Quell'attimo di te

di etoshina99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 - Monaco 1944 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Tic Toc ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 - Monaco 1944 ***




Guardò l’orologio; erano ormai le tre del mattino quando ebbe finito di sistemare la cucina e buttare tutti gli avanzi nella ciotola del cane; Anna, ormai esausta, decise di andare a dormire; scese piano, per evitare di fare il minimo rumore( “ altrimenti la pagherai ” le sembrò di sentire la voce del padrone di casa). Arrivò in cantina e accese con un fiammifero la piccola candela che stava sopra la mensola. Slacciò il busto e si tolse la lunga e ampia gonna ,qua e là macchiata e rattoppata alla bell’e meglio. Prese la sua spugna sgretolata e la immerse nella bacinella per poi passarsela lungo le braccia ossute e il collo magro. Sbadigliò mentre si infilava la semplice tunica di rafia che usava come pigiama, se la sistemò adagiandola bene al corpo e poi con un lieve, quasi strozzato, soffio spense il cero sdraiandosi sulla poca paglia spelacchiata che divideva la sua schiena dalle polverose e umide assi di legno.
Dopo non molto crollò in un sonno profondo tutt’altro che tranquillo. Ormai era un anno che lavorava per il signor Neumann e, anche se per certi versi lo odiava, doveva a lui la sua stessa vita.

I campi.
Le montagne.

Fiii boom.

Fiii boom.

Era cauta un’altra bomba.
Si svegliò di soprassalto – mamma! Mamma dove sei? Layla? Padre?- si alzò; si guardò intorno; il tetto spiovente della loro piccola casa faceva scorrere l’acqua direttamente in strada provocando un’assordante scroscio.

Fiii boom.

Anna uscì di corsa e vide tutta la gente del paese stringersi nella piazza principale; accorse anche lei e, saltellando cercò di vedere cosa stava accadendo. Tutti gli abitanti erano ammassati in un gruppo solo, come volessero darsi forza l’un l’altro, come se si volessero abbracciare. Erano un grande e intenso abbraccio.
Il cielo grigio, tappato dalle nuvole del temporale, era in fiamme; ogni tanto dei lampi neri venivano scagliati da uccelli di latta, di metallo, che vomitavano polvere da sparo a intervalli regolari di tempo.

Fiii boom.

Dopo pochi istanti si accese un piccolo fuocherello, appena visibile all’orizzonte, che poi aumentò sempre più diventando un terribile mostro mangia vita.
- i tedeschi! I tedeschi!-
-arrivano i tedeschi!-
L’abbraccio si dissolse in fretta lasciando solo un grande vuoto e creando scompiglio attorno ad Anna, allora quindicenne. Con gli occhi esaminò tutti i cittadini riuscendo infine a trovare la sua famiglia.

Fiii boom.

Tre giorni dopo erano in macchina con i bagagli legati sul tetto e la piccola Layla in grembo alla madre. Anna invidiava la sorellina poiché non si rendeva conto di quello che stava accadendo e ammirava se stessa per non conoscere a fondo il motivo della loro partenza; pianse anche lei lacrime amare perché costretta a lasciare la sua terra, la sua amata Italia.

Berna, gennaio 1940

Erano ormai mesi che vagabondavano per la Svizzera in cerca di accoglienza e riparo accompagnati dal pianto ritmico e regolare della madre che aveva perso la sua seconda bambina a causa della polmonite.

Engen, marzo 1941

Li hanno scovati.
Stanati.
Li hanno trovati.
Li stanno smistando assieme alle altre donne, bambini, uomini impuri, zingari, omosessuali ed ebrei. Ebrei.
Ma loro non erano ebrei.
Lo era la bisnonna di Anna. Solo lei. Ma per i tedeschi erano ebrei e non si discute.
I camion partirono a tutta velocità.
Anna fece giusto in tempo a dire addio ai suoi genitori perché non li rivide più. Mai più.
Anna era la più grande tra i bambini ma questo non le vietava di piangere, di sfogare la su rabbia che passava in secondo piano soffocata dai gemiti e dalle urla degli altri marmocchi, ogni tanto frustati o picchiati dai due soldati delle SS che li tenevano d’occhio.

Dachau, maggio 1942

Era ormai un anno che lavorava dalla mattina alla sera, mangiava bucce di patate e radici e spesso non dormiva. Soffriva di panico e, da quando sua madre non le accarezzava più la testa né le sussurrava dolci parole prima di andare a dormire, era sempre triste e malinconica. Non parlava mai.
I soldati spesso facevano brutti commenti su di lei (aveva imparato un po’ il tedesco, soprattutto quello labiale), parole sporche e volgari che Anna detestava con tutta se stessa.
Le veniva da vomitare.
Quando , anni prima,andava a scuola tutti la prendevano in giro , non solo perché era brava, ma anche perché era robusta, un po’ cicciottella. Ora le rimanevano solo le ossa e, ripensando a quelle scene, ogni tanto sorrideva perché adesso aveva proprio un fisico da modella: girovita stretto e ben evidente, costole numerabili da lontano, scapole sporgenti e gambe sottili e uniformi come stecchini.
Una sera, mentre tornava verso la sua baracca venne prelevata e trascinata in un capannone da tre soldati.
La violentarono.
A turno.
Non fu la prima volta poiché venne trasferita per diventare una prostituta da campo.
Lacrime.
Versava molte lacrime.
Ma non erano di dolore, rimpianto o rassegnazione; anzi era contenta di essere diventata una prostituta, lo preferiva di gran lunga alle camere a gas oppure alle fucilazioni di massa. Almeno era ancora viva, si ripeteva nei momenti di sconforto.
Piangeva per nostalgia, oppure per scusarsi con i suoi genitori, per non aver scelto la professione dei loro sogni; per scusarsi con sua sorella ,perché non ebbe modo né capacità di salvarla ; piangeva per scusarsi con Alberto, il suo ragazzo, ex ragazzo, perché per puro egoismo e sete di vita, lo stava continuamente tradendo.
Già, sete di vita.
Ma questa, si può chiamare vita?
No, non credo.

Dachau, dicembre 1943

Un pomeriggio tornarono dal fronte una decina di soldati delle SS e Anna si ritrovò ad incontrare uno di loro. Come d’altronde era di routine.
Era un uomo sulla quarantina, che dimostrava la metà dei suoi anni, alto e muscoloso, dagli occhi verdi e i capelli corvini, neri come la polvere da sparo, lucidi e sudati di brillantina.
Rimase fermo a fissare la sua esile figura, le sue dolci curve e le linee lella vita per poi scendere alle gambe magre e sinuose. Anna lo aveva già visto ma non si ricordava chi era.
… forse… no, no, non era lui.
Si tolse la giacca della divisa, si sfilò i pesanti e rovinati stivali per poi passare alla camicia. Era un ufficiale. “tenente Neumann” lesse la ragazza sulla targhetta cucita malamente alla giacca.
Non passò molto tempo da quella notte che Anna , su ordine del tenete, venne condotta via e portata nella vicina Monaco per lavorare come sguattera e cameriera per la famiglia del sul salvatore.
Layla.
Mamma.
Papà.

Fiii boom.

Fiii boom.

Sangue. Spari.
Mani. Mani ovunque sul suo corpo.
Fucili.
Sporco.
Fame.

 

Anna si svegliò di soprassalto. Aveva di nuovo fatto lo stesso incubo, quel sogno malvagio che le rendeva le notti difficili da ormai giorni, forse settimane. Magari anche mesi.
Ormai aveva perso la cognizione del tempo.
Anna si mise a sedere. C’era poca luce fioca, timida, che invadeva il locale angusto ma Anna riuscì lo stesso ad accendere un fiammifero e a guardare l’ora sul piccolo e trasandato orologio di legno che ticchettava sconquassato sul pavimento.
5:45
Era ora di alzarsi.
Si mise in piedi, piano, per evitare capogiri; lo stomaco brontolò come ormai faceva tutte le mattine e tutte le sere (sembrava darle il buongiorno e la buonanotte).
Si sfilò la tunica, passò velocemente la spugna e indossò il corsetto e la gonna, mettendosi un piccolo scialle stopposo sulle spalle per non prendere freddo.
Salì di nuovo cautamente le scale e andò in cucina. Apparecchiò elegantemente la tavola e iniziò a preparare la colazione. Sbucciò le arance per poi fare una dolce spremuta, mise in tavola i due barattoli delle confetture e il paniere. Mise in un piattino il burro e iniziò, visto che era in anticipo, a sbucciare le verdure per il pranzo.
Dopo poco arrivò Alfred, il maggiordomo , che la salutò sottovoce mimandole l’imminente arrivo di Aaron Neuman.
 

-e che oggi si prepari il pranzo per una persona in più, capito Alfred?-
-sì signore, come desidera-
Aaron sospirò. Salì nuovamente le scale per salutare sua moglie e, giusto il tempo di lavarsi i denti, ridiscese prendendo al volo la giacca e chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle.
Anna stava tagliando le carote per il contorno quando sentì il rombo dell’automobile, pronta per raggiungere il campo di Dachau.

La carne rosolava in pentola lentamente da ormai due ore; il suo profumo aveva invaso l’edificio e sembrava che persino i muri, alti bianchi e solenni, non resistessero più a tale tentazione; figuratevi la povera ragazza che non addentava qualcosa dal giorno prima.
Ad un tratto il campanello trillò allegro, ma Anna non ci fece molto caso poiché non rientrava nei suoi compiti aprire la porta a eventuali ospiti; così immerse nuovamente i pensieri nelle sue faccende finché un altro trillo non la riportò nel mondo reale.
Si asciugò le mani in un piccolo strofinaccio e si incamminò verso la porta.
Si guardò intorno.
Di Alfred nessuna traccia.
Decise di aprire. Era spaventata. E se l’avessero picchiata, di nuovo?
“No. Siamo positive. È da molto tempo che Aaron non alza le mani su di me “
Non molto convinta decise di aprire la porta. Lentamente.
Abbassò subito il capo, com’era solita fare in presenza di qualcuno di rango superiore al suo, e si ritrovò ad ammirare due scarpe di vernice nera, sapientemente intagliate. Pian piano, curiosa, alzò lo sguardò finché non si imbatté in due occhi azzurro cielo.
La fissavano.
Ricambiavano il suo sguardo indagatore.
Restò lì, come impalata.
Immobile.
Le sembrò passare un’ eternità.

Decise di spostarsi per lasciare entrare l’alta e statuaria figura del ragazzo sulla ventina. Sempre fissandolo chiuse la porta per poi tornare in cucina cercando di portare nuovamente la sua attenzione sul cibo.
Ma ogni tentativo fu inutile.
Inutile.

Cielo.
Cielo d’infanzia.
Cielo.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Tic Toc ***




- tesoro!- esclamò la madre con il suo marcato accento francese scendendo di fretta le scale, stando attenta a non rovinare le scarpe pitonate, nuove di zecca; ancora splendevano.
-mamma- disse il ragazzo appoggiando la valigia ai suoi piedi per poi abbracciare la donna; aspirò a pieni polmoni il suo profumo e le lasciò un tenero bacio tra i suoi capelli dorati e boccolosi.
-sono felice di vederti… volo? È andato tutto bene?-
-sì madre era solo un po’ in ritardo a causa di problemi tecnici … bah non so - disse gesticolando
-oh come sono contenta! Mi sei mancato tantissimo Lou- Gabrielle gli pizzicò amorevolmente le guance e lo abbracciò di nuovo. Louis , sorpreso dal suo gesto, rimase un po’ imbambolato ma poi si sciolse e strinse tra le sue braccia l’esile figura materna.
- anche tu mi sei mancata- disse con voce dolce, quasi di conforto.
-dai vieni che è pronto in tavola-
-no aspetta porto i bagagli nella mia stanza e-
-no non ti preoccupare, a questo ci pensa Alfred o Anna-
-ma no dai, insito-
-e io insisto di più- ribatté Gabrielle mettendosi le mani sui fianchi e assumendo un’espressione imbronciata.
-ok, mi arrendo- disse il ragazzo e scoppiò a ridere all’unisono con la madre.
I due così si diressero verso la cucina, attraversando a passi lenti e ben scanditi la sala, maestosa e imponente.
-Anna, tesoro, potresti sistemare la camera di mio figlio?-
Anna si asciugò velocemente le mani, abbassò il capo e annuì debolmente.
Le sue ballerine consumate non facevano il minimo rumore sulla moquette delle scale mentre , gradino dopo gradino, Anna portò la valigia di Louis nella sua stanza, una cameretta piccola e polverosa . “ ci vorrà un bel po’ per rendere questo posto vivibile” pensò.
Lasciò la valigia di cuoio di fianco alla porta; scese di nuovo le scale con passo felpato, andò nello sgabuzzino e prese il necessario per disinfestare il locale dalla polvere e dalle ragnatele.
“ arrrrg il mio timpano!” pensò la ragazza infastidita dal cigolio di una delle due persiane che aprì per fare entrare un po’ di luce; dopo non molto la tramontana investì il volto di Anna rendendolo freddo e umido. Anche il sole giocò con la ragazza schiaffeggiando le sue gote con calde carezze amichevoli, costringendola a ridurre i suo occhi cioccolato a due fessure. La polvere volteggiava elegantemente nell’aria quando Anna si voltò; lavò velocemente il pavimento e prese delle lenzuola pulite per fare il letto. Passò uno straccio umido sulla mensola e sulla scrivania per poi pulire al meglio lo specchio rettangolare appeso ad una parete.


-oddio quanto sei diventato alto! Ormai mi superi… - sospirò Gabrielle emozionata
-dai mamma non iniziare- rise Louis che nel frattempo, stanco per il viaggio, si era seduto sulla comoda poltrona del padre.
Un motore si spense in lontananza con un rumore sordo, stopposo. Il padre rincasava dopo un giro d’ispezione al lager. Un altro.
Stressato e nervoso scese dall’auto chiudendo con poca delicatezza lo sportello. “oggi non è proprio giornata” disse Aaron dentro di se.
Si tolse il cappello ed entrò in casa. “ e adesso cosa succede? ” sbuffò togliendosi la pesante giacca di lana che appese facendo tintinnare le diverse targhette che indicavano il suo ruolo di tenente.
A passi stanchi, quasi trascinati, entrò in sala e stava per chiedere spiegazioni alla moglie, allegra e sorridente, quando vide un uomo seduto su di una poltrona, la SUA poltrona.
-ah, caro!- Gabrielle andò incontro al marito, gli stampò un bacio sulle labbra (poveretto! ahah Ci mancava solo il rossetto sulla bocca!) e gli strinse la mano tra le sue dita lunghe e sottili
-cosa succede, cara?- chiese stufo, enfatizzando soprattutto l’ultima parola;
-oh vedo che siamo molto allegri oggi- ridacchiò la donna – guarda un po’ chi è tornato!-
Sentendo quelle parole Aaron si ricordò tutto.
-ciao papà!- si alzò il ragazzo e strinse la mano del padre
-figliolo- fece un cenno col capo – girati un po’ … mmm … noto con piacere che l’Inghilterra non ti ha fatto male, anzi!- dimenticò l’ira e la tristezza sorridendo sinceramente come, purtroppo, non faceva da molto tempo.
-bah, io invece ti trovo … invecchiato?- disse Louis ridendo nel pronunciare l’aggettivo.
-dai!- gli diede una gomitata – ma che dici Louis! Io? invecchiato? Semmai sarò ringiovanito di trent’anni!- ironizzò sistemandosi i capelli lucidi di brillantina.
Gabrielle sospirò – ah, i miei ragazzi!- guardò sorniona il volto di suo marito, teso, per poi soffermarsi su quello del figlio, giovane e pieno di vita, illuminato dalle due gemme celesti molti simili allee sue.
-Alfred?-
-sì, signora?-
-li pranzo… potresti servirlo?-
-subito signora- e dopo pochi istanti i primi piatti di portata atterrarono sulla candida tovaglia ricamata diffondendo per tutta la sala un delizioso e accogliente profumo.
Tutti e tre si sedettero e si augurarono vicendevolmente buon appetito.
-allora, Louis? Raccontaci dell’Inghilterra…- chiese ansiosa e eccitata la madre
Louis bevve un sorso di vino, posò il calice e si schiarì la voce – non c’è molto da dire mamma…-
-dai! Non puoi dirmi questo! Su su racconta!- lo esortò la donna
-dai Gabrielle! Lascialo un po’ in pace! È appena arrivato! Avrete tutto il tempo di parlarne-
-ah voi uomini- disse spazientita – chi vi capirà mai?- scosse così la testa, in segno di negazione, per poi appoggiare la mano sul mento e assaporare di nuovo l’arrosto.
-tutto a posto, madame?- chiese Alfred versando un po’ di vino rosso nel bicchiere della donna
-sì grazie! Sei stato proprio bravo! Era da tanto tempo che non mangiavamo un arrosto così buono, vero caro?- appoggiò la mano accurata e morbida sopra quella di Aaron, il quale, come segno di risposta annuì con un movimento del capo –buona idea, davvero!- gli sorrise entusiasta.
-oh signora, mi lusinga così! Ma non deve fare a me i complimenti- ridacchio sistemandosi i baffetti alla Dalì.
-ah, davvero?- chiese un po’ imbarazzata
-già- concluse Alfred per poi sparecchiare e dirigersi con la pigna di piatti sporchi in cucina dove tintinnarono, come esultanti, in attesa di una bella, lunga e meritata doccia.


Anna guardò soddisfatta la camera, che ora splendeva, o per lo meno profumava di pulito e non più di muffa; sistemò per l’ultima volta il copriletto trapuntato lisciandolo come poteva col le sue mani affusolate e iniziò a svuotare i bagagli del signorino deponendo la biancheria nei cassetti e appendendo camicie e pantaloni.
Spolverò, come per ritoccare, le ante esterne del grande armadio ligneo e ripassò nuovamente la mensola spostando con estrema cura tutti i soprammobili, trofei e vari libri in inglese; le venne così in mente della scuola, del suo odio verso le materie come italiano e storia ;“piatte e prive di entusiasmo” le riteneva lei che, al contrario della maggior parte delle sue compagne, adorava matematica e inglese; già… inglese.
Lei sognava di viaggiare, visitare tutto il mondo, lavorare magari come … beh questo non lo sapeva, non ancora, ma era certa che non avrebbe fatto la contabile a vita, né la segretaria. Tutte le volte che ci pensava dei brividi di emozione le facevano scalciare il cuore e le davano una breve ma piacevole sensazione di … casa; di famiglia…
Nostalgia.
Mamma.
Layla.
Papà.
In quel momento le ritornarono in mente i pomeriggi passati con suo padre a studiare inglese ( lui parlava e lei, di malavoglia, lo ascoltava); ora si pentiva, le rodeva il cuore per non aver mai dato retta a quell’uomo, per essere stata così ingenua da non capire che tutto ciò che faceva tra il lavoro, gli extra e le lezioni di lingua private erano solo e soltanto per il suo bene.

Bene.

Ormai Anna aveva dimenticato cosa fosse il bene.
Come si faceva a fare del bene?
Come si voleva bene ad una persona? Come?
Come?
Una lacrima cristallina le rigò la guancia ma ebbe vita breve perché fu presto asciugata dallo scialle della ragazza, la quale se lo strofinò per asciugarsi il viso; così si lasciò alle spalle un’altra tessera del suo passato.
Ancora.
Di nuovo.
Ormai non ricordava neanche più il quadro stupendo, il puzzle che rappresentava la sua vita, la sua felicità. Buchi neri, vuoti di memoria, eventi dimenticati con la forza, contro la sua volontà, rovinavano il tutto rendendolo simile a un quadro di Van Gogh tutto logoro e bucato.


La finestra, animata dal vento si mosse fulminea ma Anna la chiuse prima che sbattesse contro il muro dipinto. Si passò le mani tra i capelli, prese un bel respiro e indietreggiò guardando a destra e a sinistra per evitare di dimenticare qualcosa.
Lo stipite bloccò la sua esile schiena scricchiolando. Anna prese gli strumenti usati per la pulizia e scese piano le scale posando il tutto nello sgabuzzino; attraversò la sala notando che Alfred aveva già sparecchiato e tolto la tovaglia dal tavolo; raggiunse la cucina, vide la pigna di stoviglie e di piatti sporchi da lavare con di fianco un biglietto:

Sono uscito a fare la spesa, ci vediamo dopo, A


Anna sorrise e si tolse lo scialle per evitare di bagnarlo, rimanendo con le spalle scoperte.

Brividi.

Aveva freddo ma non poteva rischiare di bagnarlo e quindi rimanere giorni in questo stato, perciò decise di mettersi subito all’opera: fece scendere nel lavello un po’ di acqua (rigorosamente fredda) e iniziò a strofinare creando sempre più schiuma. Le era sempre piaciuto lavare i piatti poiché adorava giocare, accarezzare o semplicemente sfiorare la schiuma.
Morbida.
Soffice.
Panna montata.
“ la devo smettere di fare questi pensieri, altrimenti crepo prima dell’alba di domani ” pensò.
Quando ormai aveva finito la sua opera di restauratrice dell’ordine, Anna si voltò per andare in solaio a prendere un asciugamano un po’ più grande per togliere l’acqua e i residui di calcare dalle stoviglie; per fare il viaggio una sola volta decise di portare con sé un piccolo paiolo ormai tutto arrugginito che doveva essere messo nello scatolone per la discarica.
Lo prese, o meglio, agguantò per i manici con una stretta salda e si voltò di scatto andando a sbattere contro qualcosa.
Non era la prima volta che chiudeva la porta della cucina e se ne dimenticava .
“salame” si auto-insultò.
-oh scusa-

Brividi.

Freddo.

“merda” imprecò dentro di se.
 “merda” ripeté
Quella non era la porta…
Alzò piano gli occhi scontrandosi con quelli celesti del ragazzo.

Azzurro.

Cielo.

-scusami non pensavo stessi uscendo- disse Louis spostandosi di lato per liberare il passaggio alla ragazza.
Anna abbassò lo sguardo. Uscì in fretta e raggiunse la soffitta prendendo il necessario e ridiscese subito perchérichiestta da Aaron.
Posò il telo di spugna sul bordo del lavandino, si asciugò le mani e andò nel suo ufficio.

Cupo.

Tetro.

Era inquietante, pensò, e , anche se c’era stata molte volte, odiava sempre di più quel posto.
-lunedì arrivano gli zii di Louis e  Lizbeth rimarrà con noi per due settimane poiché i suoi genitori saranno via per lavoro; volevo chiederti se te ne potevi occupare tu, come al solito…-
L’uomo,  dall’espressione stanca, consumata, scrutò con i suoi occhi porcini il volto giovane della ragazza la quale annuì flebilmente sorridendo.
-bene, le regole rimangono le stesse, mi raccomando-
Anna annuì di nuovo.
-ah, dimenticavo… la cena dovrà essere sensazionale, sai, ci tengo molto a fare bella figura con il fratello di Gabrielle, tanto so che non mi deluderai- le sorrise.
Per la prima volta vide Aaron sorridere. Era simpatico quando sorrideva, il viso mutava e la sua espressione diveniva…serena, in contrasto con i suoi leoni interiori.
Anna fece un piccolo inchino di commiato e ritornò in cucina.
Riprese il lavoro interrotto pensando continuamente a cosa avrebbe potuto cucinare; non le era mai piaciuto deludere le presone, dava sempre il meglio, o almeno ci provava.
Era spaventata, no, terrorizzata all’idea di deludere il signor Neumann.
Così assorta tra i suoi pensieri non si accorse di essere scrutata, spiata, contemplata… due gemme azzurre non toglievano l’attenzione dai suoi movimenti.
Anna era talmente concentrata che non si accorse di aver riposto male il piatto di porcellana. Quello che apparteneva alla madre di Gabrielle, dipinto a mano dal padre.

Tic.

Toc.

Dopo pochi istanti i cocci candidi impreziosirono il pavimento semplice, di umili piastrelle color crema.
Anna si voltò di scatto.

Tic.

Toc.

Ora il suono dell’orologio le pulsava nelle tempie, come un martello pneumatico.
Vide la signora Neumann accorrere.
Ora venivano i guai.

Tic.

Toc.

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