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Fatemi sapere se la storia può interessare. Ringrazio anche
solo chi legge, ma gradirei avere commenti.
PROLOGO
-ATTENZIONE in questo libro niente è vero.
-In qualunque luogo qualunque persona od oggetto parla la
stessa lingua.
-Qualsiasi cosa faccia un drago, anche la più strana, non è
considerabile magia.
- Attenzione se dovreste sognare i mostri qui citati non
sarà colpa del libro.
-I draghi sono refrattari alla magia.–Riferimenti a
fatti, persone o altro sono puramente casuali.
CAPITOLO 1
L’odore
della foresta nelle narici. Le mani appoggiate sull’erba umida. Nascosto
dietro quel cespuglio sentiva il sangue pompare, l’adrenalina salire al
cervello. Il nascondino, uno dei più antichi giochi per bambini. Eppure lui,
ragazzo sedicenne, ne aveva saputo farne un arte. Era tale la sua bravura che
da tutto il mondo venivano a sfidarlo. Gli unici momenti in cui si estraniava.
I suoi genitori, prima ancora degli abitanti del paese lo trattavano male.
Additavano la sua stranezza. Dolorosa la sensazione di essere diverso.Eppure quando era solo, in un luogo
introvabile, tutto diventava irreale e perfetto. Quel giorno però era successo
qualcosa di diverso. Di nascondiglio in nascondiglio Carlo, questo il suo nome,
si era allontanato troppo. Gli abeti millenari, già di per se alti, lasciavano
il posto a delle enormi sequoie. Conosceva a menadito quella foresta e gli
sembrava impossibile. “Che succede?”pensò avvertendo qualcosa di
diverso. Una densa nebbia scese come una coltre. Si azzerarono le già scarse
possibilità di tornare a casa. Carlo era sempre stato coraggioso, anche se non
incosciente. Faceva le cose come gli indicava il cuore, tralasciando a volte la
componente razionale. Quanti guai con gli insegnanti a scuola. Perennemente in
ritardo, a causa dell’autobus che lo portava alle Superiori dello
Scientifico della città in cui faceva il terzo anno. Non riusciva a stare zitto
alle ingiuste accuse che derivavano dal ritardo e mille volte era finito nei
guai. I suoi genitori avevano minacciato di non mandarlo più a scuola e lui gli
rinfacciava che guadagnava parecchi soldi con la sua particolare dote, soldi
che intascavano loro. In quella foresta però, per la prima volta, un brivido
gli scese lungo la schiena. Se non fosse riuscito a tornare a casa? Un ombra nella nebbia veniva proprio nella sua
direzione. Come al suo solito mandò alle ortiche ogni ragionamento. Non gli
importava potesse essere un malintenzionato o peggio. Per lui era solo qualcuno
che poteva sapere da che parte andare per il villaggio. Fu nel momento in cui
lo ebbe di fronte che si bloccò come una statua di sale. L’uomo che aveva
raggiunto stonava con le persone viste fino a quel momento, nel tutto
l’arco della sua vita. La pelle dello sconosciuto era lattea e sembrava
risplendere diafana. L’armatura nera e leggera faceva un netto contrasto.
Possedeva due profondi occhi viola e dei biondi capelli tagliati a baschetto.
Sarebbe stato un uomo bellissimo, ma l’effetto era rovinato da un sorriso
ebete stampato sul volto. La cosa che attirava di più Carlo erano le strane
orecchie a punta, quasi a ricciolo, che possedeva quello strano personaggio. Quello
si avvicinò a Carlo, con uno sguardo da bambino esaltato. “Ciao”disse,
mentre il sorriso ebete si accentuava. Carlo lo guardava senza capire, fissando
quegli strani occhi violi luccicare di una strana luce. Lo sconosciuto non si
avvide della mancata risposta e cominciò le presentazioni parlando a raffica. “Sono
Asches. Tu sei un essere umano vero? Non che non conosca altri come te. Ma per
un gran “umanologo”come me è sempre un piacere studiarvi. Siete
così diversi, cosi unici, rispetto a noi elfi”. Riuscì a dire questo a
velocità folle, senza nemmeno fermarsi a riprendere fiato. “Frena, frena.
Che stai dicendo? Che mi significa “umanologo” o studiarvi? Che cavolo
vuol dire che sei un elfo?”chiese Carlo con lo stesso tono che usava con
i bulli che lo additavano a scuola. Forse fu troppo brusco, ma quella
situazione non gli piaceva affatto. Va bene che era cresciuto in un paesello di
campagna. Ma da qui a credere all’esistenza degli elfi, una storiella
inventata molti secoli prima. Era pur sempre il 21 sec.! Si rese conto di aver
mortificato il nuovo “conoscente”. Ci mancava solo un adulto che lo
guardava come un cane bastonato guarda il padrone. “Scusa se sono stato
scortese. Ma mi sono perso”tentò di giustificarsi sbuffando. Il morale di
quello si riaccese di colpo. “Scusami tu. Se mi segui ti porto con me
alla “valle della magia”. Lì mi farò dire dove si trova il tuo
villaggio”disse con un contegno più consono a un elfo. Carlo cominciava
ad essere stanco e non mangiava dall’ora di pranzo, perciò decise di
assecondare quello strano individuo. Un qualunque genitore avrebbe insegnato ai
propri figli che non è cosa consona seguire gli sconosciuti soprattutto se
dimostrano segni di stranezza, forse follia e si è sperduti in un bosco. I
genitori di Carlo però se n’erano sempre infischiati e il ragazzo aveva
imparato a difendersi. Sapeva fare a botte come nessun’altro e sebbene
non amasse menar le mani, se quel tipo strano si fosse messo strane idee in
testa ne avrebbe pagato le conseguenze.
Ed ecco qui il secondo capitolo. Finalmente a una lunghezze
più o meno giusta, almeno spero.
Cap.2All’accademia
Arrivarci non fu uno scherzo, almeno per Carlo. La
vegetazione si faceva via via più fitta e intricata.
Almeno la nebbia stava a poco a poco diradando. Arrivati alla valle il bosco si
apriva di colpo, lasciando scorgere un paesaggio inusuale e meraviglioso. Mai
nella sua vita aveva visto o immaginato un posto simile. Nelle alte sequoie
c’era un tripudio di piccole luci ovunque. Le piante avevano ramificato i
loro tronchi e i loro rami in modi assolutamente particolari e
all’interno erano state ricavate intere abitazioni. Sull’alta
montagna di fronte, sbucavano come delle verande, edifici a funghi. Tra questi
, ma lui non poteva saperlo, l’orfanotrofio elfico. L’aria stessa
era densa di magia e dava quasi alla testa. C’erano elfi ovunque, di
tutte le età, che parlavano una strana lingua. C’erano nani: ometti bassi
dalle barbe lunghe che brandivano enormi asce verso esseri della medesima
altezza, ma senza barba e verdognoli. C’era unafontana in cui guizzavano delle sirene in
vena di giocare con alcuni tritoni seriosi. Sopra la radice dell’albero più grosso
c’era un edificio a forma di castello fatto da tronchi ricoperti
d’edera, Asches invitò Carlo ad entrare, ma lui
si era distratto guardando degli animali in un recinto. Non erano animali
comuni. Erano enormi rettili, dagli occhi vispi, una fiera posizione,
mastodontiche fauci, possenti zampe munite di pericolosi artigli e avevano ali
robuste. Ognuno aveva le scaglie di un colore diverso. Asches
urlò a Carlo: “Muoviti! Sono draghi, non ipnotizzatori”. Ora che
era a casa, l’elfo doveva prendere un contegno serio per evitare qualche
battuta dagli altri elfi. Già lo consideravano strano. Carlo si risvegliò dal
torpore e seguì Asches nel castello. Carlo era sempre
più stanco, a causa della scarpinata fatta fino a quel momento. Gli sfuggì
perciò la magnificenza di quel posto. Arazzi e tappeti di un rosso scarlatto
ornavano ogni angolo. Sule tetto in legno meravigliosi affreschi e strane
incisioni. Sembrava che tutto pulsasse, come se ci scorresse la linfa stessa
dell’albero in cui camminavano. Proseguirono in linea retta fino alla
sala del trono. Su un trono, fatto di legno e decorato con splendide gemme, sedeva
un vecchio vestito di bianco. Il vecchio aveva sconcertanti occhi azzurri, che
sembravano passare da parte a parte Carlo con lo sguardo; una lunghissima barba
grigia; lunghi capelli biancastri e due appariscenti orecchie a punta. La sua
voce era talmente mistica che quando parlò fece trasalire tutti. Aveva una voce
profonda e saggia che faceva venire i brividi. Disse: “Ashes sei tornato finalmente”. L’elfo si
inginocchiò e il ragazzo penso che era giusto fare lo stesso. Il re degli elfi
guardò attentamente Carlo, mentre i due si rialzavano. Guardò poi Asches nello stesso modo in cui si guarderebbe uno
scolaretto lento a capire che non fa altro che combinare un sacco di guai. Poi,
con voce dura, gli parlò di nuovo. “Perché mai hai portato qui un umano
appartenente al mondo non magico?! Quando imparerai a rispettare le
leggi?”. “Padre, si era perso. Pensavo dovessimo aiutare chi è in
difficoltà”disse Asches giustificandosi. Di
risposta il re alzò ancora di più la voce. “Conosci le leggi. Se non
impari a rispettarle non potrai mai succedermi. Questo “umano” deve
adesso scegliere. Diventare uno di noi o aver cancellata la memoria dopo essere
stato riportato alla sua dimora”. “Ma padre…”tentò di
dire l’elfo più giovane. “Così ho deciso”disse risoluto e
severo. L’intervento di Carlo però fu inaspettato, anche per il ragazzo
stesso. Impulsivo come al solito, non gli restava che mordersi la lingua.
L’urlo: “Divento uno di voi!!”era risuonato per tutta la sala
del trono. “Rispetteremo la tua volontà. Asches
portalo all’accademia”. L’elfo sospiro e fece un altro
inchino. Carlo non fece in tempo, perché era stato colto da un sonoro
sbadiglio. Come faceva a essere gia sera tardi? Il
ragazzo poteva sentire l’accompagnatore borbottare tra se o inveire
contro la rigidità paterna. Carlo sentì un moto di comprensione verso
l’elfo. Sapeva cosa voleva dire avere genitori insopportabili. Eppure Asches era già più fortunato rispetto a lui. Si vedeva che
il re degli elfi voleva bene a suo figlio. Fu condotto in un altro edificio
sempre in legno. Era molto più spartano e aveva una forma assai diversa. Qui
non vide molto, appena fu portato in una stanza dove vide un letto si coricò addormentandosi
di colpo. Era stanco di quelle stranezze. Di certo il risveglio non fu tra i
migliori. Asches gli aveva tirato una secchiata
d’acqua. Da quel che vedeva dalla piccola finestra, si notava solo un
armadio, una scrivania e una sedia. Era ancora presto, poiché non filtrava
luce. Fu portato in un'altra stanza dove non c’erano finestre e
l’unico mobilio era una scrivania molto grande e una specie di trono,
simile a quello del re, sul quale era seduto un nano che fumava una pipa. Carlo
si sentì soffocare: senza finestre il fumo ristagnava nella stanza. Asches presentò: “Questo è Aido
capo di quest’accademia, ti spiegherà tutto lui”. Detto questo,
l’elfo se n’andò. Carlo decisamente imbarazzato si appoggiò contro
il muro. Voleva risposte alle sue domande e Aido le diede
senza che lui le avesse pronunciate. Gli spiegò che diventare uno di loro voleva
dire tirare fuori qualche superpotere per aiutarli a salvare l’universo. Nel
caso non ci fosse riuscito o si fosse stufato prima dell’età pensionabile
gli sarebbe stata rimossa la memoria,cosa abbastanza facile anche senza quelle due modalità. Doveva augurarsi
di non morire o beccarsi un nemico fisso, altre due cose molto facili. Carlo
non capì cosa lo costrinse ad accettare, ma quando lo fece accettò anche di
fare lì l’addestramento. Si chiese se fosse uscito pazzo. Forse era un
pazzo sognatore davvero poiché vedeva elfi, draghi e cose varie. Ormai il sole
faceva capolino dalle finestre e fu
condotto alla mensa. Era un enorme stanzone, dove si trovavano fili di panche e
tavoli stracolmi di ragazzi chiacchieroni e affamati. Non sentendosi ancora a
suo agio si sedette da solo. Aido gli sedette vicino.
Dopo poco arrivò da mangiare, enormi pizze. Dagli altri tavoli esultarono. Sconvolto
che quella gente mangiasse pizza a colazione chiese spiegazioni ad Aido il quale rispose che tutti amavano la pizza e alla
mattina non potendo cucinare una cosa diversa per ciascuno preferivano andare
sul sicuro. Carlo ricordò che esisteva il latte, ma venne a sapere che alcune
razze non riuscivano a sentirne nemmeno l’odore da lontano. Si vedeva che
il nano non amava parlare e perciò il ragazzo decise di risorgergli meno
domande possibili. Dopo la colazione gli diedero una spada di legno e gli
dissero di allenarsi. Gli diedero appuntamento a mezzogiorno alla mensa, per
regolarsi sull’ora lo avvertirono che nel terzo cassetto della sua
scrivania c’era un orologio. Carlo era felice che fossero usate spade di
legno, poiché aveva passato l’infanzia a giocarci col suo nonno paterno,
quando non giocava a nascondino. Suo nonno era l’unico che lo avesse mai
capito e apprezzato. Era stato proprio lui a insegnarli il nascondino e lui lo
amava tanto anche perché era un modo per sentirlo vicino. Suo nonno era però
venuto a mancare. Arrivata l’ora dell’appuntamento si diresse verso
la mensa. Ci fu il pranzo. Dopo che anche l’ultimo ragazzo ebbe finito di
mangiare, tutti i banconi e i tavoli della stanza svanirono. I ragazzi, che già
facevano parte dell’accademia, se ne andarono. Entrò Aido
che disse: “Questa è una prova e io sono l’esaminatore. Chi di voi
passerà, dovrà cominciare a chiamarmi maestro. Oramettetevi in cerchio, quelli che non vi entreranno,
ne faranno un altro. Io mi metterò al centro di tutti i cerchi. Quando vi darò
il via mi dovrete attaccare”. Carlo, appena fu a tiro, mise tutta la sua
forza per attaccare il nano, ma era difficile visto che Aido
parava ogni colpo mentre tra i partecipanti era scoppiata una rissa. Nell'istante
in cui Aido diede lo stop, tutti si fermarono di
colpo. Poi Aido aggiunse: “Se non siete troppo
stanchi per muovervi, filate nelle vostre stanze. Vi farò chiamare e vi dirò chi
ha superato la prova. Chi invece è troppo stanco per andare in camera lo accompagno io a calci nel sedere”. Tutti
si affrettarono a eseguire l’ordine. Il nano non era uno che scherzava. Verso
sera qualcuno bussò alla stanza di Carlo. Era una donna bellissima, ma dal
colore della pelle viola e dagli occhi giallo- girasole. Era una ninfa, non
molto intelligente poiché ripeteva sempre la medesima cosa: “Ti aspetta
il maestro Aido”. Solo quando Carlo cominciò ad
avviarsi, lei saltellò via con un sorriso malizioso sul volto fino alla porta
successiva. A quel punto Carlo smise di guardarla e si affrettò verso la mensa.
Era nervoso, chissà se aveva superato la prova. A partecipare alla prova erano stati
circa cinquanta ragazzi. Erapassato insieme
con altri nove ragazzi della sua età. Ora formavano una squadra. Quelli sulla
lista però erano solo nomi. Ora doveva conoscere coloro che li portavano. Era
sempre stato un tipo socievole e aperto, ma la vera amicizia non l’aveva
mai concessa a nessuno. Inaspettatamente fu uno dei compagni ad avvicinarsi a
lui. Si avvicinò, ma non disse niente. Si limitò a squadrarlo. “Carlo,
piacere. Tu sei?”disse il ragazzo svelto. Aveva sfoderato un sorriso a 32
denti e aveva già allungato la mano per stringerla. Quello guardò la mano quasi
fosse aliena. Rimase a braccia conserte, ma decise che presentarsi non lo
avrebbe ucciso. “Robert. Mago terrestre. Sei tu l’umano che hanno
trovato nel bosco?”chiese sospettoso. “Si e sono molto contento di
essere qui”disse Carlo cercando comunque di socializzare. “Non ti
ci abituare. Normalmente è questa la prova più difficile, ma nel tuo caso sarà
la prossima. Se si scopre che non possiedi alcun potere, ti rimandano a casa”disse
incolore. Poi si girò e si allontanò. “Che antipatico”pensò Carlo.
Quando i suoi occhi videro la più stupenda delle creature. Troppo bella per
essere vera. Era una fata dai lunghi capelli azzurri e due immensi occhi rosa. Carlo,
per riprendersi dallo shock, si avvicinò proprio alla fata. Lei sembrava
soppesarlo e lui era diventato rosso. In imbarazzo cercava una scusa per
parlarle. Le chiese come mai fosse passata solo lei come ragazza. Lei rispose: “Di
solito, pensano che le ragazze non siano adatte a questo lavoro. Poi però restano
più ragazze che uomini siccome i mostri preferiscono uccidere loro”. Poi
si allontanò stizzita. Possibile che fossero tutti antipatici? Forse non tutti,
in un angolo c’era un ragazzino spaurito, ma era troppo spaventato anche
per pronunciare una sola parola capibile. Carlo depresso si chiuse nella sua
camera a pensare. Perché voleva fare quel lavoro?Si chiedeva. Non trovava una risposta.
Pensandoci sì addormentò.
Ringrazio:
Regina Oscura Mi sa
che è piaciuta solo a te, ma è già qualcosa. Perciò io continuo e spero che
almeno ci sia qualcuno che legge. Spero che ti possa piacere anche questo
capitolo. Io non faccio passare mai troppo tempo tra un aggiornamento e l’altro.
La somiglianza con la babbanologia era qualcosa che
non avevo pensato, ma mi sa che hai ragione.
Ed ecco il seguito. Mi sa che è venuto un po’ più
lungo. Il folletto pazzo della storia è nato da un professore di fisica
alquanto bizzarro, ma che a me faceva simpatia, che insegnava nella classe
accanto alla nostra e ogni tanto ci faceva visita sempre con quel suo unico
comportamento. L’unico professore che faceva fare il compito in classe
con la musica. Il portatile con le canzoni lo portava direttamente lui. Inoltre
in questo capitolo compaiono finalmente i personaggi chiave della storia e tra
un po’ entreremo nel vivo. Ringrazio anche solo chi legge.
Cap.3 Sfida a Mezzanotte
Si risvegliò quando sentì suonare una campana. Sembrava quella
di scuola e pensò fosse l’adunata. Uscì e seguì un ragazzo compunto,
della sua stessa età, che di sicuro sapeva dove andare. Entrarono in una stanza
che sembrava un’aula di scuola. Ogni gruppo andava nella sua aula. Sulla
porta c’era disegnato un gatto e Carlo cercò di ricordarselo. Carlo e il
misterioso compagno serioso erano i primi, poi arrivò il mago Robert, seguito
dal ragazzino pauroso del giorno prima, poi la bella e antipatica fata, un nano
con un sorriso che non gli piaceva affatto e in ritardo tre umani e un elfo. Aido li aveva chiamati lì per spiegare loro dove era la
classe in cui avrebbero studiato, se
avessero superato la prova. Gli altri nove, che i poteri li sapevano già usare
sarebbero andati da Asches, divenuto l’altro
maestro, per dimostrare la loro bravura,
Carlo invece sarebbe stato portato alla radura in mezzo alla foresta, poco
distante dall’accademia. Sarebbero passati a prenderlo dopo due giorni.
Per allora doveva saper usare i suoi poteri, se li aveva. Quel pomeriggio Aido gli fece segno di seguirlo. Carlo era così preoccupato
che lo seguì in silenzio e quasi accorse quando arrivarono alla piccola Radura.
Quando il maestro Aido glielo fece notare, si guardò
un po’ in giro. C’era un piccolo spazio circolare senza alberi in
cui al centro si trovava una pietra. Dopo averlo condotto lì, Aido sparì tra gli alberi senza salutarlo. Carlo si sedette
sulla pietra e si concentrò. Passò così la giornata. La sera, quando si fece
buio, Carlo si sdraiò completamente sul sasso arrotolato come un gatto e si
addormentò. Fu risvegliato qualche ora dopo da un pizzicore al naso. Nel momento in cui aprì gli occhi
fece un salto per lo spavento. C’era un omino minuscolo che saltava
sul suo naso. Guardandolo meglio si accorse che aveva un paio di piccole ali
sulla schiena e dei vestitini ridicoli. L’omino si presentò dicendo. “Sono
David, il folletto pazzo la, la, la, la”. Carlo era confuso. Gli avevano
assicurato che lì non c’era nessuno, ma di che cosa poi si doveva
meravigliare? Dopo quello che aveva visto. David aggiunse: “Mi sembri un
tipo simpatico, paraponzi ponzi pero. Ti aiuterò.
Devi concentrarti sulla cosa che sai fare meglio. Ipoteri c’è li hai, io lo sentooo ò,ò,ò”. Carlo decise di ascoltare quel tipo
buffo. Si concentrò su ciò che sapeva fare meglio: nascondersi!. Si sentì
strano, come il pizzicorio che provi quando il sole d’agosto
ti batte sulla pelle d’estate. Subito dopo si sentì chiamare da David : “Dove
sei?” e lo vide cercare sotto un sasso. C’erano due possibilità: o
David era diventato pazzo del tutto o Carlo aveva capito perché nessuno lo
aveva mai battuto a nascondino. Sapeva diventare invisibile. Tornò visibile e
si sedette ad aspettare. Nel frattempo David si era dileguato. Aido arrivò la sera dopo e Carlo gli mostrò quello che
sapeva fare. Era pronto per l’addestramento. Carlo non aveva più tanta
voglia di attaccare bottone. Però un ultimo tentativo decise di provarlo. Si
avvicinò all’elfo che gli ricordava in maniera impressionante Asches, solo che aveva il caschetto dei capelli di un verde
scuro. Oltre che la somiglianza fisica, c’era anche quella caratteriale.
Si dimostrò un gran chiacchierone simpatico. “Meno male che almeno tu sei
socievole. Robert e la fata mi stavano mangiando vivo”disse sincero Carlo.
L’altro rise. “Non ti arrabbiare. Robert è così di carattere. Ma se
lo conosci meglio vedi che in fondo sa essere un buon amico. Inoltre ho finalmente
capito chi ha fatto incavolare Miriam. E’ la fata più dolce del mondo, ma
è anche una convinta femminista. Digli qualcosa contro le donne e ti sbrana
vivo. Per evitare qualche altro disastro è meglio se te li presento”. “Robert,
già lo conosci. E’un mago, un ragazzo silenzioso sempre a braccia
conserte. Se riesci a fendere la sua corazza, scoprirai che è unico come amico.
Soprattutto se parli con lui del suo più grande amore. Ossia le trottole magiche.
Io sono Lado, sono un elfo dalle mille parole.
Leopold, è quell’umano laggiù con i capelli blu. Ha il potere di vedere
il futuro, anche se gli riesce solo alcune volte. Controlla le piante, è
l’essere più serio, ubbidiente e scrupoloso che conosco. Si litiga
praticamente sempre con Ricard. Quello coi capelli
rossi accanto a Leopold. Ossia il più ribelle, solo oggi è già stato messo in
riga due volte dal maestro. E’ un umano col potere di controllare
l’acqua nei tre stadi, un po’ permaloso. Vale più o meno lo stesso
discorso che con Robert, solo che Ricard è più
socievole. Michelangelo è quel ragazzo coi capelli arancioni. Si proprio quello
che sta facendo l’imitazione del maestro. E’ un umano che come
potere lancia palle di fuoco. E’ il più simpatico che conosco. Ci conosciamo da una vita ed è il mio migliore
amico. Sta attento a quel subdolo di Nanen. E’
un nano insopportabile e malefico, ma incredibilmente forte. Grazie al suo potere
può giocare con le menti altrui. Miriam già la conosci. E’ una fata con i
poteri curativi e campi di forza. Se le vai a chiedere scusa per quella
faccenda vedrai che tipa galattica che è. Quello tremante laggiù è Lotshar. E’ un alieno, un vero fifone. Non prenderlo
in giro se parla strano, e che balbetta. Ha il potere di calmare la rabbia a
chi non è troppo cattivo e di teletrasportarsi. Quello che sta trafficando con
la calcolatrice è Donatel. Anche lui umano è un vero genio.
Ha il potere di creare dei tornadi”. Carlo
aveva recepito il messaggio.
I mesi successivi passarono tutti nel medesimo modo. Sveglia
prima dell’alba, la mattina allenamenti, dove si imparava ad utilizzare,
e a migliorare lo stile, i poteri e le armi, il pomeriggio c’erano le
lezioni di strategia, la sera e buona parte della notte si studiava e si osservavano
le stelle nell’osservatorio accademico. Finalmente la notte si riposava.
Tutti i giorni per colazione pizza. A pranzo la pasta, un tipo diverso ogni
settimana, oppure riso. La sera la carne, diversa ogni tre giorni, e vari tipi
di pesci. Carlo divenne grande amico di tutti i suoi compagni, tranne che di quell'antipatico
di Nanen.
Robert era un fedele amico, ma come già annunciato molto chiuso e solitario.
Scambiava qualche parola solo con Lotshar perché gli
faceva pena. Però se c’era bisogno aiutava, nel suo modo tutto
particolare. Carlo non sopportava Nanen perché usava
il raggio che gli partiva dal centro della fronte contro gli altri, facendogli commettere
azioni stupide e pericolose. Per esempio aveva ordinato a Lotshar
di essere una gallina. Il povero ragazzo si era seduto per terra facendo il
verso delle chiocce. A Miriam, il malvagio nano chiese di saltare dalla
finestra. La ragazza sotto il malefico influsso ubbidì. Non si sfracellò grazie
ai suoi campi di forza. Si fece dei tagli, ma li guarì con i suoi poteri
curativi. La routine che si era stabilita in quelperiodo, s’interruppe il giorno in cui
arrivò la notizia di una gara di sfide a mezzanotte.
Furononominati sul momento, attraverso sorteggio,
gli sfidanti delle singole sfide.
Nella prima sfida: Michelangelo affrontò Donatel.
Fu Donatel ad incominciare, scatenando
un tornado. Michelangelo in risposta afferrò una tavola di legno e cominciò a
fare surf sulla tromba d’aria. Faceva capriole e salti mortali sempre
attaccato a quell’asse. Arrivato all’occhio del ciclone prese la
mira e lanciò una bomba di fuoco verso Donatel che la
schivò. Questi a sua volta raccolse un sasso e colpì la tavola di Michelangelo.In questo modo Michelangelo cadde a terra
incolume, ma privo di sensi. Il tornado svanì mostrando l’esito della
lotta a tutti. Donatel aveva vinto.
Poi fu la volta di Lado contro
Miriam.
Lado
partì alla carica lanciando delle frecce. Non voleva colpire la piccola fata,
ma solo immobilizzarla attaccandole i vestiti a terra. L’avrebbe colpita
se lei non avesse usato i suoi campi di forza impenetrabili. Lado l’attaccò in ogni modo, ma anche se riusciva a
stancarla, Miriam usava i suoi poteri curativi e tornava più in forma di
prima. Lado cadde stremato a terra, ma pensò che se
non si fosse rialzato avrebbe vinto Miriam. A fatica si rimise in piedi. La
fata preoccupata da uno strano bagliore proveniente dagli occhi del ragazzo,
creò un campo di forza con tutte le sue energie. Lado
afferrò una spada riposta nella bacheca lì accanto e con un fendente spezzò il
campo di forza di Miriam. La fata aveva impiegato troppi poteri in quello scudo
e ora era rimasta senza energia. La vittoria andava a Lado.
Quasi a farlo apposta,
Robert dovette combattere contro Lotshar.
Robert non era molto contento di combattere contro
l’alieno. Avrebbe voluto un degno avversario per mostrare le sue doti e
il suo valore in un duro duello. Al gong che segnava l’inizio Lotshar usò il raggio della pace contro il mago.
Robert,però, creò uno scudo di magia
recitando antiche rune e il raggio non funzionò. Lotshar
preso dal panico si teletrasportò via. Robert vinse per abbandono
dell’avversario.
Il destino volle che il più ubbidiente dovesse confrontarsi
col più disubbidiente.
Leopold contro Ricard. Per tre
minuti dall’inizio i due si scrutarono studiandosi. Ad un tratto Leopold
assunse un’aria seria e affaticata, alzò le mani come se sollevasse un
sasso verso il cielo perscagliarlo
lontano. Più si concentrava, più crescevano le piante rampicanti. In pochi
secondi Ricard fu avvolto completamente dalle piante
che Leopold aveva fatto crescere. Da quel groviglio si sentiva Ricard fare un verso simile ad un ringhio. Il suo corpo
cominciò a lanciare schegge di ghiaccio e poco dopo fu libero. In seguito
lanciò bombe acquatiche contro Leopold. Lui rispose tagliandole con le sue
Katana, spruzzando acqua sugli spettatori, che erano gli altri ragazzi della
squadra e i maestri. Nel momento in cui Ricard smise
di lanciare le bombe acquatiche, Leopold concentrò tutte le sue energie in un attacco
con le spade. Stessa cosa fece Ricard con le sue
spade gemelle. Entrambi si erano allenati nella arti marziali, poiché fans dei film giapponesi. Ci fu lo scontro. Caddero a terra
entrambi storditi. L’incontro terminò in parità.
Era arrivata l’ultima sfida. Carlo non poteva sperare
di meglio, lui contro Nanen.
Finalmente Nanen avrebbe avuto la
lezione che meritava. Una volta in campo, l’arena della palestra, Nanen attaccò Carlo senza aspettare il gong. Cercava di
colpirlo con il raggio della sua mente. Carlo divenne invisibile e lo schivò. Nanen non lo vedeva, non sapendo dove fosse indirizzava il
raggio a caso senza colpire l’obiettivo. Carlo con attenzione si mise a
fianco di Nanen e lo mise k.o.
con un calcio. Nanen aveva avuto la giusta punizione.
Dopo questa sfida il gruppo era pronto per la prima missione.
Ringraziamenti:
Regina Oscura
Sono contenta che
ti piaccia. Anche se ammetto che così fantasiosa non è, la mia vita veramente è
un avventura, non faccio altro che cambiare nomi, aggiungere un pizzico di
fantasy ed ecco che salta fuori la storia. Ti sfido a indovinare nel gruppo io
chi sono, anche se siamo all’inizio. Si capirà molto più avanti. Però
direi di iniziare la scommessa. Il nano che fuma la pipa? Può essere. In fondo
sono un’avida lettrice di fantasy e mi può essere rimasto qualche ricordo
che qui ho riproposto in modo diverso. Anche se Aido,
più che un nano, alle volte è come Filottete dell’Erculesdisney. Per quanto
riguarda la tua storia non mi devi ringraziare se la seguo. Io leggo solo ciò
che mi piace e se la seguo vuol dire che mi interessa veramente. Anche perché ho
un debole i tipi tenebrosi nei guai. Sigh, ho un
serio problema mentale. Spero che questo aggiornamento non ti sfugga, perché ho
il serio problema di aggiornare spesso. Ho prodotto e spero che ti piaccia. A presto
*Millilin* cacciatrice
professionista (WJosh).
Berry345 Sono
contenta che la pensi così sulla mia storia, questo vuol dire che qualcuno a
cui interessa c’è. L’idea che nessuno recensisca perché non sanno
cosa scrivere è qualcosa su cui mi concentrerò se mai mi venga voglia di
smettere di scrivere per mancati commenti. Questo non vuol dire che da adesso
non puoi più recensirmi. A me piace fare quattro chiacchiere coi lettori, anche
perché sono sempre beni accenti consigli e rimproveri. Se la storia dovesse
prendere una strada che non ti piace o vorresti qualcosa in particolare fammelo
sapere. Se proprio non vuoi però, sigh, me ne dovrò
fare una ragione. P.s.
scritto aggiorna presto anche la tua di storia. Mi è rimasto il dubbio. Lylien si metterà con Daniel? Si, perché il mio animo
romantico non pensa al mondo in rovina o ai cattivi, punta sempre lì. Ora
chiudo e ti saluto. Fammi sapere che ne pensi del capitolo.
Ringrazio
entrambi per averla messa tra i preferiti
Mie cari lettori, miei cari 7 lettori sopravvissuti,
benvenuti. Finalmente la storia si chiarisce. Abbiamo il pianeta, abbiamo il
cattivo, abbiamo la missione. Perciò buona lettura.
Cap. 4 draghi e battaglie
Dopo questa sfida il gruppo era pronto per la prima missione. Si sarebbe svolta alla “
Luna di Iego”. La luna di Iego
era assediata dal Generale Barden.
“Ebbene oggi comincerete a conoscere i draghi che vi
sono stati assegnati”disse Aido, aspirando a
grandi bloccare dalla sua immancabile pipa,al cui interno c’era una forte
dose di tabacco. “Avremo un drago?”disse Carlo eccitato. Aveva
amato quelle creature sin dal loro primo incontro e più volte si era incantato
a guardare il loro recinto, come se davvero fossero in grado di ipnotizzarlo. Subito
dopo però si pentì della sua uscita. Sarebbe sembrato nuovamente il novellino
che non sapeva mai niente. Pensiero che fu presto smentito. Tutti i componenti
del gruppo avevano volti con incisa pura sorpresa. “Credevo venissero
dati solo ai più esperti”disse con aria saccente Leopold. “E’
vero, ma il grande re degli elfi ha deciso di fare un eccezione. Dovete avergli
fatto una buona impressione. Nessun novellino può vantare come prima missione
una patata bollente e come questa e di sicuro è ben raro che i creature antiche
come i draghi vengano accostate a gente tanto giovane”. Lo diceva con
voce seria e burbera, con il suo tipico tono, ma Carlo capì che si sentiva
orgoglioso. In fondo la bravura di un allievo dipende da quella del maestro. Furono
condotti alle scuderie. Lotshar, vedendosi circondato
da quelle immense creature dagli occhi saggi, ma dai denti aguzzi, aveva
cominciato a tremare. “Ma…ma…ma…ma”aveva
cominciato a balbettare. Uno spintone di Robert gli fece concludere la frase. “Mamma
mia”. Asches li aspettava lì con un enorme
sorriso. “Adesso sedetevi…”cominciò, ma fu interrotto quasi
subito da Ricard. “Non ci rovineremo i vestiti
sedendoci in mezzo alla paglia?! Umphf”disse
incrociando le braccia. “Tsk, siediti
femminuccia”lo prese in giro Robert guadagnandosi un occhiataccia. Anzi,
forse ci avrebbe guadagnato anche un bel pugno se sia Donatel
che Leopold non lo avessero fermato. “Calmatevi”disse
Asches, ignorato da quel gruppo di scalmanati. Anche
se erano amici, ci sarebbe voluto in miracolo per farli andare d’accordo.
“Sedetevi e basta!”urlò Aido perdendo la
pazienza. Tutti, perfino Nanen, si sedettero all’istante.
“Finalmente. Ora dovrete concentrarvi. Ognuno di voi dovrà sentire il
proprio drago”. Concentrazione, ecco un bel problema. Carlo ci sarebbe
riuscito se intorno a lui si fossero concentrati tutti. Nanen
ci riuscì, anche se si leggeva che la cosa gli sembrava alquanto sciocca. Lui
si sentiva troppo importante, superiore a quella plebe, pallone gonfiato. Leopold
avrebbe trovato la pace interiore perfettamente, ma Ricard,
che non aveva gradito di essere trattenuto, gli faceva le boccacce
deconcentrandolo. “Uffa, a me mi si sono rovinati davvero i vestiti”si
lamentò a bassa voce Miriam cercando di pulirsi il vestito. “Io ho fame”si
lamentarono all’unisono Michelangelo e Lado
tenendosi la pancia brontolante. “A me i draghi fanno troppa paura per
concentrarmi”piagnucolò Lotshar. “Io non
riesco a concentrarmi. Mi vengono in mente una serie di formule chimiche
innovative”ammise Donatel. Robert si era
concentrato un po’ troppo e lo si poteva sentire russare pian piano. In
quel finimondo Carlo faticava seriamente a concentrarsi. Il maestro però aveva
capito tutto. Passo tra le file e se trovava qualcuno distratto, l’appoggio
bitorzoluto del suo bastone finiva in testa. Ricard
ne prese due colpi, Lado e Leopold furono minacciati
anche di perdere il pranzo, Robert si prese un calcione nel sedere, Miriam una
sguardata omicida e Donatel un colpo solo. Leopold fu
lasciato in pace e arrivo in men che non si dica alla
massima concentrazione. Eppure, sebbene tutti concentrati, nessuno sentiva
niente.
“Carlo”si sentì chiamare ad un certo punto il
ragazzo. Si girò in ogni direzione, ma erano tutti in silenzio. “Umano”sentì
ancora, ma i due maestri erano immobili. Si alzò. “Qui”sentì dire e
segui la voce. Aveva appena istaurato il suo legame mentale con il suo drago. Quello
che lo chiamava infatti era un componente di quelle mitiche creature. Era
enorme, possente, di un colore rosso, ma un rosso tenue, quasi dolce. Aveva uno
sguardo che era insieme fiero e paterno. “Come ti chiami?”chiese il
ragazzo e si stupì di riuscire a parlargli solo con il pensiero, senza aprire
la bocca. “Draghin”.
Miriam stava per perdere di nuovo la concentrazione. Però
non voleva essere la tipica fatina che si preoccupa per i vestiti, anche se
quello era stato di sua madre. “Mi dispiace per il vestito”le disse
una voce gentile. Era arrivata direttamente alla sua mente, in modo suadente,
una voce femminile e materna. “Chi sei?”chiese anche lei alzandosi
e guardandosi intorno. Cercando incontrò due immensi occhi azzurri. Appartenevano
a una dragonessa bianca che sinuosa stava raggomitolata. “Leggiadra”disse
sbattendo le gigantesche ciglia. A quelle parole mentali così dolci, si unirono
i “Roar” (verso dei draghi NdA” amichevoli che uscivano dalla possente gola
della dragonessa. “Miriam”disse allora la fata e senza accorgersene
sbatte debolmente le ali, che normalmente stavano sempre chiuse e invisibili,
non sapeva volare a causa di un trauma avuto da molto piccola. “Lo so”rispose
la dragonessa e Miriam sorrise.
“Che noia. Almeno quando mi concentro per fare gli
incantesimi accade qualcosa. Forse se recitassi una formula?”pensò Robert
che stava per deconcentrarsi. “Qual è il tuo incantesimo preferito
Robert?”chiese una voce maschile, ma con un intonazione così delicata da
parere femminile. “Quello del fuoco”rispose mentalmente Robert
senza farci troppo caso. Riaprì gli occhi di colpo, capendo in ritardo quello
che era appena accaduto. “Come osi prenderti gioco di me?!!”pensò
intensamente, alzandosi di scatto arrabbiato. “Volevo solo sapere se lo
sai controllare abbastanza per controllare me”rispose la medesima voce di
prima. “Visto che conosci il mio nome voce, mostrati e dimmi chi sei tu”rispose
sempre mentalmente e agitatamente il mago. “Sono proprio davanti a te”rispose
la voce e Robert rimase stupito spalancando la bocca, in un gesto che non aveva
mai fatto. “Tu sei una fenice”chiese mentalmente affascinato dalla
splendida creatura dinnanzi a lui. Pura fiamma, pura energia. “Preferirei
mi chiamassi Luce. Piuttosto come hai intenzione di montare sul mio dorso senza
andare a fuoco?”chiese la fenice e mosse il becco in un modo che
assomigliava a un sorriso ironico. Lo stesso sorriso ironico che si dipinse sul
volto del giovane mago. “Posso creare una sella magica. Non sono uno
sprovveduto, Luce”ripose Robert. “Lo immaginavo. Io non scelgo gli
sciocchi”concluse la fenice.
Leopold si era concentrato così profondamente che non aveva
sentito le invocazioni del suo drago che lo chiamava da un bel po’ ormai.
Un ruggito lanciato con una forza sproporzionata fece sobbalzare dallo spavento
il ragazzo. “Stai mettendo a dura prova la mia pazienza “ragazzo”.
Forse non dovrei sceglierti”si lamentò il piccolo drago blu, che di forma
ricordava un immenso serpente. “Mi perdoni signor drago”mormorò
scusandosi Leopold. “Così va meglio. Il fatto che io sia piccolo non vuol
dire che sia paziente”sbuffo il drago in una voluta di fumo. “Non
chiamarmi signore, mi fa sentire vecchio. Ho solo 200 anni, sono ancora giovane”disse
poi il drago mettendosi di fronte al giovane. “Come dovrei chiamarti
allora?”chiese il ragazzo facendogli una carezza sulla testa che in
confronto alla sua era sempre molto più grande. Al drago le carezze piacquero
particolarmente, nessuno gliene aveva mai fatte. “Dragoon,
chiamami Dragoon”disse diventando più gentile “Va
bene Dragoon”disse Leopold, ripetendo poi quel
nome che gli suonava così strano e così bello, come se lo avesse sempre saputo.
“Io ho paura”. “Strano sono così
concentrato che non mi pareva di aver pensato, anche se lo sto facendo adesso”pensò
Lotshar. “Non tu giovane alieno. Io ho paura”.
“Chi sei voce? Mi stai facendo venire la pelle d’oca”penso Lotshar cominciando a tremare, alzandosi pian piano. “Io
mi chiamo Luigi” “Sei il mio drago? Perché il tuo nome è veramente
strano”pensò l’alieno guardandosi intorno. “Sono qui”disse
un drago verde grande e grosso, ma che si muoveva a scatti e sembrava un
codardo. “Sai mi prendono sempre in giro perché i miei “Roar” a volte escono a pezzetti”disse il drago
e Lotshar provò subito simpatia per quel drago, che
al contrario degli altri non gli faceva paura. “Anche io sono balbuziente,
ma vedrai, ci faremo coraggio insieme”. Il drago sorrise felice, annuendo
con il grosso testone.
Lado stava per addormentarsi, già
la testa gli ricadeva in avanti. “Un elfo che dorme. Dovresti vergognarti”
“Sei il mio drago vero? I soliti saccenti. Come se un elfo dovesse essere
sempre perfetto”rispose male Lado, ma solo per
fame e per sonno. Inoltre odiava le dicerie sugli elfi perfetti, lui come Asches era guardato con sospetto dagli altri della loro
razza, solo perché a furia di stare con gli uomini ne avevano ereditati molti
tratti. “Tu invece dai le cose troppo per scontate. Io non sono un drago”rispose
la voce e nella mente del giovane risuono una risata gracchiante, ma che
metteva allegria. “Cosa sei allora?”disse Lado
alzandosi in piedi. “Non lo so. Sono pochi quella della mia razza, non
hanno nome, vengono erroneamente chiamati draghi da secoli”disse ancora
la strana voce. “Mi dispiace. Dimmi il tuo nome e non dovrò chiamarti
drago”rispose Lado tornando il solito gioviale
di sempre. “A me fa sempre piacere avere nuovi amici”aggiunse l’elfo
con un sorriso a 360°. “Tiger”disse la voce, mentre Lado vedeva venire verso di lui una simpatica iguana con le
ali.
Nello stesso istante in cui Lado
cominciava il colloquio con il suo drago, anche Michelangelo aveva trovato il
suo. Un drago con una chiacchiera pari alla sua. Anche un appetito uguale al
suo. Adesso stavano chiacchierando mentalmente nominando una serie di cibi che
li faceva sognare entrambi, aumentando la loro salivazione in modo
sproporzionato. Il drago si era subito presentando dicendo di chiamarsi Fiamma.
Era oro e di un arancione pressoché identico al colore dei capelli dell’umano.
“Nera potenza. Voglio nera potenza”mormorava Lado. Nessun drago voleva sceglierlo, vedevano una
cattiveria in lui che non li convinceva. Il malvagio giovane nano allora aveva
macchinato una strategia. Se nessun drago lo voleva, con il suo raggio ne
avrebbe piegato uno. Incantato, ipnotizzato, reso schiavo privo di pensiero
proprio. I draghi però sono creatura piene di dignità e tra tutto la cosa che
più amano è la libertà. Perciò prima di riuscirci ci mise molto tempo e riuscì
a incantare solo un drago molto giovane. La sua stazza era enorme, ma
nascondeva un età infantile per i draghi, cresciuto troppo in fretta per un
incantesimo scappato a un giovane mago (non Robert NdA)
che per sbaglio aveva incantato il suo uovo. Oscuro, un enorme drago nero dagli
occhi rossi adesso era di Nanen.
“Uffa. Non riesco proprio a concentrarmi. Robert mi ha
fatto così arrabbiare, ma almeno devo fingere. O il maestro mi tirerà un altro
colpo in testa” “Non dovresti lamentarti tanto, hai la testa dura”
“O finalmente drago, anzi dalla voce femminile deduco che sei una
dragonessa. Ce ne hai messo di tempo per scegliermi”pensò arrabbiato Ricard. “Perché non sei mai gentile? Potresti
ringraziarmi” rispose la dragonessa. “Siamo praticamente gli
ultimi. Farò la figura dell’inferiore. Non mi va”pensò di rimando
il rosso. “No, siamo i penultimi”rispose la dragonessa ridendo. “Nemmeno
a me piace essere l’ultima. Non è colpa mia se tu non mi sentivi”disse
la dragonessa gioviale, in fondo era molto simpatica. “Lo ammetto, mi
piaci. Sembri tosta. Dimmi il tuo nome e vedrò se sei alla mia altezza”rispose
Ricard cercandola con lo sguardo. “Tu ami l’acqua,
il tuo potere. Ami il mare, la pioggia, ma anche la potenza e il furore in
battaglia vero?”chiese la dragonessa con la voce furba di chi nasconde
qualcosa di prelibato. “Esatto, mi sa che andremo d’accordo”disse
Robert pulendosi i pantaloni, che come aveva previsto si erano sporcati. Si
diceva che non si cambiasse mai e non facesse mai il bagno, cose che odiava
profondamente, perciò usava i suoi poteri per lavarsi. Non aveva altri vestiti
oltre quelli che indossava e perciò era comprensibile si fosse arrabbiato perché
si erano sporcati. “Mi chiamo Tempesta”disse la dragonessa e gli
occhi di Ricard si illuminarono. Non solo il nome era
stupendo, ma era anche una dragonessa magnifica. La più grande insieme a Draghin e Oscuro. Le scaglie di un blu intenso.
“Ecco. Sempre ultimo. Devo smettere di pensare a nuove
invenzioni o formule matematiche. Devo fare il vuoto in mente”si
rimproverò Donatel. “A me piace la tecnologia. Sono
l’unico della mia specie e mi prendono in giro quando indosso gli
occhiali” “Cosa ami soprattutto?”chiese Donatel
alzandosi in piedi. Che fosse il suo drago non c’erano dubbi, ma era più importante
per lui trovare un luminare con almeno una paio di secoli di esperienza. “La
trigonometria”rispose mentalmente con voce trasognante il drago. “Anche
a me piace. Fatti vedere amico”pensò intensamente Donatel.
Ed ecco farsi aventi un drago viola di media grandezza con due occhiali di
corno formato gigante appoggiati sul muso. “Io mi chiamo Tecno. Piacere”disse
il drago mentre sorrideva mostrando una chiostra di denti. “Tu sai come
mi chiamo io?”chiese Donatel. “Si, lo so.
Ti chiami Donatel e adesso stai pensando di costruire
per me una sella ipertecnologica. L’idea mi fa
impazzire”. Donatel aveva appena trovato
qualcuno con cui capirsi.
Passarono due settimane ad imparare a cavalcare i draghi che
furono loro assegnati. Avevano avuto
subito un buon rapporto coi loro draghi. Creature che sapevano essere dolci
come animaletti di casa restando sempre fieri, saggi e indomabili. Carlo era
così legato al suo drago che riusciva addirittura a sentirne i pensieri. Quando
finalmente tutti i ragazzi, compreso Lotshar, furono
in grado di cavalcare i draghi, partirono con le cavalcature, accompagnati dai
maestri partirono alla volta della Luna di Iego.
Utilizzando come mezzo di trasporto una gigantesca astronave madre. Poco prima
dell’arrivo, dopo aver attraversato la stratosfera e in prossimità delle
pista d’atterraggio, Carlo vide un accampamento. Scesero tutti inseguiti
dai draghi. I maestri facevano da guide. L’accampamento era proprio la
loro meta. Era circondato da filo spinato e da una barriera magica. La
guardia-sentinella, che si trovava oltre le misure di sicurezza, fu avvertita
del loro arrivo. Per essere sicuro però, volle controllare
l’autorizzazione fatta dal re degli elfi. Carlo ricordava
l’incontro col sovrano e gli sembrava fosse passato un secolo. Dopo
essere entrati, furono accompagnati all’interno di un tendone. Nel quale
trovarono sei letti di paglia e due brande munite solo di materasso. Visto che
la guerra in quel luogo era sempre in fermento, la prima battaglia si sarebbe
svolta quella sera stessa. Appoggiato ad
un sostegno della tenda, Carlo ripensava alla nave spaziale. Era identica a
quella dei film di fantascienza sia di fuori che in sala macchine. L’interno,
invece, sembrava una casa lussuosa d’altri tempi. Soprattutto
dall’arredamento. Una cucina con forno a legna; dei letti a baldacchino;
enormi armadi, credenze e tavoli intarsiati e sedie imbottite. I suoi pensieri
furono rotti dal litigare dei compagni. Stavano discutendo su chi doveva
dormire per terra e chi no. I loro litigi furono completamente inutili. Perché
gli venne comunicato che avrebbero dormito sul campo di battaglia. La battaglia
si sarebbe svolta in un luogo poco distante da lì per proteggere uno dei pochi
villaggi rimasti nella Terra del ghiaccio. Le altre tre terre della Luna di Iego erano: la
Terra del verde, la
Terra delle rocce e la Terra del verde ed erano cadute tutte sotto le mani
nemiche. Quando cominciò ad imbrunire si prepararono. Il sangue di Carlo
ribolliva per il nervosismo. Robert era vestito completamente di nero. Con la
sua casacca di mago, in cui erano raffigurate linee e ghirigori contorti di
rosso sangue che facevano risaltare al centro l’occhio onniveggente, i
pantaloni che sparivano sotto la casacca, il mantello svolazzante e un cappello,
con la punta piegata, con raffigurata la stella magica del mattino. Legò i suoi
lunghi capelli grigi e ripassò mentalmente le formule dei suoi incantesimi
migliori. Lado si vestì con un’armatura elica,
sistemò l’elmo sui capelli verdi, attento alle orecchie e alzò la visiera
mostrando i suoi occhi viola. Lepold si mise un’armatura
d’argento con il simbolo della sua terra: tre torri su tre colli. Ricard indosso un gilè in cuoio sopra la maglietta azzurra,
si lascio i pantaloni bianchi leggeri che gli permettevano di utilizzare la sua
elasticità, si mise i guanti di pelle di drago e per poter mettere un elmo
d’acciaio dovette legare i disordinati e lunghi capelli rossi che
risaltavano col verde degli occhi. Michelangelo si mise al posto del vecchio
vestito una camicia bianca fatta di una stoffa indistruttibile, un gilè verde,
un farfallino nero con macchina fotografica incorporata, un mantello
all’esterno blu come i suoi occhi e all’interno arancione come i
suoi capelli. Miriam aveva un vestito luccicante blu e argento con mille
riflessi, i suoi capelli blu erano acconciati per far risaltare i suoi
inquietanti occhi rosa. Lotshar si era messo un
ingombrante armatura medievale, sia perché era un cimelio di famiglia, sia per
sentirsi abbastanza protetto. Donatel si mise n
armatura tecnologica realizzata da lui. Quando arrivarono al campo di battaglia,
videro un orda infinita di orchetti mostruosi. Dopo
alcuni minuti in cui gli eserciti stettero a fissarsi studiandosi, un corno
seguito dall’urlo dei nemici segno l’inizio della feroce battaglia.
Gli elfi arcieri fecero cadere una pioggia di frecce infuocate sugli orchi
urlanti. La primalinea dei supereroi
uccise i restanti. A quel punto le porte del cancello della città si aprirono e
videro che erano finiti in una trappola. La città non era sotto assedio, ma già
invasa del tutto. Dal fondo della città si sollevarono due enormi fenici di
fuoco nero. Le quali arrostirono la prima linea e costrinsero alla fuga gli
arcieri. Carlo intanto, già resosi invisibile, attaccava ogni nemico che gli
capitava a tiro. Luce combatteva contro le fenici nere. Robert si dava da fare
con incantesimi difficili. Lotshar aveva provato in
ogni modo ad aiutare gli amici, ma sopraffatto dalla paura si era
teletrasportato in un posto sicuro vicino alla battaglia. Una collinetta poco
distante. Quando Carlo vide Miriam cadere a terra, dopo che un mago le aveva
infranto lo scudo, capì che doveva fare qualcosa. Tornò visibile. Raccolse un
arco insieme a delle frecce e saltò sul dorso di Draghin.
Con lui volò dall’altro capo del campo. Prese le distanze e saltò su
TigerLado si
girò di scatto, sorpreso Matteo preso da una foga innaturale urlò: <Lado ordinò al suo drago di
obbedire a Matteo fino alla fine della battaglia. Poi cominciò a scagliare
frecce con la precisione che solo un elfo poteva avere. Vide che gli orchi
stavano preparando un calderone pieno di olio bollente. Ebbe un lampo di genio.
Aspettò che le loro truppe ripiegassero per la ritirata e poi colpì
l’appiglio che teneva il calderone. L’olio uccise tutti gli orchi
in un colpo solo. I quali morendo si liquefacevano. Fu uno spettacolo orribile.
Quella sera distrutti i ragazzi accesero un fuoco sulla collinetta dove si era
rifugiato Lotshar. Lontano dal resto
dell’esercito. Avevano vinto la loro prima battaglia, ma ancor più bello Nanen era scomparso da prima dello scontro. Di certo non
aveva disertato per paura, ma per qualcosa di losco. Tutti si erano
addormentati tranne Lado. Ancora eccitato per la sua
brillante azione si era proposto per il turno di guardia. Allo scadere della
guardia soffiò un forte vento che per poco non spense il fuoco. Lado assorto a guardare il suo medaglione, unico ricordo
dei genitori, non se ne accorse. Invece sobbalzò quando senti rumori di passi.
Anche gli altri lo sentirono e si svegliarono all’improvviso allarmati.
Posando le mani sulle armi. Apparve dinanzi a loro un vecchietto ceco a cui
spuntava un enorme occhio al centro della testa. Quando parlò la sua voce parve
venire da un mondo lontano: “Sono il veggente”. Ricard
allarmato si mise tra lui e gli altri. Il vecchio continuò: “Non temete.
Sono qui per aiutarvi ad abbattere il vostro oscuro nemico. Vedete il
medaglione al petto di quel ragazzo – disse indicando Lado
– ebbene se lo guardate attentamente troverete un piccolo incavo a forma
di cuore. – Lado confermò – Se volete
vincere dovete trovare un gioiello d’ambra a forma di cuore con inciso
una rosa bianca e dovrete incastrarlo lì”. Ricard,
da una parte spazientito e dall’altro incuriosito, chiese: “Dove si
trova di grazia questa pietra ?”. Il veggente senza scomporsi rispose con
quella voce che faceva accapponare la pelle: “In questo pianeta ci sono
quattro terre. In ogni terra ci sono tre chiavi, dette di Reis,
che insieme aprono una porta. Attenti dopo questa porta ci sono mille
trabocchetti e un labirinto. Se le prove supererete della pietra degni sarete”.
Come era apparso scomparve. Lasciando tutti a bocca aperta. La mattina dopo
raccontarono tutto ai maestri Aido e Asches. I quali gli consigliarono di rifletterci a lungo.
Nel frattempo Nanencorreva dal suo nuovo maestro: il Generale Barden. Dopo la sconfitta infertagli da Carlo
all’accademia aveva deciso di vendersi al nemico per diventare più forte.
Il malvagio Barden non aspettava di meglio. Dopo che
il piccolo nano gli ebbe rivelato i punti deboli della base nemica preparò
l’attacco. Per l’esercito di Carlo fu un massacro. Vedere quel
disastro convinse il piccolo gruppo di eroi a partire. I loro maestri non li
potevano accompagnare perché c’era bisogno di loro sul campo. Carlo e gli
altri otto partirono verso l’ignoto con coraggio. Coraggio che svanì dopo
quindici giorni di marcia senza meta. Cominciavano già a pensare di aver
immaginato quel uomo quella notte quando un piccolo essere fece capolino tra i
ghiacci. Era David. Carlo lo riconobbe subito. Non poté dire dove lo aveva
incontrato. Dopo aver fatto un buffo inchino davanti a Miriam, David proclamò
con voce altisonante: “Io, David, sono l’aiutante del veggeèente”. Se quella storia non avesse già
dimostrato di essere paradossale tutti sarebbero scoppiati a ridere.
Ringrazio:
berry345 Spero
che il capitolo vi sia piaciuto. Visto che la regole sulle recensioni non vale
per te, sarò felice di leggere una recensione in cui mi dici se il capitolo ti
è piaciuto.
Regina oscura Ed
ecco un nuovo aggiornamento. Sono contenta che ti siano piaciuti i
combattimenti, perché è una componente che mi sta molto a cuore. Poi fammi
sapere la risposta per il mio quesito. No, non sono Aido.
Appena sento odor di sigaretta mi sento male perché sono asmatica. Fammi sapere
se la storia ti è piaciuta.
Ed eccomi ancora qui a dar fastidio. Se credete che per un
ragazzo è impossibile fare quello che faranno i nostri, eroi vi dico che io una
volta ho dovuto fare una missione similare, priva di magia, ma con molto sudore
nel mio kimono di Judo, per accontentare un maestro che avevo anni fa. Grazie
pochi, ma buonissimi lettori.
Cap.5 prime chiavi
In qualche giorno David li condusse a un palazzo di ghiaccio
sottostante a un impervia montagna. Intimiditi entrarono. Appena varcata la
soglia videro tre statue. Quelli ai lati erano di due possenti uomini con
prominenti pettorali che avevano un cipiglio poco rassicurante e si notava la
scritta vita in ebraico sulla fronte. Al centro c’era la terza statua
raffigurante una donna seduta a gambe incrociate su una pietra su cui era
incastonata una chiave d’oro. La statua della ragazza, di una bellezza
sconcertante, era grigio pietra tranne i capelli neri fatti con l’ebano.
Leopold si stava già avvicinando per afferrare la chiave quando gli orecchini
rotondi di pietra della statua tintinnarono. Spauriti i ragazzi guardarono la
statua aprire gli occhi e prendere vita. Sul viso di roccia si disegnò un
enigmatico sorriso. I veri problemi iniziarono quando anche le altre statue si
ripresero. E cominciarono a cercare di colpirli. Erano refrattari alla magie e
alle armi, l’unica cosa da fare era schivare i colpi. Andò avanti così
per un bel po’ finche Donatel ricordò una lezione di scuola. Erano golem.
L’unico modo per distruggerli era cancellare la prima lettera della frase
scritta sulla fronte. Così si sarebbe trasformata nella parola morte,
sgretolandoli. Donatel urlò quel che sapeva e Lado non perse tempo. Infilzò la
lettera di uno dei due e il mostro si sgretolò. Dell’altro se ne
occuparono Robert, Michelangelo e Ricard. Ricard si occupò di distrarlo, Robert
lo immobilizzò con un incantesimo e Michelangelo si arrampicò su di lui fino
alla fronte. Con la mano il ragazzo cancello la lettera. Al momento in cui il
mostro sparì Michelangelo cadde addosso a Lotshar. La donna, che fino a quel
momento era stata ferma a guardare, con un gesto della mano immobilizzò tutti.
Si salvarono solo Carlo che era diventato invisibile e Robert usando uno scudo
di magia. Carlo si avvicinò al compagno e gli spiegò il piano. Mentre Robert
distraeva la statua, lui avrebbe preso la chiave. Robert era interdetto. Non
aveva mai parlato molto e la cosa lo turbava. Decise di parlare di trottole,
unico argomento da lui veramente amato. Quando scoprì che la statua non sapeva
cosa fossero, si infervorò. La guardiana fu rapita da quell’emozione.
Tanto che lasciò liberi i suoi compagni e non si accorse che Carlo aveva
afferrato la chiave. Il resto del gruppo dovette portare via a forza Robert. Il
quale impuntandosi urlò con tutto il fiato che aveva in gola: “Tornerò”.
“Me lo prometti?”, chiese supplichevole la statua. Robert la
rassicurò prima di essere così lontano da non vedere più il castello. David che
in tutta quella storia era rimasto nascosto nella tasca di Carlo, uscì fuori
stiracchiandosi.
La prossima tappa era sulla montagna. Lotshar si
teletrasportò in cima. Dove trovò una stalla vicino a una casa. Visto che la
casa era inquietante optò per la stalla. Il resto del gruppo, i draghi, tra cui
Luigi, dovettero trovare un altro modo. I draghi non potevano volare fino in
cima per colpa del forte vento e scalare la montagna era impossibile. Robert
sarebbe potuto levitare, ma non voleva lasciare gli altri. Ricard allora attuò
la sua idea. In qualche ora fece apparire una scala di ghiaccio abbastanza
grande da poter far salire anche i draghi. Prima salì Leopold portando i
draghi. Poi Robert con Carlo aiutando Ricard stremato dalla fatica. Poi Lado,
Miriam, Donatel. Per ultimo Michelangelo. Nell’istante in cui salì sulla
scala i suoi poteri cominciarono a farla sciogliere. Tutto quel trambusto era
la distrazione giusta per l’aiuto insperato di cui Nanen aveva bisogno.
Era sopra quel monte ad aspettarli a dorso di Oscuro per tendergli una
trappola. Era riuscito a scovarli grazie al fiuto del suo drago. Tutto quel
rumore aveva fatto affacciare Lotshar dal suo rifugio. Urlando a perdifiato
avvertì gli amici del pericolo. Carlo e gli altri appena scampati a un pericolo
furono presi alla sprovvista da questa nuova minaccia. Riuscirono comunque a
scansare la fiammata di Oscuro. Nanen più furioso che mai, a causa del
fallimento del suo piano, usò tutti i suoi poteri. Creò un buco nero in cui far
finire Carlo e i suoi amici. Inaspettatamente Oscuro,stanco della malvagità di Nanen, utilizzò
quel momento in cui il controllo mentale era venuto meno, disarcionò il suo
padrone. Nanen cadde nel suo stesso vortice. Dopo che Nanen venne inghiottito
dal buco nero, questo scomparve. Stanchi di tutte quelle emozioni,ragazzi e i draghi si addormentarono. Carlo
fece un sogno senza sogni. La mattina dopo, quando una tenue luce spuntò
all’orizzonte, i ragazzi si svegliarono. Arrivati vicino alla casa, che
aveva spaventato Lotshar, si accorsero che non era disabitata. Si vedeva che dentro
ardeva un fuoco. Carlo con la spada in mano aprì la porta. Dentro sedeva una
strana vecchia. Aveva i capelli grigi legati in una lunga coda, dei vestiti da
ragazzina fanky e un trucco pesante. Il suo sorriso smagliante metteva in
risalto una ragnatela di rughe e i suoi occhi verdi erano vispi e pazzerelli.
Quando li vide saltò dalla sedia e andò incontro a Lado abbracciandolo fino a
non farlo respirare. Commossa disse:”Il piccolo figlio dell’elfa e
del coraggioso uomo, che bello vederti”. Diede dopo un bacio materno a
Carlo. Riconoscendo la voce, David fece capolino dalla tasca di Matteo, dove si
era nascosto dall’attacco di Nanen. “Nonna” urlò David
cominciando a saltare. La vecchia prese a saltare anche lei, cosa che sembrava
impossibile per quella età. Quando la vecchia si fu calmata, lì squadrò da capo
a fondo. Poi disse: “Sono la custode della seconda chiave. Prendetela, ma
state attenti”. Felici di avere già due chiavi e di aver lasciato Oscuro
in buone mani si incamminarono. Infatti la vecchia si tenne il drago.
Il freddo di quella landa desolata cominciò a farsi sentire
dopo alcuni giorni. Le provviste di cibo cominciarono a scarseggiare. L’acqua
si congelava. Le tormente di neve improvvise rischiavano di farli perdere.
Fortunatamente David sembrava sicuro della strada che prendeva. Una sera il
folletto indicò una grottae dopo entrò
nella solita tasca. Emozionato Michelangelo disse: “Che cosa aspettiamo?”.
Quella frase incoraggiò tutti ad entrare. L’entusiasmo si spense quando
ebbero varcato la soglia. Era un antro oscuro. Sembrava ci fossero mille occhi
malvagi pronti ad aggredirli. Strani rumori facevano scendere gocce di sudore
freddo sulla schiena. Dopo un po’ che avanzavano videro una fioca luce.
All’inizio cedettero fosse un uscita, ma avvicinandosi si accorsero che
proveniva da alcune candele. Il luogo illuminato da quella poca luce era
inquietante. Dei candelabri d’argento tenevano i ceri. Era un antro tetro
con due persone enormi sedute su una pietra. Intorno a loro dei cristalli
cambiavano colore in continuazione. Erano un uomo e una donna che sembravano
molto vecchi. Avevano dei lunghi vestiti bianchi. Dello stesso colore anche i
loro lunghi capelli. Gli occhi grandi come palloni da basket erano grigi.
All’improvviso la donna cominciò a parlare. Carlo cominciò a sentirsi
stanco, strano. Le forze cominciarono a mancargli. Fece appena in tempo a
vedere i compagni cadere a terra, prima di sprofondare in un sonno incantato.
Quando si riprese vide volteggiare la chiave poco lontano da lui al di sopra
della sua testa. Era ancora nella caverna. Aveva delle piante che gli tenevano
i piedi legati al terreno e come delle manette ai polsi. Si guardò intorno.
C’erano tutti i suoi compagni nelle stesse condizioni. Si erano svegliati
da poco. Visto che si guardavano intorno spauriti. “Lado – disse Carlo
– riesci a far sparire queste piante – indicò i piedi –
allora?”. “No!” rispose Lado. L’unico modo era prendere
la chiave. Carlo aveva un idea. “Michelangelo – disse – fai
cadere la chiave”. Michelangelo capì e lanciò una bomba di fuoco. Centrò
la chiave che cadde con un sonoro “cling”. Il più vicino era
Ricard. Che allungandosi, fino a farsi sanguinare le caviglie, prese la chiave
e la lanciò a Donatel. Il quale la passò a Carlo. Le piante scomparvero.
Donatel prese il navigatore che aveva inventato. Tornarono nella sala dove
erano prima. Ritrovarono i draghi, ma non c’erano i guardiani.
Quando uscirono di nuovo alla luce capirono che la
situazione non era delle migliori. Si ritrovarono nelle stessa di quando si
erano addentrati nella caverna. Nel giro di alcuni le scorte di cibo finirono.
Una sera che vagavano sconsolati Michelangelo andò a sbattere contro un muro.
La tormenta non gli aveva fatto vedere che erano arrivati in un villaggio. Si
ripararono sotto quello che sembrava un portico. Quando la tempesta si fu
calmata videro che si trovavano in quello che era un agglomerato di casette o di
paglia o di muratura. Dalle luci accese si vedeva che erano abitata. Loro si
erano veramente messi sotto il portico di una casa. Non era però una casa
comune. Era una delle poche in muratura e sopra la trave della porta
c’era scritto con la porpora: “Casa del Sindaco”. Ebbero
subito l’onore di conoscerlo. Un ometto rubicondo abbastanza grassoccio
si dirigeva verso di loro. Con aria dubbiosa chiese: “Che ci fate sulla
soglia di casa mia?”. Rapido Ricard rispose: “Ci siamo persi”.
L’espressione del sindaco cambiò subito. Da perplessa divenne simpatica e
comprensiva. Decise di ospitare i ragazzi. Al sindaco avevano fatto tenerezza.
Il suo atteggiamento, però, cambiò radicalmente quando alcuni giorni dopo
spuntarono i draghi dei ragazzi. Infatti questi avevano tardato a causa dei
forti venti. Che li avevano spinti fuori rotta. Il sindaco, che si chiamava Meopoldo,
decise di mettere alla prova i ragazzi. Per dimostrare la loro buona fede
dovevano sconfiggere il drago che si nascondeva nella foresta lì vicina. Armati
di buona volontà e di armi i ragazzi si diressero verso la foresta.
A causa della stazza di quegli alberi, a Carlo la foresta ricordò
quella in cui si era perso iniziando tutta quella avventura. Il pensiero del
drago però gliela fece sembrare più terrificante. Più andavano avanti più si
sentivano strani versi. Quando arrivarono a farsi assordanti lo videro. Si
chiesero come avevano fatto a non notarlo prima. Era grosso come gli ultimi
guardiani che avevano incontrato. Quindi circa quindici metri. Era imponente e
la sua corazza viola brillava al sole. Gli occhi neri li scrutavano in modo
curioso. Rimasero stralunati quando videro che aveva un collare formato mega.
Robert decise di usare la sua magia per ritrovare il padrone di quel drago. Si
concentro intensamente. Gli ci vollero tutte le sue energie e alla fine
stremato cadde a terra. Fu facile capire come mai ci volle tutta quella fatica.
Il padrone del drago era anche più dal animale e quindi molto grande. Quando
capì che era stato grazie ai ragazzi che aveva ritrovato il suo animale, che
aveva cominciato a scodinzolare come un cagnolino facendo tremare la terra e
facendoli cadere a terra, il padrone promise che li avrebbe aiutati. Cosi
dicendo: “Io gigante Begnam giuro di venire in un prossimo futuro in
vostro aiuto” sigillò il patto. Dopo aver così parlato andò via col suo
drago. In pochi passi non lo videro più. Ricard si mise in spalla Robert ancora
stremato dalla fatica e con gli altri si avviò al villaggio. Lì erano convinti
avessero cacciato il drago in chissà quale modo spettacolare e li accolsero
come eroi. Robert si riprese completamente da quella fatica la mattina del
giorno.
A Carlo piaceva stare lì. Non era più costretto a rischiare
la pelle. Gli ricordò un po’ la vita a casa sua. Nel suo villaggio però
era considerato un tipo strano. Gli altri ragazzi lo disprezzavano. Gli adulti
invece lo lodavano e gli facevano strani sorrisi, solo perché li rendeva
popolari con il suo particolare talento. Aveva finito così per amare soltanto
nascondersi e stare lontano dagli altri. Non aveva mai saputo come mai tutti
compreso lui sentissero avesse qualcosa di diverso. Fino alla notte in quella
radura dove aveva scoperto i suoi poteri. Con i suoi nuovi amici quel senso di
diversità scompariva visto che anche loro li possedevano. Non era per quello
però che aveva deciso di diventare un supereroe. Una mattina era nella terrazza
sulla casa del sindaco a pensare a tutte quella cose quando da lontano vide
avanzare un esercito di uomini. Portavano le insegne dei nemici. Strano non
fossero orchi. Carlo scese giù e diede l’allarme. Quel paesino aveva
sempre evitato l’attacco dei nemici pagando una sostanziosa tassa. Quei
soldati però erano lì ad attaccare solo per divertimento. Si erano uniti al
generale per la loro sete di sangue che ora li animava. Le donne, i bambini e
gli anziani si nascosero nelle grotte nel bosco. Gli uomini, Carloe
i suoi compagni a cavallo dei draghi avrebbero fermato i nemici. La battaglia
fu dura. Vinsero, ma a caro prezzo. Molti di quegli uomini coraggiosi morirono.
Non erano soldati e nemmeno dotati di poteri. Prima che ci fosse un successivo
attacco in forze si nascosero tutti nelle caverne. Lado fece crescere una fitta
edera all’entrata per nasconderla a eventuali nemici. Miriam curava i
nemici che per la prima volta in vita sua aveva provato a combattere in una
battaglia vera. Quando aveva visto infilzare un uomo che era diventato suo
amico in quei giorni si era lanciato sull’aguzzino. Era riuscito a
stenderlo, ma era rimasto ferito al braccio. Quando alcuni giorni non sentirono
più i nemici, i ragazzi decisero di lasciare la caverna e ripartirono.
Quando si avvicinarono al territorio nemico ordinarono ai
draghi di volare molto in alto per non farsi vedere. Fiamma però non aveva
voluto obbedire e Michelangelo per convincerlo gli aveva dato un biscotto al
sapore di pasta con la salsa. Arrivati alla frontiera si nascosero in un
carretto pieno di balle di fieno. I guardiani sapendo che era un buon
nascondiglio ci infilzarono le spade. I ragazzi riuscirono a non essere
infilzati riparandosi dietro i campi di forza di Miriam. Dopo alcuni chilometri
dalla frontiera, approfittarono di una distrazione del guidatore e si
lanciarono fuori dal carretto. Atterrarono sul ciglio della strada e si
nascosero nel fosso laterale. A questo punto giungevano dei cavalieri a
cavallo. Robert iniziò a recitare una cantilena triste. E i cavalieri cedettero
ci fosse un enorme mostro e caddero dalle loro cavalcature. Scapparono via,
dimenticarono i cavalli. Ognuno dei ragazzi salì su un cavallo. Essendo otto i
cavalli Lotshar si mise con Leopold. Carlo non riusciva a saltare in groppa
perché ogni volta che ci provava l’animale si imbizzarriva. Intanto
Fiamma volando rifletteva. Se scendeva per farlo andare via avrebbe avuto un
biscotto, pensò. Così decise di disobbedire soltanto un'altra volta al padrone.
Scese in picchiata pregustando il biscotto. Michelangelo a vedere il suo drago
fu folgorato da un idea. Si avvicino al cavallo testardo e disse: “Vedi
quel drago che sta scendendo in picchiata? – il cavallo sembrò capire
– Be, se non fai salire Carlo gli dico di arrostirti”. Il cavallo
non fece più storie. Fiamma ricevette il suo biscottino e non disubbidì più.
Guardandosi intorno si resero conto che più andavano avanti più il paesaggio
cambiava. Dalle lande di ghiaccio a della tenera erbetta. Il sole splendeva.
C’erano laghi e fiumi ovunque. Era di certo la Terra del verde. David
sembrava più baldanzoso del solito. Presero la strada attraverso i campi per
non farsi trovare. David li condusse a un immenso foresta intrigata
d’edera. Riuscirono a penetrarvi a fatica. David sconsigliò di tagliare i
rami. Una volta dentro le piante si spostarono per lasciarli passare. Quando
arrivarono a un enorme palazzo d’edera si fermarono. Le finestre erano
fatte di smeraldi. La porta era una cascatella d’acqua. Stanchi prima di
entrare decisero che era meglio mangiare. Dopo essersi rifocillati passarono
sotto la cascata dall’altra parte. Anche gli interni erano d’edera.
C’era una scala che portava al piano superiore. Avanzarono a cavallo dei
draghi. Che dopo averli visti entrare erano atterrati e passati per miracolo
tra l’edera. Anche loro mangiarono. Michelangelo era davanti a Lado. Fiamma
si lascio scappare uno sbuffo dalla stanchezza. Sarebbe stato normale se non
fossero uscite lingue di fuoco. Questo incidente fece scoppiare un incendio.
Ricard a cavallo di Tempesta lo spense con i getti d’acqua che fece
uscire dai palmi delle mani. Attirato da quel rumore apparve il custode. Era un
enorme albero. Gli occhi e la bocca erano due buchi. Il naso era parte della
corteccia. Le radici gambe e piedi. I rami le braccia e le mani. Le fronde una
morbida chioma. Con quelle strette fessure li fissava minaccioso. Quando parlò
lo fece in modo lento: “Io…sono…l’Hent…di nome…
Cedro. Vi…darò…ciò che…volete…se farete…quel che…
io vi…dirò”. Leopold si avvicinò e disse: “Di cosa si tratta?
Stavolta parlate un po’ più svelto, per favore custode di alberi”.
Quando riprese a parlare Cedro ascoltò il consiglio di Leopold: “Voglio
che andiate alla montagna rubino. Prendiate gli alberi che come frutti
producono il gioiello da cui il monte prende il nome e portateli da me. Se
toccherete un solo frutto non avrete la chiave”. “Come porteremo
gli alberi?” interruppe Carlo. “Semplice – rispose Cedro
– sradicate da terra gli alberi, caricateli sulla schiena, dove si
ancoreranno con le radici, dirigetevi qui e piantateli al di fuori del palazzo.
Per essere sicuro che non mi ingannerete fuggendo una volta fuori da qui, il
vostro amico resterà con me”. Cosi dicendo afferrò il povero Lotshar. Che
balbettò: “Ai…utoo…o perfafafa…vore”. I ragazzi
partirono subito per la loro missione. La montagnola era poco distante. Una
volta arrivati lì ebbero una brutta sorpresa: gli alberi dovevano essere
pesantissimi e vicino a loro i poteri non funzionavano. Pensando al povero
Lotshar si diedero da fare. Fortunatamente per loro gli alberi erano otto. Uno
ciascuno. A mani nude scavarono intorno alle radici fino a liberarle. Carlo
quando ebbe finito si accorse che gli sanguinavano le mani. Anche gli altri non
erano ridotti meglio. Non sapendo come fare a trasportarli si sedettero ognuno
appoggiando la schiena sul proprio albero. Le radici presero vita. Con un
scatto secco si attaccarono alle loro schiene. Il peso era tale che più che
camminare strisciavano per terra o andavano gattoni. Stavolta anche
l’edera dell’entrata si apri per farli passare. Una volta in
giardino gli alberi si staccarono dalle loro schiene. I ragazzi esausti
cominciarono a scavare le fosse dove trapiantare gli alberi. Quando ebbero
finito, gli alberi si alzarono sulle loro radici e camminarono fino alle fosse.
Una volta dentro tornarono fermi. Carlo pensò: “Un'altra cosa che
dovrebbe essere impossibile”. Avevano mantenuto la promessa ora toccava
al guardiano. Cedro uscì dal suo palazzo e gli consegno Lotshar profondamente
addormentato, era stato l’unico modo per calmarlo, e la chiave. Anche se
i ragazzi sarebbero voluti ripartire prima che l’albero gli chiedesse
qualcos’altro, si addormentarono, prima di muovere un passo, dalla
stanchezza. La mattina dopo ripresero il viaggio. David uscì dalla tasca solo
per dare indicazioni.
Dopo aver attraversato metà della Terra del verde si
ritrovarono davanti a una strana opera. Al centro del più totale nulla si
innalzava un enorme bacchetta da fata. Era di un rosa carne e sprizzava
migliaia di scintille di tutti i colori. A un certo punto tutti sentire
qualcuno che parlava nelle loro menti. Era la bacchetta che disse:”Sono
il guardiano di una delle magiche chiavi che cercate. Portatemi la bacchetta
della regina delle fate e io vi darò la cosa che agognate”. Miriam era
incuriosita, non sapeva che lì c’erano fate. I draghi rimasero ad
aspettare sotto la strano oggetto. I ragazzi furono condotti alla bacchetta da
David con una faccia triste che non gli avevano mai visto. Arrivarono a una
città di cristallo semidistrutta. Le erbacce avevano invaso tutto ed era
disabitata. Entrarono in quello che doveva essere stato il palazzo. Il tetto si
reggeva per miracolo ed era distrutto in più punti. Percorrevano saloni che
dovevano esseri stati di uno sfarzo inimmaginabile, ma che ora erano caduti in
rovina. Ovunque segni di battaglia. Finche arrivarono alla sala del trono. Il
lampadario era piombato sul trono spargendo pezzi di cristallo e schegge di
legno ovunque. Al centro della sala c’era un tavolo rotto a metà con un
enorme macchia di sangue. Per terra poco più in là c’era il motivo che
aveva spinto i ragazzi ad andare in quel luogo di tristezza. Sfortunatamente un
raggio laser aveva colpito la bacchetta
magica che si era fusa con la corona. Miriam andò per prenderla, ma quando la
toccò accadde qualcosa di strano. La terra sembrò tremare. Si ritrovarono al
tempo lontano in cui quel palazzo era ancora pieno di vita. Quando però
andarono per toccarli si accorsero che erano degli ologrammi. Improvvisamente
apparve una fanciulla bellissima, ma molto triste. Anche lei era un ologramma.
Con voce malinconica disse: “Tu fata che hai toccato i ricordi di questa
terra impregnata di morte se vorrai potrai sapere cosa accadde. Cosa successe
per trasformare questa terra rigogliosa in un posto deserto”. Sconvolta
Miriam non riuscì a rispondere e l’apparizione lo prese per un si.
Riprese ancora con il suo trono triste: “Io sono la regina delle fate.
Sono morta su quel tavolo difendendo il mio popolo. Il malvagio che imperversa
in queste terre sterminò tutte le fateche vivevano su questa terra. Ricorda ciò che hai visto quando combatterai
contro il Generale Barden, ma non farti sopraffare dall’odio”.
Quando ebbe finito gli ologrammi svanirono e il palazzo torno deserto e
silenzioso. Miriam era sconvolta e sembrava diventata uno zombi. David raccolse
la bacchetta corona. Una volta arrivati alla bacchetta enorme questa risucchiò
l’oggetto e fece comparire la chiave nelle mani di Carlo. Che tirò fuori
le altri chiavi che teneva nella tasca con David. Guardò le cinque chiavi che
avevano. Tre d’oro con incastonati dei gioielli, una di smeraldo e
l’ultima di quarzo rosa con due piccole alucce d’acqua marina. Le
rimise nella sua tasca dove erano al sicuro. Miriam aveva creato un campo di
forza nella tasca di Carlo in modo che solo lui e David potessero
oltrepassarlo. La stessa Miriam che stava seduta depressa e pensierosa. Ormai calava
la sera e Miriam non era in grado di andare avanti perciò decisero di passare
lì la notte.
Aido intanto riceveva la
visita di un piccolo passerotto. Era così che i generali ribelli comunicavano
tra loro. Altre cattive notizie. L’esercito nemico avanzava sempre di
più. Ogni giorno le linee nemiche conquistavano posizioni. Della loro unica
speranza non c’erano notizie. Sperava che i suoi allievi stessero bene.
Vedeva gli uomini combattere dimentichi dello stile, avventarsi sul nemico con
la forza della disperazione o accecati dall’ira. I nemici non sembravano
umani. Lucidi nella loro determinazione, non facevano mai rumore e uccidevano
con innaturale freddezza. Quegli uomini calcolatori avevano preso il posto
degli orchi. Tutti i giorni combatteva fino allo stremo delle forze
fiancheggiato da Asches. Distratto dai suoi pensieri Aido non si accorse che il
sole era già tramontato all’orizzonte. Sentendo però il freschetto della
sera preferì rientrare. Mentre dormiva, un uomo con intenzioni losche entrò nella
sua tenda. Tutti gli anni passati in battaglia avevano affinato i suoi sensi di
Aido. Bastò lo scalpiccio delle scarpe dell’intruso svegliare Aido. Saltò
addosso allo sconosciuto urlando. Tirò fuori il pugnale che teneva sempre a
portata di mano. E immobilizzò il nemico. Dopo accese la luce E sempre tenendo
puntato il pugnale al collo dello spaventato nemico lo legò alla sedia. Era un
brutto ceffo. Aveva un enorme cicatrice che partiva da sopra l’occhio
sinistro, di colore arancione, e prendeva tutta la guancia. L’altro
occhio era di colore blu. Aveva i capelli del colore della paglia. Mancava un
pezzo della pelle del naso. Insopportabile era un ghigno da idiota stampato
sulla faccia. Il brutto ceffo ruppe il silenzio dicendo: “Vecchio nano
rinsecchito non la farai franca”. Aido rispose: “Se vuoi proprio parlare
dimmi chi ti manda”.L’uomo facendo
lo spavaldo rispose: “ Io, Martin, non te lo dirò mai”. Aido lanciò
un coltello vicinissimo al viso di Martin. Che urlò: “Va bene! Mi manda
il Generale Barden”. “Perché?”chiese ancora Aido. “Te
lo dico, ma non mi accoppare. Hai un gioiello che gli serve per non so quale
arma segreta da attivare, forse costruire una potentissima macchina…”.
Non riuscì a finire la frase che una freccia gli squarciò il petto. Aido corse
fuori, ma l’assassino si era dileguato. Ci doveva essere qualche talpa
qualche talpa nel campo. Che aveva prima fatto entrare Martin e poi lo aveva
ucciso in modo che non parlasse. Chi era? Non poteva più fidarsi di nessuno. A
parte di Asches. Neanche il sorgere del sole riuscì a calmarlo. Si sentì
pungere sul collo. Si girò e vide Anarr, uno del campo, armato di cerbottana
lanciagli. Ecco chi era il traditore. Aido lanciò il pugnale il pugnale e lo
colpì al collo. Lo uccise. Un'altra puntura. Ci doveva essere qualche altra
spia. Fu il suo ultimo pensiero prima di cadere a terra privo di sensi. Essendo
ancora presto nessuno si accorse del suo rapimento.
Ringrazio:
Milli Li Sono
contenta che il capitolo ti sia piaciuto. Secondo me tu non hai un neurone, ma un
cervellone gigantesco. Non se si capisce, ma è un complimento. Io me li ricordo
tutti perché sono l’autrice, ma non credere, prima o poi anche io
rischierò di confondere qualche personaggio. Anche a me l’alieno balbuziente
mi fa tanta tanta tenerezza, peccato che il nome sia impronunciabile. Io a un
amico che si chiama Lotshar rischierei di offenderlo in continuazione storpiandogli
in nome. Un mio povero collega di università a un nome un po’ diverso,
non c’è una volta che lo azzecchi. Sigh ç_ç Si, anche a me piace
moltissimo la fenice. Però per indovinare chi sono dovresti almeno fare dei
tentativi. Sono molto curiosa di sapere cosa hai pensato di questo capitolo.
Berry345 Grazie.
Però credo che la tua storia sia meglio. Si, aggiorno in fretta quando posso. Ho
recensito l’ultimo aggiornamento della tua storia. ciao
Al centro della Terra del verde nove ragazzi
e nove draghi furono svegliati dal sole mattutino. Quel sonno ristoratore era
servito e Miriam si era calmata. Era di nuovo pronta a dare battaglia. Il
gruppo partì pieno di nuove speranze. Anche David era tornato quello di sempre.
Sembrava molto affezionato alla tasca di Carlo. Dove passava
quasi tutto il suo tempo. Ci misero parecchi giorni prima di arrivare alla loro
meta. Quando ci arrivarono però cedettero che David li avesse presi in giro.
Davanti a loro c’era solo un immenso lago con diversi fiumi affluenti.
Nessuna costruzione in cui potesse essere nascosta una chiave. David spiego: “La
chiave è sott’acqua”. “Vado prima io” disse a sorpresa Ricard. E si tuffò. Dopo un po’ riemerse la sua testa
che disse: “E vero che io so
respirare sott’acqua col mio superpotere e sono facilitato, ma troverete
una soluzione anche voi”. Detto questo si immerse. Robert conosceva un
incantesimo che avrebbe creato una bolla intorno alla testa che facesse passare
l’ossigeno, non l’acqua, e si sarebbe distrutta solo una volta
usciti dal lago. L’idea fu appoggiata da tutti. Una volta dentro
trovarono Ricard seduto ad aspettarli sul fondale. Carlo capì che all’interno delle bolle si riusciva a
parlare. La prima cosa che disse fu: “Che sballo!”. Rimase però
sbalordito quando Ricard, non munito di bolle, disse:
“Guardate che ho scoperto mentre
voi giocate come bambini”. Indicava davanti a se. Carlo guardò il punto che Ricard
indicava. Era esattamente come lui si era sempre immaginato Atlantide. Un
palazzo antico in pietra con gli stili greci, romani, maya, egizi e indiani
uniti insieme. Le moami, le teste dell’isola di
pasqua, con un corpo. C’erano uomini e donne fatti d’acqua a cui si
poteva vedere attraverso. Draghi marini che nuotavano incuranti di tutto. Pesci
di ogni tipo. Delfini giocherelloni che si allontanavano per saltare fuori a
respirare e poi tornavano lì. Polipi di ogni dimensioni. Tornò bruscamente al
pensiero della loro missione quando Leopold lo strattonò spazientito. Avanzarono
verso il palazzo nell’indifferenza totale. Come se degli umani
sott’acqua fossero la casa più naturale del mondo. Il palazzo
all’interno come all’esterno: un miscuglio di epoche perdute.
Raffigurata su un muro c’era la battaglia contro il Generale Barden. Avevano perso visto che lì vicino c’era il
foglio che indicava le tasse che pagavano ogni mese. Furono condotti a una
bellissima donna con al collo una chiave splendente di un azzurro acceso che
illuminava la stanza. Era la chiave di reis che i
ragazzi cercavano. Era così vicina eppure irraggiungibile. La donna aveva il
potere di far perdere il senno agli uomini per amore. Michelangelo stava già
per corrergli incontro urlando: “Bellezza mia!” che Ricard lo prese per un orecchio e Donatel
dal braccio trascinandolo indietro. A Carlo arrivò il pensiero del suo drago.
Era preoccupato per la sua sorte. Non avevano tempo da perdere. Si avvicinò
alla donna d’acqua e disse: “Siamo qui in pace. Ci serve solo la
vostra chiave per compiere una missione di vitale importanza”. La donna
con voce divertita rispose: “Cosa ti fa credere che la consegnerò a te,
piccolo umano ridicolo”. Era vero che era ridicolo, perché i vestiti
pieni d’acqua si erano gonfiati. La sua maglietta rossa si era
trasformata in una specie di pomodoro e i pantaloni in enormi salsicciotti
neri. D’altro canto, quella donna non aveva lo stesso il diritto di
dargli del ridicolo. Aveva dovuto affrontare parecchi pericoli. Quando la donna
parlò ancora non aveva più il tono canzonatorio, ma duro e autoritario:“Se veramente vuoi la chiave dovrai
vincere dieci prove. Ad ogni prova persa uno dei tuoi amici morirà.
All’ultima sarai ucciso tu”. David uscì la testolina dalla tasca e
chiese a Carlo:“Grazie al campo
di forza che c’è nella tasca non dovrebbero riuscire ad uccidermi, vero?”.
Carlo rispose che gli dispiaceva davvero tantissimo deluderlo, ma se uccidevano
Miriam il campo di forza sarebbe scomparso. David cadde svenuto nella tasca. Carlo
era incerto. Aveva paura ad accettare, non voleva causare la morte dei
compagni. Quando però vide che gli amici gli facevano segno che poteva,
accettò. La donna parlò ancora: “Visto che ormai giunge la sera le mie
ancelle vi condurranno nelle vostre stanze”. Le “loro stanze”
consistevano in dei letti a cielo aperto. Dopo circa un ora arrivò un’ancella
a portargli la cena, che consisteva in alghe bagnate. Dormirono malissimo
perché il letto era fracido e l’acqua fredda gli entrava nelle ossa.
Miriam si lamentava perché si era dovuta mettere dei pantaloni scomodi, perché
la gonna nell’acqua si sarebbe alzata una volta smesso di tenerla
abbassata con le mani. La mattina dopo l’ancella che li andò a chiamare
li trovò svegli e di pessimo umore. Michelangelo se era di buon umore era
simpaticissimo, ma se aveva la luna di traverso era davvero insopportabile.
Urlava contro tutto e tutti e parlava, parlava e parlava. Per riuscire a
sopravvivere Leopold gli fece crescere delle piante sulla bocca per
tappargliela e zittirlo. Visto che non poteva fare tutti i combattimenti Carlo
ne avrebbero combattuto uno ciascuno. Se perdevano, morivano. Trovarono la
donna ad aspettarli, infatti era la regina. Il primo combattimento toccò a Lotshar. Lotshar avrebbe dovuto
affrontare un energumeno tutto muscoli, ma niente cervello. Preso dal panico, Lotshar usò il raggio della bontà. Il nemico divenne
dolcissimo. Preso dalla sua premura inciampò in un sasso. Cadde a terra e
svenne. Lotshar miracolosamente aveva vinto. Poi fu
la volta di Miriam. Doveva domare un drago di mare selvaggio. Saltò a cavallo
del drago che cominciò a nuotare all’impazzata in tutte le direzioni.
Continuava a muoversi per disarcionare la povera ragazza. Quando Miriam notò
che il drago era ferito. Lottando contro l’impeto dell’animale
raggiunse la ferita. La curò coi suoi poteri e il drago si placò. Ora toccava a
Lado. Doveva risolvere un indovinello senza aiuti.
L’indovinello era: chi ha sei facce e neanche una?. Per chiunque sarebbe
stato impossibile da capire. Non per Lado però.
Perché era l’unico indovinello che conosceva Ricard.
Il quale lo ripeteva ogni volta che poteva. Senza pensarci Lado
rispose: “Il dado”. Veniva il turno di David. Doveva combattere
contro un pesce di dimensioni normali. Sarebbe stato facile se David non fosse
stato così piccolo. Appena lo vide il pesce cerco di mangiarselo. David
sembrava non aver capito quello che rischiava. Cantava, urlava e nuotava
velocissimo intorno al pesce. Il pesce rimase confuso per alcuni minuti. Quando
si riprese pensò che David avesse qualche potere speciale. E scappò via
spaventato. Ora toccava a Donatel. La sua prova
consisteva in una corsa a cavallo di bighe trainate dagli animali che
sceglievano. Lo sfidante scelse due prestanti cavallucci marini giganti. Donatel, tra le urla di protesta dei compagni, scelse due
possenti tartarughe marine. Si misero in posizione di partenza. “Le tartarughe
sono lente!” urlò ancora Carlo. Donatel fece
finta di non sentire. Era concentrato su quello che doveva fare. Fissò
intensamente lo stadio. Sembrava una pista da formula 1 acquatica.
L’arbitro urlò: “Tre, due, uno, viaa!”.
Le tartarughe partirono a tutta velocità. Lo sprint sorprese tutti. I
cavallucci marini dovettero mangiare la polvere delle tartarughe. Ci furono dei
momenti in cui erano pari, ma allora fine vinse Donatel.
Lado chiese a Donatel come
faceva a sapere che quelle erano tartarughe da corsa. Donatel
rispose: “Solo quelli che all’accademia hanno dormito non sanno che
le tartarughe marine sono velocissime”. Lado
divenne rosso dalla vergogna. Toccò successivamente a Ricard.
Gli uomini d’acqua volevano vincere. Non volevano dare quella chiave, che
consideravano di inestimabile valore. Infatti l’avevano chiamata:
“luce del popolo”. Considerandosi i migliori nel loro ambiente
decisero per un gara di nuoto. Chi sarebbe arrivato prima a cento metri di
distanza prendendo una bandierina dal tritone che avrebbe aspettato, avrebbe
vinto. Non sapevano che Ricard si sentiva più a suo
agio in acqua che sulla terra ferma. Per rendere la gara più entusiasmante
l’avrebbero svolta al mare della confusione. Una zona caratterizzata
dalle forti correnti, con caratteristiche uguali su tutta la distesa. Era
presente come fauna solo qualche granchio e la flora era tutta uguale: immensi
coralli grandi come palazzi dal colore verde-acqua. Come gareggiante degli
uomini d’acqua c’era il più veloce. Un ragazzo magrolino, svelto e
molto nervoso, questo era lo sfidante. I due si misero in posizione di
partenza. Al via il ragazzo del lago partì con uno slancio che lo portò in
testa. In poco tempo ebbe raggiunto un discreto vantaggio. Ricard
però non aveva intenzione di farsi battere e accelerò. E poco dopo i due erano
pari. Testa a testa. Curva verso destra, ora verso sinistra. Un grande corallo.
Il ragazzo che conosceva bene la zona passò in una piccola insenatura. Ricard dovette aggirarlo, ma era più veloce del giovane.
Accelerò e fu subito a fianco del ragazzo. Erano davanti alla rapida più forte,
quasi un gorgo. Dopo averla superato sarebbero arrivati alla bandiera.
Cominciarono ad accelerare. Fecero lo slalom tra gli ultimi coralli.
Mettendocela tutta, sempre di più. Una volta nelle rapide divenne tutto più
difficile. L’acqua sferzava in faccia a tutta velocità con una potenza
inimmaginabile. Ricard credeva già di non riuscire a
farcela quando uscì dalle rapide. Il ragazzo del lago era ancora dentro. Ricard si mise a nuotare più velocemente. Quando vide
l’uomo del lago con la bandiera. Il portabandiera cominciò a nuotare per
non farsi raggiungere. Ricard non aveva abbastanza
forze per seguirlo. Ci provo lo stesso. I suoi poteri furono potenziati dalla
volontà. Le gambe divennero una coda di pesce. Il ragazzo fu potenziato. Gli
sembrò di volare. Raggiunse l’uomo del lago e prese la bandiera. Poi
tornò normale. La prossima battaglia l’avrebbe dovuta fronteggiare
Leopold. Avrebbe dovuto combattere contro degli squali voraci senza usare i
poteri. Due grossi squali cominciarono a nuotargli incontro. Dando dentate ogni
tanto. Leopold all’inizio era cosi spaventato che non riusciva a
muoversi. Come un lampo all’improvviso vide il suo trionfo sugli squali.
Poi bruscamente si ritrovava alla realtà. Conosceva quelle emozioni. Aveva
visto il futuro. Nessuno si era accorto di niente. Non aveva violato le regole,
ma quei tizzi fatti d’acqua potevano pensarla diversamente. La certezza
di poter vincere lo calmò. Si concentrò. Si lanciò su uno dei soldati di quel
posto, armato di ascia, e gli rubò l’arma. Con un rapido salto, scansò un
morso dello squalo a destra e gli tagliò di netto la testa. Poi si girò a
sinistra. Si attaccò alla coda dello squalo ancora vivo. Veloce Leopold avanzò
sul corpo squamoso e viscido della bestia. Arrivato al collo piantò, usando
tutte e due le mani, l’ascia. Il sangue delle due bestie morto sporcò
l’acqua tingendola di rosso. Bastò un incantesimo di un mago
dell’acqua per farlo sparire. Però il disgusto degli spettatori non passò
molto presto. A Michelangelo toccava la prossima sfida. Leopold l’aveva
liberato dalle piante che servivano a cucirgli la bocca. La rabbia era
aumentata invece di diminuire. Doveva battersi contro una ventina di quegli
uomini d’acqua, che a prescindere da ciò di cui erano fatti erano solidi.
Una cosa impossibile. I pugni non attraversavano e i loro facevano male.
Bisognava dare pugni davvero veloci e forti per colpirli e fargli male. Le
bombe di fuoco non erano permesse perché facevano evaporare l’acqua. La
rabbia di Michelangelo era tale che si lanciò contro i nemici. In poco tempo
erano tutti a terra svenuti. Li aveva sconfitti a mani nude. Come ulteriore
buona notizia, Michelangelo combattendo si era calmato. Veniva il turno di
Robert. Doveva fronteggiare il mago di quel popolo d’acqua. Al contrario
degli altri uomini che avevano visto quello era più magrolino e meno muscoloso.
Si vedeva che era un mago. Il nemico lanciò un incantesimo. Lo scudo di magia
di Robert fece rimbalzare l’incantesimo addosso ad un ignaro spettatore.
Che si trovo legato da fili invisibili. Robert con un gesto liberò il pover uomo. Poi cominciò a muovere in una strana maniera
braccia e mani. Sembrava stesse ballando con quei movimenti ondulatori. Poco
dopo l’altro cominciò a recitare tutte le formule antiincantesimo
che conosceva. Infine cadde a terra addormentato. Carlo pregò Robert di dirgli
se c’era un modo per fermare l’incantesimo. Robert rispose
semplicemente: “Chiudendo gli occhi”. Quel mago aveva usato tutti
quegli incantesimi e non aveva pensato a chiudere gli occhi. L’ultima
sfida toccava a Carlo. Doveva combattere contro un uomo su una tavola sopra un
burrone. Doveva combattere contro un uomo su una tavola sopra un burrone. Non
sarebbe stato un problema visto che sapeva nuotare,se non avesse avuto le gambe
legate. Saltellava sulla tavola di roccia sollevando miriadi di bollicine.
Fortunatamente anche il nemico aveva le gambe legate. Non poteva nuotare, ma al
contrario di Carlo poteva camminare. Carlo prese a saltare con più vigore.
Ormai le bolle non facevano vedere più niente. Il nemico tirava colpi, ma non
vedeva dove era Carlo e tirava pugni a vuoto. All’improvviso Carlo colpì con
un calcio il nemico. Che sbilanciato cadde. Carlo aveva vinto. Felice si
rialzò, visto che era caduto sulla tavola. Saltellò fino alla regina
d’acqua. Dove fu slegato. Intanto avevano recuperato lo sfidante. Prima
che cadendo si facesse male. Intanto il sole tramontava. Dal giglio giallo che
era divenne una macchia rossa. Il fondale era ormai all’oscuro e la
chiave della regina lo illuminava. Con un viso dolce la regina d’acqua in tutta la sua
bellezza si avvicinò a Carlo. Con voce soave disse: “Contro ogni
previsione tu e i tuoi amici avete vinto. Ti affido la chiave”. Carlo la
prese. L’avvolse in un fazzoletto e se la mise in tasca. Dove per poco
non prese la testa di David. Dopo aver salutato con garbati inchini la regina,
risalirono in superficie. Riemersero stanchi e bagnati. Le bolle esplosero con
un leggero plop. Per scaldarsi Robert accese un
piccolo fuocherello azzurro. Dalla stanchezza si addormentarono senza lasciare
nessuno di guardia. Non era la notte più adatta. Li salvarono i loro sensi. Si
svegliarono sentendo i versi dei loro draghi innervositi. La luce della luna
illuminò delle ombre minacciose. Li avevano circondati. Iniziò una lotta
serrata. Carlo divenne invisibile e prendendo un ramo appuntito a mo di spada.
Vedendo un coltello volare capì che c’era qualcun altro col suo potete.
Era però più goffo. Questo permise a Carlo di individuare il nemico ascoltando
i suoni. Usando il buio era facile non far vedere la propria arma. Carlo sapeva
che non poteva uccidere quegli uomini, al contrario degli orchi che poteva
eliminare. Recitò in fretta l’incantesimo che permetteva alla sua arma di
non uccidere, ma di teletrasportare il
nemico in prigione. Il nemico credendo fosse un mago, non sapeva che sapeva
fare solo quell’incantesimo, attaccò con più foga Carlo. Lo costrinse ad
arretrare. Riprendendo il vantaggio Carlo lo infilzò. Teletrasportandolo in
prigione. Carlo scorse troppo tardi di un altro assalitore. Sentì una fitta
alla testa. Poi più nulla.
Nel frattempo Aido
riapriva gli occhi. Sentiva un odore nauseante e non vedeva niente. Doveva
essere stato drogato più volte. Lo capiva dai segni di punture e
dall’odore di cloroformio. L’altro odore era puzzo di orco. Era
troppo stordito per muoversi ed era legato dalla testa ai piedi. Gli cadde
della terra negli occhi. Doveva essere sotto terra. Non riusciva a parlare, gli
avevano messo qualcosa in bocca. Si rotolò in giro cercando qualcosa di utile. Trovò
un masso appuntito. Cominciò a segare le corde che gli impedivano di muoversi.
Sentì una voce gutturale grugnire qualcosa. Si, c’erano orchi. Non erano
soli visto che arrivò un mago. Aido si fermò e chiuse
gli occhi facendo finta di dormire. Il mago dinanzi a lui disse:”Orchi
che gli avete fatto? Di solito dopo venti minuti comincia a muoversi e devo
narcotizzarlo di nuovo. Oggi invece dorme come un ghiro”. E stizzito si
girò per andarsene. Aido con la mano che era riuscito
a liberare prese il masso appuntito. Recitò la formula per teletrasportare il
nemico dove meritava. E lanciò colpendolo alla schiena. Il mago sparì senza
emettere un suono. Dopo circa un ora Aido sentì i
grugniti nervosi e spaventati. Uno ipotizzò che fossero in una caverna
maledetta. Poi uno di loro sovrastò le altre voci dicendo: “Siamo in
quattro. Che vuoi che ci succeda. Andremo avanti nella nostra missione.”.
Si avvicinarono ad Aido non ancora del tutto libero e
lo narcotizzarono di nuovo.
Dopo parecchi giorni di incoscienza Carlo a
fatica a poco a poco si riprese. Aprendo gli occhi fu abbagliato dalla luce. La
testa gli doleva. Sentì una voce familiare. Era Miriam. Gli diceva con una voce
bassa e roca, che non sembrava la sua, di riposarsi. Carlo tornò a dormire. Alcuni
giorni dopo si svegliò ancora. Si guardò intorno. All’inizio vide sfocato.
Trovò Miriam e Robert addormentati inginocchiati per terra ai piedi del suo
letto con le teste appoggiate sulle coperte. Tutti gli altri addormentati su un
altro letto. Carlo si alzò senza svegliarli. Adagiò Robert e Miriam sul letto
dove stava prima. Si affacciò e vide i draghi. Era in una stanza ben
ammobiliata. Doveva essere una casa. In quel momento si svegliò Ricard. Quando vide Carlo scoppiò di gioia, cercando di
farlo silenziosamente. Gli si avvicinò e disse: “Sono feliceche ti sei svegliato. Ora però coricati”.
Scostò i ragazzi addormentati. Dopodiché fece rimettere Carlo a letto. Carlo per
scherzare disse: “D’accordo mammina”. Ricard
gli rispose: “Ah Ah. Molto divertente. Devi sapere però che loro- indicò
il resto della squadra – hanno fatto molto per te. Miriam ha usato al
massimo i suoi poteri curativi. Robert ha usato tutti gli incantesimi di
guarigione che conosceva. Leopold ha fatto crescere piante medicamentose. Lado ha usato i suoi poteri di elfo. Lotshar
non la finiva di piangere. Draghin ululava dalla
disperazione. Michelangelo non ha mangiato e dormito”. Carlo guardò gli amici
con riconoscenza. Guardando Ricard capì che doveva
essere stato preoccupato anche lui. Aveva un aspetto terribile, i capelli in
uno stato disastroso e delle enormi occhiaie. Dopo essersi riposato un paio di
giorni Carlo iniziò a dare segni di irrequietezza. Voleva ripartire al più
presto. Avevano già perso troppo tempo. Una sera accadde qualcosa che gli fece
capire il potere del nemico. Pioveva. I ragazzi dormivano. Carlo sognava di
volare a cavallo di Draghin. Guardando giù vide
Miriam che lo chiamava. Arrossì dalla vergogna. Quando cominciò a cadere in un
vortice rosso. Si sentiva nauseato e voleva vomitare di getto. Atterrò. Vide da
un lato un enorme gufo e dall’altra dei teneri passerotti. Poi sparirono.
Al loro posto apparve un bosco. In una parte il sole e dall’altra parte
la luna. Al centro c’era un oscuro uomo. Era coperto da un mantello col
cappuccio di un nero cupo. Non si vedeva niente di lui. Carlo si avvicinò, ma
quello sparì. Al suo posto c’erano colombe e pipistrelli viola Carlo
cadde di nuovo nel vortice. Si svegliò urlando. Anche gli altri si svegliarono
sudati urlando. Soltanto guardandosi capirono di aver fatto tutti lo stesso
sogno del vortice e dell’uomo incappucciato. Turbati decisero di
ripartire alle prime luci dell’alba. Salutarono i padroni di casa. Gli
zii di Lotshar. Che si erano trasferiti lì anni
prima. Dopo che Carlo era stato ferito, gli altri avevano fatto fuggire gli
assalitori. Avevano trovato Carlo ferito alla testa. Lotshar
aveva riconosciuto il luogo. E li aveva condotti dai suoi zii. Una volta sul
suo drago di nuovo a solcare i cieli, Carlo dimenticò il suo strano sogno.
David che aveva riposato tranquillo nella tasca ignaro degli eventi di quei
giorni, ne uscì sbadigliando. Indicò Nord e tornò a dormire. Presero l’unica
strada che portasse alla Terra delle Rocce senza incappare in nemici. Cominciò
a sparire la natura. A inasprirsi il suolo. E si cominciarono a vedere solo
rocce. Atterrarono sul monte ossa. Chiamato così perché in quel monte erano
morti in tanti. C’erano ovunque gli scheletri di persone cadute in
crepacci. Per spaventarli di più Ricard cominciò a
raccontare la storia che gli aveva narrato lo zio di Lotshar.
“Sapete- iniziò- che su questo monte abitava un ragno e peloso che
mangiava uomini - Ricard toccò la schiena di Miriam
che urlò spaventata – un giorno uncoraggioso uomo e la sua compagna elfa salì su
questo monte e lo colpì con una freccia”. Lado
ebbe un brivido non sapendo perché, accelerò istintivamente l’andatura.
Gli altri non capendo fecero altrettanto. Dopo un bel po’ di cammino si
ritrovarono dinanzi a un ponte di legno tremolante sospeso nel vuoto. Carlo,
memore di tutti i film d’avventura che aveva visto quando la tv del nonno
funzionava, disse: “Non c’è un'altra strada?”. Nel frattempo Robert
era già andato avanti, non essendosi accorto che gli altri erano rimasti
indietro. Dopo un paio di passi, il ponte si mise a dondolare pericolosamente. I
ragazzi decisero di passare uno per volta. Arrivato a un terzo del ponte una
tavola cedette sotto il peso di Robert.. Che non cadde riprendendo l’equilibrio
con un passo indietro. Arrivato a metà ponte le corde si spezzarono. Robert si
aggrappò a una di esse. Tutto il ponte si disfece e Robert si ritrovò aggrappato
a una corda. L’altro capo della corda era legato a un palo che pian piano
si stava sfilando dal terreno. Carlo lo afferrò. Il peso era eccessivo, cadde a
terra senza mollare la presa, la corda scese facendo precipitare per un tratto
Robert. Gli altri accorsero per aiutare Carlo a salvare Robert. Donatel legò la corda a un albero. Quando issarono Robert
Leopold gli porse una mano per aiutarlo a salire. Piegato dalla fatica col
fiatone Robert disse:” Scusa se non ti ho ascoltato Carlo”. “Non
fa niente, l’importante e che tu sei vivo” rispose il giovane
sorridendo. Proseguirono fino a un altro ponte. Questo era diverso. Era un enorme
scheletro di dinosauro. Si poteva passare dalla bocca aperta, proseguire per la
spina dorsale poi sulla coda fino all’altra sponda. Ed è quello che
fecero uno a uno. Per loro fortuna stavolta non accadde nulla. Andarono avanti
per tutto il giorno. La sera si fermarono a mangiare. Mentre prendevano le
vivande dai loro zaini sentirono un rumore. Sembrava ci fosse qualcuno.
Andarono in direzione del suono e lo videro.
Aido era sballottato in giro. Non aveva idea di dove lo
stavano portando e questo lo innervosiva. Aveva provato a fuggire rotolando
via, mentre stavano litigando. Un orco, grazie al loro sviluppato olfatto, lo
aveva riacciuffato. Ora non solo le corde erano più strette, ma era sempre
controllato da almeno due orchi. Almeno le scorte di sonnifero stavano finendo.
Aveva tutto il tempo per pensare. Pensava soprattutto ai suoi allievi, al suo
drago dorato Flasch rimasto solo
all’accampamento. Una sera uno dei due orchi dormiva e l’altro voltato.
Aido pensò fosse il momento per scappare. Prese un
grosso sasso coi piedi e con uno strano movimento del corpo colpì l’orco
alla testa. Facendolo cadere a terra. Il tonfo del corpo che cadeva svegliò
l’altro orco. Aido si rotolò e cadde addosso al
secondo orco. Che sbatté la testa. Prima di perdere i sensi l’essere urlò
con tutta la sua forza. Gli altri orchi accorsero e immobilizzarono Aido.
Era un grifone quello che videro i ragazzi. I
draghi erano innervositi da quel animale. Sul dorso del grifone c’era una
donna, che sembrava un abitante del lago dove avevano trovato l’ultima
chiave. Era una ninfa dei boschi. L’avevano vista sui libri
dell’accademia. Era l’unico tipo di ninfa intelligente. Esseri
unici. La ninfa spronò il grifone e volò via. Carlo montò a cavallo di Draghin e volò via. Gli altri seguirono il suo esempio. Arrivarono
in un luogo strano. Sembrava un tempio greco, con qualche differenza. La ninfa
e la sua cavalcatura attraversarono un portale che sparì immediatamente, che
sembrava portare a un'altra dimensione. Guardinghi i ragazzi si avviarono
all’entrata. Li c’erano, vivi, un leone con la criniera e la punta
della coda di fiamme e un lupo dal manto che sembrava un cielo nero puntellato
di stelle d’oro e d’argento. Ringhiavano, ma si tenevano a distanza
per via dei draghi. Uscì una donna molto vecchia. Aveva un lungo abito
decorato; un alto cappello tempestato di gioielli; grandi mani rugose, ma un
viso perfettamente liscio; grandi occhi dolci che cambiavano colore in
continuazione; un sorriso enigmatico; lunghi capelli bianchi raccolti in una
coda che toccava il terreno. La donna disse: “Giorno, Notte, buoni!
Scusateli. Io sono la dama della saggezza, del tempo e dello spazio, custode di
mille segreti e altrettanti poteri. Signora della luce e del tutto sorella del
buio e del nulla. Madre del protettore delle ore degli uomini. Voi però chiamatemi Tempo”. I ragazzi non
erano sicuri di aver capito tutto il discorso. A parte di chiamarla Tempo.
All’interno il tempio era enorme. Un labirinto di porte, scale e stanze.
C’erano in continuazione portali da dove uscivano le persone o le cose
più disparate. Il portale svaniva. Ciò che era uscito gironzolava per un
po’ e quando appariva per pochi secondi un altro portale ci si tuffavano.
I ragazzi arrivarono a una grande sale dove c’erano soltanto dieci
poltrone. I ragazzi e la donna si sedettero. Tempo gli disse: “Io vi do
la pietra della saggezza da incastonare nella chiave. Il resto ve lo darò dopo
che avrete sofferto”. Detto questo i ragazzi furono teletrasportati
all’esterno. Spaventati da quella frase si incamminarono un altro
po’. Finché stanchi si fermarono a riposarsi. La mattina Leopold, che
aveva fatto l’ultimo turno di guardia, lì svegliò. Carlo controllando che
le chiavi fossero tutte trovò qualcosa in più. Un luccicante zaffiro con
incastonato al centro una piccola acqua marina. Fu come se la pietra
sprigionasse un aurea che lo ipnotizzava. Fu Michelangelo a risvegliarlo dal suo
torpore. Urlava: “Guai, se ci siete battete un colpo”. Come a farlo
apposta apparvero gli orchi dell’esercito nemico. Carlo si mise a correre
domandandosi come mai gli orchi fossero lì e non sul campo di battaglia. Sembrava si fossero accaniti su Lado e Carlo. I ragazzi combatterono dando il meglio di se
fino allo stremo delle forze. Il combattimento durò tutto il giorno. Quando ormai
la situazione era critica, cioè erano in una caverna con le spalle al muro e
gli orchi all’entrata, Ricard lanciò un getto
alla montagna di fronte. Che crollò schiacciando gli orchi. I ragazzi uscirono
da una piccola apertura arrampicandosi tra le rocce. Andando avanti si
accorsero che Ricard era rimasto un po’
indietro. Sembrava camminasse a fatica, ma non si lamentava. Passarono alcuni
giorni in quelle montagne credendo alla fine di essersi persi. Il monte era
identico alle montagne nebbiose, al monte neve e alle altre montagne della
terra delle rocce. David sembrava sicuro. Un giorno uscì dicendo: “Siamo
al monte tetro. Dovete cercare la voragine del buio. Calarvici.
Lì troverete la prossima chiave.”. All’improvviso al suo interno
apparve una piccola nuvoletta. Ci si poteva sedere una sola persona. Presero la
decisione che in quel luogo oscuro ci sarebbe andato Carlo. Insieme a Robert
con la levitazione. E nello stupore generale anche Lotshar
ci voleva andare teletrasportandosi. In realtà perché aveva più paura a stare
fuori. Carlo si sedette sulla nuvola che cominciò a scendere. Ci sarebbero
potuti andare coi draghi se il precipizio non fosse stato così lungo e così
stretto. Ci passava appena un uomo. Man
mano che scendeva non vedeva più nulla. Solo oscurità. All’improvviso la
nuvola toccò terra. Carlo scese. Orientandosi toccando le pareti. Sentì dietro
di se il piccolo tonfo che significava che era arrivato Robert. Andò a sbattere
con qualcosa. Sentendo l’urlo di dolore di Lotshar
capì con cosa aveva sbattuto. Erano tutti e tre lì. Pian piano la vista di
Carlo si abituò al buio. E scorse una figura. Lo disse ai compagni. Robert
accese il suo fuocherello con il palmo della mano. In lontananza c’era un
uomo.
Intanto gli altri guardavano il buio del
precipizio preoccupati. Un grugnito fece tremare la terra. Alle loro spalle
c’era un troll di montagna. Leopold senza perdersi d’animo cominciò
a concentrarsi. Una foresta di radici imprigionarono il troll. Lado scoccò la freccia fatale che lo colpì alla testa. Lo
sforzo aveva fatto in modo che Leopold non potesse usare i suoi poteri per tre
giorni.
Ringraziamenti:
berry345 Quoto la cacciatrice professionista nella
discussione fra storie. Se no rischiamo di andare avanti in eterno, o forse tu
alla fine dici che è la tua a essere migliore. Spero che anche questo capitolo
ti sia piaciuto. Come sai io faccio gli aggiornamenti lampo. Adesso so chi sono
i personaggi nuovi, hihi. Fammi sapere cosa hai
pensato del chappy, baciotti
Milli_lin Esistono tema Fantasy?
Non ne sapevo nulla. Magari lo avessi potuto fare io un tema così. Allora il 5
mi ha sorpreso, le tue storie sono così avvincenti (p.s.
gli occhi di due colori diversi non hanno copyrite
perciò li considero opera tua e basta Ndme). Penso
che tu abbia il mio stesso problema. Ai compiti di italiano prendevo brutti
voti a volte non perché il tema non andava bene, ma gli innumerevoli errori di
grammatica. Anzi i miei erano più “orrori”. No, non sei sclerata, anche a me i brutti voti non piacciono. No, Donatel è ispirato a mio cugino, il mio migliore amico. Hai
ragione su Miriam, ispirata a un’amica del cuore, che adesso purtroppo
posso sentire solo su Msn che io chiamo
affettuosamente “la mia musa”. Fuori due, il cerchio si restringe.
Anzi abbiamo eliminato anche Aido. Devo dire che hai
spirito di osservazione, ma gli indizi lasciati sono altri. Me malefica. Fammi
sapere cos hai pensato del capitolo, ciao.
Con la luce prodotta da Robert videro lo
strano personaggio che gli stava di fronte. Era un vecchio. Vestito di nero con
gli occhi rossi e i capelli neri. Con voce profonda: “Vi aspettavo, mia
sorella mi aveva preannunciato il vostro arrivo. Tenete la chiave. Sapete che
dovrete soffrire, ma non sarà qualcosa di terribile”. Detto questo gli
consegnò una chiave di cristallo nero. Lotshar si teletrasportò fuori felice di
essere uscito. Poi fu il turno di Robert di uscire. Infine Carlo a bordo della
nuvola. Una volta fuori, dopo che Carlo era a terra, la nuvola vide Michelangelo.
Scambiandolo per un suo vecchio padrone gli si attaccò. Voleva essere la sua
cavalcatura. Questi discorsi ingelosirono Fiamma. Che ruggendo fece scappare la
nuvola. Che rimpicciolendosi si mise nello zaino di Michelangelo. Ripartirono
alla volta della prossima chiave. Ricard
era di nuovo rimasto indietro. Gli amici ormai si erano abituati a quel suo
strano modo di camminare. Ogni volta che gli chiedevano come stava rispondeva
bene quasi arrabbiato. Era da dopo che avevano sconfitto gli orchi che aveva quello
strano comportamento. Affaticato Ricard si aggrappava alle fronde degli alberi.
Finchè stremato cadde in ginocchio con un lamento. Carlo sentendo Ricard gli
andò in aiuto. Ricard cercò di allontanarlo assicurandogli che stava bene. Il
dolore lo tradì. Carlo si accorse che Ricard si teneva la pancia. Alzò un
po’ il gilè e la maglietta e vide che aveva una grande ferita alla
pancia. Il sangue aveva sporcato la maglietta. Donatel aiutò Ricard ad alzarsi.
Sapeva cosa fare in questi casi. Suo zio essendo medico glielo aveva insegnato.
Ricard rosso dalla vergogna ammise: “Quando mi sono sporto fuori dalla
caverna per lanciare il getto d’acqua un orco mi ha colpito. Per non
rallentare la spedizione non ho detto nulla”. I ragazzi decisero di
trovare un riparo perché Ricard non poteva andare avanti in quelle condizioni.
Camminando un'altra mezza giornata avvistarono una città. Era una città nemica.
Decisero che si sarebbero fermati lì fino alla guarigione di Ricard.Prima di entrare Robert cambiò
l’aspetto di Miriam. Perché le donne non erano ammesse. La fata si cambiò
anche d’abito. Si mise la maglietta e i pantaloni che gli avevano dato in
fondo al lago. Entrarono spacciandosi per dei menestrelli. Lasciarono i draghi
nelle scuderie. Girarono fino a sera in cerca di una taverna. A sera erano
esausti. Lotshar dalla stanchezza andò a sbattere contro un energumeno. Che si
mise a urlare: “Vi sfido a duello mocciosi”. E si mise a ridere
come un pazzo. Carlo ne approfittò e lo disarmò. L’uomo impressionato
cambiando atteggiamento (fife eh? NdA) disse: “Amici. Cosa cercate?”.
Ricard prendendo in mano la situazione disse: “Siamo umili menestrelli.
Siamo stati attaccati dai predoni. Che mi hanno ferito. Stiamo cercando una
taverna dove mi possa curare”. L’uomo gioviale disse: “Venite
vi porto alla taverna del cinghiale”. I ragazzi si lasciarono condurre.
La taverna consisteva in un palazzo lungo e stretto di due piani.
L’insegna era caduta per terra. Una volta entrati un tanfo di carne
putrida li assalì. Era un luogo frequentato da molti brutti ceffi. I ragazzi si
sedettero a un tavolo a mangiare. I bicchieri erano sporchi. L’acqua
maleodorante, erano certi non fosse potabile. Arrivò l’oste portando una
brodaglia dentro” cui galleggiavano strane cose. Lado ci trovò un occhio.
Ad un certo punto un soldato del Generale Barden si alzò dicendo: “Festeggiamo.
Menestrelli cantate. Ricard sorretto da Donatel cominciò a cantare. Gli altri
gli fecero eco. Cambiarono qualche parola. Alla fine Michelangelo, vedendo che
Ricard era sul punto di cadere a terra, disse: “Ci piacerebbe fare il
bis, ma il mio amico è ferito. Preferiremmo andare nella nostra camera”.
L’oste li accompagnò in una camera provvista di quattro letti a castello.
Robert avrebbe dormito per terra. Donatel cominciò a curare Ricard. La ferita
aveva fatto infezione. Era troppo profonda perché i poteri di Miriam
funzionassero. Robert non poteva recitare gli incantesimi di guarigione perché
un altro mago avrebbe avvertito la sua presenza. Lado non poteva ancora usare i
suoi poteri. La ferita per guarire ci avrebbe messo alcuni giorni. Quella notte
apparve la stana figura che avevano sognato. I ragazzi si svegliarono e
trovandosela davanti si spaventarono. Con voce calma e rassicurante la strana
figura disse: “Non abbiate paura io sono qui per aiutarvi”.Detto questo si avvicinò. Robert
l’attaccò, senza usare la magia. Lei alzò la mano. Robert si bloccò
immediatamente. Gli altri non riuscivano a muoversi. L’essere iniziò a
succhiare. E Robert cadde a terra svenuto tremando. L’essere stava per
riprendere a succhiare, quando Miriam attirò la sua attenzione. L’essere
si avvicinò a lei. Carlo corse in suo aiuto. In quel momento David si svegliò.
Vedendo l’essere cominciò a urlare: “Veggente c’è
l’incappucciato!!!”. Apparve il veggente. I due cominciarono a
lottare furiosamente. Dopo un po’ la luce dell’alba si affacciò
alla finestra. E i due sparirono. David rassicurò tutti dicendo che quei due
non si sarebbero fatti più vedere. Robert si riprese dicendo che era come se
quell’essere gli avesse succhiato la felicità.Quella mattina inaspettatamente Ricard disse:
“Avete visto cosa è successo. Quanto Barden sia forte. Non abbiamo tempo
da perdere. Rischiamo di essere sconfitti. Lasciatemi qui. Vi raggiungerò
quando sarò guarito. Ok?”. Dopo aver discusso tutta la mattina Ricard li
convinse. A patto però che Donatel restasse con lui. Invece Tempesta e Tecno
andavano insieme agli altri. A malincuore ripartirono. Michelangelo, Lado e
Leopold piansero tutto il giorno. Tempesta e Tecno invece non capivano dove
fossero i padroni e ululando li cercavano. Robert, una volta lontano dalla
città, ridiede il vero aspetto a Miriam. La sera Tempo apparve. Lasciando a Carlo
la chiave. Era d’oro con un foro dove Carlo incastonò la pietra. Ora
tutta la chiave emanava quella strana aura. Matteo la mise in tasca.
Aidointanto non se la passava tanto bene. A tutte le misure di sicurezza
avevano aggiunto l’abitudine di appenderlo. Fortunatamente non a testa in
giù. Una sera arrivò, come ulteriore guardia, qualcuno che Aido conosceva fin
troppo bene. Era Lindar. Era una Banschee. Erano donne bellissime che potevano
trasformarsi in esseri orribili. Era stata la sua fidanzata finche non era
passata al nemico. Gli si avvicinò ridendo. Era ancora bella, anche se non era
più una ragazza, ma una donna. I suoi poteri ammaliatori funzionavano ancora
visto che gli orchi le sbavavano dietro. Smettendo di ridere disse: “Guardate
ora il grande condottiero. Ridotto ad un salame. Peccato che non hai capito chi
era il più forte”. Detto questo si andò a sedere. Aido avrebbe fatto
qualsiasi cosa per levarsi quel bavaglio. Lo sputò, ma era legato dietro.
Arrabbiato diede una spinta a un orco. Quello, però, ammaliato com’era,
non se ne accorse. Forse l’arrivo di Lindar era un vantaggio.
Carlo volando risparmiò un bel tratto di
strada. Gli altri volando a cavallo dei draghi lo seguivano. Quando videro un
accampamento nascosto tra le montagne, gli si avvicinarono. Arrivati lo
trovarono deserto. Credendo non ci fosse nessuno fecero per andarsene.
All’improvviso uscirono decine di uomini armati. Un imboscata.
Ricard e Donatel non se la passavano male. I
soldati erano ripartiti alla volta della battaglia. Con felicità di Ricard
anche i “senza sentimenti”. Soldati privi di umore, sempre seri. La
città era svuotata. I pochi cittadini rimasti, soprattutto forgiatori di armi,
andavano a sentire le canzoni di Ricard e Donatel. Che si pagavano vitto e
alloggio in quella locanda maleodorante. Ricard aveva una bella voce e Donatel
conosceva parecchie canzoni. Come ulteriore buona notizia la ferita migliorava.
Anche se era ancora infetta. Una sera però la pacchia fini. Entrò nella locanda
un signorotto pomposo. Con al seguito le guardie scelte di Barden. Ricard non
era in grado di lottare. Donatel da solo contro un centinaio di uomini scelti
dai poteri inimmaginabili era in netta minoranza. Il signorotto disse: “Sono
i cantastorie che cercavamo per il compleanno del supremo Barden”. Con le
lance puntate al collo, i ragazzi furono costretti a salire a bordo di una
carrozza con le due guardie più forti. La carrozza era viva. Le uscirono due
gambe con cui prese a correre a grande velocità. Uscirono delle corde da tenda
che legarono Ricard e Donatel.
Carlo e gli altri erano stati circondati. Il
capo del gruppo nemico si fece avanti. Una fata adulta con capelli blu al vento
e due infuocati occhi rosa. Quando vide Miriam le saltò al collo dicendo: “Sorellina,
che ci fai qui?”. Miriam rispose: “Stella che ci fai tu qui?”.Stella orgogliosa rispose: “Organizzo
la resistenza nella Terra delle Rocce”. Stella incuriosita domandò: “Che
ci fanno sette ragazzi e nove draghi sperduti nelle montagne?”. Carlo
prese la parola dicendo: “Siamo in missione segreta”. Stella
squadrò Carlo con sguardo indagatore. Tornando alla sorella disse: Non vi
chiederò niente. Vieni e porta anche i tuoi amici”.Li condusse ad una tenda. Sedutasi in una
poltrona, forse l’unica del campo,parlò di nuovo: “Questa è la
tenda del capo. Tutti questi ribelli li comando io”. Insistette per farli
rimanere alcuni giorni. Dopo tre giorni. Carlo gentilmente le disse: “Non
possiamo rimanere. Abbiamo addirittura lasciato dei compagni dalla fretta. Cerchiamo
delle chiavi magiche”. Stella rise e mostrando una chiave d’oro
disse: “Come questa? Me l’ha data un centauro che andava in giro
con un satiro. Dicendo che la dovessi dare ad un prescelto che la cercava. Sei
tu?”. Carlo non indecisione fece segno di si col capo. Stella con
espressione seria gli porse la chiave e disse: “La Terra della Luna è la
terra di Barden. Non potete portare i draghi. Li terrò io. Quando sferrerai
l’attacco manforte. Non chiedermi come lo so”. Carlo prese la
chiave e con un altro cenno di assenso uscì dalla tenda. Il giorno dopo con
nuove scorte, dopo aver salutato, ripartirono. Quando gli altri seppero della
chiave si lasciarono sfuggire un urlo di gioia. Avrebbero voluto che Ricard e
Donatel fossero con loro. Già gli mancavano i draghi. A Carlo mancavano anche i
maestri: Aido e Asches. Si avviarono. Pian piano il terreno prese a scendere.
Un odore di salsedine gli entrò nelle narici. Superarono l’ultima roccia
e lo videro: il mare. Andarono a un porticciolo. Guadagnarono qualche spicciolo
cantando qualcosa. Con i quali si imbarcarono in una nave di commercianti.
Intanto Aido riconobbe il luogo dove lo
stavano portando. Erano le segrete del palazzo di Barden. Le aveva viste in
fotografia. Gliele avevano mostrate alcuni colleghi per spaventarlo. Si diceva
che facessero cose terribili ai prigionieri. Lui era stato tanti anni in
battaglia, non si spaventava facilmente. La ferita nel suo cuore lasciata da
Lindar si era riaperta. Sapeva perché era passata al nemico. L’avevano
accusata ingiustamente di aver tradito. Tanti anni passati a combattere il male
non dissuasero i giudici. Anche se Aido si era opposto fino a dare la sua vita
per la salvezza di Lindar, decisero di giustiziarla. La sera prima dell’esecuzione
della condanna era andato a liberarla, ma il Generale Barden era arrivato
prima. Aido tornando al presente capì che non poteva fuggire. Erano
sott’acqua. Quelle segrete erano famose anche perché all’interno si
annullavano i poteri del prigioniero.
Le carrozze furono velocissime. Raggiunsero
il mare in poco tempo. Le gambe rientrarono e al loro posto apparvero pinne e
gambe dai piedi piatti e palmati. Dopo di che quelle strane vetture si
tuffarono in acqua. Presero a nuotare con la stessa velocità con cui
camminavano. Puntavano verso il castello di Barden. Ricard cercava di slegarsi
dalle corde, senza farsi notare dalle guadie. Però le corde erano troppo
strette, Donatel invece studiava un piano.
Carlo non avendo molti soldi dovette
accontentarsi della stiva. In mezzo alle spezie e alle galline. Sommersi tra le
penne il viaggio procedeva. Al sesto giorno di viaggio la nave si fermò. Dopo
non molto tempo, rumori poco rassicuranti si fecero udire. Dei pirati scesero
nella stiva. Il resto dell’equipaggio o era stato ucciso o era fuggito o
arruolato in quella ciurma di pirati. Il capo dei pirati si avvicinò a Carlo.
Che lo osservò. Era un tipo non troppo alto, sfolgoranti capelli rossi
ingrigiti sulle basette dall’età, una folta barba fulva, una grossa
pancia, due occhi marroni con una strana luce all’interno, un naso a
patata e un sorriso agghiacciante. Disse: “Siete fortunati. Io e mio
fratello abbiamo bisogno di uomini. Abbiamo attaccato perché il capitano di
questa nave era nostro nemici. Non siamo troppo cattivi. Tu ragazza sarai la
cuoca. Tu biondo con quell’elfo sarete i mozzi. Tu con la maglietta rossa
mi porterai il cibo nella mia cabina e anche a mio fratello. Tu conquelle strane spade lo porterai
all’equipaggio. Tu con l’armatura, che tremi, tappezzerai le vele”.
Così lasciarono quella nave di morte per salire su quella nave nera; con le
vele dello stesso colore su cui è disegnato un teschio con sotto due ossa
incrociate illuminate dal sole che rende il bianco accecante. La vita sulla
nave pirata andò avanti velocemente come il viaggio. Carlo vide il fratello del
capitano. Era massiccio, ma non troppo alto. Scuro di carnagione, con capelli
neri che mancavano sopra il cervelletto. I due fratelli erano coraggiosi, anche
se non si facevano scrupoli a uccidere a sangue freddo.
Ricard e Donatel furono condotti al palazzo
di Barden. Ognuno aveva la sua camera. Erano sontuose. Però avevano le sbarre
alle finestre e due guardie davanti alla porta. Che li seguivano ovunque.
Tranne al bagno, dove c’erano strapiombi oltre le finestre. Donatel curò
la ferita di Ricard che stava guarendo. Anche se il non averla potuta curare su
quelle strane carrozze non era giovato.
Aido fu sbattuto bruscamente nella cella.
Dove fu prima legato con pesanti catene e poi slegato dalle altre corde. Non
c’era luce, ma dal rumore capì che c’era un altro prigioniero.
I giorni sulla nave sembravano tutti uguali.
I ragazzi non sopportavano nessuno a parte i capitani. Sembrava che tutte le
canaglie, i brutti ceffi e i malvagi mutilati si fossero dati appuntamento
sulla nave. Un pomeriggio i ragazzi erano tutti seduti sul ponte circondati da
occhiate furtive. Quando videro il segno che erano vicini. C’era un
gruppetto di isole. Su ognuna c’era un castello. Con torri tonde,
quadrate, senza torri simili a prigioni o a fortini. Al centro risaltava un
castello oscuro che sembrava guardasse tutti con cipiglio malvagio. Era il
castello di Barden. Possedeva il fascino che ha ogni cosa mortale. Non sapevano
che i loro amici e il maestro erano lì. Il vascello dei pirati non era
autorizzato a passare il confine. Un mago di Barden evocò una tempesta magica.
La tempesta avvolse la nave. Che cominciò ad essere sballottata prima a destra
e poi a sinistra. Lotshar vomitò cinque volte in due minuti. Miriam e Robert
alzarono delle barriere protettive. Il potere della tempesta era troppo forte.
Pezzi della nave saltavano per aria. Si crearono tornadi e non c’era
Donatel a fermarli. Carlo all’improvviso ebbe un’idea. Si ricordò
del potere di quella chiave che lo stava ipnotizzando. Tirò fuori le chiavi. Il
loro potere si espanse e la tempesta cessò. Carlo nascose le chiavi prima che i
pirati le vedessero. I capitani gli furono tanto riconoscenti che decisero di
portarli alla loro meta. Calò in fretta la sera. E venne la notte. La ciurma
non voleva prendere ordini da dei ragazzini. Decisero di cambiare la rotta. Per
poi ammutinarsi. All’alba si svegliarono come ogni altro giorno. Però
ebbero una brutta sorpresa. Erano in procinto di cadere da una cascata e sotto
c’era un gorgo. La ciurma impazzita dal terrore si tuffò cadendo nel
gorgo. Rimasero i sette ragazzi e i due capitani. Lado ricordò che in caso di
pericolo cascate doveva cantare una canzone o per meglio dire una litania
magica. Subito apparvero delle sirene con capelli d’alghe e vestite da
mille conchiglie colorate. Presero la nave e la portarono al sicuro vicino alla
terra ferma. I corsaridecisero di
aiutarli nella loro missione anche senza ciurma. In un modo o nell’altro
erano arrivati alla Terra della Luna. Chiamata così perché era perennemente
nella notte. Un pianeta era posizione tra la stella e la Luna di Iego proprio
sopra la terra della Luna. Svegliarono David in malo modo, a causa della
fretta, dicendo: “Da che parte ?”. David rispose: “Au[1] là,
di là, si là Au da quella Au parte, là, Au lo dice il Veggente Au che mai Au
mente Ronf[2]”.
Lo rimisero nella tasca a dormire. Vagarono per giorni nella direzione indicata
da David, ma non trovavano niente. Per giunta non vedevano e incespicavano
spesso. Non capivano più che ore erano e si misero a dormire e a mangiare
quando capitava. Quando videro una luce. Corsero nella sua dimensione. Era un
carro guidato da un uomo alto, serio che sembrava averne passate tante.
Fermarono l’uomo. Chiesero a David il nome preciso del luogo dove
dovevano andare. Il folletto con voce assonnata aveva risposto: alla Torre
delle Nuvole. Il viaggio in carro fu più comodo che a piedi. Anche se
sobbalzava ad ogni sasso. Gli adulti davano consigli-ordini ai ragazzi. A Carlo
ricordò quando andava ancora a scuola. Finche si ruppe una ruota.
Aido non sopportava le urla. E vero
c’erano le torture e le risate di Lindar. Erano però le urla che ti
entravano in testa, agghiaccianti, impedendo anche il sonno. Le catene gli
avevano graffiato i polsi e le caviglie sanguinavano. In cella con lui
c’era Tre. Un tipo solitario, serio e imperscrutabile. Era alto, scuro di
carnagione con tristi occhi neri. La chiave stava girando nella toppa. Erano
venuti a prenderlo per la tortura. La solita risata di Lindar. Un gran
condottiero come lui ridotto ad un prigioniero incapace rifuggire agli
aguzzini. Almeno Lindar non voleva guardare le torture, forse c’era
speranza. Fu portato in una stanzetta angusta. Alle pareti una collezione di
oggetti di morte e di tortura. Aido non era tipo da spaventarsi facilmente, ma
non poté reprimere un brivido quando vide il suo aguzzino. Era basso e tozzo,
la testa sembrava incastrata nelle spalle perché il collo era piccolo e
taurino. Aido fu legato al tavolo. Era sempre così. Prima gli facevano domande
a cui non rispondeva e poi lo torturavano. Lo riportavano in cella svenuto.
Ringrazio:
berry345
Puntualissimo, complimenti. Sono felice che quello ti sia piaciuto, spero che
questo non ti deluda. Potrà sembrarti sciocco che io lo chieda sempre, ma è
successo che anche lettori fedeli non abbiano apprezzato tutte le storie. Non
me ne lamento perché grazie alle critiche costruttive posso migliorare, ma
ovviamente gradisco che mi si dica dove ho fallato. Se poi la storia va bene in
se e per se, anche meglio. Ed ecco il seguito. Ciau
Regina oscura Non preoccuparti. L’importante è che
adesso tu te ne sia ricordata. Carlo è il personaggio principale e normalmente
è in quello che mi immedesimo, però non corrisponde. No, il personaggio che
sono io proprio mi assomiglia. Non preoccuparti entro breve ci sarà un
indizione. Spero che il chappy ti sia piaciuto.
Dedicata a mio cugino
Angelo, anche se so che non la leggerà mai. Ringrazio anche solo chi legge.
Cap.8 Una ragazza
Ricard e Donatel
sopportavano sempre meno gli spettacoli a Barden. Avrebbero voluto attaccare il
loro nemico e mandarlo dove si meritava. Donatel e Ricard parlavano spesso.
Ognuno aveva rotto il muro di silenzio dell’altro. Erano diventati molto
amici. Stavano per fare un altro spettacolo quando un orrendo mostro entrò
sbattendo il portone principale. L’essere disse: <>. Barden fece uscire Ricard e
Donatel. Però Donatel aveva lasciato una microspia per sentire.
I ragazzi avanzavano
depressi. Gli adulti erano peggiorati. Avevano dovuto abbandonare il carro. Il
mercante li seguiva perché voleva essere ripagato per il mezzo perso. Come
guida il mercante era ottimo. Una sera Miriam si prese di coraggio e chiese i
nomi agli uomini. Quelli prima vollero sapere i nomi dei ragazzi e poi
risposero. Il pirata fulvo si chiamava Antonio. L’altro pirata: Peppe. Il
mercante si chiamava Tex. Erano seduti intorno al fuoco. Un po’ di luce
in quell’oscurità perenne. Carlo e gli altri raccontarono la loro storia,
omettendo le chiavi, su quel pianeta. Erano felici di essere sul campo di
battaglia. Gli adulti dopo aver ascoltato quelle avventure cominciarono a
considerali di più. Anche Ricard e Donatel che non avevano mai conosciuto.
Arrivati in prossimità della Torre delle nuvole videro una fila di lampioni. A
Carlo ricordò un autostrada. La torre era alta e imponente. Sembrava una
gigantesca torre di Pisa, ma dritta e nera. Davvero arrivava oltre le nuvole.
Cominciarono a salire l’immensa scala. A sera, così pensarono, non era
certo in quel luogo, si fermarono a rifocillarsi. Si addormentarono. Carlo
sentì qualcuno, ma credette di sognare. Dopo diversi giorni passati a salire
arrivarono. C’era la chiave. Aveva dipinte alcune nuvole ed era di
diamante brillante. Carlo vide che c’era davvero qualcuno la prima notte.
Nella torre c’era un fantasmino che disse: “Prendete la chiave così
me ne posso andare, ma c’è una prova da superare”. Infatti non
poteva riposare in pace perché doveva proteggere la chiave. C’era però
una prova. Lotshar fu felice che la paura gli avesse impedito di teletrasportarsi
da solo. Dovevano sconfiggere un mostro, il secondo guardiano. Apparve un
piccolo pulcino giallo dal muso di maiale. Miriam si avvicinò alla creatura
dolce. L’essere si trasformò in un piccolo mostro con gli occhi rossi e
mille denti aguzzi. Era un Gjarg Gjarg: teneri tritatutto (Non mi ricordo dove
l’ho visto, ma è rimasto nella mia mente. Se qualcuno riconosce la tenera
creaturina e il cartone di provenienza me lo faccia sapere. NdA). Miriam non se
ne accorse e continuò ad accarezzarlo. Quello tornando carino comincio a dire: “Cichete[1] Cichete Cichete Cichete”.
Miriam lo prese come mascotte. Se però si avvicinava qualcun altro del gruppo
tornava assassino. Presero la chiave e a bordo della nuvola scesero
velocemente. L’atterraggio non fu dei migliori.
Quello che sentirono
dalla microspia fu: “Abbiamo il nano senza il pugnale e non troviamo
l’elfo che lo ha preso. So che servono per sapere dov’è la pietra
cuore. E neanche l’elfo piccolo e il suo ciondolo. Purtroppo non sappiamo
neanche dove sono le chiavi. Un maledetto veggente ha fermato il mostro d’ombra che lei ha
creato e pio mandato, fortunatamente non è morto. Purtroppo senza questi
oggetti non possiamo esseri sicuri che funzioni l’ arma segreta nascosta
nel castello”. L’orco se ne andò e la cimice si autodistrusse per
non far scoprire i proprietari
Aido e Tre erano nel buio
e imprigionati. Aido gli chiese: “Qual è la tua storia, da dove vieni?”.
Tre rispose: “Provengo da una dimensione parallela a questa, dove tutti si
possono dividere in tanti esseri uguali, ma di carattere diverso. Quelli che si
dividono in due, tre, quattro sono i peggiori e devono scappare se nò possono
essere decapitati; quelli che si moltiplicano in sei, dieci, undici sono
normali e i nobili e migliori sono quelli che riescono trasformarsi fino a
cinquanta, sessanta persone. Io purtroppo faccio parte dei primi. Mi nascosi e
mi allenai per cambiare questa ingiustizia. Riuscii nel mio intento
diventando un giustiziere. Un giorno arrivò a riposarsi sulla nostra dimensione
un gruppo di supereroi. Mi unii a loro. Entrai a far parte dell’armata
contro Barden. Ma un traditore mi ha catturato, non so chi era”. Aido
disse: “Anch’io sono stato catturato da un traditore che non ho
visto”.
Carlo e gli altri
raggiunsero l’unica montagna della Terra della Luna. Un vulcano spento. I
giorni passati a vagare li avevano sfiancati e decisero di fermarsi. Trovarono
una piccola città scavata nelle montagne. Sembrava una miniatura di quelle dei
nani. Chissà che faceva Aido, pensava Carlo. I suoi due maestri appartenevano a
due razze che si odiavano, ma erano amici. La prima cosa che si notava nel
villaggio era il dettaglio che erano tutte donne. La seconda che c’era
più allegria in un cimitero. Era una città di amazzoni. Decisero di alloggiare
in un bangalov che sembrava hawaiano. Il villaggio consisteva in dieci persone.
La vecchia regina Rosaria, dai capelli rossi e grande saggezza. Sua figlia
Elisabeth, una donna alta, bionda e glaciale. La sacerdotessa Mara, religiosa,
maniaca dell’ordine e farmacista-dottoressa. La padrona del bangalov di
nome Mariagrazia, una donna un po’ grassottella, alla mano, la tipica
oste. La vedetta Federica, una bella ragazza dai capelli color
dell’ebano. La guerriera elfa Nairen dai capelli così biondi da sembrare
dorati e dolci occhi azzurri. E altre quattro guerriere. Tra Peppe e
Mariagrazia fu subito amore. Per lei era un dolce orsacchiotto. Per lui un
ottima cuoca, il suo sogno e la donna della sua vita. Mariagrazia per amore
guardia: “Andatevene. Qui ogni sera attaccano gli orchi. Appena tramonta
il sole cominciano a suonare i loro tamburi di guerra”. Dalla descrizione
si trattava dei veri orchi. Ormai si trovavano solo gli incroci tra veri orchi
e goblin. I veri orchi venivano fuori da elfi mutilati ed incattiviti, quelli
che non si incattivivano venivano chiamati domestici e resi schiavi. Raramente
accadeva che il vecchio tipo di orchi diveniva buono. Erano errori. Erano stati
fatti terribili esperimenti anche sui nani. Ma i peggiori ai due tipi di
folletti. Il primo tipo, come David, divenivano piccoli mostri dispettosi. I
folletti, della stessa taglia dei nani, nelle favole simpatici e scherzosi e in
realtà antipatici ed attaccati ai soldi, nei gobelin, folletti verdi maligni.
Carlo chiese se c’erano Troll. L’oste rispose che una volta
c’erano Troll di caverna, di montagna e di prateria, ma li avevano
sterminati. I piccoli supereroi, memori del giuramento in cui promettevano di
aiutare i deboli, decisero di restare ad aiutarle. Antonio si era innamorato di
Mara. Per farsi notare la chiamò bambola con voce da macho. Lei sorridendo
dolcemente si avvicinò. Antonio chiuse gli occhi credendo che lo avrebbe
baciato. A sorpresa lei gli mollò un pugno in pancia dicendo: “Non
chiamarmi più bambola”. La sera arrivò presto. Tamburi sinistri
cominciarono a suonare. La battaglia infiammò tutta la notte. Bastoni rotanti e
incantesimi non si sprecarono. E i ragazzi si potenziarono. In confronto alla
loro evoluzione quegli orchi erano facili da sconfiggere. Peppe usò la sua
forza e la sua mole scaraventando lontano gli orchi. I ragazzi capirono perché
era soprannominato Buldozer. Elisabeth rimase affascinata dall’agilità,
la forza e il sangue freddo di Tex. Mentre Mara, distogliendosi in alcuni
momenti dai suoi incantesimi, vide il coraggio del suo spasimante e si
innamorò. Federica si innamorò di Michelangelo a cavallo della nuvola. Al
mattino era morto un decimo degli orchi, quelli rimasti scapparono. Sarebbero
però tornati la notte successiva. L’intero gruppo decise di restare
tranne Miriam, Lotshar e Carlo. Al mattino partirono salutati da tutti.
Donatel andò da Ricard.
Lo trovò profondamente addormentato. La ferita si era riaperta, la maglietta
era di nuovo macchiata di sangue. Donatel alzò la maglietta e prese a
medicarlo. Ricard non gli aveva mai permesso di alzare la maglietta più di quel
tanto, la curiosità lo vinse. Era tutto fasciato. La sconcertante verità si
fece spazio nella mente di Donatel. Ricard si svegliò e urlò terrorizzato. Donatel
parlando come Lotshar disse: “Sei…un una ragazza”. Donatel
aveva creduto che la voce acuta fosse dovuta all’età. I lineamenti erano
troppo duri per sembrare una ragazza, doveva aver usato qualche trucco. E i
capelli lunghi da duro. Ricard cominciò a spiegare: “Mio padre era
terrestre mentre mia madre della Luna di Iego. Veramente mio fratello si
chiamava Ricard. Io invece mi chiamo Energy. Quando mio fratello gemello seppe
dell’attacco alla Luna venne qui per difenderla. Fu ucciso. Promisi di
vendicarlo. Presi la sua identità. E solo quando quel maledetto generale sarà
morto rivelerò la mia vera identità”. Dopo che ebbe finito Donatel,
Donatel con faccia truce disse: “Tranquilla non rivelerò il tuo segreto”.
Si sentiva tradito, imbrogliato. Era stata il suo, anzi la sua migliore amica,
e non gli aveva detto niente.
Cedro vedeva mutare giorno dopo
giorno la Terre del Verde. Da Quando Barden si era visto in vantaggio, aveva puntato
la sua attenzione su quella terra. Le piante venivano sradicate l’acqua
diveniva palude, l’aria irrespirabile e fabbriche con il loro fumo
oscuravano il sole. Gli orchi sfornavano in continuazione armi dalle grandi
fucine infuocate. I ribelli resistevano, ma erano troppo pochi. Avevano cercato
di convincere altre persone a ribellarsi, ma avevano troppa paura.
Dopo che Tre aveva raccontato la
sua storia aveva insistito per conoscere quella di Aido. Che dopo gli ultimi
tentativi di dissuaderlo si era lasciato convincere. “La mia era una
famiglia di scavatori. Cercatori di argento. Un giorno vidi una ragazza
bellissima. Ci fidanzammo. Per lei entrai nei supereroi. La ragazza era Lindar.
Il resto lo sai”. Tre rise come non aveva mai fatto. Dicendo: “Hai
rischiato tutte queste volte la vita per una ragazza, che ormai una donna, che
ti ha consegnato al nemico?”. Aido era stanco di essere deriso per le
disavventure che aveva avuto. Sentirono dei passi. Non sapevano chi poteva
essere. Erano già stati torturati entrambi. Era un archetto. Tre cambiò
espressione. Quando c’era un nemico diventava oscuro e malvagio.
L’orchetto disse: “Aido dove si trova il tuo pugnale con la gemma?”.
Aido con fare di sfida rispose: “Non ho risposto a domande meno
importanti sotto tortura. Cosa vi fa credere che risponderò a questo?”.
Guardando quella faccia mostruosa con qualcosa di suino, Aido pensò che se non
avesse avuto le mani bloccate avrebbe volentieri strangolato quell’orco.
Ringraziamenti:
olghisch:
Passa pure quando vuoi. Se vuoi quando aggiorno qualcosa ti mando un email. Che
ne dici? Perché ho paura che scrivertelo quando recensisco le tue storie, possa
sembrare che ti recensisco solo per convenienza e non è vero. Mi piacciono
molto le tue storie. Spero che a te possa piacere questa. Ciau
berry345
Grazie, sono felice che tu capisca la mia vita impegnata, ma sono sempre molto
felice di recensirti. Mi piacciono davvero le tue storie. Sono felice che
questa storia ti piaccia. Spero continuerà a piacerti. Un salutone
Milli lil:
Si, la storia si fa sempre più complessa. Nuovi personaggi, divisioni e
scoperte. (Dillo così che magari sembra pure interessante Ndte esasperata). Non
preoccuparti non sono nessuno dei nuovi personaggi. Comunque in questo chappy c’è
un indizione grosso grosso. Fammi sapere se il proseguimento ti soddisfa. A
presto
P.s. Mi
farebbe piacere un tuo commento su un’altra mia storia fantasy: “L’isola
d’oro”, sempre che tu voglia. Ciao e mi raccomando aggiorna presto
la tua di storia che diventa sempre più interessante.
Elisabeth era innamorata pazza di
Tex. Con mille moine cercava di incantarlo. In uno dei suoi tentativi si era
seduta accanto a lui su una panca di pietra. Si era abbracciata a un suo
braccio chiedendogli gentilmente se lui corrispondeva il suo grande amore. Tex
però era impassibile e non dava cenni di volerle rispondere o darle retta.
Inaspettatamenteper amore. Lado e Michelangelo stavano andando a comprarsi una specie
di gelato della Terra della Luna. Quando Michelangelo si arrestò
all’improvviso con occhi spalancati e bocca aperta. Lado
preoccupato scuotendolo urlò: “Che hai? Rispondimi Michelangelo!”. Lado temeva che il suo migliore amico fosse preda di un
sortilegio, di un raggio alieno e chissà cosa, ben lontano dalla verità. Michelangelo
aveva notato Federica e ne era rimasto affascinato. Federica innamorata gli
sorrideva facendogli gli occhi dolci e arricciando con il dito un ricciolo di
capelli neri. Michelangelo cadde a terra svenuto. Lado
preoccupato schiaffeggiandolo credeva fosse morto. Non tutti gli amori però
scalpitavano senza risoluzione. Antonio era riuscito a fidanzarsi con Mara.
Ogni sera attaccavano gli orchi. Fortunatamente sempre di meno. Robert si
guardava intorno, in una di questa sere. Ovunque scene rivoltanti di
piccioncini che sembravano circondati da tanti cuoricini rossi stile cartone
animato. Si chiese perché mai cupido si fosse dato così da fare. Forse solo per
umiliarlo. Perché tra tutti quegli innamorati felici lui si sentiva solo e la
disperazione gli attanagliava l’anima mentre ripensava allo splendido
viso di una dama di pietra che gli aveva rubato il cuore. Le aveva promesso di
rivederla, ma più il tempo passava, più perdeva speranza. Una musica arrivò
solo alle sue orecchie e mentre gli altri, troppo impegnati dai loro cuori che
battevano forti per chissà quale compagno, non se ne avvidero. Robert si sentì
strano. I suoi occhi grigi divennero spenti. Cadde in trance e sparì nell’oscurità
della notte.
I tre ragazzi si stavano riposando
su una diga. Carlo
fissava Miriam che riposava. Era il turno di notte. Carlo amava
guardarla dai tempi dell’accademia. Di notte i suoi capelli blu
sembravano assumere la tonalità del caldo e rassicurante manto celeste e la sua
pelle di fata sembrava diafana. Era passato quasi un anno dal loro primo
incontro, ma gli sembrava passata un eternità. Erano ragazzi di sedici anni,
tranne Leopold che da poco aveva fatto il compleanno. All’improvviso, nello
stesso modo della prima volta, apparve il veggente. Che con la solita voce
disse: “Sappi che io vi ho scelti perché ognuno di voi a che fare con la
Luna di Iego. Anche tu Carlo. Non vi potrò aiutare perché sarò
impegnato con l’incappucciato. E non potrai usare le chiavi finche non
sarai davanti alla porta”. E dopo sparì. Carlo domandandosi che cosa
intendesse quando aveva detto che aveva a che fare con quel pianeta, vide
brillare qualcosa. Poco sotto di lui, al centro della diga, vide una chiave
d’argento. Svegliò gli altri. Ci volle un po’ più tempo perchèLotshar aveva un sonno
davvero profondo.
Robert si riprese in mezzo ad un
deserto. Era dentro un palazzo rotondo. Gli si avvicinò una donna fatta di luce
dicendo: “Ti ho fatto arrivare in trancequi.
Anche se non sembra sei ancora nella Terra della Luna. Ho racchiuso la magia e
lo spirito del deserto in questo palazzo del sole. Per ora ciò ti basti”.
Robert cercò di muoversi, ma era come immobilizzato. I poteri non gli
rispondevano. La dama cominciò a cantare e dispose le mani sul capo di Robert.
Si diffuse una bellissima musica che sembrava accogliesse in se l’intero
universo. Tre pietre: una gialla, una blu-viola e una
rossa cominciarono a girare intorno al ragazzo. Che cadde addormentato tra le
braccia della donna.
Energy capiva la rabbia
dell’amico. Aveva imparato a curarsi da sola per non disturbalo. Ormai la
ferita era quasi sparita. Aveva capito perché era così refrattaria a guarire.
La spada che l’aveva inferta era magica. Insieme a Donatel
cercava l’arma segreta, con la scusa di voler visitare il castello. Con le
loro cimici avevano scoperto che Aido era nelle
segrete e quello che cercavano da lui non c’era. Erano sicuri che fosse
stato Asches a prendere il pugnale. Era sparito.
Doveva essere l’elfo di cui parlava l’orco. Il nano era Aido. Il piccolo elfo: Lado. Mentre
il mostro d’ombra quell’essere incappucciato. Quindi anche Barden cercava le chiavi. (Per chi non se lo ricordi,
Energy è il vero nome di RicardNdA).
Carlo tirò fuori dallo zaino la
corda. La legò al parapetto della diga e cominciò a scendere. Se anche ci
fossero stati appigli per aiutarlo nella discesa, il buio non permetteva di
vederli. Arrivò fino alla chiave e staccandola dalla diga la prese. Posandola
poi delicatamente in tasca. Ci stava anche lei, fortunatamente le chiavi non
erano più grandi di mezzo pollice e la tasca era capiente. La salita fu più
faticosa. Una volta arrivato la diga cominciò a tremare, si sgretolò sotto i
loro piedi. Lotshar si teletrasportò su un altura
sicura. La diga crollo e Miriam e Carlo si ritrovarono in una massa
d’acqua. Il getto colpì Carlo con più forza, quasi a volerlo punire di
aver preso la chiave. Carlo si sentì soffocare, mentre non riusciva a vedere,
sentire, respirare nient’altro che acqua in quella che sembrava una tomba
pronto ad ingoiarlo. Non resistette a lungo prima di venir meno. Miriam sapeva
che poteva fare. Non era mai riuscita a volare, per giunta ora le sue ali da
fata erano bagnate. Non poteva fare altrimenti se voleva sopravvivere e soprattutto
salvare lui. Afferrò Carlo e se lo strinse al petto. Cominciò a sbattere le
ali. La forza della disperazione gli diede uno slancio in più. Si ritrovo al di
sopra dell’acqua. Era una sensazione bellissima. Il vento le sferzava in
faccia a velocità estrema. Anche se era piacevole, non le faceva vedere niente.
Il rumore nelle orecchie l’assordava. Si concentrò come quando volava a
cavallo di Leggiadra. Tenendo stretto Carlo. Non voleva perderlo era troppo
importante per lei. Ecco. Sentì le urla di Lotshar
che gli indicavano la direzione. Atterrò. Una volta al sicuro, appoggiò Carlo a
terra e cominciò a fargli la respirazione artificiale. Se si fosse fermata a
riflettere che ricordava incredibilmente un bacio, forse non avrebbe trovato il
coraggio. (O\\O Sono in paradiso?NdCarlo) (Tu sei
svenuto perciò non sai niente. Zitto e mosca che devo proseguire NdA). Carlo cominciò a tossire e a sputare acqua. Era
salvo. I guai però non erano finiti. L’acqua andava avanti e puntava
diritta su un paese. Le case erano fatte di pietra, ma gli abitanti rischiavano
lo stesso la vita. Lotshar, incoraggiato dal fatto
che Miriam era riuscita a volare, decise di aiutare quelle persone. Si teletrasportò
al centro del paese allertando tutti. Gli avevano sempre detto che toccando
persone o cose poteva teletrasportare anch’essi, ma per paura non aveva
mai provato. Era però arrivato il momento di tentare. Fece tenere tutte le
persone vicine toccandosi in fila e l’estremità attaccata a lui. Si
concentrò e teletrasportò tutti nella città vicina. Poi tornò dagli amici. Li
trovò entrambi rossi per la respirazione bocca a bocca appena compiuta. (Ero
svenuto, mica stupido NdCarlo) (SighNdA). Per l’ilarità dovuta a
quell’accaduto, al fatto del potenziamento di Lotshar
e Miriam, la chiave e soprattutto di essere vivi, scoppiarono in una risata
liberatoria.
Donatel
era seduto sul letto. Si sentiva rinfrescato e la mente era abbastanza libera
per pensare. Aveva fatto una doccia. Sua madre gliele faceva spesso quando era
un bambino molto piccolo. L’aveva cresciuto insieme al padre in una
locanda. Era figlio unico. Aveva vissuto anni felici, finche i seguaci di un malvagio
drago rosso parlante non gli aveva ucciso i genitori. Quel drago aveva cercato molti
anni prima di distruggere la terra finche non lo avevano rinchiuso in un
anello. Che poi era stato spedito nello spazio. Mentre pensava a certe cose,
inconsciamente aveva afferrato il computer. Da quando aveva scoperto la verità
su Ricard-Energy moriva dalla voglia di saperne di
più. Cominciò a digitare il nome Ricard seguito dalla
parola deceduto. Ne apparvero una quarantina. Digitò anche Luna di Iego. Ne apparve solo uno. Un undicenne dai capelli
arancioni e dai teneri occhi azzurri lo fissava dal monitor. Era morto sul
campo di battaglia alla terza battaglia. Il corpo era stato abbandonato. Vicino
c’era la foto di una famiglia. Un uomo alto e muscoloso dai capelli
arancioni e occhi azzurri, una donna dai penetranti occhi verdi e lunghi
capelli rossi legati in una treccia e una undicenne coi capelli rossi lunghi
slegati, liberi con sole due treccine e un vestito, con una gonna, verde come i
suoi occhi. Certo che nel tempo Energy si era trasformata. Se non era per i
capelli non avrebbe riconosciuta quella ragazza cresciuta troppo in fretta,
dura e poco femminile.
Sembrava che tutti nella città
avessero trovato l’amore. Lado con Nairen. Federica con Michelangelo. Antonio con Mara. Peppe
con Mariagrazia. Perfino Tex con Elisabeth. Tranne
Leopold, e forse per questo era l’unico che si era realmente preoccupato
della scomparsa di Robert. L’unico problema si risolse presto. La gentile
regina Rosaria si era arrabbiata, cosa alquanto rara. E aveva indetto una
riunione di sole amazzoni. Con voce saggia di chi conosce le tradizioni,
Rosaria disse: “Siete amazzoni. Dovete uccidere gli uomini non sposarveli”.
Elisabeth lesta rispose: “Se sono nata vuol dire che tu ti sei innamorata”.
Con quella risposta sagace di Rosaria si calmò e non le disturbò più. In poco tempo,
con qualche ferita delle amazzoni, non rimase più un orco. I ragazzi decisero
di raggiungere gli amici. Quelli che l’avevano, salutarono la ragazza.
Gli adulti e le donne, comprese le ragazze, restarono per fare un punto di ribelli
della Terra della Luna come Stella alla Terra delle Rocce. Appena i ragazzi non
videro più la città delle amazzoni furono nei guai. Iniziò a scendere una fitta
pioggia. Erano nei pressi del cimitero dove le amazzoni seppellivano i loro
morti. A un certo punto i cadaveri uscirono dalle loro tombe. La terra con la
pioggia era diventata fango. E gli zombi perdevano lembi di pelle e gocce di
fango. I colpi non gli facevano nulla. All’improvviso nel fango cominciò
a brillare un corno d’avorio. Senza accorgersene Michelangelo cominciò a
suonare il corno. Che emise un suono magico. E gli zombi tornarono nelle tombe.
Intorno al corno c’era una collanina decorata con perline rosse di
corallo. Michelangelo decise di portarlo con se. La felicità di aver trovato un
oggetto così utile invase tutti che si misero a cantare sotto la pioggia.
L’unico rimasto triste fu Michelangelo. A cui mancava Fiamma. Ripensava
con nostalgia alla caratteristica del suo drago. Saper volare senz’ali.
Carlo avanzava lento. Aveva sonno.
Per fare prima avevano smesso di dormire e camminavano sempre. Arrivarono a un
prato illuminato da cento lanterna. In cui brucavano placidamente unicorni, pegasus e un incrocio tra le due razze, unicorni con le
ali, di nome peniu di tutti i colori. Un uomo che
pareva un antico egiziano gli si avvicinò. Lotshar
crollò dalla stanchezza.
Robert vagava in quel minideserto,
si fa per dire, alla ricerca di un uscita. La fame lo indeboliva. Chissà da
quanti giorni non toccava cibo. Almeno l’acqua non mancava. Ne appariva
una ciotola ogni giorno. Bisognava però berla prima che evaporasse. Gli girava
la testa, aveva la febbre alta e la vista era annebbiata, doveva essersi preso
un insolazione. Dal caldo gli usciva spesso il sangue dal naso. Nonostante ciò si
dimostrava coraggioso quando vedeva l’essere di luce. Lei gli aveva
spiegato perché lo teneva prigioniero. Aveva fatto un patto con Barden. A chi, leggendo nella mente e trovava che cercava
le chiavi magiche, le toccava di imprigionarlo. In cambio poteva avere quel
palazzo tutto per lei. Tra tutti aveva trovato lui. Fortunatamente Robert era
riuscita convincerla fosse l’unico a cercarle oltre Barden.
Un'altra fortuna era che la donna dormisse spesso. Si era appena svegliata. Si
diresse verso Robert dicendo: “Cerchi ancora di scappare? Non vuoi capire?
Forse una dormita ti darà saggezza”. Cominciò a cantare. E la magia si ripeté.
Robert si sentiva leggero, libero. Senza pensieri. E una dolce voce gli
consigliava di dormire. Stava per darle ascolto. Però una voce dal profondo gli
disse: “E’ stupido, non farlo. Dì di no”. Robert diede
ascolto alla seconda voce, non sapendo se fosse buon senso o orgoglio. Si
riprese urlando con tutte le sue forze che non voleva obbedire. La musica lo
confondeva. Le pietre gli giravano intorno. Robert prese un sasso e lo scagliò
contro la pietra gialla, che si frantumò in mille pezzi. La donna cambiò
espressione. La musica si fece frenetica e raccapricciante. La pietra
frantumata si ricostruì e riprese a girare. Robert si sentì come se mille
frecce infuocate gli cadessero addosso infilzandolo. Più cercava di resistere e
più il dolore aumentava. Cadde in ginocchio reprimendo le urla di dolore. Fece
l’ultimo sforzo di ribellione prima di cedere.
Energy si stava riposando sul
letto. Anche se il compleanno di Barden era ancora
lontano, più si avvicinava più il generale diveniva folle. La faceva combattere
insieme a Donatel contro i soldati più muscolosi del
suo esercito. Fortunatamente andava per gradi e quelli coi poteri ancora non li
aveva ancora messi in campo. Pian piano lei e Donatel
stavano diventando più forti. Però il litigio con Donatel
la faceva stare male. Non aveva mai avuto bisogno di amici, ma Donatel era importante per lei. Anche Donatel
sentiva la sua mancanza come amica. Uscirono contemporaneamente per chiedere
scusa l’un l’altro. Entrarono nella stanza di Donatel.
Dove lei chiese scusa per non avergli detto niente, in un tono dolce che
raramente aveva. Mentre lui si scusò di essersi arrabbiato. Decisero anche che Donatel l’avrebbecontinuata a chiamare Ricard, per non destare
sospetti. Sarebbe rimasto li loro segreto d’amicizia.
L’uomo fu molto gentile. Si
caricò Lotshar sulle spalle. E li condusse a casa
sua. Era una piccola piramide. Dove stese Lotshar a
riposare. Dopo aver riposato anche loro, Carlo e Miriam si proposero di aiutare
l’allevatore. Infatti quegli animali che pascolavano lì vicino erano
suoi. Prima l’aiutarono a far rientrare gli animali nella stalla. Perché
aveva cominciato a piovere. Poi lo aiutarono a spazzolarli. La stalla sembrava
anch’essa una piccola piramide, ma più piccola. Per ogni animale ci
misero mezz’ora. E guardando il suo orologio a forma di gatto,
l’uomo decise di ospitarli per la cena e per la notte. La mattina dopo si
prepararono per la notte. Riempirono lo zaino di cibo e acqua. Delle provviste
precedenti rimaneva solo una bottiglietta d’acqua e delle more raccolte
per strada. Svegliarono David che cantando gli disse che dovevano dirigersi nel
palazzo del sole a prendere la freccia d’oro. Non volle dire altro e si
tuffo di nuovo nella tasca. Carlo chiese l’ultimo favore a quello strano
uomo. Se conosceva un posto con quel nome. L’uomo rispose che c’era
uno strano posto che poteva avere quel nome. Nessuno ci andava mai perché era
un posto maledetto da cui nessuno era mai tornato.
La dama della luce alzò le braccia
al cielo. Una sfera di luce apparve sopra di lei. Si alzò un grande vento.
Parole confuse di lingue sconosciute si cominciarono ad udire. Apparvero nella
sfera le figure di Miriam, Carlo e Lotshar. Dagli
occhi della donna partì un raggio blu che attraversò i muri del palazzo. E
colpì i tre ragazzi ignari del pericolo. Che non riuscivano più a muoversi.
Robert con la sua forza di volontà spezzò l’incantesimo con cui la donna
lo teneva immobilizzato. Lei accorgendosene scatenò una tempesta di sabbia con
cui tenere impegnato Robert. Poi fece apparire una rosa gigante che emanasse la
stessa luce dei suoi occhi per tenere immobilizzati Carlo e gli altri. Intanto
Robert avanzava lottando contro la furia del vento e la sabbia che gli entrava
dappertutto, accecandolo e mozzandogli il fiato. Le gambe gli dolevano, ma
andava avanti. Era determinato a salvare gli amici. La donna, infuriata come
mai, urlò: “Stupido ragazzo. Mi hai mentito! Ora quei ragazzi a causa tua
moriranno! E dopo toccherà a te”. Robert accellerò.
L’avrebbe battuta a mani nude se era necessario. La donna cominciò a
lanciare cristalli soporiferi contro Robert. Che si faceva sempre più vicino.
La donna capì che si stava facendo sempre più pericoloso. Fece apparire una
freccia d’oro e la scagliò contro Robert. La freccia si conficcò
nell’addome vicino al cuore. E si fermò grazie alla gabbia toracica.
Incurante del dolore Robert andò avanti. Sferrò un gancio alla pancia della
donna. Che cadde in frantumi come un pezzo di cristallo. Successivamente
sopraffatto dal dolore cadde in terra in un lago di sangue. Intanto i tre
ragazzi cercavano di liberarsi. Miriam aveva la forza di volontà necessaria a
liberarsi dal raggio, ma era incantata da quella rosa così maestosa. Lotshar anche se avesse avuto la forza di volontà
necessaria era appesantito dalla pesante armatura. Carlo riuscì a liberarsi.
Spezzando il raggio e liberando anche gli altri. Poi si diresse verso il
palazzo. David si risvegliò un attimo dalla tasca di Carlo. E il GjargGjarg guaì disperato dalla borsa di Miriam. Il
palazzo del sole non aveva entrate. Allora Miriam ebbe un’idea. Di farsi
teletrasportare da Lotshar. Ma prima che mettessero
in atto questo piano, l’animaletto di Miriam uscì dallo zaino e divorò un
pezzo di muro, che a tutto il resto sarebbe stato indistrubbile.
Creando una porta. Il deserto era sparito. Al suo posto c’era un salone
vuoto. Lotshar urlò inorridito. A terra c’era
Robert. Carlo accorse, appoggiando sulle gambe la testa dell’amico. Era
ancora vivo, respirava. Miriam stava per spezzare la freccia. Carlo la fermò,
nonostante il dispiacere che provava a vedere il compagno in quello stato. Era
la freccia d’oro, serviva per la chiave. Miriam a malincuore la tirò
fuori intera. Aumentando il dolore. Carlo si sentì immensamente in colpa, ma se
avessero perso anche un solo elemento quel viaggio sarebbe stato inutile e
anche gli immani sacrifici che avevano compiuto fino a quel momento, anche
quello di Robert. Però il ragazzo aveva intenzione di rimediare come poteva. Prese,
a fatica, Robert sulle spalle deciso a portarlo lui, senza poteri e senza una
muscolatura da tipico eroe da film.
Le scorte di cibo scarseggiavano.
Michelangelo stava morendo di fame. E la disperazione lo portò ai miraggi.
Vedeva pizze e spaghetti con la salsa volare. La nuvola magica intanto si divertiva
a suonare il corno creando soffi di vento. A un certo punto Michelangelo urlò: “Moreeee!”. Tutti cedettero fosse stato un altro
miraggio. Ma quando le vide anche Lado, tutti corsero
a mangiare. Ne mangiarono fino a scoppiare e fecero scorte. Leopold vide un
pezzo di stoffa. Era un brandello della maglietta di Carlo. Stavano seguendo la
strada giusta.
Energy aveva fatto amicizia con un
delfino. Ogni volta che poteva, seguita dai due scimmioni e da Donatel, stava seduta a pensare in riva al mare. Qui aveva
tirato un pezzo del suo panino a mare. E questo delfino l’aveva mangiato.
Da allora lei gli tirava sempre da mangiare. E ogni volta lui andava più
vicino. Ormai lo poteva addirittura accarezzare. A Donatel
venne un idea. Legò un collare al collo del delfino. Attaccato al collare
c’era una lettera scritta da Ricard che diceva
dove erano loro e Aido. E c’era uno scanner ad
impronta. Poteva aprirla solo uno dei loro amici o i loro maestri. Ed era
impermeabile all’acqua. Il delfino partì per la sua missione. E i
guardiani di Barden, poco propensi all’intelligenza,
non se ne accorsero.
David pose la nuova rotta. Dovevano
andare alla città della notte. Dove avrebbero dovuto prendere la cesta dei
tesori mangiauomini. Arrivarono a un luogo
stranissimo. Al centro del totale nulla trovarono un treno coi binari che
cambiavano direzione ogni secondo. E un piccolo aereo. Robert non si era ancora
ripreso. Carlo, nonostante la buona volontà, non riusciva a fare lunghi tratti
con lui sulle spalle. Scelsero l’aereo. Più o meno Miriam sapeva
guidarlo. L’aveva imparato con un corso di volo per corrispondenza.
Glielo aveva portato suo zio. Salirono sul velivolo. Chiusero lo portellone. Carlo
adagiò Robert su un sedile. Forse alla città c’era un ospedale. Il suo
amico era sempre così pallido e sudato, la febbre sembrava non Miriam si mise
in quello davanti. Lotshar si sedette nel sedile in
fondo al velivolo. Ne rimaneva solo uno: quello davanti. Infatti c’erano
solo quattro posti, uno dietro l’altro. Carlo si stava dirigendo in sala
comandi, quando le cinture presero vita. Costrinsero Carlo a sedersi. E li
legarono in modo da non farli muovere, mentre i motori si accendevano e l’aereo
prese il volo. Lo stranissimo velivolo prese a volare a forte velocità dopo
pochi minuti che era partito. Carlo ricordò la spinta, in piccolo, di quando
era partita l’astronave che li aveva portati in quello strano pianeta.
Era un aeroplano completamente automatizzato. Ormai erano ad alta quota. Una
voce rassicurante proveniente dagli altoparlanti cominciò a parlare, dicendo: “Signore
e signori, ora potete reclinare i sedili, rilassarvi e godervi il volo. Questo
aereo e del tutto automatico: pilota automatico, servizio di ristoro automatico,
sistema di atterraggio automatico. Dalle registrazioni dei vostri discorsi
sappiamo che volete essere portati alla città della notte. State tranquilli,
assolutamente niente può rompersi … rompersi … rompersi …
rompersi”. Cominciavano bene. Alla corte di Barden
si vedeva sempre più gente strana. La guerra procedeva bene e al compleanno di Barden mancavano solo due mesi. Gli incontri a scopo di
spettacolo si facevano più cruenti e pericolosi. Venivano campioni da tutti i
luoghi più riprovevoli per sfidarsi. E Energy e Donatel
erano in mezzo. Se la cavavano egregiamente però. Si vociferava del guerriero
spavaldo di nome Ricard e del piccolo genio Donatel. Due menestrelli capaci di combattere. Energy si
tratteneva a stento dal far fuori qualcuno di quella feccia. Aiutata dal buon
senso di Donatel. Si vedevano vampiri, lupi mannari,
strani mostri alieni, orchi, goblin, pipistrelli
giganti, troll, mostri, arpie, sirene mangiauomini,
gorgoni e altri tipi così. Fortunatamente il Generale Barden
non aveva trovato Asches.
Al contrario delle previsioni il
volo di Carlo, Miriam, Lotshar e Robert procedeva
senza intoppi. Arrivarono subito nei pressi della città. Miriadi di luci di
lanterne cinesi illuminavano quella terra senza luce. Vicino al piccolo aereo
si affiancarono due aerei. Erano due caccia militari. Fecero cenni di scendere,
ma il piccolo aereo non era programmato per scendere all’improvviso. Infatti
ai tempi della sua progettazione la Terra della Luna non era sotto il dominio
del Generale Barden. Un missile colpì il motore. Il
sobbalzo che ne seguì fece liberare Carlo dalla cintura. Prese i comandi e
schivò altri due missili. Sembrava un videogioco. Evitando che uno di essi
colpisse il serbatoio. Li avrebbe fatti saltare in aria con l’aereo.
Sembrava però che sarebbero morti comunque. L’aereo stava precipitando. E
non c’era modo di fermarlo. Miriam non riusciva a fare un campo di forza
grande come un aereo. Anche se stava tenendo a bada i missili nemici. Robert
intanto confuso riuscì più o meno a riprendersi. Sentiva tremare il posto dove
era seduto. Dopo un po’ capì il perché. Qualcuno tremava dietro di lui.
Una voce lontana, forse Lotshar, urlò che stavano
precipitando. Il cervello ci mise un po’ a recepire il messaggio. Cercò
di vivere meglio. Era un aereo. Conosceva l’incantesimo giusto. Non riusciva
a muoversi, era legato da qualcosa. Fortunatamente per recitare
l’incantesimo bisognava solamente muovere le dita. Robert c’è la
mise tutta e dopo averla recitata si appoggiò al sedile tremante e ricadde
nell’incoscienza. L’aereo si stava adagiando lentamente. Carlo che
aveva ancora in mano i comandi lo fece atterrare in una piccola piazzetta. In
pochi secondi erano circondati da antichi guerrieri cinesi. Il GjargGjarg era pronto ad
attaccare.
Il gruppo formato da Lado, Leopold e Michelangelo arrivò in un posto strano.
C’era da un lato un hangar vuoto e dall’altro un treno a vapore. (Ovvio
che l’hangar è vuoto. L’aereo c’è l’ho io e sta pure
precipitando NdCarlo) (Che ti è preso oggi? Ecco una
delle giornate in cui i personaggi non obbediscono NdA).
Le rotaie cambiavano direzione ogni volta che volevano, restando però unite.
Erano stanchi e di nuovo a corto di cibo. Decisero di salirvi. Lado e Michelangelo erano eccitati come due bambini a
natale. Leopold restando lucido, gestiva la situazione. Consultando il libretto
di istruzioni capì come si faceva il macchinista.
Donatel
era riuscito a farsi affidare l’incarico di portare ad Aido e Tre. Tre era un tipo che ricordava un po’
Robert. Chissà che faceva inquel
momento. Prese la vecchia chiave arrugginita e la girò nella toppa. La
guardiana della cella si avvicinò subito. Entrava sempre con lui. Anche se era
matura, era bellissima. Doveva conoscere Aido. Si
capiva da come battibeccavano. Gli ci volle un po’ ad abituarsi a tutto
quel buio. Quando cominciò a vedere, si rese conto che avevano di nuovo
torturato Aido. Caviglie e polsi erano scorticati e
pieni di vesciche. Era pieno di ferite sanguinanti. E la faccia irriconoscibile.
Donatel prima prese la cesta dei viveri, dove in un
doppiofondo c’erano i medicinali per curare Aido.
E poi andò a medicarlo. La guardiana fece finta di non vedere. Dopo curò anche
Tre. Fortunatamente lui era ridotto meglio.
Dovevano fare rifornimento di
viveri. Le rotaie all’improvviso cambiarono rotta. Dirottandoli in un
altro luogo. Procedevano all’interno di una voragine nel terreno. Li
stava portando sotto terra. Il treno prese velocità fino a quando non
riuscirono quasi più a controllarlo. Avanzava verso le profondità del pianeta.
E il sole divenne un puntino lontano fino a sparire.
Robert sentiva un senso di
refrigerio alla ferita. Qualcuno lo stava curando. Cercò di aprire gli occhi.
Era in un luogo scuro. Localizzò Lotshar dinnanzi a
lui. Preso dalla vergogna di farsi vedere in quelle condizioni si alzò seduto.
E cercando di non far vedere il dolore provocato dalla ferita, chiese: “Dove
siamo?”. Fu Carlo a rispondere. Con lui c’era anche Miriam. Con
voce sbrigativa Carlo disse: “Siamo nelle prigioni di YaoFù. L’imperatore della città della notte. Per
loro siamo invasori”.
Ringrazio:
Berry345: La
prima a recensire, perciò la prima a cui rispondo. Un film? Sarebbe divertente
e magari arruolo tutti i lettori per fare gli attori. Eheh.
Sono felice di essere riuscita a scrivere bene lo scorso capitolo, ho seri
problemi con la grammatica. Davvero ti sembrava di essere con i personaggi? Perché
credo che sia la speranza più grande di uno scrittore. Sai che attendo sempre
con ansia i nuovi chappy della tua storia e spero l’aggiornerai
presto. E inoltre sappi che ti recensirò sempre. Non tutti i viaggi che faccio
non sono di piacere, ma hai ragione a farmi le condoglianza quando sono del
tipo “obbligatorio”. I treni italiani ti fanno uscire pazzo. Riesco
a stare senza il pc perché fortunatamente posso
scrivere anche solo con carta e penna e posso portarmi un buon libro. Però di
certo mi mancano le ff che sto seguendo, come la tua
ad esempio e mi dispiace di non poter pubblicare. Spero ti piacerà anche questo
chappy.
Millilil: Ho paura che dopo aver dato un occhiata
a “L’isola d’oro” tu sia rimasta sconvolta. Spero che
la mole di quella storia non ti abbia spaventata a tal punto da convincerti a
non leggere più nemmeno questa ff. Bè, per l’indizio
non c’è bisogno che rileggi il chappy, comincia
direttamente nel titolo. Se ti ricordi dove hai visto il GjargGjarg bene, se no, meglio. Spero
che troverai il coraggio di leggere questo chappy e
di farmi sapere, ciau.
All’improvviso il treno si
fermò. Erano nel bel mezzo del nulla. Mentre Leopold cercava di convincere le
rotaie a tornare al punto di partenza, Michelangelo e Lado andarono in
avanscoperta. Il luogo era oscuro e per vedere Mik accese un palla di fuoco.
Videro un animale in lontananza. Una lepre dal mando bianco sporco correva in
maniera agitata. Visto che erano molto affamati i due giovani decisero unanimemente
di prenderla per cucinarla. La bestia si inerpicava tra i vari massi e i cumuli
di terra. Dimentichi di Leopold andarono avanti. Arrivarono in quella che
sembrava una città western uscita direttamente da un film. La cosa più strana era che gli animali e gli
abitanti erano o di ghiaccio o di fuoco o metà di fuoco e l’altra di
ghiaccio. Quando li videro , li accolsero con tutti gli onori. Urlavano: “Abbiamo
tanto pregato che ci arrivassero dei salvatori. Ora finalmente si sono esaudite
le nostre preghiere. Urrà per gli stranieri. W il piccolo elfo e il suo amico”.
Il giovane umano chiese a quelle strane persone quale era il pericolo che li
affliggeva. Gli uomini di ghiaccio e fuoco indicarono un enorme ammasso di
gomma rosa con orribili occhi neri. Ogni volta che dormiva, cioè quando aveva
gli occhi chiusi, risucchiava la gente in se. Che moriva soffocata. Essendo
supereroi i due ragazzi decisero di aiutarli. La gente, per festeggiare il loro
coraggio, li sollevo a braccia sopra di loro. Dopo cominciarono a lanciarli in
aria e a riprenderli alla discesa, facendogli venire il mar di mare, bruciando
o congelandogli la schiena. All’ultimo lancio uno degli uomini si
girò e subito dopo urlò: “Una monetina da cinquanta cent.”. Tutti
si girarono e i due ragazzi caddero a terra con un tonfo. Prima di essere ancora festeggiati corsero a
distruggere il mostro. Arrivati sotto al mostro Lado chiese all’amico se
aveva qualche idea. Michelangelo, impressionato dalla grandezza del mostro,
rispose: “Usiamo i nostri poteri”. Non servì a niente, ma permise all’umano
di riflettere, Perché il giovine oltre alla pizza e la pasta con la salsa aveva
un'altra passione: le chewingum. Essendo fatto di una specie di gomma quel
mostro non temeva niente, ma chissà che effetto gli avrebbe fatto essere
bucato. Sentendo l’idea dell’amico il giovane elfo sorrise e
scoccando una freccia, la fece conficcare nell’enorme pancia della
creatura rosa, che si sgonfiò come un palloncino vuoto. Una volta in città, la
gente li voleva festeggiare nuovamente. I due ragazzi scapparono via urlando e
ci misero pochissimo a tornare al treno. Leopold intanto era riuscito a
convincere le rotaie a tornare al loro posto. E quando vide arrivare a quella
velocità i suoi amici pensò che aveva ragione a credere che sarebbero finiti
nei guai. I due fuggitivi salirono sul treno di corsa e ripartirono alla volta
della città.
Quando Robert cominciò a stare
meglio volle sapere come erano finiti in quella cella. Stavolta fu Miriam a
rispondere. Cominciò a raccontare dalla caduta dell’aereo, che il giovane
mago già conosceva. L’attenzione del ragazzo venne completamente avvinta
quando la fata aggiunse: “A quel punto ci hanno attaccato con le spade.
Noi e il mio piccolo Gjarg Gjarg li abbiamo messi K.O.. A questi sconfitti si
sono aggiunti altri uomini che hanno sparato coi revolver. Uno di questi a
sparato al mio animaletto una freccietta al narcotico facendolo crollare al
suolo addormentato. Con un po’ di
fortuna e la mia rabbia abbiamo sconfitto nuovamente i nemici, ma infine è
arrivato l’imperatore in persona tenendo in manol’oggetto che siamo
venuti a cercare. Lo ha aperto e noi abbiamo cominciato ad avere allucinazioni.
Mostri enormi, giungle minacciose, serpenti giganti e un fiume di lava ci
circondava. Poi ci hanno stesi con un fumo narcotico. Ci siamo ripresi in
questa cella. Non c’era traccia del mio Gjarg Gjarg. La guardia
carceraria ci ha spiegato che quell’uomo era il crudele Yao Fù”.
L’unica cosa che gli davano da mangiare era un panino. Da dividere in
quattro contando anche David. Avevano provato a fuggire con l’aiuto del
folletto, ma le sbarre erano dotate di sensori ai raggi laser che infrangevano
anche i campi di forza di Miriam. Robert era ancora troppo debole per fare
magie. E poi intorno alla prigione c’era una barriera antimagia e
antipoteri.
Stella non riusciva quasi più a
tenere a bada i draghi dei ragazzi. Che sentivano la nostalgia dei padroni. Il
più difficile da tenere a bada era Luce. Essendo una fenice inceneriva tutto e
aveva una forza sproporzionata. La follia di Barden non aveva limiti. Per
fortuna aveva l’aiuto della sua piccola fatina Tunder. Le fatine erano
una razza a parte, che aiutavano le fate. Più erano potenti le fate, più
possedevano fatine. Anche se le fatine aiutavano anche altre razze. In quel
momento Tunder era al porto. Doveva vedere se erano arrivate munizioni mandate
dal generale Barden ai suoi uomini. Così gliele potevano rubare. Tunder tornò
tutta trafelata. Aveva scoperto che al suo compleanno il crudele generale
avrebbe fatto qualcosa di terribile.
Asches era stanco. Erano giorni,
forse mesi che scappava. Aveva perso la cognizione del tempo. Braccato come un
animale. A cavallo del suo gufo gigante Black. Forse l’unico amico che
gli era rimasto. Sembrava che tutta quella storia fosse iniziata in un'altra
dimensione. Quando era apparso quel veggente. Gli aveva dato il pugnale di
Aido, quello con la gemma, e poi fatto scappare. Da quel momenti non aveva
avuto più pace. Lo inseguivano interi eserciti di orchi. Barden però usando
tutti gli orchi per cercarlo, aveva dovuto usare uomini creati da lui per la
guerra. Asches si cibava di radici, sporadicamente. Il suo unico bagaglio era
il pugnale e le scorte d’acqua.
Donatel era in netta minoranza.
Aveva atterrato un bestione. Immobilizzato una cavalletta gigante. Però doveva
ancora fronteggiare un mostro di vento, un cane assetato di sangue tirannosauri
intelligenti. Aveva finito i marchingegni tecnologici. Ed era disarmato. Anche
se non amava la violenza era l’unico modo. Per aumentare la suspense il
Generale Barden fece entrare in campo Ricard-Energy e dieci argon con il loro
istruttore. I zargon sono come tigri dai denti a sciabola. Però sono verdi,
hanno occhi iridescenti, hanno un che di senziente, ma completamente cechi
vengono guidati da sensori corporei e dal loro istruttore. Energy combatteva
con i nuovi arrivati e Donatel con gli altri. La situazione era la stessa. Solo
che adesso anche la rossa era nei guai. Il ragazzo attirò l’attenzione
dei due dinosauri. Che gli corsero incontro cadendo in trappola perché all’ultimo
secondo si spostò e i due tirannosauri si scontrarono mettendosi K.O.. Forse
non erano proprio così intelligenti. La ragazza intanto faceva imbestialire il
cane che stava combattendo contro l’amico, lanciandogli freccette di
ghiaccio. Successivamente lo fece scivolare di fronte al padrone dei Zargon. Il
cane inferocito attaccò la persona più vicina. L’uomo, prima di perdere i
sensi, fece svenire l’animale. Il corpo incosciente del cane cadde su
quello dell’istruttore dei zargon. Che, una volta senza guida, si
accucciarono guaendo. Donatel intanto stava scatenando un tornado potentissimo
per distruggere l’ultimo nemico. Quando capì che si era trasformato in un
uragano e avrebbe potuto far del male ad Energy, il ragazzo prese il vortice
con le mani e se lo strinse al petto cercando di fermarlo. Fu come se il
tornado fosse entrato in lui. Sentì una forza incontenibile. Stese il mostro di
vento in pochi secondi e subito dopo l’effetto finì. Era stato eccitante.
Ancora scosso il ragazzo uscì dall’arena sorretto dall’amica. La
loro meta era la zona proibita. I guardiani, credendo che in quelle condizioni
sarebbero subito andati a riposare, non li seguirono. Qualche giorno prima i
due amici avevano trovato una stanza che come ingresso aveva una specie di
bolla che attivava delle telecamere. Lì ci doveva essere sicuramente l’arma
segreta. Nelle stanze attigue speravano di trovare qualcosa che li potesse
aiutare. Entrarono in una stanza polverosa, piena di alambicchi riempiti di
strane pozioni e sostanze fumanti e maleodoranti. Era il laboratorio alchemico
di Barden, il destino era dalla loro parte. Energy contenta cominciò a creare
strane sostanze. Esterrefatto Donatel chiese come ci capiva qualcosa. E lei
rispose: “Come fai tu con formule e cip. Sono un po’ alchimista.
Guarda che fa la pozione che ho creato”. Dopo aver detto questo si
tramutò in un topo.
Leopold sognava tutte le notti la
medesima ragazza. E si era invaghito di lei. Non sapeva che la fanciulla
esisteva e i suoi sogni erano popolati da lui. Lei era imprigionata nelle sue
stanze in cima alla torre del castello del Generale Barden. Suo padre adottivo.
Lui era in cerca di un erede alla sua altezza. E lei era una potentissima
strega. Lui lo sapeva da quando l’aveva presa ancora in fasce. Lei onvece
lo aveva capito da poco. Quando lui seppe del misterioso ragazzo dei suoi sogni
cominciò a tenerla rinchiusa. La povera ragazza si chiamava Gainìt.
Ormai Robert era in grado di camminare,
anzi di correre. E a Carlo venne un idea. La lanterna di fronte alla cella era
molto forte e nella cella c’erano dei giacigli di paglia. Il moro ruppe
il vetro della piccola finestrella e ne prese il frammento più grande usandola
come lente di ingrandimento per incendiare la paglia. Scoppiò un piccolo
incendio. La guardia spaventata aprì la porta della cella per controllare. I
ragazzi non aspettavano altro e scapparono verso le ascale correndo come dei
forsennati. Un plotone di venti guardie li fermò. Erano quattro ragazzi
disarmati che non potevano usare poteri o magie. Furono chiusi nella cella di
massima sicurezza. Li stava Chem Pò. Il vero imperatore spodestato da Barden
perché era un ribelle.
Mentre Donatel restava di guardia
nella stanza delle pozioni, Energy trasformata in topo si dirigeva verso la
stanza dell’arme segreta. La topolina attraversò l’enorme bolla ed
entrò. Le telecamere si misero in azione, ma registrarono solo un altro dei
mille topi che infestavano il castello. La topolina entrata nella stanza fu
abbagliata da una fortissima luce rossa e non le fu possibile vedere niente.
Asches era arrivato al mare. La
Terra delle Rocce non era più sicura per lui. Black si ridusse fino a prendere
dimensioni normali. Con i pochi soldi che aveva, l’elfo comprò una barca
a remi e delle scorte alimentari. Sapeva che prendere la rotta che passava
davanti a Barden era una follia. Decise di prendere una poco praticata che
avrebbe girato al largo dall’arcipelago dei castelli. Non sapeva che la
rotta che stava per prendere era così rischiosa che nessuno era mai tornato
vivo.
Chem Po’ era un vecchietto
novantenne. Saggio, ma scansafatiche. Passava il tempo a elargire perle di
saggezza e a dormire. All’improvviso si sentì un esplosione e la terra
tremò sotto i piedi. Qualcuno aveva fatto saltare in aria della dinamite. Si
sentì una voce urlare di stare indietro. Uno sparo fortissimo. La porta di
acciaio cadde con un rumore assordante. L’avevano abbattuta con uno sparo
del vecchio carro armato. Erano ben attrezzati. Se avevano addirittura un carro
armato e degli esplosivi. Erano i ribelli che volevano rimettere al trono il
vecchio imperatore al posto del tirannico Yao Fù.
Donatel fremeva nella stanza delle
pozioni. Teneva la pozione per tornare Energy normale in mano. Lei cercava di
capire cos’era quell’oggetto. Non ci vedeva più, la luce
l’aveva abbagliata. Il suo naso da topo le fece avvertire un odore che il
suo istinto rendeva inconfondibile. Quando sentì anche un miagolio, il sangue si
raggelò nelle vene. Prese a correre alla ceca. Quando sentì qualcosa di morbido
sulla pelle capì di aver riattraversato la porta. L’acqua contenuta nella
bolla bagnò gli occhi arrossati che pian piano ripresero a vedere. Una volta
fuori andò nella direzione del laboratorio. Quando si sentì afferrata per la
coda. Una zampa di un grosso gatto giallo a strisce arancioni dagli occhi verdi
le impediva di muoversi. La topina per evitare di essere mangiata morse la
zampa e cominciò a correre più veloce. Il gatto inferocito le corse dietro.
Energy arrivata alla stanza delle pozioni passo dal buco della porta ed entrò.
Il gatto fulmineo gli riacciuffò la coda prima che la ragazza trasformata
riuscisse a entrarla. Donatel vedendola in difficoltà la strattonò. Energy era
salva, ma ci aveva rimesso la coda. Velocemente la topina bevve la pozione e
tornò umana. Visto che da essere umano non aveva la coda non era ferita in
alcun modo.
L’accampamento dei ribelli
era un luogo sicuro. Gli attacchi dei nemici però erano sempre più fitti. Erano
rifugiati nell’antica università. L’imperatore Yao Fù aveva fatto
chiudere tutte le scuole perché pensava che le idee avrebbero portato la
rivoluzione. Stessa mossa di Barden. Per i loro attacchi discreti, i ribelli
usavano una macchina volante. Una panda rossa. Carlo ormai aveva deciso di
dichiarare il suo amore a Miriam. Perché ormai non riusciva a dormire, a
mangiare, anche solo a pensare. Passava dalla massima felicità, anche per un
semplice gesto di amicizia, un sorriso, un abbraccio, per deprimersi senza
motivo subito dopo. Aveva capito di essere arrivato a un punto di non ritorno
quando cominciò a essere geloso dei suoi amici. Mentre andava da lei sentì piangere
nel laboratorio di scienze. La sua decisione, per quanto incredibilmente
motivata, non bastò a distrarlo. Forse fu la curiosità, o forse semplicemente
era così spaventato dal gesto che stava per compiere da decidere di concentrare
la sua attenzione su altro. Entrò nella stanza e trovò Lotshar seduto sotto un
banco a singhiozzare. Aveva in mano un proiettore di ologrammi che ne mostrava
uno raffigurante una famiglia. Carlo si avvicinò a Lotshar chiedendogli
dolcemente cosa stesse facendo. Lotshar, con gli occhi pieni di lacrime,
rispose che quello era l’ologramma della sua famiglia che aveva portato
in viaggio. La donna bellissima bionda con gli occhi azzurri che somigliava a
Lotshar salutava balbettando: <>. Il padre era
un tipo robusto, armato di tutto punto, con i capelli neri e gli occhi grigi,
che sembrava non conoscere la calma o la pietà per il nemico. C’era anche
un minuscolo cagnolino tutto blu e l’immagine sorridente di Lotshar.
Raffigurava quando Lotshar era partito per andare in accademia. Lotshar era
diventato supereroe perché era una tradizione di famiglia. Suo padre era stato
un bravissimo supereroe, suo nonno pure e il suo bisnonno anche. Quindi anche
se Lotshar era fifone e balbettante come la madre era dovuto diventare
supereroe per forza. Lo avevano accettato solo per il buon nome del padre.
Lotshar infatti non era bravo a combattere anche se i suoi poteri era
potentissimi. Infatti la sua famiglia, che aveva gli stessi poteri, li aveva
usati in maniera eccellente mostrandosi i più forti in battaglia. Barden era
sempre stato nemico del padre di Lotshar. Per rincuorare Lotshar, Carlo ci mise
tutta la notte. Stanco, assonnato, con delle profonde occhiaie si avviò al suo
giaciglio a riposare. Quando sotto i suoi piedi apparve un portale dimensionale
che lo risucchiò. Carlo girò su se stesso una ventina di volte fino a che toccò
terra con una rovinosa caduta. Si trovava in una stanza circolare. Le pareti e
il pavimento erano di marmo bianco. C’era solo una finestra triangolare
da cui entrava la luce. Però sembrava fatta di roccia, perché per quanto si
sforzasse Carlo non riuscì a sfondare il vetro. O era magica, ipotesi più
probabile in quel mondo, o di vetro antiproiettile. Per tre giorni di fila
cercò di uscire senza ottenere alcun risultato. Era abbattuto e demoralizzato.
Almeno non era morto di sete o di fame perché ogni giorno appariva una tavola
imbandita. Quel giorno apparve pure una torta di compleanno. Si era
completamente dimenticato che era il suo diciassettesimo compleannp. Pensare
che aveva sempre atteso i compleanni con impazienza. Dopo essersi rifocillato
si sedette sul freddo pavimento addormenta dosi per la stanchezza. Si ritrovò
in un isola tropicale con un paesaggio verdeggiante. Alte palme colme di noci
di cocco, freschi ruscelli, un vulcano ancora attivo, ma non pericoloso
sovrastava tutto, la sabbia bianca e finissima, il mare risplendeva. Un vero
paradiso terrestre. Si avventurò all’interno dell’isola. La natura
era selvaggia. Pappagalli ara dai colori dell’arcobaleno lo fissavano
ripetendo la stessa parola: “Craa[1]
biscottino craa”. A un certo punto vide un laghetto di acqua zampillante.
Al suo interno nell’acqua, che rifulgeva bagnata dalla luce del sole,
nuotavano due cigni. Uno bianco che sembrava di neve e uno nero che si ergeva
maestoso. Da come si nuotavano intorno si vedeva che era una coppia. A un certo
punto vide un gruppo di persone. L’isola non era deserta. Quelle persone
avevano la pelle nero ebano che sembrava dorata. Anche se erano di fronte a lui
non lo vedevano. A un certo punto sentì un ruggito. C’era un enorme drago
rosso dagli occhi blu enormi che volava sopra le loro teste. Non era malvagio
però. Infatti dopo poco atterrò e si avvicinò alle persone da cui si fece
accarezzare docilmente. Anche lui non vedeva Carlo.
Non era invisibile, ma era come se lo fosse diventato. La pace non durò a
lungo. La quiete fu interrotta da una pioggia di fuoco. Da navi nemiche
arrivavano frecce infuocate. L’acqua non le spegneva. Doveva essere il
fuoco greco. Poi cominciarono a sparare con cannoni. La gente si nascose nelle
poche capanne che non avevano preso fuoco. Scesero a terra dalle navi degli
uomini col suo stesso colore di pelle. Da come parlavano dovevano essere europei.
Erano armati di spade e fucili. Il drago sputò fuoco colpendo parecchi di loro.
Quello però che doveva essere il capo lo schivò e sparò all’animale. Carlo pensò fosse
morto. Arrabbiato saltò addosso all’uomo. Lo attraversò come un fantasma.
Impotente assistette alla morte degli abitanti di quella che fino a poco prima
era un isola felice. In pochi secondi passarono tre giorni. Carlo era sempre
più confuso. Tutto faceva pensare fosse un brutto sogno. Era però troppo reale
e non riusciva a svegliarsi. Il drago si mosse. Era stato ferito gravemente, ma
non era morto. La sua magia lo aveva guarito. Era furioso per quello che era
capitato alla sua gente. Inaspettatamente parlò, anzi urlò: “Voglio
vendetta e la otterrò. Distruggerò questo pianeta. Ridurrò la terra in
schiavitù e poi l’intero universo. La pagheranno tutti”. Il suo
furore, la sua ira erano incontenibili. E in un certo senso Carlo provò pena
per lui. I suoi piani però dovevano esseri fermati. Invece quello che si fermo
fu il tempo. Lui poteva ancora muoversi e parlare, ma il resto era immobilizzato.
Era diventato tutto in bianco e nero. A quel punto apparve Tempo. Con voce
triste disse: “Carlo questo e per farti capire che il nemico ha un cuore”.
Prima che Carlo potesse chiedere qualcosa, si svegliò di soprassalto. Chi era
il drago? Chi il nemico?A Carlo
mancavano i suoi amici e si sentiva solo.
La rivolta procedeva bene e tutti
erano felici. Tranne Miriam, Lotshar e Robert che non riuscivano a trovare
Carlo. Dopo Lotshar non lo aveva più visto nessuno. Non poteva essersene andato
senza di loro, non era da lui. Soprattutto perché aveva lasciato David lì.
Infatti il folletto quella notte era uscito dalla tasca per corteggiare la
bambola portafortuna del capo dei ribelli credendola una foletta un po’
timida, ma molto graziosa. David aveva trovato una sistemazione di ripiego
nella sacca di Miriam adiacente a quella dove prima c’era il Gjarg Gjarg.
Miriam era preoccupata anche per lui. Non lo aveva più visto da quando li
avevano imprigionati. Sperava non lo avessero ucciso, ma solo imprigionato
altrove. Non ebbero altro tempo per cercare Carlo perché era iniziato
l’attacco definitivo. Esplosero contemporaneamente le bombe piazzate in
vari punti della città, così la polizia dell’imperatore accorrendo in
giro lasciava incustodito il palazzo. Il capo della rivolta salì a bordo del
carro armato con in spalla il suo fidato bazooka. Tutti gli altri armati con i
loro mezzi che andavano dai forconi alle bombe a mano, avanzavano compatti
formando un muro di uomini. Purtroppo la folla aveva influito negativamente su
di loro facendogli perdere il concetto di pietà e il rispetto per la vita.
Miriam, Robert e Lotshar ebbero la stessa idea. Presero la panda volante
(scusate la pubblicità alla macchina, ma essendo la mia è l’unica che mi
è venuta in mente. Una di quelle vecchie 4x4 completamente scassata) e si
diressero anche loro verso il palazzo. Avrebbero approfittato della confusione
per prendere il portagioie.
Ringrazio:
Berry345: Anche io quando sono in viaggio
rubo sempre il pc a un mio amico e prima o poi mi eliminerà. Che bello che ti
sia capitato tante volte, ma anche con la tua io in alcuni momenti ci sono
proprio riuscita. Non sei ancora tornata? Perché la nuova ff fantasy non lo ho
ancora vista. Posso assicurare che le
migliori sono proprio quelle che vengono in sogno. Lo sai che aggiorno sempre
presto e grazie per i complimenti.
Milli lil: Mica ti uccido se mi dai
consigli, le recensioni servono soprattutto a questo. Spero che in questo
chappy ci siano meno punti e meno ripetizioni di nomi. Sai, la mia era paura
che non si capisse quale personaggio facesse l’azione e che mancassero i
punti e così ho esagerato in senso contrario. Sono proprio felice che tu me lo
abbia fatto notare, così posso migliorare. Allora se non ti fa paura la
lunghezza posso anche non temere in una tua fuga come lettrice, meno male. Si,
si. Sono Energy. Addirittura due recensioni per chiedermelo. Devi essere
proprio felice di averlo scoperto e io sono incredibilmente felice che tu ci
sia riuscito. Spero ti piaccia anche questo chappy. ciau
Capitolo 11 *** Cap.11 una stanza davvero strana ***
bbbb
Scusate se ci ho messo così tanto, ma ora internet mi
funziona. Mi dispiace. Mi avevate fatto notare degli eccessivi spezzettamenti,
ma nn sono proprio riuscita ad evitarli. Ho deciso di
pubblicare appena mi è venuta l’ispirazione, anke
se un po’ confusa, perché senno visto che tra poco ci sono le vacanze rischaiva di saltare di un altro pezzo di tempo. Ringrazio
anche solo chi legge.
Cap.11 una stanza davvero strana
Asches
navigava senza troppi problemi. La barca non era tanto solida, ma con quello
che l’aveva pagata era più che naturale. La pace però non durò oltre
perché dall’acqua si levò uno squalo meccanico circondato da mostri
marini. Lo squalo era un invenzione di Barden che
anni prima era sfuggita al suo controllo diventando un pericolo in quei mari. Andava
in giro con quelle anguille giganti carnivore. Era questo gruppo ad uccidere i
marinai che andavano per quella rotta. Black volava
intorno facendo il suo verso rumorosamente. Asches
cominciò a recitare una formula in elfico. Il mare prese a innalzarsi formando
una gabbia d’acqua che imprigionò le anguille. La gabbia pian piano si
chiuse su di loro mandando scariche elettriche. Che uccisero le anguille
fulminate. Lo squalo meccanico riuscì a sfuggire all’incantesimo e si
diresse a tutta velocità verso la barca facendola quasi andare in pezzi. Mentre
Black, finche poté, distrasse lo squalo. La situazione
era critica. Quando il pugnale di Aido uscì fuori
dallo zaino di Asches senza che nessuno lo toccasse.
La pietra si illuminò e punto il suo raggio verso lo squalo che si liquefece.
Poi il pugnale tornò al suo posto. Lasciando Asches
sbigottito.
Carlo
aveva provato di tutto per uscire da quella prigione di marmo. Sembrava
impossibile. Quando apparve un piccolo anellino d’oro con in cima
incastonato un pezzo di cristallo. Come attratto Carlo
se lo mise al dito. Nel muro di fronte a lui apparve un buco e Carlo ci infilò
il dito con l’anello. Apparve una porta. L’attraversò e si ritrovò
in un luogo identico a Stoneighen. Non poteva essere
l’Inghilterra quella. Al centro sospesa nel vuoto c’era una chiave
di pietra rossa che girava su se stessa. Una voce di uomo disse: “La
potrai toccare…solamente quando tutti gli oggetti avrai…non saranno
quelli che ora penserai”. Quindi non erano solo la freccia e il
portagioie. Poi si ritrovò di nuovo nella stanza.
La piccola auto sfrecciava a tutta
velocità verso il palazzo. Le poche guardie rimaste erano state neutralizzate.
Miriam guidava schivando le pallottole e le esplosioni. Robert ripensando a Carlo creò un
campo invisibile intorno alla macchina. Lotshar si
era messo a pregare sdraiato da solo nel sedile posteriore. Un’esplosione
creò un onda d’urto tale che fece crollare il muro all’interno del
palazzo. Creando così una breccia nella sala del tesoro. Con un abile manovra
Miriam si infilò arrivando alla stanza del tesoro. Con un bell’atterraggio
discesero dal cielo. Uscirono dall’auto decisi a prendere l’oggetto
della loro missione e a ripartire più presto. Al centro della sala in ginocchio
in preda a una crisi di panico c’era YaoFù. Il tirannico imperatore non era altro che un codardo.
Non fu difficile superarlo e arrivare al portagioie mangiauomini.
Che saltava e ringhiava. Vicino, drogato, stava incatenato a una grossa catena
di diamante il GjargGjarg.
Miriam lo prese in mano. Lo circondò con un campo di forza che spezzò il
materiale più duro dell’iniverso. Dopo questo
sforzo però dovette appoggiarsi a Robert e a Lotshar.
Stavano tornando alla macchina quando irruppero i ribelli decisi a uccidere YaoFù. Lotshar
lanciò il suo raggio d’amore convincendoli a imprigionarlo aspettando una
commissione galattica. Con l’inventore che sarebbero dovuti star lì un
altro giorno senza poter cercare Carlo.
Leopold, Lado
e Michelangelo erano seduti vicini nella sala macchine. Era ormai sera e stavano
cenando con l’ultima radice. Leopold ormai aveva diciassette anni e gli
altri due li compivano quella sera. I due ragazzi eccitati di essere cresciuti
di un altro anno cominciarono a raccontare degli aneddoti molto divertenti
sulla loro amicizia. Loro erano migliori amici da molti anni. Andavano insieme
nello stesso orfanotrofio elfico. Con quell’anno sulla Luna di Iego in tutto erano sei anni ormai. Si erano fatti simpatia
subito. Entrambi simpatici, chiacchieroni, amanti dei giochi e della pizza.
Onesta e leale era la loro amicizia. Il loro primo incontro era stato una notte
di sei anni prima. Michelangelo era stato ritrovato a vagare sulla Luna di Iego in pieno stato confusionale. Non ricordava chi fosse e
cosa ci facesse lì. Anche se era abbastanza grande, undici anni circa, decisero
di portarlo all’orfanotrofio elfico. Speravano che la loro magia gli
facesse tornare i ricordi persi, ma ciò non avvenne. Intanto c’era Lado un elfo orfano che avevano trovato appena nato davanti
alla porta dell’orfanotrofio con un armatura elica con incisi dei
simboli, quella che indossava in quel momento, una spada tempestata di acque
marine fatta di diamante che si incastrava nell’armatura (quella con cui
aveva vinto Miriam), il ciondolo da cui era iniziata quella ricerca e una
coperta blu tessuta in seta. Mancavano solo cinque anni all’età in cui se
ne sarebbe andato. Nella speranza di andarsene prima e con la volontà di fare
del bene aiutava i nuovi arrivati. Così incontro Michelangelo. Che riconoscente
gli promise eterna amicizia. Il giorno dopo un sobbalzo li risvegliò. Erano
arrivati alla città della notte. Noni può certo dire che trovarono una calorosa
accoglienza. La città era mezza distrutta e ovunque c’erano operai
intenti nella ricostruzione. Appena fermatisi alla stazione al cento della
città un gruppo di soldati li fermarono. Quando videro che non avevano
documenti, le guardie spaventate che fossero spie del dittatore appena
decaduto, li arrestarono. Li portarono a palazzo. Davanti al nuovo imperatore.
Videro qualcosa che non si sarebbero mai aspettati. C’era Miriam, Lotshar e Robert. La felicità fu inimmaginabile. Si erano
ritrovati ed erano tutti in perfetta salute. Gli amici si raccontarono le loro
avventure. Sembrava tutto perfetto. Festeggiarono tutto il giorno. I ragazzi
non mangiavano così bene da tantissimo tempo. Quella notte arrivò un astronave.
Era la commissione galattica che portò via il malvagio imperatore. Il mattino
arrivò un camion che dichiarava di essere la vera commissione. I ragazzi ci
salirono chiedendo spiegazioni. Il camion si chiuse. Erano gli uomini di Barden che li imprigionarono al castello qui incontrarono Donatel, Ricard, Aido, Tre. Fortunatamente Lado
nascose il ciondolo e i nemici non lo trovarono.
Asches da
quel giorno aveva una navigazione tranquilla. Ogni tanto doveva usare la sua
magia per tappare delle falle di quella vecchia e fradicia barca. Non sapeva
che la corrente del mare lo aveva sospinto vicino all’arcipelago del
castello di Barden. Se ne accorse quando era troppo
vicino. Si nascose in un’ insenatura. Sentì un rumore. Si voltò di scatto.
Era solo un delfino. Rimasto incagliato. Asches lo
liberò e l’animale riconoscente si fece accarezzare. Mentre Asches toccava la pelle liscia e bagnata del delfino notò
che aveva una lettera sul collo. Appena l’ebbe toccata con la mano il
rivelatore riconobbe il suo DNA e l’elfo poté leggere la lettera: “Sono
Ricard . Sono con Donatel
al castello del Generale Barden sotto copertura.
Nelle segrete e imprigionato Aido. Salvateci. Portate
le chiavi così distruggeremo il tiranno”. Asches
così seppe che anche i ragazzi sapevano di quegli strani eventi. Fece appena in
tempo a nascondere la lettera e il pugnale dietro uno scoglio ce Asches capì di non avere scampo. Lo avevano scoperto. Era
circondato dai soldati del Geneale. Anche se
inutilmente combatté fino all’ultimo. Sconfiggendone una quarantina. Il
gufo divenne minuscolo e si infilò nella scarpa. I guerrieri non finivano mai e
alla fine, dopo averlo chiuso in un angolo, lo catturarono. Fu portato in una
fredda cella del castello. Sperava che nessuno trovasse il pugnale. Stava
seduto per terra legato come un salame. All’improvviso sentì nelle celle
vicine conosciute. Nella cella a sinistra c’era Lotshar
e Robert. Ancora più a sinistra Leopold e Miriam. A destra Michelangelo e Lado. La seconda a destra Tre e Aido.
Ognuno di loro aveva pensieri diversi. Lotshar
pensava a un modo per diventare coraggioso. Robert pensava che non gliene era
andata una bene. Leopold alla ragazza dei suoi sogni. Asches
controllava che il gufo stessetene. Il poverino soffriva la puzza. Michelangelo
pensava a Federica. Lado alla sua elfa.
Tre si trasformò nella sua versione dolce perché si era innamorato di Miriam. Aido pensava a Lindar, stava
rinascendo l’amore. Non sapeva che per lei era lo stesso. Miriam pesava
al suo amato Carlo. Non aveva ancora capito di amarlo, o meglio non voleva
accettarlo. Però la preoccupazione di non rivederlo cresceva di minuto in
minuto. Mentre il suo cuore batteva così forte nel pensarlo, il suo viso si
arrossava, e perdeva un battito pensando che forse non l’avrebbe rivisto
mai più. Chissà dove era finito.
Carlo era stufo di essere rinchiuso
in un limbo. Si chiedeva di chi fosse la colpa. E la risposta arrivò. Apparve
un mago Era come il mago merlino delle favole. Subito dopo apparve un Druidi
Celtico. Il nostro giovane eroe ormai non si stupiva più di tanto. Il mago con
voce gioviale, ma sguardo serio, disse: “ Io e il mio vecchio amico
Druido siamo stati interpellati dal veggente. Ci ha chiesto di condurti nel
luogo dove gli astri si ordinano secondo l’ordine naturale scanditi dai
monoliti, luogo sacro per i druidi”. Il druido si introdusse nel
discorso: “La mia somma religione, il druidismo, mi impedisce di portarti
nel luogo più sacro per gli dei della natura. Il mio cuore però mi dice che
meriti l’onore della chiave delle stelle”. Senza che nessuno dei proprietari
se ne accorgesse il druido e il mago fecero apparire: la freccia d’oro,
il portagioie mangiauomini, il corno magico, il
pugnale.
Dalle amazzoni le ragazze
piangevano aspettando i fidanzati. Gli adulti si erano già tutti sposati. Per
di più la pace era durata poco. Barden sapendo della
fine dei suoi orchetti aveva mandato un tipo di orchi
appena inventati. Anche se grandi come un dito, erano inarrestabili. In gran
numero e con un intelligenza così avanzata che usavano qualunque cosa come un
arma. Inarrestabili e pericolosi. Le amazzoni avevano deciso di fare qualcosa
di pericoloso. Sfidarono Barden facendo in modo che
mandasse l’intero esercito di mini orchi contro di loro. Così avrebbero
indebolito le loro difese. Per di più a loro, a Stella e a i guerrieri del lago
arrivò una lettera che aveva scritto il veggente. Portata da enormi aquile ed
enormi gabbiani. Dicevano tutte la stessa cosa: “Quando il sole sarà alto
e scoccherà il mezzodì nel giorno dell’inizio del nuovo anno ribellatevi.
Il cuore vi guiderà verso la vittoria”.
Energy stava cercando di dormire.
Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva Tempo e un enorme incendio. Si
svegliava stravolta e sudata. Alla fine desistette e si alzò. Donatel dormiva ancora come il resto del castello. Soltanto
le guardie, tranne alcune, vegliavano squadrando Energy. Vagava senza meta, si
sentiva strana. Si sentiva un aria di battaglia quel giorno. Era il giorno
fatidico del compleanno di Barden. Quel tiranno che
si definiva Generale. Aveva deciso. Nella confusione avrebbe fatto fuggire Donatel e gli altri facendogli credere che era con loro.
Poi confondendosi in quella marmaglia si sarebbe avvicinata a Barden il più possibile e avrebbe attuato la sua vendetta a
costo della morte. Il destino però decise in altro modo.
Ringraziamenti :
Regina Oscura: Spero che il chappy
ti abbia soddisfatto e ti sia piaciuto. Eh si, forse sono troppi tutti questi
personaggi, ma nn posso farci niente. Sono felice che
ti abbia fatto ridere quel pezzo. Guarda ke io amo
tutte le recensioni, perché ognuna ha qualcosa di diverso da offrire e consigli
da dare. Quindi continua a recensire e se la storia non ti piacerà, fammelo
sapere.
Berry345: L’ho letto, anzi ho letto anke il primo chappy e sai cosa
ne penso. Esagerata, fan a questi livelli. Alla prox..
Ringrazio anche solo chi legge. I disegni qua sopra, rappresentanti i
personaggi sono stati gentilmente forniti da mio fratello piccolo e io li
apprezzo. Parere personale ovviamente. Ho deciso di inserirli adesso e tutti
insieme perchè sto utilizzando il pc di un mio amico in cui ho scaricato la
nuova versione del html, quella che ho io nn mi inserisce le immagini.
Cap.
12 avventure tra mondi
Il tempo alla Luna di Iego passava in modo diverso dalla terra.
Nessuno poteva immaginare che quella era la vigilia di natale. E nella
dimensione di Carlo
il tempo variava a seconda del volere del druido e del mago. E quel giorno
decisero che un secondo nella Luna fosse un ora nella dimensione. Portarono Carlo nello
Stoneighen dove al centro rivide la chiave della stelle. Carlo ci stava
già andando. Quando apparvero quattro mostri. Che insieme dissero parole
indecifrabile che pian piano divennero chiare: " Prima di toccare
l’oggetto del tuo desiderio dovrai penare. Usando uno dei tuoi oggetti ci
sconfiggerai. Attento, hai solo una possibilità. Se sbaglierai donerai la tua
vita". L’idea di morire non solleticava affatto Carlo. Temendo la
fine, era disperato di non aver potuto salutare Miriam per un ultima volta. E capiva
di essere affezionato ai suoi maestri e ai suoi amici compagni di avventure.
Chissà dove si trovavano. La voce di uno dei mostri cominciò a scandire i
secondi che aveva per scegliere. "Nove, otto, sette sei, cinque,
quattro...". Al tre Carlo
preso dal panico afferrò la prima cosa che gli capitò, la freccia d’oro,
e la scagliò lontano. Era l’oggetto giusto. I mostri sparirono. La
freccia afferrò la chiave e la portò alle mani di Carlo. Successivamente la freccia
sparì. Aveva tutte le chiavi. Il Druido lo salutò il ragazzo. E il mago portò Carlo davanti ad
una porta d’avorio con deliziosi effigi d’oro Un purpurì di gemme
impreziosivano ancor più la porta. Aveva dodici piccole serrature. Carlo infilò la
chiave. La porta si aprì. Le chiavi sparirono. E al loro posto apparve il
ciondolo di Lado. Intanto nel castello di Barden il piccolo elfo piangeva la
perdita. Carlo
entrò. Era la prima stanza del luogo. Un luogo orribile. Figure di uomini
disperati uscivano per metà dalla parete. C’erano statue di persone
pietrificate nel tentativo di scappare. Una voce triste cominciò a parlare da
dietro una colonna. Era una voce femminile. Carlo
ne scorse l’ombra. Era una bellissima donna greca, ma al posto dei
capelli aveva piccoli serpenti verdi e gialli. Carlo
aveva letto di lei sul libro di scuola. Si trattava di Medusa. Il mostro della
mitologia che pietrificava chi la guardava negli occhi. La leggenda diceva che
la ragazza era una vestale. Essendo una donna bellissima un ragazzo si innamorò
di lei. Lei lo ricambiava e una sera andò da lui lasciando spegnere la fiamma
che doveva controllare. La dea arrabbiata la punì. Tramutandola in
quell’essere. Carlo
strappò un pezzo di vestito dalla manica e se la legò intorno agli occhi.
Cominciò ad avanzare cercando di non farsi scoprire. L’essere però lo
aspettava e con voce molto triste, ma decise disse: "O tu mortale non vedi
la vera medusa che morì per opera di un eroe facendone scaturire dal collo
Pegaso. Vedi la sua ombra terrena che cerca pace". Carlo guidato da una forza invisibile,
dettata dal veggente aprì il portagioie. Che mostro illusioni di un luogo
perfetto. Medusa si rivide col suo vero aspetto. E la donna fu libera dal
maleficio. Lascio la stanza di medusa e vide un apertura che dava su una
grotta. Entrò e l’apertura da cui era entrato sparì. Era una grotta senza
vie d’uscite. Su un tavolino di cristallo al centro era posizionato un
grande libro. Filtrava un pòl di luce come un riflettore o una luce mistica
illuminava il testo. Aveva le rilegature in madreperla e oro. Il titolo scritto
con perle, una dietro l’altra formando parole. Attorno al titolo il libro
era tempestato di pietre preziose e lacrime di drago cristallizzate. Era in
stile medievale. La copertina era foderata di seta rossa tinta con la porpora.
E le pagine erano in pelle di daino. Carlo
lesse il titolo a bassa voce come se con un suono troppo alto il libro
sparisse. Diceva:"Il piffero del satiro". Il titolo lo incuriosì e lo
apri con delicatezza. Parlava di una driade dei boschi. Che aveva affrontato Cerbero
e Caronte, la sfinge, la chimera, il minotauro, gli spiriti, re e cavalieri,
divinità di ogni tempo e luogo. Tutto per riprendere il piffero di un satiro.
Fatto di canne, ma col potere di far diventare buono chiunque. Al satiro
serviva per il vecchio drago. Senza sentire più le dolce noti il centenario
animale stava morendo di dolore. La driade era tornata quando il drago ormai
stava morendo. Diede lo strumento al satiro che cominciò a suonare una ballata
su centauri e sileni. Ormai era troppo tardi e il drago morì. Dopo la sua morte
scomparve e al suo posto c’era un uovo di drago circondato da fiori. Da
cui, seguendo il ritmo della musica, nacque un piccolo drago. Il libro si
chiuse e scomparve. Doveva essere scritto a mano da un invisibile amanuense. Le
lettere con cui iniziavano le frasi all’inizio delle pagine erano pesci o
serpenti dipinti di rosso. Le parole normali erano nere, piccole, vicine, ma
leggibili facilmente. C’erano splendide illustrazioni. Era arrivato il
momento di uscire da quel luogo. Sapeva che quel libro aveva un
significato allegorico. Si girò e vide apparire la dama della verità. Anche se Carlo non
l’aveva mai vista seppe che era lei. Aveva un vestito verde che sembrava
un pezzo di arcobaleno. Lui l’aveva sempre immaginata come la giustizia
con una bilancia in mano. Lunghi capelli biondi, dolci occhi neri velati dal
pianto. Un sorriso triste, ma rincuorante e dolce. Con voce gentile chiese a Carlo se sapeva
perché aveva lasciato i genitori senza avvertire. Carlo rispose che in realtà i suoi
genitori lo usavano come strumento per fama e soldi. La dama gli chiese
perché allora da piccolo lo avevano fatto giocare a nascondino e con le spade
di legno. Il ragazzo rispose che evidentemente si erano accorti del suo potere
e col gioco del nascondino ci avrebbero guadagnato. Non mostrando la sua dote
di diventare invisibile a nessuno per paura di veder portato via la loro
macchina crea soldi. E lo avevano fatto giocare con le spade per far si che sin
da piccolo si sapesse difendere e non gli potesse accadere niente di male.
Niente Carlo
uguale niente denaro. La verità gli disse che quel che aveva detto non era
falsità. E gli raccontò le sue vere origini: "Tu sei figlio del re Auron
discendente della casata degli oggetti di reis, sovrano della Luna di Iego. Il
suo compito era vigilare sugli oggetti che avrebbero condotto alla gemma magica
del bene. Il cuore rappresentava la purezza e la rosa: l’amore e
l’amicizia che da esso scaturisce. Solo l’erede al trono potrà estrarlo
col ciondolo. Ci vorrà però anche l’uso della spada dalle gocce
d’acqua pietrificate". Carlo
ribatté che sia il ciondolo che la spada erano di Lado. Con la stessa voce lei
rispose: "Il re sposò la regina elica Minaschein del pianeta degli elfi
dorati ormai andato distrutto. Per questo tuo fratello gemello è un elfo".
Se non fosse stata la dama della verità, Carlo
le avrebbe dato della bugiarda. Un idea gli balenò all’improvviso e
curioso e pieno di speranza chiese: "I nostri genitori sono ancora
vivi". La dama rispose: "Di questo non posso parlare. Tu lo dovrai
scoprire. Ti dirò invece che Ricard in realtà e una ragazza di nome Energy. Che
vuole vendicare il fratello Ricard. Altri non è che lo smemorato Michelangelo.
I capelli e gli occhi sono uguali, ma la voce e il corpo sono così
irriconoscibili che nemmeno la sorella lo ha riconosciuto. E tuo dovere
fermarla prima che compì un gesto che le potrebbe costare la vita. Ti dirò
anche che se userai la leva del suo cuore Lindar ti aiuterà". Poi svanì. Carlo si chiese
chi era Lindar. Come mai lui è suo fratello erano finiti sulla terra e in
due luoghi diversi. E tanti altri quesiti ancora. Al posto della dama apparve
una grande torcia dal fuoco blu con occhi e bocca di lava. Ghignava prendendosi
gioco di Carlo.
Mostrando graffiti che il ragazzo non aveva notato prima. Raffiguravano le
arpie. Mostri orribili metà uccello e metà donna. Mangiavano a un banchetto
dentro un tempio in maniera voltastomachevole. Facendo feci subito dopo
ovunque. Stavano su una bellissima isola. In cui viveva un povero cieco. A Carlo ricordò il
veggente. Anzi forse era lui. Continuando sul muro si vedeva arrivare una nave
troiana. Da cui scendeva un eroe che cacciava le arpie. Appena l’eroe se
ne fu andato le arpie tornarono. Però il momentaneo allontanamento di quegli
esseri aveva rotto l’incantesimo in cui si trovava il cieco. Raffigurato
in catene magiche luminescenti che si spezzano. L’uomo a quel punto
scomparì dall’isola e riappariva sulla Luna di Iego. Qui era stato
accolto dai regnanti. E lui in riconoscenza li aveva aiutati come mago di
corte, stile Merlino. Le dinastie si succedettero. Stanco di quella vita il
veggente dopo secoli si congedò dai regnanti di quel momento e andò a vivere
solo in una grotta nelle profondità marine. Quando però arrivò tre ere dopo
Barden, riunendo gli esseri malvagi e marci del pianeta dalle prigioni e dagli
antri oscuri, il veggente preparò il suo piano. Salvò i figli del re.
L’uomo tra gli uomini, l’elfo tra gli elfi. Le cose preziose agli
elfi non pieni di cupidigia. Il bambino coi poteri tra i gelosi che lo
avrebbero protetto come oro. Alla fine Carlo
vide che c’era un suo ritratto. In cui era bianco come un cadavere, con
due grosse occhiaie e i capelli arruffati in cui diceva: "Apriti
sesamo" (Fantasia NdLettori) (Uffa, a me funziona sempre quando si apre il
garage NdA). Era la famosa frase di Alì Babà. La pronunciò e un pezzo di roccia
si spostò aprendo un passaggio. All’interno c’era un armatura e una
spada identiche a quelle di Lado. Con accanto un unicorno bianco purosangue.
Però non poteva toccarli. Sarebbero apparsi alla battaglia definitiva contro
Barden. Vide anche per terra un piccolo Cerbero d’avorio. In preda alla
magia che aleggiava forte in quel luogo da secoli l’oggettino volò e si
appoggio sul corno come se non aspettasse altro. Fu come se partisse un
congegno insito nel corno. Come se l’oggetto fosse la molla di un carion,
in questo caso il corno. Il corno suonò una marcia di guerra. Che infuse tanto
coraggio a Carlo
che decise che l’avrebbe suonata alla grande lotta contro il Generale. Di
contrasto all’ultima nota della carica provenì una nenia triste. Sembrava
venisse dalle stesse pareti. Nella mente del ragazzo apparve l’immagine
di un’elfa con una corona di foglie della foresta pietrificata. Successivamente
vide un giovane re con una corona d’oro, ma semplice e priva di gemme. In
braccio al re c’era un piccolo bambino con appena un ciuffetto di capelli
neri e tipici occhi blu intenso dei neonati. Poi accanto a lui di nuovo
l’elfa. Nelle braccia dell’elfa stava invece, in una piccola
coperta blu si seta, un piccolo neonato con gli occhi viola, un ciuffetto
di capelli verdi e minuscole orecchie a punta. Ancora dopo apparve un enorme
castello. A cui si sovrapponeva l’immagine delle rovine in cui si era
trasformato. I una c’erano enormi vetrate di mille colori che
raffiguravano animali leggendari e eroi valorosi del passato. Nell’altra
le grandi mura con le vetrate erano crollate, lasciando per terra grandi rocce
e frammenti di vetri multicolori. A una visione, tra quelle in cui tutto era
nel massimo splendore, Carlo rimase sconvolto. Il re, che ormai il ragazzo
aveva capito essere suo padre, stava stipulando un patto di alleanza con la
regina delle fate e con la regina del lago che stava racchiusa in una bolla
piena d’acqua. Carlo non ebbe bisogno di vedere immagini. Era stato alle
rovine dell’antica città delle fate. E aveva saputo dello stermino delle
fate. Ed era andato nelle profondità del lago vedendo quel popolo sottomesso,
nei cui cuori era rimasta la scintilla della libertà. Vide sorgere un altro
castello sulle rovine di quello dei suoi antenati. E molti altri castelli nelle
isole intorno come sentinelle nere sulle onde del mare. E sapere che il
castello nero di Barden aveva distrutto ciò che rimaneva di quel antico luogo
dei suoi avi lo fece star male. Vide i ritratti degli antichi re strappati.
Bellissime statue di antiche dame gettate in terra frantumate. Sentì solo la
voce rauca del malefico Generale che urlava: "Non fate prigionieri".
Vide la regina sua madre in un abito bellissimo del seicento, ma semplice.
Aveva i capelli in uno chignon che era tenuto insieme da mille spille. Aveva
nei capelli un diadema d’argento, impreziosito con quarzi. Il re era
accanto a lei con un abito regale e un mantello di porpora. Aveva la stessa
corona delle visioni precedenti. Stavano festeggiando la nascita dei loro
figli. Quando irruppe Barden circondato da orribili esseri che una volta
dovevano essere stati uomini. Il re si fece avanti per combattere. In quel momento
la musica finì. La visione si interruppe. Carlo ci mise un po’ a tornare
alla realtà. Il piccolo oggettino si staccò dal corno e si frantumò. A quel
piccolo rumore apparve una botola. Carlo gli si avvicinò e l’aprì.
C’erano dei gradini che portavano sempre più in basso. Ai lati
c’erano delle torce di un azzurro che andava sul bianco. Decise di
scendere. Non vedeva l’ora di recuperare la gemma. Tornare da Miriam, dai
suoi compagni, dai draghi e dai maestri. Era stufo di tutta quell’avventura.
Aveva scoperto tutto in troppo poco tempo. Cominciò a scendere. La scala gli
sembrò infinita. Si addentrava sempre più in profondità. Arrivò ad un canneto.
Si ricordò di una foto della Cina con canne di bambù ovunque. Sembrava finito
proprio in quella foto. Però era al buio e non c’era nessun simpatico
panda. Si sentivano però i suoni della giungla e della foresta pluviale. In una
canna spezzata gracchiava una raganella. Vedendo quel piccolo animale Carlo si
rincuorò. Andando avanti facendosi largo tra le foglie arrivò a un grande
specchio. Era di quercia, molto antico. In stile barocco. Con due aironi
scalfiti ai lati. Il vetro riluceva come se riflettesse la luce lunare, ma lì
luna non c’era. Al di sopra c’era scritto: "Conosci te
stesso". La famosa frase del filosofo greco Socrate.(Questo dimostra che
per l'esame che mi devo dare ho studiato troppo NdA). Nello specchio
c’era l’immagine riflessa di Carlo. Non era altro che un riflesso.
Appariva come il vero Carlo. In realtà non esisteva. Però c’era qualcosa
di strano. Anche se era simile in tutto e per tutto aveva uno sguardo cattivo.
E capì. Stava vedendo i vari aspetti di se stesso nello specchio. In quel
momento il suo lato negativo. Doveva liberarsi dal suo odio per il Generale
Barden. O almeno mitigarlo in risentimento. Poi venne la volta in cui si vide
come un ragazzino, un bambino spaurito. Doveva sconfiggere la paura che
c’era in lui. Con coraggio avrebbe dovuto vincere il nemico e con Lado
prendere il trono che gli spettava di diritto. Poi vide riflessa nei suoi occhi
Miriam. Doveva accettare quell’amore e dirle tutto. Poi si vide stanco.
Si ricordò anche del graffito della grotta. Doveva accettare i suoi limiti
fisici. Tentare si superarli senza indebolirsi fino al cedimento. Non era
semplice, ma doveva provarci. Gli risuonarono alle orecchie le parole del suo
maestro. Aido gli aveva detto: "Arrendersi è facile. Il vero uomo si
mostra riuscendo dove chiunque potrebbe fallire". Carlo avanzò ancora in
quella foresta di giunchi. Continuò così a lungo. Forse per delle ore o forse
per poco tempo che al ragazzo sembrò lunghissimo. Alla fine quando si ritrovò a
una canna un po’ storta che credeva di aver passato più volte si fermò.
Si sedette per terra e appoggiò la testa alla canna. Sentì piccoli passi intorno.
Anche se era buio scorse tanti occhi rossi. E più quegli esseri si
avvicinavano, più prendevano forma. C’erano esseri a forma di ragno.
Piccoli grinich. Orribili pipistrelli. Lupi mannari. Mani bianche di morto.
Orribili vampiri. Il ragazzo si alzò di scatto come se la terra sotto di lui
avesse cominciato a scottare. Prese a correre senza voltarsi indietro. I suoi
inseguitori gli erano sempre più vicini. Poteva sentire il loro fiato sul
collo. Finche non andò a sbattere contro lo specchio. Aveva sentito dire che
gli spiriti malvagi che sin dalla nascita vivevano nell’oscurità non
sopportavano il loro riflesso allo specchio. Il ragazzo prese l’enorme
specchi e lo voltò un attimo prima che gli esseri gli saltassero alla
gola. Appena videro la luce dello specchio fu come se un fuoco interno ardesse
nelle loro viscere facendoli bruciare. Finche non divennero polvere in pochi
secondi. Ancora un po’ scosso si mise in marcia. Avanzò verso quella che
gli sembrava una luce lontana. Quando sentì dei fievoli versi striduli. Si
abbassò e raccolse un piccolo tesserino. Guardandolo gli ispirò tenerezza. Era
una piccola palla di pelo bianco. Con due piccole zampine anch’esse
ricoperte di morbido pelo color neve. Aveva cinque grandi occhi verdi. Gli
occhietti erano vitrei e teneri. Ne aveva uno al centro della fronte. Due come
gli esseri umani. E due lì vicino. Aveva anche una piccola boccuccia.
L’animaletto non parlava faceva solo versi. Carlo decise di chiamarlo:
“Pelosino”. L’esserino lo guardava con occhicodì dolci e
spaventati che il ragazzo pensò si fosse perso e fosse totalmente innocuo.
Preso dalla tenerezza e dalla compassione decise di portarlo con se. Pelosino
si mise sulla sua spalla come un pappagallo dei pirati. Anche se
l’effetto era molto più strano. Carlo si mise in marcia con
l’esserino che si strofinava alla sua faccia facendo l’equilibrista
per rimanere appollaiato sulla sua spalla. Dovevano essere stati quegli esseri
a far smarrire la via Carlo, perché senza di loro riuscì ben presto a uscire
dalla foresta di giunchi. Il luogo in cui si ritrovò non era certo migliore.
Una vasta e fetida palude. Con acqua gialla che ribolliva. Fango e melma
ovunque. Forse uno o due alberi spogli. Sembravano morti e bruciati. Alzavano i
loro esili rami come mani in supplica di aiuto. Sembrava che la desolazione e
la morte regnassero in quel luogo. L’aria era irrespirabile. Anche se ci
fosse stato il sole non avrebbe potuto vederlo. Il cielo era coperto da una
spessa coltre di nubbi nere. Si ricordò le prime regole nelle paludi dei luoghi
magici. Non seguire voci o luci, non allontanarsi da quello che sembra un
sentiero e stare attenti alle sabbie mobili. Ad ogni passo gli sembrava di
perdere energie. Si sentiva stanco. Una strana depressione gli raggelava il
cuore. Si sentiva confitto. Come faceva un semplice ragazzino a sconfiggere un
Generale? Un uomo che era riuscito a conquistare un intero pianeta. Pensò che
era solo, senza più i suoi amici e i maestri. L’immagine di Miriam, uno
dei motivi per cui non si era ancora arreso, si allontanò dalla sua mente. Più
cedeva sotto il peso di quei pensieri, più affondava nella palude. Arrivato a
essere sommerso fino al bacino, scivolò lentamente nell’incoscienza.
Rimase a lungo privo di sensi. E sognò. Vide Miriam. Gli si stava avvicinando
con passo leggero. Accennando dei passi di danza. Seguendo una musica
impercettibile. Piangeva, ma cercava di rimanere seria. Diceva parole antiche.
Arrivata davanti a lui si chinò. Si mise in ginocchio e lo baciò sulla fronte.
E disse: "Quello che vedi e l’incantesimo di protezione che Miriam
lanciò per proteggerti. Riprenditi". Si svegliò di colpo e vide che
Pelosino gli stava leccando la faccia. Quello strano sogno gli diede abbastanza
energia per uscire da quella fanghiglia. Anche se a fatica si rimise in viaggio.
Quando dal fango uscì uno strano essere. Era un grande coccodrillo. Al posto
delle zampe anteriori aveva le mani. Al posto delle zampe posteriori i piedi.
Sembrava deciso ad aggredire il ragazzo. Si mise a correre verso Carlo. Aprì le
fauci e mostrò i suoi terribili canini. Agitò la coda e con un colpo secco aprì
un enorme falla nel terreno. Carlo si rese invisibile. Perché non lo aveva
fatto nel canneto non lo sapeva nemmeno lui. Il ragazzo se ne sarebbe scappato
non visto se Pelosino non fosse rimasto visibile. Doveva salvare il suo nuovo
piccolo animaletto. L’unico che gli aveva dato conforto in quel luogo.
Saltò in groppa al coccodrillo gigante. Le mani e i piedi dell’essere non
resistettero e il rettile cadde sulla pancia. Il ragazzo gli tenne chiusa la
bocca. La legò con la sua cintura. L’essere disarcionò Carlo. Il
coccodrillo era pazzo di furore. Aprì la bocca rompendo la cintola. Si
mise a saltare ringhiando. Doveva essere quello il verso degli antichi
dinosauri che abitavano sul pianeta miliardi di anni fa. Le scaglie del rettile
sembrarono divenire più forti. Le mani e piedi divennero le normali zampe.
Senza accorgersene il coccodrillo andò indietro. E cadde rovinosamente nella
buca che lui stesso aveva aperto. Nella voragine il mostro trovò la morte.
Pelosino scappò. Carlo si mise a rincorrerlo. L’esserino lo condusse
fuori dalla palude. Appena uscito quella sensazione di sconfitta scomparve. Si
ritrovò in un prato. Anche se non c’era la luce del sole ed era notte si
vedevano, grazie alla luce prodotta, centinaia di lucciole. Sembrava un posto
felice e tranquillo. Il danzare dei piccoli insetti rilucenti era tanto bello,
ammaliante, quasi ipnotico. Tutto intorno c’erano le belle di notte. Che
sbocciavano solo quando il sole andava a dormire e si richiudevano alla stella
di Venere. Si sentiva come se avesse bevuto
un’intera bottiglia di vino. Forse era la felicità di essere scampato
alla palude. Forse un altro incantesimo. Non se ne preoccupò. Voleva godersi quella
sensazione di pace. Sembrava di esserein estate. Il caldo torrido, la stella
polara lontana e la stella di Sirio splendente. A poco a
poco il figlio della notte, fratello minore della morte: il sonno, lo prese con
se. Non sapeva che tutto quello era causato dal profumo magico di una piccola
rosa bianca nascosta dietro una bella di notte. Più Carlo veniva incantato più
la rosa diveniva rossa. Se poi avesse continuato sarebbe divenuta nera
tramutandolo in una bella di notte. Erano stati uomini tutte le altre piante di
quei dolci fiori. Destinati a non vedere più la luce del sole. Pelosino era
immune al suo effetto, non avendo naso. Aveva un compito segreto da attuare.
Prima di tutto evitare la morte o la trasformazione di Carlo. Con la sua vista
più acuta di un aquila, che vuoi con cinque occhi, scovò la rosa. Con le sue
veloci zampine la distrusse. L’incanto si ruppe. Carlo si svegliò. Era
ancora nella palude. Intanto persone addormentate di ogni specie. Libere dall’incanto
furono teletrasportato alle loro dimore lontane. Il ragazzo non sapeva quello
che era successo e non immaginava che quel piccolo animale avesse sconfitto un
illusione tanto forte. Alzandosi notò una grande lavagna. Come quelle di
scuola. Era nera e lucida. Molto più grande di quelle normali. Alta almeno come
una parete. Era del tutto illogico che si trovasse lì in mezzo al nulla
comparsa all’improvviso. Tutto intorno c’era la palude. Ci appoggio
la mano per vedere se fosse vera e vide che l’attraversava. Non arrivava
dall’altra parte, rimaneva all’interno della lavagna. Arrivò
Pelosino correndo e l’attraversò sparendo nelle lavagna. Doveva essere
una sorta di porta, di passaggio. Era preoccupato. Non sapeva dove portava.
Pensò che ovunque però, sarebbe stato meglio che lì. Carlo infilò la testa per
vedere. Fu risucchiato. E dopo avere fatto un viaggio che lo aveva sballottato,
arrivò in un luogo da fiaba. Quello che vedeva in cielo non poteva essere il
sole vero. Aveva due occhi giovali, un naso un naso all’insù e un gran
sorriso. Gli faceva l’occhiolino. Gli uccellini invece di cinguettare,
cantavano: "Ciao, ciao, ciao". Gli animali erano più grandi del
normale e parlavano. Vide Pelosino che saltellava. L’animaletto aveva compiuto
la sua missione. Quel popolo era amico del veggente. Che li aveva avvertiti
dell’arrivo del ragazzo. Carlo fu accolto dai genitori di Pelosino. Senza
saper di aver indovinato il nome dell’esserino. Il padre di Pelosino era
azzurro. La madre rossa con macchie gialle. Erano per il resto identici, forse
un po’ più grandi di altezza. Al contrario del cucciolo parlavano. Si
fecero raccontare le avventure del giovane e decisero di aiutarlo. In cambiò
però dovette fargli dei favori. Raccogliere il miele dalle api assassine per l’orso.
Arare i campi del maiale-fattore che erano immensi. Costruire la stalla
dell’asino gigante. Camminare sulle braci ardenti per far divertire la
iena. Abbattere alberi per il castoro. Aiutare a fabbricare le armi per il
toro. Costruire un nido, lui lo fece come un cesto di canne col fondo riempito
d’erba, per il passero. Fare i massaggi col piede al porcospino. Far
restare il ghiro per mezz’ora. E tante altre. Alcune pericolose, altre
dolorose, altre faticose, ma tutte fattibili. (Mi rivolgerò al comitato dei personaggi.
Nella storia tu mi sfrutti NdCarlo) (No, che dici? L'hai passato
l'aspirapolvere? NdA). Alla fine salutò i nuovi alleati. E fu teletrasportato
alla città sotterranea dei nani. Dove lo aspettava un pericoloso essere. Se lo
ritrovò davanti. Doveva essere una specie di troll. Sembrava un pezzo di
montagna che si fosse staccato e avesse preso vita. Aveva uno sguardo ebete, ma
assolutamente feroce. In mano aveva una mazza bitorzoluta. Sembrava avesse
sradicato un albero e lo avesse livellato dandogli quella forma a suon di
colpi. Aveva un alito appestante. E Carlo notò che puzzava come il suo prozio
Molt. Anzi non era veramente uno zio. Lui era il fratello del
padre adottivo. L’essere portava una cotta di maglia con disegnata la Fama. (Era un mostro alato
fornito di occhi, orecchie e bocca in ognuna delle sue penne. Vola sempre. E
porta le notizie, anche private, ovunque.NdA ficcanaso con libro degli animali
mitici in mano). Il troll aveva volto feroce, atroce cuore e nemmeno un
briciolo di cervello. Il suolo di quella grotta sembrava tiepido di strage
recente. Chissà quanti fili a causa sua avevano tagliato le Parche. Erano affissi in giro e pendevano bianchi teschi che la
putrefazione aveva scarnito. Sembrava reso folle dalle famose Furie. Che aleggiavano in quel luogo indisturbate dalla guerra
contro Barden. I nomi delle furie erano Aletto, Tisifone e Megera. Visi torvi e
capelli. Sono nate dal sangue dei primi Dei. I nani erano un popolo pacifico.
Che però contava solo su se stesso. Amante delle pietre preziose e dei metalli
luccicanti.. Scavavano nelle profondità della terra. Alcune volte fin troppo in
basso. Costruivano le case per gli anziani e per i bambini sulle cime dei monti
incavandole fino a renderle confortevoli. Le donne stavano nelle case
sotterranee. Dove c’era abbastanza luce artificiale di torce magiche, ma
né sole né elettricità. C’erano giardinetti di licheni per allietare la
vita alle giovani ragazze. Allevavano le talpe come cani da fiuto per cercare i
funghi. I pipistrelli come animaletti. I maschi passavano tutto il tempo a
lavorare. Erano avanzatissimi nei materiali e nei mezzi di scavo e di
costruzioni. Fino a perdere la loro bravura nel combattimento. A furia di lavorare
curvi divennero anche più bassi. Il lento movimento gli fece perdere velocità.
A furia di lavorare a catena di montaggio persero l’ingegno e
l’astuzia. Quando Barden li aveva attaccati, aveva vinto senza
difficoltà. Aveva estratto il possibile. E quando non c’era stato più
niente l’aveva abbandonato lasciando quell’essere che dormiva lì da
secoli e secoli immobile. Il ragazzo afferrò una lancia che giaceva a terra
staccandola dal cadavere di un archetto e la lanciò contro il troll. Il mostrò
grido di rabbia e di paura. Non si aspettava che quel moscerino
l’attaccasse. L’arrivo del ragazzo portò la speranza della
sconfitta del nemico. Le furie svanirono. Al loro posto apparvero delle driadi.
Anche se erano lontane dai loro alberi. Più l’essere cercava inutilmente
di colpire Carlo che sgusciava come un furetto, più si inferociva. Carlo vide
uno scudo a mezzaluna come quello delle amazzoni. Ricordò il loro stile di
combattere. Roteavano i bastoni spaventando e confondendo l’avversario.
Poi colpivano con bravura abbattendo il nemico. Con il troll, gli sarebbe
proprio servito un esercito di amazzoni scatenate. Il punto debole dei troll di
solito era il collo, ma quell’essere ne era sprovvisto. La testa era
famosa per quanto era dura, come la roccia. Forse solo la sua clava
l’avrebbe potuto abbattere. Tutto il corpo non era da prendere in
considerazione. Era rimasto fermo immobile, immutabile a dormire per secoli e
secoli senza mai cedere. Addirittura sopra la sua spessa pelle erano cresciuti
funghi, erbacce e licheni. La cotta di maglia non si era per niente
modificata, nemmeno arrugginita. Cominciava a essere stanco di saltare qua e là
schivando la clava. Non capiva perché anche se era invisibile il troll riusciva
a vederlo. Forse grazie a l’odore, forse aveva lo sguardo che captava il
calore, forse i raggi x. Comunque fosse era una situazione critica. Coi muscoli
non avrebbe risolto niente doveva usare il cervello. Ecco la soluzione. Il
troll non pensava. Doveva confonderlo. Prese in mano delle pietruzze. E
cominciò a fare il giocoliere. Il troll si fermò confuso. E dopo il primo
attimo di sconcerto, cominciò a divertirsi. Buttò giù la clava. Che sbatté per
terra con gran rumore. E più il ragazzo andava avanti con quel giochino che gli
aveva insegnato il nonno adottivo. Più il troll si eccitava. Si mise a danzare.
Sembrava un orso col dolore alla zampe. Il terreno vibrava. Carlo fece una gran
fatica per rimanere in piedi e una gran fatica per continuare il suo numero da
giocoliere. La felicità fu tale che l’essere si tramutò in acqua fresca.
E scivolò via come una piccola fonte. Il ragazzo fu preso alla sprovvista da
quella trasformazione. La sua idea era di ipnotizzare il troll che sarebbe
caduto a terra addormentato. In quel luogo poteva succedere di tutto. E questo
fu comprovato dal fatto che Carlo vide sparire tutto quello che aveva intorno.
Come se una gomma invisibile stesse cancellando tutto. Si ritrovò nel nulla. Al
buio. Con strano oggetti dalle forme geometriche che vagavano vicino e intorno.
C’era una porta. Superò un simbolo. O era l’infinito o era un otto.
Aprì la porta. C’era una stanza. Finalmente qualcosa di normale. Entrò
nella stanza. Era di marmo bianco e nero. Sia i muri che il pavimento a
scacchiera. Anche qui non c’erano finestre. Non vedeva la luce del sole
dalla porta in cui aveva infilato le chiavi. La porta da cui era passato per
entrare nella stanza in ebano con una forma anonima, priva di stile. Si era
chiusa sola appena entrato. Il marmo riluceva rischiarando.
All’angolo c’era una statua di un uomo. Con grandi baffi. Una
faccia cattiva. Un cilindro. Il monocolo. Un panciotto stretto. E un lungo
pantalone che nascondeva le scarpe. Il ragazzo decise di uscire. Di fronte
c’era la porta che lo avrebbe condotto altrove. Era identica all’altra.
Superò la porta. Anche questa si chiuse a scatto dietro di lui appena varcata
la soglia. La statua era identica con una statua precisa alla precedente. Dopo
la stanza un'altra. Un'altra. Un'altra. Un'altra. Ancora un'altra. Tutte
identiche. Con la stessa statua nello stesso posto. Fu come se un fulmine gli
trapassasse da una parte all’altra il cervello sconquassandolo. Aveva
capito. Era un altro incantesimo. Era il labirinto preannunciatogli. Per
provarlo spostò la statua della stanza girata verso la porta da cui era
entrato. Aprì la porta per uscire. Entrò in un'altra stanza. L’entrata si
richiuse. E la vide. La statua era lì al centro al centro della stanza. Non
c’erano più dubbi. Doveva capire cosa provocava l’incanto. Si
sedette a ragionare. Come avrebbe detto Michelangelo: "Riesco a sentire
gli ingranaggi e le tue rotelle in movimento" oppure"Non pensare troppo ti fa male".
(Che bella frase per concludere NdLettori) (Emh O_O" NdA).
Note:
stella
del mattino
stella visibile solamente in estate
dette anche Moire, nella mitologia greca le
tre dee che stabilivano il destino degli uomini
dette anche Erinni, nella mitologia
romana le tre vendicatrici facevano impazzire
Ringrazio chi mi ha messo tra i preferiti e:
Milli lil: Ora mi posso slegare dal pc? Ho le gambe anchilosate. Inoltre la
frusta fa male. No scherzo. Fammi sapere se hai gradito. ciauuuuuuuu
berry345: Sono felice che ti piaccia leggere le tue storie. Spero un giorno di
leggere nuovamente Help us, per ora ho recensito l'altra tua ff. Spero che il
chappy ti sia piaciuto. alla prox. kiss
Ormai ci
ho preso gusto con le immagini. Scusate, nn ho capito perkè l’ultimo
chappy è venuto formato ridotto. Uffa. Ringrazio anche solo chi legge.
Cap.13 La guerra ha inizio
Dopo
parecchio tempo arrivò l’illuminazione. Quella statua lo guardava in
maniera malvagia, trionfante. Sembrava che quegli occhi lo seguissero passo
passo. Era stato abbastanza vicino alla magia in quell’ultimo anno. Tanto
per sapere che di solito l’incantesimo sta in un oggetto. E che in ogni
prova c’è una soluzione. Si alzò. Spinse la statua fino a farla cadere.
Rimase intera per alcuni minuti. Subito dopo la testa si staccò di netto dal
collo mandando bagliori arancioni e neri. Il ragazzo aprì la porta. Con sua
grande felicità scoprì che la malia era svanita. Davanti a lui stava quello che
a una prima occhiata poteva sembrare un tempio greco. Aveva però tutto intorno
montagne di dobloni d’oro dei tempi dei pirati. E al centro della
costruzione stava un altare. Che aveva la forma di un tempio Maya molto
rimpicciolito. Un giaguaro si avvicinò con passo felpato ed elegante al
ragazzo. Lo squadrò da capo a piedi e con voce felina: “Messere, qui
nessuno entra. La gemma ha un potere al di sopra delle forze di chiunque. Non
può essere capito subito. Lascerei passare le maestà di questa terra antica. La
stirpe dei regnanti però è finita diciassette anni fa”. Carlo cercò di
parlare come gli esseri saggi che aveva incontrato finora e somigliare a un re disse:
“ La stirpe non è decaduta. Io e mio fratello sconfiggeremo
l’invasore. Non voglio diventare re. Voglio solo salvare il pianeta e il
mio regno”. La fiera rise, ma non con una risata incontrollata, e disse:
“Se quel che dici e vero, che lo voglia o no diventerai re. Non sento in
te l’odore del codardo bugiardo. Visto che sei arrivato fino a qui
ragazzino mi fiderò. Ricorda però che se toccherai qualunque cosa che non sia
la gemma per sempre rimarrai intrappolato qui. Attento alla cupidigia”.
Il ragazzo lo vide sparire nell’ombra. Non notò neanche i dobloni. Corse
alla gemma. Era piccolissima. Sembrava troppo insignificante al confronto con
le fatiche per averla. Era un cuore d’ambra con incavata una rosa bianca.
Una placca d’oro lì vicino riportava la scritta seguente: “Il
potere della gemma è quello di annullare la magia e i poteri. Sia del
proprietario che del nemico. Potrà funzionare solo in mano a chi possiede un
cuore puro”. Carlo all’inizio pensò fosse più un danno che un
beneficio. Il grande esercito del Generale Barden era formato soprattutto da
esseri che utilizzano solo la magia. Aveva però anche degli abili combattenti.
Infallibili arcieri, astuti spadaccini e furbi strateghi. Loro erano solo dei
ragazzini che basavano sui poteri. Dalla loro parte avevano i ribelli, gli
uomini del lago, le amazzoni e gli animali parlanti. Doveva trovare altri
combattenti. Cercò di prendere la pietra. Sembrava attaccata con la super-colla
usata dai cartoni animati americani. Una delle grandi passione di Lado e
Michelangelo. Chissà se era vero che Michelangelo era Ricard. In fondo Ricard
era Energy. (Io mi sto confondendo xD NdA) (Pensa noi NdLettori). Lado era suo
fratello e principe della Luna di Iego. E il ragazzo che aveva ricambiato da
sempre il suo sguardo dallo specchio era il re. Come faceva un imbranato come
lui a essere re. Forse però l’aveva sempre saputo che apparteneva ad un
altro mondo. Decise di rimandare quel flusso di pensieri a dopo. Il
problema di quel momento era trovare un modo per prendere la gemma. Si ricordò
di avere ancora due oggetti magici nella tasca. Il ciondolo di Lado in cui
doveva andare l’oggetto tanto agognato. E il pugnale con la pietra
magica. Prese l’arma. Gli staccò la pietra. Rimise in tasca il pugnale,
lo avrebbe riconsegnato al proprietario. Prese il gioiello e lo mise vicino al
cuore d’ambra. Che finalmente si staccò. L’altro oggetto magico
evaporò in un fil di fumo rosso. Da quel momento la magia era iniziata. Capì
perché doveva essere lui a portarla a destinazione. Era abituato a non usare
poteri. Aveva vissuto tutta la vita come una persona normale. Tranne quando
giocava a nascondino. La gemma brillò. Prese posto nel ciondolo. E lo riportò
nella sua dimensione. Nel giorno di Natale. Al compleanno di Barden Nel
castello nero. Che sorgeva sopra le rovine del castello dei re della Luna di
Iego. Al centro della sala grande. Vicino al tavolo dei banchetti. Con davanti
il brutto muso del Generale Barden. La gemma fino alla grande battaglia non
sarebbe servita conto i malocchi delle streghe e i contro-malocchi. E mai
contro il volo. Dallo stupore di vedere un ragazzo apparire dal nulla a molti
caddero addirittura le armi. Tutti ammutolirono. Compreso il Generale. Carlo
saltò in piedi brandendo la spada luccicante raccolta da terra. Il nemico rise
era molto più grande di lui e anche più forte. E i suoi scagnozzi gli avrebbero
dato manforte. Carlo per nulla intimorito colpiva braccia e gambe riducendo i
nemici all’impotenza, senza doverli uccidere. Erano troppi, anche se
Carlo c’è la mise tutta, si ritrovò in un angolo con le streghe che
stavano per lanciargli malefici. Proprio quando sembrava la fine arrivò il
resto del piccolo gruppo di supereroi. Con qualche amico in più. Carlo non
immaginava che tutti erano stati imprigionati nella prigione del castello
proprio mentre Donatel e Ricard si trovavano in quello stesso castello sotto
falsa identità. Durante quel trambusto avevano liberato gli altri. La lotta ora
era ad armi pari. Robert recitò un potente antimalocchio contro gli incantesimi
delle streghe. Michelangelo si occupò dei mostri di lava. Leopold degli uomini.
Lado degli orchi. Energy aiutava Carlo poiché puntavano tutte e due verso
Barden. Il Gjarg Gjarg aveva perso il suo potere di mangiare tutto, ma lo
stesso i suoi denti facevano male alle caviglie nemiche. Lotshar si nascose
sotto il grande tavolo dei banchetti. Dove incontro un essere che rassomigliava
a un maiale-cinghiale, ma i due invece di combattere si fecero segno di non far
rumore. Uno si nascose da una parte del tavolo e l’altro
dall’altra. Tra se la intendevano senza considerare da che parte sta
l’altro. Donatel avrebbe volentieri usato il suo nuovo potere. Creava dei
tornadi di energia, li inglobava e andava a super velocità. Anche se avrebbe
continuato a creare trombe d’aria che avvolgevano i nemici facendoli
volare a metri di distanza. Dovette accontentarsi di combattere con le armi.
Miriam volava su i nemici confondendoli. E li stancava, visto che non la
riuscivano a colpire. Ormai Carlo ed Energy erano da Barden. Quando arrivò un
orribile orco. Era uno dei migliori del Generale. Con cui si mise a combattere
Energy. Carlo e il Generale Barde si trovarono faccia a faccia entrambi armati
di spade. Le spade si incrociavano sopra le loro teste o davanti a loro.
Mandando scintille. Barden cercò di colpirlo alla spalla. Il ragazzo rispose
con una parata. E spinse la spada di Barden di lato. Poi alzò la lama. E le due
spade si incrociarono di lato. I due cercavano di superarsi in astuzia e
bravura. Le due armi erano entrambe puntate verso il basso. Con le velocità le
rialzarono. Barden tentò un colpo. Che andò a vuoto. Carlo ne approfittò per
colpirlo. Barden parò spingendo con tutta la sua forza. Fino a scheggiare le
spada del ragazzo. Che si spostò. Il Generale quasi perse l’equilibrio.
Le spade si toccarono sulla punta col piatto. Le due armi si distaccarono. La
spada di Carlo si mosse velocemente. Mentre Barden ripartiva all’attacco
saltandogli sopra. Carlo riuscì a spostarsi mentre Barden saltava dove pochi
attimi prima era stato lui. E il colpo sfiorò il pavimento non ferendolo.
Barden rialzò la spada. Mentre Carlo caduto a terra rotolò via. Il ragazzo si
rialzò immediatamente. Spostandosi indietro mentre il Generale colpiva. Barden
rialzò la lama e tento di nuovo di colpire. Carlo sferrò un colpo verso Barden
nello stesso momento. Le spade si sfiorarono. I due cercarono di colpirsi di
nuovo. Il colpo di spada di Barden era tanto forte, che anche se Carlo lo parò,
fu sbalzato indietro. Fortuna volle che rimase in piedi. Si lanciò contro
Barden. E stavolta fu lui a dovere indietreggiare. I colpi si susseguirono.
Barden indietreggiava sempre di più. Da una parte perché era in difficoltà,
dall’altra perché voleva arrivare alla stanza dell’arma segreta.
Alla sua entrata, fingendo di strisciare contro il muro, schiacciò il pulsante
che disattivò i sistemi di sicurezza. I due arrivarono nella stanza
dell’oggetto. Dove, grazie al riconoscimento del Generale, la luce rossa
si era attenuata fino ad essere quasi inesistente. Carlo spinse Barden contro
il muro e lo disarmò. Barden evitò la spada di Carlo muovendosi a sinistra e la
spada del ragazzo rimase conficcata nel muro. Barden diede un gancio a Carlo.
Stendendolo a terra poco distante da lui. Il Generale con volto soddisfatto
disse: “Questo non è il momento né il luogo per un vero duello. Se vuoi
la guerra si farà. La battaglia si farà nella grande radura della Terra del
Verde a mezzogiorno. Dove userò la mia arma segreta”. Carlo fissò
l’oggetto su un cuscino viola. Era la famosa ama segreta. Carlo si era
immaginato un laser da film di 007. Un ordigno atomico, al massimo una bomba.
Non si sarebbe mai aspettato quello che era in realtà. Un piccolo anellino
d’oro, con la forma di un drago arrotolato su se stesso con la coda che
si affiancava alla testa, con un rubino che emanava una luce rossa. Nelle dita
di qualunque uomo sarebbe stato troppo piccolo. Le dita di Barden erano molto
più affusolate e lunghe di chiunque altro. Con delle lunghe e affilate unghie.
La testa era così magra che prendeva la forma di un teschio. Era pelato con la
fronte alta. Un grande naso a patata poco dignitoso per un malvagio come lui.
Occhi rossi piccoli come fessure. Grandi e folte sopracciglia. Un furente e
trionfante cipiglio. Stampato un ghigno strafottente. Mento prominente. Collo
tarchiato. Vestito da generale, munito addirittura di un medaglia, con un lungo
mantello. Aveva grandi stivali neri. Con quei vestiti e la mano dentro la
giacca sembrava Napoleone. Era alto, ma non si notava poiché era grassoccio. Come
se dovesse uscire dalla sua pelle. Prese l’oggetto magico per portarlo
lontano da Carlo e attivarlo. Si aprì una botola. Che lo fece arrivare alla
cabina di un sottomarino. Con cui scappò. Leopold sentì come un richiamo
irresistibile. Continuava a combattere. Nessun nemico riusciva a colpirlo. Con
o senza poteri era un combattente formidabile. Senza accorgersene si avvicinava
sempre di più alla torre. Di protezione stava il braccio destro di Barden. Era
mostruoso. Un enorme occhio dotato di ciglia e due sopracciglia cespugliose
sostenuto da un enorme peduncolo che terminava con un altro ancora. Si chiamava
Obb. Era il frutto di un esperimento del malvagio Generale. Se non ci fosse
stato in azione il cuore d’ambra, avrebbe lanciato raggi laser dall’occhio.
Era lo stesso un avversario temibile. Saltellava di qua e di là. Con balzi di
almeno un metro. E dava calci che avrebbero mandato chiunque in ospedale.
Leopold cercava di non farsi colpire. Quando Obb fu abbastanza vicino, Leopold
tirò fuori una satana e colpì il piede inferiore. Il piede si tagliò di netto,
ma la spada si spezzò. A Leopold rimaneva sempre l’altra, ma lo stesso
sentì una fitta al cuore. Amava la sua arma. Obb poteva ancora dare calci
pericolosissimi. Non poteva però più saltare, che era il suo modo di camminare.
Sembrava che ormai Leopold avesse vinto. Obb aveva tenuto un colpo di scena per
la fine. Allargò delle enormi lai di pipistrello. Si alzò in volo. E cercava di
colpire Leopold con il suo piede. Più tempo passava più i calci si facevano
precisi e vicini a Leopold. Riuscì a lanciare il ragazzo contro il muro.
Leopold si ferì la schiena. La voglia di andare avanti superò il dolore.
Impugnò la spada con tutte e due le mani. Cercò di rimanere in piedi. Quando
Obb attaccò, Leopold lo colpì con un colpo secco. La spada lo passò da parte a
parte. E Obb sparì in una nuvola di fumo verde. Leopold andò alla porta della
torre. Era la porta di una prigione. Di legno massiccio. I cardini e altre
parti di ferro. C’era una grata di ferro chiusa da cardini di legno. La
serratura aveva un pesante lucchetto. Con un colpo di spada lo ruppe. Apri la
pesante porta. E restò immobile. La ragazza dei suoi sogni. Anche lei era
sconvolta. Leopold si chiese se anche le provasse quel sentimento irrazionale d’amore.
La risposta venne quando lei disse: “Mi avete salvata messere. Nei miei
sogni già sapevo che sareste diventato il mio signore. Il mio sposo. Vi
ringrazio anche per aver eliminato i poteri a cui il mio padre adottivo
agognava. E stato gentile con me fino a quando mi rinchiuse nella torre”.
Leopold ci mancò poco che gli venisse un colpo. Tutto il gruppo si ritrovò
seduto al tavolo del banchetto di Barden. I nemici o erano scappati o
imprigionati e gli orchi e Obb erano morti. Grazie a una visione di Leopold
avevano scoperto che era la festa Natale. Quel giorno non era veramente il
compleanno di Barden. Non volendo far sapere il vero giorno dalla nascita,
aveva scelto per festeggiare n giorno importante. Non aveva voluto rinunciare a
una festa. Sollevava il morale delle truppe, si allenavano con più foga e poi
il Generale amava i banchetti delle occasioni speciali. I ragazzi decisero di
addobbare quel luogo. Energy diede una pulita. Donatel riordinò. Lotshar gli
diede un aspetto un poco più confortevole e rassicurante. Miriam mise gli
addobbi, che Robert aveva costruito da quelli della festa di compleanno di
Barden. Con le sue ali di fata Miriam arrivava fino all’alto tetto.
Michelangelo l’aiutava grazie alla nuvola. Lado cantava canzoni natalizie
eliche. Leopold faceva degli striscioni tagliando grandi rotoli di carta con la
sua spada. Quei rotoli erano stati la biografia del Generale Barden. Gainìt
stava accanto a Leopold incantata dalla sua bravura. Carlo, che aveva in
braccio il Gjarg Gjarg che si faceva accarezzare finalmente, guardava Miriam e
le sue difficili evoluzioni in aria. La fata lo guardava innamorata. E per
farsi notare dimostrava la sua bravura in aria. Tre cantava “Tu scendi
dalle stelle”. Che si fuse col canto di Lado. Aido stava seduto in disparte
a parlare con Lindar. Asches costruiva un presepe. Lavorando un pezzo di legno.
Era la gamba di una sedia rotta. Si risedettero quando tutto il castello nero
era illuminato a festa. Gli altri castelli nelle altre isole erano vuoti senza
i loro proprietari. L’acqua era tranquilla. Tanto che le sirene vennero a
cantare le loro serenate. I ragazzi, i maestri e gli amici mangiarono
l’intero banchetto da soli. Si raccontarono storie di natale fino a
mezzanotte. Festeggiarono quando scoccò. Verso l’una prepararono fuochi
dei artificio per avvertire della battaglia i possibili alleati. E Carlo si
fece raccontare le varie storie. Per raccontare la sua aspettò
l’indomani. Fu svegliato da un festoso campanellio. Cosa incredibile era
venuto Babbo Natale che aveva lasciato doni. Non credeva in lui da anni ormai.
Tra cui l’armatura, la spada e l’unicorno a Carlo. Un’arma
potente a Robert, che senza poteri era privo di qualcosa per combattere. A
Miriam un piccolo pugnale. Lado ricevette un arco, una faretra e delle freccie.
Leopold poté impugnare una nuova katana. Lotshar un siero per il coraggio che
funzionava anche con la gemma poiché tirava fuori quello che il ragazzo già
aveva. Energy ebbe un vestito da ragazza. Donatel una foto dei genitori e una
nuova spada. Tre, Lindar, Aido, Asches, Gainìt e Michelangelo-Ricard un
assortimento di armi a loro scelta. Il Gjarg Gjarg: un pacco di croccantini per
cani e un collare. Carlo li fece sedere, dopo aver assicurato di non essere
uscito pazzo, raccontò le sue avventure e soprattutto le sue scoperte. La più
sconcertante dopo le origini di sangue blu di Carlo e Lado, fu quella su Energy
e il fratello Ricard.La ragazza scoprendo che la sua vendetta era inutile,
indossò il vestito da donna donato e mise da parte le armi. Era dura perdere
una forte combattente come lei. Ricard sbraitò: “Chi se ne importa che
sei femmina. Non crederai alla storia del sesso debole. Sono felice di essere
fratello di una tosta, attaccabrighe e testa dura come te”. Energy
lusingata rispose in modo ancora troppo maschile: “Ci vorrei essere a
spaccare lata a qualche orco. La mia promessa però non è più valida. Starò a
guardarvi al lato della battaglia. Voglio godermi Barden fatto a fettine.
Fatemi vedere ragazzi”. I giorni successivi passarono frenetici. In
attesa della grande battaglia. Fabbricavano armi, mettevano insieme truppe, si
allenavano e preparavano strategie. E ognuno di loro pensava alla vita che
avrebbero vissuto con le loro anime gemelle. Tranne Asches, Energy, Donatel e
Tre non corrisposto da Miriam. C’era chi voleva rimanere supereroe e chi
pensava a un'altra vita. I giorni passarono veloci. E la data della battaglia
si avvicinava. Partirono e si appostarono vicino al luogo della battaglia. La
sera dell’ultimo dell’anno furono preparati i riti secolari da
celebrare prima della battaglia. Furono cantate canzoni di gesta eroiche. Non
avendo giullari poeti si improvvisò Asches. Miriam li accompagnò con la lira.
Energy cantava con Asches. I veterani furono cinti da pelli di leone secondo il
costume portando la fiaccola della pace intorno al castello passandola di mano
in mano. Furono alzate le coppe della forza e ognuno bevve il vino in esse
contenute. I ragazzi preferirono l’acqua a quel vino stagionato
ammazzabudella. Il maestro Aido per dimostrare la sua amicizia era disposto ad
offrire la sua amata pipa ad Asches. Che garbatamente dovette rifiutare, gli
elfi non fumano. Le armi furono alzate. Le lame appena affilate splendevano
alla luce della luna. Nessuno quella notte dormì. Anche dai nemici fu una notte
intensa. Gli orchi sradicarono alberi e urlarono selvaggiamente. Furono
innalzati grandi fuochi. Le streghe ci ballarono intorno come forsennate
sperando di rompere l’incantesimo azionato da Carlo. I lupi mannari e i
più turpi tra i malvagi andarono a divertirsi torturarono i prigionieri. Così
arrivò la mezzanotte. Carlo non la passò davanti ai fuochi d’artificio
del paese. Non brindò con lo champagne. Quando arrivò l’alba
l’esercito per la difesa della Luna di Iego si schierò. Risuonò la musica
del corno di Carlo. Il ragazzo vide che come a lui, la musica rinvigorì tutti
facendo svanire le nubi della paura, delle preoccupazioni e dei pensieri
personali. Durante il combattimento il corpo deve essere libero nei movimenti.
La mente sgombra, che non pensa, ma prevede i colpi dell’avversario. Si
fraseggia con la spada. Si esprimono i propri pensieri combattendo. Si unisce
lo spirito di autoconservazione con il gioco di squadra. Carlo però comprendeva
l’atrocità del dover trafiggere il nemico. Non avrebbero funzionato
gli incantesimi per non uccidere l’avversario. Non avrebbero funzionato
gli incantesimi per non uccidere l’avversario. Anche se malvagio meritava
di essere solamente teletrasportandolo alla prigione galattica. Si scontrarono
nella grande radura della terra del verde a mezzogiorno come stabilito.
L’esercito della Luna di Iego era schierato. In testa stava Carlo con
l’armatura e la spada della sua stirpe. L’unicorno bianco era
immobile come una roccia. Anche se era un essere bellissimo e puro
d’animo in battaglia era terribile. I suoi zoccoli d’oro e le sue
gambe svelte gli facevano colpire i nemici con calci potenti. Il suo
corno trafiggeva il nemico a velocità, senza ma sbagliare e in maniera del
tutto naturale. Accanto a Carlo da un lato stavano i maestri e dall’altro
il più coraggioso dei ribelli. Dietro in orbite file stava l’esercito.
C’erano sia i ribelli con Stella, sia gli uomini del lago. C’erano
anche persone che erano state liberate. Altri che avevano preso coraggio
vedendo quel manipolo di uomini. Purtroppo erano pochi rispetto ai nemici.
Inoltre il Generale Barden aveva fatto funzionare la barriera che circondava il
pianeta in modo che gli aiuti da parte degli altri supereroi non sarebbero
potuti arrivare. Il gufo del maestro Asches controllava la zona. Mentre sia il
maestro Aido che l’altro maestro stavano sulla groppa del drago
d’orato del nano: Flash. Tutti i ragazzi erano a bordo dei draghi. Invece
Draghin, poiché Carlo era a terra sull’unicorno, sarebbe stato
l’ultima carta da giocare contro Barden. Con Draghin accanto
c’erano Oscuro, Tempesta e Tiger. Lado anch’esso con
l’armatura e la spada guidava le retrovie. Energy stava in disparte. Si
sentiva strana. Come se nel suo cuore ci fosse un cavallo imbizzarrito che la
incitava a combattere. La sua promessa però era ormai inutile. Suo fratello non
era morto, non c’era motivo di stare nervosi. Anche gli altri ragazzi
erano agitati. Si avvicinava il momento. Tutti gli occhi erano puntati si
Carlo. E gli animali parlanti cantavano:
“Seguiremo
il nostro re nella lotta contro il male. Anche se la vita ci costerà noi non lo
abbandoneremo”. Vennero anche i ribelli che avevano riconquistato la
città della notte con l’artiglieria. E le amazzoni. Quelle sposate con
accanto i mariti e le fidanzate che aspettavano la fine della battaglia per
andare dai loro amati. Da un rivolo d’acqua che gorgogliava come una
risata rinacque l’antico essere. Stavolta il troll era dalla parte di
Carlo. Il veggente, dopo estenuanti lotte tra la dimensione del sogno alla
realtà, dalle più alte cime dei monti alle profondità, aveva vinto
l’essere malvagio creato da Barden. Quel giorno era lì, non visto, a
vedere compiersi ciò che la sorte aveva già scritto nelle stelle. Carlo non
provava alcuna emozione. Pensava a cosa avrebbe provato prima del suo viaggio.
Di sicuro sarebbe morto di paura, gli sarebbero drizzati i capelli in testa
diventando bianchi. Era cresciuto. Combatteva per il suo popolo. Fino a un anno
prima non sapeva che esistesse. Il ragazzo sentiva di non appartenere alla
Terra. Era diverso. Fu distratto dall’arrivo dell’orda di nemici. I
terrificanti uomini silenziosi, che erano in realtà dei “tornati”,
specie di zombi, erano svaniti con l’incantesimo di Carlo. In un momento
il sole si oscurò in un eclissi e cominciò a cadere una scrosciante pioggia.
Non poteva essere un sortilegio. Era la natura stessa che sentiva ciò che stava
per accadere. Come un enorme sciame di insetti neri voraci arrivò il
numerosissimo esercito dei nemici. Inaspettatamente non guidati dal loro
Generale Barden. I due eserciti, con una disparità numerica quasi ridicola,
stettero a lungo fronteggiandosi. Quando un orco scoccò per sbaglio una
freccia. Dando il via alla lotta. Gli orchi urlarono con la bava alla bocca.
L’esercito di Carlo richiese un discorso al ragazzo. Il giovane ci mise
tutto quello che pensava in poche parole: “Lottiamo per un sogno, per il
nostro destino. Per la Luna di Iego”. I nemici con furia avanzarono.
Scesero allora in picchiata i draghi coi loro cavalieri volando radente.
Schivarono le frecce e furono micidiali. I draghi bruciavano e colpivano con i
loro artigli. I cavalieri, che altri non erano che i piccoli supereroi, con le
faretre piene lanciavano frecce, Leopold addirittura pugnali. Lotshar
rinvigorito dalla pozione, che in realtà non aveva effetti, ma con quel piccolo
inganno aveva tirato fuori la sua bravura nascosta, rimaneva in alto. Guidava
Luigi, che aveva il compito di afferrare i massi, avendo le zampe più potenti,
lasciandoli andare sui nemici con grande precisione. Quando si alzò in cielo un
uomo vestito di nero, con stride argentate sul casco viola. Volava grazie a due
grandi ali da pipistrello. Evitando Leggiadra ridendo disse tranquillamente a
Miriam: “Tu sei una fata? Impossibile. Le ho sterminate insieme a
Barden”. Miriam era furente, ma non dimenticava di ragionare. Con grazia
si alzò in volo lasciando Leggiadra a Lotshar. Ali di notte, cosi si chiamava
l’assassino, volava veloce. La fata per stargli dietro mise le braccia
attaccate ai fianchi e si diede la spinta con le gambe. Arrivati in uno spazio
vuoto cominciarono a cercare di colpirsi con le spade in volo. Erano veloci e
diretti. Volteggiavano in aria come in un frenetico valzer. Andavano sempre più
in alto. Schivando le nuvole che li avrebbero intrappolati. A causa
dell’umidità che avrebbe bloccato le ali. Si ritrovarono uno di fronte
all’altra. Lui aveva la spada puntata alla gola. Lei alla pancia.
Incurante e tranquillo Ali di notte disse: “Sai. Ti aprirò in due. Ti
sbudellerò. Aprirò il tuo piccolo cranio in due estraendo il cervello ancora
fresco. Mi ciberò del tuo sangue”. Miriam non disse niente, ma gli sputò
in un occhio. Anche se lui era abbastanza lontano, lei aveva
un’infallibile mira. La visiera del casco era alzata. Abbassarono
entrambi le spade e si distanziarono. Si lanciarono di nuovo uno addosso
all’altro cercando di colpirsi con le lame. Miriam fu colpita alla mano e
lasciò andare la spada. Lei tirò un calcio all’elsa dell’arma di
Ali di pipistrello che volò lontano. Lasciando l’uomo disarmato. Che mise
il braccio intorno al collo della fata. Che cercava di divincolarsi spingendolo
via. Persero il controllo. Cominciarono a precipitare sempre presi nel corpo a
corpo. Arrivati a gran velocità vicino terra si staccarono prima della caduta.
A li di terra atterrò su una lancia e morì trafitto. Miriam cadde
rovinosamente più in là. Sbatte la testa ferendosi e svenne. Leggiadra volò
dalla padrona e la protesse dagli attacchi nemici.
Ringraziamenti
:
Luisina:
Tu qui? OoO Urka. Ne sono molto felice. Ritardo a recensire? Ma io ti
aspettavo? (Non farci caso. Soffre di memoria a breve termine NdRobert) (Tu
zitto!!! NdA) (Va bene, va bene. Ma tanto non puoi negarlo NdRobert). Carlo è
felicissimo. Sai, io lo maltratto parecchio come personaggio. Poverino, gliene
combino di tutti i colori. xD Cmq si, è tenerissimo. U_U Si, descrivo
parecchio. Fin troppo. Mio fratello si diverte a disegnarli e a me fa piacere
rendero partecipe delle cose che scrivo. Davvero ti è piaciuta quella parte? Ho
provato a fare la cosa che mi hai detto. Emh, i chappy verrebbero troppo lungo.
O\O Cmq spero di aver fatto più leggibile e più grande questo capitolo. Fammi
sapere. Kiss anke a te. Al prossimo.
Regina
Oscura: Emh, si era venuto davvero piccolo. Sarà stato un problema con l'Html.
Sono contenta ti sia piaciuta quell'idea. U_U Si fa sempre più complicato.
Ormai però siamo in dirittura d'arrivo. La ff sta per giungere a conclusione.
Non sei per niente ritardata. Eh si, ormai non si fanno altro che scoperte.
Grazie, fammi sapere per questo chappy poi. ciau
Berry345:
ç_ç mi sento abbandonata. Spero ti farai risentire presto.
Spurodatamente fan di guerre stellari. xD Ringrazio anche solo chi legge.
Cap.14 Padre?
Lotshar era troppo preso per
rendersi conto della sparizione di Leggiadra. Era inarrestabile. I
nemici che fino a quel momento, memori di come
era prima, lo prendevano in giro, ora lo temevano. I loro sorrisi erano
stati
sostituiti dal pianto, il ragazzo faceva paura, dalla sua timida
bellezza era
passato a un volto selvaggio. Si muoveva in quell’armatura
pesantissima con
estrema facilità. Tutte le lezioni dell’accademia e gli
allenamenti sin da
bambino col padre furono finalmente messi in atto. La frustrazione di
essere un
codardo balbettante esplose. Non dimenticava però la
lealtà e le antiche regole
dei supereroi. Aveva uno stile di combattimento lento e fluido,
soprattutto di
braccia e mente, efficace e potente. Scese in campo un nuovo
combattente. Che
si sistemò vicino a dove Lotshar, col suo drago, stava decimando
i nemici. Era
metà uomo e metà macchin, tutto sommato un uomo basso e
biondo, anonimo; con piccole
mani e un piede un po’ più grande del normale,
l’altro non lo aveva insieme
alla gamba, al loro posto c’era una protesi di metallo che finiva
con un
appoggio nero di gomma; un occhio era blu e l’altro robotico,
l’intorno era di
metallo e la pupilla emanava una luce come un laser rossa-viola. Si
notava una
rotella, una vite e una molla, l’intorno di ferro aveva delle
fessure ad arco
per farlo muovere a destra e a sinistra. Era magro da far paura, si
potevano
contare le ossa. Sul petto aveva una placca di acciaio rilucente cui
era
attaccato uno strano marchingegno. Era un cubo di metallo verde chiaro.
Puzzava
di olio di motore. Al di sopra era munito di una piccola parabola.
Aveva due
pulsanti. A sinistra uno rosso e a destra verde scuro. Era un
mercenario.
Barden lo aveva assunto molto tempo prima. Era chiamato solamente
mercenario.
Non aveva mai detto il suo nome. Anzi non aveva mai detto una parola.
Muovendosi lentamente premette il pulsante rosso e poi quello verde del
piccolo
oggettino. In questo modo lo attivò. Dalla piccola parabola
partirono
potentissime onde radio. Che avevano una frequenza ben scelta. Sia gli
orchi
che i draghi fuggirono. Luigi accelerò tanto per scappare, che
disarcionò
Lotshar. Il ragazzo fece un bel volo. All’atterraggio fu salvato
dalla sua
armatura. Che però si accartocciò in più punti
divenendo inservibile. Con
fatica Lotshar se la tolse. Le diceva addio con dispiacere. Ora era
vestito
normalmente, senza più niente con cui proteggere le parti
vitali. Anche se
molto più libero nei movimenti. Era rimasto solo contro il
mercenario. Afferrò
la spada e aspettò il nemico. Che cominciò ad andargli
incontro molto
lentamente. Camminava a passo marziale. Non modificando mai la cadenza:
"Tà, ta, tà, ta". Si fermò a poca distanza da
Lotshar. Con le
mani fece degli strani rumori metallici. Erano dei particolari segnali.
Arrivò
in tutta fretta un piccolo robottino che trascinava una spada che per
lui era
enorme. Sembrava un giocattolino. Dopo averla lasciata dal padrone
cadde a
terra con un piccolo tonfo. Il mercenario gli diede un calcio. Il
piccoletto si
rialzò e corse via. Il mercenario raccolse l’arma. Sia lui
che Lotshar erano
pronti a combattere. Combattevano entrambi molto tecnicamente. Il
mercenario
usava la sua energia in più, che gli derivava dal suo essere per
metà macchina,
per proteggere il marchingegno. Erano pari. A colpo rispondeva colpo.
Avevano
entrambi forza da vendere e anche una grande pazienza. Il mercenario
cominciava
a provare rispetto per Lotshar. Era un degno rivale. Non faceva un
così bel
combattimento da anni. Il mercenario però non aveva onore. Si
era deciso ad
elevare il livello del combattimento. Colpì con decisione la
spada di Lotshar
spezzandola a metà. Così mandò in frantumi la
propria. Richiamò il robottinoche
portò una scimitarra laser rossa accompagnato da un altro
robottino con
scimitarra laser gialla. Il mercenario afferrò quella rossa.
Voleva combattere
anche con quella gialla lasciando Lotshar disarmato. Il ragazzo
però fu più
veloce del previsto. Riuscendo ad impossessarsi della sciabola laser
gialla. Il
mercenario girò la spada sulla testa del nemico che lo
schivò. Rispose con un
calcio che lo mandò indietro. Le spade erano quasi unite con
l’ultimocon l’ultimo
colpo. Le armi roteavano, si sfioravano, si colpivano l’una con l’altra,
scintillavano e andavano dirette al bersaglio. Più andava avanti il
combattimento più si faceva veloce e movimentato. I due nemici schivavano e si
muovevano veloci. Troppo vicine al volto di Lotshar. Ora lontane e puntate
verso il basso. Sudavano completamente coinvolti. Il mercenario fece una
piroetta in aria che confuse Lotshar. Fortunatamente il ragazzo non si fece
prendere dall’affondo che provò il nemico poco dopo e si abbassò cercando di
colpire, ma fu parato abilmente. Erano arrivati ad un livello tale che delle
armi si distinguevano solo luci. Alto, basso, destra, sinistra. Era difficile
seguire i loro movimenti. Il mercenario impugnò l’arma con tutte e due le mani,
Lotshar riuscì a respingerla con la sua agilità. Si colpirono duramente e l’onda
d’urto li fece volare in due diverse direzioni. Si rialzarono e si corsero
incontro urlando con le armi alzate. Ripresero a combattere con lo stesso
vigore. Mandavano scintille. Ogni volta che si scontravano si sentiva uno
strano rumore. Mandavano un bagliore arancione che sembrava fumo colorato. In
un momento in cui i due erano molto vicino, Lotshar si accorse che sulla placca
di metallo sul petto del mercenario c’era uno stemma. Raffigurava un
acchiappasogni. Lotshar non poteva sapere che quella era l’ultima testimonianza
dell’uomo che era stato il mercenario. Ormai era solo una macchina capace solo
di uccidere. Lotshar alzò la spada per parare e la riabbassò con forza. Colpì
alla spalla, del braccio senza spada, del mercenario mandandolo al tappeto.
Sembrava morto. Era caduto a terra e non si muoveva. Lotshar si girò per
andarsene. Era tutto un trucco del Mercenario. Cercò di attaccare alle spalle
Lotshar.Il ragazzo lo sentì in tempo e si voltò. Il mercenario fu trapassato da
parte a parte morendo. Lotshar fu colpito gravemente e cadde a terra. Il
mercenario morendo perse tutta la sua energia e l’oggettino si disattivò. Luigi
poté andare dal suo padrone.
Dall’altro lato del campo sempre a
cavallo del suo drago Fiamma stava Michelangelo-Ricard. La nuvola volava
intorno disarcionando che cercavano di cavalcare i loro draghi. Fiamma ormai
aveva imparato cosa fare non aveva più bisogno di essere guidato. Lo stesso
valeva per la piccola nuvola gialla. Michelangelo decise di scendere dal drago
e combattere a terra. Mentre Fiamma e la nuvola si allontanavano velocemente da
una parte lui andava a terra dall’altra. Tra i nemici notò un uomo. Vestito di
nero tutto di pelle dagli stivali al cappello, che sembrava quello degli
antichi cowboy. Come arma usava un bastone nero. Ricard fu come attraversato da
un fiume di ricordi. Quell’uomo lo aveva già visto. Era stato lui che lo aveva
battuto in cui era quasi morto e aveva perso la memoria. Gli aveva però dato
manforte Barden. Il ragazzo gli andò incontro e gli urlò: "Ti ricordi di
me. L’ultima volta hai vinto solo per fortuna. Voglio la rivincita". Il
nemico sorrise, un sorriso inquietante. Segno che lo aveva riconosciuto, o
forse solo che accettava la sfida. Attaccò subito. Ricard non si fece prendere
di sorpresa. Saltò, gli afferrò il collo e roteò. Sbilanciando il nemico che
cadde a terra. Il nemico si rialzò e gli afferrò il braccio girandoglielo e gli
diede un calcio rovesciato. Michelangelo era stordito, ma parò facilmente un
colpo del bastone del nemico. E con un colpo netto di mano lo spezzò. Visto che
l’altro era ormai disarmato, Ricard decise di non usare le armi nel suo
vestito. Si davano pugni con forza. Ad ogni colpo c’era il contraccolpo. Il
nemico tirò un calcio alto verso la faccia di Michelangelo. Che si abbassò. Poi
scivolò sotto l’antico nemico. Si rialzò e si lanciò con un calcio volante. L’uomo
in nero glielo afferrò e lo scaraventò a terra. Michelangelo si rialzò subito,
ma sfortunatamente diede abbastanza tempo al nemico per farlo rialzare. Il
nemico saltò con rincorsa per colpire con un pugno al petto Ricard. Che lo
scansò colpendo al fianco il nemico. Che barcollò. Si fece indietro. Puntò i
piedi a terra. Si tolse il cappello e i guanti. E sembrò caricarsi. O forse era
solo un modo per suggestionare Michelangelo. Il ragazzo si lasciò
suggestionare. Però era ancora deciso a vincere. Il nemico cominciò a sferrare
in continuazione calci al giovane. Ricard le subiva. All’ultimo calcio
Michelangelo raccolse tutte le sue forze. Parò il calcio con un pugno. Il
nemico continuò a tirare calci. E Ricard a parare coi pugni. All’uomo in nero
vennero le gambe e i piedi pieni di lividi. Al ragazzo le gambe e le braccia
divennero viola. Il ragazzo cominciò a muoversi velocemente. Voleva confondere
il nemico. Che non si fece prendere in giro e lo fermò con una gomitata ben
assestata. Evidentemente aveva una molto ferrea. Il nemico andò per colpire
Michelangelo. Il ragazzo cadde a terra per la stanchezza schivando così il
colpo dell’uomo in nero. Ricard si trovò in posizione favorevole. Colpìcon una gomitata allo stomaco e dopo un
calcio al mento. Il nemico svenne e sarebbe rimasto K.O. fino alla fine della
battaglia.
Un nano riuscì a montare a cavallo
della sua cavalcatura alata: un grande drago nero. Era proprio la zona che
Miriam aveva lasciato scoperta. Il drago lanciava fiamme ovunque incenerendo
tutto sul suo cammino. Si avvicinava sempre più a Miriam. La fata rischiava di
finire bruciata. Leggiadra era vicino alla sua padrona e decise di proteggerla
abbattendo il drago. Il drago si accorse di quel drago bianco che volava verso
di lui. Aizzò il suo orribile drago, dal corpo tozzo, riflessi sulle squame
nere di viola e un orribile bava. I due draghi cominciarono a combattere.
Leggiadra senza nessun peso da portare e veloce come era sempre stata era
agilissima. Senza però una guida che le indicava gli attacchi da portare era
allo sbando. Il drago nero aveva una forza straordinaria, una grandissima
esperienza e un bravo e astuto guidatore. Non gli ci volle morto a portare
Leggiadra in una situazione di svantaggio. Aspettarono un errore della giovane
dragonessa per ferirla a un ala e vincerla. Almeno Leggiadra riuscì ad
allontanarli da dove Miriam giaceva svenuta, per evitare di rovinarle addosso.
Aido e Ascese erano troppo pesanti
per Flash. L’orgoglio del drago non permetteva all’animale di ammettere la sua
stanchezza. I suoi movimenti però erano più lenti e meno potenti. Uno dei
nemici se ne accorse. Notò anche un lembo tra due placche di pelle
indistruttibile di drago. Scoccò la freccia che trapassò la carne infilzando la
schiena vicino a dove si trovavano i due maestri. Non lesionò organi vitali perché
rimase incastrata tra le vertebre della colonna vertebrale. Dopo aver emesso un
ruggito soffocato di dolore, il drago chiuse i suoi grandi occhi e cominciò a
precipitare. Mentre il suolo si avvicinava, Aido estrasse la freccia del drago
e tamponò la ferita, evitando l’ulteriore fuoriuscita di sangue, con un pezzo
di stoffa strappato dal suo vestito. Tutto questo a un elevata velocità.
Intanto il drago si capovolse. Alla caduta avrebbe schiacciato i due maestri. L’agilità
degli elfi è però rinomata. Asches afferrò Aido e pochi secondi prima dell’impatto
saltò. Mentre da una parte cadeva il drago con un tonfo, poco più in la rotolavano
i maestri. Si rialzarono immediatamente. Asches decise di rimanerea combattere
vicino al drago ferito. Arrivò a galoppo del suo cavallo, dal color marrone,
Lindar. Mal si accompagnava la sua sconcertante bellezza con il suo modo
forsennato di combattere. Diede un passaggio ad Aido. Il nano non fu per niente
contento. La sua razza era imbattibile a cavallo dei draghi e nelle brevi
distanze, ma erano più impacciati nei bambini nella corse e a cavallo. Anche se
aveva i suoi vantaggi. Dietro Lindar era così basso che era come se fosse stato
invisibile e i nemici non si aspettavano i suoi attacchi.
Il nano malvagio a cavallo del
drago nero era imbattibile. Non si fermava mai, quasi avesse fretta. Non
guardava in faccia a nessuno e utilizzava anche mosse scorrette. Si ritrovò
nella zona di Leopold, che in quel momento stava combattendo strenuamente. Il
nano lo colpì alle spalle. Aido assistè all’aggressione di Leopold da sotto a
cavallo con Lindar. Fu tutto in pochi secondi e i due erano talmente lontani
che il maestro poté fare poco per il suo allievo. Il ragazzo ferito fu
riportato giù dal suo drago che lo adagiò delicatamente a terra. Aido voleva
vendicare Leopold e Dragoon aveva le sue stesse intenzioni. Aido saltò in
groppa a Dragoon e insieme sfidarono il nano e il drago nero. Presi nella lotta
allontanarono. Lindar era rimasta vicino a Leopold, ma la battaglia aveva
bisogno di combattenti a cavallo altrove. Lindar sapeva bene che se ne doveva
andare al più presto. Proprio in quel momento arrivò Ricard. Aveva visto tutto,
ma aveva dovuto combattere e non era potuto andare ad aiutare il suo amico
prima. ALindar sapendo di lasciare Leopold in buone mani, corse dove c’era
bisogno di lei.
Robert se la cavava
egregiamente
anche senza i poteri. Era un abile spadaccino e Luce era potente. La
fenice
però cominciava a essere stanca. Così Robert decise di
atterrare e continuare a
combattere a terra. La fenice si andò a riposare nascosta dietro
a un grande
masso. Robert batteva con una certa facilità gli orchi. Forse
erano confusi a
causa della mancanza di una guida. Barden non si vedeva arrivare. Ad
ogni modo
questo giovava all’esercito di Carlo. Tra gli orchetti Robert
notò una figura
strana. C’era uno strano essere che portava sulla schiena un
uomo. L’essere si
chiamava Monster, infatti il padrone gli diceva: "Muoviti Monster, sei
più lento di una lumaca". Di certo Monster non era comune. Aveva
il
corpo e le zampe posteriori di gatto, un braccio e una mano che
uscivano dal
petto, due zampe di canguro da box, un guscio e una testa di tartaruga,
due
orecchie da coniglio, e una grande lingua rosa. L’uomo che
portava aveva proprio
l’aspetto di un potente mago. Aveva i capelli schizzati di un
colore grigio
chiaro, occhi da gatto grandi come fessure, viso ovale, cappello nero
da
stregone, casacca sempre nera anch’essa da stregone a cui aveva
apportato una
piccola modifica, aveva trasformato la gonna in un pantalone, piccole
scarpe
viola che comprimevano grandi piedi. Doveva essere stato un
bell’uomo, ma a furia
di sperimentare i suoi incantesimi si era imbruttito. Aveva piccole
mani. Anche
lui era potente aveva da solo sbaragliato un intero gruppo di ribelli.
Anche se
i ribelli che aveva sconfitto erano dei contadini che avevano impugnato
le
armi. Intorno a lui combatteva il suo animaletto veloce come un
fulmine.
Sembrava un piccolo razzo. Anche se pericoloso e particolare
l’animaletto era
tenerissimo. Doveva avere un pelo molto morbido. Quando Robert lo vide
in un
momento in cui era fermo. Il pa drone l’aveva richiamata, infatti
era una
femmina visto che il suo nome era pallina. Si vedeva anche dallr sue
grandi
ciglia. Aveva le testa da gatto spelacchiato, al posto del corpo un
enorme
massa di pelo bianca costellata qua e là da macchie nere e
grigie, aveva una
grande e vaporosa coda da procione. Non aveva zampe e quindi si muoveva
saltellando e rotolando. Il suo verso sembrava le fusa del gatto.
Metteva
ovunque il suo piccolo nasino rosa, aveva con quelle grandi orecchie un
sensibilissimo
udito, il pelo che si apriva a ventaglio sulle guance, baffi e
sopracciglia e
grandi occhi gialli. Con il padrone era dolce e carina, ma aggrediva
facilmente
chiunque altro con i suoi affilati canini. Robert e Asir si ritrovarono
faccia
a faccia. Si misero a combattere con le spade. Un silenzioso duello.
Non era
niente male, ma entrambi sentirono la mancanza dei poteri. Avevano
usato tutta
la vita la magia e gli incantesimi. A un affondo di Robert, Asir si
spostò di
lato e colpì alle gambe il ragazzo che cadde a terra. Asir
notò una voglia sul
collo di Robert con la forma di lupo. Asir fermò i suoi attacchi
e mettendosi a
ridere disse: "Novellino non voglio combattere contro di te. Da come
usi
la spada ti aveva sopravvalutato. Hai sangue di umano normale nelle
vene". Robert non si scompose, qualunque fosse il trucco del nemico non
ci sarebbe caduto. Asir continuò ancora apostrofandolo con
piccoli dispregiativi
come poppante o principiante. Gli propose anche di arrendersi e
combattere con
lui per il Generale Barden. Robert credeva che Asir fosse impazzito e
stesse
farneticando, era lì per salvare la Luna di Iego, mica per
distruggerla. "Se hai ancora pannolino e moccio al naso. Molla i tuoi
amichetti e
combatti con un vero esercito"queste le parole più assurde.
Robert rispose che non avrebbe mai
tradito la sua squadra. Asir con tono sprezzante con un lungo e
antisonante
discorso da politicante disse: "Se temi veramente per i tuoi amichetti
sei fortunato che io non possa usare i miei poteri. Hai mai sentito
parlare del
triangolo della Bermuda. Altrimenti detto il triangolo del Diavolo.
Ebbene sono
io che ho fatto sparire tutte quelle nevi e aerei. Eli ho fatti
ricomparire in
una dimensione da me creata. Orribile con animali da me appositamenteconfezionati.
E sono tornati a casa dopo una lunga vacanza in questi luoghi. Il primo spirirto
del male o vampiro, chiamalo come vuoi, io lo creato. Era un principe della
Transilvania che io ho tramuto in quell’essere succhiatore di sangue. Ha sua
volta lui ha dato vita a tanti altri e quelli lo hanno trasmesso ad altri
ancora. Diedi io la pozione al Dottor Jakhyl. Aiutai io a
creare Frankestain. Io diedi origine ai lupi
mannari. Versai delle gocce di estratto di lupo su sei uomini.
Divennero lupi
mannari. Loro come i vampiri la estesero ad altri creando anche altri
modi per
far si che ne nascessero di nuovi. Tutto questo, usando i miei poteri
per
tornare indietro nel tempo, sotto ordine di Barden. Hai capito con chi
hai a
che fare?". Robert per nulla intimorito, semmai schifato da Asir,
disse: "Ora i tuoi poteri non li puoi usare", ed era ovvio che avesse
ingigantito di mille volte i suoi poteri a parole. Robert
attaccò Asir, ma l’uomo
più che attaccare si limitava a difendere, nonostante il giovane
mago cercasse di colpirlo. L'uomo infatti aveva la sua potenza
sopratutto nella difesa e al suo scopo poteva usare qualunque cosa si
trovasse sul suo cammino. Andarono avanti così a lungo. Fino
allo
sfinimento delle forze Robert continuò a combattere. Asir continuò a difendere. Erano a un punto
morto della lotta. Asir si rimise a ridere e disse: "Bravo. Di sicuro da
quella sciocca di una mortale non hai preso poi tanto. Quella stupidella non
capiva la forza del male e penso ti abbia cresciuto in quella ottusità. Perché
non vieni con tuo padre e combatti al suo fianco". Robert chiese
spiegazioni ad Asir. Doveva essere matto completamente e sul serio. Asir per
chiarire disse: "Sono tuo padre lo stregone Asir. - vedendo lo sguardo
sconcertato di Robert fece vedere sul collo una voglia identica a quella del
ragazzo e continuò – Questa ti basta come dimostrazione?". Non c’erano
bubbi. Quella era una prova schiacciante. Identici capelli. Entrambi maghi. Il
ragazzo conosceva la storia dei genitori. Robert era voluto diventare un mago
al servizio del bene proprio a causa di quel motivo. Sua madre era una ragazza
normale. Andava ad un università rispettabile. Aveva notato però che alcune
ragazze del suo dormitorio uscivano di nascosto a mezzanotte le notti di luna
piena. Si vociferava fosse per andare dai fidanzati o, pensavano i più
fantasiosi, fossero vampire. La madre di Robert, che si chiamava come la
protagonista del libro preferito della nonna: Gefiun, una notte decise di
seguirle. Le seguì fino al campus Qui c’erano dei ragazzi. Cominciarono, dopo
essersi salutati, a recitare strane formule. Gefiun si era spaventata, dovevano
essere matti. Invece erano maghi e poco dopo cominciarono a far effetto gli
incantesimi. I giovini si illuminarono e fu come se prendessero energia dalla
natura. Poi misero le mani a terra, dopo un momento in cui la terra divenne
viola acceso, tornò tutto normale. Gefiun attratta da quelle strane cose fece
rumore e fu scoperta. In un primo momento i ragazzi furono presi dal panico,
poco dopo decisero di fare un patto con Gefiun. Visto che lei amava vedere
quegli incantesimi, poteva andare ai futuri Sabba, così chiamavano gli incontri,
se manteneva il segreto. Pian piano si innamorò di uno di quei ragazzi. E lui la
contraccambiò. Quel giovane era suo padre. Alla fine lei divenne insegnante di lettere
e lui aprì una libreria. I due continuarono a frequentarsi e finirono per
sposarsi. Ebbero come figlio Robert. Il padre però cominciò a divenire un mago
oscuro. Finché un giorno sparì per arruolarsi con un conquistatore di un altro
mondo. Robert aveva tre anni. Non immaginava che suo padre si fosse arruolato
con il Generale Barden. La situazione era di stallo. I due si rimisero a
combattere. Si sentivano moralmente convinti delle loro motivazioni e su cosa
combattevano. Entrambi però non volevano farsi del male. Attaccavano con il
piatto della spada. Non tiravano fuori la loro grinta. Predominava il cuore.
Robert era convinto che il comportamento di suo padre stesse a significare che
in lui doveva essere rimasto del buono. Anche se Asir aveva fatto cose
terribili. A entrambi venne un idea. Tutti e due amavano le trottole. Tale
padre, tale figlio. Decisero di fare una gara con quelle. Chi perdeva si
ritirava del tutto dalla battaglia. Asir chiamò pallina che trasformò con le
sue unghie affilate due ciocchi di legno in piccole trottole. Una era sul
rossiccio, quella di Robert, l’altra sul dorato, di Asir. Come corde usarono i
lacci delle scarpe di Robert. Come piattaforma usarono il guscio di Monster.
Perdeva chi aveva la trottola che si fermava prima o cadeva dalla pista. I due
si posizionano ai lati opposti della pista. Le trottole oltre che girare su se
stesse giravano intorno alla piattaforma tenendo una certa distanza tra loro e
i bordi della pista. D’improvviso la trottola di Asir sembrò sul punto di
fermarsi. Strisciava con uno strano rumore, rallentava e si muoveva
irregolarmente. In realtà era una specie di spinta. Fece un balzo colpendo l’altra
trottola che arretrò. La trottola di Robert perse un po’ di energia, fece un
giro intorno alla pista dove prese velocità,, girò intorno a quella di Asir e
la colpì. Erano di nuovo con la stessa energia. Si avvicinavano e si
allontanavano senza toccarsi. La trottola di Robert attaccava quella di Asir
schivava abilmente. Se qualcuno avesse disegnato le mosse delle trottole
avrebbe visto che veniva fuori una forma dia saetta. Sembrava quasi che le
trottole avessero mente propria. La trottola di Robert cominciò ad accelerare.
Andando verso la fine del guscio. Verso la fine della pista era incappata in un
sassolino. Lo usò come trampolino di lancio. Saltò molto in alto e atterrò
sulla trottola di Asir. Mentre quella rossiccia continuò a girare quella di
Asir si fermò. Era stata una mossa difficile. Un motivo era che la trottola di
Robert poteva cadere fuori. Un altro che il sassolino poteva fermarla. Se
atterrava male o non colpiva quella di Asir si sarebbe fermata. Alla fine c’era
voluta una buona dose di fortuna che aveva permesso alla trottola di Robert di
girare ancorainfatti si potevano
fermare entrambe. Il risultato era stata la vittoria di Robert.
Ringraziamenti:
Milli lin: Mi sei rimasta solo
tu. Sob. Non mi abbandonare. ç_ç Cmq sono a caccia
dell'insetto fuggito dal vetro. Così ti viene l'ispirazione per
la tua ff. Qui stiamo finendo ormai. tvb. ciauuuuuu
Capitolo 15 *** Cap.15 Tecnologia e tradizione ***
cap.15 nascondino
Ringrazio anche solo chi legge.
Cap.15 Tecnologia e tradizione
Oscuro e Tempesta all’insaputa di
tutti avevano una storia d’amore. Stavano vicini poco al di fuori del campo di battaglia.
Oscuro si poteva definire drago da caccia. I suoi sensi erano ineguagliabili.
Anche se non li poteva usare al massimo della potenza senza una guida. Scorse
in lontananza una massa bianca immobile. Era Leggiadra e il drago la riconobbe.
Si separò da Tempesta e volò verso la povera dragonessa. Leggiadra giaceva
svenuta riversa su un fianco. Il malvagio drago nero le aveva inferto un colpo
profondo. Oscuro era più grande e non gli fu difficile raccoglierla. Leggiadra
ogni tanto ruggiva in un sospiro il nome della padrona. Oscuro non poté immaginare
che la fata giacesse priva di densi come addormentata poco distante da lui. Credette
che Leggiadra fosse solo preoccupata per Miriam e la stesse sognando. Oscuro
portò Leggiadra in un luogo sicuro e si mise a proteggerla. Se non avesse pensato
che era in pericolo sarebbe tornato da Tempesta.
Nell’impeto della battaglia era
impossibile stabilire chi fosse vivo, ferito o morto. Carlo gestiva bel
migliore dei modi le truppe. Accanto a lui il fratello Lado. Avevano perso i
contatti col resto del gruppo e i maestri. Sapevano però che se la sarebbero
cavata. Nessuno di loro aveva preso la scoperta di identità di Energy come un
tradimento nei loro confronti, come Donatel all’inizio, ma avrebbero preferito
vederla in battaglia.
Energy non stava propriamente
ferma.
Ogni tanto controllava intorno al campo. In uno di questi giri vide un
gruppo
di uomini intorno a un fuoco. Tra essi spiccava un orco. Era lo stesso
incontrato da Lotshar sotto il tavolo nella lotta al castello. Erano
dei
disertori. Non avendo le guida del Generale avevano preferito
abbandonare non
visti la battaglia. Stavano intorno al fuoco dove arrostivano delle
cotolette.
Erano fatte di carne di lepre, impanate nella farina che usavano per
rendere visibili
gli invisibili; con Carlo non avrebbe funzionato perché tutto
quello che aveva
addosso diventava invisibile; e cotte nell’olio. L’olio
bollente in una
battaglia poteva essere decisivo. I ragazzi ne sapevano qualcosa.
Energy capì
che erano solo dei fifoni. Decise di sedersi insieme a loro. Appena
compresero
che la ragazza non era pericolosa, i disertori l’accolsero
offrendo quelle
cotolette. Energy non aveva mai assaggiato qualcosa di così
gustoso. Arrivò all’improvviso
un orco enorme: "Sporchi codardi. Ora vi faccio vedere io
vigliacchi!!!" disse con gli occhi rossi di rabbia. Non aveva notato
che
tra di loro c’era Energy. La ragazza si alzò. Avrebbe
dovuto scappare, era disarmata
e con un vestito poco adatto. Invece decise di proteggere quegli uomini
e l’orco
così simpatici, che l’avevano accolta. La ragazza si
appiattì a terra. Afferrò
la borsa di uno di quegli uomini. Ci trovò dei vestiti e un
pugnale. Si nascose
dietro un cespuglio. Indossò quei vestiti sopra il suo e nascose
il pugnale
negli scarponi. Addio scarpette. Saltò davanti all’orco
che stava cercando di
colpire quei poveracci. Energy con fare di sfida gli
urlò:"Lasciali
stare. La loro unica colpa è che hanno capito che combattere
è una
sciocchezza". L’orco era spiazzato, come osava? Era solo una
ragazza. Cercò allora di colpirla con la spada. Era lentissimo
per Energy. Si spostò con
rapidità. L’orco aveva dei luridi e sudici vestiti con un
casco di metallo
ammaccato da un lato. Enormi muscoli ben protetti da una rozza
armatura. Aveva
due mazze chiodata attaccate al cinturone vicino alla fodera della
spada. Non
aveva scudo. Il suo rivoltante volto era verdognolo. Allora
l’orco colpì con un
fendente l’altro lato, ma con il risultato di smuovere
l’aria. Energy diede un
calcio volante all’addome del nemico. Il bestione cadendo
lanciò in aria la
spada. Energy con un balzo afferrò l’arma. E tagliò
il cinturone facendo
rotolare via le due mazze dell’orco, che ovviamente si
infuriò. Afferrò con una mano
la spada e la spezzò. La rossa andò addosso
all’orco, ma quello la spinse via
facilmente. Tornò in piedi con una capriola, schivò due
pugni. Si aggrappò al
collo dell’orco da dietro. Sferrandogli calci alla schiena.
Lì c’erano grossi
massi. L’orco la schiacciò contro uno di essi.
L’orco continuava a sbattere
Energy contro rocce, ma lei resisteva. L’orco non era abituato
contro un solo
avversario, era specializzato in gruppi. Si utilizzavano mosse diverse.
Energy
premeva con forza la giugulare. A l’orco cominciò a
mancare l’aria e cadde
svenuto dopo poco. Energy stava già andandosene quando
l’orco si rialzò
urlando. Non si era ripreso del tutto, era come in trans. Gli occhi
bianchi e
la bocca aperta in un rantolo. L’afferrò con le sue
possenti mani. L’avrebbe
spezzata come la spada. La giovane con tutta la sua volontà
cercò di afferrare il
pugno. Una persona normale che non avesse avuto il suo addestramento
sarebbe
morta. Finalmente la ragazza ci riuscì e lo piantò nel
petto all’orco
squarciandogli il cuore. Fu disgustata di vedere le sue mani macchiate
di quell’orribile
sangue di orco. Fu però ben felici di vedere che quei fifoni
stavano bene.
Energy, rimanendo vestita a quel modo, tornò al lato della
battaglia. Che
procedeva in un gran disordine ben lontano dalla divisione in file con
cui era
cominciato.
Dragoon si muoveva sinuosamente
nell’aria. Al contrario il drago nero era goffo e la sua grande potenza e forza
era ben contrastata dal drago color cielo. I due nani stavano in piedi sui
draghi. Si muovevano frenetici e combattevano con forza. Anche se con poco
agilità, i loro colpi erano infallibili. Antiche mosse conosciute da abili
famiglie, di quella fenomenale razza di combattenti, da secoli. Il nemico diede
un colpo di spade di lato, ma Aido lo fermò con un contraccolpo. La parata di
Aido fu talmente forte che quasi l’altro nano cadde dal drago. Dragoon subì un
colpo di coda del drago nero, così da far sbilanciare Aido. Entrambi i nani sul
punto di precipitare riuscirono a restare in piedi con la loro bravura. Sui
dorsi dei draghi cominciarono a corrersi incontro. Ricominciarono a combattere.
Avevano un modo di combattimento ammirabile, pulito esimile.
Aido roteò la spada prima verso
destra, poi verso sinistra, in alto con sole poche dita della mano
spiazzando
il nemico. Aido ne approfittò per cercare di colpirlo.
L’altro nano girò la
spada ripresosi dallo stupore. E cerco di colpire Aido che lo
schivò con
facilità. Anche l’altro nano era un maestro buono, era
impossibile per Aido
capire il suo tradimento. Aido diede l’ordine a Dragoon di volare
verso l’alto.
All’altro nano che Aido stesse scappando. Invece il maestro di
Carlo si lanciò
da Dragoon atterrando sul drago nero. Puntò la spada alla gola
dell’altro nano, che esalò: "Morirò". Aido chiese
il motivo del suo tradimento. L’altro
rispose: "Il Generale Barden tiene prigioniera la mia famiglia nelle
segrete del suo castello". Il nano fu felice di sapere che i ragazzi
avevano già conquistato il castello e liberato i prigionieri. I
due nani
scesero a terra coi loro draghi. Aido portò l’exnemico
alla sua famiglia nell’accampamento.
Poi tornò a cavallo di Dragoon da Flash. Aido e Asches si
diedero il cambio.
Mentre il nano restava con il suo drago ferito, Asches si allontavana a
bordo
di Dragoon per combattere. L’elfo era un combattente esperto, ma
sapeva di
rischiare in battaglia. Vedendo la profonda tristezza del drago con
voce sicura
disse: "Vedrai che il tuo padrone se la caverà. Sono ottimista.
Siamo
eroi cosa ci può succedere?". Asches non credeva molto a quello
che
aveva detto, ma risollevò il morale di Dragoon.
Era stato uno spettacolo vedere
come se la cavavano Donatel e Tecno. Donatel era riuscito a trovare mille modi
per non uccidere i suoi avversari, trionfando comunque. Le sue invenzioni
facevano faville. Il pugno d’acciaio con laser, il guanto scossa elettrica, il
riproduttore d’onde, il demolitore, gli occhiali multiuso e molte altre ancora.
Non tutte avevano fatto esattamente cosa ci aspettava, ma erano servite allo
scopo. Tecno era stato impareggiabile, ma dopo un ultima lotta dava segni di
stanchezza. Donatel per evitare un cedimento fisico del suo drago decise di
atterrare. Tecno non volle lo stesso smettere di combattere. Il terreno per il
drago era consono a lotte che richiedevano poche energie. Il drago si fece
trascinare dalla combattività. Così ben presto si allontanò dal padrone.
Donatel, con diversa prospettiva ottica, notò davanti a se un uomo impassibile
come una roccia che lo fissava, sembrava quasi lo stesse chiamando. Donatel
restituendo lo sguardo decise di andargli incontro. Era dalla parte di Barden,
si presagiva anche solo dal cipiglio. La supertecnologia di Donatel in quell’uomo
incontrò il passato. Era un silenzioso samurai. L’uomo sfoderò la sua spada.
Che aveva il manico nero a quadri bianchi. Prima di combattere aspetto che
Donatel fosse armato. A Donatel sembrò strano che un nemico fosse provvisto di
onore. Avrebbe capito il motivo se avesse saputo la storia del samurai. Era
nato, e ci aveva vissuto una buona fetta di tutta la sua vita, in un piccolo
villaggio nella Terra della Luna vicino alla città della notte. Ormai il
villaggio chiamato Mikafuj non esisteva più. Il samurai portava il nome di Gangleri.
Un nome particolare ed eccentrico per le tradizioni del luogo. La città era
provincia del regno del padre di Matteo.
Il padre di Gangleri era una persona importante: il mandarino[1]. Gangleri
non ebbe problemi, con la sua particolare bravura, a diventare samurai al
servizio del re. Era sempre stato fedele al suo regno. Un giorno, tornando a
casa dopo una missione, trovò la sua abitazione in cenere. I suoi genitori non
erano scampati all’incendio. Era stato ospitato dal suo migliore amico: Ci
Mang, anch’esso samurai al servizio del re e benestante. Gangleri aveva perso
tutti i suoi averi con quella casa. Nell’abitazione di Ci Mang c’era una terza
persona, che Gangleri non conosceva. Ci Mang aveva una sorella di cui era molto
geloso. Alla morte dei genitori anni prima, Ci gli aveva promesso sul letto di
morte che l’avrebbe protetta. La giovane portava un lungo, ma meraviglioso
nome. Si chiamava: “Loto di lacrime di luna”. Era bella quanto dolce. Timida,
non andava mai oltre il suo splendido giardino. Passava molto tempo all’aperto
curando animali e piante. Sapeva cantare, ballare, suonare, ricamare e spesso
leggeva. Gangleri dopo due mesi di fatiche costruì qualcosa di simile a una
casa, ma abbastanza abitabile, vicino alla casa di Ci Mang. Tra Gangleri e Loto
di lacrime di luna nacque l’amore. Non volendo far soffrire Ci Mang, il loro
amore rimase segreto. Anche se tutto il villaggio lo capì. Il Generale Barden
eraconoscenza delle doti di Gangleri.
Assoldò il Mercenario per uccidere Ci Mang e sua sorella. Quando avevano
trovato i due cadaveri, la gente del villaggio aveva ricostruito a modo suo l’accaduto.
Ecco per il villaggio cosa era successo. Ci Mang aveva scoperto la relazione
clandestina. Aveva perso le testa. E aveva cercato di uccidere sua sorella e Gangleri.
La ragazza era morta. Gangleri invece aveva ucciso il suo migliore amico.
Trovarono anche le prove. Buona parte del villaggio era riconoscente a Ci Mang.
Decisa a vendicarlo una massa inferocita armata di torce, forconi e archibugi
diede la caccia a Gangleri. Il samurai fu costretto a fuggire. Prima che il re
avesse potuto mandare qualcuno a fare un regolare processo. Nella fuga conobbe
il Generale Barden che lo convinse a unirsi a lui. Non sapeva che era stato proprio
Barden a preparare le prove contro di lui con la magia. Barden aveva fatto quel
piano machiavellico perché ancora troppo debole per un vero attacco preparava
un esercito. All’attacco di conquista del villaggio di Gangleri, il samurai lo
distrusse. Interpretando a modo suo l’ordine di non fare prigionieri. Aveva
fatto uccidere tutti gli uomini, ma fatto scappare vecchi, donne e bambini. La
spada di Gangleri era fatta di un metallo indistruttibile. Se non ci fosse
stato l’effetto della gemma di Carlo, la sua spada sarebbe stata capace di
tagliare qualunque cosa. Gangleri era molto affezionato alla sua spada. La
considerava come un figlio. Donatel aveva sempre avuto fiducia nelle sue
invenzioni, anche se non avevano sempre funzionato. La sua più grande delusione
era stata: la “sforna pizza”. Secondo le aspettative, utilizzando gli
ingredienti con cui veniva caricata, sfornare una pizza secondo l’ordinazione.
Qualcosa era andato storto. La macchina aveva cominciato a lanciare margherite
a velocità mai viste. Aveva imbrattato i muri di salsa, resi scivolosi i
pavimenti con l’olio, impastricciato il soffitto con la pasta lievitata per
pizze e fatto nevicare mozzarella e origano. Stavolta Donatel vacillò, venne
meno la sua cieca convinzione nella scienza. Il samurai ispirava le leggende e
la tradizione. Donatel aveva come arma tecnologica: il “Guanto soporifero”.
Sembrava un guanto invernale imbottito che sparava, da dei piccoli marchingegni
posti di sopra, pallottole con sonnifero e dal pollice lanciava laser capaci di
addormentare un elefante. Donatel cominciò a sparare contro Gangleri. Gangleri
con balzi felini, agili capriole e incredibile velocità li schivò tutti.
Donatel aumentò la potenza al massimo. Gangleri usando abilmente la spada
colpiva e dirottava ogni ago e pallottola. Si avvicinò abilmente a Donatel e
con un colpo di spada ruppe il Guanto soporifero. Donatel corse all’indietro
per evitare di essere ferito dalla spada. Il ragazzo arrivò al punto in cui
voleva andare. Nascosta nell’erba bagnata c’era la spada di Donatel. Quella
donatagli da Babbo Natale. Era un incrocio tra passato e futuro. Una spada di
splendida foggia antica con luci ed effetti tecnologici all’insegna del futuro.
Donatel afferrò la spada e cominciò a combattere. Spada contro spada era la
lotta tra gli opposti. Il modo di lottare era talmente diverso che portò il
combattimento al suo apogeo[2] in
pochi colpi. Era talmente potente che le spade sembrava volassero. Donatel
colpì Gangleri a un braccio. Il samurai approfitto dello sbilanciamento del
ragazzo e con un taglio perfetto mandò in sovraccarico la che divenne
incandescente. Donatel dovette lasciarla. Gangleri non voleva rischiare che la
sua spada si rovinasse con la prossima mossa di Donatel e non avrebbe potuto
combattere con qualcuno disarmato. Gangleri avvolse la spada in un drappo di
pelle e la mise da parte. Erano rimasti entrambi disarmati. Gangleri era sicuro
che un combattimento a mani nude era impari. Il samurai aveva sempre vinto,
sconfiggendo qualunque nemico, con le arti marziali. Contro un ragazzo era
palese che avrebbe trionfato. Gangleri non voleva uccidere quello che ai suoi
occhi era ancora un bambino con una vita davanti. Donatel rimase sorpreso di
sentire parlare Gangleri Il samurai lasciò la posizione di combattimento.
Chiese a Donatel se poteva cercare nuove armi nella sua grande sacca. I due
tornarono nel punto punto esatto in cui avevano cominciato a lottare. Esattamente
dove prima Gangleri in piedi fermo come una stella, stava la sacca. Donatel non
aveva notato prima quella borsa. Una sacca intessuta con strani disegni
indiani. Doveva essere molto piena, si vedeva dalla forma degli oggetti che
spingevano verso fuori e dal fatto che ad ogni movimento si sentiva un bazar di
rumori. Quando il proprietario l’aprì si videro al suo interno tantissime
cianfrusaglie. Emanava odore di vecchio, stantio e incenso. In quella borsa c’era
di tutto. Un ciondolo a forma di cuore con una catena veramente, enormemente
lunga. Un aquila impagliata eccessivamente spelacchiata. Una borraccia piena d’acqua.
Un panino al tonno avvolto nelle foglie di Acacia.[3] Un
erba curativa. Una tazzina da tè. Un barattolo da the alle rose. Un laccio da
scarpe avvolto nella carta argentata. Un dente di drago. Un libro di cucina
scritto da: “Robespierre il
corvo”. Una palla di legno. Uno strano cappello tipicamente giapponese. Donatel
rimase veramente sorpreso quando vide che l’altro usciva un oggetto mitologico.
Che era rimasto famoso nei secoli perché se lo erano conteso ben tre dee. La
sua assegnazione aveva provocato una successiva guerra. Era un pomo d’oro
lucido. Le sue foglioline d’argento sembravano una piccola corona. Portava
scritto: “Alla più bella”. Era tanto piccolo che la mano pareva quella di un
gigante. A rimostranza che era commestibile, un grosso morso sul lato destro.
Nella leggenda questo non era detto. Gangleri sapeva cosa stava cercando. Seguì
tutto quel procedimento per uscire un bastone Bo rimasto incastrato. Donatel
aveva letto in un libro che il bastone Bo era un arma da combattimento per le
arti marziali. Proveniva da Okinawa, forse era il bastone usato per portare i
secchi d’acqua. Lo diede a Donatel. Per se stesso, Gangleri prese una manciata
di stelle ninja chiamate shuriken e n shuko. Gli shuriken sono leggeri dischi
metallici circondati da lame affilate a punta, con un buon lancio può colpire a
morte anche da grande distanza. Lo shuko detto anche tekagi è un particolare
tipo di “pugno di ferro”, simile a un guanto, da indossare in modo da avere il
palmo della mano armato di artigli in metallo e le nocche prolungate di artigli
sempre in metallo. Gangleri non perse tempo. Diede un assaggio della sua mira lanciando
alcune shuriken. Con agilità e soprattutto furbizia Donatel non fu colpito. La
velocità di lancio di Gangleri andava ad aumentare. Donatel decise di
utilizzare la sua arma. Non sapeva come. Fu distratto dalla prima ferita alla
spalla. Ne seguirono altre due: al ginocchio e al fianco. Erano superficiali
Donatel si fece guidare dall’istinto. Le mani si sentirono rinate con una nuova
forza vitale a toccare quel legno. Uscì una sua innata e nascosta bravura col
bastone. Lo faceva roteare. Le stelle ninja vennero parate. Con alcuni colpi,
che ricordavano i battitori di baseball, ne rimandò alcune indietro. Ben presto
il samurai rimase senza dischi. Si diedero al combattimento più ravvicinato.
Dopo non molto Donatel aveva il fiatone. Gangleri andava l’oltre essere un osso
duro. Il ragazzo aveva anche qualche riserva al pensiero di doverlo uccidere.
Era qualcosa di troppo simile a un supereroe. Donatel non avrebbe voluto
troncare una vita. Anche se fosse stato un completo malvagio. Se però non
avesse dato il colpo fatale, la lotta si sarebbe prolungata fino alla morte di
Donatel. Sembrava una strada chiusa che portava a truci conclusioni. Gangleri
faceva quasi fatica a tener testa al ragazzo. Donatel aveva sempre schivato gli
esercizi con armi che riteneva obsolete. Quando i maestri lo scoprivano finiva
nei guai e le punizioni erano memorabili. Donatel sapeva che le meritava e
alcune volte svolgeva quegli esercizi, ma non ci metteva impegno. Ora
rimpiangeva. La sua bravura con il Bo era impareggiabile, sembrava un arma
creata a posta per lui. Riusciva a fare colpi spettacolari. Se si fosse
allenato veramente, l’avrebbe scoperto e avrebbe sicuramente vinto facilmente.
Il pugno di ferro di Gangleri colpiva con precisione. Donatel sapeva che
continuando solo a schivare si sarebbe stancato. Una volta privato delle
energie sarebbe stato un facile bersaglio. Il bastone colpiva andando spesso a
segno. Il bastone non serviva però contro l’arma del samurai. Si sarebbe
spezzato o tagliato. Donatel, rimanendo presente alla lotta, cominciò a studiare
il nemico. Doveva trovare il debole di Gangleri. Donatel aveva la sensazione
che il samurai non stesse mettendocela tutta. Eppure sentiva che Gangleri lo
avesse scelto. Avesse voluto fosse lui il suo avversario. L’attenzione di Donatel
si puntò sulla gamba destra. Zoppicava. Doveva essere stato ferito nella lotta
precedente. Le ferita era ancora fresca. Era rimasto leggermente zoppo e
sofferente. Donatel colpì con tutta la sua forza la gamba. Aveva fatto centro.
Il samurai cadde a terra. Non riusciva ad alzarsi. Era il momento buono.
Sarebbe stato facile colpirlo e non ucciderlo. Un colpo non troppo forte alla
nuca. Sarebbe svenuto. Donatel l’avrebbe legato e portato all’accampamento. Il
ragazzo sperava si potesse riportare alla bontà. Gangleri capì. Quelragazzo
senza sapere il suo passato, avendolo conosciuto solo in battaglia voleva
salvarlo. Gangleri non voleva essere salvato. Gangleri vide la sua spada.
Rotolò fino a lei. La svolse. Pronunciò dure parole: "Il mio onore è
spezzato". Seguendo un antica pratica si infilzò con la sua spada.
Gangleri aveva compiuto quel gesto non solo per l’onore infranto. Era ormai
qualche tempo che il peso delle uccisioni, quegli occhi bianchi privi si
spirito vitale, lo andavano a trovare nei suoi sogni. Aveva venduto la sua
anima e i suoi servigi a un mostro. Il cuore sanguinava. Il pensiero del suo
migliore che non aveva salvato da quella morte sanguinosa, l’amico che lo aveva
accolto in casa sua. Lo strazio di non aver potuto vivere con la sua amata. Non
si erano sposati, non avevano avuto figli, non erano invecchiati insieme. L’ultima
goccia era stata l’aver cominciato ad aprire gli ochhi sulla terribile verità.
Il piano attuato dal Generale. Donatel rimase molto scossola quel suicidio.
Qualcosa in lui quel giorno cambiò per sempre.
[1]Funzionario pubblico
appartenente a uno dei nove ranghi superiori previsti dalla gerarchia
burocratica vigente nella Cina imperiale. Il termine deriva probabilmente dal
portoghese, mandarim, "consigliere". I mandarini venivano selezionati
attraverso severissimi esami, formati secondo la tradizione del più ortodosso
confucianesimo, e quindi assegnati al governo di una provincia (nella quale non
potevano avere possedimenti personali) per tre anni al massimo.
[3] pianta arbustiva delle
Rosali con grandi foglie alterne
Ringraziamenti:
luisina: Non preoccuparti. Non
temere per il ritardo. Sono contenta che ti sia affezzionata a Miriam.
Eh si, questa storia mi viene sempre parecchio corposa. xD Bacioni
Milli lin: No, per favore. Mio
padre quando fa Dart Fener fa spaventare. O.o sembra davvero lui. Anche
se lui lo fa perchè sa che io e mio fratello ci fifeggiamo a
morte. Sob, al senso dell'umorismo del mio papy. ("Non chiamarmi
papy!!!"Ndvoce sepolcrare). ( "Ok, paponzolo"Ndme). Visto che questo
battibecco andrà avanti a lungo, me te saluta. ciauuuuuuuuuuuu
Asches vide tra i combattenti
dell’esercito nemico un elfo. Non era molto facile vedere un elfo
malvagio, anzi quasi impossibile. Scese a terra lasciando solo Dragoon che si allontanò. Lo strano elfo era di certo dalla
parte di Barden, portava i suoi colori e tipiche armi
malvagie. L’elfo non era tra i più alti di questa razza. Aveva le tipiche
orecchie a punta, cortissimi capelli neri, era facilmente intuibili che erano
tinti, aveva due grandi occhi viola con venature rosse, blu e viola. Al suo
fianco, impalato come un palo della luce, stava un colosso. L’elfo gli
dava ordini dispotico con aria di sufficienza. Il nome del mastodonte era 252.
In realtà il nome vero non lo conosceva nessuno. 252 era
il numero che gli avevano dato nel carcere dal quale Barden
lo aveva fatto evadere. Anche se aveva una forza sovrannaturale e
inarrestabile, persa grazie a Matteo, la sua mente era vuota. Era
irrimediabilmente sciocco. Nei suoi occhi nessuna scintilla d’intelligenza
brillava mai. L’elfo era molto bravo nel combattimento, ma pigro. Godeva
nel dare ordini a 252. Faceva fare tutto al colosso. Stava a guardare l’excarcerato che uccideva. Al povero malcapitato che gli
stava antipatico lo faceva morire di paura, far spaventare a lungo o staccare
arti del corpo. Le ossa scricchiolavano. Asche rimase
sconcertato. Non aveva mai visto qualcuno di così crudele, soprattutto non
poteva pensare potesse esserlo un elfo. Asches voleva
mettere fine a questa barbarie. Per l’elfo malvagio era una manna. Odiava
la sua razza. 252 muovendosi rozzamente andò incontro ad Asches.
Afferrò l’elfo alle spalle e cominciò a sbatterlo. Asches
si sentiva come in un terremoto. Prese i fianchi di 252 e usando la forza del
nemico si buttò indietro. Per aiutare il volo di 252 usò un poderoso calcio
allo stomaco con tutti e due i piedi. 252 non capì molto. Una volta rialzato
sembrava non si fosse fatto niente. L’exgaleotto
semmai era un po’ confuso. Aveva sbattuto con la schiena, non con la testa.
252 prese la rincorsa per dare una gomitata ad Asches.
L’elfo lo schivò con un braccio. La forza si 252 provocò seri danni al
braccio di Asches. L’elfo ammutolendo il forte
dolore fece uno sgambetto a 252 che cadde pesantemente a terra. Asche fece un salto che lo portò molto in alto. Ricadde con
un piede sullo stomaco di 252. L’uomo non abituato al dolore, fu sorpreso
di quella sensazione. Come una animale spaventato, scappò via. A nulla valsero
le urla di ira dell’elfo malvagio. Asches, con
una pratica elfica, girò l’osso fino a farlo tornare al suo posto. Asches impugnò la spada mentre il nemico tirava fuori un
pugnale finemente lavorato. Era nero con decorazione d’avorio. Sembrava
qualcosa di ridicolo. Cosa poteva fare un pugnaletto
contro una spada. Le apparenza però spesso ingannano. L’elfo malvagio era
rinomato per la sua maestria con quell’arma. Che aveva affinato nel corso
della sua vita, usava il pugnale dalla più tenera età. Si muoveva sinuosamente
come le canne di bambù che si piegano al vento senza spezzarsi. Usava
velocemente la piccola arma tagliando vestiti e carne inesorabilmente. Asche si ritrovò in poco tempo ferito da più parti. Asches però non era un novellino e sapeva come utilizzare
la superiorità di una spada. La lotta era alla pari, forse con una leggera
superiorità dell’elfo malvagio. La potenza, la velocità erano i loro
punti forti. Erano elfi, una razza di combattenti invincibili. Non potevano
morire, tranne che per morte in battaglia o per la decisione di lasciare questo
mondo. La stanchezza era bandita. Lottare, lottare e lottare. Nient’altro
esisteva oltre il combattimento. Un colpo di Asches
andò a segno. Un lembo della manica del nemico volò via. Lascio scoperta una
parte di braccio. Asches sbiancò dalla sorpresa
quando vide cosa c’era sul braccio. Sul braccio era un colpo
d’occhio quel tatuaggio. Nera come un livido, una parte di braccio su cui
risaltava un disegno bianco e rosso. Raffigurava una luna spezzata a metà unita
a un sole malefico. Era il simbolo degli elfi rinnegati Nel corso dei secoli
quel marchio era cambiato a seconda della colpa. L’elfo malvagio si era
macchiato del peggiore. Faceva parte della setta dei “Ricercatori di Dvallin”. Un malvagio che aveva raggiunto picchi di
potere e crudeltà assurdi. La setta voleva far ritornare il suo spirito e
riportare Dvallin al suo antico potere. Per farlo
doveva bere il sangue del prescelto che era introvabile. Questo diede un altro
motivo ad Asches per vincere. I colpi di Asches erano decisi e sicuri. Combatteva in modo schematico
con tagli netti. Il nemico improvvisava. Si muoveva scordinatamente
però in maniera efficace. Era impossibile stabilire o prevenire le sue mosse.
La lotta si prolungava per le lunghe. Sfiancante non portava a nulla. I due
erano sempre pari. Più uno si caricava, più l’altro ci metteva impegno.
La lotta li rese stranamente loquaci. Asche si
ritrovò a raccontare la storia della sua vita. Il nemico era più restio. Fu
dura per lui dire il suo nome. Non andava fiero di chiamarsi Ny’i, un nome tipico della razza più odiata.
Qualunque cosa di elfico lo irritava. Lo portava a ricordi tristi, dolorosi e
annegati in mare di rancore. Si era ripromesso di non raccontare a nessuno la
sua storia. Ora rivedeva quella scelta. Decise di raccontare ad Asches il suo passato. Quel nemico meritava di sapere il
perché del suo odio verso il mondo e soprattutto verso gli elfi. Non avrebbe
mantenuto la promessa di tacere che aveva fatto. Sua madre, un elfa, senza sapere di essere incinta, aveva deciso di
sacrificare la sua vita per quella del suo amato sposo. Nella sua terra
c’era un tempio dei Ricercatori di Dvallin. La
gente andava per avere ciò che gli serviva e in cambio diventava schiava. Il
marito si era ammalato di peste gialla. Solo i Ricercatori di Dvallin avevano la cura. L’elfa
sarebbe diventata la loro schiava. Fu assegnata alle cucine. Dopo qualche mese
divenne chiaro che aspettava un bambino. Il piccolo elfo fu consacrato al
malvagio. La madre morì di parto. L’elfo crebbe in quel luogo sicuro che
quello che faceva era giusto. Finché un giorno gli avevano chiesto di uccidere
un bambino. Aveva accettato senza problema, ma quando arrivò lì la coscienza
ebbe il sopravvento. L’arma gli cadde d mano e scappò via. Si nascose in
un villaggio di elfi. Stupidamente non cambiò nome, anche se si accertò di non
subire la vendetta della setta. Quando arrivarono notizie del suo passato non
lasciarono che spiegasse, gli misero il marchio e lo cacciarono. Con quel
simbolo addosso trovò solo vergogna e gente che lo maltrattava. Il suo odio
crebbe e la sua anima si tinse di nero. Vagò nei mondi in cerca di qualcuno
come lui, che potesse accettarlo e condividere la sua sete di vendetta. Conobbe
Barden, il suo spirito da buono si era corrotto
irrimediabilmente come il suo. Con Barden poteva
mettere a frutto la sua sadica follia. Entrò nel suo esercito Questo colpì Asches. La sua profonda convinzione della democrazia a
dell’immagine perfetta che aveva della sua razza. Sin da bambino aveva
fatto di tutto per non deludere la sua gente di virtù tanto elevata. Si torceva
le mani e mordicchiava le unghie come un ragazzo nervoso ad un esame. Qualcosa
in Asches si era incrinato, ma ciò non influì sul suo
modo di combattere. Asche abbassò un fendente di
fronte a se, non lasciando scoperte zone vitali. L’elfo nemici si
abbassò. La schiena ad arco, piedi a terra saldati e testa che guardava
all’ingiù. Ny’i sembrava un
contorsionista. Camminò di lato come un granchio e si rialzò con il pugnale
pronto a colpire. Asches fu veloce a spostare
l’arma di lato. L’elfo malvagio non si fece sfiorare, ma non colse
l’attimo per colpire Asches. Il maestro riuscì
quasi a colpire Ny’i, ma quello sgusciò come un
anguilla. Non si faceva problemi ad usare trucchi ignobili o ad attaccare alle
spalle. L’elfo malvagio in fin dei conti era dalla parte del male. Cercò
anche di tirare la sabbia negli occhi ad Asches.
Tuttavia l’altro era un elfo, razza antica, non quanto quella dei nani,
conosceva quei trucchi. Provarono tecniche antiche, mosse nuove, movimenti
totalmente nuovi e cose improvvisate. Usavano cose naturali trovate sul campo
di battaglia per agevolarsi. Usando la forza bruta e l’ingegno. Cuore e
mente erano in sintonia. Ogni sentimento, emozione, pensiero chiuso negli antri
più reconditi della mente. Qualsiasi cosa facessero li portava alla medesima
conclusione. Erano sempre pari. Dovevano decidere il tutto per tutto. Saltarono
più in alto possibile. Abbassarono le armi. Entrambi si colpirono. L’elfo
malvagio rimase senza un braccio. Asches si ritrovò
la gamba passata da parte a parte. Mentre Asches era
a terra semicosciente, l’altro scappava pazzo di dolore. Nessuno si
accorse della fuga. Troppa confusione.
La tecnica del popolo
subacqueo era infallibile. Saltavano fuori dall’acqua e afferravano uno
dei nemici. Subito dopo si immergevano immediatamente. Sia perché il catturato
non avesse tempo per rendersi conto, sia perché non potevano stare al lungo
fuori dal loro ambiente. Tenevano fermo il prigioniero che senza ossigeno
perdeva i sensi dopo poco tempo. Successivamente lo lasciavano andare. La
corrente lo sospingeva a riva. Meno uomini dell’esercito avversario e
nessun morto. Di sicuro i soldati di Barden avrebbero
preferito che la gemma di Carlo non fosse mai esista. Infatti se si fosse
potuta usare la magia avrebbero potuto respirare sott’acqua. Erano muniti
di speciali alghe. A causa del cuore d’ambra i nemici non potevano usare
neanche i loro gas velenosi ricavati dai funghi d’ombleon.
Per difendersi avevano bacche magiche che mangiandole li avrebbe resi immuni.
Ovunque sul campo di battaglia c’erano orci trafitti. Si udivano
urla. Una grande confusione. Uomini che cedevano sotto il peso dei colpi.
Attirato dal rumore della lotta arrivò il gigante Begnam.
Quando capì chi erano gli sfidanti, memore della sua promessa, decise di
combattere contro l’esercito di Barden. Aiutato
dal suo mastodontico drago viola. Gli orchi grandi come mezzo pollice in realtà
erano archetti che sotto l’effetto della magia erano stati rimpiccioliti
e in proporzione a quanto diventavano piccoli la loro forza aumentava di
quattro volte. Inaspettatamente arrivarono a combattere i guardiani. I golem
ricostruiti ora non si potevano battere. Cedro guidava un intero esercito di Hent. Mancavano solo Tempo e suo fratello. Avevano visto
tante di quelle guerre da capire chi avrebbe vinto. La nonna di David
combatteva a mani nude, ma era imbattibile. Se la magia avesse funzionato
sarebbe stata snodabile. David girava intorno ai nemici più sciocchi per
confonderli. Poi arrivava sua nonna a batterli. Vagavano nel campo e senza meta
particolari orchetti che ricevevano istruzioni per
via magica. Facevano un po’ pena. Tre intanto col suoi potere stava dando
battaglia. Finché non vide non vide a terra A sches.
Corse in aiuto dell’elfo. Aveva perso molto sangue. La sua situazione non
era delle migliori. Tre non poteva definirsi completamente amico di Asches, lo conosceva da poco. Però erano dalla stessa parte
e quell’elfo era stato onorevole e imbattibile nelle battaglie. Non per
niente era un maestro. Uscì la parte di Tre più dolce che cercò disperatamente
di salvare Asches. Forse ci sarebbe stato bisogno di
tagliare la gamba.
Finalmente arrivò Barden. L’incanto era compiuto. L’anello lo
aveva trasformato in un enorme drago rosso con furenti occhi blu. Esagerato di
mille volte a quelli normali. Con la sua orribile voce disse: <Iego. Uno stolto trovandolo l indossò. Io uccisi il suo
spirito e misi il mio. Lo allenai alle arti oscure fino a renderlo
irriconoscibile e mi feci chiamare: Generale Barden.
E cercai di conquistare il pianeta per attuare la mia vendetta. Conservai
l’anello. Nel giorno di una grande battaglia lo avrei indossato per poter
spezzare l’incanto e tornare il possente drago che sono>>. Ognuno
dei ragazzi, tranne Energy e Robert, avevano un motivo per sfidarlo. Lotshar per la faida della sua famiglia. Leopold per la
libertà della sua ragazza. Miriam per vendicare il popolo delle fate. Michelangelo-Ricard perché Barden
lo aveva quasi ucciso e gli aveva fatto perdere sei anni della sua vita con la
famiglia. Lado e Carlo per il loro popolo e la loro
famiglia. Lo scontro frontale con Barden, che in
realtà si chiamava Alax, tocco a Carlo che con stile
scese da cavallo. Alax mosse in fretta le ali facendo
quasi volare via Carlo. Che affondò la spada nel terreno e si tenne a lei
saldo. Rimase così sul punto di volare via finché Alax
si stancò di agitare le ali. Il ragazzo si rimise dritto con i piedi ben
saldati a terra. Con un fortissimo strattone rialzò la spada sulla sua testa. E
poi si mise in posizione di combattimento. Carlo si lanciò contro il drago
mulinando la spada. Doveva schivare le forte fiammate del drago. Intorno la
battaglia infuriava, ma i due contendenti non la sentivano. Per evitare
interruzioni erano in una parte deserta del campo di battaglia. Non contento di
lanciare vampate di fuoco, Alax sputava ghiaccio. Un
momento prima era un forno crematorio e subito dopo una tempesta di ghiaccio.
Una fiammata puntò diritta sul ragazzo. Carlo la parò con la spada dirottandola
di lato colpendo un ala di Alax. Una spada normale si
sarebbe squagliata, ma quella era una lama elica magica. L’elsa non
divenne neanche incandescente e Carlo non dovette lasciarla. La magia
dell’arma funzionava perché anche lei era un oggetto di reis. La spada di Carlo si fronteggiò con la coda affilata
di Alax. Dopo il colpo all’ala dovuto alla
propria fiammata Alax smise di alitare fuoco e
ghiaccio. Si mise però a dare pericolosissime e fortissime artigliate e
zampate. Poderosi i morsi dati con le grosse fauci. Una zampata colpì Carlo che
cadde a terra. Alax stava per dargli il colpo di
grazia.
Energy non dovendo
combattere si era appostata vicino ad Alax e Carlo.
Quando vide il ragazzo a terra capì che per salvare il pianeta e l’amico
doveva sacrificarsi. Afferrò una roccia appuntita. Si avventò alla zampa
bitorzoluta di colore del sangue. E distrusse l’anello. Alax tornò uomo. Ancora potente e armato di spada. Colpì
Energy alla spalla e la spinse lontano. Fu soccorsa da Tempesta. Carlo si
rialzò ancora più arrabbiato e riprese a combattere.
Tre vide poco distante da se
Peppe e Antonio. Combattevano nei modi tipici dei pirati. Un coltello in bocca,
uno in mano e all’arrembaggio. Poco più in là le amazzoni facevano come
le cavallette. Attaccavano tutte insieme e quando passavano non c’era più
niente. La lotta senza superpoteri era loro più consona.
Carlo e il Generale Barden avevano ripreso a lottare. Il vedere Energy compiere
quel gesto aveva dato nuovo vigore al ragazzo. Il Generale capì che non era
solo un piccoletto da raggirare, come aveva già dato prova. Anche se Alax non era più un drago la lotta era infuocata. Carlo
andava avanti mossa dopo mossa, colpo dopo colpo imperterrito nella lotta
contro Barden. Sentiva che il peso da cui dipende la
Luna di Iego gravava sulle sue spalle. Come su quelle
di Atlante il mondo. Alax si trovò spiazzato.
Resistette a lungo il Generale, ma la lotta con le spade non era il suo forte.
Fece una domanda a Carlo. Il ragazzo restò quando il nemico gli disse:
<Iego abbia un futuro>>. Il
ragazzo sentì puzza di trucco lontano un miglio. Non voleva gettare la sua vita
quando per proteggerla un suo compagno era a terra a lottare tra la vita e la
morte. Barden era insistente e colpiva
sull’orgoglio del ragazzo, ma era tutto inutile. Allora il Generale mise
in atto un raggiro. Spezzò la spada facendo finta si fosse rotta in battaglia.
E ricordò che i supereroi non possono combattere con armi contro un disarmato.
Carlo suo malgrado dovette posare la spada magica. Dentro di se Alax esultava, anche se cercava di mascherare la sua
felicità.
Era La do, ora che Carlo era
impegnato in quella importante lotta, a dirigere l’esercito. Usava
parole viste in vecchi film di guerra. Anche se a volte diceva ordini senza
senso, se la cavava egregiamente. Portava avanti le truppe. Pianificava
attacchi, spingeva il nemico in trappola. Anche se era bravo il suo nervosismo
era elevato, quasi palpabile. Sentiva un caldo soffocante anche se c’era
un tempo di tempesta. La concentrazione era indispensabile, ma la tensione la
faceva facilmente volare via come una colomba. La confusione della battaglia
faceva fischiare le orecchie e confondeva le idee. Era quasi impossibile controllare
le truppe, che si dividevano in individui. Sembrava che tutti per arrivare allo
scopo volessero fare di testa propria senza seguire i comandi. Gli animali
soprattutto basavano sull’istinto. Lado aveva
il suo bel da fare. Il caldo poteva derivare dall’adrenalina o
dall’armatura. Nella mente di Lado veniva un
pensiero terrificante. L’armatura che possedeva da sempre, una prova
delle sue origini, sarebbe divenuta la sua tomba. La battaglia però sembrava
procedere bene. I ragazzi avevano sconfitto i migliori dell’esercito
avversario. Nell’esercito per la liberazione della Luna di Iego c’erano ancora degli assi, anche se i ragazzi
erano soli contro i nemici e molti di loro feriti. Lado
si ritrovava da solo a guidare un esercito. Era però figlio di un grande re e
un elfo, anche se solo diciassettenne.
La lotta corpo a corpo tra Alax e Carlo era iniziata già da un po’. Si fermarono
un attimo a riprendere fiato. I due si fronteggiavano. Si sentiva il loro
respiro affannoso I volti contratti dal nervoso. Si guardavano occhi negli
occhi. Quelli del nemico erano dilatati e avevano un taglio deciso. Il sangue
fluiva facendogli diventare gli occhi rossi più del solito. Gli occhi del
ragazzo erano decisi, fieri, sicuri. Lucido anche se nervoso. I loro corpi
fremevano, tremavano. Il nemico saltò all’indietro. Con uno spettacolare
salto mortale atterrò in un punto più favorevole. Un tratto elevato che lo
rendeva ancora più alto di Carlo di quanto non fosse. Okay. Carlo dovette
ammettere che aveva fatto una cosa non sensata. Era ovvio che era in
svantaggio. Decise di usare il famoso Ci interiore. Era una
specie di potere, ma lo potevano usare tutti con l’allenamento. E quando
qualcosa la sa fare chiunque non è più speciale. Quindi la gemma non lo avrebbe
bloccato. Glielo avevano insegnato i maestri. Erano così scettici
dell’utilità per dei supereroi, che era stato un passatempo. Invece ora,
contro i pronostici, serviva. Carlo chiuse gli occhi e si concentrò. Aveva
dimenticato fino a che punto si spingevano i sensi. Aveva una missione. Doveva
mettercela tutta. Vedendolo così concentrato, Barden
decise di attaccarlo. Cercò di colpirlo con un pugno. Il ragazzo riaprì gli
occhi e si spostò. Baden lo prese in giro.
<>. Neanche aveva finito la frase che il
sorriso gli morì sulle labbra. Carlo aveva uno sguardo diverso, deciso. Faceva
quasi paura. La sua determinazione aveva cambiato anche il suo modo di combatteree. Alax cercò di
colpirlo con un pugno. Carlo invece di schivarlo gli andò incontro. Prese Barden per il braccio. L’ascella del nemico sopra il
braccio. Il braccio di Barden era serrato da quello
di Carlo come da un anello. Carlo usò la spinta in avanti del nemico e la forza
del suo colpo a suo favore. Caricò il nemico sulla schiena e poi lo lanciò
lontano. Quando Barden fu a terra gli saltò di sopra
con un calcio in pieno stomaco. Poi lo afferrò per il collo e utilizzò uno
strangolamento. Barden fece lo stesso e con le mani
intorno al collo cominciò a stringere. Entrambi rimasero senza ossigeno.
Dovettero mollare le prese. Si rimise di nuovo in piedi. Erano bagnati fradici
dal sudore. E alcune gocce scivolavano sul volto, cadevano fino a bagnare il
terreno. Piccole macchie di terra erano un po’ più scure. Alax con la sua malvagità ricordo a Carlo i terribili
incubi che tormentavano i suoi sogni adolescente. I sedici anni sono un età
difficile in cui un ragazzo non vuole accettare ordini o dogmi se non li
accetta fin dal profondo. Si chiede i misteri del male e del dolore. La vita
dell’uomo come hanno detto grandi uomini era caratterizzata dalla scelta.
Quali sono i limiti della colpa e della responsabilità individuali. I rapporti
tra padri e figli come devono essere. I valori dell’uomo sono stabili,
veri e più potenti delle leggi? Molti uomini di eccessivo sentimento da
queste domande furono portati alla follia. Molti di loro non trovando la
risposta, una via d’uscita o finivano per diventare di spirito ambiguo
non conoscendo la verità come i sofisti o in un gesto estremo e irreparabile.
Perciò l’essenza del tragico è in un conflitto inconciliabile, cioè nella
coscienza di un’autonomia irriducibile, di una contraddizione profonda e
insanabile che sta alle radici stesse dell’esistenza umana. Carlo non pensava
a tutto questo. Si chiedeva solo se Alax fosse così
malvagio e crudele per la vendetta o perché il suo cuore si fosse corrotto.
Carlo capì. Come un animale, una volta assaggiato il sangue continuerà a
ucciderà per averne altro. La battaglia svolgeva a sfavore di Alax. Al Generale sembrava impossibile. Lui era il grande
conquistatore e nessun altro era alla sua altezza. Era l’orgoglio una
delle cose che giocava a suo sfavore. Il cuore di drago che una volta aveva
battuto nel suo petto era dissipato intrappolato in un vile e di petra. Ottuso in ogni suo atto. Aveva il tipico difetto dei
privi di coscienza. Misurava tutto con il suo metro ed era convinto che gli
altri possedessero i suoi difetti e fossero privi d’anima. Dilagavano da
sempre nei secoli e nei diversi luoghi dello spazio: corruzione, viltà, odio, vendetta, sete di potere, il fascino del denaro e la
malvagità. A Barden non ne mancava uno. Conosceva
però anche la forza dell’amore, memore del passato. Però li sottovalutava.
Alax, andando indietro, toccò col piede qualcosa. Era
un ostacolo morbido. Senza muovere la testa guardò con la coda
dell’occhio. Vide che era la fata di quel gruppo di ragazzi. La povera
Miriam era ancora svenuta. Alax ebbe un improvvisa
idea nata dalla sua bravura nel ricatto. Alax si girò
di scatto e afferrò Miriam. Con una voce selvaggia intimò a Carlo:
<>. Carlo
osservò Miriam col cuore colmo di angoscia. Miriam aveva una ferita alla testa che
sanguinava. Il sangue aveva tinto di rosso i suoi bei capelli blu. Un filo di
sangue era sceso dalla ferita sulla fronte, formato un disegno sulla guancia
eccessivamente bianca e si era fermato a goccia. Era scuro perché ormai
asciutto. Forse dalla ferita Miriam poteva guarire, ma Carlo temeva che Alax l’avrebbe uccisa in quel medesimo istante. Alax la teneva per il busto col braccio che per lui era
sinistro. Miriam aveva la testa reclinata da un lato. Aveva la postura tipica
di qualcuno svenuto. Alax aveva il viso deturpato
dall’odio con un sorriso demoniaco. La vera bruttezza era quella del suo
animo però, non del suo aspetto. La sua risata riecheggiava il famelico ringhio
di uno sciacallo. Carlo non poteva fare niente. Alax
svelò le sue palesi intenzioni. La vita di Miriam in cambiò della gemma. Barden aveva cercato tutti i modi per averlo. Conosceva un
modo per far sì che lui e il suo esercito potessero usare i poteri, mentre i
nemici no. Era ovvio che a vittoria compiuta non ci sarebbero stati prigionieri.Altro che accettare rese incondizionate. Anche
se molti non avrebbero alzato bandiera bianca neanche in procinto di morire.
Doveva esserci un'altra opzione. Carlo si mise a urlare a Miriam di svegliarsi.
Si dichiarò anche per suscitare in lei qualche reazione. Barden
non capì il piano di Carlo. Pensò fosse uscito pazzo o volesse solo perdere
tempo. Una delle parole di Carlo o forse solo il chiasso sortì l’effetto
sperato. La fata afferrò il concetto di quel che stava succedendo. Le forze le
venivano meno. Doveva fare qualcosa prima di perdere di nuovo i sensi. Vide
vicino alla sua faccia il braccio di Barden. Lo
morse. Alax mollò la presa e distolse
l’attenzione da Carlo. Che saltò addosso a Barden.
Presero a picchiarsi avvinghiati. Una valanga umana. Lottavano rotolando per
terra. In questa lotta furiosa si allontanarono dal punto dove si trovava
Miriam. Che era caduta di nuovo svenuta. Barden
spinse via Carlo e si rialzò in piedi. Carlo aspettò che Barden
fosse vicino e scattò come una molla. Il colpo però non andò a segno. Alax lo scivò per un pelo. La
lotta li sfiancava. Anche se erano allenati, i loro fisici solamente umani
avevano dei limiti. Erano stanchi, spossati. Desideravano entrambi una pausa. Alax-GeneraleBardn voleva
perdere tempo. Stancare il ragazzo. Colpire Carlo sia fisicamente che
psicologicamente. Si fece vedere superiore. Sapeva dimostrarsi un bravissimo
parlatore tessitore di frodi. Alax cominciò un
discorso con tali parole: <>. Carlo
rispose:<>.
<>. <>.
<>. <>. <>. <>. <>. <>. <>: <>: <>: <>. <>. Barden non perse tempo e tirò un pugno a Carlo. Per poterlo
colpire si sporse in avanti. In posizione sbilanciata con la gamba davanti.
Carlo si posizionò di fianco parando il colpo. Diede un calcio dietro e poi un
pugno alla gola. Carlo prese a saltare come un grillo. Pam. Una ginocchiata alla schiena. Pam.
Un calcio alla pancia. Pam. Una ginocchiata sotto al
mento. Barden però subì bene i colpi. E diede con la
mano un colpo di netto. Poi afferrò Carlo, con un braccio le gambe e con
l’altro le braccia. Mise al centro della schiena di Carlo la sua testa.
Gli voleva spezzare la schiena. Carlo tirò un bel calcio e si liberò. Con un
volo acrobatico tornò in piedi. Poi prese la testa di Barden
fra le mani. Tenendola per i capelli. E gli sbatté la testa contro il
ginocchio. Barden colpì Carlo con un pugno. Volendo
però strafare, cercò di dargli un calcio. Carlo lo afferrò alla caviglia. E lo
colpì al volto, all’addome a alla pancia. Alax
decise di far il tutto per tutto. Capì che rischiava di perdere. La sua vendetta
sarebbe svanita di nuovo. Come un uomo che nelle tenebre indissolubili per un
attimo gode della luce di un cerino. Luce che ovviamente dura un istante per vtornare per sempre nelle tenebre. Barden
si lanciò. Si mise a urlare. La sua mente vuota. Irrefrenabile. I sentimenti
che agitavano il suo petto si mischiarono. Solo rabbia, odio. Non esiste più
niente. Una spada per terra, abbandonata. Il Generale l’afferrò. Carlo
afferrò una freccia. Puntandola dinnanzi a lui. Cercò in tutti i modi di fermare
Barden. Alax non vide e
capì niente. Continuò nel suo attacco. Colpì Carlo. Una ferita certamente
mortale. Però nell’impeto la freccia gli si infilzò nel petto. Ricordò
guardando gli occhi vacui del nemico stramazzato a terra antiche parole. Rivide
la sua vita. Eppure quella ferita non dovrebbe essere fatale. Ricordò i suoi
atti malvagi. E sentì una fitta al petto, al cuore. Ricordò con rabbia i giorni
di prigionia nell’anello. Rivide ciò che lo spinse a compiere le
malefatte. Ripensò a quello che gli aveva detto Carlo. Un ragazzo, un nemico
sembrato invincibile perché spinto da nobili valori. Capisce di aver portato
dolore e morte, crudele come, se non di più, degli europei che distrussero la
sua piccola isola. Rivide sua madre. Una grande dragonessa rossa che cercava di
insegnargli a fare del bene. La voce che gli rimbombava nella testa è sua. I
draghi parlanti devono proteggere la razza umana. Ne và della salvezza della
loro anima, del loro onore. Devono fare e insegnare ciò che è giusto. La
freccia era avvelenata. Con questi pensieri e l’amara consapevolezza Alax cadde a terra. Chiuse gli occhi per sempre mentre uno
strano gelo lo avvolse. Carlo sapeva che c’era una sostanza sulla punta
della freccia. Un potente narcotico. Non sapeva che per chi aveva sangue di
drago nelle vene era letale.
Lado portò l’esercito alla
vittoria, ma rimase gravemente ferito. Furono colpiti anche Ricard,
Donatel, Aido e Robert. Che
era stato soccorso dal padre.
La gemma fece la sua ultima
magia. Seppe che cuori così nobili non ci sarebbero stati nella Luna di Iego per molti secoli a venire. Quel mondo aveva bisogno di
un re e di uomini coraggiosi che lo rimettessero in piedi. Proprio mentre Carlo
era in procinto di esalare l’ultimo respiro, la magia si verificò. Si propagò
una luce dorata, calda. La valle si riempi di un aria bianca che sembrava una
nuvola scesa troppo in basso. I ragazzi furono guariti. Le loro ferite
risanate, i loro corpi al massimo della forma. Stesso avvenne per i draghi. Asche si salvò, ma l’incanto non poteva funzionare
del tutto con un elfo adulto. Passò il resto della sua vita zoppicante Il
cadavere di Barden prese l’aspetto di Alax. Pian piano divenne di pietra. Prese una posizione
maestosa. Un grande drago, ad ali spiegate. Il volto malvagio, ma gli occhi di
una tristezza unica. Il fato si era compiuto. Le malvage
fabbriche e i luoghi creati contro la libertà e la vita saltarono in aria. La
valle tornò come prima, quasi non si fosse svolta la lotta. Il sangue versato
però non si cancello. Un grande giardino bagnato di rossa eroica pioggia.
Spiccava, a quello che ne sembrava il centro, una fredda statua di un drago. Il
nuovo anno nasceva in un giorno di morte. Si sarebbe svolto però, come anni e
anni successivi, in pace. Comunque era finita. L’aria si era fatta
respirabile. L’atmosfera si rilassò. Fece capolino il sole. Le nuvole
nere scapparono. Il cielo si riempì di rondini festanti. Che volarono in tondo
e lanciarono i loro versi, ricordarono gridolini di gioia improvvisa. Caddero
le ultime gocce dal cielo. Si deposita sul verde come rugiada. Nel azzurro
chiaro l’inconfondibile arcobaleno. Tutti poterono nei giorni a venire
sposarsi con chi amavano. Negli anni immediatamente successivi ricominciarono
da capo. Il castello di Barden fu demolito. Sorse al
suo posto un bel castello per il regnante. Fu ricostruita la città delle fate e
il palazzo di cristallo. Liberati gli schiavi. La magia funzionò di nuovo e
questo fu un grande aiuto. Gli orchi grazie all’inganno divennero buoni,
ma mantennero il loro aspetto. La città dei nani era in condizioni troppo
terribili per essere ricostruita. Fu rimesso in piedi il paesino nella Terra
dei Ghiacci con il suo sindaco. I due maestri divennero i gran generali. La
regina del lago lasciò il trono ad Energy. Miriam sposò Carlo e divenne regina
del popolo delle fate. Perché riaperto il passaggio con gli altri mondi erano
arrivate nuove fate. Michelangelo e Leopold divennero i consiglieri. Lotshar divenne cavaliere della corona. Lado
il principe della Luna di Iego. Donatel
fece lo scienziato a corte e si occupò di riportare le cultura nel pianeta. La
nonna di David con il folletto andarono a vivere in una casetta isolata nel
bosco della Terra dei Ghiacci. Il veggente tornò mago a corte stanco della
solitudine. Vennero con lui il mago e il Druido. Tempo e suo fratello rimasero
dove si trovavano. Il GjargGjarg
divenne un coccolato animaletto. Passava le sue giornate su un cuscino a
mangiare quasi tutto. I draghi e la nuvoletta vissero i loro anni nelle
scuderie imperiali fatte apposta per loro. Tempesta e Oscuro ebbero tanti
cuccioli. La donna di pietra exprotettrice della
chiave divenne una ragazza in carne e ossa. Divenne grande amica di Robert
condividendo la sua passione. Finché i due si innamorarono. Il gigante Begnam visse con il suo drago in qualche caverna lontana. I
due vecchi giganteschi exprottettori della
chiave tornarono nella caverna. La bacchetta gigante si spense. Stella si
occupò degli orchi che ancora non capivano il loro posto e della povera gente.
Con lei la sua fatina Thunder. Black visse accanto ad
Asches. Il padre di Robert fu riabilitato e divenne
insegnante di magia alla grande università che fu istituita. Visse con
pallina. Ci vollero parecchi anni, ma tornò con la moglie Gefiun,
che infatti si trasferì alla Luna di Iego. Carlo
cercò di non fare diventare le scuole un incubo come quelle terrestri. Fu
portata l’energia elettrica, quella solare, quella a metano e quella
eolica. Non cose che potessero danneggiare l’ambiente. Si cercò di
riportare alla natura la Luna di Iego. Robrt e sua moglie misero su un negozio di giocattoli
creati con la magia, Ci si serviva addirittura Babbo Natale. Carlo divenne
ovviamente un grande re. Portò la Luna di Iego verso
anni di felicità e prosperità. Fu ricordato come il magnifico.