Il giro del mio mondo in 80 righe

di steph808
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In cui si parla di animali e delle relative zampe ***
Capitolo 2: *** Nel quale si incontrano due bionde ***
Capitolo 3: *** In cui si conosce il destino di Agenore ***
Capitolo 4: *** Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari hanno un cuore ***
Capitolo 5: *** In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi pensieri ***
Capitolo 6: *** Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato ***
Capitolo 7: *** Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa tragedia ***
Capitolo 8: *** Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale ***
Capitolo 9: *** Dove si sperimenta l’affetto filiale ***
Capitolo 10: *** Nel quale non si contano le idee ***
Capitolo 11: *** In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti ***
Capitolo 12: *** Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere ***
Capitolo 13: *** Dove l’universo probabilmente collassa ***



Capitolo 1
*** In cui si parla di animali e delle relative zampe ***


capitolo1
Capitolo 1
In cui si parla di animali e delle relative zampe

 
«Guarda! Guarda come trattano quella povera bestiola!»
Claudia è un’amica degli animali, e noi lo sappiamo, ma avevo l’impressione che stesse esagerando.
«Che tenero! Che occhietti vispi!» continuò lei.
«Claudia…»
«Le hanno pure legato le zampine! È un trattamento inumano!»
Iniziavano a guardarci, io volevo trascinarla via, oppure sotterrarmi.
Provai a convincerla con le buone maniere, parlando adagio.
«Ti prego… Non mi sembra così inumano come dici… e in realtà non mi sembrano nemmeno zampe…»
Mi fulminò con lo sguardo.
Poi scosse la testa come se, invece di un’amica, avesse appena visto l’abominevole uomo delle nevi. Anzi, no. Claudia proverebbe simpatia per lo yeti, perché si innamora a prima vista di tutti gli animali, quelli carini e simpatici ma anche quelli brutti e orrendi. Se fossero solo orrendi, ci sarebbero delle scusanti. Amore per la natura eccetera. Invece, come giustificare la sua passione per le bestie pericolose, velenose, assassine, o anche semplicemente quelle che non si lavano mai nel corso della loro insudiciante vita?
Lei li trova tutti adorabili, tutti carini, tutti teneri.
Fino a quando parliamo di animali con un pelo carezzevole e morbido sono d’accordo. Molti cuccioli, anche di specie strane, sono davvero teneri. Anch’io provo una certa simpatia istintiva per i gattini, ma di certo non terrei in casa un cucciolo di tigre. Non lo terrei nemmeno in braccio e, per la precisione, non so nemmeno se lo accarezzerei. Di certo non se ci sono i suoi genitori in vista.
Quanto a certe bestie sporche o puzzolenti, abbiano o meno un pelo morbido o un musino simpatico, proprio non le sopporto. Bestiacce squamose, viscide od orrende devono stare fuori dal mio campo visivo.
Claudia – stavo dicendo – mi guardò come se fossi io quella strana.
Volevo almeno spiegarle la faccenda delle zampe e aprii la bocca, ma una voce mi fermò.
«Che c’è, signorina?»
«È lei che tiene in queste condizioni quella povera bestiola?»
Era fatta. Volevo scomparire. Sprofondare nel terreno e non riemergere mai più.
«Quali condizioni?»
La mia amica puntò un dito pieno d’indignazione contro l’animale incriminato.
«Ma non si vergogna? Tenerle le zampe legate!»
«Non sono zampe» disse lui.
«Te l’avevo detto, io…»
«Ah sì? Se non sono zampe, tu come le chiameresti?»
Eravamo in due a sostenere quella tesi, ma Claudia si voltò verso di me, con una mano sul fianco e lo sguardo altero.
«Sinceramente, io le chiamerei chele…»
«Certo, signorina» disse il cameriere. «Le aragoste non hanno zampe, si chiamano proprio chele. E se non gliele chiudiamo, pinzerebbero qualsiasi cosa e qualsiasi persona alla loro portata.»
Se non si fosse ancora capito, passavamo davanti ad un ristorante e Claudia si era scandalizzata per un’aragosta viva in bella mostra tra la porta e il menu a cartellone.
«Voglio comperarla» disse lei, decisa come un motoscafo di Greenpeace che attacca una baleniera giapponese.
«Certamente! Preparo un tavolo per due?»
«Voglio salvarle la vita, non mangiarla!»
«Claudia, ti prego… ci stanno guardando…»
«Stefania, sei un’insensibile! Non vedi la tristezza nei suoi occhi?»
«Io vedo solo degli occhi inespressivi. È un crostaceo, non un cucciolo di mammifero.»
«Quindi, solo perché è un crostaceo, può morire gettata nell’acqua bollente? Vorrei vedere te, se ti buttassero nell’acqua bollente!»
«Io non sono un’aragosta!»
Tranne che nei primi giorni in cui prendo il sole, in cui assumo all’incirca lo stesso colore, ma evitai di specificarlo.
«È una splendida morte, signorina, mi creda.»
Il cameriere portò le dita raccolte alle labbra. Una morte buonissima, intendeva dire.
«Voglio comperarla» ripeté Claudia.
«Viva?»
«Viva e vegeta!»
«Questo è un ristorante, non un acquario. Non vendiamo animali, a meno che non siano cucinati nel piatto!»
Non avevo intenzione di passare tutto il pomeriggio in università a lezione con un’aragosta nella borsa. Neanche se la borsa fosse stata quella di Claudia. È vero che le aragoste sono animali puliti, perché vivono nell’acqua, ma – sarà pure un trattamento inumano – ma non penso che ci sia niente di male nel cuocerle e mangiarsele.
La mia amica mercanteggiò a lungo. Parlò con il cameriere, con il capocuoco e infine con il proprietario.
Venti minuti dopo, Agenore passava nelle mani di Claudia, tutta felice per averlo salvato da morte sicura. L’aveva pagato molto più che non cotto e mangiato, ma lei era contenta così.
«Vuoi accarezzarlo?»
«Non ci penso neanche! Più lo vedo da vicino più mi fa impressione!»
«Stefania, sei proprio un’insensibile! Non vedi com’è contento adesso?»
«Se devo essere sincera, non trovo differenze.»
Mi fissò come se avessi appena dichiarato di sgranocchiare cuccioli di foca per colazione invece dei biscotti.
«Io porto Agenore a casa.»
Non volevo sapere come se la sarebbe cavata con un’aragosta in metropolitana, quindi io mi diressi verso l’università mentre Claudia si avviava chiacchierando con il riconoscente Agenore verso i mezzi pubblici.
 
NdA
Benvenuti in questa mia nuova storia!
Troverete un sacco di personaggi e, tra di loro, una voce narrante d’eccezione: me.
Dato che non posso promettervi che tutto quello che racconterò sarà vero, vi assicuro fin da subito che è tutto falso, così non rischio guai di nessun genere.
Se vi può interessare una storia simile a questa (ma molto migliore), vi consiglio “il capitano Pamphile” di Alexandre Dumas, un libretto esilarante che mi ha fatto venire l’idea di questa storiella.
Due annotazioni: dato che racconterò in prima persona, scriverò poche note a fondo pagina, questa storia è già abbastanza strana così… Secondo! Dato che è completa, la pubblicherò con regolarità. Terzo! È stato divertentissimo scriverla, spero di cuore che per voi sia lo stesso nel leggere.
Ah, un'ultima cosa:  credo proprio che questa sarà la mia ultima storia, non l'ultima in generale ma l'ultima che inizio prima di finire quelle che ho in corso, dunque l'ultima per molti e molti mesi.

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Capitolo 2
*** Nel quale si incontrano due bionde ***


capitolo2
Capitolo 2
Nel quale si incontrano due bionde
 
Il giorno seguente ero curiosa di sapere cosa avesse combinato Claudia con la sua aragosta.
Arrivai in aula e raggiunsi subito il mio gruppetto di amiche. Non so cosa farei senza di loro. Mi sento già sufficientemente persa in università. Senza il loro conforto psicologico non saprei organizzarmi.
Perché io ho fatto un grave errore, in università. Ho commesso una sciocchezza pressoché imperdonabile.
Mi sono iscritta.
Il problema è abbastanza semplice, ma non per questo meno importante. Non mi dispiace l’ambiente, apprezzo la compagnia, imparo persino qualcosa nel frequentare le lezioni. Il vero punto dolente, come si può facilmente capire per sottrazione, sono gli esami. Come quel tale che sosteneva che la sua vita era andata a gonfie vele fino al giorno in cui era nato, anch’io dico che in università va tutto alla perfezione fino a quando non arriva la sessione d’esame.
Del resto, non posso darmi all’ippica perché il settore è in crisi e comunque non sono appassionata di animali. L’unica che si darebbe volentieri all’ippica è proprio Claudia. Neanche a farlo apposta, il suo bestiario personale comprende anche un cavallo. Quanto alle braccia rubate all’agricoltura, mi sono informata e ho scoperto che non è questione di braccia perché al giorno d’oggi il lavoro nei campi si fa con i trattori. Chi sa guidare un trattore? Io no di certo!
Quindi è comunque più adatta a me la vita della studentessa in università. Se non esistessero gli esami, o se fossero anche semplicemente più facili, tutto sarebbe perfetto.
Dicevo, dunque, che avevo raggiunto subito le mie amiche, compagne di scorribande nonché supporto psicologico.
Ovviamente il giorno prima avevo diffuso la voce. Avevo raccontato a tutte dell’aragosta sottratta ad una patetica morte in pentola e quindi non ero la sola ad aspettare con ansia l’arrivo di Claudia.
«Ciao ragazze» dissi.
«Ehilà!»
«Ciao!»
«Oh, guardate, oggi Stefania si è vestita da donna.»
L’ultima spiritosaggine era di Alice.
«Ah, è così? E di solito da cosa mi vesto?»
«Sei diventata pure permalosa!»
Incrociai le braccia e aggrottai le sopracciglia.
«Non è la prima volta che metto la gonna!»
«In questo secolo… sì.»
Tre a zero per Alice. Vorrei dire che detesto quando le mie amiche fanno così, ma in verità mi diverto troppo con loro per offendermi.
«Sei carina, Stefania.»
«Grazie, Candida.»
Feci la linguaccia ad Alice, che mi rispose con una smorfia.
Mi fecero posto e sedetti vicino a loro, tutta soddisfatta per la mia gonna fashion. Perché Alice scherzava.
«Dov’è Claudia?»
«Probabilmente è a caccia di aragoste» rispose Sofia, che era accanto a me.
«Pescarle costa meno che comperarle» replicai.
La nostra animalista non era ancora arrivata. Quando frequentiamo insieme di solito sediamo vicine, o comunque non manchiamo mai di fare quattro chiacchiere prima o dopo la lezione.
Tirai fuori dalla borsa il blocco degli appunti e una matita. Io scrivo quasi sempre a matita. Essenzialmente la uso perché si può cancellare, in realtà non cancello mai niente. Non c’è ragione di modificare o correggere gli appunti. Anzi, a volte il tratto della matita si scolorisce da solo e mi ritrovo con fogli mezzi bianchi semi illeggibili. È controproducente scrivere in questo modo e lo so bene, ma non riesco a farne a meno. Dovrei farmi analizzare da qualche psicologo esperto in linguistica e scienza dell’apprendimento. Avrebbe un bel da fare, con me.
Alice e Candida avevano già davanti i loro quaderni, Sofia aveva appoggiato i gomiti sul ripiano vuoto. Lei prende appunti solo in casi estremi. Vederla scrivere a lezione è raro quasi quanto vedere me con la gonna. A dispetto di quello che sostiene Alice, nella bella stagione metto gonne abbastanza di frequente, mentre Sofia scrive poco comunque. Dice che ha bisogno di sistemare le informazioni a modo suo nella sua testa. Il suo metodo di studio è inspiegabile. Ne parlerò nei dettagli, uno dei prossimi giorni. Da quello che ho capito, lei memorizza qualsiasi cosa senza bisogno di fissare su carta. Io non mi ricordo neanche quello che scrivo sul blocco degli appunti. Se il tratto di matita si scolora potrei anche non riconoscere la mia scrittura. Dicono che i pesci rossi abbiano memoria solo per gli ultimi cinque minuti di vita. Ecco, io ho la memoria di un pesce rosso sbadato. Sofia, invece, ha una specie di registratore nel cervello.
Claudia entrò in aula di corsa, ci vide e ci raggiunse.
«Ciao ragazze! Oh, Stefania, come siamo carine oggi! Ehi, bionde, fatemi spazio per favore.»
A questo punto noi dovevamo sapere.
«Come sta Agenore?»
Lei sollevò un sopracciglio. Claudia è molto carina ma non è brava col linguaggio dei gesti, quel sopracciglio poteva significare qualsiasi cosa.
Io spalancai gli occhi, Sofia abbozzò un sorriso, le bionde girarono la testa incuriosite.
Devo specificare che Alice e Candida hanno veramente i capelli biondi, quindi se facciamo riferimento alle “bionde”, non è uno dei soliti scherzi, parliamo di loro per forza. Sofia, invece, ha i capelli castani tendenti al rosso, Claudia è castana con una sfumatura scura.
Anche nel colore degli occhi c’è molta varietà. Sofia e Candida hanno occhi azzurri, Alice verdi e Claudia marroni.
Ho già raccontato del mio più grande problema in università. Il mio secondo più grande problema è di non aver trovato delle semplici amiche, ma di essere finita in un gruppetto di fotomodelle. Sono anche mie amiche, ovvio, ma tutt’e quattro sono belle in maniera imbarazzante. Candida potrebbe fare la modella, alta com’è, bionda e con gli occhi azzurri, Alice è meno vistosa ma è incantevole, Sofia è alta quanto Candida, è snella e ha un sorriso fulminante – oltre che un’intelligenza straordinaria – Claudia è molto bella, la tipica ragazza mediterranea. Manca qualcuno? In effetti sì. Infine ci sono io, il brutto anatroccolo della situazione.
In un gruppetto di ragazze bruttine potrei anche fare la mia figura, ma con loro sono rassegnata ad essere l’amica meno popolare, come dicono gli americani. Però sono simpatiche, gentili, mi prendono per come sono e per questo voglio loro molto bene e non cambierei loro quattro per nessun’altra.
Dicevo che Claudia aveva sollevato un sopracciglio.
«Allora, come sta Agenore?» ripetei.

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Capitolo 3
*** In cui si conosce il destino di Agenore ***


capitolo3
Capitolo 3
In cui si conosce il destino di Agenore
 
Claudia ha uno zoo in casa. Possiede un gatto, un cane, una tartaruga, un criceto, un acquario di pesci tropicali e uno di pesci di acqua fredda. Il cavallo – che letteralmente adora – per fortuna vive al maneggio. Per fortuna del cavallo, ovvio, perché gli equini sono bestie sensibili, tra tutte quegli animali che girano nel suo giardino potrebbe venirgli un esaurimento.
Il gatto si chiama Leone. Secondo la sua padrona, ha il carattere di un felino di grossa taglia. Il cane si chiama Mogano per il colore del pelo. È un bel cagnone grosso, sessanta o settanta chili di affetto e di ciccia da mantenere a suon di scatolette e croccantini. La tartaruga si chiama Coupé, come certe tipologie di automobili, e Claudia sostiene che sia un esemplare particolarmente scattante in accelerazione. Dice che è una tartaruga da corsa e siete liberi di crederle. Quanto a me, ho dei dubbi, perché non ho mai visto una tartaruga correre più rapida del piè veloce Achille, come vorrebbe dimostrare il famoso paradosso di quel tizio greco. Quello che sosteneva che Achille prima di compiere la metà della distanza che lo separa dalla tartaruga doveva compiere la metà e prima di quella metà un’altra metà più piccola e, alla fine, in pratica era impossibile spostarsi e raggiungere l’imprendibile tartaruga in fuga. Tutte complicazioni degne di un greco antico che non doveva pensare a nessun esame in università.
In caso contrario, cioè se il tizio greco avesse avuto un esame che lo preoccupava, avrebbe mosso un passo, avrebbe afferrato Coupé per il guscio e, una volta dimostrato che anche le tartarughe da corsa più scattanti sono comunque raggiungibili con facilità, si sarebbe fatto spiegare da Sofia qualche argomento dell’ultima lezione che non aveva capito, magari perché i suoi appunti – tutti a matita – si erano persi in qualche svolazzo inconcludente. Ma Zenone era filosofo e poteva dilettarsi coi paradossi, probabilmente sua mamma era contenta se, invece degli esami sul libretto, portava a casa dei paradossi abbastanza inutili.
Non ho ancora completato la rassegna degli animali. Manca il criceto, che si chiama Dentone, non perché abbia una dentatura troppo sviluppata ma perché se ne sta sempre a masticare nella sua gabbietta. Secondo Claudia, a volte sgranocchia anche le sbarre, la ruota e qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Dice che se esistesse lo psicologo dei criceti lo porterebbe a fare una visita perché a suo parere gli mancano svariati venerdì, ma chi può dire cosa sia normale oppure no per il cervello di un criceto?
Colta da un’ispirazione improvvisa, quel giorno avevo subito proposto alle mie amiche di specializzarci in medicina veterinaria psichiatrica e aprire uno studio associato.
Mi hanno fatto notare che, primo, è molto difficile laurearsi in un corso che non esiste e, secondo, non tutti hanno la pazienza, l’affetto e la preoccupazione di Claudia con i suoi animali e, quindi, rischiavamo di non avere clienti. Puntare sulle turbe mentali di criceti e affini poteva essere poco redditizio, insomma.
Io ribattei che trovavo difficile laurearsi anche in un corso che esiste, quindi la prima obiezione mi sembrava superabile senza problemi, quanto alla seconda obiezione, Claudia si offrì di portare Dentone e pagare la visita, in modo da sbloccare l’attività dello studio subito dopo l’inaugurazione, poi avrebbe diffuso la voce ai suoi conoscenti e si disse certa che qualche altro cliente l’avremmo trovato.
Inutile dire che la mia proposta venne affossata, ma non desisto, prima o poi arriverà l’idea giusta e diventeremo ricche e famose.
Sembrerebbe, a questo punto, che tutti gli animali di Claudia hanno un nome che riguarda una loro caratteristica fisica, col che la mia amica dimostrerebbe di essere molto carina, di essere un’amante degli animali e una padrona affettuosa ma anche di avere scarsa fantasia per i nomi.
Invece, il suo cavallo si chiama Stella Atlantica e questo ovviamente non ha niente a che fare con il suo aspetto fisico. Quanto all’aragosta, l’aveva chiamata Agenore fin dal primo momento quindi quello sarebbe stato il suo nome fino alla fine dei suoi giorni. Non so quali sono i nomi più diffusi per le aragoste, ma Agenore mi sembra originale e particolare, e lo sostengo non solo per amicizia nei confronti di Claudia, ma per un’autentica difesa della sua fantasia.
Prima di perdermi nella narrazione, stavo dicendo che le avevamo chiesto notizie del suo crostaceo e lei aveva alzato un sopracciglio.
«È un pasticcio, ragazze.»
«Racconta» invitò Candida.
«Innanzitutto, in metropolitana la gente mi guardava malissimo.»
«Mi sarei stupita del contrario» osservai. «Avevi un’aragosta legata su un piatto!»
«Sì, ma siamo in un Paese libero, no? Perché la gente non si fa i fatti suoi? Voglio portare un’aragosta in metropolitana, saranno fatti miei, non credete? Invece tutti a guardarmi male, a indicare Agenore col dito mentre lui ruotava gli occhietti intorno spaurito.»
«Spaurito?» domandò Alice. «Non ho mai visto un’aragosta con dei sentimenti.»
«È quello che ho detto anch’io ieri» ribadii.
«Sono circondata da insensibili» replicò Claudia. «Comunque, grazie ad Agenore per una volta non ho rischiato di essere derubata. La gente mi stava lontana almeno un passo.»
La distanza di sicurezza dalle chele, pensai, anzi dalle “zampe”.
«Agenore l’aragosta da guardia» scherzò Sofia.
«Quando sono arrivata a casa non sapevo dove metterlo» continuò. «Acquario tropicale o acquario freddo?»
«Cosa hai fatto?»
«Beh, nel frattempo l’ho liberato in giardino. È qui che è iniziato il pasticcio.»
«Quale?»
«Mogano e Leone sono venuti subito a conoscere il nuovo inquilino. Leone aveva paura. È astuto quel gatto, e poi ha nove vite come tutti i suoi simili. S’è avvicinato a distanza di sicurezza e poi è scappato. Fino a quando le aragoste non impareranno ad arrampicarsi sugli alberi, Leone pensa di essere al sicuro là sopra. I cani sono diversi. Sono curiosi, invadenti. Mogano è grande e grosso e non ha paura degli animali più piccoli di lui.»
«Cioè tutti tranne elefanti, balene e trichechi» interloquì Sofia.
«Non è così grosso, ragazze.»
«L’hai detto tu che è più pesante di te!» ribadì Candida.
«Sì, perché io sono una ragazza magra e lui è un cagnone che non conosce il concetto di “dieta”. Se gli metti davanti dieci chili di crocchette se li mangia tutti.»
«A volte vorrei appartenere alla razza canina pure io! Sostituendo le crocchette con la nutella, però» sospirò Alice.
«Mogano si è avvicinato, l’ha annusato e Agenore deve aver pensato che fosse pericoloso, quindi l’ha pizzicato con le zampe.»
«Le chele.»
«Chiamale come vuoi.»
«Quindi?»
«Mogano s’è arrabbiato, gli ha abbaiato addosso e gli ha dato una zampata che Agenore è volato dall’altra parte del giardino. Per fortuna che la corazza è resistente, altrimenti si sarebbe spiaccicato. L’ho raccolto e l’ho messo nel terrario di Coupé.»
«Insieme alla tartaruga?»
«No, Coupé era in giro in giardino. A questo punto, mi sono posta il problema. Cosa mangiano le aragoste?»
«Non ne ho idea.»
«Nemmeno io.»
«Sofia? Cosa mangiano le aragoste?»
«Che ne so, Candida? Mi hai preso per un’enciclopedia?»
«Tu sai un sacco di cose…»
«Boh… alghe? Plancton?»
«Ecco. Brava» riprese Claudia. «Dove lo trovo io il plancton? E poi non potevo lasciarla nel terrario per sempre, no? È un’aragosta, non una talpa, ci vuole il mare, non basta una ciotola d’acqua.»
«Credo ci voglia acqua salata.»
«Sì, Sofia. Infatti all’inizio volevo metterlo nell’acquario, ma avevo paura che si mangiasse i miei pesci. Già l’acquario mi è costato uno sproposito, se mi mangia i pesci tropicali è un danno.»
«Quindi?»
«In casa mia c’è lo sciopero. Ho un cane che non esce più dalla cuccia, un gatto isolato sull’albero, una tartaruga che si è ritirata nel guscio a tempo indeterminato e quel deficiente del criceto che si mangia le sbarre. Tutto per colpa di un’aragosta.»
«E il plancton?»
«L’ho ordinato su internet.»
In quel momento entrò l’insegnante e Claudia dovette interrompere il racconto.

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Capitolo 4
*** Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari hanno un cuore ***


capitolo4
Capitolo 4
Dove si dimostra che anche i professori (e gli assistenti) universitari hanno un cuore
 
Per quella specifica materia, il nostro insegnante è il professor T., ma quel giorno, per il nostro piacere, si era fatto sostituire da uno dei suoi assistenti, il dottor Paolo G., che non è un dottorando, è un modello di Abercrombie che passa il tempo libero in università.
No, in realtà questa cosa l’ho inventata, è davvero un dottorando di ricerca, ma ciò non toglie che abbia il fisico per fare il modello.
Se proprio qualcuna volesse fare la difficile direi che sì, in effetti, non è proprio perfetto. Però è pur sempre l’assistente più carino che conosciamo. Non c’è ragazza in aula che non abbia sospirato al suo ingresso in aula, perché il professor T. è un buon insegnante, molto preparato, ma anche l’occhio vuole la sua parte.
Tra l’altro, aveva quell’aria sportiva che adoro. Non faccio nessuno sport, l’ultima volta che ho fatto un allenamento ero in seconda media e facevo pallavolo, una sfortunata esperienza che si è conclusa in modo prematuro.
Il fatto è che la mia squadra era una buona squadra, con ambizioni sul primo posto in classifica. Quindi ho fatto tutti gli allenamenti per un anno intero – due volte a settimana a saltare e prendere a schiaffi una palla – con la promessa che non appena fossi stata in grado di sostenere una partita di buon livello mi avrebbero schierato in campo.
Ho saltato, schiaffeggiato la palla a dovere, imparato i fondamenti del gioco, palleggi, ribalzi e tutto quanto. Alla fine dell’anno non mi hanno fatto giocare perché le partite erano tutte decisive per la vittoria finale, ma mi avevano assicurato che dall’anno successivo sarei stata convocata. Mi avevano pure assegnato la maglietta con il numero, mi sentivo integrata.
Poi ci sono state le vacanze e durante l’estate mi ero dimenticata non solo i fondamenti del gioco ma anche cosa fosse la pallavolo. Non sono più rientrata in squadra, non ho fatto allenamenti e quindi non sono mai scesa in campo. Fine prematura di una promettente carriera sportiva.
Ignoro cosa sia stato del mio numero e della mia maglia. Dubito che l’abbiano ritirata, come si fa quando un giocatore leggendario smette di giocare.
Quindi sono poco avvezza agli sport, ma per l’aria sportiva del dottor Paolo G. (che chiamerò semplicemente Paolo d’ora in poi) avrei iniziato a praticarli tutti. Pallavolo, calcio, basket, arrampicata libera, slittino, paracadutismo, non mi importava cosa, mi importava solo con chi. Si diceva fosse istruttore di sci.
«Oh, dottore, io non so sciare. Può darmi ripetizioni private?»
Il punto è che anche Candida, Alice, Claudia e Sofia avevano appena avuto la mia stessa idea. Tutte sportive appassionate.
Gli occhi femminili dell’aula erano puntati su Paolo, che sedette in cattedra e iniziò a parlare dell’argomento del giorno.
Gli occhi maschili – e sono circa la metà del totale – guardavano in cagnesco le ragazze, domandando, in modo nemmeno troppo velato, cosa avesse costui per piacere a tutte.
Eh, caro mio, comprati uno specchio e capirai.
«È il fascino dell’assistente» dichiarò un giorno un nostro amico in tono scettico.
«Il fascino e basta» fu la risposta tranchant.
Tra l’altro, le mie amiche sono tutte single. Non ha molto senso, perché sono belle, intelligenti e simpatiche, ma si vede che i principi azzurri sono momentaneamente assenti, forse per partecipare al convegno internazionale dei principi azzurri.
Quanto a me, l’anno scorso ho avuto un mezzo interessamento con un nostro collega – in realtà è di un’altra facoltà, ma non importano i dettagli, l’ho conosciuto sempre in università – tuttavia non siamo mai andati oltre quattro chiacchiere amichevoli. Ci siamo studiati, come Mogano e Agenore, che si sono avvicinati. Poi, proprio come Mogano e Agenore, ci siamo pizzicati a vicenda e quindi resterò una zitella inacidita per il resto della mia vita. Ma va bene così.
Con tutti questi pensieri, io vi chiedo come si fa a prendere appunti. La matita mi dondolava tra due dita. Per fortuna avevo le unghie in ordine, un bel verde chiaro dalla mia collezione privata di smalti.
 
Paolo iniziò a parlare. Era contento di fare lezione. L’argomento che doveva spiegare era oggetto della sua ricerca di dottorato, quindi si sentiva preparato.
Fino a pochi anni prima era lui tra i banchi a sentire le lezioni. I ragazzi e le ragazze che lo ascoltavano non avevano molti anni meno di lui, anche se in quel momento lui era l’insegnante e loro gli allievi.
Fece una battuta e l’intera aula rise. Gli piaceva fare quell’effetto sugli studenti, sapeva di essere un bel ragazzo ma non gli bastava, voleva essere considerato bravo a spiegare, era indispensabile per una carriera futura in università.
Notò che molti occhi erano puntati dritti su di lui. Aveva davanti una classe grande ma non gigantesca, distingueva alla perfezione i volti degli studenti seduti nelle prime file.
Durante la spiegazione, passava lo sguardo sulla platea, studiando le reazioni di chi ascoltava. Avevano capito il passaggio? Stavano seguendo il ragionamento?
Nella terza fila, verso destra, c’era un gruppetto di ragazze. Sembravano molto attente. Più tardi, mentre metà del cervello continuava a preoccuparsi della spiegazione, capì che erano molto carine. Due bionde, una mora, una col caschetto color rame, l’ultima coi capelli corti, castani di una interessante sfumatura chiara, quasi miele.
Carine, queste ragazze.
Notò che le bionde prendevano appunti, la mora sembrava persa nei suoi pensieri fantastici – probabilmente aveva altre preoccupazioni, magari le era morto il gatto, o cose simili – e la ragazza dal caschetto ramato lo fissava con occhi azzurri intelligenti e attenti, che sembravano scavare dentro ogni concetto che stava esponendo.
Seduta proprio accanto a quest’ultima, c’era la ragazza coi capelli corti, che teneva una matita tra le dita dalle unghie smaltate di verde chiaro, scriveva ogni tanto alcune parole e sembrava molto attenta e interessata.
Soffermò più volte gli occhi su questa ragazza, che ogni minuto che passava gli sembrava la più carina del gruppo. Anzi, dell’aula intera. Sicuramente era anche la più intelligente. Una studentessa modello. Con un po’ di fortuna, si sarebbe laureata brillantemente con il professor T. e lui le avrebbe proposto di entrare nel dottorato. Il suo stesso dottorato. Gli sarebbe piaciuto conoscerla. Era così bella e così attenta.
Con la sua matita scriveva i concetti più importanti e poi la teneva in mano dondolandola tra le dita, con l’impazienza tipica di chi aspetta il prossimo passaggio logico decisivo per far correre di nuovo la matita sul blocco degli appunti.
Fece una digressione dall’argomento principale solo per lei. La vide attenta, ed era ancora più carina quando assumeva un’espressione concentrata. Fece un’altra battuta e la fissò per vedere la sua reazione. Aveva uno splendido sorriso, non rideva sguaiata e non era troppo seria.
Entro la metà della lezione, Paolo aveva un debole per quella studentessa e prima della fine si era innamorato della sua incantevole ascoltatrice.

NdA
Queste 80 righe finiscono qui, ma il prossimo capitolo e quello dopo ancora sono strettamente collegati. Aggiornerò prestissimo!

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Capitolo 5
*** In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi pensieri ***


capitolo5
Capitolo 5
In cui la caduta a terra di una matita comporta gravi pensieri
 
Non avevo capito un accidente del discorso complessivo. Ogni tanto mi appuntavo delle parole a caso. Tanto non è importante afferrare tutto. Alice e Candida stavano scrivendo a raffica e in ogni caso Sofia ci avrebbe tolto tutti i dubbi. Anche Claudia era persa nel suo mondo, forse aveva dei problemi con l’ordine di plancton che aveva effettuato su internet. Non avevo mai sentito parlare di siti che vendessero plancton, dovevo chiederle come aveva fatto a trovarlo. Può sempre servire nella vita, un fornitore affidabile. Uno spacciatore di plancton. Un momento! Forse era un business inesplorato e si poteva diventare ricchi con il commercio di placton: dovevo informarmi seriamente.
Tutte le cose belle hanno una fine, quindi Paolo concluse la lezione. Anche l’occhio vuole la sua parte – credo di averlo già detto – quindi ero felice così, di aver assistito se non proprio capito, perché io sono una ragazza semplice che si accontenta di poco, nella vita.
Non appena Paolo ebbe spento il microfono, Alice e Candida confabularono un momento e si alzarono in piedi.
«Che succede?»
«Lasciateci passare che abbiamo una missione da svolgere.»
Afferrarono i quaderni e si diressero spedite alla cattedra.
«Cosa stanno architettando?» domandai.
«Credo di saperlo… e voglio esserci» dichiarò Sofia.
«Aspettatemi!» concluse Claudia.
Ci alzammo e rincorremmo le bionde.
Paolo aveva appena spento il microfono. Gli piaceva fare lezione e riteneva che quella lezione in particolare fosse andata molto bene.
Alcuni studenti erano già in piedi per cambiare aula e si era sollevato un brusio generale. Lui raccolse le sue cose.
«Dottore, mi scusi, posso farle una domanda?»
Alzò gli occhi e vide due ragazze bionde. Erano proprio del gruppo di ragazze carine in terza fila! Pochi passi indietro, stavano arrivando alla cattedra anche le altre amiche.
«Certo, signorina, chieda pure!»
Candida sorrise – e con quel sorriso di solito provoca incidenti ai semafori – e fece la sua domanda. Le sfuggiva un particolare della spiegazione, non perché lui, Paolo, fosse stato poco chiaro, ma perché la questione la interessava in modo particolare.
«È un’ottima domanda, la sua» replicò il bel dottorando.
Iniziò a parlare dell’argomento che aveva sollecitato la mia amica. Alice intervenne per puntualizzare qualcosa mentre Claudia, Sofia ed io ci aggregavamo alla conversazione. Lui parlò con tutt’e cinque. Incrociava i nostri occhi a turno assicurandosi che seguissimo il ragionamento.
L’unica veramente partecipe era Sofia, Candida e Alice sbattevano le ciglia, Claudia era attenta ma non particolarmente emozionata.
Paolo finì di raccogliere i suoi averi, chiuse la borsa e si avviò verso la porta. Noi al seguito come api intorno ad un fiore.
Sofia obiettò qualcosa e la discussione continuò. Paolo si rivolgeva sempre a tutte, le bionde continuavano ad annuire e a fare gli occhi dolci. Recitavano alla perfezione la parte delle studentesse tanto belle quanto studiose, incapaci di riposare serenamente la sera senza aver compreso fino all’ultima virgola della loro fruttuosa giornata di lezioni.
Era quello il loro piano. Che gli si increspassero i capelli per tutta la settimana! Geniali! Mi comparve un grosso sorriso idiota.
«Esatto, signorina» disse Paolo, che non aveva smesso di parlare. «Vedo che ha capito quello che volevo dire.»
A quanto pareva, mentre io seguivo il mio cervello, nel mondo reale era successo qualcosa e il mio sorriso era stato interpretato in modo diverso.
«Infatti, ho capito. Vero, ragazze?»
Avevo ancora in mano la matita e ne approfittai per schiacciare l’estremità senza punta nel braccio di Alice. Lei si mosse all’ultimo secondo, io ho le mani di burro e la matita cadde. Mi colpì il collo del piede (con l’estremità appuntita, vorrei specificarlo) e rotolò tra le scarpe di Paolo, che fu rapido a chinarsi per restituirmela.
«Grazie dottore» mormorai imbarazzata.
«Di nulla. A proposito, qualcuna di voi ha già deciso in quale materia fare la tesi? Sembrate molto interessate a questo argomento…»
Mi stava restituendo la matita, quindi l’impressione era che stesse indicando me. Allungai la mano, le nostre dita si sfiorarono e restammo così almeno un secondo e due decimi più del necessario.
«Non escludo… è molto interessante… ho ancora molto tempo per scegliere, ma…»
«Non è mai troppo presto per pensare alla tesi, mi creda. Se ha bisogno di qualche consiglio, sa dove trovarmi!»
Salutò e se ne andò.
 
«Hai visto come ti guardava?» domandò Candida.
«Guardava me?»
«Te e nessun altra. Quando ti ha raccolto la matita, poi, ti ha fatto una radiografia completa. Del resto, sei tu che metti le minigonne…»
«Adesso è diventata una minigonna? Si è accorciata a mia insaputa?»
«E quando ti ha chiesto della tesi? Credo sia proprio innamorato.»
«Alice! Smettila!» replicai. «Sei tu che ti sei precipitata dopo la lezione a fargli le domande e gli occhi dolci.»
«Bisogna approfittare delle occasioni. Se io mi dimostro interessata, magari lui si ricorda di me all’esame!»
«Non mi sorprende che delle approfittatrici come voi non amino gli animali» dichiarò Claudia.
«Dipende di quali animali parli…» equivocarono le bionde. Prima che parlassero di tartarughe come sinonimo di addominali scolpiti, intervenne Sofia.
«Se vuoi, puoi andare a chiedergli consigli sulla tesi. Te l’ha detto lui.»
«Io, la tesi, non la farò in questa materia, bensì su Star Trek e Guerre stellari!»
Abboccarono. «Perché? Che vuol dire?» Fu la domanda.
«Significa che la tesi è fantascienza, per me, al momento.»
«Io, fossi in te, non mi lascerei sfuggire l’occasione…»
«… pensaci, Stefania.»

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Capitolo 6
*** Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato ***


capitolo6
Capitolo 6
Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato
 
Aveva pensato spesso a quella studentessa. Più ci pensava più si accorgeva di essersi innamorato a prima vista. Paolo non aveva mai avuto difficoltà con le donne. Piaceva, e sapeva di piacere.
Tuttavia, non aveva mai trovato la ragazza giusta.
Da qualche parte dentro di sé aveva il presentimento che proprio quella studentessa potesse essere la ragazza giusta. Sicuramente era bellissima, perché riusciva a distinguersi tra le sue amiche, che pure erano una più incantevole dell’altra. Era intelligente, bastava guardare il sorriso con cui le si era illuminato il volto e aveva sottolineato il più importante dei suoi ragionamenti.
Era sicuro che avesse delle qualità nascoste, perché una ragazza così carina e intelligente doveva avere un animo sensibile. Forse era un’artista. Sì, un’artista! Aveva sempre sognato di condividere la casa – e la vita – con un’artista. Lui, così razionale e studioso, futuro professore universitario, avrebbe amato abitare in un loft che fosse anche uno studio creativo, di pittura o di scultura, tornare la sera e trovare lei con i capelli scompigliati e le dita sporche di pittura ad olio, impegnata a ritoccare il suo ultimo quadro. Baciarla con tenerezza e pensare di aver trovato la donna più straordinaria della terra.
Eppure non sapeva nemmeno il suo nome.
Doveva incontrarla di nuovo, conoscerla. Paolo rifletté in che modo poter attuare il proposito.
Nessuna università è tanto grande da non poter incontrare due volte la stessa persona. Doveva fare di tutto per rivederla.
Sapeva che l’avrebbe riconosciuta ovunque. Occhi verdi e capelli color miele intenso.
Doveva imporsi di non pensare troppo a lei, o avrebbe fatto qualche follia. Tipo chiederle di sposarlo.
«Buongiorno signorina! Si ricorda di me? sono l’assistente del professor T.»
«Buongiorno, dottore» avrebbe risposto lei.
«Mi chiedevo… vuoi sposarmi, mia adorata?»
No, così non poteva funzionare. Doveva adottare una strategia più elaborata. Puntare sul suo fascino e innanzitutto sperare che lei non fosse impegnata.
Una fitta di gelosia lo travolse. E se fosse già stata innamorata di un altro? Era un pensiero intollerabile. Trovare infine la ragazza giusta e vedersela portar via da un altro uomo. In altri tempi avrebbe sfidato a duello il suo avversario, ma sapeva che le donne non sono oggetti che si possono vendere e comperare. No, avrebbe dovuto conquistarsi l’affetto e l’amore di quel cuore sincero.
Rifletté che non aveva visto anelli alle sue dita. Non era un indizio decisivo, ma meglio che niente.
Sì, poteva essere una pittrice. Unghie tagliate corte ma con uno smalto verde chiaro. Un contrasto molto interessante tra la praticità e l’eleganza. E indossava una gonna, un indumento molto femminile ma quasi raro in università. Quella gonna significava molte cose: che era bella – ma questo ormai Paolo lo riteneva un dato di fatto – che non aveva paura di distinguersi dalla massa, che era una ragazza elegante e di buon gusto. Purtroppo indossava anche un paio di quelle scarpe piatte che piacciono tanto alle donne ma fanno disperare gli uomini. Dei tacchi sarebbero stati molto più adeguati. Eppure, concluse dopo un momento, aveva ragione lei: meglio tenere un basso profilo, vestirsi elegante quanto basta ma senza sfrontatezza, perché la vera bellezza non sta mai nell’eccesso.
Era una ragazza da scoprire. Doveva assolutamente conoscerla.
Girò per alcuni giorni nei corridoi sempre con lo sguardo all’erta. Indugiò alle macchinette dell’ingresso, dove c’è sempre molta gente, si attardò in biblioteca sperando di riconoscere quei capelli corti chini sui libri.
Passò una settimana, sette giorni lunghi come sette anni, perché il tempo non passa per chi ama.
Paolo sperò che il professor T. gli avrebbe di nuovo chiesto di sostituirlo ma non fu così. Pensò che se lei frequentava sempre le lezioni, allora l’avrebbe incontrata diretta all’aula. Era come avere un appuntamento!
Il suo cuore perse alcuni battiti quando la vide. Era lei, nessun dubbio. Indossava dei pantaloncini e aveva delle gambe magnifiche. Non solo quelle, in realtà. Camminava a testa bassa, concentrata sullo schermo del telefonino. Avrebbe voluto salutarla, richiamare l’attenzione, ma era distratta. Nel frattempo sorrideva e Paolo non poteva resistere al suo sorriso. Prese una decisione improvvisa, quasi drastica. Si piazzò proprio davanti a lei, come fosse sbucato all’angolo del corridoio, e si fermò.
 
Mi stavo avvicinando all’aula. Non so se capita anche a voi di mettere il pilota automatico. Avevo ordinato “avanti mezza” e lasciato che la memoria facesse tutto da sola, perché le donne sono multitasking e quindi leggevo dal telefonino, pensavo a cosa fare quella sera, sorridevo tra me e me per alcune stupidaggini che mi erano venute in mente e che avrei dovuto scrivere prima di dimenticare e infine ascoltavo un po’ di musica, perché nel mio cervello c’è sempre musica che scorre. Ho la radio incorporata, io, e se non viene dall’esterno me la invento da sola.
Mi vanto di conoscere l’università come le mie tasche e di poterla percorrere a occhi chiusi. Sarei arrivata a destinazione a occhi bendati, come previsto e senza intoppi, ma qualcuno si piazzò sulla mia strada.
All’improvviso sbattei contro un ostacolo e lo investii in pieno. Come il Titanic con l’iceberg, come la Concordia con l’isola del Giglio. Allarme collisione! Abbandonare la nave!
La borsa, in precario equilibrio sul braccio, rovinò a terra. Ho già detto che ho le mani di burro: il telefono decise di continuare verso l’aula da solo, schizzò via, finì sul pavimento e si sparpagliò nel corridoio con la custodia da una parte e la batteria dall’altra.
Ebbi solo il tempo di dire: «Ahia!» e riconobbi il mio iceberg. Il dottor Paolo!
«Signorina…» iniziò lui.
«Oh! Mi scusi! Mi ero distratta.»
Mi precipitai a raccogliere i pezzi del mio cellulare.
«Si è rotto?» domandò lui, premuroso.
«Spero di no» riposizionai la batteria. «La prego, non si disturbi, lasci fare a me…» Stava raccogliendo la mia borsa.
«Funziona?» domandò di nuovo.
Avevo riacceso il telefono. Alzai gli occhi e me lo ritrovai davanti, vicino, preoccupato di vedere se lo schermo dava segni di vita.
Sorrisi perché la custodia aveva assorbito l’urto e tutto sembrava in ordine.
«Per fortuna» disse lui. «Scusi ma… per caso ci siamo già visti?»
«Settimana scorsa. Ha sostituito il professor T. a lezione. Io ero in aula!»
«Lei era con quelle ragazze che mi hanno fatto delle domande.»
«Esatto!»
«Sta andando a lezione?»
Annuii.
Si offrì di accompagnarmi. Dissi che non c’era bisogno. Rispose che anche lui andava nella stessa direzione, quindi accettai. Mancavano solo poche decine di metri. Più una porta. Io non mi ricordo mai se bisogna spingere o tirarla per aprire. Ovviamente dipende dal contesto: da un lato bisogna tirare, dall’altro spingere. C’è anche un cartellino sopra la maniglia, ma io non bado a queste minuzie.
Oltretutto, proprio in quel momento lui disse: «Ha poi pensato alla tesi?»
Si ricordava della nostra conversazione? Della tesi? Vidi la porta e non mi accorsi che voleva aprirmela per cavalleria. Afferrai anch’io la maniglia senza riflettere.
Lui spinse, io tirai.
Nella combinazione dei vettori di forza applicati allo stesso punto, il battente non si spostò, ma in compenso gli finii addosso un’altra volta.

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Capitolo 7
*** Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa tragedia ***


capitolo7
Capitolo 7
Nel quale un avvenimento felice lascia il posto ad una improvvisa tragedia
 
«E poi?» domandarono tutte insieme le amiche.
«Sono scoppiata a ridere.»
«E lui?»
«Ha riso e ha detto che iniziava a diventare un’abitudine.»
«E poi?»
«Ragazze, è mezz’ora che continuate a domandarmi “e poi?” Trovate un sinonimo!»
«E dunque?»
Chiusi gli occhi, esasperata.
«Abbiamo fatto quattro chiacchiere.»
«Sulla tesi?»
«No, abbiamo parlato di quanti professori universitari ho investito nella mia carriera. Sì certo, abbiamo anche parlato della tesi. Me l’aveva appena chiesto.»
A Candida spuntarono gli occhi a cuoricino.
«Ho approfittato per chiedergli cosa sono di preciso i dottorandi di ricerca» dissi.
«Così, gliel’hai chiesto di punto in bianco?»
«Sì, Alice. Ho sempre avuto questo dubbio.»
«Te l’ho già spiegato più volte, Stefania» intervenne Sofia. «Mio fratello è dottorando in fisica…»
«E io t’ho già spiegato che ho la memoria di un pesce rosso. Mi sono dimenticata, va bene? Ho preferito chiederlo a lui.»
Alice era d’accordo con me. Anche lei – disse – nelle mie condizioni avrebbe scordato molti dettagli.
«Lo sapevi che anche i dottorandi devono scrivere una tesi?» continuai.
Sofia annuì.
«Io no, invece. A proposito, in questo posto chiamato università le tesi non finiscono mai?»
«Mai.»
«Mi ha detto che se ho bisogno di un consiglio lui è disposizione.»
«E poi?»
«Ancora un “e poi?” e ti taglio la lingua, Candida. Gli ho risposto che ho molta confusione in testa in merito alla tesi e avrei accettato volentieri non solo un consiglio ma anche un aiuto e se, per caso, si fosse offerto di scrivermela per intero avrei accettato con molto piacere.»
«Ci stai prendendo in giro.»
«Non ho usato le esatte parole, ma il senso era questo.»
«E… – volevo dire – lui cosa ha risposto?»
«Ha riso e ha detto mi avrebbe aiutato con molto piacere. “Oh, bene, grazie” ho risposto. “Le ho quasi distrutto il telefono, è giusto che mi sdebiti” ha dichiarato Paolo. “Quando vuole lei, signorina.” “Anche subito?” “Sì, certo, anche subito.” “Ehm, purtroppo adesso ho lezione” “Dopo la lezione, allora.” “Ho la giornata abbastanza piena.” “Domani, allora! Che ne dice di domani?”»
«Quindi hai appuntamento per domani nel suo ufficio?» domandò sbigottita Sofia.
Alzai le spalle. «Sì.»
«Per parlare della tesi?»
«Ma… Stefania… cosa pensi di dirgli?»
«Parleremo di Star Trek. Magari è un appassionato.»
Sofia si mise le mani nei capelli. Lei è pratica e realista, non si lascia influenzare dagli slanci di romanticismo.
Le bionde invece erano entusiaste. «Il nostro piano ha funzionato!»
«Quale piano?»
«Trovarti un fidanzato.»
«Da quando avete questo piano?»
«Dall’anno scorso…» iniziò Alice.
«… da quando tu e…» continuò Candida.
«Non fare quel nome!» intimai.
«Beh, quando tu e lui eravate…»
«Non eravamo niente!»
«Stefania, ammettilo che eravate innamorati. Pensavo che l’avessi superato!»
«Certo che l’ha superato» riprese Candida. «Adesso sta con il dottorando più carino dell’università.»
Mi vedevano già di bianco vestita, col velo in testa e il bouquet in mano. È da tempo che sto pensando di comporre una bella marcia nuziale, ma non ho ancora avuto l’ispirazione. Né per la marcia né per la cerimonia in sé.
«Vuoi che ti accompagno?» domandò Claudia.
«Ma anche no!» replicai. «Intendo dire… grazie, Claudia, ma posso farcela da sola.»
«Sono curiosa di sapere di cosa gli parlerai, eccettuata l’Enterprise e le spade laser» disse Sofia la scettica.
«Io sono curiosa di sapere come ti vestirai» aggiunse Alice la modaiola.
Iniziarono a darmi consigli non richiesti. Decisero che dovevo mettere un abito da cocktail di un colore pastello, perché mi avrebbe donato. Come se io fossi invitata a un ricevimento formale ogni settimana e possedessi abiti da cocktail. Affrontarono l’argomento scarpe e accessori ma fummo interrotte da una telefonata che ricevette Claudia.
Da sorridente e spensierata, la nostra amica impallidì e subito le spuntò una lacrima all’angolo dell’occhio.
«È successa una disgrazia.»
Al telefono era la mamma di Claudia, che conosce l’affetto della figlia per i suoi animali e aveva deciso di avvisarla senza ritardo del fattaccio. Era accaduto che lo sciopero dello zoo di casa sua si era trasformato in una congiura ai danni di Agenore. Quella mattina, la nostra amica aveva riempito d’acqua un catino di plastica a sponde alte, l’aveva portato in giardino e vi aveva immerso Agenore a far colazione con le alghe. Senonché, Leone era sceso dagli alberi e aveva girato attorno al catino incuriosito. Attirato dal movimento, era arrivato anche Mogano dalla cuccia. L’insolita coalizione tra cane e gatto aveva rovesciato il catino e gettato Agenore e le sue alghe sul lastricato del giardino. Riconoscendo lo sgradito ospite, Mogano si era volatilizzato. Leone, invece, l’aveva diabolicamente sospinto indietro, con la complicità di Coupé, che, ritirata nel guscio, impediva al crostaceo di fuggire per altre strade. Senonché, il fato. Il padre di Claudia aveva portato la macchina fuori dal garage in retromarcia e non si era accorto che Agenore passava sul vialetto in ritirata dagli attacchi di Leone, il quale, invece, conosceva bene il rumore del motore della macchina e si era allontanato a balzi al momento giusto. Il povero crostaceo aveva terminato sotto un pneumatico un’esistenza avventurosa degna di un dipartita più onorevole.
«Povero Agenore, che triste fine!» osservammo noi.
Claudia era commossa.
«Non poteva morire quel deficiente del criceto?» osservò, con gli occhi velati di lacrime.

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Capitolo 8
*** Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale ***


capitolo8 Capitolo 8
Nel quale ci si prepara per un appuntamento professionale
 
Come dico sempre, io ho l’immaginazione visiva di una talpa miope. Questo è un problema serio, perché la vista e il buon gusto vanno a braccetto. Non che io abbia cattivo gusto – le mie recenti frequentazioni maschili lo dimostrano – ma sono perennemente in difficoltà su come vestirmi e come truccarmi. Seguo da anni fashion blogger su internet e tutti i giorni controllo su youtube i miei canali preferiti di ragazze che mostrano i loro trucchi (soprattutto spiegano alle negate come me il modo di realizzarli) e i loro outfit del giorno. I vantaggi sono innegabili: ho conosciuto molte ragazze simpatiche, mi tengo aggiornata sulle novità della moda, ho imparato alcuni “trucchi del trucco” che da sola non avrei scoperto nemmeno campando cent’anni e mi sono scoperta un animo da follower entusiasta. Purtroppo, però, l’immaginazione visiva è sempre scarsa, soltanto ho più esempi da imitare.
Perché quando devo vestirmi o truccarmi io copio, al massimo rielaboro.
Nel momento di prepararmi per andare a parlare di tesi con Paolo, mi venne in mente Lucrezia, una nostra compagna che l’estate scorsa si era presentata in università con una mise che mi era piaciuta tantissimo. Maglietta bianca a maniche corte senza pretese e gonna a ruota. Per il viso scovai un tutorial per un trucco da giorno effetto naturale.
«Altro che vestita da donna!» sbottarono le mie amiche. «Stefania, sei uno schianto!»
Mi apparve un sorriso a centoventotto denti.
«Non ti bacio per non rovinarti il trucco» aggiunse Candida.
«Baciami, stupida!» risposi e le buttai le braccia al collo.
Ottenere l’approvazione delle mie bellissime amiche era una soddisfazione.
«Non è finita qui» aggiunsi.
Avevo pensato al tocco finale.
Nel guardarmi allo specchio prima di uscire di casa avevo considerato l’idea di mettere i tacchi. Non lo faccio mai, in università, ma poteva essere un’eccezione. Solo che io non possiedo scarpe eleganti bianche. Le uniche scarpe che ho in tutti i colori e in tutti gli stili sono le ballerine. Mia mamma, però, possiede un paio di sandali – non so se hanno un nome particolare, sono sandali ma senza lacci intorno al tallone – proprio di colore bianco, con un tacco sottile di sei o sette centimetri. Sono pure di una marca famosa. Insomma sono perfetti: eleganti, di stile, essenziali e versatili, eppure lei non li mette mai e prendono polvere nella sua scarpiera. Una vera ingiustizia cui avrei posto rimedio. Infilai le ballerine ai piedi e misi in borsa i tacchi per un cambio.
Secondo tocco finale erano gli orecchini. Io non ho i buchi alle orecchie, quindi sono orecchini a clip con una perlina e un brillantino che dondola sotto il lobo.
La storia di Stefania e dei buchi alle orecchie è lunga e complicata. No, inutile che faccio la difficile, mi correggo, è semplicissima. Me ne sono sempre disinteressata del tutto fino a poco tempo fa. Quando qualcuno mi chiedeva perché non avessi i lobi forati, ho sempre risposto “sono nata così” con orgoglio e una punta di femminismo, perché non mi risulta che le femminucce nascano già con gli orecchini inseriti e i maschietti no. Poi l’anno scorso mi era improvvisamente venuta voglia di mettere anch’io gli orecchini come tutte. Mi sono informata, ho chiesto, domandato, scritto mail. Ho imparato un sacco di cose sul mondo dei buchi alle orecchie. Poi, al momento decisivo, quello in cui mi dicevano “se sei pronta, ti metto gli orecchini anche subito” mi tiravo indietro. Una, due volte e ho capito mi manca ancora la voglia di farmi sforacchiare. Ecco perché ricorro agli orecchini a clip nelle occasioni speciali.
«Che dite? È eccessivo se metto i tacchi?» domandai alle mie amiche.
Dissero che era indispensabile per slanciare la mia silhouette. In effetti, diventavo alta quasi come Sofia e Candida.
Se le mie amiche avevano ragione e Paolo m’aveva guardato con interesse, avrebbe apprezzato un’eleganza speciale. In caso contrario, dovevo solo metterli per un colloquio nel suo ufficio. Sarei stata seduta tutto il tempo, magari non li avrebbe nemmeno notati. In tutti e due i casi, non avevo niente da perdere.
L’appuntamento era in tarda mattinata, giusto prima di pranzo. Rimasi d’accordo con le mie amiche che ci saremmo ritrovate in mensa entro un’oretta e avrei raccontato tutto. Parola per parola, ovviamente.
Mi accompagnarono su per le scale e fino al corridoio ai piani alti dell’edificio, un posto silenzioso e deserto occupato solo dagli uffici dei docenti. La porta dell’ufficio era distante trenta passi. Temevo non volessero più mollarmi.
«Ragazze, da qui posso anche andare da sola.»
Claudia mi abbracciò di slancio. Poi Candida. Poi Sofia. Alice mi studiò e disse: «Ti manca ancora un dettaglio.»
Prese dalla borsa i suoi occhiali da sole e me li appoggiò tra i capelli.
«Gli uomini ne vanno matti. Credimi.»
Abbracciai anche lei, poi percorsi il corridoio. Arrivata alla porta mi voltai ed erano ancora tutte immobili a fissarmi dal pianerottolo. Con la mano feci un ultimo cenno di saluto e intimai loro di andarsene.
Feci un gran sospiro.
E bussai.
 
Paolo aggiustò la cravatta per l’ennesima volta. Aveva acceso il computer e aperto alcuni libri sulla scrivania, ma non riusciva a lavorare. Quella ragazza l’aveva stregato.
Eppure lei era vicina, stava arrivando al suo ufficio. Sentì bussare ed ebbe un tuffo al cuore, ma era un usciere che distribuiva la posta interna.
Si alzò e fece il giro dell’ufficio a grandi passi. Le ragazze che gli piacevano facevano sempre quell’effetto: l’emozione della scoperta, l’impazienza di entrare in contatto. Guardò fuori dalla finestra, ma non c’era niente di interessante da ammirare. L’orologio diceva che era arrivata l’ora. Oppure non si sarebbe presentata? Un dubbio atroce. Lei era una studentessa corretta, gli avrebbe mandato una mail se avesse disdetto l’appuntamento. Aprì la casella di posta elettronica ma non c’erano nuovi messaggi. No, di certo lei stava arrivando…
Lei… non sapeva ancora il suo nome, non aveva ancora avuto modo di chiederglielo.
Sentì dei passi risuonare in corridoio. Si precipitò alla scrivania, voleva farsi trovare all’opera, come uno studioso serio. Controllò per l’ennesima volta il nodo della cravatta mentre i passi si fermavano. Un attimo di silenzio e poi un delicato bussare alla porta.
«Avanti!»
Eccola, radiosa come una giornata di sole. Era bellissima vestita di bianco. Si alzò per andarle incontro mentre si salutavano.
Tese la mano in modo quasi automatico e lei la strinse. Aveva gli occhi verdi, i capelli castani e le unghie di colore azzurro. Furono queste sfumature a colpirlo. Poi notò gli occhiali scuri infilati con noncuranza tra i capelli. Un tocco sbarazzino che adorava, come il vezzo delle unghie smaltate sempre di colori vivaci.
Paolo tornò alla piccola scrivania e lei sedette proprio di fronte, per un colloquio occhi negli occhi.
C’erano degli orecchini a dare luce al suo volto. Solo il giorno prima non li aveva notati. Non gli erano sfuggiti la gonna e le scarpe col tacco. Decisamente lei si era messa in ghingheri. Paolo sorrise: anche lui aveva messo il suo miglior completo e la cravatta più bella.

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Capitolo 9
*** Dove si sperimenta l’affetto filiale ***


capitolo9
Capitolo 9
Dove si sperimenta l’affetto filiale
 
«Non ho capito.»
«Cosa ti sfugge della mia ricostruzione accurata e limpida?»
Mi fissò con la pazienza che solo una madre può avere.
«Non ho capito perché sei andata da lui. Da questo… assistente, dottorando, quel che è… Paolo.»
«Per parlare della tesi.»
«Hai appena detto che avete parlato di tutto tranne che della tesi.»
«Sono cose che càpitano nel corso di una conversazione.»
«Stefania… sii seria.»
«Volevo parlargli. Le bionde sostenevano che lui mi avesse guardato con interesse. Poi c’era stato l’episodio dello scontro in corridoio. Dovevo parlagli.»
«Gli hai parlato?»
«Sì. A lungo» risposi sognante con ampio sbattimento di ciglia.
Mia mamma aveva ragione. Non avevo capito nemmeno io cosa era successo, con la differenza che lei non era nello studio di Paolo e io invece avevo vissuto tutta la scena in prima persona.
Avevamo iniziato la chiacchierata con cautela. E va bene, lo ammetto, io me l’ero mangiato con gli occhi, ma qualsiasi ragazza l’avrebbe fatto. Lui doveva esserci abituato e comunque io ero stata discreta, niente occhiate da femme fatale (non ne sono in grado) e niente sbattimenti di ciglia (ce la posso fare ma mi ero trattenuta).
Buongiorno signorina, buongiorno dottore, come sta, bene e lei, non mi ha ancora detto come si chiama, ah, Stefania, bel nome, quindi lei segue le lezioni del professor T., eccetera. Professionali, compunti. Lui si era interessato gentilmente del mio piano di studi, si era interessato ancor più gentilmente anche a me. Non sapeva nemmeno il mio nome. Io non mi ero posta il problema ma, in effetti, per lui ero una delle mille studentesse.
«Dovevamo parlare della tesi, giusto?» aveva detto Paolo esauriti i lunghi – e non del tutto spiacevoli – convenevoli.
In quel momento purtroppo il mio cervello era uscito a prendere il caffè. Non vi capita mai che il vostro cervello in certi momenti sia in pausa caffè? A me sì. C’è bisogno di lui, lo vado a cercare ma non è in ufficio. Trovo il cartellino “torno subito” e mi tocca aspettare. Tutti hanno diritto ad una pausa di tanto in tanto, non voglio discutere su questa cosa. Di solito tempo un quarto d’ora e si rimette al lavoro, ma se c’è un urgenza devo fare a meno di lui.
Paolo mi aveva domandato se dovessimo parlare della tesi: io ero la studentessa vivace e interessata alla materia, giusto? Era l’unica ragione per cui mi trovavo lì. Perfetto! Solo che, col cervello il pausa caffè, risposi:
«Se proprio vuole…» Con un tono di sufficienza e indifferenza olimpico.
Lui rise. A lungo e di cuore.
Nel frattempo il mio cervello tornò alla sua scrivania e si mise a chiedere in giro quali pasticci avessi combinato in sua assenza, lamentandosi coi suoi colleghi (cuore, reni, cistifellea) ad alta voce dei problemi che ogni volta gli scaricavo sul tavolo.
«Stefania, lei è troppo divertente.»
«Intendevo dire…»
«Ha ragione. La tesi è un argomento noioso!»
«Prima o poi dovrò scriverla…»
«Ma con la sua intelligenza non ha di certo bisogno dei miei consigli. Ci sono cose molto più interessanti di cui parlare.»
«Ad esempio?»
«Viene a pranzo con me?»
Per un attimo ebbi paura che fossero in pausa caffè anche le orecchie. I lobi ne avevano il diritto, perché gli orecchini a clip dopo un po’ stringono e danno fastidio, ma il servizio uditivo mi serviva. Mi aveva invitato a pranzo? Lui? A me?
«Ehm, quando?»
«Adesso. Dovrà pur mangiare qualcosa o è a dieta come di solito tutte le ragazze?»
«No. Cioè, non che non sono… non vorrei pensasse che mi abbuffo… insomma… volevo dire… sì mangio qualcosa. Certamente. Ho appuntamento con le mie amiche in mensa.»
«Ah, capisco.»
«Sì, ma possono aspettare. In fondo le vedo tutti i giorni. Non faccia caso a loro.»
«Pensavo di pranzare al giapponese. Lo conosce?»
«Sì, ma è un po’ lontano. Per risparmiare tempo di solito andiamo in mensa o ci portiamo un panino…»
«Per il panino doveva avvisarmi. Ma se non ha tempo non voglio costringerla.»
Costretta? Io? Nemmeno per idea. Stavo dando messaggi contrastanti. Le donne misteriose sono sempre affascinanti, ma non dovevo esagerare. Dissi che ero pronta anche subito.
Così andammo a pranzo insieme.
Questa era la parte che mia mamma non aveva afferrato bene e nemmeno io più di tanto.
«Nel frattempo ho capito perché non usi mai i sandali bianchi» le spiegai. «Sono scomodi da morire! Non te li chiederò in prestito mai più.»
«Non me li hai chiesti. Li hai usati e basta.»
«Sono dettagli. In ogni caso puoi tenerli.»
Avevo calcolato di utilizzarli una mezz’oretta da seduta, solo per fare la splendida, invece avevo camminato venti minuti all’andata e altrettanti al ritorno più tutto il tempo speso tra l’ufficio e il ristorante. Mi ero distrutta i piedi e avevo perso sensibilità alle orecchie per colpa dei maledetti orecchini ovvero strumenti di tortura cinese. In compenso, ad un certo punto avevamo iniziato a darci del tu, così, come se niente fosse, come se da assistente e studentessa fossimo diventati amici. Paolo era simpatico. Sulla bellezza mi sono già dilungata e non mi ripeterò. Io ero riuscita a farlo ridere anche con il cervello in servizio attivo e, anche se non sono una modella come le mie amiche, stavo facendo del mio meglio su tutto il resto.
«Quindi, riassumiamo.» Mia mamma ha una mente analitica. «Non hai parlato della tesi. In compenso sei diventata amica di un assistente carino.»
«È più che carino. È un modello di Abercrombie.»
«Tutto qui?»
«Che vuol dire “tutto qui”, mamma? Hai presente quanto c’è in un modello di Abercrombie?»
«Allora spiegami cosa mi sono persa. Io ho visto solo una chiacchierata innocente.»
Forse aveva ragione lei. Rifletté ancora, poi disse: «Sai cosa? In effetti una novità importante c’è stata. Ti sei preparata per un appuntamento e non mi hai domandato cosa metterti.»
Come ho detto, io seguo parecchi blog e canali youtube sulla moda. Non ho fantasia, ho bisogno di avere spunti. Una volta le ho chiesto: “mamma, che ne dici se aprissi anch’io un fashion blog?” lei – che ha una mente analitica ma anche caustica – m’ha risposto: “dato che ogni singolo giorno mi domandi un consiglio su cosa metterti, faccio prima se il blog di moda lo apro io.”

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Capitolo 10
*** Nel quale non si contano le idee ***


capitolo10
Capitolo 10
Nel quale non si contano le idee
 
Claudia ha l’hobby degli animali. Io della musica. Una volta le ho proposto di metterci in società: lei avrebbe comperato e accudito un orso, io avrei scritto la musica giusta per farlo ballare.
«L’orso ballerino è sempre stata un’attrazione da che mondo è mondo, potremmo fare dei soldi.»
«Stefania, è proprio vero che sei un’insensibile.»
«“Proprio vero” in che senso?»
«Non riconosci i sentimenti nei crostacei e adesso vuoi far ballare gli orsi.»
«Non c’è niente di male nella danza.»
Claudia mi guardò malissimo.
«Gli orsi non sono fatti per ballare. Costringerlo è inumano!»
«Beh, queste sono parole forti. Non è che lo costringiamo. Lo addestriamo con tanto affetto.»
«Vorrei vedere te se ti addestrassero a ballare!»
«Non ci vedo niente di male. Potremmo addirittura mettere in programma un pas de deux. Se ti va potresti partecipare anche tu, formeremmo un bel trio e ci addestreremmo tutti quanti a vicenda in modo molto democratico, noi e l’orso.» Alzai le spalle. Io vedevo la possibilità. «Pensi che l’orso sarebbe in grado di eseguire un casquet
Claudia era scandalizzata. Come sempre, quando si parla di animali. Il grande affetto che nutre per ogni bestia o bestiola le impedisce di vedere le possibilità imprenditoriali che si celano nel mondo della natura.
Purtroppo Sofia rovinò definitivamente la mia idea perché aveva ascoltato la nostra conversazione. Stava facendo altro, ma lei è multitasking a livelli mostruosi. L’ho vista seguire tre conversazioni in contemporanea. Intervenne e disse che avrebbe volentieri pagato per vedere me e l’orso ballare un tango figurato. Con tanto di rosa tra i denti. Poi si mise a ridere da sola per la sua battuta e finì che anch’io e Claudia ci unimmo alla risata.
Le mie amiche sono davvero tanto carine ma non hanno mai quelle idee che a me vengono in continuazione. Magari possono sembrare invenzioni strampalate, tuttavia sono convinta che se mi supportassero invece di trovare motivi per ridere potremmo diventare ricche e famose con molto anticipo. Forse loro contano di raggiungere la celebrità come modelle o attrici, e io non ho questa possibilità per ovvie ragioni di physique du role, ma se davvero interessasse loro questo tipo di carriera dovrebbero perdere meno tempo in università, perché la giovinezza non dura per sempre. Sono troppo drastica, forse? Può sembrare che io sia invidiosa? In realtà non porto rancore. Quando avrò l’idea giusta, invece di ridere si complimenteranno con me, sono sicura.
«Quindi niente orso ballerino?»
«Chi sta parlando di orsi ballerini?» domandarono le bionde.
«Claudia e Stefania vogliono aprire una sala da ballo con gli orsi.»
Alice e Candida ci guardarono stupefatte.
«Esistono delfinari dove nuotano e danzano nell’acqua le orche, le foche e i delfini» spiegai. «Perché non potremmo lanciare sale da ballo per orsi?»
«Conosco parecchia gente che non sa ballare…» iniziò Alice. «… potresti iniziare con loro. Poi passerai agli orsi.»
«Io voglio che facciate ballare anche i panda.»
«Perché proprio i panda, Sofia?»
«Perché non fanno niente nella loro vita se non sgranocchiare germogli di bambù. Li avete mai visti? Sempre seduti – se non distesi – a sgranocchiare. Con la scusa che sono in estinzione nessuno li fa lavorare come si deve. Non è giusto!»
Prima di ballare il tango con i plantigradi e perdermi in digressioni, stavo dicendo che io ho l’hobby della musica. Se mi impegnassi potrei scriverlo io un tango!
Già, perché la mia vera passione – in musica – non è suonare, è scrivere. Quando mi si accende la radio che ho in testa e ascolto musica tutta nuova, l’unica cosa che ho voglia di fare è metterla sulla carta e fissarla per i posteri. Tempo fa, credevo che tutti avessero musica dentro la testa. Credevo che ognuno avesse la sua radio incorporata e ascoltasse musica. Non solo canzoni e musica già sentita, ma melodie inventate di sana pianta. Ho scoperto che non è così. Ho scoperto anche che non è troppo strano se mi capita questo. È una cosa molto comune tra i compositori. C’è un piccolo problema: scrivere musica è ancora più complicato che dare gli esami in università.
Ci sono milioni di regole da rispettare. Dopo aver studiato anni pianoforte (non sono mai stata una bambina prodigio ma me la cavo) ho imparato che comporre è tutt’altra cosa che suonare, tipo come guidare una macchina e fare il meccanico.
Ho la patente ma non mi azzardo a mettere le mani nel cofano, anche perché mi si rovinerebbe lo smalto.
Anche gli smalti sono una mia passione. Se devo essere sincera, ho pensato più volte di farne una professione, ma l’unica idea decente che ho avuto è al di là delle mie possibilità scientifiche.
Mi spiego meglio: io mi stanco molto spesso del colore che metto sulle unghie. Scelgo il verde pallido? In capo a due giorni ho voglia di un rosso intenso. Decido di dare spazio al mio lato dark e utilizzo lo smalto nero? Potete star sicuri che dopo un certo numero di ore mi sentirò la ragazza più femminile che sia mai apparsa sul pianeta e, a questo punto, abbinare le unghie nere a una gonna a pieghe color pastello e a un fiocco tra i capelli non è semplice, credetemi.
M’è capitato persino di voler cambiare smalto subito dopo che s’era asciugato. È un dramma. Quindi io avrei inventato lo smalto che cambia colore. Se persino la fotografia che fa da sfondo al computer può cambiare da sola, perché non dovrebbe cambiare da solo anche lo smalto? A me è sempre sembrata un’idea geniale, solo che non ho idea di come realizzarla concretamente. La chimica, o forse la nanotecnologia, vanno oltre le mie possibilità.
Avrei anche studiato delle palette di colori. Non potrei sopportare uno smalto che cambi assolutamente a caso, sarebbe necessario guidare la transizione su una serie di colori prestabiliti, in modo da restare sempre ragionevolmente abbinato. Il meglio del meglio sarebbe programmare i colori, ad esempio lo smalto si sintonizza direttamente su come ti vesti.
Secondo me sarebbe l’invenzione del secolo, la rivoluzione definitiva.
Purtroppo manca la tecnologia per realizzarla. Come la pace nel mondo, o la fame nel mondo, o quando la nonna non trova gli occhiali da vicino e ribalta la casa, tutte belle idee che nessuno riesce a mettere in pratica per mancanza di tecnologia.
«Io ho già trovato il modo per diventare ricca» spiegò Alice.
«La super modella?» domandai.
«No, non ho voglia di fare tutte quelle diete. È sufficiente trovare un milionario che mi sposi. Non dovrebbe essere difficile, no?»
«A proposito, Stefania. Oltre che essere bello e simpatico, Paolo è anche ricco?»

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Capitolo 11
*** In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti ***


capitolo11 Capitolo 11
In cui si riporta una chiacchierata a cinque parti
 
Sto parlando troppo di me. In quanto narratrice non è giusto che monopolizzi l’attenzione anche come protagonista. Non è corretto nei confronti degli altri personaggi.
«Allora, ragazze, che mi dite?»
Alice rispose senza nemmeno aprire gli occhi.
«Cosa vuoi sapere?»
«Non lo so. Raccontatemi qualcosa.»
«Ho il cervello disconnesso. Anzi, aspetta… com’è che dici tu? ah, sì, è in pausa caffè.»
Non è facile trovare cinque sdraio vicine in piscina il sabato, ma c’eravamo riuscite. Una vuole il sole, l’altra l’ombra, un’altra ancora mezzo e mezzo, è più complicato che organizzare una sessione d’esami.
«Però è giusto» iniziò Sofia, che leggeva un libro seduta all’indiana. «Adesso che abbiamo trovato un fidanzato a Stefania dovremmo preoccuparci un po’ anche per noi.»
«Sofia! Non mi avete trovato nessun fidanzato!»
«Tocca a te sviluppare l’occasione. Non è che possiamo uscirci noi al posto tuo…»
«Candida!»
«Ragazze, lo trovate anche a me un fidanzato?»
«Sì, Claudia, te lo andiamo a prendere al canile. O preferisci al gattile?»
«Smettila, Alice.»
«Per me cercatelo al club dei principi azzurri.»
«Io mi accontento del club dei milionari.»
«Io…»
«Tu sta’ zitta che te lo abbiamo già trovato in università.»
Sorrisi. «E va bene. Basta parlare di uomini, cambiamo argomento.»
«Invece no. Ne parliamo ancora! Non è che perché sei fidanzata tu allora ti disinteressi delle tue amiche. Alle quali devi un favore, tra l’altro…»
«Alice…»
«Votazione democratica: chi vuole parlare di ragazzi?»
Si alzarono tutte le mani tranne la mia.
«Non è normale che siamo tutte single, no?» disse Claudia.
«No, per niente. Dev’esserci qualcosa che non va.»
«Il problema, Alice, non è nostro. È che non ci sono più i principi azzurri di una volta.»
«Devono avere sciolto il club.»
Parlammo di alcuni ragazzi di nostra conoscenza. Nessuno poteva ambire a diventare membro del circolo dei principi.
Poi, come accade in quegli strani percorsi logici che sono evidentissimi a tutti durante le conversazioni ma che – in realtà – non hanno alcun senso, subito dopo iniziammo a parlare d’altro.
«Dove andate in vacanza quest’anno?» domandò Sofia, che continuava a seguire la conversazione con davanti il libro.
«Mare.»
«Anch’io al mare.»
«Io in crociera.»
«Uau. Con Paolo? Ti sei già organizzata? Sei più sveglia di quanto pensassi!»
«Spiritosa. No, non con lui. Perlomeno non credo.»
«E se facessimo qualche giorno di vacanza tutte insieme?»
Era l’idea migliore che avessi sentito dopo quella di abolire gli esami per sempre. La proposta veniva da Candida ma era come se ci avesse letto nel pensiero.
Dovevamo aspettare la fine della sessione degli appelli e poi potevamo partire.
«Non facciamo mai niente insieme.»
«Come no? Siamo insieme tutti i giorni in università. Oggi, ad esempio, siamo qui tutte quante!»
Claudia sfilò gli occhiali da sole e girò la testa verso Sofia. «Sì, ma non facciamo mai niente in importante insieme. A proposito: mi accompagnate a fare il tatuaggio?»
«Vuoi farti tatuare?»
«Un altro?»
«Cosa?»
«Dove?»
«Una domanda per volta, ragazze! Comunque non ho ancora prenotato. È solo un’idea. Forza, venite anche voi! Potreste farlo insieme a me!»
«Perché no?» dichiarò Alice.
«Io avevo giusto intenzione di farmi un piccolo tatuaggio che inizi qui» Candida indicò il polso destro «e finisca qui» indicò la caviglia sinistra. Piccolo, decisamente.
«Facciamo fatica a metterci d’accordo sulle date per qualche giorno al mare, figurarsi un tatuaggio!»
Claudia aveva una soluzione. «Ognuna fa quello che vuole dove vuole, ma lo facciamo insieme!»
«Al mare vengo volentieri, ma non contate su di me per altre iniziative.»
Sofia ha un rapporto con gli aghi ancora peggiore del mio.
«Dai, Sofia, almeno un piercing…»
«Non ci penso nemmeno!» aveva smesso di leggere e le sopracciglia erano aggrottate. «Pensateci ragazze: perché sono le donne che in larga maggioranza si fanno bucare e tatuare?»
«Perché piercing e tatuaggi sono carini?» rispose Alice con una timida domanda.
«Vi pongo la questione in maniera diversa: perché dobbiamo essere sempre noi a farci del male sul nostro corpo?»
«Sei troppo femminista per me, Sofia» osservò Claudia.
«Non è femminismo, è buon senso.»
«Io sono d’accordo con Sofia» osservai.
È la mia femminista preferita. Quando fa delle osservazioni di questo tipo è difficile darle torto.
«Certo, che voi… siete complicate!»
«No, Claudia, è Sofia che è complicata.»
«Io sono qui a prendere il sole e voi mi fate domande esistenziali…»
«Beh, possiamo sempre cambiare argomento, no?» ipotizzai. «Allora, ragazze, che mi dite?»

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Capitolo 12
*** Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere ***


capitolo12
Capitolo 12
Nel quale secondo certe teorie l’universo dovrebbe esplodere
 
Ero nell’atrio dell’università e stavo aspettando.
«Ehi, ciao!»
«Ciao, Luisa!»
Mi fissò con interesse.
«Come stai?»
Lei sorrise. «Bene.»
Non era un sorriso di circostanza, mi sembrava che stesse davvero bene come aveva detto.
«Hai tagliato i capelli?»
«Già. Sono tornata al mio taglio “normale”».
Bisognerebbe studiare come mai le donne quando hanno bisogno di un cambiamento nella propria vita si sfogano sui capelli. Io li ho sempre avuti all’incirca corti uguali e questo dà un’idea di quella noia totale che è la mia esistenza. Luisa li aveva fatti crescere quando era fidanzata e li aveva tagliati non appena s’era lasciata.
Una storia d’amore finita male. Lei aveva investito parecchio in quella relazione e questo le aveva fatto ancora più male.
«Tu come stai?» domandò.
«Lo sai com’è la mia vita. Penso a molte cose e ne realizzo poche.»
«Stai scrivendo?»
«Sempre.»
È significativo che Luisa me l’avesse domandato. Nel gruppo delle mie amiche non pubblicizzo mai il fatto che mi piace scrivere. Vado famosa come la musicista del gruppo e mi accontento. Altre persone, invece, conoscono il mio hobby.
«Perché ridi, Stefania?»
«Perché non mi hai chiesto se sto studiando. Mi consideri una scrittrice professionista o dai per scontato che mi aspettano dieci anni da fuoricorso?»
Luisa inclinò la testa e mi sorrise ancora. Ci conosciamo bene, io e lei, anche se lei studia giurisprudenza, quindi non siamo colleghe di corso.
Ci aggiornammo reciprocamente sulle ultime novità, semplici chiacchiere che si fanno ogni volta che in università si incontra qualcuno. Posso passare le settimane, io, a non fare altro che scambiare quattro chiacchiere con varie persone.
Luisa doveva andare a lezione dunque mi salutò.
Io stavo sempre aspettando quindi rimasi in atrio.
«Isa? Isabella?»
«Ciao!»
«Che ci fai qui?»
Era davvero il giorno degli incontri casuali.
«Vado in segreteria. Se non torno tra cinque ore chiama la polizia e dai l’annuncio che sono scomparsa.»
Isabella è matta ma simpatica. Non ho mai capito cosa le passi nella testa ma il risultato è che starle vicino è spassosissimo.
«È un po’ che non ci vediamo. Che hai combinato di bello?»
«Ah, non chiedermi nulla!»
Aveva la faccia tipica di una che dice una cosa ma intende l’esatto opposto.
«Hai avuto qualche problema?»
«Direi proprio di sì. La casa di mia cugina è saltata per aria.»
Sgranai gli occhi. «O mamma!»
«Sì, ma lei non era in casa. In compenso quando sono arrivata io ho trovato la polizia, i pompieri e mezza Parigi.»
«Che c’entra Parigi?»
«Mia cugina vive a Parigi!»
«Tu eri in Francia?»
«Sì, ero andata a trovarla, ma questo è solo l’inizio della storia. Ti interessa? Te la racconto?»
«Chiaro che mi interessa!»
«Allora accompagnami in segreteria. Te lo spiego mentre facciamo la coda. Raccontare tutto richiederà… all’incirca 12 ore. Dovremmo arrivare quasi fino allo sportello, per quell’epoca.»
Stava scherzando ed esagerando sui tempi d’attesa, ma non troppo.
«Non posso, scusa, sto aspettando una persona…»
Lei si grattò la testa.
«Beh, hai il mio numero. È una storia movimentata ma divertente.»
«Non ho dubbi, se c’eri tu.»
«C’era anche mia nonna… conosci mia nonna?... credimi, lei è molto peggio di me.»
Mi domandavo cosa c’entrasse la nonna di Isabella con la casa di Parigi.
«Saltata per aria, hai detto.»
«Sì, certo! Una bomba!»
«Una bomba nel senso figurato o nel senso…»
«Una bomba! Bum!» Agitò le mani. Le veniva da ridere.
«Ti stai approfittando della mia amicizia. Mi stai prendendo in giro, vero?»
«No, per nulla!» Alzò le spalle. «Controlla, se vuoi!»
«Oh, sicuro! Scrivo su internet “bomba a Parigi” e in un paio di minuti le teste di cuoio fanno irruzione in casa mia e mi arrestano per terrorismo!»
«Non ne sai nulla, tu, di servizi segreti.»
Mi guardò con un’occhiata che significava: io, invece, ne so parecchio.
«Beh, scusa, la segreteria m’aspetta.»
«M’hai incuriosito con questa storia. Ci sentiamo presto!»
«È una minaccia?»
«Certo che sì!»
Baciai Isabella sulle guance e se ne andò.
Io stavo sempre aspettando, dal che dedussi che o ero in grande anticipo oppure la persona che aspettavo era in grave ritardo.
Sofia si materializzò vicino a me.
«Ehi, da dove sei sbucata?»
«Sei con la testa fra le nuvole come al solito, Stefania. T’ho pure salutata!»
«Hai incrociato Luisa e Isabella? Erano qui un attimo fa…»
«Chi?»
«Isabella e Luisa, le mie amiche…» Sofia scosse la testa, non aveva visto proprio nessuno. «Impossibile!» ribadii. «Isa era qui un attimo fa! Devi averla vista per forza!»
 
NdA
Lascio a voi ogni considerazione sul fatto che Luisa sia la protagonista del mio “nuvole di dubbio” e che Isabella sia la protagonista di “complotti casuali”.

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Capitolo 13
*** Dove l’universo probabilmente collassa ***


capitolo13
Capitolo 13
Dove l’universo probabilmente collassa
 
«Mi spiace, non ho visto nessuno. Eri sola.»
«Sì, ero sola, ma un attimo prima che arrivassi tu c’era Isabella con me.»
«Non sono sicura di conoscerla, questa Isabella. Neanche Luisa. Ce le hai presentate?»
«Credo di sì, non ricordo.»
Sofia mi scrutò coi suoi occhi azzurro limpido. Per quanto le mie amiche scherzino sempre e siamo abituate a prenderci in giro, il suo sguardo era serio.
«Te la sei sognata?» domandò, con l’aria di chiedersi se fossi io a prendermi gioco di lei.
«Spero di non essere così fuori di testa da parlare con persone che non esistono!»
Lei alzò le spalle.
«Beh, in fondo cos’è l’esistenza? Tu esisti? Io esisto?»
Le diedi una spinta sulla spalla sufficiente a spostare le ossa dalla loro sede naturale.
«Certo che esisti! Non metterti a fare i tuoi ragionamenti da filosofa da strapazzo sull’esistenza in metafisica!»
«Oh, beh, se la metti così non ti parlerò di filosofia. Ti faccio solo una domanda semplice: i sogni esistono?»
«Certo che esistono!»
«Me ne fai vedere uno?»
Sofia è la mia femminista preferita, è la mia ancora di salvezza ogni volta che non capisco qualcosa a lezione, ma se si mette a fare ragionamenti ci vogliono due lauree – di cui una in filosofia quantistica applicata – per starle dietro.
«Non accetto questi giochi di parole» replicai. «I sogni esistono nella testa di chi li vive. Anche i sentimenti non si vedono ma esistono senza dubbio.»
«Allora, dimmi… esistono i ricordi? Se ci pensi, i ricordi sono una parte fondamentale di ognuno di noi. Noi siamo i nostri ricordi. Possiamo parlare dei ricordi, spiegarli, mostrarli, fissarli con foto o filmati. Eppure, i ricordi non sono reali
«Quindi vorresti dire che ho immaginato di incontrare Isabella e Luisa poco fa?»
«Potresti anche averle inventate.»
«Chi?»
«Queste due ragazze. Potrebbero essere frutto della tua fantasia.»
«Anche tu potresti essere frutto della mia fantasia.»
«Allora con chi stai parlando, adesso?»
«Con me stessa.»
«Ah sì?»
Sofia mi arruffò i capelli con una mano. «Dì all’altra te stessa di pettinarti!»
Sorrise. Era uno di quei bellissimi sorrisi di cui la mia amica è capace senza sforzo.
«Ci vediamo più tardi!» la salutai mentre si allontanava verso l’aula.
Finalmente potevo tornare ad aspettare. Prima che avessi il tempo di ragionare e decidere se i suoi discorsi avessero senso oppure no, vidi la persona che stavo aspettando.
«Ciao, scusa il ritardo.»
«Ciao, Paolo.»
Avevamo appuntamento per pranzare insieme. Come avevano detto le mie amiche, dovevo impegnarmi io a far progredire la situazione. Sempre se c’era una situazione da far progredire.
«Senti, ho una domanda.»
«Dimmi, Stefania.»
«Non prenderla male, è una domanda strana.»
«Beh, dimmi!»
«Tu esisti?»
Lui rise. «Penso di sì.»
«Perfetto. Pensi dunque sei. Non è questa la regola? Sono molto più tranquilla, adesso. Mi sarei arrabbiata molto se tu non fossi esistito.»
Forse non dovevo fare questi discorsi all’incirca al primo appuntamento, ma ormai ero in argomento.
«Arrabbiata con chi, esattamente?»
«Con me stessa, credo.»
Paolo inclinò le sopracciglia.
«Vuoi che ti dimostro che esisto? È questo che stai dicendo?»
«Mmmh, non lo so. Come penseresti di dimostrarlo?»
Mi rivolse un’occhiata intensa e improvvisamente capii quello che stava pensando.
Ho capito cosa intende dire questa ragazza. Più la conosco più è una scoperta. Tutte queste storie sull’esistenza metafisica. Vuole un bacio, ecco qual è la “dimostrazione” che cerca. È la più strana richiesta di un bacio che abbia mai sentito in vita mia, ma è anche la più divertente e interessante. Ha della stoffa, questa ragazza. Potrei anche accontentarla, ma senza esagerare, siamo pur sempre in pubblico.
Io avevo capito, lui pure. Non era quello che pensavo all’inizio, ma la sua interpretazione era più che soddisfacente. Sorrisi.
«Oh, sì!» dissi.
 
NdA
Grazie per essere arrivati fin qui. Spero che la storia vi abbia strappato almeno un sorriso.
 
Ho un annuncio (se a qualcuno può interessare): ho pubblicato tutti gli ultimi capitoli insieme perché mi scoccia lasciare le cose a metà e nei prossimi tempi dovrò assentarmi da efp quindi non avrei modo di aggiornare con regolarità.
Ringrazio tutti i lettori, quelli occasionali e quelli abituali.
Mi mancherete, ragazze e ragazzi!
Un abbraccio
Steph

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