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Miei amati lettori, si apre per me una stagione molto produttiva
Miei amati lettori, si
apre per me una stagione molto produttiva. Vi presento la mia seconda AU a
stampo storico, che vedrà protagonisti…ah, giusto, lo vedrete da soli!
Sarà strutturata più o
meno come la mia precedente storia “Sullo sfondo delle Rivoluzione” (della
quale sto per pubblicare sia un seguito che una spi-off), ovvero piuttosto
breve.
Ed ora a voi: buona
lettura a tutti, mi raccomando, fatemi sapere!
Un bacione grande,
Costanza.
Un jardin aprés la mousson...
Hinata Hyuuga era una
parigina dabbene rifugiatasi nel paesino di Sainte-Marie-Vierge, un antico
centro arroccato su di un altopiano uggioso e verdeggiante del litorale
settentrionale francese. Era nata d'inverno, con la neve che scendeva
dolcemente, causando con la straordinaria forza degli impeti del suo istinto di
sopravvivenza la morte di sua madre, che si era spenta nel giro di cinquanta
ore, in un lento ed esonerabile dissanguamento. prima di morire, però, aveva
avuto il tempo di constatare a voce alta, tenedo la creatura tra le braccia
gracili:"Sarà proprio come i fiocchi di neve. Delicata, gentile,
silenziosa.-dicendo ciò, scorse un luccichio conturbante in quei grandi occhi
color ghiaccio, che le ricordarono tanto i suoi, in tempi andati-Sarà una
creatura estremamente magnanima."
Si era trasferita lì a
causa della sua natura del tutto inadeguata ai precetti della società dabbene,
quali il civettare e, soprattutto, la triste ed umiliante omologazione alle sue
altre, insipide compagne. Appena terminati i suoi studi, raggiunta la maggiore
età, annunziò al padre, ormai insensibile alle bizzarrie di sua figlia
maggiore, che avrebbe lasciato la dimora familiare.
In capo a tre settimane
era già pronta ogni cosa: i bauli con i suoi effetti personali, le scatole con
i libri, la diligenza perfettamente attrezzata per il viaggio. Erano state
addirittura mandate due ragazze da Sainte-Marie-Vierge per far sì che Hinata
non soffrisse il distacco dalla casa in cui era stata cresciuta a quella che si
apprestava ad occupare.
Aveva solo richiesto che
avesse un giardino grande abbbastanza per essere ripartito in tre sezioni:una
dedicata agli ortaggi, una adibita alla funzione di serra e laboratorio, e
l'ultima per piantarvi delle rose scarlatte d'Alemagna.
Il genitore le consegnò
prima di partire un'ingente quantità di denaro, molto più di quanto potesse mai
sperare di spendere, ed in aggiunta la sua rimpinguata dote nuziale, con la
raccomandazione di avvertirlo laddove avesse mai deciso di rinsavire dal suo
progetto folle e tornare al tetto familiare. Tuttavia, quelle che sarebbero
potute sembrare riguardi e raccomandazioni dovute alla sincerità dell'affetto,
altro non erano che strategie gelide per poter salvare il nome della famiglia
dallo scandalo: era l'ennesima bravata che sua figlia gli giocava. Prima aveva
avuto il ghiribizzo dello studio ed aveva reclamato un precettore, che la aveva
istruita con la diligenza e il rigore con cui avrebbe fatto con un primogenito
maschio di famiglia notarile; poi la lettura, che le era costata fior di
quattrini guadagnati impartendo a sua volta lezioni private alle giovani di
famiglia nobile, causando tutto il disappunto del padre, interdetto a sapere
che sua figlia, più che a cercar marito e a intrattenersi nei salottini
raffinati, passava il suo tempo nella biblioteca allestitasi; poi l'amore per
la botanica ed in ultimo la totale alienazione da qualsivoglia forma di vita
mondana. Non perchè fosse incapace, ma perchè Hinata non aveva alcuna vocazione
per quelle conversazioni frivole e provocanti che era stata educata a
sostenere. Non le interessava catturare l'attenzione dei giovani conti
irriverenti che allungavano le loro mani insidiose per toccare con insistenza
luoghi fuori dalla loro competenza, o per lasciarle scivolare con nonchalanche
sulle curve del suo florido corpo, che gli si presentava come una foresta
vergine ed inesplorata, e si contendevano quell'appetibile preda, e
scommettevano su chi e quando avrebbe avuto il privilegio di innalzare la
propria bandiera con tanto di stemma familiare in quella landa infiorescente
che era la femminilità di mademoiselle Hinata.
Quello che lei voleva era
essere libera del peso dell'autorità del padre e dell'opinione pubblica,
sposarsi con un brav'uomo che la amasse e metter su famiglia e vivere nel
riserbo, dedicandosi magari ancora all'educazione delle fanciulline e al suo
giardino. Se ne partì in un bel giorno di ottobre, quando le foglie
imporporavano le strade umide di Parigi con la loro danza lugubre. L'unica che
la seguì nel suo esodo fu la sua dama di compagnia, la stessa che aveva
proposto il paesino di Sainte-Marie-Vierge: da lì infatti originava sua madre,
e lì era tornata alla morte del padre, lasciando la figlia in casa Hyuuga. Lei
ed Hinata erano diventate subito amiche.
La ragazza si chiamava
Madeleine-Thérese, ma la avevano sempre chiamata Tenten, perché lei stessa
disse che quello era il suo nome, e non volle mai essere chiamata altrimenti.
Le due paesane erano
arrivate la sera prima della partenza, e si erano distinte per il forte odore
di fieno e terra bagnata che emanavano, nonostante gli svariati sacchetti di
lavanda che portavano nascosti sotto gli indumenti inamidati e scoloriti.
Pur avendo l'età di
Hinata, indossavano entrambe delle sottili fedi d'oro giallo.
Una era più graziosa, e
si vedeva che conosceva una manciata di cose del mondo e sapeva tenere amabili
conversazioni, guastate tuttavia dalla sua risata sguaiata e dai suoi commenti
dozzinali tratti dai luoghi comuni più squallidi che distribuiva come
prezzemolo laddove non sapeva che dire e ai quali si appigliava per intessere
nuovi discorsi.
Aveva un senso della moda
licenzioso, e si specchiava spesso, sputando in un palmo che poi sfregava
vigorosamente sulle più vistose macchie di sporco, dopodiché si pizzicava senza
pietà le gote per garantirne il colorito rosato della buona salute, smentita
dalle profonde occhiaie viola. Si chiamava Ino Yamanaka in Akimichi, e mandava
avanti il grande negozio di fiori di suo padre, che tuttavia non concludeva
grandi affari in quel periodo, perciò aveva piazzato nel retrobottega grandi
pezzi di sapone, pali e fili, ed utilizzava le grandi vasche che un tempo
servivano a ravvivare i fiori per improvvisarsi lavandaia, professione
risultata alquanto più remunerativa.
L'altra era la giovane
Sakura Haruno in Uchiha, la mogliettina del medico del villaggio, che
nascondeva una sfrenata passione per il cognato. Aveva modi spicci, parlava lo
stretto necessario, eppure sembrava avere una saggezza triste che contrastava
violentemente con il suo aspetto di ragazzina. Aveva splendidi occhi verdi ed
aveva studiato sui libri di suo marito nelle notti insonni, tanto che oramai
esercitava anche lei il mestiere di medico, o perlomeno come tale era
riconosciuta dalle donnicciole del paese.
Hinata le aveva ricevute
con dolcezza educata e si era apprestata a complimentarsi per la bellezza
sfacciata di Ino e per l'alterigia raffinata di Sakura.
Le due erano rimaste
meravigliate che una signorina tanto a modo, beneducata, piena di charme ed
intelligente come lei si fosse decisa ad allontanarsi dal mondo dorato al quale
tutte le altre avrebbero sognato di accedere.
Scesero dalla carrozza in fila dopo un
viaggio interminabile che le aveva provate tutte quante.
L'allegria di Tenten si
era spenta lentamente, scivolando via come una biscia per far capolino solo in
rare occasioni.
Il viso della malaticcia
Ino aveva assunto un color avorio dal quale trasparivano i capillari bluastri,
e le occhiaie andavano via via incupendosi sotto le sue pupille iridescenti.
Gli occhi di Sakura erano
velati da una patina di sonno e le sue mani nodose si contorcevano dal freddo,
in un malsano colorito porpora, gonfie di infezioni.
Hinata si faceva sempre
più pensierosa, sebbene non avesse alcun dubbio di aver fatto la scelta giusta,
e si abbandonava a sudori ghiacciati e sonni febbrili.
Una volta arrivate, tutte
si erano adoperate, con l'aiuto dei paesani curiosi i cui volti rubizzi si
accalcavano attorno alla diligenza, per sistemare casa di mademoiselle Hyuuga,
prima di tornare ciascuna al suo nido.
Tenten aveva trovato
immediatamente sua madre, o meglio, non era ben chiaro chi avesse trovato chi,
fatto sta che l'anziana signora, di nome Madeleine, aveva riconosciuto sua
figlia appena le si era parata davanti sulla porta di casa, ed era caduta in
ginocchio,piangente, ringraziando Sainte Therese e Sainte Marie Madeleine che,
a suo dire, le avevano annunciato in sogno la riconciliazione con sua figlia.
Sakura era tornata dal
marito, lo era andato a salutare nello studio. Gli aveva porto le mani, per poi
ritrarle immediatamente. Lui, Itachi, aveva studiato quel gesto ed aveva
immediatamente capito che la moglie aveva di nuovo quell'infezione purulenta,
ed aveva chiamato dall'altra stanza suo fratello, che distribuiva i farmaci ed
assistiva i malati che si presentavano da suo fratello. Era impegnato, al
momento, a somministrare una dose di chinino ad un vecchio spossato dalla
tubercolosi. "Sasuke, vuoi sbrigarti? C'è mia moglie che aspetta!" a
quelle parole il giovanotto, molto somigliante nei colori al fratello, era accorso.
"Madame" aveva
detto, reclinando la testa in cenno di saluto verso la ragazza, che era
arrossita e tremava. Si amavano quei due. Ma erano costretti a mantenere
quell'atteggiamento formale e distaccato, tanto che chiunque della famiglia
pensava si detestassero, perché non riuscivano a scambiarsi due parole in croce
che non fossero intervallate da quei silenzi glaciali tipici dell'imbarazzo di
Sakura e della facciata di Sasuke.
Ma appena avevano la
possibilità, per qualunque pretesto, di restare soli, tutto cambiava. Lui si
trasformava in un amante irruente e premuroso, e lei si sollazzava nel piacere
e nell'ebbrezza della libertà sfrenata. Perché quando aveva detto a sua madre
che avrebbe sposato monsieur Uchiha, quella aveva parlato con il padre ed avevano
accondisceso a farla sposare...solo che per un quiproquo si erano accordati col
monsieur sbagliato. E così il sogno d'amore dei due si era infranto.
Ma d'altra parte, forse
era meglio così: in questo modo, Sakura aveva sposato un brav'uomo, con un reddito
di tutto rispetto, che la rispettava, avevano fatto tre figli. Itachi non
sapeva che tutti e tre erano in realtà di suo fratello. Si chiamavano Stephane,
Marie e Victor.
I signori Haruno avevano
barattato il matrimonio più felice e pieno d'amore del paese con quello più
conveniente. E tutti erano stati contenti. Tranne Sakura e Sasuke.
Sakura si era allontanata
nell'altra stanza con Sasuke, che aveva preparato dei bagnoli bollenti di
alcool e antisettico,aveva intriso delle bende di lino di camomilla, ed aveva
preparato in una ciotola della pomata di arnica ed ambra, che andava rimestando
con una spatola di legno.
Prima le aveva messo le
mani in unabacinella fumante, dove le
aveva ordinato di rigirarle ogni dieci minuti per un'ora.
Dopo le aveva inciso le
piaghe infette con un temperino rovente ed aveva drenato la sostanza di pus
misto a sangue e sebo in un catino di latta, quindi aveva preso l'altra
bacinella e le aveva fatto ripetere l'operazione.
Finalmente, mentre Sakura
stringeva coi denti il fazzoletto che le aveva messo in bocca il suo amante,
questo le aveva applicato la pomata sui dorsi e sui palmi, entrando in
profondità nella carne rossa e infetta con la spatola di legno, e lasciandone
in abbondanza, tanta da coprire interamente gli arti per mezzo centimetro
buono, le aveva fasciato le mani con le bende imbevute di camomilla e sopra le
aveva fatto indossare prima un paio di guanti di cotone, e poi dei guanti di
lana.
"Ti fanno molto
male?" aveva chiesto prima di baciarla con impeto.
"No -aveva sussurrato
lei- non più."
Ino era tornata a casa da
sola. La aspettavano i suoi due pargoli, Lilianne e Marc, che stavano
ruzzolando allegramente nel salotto. Sua madre si era addormentata sulla
poltrona, al solito. La giovane aveva sospirato sulla soglia, poi aveva baciato
sveltamente i bambini, era corsa nella camera da letto e si era liberata in men
che non si dica del vestito di seta lilla, il vestito buono, quello della
domenica, quello di tutte le feste. Era ormai liso e mangiucchiato dalle tarme,
e il colore stava pian piano sfumando verso il grigiastro. "Ci farò un
abitino per Lilianne -pensò- Quando avrò tempo!",aveva tolto la sottoveste
smerlettata, poi si era infilata uno dei suoi tanti camicioni di lana
grezza(aveva immediatamente rimpianto il cotone soffice, che non le urticava la
pelle e non pizzicava, ma che fare?) e sopra a quello un vestito giallo
paglierino. Una volta accantonate le splendide scarpette in tono con l'abito
era tornata alle scarpe lise di pelle, con le suole rammendate e rinforzate col
sughero. per ultima cosa si era raccolta la chioma doratain una vecchia cuffietta bianca, quindi
aveva iniziato a sistemare tutta la casa messa a soqquadro, prendendosela prima
con sua madre "Guardala, non fa che dormire!Le ho chiesto un aiuto, per
una volta, ed eccola qua!", con suo marito "Quello lì...io lo sapevo
che era un buono a nulla! Ma almeno mi porta i soldi a casa, con quella
locanda. Però se qua morissi io...sarebbero tutti persi!" e con chi le
capitasse, mentre rassettava i letti, lavava i pavimenti energicamente,
riordinava la cucina, spostava i bambini da una parte all'altra affinché non le
fossero d'impaccio a seconda del posto che stava sistemando. Alla fine, in capo
a due ore la casa era linda e pinta come l'aveva lasciata.
Dopo aver svegliato sua
madre con la raccomandazione di badare ai bambini, era andata alla locanda di
suo marito e si era fatta dare un po' di cibo per la cena.
Tornata a casa, aveva
depositato in un cassone di legno adibito a ghiacciaia quattro granchi, grossi
e grassi, e sul tavolo aveva lasciato un paniere con porri, aneto, rape e erba
cipollina, ed un bricco di latte.
Era uscita di nuovo,
stavolta diretta al negozio. Una volta lì, aveva preso i fiori dallo stanzino
ed aveva buttato quelli passiti, poi aveva cambiato l'acqua agli altri ed aveva
versato in ogni vaso un cucchiaio di bicarbonato di sodio, aveva innaffiato le
piante interrate ed aveva spazzato per bene il pavimento.
Era tornata a casa ed
aveva preso una grande pentola, dove aveva messo a bollire i granchi, in una
bella pirofila aveva messo il latte con mezzo panetto di burro a preparare la
panna per la zuppa.
Aveva agguantato un
tagliere ed un coltello ed aveva sminuzzato l'erba cipollina ed i porri, che
erano finiti in parte a soffriggere in una padella unta d'olio, in parte
nell'acqua dei granchi.
Il ramoscello d'aneto
invece era andato ad insaporire la panna, insieme a due mestoli d'acqua di
cottura dei crostacei.
Ino era affaccendata,
accaldata, correva dai fornelli alla dispensa, dalla dispensa al tavolo, dal
tavolo al lavabo e dal lavabo di nuovo ai fornelli, mentre nell'altea stanza
sentiva i bambini chiamarla e litigare, e lei urlava di tanto in tanto un
distratto "Buoni bambini!" o "Adesso sono impegnata, vengo tra
poco!", e continuava a mescolare la zuppa, buttava in una pentola l'acqua
dei granchi e metteva i crostacei nella padella del soffritto, dove versava
abbondantemente vino bianco, che evaporava di colpo.
Per le otto, al rientro
di suo marito Choji, la tavola era imbandita, sua madre era tornata a casa sua,
i ragazzi erano stati già sottoposti ad una vigorosa scozzonata nella tinozza,
con acqua bollente e sapone di Marsiglia, ed erano lindi e pinti, abbigliati di
tutto punto.
Anche Ino era riuscita a
lavarsi, finalmente, quello sporco che compariva a macchie brunite e antracite
sulla sua pelle bianca, e per l'occasione anche i capelli, che ora splendevano
magnifici alla luce dei candelabri.
"Bentornato,
padre." dissero i bambini con una riverenza, prima di gettarsi tra le
braccia dell'amorevole Choji.
"Via, via, stasera
si festeggia il rientro della mamma!" rispose lui, allungando ad Ino un
bel pacco rettangolare...grande, estremamente grande, tanto da farle salire le
lacrime agli occhi. "Oh, caro!" esclamò lei, aprendolo. Era un sontuoso
abito di mussola rosa pesca e seta viola, con tanto di sottoveste bianca, di
lana morbida, robusta. Capì immediatamente che il vestito era per poche
occasioni, ma che la sottoveste era stata pensata per farle smettere quella
grezza e pruriginosa, per evitarle l'inevitabile sofferenza che provava ogni
qualvolta si vestisse.
Ino pensò di non aver mai
amato Choji come quel giorno.
Quando Hinata arrivò alla
sua villa, si fermò sul vialetto, attonita, a fissare il contrasto stridente
dell’erba verde vivido con il cielo plumbeo, e sorrise: aveva davvero tutto
quel che aveva sempre desiderato.
“Mon jardin
après la mousson ! “
Si era voltata verso il
cancello, sentendo dei passi veloci.
“Bonjour, Madame, mi
chiamo Naruto Uzumaki, e sono il sindaco di Sainte-Marie-Vierge.”
L’uomo biondo le aveva
stretto la mano, ed il cuore di Hinata aveva mancato un battito.
Secondo capitolo di questa AU, alla quale ho deciso di dedicarmi con
energia, dato che le recensioni mi sono sembrate positive
Secondo capitolo di questa AU, alla quale ho deciso di
dedicarmi con energia, dato che le recensioni mi sono sembrate positive. Le
risposte si troveranno al termine del capitolo, nell’apposito “Spazio Cos”,
presente in tutte le mie fanfiction.
Perdue.
Hinata sorrise gentilmente al Sindaco, un uomo distinto e
solare, completamente fuori luogo in quel paesaggio sui toni del grigio.
“Bonjour, monsieur, lasciate che mi presenti: sono
mademoiselle Hyuuga.”aveva sorriso con dolcezza, protendendo il braccio verso
di lui in attesa di un baciamano.
Naruto era rimasto spaesato di fronte a quel gesto, e ci
aveva impiegato circa una ventina di secondi –i più lunghi della sua vita-
prima di realizzare cosa la donna si aspettasse da lui.
Una volta compiuto il gesto di galateo, Hinata si lasciò
sfuggire una risatina civettuola, arrossendo, per la scaltra goffaggine del suo
interlocutore.
“Volevo darle il benvenuto qui a Sainte-Marie-Vierge, il mio
uffici si trova sulla piazza principale e…bene, beh, questo è quanto. Immagino
ora dovrà ambientarsi, quindi la invito a riposarsie a non farsi scrupolo, per qualsiasi necessità, anche la più
banale, a farmela sapere, e provvederò io stesso a riguardo.”
Naruto le aveva quindi stretto la mano con vigore,
agitandola, come il capo di una fune, nell’aria.
Hinata era entrata, esitante nella sua nuova dimora.
Nel momento stesso in cui stava girando le chiavi nella
toppa, si era sentita vibrare tutta di un’energia nuova e completamente
estranea.
Aveva percorso a passi piccoli e lenti il corridoio,
affacciandosi sulle varie stanze presenti sul primo piano: un salottino
d’aspetto per gli ospiti, una grande sala da pranzo ed un laboratorio, mentre
aveva trovato sul lato opposto una modesta cucina, il suo salotto personale ed
un bagno piastrellato con ceramica smaltata di un bianco abbacinante. Aveva
salito le scale, sollevando con grazia un lembo dell’abito di seta mista a
cotone e lino color paglierino,la sottogonna di pizzo sangallo e la sottoveste
di lana soffice.
Sul piano superiore aveva trovato la camera da letto, doppi
servizi, una camera spoglia nella quale le sarebbe stato possibile,
nell’evenienza in cui avesse desiderato una cameriera a gestire la cucina e a
rassettare mentre lei fosse stata presa da altri lavori, sistemare la domestica,
ed una bella stanza luminosa dove era stata sistemata la sua biblioteca, al
centro della quale vi era un bel tavolo in piuma di noce con delle sedie
abbinate e, a ridosso di un muro, il suo scrittoio.
Hinata aveva tirato un sospiro, soddisfatta e felice, prima
di ridiscendere le scale e gettarsi a peso morto sull’ottomana presente nel suo
salotto personale.
Quindi, le era venuta un’idea: avrebbe potuto andare dal
Sindaco per chiedergli di pubblicare un annuncio nel quale avrebbe presentato
la richiesta di una domestica.
Ripropostasi di fare ciò l’indomani, la giovane donna andò
in cucina e preparò una tisana all’ortica.
Sentiva le palpebre farsi sempre più pesanti, mentre
sorseggiava la bevanda che le solleticava, con il suo gusto dolcissimo ed
asciutto, la gola. Aveva scocco un poco la testa per snebbiarsi la vista e,
dopo aver sbattuto ripetutamente le ciglia, aveva bevuto l’ultimo sorso,
posando con cautela la tazza sul piattino di porcellana.
Una volta alzatasi da tavola era andata, sorreggendo un lume,
in camera da letto.
Una volta posata la lucerna sul comodino, aveva girato la
chiavetta per aumentare l’illuminazione della fiamma ed aveva tirato fuori da
un baule di legno massiccio una camicia da notte rosa pallido, in cotone
sapientemente lavorato in India.
Aveva riposto l’abito su una gruccia nell’armadio situato
sulla parete perpendicolare a quella del letto, ed aveva prontamente indossato
gli indumenti per la notte.
Calzate delle delicate pantofoline candide come la sua pelle
e messa una ricca vestaglia color avorio, impunturata con sottile filigrana
argentata, aveva preso un libro e si era sdraiata a leggere sul letto. Dopo
poco, il sonno ebbe la meglio sul desiderio di lettura, così Hinata tolse la
vestaglia e le pantofole e scivolò sotto le coltri.
Si svegliò con il sole che schiariva il cielo notturno. La
luce rosa si riversava, amplificata dai vetri irregolari delle finestre della
camera da letto, in tutta la stanza come un incantesimo.
Hinata era felice.
Aveva indossato di nuovo le pantofoline e la vestaglia ed
era scesa in cucina a scaldare sul fuoco un grande catino di rame pieno
d’acqua, ed aveva versato del latte fresco da una latta in una tazza di
ceramica.
Salì nella sua camera da letto, e tirò fuori dai bauli i
suoi begli abiti, sistemò nei cassetti le sottovesti e le sottogonne, i
corsetti ed il resto dell’intimo.
Scelse un vestito da giorno azzurro ghiaccio, di taffettà,
ed una sottoveste di soffice cotone indiano celeste.
Ridiscese le scale e prese, coprendosi i palmi delle mani con
due canovacci, ed afferrò i due manici del catino, andando con incedere
incalzante verso il bagno per riversare l’acqua bollente nella vasca, prima di
immergersi nella nuvola di vapore sollevatasi fino al soffitto.
Uscì di casa sorridente, con un cestino di vimini
sottobraccio ed una pochette di velluto grigio nascosta in una piega
dell’abito, e ben presto si imbatté, in una delle viottole lastricate di pietre
lisce e scure disomogenee, nel negozio di fiori di Ino, aperto, pieno di
boccioli promettenti e fiori rigogliosi, dai colori sgargianti.
Hinata entrò, titubante, con il suo solito modo schivo e col
timore di disturbare.
“Buongiorno, Mademoiselle. ça va?” aveva domandato
Ino da dietro un massiccio bancone di legno.
“Ça va bien,
merci. Volevo sapere se aveva dei semi di lavanda, buganvillea,
giglio e rosa bianca, una piantina di rosmarino, salvia, alloro e assenzio. Ah,
e dei bulbi di tulipani.”
“Naturalmente, e quanti sacchetti le occorrono?” disse la
fioraia, prendendo in mano qualche sacchetto di fibra scura e ruvida.
“Tre di tulipani, uno di rose, uno di lavanda, due di
buganvillea ed uno di giglio.”
Ino si era chinata verso le cassette di legno con i semi e
li aveva velocemente gettati nei differenti sacchetti con una paletta, poi li
chiuse con un cordoncino differente a seconda del contenuto.
Era dunque corsa nel retro ed aveva ammucchiato in un angolo
le piantine che Hinata le aveva richiesto.
“Senta me, mademoiselle: questi -indicò i vasi con le
piantine- sono troppo pesanti per lei. Lasci che glieli faccia recapitare a
casa, così non dovrà affaticarsi.” Dalle labbra pallide della donna spuntò un
sorriso materno.
Hinata rabbrividì. Quel sorriso. Lei lo aveva già
visto da qualche parte.
Lo aveva già visto su un volto più che familiare, e costituiva
l’ultimo ricordo della sua bellissima madre. Era stato l’ultimo gesto che
Madame Hyuuga aveva compiuto, prima di addormentarsi per sempre, e lo aveva
compiuto solo per lei, affinché la sua bambina la ricordasse per l’amore e non
per il dolore che da tempo le squassava il corpo.
Ed era una strana casualità che quel cenno, che le
comunicava sicurezza e protezione, fosse ricomparso dopo tanti anni in un luogo
del tutto inaspettato.
In un paesino dimenticato da Dio, in un negozietto piccolo e
stipato, sul volto di una giovane, malaticcia fioraia bellissima.
“I-io non so come ringraziarla, madame….lei…è davvero troppo
gentile. Quanto le devo?” chiese Hinata, estraendo il borsellino dalle pieghe
dell’abito, e introducendo l’indice ed il medio per serrarli intorno a delle
monete fredde.
“Oh, non si preoccupi, di denaro ne parleremo poi. Ora vada,
ne avrà di cose da fare!”
In men che non si dica, e senza ben comprendere il come ed
il perché, la parigina si era ritrovata in strada con il cestino di vimini
appesantito dai sacchetti.
Riprese il suo cammino, facendo qualche altra pausa: in
panetteria per acquistare una baguette ed un paio di quiches, una
al timballo di manzo ed una alle cipolle rosse, in una pescheria, il cui lezzo
di pesce morto era percepibile da circa duecento metri, ed aveva acquistato
delle ostriche opulente; nella macelleria, per comprare della carne di vitella
fresca da mettere nella ghiacciaia e delle salsicce.
Al termine della mattinata, una volta suonate le undici,
Hinata si era diretta verso il palazzo comunale, ed aveva scoperto con suo
grande sconcerto che il suo cuore aveva preso un’inclinazione decisamente
tachicardia. Aveva stretto in grembo le mani gelide e, dopo una breve
esitazione, aveva bussato alla porta.
Dall’interno della stanza si sentiva un animato vociare, e
provenivano alcune esclamazioni in un idioma stridente e rigido.
“Entrez, entrez. –era la voce del sindaco Uzumaki,
inconfondibile al finissimo orecchio di Hinata- Bonjour, Mademoiselle.
Le presento due colonnelli dell’esercito Tedesco, mosieur Hidan, monsieur
Kakuzu ed il generale Pein con la sua signora, madame Konan.”
La donna si era profondamente inchinata ai quattro
individui, che avevano risposto con un freddo cenno del capo. Il primo uomo,
quel tale Hidan, aveva però attirato la sua attenzione con la sua bellezza
algida ed altera, ed in particolare per quei suoi capelli albini e gli occhi
intensi e purpurei.
Le guance candide di Hinata si erano fatte di un innaturale
scarlatto.
“Bonjour, monsieur..Ero venuta a…a portarle una
l-lettera scritta d-di mio pugno e mi chiedevo se a-avreste potuto
pubblicar-la….Si tratta di una o-offerta d’impiego per una domestica…Vitto ed
alloggio inclusi.” Concluse la frase, contaminata da un nevrotico balbettio, ed
alzò gli occhi davanti a sé.
Fu immobilizzata da due sguardi. Gli occhi cerulei ed
allegri del sindaco, le indecifrabili iridi viola del severo tedesco.
“Prego, mi dia pure e provvederò quanto prima.” L’uomo le
strinse la mano piccola ed intirizzita, e la bocca della giovane si prosciugò
completamente.
Sapeva quanto ciò fosse sconveniente: una donna nubile che
lasciava che un uomo celibe le stringesse la mano, e che non la ritraeva
immediatamente, con pudicizia.
Sapeva che a Parigi una disattenzione tale le sarebbe costata
la reputazione.
Sapeva tutto, eppure non riuscì a riprendere controllo di
sé, se non qualche secondo dopo.
Naturalmente, troppo tardi.
“Merci beaucoup.” Strinse le mani giunte al petto, e nel voltarsi
frettolosamente urtò il colonnello albino. “Ah! Je…je…je regret,
monsieur…” indietreggiò, spaventata da qualsivoglia reazione di quell’uomo
statuario e dall’aria irreprensibile.
“Non c’è problema, mademoiselle.” Rispose questi con voce
suadente, chinandosi per concludere con un baciamano.
Le labbra di quell’uomo, calde e morbide, sulla sua pelle
lasciarono un impatto di seta indimenticabile.
Hinata uscì di corsa dall’ufficio del Sindaco, e tornò a
casa in preda ad un turbine di emozioni tanto forte quanto preoccupante.
“Je suis perdue.”
Sospirò, e poi si tuffò nel ricordo dell’enigmatico,
sensualissimo Hidan.
Era perduta.
Perduta in una sentiero a lei sconosciuto: l’amore ed i
sensi.
Tutto quel che poteva sperare, a quel punto, era solo di
poter contare su qualcuno che la sostenesse.
Un nome infranse lo specchio delle sue ansietà: Ino.
.:Spazio Cos:.
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno messo questa
storia nei preferiti, e chi ha fatto lo sforzo di recensire. Sono molto
gratificata dalle vostre opinioni. Sfortunatamente, non posso in questo momento
rispondere ad ogni singola persona, ma sappiate che avete tutti contribuito
alla nascita di questo nuovo capitolo, primariamente dandomi lo stimolo a
procedere, e poi naturalmente con le osservazioni ed i complimenti, che mi
hanno fatto capire dove cambiare e dove invece avrei potuto continuare su
questa linea.
Grazie mille a tutti, spero vi sia piaciuto anche questo
capitolo!
Sakura uscì di casa svelta, preceduta dai figli. Si era
avvolta nella mantellina di lana infeltrita color grigio sporco, la luce bianca
che filtrava dalle nubi le infastidì la vista, giusto il tempo di abituarcisi.
Spinse la prole avanti a sé con delle pacche di
incoraggiamento sulle spalle e, presi per mano i più piccini, accompagnò i
figli a scuola, un edificio piccolo, in pietra, dai cui mattoni saturavano
gocce di umido.
A dir la verità, a Sainte-Marie-Vierge l’umidità era una
silenziosa pestilenza che si infiltrava ovunque, raggiungeva ogni singolo
angolo del paese, covava nelle fondamenta degli edifici insieme ai fantasmi
delle generazioni andate ed un inquietante lezzo di morte imminente, rodeva i
corpi degli abitanti dalle ossa, si nutriva delle loro sofferenze reumatiche,
strappava loro brandelli di bronchi tramite le malattie respiratorie, sconfitta
solo dai camini accesi, che avevano iniziato a proliferare nelle case.
Un prode Ares infuocato contro una Persefone insudiciata di
ghiaccio e sangue.
La donna lasciò i figli sulla soglia dell’edificio una volta
accolti dalla maestra, una signora anziana ed incurvata, quasi una virgoletta,
scarna e decrepita, dopodiché era tornata a casa.
Preparò la colazione per il marito come ogni mattina: una tisana
all’ortica e una scodella contenente una mistura simile ad un porridge,
ottenuta mescolando pane raffermo, la panna ottenuta con il latte bollito per i
bambini, del latte freddo e del miele di lavanda.
Il dottor Itachi giunse in cucina già vestito di tutto
punto, pronto per recarsi allo studio.
Secondo la solita routine si sedette al tavolo e iniziò a
mangiare silenzioso, ascoltando in sottofondo i passi scattosi ed il respiro
affannato della moglie che si stava affaccendando nel frattempo per la cucina.
“Buongiorno, caro.” Sbuffò Sakura, mentre scrostava le
stoviglie della cena della sera prima.
“Bonjour, mon
cher.Sakura, hai un minuto ?” le fece segno di sedersi. Lei si
lasciò cadere su una sedia di legno, asciugandosi la fronte con il dorso della
mano, un canovaccio umido nell’altra.
“Hai molto da fare in questo periodo? Sai, avevo intenzione
di lasciarti una stanza dello studio per occuparti dei bambini del paese.
Sembra che quelle vecchie chiocce si fidino più di te, mia bella colombina.
Allora, che ne pensi?”
Gli occhi verdi di Sakura si illuminarono improvvisamente: i
bambini! Sarebbe diventata la pediatra del paese, avrebbe guadagnato del
denaro!
Eppure, tutto ciò si sarebbe tradotto con l’allontanamento
dai suoi figli: come avrebbe potuto rimediare?
“Va benissimo caro, ma…i bambini? Marie, in particolare, ha
bisogno di essere ben educata se non vogliamo che diventi una selvaggia.
Bisogna che studino, ed io non posso accudirli sempre.”
“A quello ci penseremo poi, te lo prometto. Ora sarà meglio
provvedere al tuo guardaroba: devi acquistare un abito per quando vieni al
lavoro, non intenderai mica indossare quegli straccetti che metti solitamente.”
Itachi si alzò, lasciando Sakura umiliata, rannicchiata su
un angolo del tavolo; lei si morse il labbro inferiore, nervosa: non era certo
colpa sua se indossava solo “straccetti”!lei la merce costosa non poteva mica
permettersela, aveva una casa, un marito e tre figli da anteporre a sé stessa e
alle sue necessità. Infatti, non avrebbe mai permesso che nessuno dei tre
bambini andasse girando indecorosamente, e preferiva acquistare indumenti
costosi e biancheria raffinata per la prole piuttosto che per sé.
Non che non le fosse piaciuto, ben inteso: semplicemente
aveva accettato il suo ruolo di sottomissione.
A Sakura bastava Sasuke…il suo sguardo che sapeva
oltrepassare agevolmente gli svariati strati di indumenti scoloriti e consunti,
malmessi, l’altrettanta agilità con cui riuscivano a spogliarla le sue mani, il
gelo della sua passione, che spirava su di lei come un vento artico, arrivava,
la stravolgeva e, quando scompariva (con la stessa imprevedibilità con cui
sopraggiungeva) lasciava in lei un nostalgico turbamento.
La coppia di coniugi uscì, diretti all’unica boutique del
paese. Lui apatico, lei trafitta dalla sua solita afflizione.
“Bonjour! Ça
va, madame?” Una voce chiamò Sakura, che si voltò di scatto e sorrise senza
perdere un momento. Era la giovane Hyuuga.
“Bonjour,
mademoiselle, ça va, ça va. E lei ? Problemi con la
sistemazione ?”
“Oh no, nient’affatto. Stavo giusto andando ad acquistare un
abito per lavorare. Sa, volevo riprendere la mia occupazione, e poi il giardino
richiede indumenti più spartani.”
Sorrise, ondeggiando l’abito di taffettà giallo. Sakura
improvvisò un sorriso, invidiosa.
“E di che occupazione si tratta?”domandò, curiosa.
“Non glielo avevo accennato? A Parigi ero un’istitutrice.”
“Magnifico, magnifico! Monsieur, venite, venite!” la
donna fece cenno al marito di avvicinarsi.
Itachi scrutò Hinata, dimostrando un velato interesse. Si
chinò per eseguire un baciamano esemplare, e poi si presentò.
“Docteur Uchiha, al vostro servizio, mademoiselle.”
“Mademoiselle Hyuuga, è un piacere, monsieur.”
Al termine dei convenevoli, Sakura prese parola.
“Caro, pensavo che, dal momento che la signorina vuole
riprendere a lavorare come istitutrice, forse potremmo mandare Marie a lezione,
non trovi?” guardò suo marito, spalancando gli occhi verdi.
“Certo, certo. Ma venga pure con noi, mademoiselle,
così avremo modo di discutere del suo onorario.”
Hinata venne così reclutata.
La fama della bravura dell’educatrice si diffuse a macchia
d’olio, sebbene ella non avesse fatto nulla per questo fine, né intendesse
ricevere altre allieve oltre alle figlie delle sue amiche.
Ogni mattina si alzava alla buon'ora,mangiava del pane con
il burro ed una ciotola di farinata d'avena,dopodiché si costringeva con un
corsetto dalle rigide stecche ricavate dai fanoni di balena, si abbigliava
elegantemente con un austero abito di satin nero,decorato con piccoli fiocchi di
seta bianca, e raccoglieva i lunghi capelli corvini in una cuffietta,che
lasciava libera la frangia sulla fronte, e due ciocche impertinenti all'altezza
delle orecchie.
Alle nove riceveva le sue allieve: Marie e Lilianne, e
impartiva loro delle lezioni di francese, latino, matematica e letteratura in
mattinata; per il pranzo mangiavano in casa, se era brutto tempo, altrimenti
tenevano un picnic sul prato. Entrambe le occasioni fornivano ad Hinata il modo
di educare le bambine al galateo della tavola, mentre nel primo pomeriggio le
faceva esercitare nella conversazione.
Una volta che le bambine avevano terminato,Ino e Sakura
venivano a recuperare le figlie e pagavano una minima parcella ad Hinata. A
volte si trattenevano,mandando le figlie a casa, e restavano a chiacchierare
con Hinata, altre volte invece andavano via,lasciandola alle sue occupazioni.
In quei casi lei si ritirava a curare le orchidee
pervenutele e tenute nella serra, e si dedicava alla manutenzione delle piante
nel suo giardino.
Una sera come tante, udì bussare alla sua porta. Era già
andata nella serra, e stava preparando un liquido rinforzante a base di
bicarbonato e zucchero da somministrare nel terriccio delle piante con una
cannuccia.
Strofinandosi le mani sporche sul grembiule, Hinata corse
alla porta.
La aprì e si trovò di fronte il sindaco. Impallidì. Cosa
fare? Porgergli la mano? No di certo:sporche com'erano! Invitarlo in casa? E se
poi la gente si fosse fatta un'idea erronea delle sue usanze?
"Bonsoir, madame, è
permesso?"domandò l'uomo,in attesa sulla soglia.
"Bien sure, venga, venga, la prego -fece cenno
con la mano di entrare,celando un affiorante rossore -mi perdoni ma stavo
lavorando con le piante...venga, le faccio strada." lo fece accomodare nel
salotto, per poi congedarsi ed andare a lavarsi le mani,abbandonando anche il
grembiule.
Tornò in salotto e si sedette sull'ottomana, in posizione
d'ascolto.
"Mi dica, a cosa devo questa visita?"
"Ho una buona notizia,mademoiselle, abbiamo trovato una
cameriera che prenda immediato servizio: si chiama Matsuri, è una ragazzina, ma
è molto sveglia e volenterosa,ed impara in fretta.
Inoltre volevo invitarla alla festa che si terrà tra una
settimana in onore di Sainte-Therése, copatrona del nostro villaggio...se pensa
di essere interessata..."lasciò cadere la frase nel vuoto,in attesa di una
risposta di Hinata.
"Verrò molto volentieri, mon amis, ma mi
permetta di retribuirla per l'efficace servizio svolto nei miei
confronti."
"Penso che mi retribuirà in maniera più che efficace
acconsentendo al mio invito a cena per questa sera." un bagliore illuminò
gli occhi celesti del sindaco, che rimasero puntati sul viso della donna,pieni
di speranza.
"Va bene, lasciate solo che mi prepari..non sono nelle
vesti adatte..."
"Oh,suvvia mia cara, sarete anche una gran signora,ma
regalatemi l'ebbrezza di portarvi in giro sotto le spoglie di adorabile
maestrina" le sorrise, irresistibile, e questa volta senza alcuna
esitazione le prese la mano e la baciò galantemente, causando l'arrossimento
repentino della donna.
Uscirono senza scambiarsi una parola, Hinata con gli occhi
bassi, rivolti al lastricato scuro, attenti a scegliere le pietre giuste per
non scivolare, Naruto avanti, fiero e nervoso, che si ripeteva mentalmente di
non perdersi in un bicchier d’acqua con una delle sue trovate grossolane, ché
quella era una gran signora.
“Allora, come vi trovate?” le chiese di colpo.
“I-io? Bene, bene…le bambine sono fantastiche, apprendono in
fretta. A-anche le loro signore madri sono molto gradevoli.” affievolì il tono
di voce man mano che giungeva al termine della frase, ripensando con un sorriso
alle allegre chiacchierate tra donne che intratteneva con quelle due.
“Ah sì, le conosco bene le…signore.”
A dirla tutta, Naruto non aveva mai pensato a Sakura e ad
Ino come a due signore, ma piuttosto come a delle belle donne di paese, che di
signorile avevano ben poco.
Ed in breve, come un fiume in piena, Hinata gli aveva
raccontato del suo passato, mentre lui ascoltava attento.
“…e così sono scappata da quell’ambiente soffocante.”concluse.
Lo aveva guardato per sbaglio negli occhi, ed era rimasta
inchiodata dallo sguardo assorto di lui che ne catturava segretamente ogni
lineamento, ogni espressione nel tentativo di imprimerli nella memoria.
Il modo con cui muoveva elegantemente le mani a mezz’aria,
discrete tessitrici delle immagini dei suoi discorsi; i leggeri movimenti
ondulatori della frangetta scura sulla sua fronte, la dizione precisa ed un
tono di voce che sembrava essere cucito sopra alle parole che pronunciava, e
quel rossore a volte più vivido, a volte più tenue sempre adagiato sulle sue
guance, come la screziatura su un’orchidea bianca.
“Siete stata davvero molto coraggiosa.”soggiunse lui,
avvicinando la mano a quella della donna adagiata sulla tovaglia.
“Coraggiosa?”Hinata spalancò gli occhi, incredula.
“Sì, insomma, come Giuseppina Bonaparte.”Naruto aveva
formulato velocemente questo arguto paragone tra la sua potenziale conquista e
la moglie del suo Imperatore, suscitando l’ilarità dell’imbarazzata
interlocutrice.
“Ma volete scherzare?”lo sguardo della donna si fece
improvvisamente di velluto, enigmatico e carezzevole, mentre la mano di lui
iniziò a scivolare, lenta ed insicura, su quelle dita gelide ed affusolate.
“No. Voglio solo farvi…”l’asserzione di Naruto fu spezzata
dalla fragorosa entrata dei due colonnelli tedeschi, quello coperto di
cicatrici accompagnato dall’albino.
Innamorare, pensò l’uomo, terminando così mentalmente
la frase che avrebbe dato qualunque cosa per poter pronunciare.
“Signor sindaco”iniziò Kakuzu, con la sua inflessione severa
e quella g troppo spigolosa “Abbiamo avuto comunicazione dai nostri gerarchi di
un problema di natura interna che deve essere risolto immediatamente. La prego
di venire con noi.”
Naruto si alzò, mordendosi il labbro inferiore per
ricacciare le lacrime di amarezza, e porse il braccio alla donna, che accettò,
seguendoli fuori , verso la notte umida e cupa.
“Esimio colonnello, lei capisce che io sono accompagnato
dalla gentile signora, e non mi è assolutamente concesso di venire meno ai miei
doveri di ospite e di uomo in quanto tale, perciò vi riceverò non appena avrò
ricondotto la qui presente mademoiselle Hyuuga alla sua abitazione.”
Il biondo nascose un sorriso, soddisfatto della sua fervente
proclamazione di orgoglio virile.
“Credo che il mio collega Hidan potrà assolvere in sua vece
ai suoi doveri, con il permesso della signora.” Ribatté Kakuzu, quantomai
irritato dal tentativo di procrastinazione di quel sindaco giovane e
sbruffoncello.
Hinata annuì con dolcezza e scivolò, come un nastro di seta,
dal braccio tremante d’emozione di Naruto a quello rigido e saldo di Hidan, che
guardò con soddisfazione la scena, come chi ha appena soffiato via la vittoria
al proprio acerrimo nemico.
Il silenzio gelido tra i due era scandito solo dal passo
ritmico di Hidan, che costringeva Hinata a correre per tenergli dietro e non
cadere, malgrado lui si sforzasse di rallentare la sua solita camminata,
educata alla rapidità e alla massima efficienza.
Percorrere il massimo dello spazio nel minimo del tempo,
senza lasciarsi turbare da nulla.
Esegui gli ordini senza guardare altra prospettiva che
quella del tuo naso.
Gliel’aveva insegnato Kakuzu la prima volta che si videro
per il corso di addestramento.
Da allora aveva coltivato con attenzione ogni campo della
sua carriera, ed era in breve riuscito a diventare colonnello, il più giovane
mai visto fino ad allora e, senza dubbio, di gran lunga il più bello.
La sua figura svettava nel buio, le spalle larghe
perfettamente armonizzate con il resto del corpo spaccavano l’aria, la postura
con il petto inarcato all’infuori gli conferiva una virilità tutta sua, che
Hinata non aveva mai visto essere sostenuta da nessuno.
Si voltò verso di lei, una ventina di centimetri più in
basso, e ammirò la sua bellezza.
Ciò che più lo colpì fu la luce cerulea della notte che
tingeva con i suoi riflessi blu la carnagione diafana della donna, ricalcandone
le curve dei seni ed i lineamenti delicati del viso.
I loro occhi si incontrarono, per sbaglio, per uno stupido
scherzo del destino, per una sincronia beffarda, e rimasero pietrificati, uno
di fronte all’altra.
Hinata non aveva mai, mai visto occhi così intensi, corridoi
tortuosi di un perverso labirinto nel quale, lei lo sapeva, sarebbe
stato molto meglio non avventurarsi. E invece ci era piombata dentro a pié
pari, e non riusciva a divincolarsi da quella stretta ipnotica, mentre il suo
corpo si infiammava, quasi fosse stato su una pira sacrificale.
Hidan la sentì di nuovo, quella sensazione che lei gli aveva
fatto provare durante il loro primo incontro: una pulsione animale, un
acutizzazione dei sensi tanto forte da fargli percepire il profumo delle sue
mani, della sua pelle, la fluidità dei suoi movimenti, ed infine un insistente
rigonfiamento lì, nel mezzo delle gambe, che lo impacciava terribilmente.
Per carità, non che non sapesse di quale bisogno si
trattasse: non era sicuramente un ragazzino alle prime armi, ma la desiderava
con una furia ed un’irrazionalità a lui sconosciute.
Guardò gli occhi di Hinata, e gli parvero due enormi
lacrime.
Percepì la paura e l’ansia di lei e, invece di continuare e
di accompagnarla dritto a casa, seguendo la traiettoria del proprio naso, la
prese tra le braccia e la abbracciò.
Senza un vero motivo, un movente, nulla che si potesse scrivere
in un rapporto.
Però sapeva che era maledettamente bella, e che viveva
recondita in lei una malinconia infinita,una nostalgia a lui sconosciuta che
gliela fece apparire come una bambina fragile e intimorita, piuttosto che una
gran dama.
D’un tratto, Hinata sollevò il viso e lo guardò, dolcemente.
“Merci.”gli bisbigliò all’orecchio, in punta di
piedi.
E prima che Hidan potesse replicare, lei era già corsa via
nel buio, lasciandogli dentro una sensazione di tristezza infinita.
Una lacrima gli volò giù dagli occhi, e lui tornò indietro,
prima che Kakuzu si insospettisse.
Spazio
Cos:
Nonci credevate
e invece…è arrivato! Ebbene sì, signore e signori, eccoci qui con una bella
threesome in corso. Chi vincerà? Naruto o Hidan? Lo scopriremo solo leggendo!