Il giro del mio mondo in 80 righe di steph808 (/viewuser.php?uid=246904)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In cui si parla di animali e delle relative zampe ***
Capitolo 2: *** Nel quale si incontrano due bionde ***
Capitolo 3: *** In cui si conosce il destino di Agenore ***
Capitolo 4: *** Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari hanno un cuore ***
Capitolo 5: *** In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi pensieri ***
Capitolo 6: *** Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato ***
Capitolo 7: *** Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa tragedia ***
Capitolo 8: *** Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale ***
Capitolo 9: *** Dove si sperimenta l’affetto filiale ***
Capitolo 10: *** Nel quale non si contano le idee ***
Capitolo 11: *** In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti ***
Capitolo 12: *** Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere ***
Capitolo 13: *** Dove l’universo probabilmente collassa ***
Capitolo 1 *** In cui si parla di animali e delle relative zampe ***
capitolo1
Capitolo 1 In cui si parla di animali e delle relative zampe
«Guarda! Guarda come trattano quella povera bestiola!»
Claudia è un’amica degli animali, e noi lo sappiamo, ma
avevo l’impressione che stesse esagerando.
«Che tenero! Che occhietti vispi!» continuò lei.
«Claudia…»
«Le hanno pure legato le zampine! È un trattamento inumano!»
Iniziavano a guardarci, io volevo trascinarla via, oppure
sotterrarmi.
Provai a convincerla con le buone maniere, parlando adagio.
«Ti prego… Non mi sembra così inumano come dici… e in realtà
non mi sembrano nemmeno zampe…»
Mi fulminò con lo sguardo.
Poi scosse la testa come se, invece di un’amica, avesse
appena visto l’abominevole uomo delle nevi. Anzi, no. Claudia proverebbe
simpatia per lo yeti, perché si innamora a prima vista di tutti gli animali,
quelli carini e simpatici ma anche quelli brutti e orrendi. Se fossero solo
orrendi, ci sarebbero delle scusanti. Amore per la natura eccetera. Invece, come
giustificare la sua passione per le bestie pericolose, velenose, assassine, o
anche semplicemente quelle che non si lavano mai nel corso della loro
insudiciante vita?
Lei li trova tutti adorabili, tutti carini, tutti teneri.
Fino a quando parliamo di animali con un pelo carezzevole e
morbido sono d’accordo. Molti cuccioli, anche di specie strane, sono davvero
teneri. Anch’io provo una certa simpatia istintiva per i gattini, ma di certo
non terrei in casa un cucciolo di tigre. Non lo terrei nemmeno in braccio e,
per la precisione, non so nemmeno se lo accarezzerei. Di certo non se ci sono i
suoi genitori in vista.
Quanto a certe bestie sporche o puzzolenti, abbiano o meno
un pelo morbido o un musino simpatico, proprio non le sopporto. Bestiacce
squamose, viscide od orrende devono stare fuori dal mio campo visivo.
Claudia – stavo dicendo – mi guardò come se fossi io quella
strana.
Volevo almeno spiegarle la faccenda delle zampe e aprii la
bocca, ma una voce mi fermò.
«Che c’è, signorina?»
«È lei che tiene in queste condizioni quella povera
bestiola?»
Era fatta. Volevo scomparire. Sprofondare nel terreno e non riemergere mai più.
«Quali condizioni?»
La mia amica puntò un dito pieno d’indignazione contro
l’animale incriminato.
«Ma non si vergogna? Tenerle le zampe legate!»
«Non sono zampe» disse lui.
«Te l’avevo detto, io…»
«Ah sì? Se non sono zampe, tu come le chiameresti?»
Eravamo in due a sostenere quella tesi, ma Claudia si voltò
verso di me, con una mano sul fianco e lo sguardo altero.
«Sinceramente, io le chiamerei chele…»
«Certo, signorina» disse il cameriere. «Le aragoste non
hanno zampe, si chiamano proprio chele. E se non gliele chiudiamo, pinzerebbero
qualsiasi cosa e qualsiasi persona alla loro portata.»
Se non si fosse ancora capito, passavamo davanti ad un
ristorante e Claudia si era scandalizzata per un’aragosta viva in bella mostra
tra la porta e il menu a cartellone.
«Voglio comperarla» disse lei, decisa come un motoscafo di
Greenpeace che attacca una baleniera giapponese.
«Certamente! Preparo un tavolo per due?»
«Voglio salvarle la vita, non mangiarla!»
«Claudia, ti prego… ci stanno guardando…»
«Stefania, sei un’insensibile! Non vedi la tristezza nei
suoi occhi?»
«Io vedo solo degli occhi inespressivi. È un crostaceo, non
un cucciolo di mammifero.»
«Quindi, solo perché è un crostaceo, può morire gettata
nell’acqua bollente? Vorrei vedere te, se ti buttassero nell’acqua bollente!»
«Io non sono un’aragosta!»
Tranne che nei primi giorni in cui prendo il sole, in cui
assumo all’incirca lo stesso colore, ma evitai di specificarlo.
«È una splendida morte, signorina, mi creda.»
Il cameriere portò le dita raccolte alle labbra. Una morte
buonissima, intendeva dire.
«Voglio comperarla» ripeté Claudia.
«Viva?»
«Viva e vegeta!»
«Questo è un ristorante, non un acquario. Non vendiamo
animali, a meno che non siano cucinati nel piatto!»
Non avevo intenzione di passare tutto il pomeriggio in
università a lezione con un’aragosta nella borsa. Neanche se la borsa fosse
stata quella di Claudia. È vero che le aragoste sono animali puliti, perché
vivono nell’acqua, ma – sarà pure un trattamento inumano – ma non penso che ci
sia niente di male nel cuocerle e mangiarsele.
La mia amica mercanteggiò a lungo. Parlò con il cameriere,
con il capocuoco e infine con il proprietario.
Venti minuti dopo, Agenore passava nelle mani di Claudia,
tutta felice per averlo salvato da morte sicura. L’aveva pagato molto più che
non cotto e mangiato, ma lei era contenta così.
«Vuoi accarezzarlo?»
«Non ci penso neanche! Più lo vedo da vicino più mi fa
impressione!»
«Stefania, sei proprio un’insensibile! Non vedi com’è
contento adesso?»
«Se devo essere sincera, non trovo differenze.»
Mi fissò come se avessi appena dichiarato di sgranocchiare
cuccioli di foca per colazione invece dei biscotti.
«Io porto Agenore a casa.»
Non volevo sapere come se la sarebbe cavata con un’aragosta
in metropolitana, quindi io mi diressi verso l’università mentre Claudia si
avviava chiacchierando con il riconoscente Agenore verso i mezzi pubblici.
NdA
Benvenuti in questa mia nuova storia!
Troverete un sacco di personaggi e, tra di loro, una voce
narrante d’eccezione: me.
Dato che non posso promettervi che tutto quello che racconterò
sarà vero, vi assicuro fin da subito che è tutto falso, così non rischio guai
di nessun genere.
Se vi può interessare una storia simile a questa (ma molto
migliore), vi consiglio “il capitano Pamphile” di Alexandre Dumas, un libretto
esilarante che mi ha fatto venire l’idea di questa storiella.
Due annotazioni: dato che racconterò in prima persona,
scriverò poche note a fondo pagina, questa storia è già abbastanza strana così…
Secondo! Dato che è completa, la pubblicherò con regolarità. Terzo! È stato
divertentissimo scriverla, spero di cuore che per voi sia lo stesso nel
leggere. Ah,
un'ultima cosa: credo proprio che questa sarà la mia ultima
storia, non l'ultima in generale ma l'ultima che inizio prima di finire
quelle che ho in corso, dunque l'ultima per molti e molti mesi.
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Capitolo 2 *** Nel quale si incontrano due bionde ***
capitolo2
Capitolo 2
Nel quale si incontrano due bionde
Il giorno seguente ero curiosa di sapere cosa avesse
combinato Claudia con la sua aragosta.
Arrivai in aula e raggiunsi subito il mio gruppetto di
amiche. Non so cosa farei senza di loro. Mi sento già sufficientemente persa in
università. Senza il loro conforto psicologico non saprei organizzarmi.
Perché io ho fatto un grave errore, in università. Ho
commesso una sciocchezza pressoché imperdonabile.
Mi sono iscritta.
Il problema è abbastanza semplice, ma non per questo meno
importante. Non mi dispiace l’ambiente, apprezzo la compagnia, imparo persino
qualcosa nel frequentare le lezioni. Il vero punto dolente, come si può
facilmente capire per sottrazione,
sono gli esami. Come quel tale che sosteneva che la sua vita era andata a
gonfie vele fino al giorno in cui era nato, anch’io dico che in università va
tutto alla perfezione fino a quando non arriva la sessione d’esame.
Del resto, non posso darmi all’ippica perché il settore è in
crisi e comunque non sono appassionata di animali. L’unica che si darebbe
volentieri all’ippica è proprio Claudia. Neanche a farlo apposta, il suo
bestiario personale comprende anche un cavallo. Quanto alle braccia rubate
all’agricoltura, mi sono informata e ho scoperto che non è questione di braccia
perché al giorno d’oggi il lavoro nei campi si fa con i trattori. Chi sa
guidare un trattore? Io no di certo!
Quindi è comunque più adatta a me la vita della studentessa
in università. Se non esistessero gli esami, o se fossero anche semplicemente
più facili, tutto sarebbe perfetto.
Dicevo, dunque, che avevo raggiunto subito le mie amiche,
compagne di scorribande nonché supporto psicologico.
Ovviamente il giorno prima avevo diffuso la voce. Avevo
raccontato a tutte dell’aragosta sottratta ad una patetica morte in pentola e
quindi non ero la sola ad aspettare con ansia l’arrivo di Claudia.
«Ciao ragazze» dissi.
«Ehilà!»
«Ciao!»
«Oh, guardate, oggi Stefania si è vestita da donna.»
L’ultima spiritosaggine era di Alice.
«Ah, è così? E di solito da cosa mi vesto?»
«Sei diventata pure permalosa!»
Incrociai le braccia e aggrottai le sopracciglia.
«Non è la prima volta che metto la gonna!»
«In questo secolo… sì.»
Tre a zero per Alice. Vorrei dire che detesto quando le mie
amiche fanno così, ma in verità mi diverto troppo con loro per offendermi.
«Sei carina, Stefania.»
«Grazie, Candida.»
Feci la linguaccia ad Alice, che mi rispose con una smorfia.
Mi fecero posto e sedetti vicino a loro, tutta soddisfatta
per la mia gonna fashion. Perché
Alice scherzava.
«Dov’è Claudia?»
«Probabilmente è a caccia di aragoste» rispose Sofia, che
era accanto a me.
«Pescarle costa meno che comperarle» replicai.
La nostra animalista non era ancora arrivata. Quando
frequentiamo insieme di solito sediamo vicine, o comunque non manchiamo mai di
fare quattro chiacchiere prima o dopo la lezione.
Tirai fuori dalla borsa il blocco degli appunti e una
matita. Io scrivo quasi sempre a matita. Essenzialmente la uso perché si può
cancellare, in realtà non cancello mai niente. Non c’è ragione di modificare o
correggere gli appunti. Anzi, a volte il tratto della matita si scolorisce da
solo e mi ritrovo con fogli mezzi bianchi semi illeggibili. È controproducente
scrivere in questo modo e lo so bene, ma non riesco a farne a meno. Dovrei
farmi analizzare da qualche psicologo esperto in linguistica e scienza dell’apprendimento.
Avrebbe un bel da fare, con me.
Alice e Candida avevano già davanti i loro quaderni, Sofia
aveva appoggiato i gomiti sul ripiano vuoto. Lei prende appunti solo in casi
estremi. Vederla scrivere a lezione è raro quasi quanto vedere me con la gonna.
A dispetto di quello che sostiene Alice, nella bella stagione metto gonne
abbastanza di frequente, mentre Sofia scrive poco comunque. Dice che ha bisogno
di sistemare le informazioni a modo suo nella sua testa. Il suo metodo di
studio è inspiegabile. Ne parlerò nei dettagli, uno dei prossimi giorni. Da
quello che ho capito, lei memorizza qualsiasi cosa senza bisogno di fissare su
carta. Io non mi ricordo neanche quello che scrivo sul blocco degli appunti. Se
il tratto di matita si scolora potrei anche non riconoscere la mia scrittura.
Dicono che i pesci rossi abbiano memoria solo per gli ultimi cinque minuti di
vita. Ecco, io ho la memoria di un pesce rosso sbadato. Sofia, invece, ha una
specie di registratore nel cervello.
Claudia entrò in aula di corsa, ci vide e ci raggiunse.
«Ciao ragazze! Oh, Stefania, come siamo carine oggi! Ehi,
bionde, fatemi spazio per favore.»
A questo punto noi dovevamo sapere.
«Come sta Agenore?»
Lei sollevò un sopracciglio. Claudia è molto carina ma non è
brava col linguaggio dei gesti, quel sopracciglio poteva significare qualsiasi
cosa.
Io spalancai gli occhi, Sofia abbozzò un sorriso, le bionde
girarono la testa incuriosite.
Devo specificare che Alice e Candida hanno veramente i
capelli biondi, quindi se facciamo riferimento alle “bionde”, non è uno dei
soliti scherzi, parliamo di loro per forza. Sofia, invece, ha i capelli castani
tendenti al rosso, Claudia è castana con una sfumatura scura.
Anche nel colore degli occhi c’è molta varietà. Sofia e
Candida hanno occhi azzurri, Alice verdi e Claudia marroni.
Ho già raccontato del mio più grande problema in università.
Il mio secondo più grande problema è
di non aver trovato delle semplici amiche, ma di essere finita in un gruppetto
di fotomodelle. Sono anche mie amiche, ovvio, ma tutt’e quattro sono belle in
maniera imbarazzante. Candida potrebbe fare la modella, alta com’è, bionda e
con gli occhi azzurri, Alice è meno vistosa ma è incantevole, Sofia è alta
quanto Candida, è snella e ha un sorriso fulminante – oltre che un’intelligenza
straordinaria – Claudia è molto bella, la tipica ragazza mediterranea. Manca
qualcuno? In effetti sì. Infine ci sono io, il brutto anatroccolo della
situazione.
In un gruppetto di ragazze bruttine potrei anche fare la mia
figura, ma con loro sono rassegnata ad essere l’amica meno popolare, come
dicono gli americani. Però sono simpatiche, gentili, mi prendono per come sono
e per questo voglio loro molto bene e non cambierei loro quattro per nessun’altra.
Dicevo che Claudia aveva sollevato un sopracciglio.
«Allora, come sta Agenore?» ripetei.
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Capitolo 3 *** In cui si conosce il destino di Agenore ***
capitolo3
Capitolo 3
In cui si conosce il destino di Agenore
Claudia ha uno zoo in casa. Possiede un gatto, un cane, una
tartaruga, un criceto, un acquario di pesci tropicali e uno di pesci di acqua
fredda. Il cavallo – che letteralmente adora – per fortuna vive al maneggio. Per
fortuna del cavallo, ovvio, perché gli equini sono bestie sensibili, tra tutte
quegli animali che girano nel suo giardino potrebbe venirgli un esaurimento.
Il gatto si chiama Leone. Secondo la sua padrona, ha il
carattere di un felino di grossa taglia. Il cane si chiama Mogano per il colore
del pelo. È un bel cagnone grosso, sessanta o settanta chili di affetto e di
ciccia da mantenere a suon di scatolette e croccantini. La tartaruga si chiama
Coupé, come certe tipologie di automobili, e Claudia sostiene che sia un
esemplare particolarmente scattante in accelerazione. Dice che è una tartaruga
da corsa e siete liberi di crederle. Quanto a me, ho dei dubbi, perché non ho
mai visto una tartaruga correre più rapida del piè veloce Achille, come
vorrebbe dimostrare il famoso paradosso di quel tizio greco. Quello che
sosteneva che Achille prima di compiere la metà della distanza che lo separa
dalla tartaruga doveva compiere la metà e prima di quella metà un’altra metà
più piccola e, alla fine, in pratica era impossibile spostarsi e raggiungere
l’imprendibile tartaruga in fuga. Tutte complicazioni degne di un greco antico
che non doveva pensare a nessun esame in università.
In caso contrario, cioè se il tizio greco avesse avuto un
esame che lo preoccupava, avrebbe mosso un passo, avrebbe afferrato Coupé per
il guscio e, una volta dimostrato che anche le tartarughe da corsa più
scattanti sono comunque raggiungibili con facilità, si sarebbe fatto spiegare
da Sofia qualche argomento dell’ultima lezione che non aveva capito, magari
perché i suoi appunti – tutti a matita – si erano persi in qualche svolazzo
inconcludente. Ma Zenone era filosofo e poteva dilettarsi coi paradossi,
probabilmente sua mamma era contenta se, invece degli esami sul libretto,
portava a casa dei paradossi abbastanza inutili.
Non ho ancora completato la rassegna degli animali. Manca il
criceto, che si chiama Dentone, non perché abbia una dentatura troppo sviluppata
ma perché se ne sta sempre a masticare nella sua gabbietta. Secondo Claudia, a
volte sgranocchia anche le sbarre, la ruota e qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
Dice che se esistesse lo psicologo dei criceti lo porterebbe a fare una visita
perché a suo parere gli mancano svariati venerdì, ma chi può dire cosa sia
normale oppure no per il cervello di un criceto?
Colta da un’ispirazione improvvisa, quel giorno avevo subito
proposto alle mie amiche di specializzarci in medicina veterinaria psichiatrica
e aprire uno studio associato.
Mi hanno fatto notare che, primo, è molto difficile
laurearsi in un corso che non esiste e, secondo, non tutti hanno la pazienza,
l’affetto e la preoccupazione di Claudia con i suoi animali e, quindi,
rischiavamo di non avere clienti. Puntare sulle turbe mentali di criceti e
affini poteva essere poco redditizio, insomma.
Io ribattei che trovavo difficile laurearsi anche in un
corso che esiste, quindi la prima
obiezione mi sembrava superabile senza problemi, quanto alla seconda obiezione,
Claudia si offrì di portare Dentone e pagare la visita, in modo da sbloccare
l’attività dello studio subito dopo l’inaugurazione, poi avrebbe diffuso la
voce ai suoi conoscenti e si disse certa che qualche altro cliente l’avremmo
trovato.
Inutile dire che la mia proposta venne affossata, ma non
desisto, prima o poi arriverà l’idea giusta e diventeremo ricche e famose.
Sembrerebbe, a questo punto, che tutti gli animali di
Claudia hanno un nome che riguarda una loro caratteristica fisica, col che la
mia amica dimostrerebbe di essere molto carina, di essere un’amante degli
animali e una padrona affettuosa ma anche di avere scarsa fantasia per i nomi.
Invece, il suo cavallo si chiama Stella Atlantica e questo
ovviamente non ha niente a che fare con il suo aspetto fisico. Quanto all’aragosta,
l’aveva chiamata Agenore fin dal primo momento quindi quello sarebbe stato il
suo nome fino alla fine dei suoi giorni. Non so quali sono i nomi più diffusi
per le aragoste, ma Agenore mi sembra originale e particolare, e lo sostengo
non solo per amicizia nei confronti di Claudia, ma per un’autentica difesa
della sua fantasia.
Prima di perdermi nella narrazione, stavo dicendo che le
avevamo chiesto notizie del suo crostaceo e lei aveva alzato un sopracciglio.
«È un pasticcio, ragazze.»
«Racconta» invitò Candida.
«Innanzitutto, in metropolitana la gente mi guardava
malissimo.»
«Mi sarei stupita del contrario» osservai. «Avevi
un’aragosta legata su un piatto!»
«Sì, ma siamo in un Paese libero, no? Perché la gente non si
fa i fatti suoi? Voglio portare un’aragosta in metropolitana, saranno fatti
miei, non credete? Invece tutti a guardarmi male, a indicare Agenore col dito
mentre lui ruotava gli occhietti intorno spaurito.»
«Spaurito?» domandò Alice. «Non ho mai visto un’aragosta con
dei sentimenti.»
«È quello che ho detto anch’io ieri» ribadii.
«Sono circondata da insensibili» replicò Claudia. «Comunque,
grazie ad Agenore per una volta non ho rischiato di essere derubata. La gente
mi stava lontana almeno un passo.»
La distanza di sicurezza dalle chele, pensai, anzi dalle
“zampe”.
«Agenore l’aragosta da guardia» scherzò Sofia.
«Quando sono arrivata a casa non sapevo dove metterlo»
continuò. «Acquario tropicale o acquario freddo?»
«Cosa hai fatto?»
«Beh, nel frattempo l’ho liberato in giardino. È qui che è iniziato
il pasticcio.»
«Quale?»
«Mogano e Leone sono venuti subito a conoscere il nuovo
inquilino. Leone aveva paura. È astuto quel gatto, e poi ha nove vite come
tutti i suoi simili. S’è avvicinato a distanza di sicurezza e poi è scappato.
Fino a quando le aragoste non impareranno ad arrampicarsi sugli alberi, Leone
pensa di essere al sicuro là sopra. I cani sono diversi. Sono curiosi,
invadenti. Mogano è grande e grosso e non ha paura degli animali più piccoli di
lui.»
«Cioè tutti tranne elefanti, balene e trichechi» interloquì
Sofia.
«Non è così
grosso, ragazze.»
«L’hai detto tu che è più pesante di te!» ribadì Candida.
«Sì, perché io sono una ragazza magra e lui è un cagnone che
non conosce il concetto di “dieta”. Se gli metti davanti dieci chili di crocchette
se li mangia tutti.»
«A volte vorrei appartenere alla razza canina pure io!
Sostituendo le crocchette con la nutella, però» sospirò Alice.
«Mogano si è avvicinato, l’ha annusato e Agenore deve aver
pensato che fosse pericoloso, quindi l’ha pizzicato con le zampe.»
«Le chele.»
«Chiamale come vuoi.»
«Quindi?»
«Mogano s’è arrabbiato, gli ha abbaiato addosso e gli ha
dato una zampata che Agenore è volato dall’altra parte del giardino. Per
fortuna che la corazza è resistente, altrimenti si sarebbe spiaccicato. L’ho
raccolto e l’ho messo nel terrario di Coupé.»
«Insieme alla tartaruga?»
«No, Coupé era in giro in giardino. A questo punto, mi sono
posta il problema. Cosa mangiano le aragoste?»
«Non ne ho idea.»
«Nemmeno io.»
«Sofia? Cosa mangiano le aragoste?»
«Che ne so, Candida? Mi hai preso per un’enciclopedia?»
«Tu sai un sacco di cose…»
«Boh… alghe? Plancton?»
«Ecco. Brava» riprese Claudia. «Dove lo trovo io il
plancton? E poi non potevo lasciarla nel terrario per sempre, no? È un’aragosta,
non una talpa, ci vuole il mare, non basta una ciotola d’acqua.»
«Credo ci voglia acqua salata.»
«Sì, Sofia. Infatti all’inizio volevo metterlo
nell’acquario, ma avevo paura che si mangiasse i miei pesci. Già l’acquario mi
è costato uno sproposito, se mi mangia i pesci tropicali è un danno.»
«Quindi?»
«In casa mia c’è lo sciopero. Ho un cane che non esce più
dalla cuccia, un gatto isolato sull’albero, una tartaruga che si è ritirata nel
guscio a tempo indeterminato e quel deficiente del criceto che si mangia le
sbarre. Tutto per colpa di un’aragosta.»
«E il plancton?»
«L’ho ordinato su internet.»
In quel momento entrò l’insegnante e Claudia dovette
interrompere il racconto.
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Capitolo 4 *** Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari hanno un cuore ***
capitolo4
Capitolo 4
Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari
hanno un cuore
Per quella specifica materia, il nostro insegnante è il
professor T., ma quel giorno, per il nostro piacere, si era fatto sostituire da
uno dei suoi assistenti, il dottor Paolo G., che non è un dottorando, è un
modello di Abercrombie che passa il tempo libero in università.
No, in realtà questa cosa l’ho inventata, è davvero un
dottorando di ricerca, ma ciò non toglie che abbia il fisico per fare il
modello.
Se proprio qualcuna volesse fare la difficile direi che sì,
in effetti, non è proprio perfetto. Però è pur sempre l’assistente più carino
che conosciamo. Non c’è ragazza in aula che non abbia sospirato al suo ingresso
in aula, perché il professor T. è un buon insegnante, molto preparato, ma anche
l’occhio vuole la sua parte.
Tra l’altro, aveva quell’aria sportiva che adoro. Non faccio
nessuno sport, l’ultima volta che ho fatto un allenamento ero in seconda media
e facevo pallavolo, una sfortunata esperienza che si è conclusa in modo
prematuro.
Il fatto è che la mia squadra era una buona squadra, con
ambizioni sul primo posto in classifica. Quindi ho fatto tutti gli allenamenti
per un anno intero – due volte a settimana a saltare e prendere a schiaffi una
palla – con la promessa che non appena fossi stata in grado di sostenere una
partita di buon livello mi avrebbero schierato in campo.
Ho saltato, schiaffeggiato la palla a dovere, imparato i
fondamenti del gioco, palleggi, ribalzi e tutto quanto. Alla fine dell’anno non
mi hanno fatto giocare perché le partite erano tutte decisive per la vittoria
finale, ma mi avevano assicurato che dall’anno successivo sarei stata
convocata. Mi avevano pure assegnato la maglietta con il numero, mi sentivo
integrata.
Poi ci sono state le vacanze e durante l’estate mi ero
dimenticata non solo i fondamenti del gioco ma anche cosa fosse la pallavolo.
Non sono più rientrata in squadra, non ho fatto allenamenti e quindi non sono
mai scesa in campo. Fine prematura di una promettente carriera sportiva.
Ignoro cosa sia stato del mio numero e della mia maglia.
Dubito che l’abbiano ritirata, come si fa quando un giocatore leggendario
smette di giocare.
Quindi sono poco avvezza agli sport, ma per l’aria sportiva
del dottor Paolo G. (che chiamerò semplicemente Paolo d’ora in poi) avrei
iniziato a praticarli tutti. Pallavolo, calcio, basket, arrampicata libera,
slittino, paracadutismo, non mi importava cosa,
mi importava solo con chi. Si diceva
fosse istruttore di sci.
«Oh, dottore, io non so sciare. Può darmi ripetizioni
private?»
Il punto è che anche Candida, Alice, Claudia e Sofia avevano
appena avuto la mia stessa idea. Tutte sportive appassionate.
Gli occhi femminili dell’aula erano puntati su Paolo, che
sedette in cattedra e iniziò a parlare dell’argomento del giorno.
Gli occhi maschili – e sono circa la metà del totale –
guardavano in cagnesco le ragazze, domandando, in modo nemmeno troppo velato,
cosa avesse costui per piacere a tutte.
Eh, caro mio, comprati
uno specchio e capirai.
«È il fascino dell’assistente» dichiarò un giorno un nostro
amico in tono scettico.
«Il fascino e basta» fu la risposta tranchant.
Tra l’altro, le mie amiche sono tutte single. Non ha molto senso, perché sono belle, intelligenti e
simpatiche, ma si vede che i principi azzurri sono momentaneamente assenti,
forse per partecipare al convegno internazionale dei principi azzurri.
Quanto a me, l’anno scorso ho avuto un mezzo interessamento
con un nostro collega – in realtà è di un’altra facoltà, ma non importano i
dettagli, l’ho conosciuto sempre in università – tuttavia non siamo mai andati
oltre quattro chiacchiere amichevoli. Ci siamo studiati, come Mogano e Agenore,
che si sono avvicinati. Poi, proprio come Mogano e Agenore, ci siamo pizzicati
a vicenda e quindi resterò una zitella inacidita per il resto della mia vita. Ma
va bene così.
Con tutti questi pensieri, io vi chiedo come si fa a
prendere appunti. La matita mi dondolava tra due dita. Per fortuna avevo le
unghie in ordine, un bel verde chiaro dalla mia collezione privata di smalti.
Paolo iniziò a parlare. Era contento di fare lezione.
L’argomento che doveva spiegare era oggetto della sua ricerca di dottorato,
quindi si sentiva preparato.
Fino a pochi anni prima era lui tra i banchi a sentire le
lezioni. I ragazzi e le ragazze che lo ascoltavano non avevano molti anni meno
di lui, anche se in quel momento lui era l’insegnante e loro gli allievi.
Fece una battuta e l’intera aula rise. Gli piaceva fare
quell’effetto sugli studenti, sapeva di essere un bel ragazzo ma non gli
bastava, voleva essere considerato bravo a spiegare, era indispensabile per una
carriera futura in università.
Notò che molti occhi erano puntati dritti su di lui. Aveva
davanti una classe grande ma non gigantesca, distingueva alla perfezione i
volti degli studenti seduti nelle prime file.
Durante la spiegazione, passava lo sguardo sulla platea, studiando
le reazioni di chi ascoltava. Avevano capito il passaggio? Stavano seguendo il
ragionamento?
Nella terza fila, verso destra, c’era un gruppetto di
ragazze. Sembravano molto attente. Più tardi, mentre metà del cervello
continuava a preoccuparsi della spiegazione, capì che erano molto carine. Due
bionde, una mora, una col caschetto color rame, l’ultima coi capelli corti,
castani di una interessante sfumatura chiara, quasi miele.
Carine, queste ragazze.
Notò che le bionde prendevano appunti, la mora sembrava
persa nei suoi pensieri fantastici – probabilmente aveva altre preoccupazioni,
magari le era morto il gatto, o cose simili – e la ragazza dal caschetto ramato
lo fissava con occhi azzurri intelligenti e attenti, che sembravano scavare
dentro ogni concetto che stava esponendo.
Seduta proprio accanto a quest’ultima, c’era la ragazza coi
capelli corti, che teneva una matita tra le dita dalle unghie smaltate di verde
chiaro, scriveva ogni tanto alcune parole e sembrava molto attenta e interessata.
Soffermò più volte gli occhi su questa ragazza, che ogni
minuto che passava gli sembrava la più carina del gruppo. Anzi, dell’aula
intera. Sicuramente era anche la più intelligente. Una studentessa modello. Con
un po’ di fortuna, si sarebbe laureata brillantemente con il professor T. e lui
le avrebbe proposto di entrare nel dottorato. Il suo stesso dottorato. Gli
sarebbe piaciuto conoscerla. Era così bella e così attenta.
Con la sua matita scriveva i concetti più importanti e poi
la teneva in mano dondolandola tra le dita, con l’impazienza tipica di chi
aspetta il prossimo passaggio logico decisivo per far correre di nuovo la
matita sul blocco degli appunti.
Fece una digressione dall’argomento principale solo per lei.
La vide attenta, ed era ancora più carina quando assumeva un’espressione
concentrata. Fece un’altra battuta e la fissò per vedere la sua reazione. Aveva
uno splendido sorriso, non rideva sguaiata e non era troppo seria.
Entro la metà della lezione, Paolo aveva un debole per
quella studentessa e prima della fine si era innamorato della sua incantevole
ascoltatrice.
NdA Queste
80 righe finiscono qui, ma il prossimo capitolo e quello dopo ancora
sono strettamente collegati. Aggiornerò prestissimo!
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Capitolo 5 *** In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi pensieri ***
capitolo5
Capitolo 5
In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi
pensieri
Non avevo capito un accidente del discorso complessivo. Ogni
tanto mi appuntavo delle parole a caso. Tanto non è importante afferrare tutto.
Alice e Candida stavano scrivendo a raffica e in ogni caso Sofia ci avrebbe
tolto tutti i dubbi. Anche Claudia era persa nel suo mondo, forse aveva dei
problemi con l’ordine di plancton che aveva effettuato su internet. Non avevo
mai sentito parlare di siti che vendessero plancton, dovevo chiederle come
aveva fatto a trovarlo. Può sempre servire nella vita, un fornitore affidabile.
Uno spacciatore di plancton. Un momento! Forse era un business inesplorato e si poteva diventare ricchi con il commercio
di placton: dovevo informarmi seriamente.
Tutte le cose belle hanno una fine, quindi Paolo concluse la
lezione. Anche l’occhio vuole la sua parte – credo di averlo già detto – quindi
ero felice così, di aver assistito se
non proprio capito, perché io sono
una ragazza semplice che si accontenta di poco, nella vita.
Non appena Paolo ebbe spento il microfono, Alice e Candida
confabularono un momento e si alzarono in piedi.
«Che succede?»
«Lasciateci passare che abbiamo una missione da svolgere.»
Afferrarono i quaderni e si diressero spedite alla cattedra.
«Cosa stanno architettando?» domandai.
«Credo di saperlo… e voglio esserci» dichiarò Sofia.
«Aspettatemi!» concluse Claudia.
Ci alzammo e rincorremmo le bionde.
Paolo aveva appena spento il microfono. Gli piaceva fare
lezione e riteneva che quella lezione in particolare fosse andata molto bene.
Alcuni studenti erano già in piedi per cambiare aula e si
era sollevato un brusio generale. Lui raccolse le sue cose.
«Dottore, mi scusi, posso farle una domanda?»
Alzò gli occhi e vide due ragazze bionde. Erano proprio del
gruppo di ragazze carine in terza fila! Pochi passi indietro, stavano arrivando
alla cattedra anche le altre amiche.
«Certo, signorina, chieda pure!»
Candida sorrise – e con quel sorriso di solito provoca
incidenti ai semafori – e fece la sua domanda. Le sfuggiva un particolare della
spiegazione, non perché lui, Paolo, fosse stato poco chiaro, ma perché la
questione la interessava in modo particolare.
«È un’ottima domanda, la sua» replicò il bel dottorando.
Iniziò a parlare dell’argomento che aveva sollecitato la mia
amica. Alice intervenne per puntualizzare qualcosa mentre Claudia, Sofia ed io
ci aggregavamo alla conversazione. Lui parlò con tutt’e cinque. Incrociava i
nostri occhi a turno assicurandosi che seguissimo il ragionamento.
L’unica veramente partecipe era Sofia, Candida e Alice
sbattevano le ciglia, Claudia era attenta ma non particolarmente emozionata.
Paolo finì di raccogliere i suoi averi, chiuse la borsa e si
avviò verso la porta. Noi al seguito come api intorno ad un fiore.
Sofia obiettò qualcosa e la discussione continuò. Paolo si
rivolgeva sempre a tutte, le bionde continuavano ad annuire e a fare gli occhi
dolci. Recitavano alla perfezione la parte delle studentesse tanto belle quanto
studiose, incapaci di riposare serenamente la sera senza aver compreso fino
all’ultima virgola della loro fruttuosa giornata di lezioni.
Era quello il loro piano. Che gli si increspassero i capelli
per tutta la settimana! Geniali! Mi comparve un grosso sorriso idiota.
«Esatto, signorina» disse Paolo, che non aveva smesso di
parlare. «Vedo che ha capito quello che volevo dire.»
A quanto pareva, mentre io seguivo il mio cervello, nel
mondo reale era successo qualcosa e il mio sorriso era stato interpretato in
modo diverso.
«Infatti, ho capito. Vero, ragazze?»
Avevo ancora in mano la matita e ne approfittai per schiacciare
l’estremità senza punta nel braccio di Alice. Lei si mosse all’ultimo secondo,
io ho le mani di burro e la matita cadde. Mi colpì il collo del piede (con
l’estremità appuntita, vorrei specificarlo) e rotolò tra le scarpe di Paolo,
che fu rapido a chinarsi per restituirmela.
«Grazie dottore» mormorai imbarazzata.
«Di nulla. A proposito, qualcuna di voi ha già deciso in
quale materia fare la tesi? Sembrate molto interessate a questo argomento…»
Mi stava restituendo la matita, quindi l’impressione era che
stesse indicando me. Allungai la mano, le nostre dita si sfiorarono e restammo
così almeno un secondo e due decimi più del necessario.
«Non escludo… è molto interessante… ho ancora molto tempo
per scegliere, ma…»
«Non è mai troppo presto per pensare alla tesi, mi creda. Se
ha bisogno di qualche consiglio, sa dove trovarmi!»
Salutò e se ne andò.
«Hai visto come ti guardava?» domandò Candida.
«Guardava me?»
«Te e nessun altra. Quando ti ha raccolto la matita, poi, ti
ha fatto una radiografia completa. Del resto, sei tu che metti le minigonne…»
«Adesso è diventata una minigonna? Si è accorciata a mia
insaputa?»
«E quando ti ha chiesto della tesi? Credo sia proprio
innamorato.»
«Alice! Smettila!» replicai. «Sei tu che ti sei precipitata dopo
la lezione a fargli le domande e gli occhi dolci.»
«Bisogna approfittare delle occasioni. Se io mi dimostro
interessata, magari lui si ricorda di me all’esame!»
«Non mi sorprende che delle approfittatrici come voi non amino
gli animali» dichiarò Claudia.
«Dipende di quali animali parli…» equivocarono le bionde.
Prima che parlassero di tartarughe come sinonimo di addominali scolpiti,
intervenne Sofia.
«Se vuoi, puoi andare a chiedergli consigli sulla tesi. Te
l’ha detto lui.»
«Io, la tesi, non la farò in questa materia, bensì su Star
Trek e Guerre stellari!»
Abboccarono. «Perché? Che vuol dire?» Fu la domanda.
«Significa che la tesi è fantascienza, per me, al momento.»
«Io, fossi in te, non mi lascerei sfuggire l’occasione…»
«… pensaci, Stefania.»
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Capitolo 6 *** Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato ***
capitolo6
Capitolo 6
Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un
innamorato
Aveva pensato spesso a quella studentessa. Più ci pensava
più si accorgeva di essersi innamorato a prima vista. Paolo non aveva mai avuto
difficoltà con le donne. Piaceva, e sapeva di piacere.
Tuttavia, non aveva mai trovato la ragazza giusta.
Da qualche parte dentro di sé aveva il presentimento che
proprio quella studentessa potesse
essere la ragazza giusta. Sicuramente era bellissima, perché riusciva a
distinguersi tra le sue amiche, che pure erano una più incantevole dell’altra.
Era intelligente, bastava guardare il sorriso con cui le si era illuminato il
volto e aveva sottolineato il più importante dei suoi ragionamenti.
Era sicuro che avesse delle qualità nascoste, perché una
ragazza così carina e intelligente doveva avere un animo sensibile. Forse era
un’artista. Sì, un’artista! Aveva sempre sognato di condividere la casa – e la
vita – con un’artista. Lui, così razionale e studioso, futuro professore
universitario, avrebbe amato abitare in un loft
che fosse anche uno studio creativo, di pittura o di scultura, tornare la sera
e trovare lei con i capelli scompigliati e le dita sporche di pittura ad olio,
impegnata a ritoccare il suo ultimo quadro. Baciarla con tenerezza e pensare di
aver trovato la donna più straordinaria della terra.
Eppure non sapeva nemmeno il suo nome.
Doveva incontrarla di nuovo, conoscerla. Paolo rifletté in
che modo poter attuare il proposito.
Nessuna università è tanto grande da non poter incontrare
due volte la stessa persona. Doveva fare di tutto per rivederla.
Sapeva che l’avrebbe riconosciuta ovunque. Occhi verdi e
capelli color miele intenso.
Doveva imporsi di non pensare troppo a lei, o avrebbe fatto
qualche follia. Tipo chiederle di sposarlo.
«Buongiorno signorina! Si ricorda di me? sono l’assistente
del professor T.»
«Buongiorno, dottore» avrebbe risposto lei.
«Mi chiedevo… vuoi sposarmi, mia adorata?»
No, così non poteva funzionare. Doveva adottare una
strategia più elaborata. Puntare sul suo fascino e innanzitutto sperare che lei
non fosse impegnata.
Una fitta di gelosia lo travolse. E se fosse già stata
innamorata di un altro? Era un pensiero intollerabile. Trovare infine la
ragazza giusta e vedersela portar via da un altro uomo. In altri tempi avrebbe
sfidato a duello il suo avversario, ma sapeva che le donne non sono oggetti che
si possono vendere e comperare. No, avrebbe dovuto conquistarsi l’affetto e
l’amore di quel cuore sincero.
Rifletté che non aveva visto anelli alle sue dita. Non era
un indizio decisivo, ma meglio che niente.
Sì, poteva essere una pittrice. Unghie tagliate corte ma con
uno smalto verde chiaro. Un contrasto molto interessante tra la praticità e
l’eleganza. E indossava una gonna, un indumento molto femminile ma quasi raro
in università. Quella gonna significava molte cose: che era bella – ma questo
ormai Paolo lo riteneva un dato di fatto – che non aveva paura di distinguersi
dalla massa, che era una ragazza elegante e di buon gusto. Purtroppo indossava
anche un paio di quelle scarpe piatte che piacciono tanto alle donne ma fanno
disperare gli uomini. Dei tacchi sarebbero stati molto più adeguati. Eppure,
concluse dopo un momento, aveva ragione lei: meglio tenere un basso profilo,
vestirsi elegante quanto basta ma senza sfrontatezza, perché la vera bellezza
non sta mai nell’eccesso.
Era una ragazza da scoprire. Doveva assolutamente
conoscerla.
Girò per alcuni giorni nei corridoi sempre con lo sguardo
all’erta. Indugiò alle macchinette dell’ingresso, dove c’è sempre molta gente,
si attardò in biblioteca sperando di riconoscere quei capelli corti chini sui
libri.
Passò una settimana, sette giorni lunghi come sette anni,
perché il tempo non passa per chi ama.
Paolo sperò che il professor T. gli avrebbe di nuovo chiesto
di sostituirlo ma non fu così. Pensò che se lei frequentava sempre le lezioni,
allora l’avrebbe incontrata diretta all’aula. Era come avere un appuntamento!
Il suo cuore perse alcuni battiti quando la vide. Era lei,
nessun dubbio. Indossava dei pantaloncini e aveva delle gambe magnifiche. Non
solo quelle, in realtà. Camminava a testa bassa, concentrata sullo schermo del
telefonino. Avrebbe voluto salutarla, richiamare l’attenzione, ma era
distratta. Nel frattempo sorrideva e Paolo non poteva resistere al suo sorriso.
Prese una decisione improvvisa, quasi drastica. Si piazzò proprio davanti a
lei, come fosse sbucato all’angolo del corridoio, e si fermò.
Mi stavo avvicinando all’aula. Non so se capita anche a voi
di mettere il pilota automatico. Avevo ordinato “avanti mezza” e lasciato che
la memoria facesse tutto da sola, perché le donne sono multitasking e quindi leggevo dal telefonino, pensavo a cosa fare
quella sera, sorridevo tra me e me per alcune stupidaggini che mi erano venute
in mente e che avrei dovuto scrivere prima di dimenticare e infine ascoltavo un
po’ di musica, perché nel mio cervello c’è sempre musica che scorre. Ho la
radio incorporata, io, e se non viene dall’esterno me la invento da sola.
Mi vanto di conoscere l’università come le mie tasche e di
poterla percorrere a occhi chiusi. Sarei arrivata a destinazione a occhi
bendati, come previsto e senza intoppi, ma qualcuno si piazzò sulla mia strada.
All’improvviso sbattei contro un ostacolo e lo investii in
pieno. Come il Titanic con l’iceberg,
come la Concordia con l’isola del Giglio. Allarme
collisione! Abbandonare la nave!
La borsa, in precario equilibrio sul braccio, rovinò a
terra. Ho già detto che ho le mani di burro: il telefono decise di continuare
verso l’aula da solo, schizzò via, finì sul pavimento e si sparpagliò nel
corridoio con la custodia da una parte e la batteria dall’altra.
Ebbi solo il tempo di dire: «Ahia!» e riconobbi il mio iceberg. Il dottor Paolo!
«Signorina…» iniziò lui.
«Oh! Mi scusi! Mi ero distratta.»
Mi precipitai a raccogliere i pezzi del mio cellulare.
«Si è rotto?» domandò lui, premuroso.
«Spero di no» riposizionai la batteria. «La prego, non si
disturbi, lasci fare a me…» Stava raccogliendo la mia borsa.
«Funziona?» domandò di nuovo.
Avevo riacceso il telefono. Alzai gli occhi e me lo ritrovai
davanti, vicino, preoccupato di vedere se lo schermo dava segni di vita.
Sorrisi perché la custodia aveva assorbito l’urto e tutto
sembrava in ordine.
«Per fortuna» disse lui. «Scusi ma… per caso ci siamo già
visti?»
«Settimana scorsa. Ha sostituito il professor T. a lezione.
Io ero in aula!»
«Lei era con quelle ragazze che mi hanno fatto delle domande.»
«Esatto!»
«Sta andando a lezione?»
Annuii.
Si offrì di accompagnarmi. Dissi che non c’era bisogno.
Rispose che anche lui andava nella stessa direzione, quindi accettai. Mancavano
solo poche decine di metri. Più una porta. Io non mi ricordo mai se bisogna
spingere o tirarla per aprire. Ovviamente dipende dal contesto: da un lato
bisogna tirare, dall’altro spingere. C’è anche un cartellino sopra la maniglia,
ma io non bado a queste minuzie.
Oltretutto, proprio in quel momento lui disse: «Ha poi pensato
alla tesi?»
Si ricordava della nostra conversazione? Della tesi? Vidi la
porta e non mi accorsi che voleva aprirmela per cavalleria. Afferrai anch’io la
maniglia senza riflettere.
Lui spinse, io tirai.
Nella combinazione dei vettori di forza applicati allo
stesso punto, il battente non si spostò, ma in compenso gli finii addosso
un’altra volta.
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Capitolo 7 *** Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa tragedia ***
capitolo7
Capitolo 7
Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa
tragedia
«E poi?» domandarono tutte insieme le amiche.
«Sono scoppiata a ridere.»
«E lui?»
«Ha riso e ha detto che iniziava a diventare un’abitudine.»
«E poi?»
«Ragazze, è mezz’ora che continuate a domandarmi “e poi?”
Trovate un sinonimo!»
«E dunque?»
Chiusi gli occhi, esasperata.
«Abbiamo fatto quattro chiacchiere.»
«Sulla tesi?»
«No, abbiamo parlato di quanti professori universitari ho
investito nella mia carriera. Sì certo, abbiamo anche parlato della tesi. Me
l’aveva appena chiesto.»
A Candida spuntarono gli occhi a cuoricino.
«Ho approfittato per chiedergli cosa sono di preciso i
dottorandi di ricerca» dissi.
«Così, gliel’hai chiesto di punto in bianco?»
«Sì, Alice. Ho sempre avuto questo dubbio.»
«Te l’ho già spiegato più volte, Stefania» intervenne Sofia.
«Mio fratello è dottorando in fisica…»
«E io t’ho già spiegato che ho la memoria di un pesce rosso.
Mi sono dimenticata, va bene? Ho preferito chiederlo a lui.»
Alice era d’accordo con me. Anche lei – disse – nelle mie
condizioni avrebbe scordato molti dettagli.
«Lo sapevi che anche i dottorandi devono scrivere una tesi?»
continuai.
Sofia annuì.
«Io no, invece. A proposito, in questo posto chiamato
università le tesi non finiscono mai?»
«Mai.»
«Mi ha detto che se ho bisogno di un consiglio lui è
disposizione.»
«E poi?»
«Ancora un “e poi?” e ti taglio la lingua, Candida. Gli ho
risposto che ho molta confusione in testa in merito alla tesi e avrei accettato
volentieri non solo un consiglio ma anche un aiuto e se, per caso, si fosse
offerto di scrivermela per intero avrei accettato con molto piacere.»
«Ci stai prendendo in giro.»
«Non ho usato le esatte parole, ma il senso era questo.»
«E… – volevo dire – lui cosa ha risposto?»
«Ha riso e ha detto mi avrebbe aiutato con molto piacere.
“Oh, bene, grazie” ho risposto. “Le ho quasi distrutto il telefono, è giusto
che mi sdebiti” ha dichiarato Paolo. “Quando vuole lei, signorina.” “Anche
subito?” “Sì, certo, anche subito.” “Ehm, purtroppo adesso ho lezione” “Dopo la
lezione, allora.” “Ho la giornata abbastanza piena.” “Domani, allora! Che ne
dice di domani?”»
«Quindi hai appuntamento per domani nel suo ufficio?»
domandò sbigottita Sofia.
Alzai le spalle. «Sì.»
«Per parlare della tesi?»
«Ma… Stefania… cosa pensi di dirgli?»
«Parleremo di Star Trek. Magari è un appassionato.»
Sofia si mise le mani nei capelli. Lei è pratica e realista,
non si lascia influenzare dagli slanci di romanticismo.
Le bionde invece erano entusiaste. «Il nostro piano ha
funzionato!»
«Quale piano?»
«Trovarti un fidanzato.»
«Da quando avete questo piano?»
«Dall’anno scorso…» iniziò Alice.
«… da quando tu e…» continuò Candida.
«Non fare quel nome!» intimai.
«Beh, quando tu e lui
eravate…»
«Non eravamo niente!»
«Stefania, ammettilo che eravate innamorati. Pensavo che
l’avessi superato!»
«Certo che l’ha superato» riprese Candida. «Adesso sta con
il dottorando più carino dell’università.»
Mi vedevano già di bianco vestita, col velo in testa e il
bouquet in mano. È da tempo che sto pensando di comporre una bella marcia
nuziale, ma non ho ancora avuto l’ispirazione. Né per la marcia né per la
cerimonia in sé.
«Vuoi che ti accompagno?» domandò Claudia.
«Ma anche no!» replicai. «Intendo dire… grazie, Claudia, ma posso
farcela da sola.»
«Sono curiosa di sapere di cosa gli parlerai, eccettuata l’Enterprise
e le spade laser» disse Sofia la scettica.
«Io sono curiosa di sapere come ti vestirai» aggiunse Alice
la modaiola.
Iniziarono a darmi consigli non richiesti. Decisero che
dovevo mettere un abito da cocktail
di un colore pastello, perché mi avrebbe donato. Come se io fossi invitata a un
ricevimento formale ogni settimana e possedessi abiti da cocktail. Affrontarono l’argomento scarpe e accessori ma fummo
interrotte da una telefonata che ricevette Claudia.
Da sorridente e spensierata, la nostra amica impallidì e
subito le spuntò una lacrima all’angolo dell’occhio.
«È successa una disgrazia.»
Al telefono era la mamma di Claudia, che conosce l’affetto
della figlia per i suoi animali e aveva deciso di avvisarla senza ritardo del
fattaccio. Era accaduto che lo sciopero dello zoo di casa sua si era
trasformato in una congiura ai danni di Agenore. Quella mattina, la nostra
amica aveva riempito d’acqua un catino di plastica a sponde alte, l’aveva
portato in giardino e vi aveva immerso Agenore a far colazione con le alghe.
Senonché, Leone era sceso dagli alberi e aveva girato attorno al catino
incuriosito. Attirato dal movimento, era arrivato anche Mogano dalla cuccia.
L’insolita coalizione tra cane e gatto aveva rovesciato il catino e gettato
Agenore e le sue alghe sul lastricato del giardino. Riconoscendo lo sgradito
ospite, Mogano si era volatilizzato. Leone, invece, l’aveva diabolicamente
sospinto indietro, con la complicità di Coupé, che, ritirata nel guscio,
impediva al crostaceo di fuggire per altre strade. Senonché, il fato. Il padre
di Claudia aveva portato la macchina fuori dal garage in retromarcia e non si
era accorto che Agenore passava sul vialetto in ritirata dagli attacchi di
Leone, il quale, invece, conosceva bene il rumore del motore della macchina e
si era allontanato a balzi al momento giusto. Il povero crostaceo aveva
terminato sotto un pneumatico un’esistenza avventurosa degna di un dipartita
più onorevole.
«Povero Agenore, che triste fine!» osservammo noi.
Claudia era commossa.
«Non poteva morire quel deficiente del criceto?» osservò,
con gli occhi velati di lacrime.
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Capitolo 8 *** Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale ***
capitolo8
Capitolo 8
Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale
Come dico sempre, io ho l’immaginazione visiva di una talpa
miope. Questo è un problema serio, perché la vista e il buon gusto vanno a
braccetto. Non che io abbia cattivo gusto – le mie recenti frequentazioni
maschili lo dimostrano – ma sono perennemente in difficoltà su come vestirmi e
come truccarmi. Seguo da anni fashion
blogger su internet e tutti i giorni controllo su youtube i miei canali
preferiti di ragazze che mostrano i loro trucchi (soprattutto spiegano alle
negate come me il modo di realizzarli) e i loro outfit del giorno. I vantaggi sono innegabili: ho conosciuto molte
ragazze simpatiche, mi tengo aggiornata sulle novità della moda, ho imparato
alcuni “trucchi del trucco” che da sola non avrei scoperto nemmeno campando
cent’anni e mi sono scoperta un animo da follower
entusiasta. Purtroppo, però, l’immaginazione visiva è sempre scarsa, soltanto ho
più esempi da imitare.
Perché quando devo vestirmi o truccarmi io copio, al massimo
rielaboro.
Nel momento di prepararmi per andare a parlare di tesi con
Paolo, mi venne in mente Lucrezia, una nostra compagna che l’estate scorsa si
era presentata in università con una mise
che mi era piaciuta tantissimo. Maglietta bianca a maniche corte senza pretese
e gonna a ruota. Per il viso scovai un tutorial per un trucco da giorno effetto
naturale.
«Altro che vestita da donna!» sbottarono le mie amiche.
«Stefania, sei uno schianto!»
Mi apparve un sorriso a centoventotto denti.
«Non ti bacio per non rovinarti il trucco» aggiunse Candida.
«Baciami, stupida!» risposi e le buttai le braccia al collo.
Ottenere l’approvazione delle mie bellissime amiche era una
soddisfazione.
«Non è finita qui» aggiunsi.
Avevo pensato al tocco finale.
Nel guardarmi allo specchio prima di uscire di casa avevo
considerato l’idea di mettere i tacchi. Non lo faccio mai, in università, ma
poteva essere un’eccezione. Solo che io non possiedo scarpe eleganti bianche.
Le uniche scarpe che ho in tutti i colori e in tutti gli stili sono le
ballerine. Mia mamma, però, possiede un paio di sandali – non so se hanno un
nome particolare, sono sandali ma senza lacci intorno al tallone – proprio di
colore bianco, con un tacco sottile di sei o sette centimetri. Sono pure di una
marca famosa. Insomma sono perfetti: eleganti, di stile, essenziali e
versatili, eppure lei non li mette mai e prendono polvere nella sua scarpiera.
Una vera ingiustizia cui avrei posto rimedio. Infilai le ballerine ai piedi e misi
in borsa i tacchi per un cambio.
Secondo tocco finale erano gli orecchini. Io non ho i buchi
alle orecchie, quindi sono orecchini a clip con una perlina e un brillantino
che dondola sotto il lobo.
La storia di Stefania e dei buchi alle orecchie è lunga e
complicata. No, inutile che faccio la difficile, mi correggo, è semplicissima.
Me ne sono sempre disinteressata del tutto fino a poco tempo fa. Quando
qualcuno mi chiedeva perché non avessi i lobi forati, ho sempre risposto “sono
nata così” con orgoglio e una punta di femminismo, perché non mi risulta che le
femminucce nascano già con gli orecchini inseriti e i maschietti no. Poi l’anno
scorso mi era improvvisamente venuta voglia di mettere anch’io gli orecchini
come tutte. Mi sono informata, ho chiesto, domandato, scritto mail. Ho imparato un sacco di cose sul
mondo dei buchi alle orecchie. Poi, al momento decisivo, quello in cui mi
dicevano “se sei pronta, ti metto gli orecchini anche subito” mi tiravo indietro.
Una, due volte e ho capito mi manca ancora la voglia di farmi sforacchiare. Ecco
perché ricorro agli orecchini a clip nelle occasioni speciali.
«Che dite? È eccessivo se metto i tacchi?» domandai alle mie
amiche.
Dissero che era indispensabile per slanciare la mia silhouette. In effetti, diventavo alta
quasi come Sofia e Candida.
Se le mie amiche avevano ragione e Paolo m’aveva guardato
con interesse, avrebbe apprezzato un’eleganza speciale. In caso contrario,
dovevo solo metterli per un colloquio nel suo ufficio. Sarei stata seduta tutto
il tempo, magari non li avrebbe nemmeno notati. In tutti e due i casi, non
avevo niente da perdere.
L’appuntamento era in tarda mattinata, giusto prima di
pranzo. Rimasi d’accordo con le mie amiche che ci saremmo ritrovate in mensa entro
un’oretta e avrei raccontato tutto. Parola per parola, ovviamente.
Mi accompagnarono su per le scale e fino al corridoio ai
piani alti dell’edificio, un posto silenzioso e deserto occupato solo dagli
uffici dei docenti. La porta dell’ufficio era distante trenta passi. Temevo non
volessero più mollarmi.
«Ragazze, da qui posso anche andare da sola.»
Claudia mi abbracciò di slancio. Poi Candida. Poi Sofia.
Alice mi studiò e disse: «Ti manca ancora un dettaglio.»
Prese dalla borsa i suoi occhiali da sole e me li appoggiò
tra i capelli.
«Gli uomini ne vanno matti. Credimi.»
Abbracciai anche lei, poi percorsi il corridoio. Arrivata
alla porta mi voltai ed erano ancora tutte immobili a fissarmi dal pianerottolo.
Con la mano feci un ultimo cenno di saluto e intimai loro di andarsene.
Feci un gran sospiro.
E bussai.
Paolo aggiustò la cravatta per l’ennesima volta. Aveva
acceso il computer e aperto alcuni libri sulla scrivania, ma non riusciva a
lavorare. Quella ragazza l’aveva stregato.
Eppure lei era vicina, stava arrivando al suo ufficio. Sentì
bussare ed ebbe un tuffo al cuore, ma era un usciere che distribuiva la posta
interna.
Si alzò e fece il giro dell’ufficio a grandi passi. Le
ragazze che gli piacevano facevano sempre quell’effetto: l’emozione della
scoperta, l’impazienza di entrare in contatto. Guardò fuori dalla finestra, ma
non c’era niente di interessante da ammirare. L’orologio diceva che era
arrivata l’ora. Oppure non si sarebbe presentata? Un dubbio atroce. Lei era una
studentessa corretta, gli avrebbe mandato una mail se avesse disdetto
l’appuntamento. Aprì la casella di posta elettronica ma non c’erano nuovi
messaggi. No, di certo lei stava arrivando…
Lei… non sapeva
ancora il suo nome, non aveva ancora avuto modo di chiederglielo.
Sentì dei passi risuonare in corridoio. Si precipitò alla
scrivania, voleva farsi trovare all’opera, come uno studioso serio. Controllò
per l’ennesima volta il nodo della cravatta mentre i passi si fermavano. Un
attimo di silenzio e poi un delicato bussare alla porta.
«Avanti!»
Eccola, radiosa come una giornata di sole. Era bellissima
vestita di bianco. Si alzò per andarle incontro mentre si salutavano.
Tese la mano in modo quasi automatico e lei la strinse.
Aveva gli occhi verdi, i capelli castani e le unghie di colore azzurro. Furono queste
sfumature a colpirlo. Poi notò gli occhiali scuri infilati con noncuranza tra i
capelli. Un tocco sbarazzino che adorava, come il vezzo delle unghie smaltate
sempre di colori vivaci.
Paolo tornò alla piccola scrivania e lei sedette proprio di
fronte, per un colloquio occhi negli occhi.
C’erano degli orecchini a dare luce al suo volto. Solo il
giorno prima non li aveva notati. Non gli erano sfuggiti la gonna e le scarpe
col tacco. Decisamente lei si era messa in ghingheri. Paolo sorrise: anche lui
aveva messo il suo miglior completo e la cravatta più bella.
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Capitolo 9 *** Dove si sperimenta l’affetto filiale ***
capitolo9
Capitolo 9
Dove si sperimenta l’affetto filiale
«Non ho capito.»
«Cosa ti sfugge della mia ricostruzione accurata e limpida?»
Mi fissò con la pazienza che solo una madre può avere.
«Non ho capito perché sei andata da lui. Da questo… assistente,
dottorando, quel che è… Paolo.»
«Per parlare della tesi.»
«Hai appena detto che avete parlato di tutto tranne che
della tesi.»
«Sono cose che càpitano nel corso di una conversazione.»
«Stefania… sii seria.»
«Volevo parlargli. Le bionde sostenevano che lui mi avesse
guardato con interesse. Poi c’era stato l’episodio dello scontro in corridoio. Dovevo parlagli.»
«Gli hai parlato?»
«Sì. A lungo» risposi sognante con ampio sbattimento di
ciglia.
Mia mamma aveva ragione. Non avevo capito nemmeno io cosa
era successo, con la differenza che lei non era nello studio di Paolo e io
invece avevo vissuto tutta la scena in prima persona.
Avevamo iniziato la chiacchierata con cautela. E va bene, lo
ammetto, io me l’ero mangiato con gli occhi, ma qualsiasi ragazza l’avrebbe
fatto. Lui doveva esserci abituato e comunque io ero stata discreta, niente
occhiate da femme fatale (non ne sono
in grado) e niente sbattimenti di ciglia (ce la posso fare ma mi ero
trattenuta).
Buongiorno signorina, buongiorno dottore, come sta, bene e
lei, non mi ha ancora detto come si chiama, ah, Stefania, bel nome, quindi lei
segue le lezioni del professor T., eccetera. Professionali, compunti. Lui si
era interessato gentilmente del mio piano di studi, si era interessato ancor
più gentilmente anche a me. Non sapeva nemmeno il mio nome. Io non mi ero posta
il problema ma, in effetti, per lui ero una delle mille studentesse.
«Dovevamo parlare della tesi, giusto?» aveva detto Paolo
esauriti i lunghi – e non del tutto spiacevoli – convenevoli.
In quel momento purtroppo il mio cervello era uscito a
prendere il caffè. Non vi capita mai che il vostro cervello in certi momenti
sia in pausa caffè? A me sì. C’è bisogno di lui, lo vado a cercare ma non è in
ufficio. Trovo il cartellino “torno subito” e mi tocca aspettare. Tutti hanno
diritto ad una pausa di tanto in tanto, non voglio discutere su questa cosa. Di
solito tempo un quarto d’ora e si rimette al lavoro, ma se c’è un urgenza devo
fare a meno di lui.
Paolo mi aveva domandato se dovessimo parlare della tesi: io
ero la studentessa vivace e interessata alla materia, giusto? Era l’unica
ragione per cui mi trovavo lì. Perfetto! Solo che, col cervello il pausa caffè,
risposi:
«Se proprio vuole…» Con un tono di sufficienza e
indifferenza olimpico.
Lui rise. A lungo e di cuore.
Nel frattempo il mio cervello tornò alla sua scrivania e si
mise a chiedere in giro quali pasticci avessi combinato in sua assenza,
lamentandosi coi suoi colleghi (cuore, reni, cistifellea) ad alta voce dei
problemi che ogni volta gli scaricavo sul tavolo.
«Stefania, lei è troppo divertente.»
«Intendevo dire…»
«Ha ragione. La tesi è un argomento noioso!»
«Prima o poi dovrò scriverla…»
«Ma con la sua intelligenza non ha di certo bisogno dei miei
consigli. Ci sono cose molto più interessanti di cui parlare.»
«Ad esempio?»
«Viene a pranzo con me?»
Per un attimo ebbi paura che fossero in pausa caffè anche le
orecchie. I lobi ne avevano il diritto, perché gli orecchini a clip dopo un po’
stringono e danno fastidio, ma il servizio uditivo mi serviva. Mi aveva
invitato a pranzo? Lui? A me?
«Ehm, quando?»
«Adesso. Dovrà pur mangiare qualcosa o è a dieta come di
solito tutte le ragazze?»
«No. Cioè, non che non sono… non vorrei pensasse che mi
abbuffo… insomma… volevo dire… sì mangio qualcosa. Certamente. Ho appuntamento
con le mie amiche in mensa.»
«Ah, capisco.»
«Sì, ma possono aspettare. In fondo le vedo tutti i giorni.
Non faccia caso a loro.»
«Pensavo di pranzare al giapponese. Lo conosce?»
«Sì, ma è un po’ lontano. Per risparmiare tempo di solito
andiamo in mensa o ci portiamo un panino…»
«Per il panino doveva avvisarmi. Ma se non ha tempo non
voglio costringerla.»
Costretta? Io? Nemmeno per idea. Stavo dando messaggi contrastanti.
Le donne misteriose sono sempre affascinanti, ma non dovevo esagerare. Dissi
che ero pronta anche subito.
Così andammo a pranzo insieme.
Questa era la parte che mia mamma non aveva afferrato bene e
nemmeno io più di tanto.
«Nel frattempo ho capito perché non usi mai i sandali
bianchi» le spiegai. «Sono scomodi da morire! Non te li chiederò in prestito
mai più.»
«Non me li hai chiesti. Li hai usati e basta.»
«Sono dettagli. In ogni caso puoi tenerli.»
Avevo calcolato di utilizzarli una mezz’oretta da seduta,
solo per fare la splendida, invece avevo camminato venti minuti all’andata e
altrettanti al ritorno più tutto il tempo speso tra l’ufficio e il ristorante. Mi
ero distrutta i piedi e avevo perso sensibilità alle orecchie per colpa dei
maledetti orecchini ovvero strumenti di tortura cinese. In compenso, ad un
certo punto avevamo iniziato a darci del tu, così, come se niente fosse, come
se da assistente e studentessa fossimo diventati amici. Paolo era simpatico.
Sulla bellezza mi sono già dilungata e non mi ripeterò. Io ero riuscita a farlo
ridere anche con il cervello in servizio attivo e, anche se non sono una
modella come le mie amiche, stavo facendo del mio meglio su tutto il resto.
«Quindi, riassumiamo.» Mia mamma ha una mente analitica.
«Non hai parlato della tesi. In compenso sei diventata amica di un assistente
carino.»
«È più che carino. È un modello di Abercrombie.»
«Tutto qui?»
«Che vuol dire “tutto qui”, mamma? Hai presente quanto c’è in un modello di Abercrombie?»
«Allora spiegami cosa mi sono persa. Io ho visto solo una
chiacchierata innocente.»
Forse aveva ragione lei. Rifletté ancora, poi disse: «Sai
cosa? In effetti una novità importante c’è stata. Ti sei preparata per un
appuntamento e non mi hai domandato cosa metterti.»
Come ho detto, io seguo parecchi blog e canali youtube sulla
moda. Non ho fantasia, ho bisogno di avere spunti. Una volta le ho chiesto:
“mamma, che ne dici se aprissi anch’io un fashion blog?” lei – che ha una mente
analitica ma anche caustica – m’ha risposto: “dato che ogni singolo giorno mi
domandi un consiglio su cosa metterti, faccio prima se il blog di moda lo apro
io.”
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Capitolo 10 *** Nel quale non si contano le idee ***
capitolo10
Capitolo 10
Nel quale non si contano le idee
Claudia ha l’hobby degli animali. Io della musica. Una volta
le ho proposto di metterci in società: lei avrebbe comperato e accudito un
orso, io avrei scritto la musica giusta per farlo ballare.
«L’orso ballerino è sempre stata un’attrazione da che mondo
è mondo, potremmo fare dei soldi.»
«Stefania, è proprio vero che sei un’insensibile.»
«“Proprio vero” in che senso?»
«Non riconosci i sentimenti nei crostacei e adesso vuoi far
ballare gli orsi.»
«Non c’è niente di male nella danza.»
Claudia mi guardò malissimo.
«Gli orsi non sono fatti per ballare. Costringerlo è
inumano!»
«Beh, queste sono parole forti. Non è che lo costringiamo.
Lo addestriamo con tanto affetto.»
«Vorrei vedere te se ti addestrassero a ballare!»
«Non ci vedo niente di male. Potremmo addirittura mettere in
programma un pas de deux. Se ti va
potresti partecipare anche tu, formeremmo un bel trio e ci addestreremmo tutti
quanti a vicenda in modo molto democratico, noi e l’orso.» Alzai le spalle. Io
vedevo la possibilità. «Pensi che l’orso sarebbe in grado di eseguire un casquet?»
Claudia era scandalizzata. Come sempre, quando si parla di
animali. Il grande affetto che nutre per ogni bestia o bestiola le impedisce di
vedere le possibilità imprenditoriali che si celano nel mondo della natura.
Purtroppo Sofia rovinò definitivamente la mia idea perché
aveva ascoltato la nostra conversazione. Stava facendo altro, ma lei è multitasking a livelli mostruosi. L’ho
vista seguire tre conversazioni in contemporanea. Intervenne e disse che
avrebbe volentieri pagato per vedere me e l’orso ballare un tango figurato. Con
tanto di rosa tra i denti. Poi si mise a ridere da sola per la sua battuta e
finì che anch’io e Claudia ci unimmo alla risata.
Le mie amiche sono davvero tanto carine ma non hanno mai
quelle idee che a me vengono in continuazione. Magari possono sembrare invenzioni
strampalate, tuttavia sono convinta che se mi supportassero invece di trovare
motivi per ridere potremmo diventare ricche e famose con molto anticipo. Forse
loro contano di raggiungere la celebrità come modelle o attrici, e io non ho
questa possibilità per ovvie ragioni di physique
du role, ma se davvero interessasse loro questo tipo di carriera dovrebbero
perdere meno tempo in università, perché la giovinezza non dura per sempre.
Sono troppo drastica, forse? Può sembrare che io sia invidiosa? In realtà non
porto rancore. Quando avrò l’idea giusta, invece di ridere si complimenteranno
con me, sono sicura.
«Quindi niente orso ballerino?»
«Chi sta parlando di orsi ballerini?» domandarono le bionde.
«Claudia e Stefania vogliono aprire una sala da ballo con
gli orsi.»
Alice e Candida ci guardarono stupefatte.
«Esistono delfinari dove nuotano e danzano nell’acqua le
orche, le foche e i delfini» spiegai. «Perché non potremmo lanciare sale da
ballo per orsi?»
«Conosco parecchia gente che non sa ballare…» iniziò Alice.
«… potresti iniziare con loro. Poi passerai agli orsi.»
«Io voglio che facciate ballare anche i panda.»
«Perché proprio i panda, Sofia?»
«Perché non fanno niente nella loro vita se non
sgranocchiare germogli di bambù. Li avete mai visti? Sempre seduti – se non
distesi – a sgranocchiare. Con la scusa che sono in estinzione nessuno li fa
lavorare come si deve. Non è giusto!»
Prima di ballare il tango con i plantigradi e perdermi in
digressioni, stavo dicendo che io ho l’hobby della musica. Se mi impegnassi
potrei scriverlo io un tango!
Già, perché la mia vera passione – in musica – non è
suonare, è scrivere. Quando mi si accende la radio che ho in testa e ascolto
musica tutta nuova, l’unica cosa che ho voglia di fare è metterla sulla carta e
fissarla per i posteri. Tempo fa, credevo che tutti avessero musica dentro la
testa. Credevo che ognuno avesse la sua radio incorporata e ascoltasse musica.
Non solo canzoni e musica già sentita, ma melodie inventate di sana pianta. Ho
scoperto che non è così. Ho scoperto anche che non è troppo strano se mi capita
questo. È una cosa molto comune tra i compositori. C’è un piccolo problema:
scrivere musica è ancora più complicato che dare gli esami in università.
Ci sono milioni di regole da rispettare. Dopo aver studiato
anni pianoforte (non sono mai stata una bambina prodigio ma me la cavo) ho
imparato che comporre è tutt’altra cosa che suonare, tipo come guidare una
macchina e fare il meccanico.
Ho la patente ma non mi azzardo a mettere le mani nel
cofano, anche perché mi si rovinerebbe lo smalto.
Anche gli smalti sono una mia passione. Se devo essere
sincera, ho pensato più volte di farne una professione, ma l’unica idea decente
che ho avuto è al di là delle mie possibilità scientifiche.
Mi spiego meglio: io mi stanco molto spesso del colore che
metto sulle unghie. Scelgo il verde pallido? In capo a due giorni ho voglia di
un rosso intenso. Decido di dare spazio al mio lato dark e utilizzo lo smalto nero? Potete star sicuri che dopo un
certo numero di ore mi sentirò la ragazza più femminile che sia mai apparsa sul
pianeta e, a questo punto, abbinare le unghie nere a una gonna a pieghe color
pastello e a un fiocco tra i capelli non è semplice, credetemi.
M’è capitato persino di voler cambiare smalto subito dopo
che s’era asciugato. È un dramma. Quindi io avrei inventato lo smalto che
cambia colore. Se persino la fotografia che fa da sfondo al computer può
cambiare da sola, perché non dovrebbe cambiare da solo anche lo smalto? A me è
sempre sembrata un’idea geniale, solo che non ho idea di come realizzarla
concretamente. La chimica, o forse la nanotecnologia, vanno oltre le mie
possibilità.
Avrei anche studiato delle palette di colori. Non potrei
sopportare uno smalto che cambi assolutamente a caso, sarebbe necessario
guidare la transizione su una serie di colori prestabiliti, in modo da restare
sempre ragionevolmente abbinato. Il meglio del meglio sarebbe programmare i
colori, ad esempio lo smalto si sintonizza direttamente su come ti vesti.
Secondo me sarebbe l’invenzione del secolo, la rivoluzione
definitiva.
Purtroppo manca la tecnologia per realizzarla. Come la pace
nel mondo, o la fame nel mondo, o quando la nonna non trova gli occhiali da
vicino e ribalta la casa, tutte belle idee che nessuno riesce a mettere in
pratica per mancanza di tecnologia.
«Io ho già trovato il modo per diventare ricca» spiegò
Alice.
«La super modella?» domandai.
«No, non ho voglia di fare tutte quelle diete. È sufficiente
trovare un milionario che mi sposi. Non dovrebbe essere difficile, no?»
«A proposito, Stefania. Oltre che essere bello e simpatico,
Paolo è anche ricco?»
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Capitolo 11 *** In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti ***
capitolo11
Capitolo 11
In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti
Sto parlando troppo di me. In quanto narratrice non è giusto
che monopolizzi l’attenzione anche come protagonista. Non è corretto nei confronti
degli altri personaggi.
«Allora, ragazze, che mi dite?»
Alice rispose senza nemmeno aprire gli occhi.
«Cosa vuoi sapere?»
«Non lo so. Raccontatemi qualcosa.»
«Ho il cervello disconnesso. Anzi, aspetta… com’è che dici
tu? ah, sì, è in pausa caffè.»
Non è facile trovare cinque sdraio vicine in piscina il
sabato, ma c’eravamo riuscite. Una vuole il sole, l’altra l’ombra, un’altra
ancora mezzo e mezzo, è più complicato che organizzare una sessione d’esami.
«Però è giusto» iniziò Sofia, che leggeva un libro seduta
all’indiana. «Adesso che abbiamo trovato un fidanzato a Stefania dovremmo
preoccuparci un po’ anche per noi.»
«Sofia! Non mi avete trovato nessun fidanzato!»
«Tocca a te sviluppare l’occasione. Non è che possiamo
uscirci noi al posto tuo…»
«Candida!»
«Ragazze, lo trovate anche a me un fidanzato?»
«Sì, Claudia, te lo andiamo a prendere al canile. O
preferisci al gattile?»
«Smettila, Alice.»
«Per me cercatelo al club dei principi azzurri.»
«Io mi accontento del club dei milionari.»
«Io…»
«Tu sta’ zitta che te lo abbiamo già trovato in università.»
Sorrisi. «E va bene. Basta parlare di uomini, cambiamo
argomento.»
«Invece no. Ne parliamo ancora! Non è che perché sei
fidanzata tu allora ti disinteressi delle tue amiche. Alle quali devi un
favore, tra l’altro…»
«Alice…»
«Votazione democratica: chi vuole parlare di ragazzi?»
Si alzarono tutte le mani tranne la mia.
«Non è normale che siamo tutte single, no?» disse Claudia.
«No, per niente. Dev’esserci qualcosa che non va.»
«Il problema, Alice, non è nostro. È che non ci sono più i
principi azzurri di una volta.»
«Devono avere sciolto il club.»
Parlammo di alcuni ragazzi di nostra conoscenza. Nessuno
poteva ambire a diventare membro del circolo dei principi.
Poi, come accade in quegli strani percorsi logici che sono
evidentissimi a tutti durante le conversazioni ma che – in realtà – non hanno
alcun senso, subito dopo iniziammo a parlare d’altro.
«Dove andate in vacanza quest’anno?» domandò Sofia, che
continuava a seguire la conversazione con davanti il libro.
«Mare.»
«Anch’io al mare.»
«Io in crociera.»
«Uau. Con Paolo? Ti sei già organizzata? Sei più sveglia di
quanto pensassi!»
«Spiritosa. No, non con lui. Perlomeno non credo.»
«E se facessimo qualche giorno di vacanza tutte insieme?»
Era l’idea migliore che avessi sentito dopo quella di
abolire gli esami per sempre. La proposta veniva da Candida ma era come se ci
avesse letto nel pensiero.
Dovevamo aspettare la fine della sessione degli appelli e
poi potevamo partire.
«Non facciamo mai niente insieme.»
«Come no? Siamo insieme tutti i giorni in università. Oggi,
ad esempio, siamo qui tutte quante!»
Claudia sfilò gli occhiali da sole e girò la testa verso
Sofia. «Sì, ma non facciamo mai niente in importante
insieme. A proposito: mi accompagnate a fare il tatuaggio?»
«Vuoi farti tatuare?»
«Un altro?»
«Cosa?»
«Dove?»
«Una domanda per volta, ragazze! Comunque non ho ancora
prenotato. È solo un’idea. Forza, venite anche voi! Potreste farlo insieme a
me!»
«Perché no?» dichiarò Alice.
«Io avevo giusto intenzione di farmi un piccolo tatuaggio
che inizi qui» Candida indicò il polso destro «e finisca qui» indicò la
caviglia sinistra. Piccolo,
decisamente.
«Facciamo fatica a metterci d’accordo sulle date per qualche
giorno al mare, figurarsi un tatuaggio!»
Claudia aveva una soluzione. «Ognuna fa quello che vuole
dove vuole, ma lo facciamo insieme!»
«Al mare vengo volentieri, ma non contate su di me per altre
iniziative.»
Sofia ha un rapporto con gli aghi ancora peggiore del mio.
«Dai, Sofia, almeno un piercing…»
«Non ci penso nemmeno!» aveva smesso di leggere e le
sopracciglia erano aggrottate. «Pensateci ragazze: perché sono le donne che in
larga maggioranza si fanno bucare e tatuare?»
«Perché piercing e tatuaggi sono carini?» rispose Alice con
una timida domanda.
«Vi pongo la questione in maniera diversa: perché dobbiamo
essere sempre noi a farci del male sul nostro corpo?»
«Sei troppo femminista per me, Sofia» osservò Claudia.
«Non è femminismo, è buon senso.»
«Io sono d’accordo con Sofia» osservai.
È la mia femminista preferita. Quando fa delle osservazioni di
questo tipo è difficile darle torto.
«Certo, che voi… siete complicate!»
«No, Claudia, è Sofia che è complicata.»
«Io sono qui a prendere il sole e voi mi fate domande
esistenziali…»
«Beh, possiamo sempre cambiare argomento, no?» ipotizzai.
«Allora, ragazze, che mi dite?»
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Capitolo 12 *** Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere ***
capitolo12
Capitolo 12
Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere
Ero nell’atrio dell’università e stavo aspettando.
«Ehi, ciao!»
«Ciao, Luisa!»
Mi fissò con interesse.
«Come stai?»
Lei sorrise. «Bene.»
Non era un sorriso di circostanza, mi sembrava che stesse
davvero bene come aveva detto.
«Hai tagliato i capelli?»
«Già. Sono tornata al mio taglio “normale”».
Bisognerebbe studiare come mai le donne quando hanno bisogno
di un cambiamento nella propria vita si sfogano sui capelli. Io li ho sempre
avuti all’incirca corti uguali e questo dà un’idea di quella noia totale che è
la mia esistenza. Luisa li aveva fatti crescere quando era fidanzata e li aveva
tagliati non appena s’era lasciata.
Una storia d’amore finita male. Lei aveva investito
parecchio in quella relazione e questo le aveva fatto ancora più male.
«Tu come stai?» domandò.
«Lo sai com’è la mia vita. Penso a molte cose e ne realizzo
poche.»
«Stai scrivendo?»
«Sempre.»
È significativo che Luisa me l’avesse domandato. Nel gruppo
delle mie amiche non pubblicizzo mai il fatto che mi piace scrivere. Vado
famosa come la musicista del gruppo e mi accontento. Altre persone, invece,
conoscono il mio hobby.
«Perché ridi, Stefania?»
«Perché non mi hai chiesto se sto studiando. Mi consideri
una scrittrice professionista o dai per scontato che mi aspettano dieci anni da
fuoricorso?»
Luisa inclinò la testa e mi sorrise ancora. Ci conosciamo
bene, io e lei, anche se lei studia giurisprudenza, quindi non siamo colleghe
di corso.
Ci aggiornammo reciprocamente sulle ultime novità, semplici
chiacchiere che si fanno ogni volta che in università si incontra qualcuno.
Posso passare le settimane, io, a non
fare altro che scambiare quattro chiacchiere con varie persone.
Luisa doveva andare a lezione dunque mi salutò.
Io stavo sempre aspettando quindi rimasi in atrio.
«Isa? Isabella?»
«Ciao!»
«Che ci fai qui?»
Era davvero il giorno degli incontri casuali.
«Vado in segreteria. Se non torno tra cinque ore chiama la
polizia e dai l’annuncio che sono scomparsa.»
Isabella è matta ma simpatica. Non ho mai capito cosa le
passi nella testa ma il risultato è che starle vicino è spassosissimo.
«È un po’ che non ci vediamo. Che hai combinato di bello?»
«Ah, non chiedermi nulla!»
Aveva la faccia tipica di una che dice una cosa ma intende
l’esatto opposto.
«Hai avuto qualche problema?»
«Direi proprio di sì. La casa di mia cugina è saltata per
aria.»
Sgranai gli occhi. «O mamma!»
«Sì, ma lei non era in casa. In compenso quando sono
arrivata io ho trovato la polizia, i pompieri e mezza Parigi.»
«Che c’entra Parigi?»
«Mia cugina vive a Parigi!»
«Tu eri in Francia?»
«Sì, ero andata a trovarla, ma questo è solo l’inizio della
storia. Ti interessa? Te la racconto?»
«Chiaro che mi interessa!»
«Allora accompagnami in segreteria. Te lo spiego mentre
facciamo la coda. Raccontare tutto richiederà… all’incirca 12 ore. Dovremmo
arrivare quasi fino allo sportello, per quell’epoca.»
Stava scherzando ed esagerando sui tempi d’attesa, ma non troppo.
«Non posso, scusa, sto aspettando una persona…»
Lei si grattò la testa.
«Beh, hai il mio numero. È una storia movimentata ma
divertente.»
«Non ho dubbi, se c’eri tu.»
«C’era anche mia nonna… conosci mia nonna?... credimi, lei è
molto peggio di me.»
Mi domandavo cosa c’entrasse la nonna di Isabella con la
casa di Parigi.
«Saltata per aria, hai detto.»
«Sì, certo! Una bomba!»
«Una bomba nel senso figurato o nel senso…»
«Una bomba! Bum!» Agitò le mani. Le veniva da ridere.
«Ti stai approfittando della mia amicizia. Mi stai prendendo
in giro, vero?»
«No, per nulla!» Alzò le spalle. «Controlla, se vuoi!»
«Oh, sicuro! Scrivo su internet “bomba a Parigi” e in un
paio di minuti le teste di cuoio fanno irruzione in casa mia e mi arrestano per
terrorismo!»
«Non ne sai nulla, tu, di servizi segreti.»
Mi guardò con un’occhiata che significava: io, invece, ne so parecchio.
«Beh, scusa, la segreteria m’aspetta.»
«M’hai incuriosito con questa storia. Ci sentiamo presto!»
«È una minaccia?»
«Certo che sì!»
Baciai Isabella sulle guance e se ne andò.
Io stavo sempre aspettando, dal che dedussi che o ero in
grande anticipo oppure la persona che aspettavo era in grave ritardo.
Sofia si materializzò vicino a me.
«Ehi, da dove sei sbucata?»
«Sei con la testa fra le nuvole come al solito, Stefania.
T’ho pure salutata!»
«Hai incrociato Luisa e Isabella? Erano qui un attimo fa…»
«Chi?»
«Isabella e Luisa, le mie amiche…» Sofia scosse la testa,
non aveva visto proprio nessuno. «Impossibile!» ribadii. «Isa era qui un attimo
fa! Devi averla vista per forza!»
NdA
Lascio a voi ogni considerazione sul fatto che Luisa sia la
protagonista del mio “nuvole di dubbio” e che Isabella sia la protagonista di
“complotti casuali”.
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Capitolo 13 *** Dove l’universo probabilmente collassa ***
capitolo13
Capitolo 13
Dove l’universo probabilmente collassa
«Mi spiace, non ho visto nessuno. Eri sola.»
«Sì, ero sola, ma un attimo prima che arrivassi tu c’era
Isabella con me.»
«Non sono sicura di conoscerla, questa Isabella. Neanche
Luisa. Ce le hai presentate?»
«Credo di sì, non ricordo.»
Sofia mi scrutò coi suoi occhi azzurro limpido. Per quanto
le mie amiche scherzino sempre e siamo abituate a prenderci in giro, il suo
sguardo era serio.
«Te la sei sognata?» domandò, con l’aria di chiedersi se
fossi io a prendermi gioco di lei.
«Spero di non essere così
fuori di testa da parlare con persone che non esistono!»
Lei alzò le spalle.
«Beh, in fondo cos’è l’esistenza? Tu esisti? Io esisto?»
Le diedi una spinta sulla spalla sufficiente a spostare le
ossa dalla loro sede naturale.
«Certo che esisti! Non metterti a fare i tuoi ragionamenti
da filosofa da strapazzo sull’esistenza in metafisica!»
«Oh, beh, se la metti così non ti parlerò di filosofia. Ti
faccio solo una domanda semplice: i sogni esistono?»
«Certo che esistono!»
«Me ne fai vedere uno?»
Sofia è la mia femminista preferita, è la mia ancora di
salvezza ogni volta che non capisco qualcosa a lezione, ma se si mette a fare
ragionamenti ci vogliono due lauree – di cui una in filosofia quantistica
applicata – per starle dietro.
«Non accetto questi giochi di parole» replicai. «I sogni
esistono nella testa di chi li vive. Anche i sentimenti non si vedono ma
esistono senza dubbio.»
«Allora, dimmi… esistono i ricordi? Se ci pensi, i ricordi
sono una parte fondamentale di ognuno di noi. Noi siamo i nostri ricordi. Possiamo parlare dei ricordi, spiegarli,
mostrarli, fissarli con foto o filmati. Eppure, i ricordi non sono reali.»
«Quindi vorresti dire che ho immaginato di incontrare
Isabella e Luisa poco fa?»
«Potresti anche averle inventate.»
«Chi?»
«Queste due ragazze. Potrebbero essere frutto della tua
fantasia.»
«Anche tu potresti essere frutto della mia fantasia.»
«Allora con chi stai parlando, adesso?»
«Con me stessa.»
«Ah sì?»
Sofia mi arruffò i capelli con una mano. «Dì all’altra te
stessa di pettinarti!»
Sorrise. Era uno di quei bellissimi sorrisi di cui la mia
amica è capace senza sforzo.
«Ci vediamo più tardi!» la salutai mentre si allontanava
verso l’aula.
Finalmente potevo tornare ad aspettare. Prima che avessi il
tempo di ragionare e decidere se i suoi discorsi avessero senso oppure no, vidi
la persona che stavo aspettando.
«Ciao, scusa il ritardo.»
«Ciao, Paolo.»
Avevamo appuntamento per pranzare insieme. Come avevano
detto le mie amiche, dovevo impegnarmi io a far progredire la situazione.
Sempre se c’era una situazione da far progredire.
«Senti, ho una domanda.»
«Dimmi, Stefania.»
«Non prenderla male, è una domanda strana.»
«Beh, dimmi!»
«Tu esisti?»
Lui rise. «Penso di sì.»
«Perfetto. Pensi dunque sei. Non è questa la regola? Sono
molto più tranquilla, adesso. Mi sarei arrabbiata molto se tu non fossi
esistito.»
Forse non dovevo fare questi discorsi all’incirca al primo
appuntamento, ma ormai ero in argomento.
«Arrabbiata con chi, esattamente?»
«Con me stessa, credo.»
Paolo inclinò le sopracciglia.
«Vuoi che ti dimostro che esisto? È questo che stai
dicendo?»
«Mmmh, non lo so. Come penseresti di dimostrarlo?»
Mi rivolse un’occhiata intensa e improvvisamente capii
quello che stava pensando.
Ho capito cosa intende
dire questa ragazza. Più la conosco più è una scoperta. Tutte queste storie
sull’esistenza metafisica. Vuole un bacio, ecco qual è la “dimostrazione” che
cerca. È la più strana richiesta di un bacio che abbia mai sentito in vita mia,
ma è anche la più divertente e interessante. Ha della stoffa, questa ragazza.
Potrei anche accontentarla, ma senza esagerare, siamo pur sempre in pubblico.
Io avevo capito, lui pure. Non era quello che pensavo
all’inizio, ma la sua interpretazione era più che soddisfacente. Sorrisi.
«Oh, sì!» dissi.
NdA
Grazie per essere arrivati fin qui. Spero che la storia vi
abbia strappato almeno un sorriso.
Ho un annuncio (se a qualcuno può interessare): ho
pubblicato tutti gli ultimi capitoli insieme perché mi scoccia lasciare le cose
a metà e nei prossimi tempi dovrò assentarmi da efp quindi non avrei modo di
aggiornare con regolarità.
Ringrazio tutti i lettori, quelli occasionali e quelli
abituali.
Mi mancherete, ragazze e ragazzi!
Un abbraccio
Steph
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