A pugni col mondo.

di Kary91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A pugni col mondo. ***
Capitolo 2: *** Il Principe Pugile ***



Capitolo 1
*** A pugni col mondo. ***


Premessa. Questa storia è suddivisa in due one-shot ed è stata scritta per l’iniziativa “Ready, Set, Prompt!” indetta dal gruppo facebookThe Capitol”. Il prompt che ho utilizzato è la canzone “A pugni col mondo” degli Articolo 31. Entrambe le one-shot sono ambientate dopo la rivolta, durante il periodo che Gale trascorre nel Distretto 2. I protagonisti di questa prima parte sono Gale, il suo futuro migliore amico Quinn e Aris, il figlio di nove anni del Comandante dell’Accademia frequentata da Gale nel mio head-canon, già comparsi rispettivamente in “Goodbye, my lover” e “Guerriero”. Il War-R!ot (R!ot) è un locale localizzato, come già accennato nelle storie appena citate, di fianco all’Accademia di aeronautica militare e durante il suo periodo di addestramento Gale vi ha bazzicato parecchio, proprio assieme a Quinn e Aris. Dietro il locale si organizzavano tornei clandestini di pugilato e Gale, qualche volta, vi ha partecipato: la prima one-shot racconta proprio uno di questi incontri.

 

 

 

 

A Pugni col Mondo

1

 

 

«Certe sere tiene il fiato tanto che

la fine sembra lì a un secondo

e non crede più alle favole perché

ora fa a pugni con il mondo.»

A pugni col mondoArticolo 31

 

 

Non fa nulla per evitarlo.

Le nocche del suo avversario colpiscono di sbieco, spaccando l’angolo sinistro del labbro superiore.

Gale sbatte la schiena contro qualcuno dietro di lui, ma un paio di braccia più scure delle sue tornano a spingerlo al centro del ring.

 

Non è la prima volta che partecipa a un incontro di boxe, e nemmeno la seconda; sono ormai settimane che, con una scusa o l’altra, Quinn e Aris lo trascinano sul retro del R!ot – il pub di fianco all’Accademia –  per assistere a qualche incontro clandestino di pugilato.  Il primo a buttarlo nella mischia era stato proprio Aris, quando ancora si conoscevano poco o niente. Gli aveva alzato il braccio nel momento in cui l’arbitro cercava volontari e l’ultima cosa che ricorda dopo quel momento sono i suoi pugni che mulinavano senza regole né schemi e il dolore che si diffondeva nel suo corpo, azionato da colpi ben assestati.

E poi la rabbia, la frustrazione. E infine la pace. Il dolore gli aveva ribollito in corpo fino a evaporare, trascinandosi dietro la collera e il senso di colpa.

Così era tornato, torneo dopo torneo.

Quinn aveva incominciato ad allenarlo, a dargli qualche dritta perché imparasse a combattere di testa e non solo guidato dalla rabbia e dall’impulsività.

 

Quella sera, tuttavia, la sua mente è altrove e il suo corpo è vulnerabile, così l’avversario ne approfitta.

Un fischio di scherno si mescola alle incitazioni dei presenti e Gale intuisce all’istante che non è indirizzato a lui, perché la persona che l’ha emesso è la stessa che l’ha ributtato sul ring, stringendogli incoraggiante le spalle prima di lasciarlo andare: Quinn ha i denti digrignati come sempre, quando è nervoso, e i suoi pugni si agitano nell’aria in un vano tentativo di incoraggiare quelli dell’amico a fare altrettanto.

 

Al terzo pugno che Gale incassa senza ribattere, le mani dell’ex-soldato si uniscono a formare una T.

 

“Basta così” esclama, scuotendo una spalla dell’arbitro. L’altro si divincola con fare seccato e lo spinge indietro.

 

“Vuoi fare il mio lavoro, Gancio? L’ultima volta che ho controllato a decidere quando interrompere ero io” lo rimbrotta, seccato.

 

“L’ultima volta potresti anche esserti controllato quanti peli avevi sul culo, per quanto mi riguarda, me ne fregherebbe allo stesso modo. Fuoco[1] ha qualcosa che non va, c’è bisogno di una pausa.”

L’arbitro sbuffa seccato e scuote la testa, prima di approvare la sospensione dell’incontro; Quinn potrà anche comportarsi da rompipalle la maggior parte delle volte, ma Gale sa bene che è difficile trovare qualcuno da quelle parti che abbia voglia di attaccar briga con lui: in fondo negli incontri di pugilato Quinn “Gancio” Damienson resta il campione indiscusso.

 

Gale si lascia cadere su una sedia, subito circondato da un gruppetto di spettatori infastiditi – gente che probabilmente ha scommesso su di lui. Strizza gli occhi e si passa il guantone sul labbro spaccato, sperando che, a palpebre riaperte, la folla sarà scomparsa; non ha alcuna voglia di starsene in Time-Out. Si sentiva meglio prima, tra le grinfie del muscoloso coinquilino di ring.

 

Riapre gli occhi e quasi sbatte contro la testa riccioluta di Quinn. Lui e Aris sono chini sulla sua sedia e gli gridano all’orecchio qualcosa che per l’irritazione non riesce ad afferrare.

 

“Beh?” esclama il più grande dei due dopo un po’, facendo ciondolare la testa dell’amico. “Hai finito di fare la donnicciola?”

 

“Ancora non l’hai capito?”

 

Questa è la voce più acuta e leggermente grattata di Aris, che pianta gli occhi scuri e brucianti di rabbia dentro quelli di Gale. “Lo sta facendo apposta;  vuole farsi fare il culo, per sentirsi a posto con se stesso.”

 

Le parole di Aris suonano talmente ridicole che Gale non può fare a meno di ridere.

 

“Perché mai dovrei farmi picchiare?” chiede, prima di chiudere gli occhi di scatto, trafitto dal male alla testa.

 

Trattiene il fiato, concentrandosi sul labbro che pulsa e il dolore che avverte in tutto il corpo. E intanto pensa: pensa a tutto ciò che ha cercato di spingersi via di dosso con i pugni, ma che è radicato in lui così in profondità da non poter essere estirpato. Pensa ad Aris, che è così piccolo quanto sveglio e alla rabbia, al senso di colpa che prova verso se stesso.

Pensa che quel giorno non è in Accademia, perché è passato un anno esatto dalla fine della Rivolta: dal giorno del disastro a Capitol City e dalla morte di più di duecento bambini, tutti al di sotto dei quindici anni.

Pensa ai suoi compagni soldati che festeggiano il giorno di esonero dalle lezioni e tutto a un tratto la voglia di tornare sul Ring è più forte di prima.

Vuole colpire e avanzare fino a sfogare ogni tizzone di rabbia contro le ossa del suo avversario; ma vuole anche essere lui a spezzarsi.

Perché ogni pugno è un esplosione e ogni lamento è il pianto di un bambino la cui vita è finita in brandelli per causa sua. Ciascun urlo è il grido disperato di una donna – una madre, una sorella –che ha visto suo figlio prendere fuoco di fronte ai suoi occhi senza poter fare nulla per accorrere in aiuto.

Per questo, Gale incassa i pugni e fa male e fa bene.

Ma potrebbe fare più male; vorrebbe sentire più male.

Concentrare il dolore all’esterno, per strapparsi via da dentro quella tenaglia che lo punge a sorpresa ogni volta che il suo sguardo incrocia quello di un ragazzino. Ogni volta che intravede qualcuno con una treccia. Ogni volta che parla con suo fratello Rory al telefono e non può fare a meno di notare che i suoi modi scherzosi sono solo l’ombra un po’ fievole di ciò che erano stati in passato.

Ma poi i pugni arrivano, lui cade a terra. E fa male, e sta meglio.

Si graffia via dalla pelle quelle favole in cui credeva da bambino; quei racconti di libertà e ribellione con cui è cresciuto, ma che non ha saputo coltivare a dovere.

 

Uno schiaffo leggero lo distrae da quei pensieri. Quinn gli è di fronte, le mani appoggiate poco sopra il suo collo.

 

“Che ti succede?” domanda. I suoi occhi verdi, generalmente facili da guardare, si fanno impegnativi, perché accompagnati da un’espressione seria, da uno sguardo insolitamente apprensivo. Gale volta la testa e fissa il ring, sfuggendo a quell’occhiata. “Vedi di tirare fuori un po’ di grinta, va bene?”

 

Gli dà un buffetto su una guancia e Aris si fa avanti per imitarlo; solo, che il ragazzino lo schiaffeggia più forte, come se stesse cercando di svegliarlo.

Gli occhi scuri di Aris tornano a cercare i suoi con rabbia e, leggendo la delusione nel suo sguardo, Gale non può fare a meno di riscuotersi. Guardando Aris, lo scenario di guerra nella Capitale torna a farsi vivido e il frastuono dei presenti si fa ovattato, per lasciare il posto al boato delle esplosioni. Il sangue che gli sporca la parte inferiore del volto diventa quello di qualcun altro, qualcuno non più grande del bambino che ha di fronte. La vergogna e la rabbia mettono la colla sulle ferite che si è provocato grattandosi via di dosso le vecchie favole di ribellione che l’hanno ridotto così.

Poi si alza, annuisce a Quinn. Arruffa i capelli di Aris.

 

 

A quelle favole lui non ci crede più, ma è nato per muoversi e generare burrasca, così ancora una volta si fa avanti verso l’avversario.

Non trattene più il fiato in attesa della fine: colpisce e basta, anche se ha male dentro e ogni gancio è una miniera che si sgretola e lui è sulla punta, in attesa che il polverone sollevato soffochi i minatori al suo interno.

E fa male, lo uccide, ma continua a farsi avanti.

 

E a fare a pugni con il mondo.

 

 



[1] “Fuoco” è il soprannome che Quinn ha affibbiato a Gale quando erano entrambi allievi all’Accademia di aeronautica militare. Quinn si è poi fatto espellere dopo qualche mese per cattiva condotta.

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Capitolo 2
*** Il Principe Pugile ***


Premessa. Questa seconda storia si ispira anche ai prompt "Quando la vita ti prende a pugni, tu devi colpirla più forte" e “Fare a botte è roba da duri, non da femminucce” lasciati da Giraffetta per il Girotondo di Prompt indetto dal gruppo Facebook “The Capitol”. I protagonisti della storia sono Aris, già introdotto nella one-shot precedente, e Posy, la sorellina di Gale. L’amicizia fra i due ragazzini è stato approfondita nella one-shotGuerriero”. In questo racconto Aris ha quasi dodici anni, mentre Posy ne ha nove. Nel periodo durante il quale è ambientata la storia, Gale condivide le spese di un appartamento nel Distretto 2 con l’amico Quinn.

 

 

Il Principe Pugile

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«Se sarai espulso dal liceo avrai il disprezzo di tuo padre

che magari è un rispettato avvocato

che pensa alle brutte compagnie che ti hanno rovinato

e a quando gli hai urlato:

“Scusa tanto se non sono come te

io comincerò dal fondo

e non credo alle tue favole perché

faccio a pugni con il mondo.” »

 

 

“Ma che cosa ti è successo?”

Il sorriso si arrampicò vispo sulle labbra di Aris, nel momento in cui riconobbe la vocetta acuta di Posy.

Il ragazzino si intrufolò nell’appartamento dalla finestra, nonostante la bambina fosse già corsa ad aprirgli la porta. Una volta dentro si lasciò cadere su una sedia, cancellando con il polso il sudore che gli imperlava la fronte; aveva una guancia gonfia e arrossata e nuovi segni sulle braccia, ben evidenti ora che era estate e non li nascondeva più sotto le maniche di una felpa.


“Tuo papà ti ha picchiato di nuovo” constatò Posy, sfiorandogli il volto: sembrava preoccupata e i suoi occhi minacciavano già di farsi lucidi.

 

Aris si strinse nelle spalle.

 

“Ha di nuovo tentato di chiudermi dentro” sbottò, sferrando un calcio a una sedia. “Ma io in quella schifo di prigione non ci vado manco morto. Anzi, piuttosto mi uccido” dichiarò con aria di sfida, mettendosi a braccia conserte. Posy gli rifilò un’occhiataccia.

 

“Non dire queste cose, lo sai che non mi piacciono!” si lamentò, dandogli uno schiaffetto sul braccio. Quando intravide la sua smorfia di dolore si sentì subito in colpa; fissò con occhi sbarrati i segni di cintura sugli avambracci del ragazzo e arretrò di un passo, impressionata.

Aris, che se ne accorse, le posò una mano sulla spalla.


Eddai che non è niente, nanetta, vedrai che per domani sarò nuovo. Tuo fratello non c’è?” aggiunse, sbirciando verso la porta che dava sulla camera da letto.


La bambina scosse la testa.

 

“Lui e Quinn sono usciti; io sono rimasta a casa con Shae, è di là con Anakin[1]. Cercava di farlo dormire ma alla fine si è addormentata pure lei.”

 

Aris sorrise e socchiuse la porta per dare un’occhiata, prima di arrampicarsi sul tavolo. Posy lo imitò, aiutandosi con una sedia.

 

“Ma davvero sono così brutte queste scuole militari?” azzardò infine, facendo oscillare i piedi.

 

Aris roteò gli occhi.

 

“Secondo te? Certo che lo sono. Sei comandato dal mattino alla sera, non puoi mai uscire né parlare con quelli che stanno fuori e ci sono regole per tutto, probabilmente anche per come pulirsi il cu… Il culetto” si corresse con un ghigno, sorridendo affabile a Posy.

 

La bambina roteò gli occhi.

“Guarda che non ho più cinque anni” lo rimbeccò, ravviandosi i capelli con fare altezzoso.

Aris fischiò.

 

“Ne avrai sei, sai che roba…” commentò poi, scuotendo beffardo la testa.

 

“Ne ho nove, stupido!” replicò la ragazzina, dandogli una spallata. “Scusa!” aggiunse subito, ricordandosi delle ferite del ragazzo.

 

“Appunto, resti pur sempre una nanetta” la prese in giro Aris, arruffandole i capelli. “E comunque, le Accademie militari sono delle specie di prigioni per i ricchi. Io non ci sto: ho di meglio da fare che starmene dritto come un soldatino per delle ore… Perché guarda che quelli lo fanno, ti obbligano a metterti in posizione di saluto per un sacco di tempo solo per farti stancare. Parlano di resistenza, di disciplina, e blablabla… Ma quale resistenza? Ci fanno solo la figura degli idioti!”

 

Posy gli rifilò un’occhiata indispettita.

 

“Mio fratello no, però, lui non fa la figura dell’idiota” lo corresse, balzando giù dal tavolo.

Aris fece spallucce.

“E che c’entra lui? Tuo fratello è metà soldato e metà pugile,  si salva un po’ perché fa le cose di testa sua, ma quasi tutti gli altri sono dei robot.”

 

Si irrigidì e incominciò a muoversi a scatti, imitando le movenze di un automa.

“Comandi-sì-signore-Comandi!” esclamò, facendo ridere Posy.

 

“I miei fratelli passavano le giornate a parlare così quando erano allievi del primo corso. Ogni tanto penso a mio padre, tutto perfettino e in ordine e importante e potente, e me lo immagino quand’era anche lui solo un semplice soldato.”

 

Il sorriso di Aris si fece sornione e i suoi occhi si riempirono di malizia.

“Scommetto che l’hanno fatto sgobbare talmente tanto che ancora se lo ricorda, per questo adesso fa così lo stronzo con me: vuole vendicarsi. Però secondo me a lui piaceva farsi trattare come uno schiavetto” aggiunse, prima di balzare a sua volta a terra.

Si affacciò alla finestra e Posy lo seguì; notò che la sua espressione, adesso, si era fatta distante, come se i pensieri di Aris stessero viaggiando attraverso il Distretto, al di là della periferia, diretti verso l’Accademia.

 

“Beh, scusa tanto se non sono come te!” gridò a quel punto il ragazzino, rivolto all’aria che riempiva il vuoto fra un condominio e l’altro. “Io alle tue cazzate non ci credo.”

 

Posy appoggiò un gomito alla sua spalla e rimase con lui a guardare fuori per qualche minuto, lasciando che il silenzio e l’aria fresca ripulissero le ferite sul corpo di Aris e la rabbia nei suoi occhi.

 

“Tuo padre proprio non ci riesce a capirlo, che non ti serve fare il militare” mormorò infine, inseguendo con lo sguardo un gatto che faceva l’equilibrista su un muretto sbeccato. “Tanto fai già a pugni tutti i giorni con i cattivi, perché sei un guerriero.”

 

Aris le rivolse un sorrisetto compiaciuto.

 

“Faccio a pugni con il mondo” dichiarò fiero, portando le braccia al petto e muovendosi avanti e indietro sulle gambe. “Quando la vita ti prende a pugni, tu devi colpirla più forte

ed è questo che faccio io! Un giorno sarò il nuovo Gancio, vedrai: il pugile più in gamba del R!ot!”

 

Lo sguardo di Posy si illuminò.

 

“Insegni anche a me?” esclamò, tirandolo per un lembo della canottiera. “Voglio imparare a usare i guantoni come te e Gale, ma Gale non ha mai tempo! Quinn ha insegnato un po’ a Rory e a Vick, ma a me non ancora.”

 

Aris le rivolse una risata di scherno.

 

“Guarda che fare a botte è roba da duri, non da femminucce.”

Posy lo incenerì con lo sguardo.

“Va bene che per te sono nanetta, ma questo non significa che sono una femminuccia!” replicò, mostrandogli i pugni. “Insegnami a combattere, così te lo dimostro!”

Il ragazzino accolse la richiesta con un brillio di interesse nello sguardo.

“E va bene” dichiarò, facendole cenno di spostarsi al centro della cucina. “Vieni qui; ma non lamentarti, poi, se ti becchi qualche colpo. Non sono mica un principe azzurro come quello del libro che ti piace tanto[2].”

“Piccolo Principe” lo corresse la bambina, serrando le mani a pugno per cercare di imitare i movimenti di Aris. “Mi insegni a fare il gancio?”

“Prima impara a tenere bene la posizione…” la rimproverò il ragazzino, e abbassandole la testa. “… Mani alzate, gomiti in dentro e mento in giù.”

La bambina cercò di eseguire, portando un pugno sotto la guancia e il destro più in basso.

“Adesso ti serve un bel gioco di gambe” spiegò a quel punto Aris, incominciando a molleggiare sulle punte. “Devi muoverti il più possibile, altrimenti diventa più facile colpirti per l’altro.”

Posy portò una gamba avanti e spostò il peso a quella dietro e viceversa per una decina di volte, sempre mantenendo i pugni sollevati.

Aris l’osservò con le braccia incrociate sul petto e l’aria autoritaria, ma dopo qualche secondo scosse la testa e rise, suscitando l’irritazione della ragazzina.

“Non c’è niente da ridere!” lo rimbeccò Posy, smettendo di molleggiare.

“È che sei buffa, con quella faccia da dura” cercò di difendersi il più grande, dandole un colpetto sotto il mento. “Però buffa in maniera carina.”

“Quindi secondo te sono carina?” chiese con vivacità Posy.

Aris aggrottò le sopracciglia.

Seh, adesso non ci allarghiamo, eh?” commentò, tornando a incrociare le braccia sul petto. “Diciamo che sei bellina per essere una nanetta, ecco.”

La bambina roteò gli occhi, ma il suo sorriso luminoso la tradì.

“Ehi, Aris…” esclamò a quel punto. “… Ti va se ti racconto la storia del Piccolo Principe? Il pugilato me lo puoi sempre insegnare dopo.”

Il ragazzino le rivolse un’occhiata di sufficienza.

“Che?” commentò, lasciandosi sfuggire una smorfia mentre si tastava la guancia ancora più gonfia. “Scherzi, vero? Non è roba per me.”

“E invece sì che lo è” insistette Posy, tornando a sedersi sul tavolo. “In un certo senso è anche lui un guerriero come te. Certo, lui non fa a botte, ma cerca comunque di proteggere la sua rosa. E poi dice sempre che gli adulti sono strani e che non li capisce, proprio come fai tu ogni tanto.”

Aris non sembrava particolarmente impressionato dal suo racconto; continuò a fissare la ragazzina mantenendo un sopracciglio inarcato, ma poi sorrise, divertito dall’espressione ostinata di Posy.

“Ci sono soldati?” chiese a quel punto, tornando a sedersi sul tavolo. La bambina scosse la testa.

“Nemmeno l’ombra” promise, con un sorrisetto malandrino. “E non ci sono nemmeno dei padri.”

Quest’ultimo argomento sembrò attirare l’attenzione di Aris.

“E va bene” concluse, con riluttanza, appoggiando i gomiti al legno. “Parlami di questo Principe Gnomo.”

Posy non perse tempo a correggerlo come faceva di solito e incominciò a raccontare. Man mano che spiegava, l’attenzione dell’amico si faceva più vigile e lo sguardo scettico svaniva, così come le battutine con cui aveva cercato di interromperla i primi tempi.

“Lo sai? Questo pilota mi ricorda un po’ tuo fratello” commentò a un certo punto Aris, con un ghigno divertito. “Il Principe potresti essere te: su per giù siete rompipalle uguali.”

“Oppure potresti essere tu” osservò la bambina, mettendosi a braccia conserte.

“Neanche per sogno” borbottò Aris, sdraiandosi su un fianco. “Io sono un guerriero di quelli veri. Faccio a botte, non annaffio mica i fiorellini! E comunque come va avanti la storia? Certo che questi adulti che incontra lo gnometto sono veramente strambi… Il mio preferito, comunque, resta quello dei lampioni.”

Posy sorrise soddisfatta, mentre lo ascoltava parlare. Istintivamente gli prese la mano e se la portò in grembo, sotto lo sguardo interdetto di Aris. La esaminò con attenzione, inseguendo con le dita i graffietti più recenti – probabilmente frutto di qualche incomprensione con un gatto randagio – e le cicatrici biancastre.

Quel pomeriggio, osservando la mano di Aris e raccontandogli forse la prima favola che sentiva da tempo, Posy scoprì qualcosa che non dimenticò mai.

Scoprì che ad Aris, che cercava sempre di fare il ‘grande’ e l’orgoglioso, in fondo piaceva comportarsi da bambino. Solo che non poteva farlo molto spesso, perché era sempre impegnato a combattere. Lottava contro le regole della casa in cui era nato ma che non era, ne sarebbe mai stata adatta a lui.

Anche Aris, quel pomeriggio, imparò una cosa che non dimenticò mai. Scoprì non gli dispiaceva più di tanto cadere al tappeto quando era costretta a vedersela con il padre, perché tanto alla fine vinceva sempre lui: non si piegava, non si arrendeva. Andava dritto per la strada che si era scelto, un po’ come il Principe Nano, che era partito addirittura verso un altro pianeta.

Ma soprattutto, capì che ogni tanto si può credere alle favole anche se si fa a pugni con il mondo.

E così ci credette.

 

 

«E io finisco anche al tappeto altroché

ma questa vita un po' la cambio

se quando torno ad aspettarmi trovo te

io la mia casa la difendo

e si può credere alle favole anche se

fai a pugni con il mondo. »

A pugni col mondo. Articolo 31

 



[1] Shae è una cara amica di Gale e Quinn, che per un certo periodo vivrà assieme ai due ragazzi assieme al figlioletto di tre anni, Anakin.

[2] Riferimento a “Guerriero”: il Piccolo Principe è il libro preferito di Posy.

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