Impassive eyes of ice.

di SallyLannister
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


PREFAZIONE


 
 
Una nuova vita era iniziata per Carter. 
Era sul quel maledettissimo aereo diretto all'aeroporto JF. Kennedy di NY, mentre pensava a quanto, era stato fortunato ad aver lasciato Mosca appena in tempo. La sua vecchia "banda" gli stava dando la caccia. Il suo fantomatico amico, non gli avrebbe mai permesso di lasciare il paese dopo aver spifferato che suo fratello era coinvolto in un atto illegale. 
Carter odiava tutto quel trambusto, dover lasciare andare la sua vita, non che ne avesse mai avuta una ma in un certo qual modo non sopportava il fatto di essere scappato così. Lui solitamente non scappava, rimaneva fino alla fine, ma da morto non poteva vendicarsi di coloro che lo avevano fatto arrestare. 
Ebbene sì, il suo fidato gruppo, lo aveva lasciato solo nel bel mezzo di un contrabbando di droghe pesanti provenienti dalla Colombia e lui era rimasto letteralmente fregato. 
Ricordava ancora amaramente mentre era interrogato due anni prima, in quella schifosissima sala d'interrogatori; le sue mani erano giunte, legate, da delle spesse manette di ferro, che impedivano quasi al sangue di defluire alle mani, tanto da sentire dei fastidiosi formicolii percorrergli le dita. Aveva sostenuto più volte lo sguardo del detective, con quella sua aria di sfida e di superiorità, voleva a tutti i costi tenergli testa. Non era servito a molto, poiché una telecamera di un supermercato lo aveva colto sul fatto e gli aveva causato due anni di galera, scontati solo dal patteggiamento che lui aveva avuto con il procuratore.
Ed eccolo lì, tutto solo e pronto per una nuova avventura, chi sa dove l’avrebbe condotto tutto quello. 
Non sapeva precisamente, dove potesse sistemarsi. Il fatto di adattarsi non era mai stato un problema, così decise che avrebbe cercato dei mezzi di fortuna affinché non avesse trovato un lavoro che gli permettesse di trovare un alloggio e viverci. 

La coda allo sbarco era davvero stressante. Carter non riusciva a sopportare tutte quelle urla di persone a lui vicine, non sopportava nemmeno il chiacchiericcio dei bambini; così tirandosi sugli occhi un paio di Ray-Ban si accinse a sfuggire alla marea di persone che lo stavano per travolgere e si apprestò a lasciare l'aeroporto. 
Una volta fuori, il sole caldo e lo smog della più popolata città americana lo travolsero. Non sapeva bene qual era la sua meta, il suo scopo, così decise di cominciare a incamminarsi per raggiungere il centro della città.
 
Diverso tempo più tardi, era giunto al centro della favolosa NY, che era ben differente dalla sua amata Mosca. Il clima era mite, non certo rigido come quello cui era abituato, quasi che la giacca che aveva indossato quella macchina gli desse una gran noia. Lasciò che la giacca grigia gli sfilasse dalle spalle, per poi prenderla sottobraccio e dirigersi per le strade trafficate di NY.
Nessun particolare era lasciato al caso. Carter era un uomo molto minuzioso e alcune volte sembrava certamente un maniaco, visto il comportamento che aveva in presenza di altre persone. Non amava particolarmente il trambusto, infatti, a ogni persona che casualmente lo urtava per le strade, lui si girava rivolgendo occhiatacce a destra e a manca. Fra sé e sé ripeteva solo che doveva essere grato di trovarsi lì e non sotto terra.
Continuò il suo cammino verso il parco, dove era ormai risaputo che i reietti della società prendevano dimora. Lui si sentiva esattamente così un reietto della società. Non era mai stato abituato ad avere una famiglia o un certo tipo di confronto da qualcuno, perché era stato abituato a cose peggiori.
Nessuno sapeva, infatti, che Carter fino ai suoi diciotto anni, aveva vissuto in un orfanotrofio, mentre guardava i bambini che erano continuamente adottati, mentre lui rimaneva sempre quello seduto in un angolo a fare esperimenti su uccelli che uccideva in giardino nell’ora di ricreazione.
“E’ un bambino disturbato.” Ecco cosa dicevano le scartoffie che si portarono dietro, quando fu spedito in una comunità una volta fuori dall’orfanotrofio. Ben sapeva però, che quella non era una vera e propria comunità, bensì era un posto per persone che avevano fatica a esporsi. Nulla di più stupido e falso! Non era per colpa di uno stupido colloquio con uno psicologo e una scritta su un foglio di carta che questo appellativo gli era stato affibbiato; semplicemente denigrava la compagnia degli altri bambini.
In verità Carter non aveva mai sopportato il fatto di essere stato abbandonato ancora in fasce, non aveva appreso il perché della sua nascita. Forse era nato da una prostituta? Da una mendicante? Da un incesto? Da un tradimento? Perché una donna avrebbe dovuto gettare un bambino su un marciapiede.
Quelle erano le domande cui Carter non avrebbe mai trovato risposta.
 
Un cartello, un semplice avviso catturò l’attenzione di Carter, mentre rivangava dentro di sé i pensieri tristi e malsani della sua infanzia.
- CERCASI PERSONALE -
“Che fottuta botta di culo.” Pensò fra sé e sé Carter mentre andò verso la vetrina di un’officina.
Il cartello diceva proprio così, e non poteva capitare in un momento più opportuno di quello. Forse era stato grazie al destino o proprio come pensava un colpo di fortuna. Fatto sta che Carter si precipitò all’interno del negozio, con ancora il borsone in spalla, in cerca del proprietario.
Appena entrò nel locale, un odore di motori e di olio misto a benzina, colpì l’olfatto di Carter che cominciò a guardarsi intorno. Dietro ad una macchina sollevata su un ponte, vi era un tizio cicciottello con un grosso cappello che gli ricadeva sulla fronte impregnata di sudore. Probabilmente era il proprietario.
A passo svelto il ragazzo, si avvicinò a quest’ultimo e con un colpo di tosse annunciò la sua presenze. L’uomo reso quasi sordo dal motore della macchina che stava aggiustando, non gli diede la giusta attenzione, così il ragazzo diede un calcio alla struttura di ferro cui l’uomo stava lavorando e quest’ultimo sobbalzò per via del rumore che fece il cerchione della macchina che cadde al suolo.
«Dannazione ragazzo! Cosa ti passa per la testa? Dio, che coglione.» Aveva bofonchiato quelle ultime parole, prima di girarsi di nuovo e continuare a fare ciò che egli stava facendo.
Carter lo guardò impassibile, cercando di mantenere la calma, visto che la perdeva spesso e per nonnulla. Così si limitò a picchiettare con l’indice sulla spalla dell’uomo e costringerlo a girarsi nuovamente.
«Non mi sembra di essermi rivolto a voi in modo scortese, signore. Preferirei che lei non lo facesse più.»
L’uomo lo guardò con un’aria perplessa, non riusciva a crederci che il ragazzo dinanzi a sé aveva usato quel tono che lasciava sottintendere un ché di minaccioso.
« Sono qui per il lavoro. Sono abbastanza bravo con le automobili. E’ ancora libero, no? »
Carter si espresse in un inglese meraviglioso, visto che lui aveva studiato bene quella lingua, non per Hobby certo, ma perché molte volte gli scambi avvenivano con persone che non conoscevano il russo.
L’uomo che per canto suo era ancora perplesso dall’arroganza del ragazzo, si limitò a guardarlo storcendo appena le labbra in una smorfia infastidita.
« No. E’ vecchio di un mese fa.»
Carter si accorse immediatamente che mentiva. Quella era la parte divertente di essere entrato a far parte di un clan mafioso, sapere sempre quanto l’interlocutore stava dicendo il falso. In quel caso, l’uomo stava parlando senza guardarlo negli occhi per davvero e la sua giugulare si muoveva a più non posso sul collo ciccione.
«Ah si? Allora perché è ancora lì?»
« Perché non ho avuto il tempo di toglierlo... ».
« O perché le incuto timore e quindi nella sua testa, si sta accendendo una lampadina che le dice, che potrei darle del filo da torcere?
« Beh... » Cominciò il tizio, che inaspettatamente cominciò a sudare nuovamente.
« Chi le dice che io non lo faccia lo stesso, se non ottengo quel posto? Sa io ne avrei realmente BISOGNO. Non so se lei riesce a comprendermi.»
Lo sguardo glaciale di Carter era fisso sul tizio, che non riusciva a muoversi. L’auto sul pontile scalpitava per via del motore acceso, rendendo l’aria di quella situazione davvero strana.
« Il tuo nome ragazzo? »
« Carter... Blacknight. »
« Puoi cominciare subito? »
Un ghigno vittorioso si stampò sulle labbra del ragazzo, che aveva avuto ciò che voleva. Dopotutto l’uomo era sveglio, fin troppo per capire che doveva stare buono e ascoltare ciò che Carter stesse dicendo silenziosamente.
« Sicuramente. Allora il posto è mio? »
« Sì. » Ammise con riluttanza l’uomo, asciugandosi la fronte impregnata di sudore.
« Perfetto. » Carter era trionfante, aveva ottenuto un lavoro a nemmeno due ore dal suo arrivo. Se avesse fatto tutto bene, probabilmente sarebbe riuscito a trovare un alloggio entro sera.
L’uomo lo lasciò lì, anche se era parecchio titubante al riguardo. Mentre si allontanò, gli rivolse uno sguardo enigmatico e lo vide togliersi anche la maglietta a maniche corte, lasciando scoperte le sue spalle e le braccia, mentre il suo corpo atletico e asciutto era messo in mostra da una canotta aderente.
« Ehi! Se fai pasticci, ti sbatto fuori a calci in culo. Siamo intesi? »
« Non si preoccupi. Vedrà che diverremo ottimi amici. »
Rispose ironicamente il ragazzo mentre si cominciò a dare da fare, vicino all’auto dall’altra parte del locale.
Dopotutto non era così sfortunato come pensava.
 


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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***




CAPITOLO 1


Il tempo a NY trascorreva davvero veloce. Carter aveva l’impressione che fosse passato così poco dal suo arrivo e invece erano passati già due mesi. Per sua fortuna aveva trovato anche un alloggio, non era il massimo ma era pur sempre una casa. Il suo alloggio si trovava in un quartiere non molto trafficato di Brooklyn. Una stanza, un bagno e l’angolo cucina; era tutto ciò che Carter poteva desiderare. Non era abituato a un lusso sfrenato o alcun tipo di sfarzo, lui amava l’essenziale.
Tirava scrupolosamente a lucido ogni superficie, perché lo sporco non era suo amico. Su questo fronte lui era molto maniaco della pulizia, odiava non poter riflettersi sulle superfici, ma non per un fatto di vanità o narcisismo, no, questo no, proprio perché non sopportava il lerciume.
In quelle quattro mura erano passate così tante ragazze in quei due ultimi mesi, che quasi aveva perso il conto. Lui era fatto così, non amava la famiglia, non desiderava far sentire qualcuno importante, si accontentava semplicemente di notti di sesso senza importanza.
Ormai mattina quando si svegliò con accanto ad una biondina niente male, lei era bellissima; lunghi capelli biondi che la rendessero una Dea per via di quella pelle così candida e diafana. Si sporse più verso di lei per riuscire a notare i segni dei morsi che le aveva impresso sulla pelle la notte precedente.
Già il fatto di aver dormito con lei, era una questione che gli stava particolarmente a noia. Solitamente lasciava andare le ragazze dopo aver avuto una notte con loro, cacciandole via da casa subito dopo con qualche scusa banale. La ragazza d’altronde era stata di ottima compagnia, insomma ne era valsa la pena. Si era divertito davvero tanto, sapeva fare dei giochetti che non gli dispiacevano. L’aveva incontrata la sera prima fuori a una discoteca non poco lontana da casa, lei era fuori che scherzava con le amiche, preda davvero interessante. Carter aveva la particolarità di farsi notare sempre dalle donne, forse sarà stato il suo sguardo penetrante, il suo labbro spesse e carnoso e il suo modo di essere sotto certi versi arroganti, da far cadere chiunque ragazza ai suoi piedi.
Aveva passato una serata davvero piacevole, ma il led sul comodino segnava l’ora che doveva alzarsi per adempire i suoi compiti. Si passò una mano sugli occhi, voltandosi verso la ragazza nuda accanto a sé ancora dormiente. Il suo corpo meraviglioso era fasciato dalle lenzuola bianche, ma che lasciavano poco all’immaginazione. Doveva svegliarla, ma il suo nome gli era sconosciuto, Samantha, Miriam, Crystal? Che nome avesse non aveva importanza, per lui erano tutte uguali.
« Mi dispiace interromperti…ma credo che tu debba andare. » Tagliò corto Carter, poggiando una mano sulla spalla della ragazza per esortarla ad alzarsi.
La ragazza si girò verso di lui e le sorrise, poggiando una mano sul suo viso ispido per via della barba del giorno. Il ragazzo si ritrasse, non amava particolarmente le carezze, per lui non avevano nessun valore quindi non vedeva il bisogno sia di riceverle sia di darle. Da quel gesto la ragazza restò per un attimo confusa, per poi sfoggiargli un sorriso caloroso.
«Sei sempre così scontroso di mattina Carter? »
«No. Sono scontroso con le persone che non comprendono ciò che dico. » Senza aggiungere altro il ragazzo si alzò dal letto, lasciando la bionda da sola mentre lo guardava.
Afferrò dalla sedia lì vicino un paio di pantaloni e li indossò immediatamente senza degnarla nemmeno di uno sguardo. La bionda si mise a sedere sul letto, facendo ricadere in modo non casuale il lenzuolo che la ricopriva, mostrando i suoi seni prosperosi e indubbiamente rifatti secondo le teorie di Carter.
« Sei sicuro che non voglia fermarti ancora un po’? » Lo provocò lei, alzando appena una gamba scoprendo del tutto il suo corpo.
Lui la guardò e non provò nessun senso di eccitazione per la ragazza. Una volta posseduto ciò che aspirava, ormai aveva perso qualsiasi attrattiva. Una delle sue regole principali era proprio quella di non cadere fra le braccia della donna con cui era stato il giorno prima. Le usava proprio come i fazzoletti, perdevano ogni interesse una volta colto il loro fiore.
«Ascolta Samantha…».
«Sono Nicole.».
«Nicole, o come diavolo di chiami. Io non concedo il bis. E ora puoi anche alzarti. ».
«Mi sembra che stanotte hai fatto il bis eccome, hai anche leccato il piatto.» Ribatté la ragazza che ormai aveva assunto un’aria delusa, sembrava che stesse là per piangere.
«Stanotte non è stamattina. Adesso vattene.» Disse nuovamente Carter alzando lo sguardo questa volta e incrociando quello della bionda. Sembrava delusa, ma a lui non importava. Non voleva immischiarsi in questioni che non gli competevano. Per lui era inutile farla restare, visto che non aveva intenzione di rivederla. Aveva avuto il suo giocattolo e poteva anche farsi da parte adesso.
«Immagino che quindi non mi lascerai il tuo numero. ».
«Hai dedotto proprio bene. Quando esci, chiudi la porta. Ciao Miriam. ».
«Nicole!  Sei proprio uno stronzo. ».
Carter non replicò per niente e con un gesto della mano la salutò chiudendo la porta dietro di sé. Infilò le chiavi della porta nella tasca dei Jeans e inforcò gli occhiali da sole. Un caffè era tutto ciò che gli occorreva e magari anche una delle sue amatissime Marlboro rosse.
Non badava molto a ciò che le donne dicevano di lui, sapeva che la parola “stronzo” ormai era nel vocabolario di ogni donna che era stata così sfortunata da ricadere nella sua tela.
L’amore a lui parola sconosciuta era stata sempre un tabù nella sua vita. Era stato così fin dall’infanzia quando la ragazzina con i capelli rossi all’orfanotrofio si era invaghita di lui, tanto da andargli dietro ogni vota che aveva l’occasione.
Il ragazzo la ricordava come se fosse ieri; lui seduto a terra in giardino, mentre brutalizzava una lucertola e lei, così bella con quelle lunghe treccine rosse che si accingeva a stargli accanto, anche se lui la mandava via ogni volta, lei, però gli era rimasta sempre accanto nonostante tutto. Si sedeva accanto a lui e raccontava della propria vita, anche se lui faceva finta di non ascoltarla le prestava più attenzione di quanto volesse. Fu solo una sera, dopo cena che lei prese coraggio e lo baciò sulle labbra. Quel bacio suscitò in Carter appena dodicenne qualcosa che non sapeva descrivere, delle fastidiose sensazioni nello stomaco, che lo portarono a sorridere veramente di cuore. Annabeth, così si chiamava la ragazzina rossa, rimase così contenta di quel bacio e allo stesso tempo così imbarazzata che scappò via. Quella fu l’ultima volta che Carter la vide, la mattina dopo senza che avesse avuto tempo di vederla era stata adottata da una famiglia.
Probabilmente era stato il destino o un segno della vita, ma sapeva che non aveva il diritto di essere felice, non doveva provare cosa significasse essere amato da qualcuno. Così per ciò che rimase della permanenza all’orfanotrofio, stette isolato dal resto dei suoi amici.
 
**
 
« Sei di buon umore stamattina. Com’era la topa ti sei portato a letto ieri? » Domandò incuriosito il suo capo, Josh, una volta che il ragazzo giunse all’autofficina.
« Normale, bionda e due tette enormi. ».
« Normale? Cazzo ragazzo! Cos’hai al posto dell’uccello? ».
« Solo perché ho detto che era una ragazza normale? Non ti ho mica detto che abbiamo preso il thè con i biscotti. ». Carter scosse il capo con indifferenza, poiché non gli importava sbandierare ai quattro venti le sue conquiste.
Quel periodo di permanenza all’autofficina, Carter aveva fatto amicizia con Josh che sembrava di aver passato il timore inziale che aveva nei confronti del ragazzo. Gli portava molti clienti e anche se detestava ammetterlo, Carter era davvero bravissimo con le auto, così come con le donne. La maggior parte della clientela erano signorine, che lo vedevano lavorare attraverso le vetrine e con scuse banali portavano le loro da Josh.
« Se fossi in te, mi scoperei tutte le donne possibili. Approfittane ora che non sei sposato. ». Replicò il suo capo scuotendo la testa, ripensando probabilmente sua moglie le sue due figlie.
Carter le aveva viste solo una volta, la moglie era una bellissima donna e ogni volta si domandava come mai avesse fatto l’enorme cazzata di sposare un tipo come lui. Lei era con lunghi capelli castani, occhi a mandorla e verde smeraldo, il suo fisico era asciutto e tonico, mentre Josh, beh lui era esattamente l’opposto. Avevano anche due figlie, nate da un matrimonio forse troppo precoce. La prima aveva vent’anni e la seconda appena quindici. Entrambe le ragazzine restavano a fissare Carter mentre lavorava, soprattutto Kim che era la più grande, cercava anche di parlare con lui.
Kim era davvero bellissima, proprio come la madre. I suoi capelli corti e castani ricadevano sul viso della ragazza incorniciandolo e rendendolo così dolce. Magra ma con le curve al posto giusto.
Non aveva ceduto alle provocazioni della ragazza solo per paura di perdere il lavoro ma ogni tanto si ritrovava a fantasticare sulla ragazza, soprattutto quando si presentava in pantaloncini all’officina. La immaginava che si contorcesse sotto di lui, mentre la sopraffaceva con il suo corpo possente, le braccia ben salde intorno al corpo della ragazza appena in fiore, le sue labbra che avidamente percorrevano quei seni che tanto avrebbero voluto conoscerne la forma. Si destò da quei pensieri semplicemente perché non poteva permettersi di perdere il lavoro.
« Chi dice che io mi sposi? Scoperò finché l’uccello si tiene su. » Carter scoppiò a ridere approfittando di quel momento di silenzio, poiché tutti i clienti erano andati via ed erano rimaste solo le loro auto.
« Carter non credi di avere una mentalità troppo ristretta? » Disse una voce dolce alle sue spalle, che subito il ragazzo condusse alla figlia del suo capo.
Parlando del diavolo, lei era appena giunta in officina dal padre. Si trovava dietro al ragazzo in quel momento e si voltò per ammirarne la presenza. Cazzo, cosa avrebbe dato per mettere le mani su quel corpicino. Era fantastica, anche se per lui era troppo piccola, otto anni, li dividevano. Carter era un uomo finito, era fatto. Sulla sua pelle solcata di cicatrici erano passate tante esperienze, mentre quella di Kim era ancora immacolata e non si sarebbe stupito nello scoprire che lei avesse ancora la virtù inviolata.
« Ristretta? Perché mai? Ho solo espresso un mio concetto. Chiamiamola più filosofia di vita. ».
La ragazza le sorrise caldamente e si avvicinò al padre che era appena uscito all'esterno dal suo studio. Si alzò sulle punte per dare un bacio sulla guancia paffuta di suo padre e percorse la distanza che rimaneva per raggiungere il ragazzo.
Con un gesto sinuoso si poggiò al cofano di una Mini Cooper che Carter stava riparando.
« Oh, la tua filosofia è giustissima. Sono sicura che ti porterà proprio in alto. »
Carter le rivolse un’occhiatina divertita, poiché lei stava ridendo e si strinse nelle spalle. Gettò un’occhiata a Josh che era, intendo a colloquiare con un tizio appena entrato che era il loro fornitore. La ragazza prese al volo l’opportunità di suo padre che era distratto e si avvicinò al ragazzo mettendosi dietro di lui.
« Hai da fare stasera? ».
« No. ». Rispose secco lui, senza darle modo di continuare a importunarlo.
« Esci con me. ».
« No. ».
Kim sbuffò e con l’indice sfiorò la pelle del braccio di Carter. Lui voltò la testa e la guardò con un’aria stranita.
« Che cosa pensi di fare, mh? ».
« Nulla. Ti ho fatto solo una proposta. Mi piacerebbe che tu accettassi tutto qui. ». Fece la ragazza con finta voce innocua, ma lui già sapeva che lei stava covando qualcosa, probabilmente un altro modo per provocarlo.
Dio com’era difficile non farsi tentare da quel diavolo vestito di bianco! Carter socchiuse gli occhi, cercando di non farsi prendere dall’impeto di quella situazione e accettare il suo invito. Era troppo difficile resistere a quella ragazza, sapeva come tentare un uomo, ma non poteva cedervi. Coccole, carezze, una storia, erano ciò che non rientrava nei piani di Carter e già sapeva che la ragazza avrebbe voluto tutto ciò e se suo padre avesse scoperto che si portava a letto tua figlia, lo avrebbe licenziato o costretto a stare con lei. Non poteva accadere.
« Ho visto come mi guardi. Lo so che vorresti spogliarmi, chiudermi nel retro di questa macchina e prendermi in tutti i modi. »
Quelle parole colpirono nel segno, si fermò per un attimo e la guardò meravigliato di ciò che aveva appena detto. Ci sapeva fare dannazione. Per quanto fosse eccitato in quel momento, era una cosa passeggera, amava conquistare le donne, non le piacevano quelle che gli sbavano dietro, ma quando capitavano occasioni così non poteva di certo buttarle al vento.
« Credevo fossi una ragazza per bene. Non dovresti dire certe cose. ».Fece finta lui, stringendo appena le palpebre per guardarla di furtivamente. S’inumidì le labbra carnose con la lingua e non seppe più cosa risponderle. In quel momento capì che appena lei avesse detto altro, avrebbe fatto cadere tutto il suo controllo e i suoi buoni propositi.
La ragazza che non voleva smettere di stupirlo, con un gesto veloce portò una mano sul suo ventre e strinse il suo sesso sopra dei jeans. Carter trasalì per quel gesto, ma allo stesso tempo ne rimase così compiaciuto.
« Non ti conviene sfidarmi bambolina, poi va a finire male. ».
« Se per male intendi che mi scoperai. E’ proprio ciò che voglio. ». Replicò la sua ragazza con una voce bassa e sensuale. Cavolo avrebbe ceduto, con certezza questa volta.
Con un gesto veloce li afferrò per un fianco e la costrinse a spostarsi sotto di lui. Lei lo guardò con aria di sfida, sentendosi soddisfatta di ciò che aveva fatto.
« Così va meglio. » Sussurrò la ragazza sporgendosi verso Carter mentre silenziosamente chiedeva un bacio.
Lui fece per avvicinarsi ma proprio in quel momento si rese conto che suo padre li avrebbe visti, non era così stupido da mettere le mani sulla sua prima figlia, almeno non davanti ai suoi occhi. Fece schioccare le labbra e la lasciò andare, scontandosi da lei. Cercò di riprendere almeno in parte il suo controllo e si sistemò i capelli con la mano.
« Ci vediamo stasera. Passo a prenderti io. » Disse sbrigativo per farla andare velocemente via. Non voleva che suo padre si accorgesse di qualcosa. L’aria vittoriosa si dipinse sul viso della ragazza. Aveva ottenuto ciò che voleva e non poteva andarle meglio di così.
« Non vedo l’ora. Non metterò le mutandine. » Sussurrò lei prima di sorpassarlo per andare a salutare suo padre.
Carter alzò lo guardo verso il soffitto che una volta era dipinto di bianco. Socchiuse gli occhi e pensò pregustandosi già quella serata in compagnia di quella ragazza. Sicuramente era la sua giornata fortunata.
Tornò al lavoro aggiustando il motore di quella macchina e cercò di concentrarsi, ma era impossibile visto cosa gli era appena accaduto.
Per quale motivo avrebbe dovuto rinunciare a quelle emozioni per farsi una famiglia. Non se ne faceva niente di dormire abbracciati durante la notte e nemmeno di scambiarsi tenere parole d’amore. Era quella la vita che voleva.
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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
 

Il sole era calato ed era ormai sera quando Carter uscì da lavoro. Solitamente chiudeva lui l’officina ma quella sera il suo pensiero era fisso a Kim. Cavolo lei lo aveva provocato tutto il giorno e lui non riusciva a pensare ad altro che mettere le mani sul suo corpo.
Non sapeva bene lei cosa si aspettasse da quell’uomo che era così bello d’aspetto ma così spento e morto dentro. Era proprio così che alcuni giorni si soffriva Carter, si sentiva così morto che si chiedeva spesso il motivo per cui respirasse ancora. In gioventù quando ancora si trovava a Mosca, aveva cercato di togliersi la vita. Era stato spregiudicato e perfino incosciente, si lanciava nelle commissioni che il capo gli proponeva senza alcun ritegno di pararsi il culo, così diceva lui.
I ricordi di quei giorni erano sempre così vividi nella sua mente, che spesso si alzava la mattina grondante di sudore e con il cuore che gli martellava nel petto. Pensava a tutte quelle volte che aveva messo la sua vita in pericolo e se ne era strafregato alla grande. Perché doveva provare gratitudine per la sua vita, quando nessuno l’aveva avuta. Non era destinato a nascere, visto che le sue origini erano ancora del tutto sconosciute, non aveva nemmeno mai provato cosa significasse avere qualcuno che c’era indipendentemente dalla situazione. Era solo e solo sarebbe morto.
Accantonando quei pensieri, Carter si consolava passando da una donna all’altra, raccogliendo innumerevoli fiori, senza badarsi di accorgersi di essere delicato e non strapparne le foglie. No, lui era particolarmente felice quando spezzava il cuore delle ragazze, poteva quasi sentirlo andare in frantumi ed era una cosa che gli piaceva moltissimo. Il perché di quel suo comportamento non sapeva in cosa fosse radicato, anche in quel centro di recupero in cui fu costretto ad andare, non trovò una soluzione per quel suo modo di fare. Era semplicemente irrecuperabile.
Nemmeno una donna era stata nel suo letto per più di una notte, nessuna aveva dormito con lui più del dovuto e nemmeno quest’ultime si erano accinte ad abbracciarlo. Si teneva a debita distanza, mettendosi di schiena in modo che nessuna potesse rifugiarsi fra le sue braccia. Sarebbe stato da sciocche, poiché la mattina le avrebbe allontanate come si fa con l’immondizia.
**
Aveva preso appuntamento con Kim vicino casa della ragazza, ma non così tanto da far credere al padre che lei si vedesse di nascosto con Carter, quest’ultimo era rimasto ancora scioccato per il comportamento avuto dalla ragazza che lui stesso considerava quasi una santa. Beh erano cose che valeva la pena scoprire.
Raggiunse il luogo dell’incontro, indossava la stessa canotta grigia del pomeriggio. I suoi capelli erano tirati indietro, mentre sulle braccia muscolose ancora vi erano segni di olio del motore, magari avrebbe approfittato dell’occasione per farsi una doccia con la ragazza.
Quando lei si presentò all’angolo della strada, il ragazzo si era appena acceso una sigaretta che aveva stretta fra il medio e l’indice, aspirando generose boccate di quella che ormai era la sua droga. Seppur in passato facesse uso di sostanze illegali, aveva completamente smesso una volta in cella. I primi periodi erano stati duri e Carter ancora ricordava con amarezza tutto quel tempo trascorso nella cella d’isolamento a fissare una parete grigia e una porta da cui nessuno sarebbe mai entrato. Pensava che sarebbe morto lì, o peggio, che sarebbe impazzito, ma il suo sragionamento arrivò in un momento in cui non ci sperava più...
«Ehi Carter. » Kim si era avvicinata all’uomo e gli aveva posto una mano sulla spalla. Il ragazzo preso alla sprovvista dai suoi pensieri scosse il capo per chiarirsi le idee e prima di rispondere al saluto, si concedette un attimo per ammirarla.
Era certamente bellissima; i capelli marroni corti spettinati sul viso, indossava una maglietta leggera color lavanda con una scollatura profonda di pizzo e dei jeans chiari e strappati sulle caviglie, classico abbigliamento di adolescente.
«Ciao bambolina. » La salutò lui alzando il sopracciglio, decisamente compiaciuto di ciò che stava osservando. Le diede velocemente una rapida occhiata, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. La ragazza sembrò apprezzare tanto che si avvicinò a lui con modo molto provocante.
«Allora dove vuoi portarmi? »
«A casa mia, ovviamente. Hai detto cosa volevi da me. » Ribatté lui a quella domanda. Non aveva di certo pensato che lui la portasse in giro. Non lo faceva MAI.
«Pensavo che prima… »
Prima che potesse terminare la frase, lui scoppiò a ridere, con quella sua risata rauca che partiva dal fondo della sua gola. Scosse più volte la testa, ridendo quasi dell’ingenuità di quella ragazza. Alzò lo sguardo e la guardò negli occhi.
«Bambolina, non ho intenzione di portarti da nessuna parte. Avevi detto che volevi UNA sola cosa, io ti accontento. Non si esce, non si va da nessuna parte. »
Kim dal suo canto non poteva desiderare di meglio. Carter era sempre stato la sua ossessione, dalla prima volta che lo aveva visto lavorare da suo padre. Era rimasta a osservarlo tutto il giorno con l’aria sognante e le erano accorse diverse settimane prima di prendere coraggio per dirgli anche solo ciao. Suo padre non l’avrebbe visto come una cosa positiva. Così a quelle parole si limitò a scrollare le spalle e acconsentire alla richiesta.


**
Quando la porta si aprì, fece un sinistro rumore cigolante, che avrebbe fatto invidia a qualsiasi film dell’orrore in commercio. La porta era sicuramente malandata e avrebbe dovuto cambiare i cardini, ma aveva troppo poco tempo per pensare a quello.
Con un gesto della mano, fece segno alla ragazza di precederlo all’ingresso della sua dimora che puzzava sempre di chiuso. Ogni oggetto o superficie erano in ordine, tutto tirato a lucido e non c’era ombra di confusione in casa.
«Sembri un maniaco dell’ordine. » Disse lei mentre contemplava la parte della casa che subito le saltava all’occhio una volta entrati in casa.
L’uomo chiuse la porta a chiave e la poggiò nel mobiletto all’entrata, togliendosi subito le scarpe.
«Lo sono. »
«Sei di poche parole? » Domandò lei e si strinse nelle spalle per via di un leggero venticello che le aveva appena solleticato la pelle e notò che proveniva dalla camera da letto.  Ancora affascinata da quella casa che era così piccola rispetto alle sue abitudini, si guardò intorno mentre lui la raggiunse velocemente.
«No. Non amo discutere tutto qui. » Si avvicinò lesto alla ragazza, poggiandole una mano sul fianco in modo da premere la sua schiena contro il proprio petto.
Con la punta delle dita le sfiorò il collo, facendolo piegare appena di lato in modo da potervi poggiare le labbra sopra. La pelle della ragazza s’illuminò di un colore violetto per via del neon che lampeggiava fuori la finestra che indicava il bar sotto casa.
Carter udì il respiro della ragazza farsi sempre più veloce e abbandonarsi alle sue leggere carezze. Quest’ultimo ne approfittò risalendo lungo il suo collo, questa volta con dei morsi finché arrivò al suo orecchio.
«Sei vergine? Mi piace farlo con le ragazze vergini. » Sussurrò lui all’orecchio della ragazza prima di morderle il lobo e l’altra mano frettolosamente andò a sbottonarle il bottone dei jeans in modo di abbassare appena la zip.
La ragazza a quella domanda scoppiò in una risatina scampanellante.
«Ormai non lo sono più da tempo. Mi dispiace deludere la tua aspettativa, dovrai accontentarti. »
A quelle parole si sottrasse per un attimo dal tocco dell’uomo che era già preso da quella situazione. L’occhio della ragazza andò a cadere proprio lì, sulla patta dei pantaloni di Carter dove si poteva notare un certo rigonfiamento.
«Come mai non fai mai conversazione? Sai, potremmo conoscerci e magari piacerti. »
«Mi piaci già. »
«Davvero? » Il tono della ragazza per un attimo assunse una tonalità meravigliata, mentre il suo cuore correva la maratona nel petto di lei. Forse quello era un sogno, era il destino che le stava dicendo qualcosa.
«Insomma, vedi! » Esclamò lui con una risata e s’indicò i pantaloni che erano sempre più gonfi al centro. Senza che potesse aggiungere altro, si avvicinò nuovamente a lei e cominciò ad alzarle la maglietta, lasciandola solo con il reggipetto e i jeans appena sbottonati. Finalmente egli poteva dare un valore alla sua immaginazione, svelando una parte che lui aveva sempre fantasticato.
«Non intendevo in quel senso, comunque. » Aggiunse Kim con l’aria offesa.
«Oh, se intendi quello sei fuoristrada bambolina. Io non m’innamoro se è questo ciò che vuoi. » A quella parola la sua faccia assunse un’aria schifata, come se sol quel pronunciare fosse per lui una vergogna.
«Sei mai stato innamorato? »
«No. »
«Allora come fai a saperlo? »
«Lo so e basta. »
«Ma… »
«Ascolta basta ok? Mi sono stufato di rispondere alle tue domande. » Tutte quelle domande lo avevano davvero infastidito tanto che scrollò le spalle e fece ricadere le braccia lungo il corpo, era rassegnato. Non avrebbe scopato con lei, né quella sera né mai. Sapeva già cosa lei volesse da lui. Voleva quelle storie d’amore che si leggevano nei libri e si vedevano nei film. Lui non era nulla di tutto quello, era lo stronzo di turno che faceva soffrire le donne e provava gusto nel farlo.
«Mi dispiace. »
«Mettiamo in chiaro queste cose. » Cominciò il ragazzo servendosi del Jack Daniel prelevato dallo stipetto in cucina. «Io non sarò il tuo ragazzo. Non ti vengo a prendere a scuola. Non ti mando messaggini e non ti faccio regali. Non mi presenti alle tue amiche e non farai nient’altro che la gente possa pensare che tu ed io stimo insieme. Sesso. Questa è la parola “chiave”, sesso. Tu ed io faremo sesso questa notte. Probabilmente domattina me ne andrò dal letto senza nemmeno che te ne accorga. Non posso evitarti perché lavoro per tuo padre, quindi devo vederti per forza. »
Quelle parole entrarono in profondità nella ragazza che sembrava aver compreso finalmente che tipo era Carter.  Non poteva aspettarsi un atteggiamento diverso, d’altronde cosa voleva di più? Aveva l’occasione di farsi possedere da quel ben di Dio ed essere sua per una notte, anche se Kim sapeva che non avrebbe resistito alla tentazione di riavere la ragazza.
Non rispose subito, rimase un attimo in silenzio per cercare le parole giuste da dire a quell’uomo che sembrava veramente un Dio, perfetto nella sua malvagità e interessante per i suoi modi burberi di fare. Non poteva negare che quell’atteggiamento la eccitava da matti. Così fece l’unica cosa che il ragazzo poteva veramente gradire. Cominciò a spogliarsi lasciandosi completamente nuda.
L’uomo posò i suoi occhi sul corpo perfetto della ragazza, un fisico candido che sembrava ancora immacolato. Due seni che entravano perfettamente nelle mani di Carter e lui moriva dalla voglia di costarlo. Sentiva i pantaloni farsi sempre più stretti e opprimenti che anch’egli si spogliò rivelando le nudità alla ragazza. Entrambi si guardarono a lungo, scrutando l’uno il corpo dell’altra, avendo così voglia di toccarsi che non riuscivano a far altro che guardarsi.
Il primo passo lo fece Kim, che si avvicinò a Carter poggiando una mano sul suo petto virile e lo spinse sul divano disponendosi cavalcioni su di lui. La ragazza ci sapeva fare, Carter doveva ammetterlo, conosceva come stuzzicarlo. Con dei movimenti lenti e sensuali stimolò la sua eccitazione, facendo in modo che egli già potesse pregustarsi il momento in cui l’avrebbe posseduta e sentito le sue urla riempire quel piccolo locale.
Si avvinghiò alla ragazza, passando un possente braccio intorno alla sua vita sottile e la sollevò appena dal proprio bacino, spingendolo poi in avanti e in un attimo fu completamente sua.

**


Il rumore della vita di strada svegliò Carter alle sette di mattina. Apri piano piano gli occhi, rendendosi conto che aveva dormito per terra con accanto alla ragazza ancora nuda. Quella notte si erano dati proprio da fare, non poteva negarlo; il divano, il tavolo, il davanzale, contro il muro, il bancone della cucina e perfino sul mobiletto della Tv. Aveva passato la notte di sesso migliore della sua vita.
Piano piano scivolò via della ragazza, poiché per qualche strana ragione ella si era addormentata sopra di lui e per tutta la notte erano stati a contatto. Ennesima cosa che lo urtava, ma ci passò su solo perché aveva fatto di tutto con il corpo di quella ragazza. Era meravigliato dal fatto che lei le sembrava così inesperta e invece sapeva più cose di Carter.
Ancora nudo, si diresse verso il bagno, per farsi una bella doccia e togliersi dalla pelle l’odore di quella ragazza. La sua faccia per essere post coito era davvero in ottimo stato, il suo viso era così riposato e soddisfatto come non lo era mai stato. Dopotutto quell’esperienza gli aveva sicuramente giovato.
L’acqua cominciò a scorrere all’interno del piano doccia, provocando quel rumore che era così rilassante. Non aspettò molto e s’infilò sotto il getto tiepido e chiuse gli occhi, dimenticandosi di ogni cosa.
Non pensò veramente a nulla, era facile per lui chiudere la mente e dimenticarsi di tutto il resto ma quel momento di pace e quiete durò veramente poco quando sentì il rumore della cabina doccia aprirsi, rivelando la ragazza nuda che si fece posto nella doccia con Carter.
«Cosa ci fai qui? » Stranamente la sua voce risultò divertita e non schifata, di ciò se ne meravigliò anche lui.
«Devo pur lavarmi anche io, no? » Disse lei in tono provocatorio, cominciando ad accarezzarsi con una mano le nudità, facendo scivolare in modo poco naturale la mano sui suoi seni prosperosi e massaggiarne uno.
Carter quella mattina non finì di stupirsi e si ritrovò di nuovo a sentirsi eccitato per quella donna. Si odiò per un momento, ma ciò che si disse a se stesso era che la “Carne è Carne” e poteva cedervi a qualsiasi istinto.
«Noto che ti sei svegliato Carter. » Sussurrò lei con malizia avvicinandosi all’uomo e passandogli distrattamente una mano sul basso ventre.
«Non faccio il bis questa è la regola. »
«Le regole servono per essere violate. » Continuò a sussurrare lei.
Lui non le prestò molta attenzione che in un attimo la spinse contro la parete della doccia. Dio se la voleva ancora. Lei gli rivolse uno sguardo di sfida e alzò la mano che aveva dietro la schiena, si portò alle labbra un qualcosa e Carter sorrisi fra sé e sé.
Kim strappò velocemente la bustina del preservativo ed ebbe appena il tempo di dire: «Io non sono come le altre. » Che un gemito le bloccò le parole in gola.
 


Ringrazio chiunque stia leggendo la mia storia. Se qualcuno vuole lasciarmi delle recensioni, sarei davvero grata. E’ una storia a cui tengo veramente tanto, visto che è nella mia testa da circa due anni e mezzo. In poche parole vorrei sapere se fa schifo. xD Cerco di aggiornarla il più presto possibile! Grazie ancora chiunque legga! ^^

Baci. - Sally

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


 
CAPITOLO 3
 

Un sussurro, un sospiro e infine un gemito riempirono la buia stanza da letto, dalla piccola e quasi misera casa che Carter aveva affittato in un quartiere di Brooklyn.
Carter rotolò sulla schiena, distendendosi sulle lenzuola beige del letto matrimoniale che per la prima volta in vita sua stava condividendo con una donna da più di un mese e mezzo. La donna in questione è la figlia del suo capo: Kimberly Smith.
L’uomo non avrebbe mai immaginato che avrebbe trovato una donna che l’avrebbe fatto impazzire a tal punto da decidere di passare con lei tutte le notti per un tempo che era decisamente più lungo di una sola notte senza importanza.
Non si potevano certo definire fidanzati, poiché Carter non l’aveva mai nemmeno baciata, figuriamoci averle chiesto di stare con lui. Il loro rapporto era strettamente fra quelle quattro mura; si vedevano, scopavano e poi lei tornava a casa, fingendo per tutto il tempo che Carter non le mettesse le mani sul suo corpo, ancora in fiore.
«Carter… ogni volta è sempre meglio della precedente. Sei un Dio. » Sussurrò la ragazza dopo essersi ripresa dal forte orgasmo che l’aveva travolta pochi istanti prima.
La ragazza dal canto suo era felice di ciò che era accaduto fra loro, ma allo stesso tempo non poteva dire di esserne particolarmente entusiasta; anzi, tutt’altro. Kim non era un tipo romantico, ma non poteva nascondere che aveva un debole per quell’uomo di sei anni più grande di lei. Non era perché fosse più grande o perché fosse più esperto, era decisamente perché lei ne era follemente invaghita.
I sentimenti che attraversavano la ragazza erano complessi e alcune volte rischiosi per se stessa. Era ben consapevole che ogni sentimento nei confronti di chi si coricava ogni notte con lei, non sarebbero mai stati ricambiati e non sarebbero mai stati accettati da suo padre.
«Me l’hanno detto spesso, sì. » Disse con un sorrisetto compiaciuto il ragazzo. S’issò sul gomito per osservare la ragazza, una volta sdraiata accanto a lui. Si concesse il privilegio di osservarla; il suo viso era fresco e dolce, i suoi lineamenti erano delle curve perfette ove Carter ci sarebbe morto ben volentieri, i seni due rotondità perfette che egli adorava baciare e toccare con tutta l’avidità possibile. Era la donna perfetta, se solo non fosse stato quel solo piccolo e unico inconveniente: lei probabilmente si stava innamorando di lui.
La buona coscienza di un uomo normale, avrebbe consigliato chi laddove non ci fossero stati sentimenti ricambiati, egli avrebbe dovuto lasciar andare la ragazza per evitare di spezzarle il cuore, ma la coscienza di Carter semplicemente taceva, tanto che per un periodo pensò di non averne mai avuta una.
Il problema che Kim si fosse innamorata di quella figura così burbera ma sostanzialmente così sexy, non gli sfiorava nemmeno per un istante. Non si preoccupava dei sentimenti della ragazza, perché in cuor suo sapeva che non si sarebbe mai innamorato. Certo, era stata la prima fino a quel momento di aver avuto il piacere di raccontare come fosse avere una relazione – se così si poteva chiamare – con termini più lunghi da parte dell’uomo. Egli non dormiva mai più di una volta a settimana con lei, non le teneva mai la mano durante i loro rapporti e molte volte si asteneva da guardarla negli occhi, lo faceva solo nel momento in cui lei era nel pieno dell’apice del piacere, ma solo per bearsi del suo viso e dei suoi occhi intrisi di piacere; per altro non gli importava di stabilire un qualche contatto con la ragazza.
«Posso farti una domanda? »
«Se proprio devi. » Rispose lui con un’aria scocciata. Ed erano ritornate le solite domande, lui le odiava a morte. Odiava dover rispondere, il fatto di essere costretto a fare conversazione quando odiava qualsiasi rapporto con le persone che non fosse di affari o di sesso.
«Perché fino ad ora non mi hai mai… ba-baciata? »
«Non ne trovo l’utilità. »
«Non credi che sia più intimo fare sesso con una persona che baciarla? »
«Noi siamo intimi. » Tagliò corto lui, già stufo della piega che aveva preso quel discorso.
Per un attimo, entrambi tacquero, nessuno dei due osò proferire parola, anzi Carter per evitare il tutto, si girò di lato dando le spalle alla ragazza che rimase alle sue spalle a pensare.
Egli non la sopportava quando gli faceva delle domande, ma allo stesso tempo non riusciva a smettere di vederla, non perché ci fosse un qualche interesse dalla propria parte, ma semplicemente perché lei lo attirava in modi che non aveva mai creduto possibile. Più l’aveva e più la desiderava. Appena sentiva l’ultimo gemito della ragazza, subito avvertiva la voglia di sentirne ancora, sentendosi per la prima volta VIVO.
Forse era proprio lì che il problema era radicato; il sentirsi vivo. Il fatto che continuasse continuamente di andare da donna a donna era un modo per esprimere la sua voglia di vivere, sentirsi parte di un ciclo di emozioni e sensazioni che altrimenti non avrebbe mai avuto.
Le emozioni che ricercava, però non erano le stesse che gli avrebbe dato una relazione con una donna. Non s’immaginava proprio a fare il padre, nemmeno il marito e quindi nemmeno il fidanzato. Non riusciva a vedersi nei panni del fidanzato premuroso che si preoccupa della ragazza, di andare e prenderla a lavoro o farle regali a ogni ricorrenza. Il brivido? Il brivido di avere a che fare con tante donne tante da perderne il conto, di avere a che fare con ragazze che non sanno nemmeno che lavoro fa, come ha passato la sua infanzia e la vita prima di fare la sua conoscenza. Quello è il vero brivido che Carter cerca dal sesso opposto.
«Hai capito a che intimità mi riferisco. »
«No. Non credo. »
«Sì che lo hai capito. Avanti Carter… perché devi comportarti così, sai che esistono cose migliori da avere solo avventure di sesso. »
L’uomo si mise a sedere, rivolgendo l’attenzione alla ragazza, la guardò negli occhi così profondamente che quasi la turbò. Il suo sguardo non era per niente dolce e comprensivo, anzi aveva una vena di cattiveria che quasi Kim ne fu impaurita.
«Avanti! Adesso parla ne sono curioso. »
«Beh, il fatto di avere una persona che possa amarti…»
«Impossibile. »
«Fammi finire di parlare! » Sbottò la ragazza issandosi a sedere anch’ella per guardare Carter.
Irato di rabbia, anche se non era una rabbia, del tutto giustificata scattò in piedi, mostrando il suo colpo scultoreo e possente alla ragazza. Sembrava veramente una divinità Greca, sembrava baciato dagli angeli se non fosse stato per quella cattiveria assurda che era impregnata nel suo cuore.
«Mi hai rotto ok? Ma cosa diavoli sei una psicologa? »
«Se tu mi facessi parlare invece di blaterare ogni volta. »
«Per farti dire minchiate? L’amore, fidanzatini, pucci pucci? » La prese in giro gesticolando con le mani dinnanzi a sé.
«Non dico che dobbiamo stare insieme, ma almeno di fare un po’ di conversazione.»
«Non ho bisogno di sentirti parlare, se volevo sentirti parlare avrei preso un pappagallo. Almeno sapevo che avrebbe detto cose intelligenti una volta che apriva quel dannato becco!»
Dopo di ché andò verso i piedi del letto e raccolse tutti i vestiti della ragazza e glieli gettò letteralmente in faccia, esortandola in quel modo ad abbandonare la casa del ragazzo.
«Perché fai così?»
«Non ho bisogno di te. Non ho bisogno di parlare e non ho bisogno delle tue schifose attenzioni. Ok?»
Quelle parole colpirono nel segno nel cuore della ragazza che si sentì così usata da scoppiare in lacrime. Gli occhi verdi cominciarono a riempirsi di lacrime che velocemente scivolarono giù per le candide guance screziate di rosso. Pianse in singhiozzi mentre il ragazzo la guardava senza la minima espressione sul volto. Aveva visto tante donne piangere, lei era una di loro, non aveva nulla di particolare.
Senza degnarla di uno sguardo la lasciò sul letto a piangere e infilandosi un paio di pantaloncini si diresse verso la finestra, arrampicandosi per ritrovarsi sulle scale antincendio del palazzo.
Dopo vari istanti i singhiozzi cessarono e la porta di casa sbatté.
Carter trasse un lungo e intenso sospiro, finalmente era finito tutto. Non l’avrebbe più chiamata e se il padre l’avesse licenziato non se ne sarebbe importato. I suoi sentimenti non dovevano prendere il sopravvento, non poteva premettersi di provare qualcosa, perché ogni volta che ci provava qualcosa, glielo portava via.

**

Da quei singhiozzi disperati erano passati già due mesi. Settembre era alle porte e stava portando via l’ultimo straccio di estate di quell’anno.
Ogni tanto Carter pensava ai suoi natali, pensava alla sua città riflettendo sul fatto che non avrebbe mai più rivisto i luoghi in cui era cresciuto.
Ogni volta che ci pensava, però era costretto anche a ripensare ai momenti difficili della sua adolescenza; al momento in cui aveva cominciato ad assumere la cocaina fino a quando si era ridotto a tentare il suicidio in tutti i modi possibili e immaginabili.
Sembrava che più voleva uccidersi più trovavano un modo per servargli la vita, quindi dopo essere stato ricoverato d’urgenza per un Overdose, decise di smettere di provare a uccidersi, impiegando il suo tempo presso l’organizzazione criminale per cui lavorava.
Tim e Ostroff erano i suoi compagni più fidati, insieme facevano tutti gli incarichi che il suo capo gli affidava. La fiducia che aveva riposto in entrambi era veramente alta, fin quando giunse quella fatidica sera che la polizia arrestò i tre e per colpa di un proiettile sparato nel momento sbagliato Ostroff, perse la vita, lasciando dietro di sé un enorme senso di vuoto che Carter non sarebbe mai riuscito a colmare. Lui era stato come un fratello, lo aveva salvato in determinate circostanze nella sua vita che gli sarebbe stato riconoscente per la vita, anche se era morto e i favori non servivano più.
Quelli per Carter erano pensieri troppo intensi da pensare un mattino come un altro di un Lunedì passato a fare la fila da Starbucks per il suo caffè al caramello.
La ragazza dietro al bancone era particolarmente carina, aveva avuto modo di guardarla per tutto il tempo mentre tagliava su un espositore una torta ai lamponi e more.
Quando finalmente fu il suo turno di ordinare la guardò con un sorriso, tanto che spinse la ragazza a scrivergli il proprio numero sul colletto di cartone del bicchiere. Lo porse al ragazzo sorridendo a trentadue denti e lui le ricambiò il sorriso con lo stesso ardore, contendo di aver fatto un’ennesima conquista.
Solitamente una volta preso il caffè, Carter si dirigeva a lavoro, ma quella mattina aveva stranamente il giorno libero, così si concesse di sedersi a una delle poltroncine del locale, lontano dal chiacchiericcio delle persone e si concentrò alla lettura della pagina sportiva.
«Dannazione, quest’anno il campionato hanno intenzione di perderlo? » Bofonchiò fra sé e sé mentre era intento a prendersela con il giornale per i risultati di una partita di Baseball andata male.
«Presumo proprio di sì. »
Carter alzò lo sguardo per vedere da dove arrivasse quella voce femminile, quando si stupì di trovare una ragazza seduta al suo stesso tavolino che mangiucchiava una torta rossa con sopra una spruzzata di cacao.
«Dolcezza potevi almeno chiedermi se potevi sederti. » Carter la guardò e s’incantò sugli occhi nocciola della ragazza. I capelli marroni lunghi e perfettamente piastrati, le ricadevano quasi all’altezza della vita, mentre le sue guance erano sempre di più colorate di rosa, rendendo l’espressione di quella ragazza così innocente. «Non ti avrei detto di no.»
«Punto uno, non mi chiamo dolcezza. Punto due, ti sei seduto al mio tavolino. Avresti dovuto almeno chiedermi se potevi sederti, no? » Lei piuttosto divertita gli fece il verso e ciò fece ridere anche Carter di cuore, cosa che succedeva sempre così raramente.
«Questo tavolino era vuoto. »
«Certo ero a fare la fila per questa torta, è deliziosa. » Rispose lei mandando l’ultimo boccone e poi si ripulì le labbra con la punta della lingua.
«Sono sicuro che tu lo sei di più. » Disse lui in modo malizioso, posando il giornale sul tavolo e mangiandosi quasi con gli occhi la ragazza. Lei scoppiò a ridere e quella situazione fece per un attimo rimanere Carter perplesso. Okay, i suoi metodi non funzionavano, com’era possibile?
«Scusa non volevo riderti in faccia… solo che sei divertente.»
Lui la guardò perplesso non riuscendo a decifrare la ragazza a cosa stesse realmente pensando, ma per di più esitante poiché non riusciva a fare colpo su di lei. Com’era possibile? Lui piaceva a tutte!
«Adesso devo andare. E’ stato un piacere. »
«Ehi, no. Dimmi almeno come ti chiami bambolina. »
«Il mio nome sicuramente non è bambolina. » Replicò lei facendogli l’occhiolino, dopodiché prese la borsa nera borchiata e se la mise in spalla lasciando Carter con la bocca aperta e l’espressione stupefatta sul volto.

 

 
 
Mi scuso per eventuali errori nei capitoli precedenti, ma purtroppo l’ispirazione mi colpisce sempre di notte. La storia sta prendendo vita in questi capitoli, mentre nei precedenti era considerata ancora una sorta di prologo. La vera storia avrà corso più nel tempo e cerco di farla meno banale possibile.
Se arriviate a leggere questo, vuol dire che mi state in un certo senso seguendo e voglio ringraziarvi per il tempo impiegato a leggere questa storia che alcune volte mi soddisfa altre no. Come ho detto precedentemente, è la prima volta che pubblico qualcosa di mio e lo sottopongo alla visione di qualcuno che non sia me medesima, quindi mi piacerebbe sapere un po’ cosa ne pensiate. Ringrazio ancora ogni singolo lettore.
(Mi scuso anche se la lettura risulta difficile, ma non sono brava con i codici e nemmeno con l'editor. ahahah Sono inceppata, perdonatemi!)
Spero di aggiornarla con costanza. ^^
Baci –Sally.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
 
«Hai la testa fra le nuvole Blacknight. » Lo aveva rimproverato Josh una mattina.
In effetti, Carter stava aprendo il cofano di un’automobile prima di rendersi conto che aveva controllato il motore altre cinque volte, prima di arrivare a una sesta.
Scosse la testa facendo smuovere i capelli neri che ero fissati al resto da una generosa manciata di gel.
«Avrei bisogno di un giorno libero forse. » Dichiarò il ragazzo, portando la ciocca ribelle insieme con le altre.
Richiuse il cofano della macchina e si accinse a prendere uno straccio per ripulirsi le mani sporche di olio.
«Sai, sono stranito come mia figlia non passi più a lavoro. Insomma amava tanto venire qua. » Annunciò l’uomo una volta che Carter lo ebbe raggiunto per prendere una sorsata d’acqua.
In realtà era stata una fortuna che la ragazza avesse smesso di essergli fra i piedi. Erano ormai passati due mesi da quando lei aveva sbattuto la porta di casa, fuggendo via senza chiamare più; da quelle parole Carter potette intuire che non aveva raccontato nulla al padre, il che era un mero sollievo.
Lui si strinse nelle spalle, non sapendo cosa dire e anche perché la conversazione non era di suo gradimento, non voleva parlare di ciò con il suo capo.
«Pensavo che lei fosse interessata a te. Insomma non fraintendermi. » Cominciò avvicinandosi a Carter per poi mollargli una sonora pacca sulla spalla. «Sei un cazzone, non mi saresti piaciuto come genero. » Pronunciò quelle ultime parole con un sorrisetto ironico, senza sapere che lui si era scopato per bene sua figlia.
«Nemmeno tu saresti stato granché come suocero. » Ribatté prontamente.
L’uomo rise tornando poi al suo lavoro, lasciando così Carter libero di tornare all’auto che stava cercando di aggiustare.
In realtà la sua mente era parecchio impegnata, non che pensasse a cose importanti ma il suo pensiero era fisso a quella ragazza che aveva incontrato da Starbucks il Lunedì precedente.
Naturalmente si era portato a letto la cassiera la sera stessa del loro incontro, a sua detta era stata anche abbastanza soddisfacente, ma non molto da permetterle di giacere con lui ancora una volta.
No, il suo pensiero era fisso su quella ragazza che era stata così restia alle sue avance. Si era talmente fissato che aveva passato tutta la settimana al locale in attesa che lei arrivasse per parlarle ancora, anche se la parola era il ragguaglio che meno attendeva dalla giovane; ma non avvenne nulla, non si fece vedere.
Lo scampanellio della porta d’ingresso distrasse il ragazzo dai propri pensieri, alzando poi lo sguardo per notare un giovane entrare con aria spavalda e masticando una cicca con un’aria che Carter potette definire quasi di presunzione.
Gli rivolse uno sguardo indifferente, prima di avvicinarsi e chiedere cosa volesse.
«Sono qui per il cartello. » Profferì il giovane indicando un punto dietro di se con il pollice.
Josh alcune mattine prima aveva apposto un cartello come quello che aveva colpito Carter il primo giorno, perché riteneva opportuno che una nuova persona si aggiungesse all’equipe.
«Sei bravo con i motori? Qui c’è molto da fare. » Disse Carter ergendosi in tutta la sua figura e tirando appena il petto in fuori.
«Ho già lavorato in questo settore. Tu sei il capo? » Chiese il ragazzo dinanzi a sé. Aveva un accento inglese e una voce profonda che trasudava di sicurezza.
Per quanto l’asocialità di Carter gli permettesse di prendere in odio chiunque non fosse una donna, quasi quel ragazzo gli stava simpatico, aveva un caratterino che gli piacque davvero molto, non uno dei soliti uomini smidollati con cui aveva avuto a che fare tempi addietro.
«Sono io il capo. » Annunciò Josh con voce più alta del normale.
Carter si fece da parte per far passare il ragazzo verso il suo datore di lavoro, per poi raggiungere entrambi in modo d’assistere al colloquio.
Il colloquio del giovane fu molto diverso da quello che fece Carter; ricordava perfettamente che ne era rimasto così intimorito che gli assegnò il posto senza smettere di sudare nemmeno un attimo.
Dopo soli dieci minuti, Josh si convinse che il novellino era l’uomo che faceva a caso loro. Stranamente Carter ne fu contento, non che amasse condividere qualcosa con la persona appena arrivata, ma aveva una mezza sensazione che gli sarebbe andato subito a genio.
 
«Sono Aaron Kerr comunque. » Si presentò a Carter porgendogli la mano destra, in modo che quest’ultimo la afferrasse.
«Carter Blackinght. »
«Vengono molte ragazze qui?»
«Sì, vengono per me. »
«Ne sei proprio sicuro? » Chiese Aaron sfoggiando un sorriso, alzando un sopracciglio.
«Vedrai. Le donne mi muoiono dietro, come le pere cadono dall’albero. »
Aaron scoppiò a ridere, cosa che stranamente fece anche Carter. Entrambi risero di cuore e poi si ricomposero all’istante.
«Tacche sul muro? »
«Ci sto. »
«Affare fatto. » Acconsentì Carter con un sorrisetto vittorioso e stringendogli nuovamente la mano, come per suggellare quell’accordo.
 
***
 
 
Due settimane dopo il muro dell’officina dove Carter e Aaron lavoravano, era già segnato da quelle tacche, che entrambi i ragazzi ci tenevano a puntualizzare.
Erano diventati buoni amici. Ogni sera si vedevano per uscire e bere una birra al bar all’angolo, raccontandosi i resoconti della giornata.
Aaron non aveva mentito, era davvero un fenomeno con le donne, un duro avversario per Carter; il suo metro e ottanta, capelli marroni e occhi dello stesso colore, rendevano quel ragazzo irresistibile, se tutto ciò era sommato alla sua voce profonda e il sorriso smagliante che era solito sfoggiare alle ragazze.
«Cazzo amico! Ti avevo detto che mi sarei fatto quella bionda. » Esclamò vittorioso Aaron una sera seduti al bar, davanti a una bella pinta di birra.
«E’ stato sleale, era quasi mia. » Ribatté Carter alzando il suo boccale e buttando giù una generosa sorsata.
«Ti sei messo a parlare anche con quella rossa. Lo sai che chi si accontenta gode? Devi fare sempre l’ingordo. » Lo provocò Aaron facendo lo stesso con il suo bicchiere.
«Non è colpa mia se amo i triangoli. »
«A quanto siamo? »
«Mhh… Se non erro con la bionda, siamo sei a cinque per me. »
«Amico cosa blateri?! » Aaron si voltò per richiamare l’attenzione di una cameriera affinché portasse un ennesimo giro per entrambi. Non erano ancora del tutto sbronzi. «La tettona non vale per due. »
Carter scrollò le spalle e abbassò la testa guardando il suo bicchiere. «Ops. »
Entrambi scoppiarono a ridere di nuovo di gusto, non fermandosi nemmeno quando la cameriera portò a entrambi un altro boccale.
«Ehi bellezza a che ora finisci? » Chiese Carter alla cameriera biondina che si era avvicinata con le birre.
La ragazza lo squadrò e quasi fece una faccia schifata.
«Bellezza? Ma cosa sei uno scaricatore di porto? » Chiese lei con indignazione, portandosi una mano sul fianco e spostando con l’altra i capelli biondi dietro ad una spalla.
«Amico questa è tosta. » Disse Aaron battendo la mano sul tavolo ripetutamente, quasi piegato in due dalle risate.
Carter non voleva fare cilecca un’ennesima volta con una ragazza, gli era già bastato con la ragazza che aveva incontrato, quella che lo aveva colpito tanto. Cercò di recuperare tutto il suo charme e la guardò negli occhi con il suo sguardo glaciale cui le donne non potevano resistere.
La bionda, che sembrava più sveglia di quanto pensasse, si limitò a sbuffare alzando gli occhi al cielo.
«Peccato che sei un cliente, ti avrei tirato una scarpa dietro, ma non credo che ti saresti fatto qualcosa… sai con il testone vuoto che ti ritrovi. » Terminò con un’aria di pura soddisfazione la giovane.
Aaron appena udì quelle parole non perse l’opportunità di scoppiare a ridere così fragorosamente che fece voltare un gruppo davanti a loro. Carter invece rimase colpito dal temperamento della ragazza che le sorrise, non credendo possibile che la partita fosse già persa in partenza.
«Alexis giusto? Senti, io e il mio amico siamo qui per divertirci. Non è che vuoi unirti a noi? » Suggerì Carter indicando con un cenno della testa Aaron che si era appena ripreso dal suo attacco eccedente di risa.
L’indignazione della ragazza fu così tanta che in un attimo il palmo della mano destra arrivò con uno schiocco sordo sulla guancia di Carter, facendogli voltare il viso dalla direzione opposta.
«Sei un porco! » Esclamò con tutta l’indignazione possibile scuotendo il capo e per un attimo Carter temette di vederle del fumo uscirle dalle orecchie.
«Entrambi lo siete! » Concluse indicando anche Aaron che era rimasto a osservare la scena con la bocca aperta. Con una botta di ciuffo nella direzione dei ragazzi, la ragazza li congedò lasciandoli soli e imbambolati con le loro birre ancora schiumose.
«Quella ragazza me l’ha fatto venire duro. » Affermò Aaron spezzando quel silenzio che regnava fra i due amici per troppo tempo.
«Non ti facevo tipo da pazze. » Convenne Carter prendendo il suo nuovo bicchiere di birra.
«Fino a poco fa non la consideravi una squilibrata. » Asserì Aaron facendo altrettanto con il suo bicchiere.
«Non avevo valutato il soggetto. »
«Scommetti che io riesco a farmi dare il numero? » Propose Aaron alzandosi in piedi.
Il ragazzo amava particolarmente le sfide. Lo faceva continuamente. Ogni volta proponeva a Carter le cose più impensabili ed entrambi si divertivano a sfidarsi quando all’officina non arrivavano abbastanza macchine da tenerli occupati.
Carter dal canto suo apprezzava quel giovane. Era di due anni più piccolo di lui, eppure non sembrava meno esperto. Si concorrevano alla grande quando si trattava di donne e anche di motori.
Aaron gli andava veramente a genio ed erano secoli che non succedeva; solitamente ogni persona che Carter aveva avuto la sfortuna di trovare erano stati fin troppo invadenti da chiedergli cosa avesse fatto nella vita. Non era solito a tutti presentarsi come tossicodipendente ed ex detenuto, preferiva che la gente pensasse che fosse un donnaiolo invece che dilungarsi a raccontare scomodi aneddoti. Aaron invece era diverso, ammirava Carter e non si era mai spinto oltre nel fare domande, ed era ciò che bastava all’uomo affinché andassero d’accordo.
Pochi minuti più tardi Aaron arrivò trionfante sventolando un fazzolettino che avesse tutta l’aria di sembrare un numero di cellulare.
«Sei a cinque, amico. » Trionfante Aaron sfoggiò il fazzoletto con il numero quasi come se fosse stato un vessillo.
«Non vale, non te la sei portata a letto. »
«Lo farò. Lo farò. Devo lavorarmela bene. E’ un bocconcino prezioso, devo assaggiarla con calma. » Convenne e si sedette per buttare già tutta in un sol fiato un quarto di birra.
 
 
***
 
Carter fece una faccia schifata quando Aaron e Lexi si baciarono proprio dinnanzi a lui in officina.
Il ragazzo nemmeno come se avesse avuto una palla di cristallo per indovinare la sorte che lo avrebbe atteso.
I due si frequentavano da ormai un mese e Carter aveva perso il suo compagno di giochi. Le tacche vicino al muro erano state abbandonate per essere rimpiazzate da continui e frequenti visite in officina della bionda, dove entrambi si scambiavano dolci effusioni. Vedendo Aaron, non l’avrebbe mai detto che fosse anche un tipo romantico. Spesso la accompagnava a lavoro e le regalava mazzi enormi di orchidee, scrivendole anche messaggi così stucchevoli che a Carter gli venne il mal di stomaco.
Cercava di negare a sé stesso che dopotutto erano carini assieme. Si vergognò pure di aver fatto nascere quel pensiero nella propria mente, non era il tipo che tifava per una coppia e nemmeno quello che rimaneva a guardare due innamorati con aria sognante, anzi, li guardava ma con ribrezzo per ciò che condividevano.
 
«Quella donna mi ha cambiato la vita. » Aaron pronunciò quelle parole con aria sognante una sera al fatidico bar, dove si erano incontrati i piccioncini. Quella sera però Lexi era di servizio, quindi non potette aggregarsi alla strana coppia.
Per quanto Carter detestava ammetterlo, provava una certa simpatia nei riguardi di Alexis, che molto spesso lo punzecchiava con delle battutacce, ma lo faceva ridere, quasi come la ragazza che non aveva più rivisto.
«Il muro sente la tua mancanza. » Enunciò Carter portando alle labbra la sua corona.
«Nah, tu senti la mia mancanza, ammettilo. » Lo corresse il ragazza dandogli una gomitata scherzosa.
«Affatto. Più donne per me. Alla mia salute e quella del mio uccello. » Esclamò alzando in alto la sua birra quasi come per fare un brindisi.
«Salute. » Si aggregò l’amico facendo lo stesso con la sua birra.
Rimasero a trangugiare birra finché entrambi non riuscivano più a reggerne ancora.
Il tempo passato con Aaron era davvero piacevole e Carter non aveva amici in quel modo da quando aveva lasciato Mosca. Aaron gli ricordava vagamente Ostroff e il rapporto che aveva con quest’ultimo quasi fraterno. Non avrebbe mai immaginato di riuscire a farsi un amico nella sua nuova vita, lontano da tutto e da tutti.
Fu in un attimo che dalle finestre del bar vide Kimberly passarvi avanti, soffermandosi a prendere il cellulare nella borsetta. Anche se era coperta da un’impermeabile color fango e un capello dello stesso colore, Carter la riconobbe per il suo modo di camminare e toccarsi i capelli che ormai le arrivavano al di sotto del mento.
Non la vedeva da circa tre mesi e non aveva la minima intenzione di chiamarla per fare due chiacchiere, anzi, sperò vivamente che non lo vedesse.
«Quella non è la figlia di Josh? » Chiese Aaron colpito dall’improvviso silenzio che fece Carter mentre stavano animatamente discutendo di sport, uno degli argomenti preferiti del suo amico.
«Come fai a sapere che è lei? » Il suo sguardo non si mosse dalla ragazza, guardandola attentamente mentre afferrava il telefono per comporre un messaggio.  
«Ho visto le foto sulla scrivania. Carina però. » Si concedette di dire, visto che era fedelissimo a Lexi e non diceva mai nulla che potesse mancarle di rispetto.
«Sì lo è. »
«Te la sei fatto? »
«Ovviamente. »
«Brutto stronzo! Non mi avevi detto nulla. » Disse Aaron dandogli una spinta, ma il ragazzo non distolse nemmeno allora lo sguardo dalla giovane, ancora intenta a scrivere un messaggio davanti alla vetrina. Per fortuna di Carter il vetro era scuro da un lato, così quelli all’esterno non potevano guardare all’interno.
Stava giusto per rispondere ad Aaron quando la sua attenzione fu completamente rapita da ben altro.
Un leggero venticello aprì l’impermeabile della ragazza mostrando una certa rotondità che non c’era stata prima. Normalmente non avrebbe colpito il ragazzo se non fosse stato per il posto un po’ inusuale dov’era collocata.
La sua mente impiegò veramente poco per fare due più due, accompagnato dalla sgradevole sensazione nello stomaco di nausea. Nella sua mente nacque solo un pensiero: Sei fottuto.
«Merda. » Disse Carter sottovoce, ma non tanto da non farsi udire da Aaron.
Quest’ultimo guardò nella stessa direzione e si unì facendogli eco: «Merda. »
 
 
 
 
Sono giunta alla fine del quarto capitolo e ancora nessun parere! Questo capitolo non so dire se mi sia piaciuto o no, ma era necessario per tracciare due personaggi importanti: Aaron e Lexi, anche se lei è comparsa meno di Aaron. Non mi andava di far rimanere completamente solo al mondo Carter, anche perché lui come uomo ha l’esigenza di raccontare i fatti propria a un amico.
La storia sta prendendo vita e vi ringrazio uno per uno, per la lettura. Significa veramente tanto per me.
Restate connessi (?) per scoprire cos’altro succede! Ci sono parecchi colpi di scena e verità in attesa di essere rivelate.
Baci –Sally.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
 
«Insomma sei proprio sicuro che sia incinta? » Domandò Aaron a bassa voce, sporgendosi appena verso il suo migliore amico, per non farsi udire da nessuno.
Carter ogni volta che si apriva quell’argomento così scomodo, cominciava inevitabilmente a sudare. Andava completamente in panico e non poteva farci nulla. Quella scena lo tartassava anche di notte, che perfino si era ridotto a sognarsi padre e intento a cambiare pannolini a destra e a manca, ovviamente tutto quello gli portava frequenti conati di vomito.
«Sì. Ti sembra il luogo per parlarne?» Ringhiò Carter rivolgendosi al ragazzo che poco saggiamente aveva aperto quel discorso in ambito lavorativo. Se solo fosse stato così, Josh l’avrebbe scuoiato vivo, non che gli importasse, ma non voleva accollarsi nessuna scomoda responsabilità.
Aaron si voltò per guardarsi le spalle e notare che il loro capo era intento a leggere un giornale e grattarsi la fronte stempiata.
«Non ci sta badando. Comunque che ne sai, potrebbe aver messo su qualche chilo. » Azzardò come se volesse rincuorarlo.
Carter non sapeva dire precisamente perché ma era fermamente convinto che la ragazza fosse incinta, per giunta di suo figlio. Non poteva esserne certo in nessun modo ovviamente, visto che dopo un’attenta riflessione aveva rammentato che quella che lui aveva enfatizzato come “pancia” era una lieve e appena accennata rotondità nel basso ventre; quindi Aaron poteva aver benissimo ragione, ma il suo sesto senso gli diceva nettamente l’opposto.
«Ne sono sicuro. Merda. Merda. Merda. » Carter si agitò visibilmente, rischiando di procurarsi un ennesimo attacco di conati.
Aaron che ormai si era guadagnato il ruolo di “amico fidato” gli poggiò una mano sulla spalla, poiché il suo amico era in seria difficoltà.
«Carter calmati. Non è incinta. Poi pure se lo fosse, chi dice che è figlio tuo? » Sostenne sottovoce, in seria preoccupazione per la salute mentale di quest’ultimo.
«Penso che io lo sappia, visto che gli sono venuto dentro. » Sibilò a denti stretti, in preda ad un improvviso attacco d’ira. Com’era possibile che fosse stato così stupido e sciocco da fare una mancanza del genere. Non ricordava nemmeno precisamente come aveva fatto, a essere così stupido, eppure era successo, svariate volte. Naturalmente era un ragazzo sveglio, aveva detto alla ragazza che era accaduto quel piccolo disguido e lei lo aveva assicurato dicendogli che aveva rimediato.
Completamente fuori di sé, si passò una mano fra i capelli in preda alla mera disperazione. Aaron non sapeva cosa dirgli, anche perché non era del tutto certo che ciò che Carter si affannava a dichiarare fosse la verità.
«Ascolta, non puoi rammaricarti in questo modo. Se non ti ha ancora detto nulla, ci sono due soluzioni: 1- Non è incinta. 2- Non sei tu il padre.  Adesso smettila di fare il pazzo e calmati. » Finì Aaron con quel finto tono autoritario che non gli calzava per niente bene.
Carter si ricompose, ricordandosi che non era il tipo da farsi suggestionare da simili avvenimenti. Dove era finito Carter il menefreghista? Ecco, in tal caso se ne sarebbe completamente infischiato.
Alzò gli occhi al cielo e si dette una calmata, passando una mano fra i folti capelli marroni per riavviarli, cosa che faceva solitamente quando era nervoso.
«Ah, secondo me dovresti riguardarti dal dirlo a Lexi. Sai, non è un tipo tranquillo e non credo che lei possa prenderla con diplomazia. » Suggerì Aaron prima di inabissarsi sul motore di una vecchia macchina d’epoca.


***
 

«Ti sta bene! » Esclamò Lexi una sera mentre Carter stava abbassando la serranda dell’officina.
Carter non nascose la sua seccatura poiché Aaron in “confidanza” si era fatto scherzare fra una battuta e l’altra che Carter aveva presumibilmente messo incinta la figlia del loro capo.
Lexi era una donna veramente scaltra e sveglia. Il suo metro e cinquantacinque non le impediva di essere una ragazzina terribile, diceva sempre la sua senza preoccuparsi di essere invadente o di risultare scontrosa; per quei motivi lei e Carter si ritrovavano a discutere spesso sotto lo sguardo divertito di Aaron.
«Ne hai ancora per molto ragazzina? » Sbuffò ancora infastidito lui, mentre si rialzò con un gesto sinuoso, una volta assicurato la serranda al suolo con uno spesso catenaccio di ferro.
«Sì! Sei un’irresponsabile. Sei uno stronzo, un arrogante e non capisco cosa ci trovino le ragazze in te. » Continuò lei mentre il suo ragazzo se ne stava in disparte a ridere sotto i baffi.
Carter voleva bene ad Aaron ed era per quei motivi che non si sbilanciava troppo con Lexi, altrimenti l’avrebbe fatta già fuori o addirittura condurla alle lacrime con quei suoi modi poco cortesi e gentili di dire le cose.
Lui amava la propria privacy e gli stava a noia che qualcuno potesse intaccarla anche con un solo gesto. Odiava perfino che intralciassero il suo spazio vitale; specialmente quando tutti e tre erano fuori per mangiare un boccone dopo il lavoro e lei stendeva i piedi fasciati da tacchi alti sotto il tavolo in direzione di Carter. Aaron dal canto suo, era divertito di quella situazione, sapeva che anche se il suo amico fosse burbero ed egocentrico, comportandosi il più delle volte da vero stronzo, intuiva che dentro di lui c’era un disperato bisogno di avere qualcuno accanto.
«Attenzione honey, altrimenti ti butto sotto con l’auto. » La minacciò Carter anche se non l’avrebbe mai fatto, un pensiero lo aveva quasi sfiorato, peccato che non aveva un auto.
Vide con la coda dell’occhio la ragazza mordersi il labbro per non rispondere e Aaron prenderle la mano facendole un gesto di dissenso con la testa, proprio per esortarla a fare silenzio. Carter apprezzò veramente tanto l’intervento del suo amico che, rimase in silenzio ringraziando di quel momento di pace, senza la voce squillante e fastidiosa della bionda.
 
 
L’aria tesa si dissipò con l’arrivo dei due ragazzi alla pizzeria, dove Aaron aveva organizzato una delle sue solite cenette per far legare i due. Carter le odiava, ma non per qualcosa, ma per il semplice fatto che la bionda teneva a puntualizzare ogni cosa e a dire inevitabilmente la sua, su ogni argomento possibile ed immaginabile.
«Avevate delle tacche su un muro? » Chiese con la bocca spalancata Lexi, ma con l’aria divertita. Aaron sembrava sollevato che quest’ultima l’avesse presa ridendo e non gli avesse urlato contro.
Carter si strinse nelle spalle, fingendo un’aria colpevole e trangugiò una fetta di pizza rossa ai peperoni.
«Mi sembra una cosa così povera. » Affermò la ragazza poiché entrambi avevano fatto silenzio.
Carter lanciò un’occhiata arrabbiata ad Aaron che si giustificò guardando la propria donna con un’espressione innamorata che fece quasi passare la voglia a Carter di continuare a consumare il suo pasto.
La pizzeria era abbastanza tranquilla solitamente, ma quella sera era decisamente affollata grazie al brutto tempo che si stava preparando fuori dalle porte del locale. Il cielo era terso e nell’aria si sentiva odore di pioggia, anche se non era ancora precipitata al suolo.
I ragazzi potevano considerare quel luogo il loro rifugio; il posto era piccolo e accogliente. Le linee generali del negozio erano retrò, conferendo al luogo un tipico aspetto di quelle pizzerie anni cinquanta.
«Non è una cosa squallida. Mi piace sottolineare le mie conquiste.  » Profferì l’uomo posando la fetta di pizza, aveva momentaneamente perso l’appetito.
«E’ comunque squallido. » Ribatté prontamente Alexis che non voleva sentire ragioni di alcun tipo.
«Piccola, siamo uomini passiamo così il tempo. » Aaron tentò di giustificarsi per entrambi, ma senza il minimo risultato, anzi la bionda lo guardò di traverso e lui si zittì definitivamente.
«Vuoi dirmi che puoi conquistare chiunque? » Enunciò dopo un po’ la bionda.  Era strano come avesse fatto silenzio per ben cinque minuti filati.
«Sì. » Tagliò corto Carter guardando annoiato fuori dal vetro accanto a dov’erano collocati.
«Anche se ti proponessi una scommessa? »
«Che scommessa? » L’attenzione di Carter fu rapita a quelle parole, facendo assumere al suo viso un’aria di compiacimento. Amava le scommesse, specialmente quando le faceva con il suo amico, cosa che non succedeva ormai da troppo tempo.
La ragazza scoppiò a ridere e si sporse verso di Carter.
«Allora Don Giovanni, ti sfido ad andare verso una delle ragazze qua dentro e portartela a letto entro stasera. Ci stai? » Aggiunse la domanda con un sorrisetto di sfida disegnato su quelle labbra sottili.
Aaron strabuzzò gli occhi e scoppiò a ridere per ciò che la sua ragazza aveva proposto, non era decisamente da lei fare cose del genere.
«Niente di più facile. » Disse lui aggiustandosi sulla sedia, facendo aderire completamente la schiena allo schienale.
«Aspetta, devo indicarti io la ragazza. » Ridacchiò soddisfatta perché pensava che non ci sarebbe mai riuscito. Per quel che ne sapeva, la ragazza poteva essere fidanzata o addirittura sposata.
«Quella lì. » Alzò il braccio e indicò una persona seduta tre tavoli dietro di loro.
Carter si alzò in piedi, per vedere il dito della bionda chi stesse indicando e una volta intravista la sua preda, si sistemò i capelli e avanzò a passo svelto e deciso verso la ragazza.
Lei era posta di spalle, aveva una postura morbida e continuava a toccarsi i capelli marroni, stringendo alcune ciocche fra l’indice e il pollice. Sembrava attenta a guardare attentamente qualcosa sul tavolo che non prestò attenzione alla sedia dinnanzi a lei che prontamente Carter andò a occupare.
Carter sperò che fosse carina, non riusciva a vederla in viso, visto che era piegata sul tavolo a leggere “Orgoglio e pregiudizio” con acanto una fetta di pizza la formaggio abbandonata.
Alzò lo sguardo per vedere Lexi e Aaron che ridevano a crepapelle per ciò che stava facendo il loro amico, che pigramente eseguì una smorfia a entrambi concentrandosi nuovamente sulla ragazza.
Il viso era parzialmente coperto dai capelli che le ricadevano avanti, per via della postura china. Lui ebbe tempo di osservarla per bene, ringraziando che non fosse una di quelle ragazze orribili che Aaron gli passava ogni volta in officina.
Con un colpo di tosse annunciò la sua presenza e la ragazza lentamente alzò il capo dal libro.
E in un attimo la vide: era lei.
Lei era la ragazza che quasi un mese prima aveva visto da Starbucks, quella che gli aveva rubato il tavolo.
Però lei, sembrò non riconoscerlo perché lo guardò con un’aria confusa, forse anche perché Carter si era fermato a guardarla, sembrava quasi incantato.
Cosa diavolo fai?! Quella vocina assalì la sua mente con un urlo, per poi rendersi conto che era fermo e imbambolato davanti alla ragazza da svariati minuti buoni prima di decidersi a parlare.
«Ehm ciao. » Disse lei con la stessa voce soave che lui ricordava ancora.
Rimase un attimo in silenzio per capire come doveva sfoggiare la sua tattica, per non perdere di nuovo l’opportunità con quella ragazza, poiché gli era già andata male una volta.
«Ti stavo guardando da lontano. Sai che sei molto carina? Anzi, oserei dire la ragazza più bella del locale. » Aggiunse in un tono del tutto lusinghiero. Il che non era del tutto falso, la ragazza davvero era bella, anche se non era perfetta e non era bionda come piaceva a lui, era pur sempre una bella ragazza.
Lei a quelle parole arrossì, nemmeno come se avesse avuto quindici anni e abbassò la testa imbarazzata.
«Sei gentile. Non credo che tu mi abbia notata da lontano comunque. Ci sono molte ragazze qui. »
«Invece sì, ti ho vista da lontano. Ho come un radar per le belle ragazze. » Il suo tono era sicuro di sé, certo che quella volta non avrebbe fallito e che sicuramente lei sarebbe cascata nella sua tela facendogli così vincere la scommessa.
Nonostante il suo tono fosse sicuro, la ragazza si sentì quasi turbata, come se avesse compreso le sue silenziose intenzioni che si chiuse a riccio, mettendosi sulla difensiva.
«Sono sicuro che sia una cosa che dici a tutte. »
«Non sei tutte. »
«Per te lo sono. Sei bugiardo, anche se non ti conosco. »
Carter scoppiò a ridere mostrando la dentatura bianca a perfetta. Quando rideva, le fossette sulle guance erano messe in evidenza, donandogli un fascino ancora maggiore, uno charme che per sua sfortuna non colpì nemmeno di striscio la ragazza.
«Come fai a sapere che sono bugiardo? »
«Conosco abbastanza gli uomini da saperlo. » Ribatté con durezza, incrociando entrambe le braccia sul tavolo, all’altezza del proprio petto.
«Sei stata con molti uomini? » Domandò lui, cominciando a essere infastidito dalle troppe domande. Il discorso era già dilungato troppo per i suoi gusti, ma non voleva a tutti i costi perdere la sfida, così continuò.
«No, ma ho conosciuto quelli come te. »
«Come pensi che io sia? Non mi conosci nemmeno! » Asserì lui guardandola quasi di traverso, ma con un ché di divertito nella voce.
«Non lo so, non riesco a inquadrarti. Sei sospetto e non m’ispiri fiducia.» Lei lo guardò attentamente che un brivido percorse la schiena di Carter, sembrasse che lei stesse guardando dentro di lui.
«Nessuno dice che debba fidarti. Ho solo espresso un parere. Volevo sapere semplicemente se ti andava di fare un giro più tardi. » Tagliò corto lui, cercando di stroncare quella conversazione che stava prendendo ormai una piega imprevista e prima che sfociasse nello spiacevole, doveva concludersi.
«Devo tornare a casa. » Ribadì lei prontamente.
«Ti accompagno io. » Cercò di nascondere la sua espressione disgustata, non era il tipo che facesse quelle cose, però era esattamente il tipo che faceva di tutto per una scopata.
«No, grazie. » Si alzò e Carter fece altrettanto, notando in quel momento che Aaron e Lexi erano andavi via, lasciandolo completamente solo. Conoscendo i suoi amici probabilmente erano andati a copulare a casa di Aaron.
«Insisto. »
«Insisti pure, non ne ho bisogno. » La sua espressione da dolce divenne dura, era quasi infastidita dal comportamento del ragazzo che però non volle mollarla nemmeno per un attimo. DOVEVA VINCERE.
 
 
«La smetti di seguirmi? Sei snervante. » Esclamò lei guardando il cielo, mentre camminava spedito alcuni passi di distanza da Carter.
Lui le trotterellava dietro quasi come se fosse un cagnolino, non si dava per vinto, doveva a tutti i costi portarsela a letto entro mattina. Era la sua sfida e lui non perdeva mai le sfide, soprattutto se a lanciarla, era stata Lexi.
Continuò a seguire la ragazza, rischiando anche di essere considerato uno Staller, ma lei aveva l’aria divertita, poteva notarlo da quelle poche volte che si era voltata per vedere se lui la seguisse ancora.
Non aveva mai fatto una cosa del genere, non era proprio il tipo, ma doveva ammettere che si stava divertendo anche lui. Più la seguiva e più aveva voglia di averla, di averla tutta per sé per una notte.
«Ancora non ti sei stancato? » Chiese lei mentre svoltava un angolo.
«Affatto. Ti sto accompagnando, anche se non so il tuo nome. » Disse con tono pacato lui, infilando le mani intasca e stringendosi appena nelle spalle, per via di quel venticello che gli solleticava il viso.
«Non vedo perché dovresti saperlo. »
«Non vedo perché non dovrei. » La rimbeccò lui, sempre più divertito.
«Se ti dico il mio nome mi lasci in pace? » Chiese ormai sul punto dell’esasperazione la ragazza che intanto si era fermata davanti ad un portoncino di ferro, frapposto in una piccola rientranza di un grosso palazzo rosso.
Sicuramente erano arrivati a casa, Carter sperava che lei lo facesse salire, ma dall’andazzo delle cose non ci sperava poi tanto.
«Questa è casa tua? » Domandò osservando il palazzo e poi il portone di ferro dietro di lei.
«Può essere. » Faceva la vaga.
«Posso salire? » Azzardò lui sfoggiando il suo sorriso smagliante e si avvicinò di un passo verso di lei, mentre quest’ultima indietreggiò verso il portone.
«Non credo proprio! » Il suo tono di voce cominciò a essere sbrigativo, temendo che lui potesse farle qualcosa.
«Dimmi il tuo nome allora. » Sussurrò lui, poiché ormai erano a pochi passi di distanza.
La strada era completamente buia, nessuno che passava nemmeno un’auto. Notò che la giugulare della ragazza prese a pulsare, probabilmente dello spavento pensando che lui potesse approfittare di lei in qualche modo, non era mai arrivato a tanto, era una cosa che ripugnava anche un essere spregevole e senza cuore come lui.
«Hai paura di me? » Scoppiò a ridere con quella sua risata roca, facendo trasalire appena la ragazza.
«No. Adesso vado. Ciao. » Lei si voltò velocemente e inserì la chiave nel portone.
Ora o mai più. Carter si precipitò alle spalle della ragazza, che notando ciò che lui aveva intenzione di fare cercò di chiudere il portone alle sue spalle una volta entrata. Carter poggiò la mano possente sulla superficie di ferro per trattenere la porta e la guardò con il suo sguardo penetrante.
«Dimmi il tuo nome. » Insistette, guardando il viso della ragazza nello spiraglio aperto del portoncino di ferro.
«Charlotte Samuel, adesso vattene. »
Soddisfatto, lasciò andare la porta che la ragazza chiuse velocemente, provocando un rumore sordo di metallo, quando il pistone entrò nel proprio spazio.
Un tuono ruppe il silenzio e in un attimo grosse gocce d’acqua caddero al suolo, bagnando velocemente il ragazzo e inzuppando i suoi vestiti.
Un nome: Charlotte, era tutto ciò che accompagnò Carter durante tutto il tragitto verso casa.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
 


Moscow; 26 anni prima.
Orfanotrofio di Kirov.
 

Il rumore della campana e dopo di esso un pianto disperato, fu ciò che svegliarono Miss Maslov nel cuore della notte.
La donna allora direttrice dell’istituito di Kirov in Russia, si precipitò giù dal letto per andare a soccorrere la povera creaturina che era stata abbandonata proprio quella notte.
Miss Maslov era una donna rigida in apparenza, ma in realtà era la più dolce delle donne. La sua facciata era sempre impeccabile, voleva mostrarsi a chiunque in perfetto ordine, quando poi nel profondo del suo cuore vi era talmente tanta tenerezza che al mondo non ci sarebbe stato bisogno di nulla, se fossero state tutte come lei.
La donna era alta con folti capelli grigi, elegantemente raccolti in una croccia assicurata sul retro della testa da un’infinità di mollettine e fermagli. Le labbra sottili erano sempre distese in un’espressione di disappunto e gli occhi erano anch’essi triati in una strana espressione che nessuno riusciva mai a decifrare.
Ogni qualvolta qualcuno bussava alla campana, ella stessa si precipitava ad accogliere il futuro ospite della sua casa, non che si potesse propriamente chiamare così. L’orfanotrofio, uno dei più grandi a Mosca si ergeva al centro di un piccolo e umile borgo di città che nella stagione invernale era quasi sotterrata dalla neve.
Le mura erano alte, quasi come se volesse assomigliare a una prigione, probabilmente lo era dato che era costruito sulla base di un castello risalente all’età medievale. Le sale erano di pietra, così anche i pavimenti, mentre nei giardini vi era la presenza di spaventose e quasi inquietanti statue anche elle medievali.
Il rumore delle scarpe sul pavimento di pietra era tutto ciò che si sentiva quella notte, nessuno si era svegliato a parte lei, voleva prendersi cura di tutti i bambini possibili, finché lo spazio glielo concedesse.
Raggiunse il maestoso portone di quercia e con un po’ di aiuto da parte dell’inserviente di turno, riuscì a scostare la porta rivelando una persona incappucciata che reggeva fra le braccia un piccolo fagottino che scalpitava irrequieto. Il cuore della donna si sciolse, era sempre così toccata da bambini che erano abbandonati così piccoli.
«Hai intenzione di lasciare qui questa povera creatura? » Sussurrò la donna, che nella notte però quel suo sussurrò, era chiaro e netto come se avesse proferito ad alta voce.
La figura incappucciata per via del vento gelido che tirava quella notte, fece un passo in avanti, scostandosi il cappuccio di pelliccia e mostrando il suo viso così giovane, rigato dalle lacrime.
«Cara, hai bisogno di sederti un attimo? » Chiese allarmata Miss Maslov affrettandosi a raggiungere la donna e prelevare il piccolo fra le braccia della ragazza.
La figura che prima era incappucciata affidò il piccolo fra le braccia dell’istitutrice e quest’ultima osservò il piccolo. Non aveva nulla che non andava, era un bambino piccolo e piangeva a più non posso. Dai suoi occhi socchiusi riuscì a notare quel colore glaciale che era così bello e allo stesso tempo così puro. Si stupì nel notare che era un bambino completamente sano; solitamente erano abbandonati bambini con strane malformazioni o perfino alcune volte, bambini in punto di morte.
Maslov fece un cenno con la mano e l’inserviente di turno si affrettò a chiudere il portone dietro le due donne, così furono completamente al riparo della tempesta che si stava aizzando quella notte.
La ragazza si tolse del tutto il mantello e la donna notò immediatamente che i suoi abiti non erano per niente lerci o malandati, anzi erano fin troppo costosi perché lascino pensare che fosse una zingara. Il suo lavoro però le impediva categoricamente di chiedere l’origine dei genitori dei piccoli affidati a loro.
«N-non p-posso tenerlo. » Singhiozzò la donna incappucciata – che chiameremo Miss X -.
Maslov intenerita da quella situazione cercò di calmare sia il piccolo sia, era riposto fra le proprie braccia che la giovane, che aveva trovato sostegno su una sedia appena dopo l’ingresso dell’orfanotrofio.
«Mio padre ha detto che lo avrebbe ucciso. » Miss X continuava a farneticare, aveva un’espressione impaurita e il suo corpo era completamente infreddolito, non smetteva per un attimo di tremare e di piangere.
«Ti va di raccontarmi cosa è successo? » Miss Maslov si apprestò a rincuorare la ragazza, facendo portare da un altro inserviente qualcosa di caldo per farla calmare almeno un po’, non poteva agitarsi aveva bisogno che fosse lucida per firmare le carte permettendo all’istituto di affidarlo a qualche casa.
Miss X si strinse fra le proprie braccia e cominciò a dondolarsi sulla sedia e Maslov capì che la cosa era più grave di quanto pensasse.
Dopo vari istanti arrivò anche l’assistente di Miss Maslov; Miss Perners, una donna dolce e sensibile che era pronta a tutto per i bambini del suo istituto. Perners prese il piccolo ancora piangente fra le braccia di Maslov e cercò di calmarlo, stringendolo fra le proprie braccia e cullandolo, intonando anche alcuni versi di una canzoncina che la madre le cantava da piccola. Una volta assicurate che il piccolo avesse le cure giuste, Maslov si dedicò interamente alla madre del piccolo.
«Va tutto bene. Ci occuperemo noi del tuo bambino. » La rassicurò l’istitutrice con una voce dolce e soave, accarezzando il braccio della ragazza, che era bagnato di lacrime.
Miss X alzò lo sguardo, mostrando gli occhi glaciali come quelli di suo figlio gonfi e rossi di pianto; quella poverina aveva sofferto veramente tanto.
«Mio padre mi ha violentata… lui è tutto ciò che ho. » Alzò lo sguardò per guardare il suo piccolo fra le braccia di Pranse e scoppiò nuovamente in un pianto che sembrasse non avere fine.
Le due donne si guardarono e sospirarono, Parnes scosse il capo e liberando una mano si asciugò delle lacrime che le rigarono la guancia, mentre Maslov si rivolse alla ragazza.
«Vuoi che chiami la polizia? Se hai paura di tuo padre, ci penseranno loro così puoi tenere il piccolo. »
La ragazza quasi come se avessero detto un’eresia si alzò dalla sedia e si gettò contro il muro in preda al panico, accasciandosi poi contro di esso.
«NO! Vi prego non chiamate nessuno, mio padre mi uccide. Vi prego. » Urlò ancora una volta in preda alla disperazione.
Entrambe le donne non sapevano cosa fare con la ragazza, non erano nella posizione di muoversi né in quella di sentenziare una soluzione, potevano semplicemente prendere il piccolo e prendersene cura. Per quanto erano, entrambe rammaricate non sapevano come avrebbe reagito la famiglia della ragazza a una loro denuncia. Così decisero di lasciar che la giovane affrontasse il proprio destino senza poter fare nulla per lei.
 
Il portone si chiuse dietro la figura della donna incappucciata, che dopo essersi calmata e firmato, le carte per l’adozione sparì lasciando detto che non avrebbero dovuto mai raccontare la storia al piccolo, preferendo che elle dicessero che la madre lo aveva abbandonato su un marciapiede. Miss Maslov e Perners non potevano fare una cosa così meschina e cattiva a un povero bambino, che fondamentalmente non aveva nessuna colpa, ma da regolamento erano obbligate a mantenere l’anonimato dei genitori qualora egli lo ritenessero opportuno.
Perners aveva ancora fra le braccia il piccolo Carter – così Miss X aveva pregato di chiamare il piccolo, poiché era il nome della persona che ella amava follemente – lo guardava con un’aria affranta e triste, avrebbe sicuramente pianto una volta giunta nelle sue camere, ma non voleva farsi vedere dalla sua superiore così debole d’animo, così stampandosi un’espressione dura sul viso, trattenne le lacrime.
«Poveri bambini. Hanno avuto la sfortuna di nascere in famiglie così disastrate. » Maslov pronunciò quelle parole più a se stessa che alla sua collega.
Avevano posto il piccolo nel nido, ove vi erano anche altri bambini molti più grandi di lui. Appena depositato fra candide lenzuola bianche e coperto con una copertina leggera, il piccolo si addormentò subito.
«E’ necessario raccontare al piccolo che la madre l’ha abbandonato su un marciapiede? » Domandò Perners mordendosi appena il labbro inferiore. Era in combutta con la sua coscienza, il bambino sarebbe cresciuto sicuramente con dei disturbi e carenze di affetto.
«Se questo lo segnasse per tutta la vita? » Domandò allarmata sempre fissando il piccolo che ormai riposava beato nella culla.
«Non succederà, ci prenderemo noi cura del piccolo. Sarà amato e coccolato finché non troverà una casa che lo accolga con il calore che merita. » Convenne Maslov fiduciosa nelle sue stesse parole.
 
 

***
 
 


Moscow; 17 Anni prima.
Orfanotrofio di Kirov.
 
 

«Giù dal letto! » Un urlo gli arrivò alle orecchie, facendo sobbalzare Carter durante il sogno più bello che avesse fatto da che ne aveva memoria.
Stava sognando se stesso in un’altra casa, in una casa su una collina e circondata da un laghetto dove vi erano tanti di quei pesci rossi e lui si stava divertendo un mondo a pescare con un legnetto. Sfortunatamente però quel sogno era solo per l’appunto solo un sogno. La realtà era bensì un’altra e sicuramente meno piacevole.
I suoi occhi chiari impiegarono vari istanti prima di mettere a fuoco la vista, filtrando i raggi del sole che penetravano dalla finestra cui erano state tirate le pesanti tende. Era una di quelle rare giornate di sole, e tutti i bambini erano eccitati all’idea di uscire in giardino a giocare.
«Giù dal letto! » Quella voce stizzita urlò di nuovo e questa volta una mano gli afferrò un piede tirandolo giù dal letto, facendolo cadere con la faccia sul pavimento. Le risa generali si riversarono in quella camera, mentre tutti i suoi compagni di camera ridevano a crepapelle per la sua caduta.
S’issò a sedere, portando una mano sulla fronte e massaggiandosi un punto dove sicuramente sarebbe nato un bernoccolo, quando una mano si allungò dinanzi a lui, comparendo nel suo campo visivo.
La mano era piccola e delicata e sapeva già a chi apparteneva: Annabeth.
Carter si alzò da solo, non voleva dare soddisfazione a nessuno, meno che a quei bulletti che si divertivano a fargli i dispetti che lui abilmente ricambiava con i peggiori modi, tipo mettere animali morti nel letto; per quei motivi era spesso messo in punizione, spedito a letto senza cena.
«Prendi la mia mano. » La voce di Annabeth era come una dolce melodia, così bassa e dolce che sembrasse una sinfonia di qualche compositore famoso. La bambina lo guardava speranzosa, in attesa che egli le afferrasse la mano, ma ciò non avvenne. Si alzò con le proprie forze, facendo leva con le ginocchia sbucciate e piene di graffi.
«Riesco da solo, grazie. » Disse in tono fin troppo rude per un bambino di nove anni.
Era cresciuto per tutto quel tempo completamente da solo, senza l’affetto e l’amore di nessuno, considerato dagli altri bambini lo scarto della società, poiché si raccontavano storielle dicendo che la madre di Carter era una prostituta e suo padre poteva essere un uomo qualsiasi.
Non era stato sempre così però, nei primi anni della sua infanzia, egli era stato accolto e coccolato da quelle due istitutrici che gli avevano fatto da madre: Maslov e Perners. Sfortunatamente elle morirono in un incidente d’auto quando Carter aveva tre anni. D’allora avevano occupato il loro posto due arpie che erano peggio di Satana in persona, due sorelle perfide ed egoiste che si divertivano a screditare il piccolo Carter davanti a tutti e incoraggiavano perfino la violenza nei suoi confronti.
Carter era maltrattato continuamente, finché non smise di essere il centro dell’attenzione delle cattiverie e venne semplicemente ignorato, lasciato alla sorte.
Restava per tutto il tempo da solo, in un angolo a giocare e parlare da solo, covando rabbia verso chiunque essere umano; per n on parlare delle persone che si presentavano all’orfanotrofio per adottare i bambini, lui veniva scartato a priori. Inizialmente attendeva con ansia il momento della sua adozione, fino a perdere completamente fascino per quest’ultima. Insomma chi avrebbe mai portato via un bambino che era per il 70% coperto da lividi e sempre con l’espressione funerea.
I comportamenti che aveva di certo non aiutavano la sua posizione, anzi la aggravarono ancora di più. Sulla sua scheda venne inserita una voce che diceva: “Bisognoso di continue attenzioni” cui si susseguirono tante altre fino a che non dovettero aggiungere un ennesimo foglio, perché il precedente era terminato, corredato il tutto con il referto dello psicologo che chiedeva di somministrare dei tranquillanti al piccolo.
Carter si preparò in fretta per uscire in giardino, non che volesse passare del tempo con i suoi compagni ma perché si divertiva a martoriare povere lucertole che era consueto a rincorrere per tutto il giardino. Annabeth l’era sempre alle calcagna, odiava la sua presenza ma lei imperterrita non si smuoveva nemmeno per un attimo.
Restava seduta per ore nei pressi di dov’era seduto Carter giocando con i suoi lunghi capelli rossi, mentre i bambini si divertiva a costruire armi con i legnetti che trovava.
«Perché mi segui sempre? » Le domandò Carter quella stessa mattina, una volta raggiunto il giardino sprofondando ai piedi di un enorme albero, era come se l’albero avesse creato con le radici un luogo dove il ragazzino potesse sedervi e occupare posto tranquillamente, quasi nascosto dal resto della comitiva.
«Voglio giocare con te. » Gli aveva risposto semplicemente la bambina raggiungendolo per accoccolarsi accanto a lui.
Carter la guardò male e le diede una spinta, per esortarla a spostarsi da lui, ma invano, Anna non aveva intenzione di muoversi.
«Io non voglio giocare. »
«Tutti vogliono giocare. Tu sei sempre qui da solo. » Pronunciò l’ultima frase con un’espressione triste e sconsolata, abbassando il capo quasi come se la colpa della sua solitudine fosse di se stessa.
Carter alzò il viso e rendendosi conto che la sua compagna – forzata – era triste, cercò in qualche modo di farla ridere, facendo una smorfia buffa. La ragazzina rise e si nascose subito il viso fra le mani, imbarazzandosi subito. Per un momento il bambino ne fu intenerito, tanto che ella ne approfittò per appoggiare la testa sulla spalla, sfiorando con la sua manina piccola e vellutata quella di Carter. Trasalì per via di quel gesto, che gli fece accapponare la pelle. Divenne irrequieto, non aveva mai avuto un contatto così stretto con una persona prima d’ora. Era spaventato come se lei da un momento all’altro lo picchiasse, ma nulla di ciò accadde lei si limitò a tenere la testa china sulla sua spalla e stringere le dita fra le sue sospirando beatamente.
Il cuore di Carter cominciò una corsa scomoda, lo sentiva martellare così forte che per un attimo credette che stesse per morire, era troppo per lui e non poteva sopportarlo.
«Devo andare. » Si alzò così in fretta che Anna non ebbe nemmeno il tempo di alzarsi per proferire parola che lui già era sparito via.
Mentre correva verso l’interno dell’istituto, il suo cuore continuava a battere così forte che non seppe come fermarlo, aveva paura per quel strano e nuovo contatto che aveva avuto con un essere umano e questo gli bastò per convincersi che mai nessuno l’avrebbe più toccato in quel modo.
 
 




Probabilmente con questo capitolo mi avete odiata xD Ma io amo Flaschbeckkare (?), ritenevo opportuno inserire un pezzo di vita passata di Carter per trasmettere al lettore – a voi in questo caso – quanto i rapporti umani, che noi siamo abituati a ricevere fin da piccoli, siano in realtà terribili per Carter. Mi sembra sempre di non riuscire a descriverlo bene, e non di non riuscre a far capire la sua natura e la sua psicologia.
Tutto ciò che ho scritto, è puro frutto della mia immaginazione, non fa riferimento a nessun fatto realmente accaduto o persone reali. Ho semplicemente preso il nome di un orfanotrofio in Russia, ricamando la mia storia su quest’ultimo.
Con l’atteggiamento delle due istitutrici ho toccato un argomento un po’ delicato, quando entrambe lasciano che la ragazza viva nel terrore scegliendo volutamente di non chiamare la polizia, mi sono attenuta a un principio che purtroppo rispecchia la realtà, nessuno si sarebbe immischiato in questioni così “delicate”, anche se ciò è stato un atteggiamento immorale, ma specifico che era decisamente voluto.
Grazie ancora a voi che leggete, io sto amando questa storia (poiché oggi l’ho aggiornata tre volte xD) spero che qualcuno sia appassionato quanto lo sono io.
Un bacione e un abbraccio a tutti!
I feedback sono sempre ben accetti le critiche costruttive soprattutto. Non si finisce mai d’imparare.
- Sally.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 


Merda, merda ovunque. Carter si trovò per un attimo circondato da pannolini sporchi, per non parlare del pianto poi! Sembrava che stessero per ammazzarlo quel bambino, non la smetteva di frignare.
«Che diavolo! Fatelo smettere cazzo. » Ringhiò Carter a denti stretti. Non sapeva a chi si stava in realtà rivolgendo, era tutto buio intorno a sé e non riusciva a distinguere nulla che non fossero pannolini.
Improvvisamente si accorse che quel pianto, veniva dalle sue braccia. Un piccolo con gli occhi dello stesso colore dei suoi, si dimenava fra le proprie braccia, piangendo come un pazzo con tutto il fiato che era nei suoi polmoni. Terrorizzato il ragazzo, alzò lo sguardo per scorgere Kim che si avvicinava verso di lui per riprendersi il piccolo.
«Carter sei un pessimo papà. » Aveva detto lei con un dolce sorriso, prima di voltarsi e sparire nel buio.
 
I suoi occhi azzurri si aprirono e il suo respiro era accelerato. Un ennesimo incubo. Probabilmente la stava facendo decisamente tragica, ma quello era il suo più grande timore: avere una famiglia, essere costretto ad assumere responsabilità che proprio non voleva.
Si passò una mano sulla fronte impregnata di sudore, voltando poi la testa verso destra, notando la ragazza che dormiva beatamente accanto a lui.
Come le altre volte precedenti non si ricordava come si chiamasse la ragazza, probabilmente Jasmine, il momento in cui lei gli aveva sussurrato il suo nome nell’orecchio era troppo eccitato perché abbia captato a dovere. Come ormai una routine si alzò velocemente ma la mano della ragazza dai capelli neri lo trattenne.
«Buongiorno. » Sussurrò lei tutta assonnata. «Dove stai andando? »
«A fare una doccia. Poi vado a lavoro. » Rispose seccamente lui, e con quella risposta secca voleva solo troncare il discorso. Il suo risveglio era stato già fin troppo traumatico senza dover pensare a come scacciare via la ragazza dal suo letto.
L’aveva conosciuta poche ore prima, avevano fatto baldoria fino a tarda notte fin quando si erano recati a casa di Carter per terminare il loro divertimento. Questa volta la ragazza non era stata di suo gradimento; certo lei era molto bella come tutte, ma non aveva fatto altro che parlare e parlare della sua vita. Carter fece finta di ascoltare ovviamente, non gli interessava un cavolo di dov’era andata a scuola e com’era diventata reginetta due anni di fila. Per una scopata era disposto a fare di tutto, anche fingersi interessato. Così si era stampato sul sorrisino sulla faccia che aveva tenuto per tutta la serata.
«Oggi pranziamo insieme, ti va? » Propose tutta felice la ragazza, probabilmente ancora non aveva capito che non era il genere di domanda da porre all’uomo.
Soffocò uno sbadiglio mentre scosse la testa, enfatizzando quel movimento affinché lei lo capisse a fondo.
«No. Non voglio più vederti. » Disse quelle parole quando lo schermo del suo cellulare lampeggiò sul comodino. Senza badare alla risposta della giovane, che stava parlando - poiché lui udì la sua voce gracchiante – prese il cellulare e controllò il messaggio appena ricevuto:
Carter lo so che non ci siamo lasciati nel migliore dei modi, ma posso parlarti? Se non fosse urgente, non te lo avrei chiesto. Fammi sapere tu dove e a che ora. Kim.
Immediatamente una morsa gli attanagliò lo stomaco. Cazzo.
Si accorse che la sua mano cominciò a tremare, lo poteva notare dal movimento ondulatorio che il suo cellulare stava compiendo. Tirò un sospiro e cercò di calmarsi, ma invano. Cercò di pensare a tutto fuorché che lei volesse vederlo per dirgli cose che a lui non avrebbero fatto piacere. La situazione fu sicuramente aggravata da un cuscino che arrivò sulla sua nuca con tutta forza, facendolo piegare in avanti. Non ricordò precisamente da quanto tempo non si adirò in quel modo, avvertì la rabbia scorrergli sottopelle come un fuoco, riversandosi immediatamente in tutto il corpo. Una vena cominciò a pulsargli anche sulla tempia, facendolo diventare anche rosso in viso.
Si girò con tutta la furia del mondo, verso la donna che era inginocchiata sul suo letto e stava sbraitando contro di lui.
«POTRESTI ANCHE ASCOLTARMI! »Urlò lei a squarciagola. «Approfitti delle ragazze, che razza di uomo sei? Sei una merda ecco cosa sei. » Soddisfatta di se stessa lei, si alzò cercando di ritrovare i propri vestiti e fu allora che Carter si scagliò contro di lei.
La prese per i polsi stringendoli tanto che in un attimo negli occhi della ragazza si riflesse la paura.
«Cosa... » Sussurrò lei con paura, sgranando sempre di più gli occhi verdi. «Mi fai male, lasciami. »
«Prima fai la cagna, mi vieni dietro e scopi con uno sconosciuto appena incontrato. Adesso ti aspetti che io ti tratti in quale modo? Ti tratto come la puttana che sei. » Sibilò lui, stringendo sempre di più la morsa sui polsi della giovane che socchiuse gli occhi dal dolore. Cercò di dimenarsi ma Carter era troppo forte per lei.
In un attimo la spinse sul letto, facendola ricadere a pancia in giù. Approfittando di quell’attimo lei cercò di alzarsi per andare fuori e magari chiamare aiuto, sfortunatamente Carter aveva i riflessi pronti e la afferrò per le caviglie tirandola verso di lei.
«Dove pensi di scappare? » La sua voce uscì con un tono che non sembrava nemmeno il suo, sembrava un pazzo e probabilmente lo era sul serio.
«Lasciami! » Urlò fra le lacrime, la ragazza cercando di aggrapparsi alle lenzuola per sfuggire alla presa di Carter.
Successe tutto in un attimo, si arrampicò su di lei e prima che se ne accorgesse, l’aveva già posseduta, tenendola stretta contro il materasso, affinché non sfuggisse dalle sue grinfie.
Uno strano piacere perverso lo coinvolse, non gli era mai successo prima. Aveva sempre scopato con ragazze consenzienti, mentre quella era la prima volta che si prendeva qualcosa senza chiederlo.
Nella sua mente tutto ciò non apparve come un gesto negativo, ma come una cosa del tutto positiva; lei voleva ancora che Carter gli desse attenzioni e quelle erano esattamente le attenzioni che il ragazzo riusciva a dare.
L’unica cosa che disturbava il ragazzo in quel momento per lui idilliaco erano le urla di dolore della ragazza – poiché lui stava impiegando tutta la sua forza – e i singhiozzi sempre più sommessi, fin quando si dissiparono del tutto. La giovane smise anche di combattere, poiché aveva finalmente compreso che con Carter non poteva scamparla.
Soddisfatto di se stesso quando raggiunse l’orgasmo, si sfilò velocemente dalla ragazza con un ghigno soddisfatto sul viso e la lasciò sul letto immobile, forse troppo scossa per muoversi e fare qualsiasi gesto.
Ora si sentiva decisamente meglio, si sentiva più tranquillo e rilassato. Sapeva che una scopata era la soluzione a tutti i suoi problemi e che gli bastava davvero poco per essere appagato e felice.
Seppur avesse preso ciò che voleva, non fu ancora soddisfatto così si allungò verso il comodino accanto al letto e prese il suo portafogli. Aveva un sacco di soldi all’interno, non spendeva mai nulla, per conservarli in modo da potersi permettere la moto che tanto voleva; decise però di sacrificare cinquanta dollari e lanciarli con disprezzo sul letto della donna, che non li raccolse nemmeno.
Aveva pagato la sua puttana.
 
 
Central Park, alle 21. C.
Inviò il messaggio dopo averci pensato tutta la giornata. Era stato distratto per tutto il tempo, ripensando a ciò che era accaduto la mattina stessa, con quella ragazza che era stata a casa sua. Aaron che lavorava a un ponte più in là non sapeva naturalmente niente di ciò che era accaduto. Certe cose era meglio tenersele per sé.
Mentre si fermò per un attimo, osservando il suo migliore amico, un senso di colpa lo attraversò per un attimo che quasi si fece cadere dalle mani la lattina di benzina.
Il senso di colpa per ciò che aveva fatto, lo stava sfiorando. Era stato davvero cattivo. Tutto ciò era scaturito guardando Aaron e pensando alla sua delusione per ciò che avrebbe, raccontano. Quel sentimento era così nuovo per lui, che non conoscesse in nessun modo cosa significasse sentirsi in pena per qualcuno.
Quel sentimento strano e forse anche contorto – a parer suo – lasciò il posto a una nuova ondata di rabbia che lo scosse in tutto il corpo. Un mix di sentimenti contrastanti stavano facendo a pugni dentro di lui per vincere e la cosa non gli piaceva per niente.
«Carter ti senti bene? » La voce di Aaron interruppe il corso dei suoi pensieri. Si accorse solo di stare tremando quando si guardò per un attimo le mani scorgendole rosse e con le nocche bianche.
«Sto benissimo. » La sua voce uscì più dura di quanto voleva sembrare e quest’Aaron lo capì.
L’uomo in quel momento apprezzò veramente tanto il fatto che Aaron si limitò a dargli una pacca sulla spalla e lasciarlo da solo, perché era proprio ciò che gli occorreva in quel momento.
Non aveva bisogno di essere rincuorato o che qualcuno gli dicesse che sarebbe andato tutto bene o nel peggiore dei casi che era una merda, lo sapeva già di suo.
 
 
 
***
 
 
Ormai era sera quando Carter si recò al suo appuntamento. La sua mente era libera e rilassata da ogni pensiero di qualsiasi tipo. Egli occupò posto su una panchina a riparo di un albero, lontano da alcune persone. Aveva bisogno del tempo per riflettere. In tutto quel tempo che rimase da solo ad aspettare, fece i conti con la sua mente, che si divertì a riportargli a galla gli avvenimenti più brutti della sua vita.
Sembrava che tutti i pensieri negativi facessero a gara per uscire, riversandosi nella mente di Carter in modo che il ragazzo dovette poggiarsi le mani sulla fronte per scacciarli via.
Sospirò diverse volte, mentre i suoi occhi erano chiusi, rivivendo le esperienze che aveva passato a Kirov, tutte le percosse che aveva dovuto subire da parte dei bambini più grandi quando era piccolo e tutte le volte che era stato arrestato quando si trovava a Mosca. Ripensò perfino ai momenti bui e oscuri della sua tossicodipendenza, a quando era così disperato da dover rubare per sopravvivere.
Forse inconsciamente si ritrovò a pensare che l’unica cosa che voleva fosse essere almeno un po’ felice, essere come tutte le persone normali che una volta a casa hanno qualcuno su cui contare, ma nonostante i suoi sforzi non aveva ritrovato in nessuno una figura che potesse ricoprire quel ruolo.
«Carter? » Sussurrò quella voce che era così familiare al suo fianco. Kim aveva appena occupato il posto sulla panchina accanto a lui. Al collo portava una sciarpa leggera bianca con dei fiori verdi, mentre era stretta in un pullover più grosso di lei.
«Allora che dovevi dirmi? Arriva al dunque. » Sbottò lui. Non aveva intenzione di perdere altro tempo, o almeno di restare ancora con lei, gli era bastato ciò che avevano condiviso per più di un mese e lui stesso ne era sbalordito.
Kimberly ormai conosceva Carter, sapeva com’era fatto e non poteva aspettarsi un comportamento migliore.
«Sappi solo che mi dispiace. Io non credevo che sarebbe finita così… » Cominciò lei e sembrò di nuovo sull’orlo delle lacrime.
Che palle. Si ritrovò a pensare il ragazzo alzando gli occhi al cielo e sbuffando come il solito infastidito.
«Non avevamo nulla. Abbiamo scopato un paio di volte. Ti avevo avvertita, ti avevo detto che non avrei fatto il fidanzato. Dannazione! Perché non mi ascoltate mai? »Si ritrovò a imprecare più verso se stesso che verso di lei. Non poteva accollarsi quella colpa, ovviamente aveva fatto degli sbagli, ma questa volta no. Lui aveva detto fin dall’inizio che non sarebbe voluto divenire nulla di più con Kim, come il solito aveva frainteso come tutte le donne!
«Io sono incinta. » Buttò lì quelle parole interrompendo il flusso di pensieri di Carter.
Quest’ultimo non si rese conto di ciò che lei aveva appena detto, ma il suo cervello cominciò a funzionare si ritrovò con la bocca aperta e un terribile mal di stomaco.
«E allora? »
«E’ figlio tuo… » Sussurrò lei impaurita come se lui da un momento all’altro l’avesse schiaffeggiata.
«Impossibile. » Tagliò corto, anche se non credette a quelle parole nemmeno lui stesso.
«Invece sì… L’ho fatto apposta... Ti prego perdonami. Pensavo che ti piacessi, pensavo che a lungo andare ti saresti innamorato di me… Pensavo… Carter, Carter io ti amo. » Terminò lei guardandolo negli occhi mentre delle lacrime solcavano le sue guance.
Non era la prima volta che la vedeva piangere, era successo altre volte ed era stato per merito suo. Troppe informazioni da poter digerire. Gli aveva detto in un attimo che sarebbe diventato padre, che era fatto apposta e che lo amava. Amava. Che parola stupida! Era la prima volta che una donna gli aveva detto delle cose del genere, ma lui nel suo cuore non sentiva assolutamente nulla se non l’odio e il ribrezzo per ciò che lei gli aveva appena rivelato.
«Io non ti amo. » Asserì con tutta la cattiveria che possedeva in corpo in quel momento. Sicuramente avrebbe spaventato chiunque, perfino la persona più terribile al mondo.
La ragazza non sembrò per nulla stupefatta da quella rivelazione, anzi, abbassò il capo e assentì a quelle parole, cominciando nuovamente a piangere, questa volta con singhiozzi più forti che la spinsero in forti tremori in tutto il corpo.
Un odio si riversò invece in Carter, odiava con tutto il suo cuore quella ragazza dinanzi a sé, non gli importava che nel grembo portasse suo figlio sicuramente abominevole come il padre e come tale non sarebbe dovuto nascere per nulla al mondo.
Sì alzò dalla panchina e si rivolse alla giovane tenendo lo sguardo fermo e impassibile.
«Sbarazzati di quel mostro che porti nella pancia. Io non lo voglio. »
«Io non ucciderò mio figlio. » Rispose lei. L’istinto materno già le stava dando una scossa, facendola smettere di piangere e sul suo volto si disegnò un’espressione arrabbiata. Come compatirla, l’uomo le aveva appena detto di uccidere suo figlio.
«Non me ne frega. Fanne ciò che ti pare. Io non ho intenzione di rovinarmi la vita per questo. »
«La tua vita è già rovinata. Possibile che tu non te ne accorga? » Kim si alzò e raggiunse Carter tenendogli per la prima volta testa, fissandolo dritto negli occhi con voce ferma e decisa.
«Ognuno è libero di viversi la vita che vuole. Solo perché non m’interessa altro che il mio uccello, questo non significa che sia rovinato. »
Erano a pochi passi di distanza, guardandosi negli occhi. Lei era ferma e decisa, mentre lui era impassibile e indifferente. Se in precedenza la sua reazione poteva sembrare eccessiva a quella notizia, dopo che l’aveva ottenuta, si era come calmato, affrontando la realtà dei fatti: non gli importava nulla.
I loro occhi facevano a botte, quelli di lei stavano urlando qualcosa che lui non riusciva a concepire. Trovava in Carter solo un guscio vuoto, un muro fatto di ghiaccio e non riusciva nemmeno a scalfirlo, era troppo spesso per lei, troppo spesso per chiunque.
Non sapeva che lui tempo prima, si era ripromesso di non farsi più coinvolgere in nessun rapporto, perché era stato troppo difficile dover fare i conti con il suo cuore. Carter non sapeva spiegare come aveva fatto, ma una cosa era certa: il cuore che aveva nel petto aveva smesso di battere, impedendogli di provare qualsiasi cosa che non fosse odio.
Le persone lo avevano rovinato, la sua vita era rovinata dalle persone, partendo da quella sconsiderata che aveva abbandonato suo figlio, lui, su una strada. Carter non era poi così diverso dalla sua presunta madre, avrebbe abbandonato suo figlio senza alcun rimorso.
«Non chiamarmi più. Ti ho detto ciò che dovevo. Non voglio prendermi cura di nessuno dei due. » Con disprezzo fece un veloce gesto della mano, indicando sia lei sia la sua pancia, dove vi era il suo stesso sangue.  «Fanne ciò che ti pare. Ti consiglio di affogarlo appena nasce, cattivo sangue non mente mai. »
A quelle sue ultime parole, si voltò di spalle senza curarsi della giovane dinanzi a lui e si avviò per tornare a casa.
Aveva permesso che lui la mettesse incinta, era stata tanto stupida da pensare che lui se ne sarebbe innamorato una volta saputo, ma non aveva fatto i conti che a Carter non importava di niente e di nessuno.
 

                                       

Volevo iniziare il “mio angolo” con i ringraziamenti verso tutte le persone che stanno leggendo e stanno affidando il loro tempo a me. Subito dopo ringrazio le persone che hanno avuto il pensiero di recensire la mia storia facendomi emozionare per le belle parole.
Non so precisamente dire se questo capitolo mi sia piaciuto o no. E’ iniziato con una storia un po’ cruenta, toccando anche questa volta un argomento delicato che è la violenza – in questo caso carnale – sulle donne. Non giustifico ciò che fa il mio personaggio, ma ritenevo necessario per farvi capire a quanto può arrivare quest’uomo. Avverto che la storia risulterà lunga, credo almeno una trentina di capitoli perché nella mia mente è tutto in ordine periodico e ho ancora tante di quelle cose da scrivere! Mi piace procedere lentamente e con piccoli passi, affinché possa tracciare al meglio ogni personaggio e la sua evoluzione durante la storia.
Spero di non deludervi. Grazie ancora per il tempo che impiegate per leggere.
Un abbraccio Sally. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
 
 


Dell’accaduto non aveva raccontato nulla ad Aaron. Gli aveva celato ogni cosa, da cosa aveva fatto con quella ragazza fino alla notizia di Kim con il suo presunto figlio.  Non riteneva opportuno dover sbandierare ai quattro venti ciò che era accaduto, anche perché dicendolo al suo amico, avrebbe saputo anche Lexi e non aveva le forze per combatterla.
Lei avrebbe iniziato una guerra morale che proprio non gli andava giù, lo avrebbe additato come le persone più schifose e meschine al mondo, non che gli desse noia, ma non sopportava l’idea di sentire la sua voce gracchiante mentre lo rimproverava.
Il senso di colpa di ciò che aveva detto a Kim non lo aveva sfiorato nemmeno per un momento, come se non fosse successo nulla; si era perfino stupito che la ragazza lo avesse tenuto nascosto a suo padre, poiché quest’ultimo si comportava normalmente con Carter. Era soddisfatto che lei avesse capito che non aveva intenzione di prendersi cura di quel bambino.
Purtroppo però come Carter sapeva bene, le cose ben presto vennero a galla.
Era solo una mattina di metà Ottobre quando nell’officina fecero irruzione cinque forze dell’ordine.
Carter per un attimo tremò, ebbe paura che in qualche modo avessero scoperto il suo passato e che fosse spedito di nuovo a Mosca. Il pensiero di ritornare alla sua città natale lo fece sbiancare, ma era così privo di ogni sorta di emozione che lo nascose molto bene.
«Cavolo. Chi sa cosa è successo? » Aaron pronunciò quelle parole, lasciando il suo lavoro e avvicinandosi a Carter dopo che i poliziotti entrarono nell’ufficio di Josh.
«Non ne ho idea. Qualsiasi cosa sia, non mi riguarda. Basta che non mi sbattano per strada, devo pagare l’affitto. » Proferì con noncuranza, inabissando di nuovo la sua testa sotto la macchina che stava cercando di riparare.
Continuò il suo lavoro per vari istanti, ma fu disturbato da una voce profonda e roca che lo esortò a distaccarsi da quelli che erano i suoi compiti.
«Lei è Carter Blacknight? »
L’uomo uscì da sotto l’auto e vide in viso il poliziotto che aveva appena detto il suo nome. Cercò di nascondere il suo turbamento e ci riuscì bene. Si alzò da terra e pulendosi le mani sul pantalone ormai lercio, sostenne lo sguardo verde del suo interlocutore.
«Sì, sono io. »
Il poliziotto fece un cenno della testa e subito due gli si avvicinarono. Poggiarono le mani sulle sue spalle, costringendogli a piegare le braccia verso la schiena, in modo da riuscire ad ammanettarlo. Tutto ciò accadde sotto lo sguardo spaventato di Aaron.
«Ehi cosa state facendo?!» S’intromise Aaron portando le mani dinanzi a se, cercando di riuscire a fermare l’arresto del suo migliore amico.
«Non s’immischi signore o devo prendere provvedimenti. Carter Blacknight lei è in arresto per aver avuto comportamenti violenti e inappropriati. Qualsiasi cosa dirà senza la presenza del suo avvocato, sarà usata contro di lei in tribunale. » Ormai quel copione lo sapeva a memoria, così come l’effetto che facevano quelle spesse manette di ferro legate intorno ai propri polsi.
Merda. Era tutto ciò che riuscì a pensare. La sua espressione era impenetrabile, mentre uscì, notò l’espressione di disappunto e di delusione che il suo amico aveva stampata sul volto, insieme alla faccia sconvolta di Josh.
Quando uscirono in strada molti curiosi, si affacciarono a vedere la scena. Un normale meccanico che era deportato in una macchina della polizia, accompagnato con il suono delle sirene.
Adesso sì che era nella merda.
 
 
***
 
 

Il rumore della grata di ferro che si aprì non smosse Carter dalla sua posizione. Stava fissando il soffitto da ormai tre ore, non gli avevano nemmeno dato quella simpatica tutina arancione che per due anni a Mosca era stata il suo unico capo d’abbigliamento.
Dentro di sé girovagavano tante di quelle emozioni, rigorosamente negative. Quella lurida puttana di Jasmine lo aveva denunciato alle autorità, probabilmente avrebbe vinto anche la causa e lui sarebbe tornato in carcere. In un attimo si maledisse per quanto era stato sciocco. Cosa gli era saltato in mente? Un odio verso se stesso era tutto ciò che sentiva in quel momento. Non avrebbe sopportato di nuovo la reclusione, non poteva sopportarlo.
«Blacknight? Sono il detective Anderson. Volevo farle alcune domande. » Enunciò l’uomo che Carter ancora non aveva guardato in volto.
Egli non rispose alla domanda, limitandosi a guardare il soffitto bianco con chiazze nere, mentre digrignava i denti.
«Se collabora, verrà tutto più facile. » Continuò l’uomo, mentre si sentì una sedia strusciare sul pavimento. Si era portato dietro una sedia per un vero e proprio interrogatorio. Quei pensieri fecero sorridere Carter, era proprio tornato ai vecchi tempi.
«La faccio ridere Carter? » Domandò sempre il detective in attesa di una risposta.
Carter sbuffò e si mise a sedere, facendo leva con i gomiti. Una volta seduto, potette guardare il suo interlocutore; era un uomo abbastanza anziano con un elegante completo blu e una cravatta a scacchi dello stesso colore con inserzioni di bianco.
Fece schioccare la lingua e lo guardò con aria annoiata. Detestava gli interrogatori, trovandoli inutili e senza senso. Insomma a cosa servivano? Se eri arrestato perché loro già ti ritenevano colpevole, volevano solo pulirsi così la loro sporca coscienza.
«Andiamo dritto al sodo. » Pronunciò l’uomo con una finta aria da duro. Poggiò entrambi i gomiti sulle ginocchia e si protese verso Carter. «Ho controllato la sua schedina penale. E’ più nera della pece. Lei ha già dei precedenti di violenza, non sulle donne certo, ma ha picchiato svariati agenti quando è stato arrestato a Mosca. »
«Ha scomodato il dipartimento di Mosca. Wow, la polizia davvero è efficiente qui. »
«Non credo che mettersi a scherzare giova alla sua situazione. »
«Non sto scherzando. Cerco solo di rimanere calmo. » Disse Carter tranquillamente con un sorrisetto sulle labbra.
«Carter, lei è stato riconosciuto da Jasmine Perkins per violenze e abusi sessuali. » Profferì l’uomo con un’espressione seria, muovendosi appena irrequieto sulla sedia. Forse aveva timore di Carter? Non era così stupido d’aggredire un poliziotto in centrale.
A quelle parole però, lui scoppiò a ridere. Quella risata era strana e quasi inquietante, ma il detective non si smosse nemmeno per un istante, restò a fissare l’uomo con quei suoi occhi marroni penetranti.
«Trova anche questo divertente? Mi dica, troverà divertente anche quando la sbatteranno in cella? »
«Ascolti, da quando in qua scopare è una violenza? » Carter si protese a sua volta verso l’uomo e lo guardò dritto negli occhi. Scoprì tante buone intenzione negli occhi di chi aveva difronte e quasi ne fu disgustato. Non era nemmeno lontanamente come la polizia di Mosca. Gli avevano quasi spezzato le ossa con i manganelli prima di portarlo in cella. Aveva dovuto fare il suo primo interrogatorio nella sala d’infermeria per farsi curare un taglio sul sopracciglio.
«La donna ha mostrato segni di violenza quando si è presentata in ospedale. Non l’abbiamo incastrata per sbaglio. Siamo sicuri del reato da lei commesso. »
In quella situazione non sarebbe uscito facilmente, doveva ammetterlo. Se pure avessero fissato la cauzione, poiché era un reato minore, sarebbe comunque stata troppo alta per farlo uscire. In un certo senso però, si sentì sollevato che oltre a menzionare il suo passato, non avessero trovato nulla per cui incastrarlo anche per ciò che tempo addietro aveva commesso.
«Ognuno ha le sue fantasie. Mi piace farlo in un certo modo. Non mi dica che lei non ha mai provato. » Si limitò a stringersi nelle spalle, guardando il detective Anderson con un sorrisetto malizioso.
«No, non violo le donne in quel modo. »
«Non sa cosa si perde. »
«Non sa con chi si è messo contro, Carter. »
L’uomo si limitò nuovamente a stringersi nelle spalle e mise fine a quel discorso. Si distese nuovamente sulla fredda panca di ferro della sua cella. Si portò entrambe le mani sugli occhi, facendo chiaramente capire che quel discorso per lui era concluso.
Probabilmente con quel comportamento avrebbe fatto stizzire l’uomo, ma lui rimase calmo e si limitò a rispondergli: «Eseguirò di tutto per farla rinchiudere in cella. Così la smetterà di fare lo sbruffone. Ci vediamo in tribunale. »
 
 
***
 
 

Il giorno dopo, ricevette l’unica visita che veramente ne valeva la pena, quella dei suoi amici.
«L’ho sempre detto che ti saresti cacciato nei guai. » Disse Lexi con quel suo tono odioso da chi aveva sempre ragione.
Entrambi erano venuti a trovare Carter in cella, portandogli degli abiti puliti. Gli avevano appena detto che l’udienza era fissata per il mese successivo e che lui sarebbe dovuto rimanere lì. Aaron e Lexi si astennero dal fare commenti, una volta che Carter ebbe raccontato la sua versione dei fatti, omettendo ovviamente il momento del suo istante di rabbia e di aver davvero approfittato della ragazza il mese prima.
Era già abbastanza per lui dover sopportare lo sguardo accusatorio di Lexi, per la questione di Kim e il bambino, l’uomo si stupì di non aver udito ancora la sua opinione, Aaron doveva averle detto di stare tranquilla e non fare l’odiosa. Ennesima cosa che aveva apprezzato del suo amico.
«Comunque testimonierò a tuo favore. » Pronunciò Aaron sottovoce, cercando di non farsi udire dalla guardia che era appostata fuori alla sua cella, nemmeno se fosse stato un serial killer.
«Non c’è ne bisogno. » Tagliò corto Carter che nonostante considerasse Aaron come un fratello, cercava in tutti i modi possibili di non aver nessun favore da restituire.
«Quando la smetterai di comportarti da coglione? Ti ha detto che ti aiuteremo ed è quello che faremo. Sarai anche uno stronzo, ma sei il nostro amico. » Pronunciò Lexi forte e decisa.
Per la prima volta Lexi aveva detto quella parole, facendo provocare in Carter un attimo di sollievo. Era davvero così, loro erano suoi amici e lui si stupiva giorno dopo giorno come avessero potuto fare amicizia con una persona del genere. Cercò di addolcirsi, anche se in effetti non ne era capace, non sapeva come fare per essere gentile così si limitò ad annuire e abbassare la testa.
La bionda a quel gesto guardò entusiasta Aaron, quasi con vittoria per fargli capire che finalmente aveva smosso un po’ il tenebroso uomo che ormai conoscevano da un paio di mesi.
Rimasero ancora un po’ a colloquiare; Aaron lo stava aggiornando sul lavoro, confessando all’uomo che Josh era molto adirato con lui. Bene, avrebbe perso anche il lavoro, ma al momento era una cosa che ci avrebbe fatto i conti più tardi, se e quando sarebbe uscito.
La guardia aprì la grata di ferro e fece cenno ad Aaron e Lexi di uscire. Entrambi salutarono il ragazzo, Aaron si azzardò perfino a dargli una pacca sulla spalla, che per altro Carter non ammise ma ne aveva davvero bisogno in quel momento.
Tornò a distendersi sul letto, cercando qualcosa da fare quando la porta si aprì di nuovo e questa volta vi ritrovò il suo capo.
Carter si mise immediatamente a sedere, sorridendo per chi aveva visto, anche se era stata un’idea alquanto discutibile poiché dietro di lui vi era Kim. Avvertì nuovamente quella morsa allo stomaco. In quel momento era davvero nella merda.
Lei aveva la faccia come se avesse pianto per ore, i suoi occhi verdi erano rossi e gonfi di lacrime, il trucco sbavato e la faccia impaurita. L’attenzione dell’uomo si spostò sulla pancia della donna, che era fasciata da una giacca di panno, ma riusciva appena a intravedersi. Josh invece, aveva un’espressione dura sul volto e non prometteva nulla di buono.
«Josh. » Carter si alzò andando incontro all’uomo che era rimasto in piedi davanti alla porta, non riuscì però a dire nient’altro che un sonoro pungo si abbatté in pieno viso di Carter facendolo sbattere contro il pavimento.
Okay, si era meritato quel pungo in un certo senso. Portò una mano sul viso e la vide coperta di sangue, gli aveva spaccato il naso. Quel caldo sangue si riversò sul suo viso, sentendolo scorrere sulle sue labbra e ne approfittò per leccarlo e sentire il suo stesso sapore. Era amaro, certo non poteva essere altrimenti.
«Me lo sono meritato. » Aggiunse ironicamente allargando le braccia, mentre un gemito sommesso venne dalla figura dietro alle sue spalle. Kim trasalì quando il padre si mosse ancora, con la paura che lo potesse colpire di nuovo.
«Sei un lurido figlio di puttana. Credevi di poterla scampare così? Non m’interessa cosa cazzo fai nel tempo libero, ma hai osato di mettere incinta mia figlia! » Sputò quelle parole con un’ira che Carter non gli aveva mai visto e che certamente non gli si addiceva.
Il ragazzo cercò di misurare le parole, cercando in ogni modo di non farlo adirare ancora di più. Non era la saggia decisione dire che non voleva il figlio che la ragazza portava nel proprio grembo.
«E’ stata lei. Io le avevo detto che non volevo essere il suo ragazzo. Se devi arrabbiarti con qualcuno prenditela con lei. » Rispose duramente, pulendosi il sangue che continuò colare dal suo naso, con il dorso del braccio, sporcando la maglietta che poco prima aveva ripulito.
«L’uccello e tuo. Non dovevi toccare la mia bambina. Lei è più piccola di te. Adesso ti assumerai le tue responsabilità. »
«Le ho già detto che non lo voglio. »
«Oh no, tu adesso te ne prenderai cura e basta. Ti assumerai le tue responsabilità, perché non ho intenzione di accudire una figlia e il tuo bastardo. » Si avvicinò a lui e per la prima volta lo tenne testa. Era livido in volto, gli occhi erano quasi fuori dalle orbite per quanto fosse adirato, una vena gli pulsava sulla tempia. Carter lo tenne testa, non aveva paura di uno come lui, non aveva paura di nessuno. Guardò dietro l’uomo e vide Kim in preda alle lacrime che cercava di tirare suo padre dalla maglietta.
«Papà di prego, non importa. Papà… »
«Zitta svergognata. Lui ti ha disonorata e adesso deve prendersi cura di te. »
«In verità… » Stava appena per dire che non era stato lui a “violare” la sua bambina, ma che lei aveva già avuto le sue esperienze ed era sicuro che fossero state più di qualche avventura.
Quelle parole gli si mozzarono in gola, poiché gli arrivò un altro pungo dall’uomo. Carter lo prese sullo zigomo questa volta, provocandogli un dolore così lancinante che ebbe paura di essersi lussato l’osso.
La guardia non accusò nulla, rimase impassibile a fissare il vuoto dinanzi a sé.
Giustizia di merda. Si ritrovò a pensare Carter, poteva anche prenderle di santa ragione, nessuno sarebbe accorso al suo aiuto.
«Ho pagato la cauzione. Tornerai a casa e affitterai casa con mia figlia. Accudirai vostro figlio, altrimenti ti giuro che testimonierò contro di te in tribunale. Dirò che hai abusato anche di mia figlia contro il suo volere.  Non metterti contro di me Blacknight. » Lo minacciò l’uomo puntandogli contro un dito ciccione.
Carter rimase senza parole, non voleva assumersi quella responsabilità. Pensava di averla scampata invece non era così. Sapeva che una volta che lui avrebbe testimoniato contro Carter, sarebbe stato rispedito a Mosca dove il suo destino sarebbe stato ancor peggio di accudire un bambino.
Quel pensiero gli provocò un ennesimo conato di vomito, che trattenne rimandandolo giù. Non doveva farsi vedere debole agli occhi del suo capo.
«D’accordo. Mi prenderò cura di… » Chiuse gli occhi e strinse i denti. Li riaprì dopo poco e guardò Kim che era rimasta stupefatta, spostando poi lo sguardo su Josh che lo fissava con l’odio stampato negli occhi. «Mio figlio. »
Josh fece un cenno con il capo e si avvicinò nuovamente al ragazzo per sussurrargli: « Per me sei uno stronzo e un masochista, ma ti conosco da troppo tempo per sapere che non sei stupido. La posta in gioco è alta e non ti permetterai di trattare male anche mia figlia, ecco perché andrò a tuo favore. »
Non rimase a sentire ciò che Carter aveva da dire che tirando con il braccio Kim, si diresse all’uscita che prontamente la guardia gli aveva aperto.
Carter rimase da solo all’interno della sua cella. Poteva uscire e presentarsi in tribunale il mese seguente. Con un po’ di fortuna l’avrebbe scampata, ma aveva perso in ogni caso. Doveva dire addio alla sua vita e prendersi cura della figlia del suo capo, doveva prendersi cura di un figlio che non voleva. Come era possibile che fosse stato così stupido da lasciare che accadesse, aveva sbagliato tutto, da quando aveva messo piede a NY.
Senza che ebbe il tempo di collegare nuovamente altri pensieri si piegò sul bagno che si trovava accanto al letto e vi vomitò all’interno.
Dopotutto, forse, sarebbe stato meglio morire.


                                     
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9
 
 


Luglio, San Pietroburgo.
4 anni prima.
 

Quel periodo dell’anno era il momento che Carter meno amava, il fatto che ci fosse il sole per ventidue ore al giorno, non era quello che preferiva. A dire il vero, in Russia, non sapevano nemmeno cosa significasse l’estate vera e propria, poiché a Giugno c’erano ancora delle persone che giravano con le giacche, per via della temperatura mai stabile.
La parte della giornata che preferiva era la notte, poiché era libero di girare indisturbato per le strade e comprare la droga.
Si era avvicinato a quel mondo quando aveva diciotto anni; il suo percorso non era stato facile, poiché inizialmente si era visto costretto a spacciare per racimolare qualche soldo. Aveva perso il conto di tutte quelle volte che aveva dormito per strada, avvolto in spesse coperte prese nei cassonetti, per cercare di salvaguardarsi dal morire assiderato durante la notte. Quando capì che non potette più dormire per strada, grazie ai diversi gradi sotto zero che vi erano nel periodo invernale, decise che era giunto il tempo di darsi da fare.
Con quel “lavoro” i soldi erano facili, non doveva sforzarsi più di tanto, riusciva tranquillamente a mettersi una grossa somma di denaro da parte e addirittura comperare una specie di casa.
Sfortunatamente per lui, quel richiamo era troppo forte, che aveva spinto il giovane a provare, fino a diventarne dipendente a tutti gli effetti. Ciò che aveva fatto per permettersi la droga non era tra le cose più oneste che un uomo potesse fare. Si era visto complice di molte rapine a mano armata e diverse aggressioni in proprietà private; tutto per acquistare un bene che era così superfluo ma così indispensabile.
 
Sciolse il laccio emostatico che aveva fermato al bicipite, rilasciandolo piano piano, in modo che il sangue riuscisse a defluire e che spargesse in tutti i condotti venosi la dose che si era appena iniettato nel braccio. Una sensazione di torpore lo avvolse, facendolo sentire l’uomo più felice del mondo. Lentamente sfilò anche l’ago dal braccio, facendo fuoriuscire una gocciolina del suo sangue ormai troppo infettato da tutta quella roba.
«Questa è già la terza dose in cinque ore. » Gli fece notare Ostroff.
«Shhh… fammi godere questo momento. » Socchiuse gli occhi e poggiò la testa sullo schienale della propria auto.
Si erano fermati in un parcheggio, in modo che Carter potesse farsi una dose, mentre il suo migliore amico lo guardava con rimprovero.
Ostroff lo aveva conosciuto diversi anni prima, quando il suo capo Severin, lo aveva tolto dalla strada per offrirgli un posto nella banda. Lì aveva conosciuto tutti coloro che nel giro di poco tempo, era diventata la sua famiglia.
«Cazzo, devi essere lucido. Se quello tira fuori una pistola come cazzo facciamo? » Ostroff gli tirò una sberla dietro la testa e lo scosse da quel momento di totale assuefazione.
Carter lo guardò male. In quei momenti non aveva nemmeno la voglia di tenere gli occhi aperti, voleva solo sentire silenzio e crogiolarsi nella sua amata droga.
«Sta tranquillo. » La sua voce era così bassa che si perse quasi in un sussurro.
Poi fu tutto buio.
 
Non seppe dire cosa stava sognando, ma era qualcosa di veramente bello. Come un caleidoscopio di colori, dove ogni tono cambiava in continuazione e un susseguirsi di forme che velocemente cambiavano natura. Si ritrovò a sorridere fra sé e sé a quel senso di felicità imminente che lo aveva colpito. In un attimo, una fortissima luce irruppe quel bellissimo sogno e l’immagine sfocata di un’ombra, un’ombra in mezzo alla luce che lo chiamava.
Lentamente aprì gli occhi, si sentiva le palpebre così pesanti e quando finalmente riuscì a mettere a fuoco la vista, intride di nuovo quelle luci bianche che non era altro che una lampada al neon, situata sopra al soffitto. Dopo aver discostato l’attenzione dalla lampada intravide due occhi ambrati che lo guardarono spaventati.
«Grazie al cielo. Mi hai messo una paura fottuta. »
Sbatté diverse volte le palpebre per capire dove fosse. Quella certamente era la voce di Ostroff, poteva riconoscerla fra mille.
Cercò di mettersi a sedere, ma come una forza invisibile lo teneva inchiodato a quello che sembrava un letto d’ospedale. Doveva capirlo da quegli interni azzurrini e la luce forte, che era posta sulla struttura sopra al suo letto.  Solo quando provò a parlare, si rese conto che indossava una mascherina per l’ossigeno.
Ostroff che capì immediatamente la sua domanda silenziosa, si sporse sul letto e gli spiegò:
«Hai avuto un arresto cardiaco. Per fortuna che sono riuscito a chiamare in tempo aiuto. Ti ho salvato le chiappe anche questa volta. »
Sapeva che le intenzioni di Ostroff erano buone, ma perché non l’aveva lasciato morire? Un senso di nausea attanagliò il suo stomaco, portando anche un senso di smarrimento e di delusione.
Ogni volta che si drogava era ben consapevole che si avvicinava di un passo alla morte, non si curava che poteva perdere la vita, poiché quella era la sua intenzione.
Sprofondò nel cuscino, in preda all’amarezza di essere ancora vivo, mentre il suo amico festeggiava per avergli salvato la vita. Che bella merda.
«Volkov è sveglio? Devo misurargli la pressione. » Si sentì una voce femminile che provenne dalla porta d’ingresso alla camera.
Ostroff dovette fare un cenno di assenso con la testa, perché subito gli si avvicinò quella che gli sembrò una dottoressa e delicatamente gli prese il braccio, scostando il lenzuolo che lo ricopriva.
«Sono in paradiso. » Quella frase uscì strana fra le sue labbra, tutta colpa della mascherina che aveva su. La ragazza si ritrovò a sorridere e Carter notò i suoi capelli rossi, che ricedevano a piccole ciocche fuori dalla cuffietta che indossava.
«Volkov non si agiti. » Ridacchiò lei quando gli prese la pressione, segnandola su un blocchetto quasi come quello degli appunti, dopo di ché uscì accompagnata da un leggero fruscio degli abiti.
«Quella ragazza me la farei, seduta stante. » Ostroff pronunciò quelle parole guardando il suo amico sul letto, con uno sguardo d’intesa.
 
 
***
 
 
Passarono i giorni e la situazione di Carter si stabilizzò, non usò nemmeno più l’ossigeno, scampato il pericolo. Per tutto il tempo Ostroff e Tim erano stati a vegliare su di lui, facendogli compagnia il più delle volte tutta la giornata, quando il loro capo ovviamente non gli aveva assegnato compiti.
Carter si sentì sollevato nel sapere che Severin aveva chiesto della salute del giovane, non affatto adirato con lui per non aver adempito uno dei compiti che gli erano stati assegnati.
Il ragazzo era stato sempre scaltro e furbo, nessuno eseguiva i compiti meglio di lui, anche perché Severin considerava Carter suo figlio, al punto da permettergli di adottare il suo stesso cognome.
Quando Carter uscì dall’orfanotrofio a sedici anni, era ancora sprovvisto di un cognome, che quelli dell’istituto avevano rilasciato sulla sua scheda il nome “Carter Kirov” poiché era il cognome che affidavano ai bambini meno fortunati, che come lui non avevano trovato una famiglia.
Carter Volkov era ciò che compariva sulla sua scheda, ai piedi del suo letto d’ospedale.
Da quel giorno, quasi due settimane prima, non aveva più rivisto quella dottoressa con i capelli rossi che aveva colpito la sua attenzione. Era bellissima e aveva qualcosa di familiare, che proprio non riusciva a dire dove l’avesse vista. Probabilmente si era portato a letto anche lei, alcuni mesi prima o semplicemente assomigliava a qualcuna che aveva portato a letto mesi prima.
Stava addentando un pezzo di carne in padella, seduto sulla sedia accanto al tavolino situato nella stanza dell’ospedale, quando entrò di nuovo quella ragazza, lei era vestita di rosa e spingeva un carrello delle pulizie.
«Non sei una dottoressa allora. » Disse il giovane appena ventiduenne tanto forte da far sobbalzare la ragazza che gli stava rifacendo il letto.
«No, sono un’infermiera. Veramente sto facendo tirocinio. » La sua voce era dolce e melodiosa. Parlava con calma e con un enorme sorriso stampato sul volto.
«Sembravi tanto una dottoressa. »
«In realtà volevo esserlo, però ho deciso di specializzarmi in infermeria. Mi piace prendermi cura delle persone. » Disse l’ultima frase volgendo il viso verso Carter e un bagliore s’intravide nei suoi occhi, che erano contagiati dal sorriso.
Carter si ritrovò a corrugare la fronte e visto che erano argomenti che non tanto gl’interessavano, si dedicò nuovamente al suo pranzo, finendolo tutto in tre bocconi enormi.
La ragazza spinse il carello verso di Carter e si affrettò a ripulire anche sul tavolo, raccogliendo il contenitore con il suo pranzo, quando la targhetta appuntata sul camice, catturò la sua attenzione.
Annabeth Blacknight.
Carter afferrò il polso della giovane e la costrinse a girarsi, in modo da guardarla bene in viso. Quegli occhi, quegli occhi che non avrebbe mai dimenticato.
«Anna, sei tu? » Gli chiese con una voce così stupita che si meravigliò anch’egli del tono che aveva avuto.
La giovane per un attimo apparve stranita da quella domanda, ma poi quando lo guardò negli occhi lo riconobbe.
«Oddio! Come ho fatto a non capirlo prima. » Scosse la testa e senza avere un attimo di tentennamento si gettò al collo dell’uomo e lo strinse a sé forte. «Carter, come ho potuto non riconoscerti prima. »
 
 
***
 
Dicembre, San Pietroburgo.
4 anni prima.
 
 
«Questo è per te. » Anna gli porse un regalo avvolto in una spessa carta da regalo rossa con dei campanellini d’oro.
Carter guardò il pacchetto e storse il naso. Non aveva mai avuto regali a Natale e quello era sicuramente insolito per lui. Era una delle festività che odiava, non che amasse tutte le altre, semplicemente quella era la più orribile, poiché gli riportava a galla tanti episodi spiacevoli.
Anna lo guardò con uno sguardò penetrante ed era una delle cose che più gl’incutevano timore.  Sbuffò e afferrò il regalo fra le mani della ragazza e si apprestò a scartarlo.  Vi trovò un modellino di una moto che amava più di tutte. Era stato un regalo davvero carino da parte sua, poiché da quando avevano cominciato ad uscire insieme, lei sapeva benissimo che era il suo sogno riuscire a comprare quella moto.
«Non posso comprartela, ma pensavo che fosse carino comprarla in miniatura… così puoi ricordare quali sono i tuoi scopi. » Disse lei prendendo dalle mani di Carter la moto e girandosela fra le mani, per prendere un bigliettino arrotolato nel piccolo tubicino di scappamento della moto, che porse poi all’uomo.
Lo raccolse fra le mani delicate della giovane e lo srotolò mostrando a Carter una pagina di un libro che lei gli leggeva quando si trovavano a Kirov.
Lui la guardò e sentì nuovamente il suo cuore battere come quel giorno che erano fuori in giardino esattamente il giorno che lei gli prese la mano e lo strinse forte.
Da quando aveva ritrovato Anna in ospedale, i due si erano rivisti diverse volte, per uscire e per parlare. Carter non aveva mai provato a portarsi a letto la ragazza, poiché ogni qualvolta che si prefissava di farlo, uno strano sfarfallio nel cuore lo faceva sentire a disagio. Così aveva completamente abbandonato l’idea e seppur non credeva nell’amicizia fra uomo e donna, i due erano diventati amici.
«Ehi, va tutto bene. » Sussurrò lei, inginocchiandosi ai suoi piedi.
Si trovavano nell’appartamento di Anna, al centro della città e avanti a loro c’era l’albero di Natale addobbato a festa. Ogni tanto si vedevano per parlare e per mangiare insieme, poiché lei era una cuoca bravissima.
Il ragazzo deglutì e cercò di alzarsi dal divano, ma si sentiva tutto un formicolio nelle mani e nei piedi, avvertendo anche un desiderio strano e assurdo di catturare le labbra di quella ragazza fra le sue.
Aveva avuto tante di quelle esperienze sessuali che ormai aveva perso il conto, però i baci erano una cosa tabù per tutti, forse perché inconsciamente gli ricordavano che Anna lo abbandonò subito dopo averlo baciato, anche se allora non capì quanto lei fosse in realtà importante per lui. In quel momento, avendola avanti agli occhi, capì quanto lei fosse indispensabile.
Era stata la persona che non l’aveva mai abbandonato in quel maledettissimo posto, era stata l’unica che nonostante sapesse della sua vita e delle sue azioni illegali, non era scappata via, ed era l’unica a fargli sentire quelle sensazioni.
Lei lo guardò negli occhi senza dire nulla, sorridendogli e mentre il suo sguardo era fisso sulle labbra carnose del ragazzo. Incerta alzò una mano, per posarla con cautela sul viso di Carter, senza distogliere lo sguardo dal suo.
«Va tutto bene. Sono qui. Sono qui. » Sussurrò lei sempre più vicina alle sue labbra, i capelli rossi che le incorniciavano il viso e il suo profumo che gli annebbiava i sensi.
«Promettimi che domattina sarai ancora qui. » Sussurrò il ragazzo dopo aver socchiuso appena gli occhi.
«Fin quando lo vorrai. Nessuno mi porterà via da te. »
Lui non aggiunse altro che ridusse le distanze e si avvicinò del tutto a Anna, poggiando le proprie labbra su quelle della ragazza, in un bacio che lo coinvolse in tutti i sensi. Quel bacio a distanza di tredici anni, era ancora come lo ricordava, come ricordava le labbra morbide di lei.
In un attimo quel bacio tenero si trasformò in foga, portando la ragazza a salire sulle gambe di Carter, assaporando ogni istante di quel bacio che via via si stava trasformando in mera passione.
Carter le afferrò i glutei con le mani e li strinse forte, facendo aderire completamente il petto della ragazza al proprio. Con un gesto, capovolse la situazione, portando la ragazza sotto di se. Le loro labbra ancora incollate, le lingue che si cercavano girando in tondo e una volta trovate non smettevano di giocare e allacciarsi. Carter era preso dall’eccitazione e dalla voglia di avere quella ragazza tutta per se, di sentire il suo respiro nel momento in cui avrebbero unito i loro corpi e sentito gli ansimi di lei, diventare sempre più rumorosi fino a quando insieme avrebbero solcato la soglia del piacere.
«Aspettavo da tredici anni questo momento. » Sussurrò lei con un sorriso e si abbandonò completamente all’uomo sopra di lei.
«Odio ammetterlo, ma anch’io. »
«Shh… fammi tua. » Sussurrò lei prima di catturare di nuovo il labbro inferiore di Carter e lasciare che le emozioni di quel momento facessero il loro corso.
 
 
***
 
 
Novembre, New York.
Today.
 
 
«Allora signori cosa pensate di questa casa? » Quella voce era così sicura di sé che Carter la odiò. Sbuffò mentre guardò fuori dalla finestra la strada trafficata al centro di NY, dove Kim aveva pensato – sotto comando di suo padre – di affittare casa, in modo da trovarsi nello stesso quartiere dei suoi genitori.
«Mi piace, è davvero carina. » Disse lei tutta contenta, poggiando una mano sulla sua pancia, che ormai era ben visibile. Si voltò verso Carter e lo chiamò per catturare la sua attenzione.
«Carter, allora cosa dici? »
Lui si strinse nelle spalle e guardò l’agente immobiliare in piedi davanti Kim, con la faccia speranzosa e quell’odiosa espressione cordiale che lo faceva risultare ancora più antipatico di quanto in realtà volesse sembrare.
«Basta che ci sono quattro mura. Non m’importa. » Tagliò corto il giovane, girovagando per l’appartamento che era vuoto. Le pareti erano rivestite di un’orribile carta da parati giallina, mentre sul pavimento vi era il parquet.
Guardò Kim che invece era felice di quella casa e immaginò che alla fine l’avrebbero affittata.
Erano passate tre settimane da quando Josh lo aveva tirato fuori dalla cella e d’allora era sotto stretto controllo, tanto che Josh aveva chiamato la padrona di casa di Carter dicendole che non avrebbe rinnovato il contratto d’affitto. Era praticamente fottuto.
Quelle erano le condizioni, finire in cella tutta la vita oppure passare il resto dei suoi giorni a fingere d’importarsene qualcosa di quella donna e di suo figlio.
«Bene allora avvierò le pratiche e in settimana vi faccio firmare tutto. Intanto queste sono le chiavi, la padrona di casa non ha problemi a cedervela prima. » L’agente allungò la mano porgendo le chiavi a Kim che le prese felice come una pasqua.
«Allora vi lascio. Buona serata signori Blacknight. »
«Non siamo sposati. » Lo corresse Carter con quella sua voce odiosa e dura, facendo rimanere un attimo in silenzio l’uomo e anche Kim che si fissò la punta delle scarpe.
Carter si avvicinò velocemente alla porta e la aprì, esortando l’uomo a uscire, che in quel momento prese al balzo l’invito e uscì senza aggiungere altro. La porta si richiuse dietro l’uomo con un sonoro rumore e il silenzio regnò fra i due giovani.
«Hai detto che eravamo sposati? » Domandò lui tagliente.
«No. Lo sai che non lo farei. » Sussurrò lei con una vocina piccola piccola.
«Bene. Sai che non lo faremo mai. Non ci sposeremo mai. Questo è sicuro. Meglio che se lo metta in testa anche tuo padre. » Proferì lui mentre si dedicò a fare un ennesimo giro per casa, guardando in tutte le stanze e convincendosi di farsela piacere, che poteva farcela.
«D’accordo. » Acconsentì lei e intanto lo seguì per casa, fin quando entrambi raggiunsero la stanza da letto.
«Carter, devo dirti una cosa. »
Lui si fermò al centro della stanza e la guardò in attesa, chiedendosi cosa mai avesse da dirgli.
«E’ un maschietto. » Lo disse con la gioia sul volto, che in un attimo si tramutarono in lacrime che fecero per un attimo sbuffare Carter. Lei si girò nascondendosi il viso con le mani.
Carter pensò che quella d’ora in poi sarebbe stata la sua vita, che quel bambino che lei portava in grembo era suo figlio e in un modo o nell’altro doveva prendersi cura di entrambi. Era sicuro che non sarebbe stato in grado di fare il genitore in alcun modo. Buttando all’aria tutti buoni propositi si avvicinò a lei e cinse la vita con le braccia, poggiando incertamente la sua testa sulla spalla della ragazza.
La sentì irrigidirsi per quel gesto improvviso, forse non credendo che lui avesse fatto qualcosa di carino per confortarla. Si girò per guardarlo negli occhi e ne approfittò per un attimo di poggiargli il viso sul petto, sentendo il suo respiro farsi sempre più irregolare. Carter s’irrigidì lui questa volta, non amava quelle effusioni gli sembrarono decisamente strane e fastidiose sotto un certo senso.
«Sono dispiaciuta. Io sono felice per questo bambino, ma sono dispiaciuta di aver rovinato la tua vita. Tu non lo vuoi e la tua infelicità non mi permette di essere felice. » Sussurrò le con le labbra premute contro il petto di Carter, potendo sentire anche la sua maglietta farsi via via bagnata dalle lacrime salate della ragazza.
Non poteva farci nulla, un bambino era ciò che lui non voleva. Non voleva quella vita e per quello che ne sapeva non ne avrebbe mai voluta una. In un attimo si permise di rompere la sua corazza e permettersi un unico pensiero positivo, dispiacendosi che la ragazza avesse fatto ciò ad un uomo così insensibile come Carter.
I suoi pensieri cambiavano natura così velocemente che un attimo dopo si riprese e pensò che chi fosse causa del suo male, doveva piangere se stesso.
Se quella era la vita che la ragazza voleva, che avesse incastrato l’uomo affinché lui la desiderasse con lei. Un’idea gli balenò in mente e decise di coglierla al volo. Avrebbe accolto i desideri della giovane, ma apportando le dovute modifiche. Il padre gli aveva imposto di stare con la figlia, non aveva specificato che nel frattempo doveva stare solo con lei.
Quel pensiero gli costò meno fatica di promettere alla donna di essere l’unica nella sua vita. Quasi si sentì più sollevato a meno restio a quell’idea, dopotutto avrebbe avuto sempre una scopata assicurata.


                                                         

 
 Questo capitolo è stato terribile perdonatemi. Prometto di fare di meglio la prossima volta. ç_ç
Sono partita bene e ho concluso malissimo.
Ad ogni modo, ringrazio di cuore:  niky_nylon; Khaimee95 e Hicetnunc95 che leggono tutti i miei capitoli e mi danno la spinta (?) giusta per continuare. Ringrazio anche tutti coloro che si limitano a leggere e anche chi ha inserito questa storia fra le liste! Grazie di cuore.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 
Dicembre era ormai alle porte e Carter aveva avuto un piccolo assaggio della sua vita di coppia. In quei giorni avevano appena finito di portare le cose nella loro nuova casa, quella che sarebbe stata la tortura di Carter probabilmente finché egli non avrebbe tirato le cuoia.

« Non credo che sarà poi tanto male. » Disse Aaron un giorno, mentre Carter si apprestava a chiudere la serranda dell’officina. Mai come quella sera avevano fatto notevolmente tardi e l’uomo non sentiva nessun bisogno e nessun dovere di tornare a casa da Kim.
Alle parole di Aaron, egli si girò dopo aver assicurato lo spesso catenaccio al pavimento e guardò il suo amico con una faccia che se solo avesse potuto, l’avrebbe fulminato. Come il solito, il giovane non si faceva intimorire da Carter e gli diede una sonora pacca sulla spalla.
« Secondo me esageri amico. Insomma, è una bella topina quella lì. E’ ricca, suo padre ti dà da mangiare. Che cosa vuoi di più dalla vita? » Continuò a dire, pensando di poter tirare su il morale all’uomo che mai come in quel periodo aveva lo sguardo funereo.
« Non voglio risponderti male. Quindi è il caso che la pianti Kerr. » Lo asserì Carter con il gelo nella voce, lo stesso gelo che aveva colto quelle due figure sul marciapiede di quella strada isolata di NY.
Aaron aprì la bocca per replicare, ma evidentemente pensò che forse non fosse il caso di discutere con il suo migliore amico. Egli sapeva quanto poteva essere cocciuto e caparbio e sapeva anche a cosa poteva andare incontro se lo avrebbe fatto adirare.
Nessuno dei due aveva osato proferire parola, dopo che era stato tirato fuori di prigione, sulla violenza che Carter aveva fatto su Jasmine. Carter sapeva che l’amico non condivideva – come avrebbe potuto farlo – e quindi entrambi sapevano che quello era un argomento tabù.
« Quando intendi sposare Alexis? » Domandò di getto, non che gli importasse particolarmente ma aveva notato come lei guardava con invidia Kim, quelle poche e rare volte che era riuscita a salire a casa di Carter per aiutarlo a smontare i bagagli e dare “un tocco di vita” a quella casa.
« Cosa? Sposarmi? Sposarla? » Intanto avevano cominciato a camminare, entrambi diretto verso la macchina di Aaron, che avrebbe dato un passaggio a Carter sino alla sua nuova dimora, dirigendosi poi al locale dove Lexi stava facendo il suo ultimo turno. « Adesso credo che stai un po’ esagerando. Insomma, la amo. » E a quella parola Carter fece una piccola smorfietta disgustata che però passo in osservata al suo migliore amico, che continuò quel discorso. « Sai non credo che lei voglia sposarsi. Non lo sa nemmeno lei. Poi credo di non essere pronto per questo. O forse sì… »
Carter ascoltò cercando per una volta di non infischiarsene e magari di comportarsi come un degno amico, cosa che Aaron aveva fatto in più di un’occasione con lui.
« Dormici su. Anzi, vai a casa e fatti una bella scopata. E’ ciò che serve anche a me ora. » Disse Carter con un tono severo nella voce e si fermò davanti all’auto di Aaron. « Non pensarci. E’ ancora presto. » Aggiunse rendendosi conto che non era il consiglio che il suo amico avrebbe voluto ricevere; evidentemente gli bastò perché Aaron sembrò pensarci e annuì con il capo.
« Dai sali, ci andiamo a fare una birretta e poi ti accompagno. »
« No, credo che mi farò quattro passi. Ci vediamo lunedì. »
Senza aspettare una risposta s’incamminò per la buia stradina, alzando la mano e facendo un cenno di saluto al suo amico che sicuramente lo stava guardando da lontano.
Restare da solo con se stesso era probabilmente ciò di cui aveva bisogno. Sentiva la necessità di sentire il rumore dei propri passi affondare in quella soffice neve che era caduta qualche giorno prima. Ripensò alla sua vita e com’era cambiata da sei mesi a quella parte. Ripensò per un attimo fugace a Kim, che era così ingenua e così stupida da credere che lui si sarebbe innamorato, ma era stata anche sicuramente furba, perché alla fine lei lo aveva incastrato a dovere.
Gli scappò una risata fra le labbra, che fece girare una coppia di ragazzini poco avanti a lui, che teneramente si tenevano per mano, ma non ci badò più di tanto. Continuò per la sua strada, soffermandosi di tanto in tanto a dare uno sguardo alle vetrine dei negozi che ancora non erano stati chiusi.
Passò davanti a un negozio che aveva in vetrina delle cose per bambini e si fermò per un momento a guardare all’interno. Il negozio era già chiuso, ma dalle luci in strada riusciva a scorgere in penombra un manichino senza testa, con indosso un ambito prémaman, con accanto una carrozzina a tre ruote.
Fece un sospiro e pensò a quanti soldi avrebbe dovuto spendere per quel marmocchio in arrivo.
Già, quel marmocchio era un maschietto. Non aveva pensato nemmeno al nome da dargli. Kim dal suo canto aveva così paura di chiedere a Carter del bambino, che nemmeno gli aveva confessato che aveva stilato una lista di nomi. Lui l’aveva trovata la sera prima, scorgendo la lista aveva notato un nome che vagamente poteva piacergli: Nathan. Era un nome carino, anche se dava l’aria da sfigatello bamboccio.
Se il marmocchio fosse stato fortunato, sarebbe nato uno sfigato invece che un essere crudele come suo padre.

« Hai trovato qualcosa d’interessante? » Una voce alle sue spalle lo dissuase dai suoi pensieri e dalla vetrina che stava guardando con tanta attenzione, notò una figura dietro di lui, con indosso uno spesso maglioncino di lana e un cappello fatto ai ferri, color rosso.
« Sto cominciando a proporre due ipotesi. »
« Sentiamo. »
« O t’interesso, o mi stai pedinando. Ovviamente entrambe sono legate e sono plausibili. » Enunciò Carter sfoderando il suo sorriso ammaliatore e si voltò verso Charlotte, che era alle sue spalle.
Quella ragazza era veramente uno schianto.
« Nessuna delle due. Diciamo che è la strada che faccio per tornare a casa e ti ho visto. Sei consapevole del fatto che ti sei incantato davanti a una vetrina per bambini? Hai un pargoletto a casa? » Domandò lei incuriosita, avanzando di qualche passo, disponendosi accanto a lui, in modo che anch’ella potette guardare nella vetrina e con un sorriso, si soffermò sugli abiti del manichino.
« Dopotutto non ti faccio così paura. L’ultima volta sei scappata a gambe levate. » Continuò lui avvicinandosi alla ragazza, in modo da mettersi di fronte a lei.
Lei lo guardò negli occhi, quei bellissimi occhi nocciola con una sfumatura chiara all’interno, ma soprattutto erano così luminosi, che Carter quasi si perse in quello sguardo.
« Ci ho pensato… »
« AH! Allora mi hai pensato. »
Lei rise e con fare scherzoso gli diede una leggera spintarella.
« Non mi capita tutti i giorni d’incontrare una persona che mi segue fin sotto casa per sapere come mi chiamo. Semplicemente ero curiosa di sapere il motivo. »
« Sei una bellissima ragazza, credo che il motivo era palese. » Aggiunse Carter e si avvicinò ancora a lei, quasi come se la volesse baciare. La ragazza rimase immobile davanti a lui, come a pensare alle parole che egli aveva appena detto, pensandoci se doveva crederci oppure no. Intanto che respirava delle nuvolette di vapore, si liberarono dalle sue labbra semiaperte che Carter in quel momento non smise di guardare.
« Non vorrai mica baciarmi. » Esordì lei, e lui notò che lo sguardo della ragazza si posò sulle proprie labbra e per un momento ne fu compiaciuto.
« Vorresti che lo facessi? » Domandò in tono del tutto ammaliatore. I baci erano fuori questione, per qualsiasi cosa, ma per portare avanti la sua scommessa e per darla vinta a Lexi, avrebbe fatto letteralmente di tutto. Il pensiero di Kim a casa che lo stava aspettando per la cena, non lo oltrepassò nemmeno per un secondo, semplicemente gli era indifferente. La ragazza lo colpiva molto, lei sapeva come stuzzicarlo e la cosa lo divertiva veramente tanto.
« In realtà no. Non ho baciato nessuno e tecnicamente non sarebbe un bel posto per un bacio. » Ella si strinse nelle spalle e le sue guance di colorarono di rosso, si vedeva che lei era visibilmente in imbarazzo.
Carter si chiede come fosse possibile e il pensiero che lo oltrepassò fu quello che la ragazza probabilmente fosse una sfigata. Lei pensò la stessa cosa, perché si affrettò ad aggiungere. « Non di recente. »
Carter scoppiò a ridere in faccia alla ragazza, poiché si era già fatto un’idea della giovane che però fece un passo indietro e si sistemò il cappello sulla testa, con aria imbarazzata.
« Dammi il tuo cellulare. »
« Come prego? »
« Dammi il tuo cellulare. » Ripeté la ragazza e distese il braccio, mostrando il palmo fasciato da uno spesso guanto di pelliccia.
L’uomo dubbioso prese il cellulare dalla tasca e lo posò sul palmo della ragazza. Lei lo guardò sorridendo e si sfilò il guanto e compose velocemente un numero, per poi porgerlo di nuovo a Carter.
« Fra due settimane devo partire. Starò fuori per una settimana. Vado in Europa. Se vuoi quando torno, possiamo incontrarci. Puoi scrivermi, ovviamente. »
Guardò il cellulare, ove lampeggiava sul display il numero della ragazza e sorrise soddisfatto, aveva fatto centro, perfino in quella figa di legno come lei. Sicuramente era una ragazza tosta, ma alla fine avrebbe fatto di lei, l’ennesima tacca sul muro.
« Ora devo andare. » Enunciò lei, e fece un passo, sorpassando Carter che nel frattempo si era messo il telefono in tasca. Lui osservò la camminata della ragazza che era leggera e quasi saltellante, proprio come quella di una bambina. « Oh, non so nemmeno come ti chiami. » Disse con voce alta la ragazza, poiché era già arrivata dall’altro lato della strada.
« Carter. »
« Bel nome. Buonanotte Carter! »



 
***
 
Fece piano ad inserire la chiave nella toppa, poiché erano già passate l’una di notte. Si era soffermato in un bar vicino casa e aveva fatto un po’ il cretino con la barista, ma la cosa era finita lì. Era sicuramente stanco e non sarebbe riuscito a farsi venire un’erezione nemmeno con una scatola intera di Viagra.
Con un gesto del tallone, si tolse entrambe le scarpe davanti all’ingresso, raccogliendole subito dopo per non lasciare disordine in casa, come se non bastassero già quegli scatoloni nel salotto che ancora non avevano avuto il tempo di mettere in ordine.
Percorse tutto il salotto, fino ad arrivare in stanza da letto, ove Kim lo stava aspettando per sua sorpresa sveglia.
« Sei tornato tardi anche stasera. » Disse lei con un tono leggermente timoroso, ma che voleva far sembrare di essere una donna che sapeva tenergli testa. Lui in tutta risposta gli fece un grugnito e cominciò a spogliarsi ai piedi del letto.
Lasciò che la spessa giacca imbottita gli sfilasse dalle spalle, percorrendo le braccia muscolose, fino a cadergli ai piedi. La stessa cosa con i pantaloni, dopo aver tolto la cinta, li fece cadere lungo le sue gambe, mostrandosi interamente nudo. Si voltò verso Kim che intanto lo guardava mordendosi un labbro. Egli non ci fece caso, non l’aveva toccata da quell’ultima volta a casa sua, dove lei era scappata via piangendo e non aveva intenzione di farlo in quel momento.
Si avvicinò alla sua parte del letto, dopo aver ignorato volutamente la ragazza che evidentemente lo stava attendendo per inaugurare la loro nuova casa ma Carter era stanco e per quanto fosse strano che lui rifiutasse del buon sesso, non si sentiva in vena. Quindi scostò le lenzuola e si ricoprì all’istante.
Nemmeno passati due minuti da quando si era coricato, che Kim si avvicinò a lui sotto le coperte, accarezzando con le sue mani sottili il suo bicipite, fino a salire lungo la sua spalla, mentre con un movimento sinuoso si avvicinò a lui disponendosi quasi sopra di lui, in modo che egli potesse notare che anch’ella era nuda.
« Che cosa stai facendo? »
« Voglio dare piacere al mio uomo. » Sussurrò lei in tono di sfida, lo stesso che aveva usato diversi mesi prima in officina dal padre, lo stesso tono che aveva messo nel sacco Carter. Purtroppo per lui e per il suo autocontrollo, non riuscì a non cedervi, proprio come mesi prima.
Non lasciò che lei lo dicesse due volte e con un gesto veloce, la spinse dall’altra parte del letto e per quanto quella pancia gli permettesse, si dispose sopra di lei, premendo la sua erezione sul basso ventre della ragazza. Lei soffocò un gemito e lui ne provò così piacere, che la sua erezione crebbe ancora un po’.
Desideroso di possederla in quel momento; fece scivolare il palmo della mano lungo la linea del fianco della ragazza, sfiorando con la punta delle dita poi il suo capezzolo, prima di stringerlo fra il pollice e l’indice e tirarlo con decisione verso se stesso. La ragazza s’inarcò sotto le sue attenzioni e lui procedette a baciarle il collo, fino a scendere nello spazio che divideva entrambi i seni, lasciando in un secondo momento una linea immaginaria di morsi, lungo tutta l’aureola del seno destro della ragazza, prima di chiudere il suo capezzolo fra le labbra e succhiarlo con avidità e desiderio. Fece la stessa cosa con l’altro seno della ragazza, beandosi di quei suoi ansimi di piacere, che in quel momento riempivano la stanza.
In quel momento desiderò sentirla urlare, voleva le sue urla di piacere, così si distaccò dal seno della ragazza, giungendo verso la sua intimità, dopo averle divaricato le gambe.
Si liberò da quelle lenzuola fin troppo scomode per entrambi e lentamente si dedicò a darle piacere, inabissando la testa fra le gambe della ragazza.
La sua intimità era turgida e poteva già vederla contrarsi, prima ancora che la lingua giungesse sulla parte superiore, risucchiando fra le labbra la clitoride della ragazza e a succhiarla. Lei cominciò a contorcersi dal piacere, mentre con una mano afferrò i capelli di Carter, tirandoli dal piacere che egli le stava dando.
Si era dimenticato che buon sapore avesse e com’erano intensi i suoi gemiti e i suoi ansimi, che si facevano via via sempre più frequenti.
Con la lingua disegnò dei cerchi tutto intorno alla sua clitoride, che morse anche svariate volte, la giusta intensità da farla gemere e tirare le lenzuola sotto di lei, poteva sentire quasi le sue urla soffocate. Avvicinò le dita e lentamente prese a penetrarla, era abbastanza bagnata senza che ci fu bisogno per lui di leccarle, così con dei movimenti lenti e studiati, cominciò a far scorrere le sue dita dentro e fuori dalla sua intimità, liberando infine quelle urla che egli aveva tanto agognato.
Immediatamente la lasciò in quello stato e stendendosi da una parte del letto la condusse sopra di sé, affinché potesse avere un’ampia visione del suo corpo mozzafiato, anche con quella sporgenza che rovinava un po’ l’atmosfera, ma cercò di non pensarci più di tanto e godersi quella scopata liberatoria.
La ragazza si sedette sulla sua erezione e cominciò quei movimenti dapprima lenti e poi sempre più veloci, mentre il viso di Carter era assuefatto dal piacere. Chiuse gli occhi e per un attimo s’immagino Charlotte sopra di lui a muoversi in quel modo, e a quel pensiero gli venne una foga che non si era mai trovato a provare.
Quella sera fece sesso con Kim tre volte e tutte e tre le volte, il suo pensiero era rivolto a quella ragazza con il cappellino di lana.





Ho fatto questo decimo capitolo con un anno di ritardo. Sono veramente pessima! Tra alti e bassi, università e poca ispirazione, non mi veniva mai niente di decente ma questa volta ci sono riuscita – anche se non credo che sia buono come i precedenti -.
Beh, come sempre spero che vi sia piaciuto e come sempre v’invito a lasciarmi qualche parere, mi farebbe tanto piacere.
Ah una domanda: con chi vedete bene Carter? Con Kim o con Charlotte?
Ci saranno dei colpi di scena, però non voglio anticipare nulla.
Come sempre vi ringrazio e vi mando un abbraccio.

- Sally.

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