Where We Do Start

di Elissa_Bane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - My End, My Beginning ***
Capitolo 2: *** Where Everything Begun ***
Capitolo 3: *** Tearing Apart ***
Capitolo 4: *** Crashing Down ***
Capitolo 5: *** Epilogo - I Chose You ***



Capitolo 1
*** Prologo - My End, My Beginning ***


Where We Do Start.

Prologo.

My End, My Beginning

 

C'è stato un tempo, non molti anni fa, in cui pensavo che sarei morta in una fredda casa di pietra. Ma non è stato così. Sono fuggita e una donna è morta perché io vivessi.

C'è stato un tempo, non molti mesi fa, in cui pensavo di essermi perduta e che la mia vita non sarebbe mai più stata la stessa. E, in effetti avevo ragione. La mia vita non è mai più stata la stessa e in questa vita ho avuto la fortuna di trovare una persona, un'amica, che ho amato più di me stessa, anche se non gliel'ho saputo dimostrare come avrei voluto.

C'è stato un tempo, non molti giorni fa, in cui pensavo di non meritare l'amore. Ma ho capito che non puoi meritare o meno l'amore. L'amore è un difetto chimico, una mutazione pericolosa quasi quanto un tumore, che ti si attacca prima ad una cellula e poi infetta tutto il resto, fino a portarti via anche il cuore. Tanti pensano che il cuore sia la prima cosa che l'amore ti porta via. Non è così: è l'ultima, e quando te ne accorgi ormai è troppo tardi.

Non lo puoi controllare, così come non puoi controllare le tempeste solari. L'amore non ha regole: non puoi scegliere a chi darlo, nè da chi riceverlo. Non puoi smettere di amare a tuo piacimento. Non puoi rifiutarti di amare, per quanto tu ti sforzi. Non puoi controllare l'amore, ed è per questo che ci fa così paura.

 

Ma ci sono pochi, rari casi, in cui l'amore non è un tumore. In quei rarissimi casi l'amore è l'armatura che ti difende dall'aria tossica che respiriamo, dal dolore, dalla cattiveria, dalla sofferenza. A volte l'amore non è malattia, ma cura.

Ho amato cinque persone in questa vita, con quattro tipi diversi di amore: l'amore di una figlia, l'amore di una persona salvata, l'amore dato dal perdono, l'amore di una madre e l'amore di una donna. La prima persona che ho amato è stata mia sorella, quando ancora ero troppo piccola e troppo spaventata dal mondo e da me stessa. L'ho fatto con l'amore che avrei tributato a mia madre, se mai lei me lo avesse reso possibile. E ancora oggi, dopo tanti anni, la morte di Marta non mi provoca alcun dolore, mentre al contrario, al ripensare alle due volte in cui ho pensato di aver perduto Francesca sento l'impellente e improvviso bisogno di rifugiarmi tra le sue braccia.

Ho amato Giulia, con la disperazione del naufrago che vede un'ancora a cui aggrapparsi e stringersi nella tempesta. Per qualche tempo, lo ammetto, ho temuto che il mio amore oltrepassasse il limite dell'amicizia, ma mi sono resa conto che alla fine non amavo Giulia come né come un'amica né come un'amante: l'ho sempre amata come se fosse stata parte integrante di me, del mio stesso essere. Ancora oggi non posso pensare alla mia vita senza di lei.

Ho amato anche mio fratello James, quando sono riuscita a perdonargli tutto quello che mi aveva fatto. Ci ho messo del tempo, ma ce l'ho fatta. E, se devo essere sincera, ho amato mio fratello con rabbia e disperazione e una sensazione di dolore sempre in fondo alla gola. All'inizio è stato lui a donarmi un amore che io non volevo accettare, poi qualcosa è cambiato, nelle molecole che mi compongono. Un processo chimico che non saprei spiegare, ma che ha modificato profondamente il mio modo di vedere il mondo.

Poi ho amato una bambina, una figlia non mia, un corpicino non cresciuto dentro il mio ventre, ma amato con la dolcezza che mia madre non mi ha mai dato. Lei è la mia prima figlia, che stiamo crescendo con l'attenzione che un uomo di chiesa riserverebbe ad un angelo piombato nel suo giardino con un'ala ferita, e dalla quale ho ricevuto un amore altrettanto dolce e puro. Una bambina che si vide uccidere la madre davanti agli occhi e che, senza mai dimenticare, ha saputo andare avanti, donandomi gioia e pace.

Ho amato un uomo. Anzi, l'Uomo. L'unico amore in senso romantico della mia vita, l'unica persona nelle cui mani ho consegnato la mia vita, senza pentirmene. Il suo nome è William Sherlock Scott Holmes, e lo pronuncio con l'orgoglio di un'amante e di un soldato che riconosce un suo pari. Abbiamo combattuto insieme molte battaglie e solo una volta ci siamo trovati ai lati opposti dello schieramento. Lui é stato il mio inizio e la mia fine, il mio primo e il mio ultimo uomo. Non il mio unico amore, ma non é mai stato geloso degli altri. Ho amato e amo Sherlock con una sorta di dolore sordo al petto, a volte, e altre volte con rabbia e altre volte ancora con il cuore pieno di gioia e serenità. Ci sono giorni in cui lo prenderei a pugni e altri in cui ci farei l'amore per ore, ma in fondo Sherlock ha sempre portato le persone a fare cose bizzarre.

 

Questa è la mia ultima storia. È la storia dei miei amori, ma in particolare è la storia dell'amore che ho portato a Sherlock. Ora, mentre sto scrivendo, albeggia e la luce illumina il suo viso e il mio corpo morbido sotto il suo volto addormentato. E guardo il suo viso, con quelle rughette che tre anni fa non c'erano, e mi rendo conto di quanto io lo abbia amato, sin dal primo istante in cui l'ho visto, di quanto tempo io abbia perso fingendo che non sia stato così e so di non volerne perdere altro.

Questa è la mia ultima storia.

È la storia della mia fine.

É la storia del mio inizio.

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Capitolo 2
*** Where Everything Begun ***


Capitolo 1

How Everything Begun.

Ovvero di bambine, omicidi e litigi irrisolti.

 

Yesterday I died, tomorrow's bleeding.
Fall into your sunlight.
The future's open wide, beyond believing
To know why, hope dies.
Losing what was found, a world so hollow
Suspended in a compromise.
The silence of this sound, is soon to follow
Somehow, sundown.


La mia storia non ricomincia proprio da dove l'avevamo interrotta. Inizia un anno dopo, in un caldo giorno di marzo in cui pioveva a dirotto. «Omicidio. Donna, strangolata al Milestone Hotel.» il buongiorno di Sherlock mi fece scattare in piedi, con una mano già tesa a cercare la tazza di caffè che mi portava ogni mattina, l'altra a legarmi i capelli ormai lunghi abbastanza da sfiorarmi il seno. Gli sorrisi, vestendomi di corsa e uscendo con lui di casa. Ancora non sapevo che quel giorno avrei incontrato uno dei miei amori.

La donna al Milestone era bella, la ricordo anche adesso che sono passati mesi. Come artista so e sapevo riconoscere la bellezza anche nell'abbraccio della Morte e quella donna aveva un delicato aspetto quasi fatato. L'assassino aveva avuto, in un ultimo gesto d'amore o di cortesia, l'accortezza di ricomporla, quasi non volesse rendersi conto del fatto che le aveva appena tolto la vita. Sherlock si era chinato a guardare per terra, mentre io mi ero avvicinata istintivamente alla donna: stesa sul copriletto bianco e oro, aveva lunghi e ricci capelli neri, un delicato naso alla francese e le labbra lievemente dischiuse, come se ancora ci fosse stata un'anima d'aria indecisa se fuggire o meno verso la luce del sole che la baciava. Era stata uccisa circa due ore prima, il segno della collana di perle usata per strangolarla chiaro sul suo collo.
«Clorinda Mayers.» ci informò Lestrade «Una figlia di sei anni, che era nascosta in bagno. Il padre è morto sei mesi fa, suicidandosi.» annuii ringraziandolo.
«Dov'è la bambina?»
«Di sotto. I paramedici l'hanno visitata, sta bene.»
«Chi ha avvisato la polizia?» domandò Sherlock, sfilandosi un guanto, gli occhi improvvisamente metallici.
«Stanley Robbins, il direttore. La signora lo ha chiamato, ma al suo arrivo era già morta.»
Mi ritrovai a fissare ancora una volta Clorinda Mayers e a ripensare a quelle che da bambina erano i miei versi preferiti di tutta la letteratura italiana:

D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affissa, e in lei converso
sembra per la pietate 'l cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda, alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

 

Poi mi voltai, senza più guardarmi indietro, mentre Sherlock mi faceva un occhiolino prima di voltarsi verso un uomo alto e magro, con lunghi capelli biondi e una cicatrice sulla guancia sinistra.

La bambina non piangeva. Era in silenzio, una ciocca di capelli castani stretta attorno alla piccola mano paffutella, solo una lacrima sulla guancia.
«Ciao» le dissi, senza sorridere. Un paramedico scosse il capo.
«Non vuole parlare.»
«Non importa. Parlerò io.» dissi ancora alla bambina, che continuava a guardarmi. «Mi chiamo Cecilia, e puoi benissimo rispondermi a gesti. Hai fame?» un lieve cenno affermativo «Bene. Neanche io ho fatto colazione. Lei viene con me» aggiunsi in direzione di Lestrade, che mi stava raggiungendo con Sherlock.
«Non posso lasciartelo fare. È una testimone oculare.»
«Di cinque anni, spaventata e affamata. Lestrade, la bambina viene con noi.» affermai, vedendo Sherlock mandare un messaggio. Meno di un minuto dopo, avevamo il permesso di portare con noi la bambina.
«Ti piacciono i biscotti?» le domandò Sherlock, prendendola per mano. La piccola lo guardò dal basso, un piccolo gnomo, e inarcò un sopracciglio, come se le avesse fatto una domanda decisamente scontata.
«Perchè vuoi che stia con noi?» mi chiese Sherlock non appena misi piede in casa. Ricordo che a quel tempo ancora cercavo di sfuggire all'amore che mi dava e che fu proprio quella la causa del nostro combattere opponendoci vicendevolmente.
«E' una testimone oculare.» risposi.
Fu in quel momento che tutta la tensione rabbiosa che riposava quietamente nel mio compagno esplose in un primo, piccolo anticipo di ciò che sarebbe accaduto solo il mattino seguente. «Mi confondi, Cecilia. Non mi hai risposto quando ti ho chiesto di sposarmi, ma sembri quasi in procinto di adottare una bambina!» esclamò, mentre io, celando stupidamente i miei sentimenti e i miei dubbi, mi preoccupavo che Piccola, come avevo soprannominato la nostra ospite, non si sedesse su un esperimento che coinvolgeva dell'acido nitrico. Le porsi un piatto di miei biscotti e la feci sedere sulle mie ginocchia, sul divano, prima di alzare lo sguardo.
«Non essere irragionevole, Sherlock. Non la stiamo per adottare.» ribattei, fingendo di non curarmi della prima parte della sua frase, perché era lì che si annidava il problema. Quando, alcuni mesi fa, smisi di scrivere la mia storia, la terminai con la proposta di Sherlock, ma senza dirvi la mia risposta. Per un motivo molto semplice: ancora una risposta non c'era allora, né c'era nel momento di cui vi sto raccontando. Semplicemente non pensavo che una persona come lui si meritasse qualcuno come me, con tutti i suoi problemi e le sue paure stupide.
Accarezzai i capelli castani di Piccola, che sgranocchiava il suo biscotto guardandomi con sguardo interessato, e in quegli occhi innaturalmente vecchi e stanchi trovai una scintilla di rimprovero, ma finsi di non vederla. Le sorrisi, anche mentre la porta sbatteva dietro le falde del cappotto di Sherlock, uscito come una furia.
«Hey piccina, ti andrebbe di andare al parco con un'amica?»

Giulia mi sorrise, vedendomi arrivare, tenendo per mano Guinevre, che fissò con interesse Piccola. Appena le bimbe furono abbastanza vicine da toccarsi, Guinevre allungò la mano e pizzicò la guancia dell'altra. Finirono nel giro di cinque secondi per terra a rotolarsi ridendo e giocando come due micine, e devo dire che adesso le cose sono addirittura peggiorate: quando ci ritroviamo con Giulia, John e Guinevre e dobbiamo poi separarci, quelle due fanno delle scene degne della tragedia greca.
La mia amica mi prese sottobraccio, accompagnandomi ad una panchina. «Ho chiesto in ospedale. I tuoi esami non sono ancora pronti. Appena potrò te li porterò.»
«Grazie» mugugnai sottovoce. «Non parla, Giuls. Non dice una sola parola e io bisogno che parli, per la giuria. È una bambina, è vero, ma è l'unica che ha visto come sono andate le cose.»
«Proverò a parlarle io, anche se non so se funzionerà. Sei tu la prima che le ha prestato attenzione come se fosse stata una persona, a quanto mi ha detto Lestrade. È più probabile che decida di parlare con te.» sentii le sue dita fresche insinuarsi sotto la manica del mio cappotto, scoprendomi il polso. Giulia ha sempre osservato le mie cicatrici in maniera diversa da chiunque altro: chi le ha viste per caso ha sempre pensato a me come ad una autolesionista, o ad una persona da compatire, John le guarda con occhio clinico e militare, di chi riconosce una ferita procurata in combattimento, Mycroft le ignora, Francesca le guarda con dolore, come se fosse stata lei a farle, Sherlock le sfiora con dolcezza e so che ogni volta che le vede ricorda chi e cosa me le ha procurate, così come so che ne è orgoglioso, perché sono una dimostrazione di quello che ho affrontato e vinto. Giulia, invece, non le ignora, non mi compatisce, non ne è orgogliosa. Le tocca, sempre, come se sapesse che le sento fredde e dolorose in certi giorni, le accarezza con delicatezza, le osserva e nei suoi occhi vedo solo affetto. Lei è l'unica che le accetta non come qualcosa che mi è stato messo addosso, ma come parte di me. È l'unica ad aver capito, oltre a Sherlock, che non le odio, ma che semplicemente non m'importa che esistano. Sono altre le cicatrici che mi feriscono ancora adesso.

«So che dovrei stare zitta, ma è passato così tanto tempo. Cosa ti trattiene ancora?» domandò dopo un po', una mano sempre morbidamente posata sul mio polso. Sherlock era andato a parlare con John, compresi.
«E' passato così tanto tempo» risposi, riprendendo le sue parole e guardando le bambine giocare, mentre il sole filtrava tra le foglie degli alberi «Non sono sicura.»
«Ma perché? Lo ami, si vede» mi disse, con quel tono che usava per dirmi che ero un'idiota e non capivo nulla. «Lo ami da quando vi siete incontrati la prima volta.»
«Oddio, non esagerare» risi, cercando di smorzare la tensione «Lui non merita una come me» ammisi dopo un'occhiataccia della mia amica «Potrebbe avere chiunque, una bella ragazza normale, magari.»
«Ma lui non ha voluto chiunque. Ha voluto te.»
Scossi la testa con il fare stanco di chi non spera più di tanto in un finale felice. «Preferisco evitare di pensarci. Non posso sposarlo, non posso rovinargli così la vita.» Giulia posò il capo sulla mia spalla, facendo scorrere con delicatezza le dita sulla cicatrice, e rimanemmo in silenzio finché Guinevre e Piccola non si avvicinarono. La bambina, che continuava a non pronunciare parola, mi si arrampicò sulle gambe, liberandomi una coccinella fra i capelli. Risi della sua risata quando volò via in un frullio leggerissimo d'ali, fingendo di essere felice.


«Sherlock, siamo a casa!» esclamai entrando. Il mio compagno mi trafisse con quegli occhi ghiacciati come l'Inferno e notai immediatamente la sua rabbia, per nulla svanita, ma con un cenno del capo gli feci capire che non ne avrei più parlato davanti alla bambina. Piccola aveva visto sua madre morire, non le serviva di certo che ci mettessimo a litigarle davanti! C'era qualcosa che mi spingeva a proteggere quella bambina, ma allora lo avrei identificato solo come un forte senso del dovere, non certo come l'amore che oggi dichiaro apertamente di provare per mia figlia.
«Se vuoi farti una doccia prima di andare a cena da tua sorella, hai tempo» mi avvertì laconico, prendendo Piccola dalle mie braccia e sorridendole. «Ancora non parli, eh?» lo sentii prenderla in giro, mentre mi dirigevo verso il bagno. Sotto l'acqua bollente i miei cupi pensieri presero il sopravvento e, quando uscii, la vista del mio corpo nudo, con quelle cicatrici invisibili che pure io vedevo chiaramente, oltre a quelle visibili, mi lasciò boccheggiante. Davvero Sherlock amava questa cosa che ero? Davvero amava questa creatura spezzata e tremante, che nemmeno riusciva ad ammettere di avere dei sentimenti reali e positivi? Come poteva farsi questo? Barcollai fuori dal bagno a fatica, stretta nell'accappatoio e tremante di terrore, rifugiandomi in camera. Sentii la porta sbattere dietro di me e mi accorsi solo più tardi che il mio compagno mi aveva raggiunto e mi stava abbracciando, non curandosi dei miei capelli che gli bagnavano la camicia immacolata.
«Calmati. Respira.» ricordo che, nel buio improvviso che mi aveva circondato, riuscivo a percepire solo la sua voce. Non avevo tatto, né vista, né olfatto ad aiutarmi e il mio udito si limitava a riportarmi le sue parole. Mi ci aggrappai disperatamente, ma fu solo quando sentii una manina calda sulla guancia che i miei occhi ripresero a vedere. In quel momento sentii qualcosa. Un piccolo verso, emesso a labbra chiuse dalla bambina, una canzone.
«Sherlock» gracchiai, artigliandogli le mani strette intorno a me «Ascolta. Sta cantando.» Seguii la melodia con aspettativa, ma la piccola non disse una parola. «Hey Jude» allora cominciai, cercando di farle capire che anche io sapevo quella canzone, che volevo cantarla con lei. «Don't make it bad. Take a sad song-»
«And make it better.» una vocina flebile e spaventata, come quella di un uccellino.
«Quindi parli, mostriciattolo» le sorrise il mio compagno. «Come ti chiami?» Ma la bimba non rispose, continuando a canticchiare sottovoce le note della canzone. «Non vuoi parlare?» Piccola annuì. «Ma cantare va bene.» Un cenno di assenso. «Ti chiami Jude, vero?» continuò Sherlock, sorridendo vittorioso quando Piccola, ora Jude, fece un gran sorriso annuendo. Due mani pallide e dalle dita lunghe si strinsero intorno al suo corpicino e Sherlock la trascinò verso di noi. Le mie braccia si chiusero istintivamente intorno alla bambina che mi abbracciava, una mano sul suo capo e l'altra sulle reni. Per un istante mi dimenticai anche che Sherlock non era mio marito e che Jude non era mia figlia. Per un istante mi sentii una persona normale con una famiglia normale.

 

«Mycroft»
«Sherlock» Mentre i due fratelli si salutavano come due idioti (perché io voglio un gran bene anche a Mycroft, ma tra lui e Sherlock non so chi sia il peggiore a fingere di non tenere all'altro), si avvicinò mia sorella, zoppicando solo lievemente con le stampelle, residuo dell'incidente causatole da Marta.
«Solo un mese!» annunciò trionfante, sventolando una stampella per aria e abbracciandomi ridendo. Quando vide Jude, il suo sorriso sembrò cristallizzarsi. «E' lei il motivo per cui hai chiamato Myc stamattina?» domandò a Sherlock e, quando lui annuì, inarcò un sopracciglio con aria severa. «Una bambina non è un gioco.»
«Jude non è un gioco.» rispose il mio compagno, forse pensando che quella bambina avrebbe salvato il nostro rapporto. E solo ora che riconosco quello sguardo che aveva negli occhi chiari, quella muta preghiera di dargli una possibilità, di dare una possibilità a me stessa e alla nostra felicità. Ma allora il nostro rapporto era ancora una spada non completamente forgiata e io non seppi comprendere quella preghiera.
«Ti chiami Jude, allora» disse Francesca alla bambina, che rimase in silenzio.
«Parlale» le canticchiai «E' mia sorella, si chiama Francesca.» Jude allora affondò il viso nel mio collo, sussurrandomi che non voleva. E, in effetti, non cambiò idea finché Mycroft non portò a tavola la torta, un'enorme crostata di frutta, e gliene diede una fetta. Allora la bimba si sporse a dargli un minuscolo bacio sulla guancia, sussurrando un ringraziamento e imbarazzando in maniera comica l'Uomo di Ghiaccio.
Ma, quando guardai Sherlock, vidi che aveva gli occhi spenti.

 

 

 







Note dell'autrice: grazie come sempre a tutti voi che mi leggete, che mi avete messo tra i seguiti o tra i preferiti! La canzone citata all'inizio è "Shattered" dei Trading Yesterdays, mentre la citazione della morte di Clorinda è dalla Gerusalemme Liberata di Tasso. Infine, le cicatrici di cui parla Cecilia al parco con Giulia sono quelle causatele dalle corde metalliche di Enea (scusate, non ero sicura che si capisse), la canzone cantata da Jude è "Hey Jude" 
Grazie ancora!
xxx
Dan

 

 

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Capitolo 3
*** Tearing Apart ***



Nda: Salve gente! Perdonate il mio clamoroso ritardo, davvero, ma, oltre ad essere tornata da poco dalle vacanze (durante le quali non ho avuto la possibilità di accedere a internet) sto avendo qualche piccolo problema con uno dei prossimi capitoli. Perchè si, anche questa storia è quasi terminata (ne ho già altre tre in cantiere XD ). Per ora vi lascio alla lettura, ringraziandovi come sempre!
xxxxxxxx
-Dan


 

Capitolo 2

Tearing Apart.

Ovvero di urla, porte sbattute e fratelli.

 

And finding answers
Is forgetting all of the questions we called home
Passing the graves of the unknown.

As reason clouds my eyes, with splendor fading
Illusions of the sunlight
And a reflection of a lie, will keep me waiting
With love gone, for so long.

And this day's ending
Is the proof of time killing, all the faith I know
Knowing that faith is all I hold.

Passai tutta la notte a guardare Jude dormire serena, dimentica di quel mondo crudele che le aveva strappato il padre e la madre. Era così piccola e fragile nel sonno e quando stretta tra le mie braccia le sue ciglia avevano frullato un'ultima volta prima di chiudersi sugli occhi scuri avevo percepito una specie di stretta al cuore. Ma nella mia vigliaccheria preferivo pensare che fosse perché mi faceva quasi pena, quella bambina, piuttosto che ammettere quanto già la amassi e temessi che da un momento all'altro si facesse vivo un parente per portarla via con sé.
Allo stesso modo, cercavo di non pensare al dolore che leggevo benissimo negli occhi di Sherlock. Preferivo fingere di essere analfabeta e andare avanti con una vita che semplicemente ci logorava entrambi, sospesi tra parole non dette. Se non lo avessi fatto, avrei avuto solo due opzioni davanti a me: o dire di no, dirgli che non volevo sposarlo, dire un'ultima, grande bugia e poi andarmene, oppure accettare, rovinandogli la vita. Non sono mai stata una persona facile e dopo Jim, Francesca, Molly e Marta le cose non hanno fatto altro che peggiorare. So benissimo che non avrei rovinato affatto la sua vita, ma il mio cuore non voleva capirlo. Restava qualcosa, bloccato nel mio Mind Palace, un residuo di buio e di dolore che urlava e strepitava legato da catene di ferro che si agitavano e rimbombavano e quel qualcosa, che aveva il viso di Josh, il viso di chi mi aveva fatto comprendere davvero quanto sia pericoloso l'amore, rideva dicendomi che non ero abbastanza. Che non sarei mai stata abbastanza. E allora ci credevo, perché preferivo pensare di non andare bene per Sherlock, perché la vita mi aveva insegnato solo una cosa che già non sapessi grazie alla mia mente: non ti fidare mai della felicità. Preferivo passare la notte stringendo un piccolo corpo di bambina nel buio di una stanza, da sola con me stessa e il suo respiro e le migliaia di immagini che la mia mente raccoglieva per ogni istante in cui la guardavo, piuttosto che scendere al piano di sotto e affrontare il mio compagno.

Eppure, alla fine dovetti fare anche quello. Sorse l'alba sui tetti di Londra, mentre finalmente smetteva di piovere e io scesi al piano di sotto, rabbrividendo di freddo nella camicia da notte blu. Sherlock mi aspettava, come avevo immaginato, seduto sulla sua poltrona, una tazza di the in mano. Non aveva preparato il caffè, quel piccolo vizio che mi regalava ormai da mesi. Aveva scritto a lungo, lo notavo dalle due macchie d'inchiostro sull'anulare destro, e aveva parlato a Teschio, spostato rispetto alla sera prima. Non aveva dormito.
«Avresti dovuto dormire» lo rimproverai con voce fredda, mentre accendevo il fuoco sotto la caffettiera.
«Dove sei stata tutta la notte?» mi chiese, senza guardarmi.
«Ho guardato Jude dormire» ammisi, sedendomi di fronte a lui. I suoi occhi non si staccarono dalla finestra e questo mi fece capire quanto male andassero le cose. Sherlock mi guardava sempre, anche quando litigavamo e proprio ora sceglieva di nascondersi da me. Allora non lo sapevo il perché, ma lo avrei scoperto presto.
«Stanotte sono andato al Bart's. Giulia mi ha detto di darti degli esami.» continuò, indicando una busta sul tavolino.
«Grazie.»
«Perchè?» domandò ad un certo punto, incrinando quel silenzio sottile caduto su di noi.
«Perchè mi sentivo strana» dissi, tentando di fingere di non capire la domanda. Fu quella, credo, la goccia che fece traboccare il vaso. Sherlock scattò in piedi, voltandosi a guardarmi di nuovo, gli occhi accesi di furia.
«Smettila! Cazzo, Cecilia, adesso basta!» urlò, imprecando. Sherlock, sempre così controllato, quasi da star male, che imprecava. «Ti prego. Se non lo vuoi, dimmelo, ma dammi una risposta! Non posso andare avanti così! È perché non ti ho mai detto che ti amo? È per quello?» domandò, senza chiedermelo davvero «Ti ho dimostrato meglio che potevo quanto ti amassi e tu lo sai! Non riesco a parlare, eppure ho sempre fatto in modo che tu lo sapessi! Hai davvero bisogno di stupide parole gettate al vento, parole inutili che morirebbero ancor prima di raggiungere la tua mente? Bene, allora te lo dico adesso: io ti amo. Ti amo, e vorrei che non fosse così.» sospirò sconsolato, alzandomi di nuovo addosso i suoi occhi, quegli occhi che mi aveva tenuto nascosti, perché nell'istante in cui me li aveva mostrati si era scoperto. I suoi occhi, che da troppo tempo guardavo solo superficialmente, perché lui era Sherlock e io lo conoscevo così bene, oh quegli occhi mostravano apertamente tutto il loro amore, il loro sconsiderato, malsano e probabilmente folle amore che lo aveva addirittura spinto a farmi affidare una bambina, solo perché aveva capito che lo desideravo. Non mi diede nemmeno il tempo di razionalizzare la caterva di emozioni che mi aveva scaricato addosso, che la porta si richiuse con un orribile suono che sembrava definitivo dietro di lui, fuggito chissà dove.

Rimasi seduta lì, con il cuore che faceva male, da tanto forte batteva nel petto, le lacrime che mi incendiavano gli occhi e il respiro che mi si accartocciava nel petto. Ma restai immobile e aspettai che il sole fosse completamente sorto, prima di alzarmi ed entrare in quella che un tempo era stata la mia camera, dove Jude aveva dormito. I suoi occhi, già vispi e attenti, scrutarono il mio viso e aprì le braccia paffutelle, in cerca di un abbraccio, mentre le lacrime riempivano il suo e il mio campo visivo. La afferrai, stringendomela forte addosso, il suo cuoricino che batteva impazzito contro le costole mentre piangeva, conscia infine che quella era la realtà e che la sua mamma non sarebbe mai tornata. I singhiozzi sconquassavano il suo piccolo corpo e lei si aggrappò a me, che finalmente lasciai andare le lacrime che avevo trattenuto. Stette accoccolata su di me a lungo, di nuovo bambina e non la piccola, forte adulta che sembrava il giorno prima. Non ricevetti notizie da Sherlock, se non per un brevissimo messaggio.

Prenditi cura di entrambe. SH

 

Uscii di casa con una sensazione, che avevo imparato a riconoscere in tanti mesi, opprimente dentro al petto. Forse ero stato troppo diretto, ma da quando lei era entrata nella mia vita, scavandosi a fatica e a forza uno spazio dentro di me, qualcosa era cambiato. E non potevo più aspettare.
Decisi di andarmene, mi sembrava la soluzione migliore. Avrei avuto più tempo per dedicarmi al caso, così Jude sarebbe di nuovo stata libera di essere sballottata da una casa famiglia all'altra e io e Cecilia avremmo finalmente risolto la questione, in un modo o nell'altro. Andai a rifugiarmi in uno dei pochi posti dove ero certo di poter lavorare indisturbato, il Bart's, e mi rimisi a pensare al caso. C'era qualcosa che doveva essermi sfuggito. Qualcosa a cui non avevo prestato abbastanza attenzione. Rimasi a fissare la finestra e il mio pensiero tornò a Cecilia e a Jude, a casa. Jude... Jude, che preferiva quando a toccarla era Cecilia. Jude, che da me non si lasciava abbracciare. Jude, che aveva parlato per prima con Cecilia. Per Cecilia.
Jude sapeva che l'uomo che chiamava padre non lo era davvero. Qualcuno glielo doveva aver detto, probabilmente lui stesso in un momento di rabbia, e lei si era rifugiata nell'unica certezza che ancora aveva: la madre. Una volta toltale anche quella, era arrivata Cecilia, nonostante la reazione più naturale, ammesso che sapesse chi fosse il padre naturale, sarebbe stata quella di reagire solo alla sua presenza.
A meno che non fosse il padre l'assassino.

 

Erano da poco passato mezzogiorno, quando suonò il campanello. Alla porta c'era proprio chi pensavo: James. Mio fratello. Gli sorrisi, con uno di quei sorrisi che riservo solo a lui, nel quale so che si mescolano in ugual misura affetto, rabbia, accettazione e perdono. Sorrise in risposta, chiedendomi come sempre scusa con quel suo sorriso triste e accettò l'offerta di sedersi con me e prendere un the. Era da tempo che sapevo che aveva anche lui, come Mycroft, piazzato delle spie intorno a me, non per attaccarmi, ma per difendermi. Ne ero consapevole e la cosa non mi faceva né caldo né freddo, come le mie cicatrici. Avevo già perdonato James, senza che cercasse ancora il mio perdono con queste stupide dimostrazioni di affetto e senza che mi regalasse informazioni che avrei potuto usare contro di lui. Si sedette con la solita delicatezza quasi femminea e incurvò un angolo della bocca verso l'alto, sentendo il rumore dei passetti di Jude scendere dalle scale e fermarsi davanti alla porta.
«Jude» la chiamai con voce dolce «Vieni qui.» la bambina si fece avanti intimorita da mio fratello, che la guardava con uno sguardo che avevo visto solo un'altra volta nella mia vita. Era divertito.
Jude si aggrappò alle mie gambe e ci si sedette sopra, posando la testa sulla mia clavicola.
«Perchè sei qui, James?» gli domandai. Non era ancora passato un mese dall'ultima volta che ci eravamo visti.
«Vi voglio aiutare. L'uomo che state cercando è venuto a chiedermi aiuto. Gliel'ho negato. Non toglierei mai una madre ad una figlia.» Annuii, sentendo la mano di Jude posarsi fresca nella mia.
«Perchè ci stai aiutando? Perché vuoi che io ti perdoni? L'ho già fatto, James.»
«Lo so» ammiccò «Penso di essere stato per troppo tempo il tuo demone. Forse è ora che diventi il tuo angelo custode. Certo, questo non vuol dire che ho rinunciato alla mia attività, né che sono diventato un uomo onesto. Ma tu sei mia sorella.» continuò, mentre lo vedevo analizzare le mie occhiaie e gli occhi lucidi di pianto. «Avete litigato, vero, piccioncini?» Non gli risposi, guardando fuori dalla finestra.
«Stai con uno nuovo. Hai già dimenticato Josh?» ribattei.
«Non ho mai voluto Josh, lo sai. Era una delle mie pedine» rispose senza scomporsi «Si chiama Sebastian. È un cecchino. Stavamo insieme da prima di Josh.» continuò, regalandomi preziosissime informazioni. Annuii, facendogli capire di aver compreso la portata del suo gesto, e sorrisi.
«Spero che tu sia felice.»
«Io lo sono. Tu no.»
Tornai a guardare fuori dalla finestra. «Sherlock se n'è andato.»
Non rispose, continuando a sorseggiare il suo the. Poco dopo sentii un paio di labbra fredde sulla mia guancia. Mio fratello se n'era andato.

 

«Sheeeeerlock» sentii la sua voce ben dopo i suoi passi. Moriarty era di fronte a me, appoggiato al bancone. «Perchè sei scappato? Mia sorella ha bisogno di te.»
«Stamane non mi è parso così»
«Stupido idiota» rise «E' ovvio che non te lo mostrerà mai. L'ho ferita troppo perché lo possa fare. Ho intenzione di aiutarti, così risolverai in fretta questa cosa e tornerai da lei come hai sempre fatto.»
«Non ho bisogno del tuo aiuto.»
I suoi occhi scintillarono gelidamente. «Non lo sto di certo facendo per te. E ricorda a mia sorella di aprire le analisi che le ha mandato Giulia.»
Mossi la mano con un gesto distratto, sentendo un rumore di fogli. Quando rialzai lo sguardo dal miscroscopio, sul tavolo c'erano degli esami del sangue. Ma guardando meglio, mi accorsi che era un test di paternità.

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Capitolo 4
*** Crashing Down ***


Nda: Hey! Ultimo capitolo in assoluto prima dell'epilogo. Siete pronti? 
Buona lettura!
xxx
-Dan

 

Capitolo 3

Crashing Down.

 

And I've lost who I am, and I can't understand

Why my heart is so broken, rejecting your love,

without, love gone wrong, lifeless words carry on.

But I know, all I know, is that the end's beginning.

Who I am from the start, take me home to my heart.

Let me go and I will run, I will not be silent.

All this time spent in vain, wasted years, wasted gain.

 

 

Vorrei potervi dire che la mattina seguente mi svegliai nel letto con Sherlock che mi fissava dalla poltrona come suo solito, ma mentirei. Nuovi incubi mi avevano tormentato nella notte, ghiaccio che copriva il terreno e io avevo una pistola in mano e Sherlock davanti. Sparai, nel mio sogno. Sparai e sentii il rinculo del metallo bollente nella mia mano e poi lui stava cadendo verso terra, un fiore purpureo che si allargava sulla camicia bianca.
Vorrei potervi dire che non vidi alcun riferimento a ciò che gli avevo fatto.
Vorrei potervi dire che mi svegliai e andai a cercarlo.
Ma questa è la realtà e io mi svegliai sola, in un letto vuoto, con gli occhi gonfi e la testa pulsante. Cercai di chiamare Sherlock, sentendo un peso crescermi nel petto e schiacciare i polmoni, ma mi ricordai che se n'era andato. Sentivo che il respiro mi si mozzava prima che io potessi sfruttare quel poco di ossigeno che ottenevo e gli occhi mi si oscurarono.
Jude.
Dovevo pensare a Jude. Dovevo proteggerla.
Afferrai il cellulare e feci partire la chiamata al mio numero d'emergenza. Poi scivolai nel buio e nel freddo.

Ricordo di aver vagato per quelle che mi parvero ore nel mio Mind Palace buio e silenzioso. Persino la scalinata di marmo bianco pareva essere divenuta di un grigio spento. Sentivo la voce del ricordo di Josh che urlava e rideva in lontananza, dicendomi che finalmente avevo fatto qualcosa di giusto. Finalmente me ne stavo andando, stavo morendo. Eppure, la mia lucidità restava e sapevo che era falso. Non stavo morendo. Stavo male, certo, ma non stavo morendo. E soprattutto, lui stava venendo a salvarmi come aveva promesso di fare. Ricordo, in quel buio denso come fumo, di aver attraversato molte stanze: quelle dei miei ricordi, di tutto ciò che tentavo e tento sempre di rinchiudere con molteplici serrature.
La prima stanza era una camera da letto da bambina, con le pareti color cielo e le tende verde acido che svolazzavano nella brezza notturna. C'erano due letti, vicini, in cui dormivamo io e Francesca. Ricordo di aver visto Marta entrare e dare il bacio della buonanotte solo a mia sorella, ignorandomi completamente. E poi Francesca si alzò dal letto e mi rimboccò le coperte, prima di darmi un delicato bacio sulla fronte.
Il mio cuore mancò un battito, entrando nella seconda stanza, dove vidi una me appena adolescente gettarsi dal London Bridge e pregare chiedendo a un Dio a cui non credeva di non portarle via sua sorella. Ricordo le mie urla, quando scoprii che una volta in più Dio non mi aveva ascoltata. Fu in quel momento che smisi di credere ai miracoli.
Ricordo un pavimento troppo freddo e un fuoco troppo caldo, pochi anni dopo, a casa di James, e la stoffa verde dell'abito che mettevo per compiacerlo e le mie canzoni piene di dolore e la sua carne nella bocca e il suo odore e le mie preghiere urlate di notte ad un cielo muto, non più a Dio, ma a mia sorella. Nemmeno lei mi rispose mai.
Dopo quella stanza dovetti fermarmi e riprendere fiato, ferma nel corridoio silenzioso. La carta da parati color crema accolse le mie spalle stanche, quando mi sedetti. Mi nascosi il volto tra le mani, senza piangere, respirando profondamente. Sapevo che cosa mi sarebbe toccato affrontare ora e non ne avevo la forza. Non potevo, non ci riuscivo. Ma dovevo farlo, dovevo trovare la strada per uscire dai ricordi e riaccendere le luci. Dovevo.
Ripresi fiato e mi rialzai. Aprii la porta della stanza successiva con mano tremante, lo devo ammettere, e quello che vidi mi fece scappare un minuscolo gemito di dolore. C'era la me di due anni fa, ritta in piedi come una statua di ghiaccio che sorrideva a Sherlock, nel nostro primo incontro. Rivissi ogni singolo momento, ogni singola parola, ogni singolo tocco delle sue mani su di me quando mi abbracciò, per provare il mio terrore del contatto fisico. E alla fine crollai, crollò la me del presente tra le braccia del ricordo di uno Sherlock felice e soddisfatto di una vita che non gli avevo ancora rovinato. Ricordo di avergli chiesto perdono per la prima volta nella mia vita.

Mi salvarono un paio di braccia forti e lievemente abbronzate, quelle di un soldato, che sollevarono il mio corpo troppo stanco e troppo pesante. Aprii gli occhi, incontrandone un paio del colore del mare, più scuri sia di quelli di Sherlock, che di John o Giulia. Chiamai Jude e l'uomo con i capelli biondi mi rispose di stare tranquilla, che la avrebbe portata da Giulia. Sentii il pavimento scricchiolare mentre attraversava il soggiorno per scendere e mi lasciai sfuggire in una domanda sussurrata anche il nome di Sherlock. Mi disse che James lo avrebbe avvisato.
«Come ti chiami?» rantolai con la gola secca, aggrappandomi alla sua giacca di pelle nera. Odorava di whisky e fumo, ma non gli stava male, come odore.
Abbronzatura su mani e viso, ma non sui polsi e sotto il girocollo della maglietta.
Postura rigida.
Muscolatura allenata.
Militare. Ex militare. Colonnello.
Vestito interamente di nero.
Due coltelli da caccia nella giacca.
Uno contro la caviglia.
Pistola.
Un cecchino mandato a fare il lavoro di qualcun'altro. Un uomo di cui James si fida.
Occhi azzurri.
Capelli biondi.
Gentile.
Servizievole.
Il nuovo compagno di James.

Sebastian.

Quando ripresi conoscenza ero in una camera estranea. La luce entrava da una finestra alla mia destra, da dietro pesanti tende color crema aperte su un piccolo balcone. Il mobilio era semplice, sobrio, elegante: un armadio, un letto e una piccola toeletta con accessori da uomo. Le lenzuola che mi coprivano erano del colore degli occhi del compagno di James, Sebastian. Probabilmente, il suo uomo migliore.
«Io te l'avevo detto, di stare attenta. E magari avresti dovuto leggere il referto che ti ha mandato Giulia, avresti evitato di sottoporti a stress inutile.» esordì la voce morbida di James, distogliendomi dalle mie considerazione. Da quando la sua voce sapeva assumere quella tonalità associabile solamente ad una tazza di cioccolata calda in inverno? Era calda, sicura, lievemente speziata di rimprovero e preoccupazione, ma mi avvolgeva stretta, facendomi sentire protetta.
Voltai il capo, cogliendo subito la sua figura longilinea seduta scompostamente su una poltrona di cuoio chiaro, il capo appoggiato alla punta delle dita della mano sinistra. Sorrisi quando sorrise. Se James era allegro, allora o era morto qualcuno o non mi era accaduto nulla di grave. «Dove sono?»
«In camera mia. Non ci eri mai entrata, a differenza di altre stanze in questa casa, e ho preferito farti la cortesia di non farti portare nella tua vecchia camera da letto. Comunque ormai sono mesi che dormo nella camera degli ospiti con Sebastian.» annuii, troppo stanca per farmi prendere dal dolore dei ricordi e di Molly. Lo ringraziai con un cenno stanco del capo, prima di domandargli dove si trovasse Jude. «Sebastian l'ha portata da Giulia. Sta bene, non ti preoccupare.»
«Sherlock?» in quel momento i suoi occhi si scurirono, in un'espressione di rabbia, disprezzo o impotenza, non saprei dire, anche se propendo molto più per quest'ultima opzione.
«Ho provato a chiamarlo. Tre volte. Mi ha risposto con un messaggio.» rispose, lanciandomi il cellulare.
«Tutto normale» commentai, leggendo. Quando si sveglierà chiamami. Sarebbe stupido dover venire ora e abbandonare il caso. Sto portando a Lestrade le prove che è stato Robbins. SH. «Quindi è stato il direttore dell'albergo.»
«Il padre della bambina. Voleva averla solo per sè, visto che Clorinda, in seguito a varie minacce, gli aveva impedito di vederla.» confermò James, storcendo lievemente la bocca prima di continuare «Ti ha lasciata sola.»
«Stavo bene, James, ero con te. Ha ragione Sherlock, sarebbe stato stupido doversi fermare solo perché io sono stata poco bene. A meno che io non stia morendo, va bene così.» lo vidi incurvare lievemente le spalle, ancora più incupito. «Sto morendo, James?» non mi rispose. «James Moriarty, ho il diritto di saperlo.»
«Se volevi così tanto la verità, avresti potuto leggere i referti che ti ha portato Giulia» commentò laconico, mentre la porta si apriva con un delicato fruscio, lasciando entrare Sebastian. «Sebastian» lo chiamò immediatamente mio fratello «Faresti vedere le rose in giardino a Cecilia?»

***

Il sole mi accarezzava le braccia nude, mentre osservavo i fiori. Belle, opulente nel colore e nell'abbondanza di petali setosi come la carezza di un amante, le rose splendevano, rosse e bianche davanti ai miei occhi. Ho sempre trovato volgari le rose, con quella loro breve bellezza che appassisce nel giro di qualche giorno, meravigliose allo sboccio e via via sempre meno fiere, sempre meno regine, la loro freschezza soggetta come ogni cosa umana e terrena allo scorrere inevitabile del tempo.
In generale, io non amo i fiori: mi ricordano fin troppo spesso che la vita non è che un breve passaggio su un mondo fin troppo vecchio, fin troppo stanco, che non si ricorderà dei grandi della storia così come delle persone comuni, perché anche la memoria è umana e ciò che è umano svanisce. Non amo i fiori, perché sono fragili, delicate strutture di fibre strette, pressate insieme, che possono essere distrutte con una mano, addirittura con un dito, che rovina il lavoro di giorni e mesi effettuato dalla natura. Non amo i fiori quasi per ripicca, perché mia madre li amava, quindi mi volsi a guardare il compagno di James, impegnato a prendersi cura del roseto florido. Devo dire che Sebastian è un bell'uomo, di quella bellezza data dalla sicurezza che fa girare le donne per strada e che gli uomini invidiano. Sebastian era a suo agio nella sua pelle, nel suo corpo, e questo traspariva da ogni suo più piccolo gesto: il suo corpo era il suo strumento di lavoro e lui se ne prendeva cura con attenzione. Aveva i capelli corti e biondi, più scuri di quelli John, e occhi blu che avrebbero incantato parecchie persone, e probabilmente me stessa, se solo nella mia mente non apparissero troppo volgari rispetto al paio ghiaccio che dominava il mio cuore. Un fisico muscoloso, adatto ad un uomo che uccide per vivere. Adatto al compagno di James. Mio fratello è fatto così: ama comandare la situazione come ama avere accanto Sebastian, che con una mano probabilmente riuscirebbe ad ucciderlo. Gli piace vivere di contraddizioni.

«Sono belle, vero?» mi domandò, spezzando il nostro silenzio e sorridendomi ancora. Mi era piaciuto da subito il suo sorriso: Seb non è un uomo che sorride viscidamente o per scherno, i suoi sono sempre gesti sinceri e attenti, che ho notato essere concessi solo a me, James e Jude. È una cosa che ho sempre apprezzato, così come il fatto che so che sarebbe pronto a uccidersi per rendere felice James. In aggiunta, ha un carattere altamente sarcastico e cinico sul lavoro (ci siamo incrociati per caso qualche giorno fa, ognuno sulle tracce di un altro uomo) che muta quasi radicalmente con le persone di cui si fida.
«Bellissime» lo elogiai, comprendendo che solo lui se ne prendeva cura.
«Mia nonna diceva sempre che ogni cosa ha un prezzo. Lei, perché le sue rose fossero così belle, ogni mattina lasciava cadere due gocce del suo sangue sulle foglie della sua rosa preferita.» aggiunse, prendendo un piccolo coltello dalla tasca dei pantaloni «Non è che creda che il sangue le renda belle, ma mia nonna aveva ragione: ogni cosa ha un prezzo.» terminò, incidendosi un minuscolo taglietto sul polpastrello del pollice sinistro e lasciando cadere qualche goccia di sangue nella terra umida e fertile.
Quando si rivolse di nuovo verso di me gli tesi la mano e lui, senza farmi domande, mi porse il coltello. Avrei potuto sgozzarlo in cinque secondi. Sei, visto il mio precedente malore. Lasciai che il metallo scorresse sul palmo della mano, tracciando un'aggraziata linea di porpora sulla carne chiara. Bruciò e il dolore corse attraverso ogni mia terminazione nervosa, ma, come ogni dolore che ho imparato a prevedere, lo seppi celare. Strinsi il pugno e lasciai il sangue colare, gocce purpuree che si allargavano sul petalo di una rosa prima di frantumarsi a terra e bagnare la pianta.
Irragionevolmente, chiesi una cosa alle rose: io avevo donato loro il mio sangue, loro mi avrebbero regalato la felicità con Sherlock.

Venti minuti dopo, Sherlock mi raggiunse nel giardino in cui ero rimasta ferma ad osservare la pianta e le sue spine e non fece domande, vedendo il mio palmo fasciato da una garza leggera.
Salimmo in taxi, sempre senza dirci una parola. Leggevo nei suoi occhi ancora il dolore bruciante, ma ora era mescolato all'adrenalina del caso. Dovevamo solo trovare Robbins, poi avremmo concluso. Era questione di ore, ormai.
La suoneria del mio cellulare interruppe il silenzio. Era John. Robbins era andato a casa loro per riprendersi quella figlia per la quale aveva ucciso. Era entrato, mentre Guinevre dormiva nel salotto. Aveva salito le scale della villetta, attraversando il corridoio celeste con le foto preferite di Giulia. Era entrato nella camera da letto di Guinevre, dove la mia amica stava consolando una Jude in lacrime.
E le aveva sparato.

Dicono che il dolore ci renda più confusi.
Io ricordo perfettamente ogni singolo istante di quella dannata corsa all'ospedale, Sherlock che chiama Lestrade e mi dice che lo prenderanno, non lo ascolto, corro, devo solo raggiungerla. Non può morire così, non Giulia. Non adesso. John non può crescere Guinevre da solo. Io non posso crescere da sola. Corsi, corsi attraverso le corsie, attraverso i pazienti, i morti, i morenti, coloro che avevano desideri illusori e speranze irreali di una guarigione che non sarebbe mai arrivata e pregavo le rose di poter cambiare desiderio, di poter dare il mio sangue al posto di quello di Giulia.
Di poter dare la mia vita al posto della sua.
Non valeva la pena, la mia felicità con Sherlock, se per averla dovevo rinunciare a lei.
E ora so che questi non sono pensieri razionali, che non aveva senso, che non era colpa né merito delle rose né del mio desiderio. Ma niente sembrava avere importanza in quei lunghi minuti in cui raggiungevo John, che in braccio teneva sua figlia, quella figlia con gli occhi di Giulia, che mi guardava terrorizzata. Aveva importanza solo Guinevre e Giulia e John e pensavo a Jude e a Sherlock e mi chiedevo cosa avrei mai fatto, se la mia bambina fosse rimasta con Sherlock.
Se ci fosse stato lui in quella sala operatoria, con un proiettile in corpo, e io fossi rimasta lì con Jude stretta tra le braccia. Sentii John pregare in quel Dio in cui credeva solo a metà, ma in cui Giulia credeva ciecamente, e rivolgergli prima preghiere e poi imprecazioni e poi promesse e richieste. Guinevre, appollaiata ora in braccio a me, piangeva silenziosamente, attendendo che la mamma stesse bene, che le dicessimo che era solo uno scherzo.
Avrei voluto poterglielo dire.

Ma anche l'attesa più lunga, prima o poi, finisce.
E ci ritroviamo a dover affrontare la realtà. A doverci guardare intorno, dopo l'urgano che ci è piombato addosso, e a quantificare i danni e a raccogliere le macerie e gettare via ciò che non può essere riparato.
E mi ritrovai sola, nella sala d'aspetto, un medico che ci raggiungeva e «Come sta?» e il «Mi dispiace, solo i parenti.». Rimasi sola, nella luce pallida e nel bianco, a sospirare di sollievo. Non potevo vederla, ma era viva. Era ancora con me, con sua figlia e con suo marito. Ogni cosa aveva un prezzo, ma evidentemente la vita aveva deciso che Giulia era un prezzo troppo alto.
Il pensiero di Sherlock tornò prepotente, mentre lui mi abbracciava, dopo, a casa finalmente, le condizioni di Giulia stabili. Come avrei fatto, se ci fosse stato lui al posto della mia amica? Non avevamo alcun legame di parentela, non avrei nemmeno potuto sapere se era vivo o morto. Non sarei potuta entrare nella sua stanza e prendergli la mano e chiedergli scusa perché ero una stupida ingenua che aveva creduto di poter rimandare per sempre.
Misi a letto Jude, rimboccandole le coperte.
«Mi dispiace» canticchiò.
«Non ti dispiacere, tesoro. Non è colpa tua. È tutto finito, ora» le risposi, cantando anche io.
«Posso restare qui per sempre? Con te e Sherlock?» chiese sgranando gli occhi scuri e stringendomi la manica della camicia. Sospirai. Le cose non erano semplici, ci sarebbero potuti volere mesi o addirittura anni e forse Jude non sarebbe comunque stata affidata a noi. Glielo spiegai, e le promisi che avrei fatto il possibile perché potesse rimanere. Se fosse servito, se servisse ancora, chiederei a Mycroft tutti i favori di questo universo, pur di far sì che mia figlia sia felice.
«Ti voglio bene, Jude» le sussurrai, dandole un bacio «Buonanotte, stellina.»
Lei, con gli occhi mezzi chiusi dal sonno, rispose «Buonanotte», ma non fu quello a farmi sorridere meravigliata.
Fu che aveva smesso di cantare.

Tornai al piano inferiore, dove mi attendeva il mio compagno. Gli presi la mano, senza parlare, nell'altra la busta che avrei dovuto leggere molto tempo prima, e andammo in camera. Fece per slacciarsi i bottoni della camicia, ma le mie mani furono più veloci. Lo svestii con delicatezza, assaporando ogni brivido della sua pelle sotto la mia, e lui fece lo stesso. Mi baciò con una delicatezza che non aveva mai avuto, nemmeno la prima volta. Sembrava un addio, quel bacio, ma le mie labbra inseguirono le sue e le trovarono ancora e ancora e ancora e poi lui era contro di me, sopra di me, nucleo pulsante di ogni mia cellula.
Mi riscoprii a piangere, alla fine, e le sue mani bianche, corrose dagli acidi in macchioline ancora più pallide, mi asciugarono il volto, mentre si stendeva al mio fianco, fronte contro fronte.
«Va tutto bene» mi disse «Qualsiasi cosa tu mi voglia dire, dimmelo.»
«So qual'è la mia risposta, Sherlock. Ma quella busta potrebbe dirmi qualsiasi cosa, che sto morendo, che morirò presto, che magari non ho speranze e io non voglio che tu -»
«Prima dimmi la tua risposta, poi aprirò io la busta. Così sarai tranquilla: io non cambio idea. Voglio che tu sia al mio fianco per tutti i giorni che ci restano da vivere.»
Mi sporsi nel buio e misi una mano sul suo cuore, quel cuore che batteva ancora dopo che così tanti avevano cercato di farlo smettere, e lui sfiorò le cicatrici della mia spalla, attirandomi vicina a sé. Aveva un buon odore, la sua pelle, di sapone e schiuma da barba e agenti chimici e sigaretta e cenere e un tocco d'arancia. Era Sherlock.

«William Sherlock Scott Holmes» pronunciai il suo nome con dolcezza e lo sentii istantaneamente rilassarsi. Aveva capito, ma io dovevo andare avanti. «Ho soppesato a lungo la questione che portasti alla mia attenzione un anno fa, e ne ho considerato i pro e i contro. Sai che non sono una persona che si dilunga in discorsi smielati sull'amore e la vita e cazzate varie.» Rise nel buio, e il suo petto riverberò quella risata in una bassa vibrazione che mi fece sentire amata e felice e stupida allo stesso tempo «William» lo chiamai ancora, con il nome che usavo solo per le cose importanti «io ti amo. Ti amo e voglio sposarti.» il bacio che mi diede fu forte, irruento, un cozzare di labbra più che un bacio vero e proprio, che espresse la sua gioia e il suo sollievo e il morso che ne seguì fu il rimprovero per tutto quel tempo speso inutilmente.
«Tocca alla busta» mi avvertì, prendendola dal comodino e aprendola. Sedette sul letto, l'abat-jour accesa alle sue spalle a dargli quasi un'aureola intorno ai ricci corvini. Lo osservai leggere, serissimo. Non sorrideva. Non diceva nulla.
«Mi stai facendo paura» lo avvertii «E' davvero così grave?»
«Abbastanza» disse, posando il foglio nuovamente sul comodino e guardandomi con gli occhi che improvvisamente divennero lucidi.
«Che cos'ho, Sherlock?» gli chiesi con fermezza, terrorizzata e determinata ad andare avanti. Si poteva guarire praticamente da tutto, sarei guarita, sarei-
Scoppiò a ridere, abbracciandomi e crollando di nuovo con me sul letto, tra le lenzuola sfatte e la mia confusione e i fogli nel mio Mind Palace che volavano.
«Sei incinta, signora Holmes. Sei incinta!»

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Capitolo 5
*** Epilogo - I Chose You ***


Note dall'autrice:
Ebbene, fanciulle (e fanciulli, nel caso ce ne fossero) questa è proprio la fine di una storia che mi è costata ormai tre anni di fatiche, ripensamenti, indecisioni e infine soddisfazione una volta iniziato a pubblicarla. Mi avete reso con le vostre recensioni una persona, un'autrice felice, e sono fiera ed orgogliosa di avervi avuto come pubblico. Questa è la mia ultima nota come autrice qui, ma per chi di voi volesse ancora passare un po' di tempo a sognare avventure bizzarre, sappiate che ho iniziato un nuovo progetto, che spero di terminare al più presto.
La mia scelta di mettere le note a inizio capitolo non è casuale: le ultime parole di Cecilia che leggerete, il suo ultimo messaggio per voi, non è solo suo, ma anche mio. Perchè lei è cresciuta con me in questi anni, incominciando da una vocina che mi chiedeva di darle un volto e una storia e trasfomandosi nella me che a volte vorrei esistesse e che a volte vorrei solo cancellare. Io e lei siamo affini, ma non la stessa persona: non ci sono capitate le stesse situazione (per mia fortuna e sfortuna assieme) e non abbiamo reagito nello stesso modo a ciò che ci è stato fatto, ma abbiamo entrambe imparato che non è vero che non c'è speranza. C'è sempre speranza, per ciascuno di noi, per ogni giocattolo rotto e cristallo spezzato, c'è sempre la speranza di risalire, di rialzarci, di riprendere il controllo della nostra vita. Di lasciare che l'amore ci attraversi e ci lasci splendere come stelle.
Sono troppe le parole che vorrei dire, e non abbastanza il tempo e lo spazio.
Vi ringrazio ancora tutti e tutte voi che mi avete letta, accolta, amata od odiata, che mi avete consigliata nei momenti di stallo e mi avete spinta a non mollare.
Grazie.


 

Epilogo

I Chose You.

 

All is lost, hope remains, and this war's not over
There's a light, there's the sun, taking all shattered ones
To the place we belong, and this love will conquer all

Yesterday I died, tomorrow's bleeding
Fall into your sunlight.

 

Tre mesi dopo, ovvero il presente.
Ed eccoci alla fine. Questa è l'ultima volta che prendo in mano il laptop e scrivo di noi, di me e Sherlock e Jude.
Non solo io aspetto un bambino: tra due mesi mia sorella darà alla luce tre gemelli, tre maschietti, lo abbiamo scoperto qualche mese fa. È strano vedere Sherlock entusiasta per qualcosa che non sia un omicidio, in senso positivo, naturalmente. E ora scrivo, seppure contro il volere di Sherlock, di mio marito, che vorrebbe solo andare a letto, dopo la giornata più stancante della nostra vita.
Ci siamo sposati stamane.
Seriamente, speravo di poter evitare l'abito bianco e la chiesa e la messa e il pranzo e i balli che durano fino a tarda sera, ma Giulia aveva previsto la mia risposta e mi aveva praticamente già organizzato il tutto. Non mi sono potuta opporre al suo sorriso quando, dal letto in cui la tenevano in osservazione, me lo ha annunciato sorridente.
Ho chiesto a Giulia di essere la mia testimone e John è stato quello di Sherlock. C'erano fiori d'arancio e mughetti e nontiscordardimè a decorare la chiesa di cascate colorate d'azzurro e bianco. Il mio abito era a collo alto, di pizzo, una gonna che si apriva lievemente e una fila di bottoncini di madreperla che Sherlock maledirà innumerevoli volte nei prossimi minuti.

Ma le parole che posso usare non saranno mai adatte a descrivere tutto il resto: il sole, l'odore di zucchero e fiori, la musica, Jude e Guinevre coi fiori nei capelli, Giulia e John sorridenti. E Dio, Sherlock.
C'era una luce così pura, mentre mi avvicinavo a lui, che avrei voluto mettermi a piangere per la pura bellezza di ciò che stavo, che stavamo per fare. In bianco e nero, il mio compagno mi guardava con l'ombra di un sorriso accennato all'angolo della bocca, di nuovo il protagonista di un film muto come mi era apparso la prima volta, e quegli occhi! Quegli occhi erano la cosa più simile al Paradiso che io possa immaginare. C'era dentro tutto, per una volta leggibile come un libro aperto, spalancato al mondo, armato della convinzione che ci saremmo stati l'uno per l'altra ad affrontare insieme la vita. E ha pronunciato le sue promesse con voce sicura, quello stesso Sherlock che ha faticato a dirmi che mi ama, ha detto cose bellissime con voce salda. «Io, William Sherlock Scott Holmes, accolgo te Cecilia Rosenthal, come mia sposa. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.»
E se non ci fossero state altre persone in quella chiesa, sarei anche potuta saltargli al collo e baciarlo in quel momento. Ma, per una volta, ho scelto di non traumatizzare nessuno, e mentre mi metteva la fede, ho deciso di dire ciò che dovevo e che in quel momento mi sembravano le parole più adatte. «Io, Cecilia Rosenthal, accolgo te William Sherlock Scott Holmes, come mio sposo. Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.» e la mia voce è tremata lo ammetto, e Sherlock non ha nemmeno aspettato che il prete gli desse il permesso di baciarmi: lo ha fatto e basta, attirandomi a sé in uno slancio di gioia. È fatta, ho pensato, non si libererà più di me.

Non avevo mai creduto al matrimonio, ma forse sbagliavo solo a guardarlo: non è solo la promessa di essere sempre fedeli e leali. È la promessa di non essere più soli, in questa vita e se, mai ce ne dovesse essere un'altra, anche in quella. È la promessa di essere sempre presenti per l'altro, in qualsiasi situazione la Ruota della vita ci venga a far trovare. È la promessa di aspettarsi sulla riva del fiume, al di là della vita, per affrontare insieme anche ciò che ci sarà dopo. È la promessa di condividere le prime parole di Jude e il primo calcio di questa Cosina che cresce dentro di me e che a malapena fa vedere la sua curva attraverso il mio ventre. È la promessa di affrontare insieme ogni criminale e assassino e trovare un modo per non annoiarsi insieme. È la promessa di svegliarmi la notte se Sherlock non c'è ed è in sala che suona, pensieroso e con la porta chiusa per non disturbare Jude. È la promessa di svegliarmi al suo fianco ogni mattina e di addormentarmici ogni sera. È la promessa di donargli tutto l'amore che il mio cuore riesce a dare, e anche quello che non riesce.

Io amo Sherlock e so che lui ama me. Di uno di quegli amori malsani, bizzarri, probabilmente pericolosi, ma veri e limpidi come una lastra di cristallo. E quello che voglio dirvi è che non dovete mai smettere di lottare. Di amare, di piangere, di urlare fino a farvi scoppiare i polmoni. Non smettete di vivere, non smettete di pensare che ci sia qualcosa per cui vale la pena andare avanti, giorno dopo giorno, stringendo i denti, soffrendo e magari perdendo un po' di se stessi nel cammino. Ogni cosa ha un prezzo, tutto ce l'ha, ma alla fine ci sarà qualcosa per cui direte che è valsa la pena lottare. Per me è il sorriso di Sherlock.
E se me lo chiedessero adesso, in questo preciso istante, o se me lo avessero chiesto due anni fa, o se me lo chiederanno tra cent'anni, se mai qualcuno mi chiederà se sono pronta a riaffrontare tutta la mia vita da capo, i pianti e le umiliazioni e il non essere amata e il dolore e la paura e il rimorso, io direi di sì, che non ci penserei due volte. Sarei pronta a ributtarmi in quel marasma di buio e sangue e cicatrici, pur di approdare alla fine a questo momento. Al sorriso di Sherlock.
Perché non c'è niente che non valga la pena sopportare in cambio della felicità.

 

Nel silenzio della notte,
io ho scelto te.
Nello splendore del firmamento,
io ho scelto te.
Nell’incanto dell’aurora,
io ho scelto te.
Nelle bufere più tormentose,
io ho scelto te.
Nell’arsura più arida,
io ho scelto te.
Nella buona e nella cattiva sorte,
io ho scelto te.
Nella gioia e nel dolore,
io ho scelto te.
Nel cuore del mio cuore,
io ho scelto te.

                                                                                   -S. Lawrence

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