Ragnarok

di Asuna_Yuuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rena ***
Capitolo 2: *** Uno sguardo ad Alfheim ***
Capitolo 3: *** L'ingresso nella cittadella ***
Capitolo 4: *** Lord Dain ***
Capitolo 5: *** Adrian il folle ***
Capitolo 6: *** L'ora del pasto ***
Capitolo 7: *** Asgard ***
Capitolo 8: *** La guerriera e il cacciatore ***
Capitolo 9: *** Il responso ***
Capitolo 10: *** Lo specchio ***



Capitolo 1
*** Rena ***


1.

-Andiamo Gymir, uccidiamo anche i bambini adesso?-.

Il gigante seduto sul trono di fronte a me trattenne l’impulso di alzarsi con evidente sforzo e strinse ulteriormente le tozze dita sui braccioli del suo sontuoso seggio, decorato con pietre di ossidiana e diamanti, prelevati con fatica dai nani dalle miniere.

-Non era una semplice bambina, Rena. Era una di loro, e presto diventerà un’ulteriore minaccia per Svartalfaheim, una volta che avrà imparato ad impugnare un’arma.- replicò Gymir, con la sua tipica voce profonda e lugubre.

Il fatto che accusasse una bambina di essere una potenziale minaccia era paradossale, dato che a complottare affinché avvenisse il Ragnarok fosse proprio il mio popolo e non quello dei Liosalfar.

-Non sono loro a volere la battaglia, ti ricordo.- dissi io, sapendo che presto la pazienza del gigante avrebbe raggiunto il limite e ciò avrebbe portato considerevoli guai alla sottoscritta. Poco male. A quel punto il viso di Gymir divenne rosso per l’ira e si alzò dal trono, agitando il grassoccio pugno verso di me:

-Ora basta, Rena. Sei diventata oltremodo sfrontata. Certo, lo sei sempre stata, sin da bambina, ma non posso tollerare ulteriormente questo tuo atteggiamento. Posso chiudere un occhio di fronte a una bravata, a due, ma questo! Ti rendi conto che hai salvato la vita ad uno dei Liosalfar?-.

Ripercorsi a quel punto ciò che era avvenuto la mattina stessa: mentre ero di guardia all’accesso dell’Yggdrasil, trovai una bambina che avrà avuto più o meno quattro anni intenta ad inseguire una farfalla, ridendo ingenuamente e sembrava inconsapevole del pericolo in cui si fosse cacciata. Era evidente che non fosse una di noi, i suoi capelli biondi e i suoi occhi color ghiaccio segnalavano la sua appartenenza alla stirpe degli Liosalfar, gli elfi della luce, nostri acerrimi nemici. Ero conscia del fatto che aiutandola avrei istigato la furia di Gymir, il gigante che regna nella regione di Svartalfaheim in cui risiedo, ma non avevo alcuna intenzione di lasciare che quella bambina venisse trovata da un altro dei Dokkalfar e da lui brutalmente trucidata, così la scortai dall’altra parte di Yggdrasil. Non fu difficile conquistarmi la sua fiducia, dopotutto i bambini non hanno la cognizione di cosa sia pericoloso e cosa non lo sia, perciò mi seguì senza problemi fino ad Alfheim, il regno degli elfi della luce. E’ un luogo completamente diverso da Svartalfaheim, in cui il buio e il freddo sono sovrani, ma è avvolto dal caldo tepore e dal bagliore del sole. Dopo aver lasciato lì la bambina, questa mi sorrise in maniera riconoscente e mi rivolse per la prima volta la parola:

-Grazie.-

Rimasi leggermente stupita dal fatto che dimostrasse già a quella tenera età un nobile sentimento come la gratitudine, di cui in molti sono sprovvisti, persino gli adulti. Risposi al suo sorriso e nel sentirla biascicare parole incomprensibili rimasi in attesa, finchè non notai tra le sue mani minute e paffutelle un barlume rosato, che diradandosi rivelò un piccolo fiore del medesimo colore.
-Per te.- disse timidamente la bambina, porgendomi il fiorellino.
Le sorrisi ancora una volta, non sapendo che altro dire. Mi chiese se avessi intenzione di rimanere là per aiutarla a cercare la sua mamma, però se lo avessi fatto, non avrei più fatto ritorno: sarei stata immediatamente imprigionata e forse giustiziata, nel caso fossi stata accusata di rapimento. Che avrei fatto? Avrei raccontato di aver visto la bambina rincorrere una farfalla a Svartalfaheim? Le spiegai che dovevo tornare urgentemente a casa, così lei senza replicare si addentrò nella foresta.
“Dai Rena, cosa stai facendo? Le salvi la vita riportandola qui, ma la lasci entrare in una foresta DA SOLA?” pensai tra me e me, ed in effetti non avevo tutti i torti. Feci l’unica cosa che mi venne in mente, anche se probabilmente poteva essere visto come un gesto ostile da parte della mia gente: tesi la mano libera dalla spada che portavo e lanciai un incantesimo verso il cielo, rendendone una piccola frazione di colore rosso sangue. Era un tipico segnale che segnalava dopo una battaglia il dominio dei Dokkalfar in quella determinata zona. Sicuramente alcuni dei Liosalfar sarebbero a breve accorsi per cercare di capire l’accaduto e avrebbero quindi trovato la bambina. Soddisfatta e spaventata al tempo stesso dal mio operato, rientrai nell’Yggdrasil, l’enorme albero sacro che tiene connessi tutti e nove i mondi. Quando feci ritorno a Svartalfaheim venni nuovamente avvolta dal freddo pungente e dalle tenebre tipiche di questo luogo, tanto graditi agli altri Dokkalfar ma non a me. Ciò che avevo fatto arrivò non si sa come alle orecchie di Gymir che, infuriato, mi convocò la sera stessa nella sua modesta reggia. Non era la prima volta che mi capitava di essere convocata a corte, sono da sempre stata giudicata una “testa calda da tenere d’occhio”, ma stavolta la motivazione era ben più grave di una scorribanda qualsiasi con i miei amici: potevo essere accusata di alto tradimento ed essere condannata a morte o all’esilio.
Ed ero lì, consapevole delle mie “colpe” e in attesa di un verdetto da parte di Gymir e dei suoi consiglieri. Rimasi per ore in piedi, ad ascoltare le accuse rivoltomi, che alle mie orecchie parevano ingigantite e ripetitive, ma a cui prestai comunque attenzione. La schiena cominciava a dolermi a causa dell’onere causato dall’equipaggiamento e dalla posizione in cui l’avevo costretta: leggermente inclinata all’indietro.

-Teoricamente non dovrebbe essere presente anche Lord Einar?- domandai, osservando i tre che si scambiavano parole all’orecchio in massima segretezza, mentre mi lanciavano sguardi torvi.

-Stai quindi dando per scontato che verrai esiliata o giustiziata?- chiese Gymir, sogghignando beffardo dopo essersi allontanato dall’orecchio di uno dei suoi viscidi consiglieri.

Alzai le spalle con noncuranza, rivolgendo altrove lo sguardo e, senza far trasparire alcun sentimento, aggiunsi: -Semplicemente non credo che tu sia abbastanza imparziale, vorrei che il mio destino venisse deciso in presenza di una persona giusta e obiettiva come Lord Einar.-

Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: Gymir detestava il fatto di detenere un potere decisamente ridotto e che esso gli fosse stato concesso direttamente da Lord Einar, sovrano di Svartalfaheim, elfo dell’oscurità famoso per il suo sangue freddo e la sua crudeltà nei confronti dei nemici. Il gigante si alzò nuovamente e mi gridò contro la sentenza, sotto lo sguardo ammirato e ricco di approvazione dei suoi consiglieri. Ciò a cui mi condannò fu indubbiamente una pena piuttosto pesante, ma mi rese inspiegabilmente quasi felice: ero stata esiliata da Svartalfaheim.

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Capitolo 2
*** Uno sguardo ad Alfheim ***


2.
Quando udì la sentenza mi sentì quasi sollevata dal fatto che non fossi più obbligata a vivere in mezzo a quella gente macabra, assetata di sangue e spietata, dal cuore corrotto dall’aria rarefatta e dall’atmosfera tetra in cui si trovavano. Tuttavia, quando venni scortata da una piccola guarnigione di dieci uomini, dotata solo di una spada e di alcune vesti (non mi fu infatti concessa la mia armatura), capì che non avevo molte speranze di sopravvivere in altri luoghi. Mi voltai per osservare un’ultima volta il macabro castello in cui risiedeva Lord Einar, strategicamente posto su un’elevatissima montagna al centro del regno. Mi chiesi se mi stesse guardando e cosa stesse pensando. 

-Avanti, entra nell’albero, prima che ti costringa a farlo.- disse uno dei soldati con tono rude, sollevando la spada all’altezza del mio viso. 

Prima che potesse avvicinarla eccessivamente a me, sollevai d’istinto la mia e la feci strusciare contro la sua, provocando un fastidioso rumore metallico. Istantaneamente tutti gli altri dieci uomini mi minacciarono con le loro armi, chi con arco e frecce e chi con mazze chiodate. 

-Stiamo calmi, cercavo solamente di ricordare al vostro amico che sono stata condannata all’esilio e non a morte.- dissi, riponendo la spada nel fodero.

-Non farei tanto la spiritosa, signorina. Nessuno avrebbe pena per la morte di una pseudo eroina reietta, a Svartalfaheim.- replicò un altro, causando le risa dei suoi compagni. 

Le loro risate istigarono un sentimento di pura collera nei loro confronti, impulso che purtroppo non sono mai riuscita a controllare: con uno scatto rapido allungai un braccio e provocai con la lama della mia spada un profondo taglio alla gola del guerriero che aveva parlato prima. Istantaneamente dalla ferita, zampillò un rivolo di sangue denso e torbido, che gocciolò a terra, rendendo il suolo ancora più scuro.
“Mio dio, non riesci proprio a tenerti fuori dai guai, eh?” pensai, mentre osservavo il resto degli uomini accorrere per cercare di chiudere la mortale ferita sul collo dell’uomo che avevo colpito. Approfittai di quell’attimo, l’unico che avrei avuto, per fuggire all’interno dell’Yggdrasil. Sapevo che non mi avrebbero seguita, non avevano l’ordine di uccidermi: mi avrebbero lasciata scappare, ma avrebbero sicuramente riferito a Gymir ciò che avevo fatto. Perlomeno avevo lasciato Svartalfaheim in un modo che non avrebbero sicuramente dimenticato. Quando fui nei pressi dell’ingresso di Alfheim, mi sedetti con le ginocchia al petto contro la parete lignea dell’interno concavo dell’Yggdrasil, riprendendo fiato per la corsa e per cercare di escogitare un piano per evitare di farmi massacrare da qualche Liosalfar di guardia. La miglior cosa da fare, pensai, sarebbe stata quella di improvvisare a seconda della situazione. Dopo aver preso ogni briciola di coraggio di cui disponevo, mi alzai da terra con l’aiuto della mano destra e mi diressi verso l’ingresso di Alfheim, sentendo la morte sempre più vicina ad ogni passo. Un conto era quello di entrare per qualche minuto, un altro quello di rimanere là in eterno, nascosta clandestinamente in qualche foresta, da sola in territorio nemico. La prospettiva dell’esilio, che mi sembrava molto più allettante appena dieci minuti prima, si trasformò in un incubo inaspettato, dal quale non sarei stata però in grado di svegliarmi. Fortunatamente non trovai nessun elfo di guardia, evidentemente non erano soliti come noi a sorvegliare i confini. 

-E ora? Da dove inizio?- chiesi a me stessa, sentendomi un po’ una sciocca a parlare da sola. Mi ci sarei dovuta abituare, in ogni caso. L’unica speranza, sarebbe stata quella di trovare altri esiliati, ma dubitavo che fossero sopravvissuti alle preparatissime e sorprendentemente sveglie guardie Liosalfar. Mi addentrai nella foresta nella quale avevo lasciato la bambina una manciata di ore prima, rendendomi conto di quanto fosse diversa rispetto a un tipico bosco di Svartalfaheim: gli alberi rinsecchiti e apparentemente morti erano sostituiti da arbusti frondosi e ricolmi di frutta, al posto del terreno nero e brullo c’era un morbido terriccio dal quale spuntavano fiori delicati, colorati o meno e gli animali non erano corvi minacciosi o gufi inquietanti, bensì graziosi uccellini e adorabili scoiattoli.  Alla vista di uno spettacolo così gradevole, la paura andò mano a mano a scemare, rimpiazzata da un’inspiegabile gioia. Probabilmente il buio in cui ero cresciuta mi aveva abituata a vedere sempre il mondo da una triste e cupa prospettiva. Ero rapita a tal punto da non sentire i passi di alcuni elfi alla mia destra, che mi studiarono attentamente per qualche secondo, indecisi se abbattermi o meno. Mi accorsi della loro presenza solo quando captai le loro voci grazie al mio finissimo udito, il senso più sviluppato di cui disponiamo per bilanciare la vista un po’ debole (causata dalle tenebre che gravano su Svartalfaheim).

-La portiamo a palazzo?- chiese uno.

-Io dico che potrebbe scapparci, meglio se l’abbattiamo subito e portiamo il corpo a Dain.- rispose l’altro.

-E se ci rimproverasse per non averla portata viva?- 

-Vuoi davvero lasciare i tuoi figli orfani di padre? I Dokkalfar sono viscidi e non ci metterebbe nemmeno un secondo a disfarsi di tutti e due per fuggire.- 

L’altro esitò un po’ prima di rispondere e poi sospirò: -Hai ragione, ma colpiscila prima tu. Non c’è onore nell’uccidere una donna sola, per di più alle spalle.- 

Capì che dovevo fare qualcosa prima di venir trafitta da una freccia, così alzai le mani e gridai: 
-Non ho cattive intenzioni, vorrei parlare con Lord Dain.-

Percepii una certa esitazione da parte dei Liosalfar, così aggiunsi dopo qualche secondo, nella speranza di persuaderli: -Sono stata esiliata.-

I secondi successivi furono interminabili, durante i quali trattenni il respiro con ansia e paura per la mia vita. Rimasi con le mani alzate, mostrando in questo modo di non tenere nessuna arma, se non la spada legata alla cinta. Tirai un sospiro di sollievo quando i due elfi si fecero avanti, uscendo dal loro nascondiglio: erano appollaiati su un ramo, perfettamente mimetizzati grazie alla loro armatura leggera dello stesso colore delle foglie. Uno dei due mi tenne puntato contro l’arco con una freccia incoccata, mentre l’altro si avvicinò cautamente per sfilarmi l’arma dal fodero. Lo lasciai fare, senza interrompere un attimo il contatto visivo con quello che mi minacciava a distanza, dimostrandogli di non avere intenzione di reagire o scappare. Approfittai dei pochi secondi che il compagno impiegò per perlustrare rapidamente con lo sguardo il mio povero equipaggiamento per osservare le fattezze di colui che avrebbe potuto senza problemi uccidermi seduta stante. I capelli erano di un biondo miele dai riflessi dorati, che si rivelavano ogni volta che il sole batteva sopra di essi, gli occhi grandi e blu e le labbra carnose e rosate. Niente al che vedere con i visi un po’ grotteschi e minacciosi dei maschi della mia gente. 

-Come vi chiamate?- chiese l’elfo, quando il suo compagno si riavvicinò a lui con la mia spada in mano. Dalla voce intuì che si trattava di quello che aveva suggerito la mia immediata uccisione. 

-Rena.- risposi, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e continuando ad indagare con lo sguardo la sua figura. 

-Dopo di voi, Rena.- disse il ragazzo, facendo un cenno verso il sentiero che stavo percorrendo prima di venire intercettata da loro –Vi scortiamo da Lord Dain.-

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Capitolo 3
*** L'ingresso nella cittadella ***


3.
 
Gran parte del percorso lo passammo senza parlare, l’unica cosa che si sentiva era il continuo e alla lunga fastidioso cinguettio degli uccelli, a me completamente estraneo. Fui io stessa a rompere il silenzio con un’affermazione forse fuori luogo:
 
-E’ proprio enorme questo bosco.-
 
I Liosalfar rimasero in silenzio, ma uno dei due commentò pochi secondi dopo, ridendo divertito:
 
-Si, effettivamente è una bella fatica venire qui tutti i giorni.-
 
Sentì un rumore appena udibile, probabilmente una spallata rifilata dall’altro elfo al compagno, per rimproverarlo di avermi rivolto la parola. Sicuramente si trattava dello stesso che voleva trucidarmi senza pietà.
“Una persona particolarmente aperta” mi dissi.
 
-Posso sapere come vi chiamate, o non mi è lecito saperlo?- domandai, girando di poco la testa verso di loro senza smettere di camminare.
 
-Io sono Alvis, e lui è - -
 
La voce dell’elfo venne interrotta da un altro colpo, indubbiamente l’ennesima gomitata rifilata dall’altro per farlo stare zitto. La botta venne accompagnata stavolta da un colpo di tosse, probabilmente perché assestata direttamente all’altezza dei polmoni per assicurarsi che non terminasse la frase.
 
-Io mi chiamo “cammina in silenzio, Dokkalfar”.- fece l’elfo particolarmente socievole.
 
-Piacere di conoscerti, “cammina in silenzio Dokkalfar”.- risposi io, trattenendo una risata divertita.
 
Decisi che forse sarebbe stato meglio ultimare il resto del tragitto in silenzio, visto che uno dei miei due carcerieri non sembrava particolarmente propenso a comunicare. Quando arrivammo all’entrata della città e venni vista da alcuni cittadini che accedevano attraverso il portone principale, si scatenò il finimondo: le guardie sulle mura cominciarono a comunicare attraverso grida e gesti nella mia direzione e i civili che si accorsero di me urlarono terrorizzati e corsero lontani, chi rovesciando cesti, chi trascinando bambini curiosi e chi inciampando per la fretta. I due soldati che mi scortarono mi fecero fermare dinanzi alla porta, senza spiccicare parola.
 
-Perché ci siamo fermati?- chiesi.
 
La risposta giunse pochi istanti dopo: un gruppo di soldati, almeno una ventina, ci raggiunse e mi circondò. Mi guardai attorno spaventata, desiderando quasi di scorgere i visi ormai pressoché familiari dei due che mi avevano catturata, ma scorsi solo teste coperte da elmi argentati, che lasciavano intravedere solo gli occhi chiari. I miei polsi vennero costretti in un paio di manette e il mio collo circondato da un anello metallico al quale era attaccata una catena, come se fossi una bestia feroce da domare.
 
-Ma perché mi incatenate, sono disarmata!- esclamai, provando un senso di soffocamento a causa del metallo contro il mio collo.
 
-Grazie ragazzi, avete fatto un ottimo lavoro.- fece uno dei venti soldati provenienti dalla città, rivolto ai due elfi che mi avevano scortata –Ora ci pensiamo noi.-
 
Mi voltai verso di loro, sperando di ricevere quasi uno sguardo di conforto, che mi venne rivolto solo dal più socievole dei due, mentre l’altro si limitò ad alzare un angolo delle labbra, salutandomi con un freddo cenno del capo. Venni tirata attraverso le vie della cittadella dalla catena legata all’anello stretto attorno al mio collo da uno dei soldati e ovunque andassi, portavo paura nei volti dei cittadini che trovavo sulla mia strada. Quello che non sapevano, era che ero addirittura più spaventata io di loro. Sola, legata e diretta dal sovrano dei miei nemici per chiedergli udienza. Sarebbe poi stato a lui decidere se permettermi di vivere sorvegliata, nelle segrete, oppure di giustiziarmi. Procedetti senza spiccicare parola, respirando profondamente per evitare la sensazione di soffocamento e di dolore ai polsi, stretti dalla morsa metallica delle manette. I soldati marciavano accanto a me nel silenzio più completo, talvolta rassicurando con un cenno un cittadino terrorizzato che si sbracciava per capire cosa stesse accadendo e chi fosse quella straniera. I piedi iniziavano a dolermi, la testa a farmi male a causa del sole cocente a cui non ero abituata e il fiato a mancarmi, un po’ per il collare che portavo e un po’ per la fatica a cui ero stata sottoposta. La parte di percorso più tremenda fu sicuramente l’infinita scalinata che conduceva al palazzo di Lord Dain, durante la quale rischiai di svenire almeno un paio di volte per l’emozione e lo sforzo. Quando fui finalmente davanti alla reggia, mi tolsero manette e anello metallico, così fui in grado di massaggiare i polsi doloranti e di respirare liberamente, un attimo prima di fare il mio ingresso a palazzo. 

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Capitolo 4
*** Lord Dain ***


4.
 
Il caldo quasi afoso venne rimpiazzato da una piacevole frescura, provocata dal marmo di cui erano fatte le pareti e il pavimento della reggia, luminosa e sontuosa. La sala in cui ero entrata era senza dubbio la stanza del trono, dove il sovrano riceveva ospiti graditi e ospiti inattesi. Accanto al trono argenteo di Lord Dain, ce ne erano altri due dello stesso materiali, meno decorati e meno sfarzosi, destinati alla consorte e al figlio. La mia vista limitata non mi permise di distinguere i lineamenti dei tre reali, finchè non mi avvicinai di più ai troni. Una volta lì davanti, mi gettai sulle ginocchia volontariamente, senza che uno dei soldati mi obbligasse a farlo con un colpo alle gambe o alla schiena, come spesso accadeva quando venivo convocata da Gymir.
 
-Alzatevi.- ordinò il re, con un tono di voce particolarmente gradevole e che trapelava somma benignità.
 
Rimasi qualche secondo piegata sulle ginocchia e mi rialzai di nuovo, mantenendo la testa bassa finchè non mi fu ordinato di fare il contrario: volevano osservare il mio viso. Dopo un’esplicita richiesta della regina, donna di un’incredibile bellezza e grazia nelle movenze, una guardia mi scortò direttamente davanti ai tre reali. L’elfa che mi accompagnò aveva delle fattezze molto simili a quelle dei Liosalfar che mi avevano catturata nel bosco, diverse da quelle della famiglia reale. Labbra carnose, grandi occhi azzurri e capelli biondi, che ricadevano sulle spalle coperte dall’armatura argentata con intarsi verdastri. Fu una delle poche guardie di sesso femminile che vidi dal mio ingresso nella cittadella, quindi immaginavo che fosse particolarmente abile, dato che il posto assegnatole era decisamente rilevante. Giunta davanti la regina, mi feci un lieve cenno col capo, in segno di ossequio.
 
-Se non fosse per il colore dei capelli, potrebbe essere scambiata per una di noi.- sussurrò la regina all’orecchio del figlio, seduto alla sua sinistra –E’ piuttosto graziosa, non è vero, Aleksander?-
 
Il ragazzo mi osservò per un eterno attimo e poi annuì distrattamente, distogliendo lo sguardo subito dopo. Quando sarebbe finita quell’imbarazzante situazione? Lord Dain si alzò in piedi lentamente e si avvicinò a me, assicurandosi che due guardie accanto al trono tenessero la mira dell’arco puntata verso la sottoscritta. Deglutii per la tensione, ma cercai di restare calma il più possibile.
 
-Percepisco la tua tensione.- disse il sovrano, mantenendo la fronte distesa, lo sguardo sereno e il passo delicato. Niente al che vedere con i goffi passi e movenze dei vari signorotti del mio popolo di appartenenza. La lunga veste azzurra risplendeva di una particolare luce, come se fosse propria del tessuto o della pelle dell’elfo che la indossava.
 
-Non temere, se non hai nulla da nascondere.- continuò l’uomo, sollevando appena una mano dalla pelle chiarissima. –Posso vedere nei tuoi pensieri, quindi se mentirai, lo saprò.-
 
Mi sforzai al massimo per non elaborare alcun pensiero, ma più mi sforzavo, più i pensieri si accumulavano e si attorcigliavano nella mia mente. Quando Lord Dain mi fu abbastanza vicino, posò una mano sulla mia guancia e io sussultai per il contatto con la sua pelle fredda. Cercai di mantenere il più possibile la calma, chiedendomi il motivo di quel gesto piuttosto insolito. Naturalmente, il sovrano rispose alla mia domanda con un sorriso divertito, come di solito si fa con i bambini quando chiedono un qualcosa di così tanto ovvio da risultare buffi:
 
-Sto cercando di capire cosa ti sia successo, ma hai la mente completamente annebbiata dalla tensione. Cerca di rilassarti e di pensare al motivo per il quale sei stata esiliata, non rendermi il lavoro più difficile.-
 
Annuii appena, chiudendo gli occhi e respirando profondamente per recuperare la calma. Ripercorsi con la mente il mio incontro con la bambina bionda, il mio ingresso nella regione nemica per riportarla a casa e il mio “processo” al cospetto di Gymir. Il re accompagnò il fluire dei miei pensieri con delle espressioni che variavano a seconda del contenuto dei miei ricordi. Una volta terminata la mia rievocazione, si allontanò da me di qualche passo e mi osservò un po’ turbato, evidentemente qualcosa l’aveva allarmato. Cosa di preciso, non lo so.
 
-Vicenda interessante, la tua.- commentò, dopo qualche secondo di silenzio –Anche se non dubito della tua onestà, non me la sento di lasciarti libera.-
 
Quelle parole mi colpirono come un macigno e mi fecero vacillare, a tal punto che la donna che mi aveva scortata prima fu costretta ad uno scatto felino per evitare che io crollassi a terra. L’idea di rimanere rinchiusa in una cella mi atterriva: avrei bruciato parte della mia esistenza chiusa in una stanza, cercando ogni giorno di rimanere lucida e di non impazzire per l’opprimente solitudine. Non avevo mai amato pregare, non era decisamente da me, ma in quel momento la mia sicurezza era andata in frantumi e in un attimo mi ritrovai in ginocchio davanti al trono, implorando la famiglia reale di non imprigionarmi.
 
-Non temere, presto troveremo un’altra soluzione. Lascia che io consulti il consiglio e poi decideremo una nuova sistemazione.- dichiarò il re, con un tono così pacato da risultare irreale, ma allo stesso tempo perentorio.
 
Era incredibile quanto Lord Dain fosse magnanimo nei confronti dei suoi nemici: Lord Einar non risparmiava nessun Liosalfar che si presentava al suo cospetto. Molti di loro vennero giustiziati lo stesso giorno, altri perirono di stenti nelle segrete o addirittura loro stessi si diedero la morte a causa delle terribili condizioni in cui erano costretti a vivere. A quel punto non replicai, mi limitai ad un ulteriore cenno del capo e l’elfa dai capelli biondi mi posò una mano sulla schiena, spingendomi con una leggera forza verso destra, verso un varco presente nella parete. Questo era sovrastato da un arco a tutto sesto in marmo e nel concio di chiave era incastonato un enorme smeraldo, che sembrava quasi irradiare delle linee di luce verdastra, le quali formavano una sorta di grata. Ad occhio mi sembrava inconsistente ed impalpabile, ma quando avvicinai con curiosità una mano per tastarla, scoprii che in realtà era tanto solida quanto una reale, fatta del più resistente metallo.
 
-Che cos’è?- chiesi a bassa voce, senza pretendere alcuna risposta.
 
-Una particolare magia.- rispose l’elfa alla mia destra, avvicinando appena allo smeraldo il proprio polso, attorno al quale portava un bracciale d’argento, con la stessa pietra incastonata al centro. A quel punto la grata si dissolse e fummo libere di passare attraverso il varco. Da lì, iniziò una serie quasi infinita di scale.

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Capitolo 5
*** Adrian il folle ***


5.
 
-Si, sono molte scale.- disse l’elfa alle mie spalle, e mi chiesi se fosse anche lei in grado di leggere nella mente altrui.
 
-Per un momento l’ho pensato, si.- mormorai io, allungando una mano per sfiorare con le dita le pareti in pietra arenaria, intrise di freddo come la sala del trono e questo lungo corridoio. Ad illuminare la via, vi erano degli smeraldi che emanavano una luce soffusa, dello stesso verde della pietra.
 
“Almeno qui le pietre preziose sono usate anche per scopi utili, non solo per decorare oggetti e dimore dei potenti” pensai, e attesi una reazione della guardia. Dato che rimase in silenzio, capii che non era dotata dello stesso potere del sovrano. Probabilmente era una capacità riservata solo ai nobili e si trasmetteva da padre in figlio.
 
-Se non sono troppo indiscreta, posso chiederti - - iniziai a domandare, ma mi interruppi quando arrivammo alla fine della scalinata e ci ritrovammo in un altro corridoio, perpendicolare alle scale e illuminato con lo stesso sistema. Vi si affacciavano una serie di porte, ognuna sorvegliata da un elfo diverso, che reggeva una lancia con la mano destra. Venni condotta dall’elfa fino a una porta, situata quasi all’estremità del corridoio, e ogni volta che passavamo davanti a una guardia carceraria, questa portava una mano alla fronte in segno di rispetto.
 
-Perché proprio in questa?- chiesi quando arrivammo davanti alla porta.
 
-Tu fai troppe domande.- commentò l’elfa, facendo un cenno al carceriere accanto alla porta della mia presunta cella.
 
Quando la porta si aprì, vidi che all’interno c’era un uomo seduto a terra in un angolo con le braccia incrociate all’altezza del petto. L’espressione del suo viso non era delle più amichevoli o delle più felici.
-Come te la passi, Adrian?- domandò la donna, entrando insieme a me nella cella e richiudendo la porta alle sue spalle.
 
Quello per tutta risposta emise una sorta di grugnito di disapprovazione, girando la testa verso la parete, rivelando le orecchie a punta che denotavano la sua appartenenza alla razza elfica. I capelli corvini e la carnagione pallida mi fecero intuire che appartenesse al mio popolo. Il nome Adrian non mi era del tutto nuovo, perciò pensai di averlo conosciuto da qualche parte, magari durante un turno di guardia.
 
-Sempre molto amichevole.- borbottò l’elfa, facendo poco dopo un cenno verso di me e aggiungendo: -Lei è Rena, sono certa che diventerete ottimi compagni di prigionia.-
 
Girai di scatto lo sguardo verso di lei, un po’ preoccupata dalla sua affermazione: che la promessa di Lord Dain fosse solo una menzogna perché mi lasciassi condurre in prigione senza ribellarmi? Lei mi rivolse un’occhiata fredda ma allo stesso tempo rassicurante: evidentemente la mia posizione era ben diversa da quella del misterioso Dokkalfar incarcerato. Mi voltai di nuovo a guardare l’uomo: aveva un aspetto malconcio, triste e abbandonato. Non emanava nemmeno un odore gradevolissimo a dirla tutta, ma mi sarei dovuta adattare. In fondo dopo una manciata di giorni avrei avuto più o meno lo stesso sgradevole aroma. Poco prima di lasciare la cella, l’elfa mi rivolse un ulteriore sguardo, distaccato ma allo stesso tempo eloquente. Quando la porta ferrea sbatté, mi avvicinai lentamente al mio compagno e mi sedetti accanto a lui, avvicinando le ginocchia al petto e cingendole con entrambe le braccia. Rivolsi il volto verso di lui dopo aver poggiato il capo sulle ginocchia e mugolai, un po’ per l’insicurezza e un po’ per la posizione non eccessivamente comoda:
 
-Come mai sei finito qui?-
 
L’uomo accanto a me si alzò da terra lentamente, aiutandosi con una spinta delle visibilmente possenti braccia e si passò una mano tra i capelli neri, tenendo lo sguardo basso. Io rimasi seduta a terra, con il capo leggermente inclinato per osservare i suoi movimenti, picchiettando nel frattempo le dita sulle ginocchia. Si sentivano indistintamente i rumori provenienti dalla cittadella: donne che richiamavano i figli, nitriti di cavalli e grida di mercanti che si sovrapponevano per prevalere l’una sull’altra. L’elfo si avvicinò alla stretta finestra della cella e osservò al di fuori di essa, sospirando in maniera silenziosa. Nel momento in cui la luce colpì il suo viso, fui in grado di osservare più facilmente il profilo del giovane. I suoi lineamenti erano particolari, gradevoli e un po’ forti, e ciò che mi colpì specialmente era una fossetta appena accennata sul mento.
 
-Sono fuggito.- disse dopo un po’, voltandosi di scatto verso di me, come se avesse udito la mia domanda solo in quel momento –Mai sentito parlare di Adrian “il folle”?-
 
Eccome se ne avevo sentito parlare. All’incirca un anno prima del mio esilio, sulla bocca di tutti era presente il nome di Adrian, detto “il folle”. Era famoso per i suoi incontrollabili attacchi d’ira, che sfociavano irrimediabilmente nella violenza. A causa di essi, Adrian cercava di mantenersi a distanza dai compagni più petulanti e di evitare qualunque cosa potesse rivelare il suo istinto quasi animale. Nonostante i vari tentativi per evitare di nuocere ai suoi stessi concittadini, una volta qualcosa andò storto. Nessuno sa come sia andata esattamente la vicenda, ma la fine di essa fu decisamente tragica: tutti e dieci gli uomini che erano in servizio con lui vennero ritrovati morti o mortalmente feriti, mentre di Adrian non v’era alcuna traccia. Uno dei soldati in fin di vita riuscì solo a pronunciare il nome del carnefice. Da quel momento in poi, nessuno seppe più nulla di lui e il motivo in quel momento mi apparve più che evidente.
 
-E’ da un anno che sei qui?- chiesi, un po’ intimorita a causa della scoperta dell’identità del mio compagno di cella.
 
-E chi lo sa? Ho perso la cognizione del tempo.- sbuffò lui, osservandomi subito dopo –L’unica cosa buona, è che ho imparato a controllarmi. Un po’.-
 
Accennai un sorriso e feci per proferire parola, ma decisi di restare in silenzio, per evitare di risultargli fastidiosa: di certo non avevo voglia di ritrovarmi col cranio frantumato contro il muro per la mia curiosità talvolta inopportuna. Nonostante fosse una personalità interessante, speravo che la mia prigionia durasse il meno possibile, specialmente per l’angoscia che mi provocava la presenza di Adrian. 

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Capitolo 6
*** L'ora del pasto ***


6.
 
Dopo aver passato con Adrian tre giorni, la sua compagnia non si rivelò affatto malvagia: mi spiegò qualcosa riguardo i Liosalfar e dissipò i miei numerosi dubbi con le sue risposte esaustive. Tra le tante tematiche di cui trattò, quella che mi interessò di più fu senz’altro la distinzione in “razze”, non presente all’interno del nostro popolo. I Liosalfar si dividevano in elfi delle stelle, elfi silvani e mezz’elfi. Gli elfi delle stelle, perlopiù di sangue nobile, erano capaci di controllare e leggere le menti altrui. Gli elfi silvani non possedevano particolari poteri, se non generalmente un grande coraggio e abilità in battaglia. I mezz’elfi non disponevano di capacità caratteristiche, ma alcuni di loro padroneggiavano il potere della telepatia.
 
-Immagino che quindi la maggior parte delle guardie siano degli elfi silvani.- commentai, ricevendo come risposta da lui un cenno di assenso col capo. Abbozzai un sorriso, nascondendo la fronte tra le ginocchia che in quell’ultimo periodo ero solita richiamare al petto quando mi sedevo, abituandomi ogni volta di più alla posizione insolita. 
 
Nonostante si fosse rivelato estremamente disponibile nei miei confronti, un dubbio continuava ad attanagliarmi, ma non credevo che avrei in ogni caso avuto il coraggio di esprimerlo: cos’era successo un anno prima di talmente grave da fargli perdere il lume della ragione prima della strage? Il fluire dei miei pensieri venne interrotto dall’usuale ingresso della guardia di turno, incaricata di servirci i tre semplici pasti giornalieri. Sia io che il mio compagno di cella ci voltammo di scatto al suo ingresso e non appena riconobbi il carceriere che quel giorno ci era stato assegnato, mi lasciai sfuggire un sorrisetto divertito.
 
-Guarda un po’ chi è tornato. E’ proprio “cammina in silenzio, Dokkalfar”.- dissi, osservando prima l’elfo che aveva fatto il suo ingresso nella stanza e poi il contenuto del vassoio che portava. Non feci nemmeno in tempo a distinguere le pietanze offerte, che l’uomo sollevò l’oggetto in modo che non mi fosse possibile vedere ciò che vi era appoggiato sopra.
 
-Vedo che durante questi tre giorni nelle segrete non hai ancora imparato le buone maniere, Dokkalfar.-replicò l’elfo, ponendo il vassoio sul tavolino ligneo addossato alla parete opposta a quella contro la quale ero appoggiata con la schiena. 
 
Posai le mani contro al muro e con una spinta delle braccia mi rimisi in piedi, ripulendo i pantaloni dalla polvere. A quel punto mi avvicinai a lui compiendo passi lenti, inarcando nel frattempo entrambe le sopracciglia con tono di sfida: -E tu non hai ancora perso quell’inflessione dispregiativa.-
 
Quando gli fui abbastanza vicino, lui percorse la mia figura minuta con lo sguardo, arricciando il naso con un’espressione quasi schifata. Cercai di capire il perché di tanto sdegno, mentre Adrian si accingeva ad avvicinare due sgangherate sedie di legno al tavolino in modo che potessimo mangiare. La guardia non sembrava avere intenzione di andarsene, anzi, rimase a lungo in piedi contro il muro, con le braccia incrociate all’altezza del petto e una gamba piegata. Un ciuffo di capelli biondi gli ricadeva sulla fronte chiara, leggermente corrugata e gli occhi azzurri erano appena visibili a causa della smorfia in cui aveva contratto il volto.
 
-Cos’è quella faccia?- chiesi, sedendomi su una delle due sedie con cautela, per evitare di romperla: non aveva per nulla un aspetto stabile.
 
-Hai un pessimo odore.- fu la sua sincera risposta, accompagnata da un gesto della mano davanti al proprio naso, come se volesse scacciare il fetore per evitare di inalarlo.
 
Adrian rimase in silenzio tutto il tempo, con il viso costretto in un’espressione che segnalava sommo astio. La sua affermazione mi fece istintivamente avvicinare il dorso della mano alle narici per verificare la veridicità delle sue parole e dovetti a malincuore ammettere che aveva ragione.
 
-Non sono di certo io ad aver stabilito le condizioni igieniche di questo posto. Se il mio odore ti reca disturbo, potresti sempre chiedere al re di concedermi un bagno caldo.- risposi, girando la minestra fumante che ci era stata servita per pranzo. Le pietanze assaggiate in quei tre giorni erano ottime, specialmente le minestre dal gusto speziato e particolare. La guardia emise una risatina forzata, distogliendo lo sguardo da me e dal mio compagno che stavamo in quel momento cominciando a mangiare. Era la prima sentinella in tre giorni a fermarsi nella cella durante il pasto e sperai vivamente che quella sarebbe stata l’unica volta.
 
-Non so, vuoi unirti a noi?- sbottò a un certo punto Adrian, dando volontariamente un colpo piuttosto forte col palmo della mano sulla propria coscia in modo da provocare una sorta di schiocco –Per quale motivo ci stai osservando in quel modo?-
 
La guardia non batté ciglio e alzò le spalle con noncuranza, iniziando a osservare le proprie mani ricoperte dalla cotta di maglia e successivamente la parete di fronte a sè. Il silenzio che cadde fu spezzato solo dal rumore tintinnante del cucchiaio che Adrian, sempre in maniera volontaria, aveva lasciato cadere nella scodella. A quel punto mi girai verso di lui, notando che stava stringendo le mani a pugno con così tanta forza da far diventare bianche le proprie nocche. Stavo per suggerire alla guardia di lasciare la cella per evitare di disintegrare l’ultima briciola di autocontrollo di cui Adrian disponeva, ma a quanto pare aveva già capito l’antifona da sé.
 
-Ricordati che ti tengo d’occhio..- iniziò la guardia, lasciando intenzionalmente cadere le proprie parole mentre si dirigeva verso l’uscita della cella e, una volta richiusa la porta a chiave terminò la frase, accompagnando le proprie parole con uno sguardo così freddo da far raggelare il sangue: -..Rena.-

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Capitolo 7
*** Asgard ***


Prima del capitolo, vorrei fare un chiarimento: sono solita cambiare “punto di vista” durante la storia, quindi subito sotto il numero del capitolo, troverai il nome di colui/colei che sarà il protagonista. Buona lettura!
 
7.
(Astrid)
 
-ALT.- gridai, una volta arrivata davanti ai cancelli di Asgard. La legione di Valchirie schierata dietro di me si fermò all’istante e cessò il rumore provocato dall’incontro tra il pavimento marmoreo e gli artigli dei maestosi lupi che ci fungevano da destrieri. La guardiana delle soglie Syn mi osservò attentamente dalla testa ai piedi, attendendo una mia dichiarazione. A breve sarebbe iniziato un concilio straordinario degli Aesir, divinità celesti creatrici del mondo e eravamo state eccezionalmente convocate anche noi Valchirie da Odino ed Eir, dea della resurrezione che una volta combatteva tra le nostre fila. Il nostro compito è sempre stato quello di combattere per la pace e di scegliere le anime di guerrieri valorosi da trasportare nel Valhalla, uno dei tanti luoghi di Asgard, la dimora degli Aesir.
 
-Sono Astrid, generale della quinta legione. Siamo state convocate da Odino.- esclamai ad alta voce, in modo da farmi sentire da Syn. La donna annuì mestamente e con uno schiocco delle dita, i massicci cancelli del palazzo si aprirono lentamente, permettendo l’ingresso delle truppe di cui ero comandante. Non era un esercito eccessivamente numeroso, ma di certo eravamo una delle legioni più potenti. Quando entrai nell’immenso giardino del palazzo degli dei, scorsi svariati gruppi di lupi riposare sul prato, segno che tutte o quasi tutte le altre legioni fossero già arrivate.
 
-Rapide, Valchirie. Temo che saremo le ultime.- dissi, scendendo dal mio destriero dopo avergli lasciato una carezza sul capo ricoperto dal pelo morbido. Quando tutte furono scese, le esortai a seguirmi all’interno della sala dove si sarebbe tenuto il consiglio. Sperai vivamente che non fosse già iniziato, e invece scoprì che per cominciare stavano attendendo il nostro arrivo. Una volta arrivate davanti le porte della sala, queste si aprirono all’istante e la grandezza del luogo in cui stavo per entrare mi fece quasi mancare il respiro. Il soffitto era incredibilmente elevato e la superficie della stanza era estesa quanto un ampio campo di battaglia. Il perimetro era di forma circolare e nelle pareti delle stanze erano scavate tante nicchie quante erano le divinità celesti. Infatti in ogni cavità era inserito un maestoso trono, decorato a seconda del dio a cui apparteneva. Gli dei erano di dimensioni enormi, tuttavia non tanto quanto i Jotnar, i veri e propri giganti, animati spesso da sentimenti malvagi. Di fronte a noi si stagliava la mastodontica figura di Odino, del quale noi eravamo le fedeli servitrici. Alla sua destra e alla sua sinistra erano posizionati rispettivamente gli altrettanto grandi troni di Frigg, sua sposa e detentrice del potere della chiaroveggenza, e Thor, suo figlio prediletto, dio del tuono. Dalla mia destra giunse la voce femminile e potente di Eir:
 
-Siete arrivate per ultime, aspettavamo solo voi.-
 
-La preghiamo di perdonarci, divina Eir.- dissi, inchinandomi nella sua direzione, nella speranza di rabbonirla un minimo. Tutte noi eravamo consapevoli di quanto fosse limitata la pazienza della dea. Ci avvicinammo alle altre legioni e prendemmo posto accanto alla quarta, capitanata da Hervor, la quale mi rivolse un discreto sorriso. Nella stanza erano presenti anche altri ospiti: un ridotto gruppo di Liosalfar era sistemato davanti alla terza legione, direttamente di fronte al trono del dio principale e tra di loro era presente la famiglia reale. L’improvviso tuonare della voce di Odino mi fece sobbalzare, ma ripresi immediatamente il contegno, rivolgendo lo sguardo verso il dio:
 
-Aesir, Valchirie e Liosalfar, ho convocato questo concilio per discutere di alcuni avvenimenti avvenuti di recente. Lord Dain mi ha riferito che in maniera del tutto segreta, è stata creata un’alleanza tra Jotnar e Dokkalfar. Conoscete bene gli orientamenti di quei popoli, se stanno tramando qualcosa, di certo non sarà a fin di bene. A preoccuparmi ulteriormente è l’adesione dei Vanir a questa alleanza.-
 
-I Vanir? Non dovremmo essere in pace ormai?- domandò Vor, dea della saggezza –Sono divinità minori, ma pur sempre divinità, perché dovrebbero volersi ancora scontrare con noi?-
 
-Non illuderti di questo Vor, presto inizierà la terza guerra tra Aesir e Vanir, ne sono certo. Come sono certo che vinceremo anche questa volta.- dichiarò Tyr, dio della guerra, con un ghigno soddisfatto stampato sul volto.
 
-Le altre due volte erano semplici conflitti e le ostilità andarono a scemare con i trattati di pace. Stavolta, se quello che mi è stato riferito è vero, si pensa che..- iniziò Odino, interrompendo le proprie parole in modo volontario, per tenere elevata l’attenzione degli ascoltatori.
 
L’attesa era febbricitante, notai che diversi dei si sporsero in avanti, come per paura di non riuscire a udire l’ultima parte della frase di Odino o come se volessero esortarlo a continuare. Sentì un sottile bisbiglio alle mie spalle e lo feci cessare con un gesto della mano, in seguito al quale le due Valchirie smisero di parlare tra di loro. A quel punto, cadde un silenzio tombale, finchè il dio non riprese a parlare:
 
-..vogliano dare inizio al Ragnarok.-
 
A quel punto il consiglio esplose: gli unici a rimanere in silenzio furono i Liosalfar, Odino e Frigg. Notai Vali, uno dei tanti figli di Odino, girarsi verso i troni vuoti alla sua destra e alla sua sinistra, appartenenti una volta ai fratelli Baldr, il dio della speranza e Hoor, dio dell’oscurità e cieco dalla nascita. Erano entrambi morti, il primo per mano di Hoor, ingannato da Loki e a sua volta ucciso da Vali, per vendicare il fratello. Era stato predetto che gli unici a sopravvivere al Ragnarok sarebbero stati proprio Vali, Vidarr, dio della vendetta, Magni e Mooi, figli di Thor, e che Baldr e Hoor sarebbero risorti dal regno degli Inferi. I superstiti avrebbero ereditato dalla precedente generazione di dei il comando dell’universo che loro stessi erano incaricati di creare: il Ragnarok era destinato a portare la distruzione completa di tutto ciò che esisteva, dall’Yggdrasil ai suoi nove mondi, divinità comprese. Perché mai dei popoli come i Dokkalfar e i Jotnar avevano acconsentito a dare inizio a un progetto del genere? Anche se di orientamento malvagio, non pensavo che fossero a tal punto folli da architettare la loro e la nostra distruzione. Il chiasso cessò in seguito a un grido di Odino che ammutolì i presenti:
 
-SILENZIO!-
 
Il panico era dipinto sui volti di tutti, Valchirie e dei, mentre i Liosalfar erano rimasti impassibili, in quanto già a conoscenza di tutto. A prendere la parola fu Thor, che si alzò in piedi e si rivolse a Lord Dain puntandogli contro Mjollnir, il suo martello:
 
-Come fate a essere al corrente di un tale piano? Nemmeno Frigg ne era a conoscenza.-
 
Frigg si voltò verso di lui, rivolgendogli uno sguardo minaccioso: non aveva buoni rapporti con il dio del tuono, specialmente perché era uno dei tanti figli illegittimi che Odino aveva avuto con altre donne.
 
-A mio parere siete coinvolti anche voi Liosalfar, altrimenti non si spiegherebbe.- continuò Thor, placato immediatamente da una carezza e da un sussurro mellifluo della moglie Sif, dea del raccolto. Lord Dain alzò una mano e la portò successivamente sul proprio petto, inclinando appena il busto in avanti come segno di rispetto nei confronti della divinità, poi parlò:
 
-Mi permetto di dissentire, divino Thor. La notizia di questo complotto mi è stata riferita indirettamente da una Dokkalfar esiliata, che ora si trova nella prigione del mio palazzo. Ho pensato che fosse opportuno mettere al corrente gli Aesir, ed è per questo che ora ci troviamo qui: dobbiamo decidere sul da farsi.-
 
Thor rimase in silenzio, annuendo appena mentre accarezzava la mano delicata della moglie dai capelli dorati, che lo guardava con un’espressione preoccupata. Odino si passò le dita tra la lunga barba grigia, osservando pensieroso il soffitto della stanza. Dopo qualche minuto di silenzio, esordì:
 
-Valchirie, Liosalfar, potete congedarvi, io e gli Aesir dobbiamo consultarci in privato. Per il momento il consiglio è sciolto.-

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Capitolo 8
*** La guerriera e il cacciatore ***


8.
(Eydis)
 
La decisione di recarmi ad Alfheim fu presa con la consapevolezza che non sarei probabilmente tornata indietro. Lord Einar aveva ordinato che Rena venisse riportata a Svartalfaheim per subire una dura punizione per l’uccisione di una guardia che l’aveva scortata all’ingresso dell’Yggdrasil. Bastava un volontario che portasse un messaggio al palazzo di Lord Dain, ma nessun soldato era disposto a farlo, in quanto temevano di venire uccisi a vista o imprigionati dai soldati Liosalfar. Dopotutto, era così che spesso finivano i messaggeri degli elfi della luce, sebbene io ritenessi che fosse disonorevole punire un messo solo perché appartenente ad un’altra razza. Con il mio “lo porterò io” pronunciato davanti al sovrano avevo accettato una missione suicida, in quanto ero sicura che non sarei stata ricevuta bene dai Liosalfar, vista l’accoglienza che noi riservavamo ai loro ambasciatori. Meglio io che altri, dato che non mi era rimasto più nessuno. L’ultimo ad andarsene era stato mio fratello, fuggito un anno prima. Magari l’avrei anche incontrato di nuovo. Ci misi molto a varcare la soglia che dal tronco cavo dell’Yggdrasil conduceva ad Alfheim: ebbi mille ripensamenti prima di compiere il passo decisivo, affrontato con grande paura. Emisi un lieve mugolio quando venni travolta dal bagliore folgorante del sole e istintivamente mi coprì con un braccio, voltando il viso altrove. Non ero avvezza alla luce, perciò dovetti abituare i miei occhi a sopportarla. Il sollievo che provai quando mi addentrai nella foresta è indescrivibile: la penombra permise ai miei occhi di vedere senza che lacrimassero o bruciassero per la sensazione inusuale. Diedi uno sguardo al rotolo di pergamena sigillato con la ceralacca che mi era stato affidato e lo avvicinai alle narici per inalare il familiare odore di zolfo, rimpiazzato da un aroma dolce proveniente dai vari fiori. Il sentiero sul quale stavo camminando mi sembrava la via più sicura per raggiungere la cittadella centrale, in quanto non volevo azzardare ad addentrarmi nel bosco senza avere un percorso da seguire. Mentre proseguivo sulla stradina, un animaletto dalle lunghe orecchie si avvicinò a me saltellando e si fermò a pochi centimetri dai miei piedi, accostando il musetto ad essi. Inorridita, feci qualche passo indietro per evitare il contatto con la bestia, che mi osservava incuriosita.
 
-Vattene.- bisbigliai, puntando contro di essa la sottile spada di cui ero dotata. Alla vista dell’arma, o almeno così credevo, lo strano esserino fuggì a lunghi e rapidi salti, finchè non sparì completamente tra i cespugli.
 
-Bravo, fuggi!- esclamai, riponendo la lama nel fodero con una risata divertita –Codar- -
 
Le mie parole furono bruscamente interrotte da un grido grottesco alla mia destra. Mi voltai di scatto in quella direzione, abbastanza rapidamente da accorgermi di una picca che mi era stata scagliata contro. Riuscì a evitarla chinandomi e compiendo una capriola in avanti. “Chi è stato?” pensai spaventata.
 
-Buon pomeriggio, signorina.- fece una voce di un uomo, proveniente sempre da destra. Era ormai chiaro che fossi stata scoperta. Cercai di mantenere il sangue freddo e, dopo essermi rialzata da terra, portai una mano sul manico della spada. Iniziai a quel punto a guardarmi intorno, cercando di scorgere l’uomo misterioso che aveva parlato. Proprio mentre stavo per gridargli di mostrarsi, un elfo piombò davanti a me dall’alto, segno che era nascosto tra i rami degli alberi.
 
-Che grande coraggio, quello di attaccare una donna alle spalle.- commentai, estraendo nuovamente la spada dal fodero e puntandola verso il nemico. Come mi aspettavo, non ero stata accolta in maniera ospitale. Nonostante appartenesse al popolo dei Liosalfar, l’elfo aveva tutta l’aria di essere un semplice ladruncolo e non certo un soldato: il viso era lercio, così come i suoi capelli e l’abbigliamento povero. Cosa avrebbero potuto rubarmi? Non portavo neanche un soldo con me.
 
-Pensi che a noi importi qualcosa?- ribattè quello, sfoggiando un sorriso irritante e beffardo, mentre osservava senza pausa la lama che gli puntavo contro.
 
“NOI?” fu il primo pensiero che percorse la mia mente. L’uomo non solo aveva avuto l’ardire di attaccarmi alle spalle, era anche in gruppo. La mia sicurezza vacillò, ma rimasi là, con la consapevolezza che a scappare sono solo i codardi. E io non sono mai stata una codarda. L’orda di Liosalfar che mi aggredì contava più o meno sette persone, tutte armate fino ai denti e assetate di sangue. Fortunatamente erano tutti individui non imponenti fisicamente, motivo per il quale ero quasi sicura che li avrei schiacciati come vermi.
 
Ovviamente non fu così. Ognuno di essi era un abile spadaccino, non alla mia altezza, ma ci misi molto per atterrare un membro del gruppo di ladri, trapassandogli l’addome con la mia lama sottile. L’uomo trafitto cadde a terra in ginocchio, crollando successivamente mentre sputava fiotti di sangue denso. Nonostante questa mia piccola vittoria, ero sicura che non sarei riuscita a scampare alla morte. A sostenere la mia tesi, proprio in quel momento uno dei delinquenti mi ferì di struscio il braccio sinistro, provocando un bruciore insopportabile alla zona colpita. Altri due borseggiatori si schiantarono al suolo con la gola tagliata, dalla quale continuò a zampillare il liquido rosso anche per qualche secondo dopo la loro morte. Contavo numerose lesioni alle gambe, qualcuna al braccio sinistro e un paio alla spalla destra, le quali mi impedirono di dare il massimo durante lo scontro. Nel momento in cui riuscì a provocare un profondo taglio lungo l’intero torace di uno dei banditi, si accese in me un barlume di speranza: forse sarei riuscita a sopravvivere. Questa misera scintilla venne brutalmente soffocata dall’uomo che mi era apparso davanti per primo, quello che immaginavo fosse il capo: la sua sciabola mi trapassò la spalla sinistra e pregai che con lei non avesse trafitto anche il cuore. Il dolore che ne seguì fu tremendo e lanciai un grido straziante quando estrasse la lama intrisa dal mio sangue, che gocciolava al suolo, mischiandosi con la terra. Prima di crollare in ginocchio, portai istintivamente una mano all’altezza della ferita, coprendola invano con essa.
 
-Hai un ultimo desiderio?- domandò l’uomo, avvicinando pericolosamente la lama alla mia gola –Non che mi interessi più di tanto, ti ucciderò comunque.-
 
-Vai all’inferno.- sussurrai tra i denti, che tenevo stretti tra di loro per evitare di versare lacrime di dolore.
 
L’uomo si girò verso i compagni superstiti, scoppiando in una fragorosa risata, come se trovasse le mie parole divertenti. Quanto avrei voluto stroncare quegli sghignazzi. Dopo aver riso per un po’, portò le mani tra i miei capelli, tirandoli in modo che portassi la testa indietro, lasciando la gola ulteriormente scoperta.
 
-Temo di non poter soddisfare questo tuo desiderio.- rispose l’uomo, premendo con la sciabola contro l’arteria gonfia per lo sforzo all’interno della mia gola. “E’ finita.” pensai, strizzando gli occhi per evitare di guardare.  
 
-Io invece si.- fece qualcuno alle mie spalle. Non feci nemmeno in tempo a girarmi, che l’uomo davanti a me stramazzò suolo di schiena, col cranio trafitto da una freccia. Pochi secondi dopo i due superstiti fecero la medesima fine, per mano dello stesso arciere misterioso. “Sono venuti a salvarmi” dissi tra me e me sorridendo appena, ma lo sforzo del mio salvatore era stato vano: avevo perso un’enorme quantità di sangue e la sensazione di debolezza divenne a tal punto insostenibile che mi accasciai di fianco chiudendo le palpebre divenute ormai pesanti. I suoni che udii poco dopo giunsero ovattati e confusi alle mie orecchie e mi sentii sollevare e caricare in spalla da qualcuno, quasi sicuramente l’uomo misterioso. Poi non percepii più nulla.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-Dai svegliati, devi mangiare qualcosa.-
Fu la prima cosa che udii quando ripresi conoscenza. Lentamente riaprii gli occhi, sbattendo rapidamente le palpebre per mettere meglio a fuoco ciò che mi trovavo davanti: ero in una piccola stanza dalle pareti di legno e dal soffitto alquanto basso. Le finestre erano piccole e poche di numero e dato che doveva essere notte inoltrata, a fare luce era un fuoco scoppiettante all’interno del camino di mattoni. L’arredamento era povero e semplice: davanti al camino erano posizionati un divano, un tappeto ricavato dalla pelle di un qualche animale, e un tavolino, mentre a una delle pareti lignee erano addossate un paio di librerie dello stesso materiale, ricolme di libri. Al muro opposto invece erano attaccate una serie di armi, tra cui due archi, una balestra e tre spade di diversa forma. Non sembravano di ottima qualità, perciò ipotizzai che fossero antiquate o costruite dallo stesso proprietario. Io ero sdraiata su quello che aveva tutta l’aria di essere un letto, anche se non era dei più comodi. Seduto alla fine del materasso, c’era un elfo che teneva una scodella in mano. I suoi capelli ricci erano di un castano piuttosto chiaro, tendente al biondo cenere, e i suoi occhi erano un misto tra il verde muschio e una delicata sfumatura di marrone. Lo osservai con diffidenza, non sapendo se fidarmi o meno. Da una parte mi aveva salvato la vita, ma dall’altra rimaneva pur sempre un Liosalfar. Perché avrebbe voluto aiutare una sua nemica?
 
-Chi sei?- domandai, provando a mettermi a sedere. Quell’improvvisa mossa mi provocò un immenso dolore a tutte le ossa e trattenni un lamento serrando le labbra tra di loro.
 
-Ehi, ehi. Stai ferma.- fece quello, posando la scodella che teneva in mano su un mobiletto ai piedi della branda –Così rischi di farti male.-
 
Si avvicinò quindi a me, aiutandomi a sdraiarmi di nuovo senza provare dolore. Diedi uno sguardo alla spalla ferita e mi accorsi che era stata bendata. Tra l’altro la sensazione di bruciore era svanita ed era stata sostituita da una piacevole frescura, provocata probabilmente da una sconosciuta miscela. Non appena l’elfo notò che ero intenta ad osservarmi la spalla si diresse verso il tavolino ed esclamò:
 
-Devo rimetterti la pomata!-
 
 “Ma mi ha presa per una bestiolina ferita?” pensai, un po’ infastidita dal pensiero di essere stata raccolta da terra, medicata e fasciata da un estraneo. Lo scrutai con un briciolo di riluttanza mentre toglieva con delicatezza la benda dalla ferita e scoprii con immenso stupore che questa si era quasi del tutto richiusa. Il ragazzo sorrise soddisfatto, mormorando qualcosa sui miracoli che la sua pomata aveva fatto nel giro di qualche ora poco prima di applicarla nuovamente sulla quasi inesistente piaga. Provai istantaneamente la stessa sensazione di refrigerio quando ebbe finito di stendere la sostanza sulla mia pelle. L’elfo, dopo aver richiuso il piccolo recipiente dove era contenuto l’unguento, domandò:
 
-Come ti chiami?-
 
Alzai subito lo sguardo verso verso di lui, mordendomi il labbro inferiore. “Eydis, ti ha salvato la vita. Credo che dirgli come ti chiami e ringraziarlo sia d’obbligo” pensai.
 
-Mi chiamo Eydis.-
 
Come se non si aspettasse che avrei risposto alla sua domanda, sfoderò un sorriso compiaciuto mentre ricopriva con una benda pulita la lesione. Le sue mani erano grandi, un po’ rovinate e dal tocco incredibilmente delicato: da un uomo della sua stazza ci si aspetterebbe la delicatezza di un gigante.
 
-Io invece sono Frey, sono un cacciatore.- dichiarò l’uomo, tornando a porgermi la scodella che aveva posato precedentemente sul mobile –Avrai tempo per raccontarmi la tua storia, adesso mangia e rimettiti a dormire.-
 
“Agli ordini, generale” dissi tra me e me poco prima di prendere la ciotola tra le mani tremanti per la stanchezza e per la fame. Il contenitore era ricolmo di tutto quello che aveva l’aria di essere brodo di carne. Iniziai a scolare il contenuto attaccando le labbra al bordo della scodella, provando subito una piacevole sensazione di pienezza e calore all’interno dello stomaco. Frey sorrise di nuovo, prendendomi dalle mani il recipiente vuoto. Alzai un angolo della bocca mentre mi raggomitolavo tra le coperte calde, mormorando un “grazie” poco prima di riaddormentarmi di nuovo.

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Capitolo 9
*** Il responso ***


9.
 
 
(Aleksander)
 
Una volta terminato il concilio straordinario ad Asgard, i miei genitori ed io tornammo all’ingresso dell’Yggdrasil, scortati dalla guarnigione di soldati che gli dei ci avevano gentilmente concesso di portare. Per farlo, Odino aveva creato per noi un ponte di cristallo, che dal cancello dal quale si poteva entrare all’interno dei palazzi dove dimoravano gli Aesir, conduceva fino al passaggio, il quale fluttuava nel limpido cielo che circondava Asgard. Mio padre era rimasto in silenzio durante tutto il viaggio di ritorno, probabilmente preoccupato e pensieroso. Una volta ritornati ad Alfheim, salimmo sulla carrozza trainata da due cavalli bianchi che ci aveva trasportati all’ingresso dell’Yggdrasil dalla reggia, alla quale ora stavamo facendo ritorno. Finalmente mio padre ruppe il silenzio, facendo sobbalzare per la sorpresa mia madre, intenta ad osservare distrattamente alcuni alberi in fiore accanto ai quali stavamo passando:
 
-Aleksander.-
 
Mi girai verso di lui, esortandolo a continuare con un piccolo cenno del capo. Lui tacque per qualche istante prima di terminare finalmente la frase:
 
-Se Odino deciderà di credere a ciò che ho letto nella mente di quella giovane Dokkalfar, ossia l’esistenza di una presunta alleanza tra Svartalfaheim, Jotunheim e i Vanir, inizierà una battaglia senza precedenti. Nel caso in cui non dovessi farcela, il trono passerà a te all’istante.-
 
Le possibilità che il trono sarebbe passato a me nel giro di pochi anni erano minime, in quanto la vita dei Liosalfar, specialmente quelle degli elfi delle stelle, era molto lunga e a mio padre restavano come minimo un centinaio di anni. Non avevo mai preso sul serio le noiosissime lezioni che avrebbero dovuto prepararmi a ricoprire la carica di sovrano, le uniche alle quali avevo partecipato attivamente e con piacere erano quelle di combattimento: ero diventato un imbattibile spadaccino e un discreto arciere grazie ad esse. Improvvisamente mi pentì di non essermi mai impegnato fino in fondo per apprendere le nozioni, impartite pazientemente da vari precettori, riguardo l’economia, la politica estera o la storia del nostro popolo. Nel caso in cui mio padre fosse caduto in battaglia, era infatti usanza che il re combattesse tra le prime fila e che il principe non prendesse parte alla battaglia per evitare di lasciare il trono vuoto, mi sarei rivelato un pessimo re e avrei trascinato senza dubbio il mio popolo nella miseria. Non ero affatto pronto.
 
-Padre, io non - -
 
-Non avrai altra scelta. Se rifiuterai di prendere il mio posto, Alfheim cadrà nell’anarchia.-
 
Mia madre da sola non avrebbe mai retto il peso di un regno, anche se la nostra terra fu governata più volte da regine con figli eccessivamente giovani, i quali mariti erano stati assassinati o uccisi in guerra. Fortunatamente erano più o meno tre secoli che non si verificavano battaglie di alto calibro: i Jotunn e i Dokkalfar si erano arresi e rassegnati a vivere nella pace, o almeno così sembrava. Mia madre non era tuttavia di carattere forte come le precedenti regine, né tantomeno esperta delle questioni di cui mio padre si occupava tutti i giorni. La battaglia che ci aspettava sarebbe stata difficile e avrebbe avuto due esiti: la salvezza o la distruzione completa del nostro mondo. Tuttavia sospettavo che mio padre, anche nel caso in cui fossimo riusciti a sventare il complotto e il conseguente Ragnarok, non sarebbe sopravvissuto a tutti gli scontri, in quanto stavolta avrebbe avuto contro non solo sciocchi giganti o subdoli elfi dell’oscurità, ma persino divinità, seppure minori.
 
-Pensate davvero che Odino avrà l’ardire di attaccare per primo? Se la congiura non fosse reale ci troveremmo comunque di fronte a una guerra di alta portata.- feci, guardando mio padre.
 
Lui non rispose, limitandosi a sospirare e a prendere la mano a mia madre, che aveva silenziosamente iniziato a singhiozzare. Era la prima volta che la vedevo piangere e mi fece uno strano effetto. Rimasi a osservare mio padre abbracciarla, cosa che faceva solamente quando non erano visti da nessuno, probabilmente per mantenere un certo contegno. Non mi era mai mancato nulla dalla mia nascita, ero cresciuto con tutti i privilegi possibili e con una buona istruzione, ma ci sarebbe sempre stato qualcosa che la mia posizione non mi avrebbe mai potuto garantire: l’amore sincero di una donna, tanto sincero quanto quello che mia madre provava verso mio padre. Sapevo bene che la mia ricerca sarebbe stata quasi impossibile: è difficile trovare una donna che ami quello che sei e non quello che hai, quando sei un principe.
 
 
 
 
 
 
 
 
Una volta tornato a palazzo, mio padre mi esortò ad andare nella mia stanza, mentre lui si ritirò nella propria con mia madre che ancora non aveva smesso di piangere. Mi accompagnò una delle più fidate guardie del palazzo, che ultimamente fungeva soprattutto da mia guardia del corpo: Caitlin. Aveva iniziato come pattugliatrice dei boschi, fino a diventare prima guardia della cittadella, guardia del palazzo ed ora era incaricata di proteggere direttamente la mia famiglia. Avevamo instaurato un bel rapporto durante il suo primo anno di servizio a palazzo, anche se lei tendeva ad essere particolarmente fredda, probabilmente per “portarmi rispetto”, quando io non le avevo mai richiesto di farlo: prendeva molto seriamente il suo incarico. Nonostante ciò, più di una volta ero riuscito a strapparle un sorriso durante alcune delle nostre conversazioni, ultimamente sempre più frequenti, degne di un’amicizia di vecchia data. Una volta arrivato davanti la porta della mia camera, la invitai ad entrare, dato che sarebbe dovuta fermarsi fuori di essa.
 
-Non mi sembra affatto il caso.- rispose lei, posizionandosi addosso alla parete dell’ampio corridoio. Risuonò nell’aria un leggero rumore metallico, causato dallo scontro tra l’armatura della guardia e il muro in pietra. Rimase girata di profilo a guardare davanti a sé, con una mano posata sull’elsa della spada, impreziosita con un rubino e i capelli biondi che le ricadevano lungo le spalle. Non le avevo mai chiesto quanti anni avesse, ma probabilmente avevamo la stessa età, a giudicare dalla sua pelle pura, candida, priva di difetti o rughe, che invece avevano iniziato a fare capolino sui volti dei miei genitori.
 
-Ti ho invitata io, Caitlin, non ti stai intrufolando senza il mio permesso.- replicai, mantenendo la porta aperta con una mano e lo sguardo quasi supplicante diretto verso di lei –Ti prego, devo assolutamente parlare con qualcuno.- 
 
A quel punto, l’elfa si girò verso di me, puntando gli enormi occhi azzurri dritti nei miei, mantenendo un’espressione seria. Non sapevo se definirla “amica” o “conoscente”, fatto sta che nel nome del nostro rapporto non riuscì a negarmi l’aiuto che le avevo chiesto. Dopotutto avevo solamente bisogno di parlare con qualcuno. Entrò nella mia stanza dopo aver controllato più volte che non ci fossero altre guardie nei paraggi e senza fare alcun rumore, per evitare di segnalare la propria presenza. La esortai diverse volte a sedersi sul sofà o su una poltrona, ma lei preferì rimanere in piedi.
 
-Come preferisci.- dissi io, avvicinandomi al caminetto per accenderlo. Non faceva nemmeno particolarmente freddo, ma il camino acceso mi faceva sentire in qualche modo più tranquillo, probabilmente grazie al rassicurante scoppiettare delle fiamme. Caitlin non proferì parola per un po’, rimase impettita accanto alla porta, con ogni muscolo del suo corpo in tensione. Era evidentemente agitata, perciò decisi che forse sarebbe stato meglio parlare immediatamente ed evitare di farla attendere. 
 
-Come sai, sono stato ad Asgard perché mio padre doveva discutere di, come ha detto lui, “faccende importanti” con Odino. Non mi aveva detto nulla riguardo una sua recente scoperta, sono venuto anche io a sapere tutto poco meno di un’ora fa.- cominciai, sedendomi a gambe incrociate davanti al caminetto e dandole, forse non troppo educatamente, le spalle –Ricorderai senz’altro la Dokkalfar che hai tu stessa scortato nelle segrete.-
 
-Certamente.- rispose lei e, a giudicare da come mi era giunta la sua voce, si avvicinò a me –Ricordo che Lord Dain le lesse la mente non appena giunse a palazzo e che dopo mi era parso un po’ preoccupato. Riguarda questo la sua “recente scoperta”?-
 
Il suo tono di voce denotava così tanta sicurezza che più che una domanda vera e propria, sembrava un quesito retorico, come se fosse già a conoscenza della risposta. A quel punto mi limitai ad annuire, mentre lei si sedeva accanto a me, cercando di non provocare troppo rumore con la propria armatura particolarmente ingombrante.
 
-Si.- risposi, aggiungendo subito dopo –C’è un complotto tra Dokkalfar, Vanir e Jotunn. Non si sa per quale motivo o come, ma vogliono dare inizio al Ragnarok.-
 
Indubbiamente la notizia l’aveva spaventata, ma rimase composta. A tradirla fu la sua espressione facciale, da serena e imperturbabile a stupita, quasi incredula. Quasi istintivamente strinse con forza la mano sull’elsa della spada, girandosi verso di me.
 
-Già, incredibile eh? Vogliono proprio annientare noi e loro stessi.- borbottai, avvicinando le mani al fuoco, anche se non sentivo freddo. Lei scosse la testa, sospirando. Era probabilmente tanto sconcertato quanto chiunque fosse presente al concilio: la malvagità a volte va a braccetto con la follia, ma arrivare a voler distruggere ogni cosa esistente mi sembrava un atteggiamento troppo folle anche da parte dei Dokkalfar.
 
-Cosa ha deciso di fare Odino? Attacchiamo?- chiese lei, alzando il tono di voce in maniera brusca –Io di certo non voglio rimanere con le mani in mano mentre questa gente squilibrata complotta contro di me, di te, o contro gli Aesir.-
 
Alzai un angolo della bocca, colpito dalla sua audacia. Era proprio questo il tipo di elfi che mio padre voleva avere come proprie guardie: valorosi e pronti a tutto pur di salvare il loro popolo. Posai la mano su quella della ragazza, che stava stringendo con ancora più forza l’elsa, probabilmente per la rabbia. A quel punto lei allentò la presa, forse tranquillizzata da un po’ di calore umano. La sua espressione corrucciata si distese un minimo e lei abbassò lo sguardo, rialzandosi in piedi.
 
-Devo andare a parlare con quella Dokkalfar.- disse, sistemando meglio i capelli in modo che le ricadessero sulle spalle –Tanto tra poco dovrei avere il turno nelle segrete.-
 
Istintivamente allungai una mano per prenderle una caviglia: la cosa peggiore sarebbe stata quella di farle intendere che fossimo al corrente di tutto. La pregai con uno sguardo di non fare nulla, e lei capì al volo, rimettendo a malincuore nel cassetto le proprie intenzioni. Mi alzai da terra e mi offrì di accompagnarla nella prigione, dato che al momento non avevo nulla da fare.
 
-Dovrei essere io ad accompagnare te in giro, non il contrario.- fu la sua risposta, accompagnata da una risata.
 
L’avevo sentita ridere poche volte, e devo ammettere che quel suono fosse particolarmente piacevole: né troppo debole, né troppo sguaiato. Risposi con un sorriso, prima di osservarla uscire dalla mia stanza, sperando che la sua precedente battuta non servisse per farmi tranquillizzare, mentre in realtà sarebbe a breve andata nelle segrete a interrogare di nascosto l’elfa oscura.
 
 
 
 
 
 
(Astrid)
 
In realtà a lasciare Asgard erano stati solo i Liosalfar: a noi Valchirie avevano ordinato di rimanere, per avere anche il nostro parere riguardo le parole di Lord Dain. Si era scatenato un vero e proprio putiferio: Tyr che inneggiava alla guerra, Vor, dea della saggezza, che cercava di farlo stare in silenzio, la dea dell’amore Sjofn aveva iniziato a piangere pensando a tutti gli uomini che sarebbero morti in guerra, lasciando da sole le loro mogli, la maggior parte delle Valchirie discuteva tra di loro, ignorando i richiami dei generali della loro legione, mentre Thor e Odino cercavano di riportare ordine. Quando il fracasso e il chiacchiericcio terminarono, finalmente il Padre degli Dei proferì parola, facendo segno al dio del tuono di non interromperlo.
 
-Prima di passare ai voti, vorrei precisare una cosa.- disse, posando di nuovo la mano sul bracciolo del trono e osservando i presenti –A mio giudizio non è cosa saggia intraprendere una guerra di portata tanto alta, solamente per la scoperta di Lord Dain, per giunta non del tutto attendibile. Può darsi che sia una trappola, che ci sia stato un malinteso, ma può anche darsi che nei tetri palazzi dei Jotunn e dei Dokkalfar si stia davvero progettando l’inizio del Ragnarok. Forseti, tu che sei il dio della giustizia, dicci cosa pensi riguardo la questione.-
 
Il dio rimase per un attimo in silenzio, spostando lo sguardo sul trono vuoto del padre Baldr.
 
-Sono d’accordo con te, Odino. Non sarebbe saggio dare inizio a questa guerra, non avendo la certezza che esista un complotto.-
 
Si sentì qualche sussurro di assenso all’interno della sala, ma vennero brutalmente ammutoliti dal tuonare della voce di Tyr, che si alzò di colpo dal trono, agitando con forza un pugno:
 
-Vile, Forseti, sei un vile!-
 
L’altro rimase in silenzio, guardandolo senza battere ciglio: il dio della guerra era solito insultare e sbraitare in quel modo. Thor ordinò a Tyr di sedersi e di aspettare il proprio turno per parlare, altrimenti non si sarebbe giunti a nessuna conclusione. Noi Valchirie saremmo state interpellate per ultime e avremmo espresso un solo voto per legione, che i generali avrebbero comunicato. Conoscevo bene le mie sottoposte: non si sarebbero mai tirate indietro. Infatti, quando Odino ci chiese di consultarci, nessuna di loro prese la posizione di Forseti. La sala era invasa da parole, alcune volte da grida lanciate più che altro da Thor e Tyr e di sottofondo era chiaramente udibile il sottile singhiozzare di Sjofn. Da quello che ero riuscita a captare, avevo intuito che la maggior parte dei presenti avrebbe preferito non entrare in guerra. Dopo un lasso di tempo che a me parve un’eternità, mentre in realtà erano trascorse poco più di tre ore, Odino si alzò in piedi, alzando una mano per zittire dei e Valchirie. Immediatamente tutti tacquero, voltandosi verso il Padre degli dei, in attesa che desse inizio alle votazioni. L’ansia presente in sala era palpabile.
 
-Quanti a favore della guerra?- domandò, scrutando successivamente ogni angolo della sala per contare le braccia alzate, che erano appena cinque: il mio, quello di Tyr, quello di Vidar, dio della vendetta, Eir e Thor.
 
Mi voltai con sorpresa verso gli altri generali delle altre legioni, cercando di capire se la scelta fosse stata presa per saggezza o vigliaccheria. Thor guardò nella mia direzione, sbalordito quanto me e stavolta protestò insieme a Tyr, che aveva di nuovo iniziato a sbraitare, accusando i presenti di codardia, i quali rimasero in completo silenzio, festeggiando internamente il mantenimento della “pace”. Odino rimproverò entrambi e quando riuscì a placare gli animi infuocati delle divinità, mi indicò:
 
-Astrid.-
 
Con un briciolo di riluttanza e rabbia feci un inchino profondo, mormorando nel frattempo un non troppo sincero: -Per servirla.-
 
-Domani ti recherai ad Alfheim per avvertire gli elfi della nostra decisione.- ordinò lui, liquidando successivamente il concilio.
 
Tutti gli dei, uno per volta, svanirono in uno sbuffo di vento dai loro troni, per poi ricomparire chissà dove all’interno dell’immenso palazzo di Asgard. Thor, rimasto da solo all’interno dell’enorme sala, congedò tutte le legioni eccetto la mia: evidentemente voleva dirmi qualcosa. I vari generali con i loro sottoposti sfilarono davanti al dio del tuono, esibendosi in un inchino colmo di rispetto, per poi lasciare il palazzo a cavallo dei loro destrieri: lupi di incredibili dimensioni, capaci di librarsi nell’aria senza bisogno di ali. Una volta da soli, Thor sussurrò qualche parola che non riuscì ad udire, probabilmente nella lingua degli Aesir, e in seguitò le sue dimensioni si ridussero in pochi istanti, finchè non divenne alto esattamente quanto me. Quando fu davanti a me, mi posò una mano sulla spalla e intercettò il mio sguardo con i suoi occhi blu magnetici e che talvolta sembravano quasi accendersi per poi spegnersi immediatamente, come se all’interno delle iridi si scatenassero dei lampi.
-Astrid.- disse, e la sua voce risuonò all’interno della sala vuota –Non sono d’accordo con la decisione presa poc’anzi, a mio parere bisogna indagare. E’ per questo che voglio affidarti un compito importante. Pensi di riuscire a portarlo a termine?-
 
-Qualsiasi cosa, per il dio del tuono.- risposi, chinando appena il capo.
 
Lui alzò un angolo delle labbra e le sue iridi per qualche istante presero a brillare. Allontanò la mano dalla mia spalla e indietreggiò di un passo, senza distogliere lo sguardo da me:
 
-Voglio che tu trovi informazioni riguardo questa faccenda, tu sola, senza la legione al tuo seguito: dareste troppo nell’occhio. Ti concedo però di scegliere qualche alleato, mi rendo conto che potrebbe essere un compito troppo gravoso per una persona sola, anche se eccellente come te.-
 
Mi stava lusingando per convincermi ad accettare o pensava davvero quelle cose? Non c’era bisogno di utilizzare mezzucci subdoli perché io obbedissi, l’avrei fatto a prescindere. Diedi uno sguardo alle Valchirie della mia legione, rimaste perfettamente sull’attenti nonostante io non le stessi controllando. Ero affezionata ad ognuna di loro, le avevo addestrate a lungo e i frutti del lungo allenamento erano senz’altro ben visibili: disciplinate, coraggiose, agguerrite, devastanti nel combattimento. Sarebbe stato difficile separarmi da loro, eppure avrei dovuto farlo, le avrei affidate nelle abili mani della seconda in comando, Hnoss. Dopo qualche attimo di silenzio, tornai a guardare la divinità di fronte a me, che mi fissava in attesa di una risposta con le braccia incrociate al petto. Sarebbe stato difficile ottenere quelle informazioni in assoluta segretezza, infatti avrei dovuto trovare qualche alleato tra le numerose schiere dei Liosalfar il giorno seguente, quando avrei annunciato a Lord Dain la codarda decisione degli Aesir.  
 
-Accetto l’incarico, signore.- 

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Capitolo 10
*** Lo specchio ***


10.
 

(Eydis)


 
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Il caso volle che la mattina seguente mi svegliassi presto. Il ragazzo era probabilmente uscito per cacciare, dandomi così una chance per fuggire. Non sarei rimasta nemmeno un minuto di più in quella capanna umida, vivendo a spese di un mio nemico. Con un bel po’ di fatica e sofferenza ero riuscita a sollevarmi dal letto e poi ad alzarmi, indolenzita e dolorante.
 
“Su Eydis, devi andartene. Che ne sai che questo non ti abbia curata solo per guadagnarsi la tua fiducia per poi consegnarti ai tuoi nemici? Tutti infidi, questi Liosalfar.” pensai, mentre mi toglievo la fasciatura.
 
La ferita era praticamente svanita: era rimasta solamente una sottile linea rossastra, dove la pelle era stata squarciata dalla lama del bandito. Non sono mai stata una ladra, quindi rinunciai ad afferrare una delle mele invitanti che Frey aveva lasciato (forse appositamente?) sul tavolo. Recuperai le mie cose, riposte dal ragazzo in un angolo della stanza ed uscì dalla casa, richiudendo la porta alle mie spalle.
Non sapevo nemmeno in che punto esatto del bosco mi trovassi, ma avrei preferito camminare per giorni tra gli alberi che passare anche solo qualche ora bloccata su quella brandina.
Il mio buonsenso a quel punto fece capolino:
 
“E se ti attaccassero? Torna indietro, non riusciresti a disarmare nemmeno un neonato in queste condizioni”.
 
-Aah, sta zitto.- borbottai, mentre ero in procinto di muovere il primo passo verso il bosco.
 
-Dove credi di andare?-
 
Le parole di Frey furono come un colpo d’acqua gelida in un pomeriggio afoso. Mi voltai all’istante, portando poi la testa all’indietro per liberare un sonoro sbuffo. Il mio ospite era poco più lontano e teneva con una mano un paio di volatili piuttosto grossi, la cui vista ebbe un immediato effetto sul mio stomaco: un fragoroso borbottio risuonò dal mio ventre, segno che ero parecchio affamata. In effetti, il mio unico pasto del giorno precedente fu proprio la minestra che Frey mi aveva offerto.
 
-Non puoi andartene! Rimani almeno un altro giorno.- esclamò lui, agitando la mano che reggeva gli animali, dai quali si liberò una grossa quantità di piume.
 
-Perché mai?- dissi, facendo un passo indietro.
 
Mi ero completamente illusa del fatto che sarei riuscita a fuggire: ero troppo debole e non conoscevo abbastanza il posto. Persino dopo quel misero passo sentì il mio corpo vacillare per qualche istante e un lieve dolore percorrermi tutte le ossa.
 
-Se resterai, domani ti accompagnerò ovunque vorrai.- rispose lui, annuendo appena.
 
La proposta era allettante, avrei guadagnato un giorno di riposo e una guida: mi sarei dovuta presentare alla cittadella come una messaggera e là avrei avuto bisogno di tanta fortuna, dato che non sapevo quale sorte mi avrebbero riservato.
 
-Ci sto.- dissi infine –Domani dovrai accompagnarmi da Lord Dain.-
 
Lui scoppiò in una risata fragorosa, coprendosi la bocca con la mano libera ed io lo guardai in maniera torva: non comprendevo il motivo di quella risata. Avevo sbagliato pronuncia? Alzai le sopracciglia, facendogli intendere che esigevo una spiegazione.
 
-Vuoi farti imprigionare?- chiese lui infine, continuando a ridacchiare, divertito dalla mia precedente richiesta.
 
Come pensavo, i Liosalfar erano tanto ospitali quanto noi Dokkalfar.
 
-Imprigionare? Credevo che voi civilizzati ed angelici elfi della luce foste più clementi con i messaggeri.- dissi io, incrociando le braccia al petto con un’espressione accigliata.
 
Lui sembrò piuttosto infastidito dalla mia risposta e mi rivolse uno sguardo un po’ cupo, prima di ribattere:
 
-La prigionia è temporanea, ma almeno noi non uccidiamo chi deve portarci un messaggio.-
 
 
Alzai gli occhi al cielo, sollevando entrambe le braccia per potermi passare le dita tra i capelli.
Nel momento in cui mossi il braccio ferito, il dolore lancinante alla spalla tornò e fui obbligata a soffocare un lamento di dolore in gola. Frey ebbe un sussulto, notando la mia espressione sofferente e abbozzò un sorriso, avvicinandosi a me poco dopo, probabilmente per dare un’occhiata alla spalla. Inizialmente mi scostai un po’, infastidita dal suo atteggiamento: non mi piaceva affatto sentirmi una bestiolina ferita. Lui si bloccò quando vide che stavo indietreggiando ed attese che io sospirassi e gli facessi cenno di controllare la lesione. Sfiorò coi polpastrelli la pelle lacerata, provocandomi un sottile brivido, e parve sollevato nel constatare che la cute non si fosse riaperta nemmeno di un centimetro.
 
-Fortunatamente la ferita non si è riaperta, però la tua fretta ti costerà un altro giorno al letto, con tanto di pomata.- disse lui, avviandosi verso la capanna ed aprendo la porta.
 
Annuì appena, seguendolo a passi lenti mentre strusciavo quasi i piedi a terra. Non vedevo l’ora che quella situazione orribile finisse. Tornai dentro la casetta, illuminata dalla fioca luce del sole, debole ma comunque presente nonostante l’orario. Mi sedetti sulla brandina a me riservata ed osservai il mio ospite intento a spennare i volatili sopra un tavolo che probabilmente utilizzava appositamente per pulire la selvaggina da lui catturata. Notai la sua concentrazione e in particolare la maestria con la quale privava gli animali delle piume, delle interiora e delle varie parti superflue. Mentre lo osservavo, una domanda mi sorse spontanea e decisi di togliermi subito il dubbio, senza che creassi teorie o elucubrazioni nella mia testa.
 
-Frey?- chiamai, sperando che mi rispondesse. Sembrava così preso dal suo lavoro che credevo che a momenti non mi avrebbe nemmeno sentita. Il mugugno che mi giunse come risposta mi autorizzò a continuare:
 
-Perché fai tutto questo per me? Insomma, siamo nemici.-
 
Lui interruppe ciò che stava facendo e poggiò le mani impregnate di sangue sul ripiano da lavoro, senza distogliere lo sguardo dalla cacciagione. Probabilmente non sapeva nemmeno lui il motivo, era una situazione troppo strana e assurda perché ci fosse una motivazione. Poco dopo alzò lo sguardo e lo posò su di me, scrollando appena le spalle con noncuranza mentre diceva con naturalezza:
 
-Semplicemente mi piace aiutare. Non avrei mai lasciato che quei furfanti ti uccidessero. Dato che eri ferita, mi sembrava stupido lasciarti là priva di sensi dopo averti salvata da un gruppetto di malviventi.- 
 
Rimasi un po’ stupita dalle sue parole, del resto aveva salvato la vita a una sua nemica, non ad una del suo popolo. Non ci sarebbe stato nulla di più legittimo del lasciarmi morire, nessuno lo avrebbe biasimato, anzi, probabilmente lo avrebbero ringraziato: una Dokkalfar in meno, giusto? Lo sentì schiarirsi la voce e riprendere a lavorare, mentre io guardavo altrove, in leggero imbarazzo.
Non mi era mai capitata una situazione del genere, e il pensiero di essere in qualche modo in debito con questo ragazzo, uno sconosciuto, mi faceva decisamente salire la bile.
 
-Posso sapere perché devi parlare con Lord Dain oppure è troppo segreto per essere svelato ad un umile cacciatore?- domandò dopo un po’ che me ne stavo in silenzio, interrompendo quella spiacevolissima sensazione di profondo imbarazzo. Mentre parlava, si avvicinò al caminetto per controllare un grosso tegame che aveva messo sul fuoco, nel quale ribolliva qualcosa che emanava un odore piacevolissimo. Dopo aver sfoderato un sorriso soddisfatto, fece cadere dei pezzi di carne che aveva accuratamente preparato all’interno del tegame.
 
-Mi sono offerta volontaria per recargli un messaggio.- dissi, avvicinandomi a lui per vedere cosa stesse facendo –Una Dokkalfar è stata esiliata ad Alfheim per aver salvato la vita ad una piccola elfa della luce.-
 
-Ah si, un mio amico mi ha detto che alla cittadella è stata portata un’elfa oscura e che ora sia finita nelle segrete.- commentò lui distrattamente, afferrando da sopra una mensola un barattolino contenente delle spezie odorose e facendone cadere un po’ dentro al tegame –Suppongo che tu stia parlando di lei.-
 
-Si, sono sicura che sia lei. Immaginavo che si sarebbe fatta imprigionare.- borbottai –Sono stata inviata perché Lord Einar ha chiesto che l’elfa venga immediata riportata a Svartalfaheim.-
 
Il ragazzo aggrottò la fronte con fare confuso e le sue orecchie a punta vibrarono per un secondo, mentre lui si stropicciava un occhio con il dorso della mano sinistra. Con la destra aveva iniziato a mescolare il contenuto del calderone sul fuoco, che aveva iniziato a produrre un odore ancora più invitante, sicuramente a causa della carne da poco aggiunta. Il mio stomaco vuoto gorgogliò di nuovo e, quasi per istinto mi portai una mano all’altezza del ventre, percependo così una leggera vibrazione. Lui rise, farfugliando qualcosa sul mio appetito e sul mio stomaco parlante, ed io rimasi in silenzio, divertita e un po’ offesa allo stesso tempo.
 
-Comunque, stavi dicendo qualcosa sulla Dokkalfar esiliata.- fece lui, tornando improvvisamente serio.
 
A quel punto tornai a parlare, facendo sparire un accenno di sorriso che era affiorato sulle mie labbra e cercando di essere il più sintetica e schietta possibile:
 
-La Dokkalfar, prima di uscire da Svartalfaheim ha ucciso una guardia che aveva il compito di scortarla fino all’ingresso dell’albero. Non so che legge sia in vigore qui, ma da noi funziona la legge del taglione.-
 
-Legge del taglione? Vuoi dire quella barbarica legge “occhio per occhio, dente per dente”?- domandò lui, con un tono che lasciava trasparire sia incredulità che sdegno. Effettivamente, era una legge piuttosto crudele e primitiva, ma i nostri sovrani l’hanno sempre mantenuta, di generazione in generazione, cosicché questa orrenda regola giungesse fino a noi.
 
-Proprio quella. Rena dovrà tornare a Svartalfaheim e pagare la vita di quell’uomo con la propria.-
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
(Caitilin)
 
Quella mattina mi sarebbe di nuovo toccato stare nelle segrete, per sorvegliare i prigionieri. Il giorno precedente avevo passato buona parte del pomeriggio là, a respirare quell’aria intrisa dal pessimo odore della muffa. Di sottofondo si sentiva il sottile vociare dei prigionieri, che di tanto in tanto affacciavano il viso alla piccola finestra rettangolare ricavata nella pesante porta di acciaio, scrutandoci con occhi ricolmi di risentimento. Mentre tenevo lo sguardo fisso sul portone della cella della Dokkalfar, uno dei soldati che era di guardia con me mi diede una gomitata, chiamando il mio nome.
 
-Mh?- mugolai, senza distogliere lo sguardo dalla porta, alla quale si stava affacciando in quel momento la ragazza.
 
-Dovremmo servire il pranzo.- rispose l’altro in un borbottio –Oppure è un compito troppo umile per una che è sempre vicina alla famiglia reale?-
 
Decisi di non rispondere alla provocazione e andare a prendere uno dei vassoi con sopra le pietanze che avremmo portato ai carcerati, senza nemmeno dargli la soddisfazione di vedermi infastidita. Da quando avevo ricevuto la promozione, sembrava che non andassi a genio a nessuno. Chissà, magari avrebbero voluto essere loro al mio posto: il numero dei soldati ai quali era concesso il privilegio di difendere direttamente la famiglia del re era molto ridotto rispetto al totale dei Liosalfar che facevano parte della guardia. Quello di oggi, era solo uno degli ennesimi episodi nel quale qualcuno provava (invano) a farmi odiare il nuovo collocamento.
 
-Lasciali stare, Caitlin.- fece la familiare voce di Kennett, un ragazzo che solitamente si occupava di pattugliare i boschi e catturare i vari delinquenti che si divertivano a saccheggiare piccoli villaggi privi di difesa. Era stato proprio lui insieme ad un’altra guardia a fare prigioniera la Dokkalfar che era in cella con Adrian –Certe persone non riescono a non tenere la bocca chiusa quando sono prese dall’invidia.-
 
Gli sorrisi mentre sorreggevo il vassoio con il pasto destinato ai prigionieri, osservando successivamente le varie celle, per controllare in quale potessi andare per consegnare il pranzo ai detenuti. Come al solito, nessuno si era occupato di andare alla cella dei Dokkalfar: solitamente lo facevamo io e Kennett e, in nostra assenza, il compito spettava a qualche guardia abbastanza coraggiosa da affrontare quei due tremendi demoni. No, seriamente, di che avevano paura? Che li incenerissero con uno sguardo?
 
Mi avvicinai quindi alla stanzetta degli elfi oscuri, che attendevano impazienti vicino alla porta. Chiesi loro di fare qualche passo indietro ed obbedirono subito dopo con una docilità incredibile che mi lasciò sorpresa. Erano parecchio affamati, a giudicare da come si fiondarono sulla loro razione di zuppa. Adrian si era rovesciato buona parte di essa addosso, per berla attaccato alla scodella, e Rena buttava giù una cucchiaiata dopo l’altra molto rapidamente. Uscì dalla cella e mi andai a poggiare contro il muro di fronte a me, attendendo che finissero di mangiare. Non credo che mi avrebbero fatto attendere molto, dato che quando ero uscita avevano già consumato metà della minestra. Infatti a breve il viso di Rena fece capolino tra le sbarre della porta e mi avvertì che avevano entrambi terminato. Stavo per staccarmi dal muro, ma Kennett mi tagliò la strada e andò al posto mio nella cella a riprendere il vassoio. Da fuori udì chiaramente lui provocare Rena, che rispondeva a tono, per poi essere interrotti da Adrian che borbottò qualcosa di indistinto riguardo la cena. Da là in poi, non riuscì a sentire più nulla, finchè non sentì aprirsi il portone di acciaio, che provocò un cigolio fastidioso.
 
-Pallone gonfiato.- furono le parole della ragazza che mi arrivarono all’orecchio mentre l’elfo usciva dalla stanzetta con il vassoio in mano. Aveva la sua classica espressione seria, con l’aggiunta di un velo di dispiacere.
 
-Che è successo?-
 
Lui richiuse la porta alle sue spalle con tre mandate di chiavi e riappese queste al gancetto apposito che era incastonato nel muro al quale mi appoggiavo, muovendosi nel più totale silenzio. Inizialmente pensai che non avesse sentito la mia domanda, ma quando ero sul punto di porgliela nuovamente, mi fece cenno di tacere e andò a riportare il vassoio dove l’avevo preso. Subito dopo tornò da me, mormorando poco dopo:
 
-Non gli hanno dato la cena, ieri sera.-
 
Di certo non erano due angioletti quelli rinchiusi lì dentro, ma se Lord Dain aveva insistito perché entrambi venissero trattati come normali prigionieri, allora così bisognava agire: a nessuno dei carcerati era mai stato negato un pasto, casomai erano loro a rifiutarsi di mangiare. Stavo proprio sul punto di esprimere come la pensassi, quando una guardia di alto rango proveniente dalla sala del trono scese nelle segrete e chiamò varie volte il mio nome. Kennett mi fece segno di andare e lo salutai con un cenno del capo, poco prima di raggiungere l’uomo che era venuto a chiamarmi, probabilmente per ordine del re. Lo seguì e scoprì con sorpresa che i reali non si trovavano seduti sui rispettivi troni, ma c’era solamente una ragazza in piedi al centro della sala, che osservava attentamente un mosaico abbastanza antico che fungeva da pavimento. Una volta vicino a lei, ebbi modo di osservarla: il volto particolarmente gradevole, che sembrava di risplendere di luce divina, la corporatura muscolosa e l’armatura mi fecero immediatamente capire che si trattava di una Valchiria.
 
-Sei tu Caitlin?- domandò lei, e la sua voce possente risuonò per tutta la sala. Una volta sentita la mia risposta, si presentò come Astrid, generalessa della quinta legione.
 
Mi chiesi che cosa ci facesse una Valchiria qui ad Alfheim, ma prima che potessi aprire bocca, questa iniziò a camminare, seguendo lo stesso uomo che mi aveva chiamata qui. Mi accodai anche io, rimanendo in silenzio dietro la donna che avanzava spedita davanti a me, mentre teneva saldamente sotto un braccio l’elmo decorato con due ali dorate ai lati e topazi, ornamento tipico delle Valchirie. In quest’ala del castello ero venuta poche volte, in quanto era raramente frequentata e non vi erano molte stanze. Alla fine del corridoio, che aveva tutta l’aria di essere un vicolo cieco, era appeso un grande specchio dalla cornice argentata, così ampio da toccare a terra e da arrivare praticamente al soffitto. Non l’avevo mai visto prima d’ora.
 
-Entrate.- disse il soldato che mi aveva accompagnata –A me non è concesso, quindi rimarrò sulla soglia.-
 
-Cos’è?- domandai, osservando la mia immagine riflessa nello specchio –E come faccio ad entrarci?-
 
L’ufficiale di alto rango esordì con un “Meno chiacchiere, più fatti”, facendomi tacere all’istante. La Valchiria distese un braccio in avanti e il suo braccio si fuse con lo specchio, o meglio, sembrò quasi attraversarlo. Rimasi di sasso quando la vidi passare completamente all’interno dello specchio. Sfiorai la lucida superficie di questo con un dito e l’effetto fu lo stesso che produce un sassolino che viene tirato in acqua: una serie di microscopiche onde si propagarono dal punto in cui la mia pelle aveva toccato quello strano materiale, provocando un curioso rumore. Dopo qualche secondo di indecisione, trattenni il fiato come se stessi per immergermi in acqua ed entrai all’interno dello specchio, attraversando la mia stessa immagine riflessa.
 
 
 
 

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