina del funerale del padre numero 5 di Blaise, e gli parve anche più bella di allora.

E del resto la loro storia era tanto ingombrante, e il sentimento che aveva per lei tanto intenso che dimenticarono entrambi di trovarsi nel luogo meno adatto per rivolgersi ripicche e proclamare offese e risentimenti. Del tutto incurante di trovarsi in territorio nemico, nella camera da letto di Theodore Nott, Draco si avvicinò a Pansy, distogliendola con fermezza da quella sofferenza in cui si era relegata da quando era partito con Astoria per la campagna.

«Sono tornato prima, Pans» le fece notare, incredibilmente gentile rispetto i suoi standard.

Di solito il gioco era rispondere altrettanto provocante al sarcasmo di Pansy, e continuare fino a quando entrambi non fossero rimasti senza parole, dichiarandosi sconfitti e vincitori, secondo le loro strane regole Slytherin, e sancendo l’armistizio con un bacio o con un groviglio di vestiti e lenzuola.

Lei gli permise di toccarla e si abbandonò all’invito con cui Draco la sospinse verso di sé con la stanchezza di chi è vinto dalla finzione e dal rispetto di regole impostegli e auto-impostosi.

Ci aveva provato, davvero, a vivere di sola ragione e calcolo come sua madre le aveva suggerito.

Aveva creduto che fosse possibile, che avesse la convenienza tipica dei metodi di sopravvivenza, che non avere più alcuna scelta l’avrebbe tolta dall’impaccio di dover vivere una vita di tormenti. Che l’abitudine avrebbe lenito le ferite di un cuore che le aveva fatto lo sgarbo di essere capace di amare. E che allora avrebbe accettato l’idea di posare le proprie labbra su quelle di un uomo diverso da Draco e di concedergli gli spogli della propria vita senza sentire ogni volta un colpo al cuore o sentirsi colpevole di un delitto inaudito.

Il giorno in cui aveva preso la decisione di voler provare a sopravvivere in quel modo, le erano persino mancate le parole per renderlo vero, così era entrata nello studio di Theodore, e lo aveva baciato, cercando di parlare in quel modo, anziché in quello delle persone dai sentimenti onesti.

Poi era tornato Draco e la giostra aveva ripreso il corso.

Di nuovo aveva scoperto che una vita di restrizioni emotive non faceva per lei, che la sua vera natura era indomabile e che mai avrebbe potuto fare l’amore con Theodore Nott o chi per lui, dopo che le mani di Draco l’avevano toccata ancora, e la sua voce le aveva parlato di nuovo, e le sue labbra l’avevano baciata, i suoi occhi guardata…

Era molto poco dignitoso, per una donna cresciuta nei difficili dormitori Slytherin e con una madre che disponeva l’amore ripartendolo in misura proporzionata tra un marito e una figlia, che ne ricevevano la loro parte solo quando esaudivano le aspettative della madre e della moglie. Era davvero molto poco dignitoso e soprattutto molto deleterio, ma proprio non era riuscita a fingere di non amare Draco Malfoy.

Fino a quando le aveva detto che Astoria aveva deciso di ritirarsi in campagna per un po’.

Allora tutto era tornato come prima, con Draco lontano da lei, perso dietro le sue obbligazioni affettive, e lei vicina ad un uomo che non riusciva a sentire sottopelle come l’altro.

La sera prima era entrata di nuovo nello studio di Theodore e lo aveva baciato, di nuovo, come il giorno in cui si era arresa per la prima volta all’evidenza che Draco non poteva essere suo e che lei non era affatto padrona dei propri desideri.

Theodore aveva riconosciuto quel bacio e non le aveva detto niente.

Come non era più tornato sulla questione dei fiori scelti per il matrimonio, né su quei giorni trascorsi a Dover con l’altro uomo.

«Ieri notte ho baciato Theodore» iniziò a dire, cercando di spiegare a Draco che il punto di non ritorno era drasticamente vicino e che i desideri sono fatti per restare inesauditi, e farebbero meglio a rimanere direttamente inespressi, forse. Per evitare stupide e vergognose sofferenze come quella che le stava strappando il respiro.

Le mani di Draco si erano strette intorno ai suoi fianchi e poi lui l’aveva abbracciata, chiedendole in quel modo di non andare oltre.

«Ho pensato che tu stessi facendo lo stesso, con Astoria…» Draco non l’aveva lasciata andare, e in fin dei conti Pansy non aveva cercato la libertà da quell’abbraccio. Se avesse potuto congelare quell’istante, lo avrebbe conservato per sempre, o forse non ne sarebbe mai uscita.

«Sono tornato e basta Pans, capito?» le chiese lui, parlando tra i suoi capelli, che sapevano di lei e del sapone che usava anche ad Hogwarts, quello che restava sempre impresso sul suo cuscino quando si addormentavano in tre nella camera dei ragazzi, nel Dormitorio, o sulla divisa scolastica quando lei si appoggiava contro di lui nella noia di un pomeriggio di studio in Sala Comune.

Pansy non comprese fino a quando Draco la baciò strappandole qualsiasi ritrosia.

«Capito?» domandò ancora, con le labbra ancora sulle sue, e il suo respiro addosso. Le dita di Pansy si erano strette intorno alla sua camicia, e poi lo baciò di nuovo perché tutto sommato era l’unico modo di dare concretezza a se stessa in tutto quello scivolare nel nulla più totale di una vita non voluta in quel modo.

Lo baciò di nuovo, e lui la baciò ancora, le loro mani intrecciate tra loro, e poi tra i capelli dell’altro, e sotto la camicia, e intente a slegare bottoni e slacciare vestiti. Scivolarono in terra mentre con loro cadevano le ultime resistenze su cosa fosse giusto e cosa sbagliato, cosa saggio e cosa rischioso, cosa indignitoso e cosa assolutamente perfetto.

Per la prima volta in una vita nessuno dei due aveva la certezza di un piano di riserva, né la garanzia che qualcuno dall’alto sarebbe intervenuto per loro, o l’ipotesi che esistesse un modo per eludere il diritto di risentimento di una moglie tradita e uno sposo lasciato sull’altare.

Draco si sentiva come in quel maledetto sesto anno, intrappolato e impossibilitato a contrattare sui termini, eppure questa volta aveva Pansy sotto di sé e tutto il mondo era possibile rinchiuderlo in quello spazio di mattonelle e mobilio. Sarebbe durato poco e dopo avrebbe avuto inizio l’ennesima battaglia, in una vita che non era altro che una guerra e che di concedere tregue non voleva saperne.

Lui e Pansy avevano perso tutto nel giro di una manciata di giorni.

La possibilità di crescere insieme e coltivare per errori e fortune un sentimento che sarebbe divenuto adulto insieme a loro, tanto per dirne una. Quando Silente era morto e poi era scoppiata la guerra definitiva non avevano avuto tempo per altro che non fosse sopravvivere e farla franca da dei crimini più grandi delle loro intenzioni o dei loro credi.

Adesso era difficile recuperare tutto insieme quel tempo perduto, in cui avevano creduto di non avere scelta solo perché gli eventi gli erano precipitati addosso veloci e impietosi, convincendoli di non poter decidere niente e dover accettare tutto.

Il matrimonio di Draco, una vita di latitanza, il matrimonio di Pansy e l’infelicità per un’esistenza sempre vissuta a metà, tra speranza e realtà, tra desiderio e impossibilità.

Avevano vissuto nelle metà sbagliate, fino a quando Draco aveva detto a sua moglie “torno a Londra” e Pansy lo aveva trascinato sul pavimento afferrandolo per la camicia, con l’istintualità che le era propria come donna, a dispetto dei composti movimenti con cui compiva il suo ruolo di moglie a letto con Theodore.

Si convinsero che fosse inevitabile. Che entrambi non fossero fatti per governare gli eventi e che fossero troppo viziati per credere fino in fondo di poter rinunciare a qualcosa di voluto con tale intensità.

Il problema era che non si trattava affatto di un capriccio, e Pansy lo capì nell’istante in cui Draco replicò quell’istante vissuto contro il muro al ricevimento di Nott Manor, due piani più sotto di dove si trovassero in quel momento. Il suo nome tra le labbra, Draco dentro di sé e lei del tutto persa tra la sua bocca, le sue dita, i capelli e il profilo del naso.

Lui si spingeva in lei e la toccava con un rispetto tanto profondo che le strappò un singulto, e le sembrava che tutto quello non fosse altro che il loro modo di parlarsi e spiegarsi il silenzio di tutti quegli anni.

L’apatia con cui avevano lasciato che i loro matrimoni si realizzassero non era altro che il puro terrore di compiere una mossa sbagliata e perdersi per sempre. Ma adesso era davvero troppo tardi per poter avere ancora qualche tipo di paura.

«Giura che sei mia» sentì dire e non fu sicura che lo avesse detto sul serio, tanto quanto Draco non avrebbe creduto alle proprie parole se tra le sue braccia ci fosse stata una donna diversa da Pansy, ma del resto chi altro avrebbe potuto esserci?, così non c’era storia, si disse.

Non c’era storia.

 

«Draco» la sentì mormorare, poco dopo.

Si voltò a guardarla, la schiena contro il pavimento duro e freddo, ai piedi di un letto dove non si sarebbe consumato alcun matrimonio.

«Adesso dovremmo pensare a qualcosa» le comunicò per farle sapere di non aver perso del tutto la ragione, a dispetto di quanto le avesse fatto credere piombando nella sua stanza in casa Nott e precipitando nudo con lei sul pavimento.

Lei annuì, tirandosi leggermente su, appena frastornata, ebbra del pensiero di cosa avrebbero ottenuto di lì a breve. Era troppo persino soffermarsi con il pensiero su cosa ci sarebbe stato dopo, perché dopotutto erano davvero superstiti e avevano entrambi imparato che non è mai il caso di dichiararsi vincitori, neanche quando sei seduto sul trono delle tue soddisfazioni.

«Anche se non hai bisogno di scuse. Fossi in te mi rifiuterei fermamente di sposare un uomo che gira con tale aborto dell’estetica addosso» commentò Draco decisamente sarcastico, mentre Pansy seguendo la traiettoria del suo sguardo incontrò con il proprio la vestaglia di Theodore, appesa alla maniglia della porta.

«A volte non so più con chi vado a letto, se con te o con Blaise» replicò consapevole di  avergli lanciato il più basso dei colpi bassi che una donna possa riservare al proprio uomo. Draco la guardò profondamente ferito e decisamente infuriato ma non perse colpi.

«Lo capisco, entrambi ci destreggiamo con donne Greengrass, farai confusione» mormorò mettendosi seduto e cercando di recuperare la propria camicia da sotto al letto.

Pansy lo guardò indecisa se vendicarsi subito o più tardi, chiedendosi come fosse possibile per due persone essere innamorate e dimostrarselo in quel modo. Il pensiero le diede ulteriore misura di quanto fosse impossibile per entrambi dividere le intimità dell’amore con persone diverse. Si sentì a casa. E probabilmente non avrebbe dovuto farlo.

 

Draco riuscì ad infilare l’ultimo bottone nell’asola quando un gufo planò senza troppi complimenti dritto sul suo collo, dalla finestra aperta della stanza. L’imprecazione che seguì fu soffocata solo dal timore che colpisce dritto allo stomaco chi viene colto in flagrante.

Entrambi cercarono di ignorare il lampo di panico che aveva segnato lo sguardo di Pansy e il gesto istintivo di difesa con cui Draco si era alzato in piedi, pronto a proteggere se stesso da Theodore Nott.

Invece anziché trovarsi di fronte la stazza di Nott, ritrovò ai propri piedi un gufo un po’ provato dallo scontro del tutto involontario, con un pezzetto di carta arrotolato sbrigativamente alla zampa.

«Già ci arrestano per adulterio?» mormorò chinandosi e strappando con poca grazia la missiva.

Accanto a lui Pansy finì di rivestirsi, cercando la scarpa mancante. «Quanto tempo abbiamo? Non posso essere lapidata con i capelli in disordine» scherzò caustica ma passandosi sul serio le dita tra i capelli.

«E’ di mia madre» le comunicò Draco, aggrottando la fronte.

Pansy rifletté che se non altro la sua non aveva sprecato una buona occasione per stare al proprio posto e non disturbare la breve quiete di sua figlia. Nel cercare di raggiungere la cassettiera, pestò il gufo ancora tramortito, dandogli forse il colpo di grazia. Abbassando lo sguardo non poté fare a meno di notare la buffa forma di quell’animale.

«Di tua madre? Con un gufo più simile ad uno sputo che ad un uccello? Sei sicuro?» gli chiese piuttosto scettica. Draco dovette darle ragione, decidendosi ad aprire il foglietto. Gli occhi corsero velocemente tra le righe, riconoscendo la grafia minuta e precisa di sua madre.

«Dice che immagina di sapere dove sia ma si riserva il diritto di non volerlo apprendere con certezza» commentò pensando che per una persona meno impudente di lui probabilmente sarebbe stato il momento giusto per arrossire e scavare una fossa per la propria dignità.

«Tua madre dovrebbe impartire qualche lezione di discrezione a mia madre» osservò Pansy, raccogliendo da terra la cravatta di Draco e passandogliela intorno al collo.

«In ogni caso dice di raggiungerla subito» aggiunse lui. Pansy rischiò quasi di soffocarlo con la  sua stessa cravatta quando tre secondi dopo Draco la afferrò per un polso materializzandosi con lei.

 

●●●

 

«Non so come ti abbia abituato tua moglie, ma sarebbe gradito un avviso quando decidi di dislocarti altrove» gli fece notare piuttosto risentita Pansy, staccandosi da lui.

Draco le rivolse uno sguardo di scuse, distratto a pensare al motivo per cui sua madre si riservasse di scrivergli in tutta fretta, usando un pezzo di carta qualunque, un gufo disastrato e senza neanche firmare il biglietto.

Pansy seguì i passi di Draco fino a quando non inciampò con lo sguardo sulla parete alla sua destra, e con una stretta al cuore prese atto di essere di nuovo a Malfoy Manor. Le tornarono in mente le parole di Draco su quanto quella casa fosse vuota in assenza di suo padre e immaginò l’eco dei ricordi e dei pensieri di Draco e Narcissa; la quotidianità vissuta nello stillicidio dell’attesa di un ritorno improbabile; l’eterno termine di paragone con il fasto di un tempo, offuscato e sbiadito.

Frenò l’impulso di stringere la mano di Draco nella sua, ma desiderò farlo come in quel giugno del quinto anno, leggendo in prima pagina dell’incarcerazione di Lucius Malfoy, seduta alla tavolata Slytherin al fianco di un Blaise ammutolito dalla sorpresa; e allo stesso modo in cui aveva pensato di fare l’anno successivo, quando Snape lo aveva consegnato alle cure dell’infermeria: allora più che squarciato dall’idiozia di Potter, le era sembrato dilaniato da ben altro, ma era tornata in Dormitorio, abbracciando Blaise come se fosse Draco.

«E’ tutto al solito posto» le disse Draco, accorgendosi dello sguardo che Pansy aveva impresso sul viso. Lei si ridestò leggermente imbarazzata, riconoscendo ogni volto appeso alla parete.

«Tuo nonno che fine ha fatto?» domandò indicando con il dito la cornice vuota, accanto ad una vacante Elladora Black.

Draco alzò lo sguardo, cercando la figura del nonno paterno nei vicini ritratti che in genere ospitavano le loro riunioni, a base di memorie dei tempi andati e di partite a poker magico. Non lo trovò in nessuno degli altri quadri ospitanti Malfoy, e serrando la mascella in un’espressione grave e preoccupata, proseguì dritto verso la fine del corridoio.

«Vorrei saperlo» mormorò facendole cenno di seguirlo.

Volendo Pansy avrebbe potuto permettersi il lusso di restare indietro, avrebbe saputo ritrovare la strada, muovendosi a proprio agio in territori conosciuti in più occasioni, eppure preferì non farlo, in qualche modo rispettosa della nuova storia di quella casa.

Lei l’aveva frequentata in altri tempi.

Nel seguire i passi frettolosi di Draco, Pansy continuò a guardare i ritratti accanto a sé, sentendo il respiro stringerle la gola. Aveva sempre avuto il terrore del giorno in cui entrando a Malfoy Manor avrebbe trovato tra i ritratti quello di Lucius Malfoy. Dal quinto anno attendeva quel momento con una certa agitazione, consapevole che avrebbe segnato la fine di un’era e probabilmente anche la fine di Draco Malfoy per come lo conosceva lei.

In un angolo remoto di quello che nella torre Gryffindor senza vergogna chiamano cuore, aveva sempre sperato di poter essere in un modo o nell’altro nei dintorni, quando fosse successo.

Draco proseguiva dritto, osservando con la coda dell’occhio Pansy appena alle sue spalle.

Quando scorse una cugina di terzo grado sollevare composta la mano in saluto a Pansy, avendola riconosciuta, sentì qualcosa che preferì non definire scaldargli il corpo.

Pensò di fermarsi e prendere la mano di Pansy, e annunciare a tutti che, che fosse diventata sua moglie o meno, era la donna che avrebbe voluto al fianco.

Poi però raggiungendo la fine del corridoio, percepì anche alcune voci farsi strada nella sala da pranzo.

«Nervosa?» si soffermò a prendere in giro Pansy, quando andò a sbattere contro la sua spalla non rendendosi conto che si fosse fermato. Le sue labbra chiare si tesero in un sorriso al veleno di Belladonna in risposta.

«Perché dovrei? Narcissa è tua madre, e tu sei stato convocato da lei, non io» lo redarguì facendogli cenno di compiere il grande passo e dimostrare di avere il coraggio di affrontare una genitrice del calibro di Narcissa Malfoy.

Draco tenne per sé lo strano presentimento che gli aveva serrato lo stomaco da quando suo nonno non era comparso all’appello dei dipinti nel corridoio di entrata.

 

●●●

 

Dopo essere stata cacciata con intenzioni chiarissime da casa Nott, Millicent aveva vagato senza una meta precisa con il solo scopo di trovare qualcuno di abbastanza fidato e discreto a cui rivelare la fantastica notizia dell’ormai certo ricongiungimento di Pansy e Draco.

Con ovvia casualità, esisteva un’unica persona fidata e discreta a cui poter rivelare la fantastica notizia, che corrispondeva a Blaise Zabini e stava sorseggiando brandy, ad un tavolo del locale all’angolo tra Diagon Alley e Nocturne Alley, al centro perfetto di quella ambiguità che a lui tanto piaceva sostenere.

«Ho piacevoli novità» gli comunicò prendendo posto accanto a lui, e causandogli il rischio di un infarto non avendo annunciato né il suo arrivo né la sua presenza.

«La bronchite è la malattia dei disadattati che non sanno vestirsi, ma un colpo di tosse è sufficientemente adatto ad avvisare che ci sei» le fece notare, scostandole la sedia perché potesse sedersi.

Il sarcasmo derisorio con cui l’accolse venne così equilibrato con la solita gentile eleganza con cui Blaise Zabini uccideva Millicent Bullstrode da un discreto numero di anni.

«Queste frasi di benvenuto le confezioni personalmente?» replicò risentita Millicent, cercando di non arrossire da subito. Negli anni aveva imparato a controllare le proprie reazioni emotive quando Blaise era nei paraggi, con grande soddisfazione di Pansy, che si era sforzata tra il terzo e il quarto anno per ottenere quel risultato.

«Mi ispiro al contenuto del taccuino del padre numero tre» replicò, consapevole che non fosse facile capire la sottile ironia per chi non fosse Draco o Pansy e non si fosse divertito come loro a chiamare i mariti della signora Zabini con dei numeri per non confondere la loro triste sorte. «La buona notizia?» aggiunse, sperando di aver già indovinato.

«Hanno sequestrato il guardaroba di Ginny Weasley?» si intromise una voce alle loro spalle, che Millicent sperò non corrispondesse a chi le richiamasse la memoria.

Tradendo ogni sua speranza, Blaise scostò una sedia anche per Tracey Davis.

«Temo di essere impossibilitata a parlarne» replicò glaciale a tal punto che Pansy si sarebbe commossa nell’assistere alla scena. Naturalmente Tracey ignorò l’accusa di terzo incomodo che le era stata rivolta e con sommo dispiacere Millicent dovette prendere atto che l’ospite atteso era in effetti Tracey e non lei, quando il cameriere servì il drink che Blaise aveva ordinato per l’altra.

«Tiro ad indovinare? Riguarda il re e la regina dello psicodramma?» domandò prendendo un sorso di champagne dalla flute .

Millicent desiderò che prendesse fuoco all’istante, oltraggiata al posto di Draco e Pansy, e lanciò di sottecchi uno sguardo a Blaise, in attesa che si alzasse in piedi e schiaffeggiasse Tracey Davis.

Naturalmente Blaise non fece niente di tutto quello che lei aveva sperato.

«Vuoi commuoverti un po’?» domandò invece, sporgendosi appena e lanciando a Tracey la tipica occhiata che si lanciano due ex amanti. Millicent non ebbe il tempo di sentirsi offesa né tradita, neanche a nome di Draco e Pansy, perché di colpo Tracey pensò bene di cambiare argomento, come seguendo un tacito accordo siglato in tre secondi con una sola occhiata al tavolo del locale.

Millicent conosceva la nomea di Tracey, di regina delle trattative, ma non credeva fino a tale punto.

Sapeva benissimo che a condurre l’affare era stato Blaise, e cercò in quel modo di non pensare troppo al fatto che per tre mesi quei due non avevano fatto altro che divertirsi ovunque il castello gliene offrisse occasione.

«Dovremmo comunque festeggiare» proclamò Blaise, facendo portare altre due flute di champagne.

Millicent soffocò un sospiro al pensiero dello champagne e di quello che aveva guadagnato all’altrimenti disastroso ricevimento a casa Nott.

A volte la mattina si svegliava ancora con l’impressione che Blaise avesse dormito su quel divano, e che il salone fosse ancora pregno del suo profumo.

«Mi sembra che la notizia, che nessuno dirà ad alta voce, faccia felici tutti» aggiunse Blaise, alzando il calice in direzione di Tracey, con uno sguardo limpido e tagliente.

Millicent comprese che si trattava di qualche particolare clausola del contratto appena concluso sotto i suoi occhi.

«Ai lieti fini» mormorò Tracey scontrando il proprio calice con quello di Blaise.

Millicent osservò torva la scena.

Blaise portò alle labbra il proprio, con un sorriso ironico.

«Alle storie senza morale».

 

●●●

 

Your father's gone a-hunting
He's deep in the forest so wild
And he cannot take his wife with him
He cannot take his child
Your father's gone a-hunting
In the quicksand and the clay
And a woman cannot follow him
Although she knows the way

[Leonard Cohen – Hunter’s lullaby]

 

La prima cosa che vide Draco, in mezzo ad un salone discretamente affollato per gli standard di Malfoy Manor degli ultimi anni, fu il nonno paterno, che inchiodò i  passi del nipote dalla cornice del prozio Wilbert, non appena lo vide entrare nella stanza.

«Alla buon ora, giovanotto» lo apostrofò guardandolo chiaramente storto.

Alla voce del suocero, Narcissa Malfoy si levò in piedi e Pansy constatò di aver quasi dimenticato l’algidità della sua bellezza. Suo figlio la guardò senza capire prima che il silenzio rarefatto di quella stanza lo spingesse a scavalcare la figura di sua madre, in un richiamo a cui, Pansy comprese solo tempo dopo, non era possibile resistere.

Quel colpo al cuore che gli prese, nello spostare lo sguardo poco più in là, Draco non sarebbe mai stato in grado di spiegarlo a nessuno. Era qualcosa di talmente fisico e personale che avrebbe potuto condividerlo in silenzio solo con sua madre, nella sconfinata incredulità che aveva squarciato la patina di un dolore consunto e abitudinario.

Pansy, in disparte, fissava lo sguardo attonito e ghiacciato di Draco, vide il suo corpo adulto, ora che era diventato un uomo, vacillare d’improvviso, abbagliato da quello che aveva davanti, colpito e affondato dal pensiero che quella fosse la realtà dei fatti e che quello fosse davvero suo padre, in piedi accanto al camino della loro casa.

E che lo guardasse con gli occhi grigi con cui lo aveva guardato quando lo aveva messo al mondo, in quella prima volta di cui Draco non poteva avere memoria di figlio; e che occupasse uno spazio reale e concreto, che gli era sempre appartenuto e che Draco aveva conservato per lui; e che respirasse, e avesse ancora lo stesso profilo che ricordava di lui l’ultima volta che lo aveva visto; e che lo guardasse senza parole, perché niente c’era da dire di fronte alla possibilità che lui fosse davvero suo padre e che fosse davvero tornato e che lui, Draco, allungando una mano potesse ancora toccarlo e sentire la pelle calda sotto i vestiti; niente c’era da dire e da pensare di fronte all’idea che lui potesse riaverlo indietro.

Che quello fosse suo padre e che gli fosse stato restituito.

Era una eventualità così remota, una gioia troppo grande perché lui potesse contenerla tutta, una consapevolezza così tremula che il terrore puro e avvolgente che potesse non essere vero era molto più forte del bisogno che sentiva di parlare con lui e di toccarlo.

«Papà?» chiese troppo spaventato per poterlo affermare; e lo chiese con la voce dei suoi diciotto anni, del figlio che era quando lo aveva perso, e di quello che sarebbe sempre stato.

 

Lucius Malfoy non trovò parole con le quali rispondere.

Probabilmente quella fu la conferma di un amore che non riusciva a trovare espressione, perché troppo grande e troppo intenso per le sue fragilità di uomo.

Suo figlio aveva le fattezze di un uomo e lui non lo aveva visto crescere; finalmente Lucius sovrappose l’immagine di quello che da solo Draco aveva forgiato per se stesso con il pensiero di lui che aveva nascosto dentro di sé per tutti quegli anni.

Annuì soltanto, senza trovare conforto né aiuto nelle parole; fu solo il  vederlo tremare che lo sospinse verso Draco, perché la colpa di ogni caduta che suo figlio non avrebbe meritato di dover sopportare era solo ed unicamente la sua, che aveva sbagliato i propri calcoli e non era stato neanche un uomo di sufficiente valore perché il Signore Oscuro lo accettasse come pegno del proprio fallimento.

«Stai in piedi» gli disse soltanto, poggiando le mani sulle spalle di Draco, e scoprì con un tremito che erano esili come sempre ma più larghe di un tempo, abbastanza perché potessero sorreggere il peso della vecchiaia di un padre. «Stai in piedi» gli disse ancora, stringendoselo contro, e non sapeva più se fosse lui ad appoggiarsi a suo figlio o il contrario.

Draco avrebbe avuto molte cose da dire, ma nessuna aveva più avuto un senso compiuto da quando suo padre lo aveva abbracciato e gli aveva detto di stare in piedi.

Avrebbe voluto spiegarli quanto fosse stanco, e mostrargli tutto il percorso che aveva fatto fino a quel giorno, e raccontargli di come avesse faticato e quante volte fosse caduto lungo la strada, e di come si fosse sentito perso, perché non sapeva quali orme seguire, senza l’impronta dei passi di suo padre davanti. Ma Lucius lo teneva per le spalle, e poi lo aveva abbracciato e continuava a dirgli «Stai in piedi, Draco, stai in piedi…» e dietro quelle parole Draco ne sentiva altre.

«E’ tornato tuo padre» gli sembrava di sentire, una confusione di voci, di adulto e di bambino, di domande e certezze, una richiesta legittima, una promessa finalmente mantenuta, E’ tornato tuo padre; papà è qui.

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Thanks to:

Meredith91: Grazie ^_^ Mi solleva sapere che Draco si fa amare, perchè io credo sia impossibile non amarlo infinitamente, come capita di fare con le cose imperfette della vita. Credo sia uno tra i personaggi più umani che sia stato creato in sette libri e che anche solo per questi meriti un tributo ♥

Entreri: Oh ma segui ancora la storia *_* Sono felice di ritrovarti :) Sì la sveglia di casa Malfoy va indietro di qualche anno, ma alla fine anche il pargolo ha capito quali sono le cose che contano nella vita XD Nonno Nott avrà parte nel disastro che sta per seguire, del resto da uno che prende pasticcini con i Ministri non ci si può aspettare niente di buono se si chiama Abraham Nott e non Arthur Weasley =P 

Nissa: Ma tranquilla, io sono la recensitrice più incostante di tutto EFP penso XD non ho diritto di parola in merito, e in ogni caso la recensione è qualcosa di molto personale, ovviamente non c'è mai nessun obbligo :) Però la tua mi ha fatto molto piacere XD Daphne è una bestiolina amabile, vero? Non vorrei davvero essere l'uomo che invecchierà con lei, ma è adorabile nella sua impertinenza, e Astoria tutto sommato ha la sua parte di difficoltà in tutto questo, mi sembrava giusto renderle qualche merito. Alla fine ha molto più coraggio di Draco e Pansy messi insieme, lei le cose le affronta subito, le va dato atto. Grazie mille per essere passata nello spazio recensioni, un bacio :*

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Note: Cercando di lasciarmi alle spalle un anno orribile, parto dieci giorni per un viaggio on the road. Quindi niente aggiornamenti per dieci giorni, ma ho un capitolo quasi pronto e idea di come porre fine a questo casino di storia, quindi tornerò :) A meno che un arabo non voglia fare di me la sua sposa, e allora FORSE potrei non tornare. Grazie a tutti, siete sempre molto care *__* 
Bri.

 

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Capitolo 14
*** XIV Nemesi storica ***


The way we were

 

XIV

Nemesi storica

 

 

To find a queen without a king…

 

 

Pansy non riusciva a distogliere lo sguardo da Lucius Malfoy.
I suoi occhi non erano quelli di un figlio che aveva vissuto gli anni più difficili nel ricordo di suo padre, e non aveva riconosciuto Lucius fino a quando Draco lo aveva chiamato “papà” e si era perso in un abbraccio che aveva tutte le probabilità di essere il primo.
Ai propri occhi, quello che risaltava maggiormente era quanto Lucius fosse diverso dall’uomo che ricordava, che altero camminava in ogni posto come ne fosse il futuro padrone, accompagnandosi con un bastone, un ornamento più che un supporto di cui non aveva alcun bisogno.
L’uomo che aveva abbracciato Draco invece era infinitamente stanco, spogliato di ogni arroganza, e forse in tutto quello che aveva perso, non era neanche più tanto padrone di sé.
Però aveva conservato quella bellezza aristocratica e fredda di cui Pansy aveva soggezione e ammirazione, e nonostante avesse le ossa piegate dalla prigionia era ancora in piedi e dava ordini a suo figlio, aveva ancora la forza di stringere qualcuno tra le braccia, e i capelli biondi di sempre, accompagnati da una barba rada che Pansy non aveva mai visto sui lineamenti decisi e affilati del suo volto.
Aveva la voce arrochita da anni di silenzio, e gli occhi grigi velati dalle immagini dietro cui si era barricato per vincere la lotta all’autodistruzione, al logorio interiore che Azkaban scavava nell’anima dei suoi ospiti.
Pansy distolse presto lo sguardo, sentendosi di troppo in quel ricongiungimento ancestrale tra Draco e suo padre, e avvertì qualcosa pungerle il cuore quando d’improvviso le immagini di quei due uomini così vicini si confusero tra loro.
Mai in una vita avrebbe immaginato che le mani di Narcissa Black potessero quasi tremare, o che i suoi occhi freddi potessero adagiarsi carezzevoli su qualcuno in presenza di altri che non fossero un figlio e un marito.
Quasi inconsapevolmente Pansy arretrò di un passo, e poi di un altro, ripercorrendo la strada di prima, cercando nel corridoio aria sufficiente per respirare come si confà a chi è padrone di sé.
Le sembrava impossibile che Lucius Malfoy fosse tornato da Azkaban, tanto impossibile che qualcosa le impediva di esserne felice.
«Credevo che fosse preparata alla teatralità della nostra famiglia» la raggiunse la voce rude del prozio Wilbert, sfrattato dalla propria cornice dal padre di Lucius, poco prima.
Pansy sollevò la testa di colpo, spaventata.
L’uomo le sorrideva dal bordo della cornice, lisciando tra le dita la propria sciabola, incastonata.
«Ci sono più colpi di scena in una cena a casa Malfoy che in tre atti di un’operetta, le pare?» proseguì invitandola a prendere parte al proprio monologo.
Pansy annuì, guardandosi intorno, e scoprendo di avere addosso tutti gli sguardi della progenie Malfoy, con qualche comparsa Black, presenti nel corridoio. Rivolse un sorriso piuttosto esplicito a tutti loro, chiarendo che gli esami le erano sempre piaciuti poco.
«Si aspettava di trovarlo cadavere, non è vero?» domandò ancora il prozio Wilbert, provocando una risata sommessa da sua cugina, al suo fianco.
Pansy la incenerì con lo sguardo senza troppe remore, guadagnandosi senza saperlo le simpatie di Archibald Malfoy, che mai aveva sopportato le sciocche moine di sua sorella.
«Azkaban non è famosa per la sua clemenza» fece notare in propria difesa.
Le parve inutile spiegare a quella gente perché le risultasse più semplice prepararsi al peggio, piuttosto che crogiolarsi in speranze che mai si sarebbero avverate.
Wilbert affilò il proprio sguardo in direzione di Pansy, deponendo la sciabola al proprio posto.
Pansy non osò sperare che fosse un buon segno, per restare in tema.
«Lo diverrà il Ministro di Grazia e Giustizia, al suo posto» osservò sardonico un lontano barone, tre quadri più su. Wilbert ne rise, seguito da qualche altro esponente della fanteria Malfoy.
Poi calò il silenzio sul corridoio, da parte di tutti i ritratti, concentrati con i propri sguardi su Pansy, in attesa di leggere sul suo viso il barlume della comprensione.
Non tardò ad arrivare, compiacendo tutti loro sull’arguzia e la scaltrezza di quella che a nessuno sarebbe dispiaciuto accogliere nell’albero genealogico del casato.
«Miss, se mai deciderà di togliersi la vita, sappia che sarò bendisposto ad ospitarla nelle mie pittoresche dimore» le fece presente l’Archibald di poco prima, schiarendosi la voce.
Sua sorella lo guardò indignata, ancora offesa per l’occhiata torva che Pansy le aveva rivolto, ma dovette compiacersi di quella identica che riservò anche a suo fratello dopo la gentilezza di quell’invito.
«Non vorrei offendere i vostri gusti, ma trovo che i melodrammi siano fonte di imbarazzo per la dignità del genere umano» replicò leggermente stizzita Pansy, mentre cercava di non essere sopraffatta dal peso di quella notizia.
Nessuno torna da Azkaban senza pagarne il prezzo, neanche Lucius Malfoy e la sua abilità nella compravendita di valori e occasioni d’oro.
«Smettetela di importunare i nostri ospiti» si intromise imperiosa la voce di Narcissa, scivolando nel corridoio e mettendo a tacere illustri baroni e facoltose duchesse.
Pansy sussultò come scottata, quando sentì la mano di Narcissa posarsi sulla spalla, invitandola a seguirla, e tornare sui suoi passi.
«Hanno un concetto di ironia piuttosto discutibile» mormorò sottovoce, facendo intendere a Pansy di aver condiviso più di una volta i pensieri che in quei minuti le avevano attraversato la mente.
Pansy pensò di chiederle l’immane favore di non parlare in tono tanto confidenziale, di non toccarla in quel modo, di non sorriderle con quello sguardo sornione, di non rievocare i tempi in cui da piccola aveva sentito quel castello anche un po’ suo, perché a ben vedere la felicità di quel ritrovo la stava uccidendo lentamente, nel prendere atto che il ritorno di Lucius Malfoy l’avrebbe allontanata per sempre da Draco.

 

●●●

 

…wondered how tomorrow could ever follow today.

 

Narcissa ebbe l’impressione di avere qualcosa in comune con Pansy, dai primi tempi in cui lei e suo marito frequentavano i signori Parkinson, scambiandosi visite reciproche nei propri manieri.

Era quell’aria disincantata che le leggeva nello sguardo, quel suo modo di essere curiosa ma con cautela: le ricordavano la circospezione con cui da piccola si guardava intorno per prendere le misure, per essere certa di non inciampare goffamente come fanno tutti i bambini.

Allora lei era ancora una novella sposa, e già sapeva a cosa sarebbe andata incontro.

Pansy sembrava sicura delle sue intenzioni e consapevole dei rischi che avrebbe dovuto correre per ottenerle già da bambina.

Narcissa era stata più vezzeggiata di lei, e nel diventare una donna aveva conservato la morbida eleganza di chi non ha dovuto porre troppe domande per ottenere conferme, laddove Pansy opponeva recalcitrante la fierezza dell’orgoglio di chi ha dovuto rinunciare ad avere sicurezze dagli altri costruendosi da sola le proprie risposte.

Ma soprattutto, quello che Narcissa Black e Pansy Parkinson condividevano, era il pesante fardello dell’amare un certo tipo di uomo.

«Immagino che tu sia piuttosto confusa» mormorò Narcissa, facendole strada nei giardini interni del maniero.

Pansy concentrò lo sguardo sui propri passi. Il giardino era diverso da come lo ricordava, molto più selvaggio pur nella sua armonia di forme e di colori. Immaginò che tutti avessero avuto diverse distrazioni, negli ultimi tempi, e che avessero sprecato ogni loro forza nella cura del proprio personalissimo dolore piuttosto che negli alberi da frutto.

«Temo di non esserlo affatto, invece» rispose Pansy, sentendo qualcosa gravarle sul petto e impedirle di prendere ampi respiri. Cercò di non incontrare gli occhi di Narcissa, perché aveva una certa considerazione di lei, che a ben vedere sfiorava i picchi dell’adorazione, e avrebbe preferito non mostrarle quanto profonda potesse essere la ferita che aveva addosso.

Narcissa sorrise quietamente, come se tutto sommato avesse già capito le regole del gioco.

«Ero più che certa che Draco fosse con te».

«Lo hai reso piuttosto chiaro, nel tuo biglietto» mormorò Pansy imbarazzandosi al posto di Draco. Avvertiva una irrequietezza di fondo agitarsi in lei; percepiva lo scorrere dei minuti come una inarrestabile discesa verso la conclusione di qualcosa, e si dimenava tra il contrastante desiderio di porre fine a quel tormento e la speranza ridicola e tristemente umana che la fine ritardasse il più possibile.

I giardini erano avvolti nel silenzio, e Pansy si chiese di cosa stessero parlando Draco e Lucius nel salone, immaginando con quali sguardi si abituavano alla presenza reciproca.

«Hai mai pensato di non poterlo riavere?» domandò di colpo, sentendo le parole venire fuori dalle proprie labbra. Narcissa percepì su di sé lo sguardo bruciante di Pansy, e si sentì in dovere di essere sincera con lei, dovendoglielo come donna e come in parte responsabile di quella sua infelicità.

«… ho iniziato a considerare l’idea» ammise, cercando di arginare tutto quello che aveva accuratamente tenuto sotto chiave in quegli anni di solitudine, in cui si era tenuta occupata con la gestione degli affari di famiglia, perché mettere le mani tra le carte di Lucius si era rivelato essere uno dei pochi modi rimastole per sentirlo ancora vicino, forte e presente, nella sua quotidianità.

Sapeva di non poter mentire, con Pansy Parkinson, perché anche lei per molto tempo aveva imparato a convivere con il pensiero di Draco vedendolo ridursi giorno dopo giorno a ricordo.

Narcissa aveva trovato inconcepibile che accadesse, con Lucius.

Che suo marito divenisse una figura lontana e al margine della sua vita, l’immagine cui votare un pensiero la sera quando le incombenze della giornata erano concluse, il nome di cui parlare al passato, l’altra metà di se stessi atrofizzata dal gelo dell’assenza.

Merlino solo sapeva quanto lunghi erano stati i giorni, e quanto difficile restare in una casa permeata di ogni aspetto della vita di Lucius. In qualche modo sapeva che Pansy sarebbe stata perfettamente in grado di comprendere tutto quello, senza che lei dovesse sforzarsi di trovare parole, in ogni caso vuote e senza voce al confronto dell’intensità del sentimento.

«E cosa hai pensato di fare, allora?» domandò timidamente Pansy.

Aveva un disperato bisogno di prendere le misure anche lei con quello che le sarebbe spettato di lì a poco.

Narcissa estrasse la bacchetta dalla manica del proprio vestito, richiamando a sé un portasigarette nascosto in una fenditura del muro. Lucius trovava poco piacevole l’odore di fumo, e lì si chiudeva l’elenco dei segreti che Narcissa aveva con lui.

«Sono entrata nel suo studio e ho provato a mettere via la sua borsa da lavoro» rispose, espirando un po’ di fumo. Pansy cercò di immaginare Narcissa e le sue mani sottili avvolgere quella borsa da lavoro in un panno e riporla in un cassetto, lontana dagli occhi, e le sembrò un’eresia.

«Le sue piume e le boccette di inchiostro, le camicie nell’armadio, il suo bastone» proseguì Narcissa, scrollando della cenere a terra. Ne parlava con tono distante, quasi preferisse salvarsi relegandosi a spettatrice di quel tentativo sciocco e patetico, inutile.

Rise di sé, guardando lontano.

«Ho rimesso tutto a posto, la mattina dopo» concluse, sorridendole incredibilmente delicata.

Pansy notò per la prima volta quanto fosse fragile la sua bellezza, come bastasse un solco di dolore agli angoli degli occhi belli e glaciali perché si sfigurasse e tornasse disperatamente umana, come tutti gli uomini di questa Terra.

«Ho chiesto a Draco di prendere il bastone, e portarlo nel suo studio» ammorbidì la voce «Credo che lo abbia tenuto per sé». Pansy non sentì il bisogno di darle conferma, ricordandosi di averlo visto adagiato in uno studio che però era quello di Draco.

«Ma comunque» riprese quasi vergognandosi di quelle parole, «per quanto l’idea possa non piacerti, si sopravvive a tutto, anche ad una vita senza di loro».

Pansy comprese che avrebbe dovuto accettare quelle parole e custodirle da qualche parte dentro di sé, perché sarebbero state sempre il porto a cui tornare il giorno in cui avrebbe voluto salvarsi.

Quando si decise a sollevare lo sguardo, incontrò quello di Draco, inerme, che guardava dietro il vetro della finestra lei e sua madre.

Forse si chiedeva anche lui quali segreti si stessero raccontando, e quali consapevolezze Pansy avesse acquistato. Forse le stesse che suo padre gli aveva appena gettato addosso, perché la guardava come se quel vetro fosse acciaio e la vista iniziasse a sbiadirsi, tra loro.

Narcissa ricordò il giorno in cui aveva raggiunto suo marito, dietro quella stessa finestra, intento a fissare il giardino di cui si era preso cura per tutti quegli anni, che aveva coltivato e accudito come ogni progetto che entrambi avevano ideato e condiviso per loro figlio. Quel giorno gli occhi grigi di Lucius Malfoy erano della stessa tormentata intensità di quelli di suo figlio in quel momento. Narcissa si era accostata a lui, e Lucius, nel silenzio delle sue sconfitte, le aveva regalato la parte di sé che gli era rimasta, ad un passo dalla fine. “E’ stato un delirio di onnipotenza. Sono solo un uomo, Cissa. Ho sbagliato i conti. Cosa succede ad un uomo, quando sbaglia?” le aveva chiesto, con l’orrore nella voce.

Narcissa non aveva trovato risposta, perché le sembrava di aver commesso tutti gli sbagli che un uomo potesse commettere, scoprendo che suo padre e sua madre, la propria famiglia, le avevano insegnato soltanto ad occultarli e a fingere che non fossero mai stati commessi, e non le avessero minimamente insegnato a risolverli ed utilizzarli preziosamente, come garanzia che certi errori non si sarebbero ripetuti due volte, neanche con i propri figli.

Mai come quel giorno si era sentita del tutto abbandonata da un padre che invece l’aveva coperta di attenzioni fittizie, per tutta la vita.

«Mio padre non mi ha mai chiesto scusa, Pansy. Prima di morire mi ha guardato con occhi pieni di amore, dispiaciuto perché doveva lasciarmi, ma nella sincerità della sua morte non ha sentito di dovermi delle scuse. Penso molto a voi. Poveri ragazzi. Che cosa vi abbiamo fatto?” mormorò piena di rammarico e di dolore.

 

Pansy dal canto suo rimase lì dov’era, immobile, a fissare Draco e l’angoscia che gli leggeva addosso e che sentiva avvolgerla poco a poco. In attesa che il resto accadesse, con l’inevitabilità con cui gli errori svelano se stessi, cadendo senza freno su chi li ha commessi.

Qualche secondo dopo Astoria si materializzò alle spalle di Draco seguita dai suoi bauli ed elfi domestici. Pansy e Narcissa osservarono la scena dal giardino: il Draco sfinito, vinto dagli eventi, che si voltò per salutarla, e l’aria grave ma sicura di sé con cui Astoria posò le labbra su quelle di suo marito, senza accorgersi di tutto il resto, come se portasse il peso di una ricchezza con sé, di una ricchezza ben più grande del cerchietto d’oro che le fasciava l’anulare sinistro.

Lucius Malfoy apparve poco dopo, lasciando il salone, per andare incontro alla moglie di suo figlio che mai aveva conosciuto. Pansy fissò attentamente Astoria e il suo sorriso emozionato, nello stringere la mano di quel Lucius Malfoy di cui aveva tanto sentito parlare, ma non le sembrò affatto sorpresa né sbigottita di trovarlo in casa propria quando secondo la sentenza delle Corti unite del Wizengamot difficilmente la sua data di scarcerazione gli avrebbe permesso di vedere nascere un nipote.

Sembrava anzi che aspettasse quel momento, e che avesse sistemato i propri capelli per l’occasione.

A quel punto, Narcissa seppe di non dover aggiungere altro.

Sebbene da oltre il vetro Pansy non potesse sentire la voce di Astoria, annunciare tremante di aspettare il prossimo erede Malfoy, non sentì comunque alcun bisogno di riceverne conferma. La gestualità apparve molto chiara a tutti.

Prima che si smaterializzasse, incontrò lo sguardo di Draco, un’ultima volta.

La guardava e nei suoi occhi e nella tensione che sentiva addosso cercava di ricordarle che nonostante tutto non era cambiato niente rispetto a poche ore prima e a tutti quegli anni. Che era ancora suo, e che lei non sarebbe mai potuta appartenere a Theodore, e che avrebbero potuto sposarsi con altre persone, e fare figli, e costruire una famiglia con loro ma mai, mai nessuno sarebbe stato in grado di amarla quanto la amava lui.

 

●●●

 

Seems that the wrath of the Gods
Got a punch on the nose
and it started to flow;
I think I might be sinking.
Throw me a line if I reach it in time
I'll meet you up there where the path
Runs straight and high.

 

Di tradimenti Blaise Zabini poteva dirsi un grande esperto, essendo cresciuto sotto lo stesso tetto della più grande ingannatrice della storia; passando poi per i sette anni trascorsi nelle dimore Slytherin, senza contare le piacevolezze a cui si era lasciato andare senza per questo offrire garanzie di monogamia a nessuna che le condividesse con lui. E dato che non si conosce niente se non grazie al suo contrario, poteva dire di conoscere qualcosa anche in fatto di lealtà, e più perché aveva stretto quel rapporto a tre con Draco e Pansy, che per i dettami della logica Slytherin, a dirla tutta.

Ma a ben vedere, poteva avere solo due certezze, nella vita, nonostante fosse Blaise Zabini e sapesse ottenere le giuste promesse da chi gli viveva intorno. La prima certezza, riguardava Draco e Pansy, che mai avrebbero lasciato le sue spalle scoperte nel caso – improbabile – ce ne fosse mai stato bisogno, e la seconda era il brandy. Fedele compagno che mai lo aveva tradito in tutti quegli anni, continuava ad essere il suo interlocutore preferito, da quando si era del tutto disabituato alle velleità comunicative tipiche degli esseri umani.

Le sincerità delle persone lo mettevano a disagio, senza alcun dubbio.

A ragione di questo, quando quella sera rischiò di rovesciare per terra il brandy che aveva versato a se stesso nel solito bicchiere, Blaise Zabini si sarebbe alquanto innervosito, se la ragione dello sventato incidente non fosse stata Draco Malfoy.

«Per Merlino!» esclamò stranamente su di toni per la placida eleganza con cui esprimeva di solito le sue contrarietà. Draco non si scompose in alcuno stupore per l’evento, consapevole di avere un aspetto tanto terribile da poter giustificare una reazione del genere.

Blaise lo squadrò per qualche istante, cercando di capire se non avesse davanti una delle solite allucinazioni che lo coglievano dalla fine della guerra, come reflusso di quanto aveva visto accadere sotto i propri occhi e anche come effetto delle droghe che Warrington si premurava di fargli arrivare, puntuale come un orologio svizzero.

«Se Pansy fosse stata la ragione di questa spossatezza, avresti la cravatta di traverso e un’aria un po’ più appagata» osservò ragionando tra sé. Il lampo di dolore che attraversò lo sguardo di Draco nel sentir nominare Pansy lo convinse del fatto che quella sera avrebbe dovuto condividere la sua preziosa riserva con un vecchio amico.

«E’ tornato mio padre» sputò fuori Draco, raggiungendo a passi nervosi la finestra, spalancandola.

«In licenza?» domandò ironico Blaise, stemperando lo sgomento che lo aveva colto.

L’altro richiamò a sé con la bacchetta il pacchetto di sigarette dal primo cassetto del comodino di Blaise. «Serviti pure, è un piacere avertele offerte». Draco ne accese una, prendendo atto che non era affatto una sigaretta, e che Warrington fosse passato di lì recentemente.

«A che ti servono, me lo spieghi?» gli domandò, aspirando il fumo. Lo avvolse un profumo lontano ed esotico, un invito recondito a disperdersi nel nulla, ben diverso dal sapore agre e maschile del tabacco che fumava di solito. Blaise lo guardò sornione, accendendo una sigaretta a sua volta, certo che alla seconda boccata non avrebbe avuto bisogno di spiegare altro.

La perdizione era una delizia più voluttuosa del corpo di una donna tra le braccia, persino delle labbra di Daphne e dei luoghi inconsueti in cui amavano poggiarsi. Fare l’amore con Daphne lo appagava e lo faceva sentire bene per la durata di un amplesso, ma non gli dava la sensazione di salvezza che provava in quel modo.

Il corpo di Daphne poi era infinitamente bello ma troppo materiale, sotto le sue dita, e tra le sue gambe; che fosse una carezza o la contrazione dei muscoli nella tensione di un abbraccio, gli ricordava quanto tutto fosse reale, al punto da risultare anche doloroso, in fin dei conti.

Non avrebbe mai potuto perdersi in lei, perché doveva prestare attenzione a tutto il resto: ai confini da non lasciarle varcare, alla sapienza amatoria a cui doveva prestare fede, alle parti di sé che le concedeva di toccare, ma mai fino in fondo.

“E questa?” gli aveva domandato la sera prima, incontrando la cicatrice che aveva sulla nuca, nascosta dai capelli corvini, troppo corti per occultarla a dovere. La domanda era stata curiosa, perché non aveva idea del mondo che nascondeva un taglio tanto superficiale da essersi rimarginato senza troppe storie nel giro di poco tempo. Restava solo la cicatrice, e Blaise aveva fatto di tutto per non cedere alla banalità di quella situazione; per non dover spiegare che una cicatrice nasconde la ferita più profonda, che con ogni probabilità non può essere rimarginata, ed è pronta a sanguinare non appena chiunque cercherà di rimuoverne l’imperfezione dalla pelle altrimenti perfetta, integra, del proprio corpo.

Avrebbe dovuto spiegarle che, in una guerra, anche chi si ammanta della divisa splendente e brandisce l’arma del giusto, rinuncia alla propria irreprensibilità, e prima o dopo attacca qualcuno alle spalle. E avrebbe anche dovuto giustificare l’ironia con cui Daphne gli avrebbe fatto notare che Blaise Zabini non si sarebbe mai fatto prendere alle spalle.

Allora, avrebbe dovuto raccontarle di cosa avesse visto sotto i propri occhi, che lo avesse pietrificato a tal punto da dimenticare di proteggersi da una ferita, o peggio, una morte, da idiota sprovveduto come un Hufflepuff qualunque.

A quel punto spostò involontariamente i propri occhi su Draco, e se Daphne avesse potuto sentirlo, le avrebbe detto che proprio non poteva spiegarle tutto quello, perché non era disposto a raccontarlo neanche a Draco, di come fosse stato credere per quegli interminabili secondi che Pansy Parkinson fosse ai suoi piedi, riversa in terra come una persona qualsiasi, scomposta come mai era stata in vita, inerme come mai si era concessa di essere in tutti gli anni in cui l’aveva conosciuta.

E il corpo di Daphne stretto al proprio non cancellava il ricordo di quell’immagine, la fissità con cui si stampava prepotente davanti ai suoi occhi. Riusciva a dissiparla solo con una sigaretta di Warrington, che lo trasportava lontano dalla contingenza di quella vita, e lo stordiva con lusinghe remote, che parlavano di serenità e lo avvolgevano in quella dolce incoscienza per un po’. E quando l’effetto di abbandono terminava, e tutto tornava drasticamente sotto i suoi piedi, aveva imparato a fare affidamento sul brandy e il bruciore che gli lasciava in gola, che lo abituava a riprendere confidenza con le asprezze della vita reale.

Guardando le spalle di Draco, tese, e le sue labbra pallide contratte in una smorfia di rabbiosa sofferenza, Blaise si chiese se davvero avesse bisogno di tutto quello scetticismo, riguardo quella sigaretta contraffatta.

«Lo faccio per Warrington, è l’unico modo per farlo sentire ancora utile in questo mondo» rispose sarcastico, evitando la scomodità di una risposta già conosciuta. Draco sorrise senza allegria. «Che ci fa tuo padre qui?» domandò Blaise, tagliando corto.

«Nott» spiegò Draco seccamente, scagliando lontano la sigaretta. Blaise replicò con un silenzio piuttosto funebre. «Astoria è incinta» aggiunse Draco, per rendere chiaro l’ultimo passaggio dell’equazione che Blaise stava risolvendo a mente.

A quel punto Blaise versò dell’altro brandy nel bicchiere che aveva preparato prima per sé, e poi lo passò a Draco con fare pratico.

«Manda giù» lo invitò con voce infinitamente stanca. Sopravvivere era di gran lunga più difficile che chiudere gli occhi e lasciarsi morire, eppure era ancora la cosa più inevitabile che tutti loro potessero fare, a quanto sembrava. Draco accettò il bicchiere, distrattamente. Pensava che una nuova vita stava per nascere, e che ne era stato in parte creatore, mentre lui era nauseato e stanco della propria.

Si chiese se un figlio sarebbe stato in grado di percepire quel pensiero.

Poi si ricordò di se stesso, bambino, e comprese che avrebbe dovuto affinare la propria arte del fingere.

«E’ scortese chiederti come hai fatto ad essere così imbecille?» proruppe Blaise senza alcuna delicatezza. Draco lo guardò spiazzato per la seconda volta nel giro di pochi minuti, registrando che mai era capitato né a lui né a Pansy di potersi meravigliare di qualcosa di detto o fatto da Blaise. E invece era la seconda volta e in ogni caso non poteva dargli torto né difendersi in alcun modo.

Blaise vide Draco serrare la mascella e ripetersi la stessa domanda. Chissà da quante ore se la stava ponendo. Chissà quanto aveva già deciso che non si sarebbe mai perdonato. La leggerezza con cui aveva assecondato accondiscendente i desideri di una moglie esasperante, senza tenere di conto che anche l’essere più mefitico del pianeta ha un cervello per elaborare progetti. Avrebbe dovuto prestare più attenzione alle sue parole, alle allusioni a quella vita insieme, avrebbe dovuto ricordarsi che il semplice fatto che lui non la avesse mai amata, non rendeva altrettanto ovvio il fatto che Astoria serbasse odio o indifferenza nei suoi confronti.

Blaise lo guardava severamente, e nell’ombra del suo sguardo Draco poteva scorgere ugualmente il rammarico per quella incapacità dei suoi migliori amici di sapersi conquistare le proprie felicità.

«Non so che fare» mormorò Draco, passandosi una mano sul mento; le dita incontrarono la ruvidità della barba che aveva dimenticato di radere negli ultimi giorni. Astoria glielo aveva ripetuto ogni giorno e lui ostinato l’aveva ignorata. Blaise si lasciò sfuggire uno sbuffo di amaro sarcasmo. «Ho il sospetto che tuo padre abbia detto la stessa cosa a Narcissa, prima di finire per immolare suo figlio per i piaceri del suo Padrone» commentò tagliente.

Draco lo guardò pieno di sconforto e allo stremo delle forze.

Tutte le energie guadagnate nell’avere Pansy al fianco, lungo il corridoio di Malfoy Manor; quella piacevolezza che aveva ammorbidito un cuore pieno di insoddisfazioni e risentimenti nel fare di nuovo l’amore con lei e portarla di nuovo in casa propria, si erano dissolte nel giro di un pomeriggio.

«Potresti dirmi qualcosa che già non so, Blaise?» replicò nervoso, forse addirittura arrabbiato, come il leone che si ritrova in gabbia e non sa come uscirne.

Blaise scrollò le spalle, rassegnato a non avere notizie nuove e confortanti.

«Mi viene solo in mente che—» fece per dire, ma Draco non lo stava già ascoltando, del tutto perso nell’immensità di quel disastro.

«Astoria aspetta un figlio, per Diana! Non ho mai imparato ad esserne uno, e adesso addirittura lo metto al mondo!» urlò, e Blaise era un abile conoscitore delle psicologie inverse di Draco, abbastanza da capire che dietro tutta quella rabbia e frustrazione non c’era altro che panico e angoscia per una situazione più grande di lui, l’ennesima.

«Probabilmente sei troppo agitato per cogliere la perfetta architettura del tutto» gli fece notare Blaise «la sagacia di Abraham Nott nel muovere le sue pedine, e il moralismo della famiglia Greengrass per fare scacco matto» proseguì, del tutto assorto nei suoi giri di pensiero. Razionalizzare lo aiutava a sopravvivere nel tumulto delle emozioni, a differenza di Draco, che era drasticamente simile al vorrei ma non posso gestire qualcosa senza perdere la testa all’ultimo minuto di suo padre. «Lucius Malfoy torna a casa per sentenza del Ministro di Grazia e giustizia, profumatamente ricompensato dal signor Nott, e tua moglie correda il quadretto familiare con un pargolo in arrivo, che porterà gioia alle prossime cene di Natale» illustrò in modo fin troppo vivido secondo Draco. Si sentì assalire da una profonda infelicità.

«E’ stato terribile vivere senza un padre pur avendone uno, no? Non saresti mai in grado di abbandonare tuo figlio, condannandolo alle tue stesse tristi sofferenze» si avviò alla conclusione Blaise. Si versò ancora del brandy, e lo mandò giù in un solo sorso, perfettamente allenato. Poi tornò a guardare Draco, senza la pretesa di nascondergli niente di quanto lo aspettasse, per quanto fosse certo che la sua mente arguta avesse già eseguito tutti quei ragionamenti. «E qualora prendessi in considerazione l’idea di farlo, di lasciare tua moglie e tuo figlio da soli… la sentenza verrebbe revocata, e Lucius Malfoy tornerebbe nei recessi di Azkaban fino a—» a quel punto Draco alzò una mano, per fermarlo.

«Ho capito, Blaise, ho capito da prima che ti esibissi tu!» sputò fuori Draco, lasciandosi cadere sul letto, le mani tra i capelli, in una posa struggente perché sincera.

Blaise abbassò il proprio bicchiere, e si sedette accanto a lui.

Lentamente il bicchiere scivolò dalle sue dita, mentre Blaise giaceva lì, accanto al suo compagno burattino, dai fili recisi.

«Blaise» lo chiamò Draco, senza trovare il coraggio di alzare anche solo lo sguardo.

«Vuoi che ti uccida?» chiese con un’ironia lugubre.

«No, passami una sigaretta» replicò l’altro, la voce ridotta ad un sussurro, perché parlare avrebbe dato solo più concretezza alla loro vita, ricordando ad entrambi di essere capaci di intendere e soprattutto di volere. Se avesse potuto non avere davvero scelte, forse si sarebbe sentito meno iniquo di fronte a tutto quello. Poi però pensava alla scelta che aveva fatto anni addietro, agli occhi di Pansy il giorno in cui lo aveva capito e per timore non gli aveva chiesto conferme, e pensò a tutte le altre scelte che avrebbe potuto compiere con lei, e si disse che non era sbagliato scegliere. Era soltanto terribile sapere di averne la possibilità ma non il diritto.

«Quelle di Warrington» aggiunse, strappando a Blaise un sorriso mesto.

 

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Spent my days with a woman unkind,
Smoked my stuff and drank all my wine.
Made up my mind to make a new start,
Going To California with an aching in my heart.
Someone told me there's a girl out there
with love in her eyes and flowers in her hair

[Led Zeppelin – Going to California][1]

 

 

Theodore Nott trascorse, con precisione, quindici minuti fuori dalla porta della propria camera da letto, quella sera.

Suo nonno lo aveva convocato nel suo ufficio per dargli di persona la lieta notizia: Astoria Greengrass in Malfoy avrebbe dato alla luce un bambino. Theodore gli aveva impedito di aggiungere altro sbattendogli sotto il naso la prima pagina della Gazzetta del Profeta, edizione speciale. Interamente dedicata alla scarcerazione di Lucius Malfoy, per una collaborazione dell’ultimo minuto e per alcuni revisionismi degli atti del processo.

Tutta la Londra magica era indignata, e poteva immaginare il trio Gryffindor, che ora era diventato una famiglia, con a capo Harry Potter, fremere di rabbia e sguinzagliare i migliori amici avvocati per cercare di ottenere una revoca alla sentenza.

A Theodore non interessava però del magnificente trio e di come si leccasse le ferite di una guerra, chiuso nella sua torre, con l’ultimo piano nel regno dei cieli.

«Morirai senza aver sentito il mio ringraziamento, per questo» gli comunicò livido di rabbia, sbattendo la porta del suo studio. Abraham Nott non aveva proferito parola, soddisfatto della propria influenza recentemente messa alla prova, e stanco di dover fare i conti con i diversi approcci alla vita che aveva con suo nipote.

«Theodore è lì al Maniero?» aveva domandato dieci minuti più tardi la testa di Tracey Davis, stranamente timida, dal camino del soggiorno. Il signor Nott l’aveva squadrata sospettoso, prima di sospirare pesantemente, e chiudere gli occhi su quella giornata.

«Recita il lamento dietro la porta dell’amata, Miss Davis» le comunicò. Aprì un occhio. «Se si tratta di affari, prenderò le sue veci».

Tracey scosse la testa, ritirandosi nella stanza in affitto che occupava in attesa della firma sulle carte dell’ultimo divorzio.

«Gli faccia sapere che se smettesse di lamentarsi e bussasse alla porta, si aprirebbe con più probabilità» rispose con un sorriso ambiguo. «Parlavo della mia porta, ovviamente» aggiunse, lanciando un’occhiata incredibilmente sincera in direzione del patriarca. Abraham la guardò per alcuni istanti, del tutto allibito, chiedendosi se la vecchiaia non gli giocasse brutti scherzi. Poi riconobbe in quegli occhi la luce che aveva letto in quelli di sua moglie, il giorno in cui l’aveva chiesta in sposa e con un cenno del capo salutò Miss Davis, tornando a chiudere gli occhi, stavolta sui propri ricordi.

 

Quindici minuti più tardi, Theodore si decise a bussare alla porta.
«Pans, sono io» si annunciò, facendo leva sulla maniglia.
Trovò la sua quasi – moglie in piedi sulla cassapanca ai piedi del letto, con indosso il suo abito da sposa. L’immagine ferì il suo sguardo e sentì una quieta tristezza inondargli il cuore, quando guardandola in viso, per metà nell’oscurità, comprese che quella sarebbe stata la prima e ultima volta che le avrebbe visto quel vestito addosso.
«Non avresti dovuto vederlo» mormorò lei, voltandosi verso Theodore. Aveva la voce flebile e la pelle bianca. Non aveva mai visto quella fragilità in Pansy Parkinson, sempre intrattabile negli anni di Caposcuola e sarcastica in quelli normali; sfuggente negli anni del loro fidanzamento, silenziosa nelle loro notti d’amore, ma sempre forte delle sue volontà, sempre capace di provocare suo nonno e sostenere velate discussioni con lui.
«Non avrei neanche dovuto chiederti di sposarmi» aggiunse pieno di rammarico, ma anche di tenerezza. Per le proprie illusioni, e per la tristezza di Pansy.
A quelle parole Pansy vacillò su quella cassapanca, schiacciata dal peso della verità e anche dal senso di colpa che era tornato a stringerle la gola. Se ancora non aveva pianto, forse era perché neanche si sentiva legittimata a farlo. Di certo non in casa di Theodore.
Lui si avvicinò, lentamente, come se i ruoli fossero invertiti e lungo la navata della chiesa che avrebbe ospitato la loro unione, fosse stato lui ad andarle incontro, divorando ogni passo con l’impazienza dell’innamorato, che vuole solo le labbra e la vita della donna che ha di fronte.
La sua sposa aveva lo sguardo smarrito e pieno di lacrime che non avrebbe pianto, e lui continuava a trovarla bella anche consunta da quel dolore antico e privato.
«Le cose sarebbero andate diversamente, forse» disse lei, parlando più a se stessa che a Theodore. Lui non rispose, concentrato sulla sacralità dell’evento. Se non fosse esistito Draco Malfoy; se lei non lo avesse mai amato; o se non lo avesse mai ritrovato, riuscendo a tenere chiuso quel cassetto in cui aveva riposto il pensiero di lui.
«Tu non avresti voluto niente di diverso, Pansy» rispose per lei Theodore, porgendole la mano perché scendesse da lì sopra e lo raggiungesse, per una volta, restando con lui allo stesso livello. «E’ la tua condanna» proseguì troppo dolcemente perché non potesse comunque prendersi la giusta rivincita che gli spettava, dicendole la verità tanto scomoda a cui lei aveva cercato di non dare voce e di ignorare «… vivere di assoluti».
Pansy lo guardò, senza dire niente, perché non c’era altro da aggiungere.
Sentiva qualcosa trafiggerla da qualche parte, forse ovunque.
Theodore si sporse verso di lei, ancora preso a celebrare quel matrimonio fittizio; le dita ad imprigionare una ciocca dei capelli neri di Pansy, riportati al loro posto, come avrebbe fatto il giorno del matrimonio, o in una tranquilla serata in casa, dividendo con lei il divano della sala da pranzo. Ma poi, ad un passo dalle sue labbra, dal bacio che avrebbe dovuto renderla sua moglie, la consegnò al proprio rivale. Con una cavalleria che, sapeva, Pansy non gli avrebbe mai permesso, se davvero avessero raggiunto il giorno delle nozze.
«E’ l’uomo della tua vita?» domandò, sfiorandole quasi le labbra.
Se l’avesse baciata, si sarebbe ritrovato tra le labbra il nome di Draco.
Solo per questo aspettò la sua risposta, mettendosi in salvo da un dolore immeritato.
Pansy annuì, scoprendosi atterrita nel dirlo, perché quella era la sua vita e non poteva averne un’altra, in cui essere felice con un uomo diverso da Draco, che sarebbe stato suo. Semplicemente, non ne aveva un’altra.
E Theodore si chiese fino a che punto potesse mancare di rispetto a se stesso, nell’allungare una mano a toccare Pansy e stringerle la spalla, in un gesto lontano dall’immaginario di due sposi, ma infinitamente più onesto e vicino.
Si rispose, comprendendo che in fin dei conti fosse quello il suo piacere, nel posare la mano sulla spalla di Pansy, e di non avere niente da rimproverarsi per questo.
Aveva voluto renderla felice, ma la violenza dei singhiozzi che avevano scosso di colpo le spalle di Pansy, gli dava la rassegnata certezza di non poterne avere i mezzi, né ora né mai.

Lo accettò, come si accetta ciò di cui non si ha colpa, salvato dalla propria innocenza.

[2]

 



[1] Inserisco una nota perché questa canzone fa parte di quelle cose belle che è dovere condividere.

Qui (http://www.ba.infn.it/~abruno/index_file/led_zeppelin.htm#Going%20To%20California) trovate testo completo e traduzione; e qui (http://www.youtube.com/watch?v=JkCt5HOqR-Q) trovate la meraviglia che è la canzone in sé. Non farò testo, perché amo i Led Zeppelin, ma credo che questa canzone sia qualcosa di oggettivamente prezioso.

[2] Come avrete notato, Lucius Malfoy in questa storia è stato condannato e imprigionato ad Azkaban dopo la fine del settimo libro. Aggiungerò la nota AU alla storia, perché con questo lo è diventata a tutti gli effetti. Aggiungo una nota qui per spiegare il motivo di tale scelta, saltate ovviamente se non vi interessa XD
A parte la poca tolleranza che ho verso Potter, ho trovato la scelta della Rowling un po’ azzardata. Lucius Malfoy ha compiuto molti crimini nel corso della sua vita, e ogni crimine se è un assassinio ha come prima conseguenza la morte di qualcuno, e la perdita per qualcun altro. Quindi ho trovato poco giusto che Potter decidesse per molti. Ci sono molte persone coinvolte, e per un Potter che decide di poter accettare, potrebbe esserci qualcun altro che voglia giustizia per la morte di chi ha perso. Quindi ho immaginato che Lucius subisse un processo e una relativa condanna, perché le conseguenze delle proprie azioni vanno pagate ^^ in rispetto di chi ci è andato di mezzo, come minimo. Che sia bastata la testimonianza di Potter, è raccapricciante, a mio modo di vedere le cose, quindi le ho cambiate. È una licenza autorale che chissà se potevo prendermi, forse sì ma solo perché è una fan fiction. Ed è raccapricciante anche che sempre per quella singola testimonianza, si sia addirittura passati ad una assenza totale di condanna. Non una riduzione della pena, ma proprio ZERO? Mah. Amo Lucius alla follia, ma non per questo lo giustificherò mai per quello che ha fatto ^^  Detto ciò, vi direte: “tutta sta storia sul concetto di giustizia, e poi lo scagioni comunque solo perché Nott senior schiocca le dita?”. Ebbene, mi sembra tristemente verosimile anche questo, purtroppo. Che basta relativamente poco eticamente parlando perché chi debbs pagare i propri crimini alla fine non li paghi affatto. Questa è solo una storia, non ha la pretesa di essere una denuncia sociale XD ma non lo trovo poi così improbabile, che in certi ambienti e tra certe persone si combinino impicci del genere.

Fine della tediosa annotazione :P ovviamente se avete letto e discordate siete sempre liberi di inveire contro di me, ma anche di aprire un tranquillo dibattito XD Vi lascio con i dovutissimi ringraziamenti per le recensioni *__*

 

 

 Thanks to:

Meredith91: *blush!* Grazie, davvero. Non so che dire. Sul lieto fine non mi esprimo, perchè mi rendo conto di avere una concezione di felicità un pò traslata, nella vita XD ma a breve lo scoprirari, perchè la storia è agli sgoccioli. Mi mancherà la fatica per partorire ogni capitolo, devo dire XD Al prossimo capitolo, e grazie di nuovo :)

sweetchiara: Il viaggio è andato meglio di quanto temessi (... forse dovrei dire "aspettassi"), ma ora mi tocca tornare a lavorare anche a me, oltre che ad aprire i libri per le delizie della sessione tardo-estiva simil-autunnale che dir si voglia u_u La vita è dura, vero? u_u 
Lucius è stato un colpo di scena anche per me, quando si è affacciato nella mia testa chiedendomi una parte. Mi ha ricordato che Draco ha le sue paturnie siglate Malfoy per un motivo ben preciso, quindi gli ho ceduto la parte che gli spettava =P Ho amato che abbia detto che Draco è umano, è esattamente come lo vedo io. Lo è, e non può farci niente. Sono un pò incerta su queste parti della storia proprio perchè il rapporto Draco/Lucius è delicato, mi sembra siano due grandi e forti umanità che si scontrano e poi si incontrano, e per questo non mi sento minimamente all'altezza nel trattarle XD ma necessità fa virtù, ed è vero che secondo me nel parlare di Draco non si può non tenere conto di Lucius.
Blaise è la mia sponda, gli invidio il suo sarcasmo, perchè lui può abusarne quanto vuole e non avrà mai una vita meno fittizia in cui qualcuno gli dica quanto è stronzo, a dfferenza della sottoscritta XD Nel prossimo capitolo avrà la sua parte, te lo spedisco tutto impacchettato nel suo profumo. Un bacio :*

Nissa: ... *sine verba* Il paragone su Millicent è perfetto, sai? Io lei la immagino proprio così, che poi è quello che la rende tanto indispensabile per tutti. Se non ci fosse lei, per dirne una, Pansy si sarebbe persa molte volte. E tutto sommato credo che anche Blaise abbia bisogno di essere "amato" nel modo in cui lo ama Millicent, anche se poi non lo condividerà con lei. Penso che Millicent abbia una delicatezza particolare in una Slytherin. In termini più affettuosi e meno insultanti, è finita in Slytherin così come Cho e la sua idiozia sono finite in Ravenclew. Tracey va capita (... e sopportata), poverina. Cerca in tutti i modi di farsi capire da chi le interessa, ma hanno un linguaggio terribilmente diverso :P E la digressione su Malfoy Manor è stato un mio personalissimo capriccio a cui ho voluto/dovuto cedere XD Mi sono sempre immaginata Pansy lì dentro, ce la vedo bene *_* Grazie per la recensione, e come vedi sono stata attenta agli arabi XD alla fine ho pensato che il rapimento poteva essere rimandato ._. Ho una storia da finire! XD Un bacio :*

Entreri: Mi rende felice il tuo amore per Theo :) Lo condivido, penso che sia una persona rara. E il suo rapporto con Pansy in effetti c'è eccome, non è fittizio come lo vede suo nonno o come Pansy si racconta certe volte. Secondo me è solo molto diverso rispetto a quello che ci si aspetterebbe da due persone in procinto di sposarsi. E dal mio punto di vista, è vero quel che dici sull'eterna sfida con Draco, ma credo anche che Theo abbia tutti i mezzi per vincere qualche sfida con Draco :P Però è come se li concentrasse negli aspetti sbagliati. La Theo/Pansy potresti averla sul serio, sai? XD In realtà presi come due persone e non come coppia ufficiale, hanno molto da darsi a vicenda, in chissà quante forme e modi! Theo merita tanta tanta felicità poi *__* Spero di incontrare un Theo prima o poi nella vita XD 

Inconcludenti chiacchiere di Bri.
La storia è quasi finita sul serio (anche se non so quanto impiegherò a scrivere quanto ho deciso XD anche perchè sto scrivendo qualcos'altro di nuovo in contemporanea, e se Draco e Pansy sono complicati, una original è anche peggio) e un pò mi dispiace ç_ç mi sono affezionata a questi Slytherin faticosi e complessi, e anche a voi (a tal proposito, per qualsiasi cosa la mia email è lì a disposizione). Questi dieci giorni in Sicilia sono stati devastanti ma anche molto istruttivi del resto, mi hanno dato molti spunti. La Sicilia è un posto incredibile *_* una terra particolare, piena di odori, colori, suoni, profoumi, così attaccata per le radici, e di colpo selvaggia. Mi sono spinta fino alla punta più orientale, guardando fisso l'orizzonte da Portopalo, sapendo che dopo ci sarebbe stata l'Africa, ed è stato veramente spettacolare. E' un posto che ti riempie, ecco. Tutto questo per dire che? Niente XD Ma mi andava di condividerlo con voi :)

Al prossimo aggiornamento, lettori :*

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Capitolo 15
*** XV Affari di famiglia ***


The way we were - capitolo 15

The way we were

 

XV

Affari di famiglia

 


Era un signore andato via.
A lei qui rimasta tantissimo mancava.
La traccia da lui lasciata segnava ovunque intorno a lei l'aria.
Come un quadro spostato per sempre segna la parete.

[V. Lamarque, Il signore andato via]

 

 

Nel mettere piede nella camera di Blaise, Pansy si ritrovò immersa tra l’odore delle sigarette magiche di Warrington e il profumo di Draco, che aleggiava ancora sbattendo tra le pareti. Forse quello era il segnale di avviso che non fosse il caso di soffermarsi troppo a lungo.

«Blaise?» chiamò non avendolo incontrato in salone e tantomeno lungo il corridoio che portava alle camere da letto, nel piano superiore.

«Pans» le giunse in risposta la voce dell’amico, lontana come un’eco e soffocata da un colpo di tosse «Ci sei anche tu» proseguì mentre Pansy si liberava del proprio mantello, lasciandolo cadere sul letto sfatto. «Adesso dobbiamo solo svegliare Crabbe dal sonno dei morti, e poi siamo al gran completo».

Pansy lasciò che il gelo avvolgesse il cinismo di quel commento, preoccupandosi più di cercare Blaise in tutta la sua figura e scoprire di chi altri stesse parlando, per quanto avesse ormai la certezza che non fosse Millicent.

Quando si affacciò alla porta del bagno, in realtà trovò Blaise in compagnia della sua sola inquietudine, a quanto le sembrò. Frugò con lo sguardo in cerca del terzo presente, ma senza trovarlo. «Hai un amico immaginario, ora?» gli domandò, entrando nel bagno e sedendosi sul bordo della vasca, in equilibrio. Blaise la guardò con un sorriso spento e distante, agitando una mano in aria, con fare vago. «Parlavo in metafora, Pans. Draco è appena passato a porgermi i suoi ossequi» le spiegò con una smorfia di scuse per aver pronunciato il nome di chi sarebbe diventato innominabile di nuovo, come prima del decisivo ricevimento a casa Nott.

Pansy squadrò dalla propria posizione di sobria osservatrice Blaise Zabini, prendendo atto che fosse innegabilmente elegante ed impeccabile anche nel pieno di una sbronza.

«Sei ubriaco?» gli chiese, cercando nei suoi occhi un barlume di lucidità. Blaise reclinò la testa, lasciandosi andare contro il tronco del lavandino in ceramica. Pansy considerò l’idea di preoccuparsi seriamente, come ad uno Slytherin non è mai gradito fare. «O sei fatto?» aggiunse, ricordandosi dell’odore delle sigarette di Warrington.

Blaise sembrò rifletterci, ma alla fine non disse niente.

Si limitò a farle cenno di sedersi accanto a lui, sul pavimento.

Pansy lo raggiunse con tutte le intenzioni di spostare l’angolo del salotto sul letto di Blaise, piuttosto che sulle mattonelle gelide del suo bagno.

La docilità con cui le permise di toccarlo e trascinarlo esattamente dove voleva, le gelò il sangue. Ricordava la notte del funerale del suo quinto padre come la notte in cui Blaise Zabini avesse conseguito la sua prima sbronza, eppure quel giorno era mille volte più vivo di quel momento. «Blaise?» lo chiamò, sedendosi al suo fianco, sul letto. Lui sembrò trovare più edificante fissare per terra, piuttosto che guardarla negli occhi con la solita sfrontatezza con cui rispondeva alle preoccupazioni che di tanto in tanto lei gli riservava.

«Che ti è successo?» gli chiese a bassa voce, sentendosi un po’ persa.

Blaise e i potenti mezzi delle sigarette di Warrington impiegarono qualche secondo a riemergere dal mondo di dissociazione in cui erano precipitati insieme, cercando rifugio, annidandosi tra le pieghe dell’anestesia. Gli affiorava alle labbra una risata amara, nella consapevolezza di vedere Pansy seduta nel punto esatto in cui era stato Draco, quando lui aveva quasi ceduto a quel terribile racconto di morti e miserie che si portava dietro da anni. E poi c’erano tutti quei matrimoni inutili e vuoti, e la desolazione nella quale vivevano. La consolazione cercata in una sigaretta come un randagio, l’impossibilità di utilizzare le parole e il pensiero ostinato di quanto le parole in sé rendessero vivo un avvenimento, e fossero al tempo stesso del tutto inutili nel porre rimedio ad ogni cosa.

«A te, cosa è successo?» le chiese, spostando l’argomento sulla cosa più vicina che potesse sentire. Pansy scrollò le spalle, affogando nel proprio orgoglio e nelle proprie consapevolezze la sconfitta più grande a cui avesse mai dovuto prendere parte. «Cosa è successo a me è tristemente noto» mormorò decisa.

Blaise, in tutti quegli anni, era stato un ottimo amico, il migliore confidente, la spalla a cui appoggiarsi nei momenti in cui persino la dura pelle di una Slytherin aveva conosciuto le scalfitture della vita. E avvolto nella sua patina di buongusto e sarcasmo, aveva sempre espresso un parere su tutto, difeso i propri amici e osteggiato i nemici; aveva corteggiato donne e alla fine aveva conquistato anche le loro madri; aveva ballato con lei a quel ricevimento, e insieme a Draco avevano speso interi pomeriggi a fumare sigarette e costruire il proprio nido, come ai vecchi tempi, proteggendosi dal mondo. Ma di sé non aveva mai proferito parola, e Pansy si era sentita defraudata, chiedendosi cosa mai avesse potuto rubare a lei e Draco quel privilegio di un tempo.

Forse le sigarette di Warrington, forse quello che le sigarette andavano a coprire.

«Puoi spiegarmi perché non ti reggi in piedi e mi inviti a simposi sul pavimento del bagno?» domandò di nuovo, dura come non era mai stata nei confronti di Blaise.

Avrebbe voluto sentirsi dire che lui e Draco si erano riuniti in un pomeriggio di amenità prettamente maschili e che avevano pianto insieme per le tristi sorti della vita coniugale di Draco. Invece percepiva distintamente lo squarcio che attraversava Blaise da parte a parte.

Quella doppiezza che aveva insita nella luce torbida dei suoi occhi.

La gente la scambiava per sensualità, per una malizia tipicamente sua, per quell’aria conturbante che gli apriva le porte dei più facoltosi salotti della Londra magica, con un solo sorriso e qualche commento sardonico.

Pansy aveva trincerato la propria offesa, di fronte a quel teatrino  che Blaise si era permesso di propinare anche a lei e a Draco. In quel momento, gli aveva chiaramente fatto capire di aver strappato il biglietto.

«O magari vuoi che vada a chiamare Mirtilla? Forse anche tu fai più volentieri quattro chiacchiere con lei » aggiunse, rivelando finalmente dopo anni quanto e come si fosse sentita di poco conto. Blaise rise di quelle parole, scuotendo la testa, sentendosi invadere da tutto l’affetto che aveva conservato per Pansy – e per Draco – in quei lunghi anni di conoscenza. Forse era l’effetto del mix di droghe, che gli faceva sentire ogni cosa amplificata, ma Pansy era lì accanto a lui e la sentiva fremere di rabbia, e non gli era mai parsa così viva come in quel momento.

«Pans» sussurrò accarezzandole i capelli, e cogliendola di sorpresa «Mirtilla non capirebbe» le concesse, lasciandosi cadere indietro, di colpo, sul letto. Gli occhi chiusi consapevolmente su quell’immagine che sapeva sarebbe tornata. Stavolta l’aveva aspettata.

E in quel contrasto, tra la Pansy riversa a terra che vedeva dietro i propri occhi chiusi, e la Pansy viva che gli respirava a pochi centimetri nella sua stanza, avvertì di dover abbandonare quel posto, l’ambiguità del suo vivere.

«Non capirebbe, cosa?» domandò ancora Pansy, sporgendosi verso di lui.

Era più che certa che non avrebbe capito, non capiva niente, Mirtilla. Non aveva capito Draco e quello che cercava di dirle, non avrebbe compreso il linguaggio di Blaise, fatto di sguardi e pelle, non avrebbe mai compreso l’intreccio delle loro vite e l’indissolubilità del punto in cui si incontravano. Non avrebbe capito che quel nodo era la loro salvezza e la loro condanna, e che quell’alternanza contraddittoria faceva delle loro vite quell’eterno campo di battaglia di cui parlavano sempre nei loro pensieri e mai a voce alta.

«Il modo in cui sei morta» rispose Blaise in un sussurro, aprendo gli occhi di colpo.

Pansy lo guardò senza capire per lunghi secondi, sentendosi scomoda in quelle nuove vesti di estranea. Si sentiva una spettatrice, messa da parte, relegata dietro le quinte.

«Non ti seguo» lo avvisò, cercando il suo sguardo senza trovarlo.

Blaise rimase immobile, disteso sul letto, a fissare il punto lontano della sua memoria.

«Durante la battaglia, mi sono ritrovato in uno scontro, mentre cercavo te e Draco. Mi sono girato, a un certo punto, e c’era una persona per terra, colpita da un incantesimo e io sono stato sicuro che fossi tu» disse infine, vedendo scorrere la scena sotto i propri occhi, nei panni del cronista. Sentì Pansy congelarsi, sempre al suo fianco. «Ho pensato che non fosse giusto» proseguì, mentre Pansy conficcò le unghie nel tessuto del lenzuolo sotto di lei. Strinse forte, come avrebbe impugnato la bacchetta in difesa di se stessa e di Blaise, in mezzo a quello scontro.

«Mirtilla non avrebbe capito, è persa dietro i suoi rammarichi… La gente, tutta, muore nello stesso modo in una guerra, Pans. Ingiusto» mormorò, cercando con la mano di aprire il cassetto dove conservava le sigarette. Pansy rischiò di chiudere anche il suo dito, nel sigillarlo.

«Ti ricordi il processo del padre di Draco, Pans?» domandò lasciando perdere il cassetto, tirandosi su, e le sembrò che in quel momento fosse perfettamente lucido. Aveva una consapevolezza nel modo di guardarla, che le fece venire voglia di abbracciarlo.

«Piuttosto nitidamente» replicò con una quieta vena di sarcasmo nella voce.

Durante tutto il processo Blaise le aveva stretto il polso tra le proprie dita, tanto che aveva potuto sentire il pulsare della vena. Si erano parlati in quel modo, senza bisogno di parole, perché davvero si erano sentiti accomunati da uno stesso sangue, ed era quello che parlava per loro.

«Non ti ho detto che ho pensato che la gente dovrebbe essere punita per quello che ha fatto…».

Pansy scivolò ai piedi del letto, sentendosi di nuovo piccola come il giorno del processo, in cui invece aveva creduto di essere diventata adulta, perché conosceva il peso sul cuore che gli eventi ti lasciano nel loro passaggio.

«… e non per quello che è» concluse per lui, sentendo il bisogno di inspirare a fondo e riprendere aria. Quel giorno, durante il processo, avrebbe voluto poter dire quello che aveva scoperto anni prima, al suo quarto anno. E cioè che nella vita di ognuno esiste una soglia, il cui primo difetto è quello di essere invisibile agli occhi di un moralismo senza speranza.

Avrebbe voluto spiegare che la vita non è altro che l’arte di un incontro. E che quella soglia separa strade diverse, insegnamenti diversi. Che quello che li separava dalla rettitudine di altra gente era l’insegnamento che non avevano ricevuto, sul valore di una scelta. Che il discriminante era quello, e non una innata barbarie, né il destino, né l’amore per il disprezzo o per il sangue. E che nel fare tutto da soli, la possibilità di sbagliare è una certezza.

Se il signor Dumbledore le avesse chiesto un parere in merito, è quello che avrebbe risposto.

Invece, quel giorno, durante il processo, alzando gli occhi aveva osservato gli sguardi dell’intrepido trio. Guardavano fissamente avanti a loro, con la testa alta. Pensò che suo padre non era morto per proteggerla, ma anzi si era venduto a Chi aveva fatto loro visita una sera come tante, in cerca di reclute. E comprese che forse era bastata la non scelta di suo padre, perché Dumbledore non le chiedesse mai alcun parere.

«Mi dispiace, Pans, di tutto quello che è successo con Draco» disse Blaise, offrendole un sorriso un po’ incerto, ancora instabile sulla scia di brandy e sigarette bandite. «Mi avete fregato, stavolta ci avevo creduto sul serio» aggiunse, delicato. Pansy annuì, distogliendo lo sguardo per non lasciarsi sopraffare. «Dovrò davvero far ballare Millicent al tuo matrimonio…» mormorò confuso, strappando un sorriso a Pansy. «Non è necessario. Theodore ha ritirato l’offerta» gli rivelò, mostrando la mano, di nuovo libera da anelli.

«Suo nonno ti ucciderà» osservò l’altro.

Pansy sospirò in risposta, chiedendosi se avesse ancora qualcosa da perdere. Se Londra le offrisse ancora qualcosa per cui valesse la pena mettere un piede davanti all’altro. La atterriva l’idea che la vita fosse qualcosa di talmente forte, talmente più grande di lei, da vincere ogni suo più recondito sogno di chiudere gli occhi su un sonno eterno che non le avrebbe mai più spezzato il cuore, o il respiro, o le parole sulle labbra. Avrebbe potuto vivere integra, intatta, lontana. Per sempre. Per un tempo tanto lungo da perdere anche ogni importanza.

Anni addietro il solo pensiero l’avrebbe terrorizzata, ora lo guardava con il rammarico agrodolce di chi è certo di non avere il coraggio di procurarselo, né la fortuna di ottenerlo per casualità.

«Dovremmo andarcene da qui».

Blaise assaporò il suono di quelle parole, prima di guardare verso Pansy e rischiare di scoprire che non stesse dicendo sul serio. Perché in quel momento, non aveva idea migliore se non quella di crederle.

«E dove vorresti andare?» domandò, avvertendo un brivido corrergli lungo la schiena.

Pansy scosse la testa, facendogli sapere di non avere più alcun posto preciso, da quel giorno in poi.

«Dove abbiamo una possibilità» disse infine, lasciandosi scivolare ancora, come da bambina, ai piedi del letto. Blaise chiuse gli occhi, ancora disteso sul letto. Pansy rimase in silenzio, in compagnia del respiro di Blaise, con le ginocchia raccolte al petto e il cuore a rimbombare sordo alle sue suppliche di tacere. Immaginò le notti di Blaise, i suoi sogni e tutte le volte che aveva aperto gli occhi vedendola morta. E ancora più di quello, ripercorse tutti i silenzi in cui aveva ammantato quel segreto, con lei e con Draco.

Immaginò Abraham Nott e la sua furia, nell’essere costretto a lasciarla andare via, a causa di un nipote troppo grande per il suo piccolo mondo avvizzito da corruzione e livori.

E Millicent e i singhiozzi che avrebbe trattenuto nel doversi congedare da lei, e il modo tenero con cui avrebbe cercato di farle credere che fosse solo la delusione per non poter usare le scarpe nuove acquistate per il matrimonio. Immaginò lo sguardo pieno di adorazione che avrebbe rivolto a Blaise; il modo in cui avrebbe accarezzato il profilo del suo viso, con la maturità con cui da adulti si accantonano alcuni rimpianti e si rinuncia a certi desideri.

E il sorriso sornione che Daphne le avrebbe rivolto, stupita tuttavia nel vederla andar via senza Draco, e i suoi occhi felini puntati su Blaise, la mano che avrebbe accarezzato il suo corpo ancora una volta, posandosi volutamente nel punto che le sue labbra avevano fatto suo l’ultima notte trascorsa insieme.

Immaginò Tracey Davis e la mossa furtiva con cui si sarebbe di nuovo intrufolata nello studio di Theodore, una volta libera dalla scomoda presenza di una sposa contrariata all’idea delle nozze; e immaginò lo sguardo spaesato, di ingenua perplessità, con cui prima o poi Theodore avrebbe affrontato le attenzioni di Tracey. Pensò al giorno in cui avrebbe dato loro il giusto nome, e la ritrosia con cui avrebbe infine ceduto alla sua malizia, scoprendo di potersi divertire con quella donna, e rimpiazzare lo strano peso della leggerezza sul suo anulare, privo dell’anello di matrimonio.

E infine, pensò a Draco e al modo in cui avrebbe tenuto tra le braccia suo figlio.

Allo sguardo che gli avrebbe rivolto, timido e incerto. Al modo in cui lo avrebbe toccato, poco, e come se fosse di vetro, con il timore di poterlo rovinare o di fargli del male. Immaginò la confidenza che invece nel tempo avrebbe guadagnato con il suo aspetto di padre, e tutto il bene che avrebbe riversato su suo figlio, colmando così anche i propri vuoti d’affetto e le solitudini che aveva sentito quando ad essere figlio era stato lui.

Immaginò suo figlio, le somiglianze che avrebbe avuto con Draco, l’adorazione che gli avrebbe riservato e gli sguardi di insofferenza per la presunzione con cui suo padre avrebbe affrontato le future discussioni con lui. Immaginò quel bambino diventare grande, e vide Draco invecchiare con lui.  

Scoprì il pensiero che Draco fosse nato per essere padre; e cercò anche di mettere da parte quello che le diceva di essere la donna giusta per essere sua moglie. Si sforzò, con un sorriso di tragica ironia, di mettersi nei panni di Millicent, imitando la grazia con cui aveva rinunciato ai propri desideri, e non la goffaggine con cui li aveva perseguiti.

Rifletté anche sul fatto che Blaise, la notte in cui lo aveva costretto ad accompagnarla a casa, avrebbe dovuto raccontare a Millicent tutto quello che aveva appena detto a lei, perché Millicent avrebbe saputo piangere al posto di Blaise. E di Pansy. Lei era infinitamente migliore di loro.

Fece per dirglielo, ma nel voltarsi lo trovò addormentato, con la testa appoggiata sopra il braccio, che sporgeva sul letto. Si chiese cosa stesse sognando e se nell’addormentarsi avesse desiderato poi di potersi svegliare.

Si domandò se nel posto in cui sarebbero andati, avrebbero sentito la mancanza di Draco.

Con un dolore intenso comprese da subito che quella mancanza l’avrebbe accompagnata per sempre. Che avrebbe abitato in lei, in qualunque modo fosse andata la sua vita. Le avrebbe conservato un posto, come in quel cassetto, e avrebbe fatto più attenzione a dove adagiare la chiave. Immaginò di lasciarla sotto il tappeto morbido dei propri ricordi di lui, e di lui insieme a lei.

Allora, ancora seduta sul pavimento, allungò istintivamente il braccio, verso quello di Blaise, e strinse appena le dita intorno al suo polso. Sarebbe stato un processo molto più lungo, quello.

 

●●●

 

Look around, choose your own ground
For long you live and high you fly
And smiles you'll give and tears you'll cry
And all you touch and all you see
Is all your life will ever be

[Pink Floyd, Breath]

 

Astoria si era addormentata presto, quella sera. Aveva detto di essere sfiancata dal viaggio, e a questo si aggiungeva la prima stanchezza del dover faticare per due persone.

Non aveva parlato a Draco dell’anticipo con cui era voluto tornare a Londra. Non avevano nominato Pansy, e neanche a dirla tutta avevano più discusso del figlio che sarebbe nato.

Una volta tornato da casa di Blaise, Draco non si era avvicinato alla camera da letto, preferendo vagare senza sosta per i meandri della sua casa. In ogni angolo c’era un ricordo della Pansy bambina che prendeva dimestichezza con quei luoghi. Ora sapeva con certezza che un giorno aveva iniziato ad immaginare se stessa come padrona di quelle stanze, e di quei soffitti alti.

Il pensiero lo fece sorridere, e poi gli ricordò quanto pericoloso fosse adagiarvisi troppo.

Narcissa lo aveva raggiunto, poco dopo, seguendo il suono dei suoi passi per i corridoi del Maniero.

Draco la sentì arrivare, riconoscendo il suo profumo, che aveva sempre definito come l’odore di sua madre. Si fermò, aspettando che si avvicinasse. Le dita fredde di Narcissa gli accarezzarono il collo, nello stesso modo in cui quando era più piccolo lo richiamava dalle sue corse per intimargli di seguirla; o si accertava che stesse bene e non avesse la solita febbre di mezza stagione.

«Mamma» mormorò con un sorriso beffardo, facendole presente di non essere affatto sorpreso.

Narcissa sospirò, sospingendolo appena verso il salone. I corridoi di quella casa continuavano a metterle i brividi, anche dopo che ne era diventata padrona.

«Qualcosa ti tiene sveglio?» gli domandò retorica.

Draco si sedette sul divano, lanciandole uno sguardo carico di affetto ma non per questo esente da un certo sarcasmo.

«Sì, le termiti che ho in camera» la prese in giro, allentando i bottoni della propria camicia. Non si era neanche cambiato, rassegnato all’idea di non chiudere occhio. Narcissa ammorbidì il proprio contegno preoccupato, riconoscendo nel figlio le solite abitudini alla causticità.

«Ci farai l’abitudine» osservò Narcissa, poco dopo, lasciando intendere di aver cambiato argomento. Draco la guardò dubbioso. «All’insonnia» specificò accendendosi una sigaretta.

Draco si indignò per quel dettaglio nel tentativo di non pensare troppo al resto.

«Che fai, fumi?» le chiese guardandosi istintivamente alle spalle per accertarsi che suo padre non fosse in giro a scoprirlo. Narcissa avvicinò a sé il posacenere della defunta Elladora. «Sto per diventare nonna, mi sembra legittimo». Draco sprofondò ulteriormente sul divano, trasferendo con quel semplice gesto parte della propria angoscia a sua madre. Narcissa la accolse con la commozione a cui in rare occasioni si concedeva di lasciarsi andare.

«E’ una cosa bella» mormorò guardando suo figlio, scoprendo di non riuscire più a sovrapporre i suoi occhi che la guardavano bambini, a quelli che aveva ora. «E’ una cosa grande» aggiunse lui, sentendosi invadere da un vortice di energia e confusione. Si sentiva pieno di qualcosa, e al tempo stesso privo di ogni sicurezza. «Un Malfoy ha il diritto di essere terrorizzato?» domandò chiedendole una sigaretta. Sua madre indugiò alcuni istanti, ammonitrice come da migliore tradizione Black. «Sto per diventare padre, mi sembra più che legittimo» le fece notare ottenendo quanto richiesto.

Narcissa depose il posacenere al centro del tavolino basso, portando di nuovo alle labbra la sigaretta. «Un Malfoy ha più diritti di quel che credi» lo informò con un tono terribilmente serio. Draco cercò il suo sguardo, oltre i disegni astratti che il fumo aveva tracciato tra loro. «Io me ne sono arrogati molti, da quando ho sposato tuo padre» proseguì Narcissa, con un sorriso tipicamente Rosier. Emergevano di tanto in tanto in lei le caratteristiche dell’altro ramo della famiglia, che calibravano perfettamente l’arguzia Rosier con i rigidi dogmatismi e il grande senso degli affari dei Black. Probabilmente per questo sua madre era stata l’unica delle tre figlie ad essere immune agli sbalzi d’umore e alle impulsività delle altre due. Aveva in sé un certo equilibrio, bilanciando i morigerati pregi e i terribili difetti di entrambi i casati, oltre ad un aspetto innegabilmente Rosier, con i colori chiari e le fattezze algide di una statua in ghiaccio di divinità nordica. Draco avrebbe voluto ereditare qualche gene dei Black, ma quello che aveva ottenuto era l’aspetto e l’assetto di un Malfoy in tutto e per tutto.

«Che intendi dire?» le domandò assottigliando gli occhi. Sua madre depositò un po’ di cenere. «Che tuo nonno paterno mi odiava, Draco. E mio padre ha vissuto con il terrore di un divorzio fino a quando Merlino non ha deciso che si mettesse il cuore in pace, in tutti i sensi» gli rivelò e a Draco sembrò che fosse divertita da quel ricordo.

«Poi sei arrivato tu, e Abraxas ha trovato in me qualcosa di positivo» concluse il racconto con uno sbuffo di stizzito sarcasmo Black.

«Fino a quando non lo hai cresciuto così come è diventato, Narcissa» intervenne il diretto interessato, di punto in bianco. Madre e figlio sussultarono colti alla sprovvista, prima di lanciare due occhiate torve in direzione della cornice del prozio Wilbert, ancora sotto sfratto. «Quella Greengrass, un oggettino da avere tanto per bellezza» insistette, dando sfogo senza che gli fosse stato minimamente richiesto, ad ogni suo dissenso.

«Nonno, ti spiacerebbe evitare di farti sentire dal soggetto in questione?» gli intimò Draco, temendo di dover far fronte ad una crisi familiare di proporzioni indebite. Abraxas lo guardò mortalmente offeso. «Visto? Pessimo carattere dei Black. Scommetto che quel debosciato di Sirius ha iniziato proprio così…» riattaccò imperterrito il capostipite. Narcissa gli diede educatamente le spalle, annunciando il ritorno ai propri affari con un colpo di tosse.

«Ammetto candidamente, Draco, che se non avessi amato tuo padre, l’idea di abbandonare questo posto non mi sarebbe dispiaciuta affatto» soggiunse Narcissa, coprendo i rimbrotti di Abraxas Malfoy. Aveva chiesto a Lucius, da sempre, di accostare il suo dipinto a quello della madre di suo cugino Sirius, certa che avvicinando le due metà perfette della mela, avrebbero finalmente ottenuto un silenzio perpetuo. Suo marito aveva sempre avuto i suoi dubbi in proposito, tuttavia.

«Tuo padre— mio nonno, te lo avrebbe permesso? Sarebbe stato uno scandalo» osservò Draco, cercando di districarsi tra le complicate rimostranze delle sue due famiglie. Narcissa lo guardò di sottecchi, e parlò abbassando la voce perché suo suocero non sentisse anche di peggio. «Draco, a volte l’arte della sopravvivenza è tutto. O scavalchi l’ostacolo, o lo elimini con la forza… o lo aggiri. Io lo avrei aggirato. I Malfoy hanno un discreto numero di residenze, e la mia famiglia a quei tempi non era da meno» spiegò, carica di sottintesi. Draco non faticò a comprendere cosa intendesse dire. Sarebbe bastato condurre due esistenze separate, senza spostare minimamente alcuna firma sulla carta dei loro attestati di matrimonio.

Quando sollevò lo sguardo dai propri pensieri, trovò quello di sua madre adagiato in un espressione remota, carica della tenerezza timida di un ricordo, scalfita dal dolore del tempo presente. «Mi sarebbe piaciuto che tu conoscessi meglio le mie sorelle. Bellatrix avrebbe potuto illustrarti meglio la faccenda. Negli alti e bassi del suo matrimonio, è stata perfettamente in grado di lasciar credere a tutta la famiglia Black-Lestrange che il loro unico rammarico fosse non poter concepire figli».

«Difficile ottenerli, se passi il tempo a seviziare tuo marito, piuttosto che…».

Narcissa accolse l’ingresso di suo marito con un sospiro che chiarì a Draco quanto spesso entrambi si fossero soffermati a discutere del matrimonio di sua zia Bellatrix. Lucius volse a sua moglie un sorriso più simile ad un ghigno che ad altro.

«Questo è il momento in cui Rodolphus si trasforma in vittima sacrificale delle turbolenze di mia sorella» commentò Narcissa, spegnendo la sigaretta nel posacenere con aria leggermente innervosita. Draco comprese che quello era l’unico modo in cui sua madre fosse disposta a nominare Bellatrix. Le consentiva di ricordarla con l’ironia propria del loro rapporto di sorelle; quell’affetto sbrigativo ed essenziale, che le aveva viste incrociare le spade durante le innumerevoli discussioni su punti di vista ed obiettivi di vita del tutto diversi, sui dissensi più banali e pretestuosi e i risentimenti e le prese di posizione più serie e gravose. Draco comprese anche che suo padre fosse l’unica persona in grado di nominare Bellatrix senza che Narcissa mettesse a tacere la questione, con un commento risoluto o un significativo colpo di tosse. Li osservò giocare con i propri sguardi, occupare lo stesso spazio senza toccarsi e sembrare ugualmente vicini.

«Vorrei sapere che fine ha fatto, tra l’altro» la sentì soggiungere a mezza voce, in merito a Rodolphus[1], e quello fu l’attimo in cui la mano grande e sicura di suo padre si posò con una delicatezza insospettabile per le sue fattezze, sulla spalla della moglie. Draco si sentì d’improvviso a casa. «Sai bene che gli basta la sola compagnia di un vecchio Ogden» osservò laconico Lucius, per quanto nel tono rude della sua voce trapelasse una certa considerazione verso quel Rodolphus che Draco aveva conosciuto di sfuggita prima che la situazione degenerasse, durante l’ultima battaglia. «Questo è quello che gli avete fatto credere tutti. Mia sorella in cima alla lista» replicò leggermente contrariata Narcissa, scuotendo la testa. Draco si allungò a spegnere la propria sigaretta, attirando così l’attenzione di suo padre.

Si sentì inchiodato dal suo sguardo, come quando era piccolo e suo padre trovava sempre il momento giusto per materializzarsi dall’ufficio al Ministero: nell’esatto momento e nella stanza della casa in cui Draco stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto fare.

«Il tabagismo è una moda diffusa, in questa famiglia» osservò senza togliergli gli occhi di dosso. Istintivamente Draco spostò i propri su sua madre. Narcissa si limitò a schiarirsi la gola, mentre suo marito registrava la presenza di due resti di sigaretta nel rinomato posacenere di Elladora Black.

«… di generazione in generazione» concluse, lanciando un’occhiata a sua moglie, che conteneva il perché di tutti quegli anni di matrimonio, pensò Draco, sempre più frastornato, dall’avere di nuovo suo padre in giro per casa, e avere sotto gli occhi dopo una vita passata nella completa cecità di bambino, che non fa caso a certi dettagli, cosa volesse dire costruire una famiglia e fare di tutto perché resti in piedi, e si preservi nella splendida imperfezione che le è propria.

«Mio marito ha soggiornato ad Azkaban, di recente» proclamò Narcissa in propria difesa, alzandosi dal divano. Si riservò di incontrare un’ultima volta lo sguardo di suo figlio, prima di tornare nelle proprie residenze, dormendo in un letto che aveva riacquistato consistenza e dimensioni originarie, ora che non si perdeva più nella vastità della solitudine, a cui la prigionia di Lucius l’aveva sottoposta.

Diede la buonanotte ai suoi uomini, lasciandoli soli.

 

●●●

La costruzione di un amore
spezza le vene delle mani
mescola il sangue col sudore
se te ne rimane
La costruzione di un amore
non ripaga del dolore
è come un altare di sabbia
in riva al mare
[Ivano Fossati, La costruzione di un amore]

 

Quando Draco era piccolo, Lucius passava intere notti a guardarlo. Sua moglie fingeva di dormire, la maggior parte delle volte, per concedersi l’egoistico piacere di osservarli da lontano, uno addormentato e l’altro assorto in pura contemplazione – perché era quello, che faceva Lucius, lo contemplava – e in quei momenti riusciva a condensare in una sola immagine il progetto di una vita.

Per il resto del giorno Lucius si teneva quasi alla larga da Draco. Lo osservava di sfuggita, mentre era tra le braccia di Narcissa, ascoltava perplesso e un po’ interdetto i suoi strani discorsi fatti di suoni e gorgoglii ma non cercava mai il suo sguardo curioso di bambino.

Quando Bellatrix e Rodolphus erano al Maniero e giravano intorno alla culla, facendo osservazioni e squadrando il nuovo erede con vaglio critico, sembrava costringersi a sopportare l’esame.

La volta in cui Draco aveva iniziato a camminare, era sgattaiolato nel suo studio e Lucius lo aveva trovato in equilibrio precario, aggrappato al pomello del cassetto di mogano. Era rimasto senza parole. Lesse negli occhi di suo figlio – suo figlio – la chiara intenzione di conservare quella posizione, che sembrava non essere male, e le sue dita piccole e inesperte, ancora vergini della ruvidità della vita, scivolavano leggermente e gli rendevano difficile il compito, ma concentrato lui rimaneva lì, tanto assorto dalla sua personale conquista che neanche si era accorto della presenza di Lucius nella stanza.

Lucius si era chiesto in quel momento quante altre volte nel corso della sua vita, e della loro storia di padre e figlio, Draco lo avrebbe ignorato nel modo in cui aveva fatto nel suo studio, totalmente assorbito da se stesso, considerandosi tanto importante, più di chiunque altro o qualsiasi altra cosa.

Quella volta Lucius aveva sperato che suo figlio continuasse così, su quella strada, che lo ignorasse pure, che ignorasse chiunque avesse cercato di convincerlo che ci fosse qualcosa di meno importante nella vita del concedersi una possibilità e ottenere quello che si vuole.

Decisamente non era stato un bravo maestro per suo figlio, se lo aveva costretto a pagare le sconfitte di suo padre, a ripagare i conti che lui aveva sbagliato.

«Ho conosciuto Astoria» esordì d’un tratto, quando il silenzio nella stanza iniziò ad essere troppo pesante per la sua stanchezza d’animo. Draco sbuffò, confondendo nel fumo la vischiosità del sentimento che aveva per Astoria. Pressoché evanescente. Forse del tutto inesistente.

«E’ una brava moglie» rispose a suo padre, accendendosi un’altra sigaretta sotto i suoi occhi. Lucius non poté trattenere un sorriso di puro e paterno compiacimento, di fronte alla deliberata sfrontatezza di quel gesto; di fronte alla libera determinazione delle proprie scelte, che Draco gli aveva posto dinanzi. Scorse suo padre agitarsi nel quadro, con la coda dell’occhio, facendo enormi cenni di dissenso e mormorando improperi a mezze labbra, proprio come aveva fatto per una vita intera. Quell’uomo lo aveva educato e cresciuto nella ferma convinzione che le cose restino uguali a loro stesse nel tempo e negli animi degli uomini, e che la fermezza della propria opinione conferisse quel po’ di onore e pomposa lealtà ai propri egoismi e alle proprie ottuse mentalità. Lui aveva fatto l’enorme errore di credergli senza discutere.

«E’ per questo che l’hai sposata? Perché è una brava moglie?» chiese a Draco, lanciandogli un’occhiata perforante dalla poltrona in cui era seduto. Draco gli rivolse lo stesso sguardo incerto che riservava alle domande retoriche che Lucius gli poneva nel bel mezzo di un rimprovero. Teneramente insicuro su quale mossa scegliere: portare avanti la propria idea, o rinnegarla per compiacere un genitore.

«Tua madre è la donna più importante della mia vita, ma non la definirei di certo una brava moglie» proseguì suo padre, loquace come non era mai stato. Draco rimase intrappolato nella rete di fascino che quell’improvviso slancio al dialogo da parte di suo padre aveva su di lui. «Ha dichiarato guerra a mio padre dal primo momento in cui è entrata in questa casa. Ha messo il naso nei miei affari, con salvifica indiscrezione, converrai con me. Non mi ha risparmiato nessuna critica e ti ha viziato contro ogni buonsenso ignorando apertamente ogni osservazione che le ho posto in merito alla faccenda» concluse trovando in suo figlio la copia del proprio sorriso sornione.

«Perché hai sposato Astoria?» gli chiese di nuovo un momento dopo, alzandosi per versarsi da bere. Draco osservava il profilo di suo padre dargli le spalle. Ripercorse con lo sguardo la linea delle sue spalle, un tempo forti e possenti, invincibili ai suoi occhi di bambino, ogni qual volta suo padre usciva dalla stanza in cui avevano affrontato l’ennesima discussione.

Per anni aveva immaginato quelle spalle al proprio fianco il giorno del suo matrimonio. Ricordò invece l’ombra dell’assenza di suo padre e il senso di profondo smarrimento che lo aveva colto quando voltandosi con le dita di Astoria strette intorno al suo braccio, aveva sbattuto contro quell’ombra. Sentì le parole affiorare alle labbra, e le strozzò in gola, perché percepì di nuovo lo sgomento di quel giorno e stabilì – come aveva stabilito la sera delle sue nozze – che non sarebbe stato affatto dignitoso cedervi e rispondere che aveva sposato Astoria solo perché era stordito dalla mancanza di suo padre. Perché non aveva più tracce da seguire, e non sapeva assolutamente dove mettere le mani, alzandosi la mattina.

«Mi era sembrata la cosa giusta da fare» rispose infine, le parole come lastre di ghiaccio taglienti, conservavano quel rancore congelato dal tempo e dall’orgoglio, quel ritegno offeso in cui si era chiuso sentendosi abbandonato. «Avevo molte incombenze che pendevano sulla mia testa, papà» aggiunse e nel pronunciare quelle parole sentì il filtro della sigaretta spezzarsi netto in due tra la stretta delle sue dita. «Cercavo di essere un bravo e più dignitoso successore—».

Lucius lo interruppe, come infastidito da quella risposta, e se Draco non fosse stato suo figlio, non avrebbe mai scorto nel gesto secco con cui Lucius troncò le sue parole, il profondo rammarico di un genitore dinanzi alla prova della condanna inflitta al proprio figlio.

«Non importa che tu sia bravo, Draco. Importa che tu sia felice. Io ho voluto essere bravo, il più bravo, a tutti i costi, ed ho reso infelici te e tua madre».

«Mi avrebbe fatto comodo saperlo un po’ prima» rispose Draco, senza rendersi conto di aver alzato il tono di voce, di essersi alzato in piedi, di aver raggiunto in pochi passi suo padre e con quello di aver raggiunto anche il baluardo inespugnabile di una intera vita.

«Prima di fare un figlio con mia moglie, ad esempio» aggiunse con voce tirata, perché non aveva fiato a sufficienza per combattere il puro terrore dell’essere padre di un figlio che non era frutto di alcun amore.

Per la prima volta, tuttavia, suo padre lo guardò di uno sguardo limpido e pulito. Sincero come lo è la comprensione. «Tuo figlio sarà tuo figlio per sempre. Anche se ami una donna diversa da sua madre, e questo non pregiudicherà l’amore che avrai per lui».

L’Ogden d’annata tremò pallido nel bicchiere che Lucius stringeva tra le mani. O forse a tremare erano solo le sue mani.

«Devi essere sincero. Vivi di verità, è quella che ti salva».

«Sul serio? Parli per esperienza?» domandò sarcastico Draco, perdendosi nella confusione di quel discorso, miscuglio di confessioni e scuse, di conforto e  di consigli.

Suo padre al banco degli imputati, e lui per la prima volta in alto, dove stanno i sopravvissuti. Eppure non si sentiva all’altezza di quel ruolo. Non era a suo agio in quelle vesti, e nel sarcasmo delle sue parole, pregno di sentimento verso suo padre e la sua improvvisa e forse incipiente vecchiaia, Lucius poteva averne conferma.

Tuttavia, quando si decise a rispondere, non diede alcun cenno di rimostranza per il tono aspro e severo, crudamente preciso nella sua accusa, che Draco gli aveva rivolto.

Sembrava infinitamente sollevato all’idea di dover sostenere quella sorta di processo, sotto gli occhi di suo figlio. Sollevato all’idea di dover raccontare delle proprie colpe, di firmare ogni ammissione, di poter spiegare ogni scelta, di dover rendere conto a Draco il perché di tutti quegli anni di lontananza e di incertezza a cui lo aveva sottoposto.

Sembrava a suo agio, lui, al banco degli imputati.

«Non ho mai nascosto niente a tua madre e siamo ancora qui. La vita ci ha scalfiti in molti modi, perché in molti modi siamo stati insinceri con la vita stessa e le sue regole, ma la vita che abbiamo costruito e vissuto insieme non è mai stata scalfita. Ho mentito sulle mie intenzioni, abusato del mio potere e del mio ruolo, ho compravenduto molte cose e ho tradito persone ed ideali, Draco, ma nessuna di queste persone è mai stata tua madre e nessuno di questi oggetti è mai stato l’amore che ho per lei.

Sii onesto con la donna che hai al fianco. Sceglila».

Le sue mani di padre sulle spalle di un figlio ormai diventato adulto.

«Hai capito cosa ti sto dicendo?»

Il netto rifiuto all’arrendevolezza ad ogni fatalismo.

«A tua madre non ho davvero mai nascosto niente. Né le mie sconfitte, né il mio amore per lei».

La caparbietà dell’amore di un padre, che mai lascerebbe andare alla deriva la vita del proprio figlio, a costo di dover inventare il tempo e altre possibilità. A costo di mettere a nudo tutti i propri errori, perché non vengano ripetuti da chi saprebbe evitarli. A costo di riconoscersi uomo, da Dio quale ha finto di essere.

«Sì, ho capito papà» mormorò Draco, con un sorriso stanco, sapendo già a chi sarebbero appartenuti i suoi sogni quella notte.

Sii onesto con la donna che hai al fianco.

Sceglila.

 

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Al solito vi chiedo scusa per i tempi di aggiornamento, non nascondo che questo capitolo mi ha ucciso senza pietà, stavolta niente alieni e - purtroppo - niente David Bowie a farmi da scusanti XD E' la nuda e cruda verità.
Ma l'attesa futura sarà inferiore all'annata (le ultime parole famose...) di sicuro, perchè ormai la storia è quasi conclusa XD in non oltre tre- quattro capitoli al massimo (vedi parentesi sopra) ^_^

I ringraziamenti, dovutissimi!
Melisanna: Innanzitutto grazie per aver lasciato un commento e per le cose che hai detto riguardo lo stile ^^
L'OOC è una tentazione forte quando si parla degli Slytherin, perchè stando al modo in cui la Rowling li ha trattati qualsiasi tentativo di approfondimento psicologico sarebbe OOC XD
Per quanto riguarda Draco, il definirlo "codardo" è un definirlo tale con tutto l'amore che ho per lui. Secondo me è giusto dare alle cose il proprio nome, e credo che la sua "codardia" gli faccia onore in quanto ad umanità, se solo la sua autrice avesse dedicato più spazio alle sue scelte, ma capisco che il protagonista era un altro XD ed è una pretesa fuori luogo tutto sommato =P
La riflessione che hai fatto sulle donne in un certo senso è molto vera, ha fatto riflettere anche me ^^' Credo che queste donne abbiano avuto maggiore possibilità di analisi delle vicende, perchè tutto sommato le hanno vissute al fianco degli altri protagonisti. Tu sei molto più "forte" di me nel definire Draco e tutti gli uomini "vili" XD io purtroppo subisco il fascino di alcuni di loro e mi perdo nei meandri delle loro psicologie scavando per delle giustificazioni =P
Theodore è un amore di uomo, vero? Alla fine secondo me è quello che infrange la regola, è l'uomo vero della situazione, quello consapevole di sè, che prende le sue scelte e accetta le proprie impossibilità e i propri errori. E' uno che tutto sommato ci ha provato. Ed è stato davvero l'unico a farlo, in tutta la vicenda, per questo merita tutto l'amore possibile :) L'unico ad avere le palle di rischiare.
Grazie ancora *__* Le tue recensioni sono state bellissime ^^

Meredith91: *ama aver trovato qualcuno che ami a sua volta Going to California e se ne commuove sine dignitate alcuna*  Sono felice che abbia apprezzato la parentesi Pansy/Theo, sono molto affranta per la loro situazione in realtà XD ma è anche vero che Theo incarna un pò le mazzate che la vita ti regala con un niente ^^ Amando fa la cosa più rischiosa che possa capitare ad un essere umano, e dicendolo ad alta voce raddoppia il pericolo XD E sì, i quadri di casa Malfoy sono decisamente troppo loquaci =P Fossi stata in Pansy sarei tornata con un cerino il giorno dopo -_-
La storia è agli sgoccioli, nel senso che prevedo massimo due capitoli + epilogo o qualcosa del genere, di certo non di più :) E' questione di tirare le redini della faccenda, ma ormai tutto è disposto a puntino, bisogna solo raccontarlo XD Il che mi mette un pò tristezza ç_ç
Grazie per il commento :*

Entreri: ... chiedo scusa per aver deluso le speranze di un nuovo capitolo in tempi se non brevi almeno non decennali *si nasconde* E' in parte colpa della famiglia Malfoy che nelle sue dinamiche mi crea sconvolgimenti psicologici tutte le volte. La fine è dietro l'angolo, che sia lieta poi ovviamente giudicherai tu, ma tieni conto che alla fine sono perdutamente innamorata di questi Sly, non potrei fargli troppo male. Se non altro non più di quanto non se ne facciano da soli XD Un bacio cara :* (e scusa ancora!)

Nissa: Quel discorso ha distrutto anche me ^^ E in realtà credo che Pansy veneri Narcissa perchè la sottoscritta lo fa XD Ma come si potrebbe non farlo? Blaise si inchina e ringrazia, perchè si sente capito XD La sua ironia è come l'arma che ha scelto di brandire per andare avanti, quando è stanco o si sente piccolo e nero come Calimero sconfina nel sarcasmo ^^ è il suo veicolo d'espressione, povero caro. E del resto si è scelto come amici due musi lunghi che di sicuro non hanno come miglior pregio la simpatia e l'ottimismo XD E Theo mi fa sapere che con molte probabilità rifiuterà l'eredità di suo nonno, per protesta ^^
Quella scena con Pansy è stato un peso enorme sul mio groppone, sono felice che abbia sortito delle "reazioni" emotive in chi l'ha letta ^^ E non hai scritto nessuna castroneria, tranquilla =P Anche perchè la mia lucidità lessicale all'una e quaranta di notte è pressocchè inesistente XD Grazie per il commento e la presenza =) Un bacio =*

Seiryu: *sentitamente ringrazia* Ho riletto le recensioni più volte e ancora non so precisamente cosa dire ^^ Per lo stile forse la colpa è di D'Annunzio e del fatto che mi sono nutrita dei suoi romanzi per gran parte di questi anni XD (ma mi dissocio da qualsiasi sua altra attività al di fuori della letteratura, ecco u.u).
Sono contenta anche che tu abbia riso con Blaise, secondo me è dotato di grande comicità in realtà, ed è anche abbastanza egomaniaco per poter essere un uomo da palco XD Mi sono divertita da morire scrivendo del ricevimento o della visita a casa di Draco per la consegna dell'invito, ad esempio =P
Draco e Pansy per me sono qualcosa di *sublime* ma sono profana di tanti altri pairing quindi capisco cosa intendi :) Quella folgorazione del XII capitolo è venuta fuori da sola, forse proprio perchè io sono profondamente (e vanamente ç_ç) convinta che quando due persone sono fatte per stare insieme, arriva il momento in cui gli eventi, la vita, lo specchio, il tuo io e super io, te lo sbattono in faccia e poi tu puoi fare quello che ti pare, ma tant'è e le cose stanno così ^^ Anzi che il giovane s'è dato una svegliata... per i suoi standard, è commovente XD
Lieta anche di sapere che concorsi sui cavilli giuridici di Lucius *_* Dato che detesto la Rowling ed è risaputo, mi è stato fatto notare che potrei accusarla di qualunque cosa XD ma su quel particolare dettaglio ho sempre insistito nel proclamarmi fedele ai criteri di giustizia più che al mio astio verso l'autrice u.u
Amo indegnamente anche il fatto che ti siano piaciute le canzoni citate ^^ per me sono le colonne portanti della mia sfera emozionale (*emotiva le sembrava troppo...*), un pò la soundtrack di una vita fino ad ora, oltre al fatto che alcuni sono i Grandi Autori per cui potrei anche ipotecare la casa/vendere un rene ecc... XD
Grazie infinite, infinitissime, per la recensione che hai lasciato :) *inchino a sua volta*

 



[1] Ho cercato sul Lexicon, non avendo il coraggio di riaprire il settimo scempio. Cioè, il settimo libro. Il santo Lexicon (che per me ha il valore di un Graal) non dice niente in merito alla fine che ha fatto Rodolphus. Dato che lo amo sopra ogni cosa, mi sono tenuta il beneficio del dubbio, nella storia.

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Capitolo 16
*** XVI: Congedi ***


The way we were

XVI

Congedi

 

Looking for another place
Somewhere else to be
Looking for another chance
To ride into the sun

[Velvet Underground – Ride into the sun]

 

«Pans, sei sicura di quello che stai facendo?»

Pansy sollevò lo sguardo dal proprio baule, con aria critica.

«Sì, in effetti il cachemire ha fatto il suo tempo» mormorò poggiando il maglione che aveva tra le mani sul letto. Millicent valutò se ucciderla ora o concederle prima il tempo di finire la valigia. Sapeva che Pansy mal tollerava le questioni incompiute.

Tuffò allora le dita nelle pieghe morbide del maglione. La trama di quei fili di lana lavorata raccontava di Natali ad Hogwarts, di pomeriggi invernali spesi a passeggiare nel parco del castello, o in pigre camminate per le vie di Diagon Alley. La macchia del caffè che Theodore aveva rovesciato addosso a Pansy una mattina di febbraio, durante la colazione, era stata sapientemente rimossa, ma Millicent poteva ancora vederne le tracce. Ed era certa che lo stesso valeva per Theodore, e per Pansy.

«Non parlavo del maglione» fece comunque notare ad alta voce. Pansy non si mostrò sorpresa per un fraintendimento che in realtà non c’era mai stato. Neanche si voltò a guardarla, proseguendo nella difficile arte dell’inserire se stessi in un baule.

«Milli» iniziò, chiamandola con quel vezzeggiativo che non utilizzava quasi mai. Ma non aggiunse altro. Avrebbe voluto spiegarle tutto dall’inizio, ma c’erano troppi anni di silenzio da recuperare, e lei era così stanca delle parole. Avevano un suono melodico e giusto, ma sposavano in modo distratto e incostante la volubilità degli umani sentimenti. Le sarebbe piaciuto essere in grado di farsi capire, di saper spiegare, ma le risultava difficile aprire la scatola e tirarne fuori tutti i segreti e le piccolezze che vi aveva riposto nel tempo. La solitudine a cui le aveva costrette non aveva fatto altro che amplificarle.

Millicent attese a lungo il resto della frase. Lo desiderava, e forse dopo tutti quegli anni di conoscenza, che a ben vedere erano di amicizia, lo pretendeva. Ma sapeva perfettamente che niente, niente, poteva essere estorto a Pansy Parkinson. E che, tutto sommato, Pansy per prima non riusciva ad estorcere mai niente a se stessa.

Così attese ancora, mentre la aiutò a scegliere i vestiti, a riporre ogni gioiello nella propria custodia di origine, a raccogliere le poche parti di sé che aveva adagiato nella camera da letto. La osservò, in un silenzio di protesta, continuare ad impacchettare e mettere da parte, metodica, analitica.

«Ecco fatto» disse infine, Pansy, con un sospiro. Si guardò intorno, le mani sui fianchi, dove sarebbero state ferme, e avrebbero smesso di tremare. «Ho lasciato qualcosa fuori?» chiese più a se stessa che a Millicent. «Forse un po’ di considerazione per me» le giunse in risposta. «Un po’» aggiunse avvicinando indice e pollice, visto lo sgomento negli occhi di Pansy.

«Guarda che lo so, Pans» proseguì, approfittando per la prima volta della non reazione di Pansy. Tanto ormai si conosceva abbastanza bene, lo aveva saputo da subito che quella retorica del silenzio non le si addiceva molto. Perché Pansy le faceva sempre quell’effetto, di violenta emozione.

Poteva detestarla e invidiarle la sua spiccata femminilità fino a farsi venire il mal di stomaco; e poteva trovare insopportabile la superficialità apparente in cui avvolgeva i suoi stati d’animo; e disprezzava quel vizio che aveva, di puntare al ribasso nei confronti dei propri desideri, e quella codardia nell’osare ad avere di più rischiando di perdere qualcos’altro; e poi tutto quell’astio e quella rabbia verso Pansy, riuscivano a trasformarsi di colpo nella più efferata tenerezza di fronte alla durezza dei giudizi che riservava a se stessa, di fronte alla chiusura quasi dogmatica con cui sceglieva per sé di non concedersi seconde opportunità, di fronte a quella triste e dolorosa incapacità di godersi un giorno, un solo giorno, nella propria vita, con la soddisfazione sfacciata e goduriosa di chi ha qualcosa per le mani e lo sfoggia davanti a tutti.

Come se non fosse dignitoso, essere felici.

Come se fosse un vestito della taglia sbagliata.

«Lo so molto bene come ci si sente ad avere un’idea dell’uomo che vuoi accanto, e trovartene vicino uno diverso».

«Millicent—»

«No, non cambiamo argomento. Oggi decido io qual è l’ordine del giorno. L’ordine del giorno è che ti sei chiusa, per anni, in questa esclusiva rassegnazione, in questo dolore così privato, così inspiegabile, da non poterne parlare con nessuno, neanche con me. Certo, c’è Blaise, che è il più prezioso dei consiglieri, lui sa come sei fatta, lui ti capisce come pochi in questo mondo. Ovviamente. Ha i tuoi stessi difetti, è la tua copia al maschile, e indovina, non ti ha mai suggerito niente di veramente utile, niente che potesse strapparti da questo mucchietto di miseria e tristezza. Da questa povertà di sentimenti! È povero quanto te, lui» sancì con una durezza tale da legittimare la severità di quelle parole.

«Quindi va bene, partire. Vuoi andartene? Vattene. Se pensi che i francesi ti mettano di buon umore, parti pure, chi ti ferma? Di certo non ti voglio qui, con il muso lungo e l’atteggiamento della martire ad un passo perenne da una morte che non arriva. Saresti ancora più insopportabile della versione originale».

Si fermò, perché non era allenata ad essere così arrabbiata.

E a quel punto, Pansy rise.

Come le capitava da bambina, per qualcosa di divertente.

E non il sorriso sardonico di chi la sa lunga. Né il sarcasmo a cui aggrapparsi per trasformare in ironia l’ennesimo sgarbo del fato. Scoppiò a ridere come succede davanti a qualcosa di assurdo.

«Non c’è niente da ridere» la redarguì Millicent, più sbalordita di lei. «Non ridere Pans, non hai idea di quanto sia seria» insistette, con un tono di vaga minaccia che non si addiceva affatto alle blande rimostranze con cui cercava di convincere gli altri a considerarla, nei momenti critici.

«Non hai idea» aggiunse a bassa voce. Poi si zittì, fino a quando il silenzio tornò ad avvolgere la stanza.

«Lo so» disse allora Pansy, sedendosi accanto a Millicent, sul letto.

C’era una morbidezza nuova, nei suoi movimenti, osservò Millicent con una stretta di paura allo stomaco. Una differenza incredibile rispetto al nervosismo con cui compiva ogni gesto, nella quotidianità. Era la traccia di una linea di confine tra un prima e un dopo. La drasticità, a Millicent, non era mai piaciuta.

«Hai ragione» disse ancora Pansy, guardando in basso, gli zigomi rilassati dopo la tensione di quella risata.

«Lo dici per farmi stare zitta» mugugnò Millicent, rifiutando di sedersi vicino a lei.

«Tu non stai mai zitta, a che servirebbe?» le fece notare Pansy, con la solita gentilezza. «Tu non stai mai zitta. Niente funziona, con te. Blaise non ti ha mai guardata, mai, eppure tu continui a spasimare per lui, al limite dell’imbarazzo». Millicent fece per dire qualcosa, ma lasciò perdere. «Ad Hogwarts hai vissuto in un covo di serpi, ti sei fatta quasi sbranare dalle leggi del branco e poi alla fine ne sei uscita perfettamente integra. Così come eri entrata: decisamente inadeguata, per essere una Slytherin. Però, fedele a te stessa». Millicent sentì la gola chiudersi in un nodo stretto. «Che vuoi dire?» mormorò sentendosi quasi apprezzata da Pansy. Era pericoloso cedere alla lusinga di quell’illusione, ma era pur vero che non le aveva mai parlato in quel modo.

«So che tu resteresti qui, Millicent, se fossi al mio posto. Io non so adattarmi e non accetto né tollero sconfitte. Non sono così integra, non so smussare gli angoli né levigare una ferita».

Millicent pensò che avrebbe anche potuto piangere, per l’occasione. Non si sarebbe mai aspettata che Pansy la dipingesse in quel modo.

Aveva sempre immaginato tratti spessi e pennellate asimmetriche e grossolane. E invece scopriva che Pansy in lei vedeva un equilibrio. Si sentì di colpo forte, fortissima.

«Non arrabbiarti» soggiunse Pansy, con voce sottile, alzandosi dal letto. Si mosse rapidamente, tornando alla nervosità nei gesti cui il mondo era solito vederla.

«Questo tienilo tu». Strappò Millicent dalla commozione che l’aveva sopraffatta, agitando la mano perché le desse retta. Quando si voltò verso Pansy, Millicent la vide porgerle il maglione di prima, già innervosita per il tempo che le stava facendo perdere distraendosi dietro i soliti sentimentalismi. «E’ rimasto un po’ l’alone» la avvertì, con una nota di malinconia a scenderle sugli occhi scuri. «Te lo dico per evitarti di metterlo al ricevimento dei Midgen sabato prossimo».

Millicent prese il maglione, titubante.

«Non vuoi lasciarlo a Theodore?»

Pansy alzò gli occhi al cielo, disgustata al solo pensiero. «Non esageriamo» rispose seccamente, immaginando che a Theodore avesse lasciato anche fin troppo di sé, e che fosse insindacabilmente giusto lasciarlo in pace una volta per tutte, libero della presenza ingombrante di quel sentimento a metà che li aveva soffocati negli anni della loro maldestra convivenza.

«Allora, c’è altro?» domandò di nuovo Pansy, chiudendo già il baule.

Millicent si morse l’interno della guancia, incerta.

«Ci sarebbe Draco, da salutare».

 

*

 

We met when we were almost young  […]

You held on to me like I was a crucifix,

as we went kneeling through the dark.

[Leonard Cohen – So long Marianne]

 

 I giardini di Hogwarts non erano altro che una landa desolata e preda di se stessa, da quando la guerra si era conclusa.

La Restaurazione del resto si era concentrata su aspetti più vitali sotto un profilo sociale, come la redazione di una nuova costituzione, questa volta scritta; o una politica di ripresa economica che togliesse d’impaccio gente come i Weasley dalla miserevole condizione esistenziale in cui versavano dalla fine della guerra. Mutilato il loro fondo fiduciario alla Gringott, drasticamente a corto di denaro liquido, bruciato nella ricostruzione dell’abitazione, nelle spese mediche per i reduci. Del resto, i lasciti della guerra avevano ferito le famiglie ben più a fondo della consistenza dei loro patrimoni.

La scuola di Hogwarts era passata in secondo piano. Nessuno aveva davvero più voglia di voltarsi indietro e tornare sullo scenario di distruzione che era diventata. Il baluardo di una fiorente e sapiente cultura, il vanto nazionale della Londra magica, si era rivelato essere il terreno che aveva ospitato sementi velenose e degeneri. Era diventato solo il simbolo di colpa. Di chi aveva lasciato proliferare una progenie infetta.

Nessuno aveva davvero più il coraggio di varcare i cancelli. La sede succursale che il Ministero aveva fatto edificare risultava più spoglia e meno carica di storia, ma andava più che bene. Non godeva di alcun prestigio, ma le pareti bianche, di mattoni chiari, erano meno spaventose e generavano meno superstizioni.

Nessuno più metteva piede nelle proprietà della antica Scuola di Magia e Stregoneria. Tranne chi in fin dei conti non si sentiva del tutto assolto, dalla conclusione del conflitto. Tranne chi, tutto sommato, aveva lasciato una piccola parte di sé, forse quella migliore, annidata tra quelle mura.

 

Varcando i cancelli, Pansy sperò che la codardia vincesse contro la necessità di vedere Draco ancora una volta. Si impose di andare via, ma disubbidì ai propri ordini. Lo attese, invece, nel punto esatto in cui gli aveva chiesto di raggiungerla.

Vagò con lo sguardo, abbracciando il giardino del castello. I colori stinti dal tempo e dall’incuria le appesantivano il cuore. Si sentiva sfiorita anche lei, e sapeva, lo sapeva bene, che qualcuno in quel giardino era appassito, e non avrebbe potuto incontrare i germogli di una nuova vita, di una seconda possibilità.

Draco si materializzò senza fare rumore. Camminò calpestando l’erba secca sotto i suoi piedi, cercando con apprensione la figura di Pansy. La intravide, là dove un tempo si stagliava il Platano Picchiatore, ora ricurvo su se stesso.

«Non riuscivo a trovarti» esordì, spaventandola, nel rompere il silenzio rarefatto intorno a loro. «Troppa gente» aggiunse, con un sorriso ironico. Pansy replicò quel sorriso, inclinando leggermente la testa, per accogliere il suo arrivo. Draco lesse una cautela particolare, nel suo comportamento. Come se stesse cercando di fare poco rumore, di non lasciare tracce. Respirava piano, come per proteggersi dall’odore forte del bosco vicino a loro. Comprese che stava portando avanti una difficile opera di astrazione, nel tentativo di non caricarsi le spalle con il peso di ricordi troppo nitidi.

Era implicito nel languore dei suoi occhi, desiderosa di averlo vicino e timorosa di essere accontentata, che quella era una delle ultime volte.

«Sei pallida» mormorò, solo per rompere il silenzio. Le sue dita gelate dall’umidità si avvicinarono al viso di Pansy. Sapeva già dove si sarebbero posate, la consistenza della sua pelle, il modo in cui la propria mano avrebbe accolto il profilo del suo volto. Lei si lasciò toccare, trattenendo un sospiro. «Anche tu non hai una bella cera. Come al solito.» osservò, molto più sincera.

Draco allontanò la mano, memore della notte trascorsa. Astoria non gli aveva permesso di chiudere occhio. La gravidanza aveva portato sonni inquieti e nausee perenni. E lui non aveva la stanchezza tenera di un marito, nei suoi confronti.

«Perché mi hai chiesto di vederci qui?» domandò cambiando discorso, tornando a loro. Pansy scrollò le spalle.

«Domani parto» disse infine. Le parole le si spezzarono in gola. Erano acuminate, come il loro significato. «Avevo bisogno di chiudere il cerchio» spiegò, come se dovesse giustificarsi. Draco non disse niente. Le mani affondarono nelle tasche dei pantaloni, allo stesso modo in cui lui si sentiva sul fondo di un baratro. Doveva aspettarselo, da Pansy, cercò di raccontarsi, mentre il silenzio si contorceva di nuovo tra loro, e lei iniziava a camminare.

«Parti?» ripeté, coprendo i suoi passi con i propri, e raggiungendola. Pansy non si voltò, ma lasciò che le camminasse a fianco.

«Domani mattina» aggiunse.

«E dove vai?»

«In Provenza».

«In Provenza, e dove vivrai?» chiese ancora, le parole a rincorrersi tra loro, la voce a tradire una nota di panico o forse solo disperazione, in un crescendo di consapevolezza e frustrazione che gli stringevano lo stomaco e pungevano la gola.

«Il padre numero tre di Blaise, gli ha lasciato un—» ma lui non era più lì, era già altrove. Al giorno dopo, e a quello dopo ancora, al resto della vita, vissuta sapendola lontana, intrecciata a quella di altre persone e altri luoghi diverse dalle persone e luoghi che avevano a che fare con lui.

«Di cosa vivrete?» la interruppe di nuovo.

Pansy smise di camminare. Lo guardò negli occhi, pensando che almeno quello avrebbe voluto ricordarlo.

«Non sai neanche il francese».

«Sono innamorata di te» gli disse, con una fermezza nella voce che gli fece perdere qualsiasi senso di equilibrio e misura. C’era ancora quella imperfezione di fondo, nelle cose belle che capitavano loro. Una tristezza sottesa in qualunque piacevolezza gli capitasse. «Ma avrai notato che l’amore di per sé non è sufficiente».

Draco distolse lo sguardo, come bruciato dal fervore degli occhi di Pansy.

«Questo è il momento in cui devo fare la parte di Potter?» domandò a denti stretti. Barricandosi dietro l’infantile vittimismo dei tempi d’oro.

«Prova» replicò lei, sentendo il sangue affluirle al viso «magari mi sentirò meno addolorata, lasciandoti».

Non le giunse risposta. Tenne gli occhi ostinatamente fissi nella lontananza davanti a lei. Non guardava niente, le bastava non vedere Draco, e la luce che di sicuro aveva squarciato il suo sguardo; e le parole che avrebbe voluto dire ma che aveva già negato ad entrambi; e la posa rigida delle sue spalle. Del resto, lei aveva già parlato abbastanza. E non c’era niente, di quello che voleva sentirsi dire, che avrebbe potuto essere detto.

Draco allungò un braccio, sicuro di trovarla.

Non le giunse risposta, perché lui la baciò.

 

*

 

«Ti aspettavo».

La sua voce risuonò decisa, sbattendo contro i soffitti alti della stanza, e spegnendo il proprio eco nel gorgoglio del firewhiskey che Blaise stava versando nel bicchiere.

«Lo sforzo del congedo lo fa chi è in partenza, di solito» gli fece notare Draco, gettando il mantello sulla sedia nell’angolo.

Prese  il bicchiere che Blaise aveva appena preparato per sé, e lo svuotò.

«Tra quanti bicchieri pensi di voler fare a pugni?» si informò l’altro, arrotolando le maniche della camicia.

«Troppo facile, ora che te lo aspetti» ribatté aspro Draco, sbattendo il bicchiere sul davanzale.

Le dita di Blaise si incastrarono tra i polsini della camicia, e se Draco fosse stato meno furioso avrebbe avuto l’occasione di accogliere quel nervosismo come la più sincera delle prove d’amicizia.

«Bene allora» disse per fratturare il silenzio teso tra loro «Sbrigate le formalità di nunzio, possiamo scambiarci vigorose pacche sulle spalle e salutarci virilmente» propose senza riuscire a nascondere nella propria voce l’inusuale nota di panico che lo stava lentamente avvolgendo. Gli sarebbe dispiaciuto non poco scoprire proprio in quella circostanza, e con pessimo tempismo, di avere discreti – per non dire seri – problemi con i saluti prolungati.

«Sei decisamente uno stronzo, Blaise.» Il ruggito nella voce di Draco copriva il silenzio di una tristezza appena scoperta.

Blaise non si scompose troppo. «Dai conferma a qualcosa che ho sempre sospettato» disse, e avrebbe aggiunto altro se Draco non lo avesse afferrato per le spalle, sbattendolo con ben poca delicatezza contro l’armadio dietro di lui.

Persino nella posizione di preda, Blaise non rinunciò al sardonico sorriso con cui di solito riconosceva e accettava l’univocità comunicativa del suo amico.

«Primitivo. Avresti almeno potuto proporre un duello» mormorò, guardando negli occhi quello che a conti fatti era stato il suo compagno di vita.

Non aveva assolutamente niente in comune, con uno come Draco. Non aveva i suoi modi irruenti di fare a pugni con le contingenze della vita, e non capiva come gli fosse possibile cedere con così banale naturalezza al panico.

Blaise era un accorto stratega e Draco un ottimo duellante. Amavano le belle donne, ma Blaise non conosceva la volgare esclusività che pretende chi è posseduto dall’amore, e non aveva mai conosciuto la gelosia che invece sapeva impadronirsi di Draco con un niente, quando qualcuno guardava Pansy o la nominava invano.

Credeva nell’amicizia e in poche altre cose – nel diritto a disporre della propria vita come meglio si crede, nella superiorità del fine rispetto ai mezzi, sebbene pur sempre con eleganza e sapienza diplomatica – e osteggiava qualunque operazione di mercanteggio ma sapeva perfettamente che per Draco avrebbe venduto anche se stesso. Al giusto prezzo, si intende.

Eppure in quelle loro irriducibili contraddizioni, avevano trovato il senso di un’amicizia.

«Non vali un duello, idiota» ringhiò Draco vicino al suo orecchio. Le sue mani grandi erano premute con decisione sulle spalle più esili di Blaise e tutto quello a cui riusciva a pensare era che il suo migliore amico se ne stava andando, e che in parte fosse colpa sua, e che non sapesse come chiedere scusa per non aver lasciato intendere di aver capito, se non tutto, qualcosa, di quello che gli stava succedendo negli ultimi anni.

«Per caso questa dimostrazione di forza belluina è una metafora per spiegare l’ardore dei tuoi sensi di colpa verso di me?» interpretò a chiare lettere Blaise, concedendo a Draco il permesso di allentare la presa con un certo sollevato sgomento.

«Il solito egocentrismo dei Malfoy, ritenersi responsabili.» proseguì per la sua strada Blaise, scoprendo di aver la gola in fiamme, come se quel firewhiskey lo avesse bevuto sul serio, in un sorso. «Il vero motivo del mio addio al Tamigi è che Londra mi sta stretta, Warrington non è più uno spacciatore di qualità, le francesi sono molto seducenti e, in ultimo—» si interruppe, liberandosi con una elegante ma ferma scrollata di spalle della presa di Draco «In ultimo, dicevo, se resto in questo posto un solo giorno di più, perderò completamente la testa.»

C’era una nota di rassegnazione nella sua voce, di compunta tristezza e di infinita stanchezza, racchiusa in quelle parole, e Draco scoprì di essere perfettamente in grado di comprenderlo. «Per fortuna non sono stato così sconsiderato da sposare un manichino e metterlo incinta» si sentì in dovere di aggiungere Blaise. Draco sentì di nuovo la voglia di inferire su di lui fisicamente. «Altrimenti avrei avuto dei problemi squisitamente legali, per la partenza».

«Ti ripeto, sei decisamente uno stronzo. Dove andate a stare?» chiese Draco, dal momento che non aveva permesso a Pansy di rispondere a quella domanda. Il pensiero di lei schiacciò con violenza e con ardore tutti gli altri.

«Legato testamentario del padre numero tre».

Draco affondò le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Avrei fatto lo stesso» disse infine, esausto.

«Se fossi stato un po’ più furbo» acconsentì Blaise.

 

*

 

«Non mi chiedi di scriverti una volta al mese?»

Silenzio, dall’altra parte.

«Di prendermi cura di lei, con amore e dedizione, in tua vece?» provò ancora.

Avvertì i denti dell’altro battere tra loro, e con quello si accaparrò la vittoria.

«Sai bene che è l’unica che non toccherei a meno di non avere le mani d’oro.»

«Non le ho chiesto di aspettarmi.» disse Draco, in totale autonomia dalle idiozie che stava blaterando Blaise alla sua sinistra. Ottenne in cambio un silenzio considerevole di rispetto. Di breve durata.

«Direi che non potevi permettertelo.»

Sorrise, Draco, sentendo l’amarezza corrodergli la gola, avvelenando i suoi pensieri. Aveva molto di cui occuparsi, e nessuna forza per farlo. Nessuna idea di come adempiere al suo ruolo di marito di Astoria, e l’immagine netta e tagliente invece di che uomo sarebbe stato al fianco di Pansy. Senza bisogno di inventare un se stesso adatto all’occasione. Era già pronto, per quello.

«Ma tutto sommato non ne hai bisogno.»

Blaise lo guardava fissamente, attendendo paziente che l’altro avesse il coraggio di incontrare il suo sguardo e accettare il conforto di quelle parole.

«Oltre a non poterlo pretendere, per quanto preferirei che così fosse, non riesco neanche ad immaginarla, Pansy, avvolta in una castità devota.»

Fu quasi costretto a sputare quelle parole dalle labbra, ché la sua bocca non voleva saperne di dare una possibile concretezza all’immagine di Pansy intenta a fare l’amore con un altro uomo.

«Se non fosse alquanto ineducato e blasfemo vista la tua posizione, dovresti fare quattro chiacchiere con Nott. Sono certo che avrebbe preferito la castità, piuttosto che averti nel letto lo stesso.»

Draco e Blaise si scambiarono uno sguardo univoco, con identici sorrisi.

Pansy li trovò vicini, spalla contro spalla, avvolti in questo silenzio tipicamente maschile e quasi non volle disturbarli.

«Uomini» li richiamò invece «Vogliamo andare?» disse, senza guardare Draco, quando la barriera delle loro schiene si spezzò, al loro voltarsi.

 

*

 

«Astoria» chiamò Draco, quella sera, rientrando a casa. Aveva il mantello carico di pioggia e il viso pallido. Sembrava sofferente, si disse sua moglie, incontrando la sua figura nell’affacciarsi in salone.

Il cuore guarisce sempre pensò sperando che fosse vero.

«Dobbiamo parlare» disse Draco, serio.

«Non vuoi toglierti il mantello? Stai bagnando il pavimento.»

«No» disse di nuovo «Dobbiamo parlare».

--

Note
Non credo esista neanche una lingua adatta alle scuse, stavolta XD
Tuttavia, questo era l'ultimo capitolo, con l'epilogo The Way We Were avrà una conclusione (lo giuro, lo giuro.)
Grazie a chi ha pazientemente ( o non pazientemente atteso), a chi si è riservato di leggere e a chi anche di commentare :)

Melisanna_: Riguardo Lucius, in realtà si è trattato di un discorso padre-figlio, più che di una sua rilettura della propria coscienza sociale =P Probabilmente avrebbe rifatto tutto ciò che ha fatto, e lo rifarebbe anche in futuro se se ne presentasse l'occasione, quello che gli premeva di fare capire al suo pargolo è che conviene essere sinceri con le donne che si hanno al fianco, e quindi conviene anche scegliersele e non lasciare che cadano dai peri, altrimenti le cose si fanno scomode! (Probabilmente è un refuso dei miei studi sul diritto di impresa, per cui sono rimasta profondamente colpita dal fatto che il coniuge di un imprenditore fallito si presume in malafede XD Dunque, sempre meglio aggiornarsi). Grazie per il commento, un bacio.

sweetchiara: no problem :) sono un talento nell'arte di accumulare impegni e cose varie, e nel ridurre il tempo a disposizione per il resto e recensire non è un obbligo =P  (L)

Nano: Ci siamo già dette tutto, right? XD

Heike: Che dire, grazie. Davvero. ^_^ Mi fa piacere poi leggere di un Nott oggetto d'amore, mi sono resa conto con lo scrivere che è davvero il personaggio principe tra tutti gli altri, le sue ossa rotte hanno forse una dignità che nessun'altro ha avuto o si è saputo tenere in un malloppo di 16 capitoli ^^ I tempi di aggiornamento non sono stati proprio celeri, ma alla fine ecco qua il capitolo. Grazie ancora per il commento così curato e partecipato :)



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Capitolo 17
*** 17. Oltremanica ***


The way we were

XVII

Oltremanica

 

There are times that walk from you like some passing afternoon,
Summer warmed the  open window of her honeymoon

 

«Pans?» si affacciò la voce di Blaise dall’interno.

Pansy sollevò pigramente la testa dai fiori di oleandro che stava osservando da lunghi minuti.

«Sono sulla terrazza» avvertì.

Tre secondi dopo Blaise fece la sua apparizione, lanciandosi occhiate guardinghe alle spalle.

«Metti la fede» disse sbrigativo, lasciando perdere le proprie spalle e affacciandosi dalla terrazza, per scrutare l’orizzonte.

Pansy non partecipò minimamente alla sua agitazione, limitandosi ad uno sguardo piuttosto critico.

«Ci risiamo?» domandò soltanto, facendo apparire la fede sul proprio palmo, richiamandola dal suo comodino. Blaise la infilò al suo dito sottile, con un sorriso di scuse e di compiacimento di sé, a volerle ricordare che l’ars amatoria non va mai in pensione.

«Non dovrebbe costarti molta fatica» le disse, facendo apparire un anello anche al proprio anulare. Come sempre il solo contatto del cerchio metallico con la pelle della sua mano gli procurò brividi di fastidio.  «Hai una certa esperienza in matrimoni fittizi, tu».

«Devo dare ragione al tuo amico, Blaise» replicò Pansy, preparandosi ad accogliere l’ennesima donzella in visita al loro maniero, nella speranza di apprendere la notizia della vedovanza improvvisa di Monsieur Zabinì. «Sei decisamente uno stronzo.»

 

-

 

Negli anni del periodo francese, come aveva preso a definirlo Blaise, nel tentativo di dare un tono alla loro innegabile disfatta, Draco era tornato nel cassetto in cui Pansy lo aveva tenuto negli anni dopo Hogwarts, prima di incontrarlo di nuovo.

Non era più innominabile. Spesso lei e Blaise, in preda a malinconie rinnegate senza alcun sforzo giustificativo il mattino dopo, si ritrovavano il suo nome sulle labbra, o sottinteso nei loro discorsi, o in qualche stralcio di ricordi, e allora si fermavano entrambi, non appena ne prendevano atto, lasciando che Draco si adagiasse tra loro e tornasse in silenzio ad occupare il posto che gli era stato riservato: muto compagno della loro quotidianità.

Quell’imbecille lo definiva a volte Blaise, scuotendo la testa nel versarsi da bere. Aveva smesso con il brandy, ora che Theodore non era più in giro. Ciò che rendeva  amabile il gusto di brandy era la circostanza di berlo nel salotto di casa Nott e rigorosamente alla faccia del proprietario della bottiglia da ottanta galeoni, aveva rivelato a Pansy una delle prime sere dopo l’insediamento al Maniero.

Pansy non si era preoccupata di fargli sapere di averlo sempre saputo.

 

Il Maniero dei Zabini era arroccato su una collina, piuttosto lontano dal centro abitato.

«Tipico gusto asociale del marito numero tre» aveva osservato Blaise, mentre i loro bauli si disfacevano da soli e Pansy prendeva dimestichezza con i soffitti alti delle stanze, le pareti bianche immacolate, prive di ritratti e disseminate invece qui e là di paesaggi ameni, tipicamente provenzali.

C’era una biblioteca discretamente fornita, nel piano superiore, che Pansy aveva lasciato a Blaise come antro in cui rifugiarsi dai bollenti spiriti di qualche dama o dalla crudeltà di qualche fantasma del passato, tornato in visita.

Per sé aveva scelto il terrazzo e una piccola stanza al piano terra, nascosta da un paravento alla vista dei visitatori

«Credi che tua madre se ne dispiacerebbe?» aveva chiesto a Blaise, già innamorata di quella stanza piccola e raccolta, che forse avrebbe anche potuto adibire a cassetto. Lui le aveva accarezzato i capelli, con una scrollata di spalle. «Mia madre non ha mai conosciuto dispiaceri» rispose. «Attenta ai cadaveri negli armadi, agli Auror manca giusto il corpo del penultimo marito». E poi l’aveva lasciata sola, a prendere possesso della sua nuova proprietà.

 

Entrambi avevano dovuto abituarsi, con la poca pazienza che avevano, ai ritmi di una vita decisamente non londinese. Pansy era stata costretta ad affinare il proprio francese, e Blaise aveva dato sfogo alle sue capacità linguistiche senza alcun problema di sorta. Come sempre, si era detta Pansy, trovandosi una cassa di champagne tra i piedi nel mezzo del salone dopo soli cinque giorni di permanenza in terre francesi.

Di sua madre e suo padre non aveva più avuto notizie.

Nel partire aveva fatto lo sforzo, sotto costrizione di Millicent, di scrivere una lettera di avviso anche a loro. L’aveva indirizzata a sua madre, consapevole che dopo il matrimonio andato a monte suo padre fosse poco disposto al dialogo. Anche da sua madre non le era giunta risposta di sorta, se non dopo mesi, e con un falco che non era quello di famiglia.

“Trattengo quello che hai lasciato qui a titolo di ricordo. Me lo devi, sono tua madre. So bene che non inviterai mai né me né tuo padre ad una visita, per tuo pudore o perché ritieni, forse a ragione, di dover sopravvivere in qualche modo. Come madre mi spezza il cuore, anche se tu sei convinta che io lo abbia allenato poco. Come donna, Pansy, non ho altro da aggiungere. Vivi bene, bambina mia.”

Conservò quella lettera nella stanza che aveva scelto per sé, nello stesso armadio in cui Mrs Zabini aveva nascosto i suoi scheletri.

La rilesse una sola volta, nella sua vita, per il resto la lasciò lì al suo posto.

 

La Gringott riuscì a rintracciare Blaise, un pomeriggio di inverno.

Fuori cadeva la neve, e il gufo intestato Gringott aveva atteso intirizzito, con le zampe congelate alla ringhiera, che Blaise vincesse le sue ritrosie e si decidesse ad aprire la finestra.

Come sospettato da entrambi, la Gringott chiedeva ancora la sua collaborazione, offrendogli un lavoro di consulenza a distanza, che Blaise avrebbe potuto comodamente prestare da dove si trovava senza bisogno di tornare a soffocare nei fumi di Londra.

«Dovresti accettare» disse Pansy una settimana dopo, con fare pragmatico. «Sei stato sufficientemente corteggiato anche dagli uomini del Ministero, a questo punto.»

Blaise l’aveva guardata leggermente risentito nello scoprirla dalla parte degli altri.

Avrebbe avuto a che fare di nuovo con il nome di Draco, di Nott, e della Davis, e chissà di quanti altri. Pansy aveva letto tutto questo nel suo sguardo, e nel sorriso che le aveva ammorbidito le labbra c’era la chiave risolutiva dell’enigma.

«Avevamo detto che non sarebbe stata una fuga» disse, seria.

«Sì, lo avevamo detto» aveva risposto lui, rintanandosi nel suo antro al piano di sopra.

La sera Pansy, acciambellata sulla poltrona accanto al camino, scorse con la coda dell’occhio un dispiegarsi di ali nel cielo scuro.

«Che ci fa un gufo in volo in mezzo alla neve?» domandò ironica.

«Porta una notifica di accettazione a quegli imbecilli della Gringott» borbottò Blaise, scendendo le scale dal piano di sopra, e versandosi da bere.

 

Nei lunghi mesi di silenzio tra Pansy e la sua famiglia si era scatenata una guerra fredda in merito alla separazione dei beni. Così Eveline Parkinson aveva tenuto sotto sequestro tutti i suoi elfi domestici, abbassandosi persino ad una donazione in favore del sindacato diretto da Hermione Granger. Fu una donazione anonima, ovviamente, in accordo tra lei e la fondatrice, con riserva di mantenerne segreto il motivo.

Pansy aveva ritenuto di non aver alcun bisogno di elfi domestici che le stessero tra i piedi. Le loro deformità erano comunque poco consone ai delicati profili provenzali e mal si accostavano con l’ambiente circostante. Blaise la lasciò farneticare pieno di affetto, preoccupandosi personalmente di recarsi a Londra, in incognito, per trafugare qualche elfo e portarlo in casa propria.

«Questi ce li mandano i coniugi Montague, con auguri di buon Natale» annunciò a Pansy riapparendo al Maniero.

«Hai rubato a Millicent i suoi elfi… non posso credere che tu lo abbia fatto sul serio» commentò allibita ma molto sollevata di non doversi più preoccupare di certe incombenze.

«No, li ho sottratti con astuzia oratoria a quel sottosviluppato di suo marito» rettificò placidamente Blaise, facendo cenno alla nuova servitù di appropriarsi dello sgabuzzino per renderlo confortevole giaciglio e ripostiglio dei loro stracci, altresì con coraggio definiti indumenti. «Farà i conti con lei quando tornerà dal suo viaggio, cosa vuoi che succeda? È pur sempre Millicent, la sua massima rappresaglia sarà chiuderlo in un armadio, e in fondo non si tratterebbe di niente di nuovo, ne è già uscito una volta.»

«Potrebbe tornare intelligente, in effetti» valutò Pansy, versando da bere al compagno, in ringraziamento per l’opera di riciclaggio di elfi.

«Appunto. Come sempre, non capiscono mai quando vogliamo fare del bene.»

 

*

 

And she’s chosen where to be,
tough she’s lost her wedding ring

 

Trascorsero gli anni, si alternarono le stagioni.

Pansy affidò all’inarrestabile scorrere del tempo la cura del proprio dolore.

Non si azzardava mai a chiamarlo in quel modo, e la maggior parte delle volte si sforzava anche di non viverlo come tale.

Non aveva pianto per Draco, come le capitava di fare da giovane – battendo i pugni sul letto per sfogare la rabbia che le sue parole le provocavano, o lasciando che in silenzio trovassero posto sul suo viso le lacrime che lui non concedeva di certo a se stesso.

Aveva cristallizzato il dispiacere e imbrigliato lo sconforto, sbarrato il nascondiglio in cui li aveva riposti, e su di sé l’unica traccia della loro presenza era la malinconia che le era rimasta intrappolata negli occhi e la stanchezza con cui cercava di essere bella.

 

Pensava a lui più di quanto facesse credere a Blaise.

Gli anni erano passati, e lo sapeva padre, ormai. Quando il pensiero non la uccideva, trovava consolante l’idea che Draco avesse modo di non dimenticarsi come si ama.

C’erano stati altri uomini, mai nel suo letto e mai nel suo cuore. Li aveva incontrati senza conoscerli, si era dilettata della loro presenza senza mai renderla compagnia. Aveva usato i loro corpi per tenere in allenamento il proprio, per ricordare a se stessa che potesse conoscere calore, se non d’amore almeno di desiderio. Aveva permesso, questa volta, che le si facessero complimenti, che si parlasse di lei come di una bella donna, nonostante la pelle pallida e i suoi silenzi tipicamente british.

«Non hai figli?» le venne chiesto una volta, da uno di loro.

«No» rispose, una mano sul ventre piatto, vuoto. «Non credo di poter averne».

Ho la notte nel cuore avrebbe aggiunto se a chiederglielo fosse stata sua madre.

Non sentiva di avere sufficienti forze per amare qualcun altro, le aveva impiegate tutte per prendersi cura di se stessa e del proprio tormento.

Tuttavia quella sera, davanti alla propria immagine, cercò di immaginare una rotondità al posto dei suoi spigoli; si chiese se quel vuoto che aveva dentro di sé avrebbe mai potuto contenere qualcuno.

 

Di Londra e della sua vita ricevevano notizie sporadiche, riportate da Blaise dopo una accurata opera di selezione tra quelle che lo avevano raggiunto.

Pansy scoprì presto quella sua abitudine alla rassegna stampa, e decise di abbonarsi alla Gazzetta del Profeta, per risparmiare a Blaise il travaglio di proteggerla, e sollevarlo di qualsiasi responsabilità.

“Non ti affannare, stupido” gli disse aprendo il giornale sotto i suoi occhi, una mattina di inizio primavera. Blaise l’aveva guardata allibito. “Non abbiamo sempre fatto così? Ognuno è responsabile dei propri mali.”

Si era versato del caffè, scuotendo la testa. “Forastica, come sempre” borbottò dapprima offeso per il mancato riconoscimento delle sue attenzioni. Quando la sera tornò a casa, aveva già dimenticato.

“Ti ho perdonata” le disse, lanciando il mantello ad un elfo.

“Non ti ho chiesto scusa” gli rispose, sorridendo tra le pagine del libro.

 

-

 

Il Profeta raccontò a Pansy dell’ordinaria amministrazione scandalistica di Daphne, e delle controverse operazioni economiche della Gringott. La aggiornò degli ultimi processi, della decisiva abolizione del Bacio – la pagina riportava una sorridente Hermione Granger, al sit-in organizzato sotto la sede del Wizengamot riunito in Sezioni Unite per deliberare la proposta – delle nuove scoperte pseudo scientifiche portate avanti dallo sconclusionato connubio Lovegood – Scamandro, e della fusione delle società Nott e Davies.

Il vecchio Abraham era morto, infine, molto seccato per la propria dipartita, e serbando ancora profondo rancore verso suo nipote.

In una lettera Millicent le raccontò per filo e per segno ciò che era stato riferito da voci non meglio identificate, in quel del San Mungo. Theodore aveva insistito perché suo nonno fosse ricoverato e tenuto sotto sorveglianza, con una dedizione che Abraham aveva frainteso per malafede, così era morto soffiando veleno contro l’ingratitudine di Theodore e soprattutto contro la sua sciocca e deleteria attitudine ad amare donne discutibili, che lo avevano costretto “a rivolgere parola a quell’emerito idiota del Ministro di Grazia e Giustizia, per tirare fuori quell’altro emerito incapace di Lucius Malfoy al solo scopo di far fallire un matrimonio!”

Finì con il costringere Theodore a chiedere che lo sedassero, ma quando si era svegliato, terminato l’effetto dei narcotici, Abraham aveva ripreso con una lucidità tenace esattamente da dove si era interrotto: “… al solo scopo di vedere quel rattrappito di suo nipote lasciato sull’altare come un Allock qualunque, dovendo patire anche lo sviluppo del suo ennesimo inciucio da quattro soldi con quella gattamorta pluri-divorziata, e dovendo persino cederle una parte di azienda! Mai il nome dei Nott era stato accostato a quello di altre siffatte…”

Millicent aveva lasciato immaginare a Pansy come si fosse conclusa la piece.

Le disse, in ogni lettera, che non aveva imparato l’arte dell’anaffettività, essendo venuta a mancare la migliore maestra, e che quindi si permetteva di dire che le mancava, Pansy, e molto.

“Nel modo in cui la gente comune ha nostalgia di una cara amica.”

 

*

There are things we can’t recall, blind as night that finds us all,
but my hands remember hers.

 

 

Scorpius nacque di notte, in casa Malfoy.

Narcissa – che avrebbe rifiutato per sempre il nominativo nonna – aveva insistito perché così fosse e Astoria non si era opposta, sentendosi al sicuro nelle mani di una madre e una suocera che avevano già messo al mondo dei figli, riuscendo a preservare se stesse.

«Tieni, bevi questo» invitò Lucius, costretto a condividere con suo figlio la – nuova – reclusione oltre la porta.

Le dita gelide di Draco si aggrapparono al vetro del bicchiere, mentre pensava che stava per diventare padre, e che Blaise non era lì a ridimensionare il tutto in un po’ di disincanto confezionato, né Pansy lo guardava silenziosa, ricordandogli che poteva essere sbagliato ma lei lo amava comunque.

 

Non aveva più toccato Astoria, da allora. A volte si era chiesto se suo figlio lì dentro percepisse la frammentarietà di quell’amore che gli veniva riservato. In due canali diversi e separati tra loro.

Aveva delle  mani troppo grandi per le sue ossa fragili e il suo essere così minuscolo, pensò non appena fece la sua conoscenza.

Sua madre glielo mise in braccio, delicata come si è con un neonato, ma decisa nel compiere quel gesto.

“E’ ora che vi presentiate” disse piano, perché nessuno al di fuori di loro tre potesse sentirla “Per conoscervi avrete tempo, anche se non vi basterà lo stesso.”

“Non lo lasciare” aveva detto allarmato Draco “E se mi cade?”

“Non può cadere, è nelle mani di suo padre.”

Poi li aveva lasciati soli, chiudendosi la porta alle spalle.

 

Fosse stato per lui quella porta non l’avrebbe più riaperta. Fu del tutto assorbito da quell’essere fatto di pelle sottilissima, con gli occhi chiusi e i pugni stretti convulsamente. Si agitava tra le sue mani di adulto e lui non riusciva a smettere di guardarlo, come se da un momento all’altro fosse pronto a sparire o rompersi.

Apri gli occhi pensava attendendo che lo facesse, sperando che lo facesse, con trepida ansia. Apri gli occhi, sono tuo padre, insomma, degnami di attenzione pensava risentito ma più che altro curioso e spaventato, come se avesse tra le mani un bene inestimabile, di un valore incommensurabile, e che gran parte del tutto dipendesse solo dalla sua cura e dalla sua capacità di insegnargli a fare i conti con la vita perché fosse dignitosa e leale prima di tutti verso se stesso.

Non credo di essere in grado, è meglio se lo sai da subito continuava a dirgli in silenzio. Ma Scorpius non batteva ciglio, ignorando quelle sue parole come se sapesse già che non valessero niente, che fosse sbagliato pensare quelle cose. Draco volle credere a quella sua indifferenza.

Suo figlio viveva da neanche dieci ore, e già lo aveva smentito, rendendolo forte.

 

Astoria, come un tempo aveva fatto Narcissa, spiava spesso Draco nei momenti in cui era con Scorpius. Osservava le loro dinamiche con occhi curiosi e commossi, e sentiva qualcosa stringersi dentro di sé, la tenerezza attanagliante per quelle immagini e l’impossibilità di scioglierla in un abbraccio.

Sua madre era stata molto soddisfatta dell’opera portata a compimento: “I bambini ti vengono decisamente bene” gorgogliò la prima volta che tenne il nipote tra le braccia. Daphne quel giorno era rimasta sulla porta, a braccia conserte, decisa ad astenersi da tutti quei patetismi. Quando Astoria cercò il suo sguardo, sopra i compiacimenti di loro madre, per accertarsi che fosse ancora lì, Daphne le rivolse un’occhiata piena di fastidio per la situazione e con quello Astoria comprese che sua sorella le voleva bene, e che era l’unica ad aver capito cosa stesse succedendo.

“E’ un bambino, mamma, non un deficiente” la sentì mormorare in un sibilo frustrato.

“Il bambino è tuo nipote, Daphne, è meglio che inizi a prendere confidenza con il tuo ruolo, avvicinati”.

Daphne accese una sigaretta, inorridita, e con quello si fabbricò la scusa per abbandonare la stanza.

“Lascia perdere tua sorella, sei giovane, Astoria, ma sarai comunque una buona madre” commentò Olimpia Greengrass, restituendole Scorpius.

Astoria sorrise adeguatamente, pensando invece alla sera in cui Draco era tornato a casa, mesi prima.

Grondava di pioggia e determinazione.

Non si sentì di dire a sua madre che nel contratto era stata inserita una clausola.

Non si sentì di spiegare che se come madre avrebbe avuto tutta la vita per esercitarsi, come moglie aveva gli anni contati.

---

Note.
1)
Le scuse per il ritardo ormai consideratele inglobate nell'aggiornamento. Nessuna giustificazione neanche stavolta, solo scuse.
2) La canzone citata l'avrete di certo riconosciuta ma disclaimer vuole che io ribadisca che è degli Iron&Wine, "Passing Afternoon".
3) Alle recensioni - grazie! - rispondo con il nuovo form, che è una meraviglia *_*
4) Il prossimo capitolo è anche l'ultimo. 

Detto ciò, mi ritiro :)

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Capitolo 18
*** Ricomposizione ***


The way we were
XVIII
Ricomposizione

 

Io non ho detto loro di te
ma essi videro che ti lavavi nelle mie pupille
[Nizar Qabbani]

 

Era primavera, quando Draco tornò da lei, undici anni dopo. Lo vide riflesso nel vetro della finestra, nella sua camera da letto. La guardava negli occhi, con uno sguardo indecifrabile, il suo volto solcato dalle gocce della pioggia appena conclusa. Sembrava vero, pensò Pansy, perdendo il proprio cuore. Sembrava vero, ad ogni incontro. Giorni prima, lo aveva visto bere alla fontana della piazza, in città. Il riflesso del sole primaverile sui suoi capelli biondi l’aveva richiamata dal libro che stava leggendo sulla panchina in marmo. Allora aveva sollevato gli occhi dalle righe del libro, da parole francesi che le rimandavano una melodia a lei comunque, per sempre, estranea. Aveva posato lo sguardo sulla nuca di Draco, e lo aveva fissato fino a quando non aveva soddisfatto la sua sete. Fino a quando aveva accettato che non fosse Draco.

Anche la notte prima, era tornato da lei. Aveva fatto l’amore con lui tutta la notte. Al mattino, aveva ancora il suo respiro addosso, vicino all’orecchio. Aveva portato le mani sul proprio ventre, nel punto esatto in cui lui aveva poggiato le labbra. Era rimasta nel letto, cercandolo tra le lenzuola. La avvolse un buon profumo di bucato ai fiori di Provenza. Non era il suo odore. Allora aveva chiuso gli occhi, ed era rimasta a letto, fino a quando aveva accettato che quella notte non fosse mai esistita.

Ora lo incontrava di nuovo, nel vetro della finestra. Sembrava vero, come in tutti gli altri incontri. Questa volta non si era fatto la barba, e sembrava più adulto. Questa volta la guardava con occhi diversi, meno ardenti, più cauti. Sembrava che non volesse spogliarla, che non avesse il coraggio di toccarla. Nei loro incontri, Draco occupava sempre lo spazio come se fosse suo, come se gli spettasse. Anche se era solo lo spazio della sua immaginazione, uno spazio che lei sola gli metteva a disposizione. Eppure lui appariva, dando per scontato di esserci sempre stato. Ma questa volta, la guardava aspettandosi qualcosa da lei. Pansy lo trovò ugualmente molto bello, ma di una bellezza diversa. Aveva negli occhi uno sguardo dolente. E aveva qualcosa sul viso, pensò lei. Quell’aria dolente la rintracciò nelle rughe che aveva sulla fronte. Quelle rughe che erano anche le sue rughe. Sei invecchiato anche tu, insieme al mio pensiero di te. Ma non glielo disse. Perché quando appoggiò la mano sullo stipite della porta, il bottone che aveva sul polsino della giacca urtò il legno, e fece rumore. Fece rumore. Un suono secco. Dichiarativo. Parlò a Pansy, e le disse che anche lei era invecchiata. Le rughe sulla fronte erano il segno degli anni, non solo delle pieghe che aveva nel cuore. Il rumore le ricordò che anche lei era invecchiata, come l’uomo che adesso era nella sua stanza. Che si era appoggiato allo stipite perché quella fissità gli aveva fatto perdere l’equilibrio. Perché era stanco delle ore di viaggio, del viaggio in treno che gli aveva rovinato la piega del vestito, proprio come succede alle persone reali.

Lui si era mosso, ma le gocce di pioggia erano rimaste immobili al loro posto, appese al vetro della finestra della sua camera da letto. In attesa che il sole le asciugasse. Non erano più sul volto di Draco.

Pansy si voltò lentamente. Lo cercò, appoggiato a quello stipite. Per un attimo, le sembrò di trovarci Lucius Malfoy, il giorno in cui era apparso nel salone di Malfoy Manor. Solo allora comprese come Draco si fosse sentito, quel giorno. L’incredulità che superava qualsiasi speranza. Il timore di una felicità sbagliata. Il bottone sul polsino della sua giacca aveva fatto rumore.

“Ciao, Pans.” Disse lui. La sua voce era roca e la gola chiusa. Ciao, Pans, le disse, “sono in ritardo per il tè.”

 

*

Il serpente che non può cambiare pelle, muore.
[F. Nietzsche]

 

“Sento uno sbatter d’ali” esordì Blaise d’un tratto, inserendosi perfettamente nel momentaneo silenzio della stanza. Pansy gli riservò un’occhiata serafica, accompagnata da un ammorbidirsi delle labbra quando sentì Draco tendersi al suo fianco. Il cielo scuro alle loro spalle rimaneva imperturbabile, privo di gufi all’orizzonte.

“Sei senza ritegno” commentò Blaise, allungando i piedi sulla sedia lì di fronte.

“Taci” replicò l’altro, senza preoccuparsi di stare al gioco o piegarsi ad un po’ di autoironia.

“Perché non mandi un falchetto al Magnifico Preside? Almeno metteremmo fine a questa dilaniante attesa.”

Draco serrò i denti,  chinandosi verso il tavolino basso con l’intento di versarsi ancora da bere. Nel farlo il suo gomito urtò la bottiglia poggiata all’angolo del tavolo, fu questione di un attimo che a Blaise non sfuggì, notò con quello che avrebbe potuto definire un insensato compiacimento il modo in cui con la mano Pansy si sostenne  al braccio con cui repentinamente Draco l’aveva allontanata dal brandy e dai vetri della bottiglia. Qualcosa in quella sintonia ritrovata, e nei gesti attenti e discreti che entrambi si rivolgevano, lo fecero sentire in pace, come ai vecchi tempi. Come se l’ordine si fosse ricostituito, anche se con un certo ritardo e ad un prezzo che qualcuno più sano di mente e meno autolesionista di uno Slytherin avrebbe valutato come troppo alto.
“Sai Blaise, forse ti sfugge il fatto che non sono affari tuoi” lo apostrofò Draco dopo aver ordinato alla bottiglia di ricomporsi, per quanto vuota.
“Mi riguarda eccome, e non fingerò di non essere offeso. È pur sempre il mio figlioccio.”
Draco e Pansy lo guardarono con limpido stupore e Blaise cercò di non esserne sopraffatto.
“Ovviamente mi riservo unicamente gli aspetti goliardici e diseducativi del ruolo.”
Gli altri due sembrarono rilassarsi. Blaise ne sorrise. Come se l’ordine si fosse ricostituito.
Come se Pansy non avesse atteso undici anni per riavere il proprio compagno di vita. Come se non avesse sprecato undici anni della sua vita ad accudire il pallido rimpianto di lui. Come se Blaise non avesse passato tutto quel tempo a fare i conti con la propria ombra, a non averne timore, ad accettarla come parte di sé, a renderla una compagna di strada e non l’orrore di morte che cercava di divorarlo ad ogni passo.
Diede un’occhiata a Pansy e Draco, seduti sul divano in una casa in Provenza. Si chiese se davvero potesse funzionare. Se per caso tutti loro non stessero cercando di ignorare l’irrimediabilità delle loro esistenze, se per caso non fossero già morti, a un qualche punto delle loro vite, e adesso stessero lì come fantasmi che giocano ad essere vivi.
Poi Draco si voltò leggermente, sporgendo il collo a controllare per l’ennesima volta che un gufo arrivasse con la lettera in cui suo figlio gli comunicava di essere stato smistato in Slytherin, e nel voltarsi concluse quel gesto lasciando scivolare il braccio sulle spalle di Pansy. Quei due gesti, legati tra loro, sembrarono chiudere il cerchio. Blaise comprese davvero che quel giorno Draco era padre e compagno. Che dentro di sé aveva fatto abbastanza spazio. Che era riuscito a mettere nell’angolo gli orrori e gli errori, accettando di non potersene liberare ma di poter imparare a conviverci. Si accorse che nei suoi gesti l’arroganza era stata sostituita dalla fermezza. Non aveva più niente da dimostrare, a quel punto, solo molto da dare.
“Finirà di certo in Slytherin” disse, guardando anche lui il cielo scuro lì fuori.
Draco annuì, fingendo che non avesse importanza. Eppure ne aveva, e molta, anche se non lo avrebbe detto ad alta voce, neanche a Blaise e a Pansy.
“Sì” asserì, anche se non ne era per niente certo, ma ci sperava. Sperava che suo figlio fosse uno Slytherin, che in qualche modo continuasse ciò che lui era stato ma trovando la propria strada, la propria chiave interpretativa di quel miscuglio di leggi non scritte e codice d’onore. Sentiva che, in qualche modo, Scorpius era stato il frutto della propria rinascita, perché lo aveva concepito con tanto amore, anche se non era indirizzato verso la donna nel cui ventre lo stava depositando. Avrebbe trovato la sua strada, pensò Draco, e avrebbe restituito alla Casa l’originaria dignità che la sua, la loro, generazione le aveva strappato.

*

If you must cling to someone
now and forever
let it be me
[Bob Dylan, Let it be me]

 

C’erano cose di cui era difficile discutere. Pansy e Draco non ne parlarono mai esplicitamente, se non attraverso commenti a mezza voce o silenzi molto eloquenti. Quello che non riuscivano a dirsi, presero l’abitudine di scriverselo. Capitava che Draco trovasse un foglietto spiegazzato in cui Pansy aveva scritto con una grafia minuscola qualche pensiero che le rimaneva imprigionato in gola. Draco doveva strizzare gli occhi per riuscire a leggere quelle parole, timide e indecise, ma nella loro fragilità tremula, sincere.

Penso che dovresti far sapere ad Astoria dove sei.

Non gli chiese mai con quali parole avesse lasciato Malfoy Manor. Non volle sapere se il maniero fosse rimasto ad Astoria, per questioni legali, o se lei avesse preferito tornare nella casa materna, in cerca di un guscio abbastanza robusto dove celare il matrimonio fallito. Non domandò mai a Draco se Astoria avesse opposto resistenza, se avesse posto condizioni, quante e quali. Sapeva quanto bastava: che se Draco era tornato da lei, di certo Astoria non gli aveva imposto di sacrificare Scorpius.
In seguito a quel biglietto, Draco tornò a Londra per cinque giorni. Al suo ritorno, Pansy era intenta a distogliere Blaise dall’idea di licenziarsi, di nuovo, dalla Gringott. Lui la cercò, le baciò una tempia e andò a farsi una doccia. E Pansy seppe che quella calma piena e avvolgente che sentiva dentro di sé, chiudeva anche quel capitolo.


Draco trovò il coraggio di parlarle di sua madre solo dopo un anno. Una sera, riaccese la luce che Pansy aveva spento, e guardando il soffitto, disse: “Ho incontrato tua madre.” La testa di Pansy si volse spontanea verso l’armadio in cui aveva conservato la lettera che sua madre le aveva scritto, il giorno in cui aveva lasciato Londra. Draco attese immobile che gli concedesse l’opportunità di andare avanti. Le lasciò il tempo di recuperare il ricordo di sua madre, di ritornare figlia.
“Quando?” prese tempo lei, mentre pensava al profumo di sua madre, alla vita di solitudine cui l’aveva lasciata con suo padre, ora che non aveva più una figlia a cui raccontare la menzogna di un uomo che in verità non era stato un marito.
“Quando sono andato a parlare con Astoria.”
Pansy cercò lo sguardo di Draco. Vide solo il suo profilo affilato.
“E l’hai incontrata? Per caso?”
Non c’era accusa né rabbia nella sua voce. Draco, in ogni caso, non aveva creduto che fosse stato possibile mentirle.
“Sono andato a cercarla.”
Pansy non distingueva più tanto bene il suo profilo, tutto le divenne confuso. Si alzò, assumendo una posizione seduta, perché il respiro era di colpo pesante da sostenere. Sua madre, che non era stata accogliente, con lei. Che l’aveva resa uno specchio, in cui esercitarsi nell’arte del tessere menzogne sulla propria vita. Sua madre, che forse l’aveva resa a sua volta incapace di essere madre. Di colpo ebbe nostalgia di lei.
“Perché?” riuscì a chiedere, in un soffio di voce. Solo allora Draco si tirò su di colpo, lasciando perdere il soffitto e voltandosi verso di lei, al suono della sua voce, che era flebile e piena di dolore. E forse i suoi occhi, che non poteva vedere, nascosti dai capelli, erano pieni di lacrime, e lei era piena di domande a cui non avrebbe saputo rispondere, perché da quel rapporto era sempre stato escluso. Forse non avrebbe dovuto permettersi, lo aveva pensato subito, nel momento in cui aveva avuto di fronte quella donna. Forse avrebbe dovuto scrivere anche lui un biglietto a Pansy.
“Per farle sapere dov’eri.”
Anche la sua voce era un sussurro spezzato, cercava di contenere già delle scuse. Ma Pansy non disse niente, annuì e basta. La mano di Draco raggiunse il suo collo, e sostenne il peso della sua tristezza. Pansy lo lasciò fare, assalita da una nostalgia antica per qualcosa che in realtà non aveva avuto. Non le mancava, forse, la donna che l’aveva ospitata dentro di sé e che aveva condiviso con lei un percorso di vita conflittuale e distanziante. Le mancava la madre che non aveva avuto, e quella che lei non sarebbe stata.

Draco non allontanò la mano che aveva sul suo collo, e rimase con lei a celebrare quella perdita.

 

*

Cambia el rumbo el caminante
aunque esto le cause daño
y así como todo cambia
que yo cambie no es extraño
[
Julio Numhauser, Todo cambia]*

 

Blaise impiegò mezza giornata per radunare tutte le sue cose, quando decise di lasciare la Provenza. Nel riporre i suoi oggetti nel baule gli parve lampante, illuminante, di essere sempre stato pronto, in realtà. Doveva solo riconoscere che il momento fosse giunto. Si chiese se anche Pansy, oltre al proprio subconscio, se ne fosse accorta. Se avesse solo finto, come lui sembrava chiederle, sempre inconsciamente, di credere che si trattasse solo della sua proverbiale mania dell’ordine.
Se niente di Blaise era disseminato per la casa era solo perché preferiva che ogni cosa fosse al suo posto. E così, per tutto quel tempo, dov’era stato? Aveva lasciato quasi tutto nel baule in attesa di capire quale fosse il suo, di posto.
Quando Pansy e Draco rientrarono in casa, inciamparono uno dopo l’altro nel baule che Blaise aveva, appositamente, lasciato all’ingresso.
Pansy lo guardò cercando quanto meno di sorridere ma non le riuscì molto bene. Blaise la perdonò subito. Qualcosa in lui fu commosso da quella gelosia, dallo slancio egoistico con cui Pansy sembrò per un attimo decisa a tenerlo lì con loro. Draco invece spostava irrequieto lo sguardo dal baule al suo migliore amico, aspettandosi chiarimenti che potesse deliberatamente ignorare sollevando una qualche polemica inutile al solo scopo di trattenerlo il più possibile in quella stanza.
O forse no.
Forse anche lui, in quei secondi che Pansy occupò a ricordare a se stessa di averlo sempre saputo, di essere preparata e di averlo già accettato, anche Draco in quei secondi comprese che avrebbe dovuto lasciarlo andare, per poterlo avere per sempre al suo fianco.
“Sono giunto alla conclusione che Londra mi manca” comunicò Blaise, con un sorriso.
Pansy si riservò di pensare che in parte gli mancasse anche Daphne, e, soprattutto, in un modo tutto suo e per ragioni che nessuno di loro avrebbe fatto meglio a sondare, che gli mancasse anche Millicent. Allo stesso modo in cui mancava a lei. Non in maniera lancinante, come una ferita sempre aperta, ma in modo dolce e blando, come era Milli nel rapporto con loro.

Draco lasciò che fosse Pansy la prima ad abbracciarlo, perché in fondo in tutti quegli anni lui non c’era stato, non aveva preso parte alla complicata opera di ricostruzione, anzi, con la sua assenza forse ne aveva aggravato i lavori. Ma fu lui ad accompagnare Blaise alla stazione, perché smaterializzarsi avrebbe tolto ad entrambi il pretesto per fare quell’ultimo percorso insieme.
Lungo la strada si distrassero in commenti reprensibili sulle donne francesi, si persero e discussero per ritrovare la strada, si offesero e si fecero promesse che forse per la prima volta sarebbero stati in grado di mantenere. Poi furono costretti a salutarsi, consci che non era un congedo come la prima volta, perché in realtà, adesso, tutti e tre si erano appena ritrovati.

 

Fine.

Mi fa un pò impressione dirlo, ma è finita davvero.
In conclusione, direi solo che vi ringrazio, per aver - cercato, se non altro XD - di seguire questa storia. Credo che con questa si sia più o meno concluso anche il mio percorso con Harry Potter, inizio a non avere più memoria di certi dettagli importanti dei sette libri, il che lo interpreto come un segno, una sorta di passaggio obbligato ^^ Anche se Draco e Pansy rimarranno sempre l'incarnazione scritta della mia speranza che davvero nella vita ogni serpente possa cambiare la sua pelle. 
Insomma grazie a tutti quelli che hanno seguito, in qualsiasi forma abbiano scelto, questa storia, a chi l'ha anche recensita (soprattutto Entreri e sweetchiara, che anche se non l'hanno saputo formalmente sono state un punto fermo nelle crisi d'ispirazione ^^) e a chi si è fermato a leggerla. Beh, chiudo qui, perchè sono un pò Slytherin anch'io e con certe cose non ci so fare. Magari ci "leggeremo" ancora, ma nella sezione originali :D


* La versione più famosa - e a mio parere bella - è quella di Mercedes Sosa ma l'autore primo è stato Numhauser.
Cambia direzione il viandante,
sebbene questo lo danneggi,
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.

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