L'Esercito della Fenice - La Guerra Millenaria

di Kanako91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I. Sung'bar ***
Capitolo 2: *** Capitolo II. Gli Inferi ***
Capitolo 3: *** Capitolo III. Il Consiglio degli Otto Sovrani ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV. I due Re ***
Capitolo 5: *** Capitolo V. Gemma d'Autunno ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI. Partenza ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII. L'ombra del Re ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII. La Foresta Grigia ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX. Attacco ***
Capitolo 10: *** Capitolo X. Herzbrenht ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI. I Mercenari (a) ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI. I Mercenari (b) ***



Capitolo 1
*** Capitolo I. Sung'bar ***





Sung'bar, dihe 12, Vaedhorri, 2 henn del III Chranhenn.

Mi ci è voluto del tempo per raccogliere e dare una forma ed un senso alla gran quantità di materiale che ho accumulato durante e dopo i fatti che sto per raccontare. La parte più difficile è stata proprio parlare con colei che mi era stata più vicina, tra tutti coloro che ho incontrato. Nonostante avessi passato giorni e giorni in sua compagnia, non ero riuscito ad avere tutte le informazioni di cui avevo bisogno per quest'opera, perché lei doveva andare incontro al destino che si era scelta per poter vivere come lei desiderava. Grazie al Fato, mi è possibile dire di conoscerla piuttosto a fondo, o quantomeno di capirla meglio di molti, anche se sempre meno dell'unico uomo con cui abbia condiviso la sua intera esistenza e che non la abbandonerà tanto facilmente. Perché dopo averla scoperta davvero non la si può lasciare, non ci si può allontanare da lei, prima di sentire un gran vuoto.
Quel che vi sto presentando non è una ballata, né un poema epico; non è un racconto di guerra, né una storiografia; non si può definire la vita di tutte queste persone, Uomini, Elfi, Lucenti, Inferi, Divinità, che hanno vissuto questo momento cruciale della storia del Mondo Profano, con poche parole. Proprio per questo ho scritto questo lungo alternarsi di voci, pensieri e fatti che portarono alla fine del Secondo Grande Anno, per tramandare ai posteri, nel modo più efficace e realistico possibile, le gesta dell'Esercito della Fenice, di grandi dei e di instancabili Inferi. Perché tutto questo non venga dimenticato e sia trattato come si deve, cosa possibile solo a chi ha vissuto direttamente tutto questo. Cioè io.
Potrò sembrare presuntuoso, ma non è da me vantarmi. Sono solo realista e metto ciò in chiaro sin da subito. Forse nel parlare di qualche protagonista sarò un po' imparziale, ma starà a voi scegliere se accettare la mia visione o vedere la verità senza il filtro delle mie parole, come ha sempre cercato di fare Lei. Non sono mai stato un uomo dalla mente aperta, nonostante non possa permettermelo vista la mia natura, ma proprio per questo motivo ho incontrato sul cammino della mia vita quella donna.
A Lei dedico questa mia fatica, sperando che al suo risveglio le capiti una copia del mio lavoro tra le sue mani oramai immortali. Spero anche che il suo eterno amato mi perdoni per aver osato tanto,  lui comprende quel che provo.
Lo capisce, lo conosce, lo vive.
Buona lettura,
A.





I.
Sung’bar




Il Myurohon lasciò alle sue spalle la pianura del Regno del Nord, addentrandosi nella savana, al confine dei Campi di Sangue, avanzando instancabile, mettendo un piede davanti all'altro, rapido e spedito. Gli era stato dato un ordine e lo avrebbe portato a termine a qualsiasi costo. Nella sua mente, solitamente vuota, riecheggiavano solo le parole del suo Manipolatore. Non vedeva, non emetteva altro suono se non qualche verso inarticolato, non provava fatica né stanchezza. Il soldato perfetto per l'esercito delle Divinità. Un non-morto, uno zombi senz'anima e senza sentimenti.
Vai a Sung'bar e segui ogni suo movimento.
Non si poneva alcuna domanda riguardo a quell'ordine privo di alcun senso per lui. Non pensava, non gli serviva pensare. Lui doveva eseguire e basta. Era inutile qualsiasi altra funzione che lo avrebbe reso vivo. Il divino Al non aveva bisogno di compagni, amici, fedeli, ma solo di schiavi. Quale miglior schiavo di un Myurohon?
I giorni passarono, i chilometri si susseguirono veloci, portando lo zombi nel Deserto di Zinco, con le sue dune dorate e le terrificanti creature che abitavano nel buio a miglia sotto terra. Havernio, Cantabros, Svethios; poi la Notte con le sue ancelle Cathina l'arancione, Hyustas viola, Illiriha la verde, la grande Elvitias gialla ed infine Shillas la cremisi, per poi riprendere il ciclo d'accapo. I Soli e le Lune si susseguivano, noncuranti di coloro che illuminavano dall'alto della loro dimora. Ed il Myurohon proseguiva imperterrito verso la carovana che si iniziava ad intravedere all'orizzonte. Poco più di una giornata di cammino e l'avrebbe raggiunta.
Il soldato continuò a camminare anche di notte, non aveva bisogno di dormire. Si fermò solo quando sentì la Voce di qualcuno molto potente investire tutto il deserto al suo passaggio. La forza di quella mente lo investì in pieno, raggelandolo e facendogli quasi dimenticare gli ordini ricevuti. Quasi: essi, infatti, erano stati impressi molto in profondità, perché il suo Manipolatore non voleva disattendere il volere del suo sovrano. Non volontariamente.
Ci volle un po' perché il Myurohon si riprendesse e ripartisse. Aumentò il passo, andando quanto più veloce gli permetteva la sabbia sottile del Deserto di Zinco, che gli bruciava i piedi sotto i Soli cocenti. La carovana era sempre più vicina e, non appena Svethios calò, il gruppo di uomini, cammelli e cavalli del deserto si accampò. Era fatta, li aveva quasi raggiunti.
Le tende furono montate e, dopo un veloce pasto, gran parte delle luci fu spenta e alcuni soldati rimasero svegli per la ronda, mentre un grosso fuoco al centro dell'accampamento rischiarava la notte, aiutato dalle Lune. Il Myurohon si appostò su una duna sopra la carovana ferma e si distese sulla sabbia, poggiato sui gomiti. Avrebbe atteso lì, a distanza di sicurezza, che il gruppo riprendesse il viaggio per eseguire gli ordini che gli erano stati dati.
La rena fu smossa da qualcosa. O qualcuno. Lo zombi si voltò si scatto e, senza poterle vedere, si ritrovò due spade puntate alla gola, uno spadone a due mani ed un'elegante sciabola snella e lucente. Gli occhi bianchi, le cui pupille si erano rivolte verso l'interno della testa quando era stato richiamato alla vita dal negromante, rimasero fissi nel vuoto, ma se ne avesse avuto la possibilità li avrebbe sollevati.
«Un Myurohon», osservò una voce maschile, profonda e seria.
«Dannazione, cosa ci fa qui?», si lamentò una ragazza.
«Non ne ho idea...»
Lo spadone si allontanò dal collo del Myurohon e l'uomo si accovacciò davanti allo zombi, fissandolo curioso.
«È innocuo, non penso gli sia stato ordinato di uccidere».
«Non mi fido. Uccidiamolo».
La sciabola premette contro la gola del soldato delle Divinità ed una goccia di sangue nero scivolò lungo la pelle, incontrando le cuciture sul collo, che gli permettevano di avere il capo attaccato al busto.
«Fate quel che vi pare, dopotutto siete voi la regina.» si arrese l'uomo, mettendosi in piedi.
La ragazza sollevò il braccio sinistro, con cui reggeva la sciabola, e calò il fendente mortale sul Myurohon, che rimase immobile davanti alla distruzione, senza poter reagire in alcun modo. Perché non gli era stato ordinato. E perché la sua morte non valeva niente.
Era solo un granello di sabbia, nulla più.

Una goccia scivolò lenta dal ghiaccio alla schiena nuda del dio. I sensi risvegliati del signore dei Venti gli permisero di sentirla ed accoglierla con gioia e piacere. La sua prigionia era giunta al termine.
Avrebbe voluto stiracchiarsi, ma aveva le braccia bloccate da catene ed il resto del corpo dal blocco d'acqua congelata. La sua prigione. La sua gabbia. Tutto per un capriccio di Al. Non sapeva bene perché, ma qualcosa in lui gli diceva che era quel dannato la causa di tutto ciò. E perché, poi?
Non trovando la risposta, rimase in attesa. Anche la memoria sarebbe tornata, con calma, assieme alla libertà. Che fretta c'era? Dopotutto aveva l'eternità. Seicento anni rinchiuso in una cripta ghiacciata, al centro di una collina nel Regno d'Ovest, non erano nulla.
La rabbia lo pervase e lui si agitò, furente. , che erano qualcosa. Un ricordo doloroso lo assalì e gli venne voglia di gridare, senza però che la voce si liberasse dalla sua gola. Strattonò ancora le catene, che si rifiutarono di lasciarlo libero. Continuò a ribellarsi come una belva in gabbia, inferocito e disperato, mentre i ricordi gli annebbiavano la mente e lo dilaniavano. Cercò di urlare, di nuovo, e gli uscì solo un cupo ruggito. Si abbandonò, stremato.
Doveva attendere e pazientare. Ancora un po'.

Helena si rigirò nel letto, sempre più avvolta nelle lenzuola, finendo per far impigliare le gambe nella stoffa della camicia da notte. Poi, spazientita, si liberò dalle coperte e scese dal baldacchino. Doveva fare altro, doveva distrarsi, era orribile passare la notte insonne. S'infilò le pantofole ed una vestaglia, cercò qualcosa per far luce, ma alla fine si accontentò di usare la magia.
«Lahat».
(1)
Una sfera di luce si materializzò davanti a lei e rimase fluttuante in quella posizione, finché Helena non si mosse, diretta verso la specchiera. Si guardò e fece una smorfia contrariata. Aveva delle occhiaie spaventose ed i capelli corti e biondi arruffati. Ma quelli non erano un grosso problema. Afferrò una spazzola e li fece tornare l'ordinato caschetto dal taglio scalato di sempre. Gettò un altro sguardo al suo riflesso e incontrò di nuovo i suoi occhi azzurri, cerchiati di viola, nello specchio. Per fortuna Marihus era con Alexya, altrimenti il mattino dopo si sarebbe lamentato perché non era stata capace, ancora una volta, a dormire in santa pace.
Ma non ci posso fare niente, si consolò Helena, voltando le spalle al suo clone sul vetro. Si passò le mani sul volto e poi decise cosa fare. Dato che era preoccupata, sarebbe andata a placare i suoi timori. Nello studio, dunque.
Uscì dalla camera da letto, con le pareti rivestite di tessuto spesso e pregiato, passando nel soggiorno dai muri affrescati, in un perfetto ordine quasi innaturale. Si trovò nel corridoio dell'ultimo piano dello Smeraldo, il palazzo reale del Regno d'Ovest, a poca distanza da Borgo Smeraldo, la capitale che si estendeva ai piedi della colline del palazzo reale, fino alla costa sabbiosa. Si avviò verso le scale di marmo chiaro e le scese, silenziosa.
Tutto il castello dormiva nell'oscurità, a malapena rischiarata dalle Lune velate da nubi. Beati loro, sospirò tra sé la donna. Sollevò da terra un lembo della vestaglia che rischiava di farla inciampare ed andò avanti, preceduta dalla piccola sfera di luce.
Giunse fino al pianterreno e svoltò a destra verso un corridoio più ampio degli altri, percorso da nicchie in cui avevano trovato alloggio le statue dei precedenti re. Erano parecchi, così quelli più antichi erano stati tolti di mezzo, eccezion fatta per il fondatore del regno, Anathor, e le sue prime regine, le capostipiti delle due famiglie reali, Lahacilla e Thenesha.
Helena lanciò un rapido sguardo ai suoi antenati, sentendosi i loro occhi addosso. Sembra quasi che la stessero biasimando per la sua ansia e preoccupazione eccessiva. Pensa a te stessa e vai a dormire, parevano dirle, rimproverandola severi. O forse era il suo subconscio. Scosse la testa. Doveva calmarsi, in qualsiasi modo, o non sarebbe riuscita a chiudere occhio.
La donna arrivò nella sala dei due troni, in legno con la seduta e lo schienale imbottiti, alle cui spalle pendeva enorme lo stendardo verde del Regno d'Ovest, uno smeraldo davanti a due armi incrociate, uno spadone a due mani ed una sciabola. Ai lati dei seggi soprelevati, due porticine che quasi non si vedevano sulla parete affrescata con scene mitologiche e finti marmi. Si diresse proprio verso una di esse, vi posò la mano sul battente e spinse con delicatezza e decisione. La porta si schiuse e lei la aprì maggiormente, per accedere allo studio ordinato dietro di essa. Si guardò intorno e si sentì frustrata. Come si vedeva che non aveva avuto nient'altro da fare in quei giorni: le due scrivanie, messe una di fronte all'altra, erano in perfetto ordine, persino quella della cugina che aveva sempre mucchi di fogli e libri sui lati; gli scaffali erano impeccabili, tutti i tomi erano messi seguendo l'argomento e l'ordine alfabetico; i fiori nei vasi e le piante erano perfettamente freschi e curati.
Helena lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la parete delle porte e vide l'unica cosa che non c'era modo di rassettare: la mappa dipinta sulla parete, la Terra dei Cinque Popoli si estendeva in verticale sul muro, circondata dal Mare di Smeraldo ad Ovest e dal Gran Mare di Zaffiro ed Est; sopra gli ingressi si intravedevano le Terre della Magia che occupavano il resto del globo terrestre. La donna si avvicinò alla pittura e vide i due dischi, uno bianco con una L incisa sopra, uno nero con una T, che indicavano la posizione delle due Regine d'Ovest. Quello di Helena era situato sulla scritta “Borgo Smeraldo”. La pedina nera, invece, era a poca distanza da Sung'bar, la città del deserto, nei Campi di Sangue.
Alla vista del disco ancora aderente al muro, la regina bionda si rasserenò, solo un poco. Fosse morta Alexya, lei avrebbe trovato il tassello a terra. Helena sorrise e si diresse verso la sua scrivania, rivolta verso la finestra. Aprì un cassetto e prese il suo specchio per le comunicazioni, mettendolo in piedi con l'apposito supporto. Non le era bastata la rassicurazione della mappa, la sua ansia era dura a morire. Voleva controllare di persona e quell'artificio magico l'avrebbe aiutata.
«Ojha-vuls Alexya!»
(2)
Lo specchio baluginò, come reazione alla magia, e sul vetro apparve un cielo stellato. Quell'oggetto permetteva di vedere chi si voleva attraverso qualsiasi superficie riflettente presente dei pressi di tale persona.
Fece capolino nello specchio un viso maschile, giovane ma segnato dalle fatiche della guerra e da una larga cicatrice che partiva dalla tempia destra e finiva sullo stesso zigomo. Le folte sopracciglia si inarcarono, in un moto di sorpresa. I capelli erano dello stesso colore degli occhi, castani, tagliati corti e disordinati, con un codino alla base del collo ornato da anellini che riprendevano il verde scuro della divisa militare.
“Milady, mi avete fatto prendere un colpo”, iniziò Johan, il capitano delle guardie reali.
Helena si corrucciò. «Non credevo che la mia vista ti provocasse tali moti di orrore, Johan».
“No, per carità, milady! È solo che non mi aspettavo di sentirvi di nuovo, oggi”, replicò il soldato, a mo' di scusa, non troppo convinto delle sue parole. In realtà la stava accusando: siete talmente ansiosa che non vi è bastato parlare con vostra cugina tre ore fa.
Helena finse di non aver colto il reale significato delle parole di Johan e chiese di parlare con Alexya.
Il capitano scosse il capo e si grattò il mento, dove la barba sfatta gli provocava un fastidioso prurito. “Sono spiacente, ma Alexya sta dormendo. Lei non può permettersi occhiaie, dato che deve partecipare al Consiglio”.
La regina bionda aprì la bocca ed assunse un'espressione contrariata, senza però dir nulla. Subito di calmò, la rabbia non aveva mai trovato terreno fertile per le sue radici, nella sua anima.
«Sta bene?», domandò, infine.
Johan sospirò, esasperato. “Certamente, milady.” Guardò la donna riflessa nello scudo. “Non dovete preoccuparvi di vostra cugina, ha raggiunto la maggiore età e sa difendersi molto bene. Potrei persino lasciarla senza guardia del corpo...” Il capitano vide la regina precipitarsi a dare una risposta, ma glielo impedì: “...se solo questo non fosse l'unico modo per impedirle di avere sempre il vostro fiato sul collo. Dovete star tranquilla, vivere la vostra vita, ad Alexya ci penso io. Ed anche il vecchio Marihus.”
Vivere la mia vita, quando mai?, si domandò con una nota amara Helena, abbandonando la schiena contro la poltrona. Semplicemente il suo essere regina le impediva di vivere la sua vita. Doveva pensare al suo popolo, alla sua corte e pure stare attenta agli Anziani, anche se sembravano più interessati alla rovina della cugina ventenne che a quella di una donna matura come lei, sebbene solo sei anni separassero la nascita delle due regine. Helena doveva anche badare ad Alexya, che non le era sembrata tanto indipendente. Come poteva proprio Johan, una delle stampelle che mantenevano in piedi la giovane regina, dire a lei, Helena dei Lahacilliarum,di non preoccuparsi del sangue del suo sangue?
«Va bene, va bene», lo accontentò la bionda, giusto per far tacere il capitano. Poi osservò meglio l'uomo e vide che portava sottobraccio una cassetta di legno dipinto, che lei conosceva bene. «Johan, cosa ci fai con il portagioie di Alexya sottobraccio?», domandò sospettosa. «Non dovrò crederti un ladro...»
Il capitano fece un gesto noncurante “Oh, non è niente, milady, ho solo strappato il cuore a vostra cugina e lo conservo con cura”.
Helena lo fulminò, non sopportava simili scherzetti. «Johan», tuonò alterata.
L'uomo sorrise ed il suo volto parve tornare quello giovane e tranquillo di un tempo. “Alexya ed io siamo andati a fare una passeggiata ed abbiamo trovato un bel Myurohon tra le dune. Ovviamente vostra cugina ha fatto quel che fa sempre quando si trova davanti ad un'incognita: l'ha distrutto senza troppi complimenti. Questo a dimostrare che Alexya è capacissima a badare a...”
«Cosa?!» strillò Helena, balzando in avanti, gli occhi dilatati dalla sorpresa. «Un Myurohon? E cosa ci faceva ? Dovevate interrogarlo!»
Johan proseguì, ignorandola. “...se stessa. Fatto a pezzi il Myurohon, ci siamo incamminati verso l'accampamento, ma quello schifoso si è ricomposto, così ho dovuto assistere a vostra cugina che si accaniva sullo zombi. Si è sporcata il vestito, Marihus gliele ha dette di tutti i colori, anche perché non c'è acqua e quella potabile non possiamo sprecarla per lavare i vestiti. Alla fine, il Myurohon lo abbiamo messo in questo portagioie per non farlo fuggire. Appena a Sung'bar cercherò un negromante che lo uccida definitivamente”.
Helena era sparita da davanti allo specchio.
“Milady?” la chiamò Johan, diverse volte.
«Taci, maledetto soldato!» ordinò Helena, da qualche parte nello studio. Attese di calmarsi, per tornare alla poltrona della sua scrivania. «Mi stai dicendo che un Myurohon seguiva mia cugina e che nessuno si è preoccupato a capirne il motivo?», sibilò, massaggiandosi le tempie.
“Cosa volevate che rispondesse? I Myurohon non parlano, non hanno lingua, e soprattutto il loro Manipolatore non ordinerebbe mai che lo facciano.” L'espressione allegra e serena era svanita dal volto di Johan, lasciando uno sguardo duro e spietato, quello di un guerriero al servizio del trono d'Ovest.
Helena fu costretta ad accettare la dura realtà. Ma non si dava pace. Se un soldato delle Divinità stava pedinando Alexya, perché sapeva che era così, allora ci doveva essere un motivo. Le tornarono in mente le parole della cugina, la sera prima della partenza, il lampo di ribellione e sfida nei suoi occhi mentre le annunciava cosa voleva proporre al Consiglio degli Otto Sovrani. Qualcuno aveva ascoltato il loro discorso ed esso era giunto fino alle orecchie del divino Al. Non vi era altra spiegazione.
La regina bionda si passò una mano sul viso. Poteva dire addio al sonno. Non sarebbe più riuscita a dormire finché non avesse avuto notizie di Alexya dopo il Consiglio. Congedò Johan e si avvicinò alla parete alla sua sinistra, nascosta da uno scaffale pieno zeppo di libri. Si avvicinò all'unico libro che non seguiva nessun ordine razionale, dalla copertina verde smeraldo, che recava inciso sul fronte il titolo “La storia del Regno d'Ovest – Da Anathor alla XXIII Famiglia”. Lo prese in mano, mentre infilava il braccio libero nel posto lasciato vuoto dal tomo. Incontrò una leva sul fondo della libreria e la ruotò verso destra. La parete indietreggiò e si fermò con un tonfo.
Helena entrò nel varco lasciato libero dallo scaffale e posò il libro verde per terra, lasciando l'ingresso aperto alle sue spalle. Davanti a lei, nella più completa oscurità, delle scale di fredda pietra grigia la condussero fino ad un cunicolo, umido e stretto, terminante in una vasca a raso di acqua cristallina che emetteva una lieve luce. La regina abbandonò le pantofole ed attraversò la piscina di purificazione, giungendo davanti ad una grande porta di legno massiccio. Dai battenti emergevano le figure scolpite di Niharn, dea dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest, e di suo figlio Zephiro, il dio dei Venti, patrono della famiglia reale. Le loro mani reggevano grossi anelli di ottone, che Helena tirò a sé per aprire il portone.
Dinanzi a lei, la cripta nella roccia, illuminata da un'innaturale luce azzurrina, si spalancò con le colonne eleganti che la percorrevano in lunghezza, dividendola in cinque navate, il pavimento di marmo celeste e, in fondo alla sala, l'altare col piano di zaffiro, sopra il quale era sospeso un blocco di ghiaccio di forma piramidale.
Una goccia cadde sull'altare, dando il benvenuto alla gran sacerdotessa di Zephiro.

Un botto e acqua da tutte le parti. Helena cadde all'indietro, gli occhi sgranati, mentre il signore dei Venti libero dalla sua prigione di ghiaccio atterrava sullo zaffiro dell'altare. Le ali azzurro cielo erano spalancate e gocciolavano, il gonnellino con decorazioni geometriche blu e verde chiaro era completamente zuppo, il corpo statuario del dio era imperlato di gocce d'acqua.
La regina bionda deglutì a fatica, tenendo le mani premute sul petto, mentre gli occhi scivolavano su Zephiro in piedi sull'altare. Il dio ritrasse le splendide ali, che si ridussero ad un tatuaggio sulle scapole. I chobi, decorazioni per i capelli usate da poche Divinità antiche, batterono contro il petto di marmo del signore dei Venti, attaccate alle punte di due grosse ciocche di capelli turchesi che cadevano ai lati del viso dai lineamenti spigolosi del dio, mentre il resto della sua chioma era fermato dietro la testa da due bastoncini decorati seguendo il motivo ad onde sfumate di blu dei chobi.
Zephiro lanciò uno sguardo curioso alla donna seduta per terra ed il suo cuore si riempì di gratitudine. Erano state le preghiere ardenti di quella donna a permettergli di tornare libero più in fretta di quanto avesse previsto. Scese dall'altare con un balzo aggraziato e si avvicinò alla regina bionda, che lo fissava ancora a bocca aperta.
Il signore dei Venti si accovacciò davanti a lei e le accarezzò un guancia. La sensazione della calda pelle umana fu un accoglienza piacevole e dolorosa nel contempo. I ricordi che lo avevano torturato durante il suo lento risveglio erano ancora vividi nella sua mente, ma quella donna minuta e splendente sembrava adatta a lenire la sua sofferenza.
«Posso sapere chi siete, milady?», le domandò Zephiro, con un filo di voce, leggera e calda come una brezza estiva, che Helena sentì chiaramente nella sua testa.
La regina gli disse nome, famiglia di appartenenza ed il suo titolo. La fronte di Zephiro si aggrottò un attimo, al passaggio di un pensiero molesto, ma si rasserenò, come se non fosse capitato nulla.
«Oh, milady, non posso far altro ringraziarvi», così dicendo le posò un delicato bacio sulla frangia che copriva la fronte.
Helena restò immobile, non sapendo bene che fare. Quando era stata investita gran sacerdotessa di Zephiro, le era stato detto che il suo dio era imprigionato in quella cripta, ma con tutte le volte che si era recata lì per pregare, il dio addormentato nel blocco di ghiaccio non aveva mai dato segni di vita. Non capiva come fosse possibile che quella notte il signore dei Venti fosse balzato fuori dalla sua prigione. Quindi, quel giorno, era giunta la fine della sua pena. Non poteva esserci altro motivo.
«Di cosa, divino?» domandò la donna, con tono sommesso.
Zephiro le rivolse un sorriso dolce e le accarezzò di nuovo la guancia, questa volta provando solo il piacere della carne calda e vellutata di una donna umana. Gli Uomini gli erano sempre piaciuti per quello, fragili e mortali come lui non era mai stato.
«Mi pare logico che non lo sappiate, ma per ripagarvi per l'aiuto che mi avete dato sarò sempre al vostro fianco e vi spiegherò quel che nessun altro conosce, oltre a noi Divinità. Ma vi prego», si interruppe il dio dei Venti. Posò le mani sulle braccia di Helena e la sollevò da terra. Quando furono entrambi ritti in piedi vide che la donna gli arrivava appena all'altezza delle sue spalle. Il suo cuore si riempì di tenerezza. Così piccola, così fragile, Helena gli sembrava una bella bambola. Indietreggiò verso l'altare e si poggiò ad esso, abbassandosi un po', per permettere alla regina di guardarlo negli occhi.
Helena rimase incantata quando rivolse il suo sguardo verso quello del dio. Era risaputo in tutto il Mondo Profano che il segno distintivo delle Divinità, prima di qualsiasi altra cosa, erano i loro occhi neri: nessun'altra creatura in tutto il globo poteva avere le iridi color della tenebra, se non chi aveva nelle proprie vene sangue divino; e comunque, gli occhi dei mezzosangue non erano di quel colore così stupefacente, di ossidiana pura, di pece liquida, capace di soggiogare all'istante. La regina finì nelle catene di quello sguardo nero e solo il dio avrebbe potuto liberarla. E lo fece, chiudendo gli occhi. Soltanto allora la donna notò che il bistro con cui tutte le Divinità mettevano in risalto la loro unicità non era presente. Vi erano dei rimasugli del trucco nero degli occhi, ma erano privi d'importanza.
«Milady,» richiamò la sua attenzione Zephiro, sfiorandole il viso con la punta delle dita. «Ricordate quel che vi sto per dire. Le Divinità maggiori hanno una capacità che le rende diverse a quelle comuni: ogni volta che il loro nome viene pronunciato da una creatura del Mondo Profano, esse acquistano potere. È così che, grazie al vostro fervore religioso, io ho avuto il potere necessario per liberarmi più in fretta dalla mia prigione. Avete capito?»
Helena rimase senza parole. Ecco perché l'aveva ringraziata. Chinò il capo, umilmente.
«Ho fatto solo ciò che era in mio dovere, divino. Non avete nulla di cui ringraziarmi, non avete nessun debito nei miei confronti», si affrettò a dire la regina.
Il dio dei Venti le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo negli occhi. La donna cadde ancora una  volta vittima dell'incanto del suo sguardo di pece liquida.
«Non mi interessa, Vostra Grazia, io ho deciso così. Perciò accettate la mia offerta, altrimenti potrei prenderle il vostro rifiuto come un'offesa».
Sconfitta, Helena annuì e chiese perdono per il suo comportamento. Zephiro sorrise.
«Mi pregavate di aiutare vostra cugina. Per quale motivo?», domandò il dio, prendendo la mano della regina ed avviandosi verso l'uscita dalla cripta.
Helena si tormentò il labbro inferiore, prima di rispondere.
«Ha in mente idee che la metteranno in una posizione pericolosa di fronte al divino Al», biascicò la donna. Nella sua mente tornò prepotente il ricordo del discorso prima della partenza.
 La Guerra Millenaria, cugina. Io diventerò colei che sarà ricordata in tutto il Mondo Profano, per i secoli a venire, come l'unica ad aver posto fine allo scontro eterno tra Divinità ed Inferi. Già mi ci vedo, in piedi davanti ad Al che mi implora perdono.
Alexya aveva riso sguaiatamente alla fine di quella frase, ma Helena era impallidita mortalmente. Quando la regina bionda raccontò a Zephiro, di cui non poteva far altro che fidarsi ciecamente, i piani segreti della cugina, negli occhi del signore dei Venti lampeggiò qualcosa di indecifrabile. Helena rimase interdetta da quel che aveva visto, però si lasciò trasportare dal dio all'interno dello Smeraldo, senza domandarsi nulla.

I tre Soli erano alti nel cielo e segnavano il mezzogiorno. Dinanzi agli occhi meravigliati di Alexya si stagliò verso il cielo la colossale torre di pietra nera, dalla base tozza da cui partivano quattro tentacoli affondati nella sabbia del deserto, e che andava assottigliandosi per culminare in una grossa struttura ottagonale di vetro, tagliata come una gemma preziosa. Quello era il luogo in cui si riuniva il Consiglio degli Otto Sovrani, dove si sarebbe recata la Regina d'Ovest il giorno successivo.
Sung'bar, la capitale del deserto, si estendeva sotto la superficie terrestre, nascosta sotto la sabbia dorata che si estendeva ovunque. Johan lanciò uno sguardo attorno a sé, riflettendo ancora una volta sulla bizzarria di quel luogo. Vi si era recato spesso, al seguito della regina Helena, eppure non finiva mai di sorprendersi. Non che lo vedesse da prospettive differenti o notasse nuovi particolari, ma semplicemente non riusciva mai a risolvere l'enigma di quel luogo sconclusionato. Nei Campi di Sangue l'unica certezza era il Deserto di Zinco, centrale allo stato, mentre il resto del territorio variava dalle lussureggianti pianure ad Est, alle paludi e alla savana a Nord, dalla steppa a Sud alla grande foresta ad Ovest, che procedendo verso il fiume Sudrione, che nemmeno passava da quei territori, ma che costituiva comunque un beneficio per essi, la Foresta Grigia faceva da padrona. Helena aveva detto che i Campi di Sangue erano così a causa della Guerra Millenaria, che concentrava una grossa quantità di magia in quei luoghi che subivano inevitabilmente mutamenti senza senso.
«Finalmente civiltà!» cantilenò a squarciagola Alexya, sollevando le braccia in aria, in segno di vittoria.
Marihus sbuffò sonoramente e la risposta della regina fu un semplice gesto, che mandava il maggiordomo a quel paese.
«Suvvia, vecchio, è una bambina e poi siamo tutti amici qua», lo rassicurò Johan, affiancandosi alla giumenta dell'uomo di mezza età, vestito di tutto punto persino nel deserto.
«Una bambina lo dici a qualcun altro! Guardala!» indicò Alexya, in sella ad un elegante cavallo del deserto, comprato apposta per quel viaggio, che gridava oscenità assieme ai soldati della sua guardia. «Ha vent'anni, Johan, e continua a non rendersi conto del suo ruolo!»
Johan tirò una pacca a Marihus, che quasi cadde dalla sua cavalcatura con un urlo disumano. Il capitano della guardia reale gli agguantò un braccio e lo tenne in groppa alla giumenta. Il maggiordomo si aggiustò i capelli brizzolati, tirandoseli all'indietro, e borbottò contro il giovane.
«Eh, la sottovalutate, te ed Helena. Quella ragazza un giorno vi lascerà senza parole!» disse Johan, sicuro di sé. Poi, con un colpo di talloni ai fianchi del suo cavallo, spinse l'animale verso la regina, che continuava a ridere con i soldati. Il capitano sorrise benevolo. Quella ragazza aveva la stoffa per comandare un esercito, dopotutto era figlia di Garstand, uno dei re più abili in guerra della storia del Regno d'Ovest. Suo padre l'aveva cresciuta a pane e arti militari. Inoltre, Alexya aveva avuto lui, Johan, come insegnante di arti marziali, quindi non era altro che la guerriera più letale dell'Ovest. Ne andava fiero, sapeva di aver ragione, e la stima dell'esercito era una conferma. Questo, però, non significava che negli altri ambiti se la cavasse altrettanto bene.
«Milady, spero non vogliate entrare in Sung'bar vestita in quel modo», la rimbrottò Johan, con fare bonario.
Alexya inarcò le sopracciglia e lanciò uno sguardo ai suoi indumenti: pantaloni larghi, di tela leggera, una camicia da uomo di lino, rubata dalla sacca di Johan, stivali di pelle da cavallerizza. «Da quando in qua un rozzo soldato come te si preoccupa di cosa indossi una regina del mio calibro? Non è che viaggiare con Marihus ti ha fatto prendere la sua stessa malattia?».
Johan rise, mentre i soldati rimanevano indietro. «Tranquilla, milady, sareste splendida anche vestita di stracci. È solo che non tutti i vostri pari apprezzano tanta semplicità».
Alexya tirò un pugno in testa al capitano, con un ghigno. «Taci, adulatore di...»
Un urlo di Marihus impedì alla regina di proseguire. «Non usate quel linguaggio da scaricatore di porto, milady!» gridò ancora il maggiordomo. E continuò, con un tono di voce normale ed un'espressione contrariata. «Ecco cosa succede a passare il proprio tempo tra i rozzi soldati, puah».
La regina roteò gli occhi verdi e fermò il cavallo. «Mi cambierò qui!» Fece per slacciare i legacci della camicia, quando Hanan, l'unica ancella cui avesse permesso di seguirla, strillò piena d'orrore. Marihus spalancò la bocca, esterrefatto.
Alexya e Johan, invece, scoppiarono a ridere. Lei non aveva davvero intenzione di denudarsi davanti a soldati in astinenza come quelli che la seguivano. Non era così stupida.
«E allora sbrigatevi, ritardatari!» gridò ai due che si avvicinavano lentamente, il maggiordomo in groppa alla sua giumenta stanca e bizzosa, Hanan sul cammello che avevano acciuffato durante il viaggio e che era carico di bagagli, alleggerendo così i cavalli.
Quando la regina fu pronta, uscì dalla tenda che era stata montata per farla vestire al riparo da occhi indiscreti. Non sembrava decisamente di buon umore.
«Provate a toccarmi i capelli e vi taglio le mani!» ringhiò passandosi le dita nella sua castana chioma boccoluta, gli occhi verdi che lanciavano fiamme.
Johan fece per avvicinarsi alla regina per aiutarla a salire a cavallo, ma due soldati lo precedettero, sghignazzando. Non appena Alexya li vide porgerle le mani, lanciò un urlo e saltò in groppa alla sua cavalcatura spaventata dall'aura tempestosa del suo conducente.
«Tornate a fare i soldati, marrani!» ringhiò e spronò il cavallo, costringendolo al galoppo nella sabbia bollente.
Johan ringraziò il cielo perché non era andato di persona ad aiutarla. Con i soldati si era trattenuta, ma contro di lui avrebbe sfoderato la spada. Anche perché lei sapeva che, se il capitano le avesse mostrato mai un qualche gesto di cortesia, lo avrebbe fatto solo per prendersi gioco di lei.

Sung’bar, dove due millenni fa Nephas, il primo re degli Inferi, era stato ferito a morte da Al, era una città piena di vita: le strette stradine erano sempre affollate, le case di roccia scura erano attaccate le une alle altre, vi era un gran chiasso, tra le grida dei mercanti ed il chiacchiericcio della gente. Ma quello era solo il primo livello, il secondo già iniziava ad essere più tranquillo ed era lì che si trovavano le dimore dei nobili; mentre al terzo livello abitavano coloro che solitamente si trovavano nelle periferie dei centri urbani: attori,  maghi, ciarlatani, medici, guaritori, negromanti.
Per entrare in quel mondo sotterraneo si doveva passare un posto di blocco lungo le basse mura che attorniavano la torre di roccia nera. La cinta muraria era realizzata con mattoni di pietra rossastra e si alzava da terra solo di due metri. Non erano delle vere e proprie fortificazioni, ma solo la protezione per la rampa che circondava la città e scendeva sotto terra.
Johan entrò nel tunnel e cominciò a sudare freddo. Odiava i posti così chiusi e bui. Dopotutto era un soldato, non doveva vivere in simili cunicoli per ratti. Mentre il capitano della guardia reale cercava di tranquillizzarsi, Alexya gli si accostò e, ancora nervosa per il vestito troppo elegante e sfarzoso che aveva dovuto indossare, rigirò il coltello nella piaga.
«Trovo questo posto molto confortevole, non è così, Johan? Umido e scuro al punto giusto. Poi quest'odore di chiuso è spettacolare!»
Piccola vipera, imprecò il soldato, stringendo i denti per non dar voce ai suoi pensieri. L'avesse fatto, Alexya si sarebbe divertita ancor di più ed avrebbe continuato a tormentarlo ad oltranza.
Dopo diverse battutacce riguardo la claustrofobia di Johan, Alexya si stufò e spinse il cavallo ad accelerare il passo. Passarono dalla porta del primo livello ed i soldati, al sentire il vociare continuo, l'odore di cibo, di sudore, di animali, presi dalla nostalgia dopo quei quattro giorni passati lontani dalla gente, domandarono il congedo al loro comandate, che glielo accordò senza pensarci due volte.
«Ah, dopo ci voglio andare anch'io!» annunciò Alexya, quando le guardie reali si furono allontanate nella folla.
Marihus gemette, al pensiero della sua regina in mezzo a gente rozza e malintenzionata. Ma si ricordò che andava spesso con Johan in giro per taverne a Borgo Smeraldo e che aveva sempre utilizzato quelle “passeggiate” per conoscere meglio le persone. Proprio grazie a questo suo mischiarsi al popolo che Alexya era abbastanza ben voluta dagli abitanti della capitale d'Ovest. Il maggiordomo sospirò, mentre Hanan gli lanciava un'occhiata preoccupata.
Proseguirono fino al secondo livello e si addentrarono nelle sue strade tranquille e silenziose, più ampie rispetto a quelle del piano superiore.
L’albergo Liocorno era noto in tutto il Mondo Profano per essere il più sontuoso e regale in assoluto, tanto da poter far invidia al divino Al in persona: non a caso era stato sempre scelto come alloggio momentaneo per i sovrani del Consiglio. Un’aria dorata e lucente lo circondava, completamente differente dall’ocra, dal rosso, dal marrone e dal nero degli altri edifici. L’entrata era ampia, tanto da permettere alle carrozze di entrare nel cortile interno, che conduceva ai corridoi degli appartamenti ed alla hall dell’albergo. Le pietre delle pareti non erano quelle tipiche dei Campi di Sangue, erano invece di un colore dorato e più malleabili delle altre. La placca che indicava il nome era in oro ed aveva inciso un unicorno che galoppava con i crini al vento.
La comitiva entrò nel cortile e fu accolta da servitori in livrea, eleganti e garbati, che aiutarono le donne a scendere da cavallo e presero i bagagli per portarli all’interno dell’albergo.
Johan non abbandonò la sua cavalcatura e, non appena un servo prese il portagioie contenente il Myurohon prigioniero, lo intercettò e lo caricò sul suo cavallo. Il ragazzo lo fissò perplesso, ma riprese a fare il suo lavoro senza porre domande.
Il comandante attese di vedere Alexya accompagnata di Marihus far il suo ingresso nella hall e tornò in strada, diretto al terzo livello, alla ricerca di un negromante che potesse uccidere lo zombi. Il suo lavoro, per ora, lo aveva terminato. Un maggiordomo era più utile di un rozzo soldato nel parlare con gente raffinata come quella del Liocorno.

.-.-.-.

Minidizionario Maholhan-Italiano:

(1) Lahat: luce
(2) Ojha-vuls Alexya!: voglio vedere Alexya!

Ciao! Per chiunque sia arrivato sino alla fine, grazie!
Spero non sia stata una lettura pesante o noiosa, soprattutto perchè non accade tanto in questo capitolo ed è più introduttivo.  
Credo di aver trovato e corretto tutti gli errori, ma nel caso ve ne siano perdonatemi (ed indicatemeli, così li correggo ;]).
Per qualsiasi informazione o dubbio, chiedete pure!

Kanako

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Capitolo 2
*** Capitolo II. Gli Inferi ***



Grazie a myki, Dark Magician e quigon89.

Per questo capitolo consiglio l'ascolto di Eyes On Fire di Blue Foundation (http://it.youtube.com/watch?v=DTj1cXJEn34) dall'uscita dal Liocorno e Wild Rover di Týr (http://it.youtube.com/watch?v=leVxwYdteJs) per il primo livello di Sung'bar.
Buona lettura ;)


II.
Gli Inferi




Marihus oltrepassò la soglia del Liocorno, lasciandosi alle spalle la porta scorrevole di vetro e pestando un tappeto scarlatto, che attraversava tutta la hall e saliva le scale fin dove giungeva l'occhio. Le luci dorate accoglievano i visitatori in un caldo abbraccio di lusso e luminosità. Il maggiordomo camminò a testa alta nella sala semi-deserta, precedendo la sua signora ed Hanan che perdevano tempo a guardarsi attorno ammirate.
L'uomo si avvicinò al bancone dietro il quale un giovane e due donne trafficavano indaffarati tra plichi di fogli e specchi per le comunicazioni. Marihus poggiò un gomito al piano, con aria superiore, ma si sgonfiò subito quando il ragazzo, il cui nome sul cartellino era Sand, lo accolse con un sorriso smagliante, studiato a perfezione.
«Losdihe, signore! Dite pure», lo accolse Sand, continuando ad impilare fogli. (1)
Marihus assunse un'espressione afflitta davanti a tutta quella cordialità. Il ragazzo sembrava una macchinetta e lui si sentiva uno stupido che parlava ad un giocattolo.
«Beh, dovrebbe essere stata prenotata una camera...»
«A che nome, signore?»
Il maggiordomo roteò gli occhi. Non gli dava nemmeno la possibilità di parlare, che diamine! Prese quel gesto come una sfida e disse la frase successiva a gran velocità, senza che però si capisse una singola parola del suo discorso. Tuttavia, l'espressione di Sand non mutò.
«Scusate la mia disattenzione, potete ripetere?», domandò gentilmente il ragazzo.
Marihus stava per rispondere come avrebbe fatto con un demente, pregustandosi la vittoria, quando sentì una mano artigliargli il braccio con forza disumana. O meglio, poco femminile. Senza nemmeno voltarsi sapeva chi fosse.
«Alexya dei Thenesharum, grazie», replicò al suo posto la regina, continuando a stringergli con forza l'arto. Marihus fece una smorfia sofferente e cercò di liberarsi della mano di Alexya, inutilmente.
«Losdihe, Vostra Grazia» la salutò Sand, allungando la mano verso una scatola divisa in sezioni. Non degnò di uno sguardo la tesserina che prese a colpo sicuro e la porse alla ragazza. «Spero che godiate del vostro soggiorno al Liocorno, milady».
Con un sorriso e qualche frase di circostanza, Alexya si allontanò da sola verso l'ascensore in fondo alla sala, proprio di fianco alle scale di marmo color crema. Sulla parete vi era una mappa dell'albergo che la regina si fermò a consultare, rigirandosi tra le mani la tessera. Marihus le andò incontro, con le braccia dietro la schiena.
«Milady, non vorrei essere scortese, ma le vostre stanze sono nell'ala Sud e per accedervi bisogna uscire dall'edificio, passare da sotto i portici e giungere nella struttura alla destra di questa, giungendo dal cortile», le fece notare casualmente il maggiordomo, parlando veloce.
«Oh, l'avevo capito» ribatté Alexya, con tono acido. «Stavo osservando l'intera mappa per memorizzarla in caso di necessità. Sai che non c'è mai nulla...»
«...che non possa essere imparato, bla bla bla.» concluse Marihus, scocciato. «Ora, se invece di citare vostro padre a tempo perso, vi decidete a recarvi nelle vostre stanze...»
«Giusto», lo interruppe Alexya, annuendo. «Vado a farmi un bel bagno e poi corro al primo livello».
Marihus stava già per iniziare la sua solita serie di lamentele ed Alexya si voltò per uscire dalla hall. Passando davanti al bancone, salutò con un cenno del capo i tre umani che risposero con un coro di “buon divertimento”. Varcarono la soglia della porta scorrevole e svoltarono a sinistra, sotto i portici di pietra di un tenue ocra.
«Hanan dov'è?» domandò Marihus, notando solo allora l'assenza della dama di compagnia della regina. La ragazza fece per rispondere ma si bloccò.
In fondo al colonnato un gruppo svoltò ed avanzò nella direzione di Alexya e Marihus. Un uomo ammantato di rosso sangue procedeva in capo al quartetto e, man mano che si avvicinavano, si distinse alla destra del primo una giovane donna dai capelli color platino, raccolti in un'elaborata acconciatura, con occhi blu e vestita di un elegantissimo abito color borgogna. A seguire, un Elfo dai capelli castano scuro, fermati dietro la nuca, le orecchie lunghe ed appuntite, piene di orecchini ad anello che scintillavano e occhi di colori differenti: il destro era celeste, il sinistro dorato. Infine, un giovane vestito di un'umile mantellina di lana grezza, con la chioma blu notte e due ciocche bianche legate in modo da sembrare orecchie di lupo.
Marihus, non appena riconobbe chi si stava avvicinando, afferrò il braccio di Alexya, che aveva iniziato a decelerare fino a fermarsi, gli occhi spalancati. Un brivido le percorse la schiena nell'incontrare gli occhi penetranti del capogruppo.
«Milady, passiamo dal cortile» le suggerì a mezza voce il maggiordomo. Ma sentì su di sé lo sguardo gelido dell'uomo in rosso e si pentì di aver parlato. Ormai era troppo tardi. Alexya li aveva incontrati, ormai.
Il giovane uomo che precedeva tutti proseguì col suo passo fluido e felino, né troppo veloce né il contrario. I capelli corvini scendevano lunghi, lisci e perfettamente ordinati lungo la schiena e sulle spalle muscolose, che si intravedevano pur nascoste dai vestiti, e nascondevano il lato mancino del suo volto, mentre l'altra metà era sovrastata da una frangia lunga. La sua carnagione era di un candore simile alla neve, i lineamenti del suo viso erano ben definiti ed eleganti. Gli occhi dal taglio allungato avevano le iridi color argento liquido. Il formale vestito nero era corredato da bottoni recanti il simbolo del suo regno, le Terre d'Ombra: un pipistrello nero stilizzato le cui ali si incontravano in aria, seguendo il cerchio argenteo in cui erano contenute.
L'uomo rallentò nell'avvicinarsi ad Alexya e la guardò con attenzione, studiando ogni particolare con la curiosità di un predatore. Schiuse un attimo le labbra sottili, come se volesse dire qualcosa, ma passò oltre, lasciando che i capelli d'ebano ed il mantello cremisi svolazzassero alle sue spalle. Attaccati alle sue orecchie, scintillarono degli orecchini che la regina notò con stupore. Gli anelli d'argento erano trascurabili, non volevano dire nulla, ma i pendenti dalla montatura di avorio, una perla nera sferica ed una allungata grigia,  non facevano altro che ribadire l'identità della creatura misteriosa.
Il resto del gruppo passò affianco ad Alexya e solo la donna bionda le prestò attenzione, lanciandole uno sguardo minaccioso.
Quando il quartetto si fu allontanato, Marihus mollò la presa dal braccio di Alexya e proseguirono, senza parlare fino alla stanza della ragazza. La domanda su Hanan rimase senza risposta, finché l'ancella non raggiunse correndo i due.
«Perdonatemi, ho dovuto dare le indicazioni sui bagagli ai facchini e sono andata in bagno» spiegò ansimando.
Marihus degnò di poca attenzione Hanan, che si lasciò andare sul un divano della suite. Alexya sospirò rumorosamente.
«Quelli erano Inferi», disse la ragazza, con tono incerto, rivolgendo uno sguardo indecifrabile al maggiordomo. Non attese la risposta dell'uomo e proseguì, guardandosi allo specchio dell'ingresso. Si passò le mani sul viso, ricordando con un certo imbarazzo la sua reazione al re Infero. Si voltò verso Marihus. «Quell'uomo...»
«Lord Nicholas» la corresse il maggiordomo, con una certa tensione. Non voleva per nulla al mondo che la ragazza si interessasse tanto a quell'Infero. Era troppo pericoloso, chiunque sano di mente non si sarebbe impicciato troppo di lui.
«So come si chiama, per Niharn!» si lamentò Alexya, tornando al suo comportamento consueto. «Comunque, chi era quella gente con lui? La bionda mi avrebbe squartata sul momento...»
«Eh, quella è Irene, la sua promessa sposa ed è un membro del Clan Canthao, quindi è un demone. Dell'Elfo si conosce solo il nome, che dice tutto a suo riguardo: Vaenihum, il veleno dolce come il miele che uccide nelle più atroci sofferenze. Inoltre, pare che sia il braccio destro di milord. Il piccoletto straccione è un Nobile di Niha, il messaggero Chester» le spiegò Marihus, sedendosi su una poltrona. Si grattò il mento e notò con orrore di aver bisogno di radere al più presto la barba. Era imperdonabile.
Mentre il maggiordomo era perso nei suoi pensieri estetici, Alexya ordinò ad Hanan di prepararle il bagno. Poi fece un rapido giro della suite, notando che vi erano presenti anche delle piccole stanze per la servitù, con spartani letti a castello. L'ala designata a lei era molto lussuosa, più della sua stanza allo Smeraldo. Alexya si consolò pensando che almeno lei aveva cose utili e funzionali in camera. Quando Hanan le annunciò che era tutto pronto, andò nella stanza da bagno e la trovò talmente immensa, che iniziò a rodersi d'invidia, soprattutto alla vista dell'enorme vasca con tanto di idromassaggio.
«Metti in ordine le valigie e vieni a controllare che non sia affogata tra mezz'ora» fu l'ordine di Alexya all'ancella.
Marihus sussultò a quelle parole e si rasserenò subito sentendo la risata della regina. Ma Hanan non si lasciò ingannare. La conosceva meglio di lui. Si appostò vicino alla porta chiusa, allarmata.

Alexya immerse la testa sott'acqua, per bagnarsi di nuovo i capelli, e poggiò la testa al bordo della vasca, giocherellando con le bolle di sapone. Stava cercando in tutti i modi di non tornare con la mente all'incontro di poco prima, ma irrimediabilmente gli occhi argentati dell'Infero le si palesava dinanzi agli occhi, quasi lo vedesse di fronte a sé. Si passò una mano sul volto, soffocando una risata di scherno.
«Sto impazzendo», biascicò.
Lanciò uno sguardo alla sua mano sinistra, sgombera da qualsiasi gioiello. Attorno all'anulare, però, si vedeva un tatuaggio formato da ghirigori di inchiostro nero che si chiudevano attorno ad una runa rappresentante l'iniziale del suo nome. Ogni Regina d'Ovest aveva tale decorazione, che veniva impressa sulla sua pelle appena diventata donna. Solo coloro che possedevano magia conservavano quel marchio, che altrimenti sarebbe svanito dopo alcuni giorni. A lei persisteva, nonostante i grossi dubbi di tutti coloro che la conoscessero, perché lei non aveva mai dimostrato alcuna dote magica. Quella sua mancanza le bruciava dentro da quando aveva visto per la prima volta Helena prendere lezioni di magia. Si sentiva sbagliata, debole, inutile. Così aveva compensato la carenza con la forza e l'abilità combattiva.
Ed ora che le sembrava aver raggiunto un certo equilibrio, aveva incontrato sul suo cammino creature che rappresentavano ciò che avrebbe voluto essere: potente, forte e immortale. Gli Inferi non sarebbero stati gli unici, anche le Divinità erano dotate di grande potere magico, ma queste ultime erano a lei più distanti. Si prese il viso tra le mani, mentre rivedeva lo sguardo di Nicholas fissarla nel profondo.
L'aveva usata, quell'Infero aveva usato la magia su di lei. Le aveva invaso la mente con la Voce e lei non era stata capace di opporre resistenza, si era annullata dinanzi a lui. Non era stata più padrona dei suoi pensieri. Solo ora se ne accorgeva, lontana da quella creatura e dalla sua influenza. Si sentì più impotente che mai e fu quasi tentata di immergersi completamente nella vasca, mettendo fine a quella vita inutile. Tanto non aveva fatto ancora nulla di notevole, aveva solo progetti che sarebbero stati vanificati dalla sua incapacità. Non le serviva vivere senza uno scopo. Si lasciò scivolare in acqua. Non aveva nessun compito da portare a termine, nessuno che dipendesse da lei. Era sempre lei a dipendere dagli altri. Lei era totalmente inutile. La schiuma le solleticò le guance.
Poi, due occhi argentati. Sobbalzò e si mise a sedere di scatto.
In quel momento, Hanan aprì la porta con cautela. «Milady, avete terminato?».
Grazie ad Al è viva, pensò l'ancella vedendo la schiena della sua regina fuori dall'acqua. Quello di prima era stato davvero uno scherzo. Oppure non aveva avuto l'opportunità di attentare alla propria vita. Non era passata ancora mezz'ora, Hanan non ce l'aveva fatta a calmarsi. Sebbene Marihus ne fosse ignaro, altre volte la ragazza era stata estratta dall'acqua prima che smettesse di respirare definitivamente. Nemmeno la regina Helena non era mai stata informata di quei gesti sconsiderati della cugina, ma le serve più vicine ad Alexya avevano imparato a star molto attente ai bagni che la giovane regina era solita fare, soprattutto dopo qualche evento che la lasciava un po' scossa.
«Sì...» fu la risposta esitante di Alexya, che non si voltò a guardare la donna.
Hanan andò a prendere i vestiti puliti da far indossare alla ragazza, già più tranquilla, e guardò Marihus seduto in salotto, con lo sguardo sperso.
«Cos'è successo mentre io non c'ero?» domandò al maggiordomo.
L'uomo la guardò perplesso. «Perché?».
Hanan si mise le mani sui fianchi e sollevò gli occhi al cielo. «Curiosità» mentì. «Allora?»
«Ci siamo imbattuti in Lord Nicholas e la sua combriccola. Perché?» insistette lui, per nulla convinto dalla precedente risposta della donna.
L'ancella fece una smorfia. Ecco perché era strana. Aveva già sentito parlare degli Inferi e, conoscendo la sua giovane padrona, di sicuro dovevano averle lasciato qualche traccia nell'anima. Il genere di segno che le avrebbe fatto venir voglia di un bagno. «Grazie ad Al!» sbottò stringendosi le mani davanti al petto.
Tornò da Alexya, ignorando Marihus che continuava a far domande, non avendo capito il senso dell'esclamazione della serva. Prese un asciugamano e chiese alla ragazza di alzarsi dall'acqua, per poterla coprire.
«Milady, tutto a posto?» le domandò esitante Hanan.
Lo sguardo ferito che le lanciò Alexya non le fu di conforto. «Sono fregata». Quel che aveva appena detto non aveva alcun senso. «Quegli occhi mi hanno fermata, Hanan...» sussurrò la ragazza distogliendo lo sguardo dalla serva.
Hanan trattenne un sorriso. Aveva provato ad uccidersi, ma si era fermata. Avrebbe dovuto ringraziare... «Gli occhi di chi, milady?»
«L'Infero...» Nicholas, pensò Alexya, mordendosi il labbro. Stava parlando troppo dei fatti suoi. Perché si sentiva così annichilita? Non aveva in sé un briciolo di forza.
Quando la regina fu pronta, Marihus notò che Alexya era un po' giù di morale ed assente. E tutto sembrava influenzato dal suo umore nero. Le posò una mano sulla spalla, mentre lei teneva lo sguardo rivolto fuori dalla grande vetrata del salotto.
«Non volevate fare un giro al primo livello?» le ricordò il maggiordomo.
L'espressione di gioia che assunse la ragazza rinfrancò gli animi di Marihus ed Hanan.

Saliti sulla carrozza che li avrebbe condotti al ristorante La Mandragola, gli Inferi rimasero in gelido silenzio per gran parte del tragitto. Vaenihum lanciò un'occhiata al suo signore e lo vide assorto, con un'espressione inconfondibile nei suoi occhi di freddo argento: stava tessendo la sua tela e non fu difficile all'Elfo comprendere chi fosse stata la causa scatenante. Lui sapeva sempre quel che Nicholas voleva e pensava. E faceva di tutto per essergli d'aiuto.
«Nicholas...» lo chiamò Irene, con la stessa espressione ferita di poco prima, quando si erano lasciati alle spalle i due Uomini.
Il re non le rivolse la sua attenzione. Non era di alcuna utilità prestare attenzione alle farneticazioni gelose della promessa sposa. Lanciò uno sguardo a Vaenihum.
«Lady Irene, vostro fratello vi manda i suoi saluti», la informò l'Elfo, per distrarla con chiacchiere oziose, che avrebbero liberato il suo signore dalla donna.
«Come sta?»
Chester fece una smorfia di disgusto. Era così semplice imbrogliare Irene, per Nicholas. Ma lui non si scomodava mai, mandava Vaenihum a fare quel genere di lavoro sporco, che era quasi un'estensione del sovrano. Lui non ne avrebbe tratto nessun vantaggio, solo un po' di tranquillità per i suoi ragionamenti contorti. La mente del re era sempre al lavoro, non poteva perder tempo lanciando l'osso alla sua promessa sposa quando essa diventava petulante.
Era la Regina d'Ovest, alla mano sinistra aveva l'anello. Le parole di Nicholas echeggiarono nella mente di Vaenihum, che non si distrasse dalla conversazione inutile con Irene.
Ma non aveva un briciolo di energia magica, aggiunse l'Elfo.
L'ho notato. Eppure aveva l'anello. È necessario studiarla da vicino, replicò il sovrano. Decise che Irene era stata distratta abbastanza e ruotò il capo verso di lei. Le prese il mento con una mano e la costrinse a guardarlo, mentre si chinava verso il suo viso.
«Dicevi». Premette le labbra fredde su quelle rosse e piene di Irene. La sua voce era carezzevole ed avvolgente, nonostante il tono freddo.
La donna rimase disorientata. Si aggrappò alle spalle di Nicholas, sperando in un approfondimento di quel contatto, ma lui era in attesa di una risposta che non giunse. Improvvisamente Irene non ricordava più cosa la tormentasse tanto.
«Se non era nulla di importante, la prossima volta cerca di non disturbarmi» concluse Nicholas, con un ghigno crudele.
Lui le lasciò il volto ed Irene aggrottò la fronte. Era sicura che fosse qualcosa di importante, ma non ricordava proprio niente. Presa dai suoi pensieri, non notò lo sguardo impietosito di Chester. Quei due non facevano altro che giocare con quella donna. E lei nemmeno aveva la possibilità di rendersene conto.
Vaenihum lanciò uno sguardo di minaccia al messaggero, che fece cenno di aver compreso il messaggio. Chester guardò Nicholas con gli occhi rivolti fuori dal finestrino della carrozza. Cosa aveva in mente il suo re?
Con uno scossone, la vettura di fermò davanti alla Mandragola ed il cocchiere scese dal suo posto guida, per apprestarsi ad aprire lo sportello della carrozza ed abbassare lo scalino. Per prima uscì Irene, reggendosi la vaporosa gonna con una mano, mentre l'altra usava il cocchiere come appoggio per facilitare la discesa. La seguirono Chester e Vaenihum. Nicholas fu l'ultimo a lasciare la vettura e congedò il cocchiere, ordinandogli di posteggiare il mezzo nello spiazzo laterale al ristorante e di tenersi nei paraggi. Dopo di che, l'Infero si avviò verso l'ingresso del locale e, non appena varcò la soglia, il proprietario gli fu incontro, seguito dalla giovane e bella moglie.
«Lord Nicholas, quale onore!» lo accolse l'uomo baffuto, porgendo una mano al sovrano.
Quando Nicholas gli strinse l'arto, il proprietario accennò un rispettoso inchino.
«È il minimo che possa fare per ringraziarti della piacevole accoglienza che mi offri sempre, Arnold», replicò l'Infero con freddezza.
La moglie di Arnold sorrise maliziosa a quelle parole e si fece avanti per salutare Nicholas, con un inchino seguito da rapidi baci sulle guance, non abbastanza veloci da impedirle di parlare al sovrano.
«Vi attendo dopo gli antipasti» gli sussurrò al primo bacio.
«Non credo riuscirò a mangiare con te in mente, Mara» mormorò Nicholas al successivo contatto.
Mara trattenne una risatina eccitata nell'allontanarsi dall'Infero. Irene guardò di traverso la donna che, troppo palesemente, aveva dimostrato di essersi fatta viva solo per accogliere Nicholas. Il demone guardò un attimo Arnold. Anche lui sapeva benissimo cosa significava avere il Re delle Terre d'Ombra alla Mandragola, eppure non aveva mai fatto nulla per impedire quegli incontri. Nessuno avrebbe osato opporsi a Nicholas, nessuno tranne un suicida masochista.
Irene si tormentò le labbra, afflitta. Non le importava nulla delle donne del re, non erano altro che giocattoli lo sapeva. Non provava nemmeno un briciolo di gelosia, dopotutto anche a lei era riservato il loro stesso trattamento. Nicholas non faceva distinzioni, le donne che incontrava sul suo cammino o non gli interessavano o le otteneva immediatamente. Alla promessa sposa tornò in mente la ragazzina umana. Perché allora lei aveva reagito con tanta gelosia davanti a quella mocciosa? Presto avrebbe fatto la fine di tutte, non c'era nulla di cui preoccuparsi. Ma quel pensiero non la convinceva. L'umana, oltre ad essere una donna, era anche una regina, non una popolana od una nobile come tutte le altre. Era diversa, maledettamente diversa. La ciliegina sulla torta.
Vaenihum lanciò un'occhiata irritata ad Irene. I pensieri di quella femmina lo stavano infastidendo. Non riusciva a contenersi, era inconcepibile per la sua posizione! Rivolse la sua attenzione a Nicholas, che sembrava impassibile come sempre. Lui riusciva ad ignorarla. Quando si accomodarono al loro tavolo, l'Elfo notò lo sguardo mortale dell'Infero rivolto verso la sua sposa. No, anche il suo menefreghismo aveva un limite.
«Irene, controllati» sibilò Nicholas, muovendo appena le labbra.
La donna avvampò e chinò il capo, nascondendosi dietro la frangia liscia. «Perdonami» mormorò, imbarazzata.
Vaenihum, libero dall'ingombro dei trasbordanti pensieri di Irene, si guardò attorno. Alla ricerca di qualcuno.
L'umana non verrà, non qui, lo avvertì Nicholas, mentre scambiava chiacchiere di circostanza con Mentius, il Re del Sud, al tavolo di fianco.
Inizialmente Vaenihum non capì a quale umana si riferisse. Mara o chi? Poi gli tornò in mente la ragazzina, la regina senza potere, ed ebbe le idee ancora più confuse.

Marihus si maledisse infinite volte, mentre si aggirava con Alexya per i vicoli maleodoranti e pieni di gente strana al primo livello di Sung'bar. Hanan si era rifiutata di andare con loro, non tanto per il luogo, quanto per chi avrebbero potuto incontrare. Suo marito faceva parte della guardia reale che aveva seguito la regina in viaggio e non ci teneva a vederlo ubriaco in una taverna, stretto ad una prostituta. Preferiva rimanere nella sua beata ignoranza.
Il maggiordomo, invece, avrebbe venduto l'anima a Fato per restare al Liocorno piuttosto che sentirsi così fuori luogo. Alla fine, era andato con Alexya perché non si fidava a farla andare in giro da sola in tutta quella bolgia. Era pur sempre una ragazza giovane e bella, le avrebbero messo gli occhi addosso persone poco affidabili e lui sarebbe stato in pace con la sua coscienza standole alle calcagna. Quello era un male necessario.
«Ma Johan dove si è cacciato?» brontolò Marihus.
«Te l'ho già detto, se non volevi venire, bastava che restassi a far compagnia ad Hanan» lo rimproverò Alexya, gettandogli uno sguardo seccato da sotto il cappuccio. I suoi occhi verdi brillavano nell'ombra.
Qualcuno andò a sbattere contro la regina che, per tutta risposta, gli tirò una gomitata ringhiando “stronzo”. L'uomo non la udì e lei lo lasciò subito perdere.
«Dov'è Johan?» insistette il maggiordomo, fingendo di non aver visto il gesto della ragazza.
«Oh, ma sei proprio petulante, Marihus! È andato a far uccidere il Myurohon, ecco tutto. Nessuna congiura a tuo danno, contento?» rispose irritata Alexya, facendosi largo a gomitate nella ressa nei pressi di una taverna.
Marihus sbiancò. «Cos'è questa storia? Non lo avete già ucciso?»
«Ma ti pare? Non ho magia, io! Solo con...» Alexya si interruppe, mettendosi in punta di piedi per guardare oltre le teste della gente accalcata davanti alla taverna Il vagabondo selvaggio, da cui si sentivano provenire urla inarticolate e l'inconfondibile suono della lotta. La regina avanzò tra la folla, incuriosita, ed a nulla servirono i richiami di Marihus, che si ritrovò costretto a seguirla.
Quando la ragazza giunse all'interno del Vagabondo selvaggio, scoppiò a ridere. I suoi soldati si stavano azzuffando con alcuni brutti ceffi. Si vedeva che erano Uomini d'Ovest. Probabilmente la rissa era iniziata per sciocchi motivi di orgoglio. Li conosceva bene.
Marihus la raggiunse, giusto in tempo per vedere una strana luce nei suoi occhi. Sapeva cosa voleva dire e ne era inorridito.
«No, no, no!» la pregò il maggiordomo, prendendole un braccio.
«Forza ragazzi!» gridò Alexya, ignorando bellamente l'uomo che cercava di frenarla. Si scrollò di dosso Marihus e gli lasciò il mantello. Poi corse incontro ai suoi soldati, per dar loro manforte. Afferrò il primo energumeno che si trovò tra i piedi, tirandolo per i capelli e gli assestò un pugno in pieno volto, rompendogli il naso. La ragazza fece una smorfia di dolore, realizzando che non aveva alcuna protezione alla mano, ma dovette lasciar perdere le articolazioni che si lamentavano per stendere l'uomo che aveva appena fatto infuriare.
Marihus assistette alla scena sgomento. Era inaudito: una regina che menava le mani in una bettola del deserto! Helena non saprà niente!, giurò a se stesso. Gli si avvicinò un omaccione panciuto e calvo, vestito con un largo e sporco grembiule. Gli mise una mano sulla spalla, facendogli sentite tutta la sua forza.
«Sei con quella ragazza, vero?» gli disse l'uomo. «Io sono Tyr, l'oste, e se quella mi distrugge qualcosa, dovrai pagarmi i danni» concluse con un sorriso bonario.
Marihus non gli fece sapere che anche i soldati erano, in teoria, con lui ed annuì avvilito. Stava per gridare ad Alexya di smetterla, quando gli volò addosso uno degli uomini della rissa. Tyr scoppiò a ridere di gusto, con le mani chiuse a pugno sui fianchi.
«Quella ragazzina è un uragano!» ragliò, porgendo una mano al maggiordomo, caduto a terra.
«Alexya, piantatela!»
Tyr guardò interrogativo Marihus, che gridava contro la ragazza.
Un altro uomo fu scaraventato verso il maggiordomo e la rissa parve placarsi. I nove soldati guardarono la regina, ognuno piuttosto ammaccato ed alcuni stringendo ancora qualcuno degli avversari in una stretta micidiale.
«Vostra Grazia!» gridarono esaltati.
Alexya ridacchiò e si avviò verso Marihus, contenta ed orgogliosa di se stessa. Le aveva fatto davvero bene prendere a botte un po' di gente, l'aiutava a non pensare ed a sfogarsi in caso di bisogno.
«Che volevi? Ti ho sentito gridare qualcosa, o sbaglio?» domandò candidamente la ragazza.
Tyr scoppiò a ridere, mentre il maggiordomo si batteva con forza una mano sul viso, abbattuto. Non era servito a nulla sgolarsi, quando quella ragazzina iniziava a menar le mani staccava il cervello e si concentrava solo sulla lotta.
«Niente, niente...» rispose Marihus con tono cupo. Si rivolse verso l'oste che continuava a ridere. «Quanto?» singhiozzò, infilando la mano in tasca.
Alexya guardò i due uomini perplessa, mentre i soldati le si avvicinavano.
«Quanto cosa
«Il pagamento dei danni, milady...» replicò sconsolato il maggiordomo.
Tyr annuì compiaciuto, iniziando a farsi due conti mentre gli occhi cercavano tutto quel che era stato distrutto dalla rissa o che fosse un po' malandato.
«Cinquemila regi» stimò Tyr, grattandosi una basetta. «Bada che ho chiuso occhio su molte cose» si affrettò a spiegare, prima che Marihus potesse protestare.
Il maggiordomo sospirò disperato. Non aveva tutti quei soldi con sé. Erano decisamente troppi. Alexya fulminò l'oste.
«La prossima volta chiedici di costruirti una nuova taverna» sbottò acida afferrando la borsa tracolla ed estraendo cinque sacchetti di monete d'oro, ognuno contenente mille regi. «Ecco qui. La prossima volta che torno qui, voglio trovare questo postaccio tirato a lucido con tutti i soldi che ti ho dato».
Tyr batté le palpebre, sorpreso, poi gli brillarono gli occhi nel soppesare i sacchi.
«Grazie, milady» la ringraziarono Marihus ed i soldati.
Uscirono dal Vagabondo selvaggio, dissipando la folla che si era accalcata sull'ingresso per assistere alla rissa. Mossero qualche passo tra le viuzze del primo livello, avanzando come un gruppo compatto.
«Ah, voglio cinquecento regi da ognuno di voi» decretò di punto in bianco la regina, fermandosi e costringendo gli altri a fare lo stesso.
«Cosa?» domandò sbigottito un soldato.
La risposta di Alexya fu uno sguardo furbo ed inferocito. «Marihus doveva pagare i miei danni, voi i vostri. Dato che vi ho anticipato i soldi, dovete restituirmeli».
«Ma... milady!» fece Marihus incredulo.
«Su su, tirchioni, i miei soldi!»

Johan legò il cavallo all'esterno di una catapecchia dagli infissi malmessi e bussò alla porta, con delicatezza, temendo di mandarla in frantumi. La cassa sotto il braccio era immobile, quasi al suo interno ci fossero solo degli oggetti, non un essere vivo. Per quanto potesse esserlo uno zombi.
Batté nuovamente le nocche contro il legno, finché qualcuno non gli aprì. Una figura incappucciata lo accolse, con uno scheletro vestito con abiti femminili e con una parrucca arancione sul cranio. Johan aggrottò la fronte. Cos'era quella roba? Sperò di aver seguito le indicazioni giuste. Non voleva diventare parte della collezione di un pazzo maniaco. Né di rimetterci qualche organo. Tutte le dicerie che aveva ascoltato gli ronzarono nelle orecchie, riuscendo quasi a spaventarlo quanto il tunnel di Sung'bar.
«Sì?», domandò burbero il negromante. Dal cappuccio spuntava una treccia nera, le mani erano coperte da guanti con le dita tagliate. Indossava una tunica beige con ampie maniche, infilata in pantaloni di pelle marrone.
«Scusate il disturbo, ma vorrei solo che uccidiate questo Myurohon», dicendo queste parole, Johan batté una mano sul portagioie.
Il capitano delle guardie reali scorse sotto il cappuccio del negromante la bocca piegarsi in una smorfia di disappunto. Iniziò a pregare tutti gli dei esistenti.
«Entrate».
A quell’invito, sollevato, Johan superò l’uscio e si chiuse la porta malandata alle spalle. L’ambiente era buio e maleodorante, l’unica fonte di luce era la tremolante fiamma di una candela di cera nera posta su un tavolo mangiato dalle tarme. Si avvicinarono al piano di legno e l’uomo vi posò la cassetta. La aprì e mostrò al negromante il suo contenuto.
«Guarda, Laila, guarda come questi Uomini rozzi e villani trattano i tuoi fratelli!» disse lo stregone, rivolto allo scheletro al suo fianco. Johan si lasciò sfuggire una smorfia preoccupata. I suoi occhi vagarono nella stanza buia, individuando barattoli dal contenuto dubbio e vertebre unite a cera, candele nuove e pronte all'utilizzo. Voleva andarsene, il prima possibile.
Però, incuriosito dal commento del negromante, il capitano guardò nel baule e vide il Myurohon, che Alexya aveva fatto a pezzi, ricomposto in maniera disgustosa, gli arti attaccati dove non dovevano, il corpo deformato dalla scatola. Possibile che quei morti ambulanti riuscissero a sopravvivere anche in quelle condizioni? L’esercito delle Divinità era temibile, se formato solo ed esclusivamente da quelle creature senz’anima. Johan rabbrividì. Pregò Niharn di uscire vivo da quel luogo.
Il negromante fece sedere lo scheletro che aveva chiamato Laila alla sedia. Dopo di che si tirò su le maniche della tunica e pose le mani sopra il corpo accartocciato dello zombi. Per quante volte lo si riducesse in polvere, non sarebbe mai morto davvero. Incatenato nel Mondo Profano da sentimenti troppo potenti, non sarebbe mai svanito nel nulla. La sua anima doveva essere pacificata. Solo la magia avrebbe potuto liberarlo da quella triste esistenza.
Johan fece scorrere rapidamente lo sguardo dal volto coperto dello stregone al Myurohon nel baule. Era una creatura disgustosa, ma infine se ne sarebbe liberato.
Tre semplici parole e lo zombi divenne cenere.
«Myurohon ya rohon». (2)

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Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Losdihe: buongiorno
(2) Myurohon ya rohon: il vendicatore io vendico

Spero sia andata bene la lettura.
Ho consigliato tali canzoni perchè sono quelle che ho ascoltato nello scrivere quei pezzi e li hanno influenzati in un certo qual modo (notato il nome della taverna e dell'oste? hihi).
La storia è già scritta, da più di sei mesi, ma ora mi son decisa di rivederla sul serio, così ho alcuni capitoli da riscrivere per problemi "stilistici" (ho cambiato stile durante la stesura .-.). Ergo, questi primi aggiornamenti non saranno velocissimi. Ma non farò passare un mese, tranquilli. :D
Al prossimo capitolo e, come sempre, per qualsiasi dubbio o curiosità basta chiedere!

Kanako

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Capitolo 3
*** Capitolo III. Il Consiglio degli Otto Sovrani ***



Grazie a myki e Dark Magician per i commenti. Divertitevi con questo nuovo capitolo, ragazze! ;D


.-.-.-.

III.
Il Consiglio degli Otto Sovrani



Johan bussò alla porta della camera della sua regina, ma non ricevette risposta alcuna. Sta ancora dormendo, pensò divertito. Si guardò attorno, poi entrò nella stanza buia. Dalle persiane non filtrava la luce di Havernio, dopotutto erano sotto terra. Il capitano cercò di non inciampare da qualche parte, nel buio, mentre andava ad aprire una finestra.
Non appena un po' della luce artificiale che rischiarava il secondo livello entrò nella stanza, Johan si avvicinò al letto su cui riposava Alexya e si sedette sul bordo. La guardò dormire, con un sopracciglio inarcato, indeciso se ridere o provare tenerezza.
Di scatto, la ragazza si mise a sedere, gli occhi spalancati, ed afferrò con forza il bavero della giacca militare di Johan, che batté le palpebre sorpreso.
«Milady?»
Alexya sollevò lo sguardo verso di lui, ansimando. «Per Fato...» sussurrò, rivolgendo gli occhi sulla coperta. Scosse il capo e mollò il capitano, poggiandosi con una mano sul materasso.
«Cos'è successo? Un incubo?» le domandò preoccupato Johan.
«Più o meno, non so nemmeno io cosa fosse... ricordo solo quegli occhi» Subito dopo averle pronunciate, Alexya si pentì di quelle parole. «Aaah, dannazione!» strillò, premendosi una mano sulla fronte.
«Avete solo incrociato Lord Nicholas e siete rimasta così impressionata? Guardate che oggi dovete passare molte ore chiuse in una sala, con lui presente» le fece notare Johan. Quando notò che la regina era in camicia da notte, si affrettò a recuperare la vestaglia posata sulla panca ai piedi del letto e gliela mise sulle spalle. La ragazza la strinse contro il petto, ancora presa dai suoi problemi.
«L'ha fatto apposta, secondo me. Non è normale che mi fissi tanto su un particolare così insignificante» rispose Alexya, dopo la lunga riflessione.
«Se sono insignificanti i suoi occhi, il resto deve averti fatto ancora più effetto. Quando ti decidi a trovar marito?» scherzò il capitano della guardia reale, tirando una pacca amichevole sulla spalla della regina.
«Non bestemmiare. Helena, a ventisei anni, ancora è lì da sola, dovrebbe essere lei a preoccuparsi» ringhiò Alexya, infastidita da quell'argomento. Scivolò giù dal letto ed infilò le braccia nelle maniche della vestaglia, legandola in vita. Andò ad aprire un'altra finestra. «Ma che schifo vivere qui! Sembra di essere già morti...».
Hanan entrò nella stanza in quel momento e rimase interdetta sulla porta nel vedere Johan lì. Sospirò ed avanzò verso il letto, per metterlo in ordine e cacciò il soldato con eloquenti gesti della mano.
«Su, sparisci Johan. Non dovresti trovarti qui, nella camera di una signora. Sciò!».
Johan si alzò dal materasso e ridacchiando fece quanto gli aveva detto la serva. Andò a sedersi in salotto ed attese che la regina fosse pronta per scortarla alla torre del Consiglio. Attese a lungo, rimuginando su quanto fossero lente le donne a prepararsi e discorsi simili, che non servirono a distrarlo più di tanto.
Marihus vide il capitano della guardia nel soggiorno e comprese che la padrona non era ancora uscita. Andò a farle visita, ma quando bussò alla porta della camera da letto ricevette in riposta due grida che gli ordinavano di stare alla larga. Scrollò le spalle ed andò ad accomodarsi di fianco a Johan, con indosso un ordinario pigiama blu.
«Tranquillo, vecchio, Alexya è viva e vegeta» lo rassicurò il soldato, tirandogli una pacca sulla schiena. «Ieri non ho avuto il tempo di chiedertelo, ma come è capitato che Alexya si sia già imbattuta nell'Infero?».
Il maggiordomo sospirò, sconsolato. «Ah, non so proprio. Ce lo siamo trovati davanti al Liocorno e non sono riuscito ad allontanarla».
Il viso di Johan si fece pensoso e lui gli grattò il mento. «Mh... allora Alexya aveva ragione a dire che milord le ha fatto qualcosa. Detesto che lei venga presa di mira da un essere del genere».
Marihus concordò. «Ma non possiamo farci più nulla, il danno è fatto».
«Come no? Guarda che c'è sempre una via d'uscita. Bisogna solo mettersi d'impegno e trovarla» lo corresse Johan, sicuro di sé ed ottimista. Bastava evitare che l'Infero riuscisse a mettere le mani addosso alla loro cara regina e sarebbe già stata una vittoria. Contro Nicholas, riuscire a fuggire era già un bel vantaggio. «Dobbiamo solo ricordare ad Alexya le regole».
Lo sguardo di Marihus si fece cupo. «Mi chiedo che certi tabù imposti alle regine non nuocciano loro. Sono prigioniere di leggi che gli Anziani hanno scelto per loro» farfugliò il maggiordomo, a capo chino.
Johan abbandonò la testa all'indietro e sospirò. «È tutto per il bene del paese. La vita di due persone non è niente in confronto a quella di un intero popolo...»
«Ehi, voi due, la piantate di parlare come una coppia di mezza età?» li schernì Alexya, mettendo piede nel salotto, le mani sui fianchi. Indossava un vestito verde, col corpetto di broccato, che metteva in risalto gli occhi di smeraldo. Un ghigno apparve sul viso della ragazza. «Allora, siete pronti?» domandò avanzando. Lanciò uno sguardo al maggiordomo vestito da notte. «Tu non tanto, Marihus, ma te lo perdono, dato che devi restare qui. Forza Johan, il tunnel ti aspetta!»
Alexya afferrò il mantello dall'appendiabiti e lo posò sulle spalle, fermandolo sul petto con una spilla. Si calò il cappuccio sul capo ed aprì la porta. Johan balzò giù dal divano e si affrettò a raggiungere la regina.
«Milady, ma come siete impaziente di trovarvi a tu per tu con l'Infero!» ribatté Johan, particolarmente in vena di punzecchiarla.
La porta si chiuse alle loro spalle e Marihus non poté ascoltare il resto della discussione.

Nicholas scese dal letto con un gesto fluido ed afferrò la vestaglia di seta nera gettata sul pavimento. La donna alle sue spalle si agitò tra le lenzuola, ma non si svegliò. Meno seccature per lui. Detestava le smancerie delle donne umane. Non riuscivano a comprendere che lui non le amava e che non aveva bisogno di provare alcun sentimento per desiderarle. Avevano una mente così limitata. Guardò l'indumento nelle sue mani, indeciso se indossarlo o meno. Alla fine, scelse di infilarsi sotto la doccia e lasciò la vestaglia dove l'aveva ritrovata.
Erano le sette passate, se ne rendeva conto, ma non aveva avuto voglia di abbandonare il materasso prima, soprattutto perché la donna non era ancora addormentata profondamente e non voleva svegliarla: lo avrebbe solo infastidito e lui voleva stare in silenzio a pensare. Aveva ricevuto abbastanza attenzioni quella notte, non ne meritava altre quell'umana.
L'altra umana, la Regina d'Ovest, era un altro paio di maniche. Non aveva manifestato alcuna capacità magica e non si era opposta alla sua intrusione mentale. Così lui aveva potuto registrare parecchie informazioni riguardo a lei ed aveva avuto bisogno di molto tempo per organizzarle. Ora sapeva come utilizzarle ed avrebbe iniziato già quella mattina. Sapeva cosa frullava nella mente di quella ragazzina mortale e gli sembrava un'idea interessante. Un bell'imprevisto che avrebbe mandato in crisi Al ed avrebbe movimentato un po' la Guerra Millenaria. Era certo che gli altri sovrani, a parte i Lucenti, avrebbero accordato il loro aiuto all'umana. Li conosceva bene, dopo un secolo e mezzo che studiava i vari re che si succedevano al Consiglio.
Comunque, l'idea della Regina d'Ovest avrebbe solo creato un po' di scompiglio, senza raggiungere il suo scopo. Se non c'era riuscito ancora nessuno, come poteva giungere una piccola umana e sperare di risolvere la situazione con poco? Non era nemmeno immortale, non aveva tutto il tempo del mondo per combattere. E la magia non le era amica. Nicholas si passò le dita tra i capelli, tirandoseli indietro. L'acqua gli scivolò lungo il viso, bollente. E la ragazza non sarebbe stata capace a rimanere neutrale. Si sarebbe schierata. In guerra non esistevano le sfumature di grigio della vita, ma solo il bianco ed il nero.
Sollevò il viso verso il getto d'acqua. I soldati Inferi non erano zombi senz'anima. Uno non valeva l'altro. Gli Inferi non erano illimitati, potevano morire. Ed in quel caso avrebbero alimentato le file nemiche, se qualche stupido generale non avesse prestato la dovuta attenzione ai caduti delle sue legioni. A Nicholas avrebbero fatto comodo degli alleati, oh sì. Ghignò ed uscì dalla doccia. Afferrò l'accappatoio appeso alla parete e lasciò il bagno, diretto al salotto.
Seduti sui divani, Vaenihum e Chester si voltarono verso il sovrano, appena questi mise piede nel soggiorno. Un inchino di saluto.
«Irene è venuta cinque minuti fa» lo informò l'Elfo, abbandonando la sua lettura e rivolgendo lo sguardo bicolore a Nicholas.
L'Infero non reagì in alcun modo ed andò a sedersi sulla poltrona. Allungò la mano verso il carrello degli alcolici e si versò del liquore in un calice, per poi sorseggiare il contenuto ad occhi chiusi. Irene risultava più pedante del solito. Chissà cosa le frullava in mente. Lo sapeva, certo, non aveva il minimo interesse a soffermarsi oltre sull'argomento, gli bastava che quella donna si controllasse come aveva sempre fatto. Il contegno che aveva avuto all'inizio della loro convivenza sembrava sparire ad ogni anno che il demone passava in sua compagnia. Allontanarla sarebbe stato seccante, o meglio, i Nobili lo sarebbero stati. Le sue orecchie captarono dei movimenti all'esterno della stanza. Eccola.
Irene bussò alla porta d'ingresso alla stanza del promesso sposo e Chester andò ad aprirle. Ignorando l'antico spirito, la donna si avvicinò alla poltrona di Nicholas e si sedette sul pavimento ai suoi piedi. Gli afferrò una mano e lo guardò intensamente.
«Ti prego, Nicholas, portami con te al Consiglio!» lo supplicò Irene.
Il re inarcò un sopracciglio e Vaenihum scosse il capo, esasperato dalla testardaggine del demone. Lei credeva di convincere Nicholas con quella faccia da cane bastonato. Povera illusa, si rifiutava di accettare il carattere del sovrano Infero e sperava ancora di cambiarlo, di impietosirlo, di farlo innamorare di lei, disperatamente, in qualsiasi maniera. Ma dimenticava che lui non provava sentimenti veri, non era nella sua natura di Infero Perfetto.
«Non ne vedo l'utilità, anche perché non potresti accedere alla sala» replicò Nicholas, con tono glaciale.
«Mi basterà essere nell'atrio, non chiedo altro!» insistette la promessa sposa, stringendo di più la mano dell'Infero.
Già stufo di quell'insistenza, Nicholas liberò il suo arto prigioniero e si mise in piedi, sovrastando Irene anche fisicamente. Era troppo insistente, lei. E non aveva motivo di esserlo. Né il diritto. Si voltò ed andò a svegliare la donna nella camera da letto, liberandosi dell'accappatoio bianco.
«Vestimi» fu l'ordine che accolse la giovane serva al risveglio. Non ebbe neppure il tempo di destarsi che già le venivano affidati compiti. Ma per quell'uomo lo avrebbe fatto, sia perché era stata messa al suo servizio dalla direzione del Liocorno, sia perché voleva sdebitarsi in qualsiasi modo per quella notte.
La serva si affrettò a recuperare dei vestiti puliti per il Re delle Terre d'Ombra e lo aiutò a vestirsi, mentre Irene assisteva assente alla scena. Avrebbe dato qualsiasi cosa per seguire Nicholas al Consiglio degli Otto Sovrani, nonostante non comprendesse il senso di quel suo bisogno impellente misto alla gelosia.
Gelosia di che?, si domandò seccato Vaenihum, ascoltando i pensieri di Irene, che erano di nuovo fuori controllo.

«Sì, sì, lo so! “Fai la brava, non parlare a sproposito, ricordati le buone maniere” e così via».
Alexya smontò da cavallo, parlando per far tacere Johan e le sue raccomandazioni che puzzavano tanto di Helena. La seccava da morire che la cugina incaricasse i suoi accompagnatori di rivestire il suo ruolo ingrato. Perché invece di una sola “mammina” doveva averne tre? In seguito avrebbe fatto più attenzione quando viaggiava: chiunque fosse con lei non doveva avere la possibilità di parlare con Helena, così lei sarebbe stata costretta a fidarsi di quel che Alexya le diceva e la ragazza non sarebbe stata tormentata dalla presenza incombente di gente troppo attenta a lei.
Johan scosse il capo, rassegnato. Non poteva farci niente. Lui cercava di accontentare le richieste inutili di Helena e si sentiva prendere in giro da Alexya. Che posizione infelice, la sua.
«Vado a lasciare i cavalli e torno qui» la avvertì il capitano, con in mano le redini della cavalcatura della regina.
«Non ho bisogno della balia, Johan. Se devi rimanere alla torre, vatti a nascondere». Detto questo, Alexya si allontanò dall'uomo.
La Regina d'Ovest si guardò un po' attorno ed individuò una persona dai lunghi capelli argentati e lisci, vestita di celeste. Andò in sua direzione, senza correre. Non era una ragazzina di campagna, ma una regina e  come tale si stava comportando. Avrebbe voluto che Helena in quel momento la vedesse, così si sarebbe liberata di parte delle sue preoccupazioni. Eh, magari, pensò Alexya, conoscendo molto bene la cugina.
«Wirda!» salutò la ragazza, ad un passo dalla chioma argentata.
Il Re degli Elfi si voltò e sorrise lieto, alla vista della giovane regina. Gli occhi turchesi si illuminarono, infondendo luce al volto eternamente giovane e bello. Le strinse una mano con la sua, mentre l'altra le prendeva il viso, in un gesto affettuoso. Alexya lo conosceva da sempre, l'Elfo era uno degli amici di suo padre e sin dall'infanzia era abituata alla sua presenza. Ancora adesso le due regine mantenevano ottimi rapporti col sovrano confinante e questo favoriva i commerci tra Regno d'Ovest e Regno degli Elfi.
«Alexya, mia piccola Alexya» disse Wirda, sfiorandole la guancia con le labbra tirate in un sorriso.
Alexya si sentì completamente a suo agio. Un volto amico l'avrebbe aiutata molto quel giorno. Ed avrebbe avuto un alleato assicurato per la sua idea.
«Infine, è arrivata la tua ora per il Consiglio degli Otto! Come passa il tempo per voi Uomini» fece l'Elfo, guardando la ragazza. Gli sembrava solo il giorno prima quando l'aveva vista al funerale di Garstand, una bambina di otto anni ritta davanti all'urna del padre, l'ultimo genitore rimastole. Era stata incoronata regina appena dopo la cerimonia ed aveva rifiutato un reggente con forza. Lui si era chiesto come avrebbe fatto una bambina ad affrontare la decadenza della corte d'Ovest, ma sapendola viva giorno dopo giorno, aveva capito che Garstand l'aveva cresciuta per quello. Oh, benedetta malinconia elfica, si rimproverò Wirda, accorgendosi che stava viaggiando troppo nei ricordi, prestando poca attenzione alla ragazza davanti a sé.
«Per voi, invece, non passa affatto. Siete sempre lo stesso», rispose con un sorriso lei.
I due sovrani si avviarono verso i due ascensori che risalivano le pareti della torre fino alla struttura di vetro, chiacchierando del più e del meno. Ogni tanto Alexya si lasciava distrarre dall'edificio, enorme ed armonioso, forse indegno dei sovrani che ospitava una volta all'anno. Il Consiglio degli Otto Sovrani era stato istituito all'inizio della Guerra Millenaria ed ancora persisteva. Finché ci fosse stata guerra, tutti i re della Terra dei Cinque Popoli si sarebbero incontrati lì e sarebbero stati informati dai due avversari riguardo al loro scontro.
«Sapete, mi mette parecchia tristezza l'esistenza di questo Consiglio ancora oggi. È il ricordo della Guerra Millenaria che torna una volta all'anno per tormentare noi che non vi partecipiamo. Non capisco perché i nostri antenati abbiano accettato questo contentino, pur di non sentirsi esclusi»  confidò Wirda alla ragazza.
«Beh, sono stati stupidi ad accontentarsi. Non hanno mai cercato di mediare tra le due parti, si sono limitati a sentire un racconto dei fatti, giusto per calmare il popolo delle frontiere» rispose Alexya, cercando di non rivelare così presto il suo piano.
«Per voi Uomini capisco, ma che necessità c'era che gli Elfi ed i Lucenti si impicciassero? Siamo chiusi tra i Monti di Luce, protetti e sicuri. Ma dobbiamo affrontare un lungo viaggio per ascoltare di battaglie che non ci interessano, solo per salvare le apparenze. Questo mondo è stancante, ma non possiamo ribellarci». Wirda sospirò rassegnato.
L'ascensore raggiunse il pian terreno e le porte si aprirono lentamente. I due entrarono nella cabina di vetro ed attesero che il macchinario ripartisse.
«Ai Lucenti interessava eccome, per gettarsi ai piedi delle Divinità. Sono così servili nei loro confronti da disgustarmi. A questo punto, era logico che gli Elfi non volessero essere esclusi, quando ormai tutta la Terra dei Cinque Popoli si radunava» disse Alexya, proseguendo il discorso.
Wirda trattenne una risata. «Anche gli Uomini hanno molto rispetto per le Divinità, di solito. Ma questo non è il vostro caso. Eppure Garstand ha cercato di trasmettervi la sua fede».
Il brusco cambiamento di argomento, lasciò la regina perplessa. Inoltre, non amava parlare del padre. Ma con un suo amico non poteva sperare diversamente. Il filo che legava lei ed il sovrano elfico era proprio Garstand, sia da vivo che da morto.
«Fossero davvero degne di venerazione, le Divinità farebbero qualcosa per noi. Invece, stanno chiuse nel loro regno dorato a farsi gli affari loro. Non vedo perché dovrei inginocchiarmi dinanzi a loro ed implorarle come una pezzente. Penso che, piuttosto, gli Uomini debbano imparare a contare di più sulle loro forze, perché ad attendere l'aiuto divino possono aspettare per l'eternità» replicò Alexya, con uno sguardo duro. In passato, aveva contato sugli dei, ma essi, sebbene esistessero e camminassero al fianco degli altri esseri, non avevano fatto nulla per lei. Non erano affidabili, quindi non aveva bisogno di loro. Forse era proprio per questo che aveva osato concepire l'idea di intromettersi nella Guerra Millenaria.

L'ascensore si fermò nell'atrio posto sotto la sala del Consiglio e le porte si aprirono, permettendo a Lord Nicholas di uscire dalla cabina, avvolto nel suo mantello cremisi.
Fermi davanti alla macchina, Eoforbio e Adhurna parlavano tra di loro, a voce bassa e calma. Quando percepirono la presenza del Re delle Terre d'Ombra, i due ruotarono i loro visi verso di lui, rivolgendogli un'occhiata sprezzante.
Eoforbio, il portavoce di Al, aveva un caschetto di capelli verde muschio, gli occhi neri come quelli di tutte le Divinità, ma non aveva le unghie color pece: queste erano una prerogativa degli dei maggiori; quelli di classe infima come lui non potevano averle. In compenso, aveva tatuato in fronte il simbolo delle Divinità, l'occhio nero cerchiato di bistro ed allungato verso l'esterno, ad indicare che tra la feccia aveva un ruolo elevato, cioè quello di burattino nelle mani del re degli dei.
La donna di fronte al dio era una Lucente, creatura nata dall'unione, millenni addietro, di Divinità ed Elfi. Adhurna, la regina del Regno di Luce, era cieca come ogni sovrana di quel Popolo. Indossava un vestito lungo, semplice ed attillato, col colletto di pelliccia, mentre i capelli ciano erano tirati all'indietro, lasciando scoperta la fronte spaziosa. Era una creatura piuttosto altezzosa ed inutile, accecata dal fanatismo religioso, e chissà come faceva ad essere ancora sul trono.
Nicholas non degnò i due di uno sguardo e si diresse a sinistra dove il portale delle Terre d'Ombra attendeva di condurlo nella sala del Consiglio. Ma il cammino del sovrano Infero fu interrotto dallo sputo di Eoforbio, indirizzato al viso del re e caduto sullo stivale di lucida pelle nera. Adhurna trattenne una risata, posando una mano sottile sulle labbra bianche.
Dopo aver constatato rapidamente la condizione del suo stivale, Nicholas si voltò verso il dio che lo fissava vittorioso. Aveva osato un gesto simile e credeva di passarla liscia. L'Infero non mosse un dito, limitandosi a fissare il portavoce di Al, che iniziò a sudare freddo. Solo ora si rendeva conto di quel che aveva fatto. Eoforbio deglutì spaventato, senza però cercare di rimediare.
«Pulisci» sibilò Nicholas, stringendo appena gli occhi.
Eoforbio si sentì attraversato da un dardo di ghiaccio e rimase paralizzato. Poi, mosse qualche timido passo verso il Re degli Inferi, lo sguardo basso, mentre Adhurna tentava di capire cosa stesse succedendo, girando la testa da una parte e dall'altra. Quando il dio provò ad afferrare un lembo del mantello rosso di Nicholas, il sovrano tirò indietro la cappa con un ghigno.
«Usa la veste della femmina» gli ordinò, con tono sprezzante.
Allora Adhurna indietreggiò, scuotendo il capo e cercando di formulare qualcosa di sensato, muovendo le labbra a vuoto. Eoforbio, senza sollevare lo sguardo dallo stivale di Nicholas, allungò la mano e prese la gonna della Lucente, usandola poi come strofinaccio per ripulire la sua saliva.
«Milord, come avete potuto...» iniziò Adhurna, sollevando un braccio per cercare l'Infero, che sentiva in forma di gelida ed opprimente presenza ad un passo da lei.
«Dovresti essere contenta, la tua veste ha toccato umore di Divinità. Dovresti conservarla come reliquia» la schernì Nicholas, afferrandole il mento con una mano e rivolgendole un sorriso crudele.
I due ascensori erano in movimento, ma uno giunse nell'atrio per primo e rilasciò Ludovik d'Est, il giovane ed effeminato sovrano che rimase interdetto nell'osservare la scena: una Divinità inginocchiata davanti ad un Inferno, mentre gli puliva gli stivali. Nicholas lanciò uno sguardo inespressivo al ragazzo dai capelli biondi fino alle spalle e gli occhi castano chiaro.
Ma il sovrano Infero non perse tempo ad umiliare ulteriormente Eoforbio, che aveva appena terminato il suo compito: «Ludovik, volete anche voi uno schiavo Divinità? Come vedete sono molto adatti ad eseguire umili lavori».
Ludovik non seppe cosa rispondere e faceva scattare gli occhi da Eoforbio a Nicholas, molto confuso. Poi guardò il secondo ascensore fermarsi ed aprire la porta.
Nicholas gettò un'occhiata distratta verso la cabina appena giunta nell'atrio.

Wirda domandò ad Alexya se avesse bisogno di qualche informazione riguardo al Consiglio, ma la ragazza negò l'aiuto, «Ho già chiesto ad Helena tutto quello di cui potrei aver bisogno, grazie», e sorrise cortese.
L'ascensore terminò la sua salita ed il suo ingresso si spalancò su una sala spoglia, con otto pareti di vetro che davano sul Deserto di Zinco, mentre il soffitto era di scura pietra. All'interno dell'atrio regnava la penombra, grigia e fredda. Alexya si guardò attorno, decisa ad osservare con cura gli otto portali magici, uno per ogni sovrano, i personalissimi accessi dei re alla sala del Consiglio, formati da un arco a sesto acuto con inciso sulla chiave di volta il simbolo di ogni regno; la sua attenzione, però, si concentrò sui presenti e soprattutto sugli occhi argentati di Nicholas. Oh no, gemette tra sé, temendo di non essere abbastanza padrona di lei stessa per affrontare l'Infero.
Eoforbio, Adhurna e Ludovik passarono in secondo piano, perché era caduta di nuovo vittima del sovrano dal mantello cremisi. Purtroppo. E lui aveva notato con soddisfazione l'effetto sortito sulla ragazza umana.
Wirda gettò un'occhiata preoccupata ad Alexya, bloccata davanti alla porta dell'ascensore, immobile e con lo sguardo fisso davanti a sé. Le poggiò una mano dietro la schiena, per invitarla ad avanzare, e la regina parve riscuotersi. Raggiunsero il gruppo dall'altra parte dell'atrio e si fermarono entrambi.
«Bene, c'è già la maggior parte del Consiglio» disse Wirda, guardando gli altri sovrani.
Ludovik annuì e, quando parlò, Alexya si accorse che la voce del giovane non era molto maschile: «Mentius e Tarus, a quanto pare, sono già nella sala. Vogliamo raggiungerli?» propose il Re d'Est. Eoforbio annuì, con un'espressione contrariata sul volto. Il bruciore dell'umiliazione di prima era svanito, rapido così com'era comparso. Ormai aveva quasi perso il suo orgoglio, che non era mai stato smisurato. A Gemma d'Autunno gli capitava di peggio, aveva fatto il callo.
«Iniziamo la seduta al più presto. Meno tempo si sta in presenza di Uomini ed Inferi, meglio è» fu la risposta di Adhurna, che seguì Eoforbio, diretto al suo portale.
Alexya aprì la bocca, le sopracciglia aggrottate, irritata dalle parole della Lucente. Ludovik si avvicinò alla regina e l'Elfo.
«Salve Wirda» lo salutò, per poi rivolgersi alla ragazza, attirando la sua attenzione su di sé, «Sono Ludovik di Dornior, Re d'Est. È un onore conoscervi...»
Alexya gli porse la mano sinistra per il baciamano ed il giovane sfiorò l'anello tatuato con le labbra. «Lo stesso posso dire io. Sono Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest», si presentò lei.
Nicholas osservò la scena in disparte ed attese la dipartita di Ludovik verso il suo portale, per avvicinarsi alla nuova arrivata. La ragazza, vedendoselo davanti, freddo e aristocratico, deglutì e sollevò lo sguardo verso di lui. Gli occhi verdi avevano un qualcosa di curioso e spaventato che interessò l'Infero. Eseguì il baciamano.
Appena le labbra di Nicholas sfiorarono l'anello, Alexya sentì una scossa che la fece tremare dal profondo. Pensò di essersi autosuggestionata, a causa dello sguardo argenteo del re fisso su di lei anche durante quel gesto, ma vide che lui aveva percepito il potere che l'aveva attraversata e si preoccupò sul serio. Cosa significa?, si domandò allarmata.
Wirda osservò la scena con un crescendo di inquietudine. Non gli piaceva l'interesse di Nicholas per Alexya. Tutto ciò che attirava l'attenzione dell'Infero finiva per essere contaminato dalla distruzione che lui portava ovunque. Lasciare una ragazza umana in balia di quell'uomo sarebbe stato pericoloso. Molto pericoloso. Alla fine, pensò bene di andare nella sala del Consiglio, sperando di trascinare con sé la regina. Di sicuro lei non avrebbe voluto rimanere sola con il Re delle Terre d'Ombra. Però, poco prima di oltrepassare il suo varco, vide che i due erano ancora uno di fronte all'altra a studiarsi.
Nicholas si accorse con più forza del profumo che gli aveva già pizzicato il naso quando aveva incrociato l'umana al Liocorno: era il sangue di Alexya a chiamarlo, il che non gli andava a genio. Non aveva bisogno di stupide complicazioni dovute al suo lato vampiro. Inoltre la reazione dell'anello al suo tocco lo aveva lasciato senza parole. Sapeva cosa significava, cioè altri problemi. Quella dannata ragazzina sembrava esser apparsa davanti a lui solo per rendergli la vita più complessa di quanto non fosse già. Sarebbe stata una bella sfida guidare il gioco, mantenere il controllo su quello che sembrava tanto uno scherzo del Fato, ormai a corto di fantasia. E l'Infero aveva intenzione di vincerla ad ogni costo. Quello stupido essere non sarebbe riuscito a controllare la sua vita.
«Il mio nome è Nicholas e sono l'attuale Re delle Terre d'Ombra. Con chi ho il piacere di parlare?» disse Nicholas, sfiorando con le labbra il dorso della mano di Alexya, che ancora stringeva con la sua.
La regina si presentò, raccogliendo tutte le sue forze per mantenersi concentrata su quanto stava dicendo. Le pelle dell'Infero era fredda a contatto con la sua e tutto in lui la attirava, volente o nolente. Sentiva due parti di se stessa lottare tra loro, quella razionale e quella più istintiva. Cercava a tutti i costi di far prevalere la prima, ricordandosi costantemente dell'idea che voleva proporre al Consiglio degli Otto Sovrani. Se fosse stata accettata, quell'uomo sarebbe stato suo nemico. E allora?, ribatteva l'istinto, prima di essere soppresso.
«Il vostro anello ha reagito» le fece notare Nicholas, per farle comprendere che quel particolare non era da sottovalutare. Ed Alexya non aveva intenzione di farlo. Solo che non era mai riuscita a trovare un testo che trattasse in modo soddisfacente l'argomento e non aveva la più pallida idea di cosa significasse quel comportamento del tatuaggio reale. Quell'anello era un mistero che nessuno le aveva chiarito. Quel compito sarebbe toccato a sua madre, se avesse avuto l'opportunità di conoscerla.
Alexya guardò l'Infero dritto negli occhi, mordendosi le labbra, il ventre in subbuglio. «Andiamo... nella sala... dagli altri» riuscì a farfugliare, infine, dopo un lungo silenzio.
Nicholas le lasciò la mano, seguendo però la ricaduta del braccio della ragazza, sfiorandole la pelle calda con i polpastrelli. Le venne la pelle d'oca e lui le manifestò di essersene accorto con un ghigno. Il sangue di quell'umana continuava a chiamarlo e provocarla in quella maniera era, per lui, una piccola vendetta per il tormento che gli provocava quel profumo. Lui, almeno, era capace a dissimulare, al contrario della regina.
«Sì, venite» sussurrò l'Infero, ambiguo, senza smetterla di ghignare.
Alexya chiuse un attimo gli occhi, emettendo un sospiro tremulo, mentre lui si voltava in un turbinio di cremisi e ali di corvo, e si diresse verso il portale del Regno d'Ovest, con le orecchie piene della voce piacevole di Nicholas.

.-.-.-.

Oh, inizia a succedere qualcosa. Più o meno. Ma sì, dai, quanto mi voglio male... XD E questa volta nessuna parolina in "lingua straniera" da tradurre. Mi sono rifatta nel capitolo successivo, tanto. ;]
Nel prossimo capitolo... eh eh, i due nemici faccia a faccia. Ma per questo dovete aspettare domenica!
Alla prossima! (myki, questo sì che è riferito a te, parti con le domande! XD)

Kanako

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Capitolo 4
*** Capitolo IV. I due Re ***


Come sempre, grazie myki e Dark Magician!!
E questa volta grazie anche a Erika91 per aver aggiunto questa storia nei preferiti.
Buona lettura! ;)

.-.-.-.

IV.
I due Re



Quando Alexya si ritrovò nella sala del Consiglio fu pervasa dal sollievo. L'ultima prova che doveva affrontare per confermare di fronte a se stessa di essere la Regina d'Ovest era proprio il portale d'accesso a lei riservato: solo chi possedeva il proprio oggetto magico di sovrano poteva attraversare l'ingresso magico. Se il varco non avesse riconosciuto chi stava cercando di usarlo, si diceva che costui sarebbe finito nel vuoto in cui si trovava la dimora della Triade Sacra. Non era una bella fine essere sospesi, in eterno, nel nulla più assoluto, ad un passo dalla salvezza, senza però poterla raggiungere. Nessuno ancora aveva provato ad andare contro le regole dei portali, quindi non si sapeva con certezza se fosse stato davvero così o meno.
La calma abbandonò Alexya non appena lei vide Mentius, seduto sulla poltrona alla destra della sua. Prima di occupare il proprio posto, la ragazza si fermò in piedi vicino al sovrano del Sud: aveva i capelli lunghi e mossi, fermati in una bassa coda e striati di bianco, mentre il resto della chioma era diventato color cenere da qualche anno. Era un uomo avanti con gli anni, doveva aver passato all'incirca sessanta inverni, eppure si manteneva in forma e si vedeva chiaramente, sotto il sontuoso abito di seta, che il suo fisico magro era comunque asciutto e scattante. Il viso scarno era segnato da lievi rughe d'espressione, i pochi peli bianchi della barba non erano ancora stati rasi e la pelle sottile era abbronzata.
«Mentius, ne è passato di tempo» fu il freddo saluto della regina.
L'uomo sudrione sollevò lo sguardo color nocciola verso Alexya e si raggelò. Non aveva tenuto in conto che un giorno la figlia di Garstand sarebbe giunta al Consiglio degli Otto Sovrani. I suoi incubi continuavano a tormentarlo, nonostante avesse cercarlo di toglierli di torno, in qualsiasi modo.
Dal suo canto, Alexya osservò con disprezzo puro l'assassino di suo padre. Durante la Guerra dei Quattro Re, per la supremazia sulla Terra degli Uomini, era stato Mentius in persona a recarsi da Garstand, nella sua tenda, e pugnalarlo. Non aveva avuto nemmeno la decenza di uccidere il suo avversario sul campo di battaglia. In quel modo era venuto meno il vincitore della guerra e tutto era rimasto immutato, rendendo inutili i quarant'anni di sanguinose battaglie e morti che avevano segnato la Terra degli Uomini. Ad Alexya non interessava l'aver perduto il comando sugli altri tre regni umani, preferiva quella divisione del potere piuttosto che le difficoltà governative che avrebbero implicato tutti quei territori. Era l'aver reso vano tutto lo sforzo di suo padre nel far tornare la pace ad irritarla ed a farle odiare Mentius.
«La figlia di Garstand...» farfugliò l'uomo, tra lo sprezzante e l'intimorito.
«Ho un nome» gli fece notare seccata Alexya.
Wirda si affrettò a bloccare la ragazza prima che causasse qualche sgradevole incidente diplomatico. Le prese un braccio e con la sua stretta ferma e forte riuscì a calmare la regina.
«Mi auguro che stiate bene» furono le parole successive di Alexya.
Mentius sbatté le palpebre sorpreso dal brusco cambiamento. Vide alle spalle della ragazza l'Elfo, il suo silenzioso guardiano, e comprese che doveva mettere da parte anche il suo risentimento.
«Sì, grazie a Fato sì» rispose Mentius, annuendo.
Alexya decise che ne aveva abbastanza di quell'uomo e si voltò verso Wirda. Incrociò lo sguardo inquietante di Tarus, il Re del Nord, e gli fece un cenno di saluto col capo. Non poterono far di meglio perché Eoforbio sembrava aver fretta di iniziare e pestava i piedi per terra, impaziente e seccato dalle chiacchiere degli altri sovrani, da cui era accuratamente escluso.
«Verrò a salutarvi come si deve a fine seduta» le promise Tarus, con un sorriso rassicurante che strideva col suo aspetto: la metà destra del viso del re era stata sfregiata durante la Guerra dei Quattro Re, cui lui aveva partecipato appena ventenne, e nascondeva la deformazione con una maschera bianca. Mancandogli anche l'occhio dello stesso lato, aveva inserito nella cavità oculare il rubino simbolo del Re del Nord, che baluginava sinistro dietro la protezione bianca delle cicatrici. Per il resto, Tarus era un comune uomo del Nord, un omaccione, imponente ed un po' stempiato, dagli occhi scuri e capelli neri, lunghi alle spalle e legati dietro la nuca.
Alexya annuì e gli rivolse un sorriso sincero. Poi si accomodò sulla sua poltrona ed osservò la disposizione degli altri sovrani attorno al tavolo circolare: partendo dalla sua sinistra, c'erano Wirda, Eoforbio, Adhurna e Tarus, esattamente di fronte a lei, poi Ludovik, Nicholas e Mentius. I posti erano stati sistemati seguendo la collocazione dei vari regni, a parte quelli degli Uomini, che erano stati divisi a metà, per far sedere Divinità ed Inferi ai due estremi. La ragazza si sentì osservata e si accorse che Nicholas la studiava con  aria sorniona, senza preoccuparsi di esser visto.
«Possiamo iniziare o dobbiamo continuare a cianciare a lungo?» chiese Adhurna, picchettando le unghie sul tavolo.
Tarus le lanciò un'occhiata rassegnata, con un sopracciglio inarcato. «Stiamo solo aspettando che Sua Eccellenza Eoforbio abbia un'illuminazione divina». Il sarcasmo nella voce del re irritò il portavoce di Al, che storse la bocca in una smorfia infastidita.
«Sempre la solita solfa, Tarus! Quante volte devo ripeterti che il divino Al non vuole scomodarsi per parlare con la feccia?» fu la risposta acida di Eoforbio.
«È divertente vedere quanto tu sia coraggioso davanti a questo Consiglio, mentre di fronte ad Al sei solo una pulce pavida» commentò Nicholas, reggendosi la testa con una mano, lo sguardo sempre rivolto verso Alexya, che cercava di distrarsi da lui.
Eoforbio lanciò un'occhiata velenosa all'Infero, «Io porto il dovuto rispetto al divino» si giustificò.
«Dovreste portare anche voi rispetto per gli dei, Lord Nicholas» lo rimproverò Adhurna, facendo seguire le sue parole da un cenno rispettoso rivolto al portavoce divino.
«Tsk, ridicolo. La feccia trattata con devozione da una sovrana. I Lucenti sono vicini alla loro fine» rispose il Re delle Terre d'Ombra, portandosi i capelli scivolati sul tavolo dietro le spalle.
Wirda intervenne, diplomatico, «Il divino Al dovrebbe almeno apparire per salutare. Ci ha privati persino di questo banale gesto di cortesia?».
Alexya assistette allo scambio di battute sconcertata. Cosa stavano facendo? Era così che funzionava il Consiglio? Helena non le aveva mai detto nulla del genere! Stavano perdendo tempo a battibeccare come mocciosi su argomenti idioti. Stufa di quelle beghe, batté una mano sul tavolo.
«Per la Triade, signori, si parli della Guerra Millenaria!» esclamò Alexya, guardandoli uno ad uno.
Tarus poggiò i gomiti sul tavolo e si sporse verso di lei, con un'espressione impietosita che diede molto fastidio alla regina.
«Oh, milady, mi fate tanta tenerezza» disse il Re del Nord, poi ruotò il capo verso Ludovik, alla sua sinistra. «È così ingenua, non trovate?»
L'espressione di Ludovik si fece dura. «Sì, ma ha ragione» replicò il giovane. «Purtroppo, Vostra Grazia, è questo il Consiglio degli Otto Sovrani, niente di più, niente di meno, decaduto ed imputridito da anni di disinteresse e stupidi bisticci tra re» continuò rivolto ad Alexya.
Adhurna assunse un'espressione scandalizzata e Mentius si agitò nella sua poltrona, in reazione alla scomoda verità che era appena emersa. Nicholas continuò a studiare con interesse la ragazza umana. Era così piena di ideali, gli faceva venire una tremenda voglia di distruggere il suo mondo perfetto e gettarla nel profondo baratro della disperazione, senza valori da cui trarre forza.
«Sapete, milady, è impossibile parlare della Guerra Millenaria con qualcuno che non accetta la sconfitta e con gente che non c'entra nulla eppure si vuole impicciare. Così si viene qui e si scambiano quattro chiacchiere tra amici: i vostri Popoli sono contenti e voi vi convincete di aver compiuto il vostro dovere» le spiegò l'Infero, con gelida crudeltà.
Alexya non lo guardò mentre le parlava, non riusciva a ricambiare il suo sguardo penetrante. Strinse la gonna del vestito in una mano, mentre assorbiva lentamente il discorso.
«Questo è inaccettabile» protestò lei, gli occhi rivolti verso il centro del tavolo. «Soprattutto perché non fate nulla per risolvere la situazione».
Nicholas ghignò. Era talmente ottimista, quella ragazzina. Ma si stava lasciando sfuggire un momento adatto alla sua proposta. La provocò, per farla andare a parare dove voleva lui.
«Avete una soluzione, milady?» le domandò, assumendo un tono di voce gentile ed adorabile.
La Regina d'Ovest finalmente sollevò gli occhi verso i suoi e lo fissò. Lui mantenne il ghigno crudele e lei parve intuire qualcosa. Sì, proprio quello, le sussurrò con la Voce. La ragazza sussultò per l'intrusione e guardò gli altri re.
«Sì, ma voglio che anche il divino Al sia qui» rispose Alexya e lanciò una rapida occhiata a Nicholas, divertito, senza darlo a vedere, dal coraggio e dalla spavalderia dell'umana.
«Hai sentito, Eoforbio?» si intromise Mentius, uscendo dal suo silenzio.
Il dio guardò con astio tutti i presenti. «Il divino sta ascoltando tutto. Ma voi non meritate di sentirlo parlare».
Nell'udire quelle parole, Alexya si sentì davvero insultata. Non era intenzionata a sopportare oltre le offese di quello stupido essere. Saltò in piedi, la fronte corrugata dalla rabbia, le mani sul tavolo.
«Pretendo di parlare col tuo re. Tu non sei un re, non hai alcun diritto di parlare in questa maniera con tuoi superiori!» Man mano che parlava, Alexya sollevò il volume della voce.
Tarus dimostrò apertamente la sua approvazione, sorridendo ed annuendo, mentre Adhurna spalancava la bocca, senza parole per l'orrore. Wirda afferrò il braccio della giovane regina, pronto a proteggerla da un possibile attacco del portavoce divino. Ludovik e Mentius la guardarono esterrefatti, poiché non si sarebbero mai aspettati che quella ragazza osasse tanto. Nicholas poggiò la schiena contro lo schienale della poltrona, pronto ad assistere allo spettacolo.
Eoforbio tremò di rabbia. Quell'umana... Era andata troppo oltre! E vedeva chiaramente che aveva l'appoggio dell'Infero, con quell'espressione così trionfante sul suo viso di marmo. Si stavano coalizzando contro il suo divino padrone, erano esseri senza speranza, tutti! Li avrebbero spazzati via, dal primo all'ultimo! I suoi pensieri iracondi si interruppero all'improvviso. Poi sentì una presenza nella sua mente, calda e viscida, e scivolò nell'incoscienza.
Il corpo del portavoce divino crollò sul tavolo e tutti intuirono cosa stesse per accadere. Nicholas ghignò, mentre i capelli corvini gli gettavano un'ombra sinistra sul volto perfetto.

Disteso sul triclinio, Al ascoltava la discussione che attraverso Eoforbio veniva trasmessa nella sua testa. Quei barbari stavano esagerando e Nephas con loro. Come osavano opporsi alla sua divina autorità? Fato lo aveva creato per governare il Mondo Profano e quella feccia aveva ancora da ridire! I piani del supremo erano chiari e gli altri Popoli erano troppo accecati da Nephas e le sue menzogne per vedere la verità.
Quei traditori stanno lordando la mia terra, eletto!, sembrava gridargli Fato dalla sua dimora, infuriato. Aveva ragione, sì aveva ragione.
Li punirò, o supremo, gli rispose Al con devozione, vedranno la nostra divina potenza e comprenderanno che voi siete con noi.
Il Re delle Divinità aprì gli occhi di ossidiana e la furia era iniettata in essi. Tutti cercavano di fermarlo, erano così idioti da non vedere che lui aveva ragione, non quel lurido Nephas! Doveva illuminarli, piegarli al suo volere e punirli per quella serie infinita di errori che commettevano da millenni. Al balzò giù dal lettino e si avviò verso un tavolino pieno di ciondoli recanti il simbolo del suo Popolo. Cercò quello di Eoforbio e lo strinse nella sua mano, le cui unghie erano nere e lucide.
«Myns-o-lahat, thi hopke-nih, Eoforbio!» recitò solenne Al, abbassando le palpebre e concentrandosi sull'oggetto che aveva in pugno. (1)
La sua coscienza si ritrovò in un luogo scuro e scomodo, senza alcun punto di riferimento. Estese la sua essenza e sentì i muscoli reagire ai suoi comandi. Lentamente, fece raddrizzare la schiena del suo ospite, si mosse mentre le articolazioni scricchiolavano. La mente del suo portavoce ormai era in suo potere. Avrebbe reso giustizia a Fato, avrebbe portato avanti la sua missione. Le immonde creature avrebbero ricevuto quel che spettava loro dopo tanta tracotanza.

Anche se non aveva una goccia di potere magico, Alexya percepì con chiarezza la grande quantità di energia che si stava concentrando in Eoforbio. Di sicuro, persino gli altri sovrani umani se n'erano accorti. Wirda le lanciò uno sguardo allarmato e la invitò a tornare seduta.
Nicholas piegò gli angoli della bocca in un sorrisetto divertito. L'umana era riuscita a far scomodare Al, che donna pericolosa. Non era da tutti riuscire in tale impresa. Uscirne indenni era un altro discorso, ovviamente.
Quando Eoforbio si risollevò, i suoi bulbi oculari erano completamente neri ed il tatuaggio sulla fronte sembrava ardere, l'inchiostro era lucido e gelatinoso, quasi fosse risalito sulla superficie della pelle. I sovrani umani lo guardarono sorpresi, poiché mai era capitato loro di vedere il portavoce divino posseduto dal suo signore. Wirda scrutava con cautela e diffidenza il dio assiso al suo fianco.
«Uhd eske, jot-ley?» sibilò la bocca di Eoforbio, con una voce composta da quella del dio ed una calda ed avvolgente che non gli apparteneva. (2)
Alexya sgranò gli occhi. Dunque Al era lì, almeno con la mente. E parlava la Maholhan. Conosceva quella lingua, dopotutto era la parlata da cui derivavano i vari dialetti del Mondo Profano. E serviva anche per usare la magia. Dove sei, stupido essere umano?, tradusse mentalmente la regina e si sentì subito infastidita dal tono. Che modi erano quelli? Al era un sovrano come tutti loro, eppure si sentiva al di sopra degli altri re tanto da parlare in un altro idioma, ignorando quello usato per la diplomazia, e da rivolgersi ai suoi pari con epiteti non molto rispettosi.
«Non vi è nessuno “stupido essere umano” qui, divino, ma solo vostri simili. Non avete diritto alcuno di usare una lingua diversa dalla nostra» rispose Alexya, cercando di mantenere un tono calmo e basso.
Nicholas inarcò un sopracciglio. «Al, gli umani sono soliti dire “parla come mangi”» lo stuzzicò, rivolgendogli una rapida occhiata, fredda e altezzosa.
«Nephas, codesta immonda favella et la corruzione che in ogni dove spargesti esmagheremo» fu la risposta furiosa di Al, nel suo modo arcaico di parlare.
I presenti rimasero molto perplessi nel sentire quel nome riferito a Nicholas. Nephas era morto da quasi tre millenni, tuttavia il Re delle Divinità aveva chiamato in quel modo l'attuale sovrano degli Inferi. Forse le voci sulla sua pazzia non erano poi tanto infondate.
Dal suo canto, Nicholas era abituato alla parlata di Al e non faceva nemmeno caso a quel nome. Almeno, di solito, era così. Quel giorno, però, sentì il lato di sé incatenato nel fondo della sua mente agitarsi, più potente e ribelle che mai. No, non lo avrebbe liberato, non dopo tutti quegli anni di pace che si era guadagnato rinchiudendolo. Creò un'altra gabbia di magia attorno al suo prigioniero, per non avvertire più, con tanta chiarezza, quella presenza odiosa.
«Sì, Al, hai ragione» acconsentì l'Infero, con strafottenza.
Alexya decise che era giunto il momento adatto a parlare, evitando che il battibecco si protraesse all'infinito. «Ho chiesto la vostra presenza qui, divino, perché ascoltiate la mia idea come farà anche Lord Nicholas».
Il dio non parve prestare ascolto alle sue parole, mentre Nicholas notò che lei aveva usato il titolo che tutti gli conferivano senza che lui ne avesse mai dato il permesso. L'utilizzo del “Lord” era partito dalla sua corte, dove indicava il principe ereditario, si era diffuso in tutta la Terra dei Cinque Popoli e continuava ad essere usato nel riferirsi a lui, sebbene lui fosse già re.
«Parlate, milady» le intimò Nicholas, con un cenno della mano ed un'espressione trionfante sul volto. Voleva che Al capisse che lui aveva, ancora una volta, la situazione in pugno e che non si faceva cogliere di sorpresa da nulla. Era un modo semplice per ribadirgli quanto fosse superiore persino lontano dal campo di battaglia. Anche se il dio non avrebbe mai ammesso la sconfitta, un giorno avrebbe ceduto, inevitabilmente. Così era scritto ed Al ricordava bene quale fosse il suo destino, benché non volesse ammetterlo e fosse sempre più pazzo per questo.
Alexya non si sentiva tranquilla. Se Nicholas la stava spingendo ad agire, sapeva d'istinto che ci doveva essere un tranello. Non voleva diventare un burattino dell'Infero, ma non poteva neppure tirarsi indietro a quel punto. Guardò Wirda, alla ricerca di appoggio, poi si levò in piedi, col mento appena sollevato, fiera e coraggiosa.
«La Guerra Millenaria si protrae da secoli e secoli, senza mai giungere a conclusione. Le Divinità e gli Inferi non riescono a trovare un accordo e questo impedisce la fine degli scontri. Ebbene, un mezzo per terminare la guerra esiste, ma non lo possiede nessuno dei due Popoli». La ragazza si interruppe. Quel discorso non era totalmente suo, anzi non lo era affatto. Lei avrebbe parlato in un'altra maniera, parole del genere erano più adatte a qualcuno che viveva la Guerra Millenaria, non ad un'umana che la conosceva per vie indirette. Sentì la presenza gelida di Nicholas nella sua mente e la rabbia le montò dentro, inarrestabile. Aveva ragione, lui voleva usarla come un burattino.
Mi ringrazierete dopo, le sussurrò crudele e suadente Nicholas, iniziando a ritrarre la Voce. Lui sapeva cosa volevano sentirsi dire gli altri sovrani e le lasciò informazioni a brandelli, senza che lei se ne accorgesse.
Non ne ho bisogno!, ringhiò Alexya, dibattendosi come una belva in gabbia. Non comprendeva perché il sovrano fosse tanto interessato alla sua idea, ma la sensazione che le lasciava quell'innaturale interessamento era sgradevole. Lui era coinvolto nella guerra, che motivo aveva di trovarsi un altro avversario con cui combattere? La stava prendendo in giro?
Calmatevi, le intimò con tono amabile l'Infero e la lasciò sola come un'improvvisa folata di vento gelido.
Di nuovo padrona della sua mente, Alexya riprese il discorso, dopo aver lasciato il tempo necessario agli altri sovrani di comprendere le sue parole, cioè quelle di Nicholas. Quella consapevolezza la turbava. Si riscosse, non doveva dar troppo peso agli scherzi di quella creatura, ora il suo dovere era quello di concludere quel che aveva iniziato.
«Tutto ciò di cui c'è bisogno è un esercito neutrale, non partecipe all'odio che divide i due Popoli, affinché intervenga nella Guerra Millenaria per chiuderla con la sua vittoria. In questo modo, né Divinità né Inferi saranno sottomessi o distrutti. Inoltre, i nostri rispettivi Popoli, sebbene non siano direttamente coinvolti, potranno ritrovare la pace perduta a causa di questo conflitto che si fa sentire in ogni regno e che è stato la causa della nascita del Consiglio degli Otto Sovrani». Le parole le vennero fuori spontanee ed Alexya si sentì soddisfatta di se stessa. Senza l'aiuto di Nicholas era riuscita a rendere la sua idea interessante.
Sì, perché lei vedeva le espressioni degli altri re e si era accorta che il suo discorso aveva trovato terreno fertile in loro. Lanciò uno sguardo trionfante all'Infero. Lui, invece della sorpresa, le palesò un perverso divertimento che la regina non comprese.
«Jot-ley, come osasti! Codesta follia tua non condurrà te in parte alcuna, sol a la distruzione!» reagì Al, evocando una gran quantità di potere per colpire la Regina d'Ovest. (3)
«Al» lo chiamò Nicholas, con un tono gelido che non ammetteva repliche. Persino il Re delle Divinità dovette cedere alla potenza della sua voce, soprattutto dopo esserne stato colpito come da una spada di ghiaccio. «Sei un codardo, se provi a colpire un tuo nemico battendoti ad armi impari», lo accusò l'Infero. Sapeva quanto Al odiasse sentirsi dare del vigliacco. Era così fuori di testa da farsi scrupoli di coscienza davanti agli altri, quando poi inventava qualsiasi tranello per distruggere gli Inferi senza preoccuparsi dell'onore ed altre sciocchezze simili. Era incoerente e non se ne rendeva neppure conto. E Nicholas usava sempre la sua pazzia per batterlo. Poteva essere pure una delle creature più potenti del Mondo Profano, un membro della Triade Profana, ma senza lucidità mentale si riduceva ad una banale Divinità, anche se decisamente imprevedibile.
Il corpo di Eoforbio fremette per la rabbia di Al. Il potere che aveva evocato, però, era svanito del tutto. L'attacco di Nicholas era andato a segno, nonostante il dio cercasse di non darlo a vedere, «Drope thi phale-nih ohndrarion, Nephas». (4)
«Ay, drope dhay, jot» gli rispose Nicholas, impassibile. Usò di proposito la Maholhan ed Al parve notarlo con un certo fastidio. L'Infero non era inferiore a nessuno e non faceva altro che sbattergli questa irritante realtà in faccia, tutte le volte che ne aveva l'opportunità. (5)
Il dio stava per dire altro, ma Alexya gli impedì di prolungare la discussione, interrogando gli altri sovrani: «Allora? Il divino Al ha dato la sua risposta».
«Poni persino questa domanda, umana» la schernì Adhurna. «Mi sembra ovvio il rifiuto di noi tutti. È un'idea stupida ed irrispettosa. Non risolverà nulla. Come può una ragazzina umana, appena venuta al mondo, ignorare come vanno queste cose? La vittoria del divino è una certezza, il tuo ipotetico esercito solo una fantasticheria da mocciosi vanagloriosi».
Alexya incassò il colpo con una dignità ed una calma che non sapeva di avere. Non abbassò lo sguardo umiliata, ma rimase in piedi, con gli occhi verdi fissi sul viso di Adhurna mentre terminava di sputare veleno come una vipera. Ma, dopotutto, nelle sue vene scorreva il sangue degli Uomini del Nord, i più orgogliosi di quel Popolo. Lo sproloquio di una Lucente servizievole non avrebbe avuto su di lei lo stesso effetto di una delle frecciate di Nicholas, perché lui mirava e colpiva i punti deboli ed a quello non c'era rimedio, neppure l'orgoglio dell'Ovest poteva far qualcosa contro quegli attacchi.
Un movimento d'aria al suo fianco e la regina vide Wirda in piedi, il volto liscio e spigoloso trasformato in una maschera di fredda e saggia determinazione. Ricordava uno dei sovrani elfici dell'epica, in quel momento.
«Io, invece, trovo l'idea interessante» obiettò l'Elfo, con voce ferma ed imperiosa, rivolto agli altri re seduti attorno al tavolo. Fissò gli occhi turchesi, brillanti come gemme preziose, in quelli verdi della ragazza. «Vostra Grazia, potete contare su di me».
Un freddo ghigno comparve sul viso di Nicholas, guardando Alexya colma di gratitudine verso Wirda. Il Re degli Elfi era una persona rispettata da chiunque con un po' di senno. Non sarebbe stato difficile conquistare gli altri re della Terra dei Cinque Popoli con simile alleato.
«Anch'io sarò al vostro fianco, regina Alexya, e con me il Regno d'Est» annunciò Ludovik, alzandosi a sua volta.
Tarus lo seguì e, con un profondo inchino, annunciò la sua decisione: «Avete tutto il mio appoggio, milady».
Gli sguardi di tutti si concentrarono su Mentius, l'unico seduto tra coloro che non erano direttamente coinvolti nella Guerra Millenaria. Nicholas sapeva cosa stava pensando il sovrano del Sud. Gli eserciti Inferi passavano dai suoi territori per raggiungere i Campi di Sangue e non voleva che, se avesse aiutato Alexya, Nicholas lo danneggiasse in qualche modo. L'alleanza con le Terre d'Ombra aveva sempre impedito al Regno del Sud di essere saccheggiato e conquistato dagli Inferi e Mentius non era tanto convinto di mandare alle ortiche la salvezza del suo regno per l'idea di una ragazzina. Tarus non avrebbe avuto problemi del genere, era Vraele il dio della Guerra il generale e Manipolatore dei Myurohon e tendenzialmente questi non amava sprecare energie.
Il Re degli Inferi usò la Voce per costringere Mentius ad accordare il suo aiuto ad Alexya. Il re umano si mosse e parlò senza rendersene conto e, quando l'Infero si ritirò dalla sua mente, si accorse con orrore di quel che aveva fatto, senza capire subito che era stato Nicholas l'artefice di quell'atto. Fu sul punto di tirarsi indietro, ma si fermò prima di rendere vano il lavoro dell'altro sovrano.
Il viso di Eoforbio si stava deformando sempre più, mentre cresceva l'ira di Al. Adhurna si accorse dell'aura poco amichevole del dio e si affrettò a ribadirgli la sua posizione, per ricordargli che non era solo nella sua lotta per la verità. Lei condivideva gli ideali del Re delle Divinità, avrebbe condiviso qualsiasi cosa provenisse da Al, avrebbe fatto qualsiasi cosa le avesse ordinato il dio.
«Divino, i Lucenti sono e saranno per sempre al vostro fianco! Annientate questi stolti che stanno attentando alla vostra supremazia!».
Al non parve udire le parole di Adhurna. Tornò a concentrare tutta la magia che riusciva a trovare nel corpo del suo portavoce e nell'ambiente. Poi esplose, distruttivo e furioso. Il tavolo del Consiglio andò in mille pezzi quando l'onda di potere lo investì. Wirda si affrettò a creare una barriera che proteggesse gli Uomini, per nulla dotati di magia, e se stesso. Alexya assistette all'attacco con un'espressione sconcertata, mentre gli altri tre uomini guardavano preoccupati la barriera, sperando che reggesse alla furia di Al.
Nicholas, in fondo alla sala, preparò il suo attacco. Quell'idiota di Al stava dando in escandescenze. Era davvero una scenata degna di un moccioso. Lo avrebbe fatto smettere e gli avrebbe danneggiato Eoforbio. Non si sarebbe accontentato di difendersi da quel pazzo, doveva rompergli anche il giocattolo.
Libero dall'ingombro del tavolo, l'Infero raggiunse Eoforbio alla velocità della luce, la mano destra aperta e le dita strette, più simili ad una punta di lancia che ad un arto. Un gesto rapido e preciso ed il braccio di Nicholas trapassò lo stomaco del portavoce divino, facendogli sputare un fiotto di sangue scuro. In quello stesso istante, con un urlo disumano, Al abbandonò il corpo di Eoforbio, che si afflosciò a terra non appena il re Infero ritirò il suo arto insanguinato dal corpo dell'altro.
Wirda fece dissolvere la barriera, mentre Adhurna si gettava in ginocchio affianco al dio ferito e svenuto, con un urlo isterico che riempì la sala. Alexya si avvicinò a Nicholas, per vedere da vicino il portavoce. Il sangue formava una pozza cremisi ai piedi di Eoforbio e dell'Infero. Un lembo del mantello rosso si era imbevuto nel liquido che macchiava il pavimento di marmo e strisciando sul pavimento lasciava una scia scarlatta. Era stata colta impreparata da tutta quella violenza. L'attacco di Al era mirato solo ad impressionare, a far un gran baccano e null'altro. Quello di Nicholas, invece, era stato dettato da ferocia e sadismo, non c'erano altre spiegazioni plausibili, anche se quella le metteva i brividi.
«Al se n'è andato?» chiese Alexya, lasciando molto perplesso Tarus che si era accostato nel frattempo. Che domanda era quella? Non aveva chiesto, spaventata, se Eoforbio fosse morto, non aveva incolpato di troppa crudeltà Nicholas, neppure molte altre cose più “normali”.
L'Infero sollevò il braccio insanguinato, arrotolando la manica zuppa di sangue fino al gomito, indeciso se strapparla o meno. Poi rivolse i suoi occhi d'argento alla regina al suo fianco. Gli piacque come lei aveva reagito. Niente isterismi o idiozie simili. Voleva sapere quali esperienze l'avessero segnata in quel modo.
«Certo. Non sopporta il dolore, la sua divina Altezza» rispose con naturalezza e sarcasmo Nicholas. Sfiorò di proposito il viso di Alexya con la mano destra, lasciandole sulla pelle una linea di sangue. «Ora che avete la possibilità di venire a divertirvi con noi durante la bella stagione, sappiate che non avrete la possibilità di lottare con lui».
Alexya strinse gli occhi, con un'espressione di sfida. «Cos'è, solo voi potete lottare contro Al?» azzardò la ragazza, portando le mani sui fianchi.
Nicholas la guardò inespressivo. «Oh no» iniziò. Fece per chinarsi e leccar via il sangue dalla guancia di Alexya, per godersi l'imbarazzo certo dell'umana, ma Wirda gli impedì di portare a termine la sua opera frapponendosi tra lui e la regina col braccio. L'Infero fece finta di nulla, mentre assestava un potente colpo con la Voce alla barriera mentale dell'Elfo. La protezione si distrusse, però Nicholas lasciò  perdere i pensieri di Wirda, non gli interessavano minimamente. Il suo attacco era mirato solo a ricordare al sovrano il suo posto nel mondo.
«Solo che Al non scende in campo» concluse poi Nicholas, aggirando l'ostacolo presentato dall'Elfo.
Alexya si era accorta che il re Infero aveva cercato di farle qualcosa, prima dell'intervento di Wirda. Ringraziò l'uomo posandogli una mano sulla schiena, ma seguì Nicholas che si allontanava. Aveva un dubbio che solo lui poteva risolvere.
«Perché volevate a tutti i costi che la mia idea venisse approvata?» domandò all'Infero, raggiungendolo a breve distanza dal portale.
Nicholas si voltò verso Alexya, che notò subito la mano destra pulita come se non avesse mai incontrato il sangue di Eoforbio. L'Infero umettò con la lingua il pollice e pulì la guancia della ragazza. La Regina d'Ovest rimase interdetta per il gesto e notò gli artigli dall'aspetto decisamente pericoloso, che adornavano le estremità della dita del sovrano.
«Non vedo la necessità che voi ne sappiate il motivo» rispose serafico Nicholas.
Non le fu permesso di protestare, perché il Re delle Terre d'Ombra attraversò il portale e la lasciò nella sala del Consiglio, sola con i suoi dubbi.

Wirda, ripresosi dall'attacco mentale di Nicholas, cercò Alexya con lo sguardo. La vide ferma davanti al portale delle Terre d'Ombra e si tranquillizzò. Almeno non aveva seguito l'Infero. Fu distratto dai suoi pensieri da Adhurna che gridava contro i re umani che guardavano Eoforbio senza muovere un dito.
«Blasfemi! Che Fato vi maledica, voi e la vostra stirpe di lurida feccia!» strillò la Lucente, una mano premuta sul ventre del dio, mentre cercava di curare la ferita.
«Quanto mi fate ridere, monna Adhurna» replicò sprezzante Tarus, incombendo minaccioso su di lei. Non gli risultava troppo difficile, data la sua stazza. «Non siete altro che una sporca mezzosangue che si illude di essere ad un passo dalla divinità! Se nascesse un Popolo formato da tutti i mezzosangue che gli dei spargono nel Mondo Profano, voi stupidi Lucenti non sareste altro che una minoranza tra i semidei con sangue umano».
Ludovik posò una mano sulla spalla di Tarus, cercando di calmarlo. «Vi prego, milord, calmatevi o sarà sparso altro sangue in questa sala» mormorò il giovane dell'Est, con la voce pacata e soave.
Mentius guardò Eoforbio con una smorfia di terrore. Ora che aveva visto con i suoi occhi Lord Nicholas all'azione, non si sentiva tanto sicuro a collaborare con Alexya. Sarebbe andato al più presto a fare una visita al Re degli Inferi, giusto per evitare fraintendimenti nefasti.
Alexya tornò al gruppo di sovrani. «Monna Adhurna, se ci fate la cortesia di portare via Eoforbio, ve ne saremmo davvero grati» chiese con garbo la regina.
Adhurna rivolse il viso alla ragazza, seguendo il suono della sua voce. «La cortesia non la farò a voi blasfemi, ma al divino Eoforbio, allontanandomi da questa sala immonda» sibilò la Lucente, afferrando il dio svenuto ed alzandosi in piedi. «E voi, maledetta umana, non avrete pace finché questa vostra stupida idea non arriverà alla sua fine. Non vincerete la Guerra Millenaria, un'accozzaglia di Popoli non può nulla contro il divino potere delle Divinità!»
Ho cercato di essere ragionevole, si giustificò Alexya, mentre la mano scattava alla daga nascosta nelle pieghe della gonna. Se l'è cercata, continuò. Ma quelle che stavano cercando erano solo le spiegazioni da dare ad Helena, appena lo avesse saputo. Lei era sempre convinta delle sue azioni, il problema era far capire agli altri le sue ragioni, sempre più che legittime. Poco prima che puntasse la lama alla gola di Adhurna, Wirda le afferrò il polso con una mano e la tenne ferma contro di sé con l'altro braccio.
Alexya sollevò lo sguardo verso l'Elfo, che fulminava Adhurna con gli occhi turchesi, diventati duri e colmi di rimprovero.
«Se avete finito di avvelenare l'aria, monna Adhurna, vi pregherei per piacere di andarvene. Una parola in più e non sarò più tanto indulgente» intimò fermamente Wirda.
La Lucente sostenne lo sguardo del re a lungo, in una silenziosa lotta di volontà. Alla fine, Adhurna si voltò e trascinò Eoforbio verso il portale dei Giardini delle Divinità, che poteva attraversare solo grazie al tatuaggio sulla sua fronte. Non appena il dio sparì nel varco magico, lei si diresse verso il proprio e lasciò la sala del Consiglio.
Wirda liberò Alexya dalla sua stretta e la regina rinfoderò la daga, sotto lo sguardo attento di Ludovik. C'era una ragazza pericolosa dietro la facciata cortese e nobile. Questa sua caratteristica sembrava adatta alla Guerra Millenaria, secondo il Re d'Est, soprattutto dopo aver visto Al e Nicholas all'opera. Sperò di aver visto giusto, perché un'idea così coraggiosa non andava sprecata.
«Milady, avete qualcosa da dire di più preciso riguardo l'esercito che volete creare?» domandò Mentius, facendosi avanti.
Alexya annuì. «Il nome, per prima cosa: Esercito della Fenice. Sapete cosa rappresenta quest'animale?».
I quattro re guardarono la ragazza, curiosi e perplessi.
«Poiché vive cent'anni, per poi morire e risorgere dalle proprie ceneri, si è soliti considerarla simbolo di una nuova era» rispose Wirda, ottenendo un cenno di assenso dalla ragazza.
«Ma è anche una Divinità, una delle Bestie Sacre che governano il Maholeyrion, nelle Terre della Magia» precisò Ludovik.
Alexya sventolò la mano destra in aria, facendogli intendere che quell'informazione non c'entrava nulla. Incuriosito, Ludovik attese che la regina proseguisse.
«Ho bisogno di un tributo in soldati da ognuno di voi. Per esempio, gli Elfi sono rinomati arcieri, Wirda: mi farebbero molto comodo alcuni di loro; mentre i cavalieri dell'Est sono i migliori di questa Terra e così via. L'esercito di ogni regno primeggia in qualcosa ed io ho bisogno di professionisti, non di contadini cui è stata messa in mano una spada senza conoscerne l'utilizzo» spiegò Alexya, ormai completamente calata nel ruolo di generale. Aveva assistito a così tante riunioni di guerra col padre, che era quasi stata una sofferenza passare quegli anni senza un vero esercito cui dare ordini. Non era un sentimento molto sensato, ma quasi mai cose del genere lo erano.
«Però noi Uomini non siamo avvezzi al tipo di guerra che conducono Divinità ed Inferi. Basti vedere in che stato sono i Campi di Sangue per comprendere di che portata sono le loro battaglie» obiettò Tarus, con le braccia incrociate sul petto ed il rubino che baluginava dietro la maschera bianca.
«Le Regine d'Ovest hanno sangue Maho nelle loro vene, sono le uniche oltre agli Elfi a conoscere la magia, nell'Esercito della Fenice» fu la spiegazione di Mentius, che aveva appena notato questo particolare, mentre rifletteva in disparte.
Alexya annuì: quel che aveva detto il Re del Sud, in linea generale, era vero. Anathor, il primo Re d'Ovest, aveva sposato una Maholey, una maga proveniente dalle Terre della Magia, di nome Shilya e quindi le loro gemelle, le capostipiti delle due famiglie reali, Lahacilla e Thenesha avevano ereditato la magia dalla madre. Purtroppo, dopo generazioni di grandi maghe, era nata lei, senza potere alcuno. Doveva trovare un modo per avere quel potere che le mancava, perché era ciò di cui aveva bisogno nella Guerra Millenaria.
Wirda lanciò un'occhiata ad Alexya, per accertarsi dello stato in cui si trovava. Ricordava ancora le preoccupazioni di Garstand, che temeva per il futuro della figlia senza potere magico, mentre i suoi figli maschi, i maggiori, morivano in guerra per assicurarle la pace quando fosse salita al trono. Ho paura che non riesca a superare la prova dell'anello, gli aveva confidato Garstand, mentre assisteva dalla finestra dello studio agli allenamenti di scherma della bambina con Johan. Ma ora che Alexya era diventata una regina, superando l'ostacolo che tanto assillava il padre, Wirda si domandava se davvero la ragazza non possedesse nemmeno un briciolo di potere magico.
«Appena farò ritorno a palazzo, provvederò ad inviarvi una parte delle truppe. Il resto ve lo invierò di seguito, così in caso di problemi farò in modo di risolverli, che ne dite?» fu la proposta di Tarus, che venne approvata da Alexya e suggerita agli altri sovrani.
«Vi terrò aggiornati» promise la Regina d'Ovest, prima di congedare i suoi nuovi alleati.
Mentius andò via di fretta, seguito da un Ludovik pensoso. Wirda rimase ad attendere Alexya, che era stata bloccata da Tarus.
«Milady, vi avevo promesso che a fine seduta vi avrei salutata come si deve. Ebbene, il momento è giunto» le ricordò il Re del Nord, con un sorriso galante.
Alexya stette al gioco e gli porse la mano sinistra per il baciamano. «Posso sapere con quale spirito nobile ho avuto l'onore di parlare?».
Tarus sfiorò con le labbra l'anello e ad Alexya tornò in mente il comportamento del tatuaggio magico al tocco di Nicholas. Il sovrano di fronte a lei si presentò come avrebbe dovuto fare all'inizio della seduta del Consiglio e lei gli rispose, ma il suo pensiero era altrove. Appena rimase sola con Wirda, si aggrappò all'Elfo, in cerca di aiuto.
«Perché l'anello ha reagito a Nicholas?» chiese in un sussurro Alexya, guardando incerta gli occhi turchese dell'uomo.
Wirda rimase senza parole, mentre ricordava sgomento i monologhi di Garstand riguardo all'erede al trono: Alexya non ha magia, vive durante la Guerra Millenaria, probabilmente sarà sola sul trono sotto la minaccia degli Anziani... cos'ha in serbo Fato per lei?

Giunto al Liocorno, Mentius passò di corsa dalla sua stanza ed ordinò ad una concubina di seguirlo, ben vestita e truccata. La donna fece quanto richiesto, domandandosi se la sua sorte sarebbe stata quella delle altre compagne dell'harem, che di tanto in tanto sparivano.
Il Re del Sud tornò nel cortile e si recò nell'ala Est dell'albergo, mentre ripeteva tra sé e sé quel che avrebbe detto di lì a poco. Non appena fu davanti alla porta che stava cercando bussò e, dopo una lunga attesa, Vaenihum gli aprì l'ingresso con aria annoiata.
«Lord Nicholas è presente? Vorrei parlare con la Sua Maestà» chiese timoroso l'umano.
L'Elfo si scostò dalla soglia e gli fece cenno di entrare. La concubina fu dietro al suo padrone e, una volta all'interno della suite, si guardò intorno preoccupata. Si distrasse un minuto di più, dimenticandosi di seguire Mentius che andava a sedersi, dietro invito di Nicholas, su un divano. Si accorse di dov'era finito il re solo quando sentì su di sé lo sguardo attento di Vaenihum. La donna si affrettò a sedersi ai piedi del sovrano, in attesa.
Il Re degli Inferi era seduto sulla poltrona, con addosso una camicia nera che non indossava durante il Consiglio, essendosi accontentato di una semplice giacca elegante senza nient'altro al di sotto. Ora l'indumento con la manica impregnata del sangue di Eoforbio era gettata sul divano libero, senza alcun motivo apparente.
«Milord, sono venuto a domandarvi se avete bisogno di truppe sudrione o ausili di qualsiasi tipo...» cominciò Mentius, stringendosi le maniche larghe del vestito.
Nicholas lo zittì con un cenno pigro, mentre buttava giù un altro calice di vino rosso. Il re umano aspettò che l'Infero parlasse, sudando freddo. Ma il silenzio continuava a riempire la stanza, prendendo sempre più consistenza. Innervosito, Mentius agguantò il braccio della concubina e la spinse verso l'altro sovrano.
«Ho portato anche...» cercò di dire.
«Non ho bisogno di truppe, ora. In compenso, ho un consiglio da darti» lo interruppe Nicholas, porgendo alla serva presente nella stanza il bicchiere, col tacito ordine di riempirlo. Quando fu fatto, riprese a parlare. «So che dovete inviare alcune delle vostre migliori truppe mercenarie alla Regina d'Ovest. Secondo me, gradirebbe molto la presenza, nelle sue file, dei Dragoni». Poi, bevve lentamente il vino, studiando la giovane concubina che Mentius aveva condotto con sé.
Il Re del Sud ci mise del tempo per comprendere cosa intendesse Nicholas. L'esercito del suo regno era formato non da volontari, ma da professionisti pagati. Vi erano diverse truppe piuttosto famose, ma i Dragoni erano il meglio del meglio. Non a caso avevano un capitano Infero, persino appartenente ad un Clan delle Terre d'Ombra.
«Avete ragione, milord. Farò in modo di mettermi in contatto con Daniel il prima possibile» rispose Mentius, in preda alla frenesia senza capirne il motivo.
Nicholas annuì e mosse la Voce verso la mente dell'umano. «Mandategli questo messaggio da parte mia: la fiammella sopravviverà grazie alla collaborazione del grande fuoco con il braciere» disse impregnando di magia le ultime parole, che rimasero impresse nella memoria di Mentius. La vista del re sudrione si appannò un attimo e lui vacillò. Quando lo vide riprendersi, ne approfittò per ricordargli un affare di poco prima. «Dicevate di avermi portato qualcosa» gli fece presente l'Infero, sapendo benissimo in cosa consistesse il suo dono.
Mentius si riscosse e afferrò di nuovo il braccio della concubina, indirizzandola verso Nicholas. La donna mosse qualche passo insicuro e si fermò davanti all'Infero, che la guardò inespressivo. Non costava nulla a quell'uomo fargli dono dei membri femminili del suo harem, perché non amava né aveva mai amato le donne il Re del Sud e quelle che entravano nella sua casa erano perlopiù doni dei nobili che accettava per questioni diplomatiche. Erano praticamente inutili nel serraglio di Mentius, ma il sovrano se ne serviva per rabbonire o conquistare alleati.
La concubina osservò il suo nuovo padrone, con un misto di timore ed attrazione incontrollabile. Quell'Infero, abbandonato mollemente sulla poltrona, con la camicia nera sbottonata, le labbra bagnate di vino, i lunghi e morbidi capelli neri che lo avvolgevano come un manto di tenebra, la faceva vibrare fin nel profondo con un semplice sguardo di gelo. Si inginocchiò davanti a lui, in un gesto spontaneo di abbandono e di resa, aspettando con trepidazione di ricevere le sue attenzioni.
Nicholas congedò Mentius frettolosamente e fece scivolare lo sguardo lungo il corpo formoso ed appena velato del regalo del sudrione. Si umettò le labbra, sentendo il desiderio crescere e diventare reale. Allora lasciò il bicchiere di vino, non ancora terminato, sul pavimento e fece un cenno alla donna.

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Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Myns-o-lahat, thi hopke-nih, Eoforbio!: luce delle mente, apriti a noi, Eoforbio! (formula magica)
(2) Uhd eske, jot-ley?: dove sei, stupido (lett.: idiota) essere umano?
(3) Jot-ley: stupido essere umano.
(4) Drope thi phale-nih ohndrarion, Nephas: proprio tu ci parli di onore, Nephas.
(5) Ay, drope dhay, jot: sì, proprio così, idiota.

Questa volta mi son data alla pazza gioia con la lingua "straniera", eh eh, ma dopotutto con un elemento come Al non si può sperare in un discorso decente. XD
Non ripeto più la storia dei dubbi, altrimenti diventa seccante.
Alla prossima!

Kanako

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Capitolo 5
*** Capitolo V. Gemma d'Autunno ***



Ecco qui un nuovo capitolo! C'è voluto un po' per correggerlo (troppo poco tempo), spero di non essermi lasciata alle spalle nessun errore di battitura...
Come sempre, un ringraziamento in anticipo a myki (spero guarita XD) ed a Dark Magician!! ^O^

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V.
Gemma d'Autunno


Tornata nella sua suite al Liocorno, Alexya si abbandonò sul divano con un sospiro e si affrettò a liberarsi dagli stivali, che sembravano stritolarle i polpacci. Johan si tolse il mantello e lo attaccò all'appendiabiti, per poi sedersi di fianco alla regina.
«Allora, com'è andata?» le chiese il capitano. Prima non aveva avuto il tempo di informarsi, perché avevano fatto tutta la strada del ritorno assieme a Wirda e la sua guardia personale, un'Elfa bionda e introversa, che non aveva detto una parola ed aveva viaggiato in disparte.
«Sono un ammasso di comari litigiose, porca miseria!» si lamentò Alexya, lanciando lontano da sé lo stivale appena sfilato. Ruotò il piede dolorante, mugugnando soddisfatta, poi passò all'altra scarpa.
«Vostra cugina non ha mai detto nulla del genere» le fece notare Johan, divertito.
«Lascia perdere quella, non è capace a formulare pensieri negativi riguardo a nessuno. Se lo facesse chissà che capiterebbe alla sua anima linda!» fu la risposta della ragazza che stava lottando con i lacci, sempre più di pessimo umore. Con uno strattone cercò di tirar via il filo di cuoio, ma si ruppe. «Ma sono stivali di seconda mano, queste schifezze?» gridò infuriata, quando si ritrovò in mano un'estremità del laccio.
«Devi chiedere a Marihus, è lui che ti trova questa roba chissà dove» replicò bonario Johan, afferrando la gamba che Alexya aveva iniziato a pestare per terra, in preda alla rabbia. Era nervosa, lo vedeva chiaramente, e tra un po' avrebbe avuto un attacco isterico. Tanto valeva darle una mano. Si portò sulle cosce la gamba della ragazza e iniziò, con grande pazienza, a sfilare la corda dai fori di passaggio.
Pian piano, Alexya si calmò ed il capitano ne approfittò per farle altre domande. Non poteva accontentarsi di quelle poche parole. E c'erano argomenti che lo interessavano più del Consiglio in sé.
«E Lord Nicholas?»
La regina rimase in silenzio, con gli occhi sullo stivale che cominciava a farle respirare la gamba. Non aveva voglia di parlare dell'Infero, lei stessa non aveva le idee chiare a riguardo. Preferiva riflettere da sola, prima. Meglio cambiare argomento, gettando un'esca più gustosa del Re delle Terre d'Ombra.
«Sono riuscita a creare un esercito che lotti nella Guerra Millenaria» disse, assorta nel movimento delle dita callose del capitano sui lacci dello stivale.
Johan sollevò la testa di scatto, con gli occhi sgranati. «Cosa?» domandò incredulo. «Alexya, ma che diamine...» cominciò e fu bloccato dalla mano della ragazza premuta sulla sua bocca. Gli occhi verdi erano fissi nei suoi e gli trasmettevano nient'altro che risolutezza.
«Non metterti pure tu. Tra un po' mi toccherà sentire Helena e lei farà già abbastanza storie. Accetta quel che ho fatto, ormai è tutto deciso. Non è da te spendere parole in questi casi».
«No, non accetto un bel niente!» protestò con forza Johan, afferrando con forza Alexya per le spalle. «Ma ti rendi conto di cosa stai facendo? Ti sei appena messa contro Inferi e Divinità! Non te la faranno passare liscia, quante difficoltà vuoi passare per una guerra in cui non hai niente a che vedere? Vuoi sacrificare la tua vita per cosa di preciso? La gloria, Alexya?». Aveva utilizzato di proposito un tono più colloquiale, perché in quel momento non stava parlando con la Regina d'Ovest, ma con la sua allieva, la ragazzina che aveva seguito da quando era stato ammesso da giovanissimo allo Smeraldo. Non le avrebbe permesso di fare una mossa insensata come quella: era umana e mortale, non sarebbe mai stata allo stesso livello dei suoi avversari, non c'era modo perché ciò fosse possibile.
«Al attacca frontalmente, non è un problema lui. É Lord Nicholas a preoccuparmi» confessò Alexya, guardando il capitano dritto negli occhi.
«Non hai capito niente della  vita! I pazzi sono imprevedibili, le persone troppo lucide e fredde sono la peggior catastrofe che ti possa capitare. Ti studiano attentamente, trovano tutti i tuoi punti deboli e con pochi colpi, precisi, letali, ti annientano! Tu non hai idea di quel che Lor...»
«Perché tu sì? Oggi non hai visto con che freddezza ha quasi ucciso Eoforbio! È terribile, è incredibile, è distruttivo!» lo interruppe inferocita la ragazza, stringendogli la giacca con i pugni e strattonandolo a denti stretti.
Johan squadrò la regina ad un soffio da lui e vide nel suo sguardo non il terrore, ma l'attrazione per il pericolo. Conoscendola, quello era un comportamento degno di lei. Il pericolo, quando lo percepiva vicinissimo a lei, la metteva in uno stato di euforia che la faceva finire nelle situazioni più complicate che potesse trovare. E poi toccava sempre a lui salvarle la pelle.
«Eppure ha fatto di tutto perché la mia idea fosse approvata dagli altri re» aggiunse Alexya, distogliendo lo sguardo da quello del soldato, che rimase senza parole a quell'affermazione. «Gli ho chiesto una spiegazione e si è limitato a dirmi che non c'era la necessità che lo sapessi. Non lo capisco... E questo mi preoccupa più di qualsiasi altra cosa».
«E non lo devi capire. Qualsiasi cosa abbia in mente, vuole usarti e basta» ribatté con veemenza Johan. Helena, quando si recava a Sung'bar al posto di Alexya ancora troppo giovane per quello, aveva sempre cercato di tenersi alla larga da Nicholas, sebbene lui avesse provato ad avvicinarla come suo solito. Era stata proprio la regina bionda a dirgli quelle parole, non solo a lui, ma a chiunque la seguisse. Aveva sempre avuto cura di chi le stava intorno. Però Alexya sembrava non esser stata informata della pericolosità dell'Infero. Johan aveva intuito il motivo di quell'omissione. E vedendo la sovreccitazione della ragazza, ne aveva avuto la conferma: Helena non aveva dimenticato nulla, aveva solo incaricato Marihus di stare in guardia, nel modo più discreto possibile. Però il maggiordomo aveva fallito e con lui il tentativo della regina di proteggere la cugina. L'unico vincitore di quella partita era Nicholas. Il che metteva i brividi a Johan. Doveva fare un ultimo tentativo per aiutare Alexya, o sarebbe stato un fallito.
«Non m'interessa! Se lui è necessario per il successo dell'Esercito della Fenice, allora lo ascolterò. Voglio che la mia idea abbia successo, percorrerei qualsiasi strada per riuscirci!» insistette Alexya, fissando determinata il soldato e stringendo con più forza la sua giacca verde scuro.
Johan si sentì perduto. Troppo tardi. Dannatamente troppo tardi. Il veleno era entrato in circolo, aveva perso Alexya. Ormai quella ragazza si era messa in mente un'idea così malsana e sarebbe stato impossibile farla desistere. L'avrebbero dovuta fermare prima. Si maledisse per il suo tempismo sbagliato, per la sua poca attenzione, per tante cose, pur sapendo che era inutile prendersela ora che il danno era fatto. Però gli rimaneva un dubbio.
«Qualcuno sapeva cosa avevi in mente?» le domandò.
«Helena. Gliel'ho detto prima di partire e non è riuscita a dir nulla per lo stupore» rispose Alexya e scoppiò a ridere, al ricordo dell'espressione sconvolta dipintasi sul volto la cugina. L'aveva cacciata dalle sue stanze prima che potesse riprendersi, così si era tolta un peso d'avanti e nessuno avrebbe potuto dire che lei aveva tenuto per sé le sue idee.
«Sai che ti dico, Johan? Ora vado a parlare con quella piaga e vediamo cosa dice» ridacchiò la ragazza, scivolando giù dal divano e liberandosi dalla stretta del capitano. Così facendo, gli impedì di farle altre domande. Voleva riflettere in solitudine, prima di confrontarsi con gli altri. E soprattutto con Helena.

Borgo Smeraldo brulicava di vita e Zephiro si aggirava per le sue stradine di terra battuta, tra le botteghe piene di gente che chiacchierava, faceva spesa o semplicemente passeggiava all'aria aperta. Il cielo era limpido e tirava un vento fresco da Nord. Ciò che impensieriva il signore dei Venti era la grossa e scura coltre di nubi che avanzava da quella direzione. Di sicuro i Giardini delle Divinità erano tormentati dalla pioggia, come capitava spesso in autunno. Ma non capiva perché i nembi giungessero fino ai Monti di Luce, barriera naturale che fermava le perturbazioni provenienti da Nord. Avrebbe potuto spingere via le nuvole, ma vide che i campi avevano bisogno di quell'acqua e lasciò perdere. Non avrebbe creato problemi agli Uomini solo per un suo capriccio da meteoropatico.
Il dio continuò a vagare per la capitale d'Ovest, curiosando qua e là, salutando i commercianti che rimanevano sempre sbigottiti. Quando iniziò a diffondersi la notizia che il divino Zephiro era in città, lui iniziò ad imbattersi in persone che volevano la sua benedizione. Così, seccato dai suoi sgraditi compiti di Divinità, si levò la maglia che indossava, per non strapparla, e fece materializzare le sue ali. Stiracchiò gli arti ricoperti di piume celesti, creando un vuoto attorno a sé. Salutò garbatamente tutta la gente, ma si affrettò a levarsi in volo e confondersi nel cielo azzurro.
Zephiro girò attorno allo Smeraldo, come un'aquila, cercando un ingresso comodo per le sue ali, però alla fine si rassegnò ed atterrò in uno dei cortili interni che aveva il tetto scoperto per far entrare il calore solare. Appena pose i piedi a terra, si sollevò un'onda di sabbia che investì Sarah, una dei messaggeri reali, intenta a tirare con l'arco. La ragazza prese a tossire rena ed a liberarsi dai granelli che le avevano riempito vestiti e capelli. Il dio ritrasse le ali nei tatuaggi sulle scapole, indossò di nuovo la maglia e corse incontro alla messaggera.
«Perdonami, avrei dovuto fare più attenzione» si scusò Zephiro, posandole una mano sulle spalle.
«No, non è niente, divino...» Due colpi di tosse, secchi e sofferti. «Avevo notato la vostra presenza, ma non mi sono scostata, è colpa mia».
Il signore dei Venti capì al volo che quella ragazza non lo avrebbe mai accusato, per il rispetto che gli portava, quindi decise di dare una mano e sdebitarsi. Aprì la bocca ed inspirò una gran quantità d'aria, riempiendo i polmoni e gonfiando il torace. Poi la liberò sotto forma di vento tiepido e delicato. La sabbia volò via da Sarah, che tornò allo stato precedente, smettendo anche di tossire.
«Grazie, divino, ma non dovevate scomodarvi...» fu il ringraziamento della ragazza, imbarazzata e timorosa.
«Se continui a fare cerimonie, ti sommergo di sabbia» la minacciò Zephiro, con tono scherzoso.
Sarah decise che era più saggio tacere ed annuì per indicare che aveva ricevuto il messaggio. Riprese i suoi allenamenti ed il dio andò nel porticato, entrando poi nello Smeraldo. Girovagò per il palazzo, salutando tutti i servi che incontrava. Gli passò davanti un ragazzino con una cesta di frutta e Zephiro allungò la mano per afferrare una mela rossa che gli era balzata all'occhio.
«Grazie, piccolo» disse il signore dei Venti, quando il bambino si bloccò interdetto dal suo gesto.
Zephiro proseguì, addentando la mela mentre guardava gli arazzi ed i dipinti che ornavano i corridoi dello Smeraldo. Giunse fino alla sala dei troni e decise di far visita alla sua sacerdotessa. Sapeva che era rintanata nello studio, percepiva la sua presenza e la sua ansia. Lungo il cammino, si imbatté in una gatta dal pelo grigio perla, che avanzava con passo elegante e testa alta, diretta nella sua stessa direzione. Un antico spirito, si sorprese Zephiro, quando incontrò gli intelligenti occhi dorati dell'animale. Cosa ci fa un Infero a palazzo?, fu la domanda che gli sorse spontanea. Ma probabilmente le regine non erano nemmeno a conoscenza della vera identità della gatta. Meglio fingere ignoranza. Bussò ad una porta, giusto per annunciarsi, poi entrò preceduto dal felino, intrufolatosi nella stanza non appena si aprì uno spiraglio nell'uscio.
«Cenere!» la riprese Helena, quando la gatta balzò sulla sua scrivania.
Cenere si distese sul tavolo e la regina non le prestò più attenzione, perché fu distratta dal dio dei Venti fermo sulla soglia, la mela davanti alla bocca, mangiata a metà.
«Divino Zephiro» Helena sobbalzò e si affrettò a ricomposi, anche se era impeccabile.
Il dio assunse un'espressione accondiscendente. Ah, questa donna..., sospirò tra sé, con una punta di divertimento. Qualsiasi cosa la regina bionda avesse fatto, a Zephiro non sarebbe importato. Continuava a vederla come una creatura diversa dalle altre, l'unica che fosse riuscita a donargli la libertà e che non era gonfiata di orgoglio per questo.
«Non mi aspettavo una vostra visita...» aggiunse lei.
«Dammi del tu, Helena» le suggerì con tono dolce il dio, accostandosi alla scrivania vuota. Prese la poltrona e la trascinò verso il tavolo cui era seduta Helena, sorpresa per tutta la confidenza che pretendeva il signore dei Venti. Diede ancora un morso alla mela.
«Dicevo che... non mi aspettavo una tua visita» ripeté la donna, cercando di ordinare il disordine inesistente della sua scrivania.
«Ho sentito, tranquilla» le fece notare il dio, posandole una mano sul braccio.
Helena sospirò e si fermò. Stava esagerando, era nervosissima però. Quello era il giorno del Consiglio degli Otto Sovrani e la notte, ancora una volta, non aveva chiuso occhio. Le ore si trascinavano lente e lei fremeva di impazienza in attesa di notizie positive dalla cugina. Sperava per il suo proprio bene che fossero tali, altrimenti le sarebbe venuto un colpo, come le augurava spesso Alexya.
«E calma anche per tua cugina. In qualsiasi situazione si è cacciata, c'è sempre una via d'uscita» continuò Zephiro, con un sorriso caloroso.
La donna annuì, con una smorfia rassegnata. Se ne rendeva conto, ma non poteva far altro che preoccuparsi. Dopotutto lei voleva bene ad Alexya e quello era il suo modo, fastidioso forse, per dimostrare il suo affetto. Ovviamente, la ragazza non lo apprezzava, per niente. Tuttavia lei avrebbe continuato a prendersi cura della cugina.
«Che brutta faccia, Helena! Mi hai fatta quasi morire di paura, per le palle di Hordev!».
Helena impallidì nel sentire quell'espressione da soldataccio in bocca all'oggetto dei suoi pensieri. Ruotò si scatto il capo verso lo specchio collocato alla sua destra e fulminò Alexya, che la fissava con un sorriso sardonico dipinto in volto. La cugina non nascondeva la soddisfazione che le provocava scandalizzare l'altra regina e la provocava ogni volta che ne aveva l'occasione ed era dell'umore giusto. Quindi, per Helena, quello era già qualcosa di positivo, nonostante le desse molto fastidio tale comportamento.
«Alexya, non sono nemmeno da sola!» sibilò la bionda.
Zephiro intuì che era momento di farsi vedere e sorrise guardando nello specchio. Inarcò le sopracciglia, piacevolmente sorpreso alla vista dell'umana, con una massa di ricci castani, più simili a serpi che a capelli, e limpidi occhi verdi. Se l'aspettava proprio così la ragazza che faceva tormentare Helena per l'ansia.
«Oh, il divino Zephiro» disse Alexya, gli occhi sgranati per la meraviglia. «Bentornato, divino! Come vi trovate?»
Il dio apprezzò la reazione della giovane e le rispose con tono cordiale, mentre Helena assisteva alla scena aggrappata ai braccioli della poltrona. Alexya non aveva rispetto neppure per una Divinità, cos'aveva fatto di male per ritrovarsi una persona del genere in famiglia?
«Bene, purtroppo vostra cugina è sempre preoccupata per voi e mi dispiace vederla in questo stato» Mentre diceva queste parole, il dio indicò la bionda, che stava inspirando a pieni polmoni per calmarsi.
Alexya scoppiò a ridere di gusto, portandosi una mano davanti alla bocca e gettando la testa all'indietro.
«Vedi, non hai nulla di cui temere, Helena» la rassicurò Zephiro stringendole una mano, mentre l'altra regina si divertiva.
«Perdonatemi, divino, ma ha da preoccuparsi, eccome! Helena, preparati ad accogliere al più presto truppe degli Elfi, del Nord, d'Est e persino i mercenari del Sud! La tua mitica cuginetta ha fatto strage di alleati, ah ah!» esclamò spavalda Alexya. Ogni traccia della discussione precedente con Johan era svanita. Lei stessa aveva metabolizzato quanto le era capitato, si era già preparata ad affrontare la cugina. Appena quella avesse cominciato la sua ramanzina, avrebbe chiuso il contatto e coperto lo specchio con le lenzuola. Così sarebbe stata libera e con la coscienza a posto.
Helena si lasciò sfuggire un urlo assordante, che fece ritrarre Zephiro di scatto. Il dio si voltò a guardarla, temendo che le fossero diventati bianchi i capelli per lo spavento, ma per fortuna erano ancora biondi e si sentì sollevato. Comunque, non capiva la reazione della regina. Era già stata avvisata di cosa aveva in mente Alexya al momento della partenza, eppure sembrava sorpresa, sconvolta più che mai. Si aspettava forse che la proposta della cugina venisse rifiutata dai membri del Consiglio? O pensava che l'avrebbero punita in qualche modo? Non riusciva proprio a comprendere cosa avesse in mente la sua sacerdotessa.
«Che Al ti aiuti, benedetta Alexya!» fu la preghiera Helena, nel prendersi la testa tra le mani. Aveva sperato che stesse scherzando, una vana speranza, ma esistente. E invece, la cugina aveva fatto un altro passo che l'aveva allontanata da lei, rendendole più difficile proteggerla. Abbassò le palpebre, stringendo gli occhi con una smorfia di sofferenza. Non voleva pensare a tutte le conseguenze di quel gesto. Erano troppe e troppo brutte.
«Non credo che lo farà, dato che mi ha insultata ben due volte ed ha persino cercato di farci tutti fuori. Per fortuna Lord Nicholas...» infierì Alexya, facendo lampeggiare sul suo volto un ghigno.
Helena si sentì mancare. Due elementi infausti in una stessa frase, la realtà si stava rivelando sempre più orribile. No, no, no! Sperò con tutta se stessa di star sognando, che quello fosse solo uno scherzo di cattivo gusto del dio del Sonno, Chreonte.
«Ehm, milady Alexya, per favore, potete tacere particolari così sconvolgenti? Non vorrei che vostra cugina muoia davanti ai vostri occhi, in questo momento» le chiese con garbo Zephiro, che afferrò al volo la bionda che si afflosciava sulla scrivania, muta.
«Grande calma, divino Zephiro! Non attenterò più alla vita della mia ansiosa cugina: il mio dovere l'ho fatto, posso pure chiudere il collegamento. Magari, quando si riprende, consigliatele di organizzarmi una bella festa e di invitare anche gli altri re. Più siamo, meglio è, non è forse così?» rispose Alexya, con un sorriso affabile. Avrebbe saggiato i nobili durante quella festa, per sapere come agire all'interno del regno. Una decisione come la sua non aveva conseguenze solo nella politica estera del Regno d'Ovest, ma anche in quella interna. Sapeva qual era la posizione degli Anziani, quindi si sarebbe dovuta scontrare con quelli e con i loro sostenitori tra i nobili. Alexya aveva assolutamente bisogno di comprendere chi condivideva la sua scelta e da chi difendersi. La cugina poteva capire o meno quel che aveva in mente, l'unica cosa importante era che ci fossero i festeggiamenti. Ripeté ancora una volta il messaggio per Helena al dio dei Venti e chiuse la comunicazione, lasciando i due soli con Cenere, che teneva gli occhi dorati fissi sulla superficie immobile dello specchio.
«Quella ragazza è fuori di testa...» borbottò Helena, riprendendosi lentamente.
«Non la conosco e non posso dare giudizi» replicò Zephiro, poggiando un gomito sul tavolo, per reggersi la testa mentre guardava la regina. Lanciò un rapido sguardo alla mela rotolata per terra mentre cercava di aiutare Helena. Non aveva sprecato nulla, era rimasto solo il torsolo ormai.
Cenere sbadigliò e si stiracchiò, poi scese dalla scrivania per raggiungere la finestra aperta. Nelle giornate soleggiate Helena preferiva far entrare il calore dei Soli nello studio per togliere l'umidità che spesso si infiltrava e che si rivelava pericolosa per i libri lì conservati. La gatta guardò giù e decise di saltare, per atterrare sulla tettoia al piano inferiore, che circondava uno dei cortili interni, vuoto.
Zephiro, rassicurato dall'assenza dell'antico spirito di cui non conosceva le intenzioni, riferì ad Helena le ultime parole di Alexya. Ma la donna aveva sentito, non era svenuta davvero, aveva solo cercato di controllarsi.
«Per la Triade, quella ragazza pensa prima a festeggiare che a come sistemare gli Anziani! Ora toccherà a me affrontarli... Se non ci fossi io, non so che fine farebbe Alexya». No, Helena non aveva proprio capito cosa volesse fare davvero la cugina. O forse non voleva accettare che Alexya potesse badare a se stessa meglio di quanto lei credeva, un modo per sentirsi ancora utile per la ragazza.

Adhurna ordinò ai servitori di condurre Eoforbio nella sua stanza e, quando il dio fu collocato sul letto, terminò la cura e rimase al fianco del portavoce in attesa del suo risveglio. La superficie dello specchio collocato nella camera fremette e su di esso apparve un giovane uomo dai capelli biondo cenere, legati alla bell'e meglio in una treccia leggera che si posava sulla spalla, vestito di una opulenta giacca militare color cobalto e, particolare importantissimo, gli occhi neri cerchiati di bistro, che li allungava verso le tempie. Il trucco e gli occhi di una Divinità.
«Monna Adhurna, losdihe» salutò il dio, con un cenno del capo. (1)
La Lucente sussultò e si voltò verso l'ospite inatteso, avendone riconosciuto la voce bassa e cupa. «Divino Vraele! Grazie a Fato, il divino Al si sta occupando del...».
Il dio della Guerra la interruppe, prima di sentire le solite stupidaggini da Lucenti. Era un Popolo che non lui rispettava, perché completamente accecato dal fanatismo ed ai limiti del servilismo verso le Divinità. Inoltre, la loro nascita aveva portato all'allontanamento da Gemma d'Autunno di lei. Aveva sufficienti ragioni per detestarli, sufficienti anni di vita per rendere quell'astio ben radicato in lui.
«No, affatto. Il mio re mi ha solo ordinato di far tornare Eoforbio nei Giardini delle Divinità. A vedere il suo stato attuale, penso che non abbia neppure bisogno di farsi vedere da Ntonihus. Avete fatto un ottimo lavoro, monna Adhurna» aggiunse Vraele, con forzata cortesia.
Adhurna annuì e chiamò a gran voce uno dei servitori assegnati a quella stanza, ordinandogli di preparare le valigie di Eoforbio e trovargli un palanchino.
Intanto, il portavoce di Al riprese coscienza e aprì gli occhi, ancora stordito dalla possessione del sovrano e dall'attacco di Nicholas. Si mise a sedere, con l'aiuto della Lucente e si sorprese nel vedere il volto cupo di Vraele nello specchio. Brutte notizie, che altro?
«Vraele, avete qualcosa da dirmi, vero?» domandò, massaggiandosi le tempie con una smorfia sul viso.
«Se ne sta già occupando monna Adhurna» mise in chiaro il dio della Guerra, lanciando uno sguardo alla donna cieca col mento sollevato e le orecchie a punta tese, in ascolto. «Comunque, Al pretende che tu torni in patria immediatamente».
Eoforbio si ingobbì sotto il peso di quell'ordine. In pratica, era impossibile tornare ai Giardini delle Divinità in quel preciso istante. Gli ci volevano solo tre giorni per raggiungere Lago di Topazio, la capitale del Nord, ed una mezza giornata per i Pilastri Trasportatori. Al adorava le missioni impossibili per i suoi sottoposti. Soprattutto amava quel che accadeva al fallimento delle stesse, anche se le vittime avevano fatto tutto il possibile per accontentarlo.
«Ha deciso qualche punizione se dovessi tardare?» chiese il portavoce avvilito.
«Non essere stupido, Eoforbio: Al non decide queste cose in anticipo, dipende come gli gira in quel momento. Perciò sbrigati e cerca di ridurre le tre giornate. Serviti di qualcuna delle bestie del deserto e raggiungi i Pilastri Trasportatori» replicò seccato Vraele. Al lasciava sempre a lui compiti ingrati, ed avvisare il portavoce era tra questi. Inizialmente c'era stato un dio delle Comunicazioni, ma il re lo aveva ucciso, perché così gli diceva la sua mente malata, e lo aveva sostituito, quando gliene era stata fatta notare l'assenza, con Eoforbio che non aveva risolto la situazione, anzi. Una Divinità di basso livello non poteva rendersi utile se non come servo. Lasciare nelle sue mani la diplomazia era da idioti. «Si sta tenendo l'ennesimo banchetto di matrimonio, perciò fatti i conti ed approfittane, se ne sei capace. Nevah». Con quel saluto, il dio della Guerra chiuse il contatto. (2)
Eoforbio rivolse uno sguardo sofferente ad Adhurna, ma quando si ricordò che la Lucente non vedeva lasciò perdere la consolazione e si mise in moto. Doveva cercare qualche bestia per arrivare ad un orario decente a Gemma d'Autunno. Rifletté a lungo, cercando una qualsiasi informazione avesse a disposizione, imparata nei suoi anni di apprendistato a corte, ma non riuscì a ricavare nulla di utile. Sarebbe stato punito, non poteva far niente per impedire che il destino si compisse. Quando Al si impegnava a creare un tranello per sfogarsi, era impossibile cercare di contrastarlo. Anche se Eoforbio si era sempre domandato come potesse il suo sovrano, visibilmente pazzo, tessere trappole così infallibili. Era un controsenso.
Tuttavia, «Adhurna, sapete indicarmi un mezzo rapido per trovarmi ai Pilastri Trasportatori del Nord in giornata?» fu la richiesta del dio, ancora un briciolo di speranza a invogliarlo a lottare.
«Ma certo, divino: un Thraslin. Pur essendo creature degli Inferi, ma sono il mezzo più veloce messo a disposizione nei Campi di Sangue. Purtroppo i Bardak non...»
Il portavoce smise di ascoltare Adhurna, per ricordare cosa fossero i Thraslin. Non gli era mai capitato di utilizzarne uno, ma aveva letto che erano rettili alati, simili ad enormi serpenti, creati da Nephas millenni addietro assieme ai Bardak, i cavalli demoniaci che erano di uso esclusivo della famiglia reale Infera. Perché non ci aveva pensato prima? Certo, perché lui era solo una Divinità di rango infimo. Persino un mezzosangue gli era superiore, anche se Adhurna lo trattava con tutti i riguardi di un dio nobile.
Trovato un modo per evitare di incorrere nelle ire di Al, Eoforbio si affrettò a lasciare Sung'bar. Forse non gli era stata tesa una trappola perfetta.

Vraele ed otto Colchici, la guardia personale di Al, erano fermi davanti ai Pilastri Trasportatori fuori Gemma d'Autunno ed aspettavano Eoforbio. La pioggia precipitava in grosse gocce, rendendo inutile qualsiasi riparo. Persino le foglie perennemente autunnali della foresta non servivano a proteggere il gruppo, nonostante le chiome degli enormi alberi formassero un tetto vegetale sulle loro teste. L'acqua scivolava giù dai mantelli neri dei Colchici e sulle loro maschere inespressive.
I cavalli di tanto in tanto sbuffavano, scrollavano il capo nervosi o pestavano gli zoccoli. L'attesa era snervante per chiunque, ma per Vraele era preferibile trovarsi in mezzo ad un temporale, piuttosto che sopportare un altro banchetto matrimoniale. Questa volta Al aveva sposato una ninfa proveniente dalla città lacustre di Chril Dhy, giusto per variare un po' la popolazione femminile del suo gremito harem. Come se ce ne fosse la necessità.
La magia iniziò a concentrarsi tra le due colonne di marmo nero e si aprì il portale per il passaggio di Eoforbio, che fu accolto nei Giardini delle Divinità dalla pioggia scrosciante che gli schiaffeggiò il volto tirato e sofferente. Aveva lasciato il Thraslin nel Regno del Nord e gli avevano assicurato, a Sung'bar, che la bestia sarebbe tornata alla stalla da sola. Ora il dio era a piedi, ma Vraele aveva pensato a tutto ed aveva con sé un cavallo in più. Il portavoce montò in sella, le articolazioni scricchiolanti, ed gruppo rientrò nella capitale.
L'acqua bagnava le strade lastricate e colava giù dai tetti e le grondaie, quando però giunsero alla cittadella, trovarono tutto asciutto, come se la pioggia non avesse mai toccato quella zona. E così era: una barriera proteggeva da qualsiasi evento meteorologico la Gemma d'Autunno, il palazzo reale che dava il nome alla città. Il castello si ergeva al centro della piazza cinta dalle mura della cittadella, un'enorme costruzione cubica con decorazioni che la rendevano simile ad un bocciolo. La Gemma si sviluppava principalmente sotto il piano stradale, dove trovavano posto gli immensi saloni per banchetti e balli. La parte superiore ospitava gli appartamenti della corte e dei sovrani.
I quattro Colchici rimasti in città erano di guardia al portone del castello, in cima alla grande scalinata. Fosse stato per il dio della Guerra, non si sarebbe portato dietro tutta la guardia di Al; purtroppo Vraele non era altro che il tenente, mentre il Re delle Divinità era il vero comandante dei Colchici. Quindi, per proteggere il portavoce reale, erano stati scomodati due terzi della guardia, che si erano fatti un giro per la città con Vraele, senza essere di alcun aiuto. Era completamente sprecata al servizio di Al una guardia del genere, le uniche Divinità che si interessassero al combattimento più che al divertimento.
Incupito da quelle considerazioni, Vraele balzò giù da cavallo ed attese che Eoforbio facesse lo stesso per entrare nel palazzo. I Colchici lo accolsero battendo i tacchi degli stivali e due di essi spinsero i pesanti battenti, di legno con intarsi d'oro. Altro lavoro inutile. Con tutti gli schiavi che c'erano nei Giardini delle Divinità, soldati scelti dovevano mettersi a fare fatiche così insignificanti. Il dio della Guerra lasciò perdere quell'argomento che lo metteva solo di cattivo umore, senza portare a nulla di buono.
Il portone della Gemma d'Autunno si spalancò, Vraele ed Eoforbio furono accolti a palazzo dalla musica ipnotizzante e dal fumo delle incensiere appese ovunque. Il corridoio davanti a loro era illuminato da lampade ad olio, alcune spente. La luce era poca e mal distribuita, inoltre le pareti di pietra scura ricoperte di arazzi, anch'essi di colori cupi, assorbivano tutto il chiarore. Eppure era impossibile non vedere i corpi gettati qua e là di Divinità più o meno importanti, in preda alla sbornia, storditi dalla musica o dai fumi allucinogeni che avevano inspirato durante il banchetto.
Disgustato da tanta corruzione, Vraele avanzò tutto il tempo con lo sguardo nel vuoto. Non aveva bisogno di guardare la strada, ormai il suo corpo si muoveva da solo e conosceva a memoria il percorso. Eoforbio lo seguiva, osservando con una smorfia sul viso smunto le persone abbandonate contro le pareti o sul tappeto rosso che nascondeva il pavimento di assi di legno, lucide e ricoperte di cera d'api.
Più si avvicinavano alle scale che li avrebbero condotti al piano inferiore, sempre più volti riconoscevano. Vraele si riscosse dallo stato di apatia in cui era sprofondato solo quando vide una giovane dea dai capelli magenta, corti e boccoluti, che vagava nel corridoio, ben sveglia ed alla ricerca di qualcuno. Lei era il genere di persona che odiava quei divertimenti distruttivi, eppure si trovava lì. Appena la dea si accorse dei due che si stavano avvicinando, affrettò il passo e raggiunse Vraele, mentre dal volto spariva l'espressione timorosa e preoccupata di poco prima.
«Oh, Vraele!» lo salutò la donna, afferrandogli una mano.
Il dio gliela strinse, per dimostrarle il suo appoggio. «Veris, cosa cercate?»
La dea della Primavera si passò una mano sul viso dai lineamenti delicati, sgombro da qualsiasi trucco che non fosse il bistro degli occhi. Era abbigliata in maniera sobria, con una tunica leggera, candida, fermata sotto il seno da una cintura d'oro e perle, per ricadere lungo i fianchi, fino alle ginocchia, con morbide pieghe.
«Non riesco a trovare Hordev... è sparito da un bel po', non ho idea di dove possa trovarsi» rispose accorata Veris e sospirò.
«Io non l'ho visto nei corridoio da cui siamo passati» si intromise Eoforbio, accostandosi ai due.
Veris rivolse un saluto cortese al portavoce, che le era indifferente come un sasso sul suo cammino. Finché non le avesse fatto alcun torto, lei avrebbe accettato la sua esistenza.
«Non oso pensare cosa stia facendo» sussurrò la dea, con lo sguardo basso, mentre un leggero rossore si diffondeva sul suo volto.
«Venite con noi, Veris, non mi piace che andiate in giro da sola» le suggerì Vraele, sinceramente preoccupato per l'incolumità della donna.
Veris annuì e prese il dio della Guerra braccetto. Proseguirono verso la sala del banchetto, scendendo due rampe di scale per ritrovarsi in un altro corridoio, già più pieno di vita. I servitori andavano avanti e indietro, con incensiere, vassoi vuoti, brocche di vino o idromele.
«Veris, manca il gatto e i topi ballano?» domandò una voce alle loro spalle, bassa, maschile e seducente.
La dea della Primavera si voltò immediatamente, facendo scivolare la sua mano via dal braccio di Vraele. Intanto si stava avvicinando a lei il dio della Lussuria, con un sorriso beffardo stampato sul suo viso bello e perfetto. I capelli biondo grano gli ricadevano ai lati del volto e la frangia sugli occhi truccati pesantemente col bistro, rendendo il suo sguardo di pece profondo e irresistibile. Le ciocche più lunghe che partivano dalla nuca erano fermate con un nastro nero in una coda, che ondeggiava ad ogni suo passo. Indossava dei pantaloni di pelle marrone scuro, con una fascia di seta dorata avvolta attorno ai fianchi, i cui lembi pendevano davanti.
«Hordev!»
Il sorriso sul volto del dio si allargò e, raggiunta Veris, le prese il viso tra le mani, facendo tintinnare i bracciali d'oro che ornavano le sue braccia.
«Che fai, vai a braccetto con quel soldatino di Vraele?» le chiese con tono scherzoso.
Vraele ignorò le parole di Hordev, perché il dio aveva l'abitudine di prendersi gioco di tutto e tutti, proprio come faceva la madre, Adele. Lui era l'erede al trono, la Divinità più importante nel regno dopo i due sovrani, e si lasciava sempre correre qualsiasi cosa egli facesse. Il dio della Guerra però non capiva come Veris riuscisse a stargli vicina, lei era il suo opposto, pudica e buona; nessuno si sarebbe mai sognato di vedere quei due andare d'accordo.
«Mi avevi lasciata sola nella sala del banchetto. Sai che non mi piace quando fai così...» spiegò Veris, prendendo sul serio quanto aveva detto prima il dio.
Hordev trattenne una risata e nei suoi occhi lampeggiò la malizia. «E tu sai che spesso ho affari da sbrigare». Le baciò la fronte, un gesto delicato che strideva con quel che lui era. Veris arrossì violentemente ed abbassò lo sguardo, iniziando a farfugliare cose senza senso, tanto che fece scoppiare a ridere il dio della Lussuria.
«Hordev, tuo padre è ancora nella sala del banchetto?» domandò allora Vraele, interrompendo il quadretto felice.
Hordev guardò il dio della Guerra e liberò Veris, limitandosi a cingerle i fianchi con le braccia.
«No, si è portato la nuova sgualdrina nei suoi appartamenti e stava giocando a damska, poco fa. Spero che non abbia cambiato gioco, altrimenti dovrai attendere in dolce compagnia» e così dicendo indicò col mento Eoforbio, che non osò controbattere. Dopotutto lui non era una delle Divinità maggiori, non avrebbe avuto nemmeno il diritto di guardarle negli occhi non fosse stato il portavoce di Al. Accettò di buon grado quella scortesia nei suoi confronti, piccola considerando quelle che aveva sopportato all'inizio della sua, per così dire, carriera.
Vraele annuì e, accennato un inchino, girò i tacchi per risalire le scale e farne altre, diretto all'ultimo piano, dove si trovavano gli appartamenti reali.
«Vi auguro buona serata, compari» ridacchiò Hordev mentre si allontanavano.
Veris tirò un colpo al ventre del dio e gli lanciò uno sguardo di rimprovero. «Non essere sempre così antipatico. La tua fortuna potrebbe terminare» lo sgridò, con tono grave.
Hordev le prese il mento con una mano e le posò diversi baci, leggeri e scherzosi, sulle guance. «Tesoro, finché tu continui ad illuminarmi non c'è disgrazia che possa colpirmi» le disse, dolce come il miele.
La dea della Primavera sollevò lo sguardo al cielo, rassegnata a sopportare il carattere di Hordev. Purtroppo lui l'aveva catturata nella sua rete molto tempo prima e lei non era più capace a liberarsi. L'amore è così insensato, pensò Veris, maledicendo quel sentimento che la teneva legata a lui, che era tutto tranne che una persona affidabile e fedele. Non poteva farci niente lei, era nella sua natura e nel suo titolo.

Sarihele estrasse il pugnale dal fodero assicurato al fianco e ne strinse l'impugnatura con forza. I passi di corsa sul tappeto di foglie, bagnato, si avvicinavano sempre di più, senza alcun timore. Eppure in molti erano a conoscenza di chi abitava quella zona della foresta attorno a Gemma d'Autunno. Forse era uno dei suoi, ma c'era anche la possibilità contraria. Tanto valeva stare all'erta, pronto a dar la morte all'impudente che stava osando tanto.
«Per Gladius, con Gladius!» pronunciò con decisione il nuovo arrivato.
Era la formula di riconoscimento. Un po' più tranquillo, Sarihele scivolò giù dal ramo su cui era accovacciato e, con la coda dell'occhio, notò movimento alle sue spalle. Non era stato l'unico ad aver accolto con diffidenza la visita.
Il capo degli Herzbrenht, la Lancia di Ghiaccio, scrutò attentamente il dio a qualche passo da lui. Lo riconosceva. Devon, uno dei Colchici, secondo di Vraele. Pur essendo la guardia reale, i dodici soldati erano più fedeli al loro tenente che al loro sovrano. Ed il dio della Guerra era fratello di Sarihele.
Devon accennò un inchino, la maschera nera da Colchico nella sua mano destra, mentre la mancina stringeva un rotolo di pergamena, bagnato. La lunga coda di capelli corvini gli scivolò giù dalla spalla e ciondolò inzuppata davanti al petto nascosto dal mantello nero.
«Solo ora sono riuscito ad abbandonare il mio posto, perdonatemi herz Sarihele. Vraele, appena si è saputa in giro la notizia, mi ha dato il permesso di informarvi appena possibile. Reco con me una lettera autografa del mio tenente, indirizzata a voi» li informò Devon, con la sua voce bassa ed autorevole. (3)
Gli altri Herzbrenht lasciarono solo il loro capo. Sarihele afferrò la missiva che il Colchico gli porgeva ed aprì il sigillo che la fermava. Srotolò la pergamena e fece scorrere gli occhi sulle poche, stringate frasi che il gemello gli aveva rivolto. Ciò che apprese, però, fu di grande importanza. Non poté far a meno di sgranare gli occhi alla notizia che gli aveva inviato Vraele. Rilesse la lettera altre due volte, poi la chiuse ed infilò nel tascapane appeso alla sua cintura.
«Ti ringrazio, Devon. Avverti mio fratello di interferire, raggiungerò la fanciulla d'Ovest».
Il Colchico fece un cenno d'assenso col capo e corse via. Sarihele rimase in mezzo al sentiero tra gli alberi, mentre la pioggia lo bagnava, impietosa. I capelli tinti di rosso scuro gli si appiccicarono sul volto segnato, la tunica di lino leggero aderì al suo petto. Gli si avvicinò  Dabar'as, silenziosa e cauta.
«Herz Sarihele, è vero quel che ho udito?» gli domandò, sfiorandogli il braccio per attirare la sua attenzione.
Il dio delle Ribellioni ruotò la testa e la guardò, col bistro colato attorno agli occhi penetranti. «Credevo vi foste allontanati tutti» considerò, indugiando con lo sguardo sulla donna. «Non fa la differenza. La mia scelta riguarda tutti noi: chiama tutti gli herzer, partiremo al più presto verso Ovest. È lì che si trova l'opportunità più concreta per realizzare la nostra causa». (4)

Gli appartamenti reali occupavano interamente il piano più alto della Gemma d'Autunno, tra le stanze di Al e quelle di Adele. L'harem si trovava in quello inferiore e si sapeva ben poco di come fosse, nessuno ne parlava. Però il soggiorno del re era ben noto a coloro che dipendevano direttamente da lui e Vraele non ci mise molto a trovarlo nel labirinto di stanze dell'ultimo livello del palazzo reale.
La porta era spalancata ed all'interno si trovavano solo Al, Adele e la nuova sposa. La Regina delle Divinità era distesa su un triclinio, una coppa di vino in mano, cuscini sparsi ovunque. Il viso dimostrava solo divertimento e le sue labbra rosse e carnose erano tirate in un sorrisetto sornione. I capelli, lunghi e ricci, le ricadevano in morbidi boccoli castano chiaro sulle spalle e sul petto prosperoso, coperto a malapena dal vestito di sottile lino, quasi trasparente. Indossava una gran quantità di gioielli piuttosto opulenti, che comunque sfiguravano di fronte alla sua bellezza. Un tempo era stata la dea dell'Amore, ma ora era solo la dea dell'Amor Proprio.
Al, invece, era ancora il dio della Forza e nessuno si sarebbe mai opposto a lui, tanto meno la ninfa dai capelli turchesi sedutagli di fronte. Lei stava perdendo a damska, com'era ovvio. Anche se avesse avuto abbastanza acume per riuscirci a giocare, non avrebbe lo stesso osato sconfiggere il suo illustre avversario.
Vraele e Eoforbio si fermarono sulla soglia, non mossero un singolo passo finché il sovrano non spostò il suo sguardo dalla scollatura della ninfa a loro due. Con un molle cenno della mano, ordinò loro di entrare e di avvicinarsi al tavolino basso cui era seduto per la partita a damska. I capelli erano rossastri, lisci e lunghi fin sotto le spalle, con qualche ciocca più corta che cadeva sul viso spigoloso e bello. Al collo portava una collana con una placca di oro su cui c'era il simbolo delle Divinità in ossidiana, con decorazioni in lapislazzuli e rubino, e frange dorate che si agitavano ad ogni movimento del dio. Oltre a numerosi altri gioielli di poco conto, una cintura opulenta reggeva un gonnellino di lino beige. La sua pelle dorata era stata spalmata di oli profumati e luccicava alla luce delle candele disposte a casaccio nella stanza.
I due ospiti si inginocchiarono a terra e si prosternarono davanti al Re delle Divinità, che non prestava più attenzione a loro. Adele rimase in silenzio, a guardare con lo stesso divertimento di prima gli dei piegati con la fronte contro il pavimento di legno.
«O Eoforbio, li servigi tuoi non ci han soddisfatti. La deprecabile tua negligenza la Maiestade nostra sdegnò» esordì Al, spostando pigramente una pedina bianca sulla tavola da gioco.
Eoforbio non osò fiatare, non gli era permesso, anche se era stato Al ad usare il suo corpo e lui non aveva potuto far nulla. Avrebbe potuto fermare le alleanze una volta libero, dopotutto il suo re aveva cercato di distruggere l'intero Consiglio per impedire la nascita del nuovo esercito, il portavoce invece si era fatto curare da Adhurna e non aveva mosso un dito. La ferita infertagli da Nicholas sembrava ormai dimenticata di fronte alle prospettive poco allettanti che gli offriva la delusione arrecata al suo re.
«Perdonatemi, divina Maestà, non mi sono permesso di colpirli, perché io potrei fare ben misera cosa rispetto al vostro divino potere. Solo voi siete capace di annientare quei blasfemi in tutto il Mondo Profano» si scusò Eoforbio, con tono umile e servile, credendo davvero a quel che aveva appena detto.
Vraele fece una smorfia, non visto. Era disgustato, ma anche a lui spesso era capitato di doversi comportare in quel modo davanti al Re delle Divinità. Quella era l'unica maniera di rabbonirlo il minimo necessario per salvarsi dalla tortura.
Adele scese dal triclinio con un movimento aggraziato e raggiunse il marito, sedendosi sui cuscini al suo fianco, una mano nella sua. Posò il mento sulla spalla di Al, che le lanciò lo sguardo che riservava a lei sola. Poi rivolse gli occhi di ossidiana verso i due dei prosternati a pochi passi da lui.
«Vraele, des eske thirion thang» disse Al. (5)
Il dio della Guerra fece un lieve cenno d'assenso, pur rimanendo col viso rivolto al pavimento di legno.
Il re mosse la sua pedina bianca e poté prendere l'ultimo pezzo nero rimasto alla ninfa, che perse la partita con un risolino civettuolo. Al osservò la tavola a quadri, assorto nei suoi pensieri.
Distruggila, eletto, distruggi quell'impertinente!, gridava Fato nella sua mente.
Lo farò, o supremo, si pentirà di aver osato tanto verso noi. Dopo di lei, anche Nephas subirà la stessa sorte ed il vostro regno di giustizia trionferà, gli rispose il sovrano divino, con fervore. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per portare a termine la sua missione nel Mondo Profano. Era nato per quello, non poteva permettersi di disattendere le aspettative di Fato, il suo padrone, suo amato padre.
Poi, utilizzando la Voce per imprimere l'ordine nella mente del generale dell'esercito divino, Al scandì in Maholhan: «Duqer Myurohon aht niv-Osthley». (6)

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Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Losdihe: buongiorno.
(2) Nevah: (formula di saluto) addio.
(3) Herz: lancia (titolo per indicare, all'interno di Herzbrenht, i suoi membri).
(4) Herzer: lance (plur.).
(5) Vraele, des eske thirion thang: Vraele, questo è il tuo momento (lett.: tempo).
(6) Duqer Myurohon aht niv-Osthley: Conduci i Myurohon dalla giovane abitante dell'Ovest.

Damska: gioco da tavolo in cui si devono condurre quante più pedine dall'altra parte del campo, cercando di regare il maggior numero di danni all'avversario. E' un gioco diffuso sia nelle campagne che nelle corti del Mondo Profano, con diversi livelli di difficoltà. Le creature dotate di magia la utilizzano per rendere più interessante la partita, a condizione che non si rechino danni permanenti all'avversario.


Bene, oltre al dizionario, questa volta pure la spiegazione di un gioco. E' banale, ma dopotutto i giochi più diffusi non sono anche quelli più semplici?
In questo capitolo poca Alexya, niente Nicholas, ma nuovi personaggi ed i Giardini delle Divinità si sono aperti a voi, eh eh.
Potrebbero esserci dei ritardi con la pubblicazione del prossimo capitolo, però avviserò in privato chi so di certo che segue l'EdF. Invece i soliti ignoti dovranno attendere brancolando nel buio... XD
A presto (spero)!

Kanako

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Capitolo 6
*** Capitolo VI. Partenza ***


Eccomi di ritorno! Ho avuto qualche contrattempo con un Nicholas che non ne voleva sapere di darsi una regolata nel capitolo VIII, quindi ho impiegato un po' per terminarlo, ma vabbè.
Dato che non ce la facevo ad aspettare (ma cosa?? O_O) e poichè ho avuto un pomeriggio intero libero (siano lodati i saggi, almeno si perdono tre ore e niente compiti!), ho corretto il capitolo e quindi eccolo qui, per voi.
Oltre alle mie care myki e Dark Magician, ringrazio anche Marluxia25 (per tutto! *O*), roah, olghisch e berry345 per i commenti e Draig_Uisge per aver messo questa storia tra i preferiti.
Buona lettura! =]

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VI.
Partenza



La pioggia batteva contro i vetri e sui tetti di Borgo Smeraldo ed il palazzo reale non poteva sottrarsi dalla furia degli elementi. Lathiora lasciò che l'acqua le scivolasse sulla pelle nuda, sollevando il viso verso il cielo plumbeo. Lui amava la pioggia.
«Lychros» sussurrò flebilmente al vento, mentre ricordi dolorosi tornavano ad affliggerla. Non sopportava di restare a lungo nella sua forma originaria, proprio per quello. Ma a volte era più sicuro esser torturata dalla memoria, che far saltare la propria copertura a causa di vecchio astioso.
Rabbrividì e decise che le conveniva indossare qualcosa e darsi una mossa. Scivolò giù dal tetto su cui era seduta, atterrando in un cortile interno del palazzo reale. Lasciava sempre, in ogni spazio aperto dentro le mura, una tunica di lana grezza con cui coprirsi per quando tornava in forma umana. Nessuno faceva caso ad un mucchio di pezze gettato su una panca. C'erano cose più importanti cui pensare, allo Smeraldo.
Ora che Alexya era lontana dal palazzo, Lathiora preferiva passare più tempo possibile in quella forma, perché correva meno pericoli, sebbene fosse più vistosa. Arghos non aveva idea di cosa fosse davvero la creatura che vagava libera nello Smeraldo e che odiava più di ogni altra cosa. In qualsiasi versione fosse, Lathiora ci teneva a creargli problemi e intendeva fare lo stesso anche quel giorno.
Poche ore prima aveva visto arrivare al castello un messo stremato da un lungo viaggio e consegnare un messaggio urgente ad un soldato delle casacche bianche, la guardia personale degli Anziani, vestita di una tunica di lino, bordata di verde scuro.
«Per sua Eccellenza» aveva ansimato il messaggero, prima di stramazzare al suolo. Lathiora sapeva bene a chi era indirizzata la lettera.
La casacca bianca non si era occupata dell'uomo, ma era corsa a portare il messaggio ad Arghos, abbandonandolo sul terreno tra la polvere. Era proprio tale lettera, ciò che voleva andare a vedere Lathiora in quel momento. Anche perché, appena due giorni prima, aveva sentito concentrarsi energia in uno degli specchi dello Smeraldo, dopo che Helena e la cugina si erano sentite. Aveva localizzato lo specchio attivato ed era uno della dimora degli Anziani. Alexya di sicuro non avrebbe parlato mai con uno di loro, provava un odio viscerale per quei vecchi. Tutto ciò, quindi, era troppo sospetto per non farla indagare.
Indossata la tunica povera e sporca, Lathiora raccolse i suoi capelli grigio perla in una treccia e partì, silenziosa ed invisibile, a fare una visita all'edificio in cui si trovavano le stanze degli Anziani, all'interno delle mura dello Smeraldo. Un'intera palazzina solo per loro, erano trattati davvero bene.
Preferiva correre sui tetti, leggera ed aggraziata, perché nessuno avrebbe mai sollevato gli occhi verso quella parte del palazzo. A meno che non provenissero rumori dal tetto o si oziasse, cosa alquanto improbabile. Con un balzo, Lathiora atterrò leggiadra sul terrazzo del dormitorio degli Anziani e si guardò attorno, solo per abitudine e cautela. Sapeva che tutti erano indaffarati all'interno dello Smeraldo con i preparativi del ballo per festeggiare Alexya e l'Esercito della Fenice, eppure non commetteva mai lo stupido errore di esser troppo sicura. Non era la prima volta che agiva furtivamente, non era una sprovveduta, non l'avrebbero colta sul fatto. Nessuno sapeva nemmeno della sua esistenza. Preferiva continuare nell'anonimato e portare avanti il suo compito, il primo motivo che la teneva lì nel Regno d'Ovest. Il secondo preferiva ignorarlo, sarebbe stato meno doloroso.
In teoria, gli Anziani si sarebbero dovuti trovare tutti a palazzo per l'ordinaria amministrazione, ma Lathiora si accorse che un paio dei sei uomini era nel dormitorio, senza un motivo preciso. Arghos no, per fortuna, lui aveva sempre un qualcosa da fare, lecito od illecito che fosse. Così lei si poté calare dal terrazzo, reggendosi al muro grazie alla magia di base, l'unica alla sua portata, ma anche la più utile. Raggiunta la finestra dello studio dell'Anziano, sussurrò “hopke-thi” ed essa si schiuse in silenzio, per poi essere aperta completamente da Lathiora, che entrò nella stanza senza far alcun rumore, nonostante la tunica fosse zuppa di pioggia e lasciasse una scia di bagnato ovunque passasse. (1)
Lo studio era immerso nella penombra, sebbene ci fosse una grande finestra, poiché quel lato del dormitorio non vedeva mai la luce dei Soli, essendo rivolto a Nord. Era tutto in perfetto ordine, cosa che si confaceva ad Arghos ed a ciò che stava facendo. Appena qualcuno avesse frugato nelle sue carte, lui lo avrebbe notato con tutto quell'ordine. Ma non poteva sapere che Lathiora era capace a rimettere tutto come l'aveva trovato. Infatti, dopo aver osservato con attenzione com'era stata sistemata la pila di lettere, imprimendo nella sua mente un'immagine di essa, lei prese i messaggi ed estrasse dal gruppo, a colpo sicuro, quello che le interessava.
La lettera era piegata in malo modo in tre parti ed era scritta con una calligrafia disordinata ed illeggibile, decisamente maschile. Lathiora lesse a fatica le poche righe e sgranò gli occhi, mentre il cuore le mancava di un battito. Era sorpresa, sconcertata, sconvolta. Si sarebbe aspettata di tutto, tranne quello. Ancora molto scossa, si affrettò a mettere tutto a posto, asciugò dove aveva bagnato e fuggì dallo studio, cercando di dominare i battiti del suo cuore, che le martellava nelle orecchie.
Salì sul terrazzo, al sicuro, e si accovacciò contro il muretto basso, prendendosi la testa tra le mani. Doveva calmarsi e recuperare il sangue freddo. Ma ci mise parecchio tempo. Forse era stata molto, troppo a lungo tra gli Uomini. Forse le ombre che non aveva ancora scacciato creavano troppi problemi. In qualsiasi caso, era un po' troppo emotiva, non ci era abituata. Però, non poteva fuggire dal Regno d'Ovest, non dopo quel che aveva scoperto. Ti permetto di vivere a palazzo ad un patto: dovrai guardare le spalle di Alexya, mantenendoti nell'ombra dello Smeraldo.
Mi dispiace, Garstand... posso difendere tua figlia solo dalla corte, non quando si caccia da sola nei guai, singhiozzò tra sé Lathiora.
Rimase un po' di tempo sul terrazzo, mentre la pioggia cadeva incessante. Poi decise di darsi da fare. Alexya si poteva pur essere buttata nella Guerra Millenaria, lontana dalla sua protezione, ma allo Smeraldo Lathiora poteva ancora fare qualcosa. Doveva pensare a come muoversi, per potersi mettere all'opera in modo fruttuoso. Doveva riuscirci.

Helena era alle prese con gli inviti per il ballo, quando le fu annunciato l'arrivo di Arghos. Le rincresceva molto dargli udienza, già sapeva dove sarebbe andato a parare l'Anziano: le solite lamentele, i capricci di sempre e la richiesta di pensare ai problemi dei contadini. Ma lei non avrebbe comunque risolto nulla, perché le udienze del popolo erano state assegnate agli Anziani proprio su loro richiesta, quando si erano lamentati di non avere abbastanza importanza. Ormai in mano loro era persino la giustizia ed avevano ancora di cui ridire. Andavano al di là persino della sua comprensione.
«Va bene, fallo entrare» rispose Helena, con un sospiro. Non aveva alcuna scusa, stava solo firmando le lettere che aveva fatto scrivere ad un copista di palazzo. A scriverne così tante di suo pugno ci avrebbe messo secoli e ciò che stava facendo non era un lavoro mentalmente pesante. No, non aveva alcuna giustificazione per rifiutargli un colloquio.
«Vostra Grazia, buongiorno» salutò Arghos, accennando un inchino, con eccessivo rispetto.
La regina rispose al saluto, semplicemente pronunciando il nome dell'altro. Chissà che vuole..., si domandò, spostando una lettera nella pila di quelle già firmate. L'Anziano si avvicinò alla scrivania e rimase in piedi davanti alla bionda, che sollevò il viso dai fogli e posò la penna vicino al calamaio. Arghos era il più giovane tra gli Anziani, aveva passato appena i cinquanta anni, eppure i suoi capelli erano già bianchi e le rughe sul suo volto spigoloso profonde. Il segno di distinzione di quel concilio era la chioma canuta e lunga, e lui non disattendeva la regola. Vestiva una semplice e larga tunica verde chiaro, con le maniche ampie e bordata di broccato grigio, molto curato nell'aspetto, attento ad ogni minimo particolare. Da quanto aveva saputo da suo padre, un tempo era stato un giovane marchese che aveva dettato le regole della moda col suo abbigliamento sempre ricercato.
«Ditemi» ordinò Helena, incrociando le dita sul tavolo. Lanciò uno sguardo alle lettere ancora incomplete, sperando di terminarle al più presto, mentre cercava, in realtà, di distrarsi da quell'uomo. Altrimenti avrebbe iniziato a fare ipotesi su cosa lui avrebbe detto e non ne aveva la minima voglia.
«Vorremmo riunirci in una seduta con la vostra presenza, milady. Vi è possibile?» domandò gentile Arghos ed accennò un inchino, una mano posata sul petto.
Helena assunse un'espressione afflitta molto, molto convincente e declinò l'invito. «Ho troppo da fare, Eccellenza, non riuscirei a terminare il lavoro se venissi fin nella Sala degli Anziani» replicò, con la voce incrinata da una finta stanchezza.
Arghos annuì, fingendo di aver accettato la spiegazione, mentre dentro di sé sentiva solo stizza. Anche se la regina bionda era un'attrice nata, lui aveva imparato a conoscerla e sapeva che una sciocchezza come delle lettere non le avrebbe mai impedito di partecipare ad una seduta del concilio. «In questo caso, io sono stato incaricato dagli Anziani di parlarvi a nome di tutti e sei» propose l'uomo allora, con lo stesso garbo di sempre, i suoi sentimenti accantonati, nascosti dietro la maschera affabile e cortese che indossava sempre.
Purtroppo a quella richiesta Helena non poté dire di no. Lo avrebbe fatto solo se fosse stata Alexya, che non aveva la minima idea di cosa fosse la diplomazia. Comunque, lei capiva il risentimento della cugina verso gli Anziani. Nati come terzo organo di potere del Regno d'Ovest, con la funzione di equilibrare il governo del paese, evitando che si accentrasse tutto in una sola mano, da parecchi anni non facevano altro che bloccare qualsiasi riforma i sovrani volessero applicare. Così era diventato impossibile governare il regno, soprattutto in caso di re con idee molto diverse. Alexya aveva dato segno più volte di voler eliminare il concilio e da allora, qualsiasi cosa la ragazza facesse, le veniva ritorta contro. Almeno c'era Helena che cercava di ricucire gli strappi, facendosi venire il sangue sempre più acido davanti alle argomentazioni assurde degli Anziani ed all'impulsività dell'altra ragazza, che perdeva le staffe senza pensarci due volte.
«Ci è giunta notizia che vostra cugina ha deciso di entrare nella Guerra Millenaria» esordì brutalmente Arghos, giungendo, una volta tanto, dritto al punto.
Helena rimase un attimo senza parole. Era abituata a ore passate a parlare di nulla con gli Anziani, che amavano girare attorno al problema per far mettere il piede in fallo all'interlocutore e farsi rivelare quanto più fosse possibile, prima che questi se ne rendesse conto. Ciò che aveva fatto Arghos l'aveva lasciata molto sbigottita. Allora premeva molto per loro quella faccenda?
Soprattutto... come hanno fatto a saperlo, se solo io ne sono stata informata?, si domandò Helena, scrutando l'uomo di fronte a sé con sospetto. Sentiva puzza di spia, il che era molto pericoloso, perché Alexya aveva portato con sé poca gente fidata, più parte della guardia reale. No, non andava bene. Come poteva star tranquilla ora che sapeva una cosa simile? E sua cugina? Sarebbe stata ferita da una simile notizia. La regina sperò che non fosse nessuno cui l'altra fosse molto legata, altrimenti i danni sarebbero stati gravi.
Però, che Arghos le avesse confidato una cosa simile, era strano: o lo aveva sempre sopravvalutato, oppure la sua era stata una mossa deliberata, una velata minaccia. Credeva che loro, sapendo di avere sempre gli occhi degli Anziani addosso, si sarebbero sentite limitate ad agire? Non ci sarebbe riuscito, assolutamente no. Doveva trovare le spie ed eliminarle. Ma come?
«Sì, è così. Eravamo entrambe d'accordo, pur parlando della proposta in seduta, il risultato non sarebbe cambiato. Inoltre, non è una scelta che riguardi il regno, ma Alexya» rispose calma ed imperturbabile Helena, anticipando i successivi attacchi di Arghos.
«Certo che riguarda il regno, Vostra Grazia. Il divino Al non esiterà a maledirci e potremmo avere i territori confinanti con i Campi di Sangue devastati dai suoi soldati» ribatté l'Anziano, convinto di quanto stava dicendo. Gli dava fastidio che non avessero interpellato gli Anziani, soprattutto su un argomento così delicato. Non gli andava di esser dannato a causa di una ragazzina che faceva sempre di testa sua. Era stufo della perenne ribellione della Regina della Guerra. Aveva sorvolato quando lei era ancora una bambina, ma ora era troppo per la sua sopportazione. Doveva ricordarle qual era il suo posto e privarla del perenne sostegno della cugina, che le rendeva quegli atti sconsiderati più facili da realizzare, giustificandoli persino.
Cosa farebbe Alexya?, chiese a se stessa Helena, cercando un modo per rispondere a tono all'uomo. Era giunta al punto in cui conveniva usare le maniere forti, con cervello, per ricordare ad Arghos che gli Anziani erano solo una minoranza. Quale metodo migliore di quello della cugina testa calda? Rapidamente, fece lavorare il cervello, considerando le diverse possibilità. Non poteva dire che anche gli Inferi avrebbero fatto lo stesso, secondo il suo ragionamento, sarebbe stato come tirarsi la zappa sui piedi.
Gli Anziani sono solo una massa di vecchi superstiziosi. Andrebbero bruciati vivi tutti e sei, aveva detto una volta Alexya, dopo una seduta piuttosto burrascosa. Quand'era presente la cugina, tutte le riunioni degeneravano. La ragazza tendeva ad essere insofferente verso gli Anziani, era tutta la vita che sopportava le loro chiacchiere e ormai non portava loro un briciolo di rispetto né di considerazione. E questo non faceva altro che rendere le dispute ancora verbalmente più violente e l'opposizione del concilio sempre più ostruzionista.
Comunque, Alexya riusciva spesso a zittirli, nonostante i suoi modacci. Il padre le aveva fatto studiare da cima a fondo la storia e le leggi del regno, anche quelle abolite, e quelle degli altri regni. In caso di necessità, diceva Garstand e cercava anche di convincere Dygghor, il padre di Helena, di seguire lo stesso metodo educativo per la figlia. Ma lui aveva preferito insegnarle la diplomazia e la dissimulazione, piuttosto che quella sfilza di paroloni ridondanti, come diceva sempre. Deve imparare a sfruttare la situazione, aggiungeva.
Ricordando quei particolari della sua infanzia, Helena trovò come ribattere.
«Alexya userà il suo esercito per difendere i confini ad Est ed il Trattato dei Campi di Sangue proibisce a qualsiasi sovrano di attaccare direttamente i territori del proprio nemico. Siamo al sicuro, non preoccupatevi perché abbiamo già pensato a tutto» rispose la regina bionda, a testa alta, emanando sicurezza e convinzione ad ogni parola.
Arghos stava per controbattere qualcos'altro, ma entrò nello studio Zephiro e l'Anziano, con un inchino, se ne andò. Helena tirò un sospiro di sollievo. Ce l'aveva fatta, ancora una volta. Ruotò il capo verso il dio e tirò le labbra in un sorriso cordiale.
Zephiro la vide sollevata e sorridente ed anche il suo umore migliorò, nonostante fuori dalla finestra la pioggia battesse violentemente. Andò a sedersi al suo fianco, per parlare con la regina, mentre lei terminava il suo lavoro.

Per sommo dispiacere di Marihus, che ne aveva già abbastanza di Sung'bar, Alexya si rifiutò di partire il giorno successivo al Consiglio. Così quella sera si ritrovò a seguire la sua regina a cena alla Mandragola, dove le era stato detto che andavano tutti i re. Come poteva mancare lei, una donna così raffinata, elegante ed aggraziata! Sarebbe stato un crimine costringerla a fare altrimenti!
«Non posso passare tutto il tempo con i soldati, ho i miei doveri da regina da rispettare» gli spiegò Alexya, mentre Hanan le stringeva il corpetto del vestito comprato quel giorno in una boutique del secondo livello. «Helena mi farà una statua, quando saprà che sono andata di mia spontanea volontà alla Mandragola!» Ed iniziò a ridere di gusto.
«Milady, per favore, non riesco a vestirvi!» si lamentò Hanan, cercando di fermarla.
Con uno sbuffo, Alexya si liberò delle cure della serva e provò a togliere il corpetto.
«Non mi serve mettere questa schifezza, non ho bisogno di sembrare tettona» bofonchiò la regina, lottando con l'indumento.
Dal salotto, intervenne Johan, prima che potesse farlo un Marihus molto scandalizzato.
«Alexya, mettetevi il corpetto, non è una questione di forme ma di vestito!»
La Regina d'Ovest aprì la bocca, con un'espressione sconvolta, e guardò Hanan, che le tirava via di mano il corpetto. «Ma l'hai sentito tu, il rozzo soldato?» domandò, seria. «Vieni che ti faccio bello, Johan!» gridò Alexya, perdendo la battaglia con la serva.
«Forza, milady, state buona che ora finisco» la incoraggiò Hanan.
Marihus riacquisì il dono della parola, dopo quella scenetta inconcepibile. Non si era ancora abituato a quel lato di Alexya, non sarebbe mai riuscito a farlo, era troppo fuori dalla sua mentalità. Era sempre stato circondato da grandi signore che non cercavano di andare contro le regole delle nobildonne, non si sarebbe mai aspettato di imbattersi in una ragazza che faceva tutto il possibile per fare di testa sua. Le aveva concesso le passeggiate, se così si potevano chiamare, con i soldati perché le servivano come regina, sebbene le parole che imparasse dai militari fossero di un registro talmente infimo da fargli dubitare della reale utilità di quel vizio. Però non le poteva permettere di disattendere le regole del buon vestire, parlare e comportarsi, soprattutto davanti ad altri sovrani. Almeno, ora si era calmata ed accettava le cure di Hanan in silenzio.
Ma restava il fatto che lui non voleva andare in quel ristorante. Non con lei, non ce l'avrebbe fatta, andava oltre i limiti della sua sopportazione. Non avrebbe avuto pace, attendendosi da un momento all'altro un qualche atto sconsiderato della ragazza.
«Statua o non statua, milady, non basta il ballo? Spenderete già abbastanza soldi per quello, la Mandragola non è una bettola» argomentò il maggiordomo, porgendo ad Hanan ago e filo per fissare l'abito alla sottoveste.
«Dihoris, quant'è tirchio quest'uomo!» esclamò Alexya, sollevando gli occhi al cielo. Poi rivolse lo sguardo a Marihus. «Che t'importa, sono io che pago, no? E comunque, ora che me lo ricordi, mi devi ancora cinquecento regi» gli fece notare la ragazza, con un ghigno.
Marihus decise che sarebbe stato zitto, almeno avrebbe evitato di mettersi in situazioni del genere. Sapeva che Alexya amava dire sempre l'ultima parola, quindi una discussione con lei sarebbe continuata all'infinito se l'altra parte non avesse avuto il buonsenso di tacere e darla vinta, almeno in apparenza, alla regina.
Terminato di occuparsi del vestito, Hanan supplicò Alexya di poterle acconciare i capelli, in qualsiasi modo, purché la smettesse di andare in giro con i capelli al vento.
«Diventeranno ancora più aggrovigliati» spiegò la donna, convincente.
La regina la guardò con un misto di accondiscendenza e sconvolgimento, ma alla fine acconsentì, non perché convinta dalle parole della serva, ma per motivi ignoti persino a se stessa. Forse la vanità l'aveva avuta vinta sulla ribellione. Contenta, Hanan recuperò tutto il necessario ed iniziò il suo lavoro. Non appena prese il pettine in mano, Alexya strillò.
«No, dannazione! Diventano crespi! Non ti piacevano tanto i miei boccoli?» si lamentò la ragazza, rivolta al riflesso nello specchio della serva.
«Sì, ma...»
«Niente ma! Se me li pettini, addio ricci. Ci ho già provato, fidati...»
Johan, in salotto, ricordò Alexya a dieci anni, che andava in giro con i capelli sempre legati e urlava come una pazza quando qualcuno provava a toccarglieli. Li ho pettinati e fanno schifo!, si giustificava dopo aver pestato un piede, generalmente, a lui. Scoppiò a ridere. Non era cambiata, per niente.
Prima che Alexya potesse rispondere alla risata del capitano, avendo ben intuito a cosa lui stesse pensando, Hanan cercò di convincerla: «Milady, non posso far nulla se non li pettino».
La regina, sbuffando, si mise a spiegare come doveva fare la donna ed alla fine riuscirono ad essere tutte e due soddisfatte. Marihus sospirò, sollevato. Le sue orecchie aveva avuto il meritato riposo. Ora sarebbero iniziati i veri dolori, però. Non voleva proprio andare alla Mandragola. Aveva cercato di convincere Johan, ma Alexya era intervenuta dicendo che non era luogo da soldato quello, ottenendo il pieno appoggio del capitano della guardia.
Finalmente pronta, Alexya andò nell'ingresso, dando ordini a destra e a manca prima di uscire.
«Hanan, tu resti qui. Metti in ordine e tieniti tuo marito. Non ho bisogno di tutta la guardia con me» Si voltò verso Johan. «Tu, invece, mi segui portando con te Geq e Pjehr. Tre soldati bastano e avanzano» Poi si avvicinò a Marihus, rintanatosi in un angolo, e gli posò le mani sulle spalle, con un sorriso maligno. «Caro mio, tu verrai con me anche nella Mandragola. Se osi lamentarti, faccio pagare la cena a te».
Marihus chinò il capo, rattristato.

Entrata alla Mandragola, Alexya fu colpita dalla luce, forte, ben distribuita ed accogliente, così strana in quel luogo a metri sotto il deserto. Nemmeno il Liocorno era tanto splendente, a parte nella hall dove le lampade erano meglio distribuite. Si voltò verso la porta d'ingresso e vide Geq e Pjehr attaccati al vetro, che guardavano l'interno con la bocca aperta. Johan faceva finta di nulla, ma ogni tanto buttava uno sguardo dentro, anche lui vinto dalla curiosità. Quando però vide che Alexya li aveva scoperti, afferrò i giovani soldati dalla giacca e li trascinò via, portandoli a bere.
«Milady» la richiamò Marihus.
La ragazza roteò gli occhi seccata e, appena le venne incontro il proprietario, lo salutò garbatamente, presentandosi. Come aveva immaginato, Arnold le confermò con le sue parole che Helena era già stata lì. Dopotutto, come avrebbe potuto una gran signora come lei non andare alla Mandragola? Terminati i convenevoli, Arnold si gettò alla ricerca di un tavolo per la Regina d'Ovest.
Nicholas, con un bicchiere di vino in mano, sollevò lo sguardo e vide l'umana aspettare paziente nell'atrio del ristorante. Lui era seduto in fondo alla sala, in modo da poter controllare tutto ciò che accadeva senza voltarsi o altro. Quando Arnold gli passò d'avanti, lo fermò senza quasi muovere un dito.
«Fa' sedere Vostra Grazia al mio tavolo. Riferitele che è un mio invito».
Il proprietario della Mandragola annuì e tornò da Alexya, che rimase senza parole a quel gesto del sovrano Infero. Marihus cercò di protestare, ma lei lo ignorò ed accettò l'invito. Intanto che Arnold li guidava da Nicholas, la ragazza lanciò un'occhiataccia al maggiordomo.
«Ho la situazione sotto controllo, non t'impicciare» disse seccamente.
Oh sì, voglio vedere tra un po' chi tra te e Lord Nicholas avrà il controllo, protestò tra sé Marihus, con un'espressione contrariata. Sapeva troppo di quell'Infero per credere alle parole della regina.
Arrivarono al tavolo degli Inferi e Arnold si volatilizzò, mentre Nicholas si metteva in piedi e con un inchino invitava Alexya a sedersi. Con un sorriso appena accennato, le scostò dal tavolo la sedia messa capotavola, alla sua destra, e la ragazza si accomodò ringraziandolo con un cenno del capo ed un lieve sorriso. Alla sinistra dell'Infero sedeva Irene, che non degnò di uno sguardo l'umana e stringeva con forza la lama di un coltello, gli occhi fissi nel piatto, cercando di calmarsi. Vaenihum osservò pigramente la scena e salutò la Regina d'Ovest con un mezzo inchino. Chester fece un cenno rispettoso col capo e guardò perplesso la promessa sposa del re che si feriva, senza preoccuparsi di esser vista.
Marihus si sedette affianco al messaggero, che gli porse un menu abbandonato a centro tavola.
«Noi abbiamo già ordinato e stiamo aspettando» gli spiegò Chester.
Nicholas tornò seduto e sentì odore di sangue schiaffeggiarlo con violenza. Sapeva bene che Irene si stava affondando il coltello nella mano, ma non era il suo profumo quello. Rivolse uno sguardo ad Alexya ed i suoi occhi si fermarono sul collo scoperto della ragazza, i capelli raccolti in un'intricata acconciatura che lasciava cadere fuori qualche riccio con studiata casualità. Ecco perché era così forte l'odore. L'Infero smise di respirare, senza darlo troppo a vedere, e passò un altro menu alla regina, evitando che questa allungasse la mano e lo colpisse con un'altra zaffata di profumo di sangue.
Un cameriere di avvicinò e chiese ai nuovi arrivati se avessero già deciso cosa prendere.
Mentre Alexya era occupata nella scelta della cena, Nicholas afferrò la mano di Irene e le strappò il coltello, ferendola ulteriormente. Poi avvicinò il palmo alla bocca e leccò via il sangue, con gesti lenti e studiati, prima di mormorare un incantesimo di guarigione.
«Kuraeh-thi»  (2)
Alexya lanciò uno sguardo verso l'Infero e rimase disorientata ed imbarazzata da ciò che vide. Lo stomaco le si annodò, così tornò a guardare la lista di nomi che non aveva alcun senso per lei. Non aveva idea di cosa scegliere, aveva la testa completamente vuota in quel momento. In realtà, era solo occupata dalla bramosia che aveva visto nelle iridi d'argento di Nicholas.
«La tagliata è ottima» consigliò Chester a Marihus, che non capiva perché il giovane lo avesse preso in simpatia. Tra servi di tiranni..., pensò divertito, ma sapeva di essere stato ingiusto nei confronti di Alexya. Le rivolse un'occhiata e notò che aveva la solita espressione di quando aveva altro per la testa. Guardò Nicholas con la mano di Irene premuta davanti alla bocca ed intuì qualcosa.
«Nicholas...» gemette Irene, premendosi la mano libera sulla bocca. Le andavano bene quelle attenzioni, ma non in un ristorante. Lo trovava tremendamente imbarazzante.
L'Infero ignorò il demone e le liberò l'arto solo quando il cameriere si fu allontanato. Stava già meglio, forse il sangue dell'umana lo attirava solo se aveva sete. Avrebbe dovuto stare più attento ai pasti, allora. Si rivolse alla regina, con un'espressione affabile.
«Non mi aspettavo di trovarvi qui, milady. Gli altri giorni dove andavate a pranzare?» cominciò Nicholas, per far conversazione.
Alexya non sapeva come rispondere ed aveva la bocca asciutta, la lingua incollata al palato. Doveva distrarsi da quel che aveva visto. Doveva pensare ad una risposta. Doveva allora dirgli che andava in giro con i soldati?
Passatempo interessante, commentò l'Infero, afferrando il bicchiere di vino davanti a sé.
«In altri ristoranti», rispose Marihus, ignaro dello scambio di battute.
La ragazza sussultò, quando capì cos'era accaduto, e guardò l'Infero contrariata. Cosa state facendo?
«Perdonatemi» Ma i vostri pensieri non sono protetti, non posso far altro che ascoltarli, spiegò Nicholas, con finta innocenza.
Pure Vaenihum sentiva quel che pensava la ragazza, sia lui che il re tenevano sempre tutto sotto controllo utilizzando la Voce. Se avesse voluto, Nicholas avrebbe potuto far alzare tutti gli ospiti ignari e farli ballare, o lottare, o fuggire, e questi avrebbero creduto di agire secondo la propria volontà. Guardò il maggiordomo che cercava di capire cosa stesse succedendo, muovendo in continuazione gli occhi dalla sua padrona all'Infero.
Ed io non posso proteggerli, ribatté Alexya piccata. Permettetemi di essere padrona della mia mente, lo supplicò poi.
La libertà si deve guadagnare, ma sarò magnanimo con voi, milady, le concesse Nicholas. Non schermò, però, la mente della ragazza. Si limitò a non rispondere più ai suoi pensieri. Dopotutto non c'era motivo per non controllare anche lei.
«Avete problemi con la magia mi sembra di capire» disse Nicholas, sorseggiando il vino.
Vaenihum puntò gli occhi sul suo signore, le sopracciglia inarcate, sorpreso da quell'uscita diretta. Non c'entrava nulla con la protezione della mente la magia, ma Alexya non lo sapeva. Essendo digiuna di quell'argomento, non avrebbe mai capito il trucco. Nicholas voleva andare a parare lì sin dal primo momento, utilizzando qualsiasi mezzo a sua disposizione.
Alexya fissò il piatto vuoto, mentre poneva il tovagliolo sulle gambe. «Non si possono avere problemi con qualcosa che non si possiede» replicò, cupa.
Secondo il tuo ragionamento, tu non dovresti essere un problema per milord, pensò Vaenihum poggiando il mento su una mano.
Nicholas sentì il commento dell'Elfo, ma lo ignorò. Aveva ragione, ovviamente. Prese la mano della ragazza, la sinistra, e sfiorò con i polpastrelli il tatuaggio, tenendo lo sguardo fisso sul volto di Alexya. Quando l'anello reagì, vide la sua espressione farsi sofferente, mentre si mordeva le labbra.
«Eppure avete questo anello» le fece notare, stringendo la mano della ragazza, calda e delicata nella sua presa di gelido marmo. L'avrebbe potuta distruggere senza troppo sforzo. Ne era ogni istante più cosciente.
Irene si agitò sulla sedia, ma si rifiutò di rivolgere i suoi occhi verso il re e la sua ospite. Non sapeva come avrebbe reagito ad un contatto visivo diretto e quindi non voleva rischiare. Chester, invece, era occupato in una discussione con Marihus riguardo al cibo migliore, quindi nessuno dei due prestò attenzione resto del tavolo.
Alexya sollevò lo sguardo verso Nicholas e rimase incantata, ancora una volta, dai suoi occhi d'argento. Detestava quella sua reazione, ma non riusciva a resistergli. L'Infero somigliava ad una catastrofe imminente, che lei non poteva, o non voleva, fermare in alcun modo.
«Allora perché non riesco ad utilizzarla?» domandò la ragazza, stringendo a sua volta la mano dell'altro.
Con un gesto lento, ma fluido ed elegante, Nicholas portò l'arto della regina all'altezza del suo viso e sentì il calore di quel corpo giovane, umano e pieno di vita, trasmettersi per un attimo sulla sua pelle pallida e fredda. Non distolse mai lo sguardo da quello verde di Alexya, che lo fissava con la bocca schiusa, catturata dalla sua malia.
«Qualcuno potrebbe avervi imposto un sigillo, in tenera età, che v'impedisce di usare i vostri poteri. Oppure essi sono talmente grandi, da risultare pericolosi ed il vostro corpo si protegge in questa maniera. Ma queste sono solo ipotesi».
Appena Alexya ascoltò quelle parole, contemplò quelle due possibilità, trovandole piuttosto logiche e sensate. Non aveva mai pensato nulla del genere e doveva iniziare a tenerlo in conto. Potevano esserci vie che non aveva mai immaginato, ma che le avrebbero permesso di raggiungere la meta. Fu pervasa dal sollievo e rivolse un sorriso colmo di gratitudine all'Infero.
Vaenihum inarcò ancora le sopracciglia, divertito a modo suo per quella reazione della ragazza. Guardò Nicholas e vide che lui era impassibile, il volto immobile mentre premeva contro di esso la mano di Alexya, per assorbire ogni goccia del suo calore.
Il cameriere portò due piatti, che posò davanti ai due sovrani, con silenzioso garbo. Nicholas notò che sotto la sua porzione di antipasti era attaccato un bigliettino. Immaginava chi fosse, solo un'umana poteva usare metodi così banali per comunicare. Mara si sarebbe potuta presentare al suo arrivo, invece di mandargli stupidi messaggi con tutta quell'aria di cospirazione. Il suo seguito era comunque a conoscenza di quel che lui andava a fare. Così pure suo marito.
Quindi, allontanatosi il cameriere, Nicholas sollevò appena il piatto e staccò il biglietto di carta rossa. Amore, il filetto al sangue che avete ordinato vi attende al secondo piano, stanza 209. Sempre vostra, Mara. L'Infero ripiegò il foglio, sotto lo sguardo curioso della Regina d'Ovest, che non aveva ancora iniziato a mangiare. Amore, lo aveva chiamato amore. Un vellutato cappio, altro che affettuoso soprannome. Un modo barbaro di marcare il territorio dove non c'è nessun altro a minacciarlo. Era davvero disgustato. Nemmeno oltraggiato, stizzito o che altro, ma disgustato. Si domandò come potesse aver avuto così poco buon gusto. Alla fine, neanche il corpo di quella donna era chissà cosa. Quelle smancerie gli resero necessario prendere una decisione, invece di lasciare quella situazione com'era. Avrebbe cercato un'altra donna cui far visita a Sung'bar, con Mara era durata troppo, se lei si stava prendendo tante, disgustose libertà.
Fato volle che in quel momento Arnold passasse nei pressi del tavolo del Re delle Terre d'Ombra, che lo intercettò e gli porse il biglietto, con studiata noncuranza.
«Ho trovato questo messaggio nel piatto. Di' a cuochi e camerieri di fare attenzione che non cada nulla in questo cibo ottimo» disse Nicholas, con tono annoiato.
Arnold impallidì sotto lo sguardo attento di Irene. A quanto pareva l'Infero si era stancato di Mara. Che peccato. Ora il proprietario della Mandragola aveva una prova per accusare la moglie di adulterio, anche perché lei non era più sotto la protezione di Nicholas. Il demone pensò che la cosa peggiore fosse proprio quella: finché l'Infero era interessato ad una donna, questa era protetta da qualsiasi cosa; per lui, quella era una questione del suo onore di uomo. Ma, quando la donna perdeva i favori di Nicholas, era meglio per lei morire che subire tutte le conseguenze di quell'atto. Irene era fortunata, perché il sovrano era obbligato a tenerla con sé, altrimenti i Clan gli si sarebbero rivoltati contro apertamente, avendo una buona scusa come quella. Era una situazione triste, eppure la metteva su un piano diverso rispetto alle altre donne.
Irene guardò Alexya, che osservava a sua volta il proprietario della Mandragola, e si domandò cosa se ne volesse fare Nicholas di quella ragazza. Aveva forse lasciato Mara perché aveva un nuovo giocattolo? Allora non aveva bisogno di esser gelosa, avrebbe fatto la stessa fine delle altre. Tuttavia, non si sentì più tranquilla.
«Lady Irene» sibilò Vaenihum, a volume talmente basso che sarebbe stato impossibile sentirlo se non avesse utilizzato anche la Voce.
Il demone ignorò l'Elfo. Non aveva intenzione di perder tempo pensando ancor di più a quel che sarebbe potuto accadere a quell'umana. Non le interessava minimamente, non erano affari suoi finché era la promessa sposa di Nicholas, protetta e privilegiata.
«Dici questo perché non hai mai assaggiato quella di Renan!» esclamò a voce troppo alta Marihus rivolto a Chester, mentre Arnold si allontanava diretto alle poche stanze poste sopra il ristorante.
Alexya aprì la bocca per gridargli contro, ma si ricordò dov'era, perciò si limitò a pestargli con forza il piede sotto il tavolo, sfogando anche quella punta di frustrazione che provava per essere all'oscuro di cosa ci fosse scritto nel bigliettino di Nicholas.
Quando arrivò anche il resto dell'antipasto, iniziarono tutti a mangiare e i due sovrani parlarono del più e del meno, spaziando dall'organizzazione di un palazzo reale, alla riscossione delle tasse, fino all'importanza dei nobili, se dovessero o meno controllare i territori al fianco del sovrano. Avevano idee divergenti, in qualsiasi ambito, e le discussioni, pacate e ragionevoli, si protrassero durante tutta la cena, placandosi solo tra un boccone e l'altro.
«Quando avete intenzione di partire, milady?» domandò Nicholas, versandole del vino nel bicchiere vuoto.
«Domani, non vorrei stare lontana troppo a lungo dallo Smeraldo» rispose Alexya, mentre col cucchiaino raccoglieva l'ultimo pezzo di dolce, recuperando la crema sparsa qua e là nel piattino.
L'Infero riempì anche il suo calice e lo portò alle labbra.
«Dato che anch'io ho programmato il ritorno per domani, che ne dite di fare una parte del viaggio insieme a me?» le propose, prima di bere.
La ragazza lo guardò sottecchi, con il cucchiaino sospeso davanti alla bocca. Abbassò la posata, intanto che Marihus pregava che la ragazza rifiutasse. Era troppo per lui passare giornate intere con quelle creature, belle per carità, ma così inquietanti.
«Voi non dovreste percorrere un altro tragitto?» chiese Alexya. L'idea le faceva gola, eccome, perché sapeva che gli Inferi si muovevano in carrozza e le sarebbe piaciuto evitare ore ed ore di Soli che picchiavano sulla testa. Gli astri erano tre e nel deserto avevano calore da vendere. Avrebbe preferito stare all'ombra ed al fresco, senza il mal di schiena dovuto al cavallo, anche se in compagnia di quei quattro. E comunque, Nicholas non le creava più molti problemi quando non lo fissava negli occhi. E non le toccava l'anello.
«No, non passiamo da Noctibus per raggiungere i Pilastri Trasportatori del Sud, questa volta. Dobbiamo recarci nella Foresta Grigia, prima di rientrare, poiché il maestro di palazzo è rimasto lì» rispose Nicholas e continuò, anticipando la successiva obiezione della ragazza, «Avremmo, inoltre, un posto libero, perché Chester partirà prima di noi per arrivare a palazzo ed avvertire del nostro ritorno». Fosse stato per lui, sarebbe tornato senza dire niente a nessuno, ma più volte i Nobili si erano opposti a quella scelta, quindi era obbligato a mandare il messaggero ad avvisare i Clan di stare attenti alle loro mosse, perché il re era di ritorno.
Fingendosi convinta da quelle parole, mentre in realtà aveva già deciso da un pezzo, Alexya accettò l'invito. Quando lasciarono la Mandragola, prima di congedarsi e salire ognuno sul proprio mezzo di trasporto, i due sovrani si accordarono sull'orario di partenza.
«A questo punto, non mi resta che augurarvi un buon riposo, milady. Non chiuderò occhio in attesa di domani» la salutò Nicholas, col consueto baciamano.
Ripresasi dalla scossa che la attraversava a quel contatto, Alexya sorrise divertita all'Infero. «Come fate ogni notte» rispose ma, vedendo con la coda dell'occhio l'espressione sconvolta di Marihus, si spiegò per evitare fraintendimenti «Dopotutto voi Inferi non avete bisogno di dormire quanto noi Uomini».
Chester osservò il maggiordomo impallidire, con un certo gusto. Quell'uomo era divertente, reagiva sempre in modo esagerato, persino alle azioni della sua padrona. Era così diverso dagli Inferi, che non avevano quella stessa spontaneità ormai, dopo secoli di vita, soprattutto quelli della corte, dove ogni gesto e sentimento poteva essere riutilizzato per altri fini, conducendo in baratri da cui diventava impossibile uscire. Nicholas, più degli altri sovrani delle Terre d'Ombra, aveva dovuto destreggiarsi in quel labirinto di trappole e continuava a farlo tutt'ora. Infatti, Chester ad Occhio degli Inferi non avrebbe portato solo la notizia del ritorno del re, ma anche nuovi ordini per Krados.

Alexya, Marihus ed i tre soldati avanzavano verso il Liocorno, ognuno preso dai propri pensieri. Solo Geq e Pjehr parlavano, scambiandosi battute salaci e pacche sulle spalle. Erano stati in giro a bere con Johan ed erano un po' alticci ed allegri. Le strade del secondo livello non erano molto illuminate, di tanto in tanto si trovavano lampioni spenti, soprattutto davanti alle case, dove nessuno si occupava dell'accensione per menefreghismo o perché non occupate.
Il capitano teneva gli occhi ben aperti, del tutto sobrio. Preferiva non abbassare la guardia, anche se si trovavano nel livello nobiliare che avrebbe dovuto essere il più sicuro. In realtà, non era difficile accedervi, uno dei ladruncoli del primo strato non avrebbe trovato nessuno a sbarrargli il passaggio ed avrebbe potuto muoversi indisturbato e non visto dato il buio.
«Regina d'Ovest, potete ascoltare quel che ho da dirvi, oppure andate di fretta?»
Una voce ruvida, un po' burbera nonostante il tono garbato, prese alla sprovvista il gruppo, che si fermò di colpo. Ognuno sguainò la propria arma, tranne Marihus che non ne aveva mai una con sé.
Alexya stava per avanzare e rispondere, ma Johan si frappose tra lei e lo sconosciuto nascosto nell'ombra. Senza una parola, le fece intendere di esser più cauta ed attendere che se ne fosse occupato lui.
«Fatti vedere o non avrai un minuto del suo tempo» fu la replica del soldato. Subito Geq e Pjehr gli si affiancarono, per dargli manforte in caso di necessità. La ragazza, con la spada che aveva appeso alla sella del suo cavallo, attese di vedere il volto di colui che le chiedeva udienza.
Dalle tenebre, con un passo silenzioso, emerse il negromante da cui Johan aveva portato il Myurohon catturato da Alexya. I capelli corvini erano intrecciati due o tre volte, per poi cadere liberi sul petto del giovane. Dalle orecchie leggermente a punta, come quelle di Divinità ed Inferi, pendevano triangoli di metallo laccato di nero, che dondolarono quando si mosse. Gli occhi, cerchiati da profonde occhiaie del genere che non sparisce mai, erano neri come quelli degli dei. Ma non era uno di loro, altrimenti non si sarebbe trovato lì a fare lo stregone.
«Sono Archelaos il negromante» si presentò, con un inchino. «Ho guadagnato udienza, così?» domandò seccato a Johan, che lo aveva riconosciuto.
Archelaos, ottenuto il permesso dalla guardia, rivolse il suo sguardo alla giovanissima regina che spinse il cavallo vicino a lui. Rimase un po' sorpreso, era una bambina per i suoi standard da immortale. Aveva immaginato colei che aveva osato sfidare Inferi e Divinità come una donna matura, una guerriera terribile, una saggia regina. E invece eccolo di fronte a quella ragazzina.
«Forse non vi siete ancora posta il problema, ma sono venuto a darvi un suggerimento per uccidere i Myurohon» le comunicò il negromante, incrociando le braccia sul petto lasciato mezzo scoperto dalla tunica grezza aperta.
Alexya non gli rispose. Non era vero, ci aveva pensato, soprattutto perché aveva chiesto a Johan come era stato ucciso il Myurohon del deserto, la sera del loro arrivo. Ma lei non riusciva ad usare la magia, quindi non poteva utilizzare quel metodo, che oltretutto risultava lungo e poco efficace durante uno scontro. Aveva deciso di andare a cercare Nestor, appena ne avesse avuto il tempo, tornata a Borgo Smeraldo.
«Qual è questo suggerimento?» chiese la ragazza, scettica.
«Gli Inferi hanno trovato il modo per ucciderli durante una battaglia, purtroppo lo tengono segreto. È stato Lord Nicholas con quel suo Elfo, ma tutto quel che stanno creando quei due non è mai uscito dalle Terre d'Ombra...» rispose Archelaos, ma si accorse di star divagando. «Comunque, vi consiglio solo di ottenere le informazioni necessarie con il metodo che preferite. Non ho altro da dirvi, losnath». Detto questo, fece un passo indietro e sparì nel buio, così com'era apparso. (3)
Marihus non aveva capito una parola di quel che era stato detto e comunque non gli interessava, non c'entrava lui. Johan si avvicinò a cavallo alla sua regina, che teneva gli occhi puntati dove era sparito Archelaos.
Un modo per uccidere i Myurohon in combattimento.
Gli Inferi.
Il viaggio in compagnia di Lord Nicholas le avrebbe offerto una possibilità di indagare di persona. Sì, era così.
«Proseguiamo» ordinò Alexya, spronando il cavallo.

Il giorno seguente, Nicholas lasciò la hall del Liocorno, dopo aver sistemato le ultime scartoffie, e raggiunse la carrozza. Il cocchiere corse ad aprirgli lo sportello e il re entrò tranquillo. Nella vettura si trovava già Irene, imbronciata, ma lui la ignorò, perché aveva ragione lui. Era inutile discutere.
Quel mattino, tutti erano pronti, meno la sua promessa sposa, quindi era andato nella sua stanza e l'aveva portata fuori di peso, caricandosela sulla spalla e umiliandola davanti a tutti. Per mali estremi andavano usati estremi rimedi, perciò lei non aveva nulla di cui lamentarsi. Altrimenti l'avrebbe mollata lì e l'avrebbe fatta tornare ad Occhio degli Inferi da sola e a piedi. Così il suo bel vestito di raso si sarebbe rovinato, i capelli biondi sarebbero stati intrattabili e i piedi gonfi.
«Non è modo» brontolò Irene, girando il capo verso l'esterno della carrozza.
«Hai assolutamente ragione» concordò Nicholas, prendendola in giro con un'espressione ed un tono glaciali.
Il demone si voltò di scatto verso il sovrano e gli posò le mani sul petto, afferrando la giacca nera e strattonandola una volta. «Che ti sarebbe costato farmi finire di preparare?» lo incalzò la donna.
Nicholas la guardò, con un sopracciglio inarcato. «Me lo chiedi pure» commentò, fingendosi sorpreso. Le mise le mani sui fianchi e la tirò cavalcioni su di sé, mentre affondava una mano nei capelli platino di Irene, intrecciati e raccolti in una crocchia dietro la nuca. Con un gesto secco e repentino, distrusse l'acconciatura facendole non poco male. Una smorfia di dolore comparve sul volto di Irene. «Sarebbe stato tempo perso» spiegò in un sussurro. Spinse la donna contro di sé, baciandole dapprima il collo disadorno, per risalire alle sue labbra, in una lenta carezza.
Intanto, Vaenihum era fermo sotto il porticato, i pollici infilati tra cintura e pantaloni, l'aria annoiata in attesa della Regina d'Ovest, che vide sbucare seguita dal capitano della sua guardia, mentre erano in mezzo ad una discussione piuttosto accesa. I due si fermarono, gesticolando furiosamente, poi Alexya alzò la voce, infuriata, e si lasciò alle spalle l'uomo.
Johan guardò l'Elfo in fondo al porticato con aria truce. Poi decise di raggiungerlo e, con ampie falcate, gli fu davanti. Alexya era andata direttamente alla carrozza nera al centro del cortile, pestando i piedi in maniera poco elegante. Il capitano la ignorò, ora doveva vedersela con il servo dell'Infero.
«Senti, tu, se le succede qualcosa ve la farò pagare, a te ed al tuo re vizioso!» lo minacciò Johan, afferrandolo per il bavero della camicia elfica.
Vaenihum lo guardò annoiato. «Non vedo cosa potresti farci, umano...»
Il capitano stava formulando una risposta adatta, quando un urlo lo sconcentrò, attirando la sua attenzione da un'altra parte. Si voltarono entrambi verso la carrozza e videro Alexya cadere all'indietro, giù dallo scalino, agitando le mani nel vuoto.
«Alexya!» urlò Johan correndo verso di lei, per impedirle di finire per terra. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare in tempo, lo sapeva, eppure era scattato verso di lei. L'Elfo lo seguì, d'istinto.
Nicholas, con un movimento fulmineo, si sporse dalla carrozza ed afferrò con forza il braccio sinistro di Alexya. Nel farlo, sentì il polso della regina cedere sotto la sua stretta e l'articolazione del gomito uscire dalla sua postazione. Non aveva ben calibrato il suo potere, la stava quasi distruggendo. Troppo fragile. Scese dal veicolo e strinse a sé la ragazza, che ora gemeva per il dolore al braccio.
Johan arrivò dopo un po' e non seppe se ringraziare l'Infero per il salvataggio poco delicato o gridargli contro per quel che aveva fatto alla sua regina. Quando Vaenihum si fermò al suo fianco, silenzioso e vigile, il capitano preferì tacere. Lo avrebbero ucciso senza troppi complimenti, se avesse detto la cosa sbagliata. E quel che aveva in mente era proprio la cosa sbagliata che lo avrebbe condannato.
Dalla carrozza fece capolino Irene, i capelli biondo platino che cadevano sulle spalle, ondulati per esser stati imprigionati in trecce.
«Cos'è successo?» domandò, frastornata dalla rapidità con cui tutto era avvenuto.
I tre uomini la ignorarono. Lei osservò la scena e tornò nell'abitacolo. Niente che la dovesse interessare.
«Bisogna curarla» disse Johan, avanzando di un passo.
Vaenihum lo imitò. «Ma va» rispose burbero e l'umano comprese di dover lasciare tutto nelle mani di Nicholas. Non si sarebbe levato dalle costole l'Elfo, l'aveva capito ormai.
L'Infero guardò la ragazza che stringeva tra le braccia, sentendo nella sua mente il dolore che provava quasi fosse suo, mentre la fame lo assaliva con l'odore del suo sangue così forte e vicino. Si impedì di respirare e risolse il secondo problema. Doveva insegnarle a schermare i suoi pensieri, non gli serviva sentire le sue stesse sensazioni. Col polso rotto ancora stretto nella sua mano, mormorò l'incantesimo di cura e l'osso si risistemò sotto la pelle, provocando alla regina un fastidioso formicolio.
Alexya non aveva versato una lacrima, il volto schiacciato contro la giacca dell'Infero, nelle narici nient'altro che il suo odore maschile, ma il gomito le faceva malissimo, ora che la sofferenza per il polso era svanita. Non riusciva a piegare il braccio, che le mandava pulsazioni di dolore sempre più intense. La vicinanza con il re non l'aiutava ad ignorare la sofferenza fisica.
«Piegatelo, si aggiusterà» le ordinò Nicholas. Non gli andava di sprecare potere per una banale lussazione. Con la mano sull'avambraccio di Alexya, la aiutò a fare quanto aveva detto.
La regina sentì l'osso riposizionarsi e subito il dolore svanì del tutto. Sollevò il viso e ringraziò Nicholas.
«State più attenta, la prossima volta» fu tutto ciò che le disse, prima di allontanarla con gentilezza. Ormai voleva solo affondare i denti in quel collo delicato e null'altro. Un istinto animalesco che doveva domare. Risalì sulla carrozza, costringendo Irene a sedersi al proprio posto e star buona.
Vaenihum affiancò la regina umana, in attesa che lei seguisse l'Infero sulla vettura nera.
«Ma si può sapere come hai fatto a cadere?» le chiese Johan, con le idee molto confuse. Era riuscito a vedere poco di quel che aveva fatto Nicholas per fermare la ragazza, ma quel che voleva sapere l'aveva appena domandato.
Alexya non lo guardò né gli rispose, scuotendo appena il capo. «Teneteci dietro, lentoni» disse semplicemente, tentando di scherzare. Poi si voltò ed entrò nella carrozza, seguita dall'Elfo. Il cocchiere chiuse lo sportello davanti a Johan, muto ed immobile, molto perplesso. Non ho capito niente, pensò sconsolato il soldato, ma raggiunse la hall del Liocorno, dove Marihus terminava di occuparsi della burocrazia.
La regina seguì con lo sguardo l'Elfo che si andava a sedere al suo fianco, per non guardare Nicholas di fronte a lei. Quando non ebbe più scuse per ignorarlo, incontrò i suoi occhi argentati e le parve di rivedere la stessa espressione famelica che l'aveva fatta reagire in quella maniera tanto esagerata. Mentre prima le era parsa rivolta alla promessa sposa, ora non c'era alcuna spiegazione plausibile. Solo lei e lui. Ed il suo povero stomaco annodato.

.-.-.-.

Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Hopke-thi: apriti.
(2) Kuraeh-thi: curati.
(3) Losnath: buonanotte.

Per il prossimo capitolo, forse mi farò attendere di nuovo 15 giorni. Spero di riuscire ad andare avanti nei due giorni di vacanza per Carnevale.
In qualsiasi caso, avviserò chi è interessato.

Kanako

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Capitolo 7
*** Capitolo VII. L'ombra del Re ***


Eccomi di ritorno!
Prima di cominciare ringrazio myki, Dark Magician (come sempre, mille grazie per gli errori... lo ammetto, non so cosa farei senza di te!), Marluxia25, berry345 e olghish (sì, l'avevi già letta questa storia XD).
Ah, non dimentichiamo quanto richiesto da myki: la lista dei personaggi:

Uomini:
Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;
Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;  
Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re d'Est.

Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, messaggero reale, antico spirito lupo;
Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto.

Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio della Forza;
Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Niharn, protettrice del Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

Campi di Sangue:
Archelaos, negromante, semidio;
Laila, scheletro di Archelaos;
Arnold, proprietario della Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca.

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VII.
L'ombra del Re




Dei tre giorni necessari per raggiungere i Pilastri Trasportatori ai piedi dei Monti Oscuri, Chester ne impiegò la metà, attraversando deserto, steppa, oliveti e campi di grano in forma di lupo dal folto pelo blu notte. Era stato scelto come messaggero di Lord Nicholas proprio per questa sua velocità, incredibile persino per gli Inferi. Inoltre lui, come tutti i giovani purosangue dei Clan, era obbligato a prestare servizio a corte, a causa dei frequenti complotti che avevano animato il castello nel primo millennio delle Terre d'Ombra.
L'antico spirito si fermò davanti alle colonne nere. «Hopke-thi Hinferion yanui!» ordinò, tornato in forma umana per poter pronunciare la formula, la tunica arrotolata e avvolta attorno al collo. In forma animale poteva parlare, ma non usare la magia. Non era abbastanza potente per fare anche quello. (1)
Quando lo spazio davanti a sé fu deformato dalla magia, creando il varco, Chester tornò ad essere un lupo con un fagotto al collo ed attraversò il portale con un balzo. Non appena atterrò dall'altra parte, i Pilastri Trasportatori tornarono inerti e l'Infero riprese la sua corsa. Ormai mancava pochissimo ad Occhio degli Inferi.
Alle sue spalle, a chilometri di distanza, le pendici dei Mondi Oscuri lasciavano spazio ad un territorio brullo e spoglio, con villaggi sparsi qua e là sulla terra e nel cielo, su isole fluttuanti che di giorno erano nascoste dalla fitta coltre di nubi che proteggeva le Terre d'Ombra dalla luce solare, immergendo il regno in un grigiore perenne. Il Mare di Smeraldo brillava, verde e calmo, ad Ovest e su di esso si affacciava la capitale degli Inferi.
Occhio degli Inferi pullulava di stradine contorte, eseguite senza criterio solo per collegare le abitazioni che si aggiungevano di secolo in secolo, ma ad unire i tre ingressi della cinta muraria ed il porto con il palazzo c'erano quattro ampli viali lastricati e ben tenuti, lungo i quali si trovavano le ville nobiliari.
Le mura si estendevano lungo tutto il perimetro della città dalla pianta irregolare, separate da essa da un paio di chilometri, per le successive espansioni dovute alla costruzione di nuove abitazioni.
Il castello, invece, si ergeva al centro della capitale, arroccato su un enorme albero, l'Hinferion Rahan, fossilizzato già ai tempi di Nephas, che lo aveva trovato adatto per la sua dimora. Nel tronco passava l'ascensore e si trovavano i piani inferiori del palazzo, le cui finestre spuntavano dai rami, permettendo all'interno di essere illuminato dalla flebile luce che filtrava dalle nuvole. Era una costruzione enorme, quanto l'estensione della chioma dell'albero, che terminava con delle mura poste attorno ad un grande piazzale, nel cui mezzo di trovava la torre dal tetto a cupola che dava il nome alla capitale: l'Occhio degli Inferi permetteva al sovrano, con la magia, di vedere chiaramente tutti i territori dai Monti di Luce allo Stretto della Morte, all'estremo Sud della Terra dei Cinque Popoli. (2)
Il palazzo reale, al suo interno, era contorto come la ragnatela di strade della città che lo ospitava. I corridoi seguivano percorsi strani, per evitare rami dell'albero che attraversavano la costruzione, o non conducevano da nessuna parte oppure in locali pericolosi o riservati. Chi malauguratamente finiva in queste zone non poteva far altro che morire. Perciò la servitù veniva ben addestrata e gli ospiti sempre accompagnati da un anfitrione.
Chester tornò nella sua forma umana davanti alla porta Nord della capitale, indossò la tunica e si presentò. Le due guardie, abbigliate di nero e argento, lo riconobbero ed uno gridò rivolto a qualcuno all'interno delle mura.
«Comandante!»
Dalla compatta parete di pietra, si aprì una finestrella e spuntò una testa. Un soldato semplice, nient'altro.
«Chester del Clan Niha è tornato! Riferisci al comandante» ordinò il soldato fuori dalla cinta muraria all'altro.
Il portone iniziò ad aprirsi lentamente, ma senza emettere il minimo rumore. Si mosse finché non si creò un varco abbastanza grande per far passare il messaggero reale, che lo attraversò di fretta. Appena mise piede sul viale lastricato, Chester si trovò davanti un vampiro vestito per intero in pelle nera: giaccone lungo fino alle caviglie, pantaloni e stivali tutti dello stesso materiale. I capelli corvini erano tagliati corti dietro la nuca, mentre davanti arrivavano alla base del collo, pettinati in direzione del viso, pur senza nascondere gli occhi rosso sangue del giovane.
Era il membro purosangue del Clan Thener, quello da cui proveniva la prima sposa di Aexandras e madre di Nicholas. Tutti i Nobili Inferi appartenevano ai Clan e nelle loro vene scorreva, in diverse quantità a seconda delle unioni con altre famiglie, il sangue dei sei fratelli di Nephas. I Clan erano sei ed i loro membri potevano essere esclusivamente di una delle tre razze Infere: infatti, Niha e Arah erano antichi spiriti, Thener e Lahat vampiri e, infine, Canthao e Thena demoni. Per mantenere l'alleanza col trono, a turno, una donna purosangue veniva offerta in sposa al sovrano.
«Molko» lo salutò Chester, costretto dall'avvicinarsi del comandante, che sembrava essersi scomodato proprio per lui.
Molko, assieme a Cedric del Clan Lahat, era uno dei generali dell'esercito, ma era al comando di una sola legione, perché molto incline alla violenza immotivata. Nicholas aveva bisogno di sottoposti che ascoltassero subito i suoi ordini, non che si lasciassero trascinare dalle loro passioni, decidendo arbitrariamente se eseguire o meno quanto il re diceva. In compenso, gli era affidata la guardia della capitale, da cui era stata debellata la criminalità grazie al carattere del comandante. Chester non si trovava a suo agio con lui e cercava sempre di girargli più lontano possibile.
«Chester Chester, ti sei fatto una bella corsetta, vero?» disse Molko, tirando un'amichevole pacca sulla spalla dell'antico spirito, con la sua forza senza limiti. «Faccio una capatina a palazzo assieme a te, vieni» gli annunciò, compiendo un giro su se stesso.
Chester fu costretto ad acconsentire, anche perché non gli aveva lasciato molta scelta. La via fino all'Hinferion Rahan sarebbe stata molto lunga.

Krados lasciò ricadere la tenda al suo posto, dopo il passaggio di Chester accompagnato da Molko. Perfetto, ora il messaggero sarebbe stato al sicuro e lui avrebbe potuto terminare il suo lavoro col cuore più leggero. Grazie a Fato, quel vampiro violento è molto collaborativo quando gli si parla di menar le mani, pensò il demone di Thena, coprendosi i capelli blu col cappuccio nero.
Silenzioso e invisibile nel buio, Krados raggiunse il luogo più adatto per osservare senza esser visto. Conosceva a memoria la pianta del palazzo nobiliare del Clan Canthao, Nicholas lo aveva obbligato ad imparare tutto sui membri dei Clan e sulle loro dimore e solo in momenti come quello gliene era immensamente grato. Si infilò nell'intercapedine del camino nel salotto in cui era seduto Thitus, il più importante membro del casato, uno dei demoni più antichi di tutte le Terre d'Ombra, figlio illegittimo di Jhadez, uno dei fratelli di Nephas. I capelli boccoluti erano castani con striature bianche, dovute non tanto alla sua anzianità, ma all'eredità genetica della madre; erano corti, ma non abbastanza da impedire alle ciocche più lunghe di arricciarsi attorno al collo muscoloso e scoperto. Gli occhi verdi guardavano nel vuoto, nella penombra del soggiorno. Indossava un vestito di seta rosso vino, di foggia sudriona, aperto sul petto per mettere in bella mostra il medaglione con la runa del fuoco. Solo i purosangue avevano tatuato addosso, sulla schiena di preciso, il simbolo del loro Clan, mentre gli altri membri dovevano accontentarsi di altri mezzi per affermare la loro appartenenza alla famiglia.
Nel camino, sempre acceso ma con una fiamma magica che non emanava calore, perché usato solo come ornamento, Krados aveva trovato un foro abbastanza piccolo da non essere notato durante le ripetute ristrutturazioni del palazzo, sufficientemente grande da permettergli di osservare e sentire con facilità. L'intercapedine era molto spaziosa e di difficile accesso. Con ogni probabilità, nessuno in quella casa ne conosceva l'esistenza e questo giocava a suo favore.
Una serva entrò nel soggiorno per annunciare l'arrivo di un ospite. Thitus permise al nuovo arrivato di sedersi e Krados lo vide in volto, riconoscendo in lui Apuh, uno dei nobili del Clan Thener. I capelli corvini erano liscissimi e neri, come in gran parte dei membri di quella famiglia, lunghi fino alla vita, con la parte anteriore tagliata fino alle spalle e pettinata all'indietro, scoprendo la fronte bianca e priva di rughe. I suoi occhi erano di un azzurro sbiadito, torbido, ma risaltavano nel complesso, perché Apuh, oltre ad avere i capelli neri, si vestiva anche di quel colore: indossava un lungo mantello, frontalmente corto sino ai gomiti e fermato con una catena d'argento; al di sotto indossava solo un coprispalle e pantaloni dal taglio raffinato, abbinati a scarpe eleganti e lucide. Al mignolo destro luccicava un grosso anello recante la runa della tenebra.
«Nevah, Thitus» salutò Apuh il padrone di casa, accomodandosi ad una poltrona. «Ho incontrato il giovane Chester, mentre mi recavo qui. A quanto pare, il nostro re è di ritorno». (3)
Thitus brontolò, con la sua voce bassa e profonda, «Non passa mai abbastanza tempo lontano da Occhio degli Inferi, quando gran parte dell'esercito è in città. Adora guastarci le uova nel paniere».
Apuh trattenne una risata, accavallando le gambe con un gesto fluido. Un lembo del mantello si scoprì, mostrando la pelle nuda e bianca sotto di esso. «A te le guasta. L'esercito non mi fa né caldo né freddo. Sei l'unico che vuole fare le cose in gran stile. L'esercito, ha!» ironizzò il vampiro, picchettando gli artigli sul bracciolo della poltrona.
Come se tu potessi sentire il caldo o il freddo, commentò Krados, nel sentire le parole del Nobile. I vampiri, più di qualsiasi altro Infero, erano le creature più insensibili al clima ed alla temperatura dell'intero Mondo Profano. Fosse estate o fosse inverno, loro non avvertivano nulla.
«Oh, guarda, signor esercito, pare che sia giunto un altro nostro amico» fece notare Apuh al demone di Canthao, indicando mollemente la grande finestra alle spalle di questi.
Thitus si voltò e, vedendo un grosso corvo con una sacca tra le zampe posato sul davanzale, si alzò dal divano per aprire un battente e far entrare l'animale. Non appena il padrone di casa richiuse la finestra, in un batter d'occhio l'uccello assunse forma umana ed estrasse dalla borsa una tunica lunga e di pregiata fattura, con ricamato sul petto la runa dell'aria. L'uomo non era molto alto, tuttavia era possente ed imponente. I capelli tra il castano ed il biondo avevano un taglio sfilacciato e non superavano le spalle. Negli occhi nocciola c'era un qualcosa di triste e feroce. Vedendo il viso sfregiato dalla punta del naso in giù, prima che l'antico spirito nascondesse la rete di cicatrici con una maschera di ferro a forma di grosso becco, Krados riconobbe in lui Bhor'la, un nobile del Clan Niha.
Parlarono del più e del meno, era soprattutto Apuh a tentare di instaurare una conversazione, ottenendo risposte solo da Thitus, mentre Bhor'la si limitava a lapidari monosillabi e cenni del capo. Krados ascoltò il tutto, con infinita pazienza. Faceva parte del suo lavoro attendere. Non poteva pretendere che dessero informazioni utili subito. Ogni tanto saltavano fuori nomi di sottoposti favorevoli alla causa dei Nobili ed il demone li ripeteva parecchie volte, finché non gli si imprimevano nella memoria.
«Non arriverà nessun altro, a quanto pare» disse di punto in bianco Apuh, passandosi una mano nei capelli per ravviarli. «Avrei voluto vedere la mia cara Mhinouke» singhiozzò il vampiro, con finto rimpianto.
«No, è troppo pericoloso riunirci tutti insieme. A quanto pare l'ombra di Lord Nicholas non lascia mai la città» confermò Thitus, cambiando posizione sul divano.
«Non si può conoscere la pozione di un ombra nella terra dell'oscurità» aggiunse Bhor'la, con la voce distorta dalla maschera.
Apuh assunse un'espressione sarcastica. «Sempre parole profonde, Bhor'la» sghignazzò il vampiro, poi si rivolse al padrone di casa. «Allora parliamo di cose più serie. L'ombra in questione si sarà già annoiata».
E invece no, pensò Krados trionfante. Nessuno aveva la sua resistenza e pazienza tra le spie di Nicholas. Ma nessuno lo sapeva e lui ci teneva a nascondere simile informazione dietro il suo studiato comportamento allegro, molle e spensierato. Uno dei molti insegnamenti del suo re.
Thitus acconsentì e portò il busto in avanti. Bhor'la non si mosse e rimase in piedi affianco a Apuh, le braccia distese lungo i fianchi, nascoste dalla larga tunica.
«Mi son giunte notizie riguardanti l'ultima seduta del Consiglio degli Otto Sovrani» esordì il demone di Canthao, con tono basso e pacato. «A quanto pare, la Regina della Guerra d'Ovest ha deciso di entrare nella Guerra Millenaria, contro noi Inferi e le Divinità. Ma non è poi una grande notizia, sarà solo un passatempo per Lord Nicholas, che però potrebbe esserci d'aiuto».
Apuh ghignò e guardò con malizia Thitus. «Vecchio volpone, so già dove vuoi andare a parare! Il nostro reuccio comincerà a comportarsi nei confronti dell'umana come con tutte le donne. Dopotutto è imparentato col mio Clan».
Bhor'la si mise a braccia conserte. «Non vedo l'utilità di quella donna».
Il vampiro si voltò a guardarlo, senza cancellare dal suo viso il ghigno di prima. Thitus sollevò lo sguardo verso l'antico spirito, senza fiatare.
«Come tutto il resto, è un mezzo per il successo della nostra causa, signor piccione» spiegò Apuh, con un tono adorabile.
L'espressione sul viso di Bhor'la non cambiò, nonostante il nomignolo non gli andasse a genio nemmeno un po'. Ma avrebbe sistemato il vampiro fuori da quella casa, non era momento per i bisticci quello.
«Non voglio puntare su qualcosa la cui esistenza è incerta. Aspettiamo» disse allora l'antico spirito, distendendo le braccia lungo i fianchi, i pugni chiusi nascosti dalle maniche della tunica turchese.
Sono proprio messi male, rifletté Krados, nel sentire quelle parole. Ormai i Nobili non riuscivano a trovare nessun modo per ottenere ciò che volevano da secoli, se non giocando con le relazioni altrui. Nicholas non aveva previsto, prima della partenza, che una Regina d'Ovest si sarebbe gettata nella Guerra Millenaria, ma quel fatto non poteva avere conseguenze così gravi sullo sviluppo generale del conflitto, tanto meno poteva influire in qualche maniera nelle Terre d'Ombra. È solo una pulce con la tosse, Lord Nicholas se ne libererà come fa con tutti i problemi, concluse Krados.
«Come hai ottenuto quest'informazione? Chester non collabora ed è guardato a vista da Molko, che ti staccherebbe un braccio a morsi piuttosto che farti avvicinare a chi gli è stato ordinato di proteggere» domandò Apuh.
«I cani di Nicholas sono fedeli e feroci» intervenne Bhor'la.
Thitus annuì all'affermazione dell'antico spirito. «Se non posso ottenere notizie dall'interno, allora le cerco all'esterno. Non posso dire chi è il mio informatore, la sua collaborazione è di fondamentale importanza. Qualora lo ritenessimo necessario, potrebbe aiutarci a giungere a destinazione».
Seccato da tanto mistero, il vampiro di Thener sbuffò e si mise in piedi, annunciando di esser stufo di quell'aria di cospirazione.
«La prossima volta andiamo a parlare davanti a Nicholas, allora» rispose Bhor'la, mortalmente serio.
Tuttavia Apuh comprese che si stava prendendo gioco di lui, ma lasciò correre altrimenti sarebbe rimasto lì fino a sera ad insultare «il signor piccione». Dopo un'ora dalla dipartita del vampiro, anche Bhor'la decise di levare le tende, uscendo dalla porta principale, come tutti i normali Inferi.
Krados rimase immobile nell'intercapedine, preso dalle sue riflessioni. Chi era l'alleato tanto importante da poter aiutare i Nobili a uccidere Nicholas e dividere le Terre d'Ombra in sei distretti?

Al tramonto di Svethios, il seguito della Regina d'Ovest iniziò a sentire la stanchezza. Ma Alexya non se ne accorse, perché era scivolata nel sonno, cullata dal movimento della carrozza tra le dune del Deserto di Zinco. Johan, allora, spronò il cavallo al galoppo e raggiunse il veicolo che procedeva di buona lena a parecchi metri più avanti degli Uomini.
«Milady!» chiamo Johan, cavalcando affianco al finestrino.
Nicholas lanciò un sguardo freddo al capitano e Vaenihum sfiorò la spalla della ragazza, che sussultò spaventata. La regina si guardò attorno spaesata e, incontrati gli occhi d'argento dell'Infero, si riprese.
«Dimmi, Johan».
«Possiamo fermarci per riposare? Abbiamo cavalcato tutto il giorno senza una pausa» chiese l'uomo.
Oh cavolo, pensò Alexya. Quella prima giornata si era rivelata piuttosto pesante per lei. Gli Inferi non avevano parlato molto, per lo più era stata Irene a rompere il silenzio di tanto in tanto. Nicholas e Vaenihum erano sempre taciturni, il primo preso dai propri pensieri, l'altro immerso nella lettura di un volume sulle nuove erbe mediche, o qualcosa del genere, Alexya non aveva potuto sbirciare troppo. E poi lei aveva pensato ad un modo elegante per ottenere le informazioni che le servivano per uccidere i Myurohon. A lungo andare, si era addormentata e nessuno aveva fatto abbastanza rumore, in quella carrozza, per farla svegliare.
«Sì sì, accampiamoci» disse rivolta a Johan, ma subito dopo si ricordò che lei era ospite di Nicholas, così gli rivolse uno sguardo interrogativo. L'Infero annuì e le parve di vedere un sorrisetto divertito minacciare l'immobilità del suo volto.
Il Re degli Inferi sollevò un braccio e colpì con il pugno il tetto della carrozza, tre volte. Il cocchiere non ci mise molto a fermare l'avanzata dei Bardak. Johan era già tornato indietro dagli altri ed aveva dato loro il permesso di montare le tende.
Alexya si sollevò da sedere per scendere, prima ancora che il cocchiere aprisse lo sportello, e si sentì fermare dalla mano fredda dell'Infero.
«Non costringetemi di nuovo a venire in vostro aiuto» si limitò a dirle, affidandosi alla sua perspicacia.
Lo stomaco della ragazza brontolò e lei si sentì tremendamente umiliata, sopratutto perché Irene trattene una risata. Nicholas assunse un'espressione ironica che non le piacque.
«Avevo dimenticato che voi avevate bisogno di mangiare più volte al giorno».
«Anch'io...» rispose Alexya, seccata. Aveva fatto una colazione molto abbondante quella mattina e si era addormentata piuttosto presto. Aveva dormito quasi tutto il viaggio e non aveva sentito i morsi della fame. Che vergogna, si lamentò tra sé.
Finalmente, il cocchiere aprì lo sportello e dispose lo scalino per la discesa. Nicholas lasciò il braccio della regina e, dopo che lei fu scesa, la seguì.
«Vi accompagno dai vostri uomini» si offrì il re ed Alexya non poté rifiutare. Lo prese braccetto e s'incamminò con lui nella sabbia per raggiungere il resto del gruppo d'Ovest. Erano parecchio distanti, i Bardak andavano molto più velocemente di un cavallo normale anche al passo.
La rena era ancora calda e ogni tanto la ragazza saltellava aggrappata al braccio dell'Infero, imprecando a mezza voce. Lui seguiva i suoi movimenti con un sorriso ironico stampato sul viso. Raggiunto l'accampamento appena montato, Alexya si gettò su una pila di stoffa ed iniziò a togliersi gli stivali. Ne aveva presi di nuovi, ma la sabbia si era infilata da qualche parte e le stava dando fastidio.
Nicholas si sedette al suo fianco e osservò l'operazione, accompagnata da altre imprecazioni bofonchiate contro il maggiordomo, questa volta.
«Marihus!» gridò la ragazza, spazientita.
Il maggiordomo accorse, con un paio di risposte in mente, ma quando si trovò in presenza del sovrano Infero dimenticò tutto e si limitò ad aiutare la sua signora a pulire i piedi dai granelli di sabbia, tamponandoglieli con un fazzoletto. Dopo di che, fu congedato ed accolse l'allontanamento con sollievo. Quell'uomo lo inquietava. Chissà come fa quella spiantata a sopportare la sua presenza, pensò Marihus diretto verso la sua piccola tenda.
«Quando riprendiamo il viaggio?» domandò Alexya all'Infero.
«Per arrivare nella Foresta Grigia prima del calare di Svethios, conviene partire da qui al sorgere di Shillas».
Alle due di notte, quindi. Quanto siamo indietro..., stimò Alexya. Però, continuando i suoi calcoli, si accorse che avevano recuperato un giorno di viaggio avanzando a quella velocità.
«Perfetto. Alla fine ci sono otto ore di sonno, bastano ed avanzano».
Nicholas assentì. «Vengo a recuperarvi io, prima di trovarvi a testa in giù nella sabbia».
Alexya aprì la bocca per rispondere contrariata. Dopo diversi tentativi, ci riuscì. «Non è vero! Oggi avevo problemi solo perché era calda. Vedrete che tra qualche ora sarà più fredda».
L'Infero la guardò divertito e, con un movimento rapido ed aggraziato, si mise in piedi. «Allora pretendo che vi sediate al mio fianco in carrozza. Almeno non riuscirete ad addormentarvi».
La ragazza rimase senza parole. Stronzo!, lo accusò mentalmente, dato che non poteva dirglielo in faccia. Lui non solo sapeva l'effetto che le faceva, ma anche la sbeffeggiava invitandola col suo studiato garbo a stargli appiccicata per lunghe ore.  
«Vi ho sentita» le fece notare lui con un ghigno.
La Regina d'Ovest si alzò di scatto, piccata. Però, ritrovandosi di fronte a Nicholas, finì per aprire e chiudere la bocca senza pronunciare verbo. Lui non fece una piega, rimase immobile davanti a lei, in attesa.
«Non mi piace questo genere di intrusione» riuscì a dire, infine, Alexya, spostando lo sguardo di lato, per non avere dinanzi agli occhi il petto bianco dell'Infero.
Nicholas sentì la ragazza lamentarsi della sua giacca, indossata senza una camicia al di sotto, e trovò molto divertente il disagio che provava l'umana, turbamento dovuto non tanto al suo abbigliamento, quanto alla reazione di Alexya di fronte ad esso. L'Infero sollevò una mano e le sfiorò il collo, scendendo con i polpastrelli fino alla clavicola. Sarebbe andato oltre senza problemi, se lei non gli avesse afferrato il polso, stringendolo spasmodicamente.
«Vedete, milady, anche voi dovreste coprirvi di più» le fece notare, chiudendo le dita dell'altra mano su quella di Alexya. Lei non sollevò gli occhi per guardarlo, li teneva fissi sulle sue dita lunghe e bianche, forti come artigli di un'aquila. Poi mollò la presa, dopo aver indugiato a lungo sul braccio dell'Infero.
«Buonanotte» gli augurò Alexya, invitandolo ad andar via, e fece un passo indietro, i piedi nudi sulla sabbia. Non ne sentiva più il calore, avvertiva solo il bruciore della pelle dove il Re delle Terre d'Ombra aveva passato le sue dita. Aveva bisogno di ragionare lucidamente e la vicinanza dell'uomo non la aiutava neppure un po'. Le piaceva troppo la sua presenza, per permetterle di distrarsi da lui. Odiava ammetterlo, ma era così.
Nicholas accennò un inchino, sapendo con chiarezza il motivo di tale reazione della regina, e le prese la mano sinistra, per il baciamano.
«No!» lo implorò la ragazza, con tono sofferente. Ne aveva già avuto abbastanza, per quel giorno, e non avrebbe sopportato altri contatti ravvicinati con quell'Infero o sarebbe impazzita. Si morse il labbro inferiore, trattenendo il respiro, pregando che la accontentasse. Lo aveva supplicato, per quanto sapesse che lui non l'avrebbe ascolta, dopotutto che motivo aveva di farlo?
Il Re degli Inferi acconsentì solo a non toccare l'anello, perché, pur non dandolo a vedere, percepiva anche egli la scossa che lasciava sconvolta l'umana. Lui, almeno, non era reattivo come gli Uomini e questo era solo un bene. Si passò i polpastrelli della mano sinistra di Alexya sulle labbra, gli occhi fissi sul suo volto, per registrare ogni minimo cambiamento. I muscoli facciali della ragazza di contrassero in maniera impercettibile, mentre lei cercava di controllarsi. Il suo cuore, umano e fragile, pompava sangue furioso e l'Infero lo sentiva come se lo avesse avuto vicino all'orecchio. È troppo semplice, considerò Nicholas, nell'abbandonare delicatamente il suo braccio, accompagnandolo lungo i suoi fianchi.
«Buonanotte» fu tutto quel che le disse prima di voltarsi e dirigersi verso la carrozza nera, avvolto nel lungo mantello rosso sangue.

Come promesso, Nicholas si presentò all'accampamento provvisorio degli Uomini d'Ovest. Illiriha era pronta a sparire all'orizzonte, seguita da Elvitias a poca distanza da lei. Sebbene fosse notte fonda, le Lune rischiaravano il buio e rendevano la sabbia luminosa sotto i loro raggi. L'Infero trovò Alexya già sveglia e pronta, che andava in giro tra i soldati intenti a smontare le tende, controllando lo svolgimento dei lavori con Johan affianco, carica di un'energia incredibile.
«Portatevi il pranzo da consumare a cavallo» stava dicendo al capitano. Aveva saputo che il giorno prima i suoi compagni si erano fermati per mangiare un paio di volte e così erano rimasti indietro, costringendo i cavalli ed il cammello ad una corsa sfrenata per non perdere di vista la carrozza.
Johan assentì e gridò a Geq, appena sveglio, di darsi una mossa. Alexya si passò le mani nei capelli, per legarli. Una mano fredda la fermò e lei ruotò il capo, vedendosi Nicholas dietro, col mantello cremisi drappeggiato sulle spalle.
«Lasciateli sciolti» le intimò. Se avesse dovuto viaggiare col collo scoperto dell'umana così vicino, lei non sarebbe tornata allo Smeraldo viva. E Nicholas non ci teneva a sporcarsi personalmente le mani con la morte di una regina, non era nel suo stile, non in quel modo. Aveva sempre controllato il suo lato vampiro ed avrebbe continuato a farlo. Una ragazzina umana non avrebbe fatto vacillare il suo autocontrollo ferreo.
Sebbene non ne avesse compreso il motivo, Alexya fece quanto le era stato detto. I boccoli scuri le ricaddero lungo la schiena ed oscillarono.
«Siamo quasi pronti» annunciò la ragazza.
Nicholas annuì. «E comunque Shillas non è ancora sorta» precisò, rivolgendo un rapido sguardo al cielo. L'ultima Luna si intravedeva a malapena tra le dune dorate ed il suo imminente arrivo era annunciato solo da un lieve chiarore cremisi che non riusciva ancora ad offuscare la luce delle stelle.
«Geq, dannazione, dobbiamo lasciarti qui?» gridò Johan, dirigendosi verso il soldato assonnato, accucciato vicino alla tenda.
Alexya ignorò la discussione tra i due e proseguì a controllare il suo seguito, accompagnata da Nicholas che la studiava con interesse. La regina indossava un vestito leggero, di lino blu, con un corpetto ed una serie di bottoni sul davanti, che arrivavano fino al colletto rigido appena aperto. Le maniche erano strette sino ai gomiti, dove si allargavano con uno spacco. Non indossava scarpe ed i suoi piedi magri affondavano nella sabbia ad ogni suo passo. Era probabile che sarebbe andata in giro in quel modo fino alla carrozza, soprattutto dopo la scenata della sera prima.
Si avvicinarono ad Hanan e Marihus, intenti a sistemare i bagagli sulla groppa del cammello, che masticava assente ed annoiato. Non appena il maggiordomo vide i piedi nudi della sua signora, le corse incontro con un'espressione di puro orrore dipinta sul viso.
«Milady, ma che modi son questi! Vi trovo subito delle scarpe» si lamentò l'uomo e si voltò a cercare tra i bagagli qualcosa di utile. Trovò delle normali scarpe eleganti da donna, con un tacco non troppo alto e si inginocchiò ai piedi della regina, che lo guardava rassegnata.
«Non perder tempo, le indosserò una volta in carrozza. È meglio che vada in giro scalza, piuttosto che mi pulisca i piedi in pubblico» disse e Marihus non poté far altro che acconsentire, suo malgrado.
Con le scarpe in mano, Alexya terminò il suo giro e Nicholas le porse l'avambraccio per accompagnarla fino alla carrozza.
«Volete che vi prenda in braccio?» le domandò, pur sapendo quale sarebbe stata la sua risposta.
«Ma anche no» replicò immediatamente la ragazza, inarcando le sopracciglia. «Non disturbatevi, non sono una donzella sprovveduta» aggiunse.
«Mmh, lo spero proprio o la Guerra Millenaria porrà fine alla vostra giovane vita».
Alexya gli rivolse uno sguardo diffidente, mentre avanzavano nel deserto. «Perché sarei dovuta entrare in guerra, se fossi stata una piccola ed indifesa umana?»
«Le passioni di voi umani sono alquanto incomprensibili per gli immortali, ma direi per sete di fama o sciocche illusioni. Però, ditemi cosa vi ha spinta a compire questo passo».
La ragazza non rispose, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Nicholas la scrutò a lungo, ben consapevole che non le avrebbe più cavato una parola di bocca. La carrozza nera era a poca distanza da loro e la ricoprirono con pochi passi. L'Infero aiutò Alexya a salire nell'abitacolo e la seguì, chiudendosi la porta alle spalle. Il cocchiere ritirò lo scalino e fece per ritirarsi.
«Possiamo partire, milord?» domandò l'uomo.
«Attendi l'arrivo degli Uomini».
Dopo aver indossato le calzature, Alexya lasciò lo spazio per un'altra persona tra sé e Nicholas, che sembrò prendere come una provocazione la lontananza di lei. Vaenihum osservò il divertimento del proprio sovrano, distogliendo l'attenzione dalla sua lettura. Incontrò lo sguardo cauto dell'umana, mentre sentiva la mente di Irene al suo fianco agitarsi furiosa, risentita, gelosa, mentre la donna se ne stava seduta composta con portamento fiero.
«Milady, nessuno vi vuol far del male in questa carrozza» le fece notare l'Infero con tono canzonatorio.
La vostra fidanzata mi farebbe a pezzi con piacere, pensò la ragazza mentre rispondeva «Lo so, milord».
Nicholas si sporse verso di lei e con l'indice le girò il mento verso di sé. Non agisce di propria volontà, non in mia presenza, «Allora rilassatevi e godetevi il viaggio. Potete pure pormi le domande che vi assillano dall'altro giorno».
Alexya si morse le labbra. Odiava che la sua mente fosse letta da altri, i suoi pensieri erano ciò che aveva di più personale. «Come posso fare a proteggermi dalla Voce?» Non era questa la domanda che volevo fargli, si rimproverò subito dopo aver parlato.
«Ci possono riuscire anche gli umani senza magia» rispose Vaenihum, chiudendo il libro dopo averci infilato tra le pagine un segnalibro di pelle. Non sarebbe riuscito a leggere durante la conversazione tra i due sovrani, quindi tanto valeva parteciparvi. «Con un metodo molto semplice: vi serve un pensiero fisso, abbastanza forte e radicato in voi da far concentrare la vostra mente solo su questo. Appena il pensiero vacilla, la barriera crolla» spiegò l'Elfo, incrociando le lunghe gambe.
«Un pensiero fisso...», ripeté la ragazza, pensosa.
«Un ricordo, è più affidabile» le consigliò Nicholas, passandosi una mano tra i capelli. Il profumo del sangue di Alexya non lo chiamava con la forza delle altre volte, probabilmente perché si trovavano in un ambiente chiuso impregnato di altri odori che lo distraevano, come quello di erbe medicinali di Vaenihum e quello forte e pungente alle rose con cui si era cosparsa Irene. Forse c'era un modo per contrastare quel richiamo, anche se non gli andava a genio doversi trovare in luoghi affollati per ignorare il delizioso profumo. Doveva riuscire ad ottenere lo stesso risultato anche quando si fosse trovato solo con l'umana.
Alexya lanciò uno sguardo all'Infero e si ritrovò a fissare i suoi capelli, sottili e neri, posati come soffici piume di corvo sul petto bianco e muscoloso. Trasalì quando Vaenihum riprese a parlare, con la sua voce bassa e melodiosa.
«Dovete guardare dentro di voi per trovare lo scudo, intorno non ci sono altro che distrazioni».
Nicholas assunse un'espressione sinceramente divertita che sorprese non poco l'Elfo. Suvvia, Vaenihum, non essere così esplicito. Dov'è andata a finire la tua solita discrezione elfica?, lo riprese ironico il sovrano, senza rivolgergli lo sguardo, sempre fisso sul volto dell'umana, che fingeva di non aver capito cosa intendesse il braccio destro dell'Infero.
«Al momento non mi viene in mente nulla» si affrettò a dire Alexya.
«Siete distratta da altro, dopotutto» intervenne Irene, sarcastica.
Nicholas sollevò la gamba e premette il piede contro il ventre del demone, che boccheggiò. «Dovresti provare anche tu a distrarti, Irene» le consigliò, con un tono gentile che nascondeva la minaccia ben celata in quell'invito. La donna chiuse gli occhi, emettendo un sospiro tremulo, poi annuì e fu liberata dallo stivale del promesso sposo.
«Rifletterete quando sarete sola. Piuttosto, se volete pormi il vostro vero dubbio, ne sarei molto contento, milady. Non riesco a sopportare che voi vi tormentiate in silenzio» le disse Nicholas, ogni parola dolce come miele, ma vuota e priva di significato, poiché lui non provava nulla di ciò che diceva. Quel modo di fare gli permetteva di sembrare più umano, però non era altro che mera recitazione frutto di secoli di studio degli Uomini.
Alexya si sentiva profondamente turbata da quel che le aveva detto l'Infero, aveva visto che lui era freddo e privo di alcun sentimento, così si domandava cosa volesse ottenere davvero da lei. L'aveva avvicinata, cercava di legarla a sé in qualsiasi modo ed ora sapeva bene cosa le frullava in testa, eppure voleva che lei gli chiedesse di come uccidere i Myurohon ad alta voce. Inoltre, mentre ascoltava quei ragionamenti della ragazza, fingeva con aria serafica di non aver nulla in mente.
«Come fate voi Inferi ad uccidere i Myurohon?» lo interrogò, infine.
Vaenihum rivolse i suoi occhi bicolori al re, sul cui volto era apparso un ghigno. Aveva intenzione di rivelare alla ragazza ciò che solo loro due conoscevano?
Non vedo quale sia il problema, rispose Nicholas al suo dubbio.
Così la aiutate, gli fece notare l'Elfo.
Non c'è divertimento nel combattere un avversario ad armi impari. Le darò tutto ciò che le serve a rimanere abbastanza in vita per me, replicò sicuro di sé l'Infero. «Milady, questo è un discorso lungo che mi piacerebbe affrontare con voi in privato. Che ne dite di cenare in mia compagnia questa sera?»
Alexya aprì la bocca, senza parole. Con quanta scioltezza l'aveva invitata, era sconvolta! Ma non poté far a meno di accettare. Solo per le informazioni, solo per le informazioni e null'altro, si ripeté, nel tentativo di convincersi.

"Your name
Desire
Your flesh
We are
Cold"

Static-X, Cold

.-.-.-.

Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Hopke-thi Hinferion yanui!: Apriti porta delle Terre d'Ombra!
(2) Hinferion Rahan: Vita delle Terre d'Ombra
(3) Nevah: salve

Mi sa che ormai aggiornerò ogni due settimane, così ho più respiro io e se qualcuno non avesse tempo di leggere subito il capitolo, avrà ben 14 giorni (precisa, eh XD) per farlo. Sono un po' lunghi i miei capitoli, me ne rendo conto. Accumulati uccidono, forse... XD (anche se Marlu non è morta, nè? XD)
Mi è venuta in mente un'idea malsana: qualcuno di voi ha capito chi si firma come "A." nella lettera iniziale? Ci sono molti personaggi i cui nomi iniziano con quella lettera, eh eh... Rispondete, son curiosa di vedere se avete capito, ihih.
Dopo quest'idiozia, vi saluto.
Per qualsiasi cosa, dite pure!

Kanako

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII. La Foresta Grigia ***



E rieccomi! Ce l'ho fatta a correggere il capitolo, che sollievo... Sono stata in gita fino a ieri sera (giovedì), in Francia, quindi non ho potuto farlo prima, come al solito. E quando mi trovo al ridosso di una scadenza entro un po' in panico.
Spero di aver corretto tutto, altrimenti chiedo perdono e collaborazione (Dark, attendo le tue correzioni XD).
Prima di cominciare ringrazio myki, Dark Magician, Marluxia25 e berry345: grazie mille ragazze!

.-.-.-

Uomini:
Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;
Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;  
Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re d'Est;
Sarah, messaggera dello Smeraldo.

Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;
Krados di Thena, Nobile purosangue, spia reale, demone;
Molko di Thener, Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro;
Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto;
Apuh, Nobile del Clan Thener, vampiro;
Thitus, Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone;
Bhor'la, Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo.

Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio della Forza;
Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Niharn, protettrice del Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

Campi di Sangue:
Archelaos, negromante, semidio;
Laila, scheletro di Archelaos;
Arnold, proprietario della Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca.

.-.-.-.

VIII.
La Foresta Grigia



Murthen accorse dove indicatogli da una delle Driadi, che allarmata gli aveva annunciato l'arrivo di una carrozza trainata da Bardak e seguita da un drappello di uomini a cavallo. Thenaria gli teneva dietro, silenziosa e cupa, muovendosi di albero in albero, poco più di un movimento fulmineo sui tronchi cinerei. Giunto nella radura in cui si erano fermati i due gruppi, il mezzo-driade si fermò e sgranò gli occhi. Erano venuti a prenderlo. Non ci avrebbe mai sperato.
Uscì dal cerchio degli alberi, permettendo ai visitatori della Foresta Grigia di vederlo. Per primo incontrò un uomo sulla sessantina, vestito di tutto punto pure in viaggio, i capelli grigi pettinati all'indietro, lasciando scoperto il viso dai lineamenti marcati e solcato da profonde rughe di espressione. L'umano sgranò gli occhi castano scuro e si voltò di scatto verso le altre persone che erano con lui.
«Ehi, è apparso un essere dai capelli verdi!» gridò, con tono di voce allarmato.
Murthen gli andò incontro, con le mani sollevate all'altezza delle spalle. L'uomo lo guardò di nuovo, indietreggiando.
«Sono solo il maestro di palazzo di Lord Nicholas» si presentò il mezzo-driade, cercando di trasmettere la sua innocuità all'umano.
Da dietro alla carrozza nera spuntò Vaenihum, le sopracciglia inarcate, una smorfia scocciata sul viso. Perché quel mezzosangue dagli occhioni languidi doveva fare entrate in scena simili? Non erano nel suo stile, ovvio che risultava spaventoso dal punto di vista di un Uomo così pavido.
L'Elfo si avvicinò a Murthen e Marihus, che si allargava nervosamente il nodo della cravatta con l'indice destro, senza scostare lo sguardo dal mezzo-driade. Lo aveva fatto prima ed era stato un errore, perché si era avvicinato più di quanto ritenesse sicuro. Non avrebbe sbagliato di nuovo.
I due sudditi di Nicholas si salutarono con un freddo cenno del capo.
«Milord?» domandò Murthen.
«Tranquillo, tra un  po' arriva e ti cambia il pannolino» lo rassicurò Vaenihum, acido.
Marihus non aveva intenzione di passare altro tempo vicino a quelle creature. Era inutile, non riusciva a sentirsi a suo agio con loro. Nemmeno con il messaggero c'era riuscito, sebbene avessero parlato di futilità come vecchi conoscenti. Aveva bisogno di tornare tra gli Uomini, almeno erano più normali.
Però, sembrava tanto che i soldati non volessero collaborare a tranquillizzarlo. Invece di montare il campo, se ne stavano seduti per terra, le gambe incrociate, le tende chiuse nelle loro mani, nient'altro che oggetti da agitare mentre gesticolavano, presi dai loro discorsi insensati: alberi contenenti cadaveri, col sangue che scorreva nei loro vasi linfatici; dolci bestioline che conducevano le loro vittime lontane dagli altri per divorarle in santa pace; le Driadi ed i loro tranelli letali.
Il maggiordomo rabbrividì e si guardò attorno, sudando freddo. La Foresta Grigia era un posto decisamente lugubre. Immerso nella eterna penombra, dovuta alle chiome fitte ed intrecciate tra loro dei grossi alberi dalla corteccia grigio cenere, tutto il bosco pareva morto, ma bastava poggiare la mano contro una pianta per sentire con chiarezza che c'era vita sotto quella apparente immobilità. L'erba si trovava solo vicino alle radici degli alberi ed il terreno era secco e polveroso, decisamente poco accogliente per qualsiasi forma di vita vegetale. Marihus si domandava come potesse esistere un luogo del genere. Gli metteva i brividi e, se avesse pensato di passare la notte lì, sarebbe fuggito a gambe levate. Raggiunse la sua signora, intenta a discutere con Johan riguardo la sistemazione della sua tenda.
«Ma perché dobbiamo stare appiccicati agli Inferi?» domandò il capitano, a bassa voce.
Alexya roteò gli occhi, con le mani sui fianchi, poi fissò l'uomo stizzita. «Mi sembra maleducato fare altrimenti. Stiamo viaggiando in loro compagnia e non ci hanno fatto nulla. Non vedo alcun problema».
«Milady, io preferirei non ritrovarmi quell'elfo antipatico o, ancora peggio, il loro re dal viso pallido come vicini di tenda. Non riuscirei a chiudere occhio» intervenne Marihus, tormentandosi ancora la cravatta.
La regina spalancò la bocca, contrariata. Le veniva una voglia tremenda di fare il contrario di quello che loro dicevano. In quel caso, sentiva il bisogno impellente di far sistemare la tenda del maggiordomo in mezzo a quelle degli Inferi. O magari di fargliela condividere con Vaenihum. E lo avrebbe fatto, se non avessero taciuto.
«Re dal viso pallido» ripeté una voce alle spalle di Alexya lentamente, quasi assaporando ogni parola. Lei si voltò rapidamente, mentre Marihus era sbiancato. Johan inarcò le sopracciglia e lanciò uno sguardo di compassione al maggiordomo, che deglutiva terrorizzato.
Nicholas fissava i tre umani freddo ed impassibile. Si passò una mano tra i capelli, rivolgendo la sua attenzione solo ad Alexya, non più arrabbiata. Il suo arrivo l'aveva distratta, altrimenti sarebbe esplosa. Non l'aveva fatto apposta per bloccarla, ma per il semplice gusto di ricordare agli Uomini che lui era l'Infero Perfetto e che loro non erano al suo stesso livello. Quel vecchio non aveva neppure la decenza di parlare in quei termini ad una certa distanza da lui, per non fargli sentire nessuna delle sue idiozie. Portarsi in giro la sua padrona lo aveva reso troppo audace. Lo sguardo rimase puntato sul viso della ragazza, anche quando lei sospirò, gli occhi chiusi, quasi ad interrompere il contatto visivo.
«Fingete di non averlo sentito, per favore» lo pregò, risollevando le palpebre. Non avrebbe sgridato il maggiordomo davanti a Nicholas, perché così avrebbe umiliato Marihus e se stessa, dimostrandosi debole nei confronti dei suoi sottoposti. Certo, quel che aveva chiesto all'Infero non era un segno di forza, ma salvava le apparenze, creando un'illusione di controllo perfetto da parte sua. Quasi lei avesse già in mente di punire l'uomo, come lui avrebbe fatto di sicuro in una situazione simile.
Nicholas fece un cenno d'assenso col capo. «Tra un'ora vi aspetto a cena» le comunicò, con tono morbido. Però era un ordine, più che altro. Ed Alexya se ne accorse con un certo disagio. Le metteva i brividi intravedere il vero volto del sovrano, dietro quella perfetta maschera che indossava in pubblico. Avvicinarsi a lui significava anche quello? Il terrore che provò nel realizzare ciò la rese solo più determinata a non allontanarsi da Nicholas. L'aura di mistero e la spietata crudeltà che traspariva da ogni suo gesto avevano l'unico effetto di attirarla come una falena alla vista del fuoco.
«Perfetto. Avrò modo di assaggiare la cucina infera?» domandò Alexya, sorridendo.
L'Infero inarcò un sopracciglio, le labbra curvate in un ghigno. Sollevò la mano destra e le prese una ciocca di capelli posata sul petto della ragazza, che trasalì al contatto. Si attorcigliò il boccolo attorno all'indice, senza distogliere lo sguardo dalle iridi verdi. «Vedremo» le rispose, allusivo. Sapeva che lei non sarebbe arrossita, ci aveva provato in tutti i modi durante il viaggio. Si sarebbe divertito solo a provocarla, perché sapeva che reagiva, eccome, a quel tipo di sollecitazione.
«B-bene...» rispose Alexya, gli occhi puntati sul dito bianco e lungo del sovrano, attorno al cui c'erano i suoi capelli. Vide con un brivido gli artigli affilati, vicini alla sua pelle, che avrebbero potuto rendere letale una sua carezza. Si morse il labbro inferiore, pregando che lui rompesse quel contatto il prima possibile.
Con un gesto fluido, Nicholas liberò il boccolo della regina e fece per sfiorarle una guancia, calda e delicata. Ma lei fece un passo indietro, tormentandosi ancora le labbra, un'espressione sofferente negli occhi. Stava lottando con se stessa, una scena sublime. Gli angoli della bocca dell'Infero si piegarono all'insù, impercettibilmente.
«Non vedo l'ora di riavervi con me» le disse.
Dopo di che, Nicholas ruotò su se stesso e si allontanò, il mantello cremisi ondeggiante alle sue spalle, una macchia di color sangue nella semioscurità della Foresta Grigia.

Helena allentò la stretta delle dita sulle posate, man mano che rifletteva su quanto le aveva detto sua cugina meno di un'ora prima. Certo, l'aveva saputo il giorno precedente da Johan, ma era davvero terribile sentire Alexya così frizzante perché in viaggio con il Re degli Inferi, nonché un suo nemico a causa della sua brillante idea di entrare nella Guerra Millenaria. Possibile che quella ragazza fosse tanto incosciente? Non si rendeva conto delle sue scelte? A volte non sapeva proprio cosa pensare.
Abbandonò le posate ai lati del piatto, una bistecca con contorno di verdure fresche. Non aveva fame, non più. Guardò il pezzo di carne. Alexya poteva finire così, continuando a giocare col fuoco. Un pensiero sciocco, ma entra troppo angosciata per elaborarne uno migliore, sofisticato. Lord Nicholas non era esattamente la creatura adatta a fare da balia alla cugina: l'Infero era più simile ad una belva feroce che studiava con aria sorniona le sue possibili prede, scegliendo quella che gli avrebbe dato più divertimento ed iniziava ad attirarla nella sua tela, giocandoci come fanno di solito i cani da caccia con la selvaggina, per poi distruggerla. Helena si prese la testa tra le mani, gli occhi chiusi per non guardare il contenuto del suo piatto.
Zephiro allungò una mano verso il cestino di mele e ne prese una, gialla con sfumature rosse, dall'aspetto molto appetitoso. Lanciò uno sguardo fugace alla donna e fermò il frutto a poco dalle sue labbra, quando la vide così preoccupata.
«Cosa succede, Helena?» le domandò con dolcezza.
La regina sollevò immediatamente il capo verso di lui, l'azzurro dei suoi occhi sembrava aver preso vita ed agitarsi a seguito dei pensieri che riempivano la mente di Helena. Il dio dei Venti afferrò i braccioli della sedia e la spostò vicino al posto a capo tavola, dove sedeva la donna. Le mise una mano sul braccio, fissandola fermamente, per incoraggiarla a parlare.
«Alexya sta viaggiando con Lord Nicholas» mormorò Helena, come se, pronunciando quelle parole a voce troppo alta, si sarebbero verificate. Peccato che fosse tutto vero e lo sapesse bene.
Zephiro sorrise e scosse il capo. Poi sollevò la mano e accarezzò assorto una guancia della regina, godendosi la morbidezza della sua pelle, mentre la nostalgia si faceva sentire. Interruppe il contatto col suo viso, per riportare il suo arto sul braccio di Helena, coperto dall'ampia manica del vestito azzurro.
«Ti prego, non agitarti così tanto, morirai giovane se continui su questa strada» le suggerì, apprensivo ed ironico.
Helena aggrottò le sopracciglia, sollevando lo sguardo verso quello del dio. Un discorso del genere gliel'avrebbe fatto solo Alexya, non se lo sarebbe mai aspettata dal Signore dei Venti.
«Sapevo che avrebbe funzionato» disse trionfante Zephiro. Si sporse verso di lei e le lasciò un delicato bacio sulla fronte.
La regina rimase ancor più perplessa. «Avete parlato deliberatamente come mia cugina?» gli domandò. Più che altro si chiedeva come potesse aver capito così bene il comportamento di Alexya nei suoi confronti.
Zephiro le passò le dita tra i capelli, con un sorrisetto. «Certo; ho visto che lei riesce a farti distrarre dalle tue preoccupazioni, provocandoti» replicò, rivolgendole un rapido sguardo.
La donna sospirò e rilassò le spalle. Era vero. Se la si lasciava sola con i suoi pensieri, non le si dava una mano. Tanto meno se si cercava di farla parlare a riguardo. Aveva bisogno di distrazioni, doveva trovarsi qualcosa da fare che non avesse nulla a che vedere con le sue solite occupazioni. Guardò Zephiro, intento ad osservare i riflessi sui suoi capelli biondi pettinandoli con la mano, mentre l'altra stringeva la mela intonsa.
«Ti ringrazio, divino» fu quanto disse Helena, accennando un sorriso.
Il dio dei Venti colse il rapido movimento delle labbra della regina e si sorprese. Non avrebbe mai sperato di vedere un sorriso così sincero sul suo volto. Il cuore gli mancò di un battito e lui ritrasse la mano, in preda a qualcosa che non capiva completamente. Riconosceva quella sensazione, era la stessa che lo aveva fatto condannare da Al. Un motivo ingiusto, ma pur sempre causa della sua prigionia. Si portò la mela alla bocca e le diede un morso, con forza, sentendo i denti affondare nella polpa croccante, il succo dolce bagnargli la lingua. Iniziò a masticare, con lentezza, gustandosi il boccone.
«Domani dovrebbero cominciare ad arrivare i nobili dei feudi della frontiera. Volete farvi vedere da loro, o no?» gli chiese Helena, riprendendo a mangiare.
Zephiro guardò la carne, mentre veniva tagliata, poi sollevò gli occhi di pece verso il viso della donna.
«Voglio divertirmi: fingerò di essere un banale semidio e proverò a sentire i loro discorsi, che ne dici?» le rispose, per poi addentare la mela.
Helena, pensierosa annuì e parlò prima di portare alla bocca la forchetta con infilzato un pezzo di carne. «Potrebbe essere un'idea».
Il dio dei Venti sorrise, dispettoso. Quant'era abituata ad essere di rango superiore, quella donna! Non diceva di sì nemmeno a lui. «Perfetto, farò così. Alla festa mi presenterò per quel che sono, anche se farebbe comodo continuare in incognita, almeno potrei toglierti un pensiero ascoltando i pareri dei nobili riguardo alla scelta di tua cugina».
«Ufficialmente dovrebbe sapersi solo quel giorno, purtroppo gli Anziani ne sono già a conoscenza. Quindi i nobili loro alleati saranno già informati, farebbe comodo sapere chi sono» mormorò Helena, tagliando con foga la bistecca.
Zephiro morse la mela, la fronte aggrottata. Quello era un bel problema. Avrebbe reso Helena ancora più ansiosa. Purtroppo contro gli Anziani era meglio non far nulla. Loro lo rispettavano come Divinità, solo per quello, e gli conveniva, forse, approfittare di quel riguardo quando ne avesse avuto la reale necessità. Per placare la preoccupazione di una donna umana si sarebbe dovuto scervellare da solo. Una bella sfida. Dubitava di riuscirci. Ma tanto valeva tentare.

Vaenihum si addentrò nella foresta, lontano dagli umani chiassosi, alla ricerca delle piante di cui doveva rifornirsi e di un po' di tranquillità. La quiete che regnava nei loro viaggi, turbata da un manipolo di Uomini rumorosi, lenti e fastidiosi. Era tremendamente seccante. Ed erano poche le cose che gli facevano provare qualcosa di diverso dall'indifferenza.
Nicholas era pochi passi dietro di lui e, quando l'Elfo si fermò a raccogliere ciò di cui aveva bisogno tra le radici di un albero, si poggiò con la schiena ad un tronco vicino, le braccia conserte, lo sguardo rivolto al folto della foresta.
«Non dovrei dirlo, milord, ma non comprendo il vostro interesse per quell'umana» rifletté Vaenihum, afferrando una pianticella dall'aspetto poco vivo, per studiarla col tatto prima di sradicarla dal suolo secco.
«Fingerò di non aver mai sentito un'idiozia simile» replicò gelido Nicholas, senza rivolgergli lo sguardo. «Non farmi credere di averti sopravalutato, non mi piace sbagliare».
Vaenihum si raggelò. Cos'aveva detto di errato? Gli era già capitato di aver qualche problema a comprendere i piani di Nicholas, in passato, ma mai lui gli aveva risposto in quel modo. Il suo fine era così ovvio che avrebbe dovuto essergli già chiaro?
«Allora perdonatemi, mi avete sopravalutato». L'Elfo si voltò verso il suo signore, che teneva ancora gli occhi fissi altrove. Poco dopo, però, Nicholas gli rivolse un'occhiata sprezzante.
«Cerchi la morte» constatò l'Infero, lapidario.
Vaenihum deglutì, ma sostenne lo sguardo del re. Non gli piaceva la piega presa da quella conversazione. Iniziava a sentirsi a disagio. Il che non era un segno positivo, anche se era Nicholas a provocargli quella reazione, lui l'unico capace di turbarlo. Chinò un attimo il capo, gli occhi fissi in quelli dell'Infero. «No, solo l'illuminazione» lo contraddisse, di proposito. Sarebbe stato più saggio tacere, eppure non lo fece.
Nicholas non reagì a quella velata provocazione. Servile e sarcastico, Vaenihum era sempre stato così, anche se non lo dava a vedere. In quel caso, comunque, si domandò se i suoi progetti per la regina umana fossero troppo contorti anche per la persona che ragionava nel modo più simile al suo. Lo avrebbe accontentato, non gli serviva a niente un braccio destro ignaro dei suoi piani, tanto meno morto.
«Allora ti basteranno pochi indizi per dimostrarmi di essere degno della tua posizione: è a capo dell'esercito che avremo contro nella prossima stagione bellica, sa poco o nulla del mondo reale, è completamente digiuna di magia».
Vaenihum batté le palpebre, dichiarandosi così sconfitto in quella guerra di sguardi affilati. Poi sgranò gli occhi, mentre un pensiero lineare e plausibile si faceva spazio nella sua mente.
«Oh» commentò, davvero sorpreso. «Oh, mi piace. Non c'avrei mai pensato».
«Potevi evitare la seconda parte del discorso, ti saresti umiliato di meno» gli fece notare secco Nicholas. «Era l'idea più logica e banale, chiunque avrebbe scelto questa strada».
L'Elfo scosse il capo energicamente. Le erbe da raccogliere erano andate a farsi benedire. Al momento aveva perso qualsiasi interesse per quell'occupazione. I percorsi mentali dell'Infero non facevano altro che spiazzarlo. In situazioni del genere capiva perché aveva insistito tanto per mettersi al suo servizio quando ancora non lo conosceva così bene. Era stupefacente. Per un amante della ricerca e della conoscenza come lui, il Re delle Terre d'Ombra era l'oggetto di studio ideale.
«Per Fato, milord, vi sottovalutate».
«No, io sono appena realista. È il resto del mondo che si rivela sempre inferiore alle aspettative» ribatté Nicholas, con un tono che non ammetteva repliche. Poco dopo, sentì dei movimenti nella foresta e rivolse lo sguardo verso i lievi fruscii, i sensi all'erta. Driadi in avvicinamento.
Dall'ombra più fitta degli alberi a pochi passi dai due uomini emersero tre donne, dalla pelle di diverse tonalità di verde, gli occhi grigi, i capelli simili a rami di piante rampicanti, aggrappate ai loro corpi sottili e flessuosi. Il trio di Driadi si fermò breve distanza da Nicholas e Vaenihum, in guardia.
Una variazione di energia attirò l'attenzione del sovrano. Alle sue spalle, nel tronco, era comparsa Thenaria. La dea della Terra emerse col busto dall'albero e cinse Nicholas con le braccia esili, la carnagione cinerea del tutto simile al colore delle foglie della Foresta Grigia. Era l'essenza della Divinità presente in quel luogo a conferire tale aspetto al bosco.
«Nephas...» sussurrò Thenaria, dolcemente.
«No, non c'è» replicò Nicholas, con freddezza, senza comunque allontanare la donna da sé.
La dea tremò e, chiudendo gli occhi, emise un sospiro tremulo, tradendo sofferenza. Scivolò fuori dal tronco, distaccandosi dalla corteccia grigia dell'albero. Sciolse per poco l'Infero dalla sua stretta, per portarsi davanti a lui e prendergli il viso bello e algido tra le mani.
«Mi avevi promesso che avrei parlato con lui» gli ricordò Thenaria, la voce poco più di un molle mormorio.
«Nella prossima stagione bellica, Thenaria. Il momento non è ancora giunto» replicò Nicholas.
Sempre la solita storia. Lo infastidiva l'insistenza di quella donna, ogni volta che metteva piede nella Foresta Grigia gli faceva la stessa richiesta, immancabilmente. E lui la accontentava, per avere il bosco a sua completa disposizione. Installare l'accampamento degli Inferi in quel luogo era conveniente, perché le Driadi e la dea li proteggevano da possibili attacchi sorpresa delle Divinità. Inoltre, quello significava avere donne a sufficienza per sé ed i soldati. Non c'erano città in quella zona dei Campi di Sangue ed aveva stretto un patto con i signori delle frontiere, in passato, affinché lui non permettesse ai suoi Inferi di far scorribande nei villaggi del Regno d'Ovest o del Sud. Altrimenti si sarebbero alleati con le Divinità, il che era controproducente. In tal maniera, illudendo Thenaria di esser controllato da Nephas che desiderava parlarle, aveva solo da guadagnare. Non gli importava niente dei sentimenti della dea. Era lei la sciocca, così innamorata, che nemmeno si rendeva conto che le sue pretese erano insensate e che lui si prendeva solo gioco di lei.
«Hai ragione» mormorò la dea della Terra, lasciando scivolare le mani dalle dita lunghe e pallide sul petto marmoreo di Nicholas. Abbassò gli occhi, interamente neri, privi di sclera, ed il loro movimento fu imitato dal capo della donna. I capelli sottili come ragnatele e dello stesso colore le ricaddero sul volto, nascondendo anche la metà sinistra, non sfigurata, e sui seni nudi. «Però mi manca».
Vaenihum si costrinse a non risponderle, mordendosi le guance. Sì, anche a me, le avrebbe detto, sbeffeggiandola. Nicholas non faceva altro che concederle una notte in sua compagnia, dicendo di essere controllato da Nephas, quando la realtà era che lui fingeva di esserlo. La sua era recitazione pure e quella dea, accecata da un amore mai corrisposto, si crogiolava in quella splendida illusione che l'Infero le offriva, per usare lei, il suo ruolo ed il suo potere.
«Devo solo aspettare quel che rimane di Aozheti e tutta Idierti. Non è così tanto tempo, paragonato all'eternità» disse Thenaria, cercando di convincersi. Fece un passo indietro, allontanandosi dal re Infero, le mani in procinto di staccarsi dal suo petto freddo. Sollevò lo sguardo verso gli occhi argentati di Nicholas, attraverso la cortina di capelli iridescenti. Abbozzò un sorriso sofferente e indietreggiò ulteriormente. «Manterrai la promessa, vero?».
«Ho mai fatto altrimenti?» rispose l'Infero, gelido.
Thenaria chinò il capo di lato e continuò a camminare all'indietro fino a toccare un albero con le spalle. Era molto vicina a Vaenihum, che ne approfittò per vedere dal vivo la fusione della dea con la corteccia grigia della pianta. La donna aderì al tronco e si lasciò risucchiare lentamente da esso, sotto lo sguardo interessato dell'Elfo.
«Allora... a Shadwanri» salutò Thenaria, assorbita dall'albero grigio.
Quando anche l'energia della dea sparì, le tre Driadi accennarono un inchino a Nicholas e tornarono ad immergersi nell'oscurità della foresta, senza un fruscio ad accompagnare i loro movimenti.

Alexya inspirò ed espirò tre volte, cercando di calmarsi. Era nervosa, tesa, eccitata. Le dava fastidio sentirsi in quel modo, soprattutto perché immaginava che Nicholas fosse perfettamente impassibile in quel momento. Nella sua mente, lo vedeva seduto davanti al tavolo, tranquillo e preso dai suoi pensieri, col volto imperscrutabile. Ho passato troppo tempo con lui, per Al, Adele e tutti gli dei!, si lamentò la ragazza. Il pensiero di essere l'unica sconvolta dalla vicinanza tra lei e l'Infero la metteva di pessimo umore, non voleva far la figura dell'umana debole e sentimentale. Aveva un orgoglio lei! Prese un'altra boccata d'aria, la gonna stretta tra le mani, ed entrò.
Nicholas le gettò una rapida occhiata appena la vide sbucare dall'ingresso della tenda, illuminata da fiaccole poste ai quattro angoli di essa, con un candeliere al centro del tavolo di legno grigio, quadrato ed elegante, con affianco due sedie dello stesso materiale. La ragazza inarcò le sopracciglia e fu sul punto di domandarsi come potessero gli Inferi portare con loro tanto arredamento. La magia, si ricordò seccata, rimproverando la sua ingenuità. Se lei era un'incapace, non significava che tutti lo fossero.
L'Infero tirò indietro la sedia su cui era accomodato e si mise in piedi, per raggiungere con due ampie ed eleganti falcate la sua ospite, immobile davanti al tessuto che chiudeva l'ingresso al baldacchino.
«Milady, avete intenzione di cenare in piedi? Vi farò compagnia, se sono queste le vostre intenzioni» le disse, afferrando la sua mano con un gesto sbadato solo all'apparenza. La sua stretta era salda e mirava ad attirare l'attenzione dell'umana su di sé. Non l'avrebbe fatta distrarre, era entrata nella sua tana ed ora lui sarebbe stato il suo unico interesse, finché non l'avesse liberata.
Alexya ruotò gli occhi verdi e guardò di traverso il sovrano Infero, sentendo con chiarezza il contatto con la sua pelle fredda. «Dopo tutte le ore di viaggio passate seduta, mi farebbe bene, in teoria. Ma credo proprio che farò la pigra e mi siederò al tavolo, con voi». Abbozzò un sorriso, attendendosi una reazione simile da Nicholas. Lui, invece, si portò la sua mano sinistra alla bocca e le baciò l'anello, con lo sguardo d'argento fisso nel suo, mentre la reazione del tatuaggio non si fece attendere.
«Ne sono lieto» replicò l'Infero, contro la sua pelle, accarezzandogliela col gelo del suo fiato.
Si sedettero al tavolo, apparecchiato con una tovaglia nera, bordata d'argento, coordinata alle tende del gruppo di Inferi. Su di essa, i piatti di forma quadrata spiccavano bianchi, accompagnati dalle posate ed i calici d'argento: scelta non casuale, notò la ragazza, perché quel metallo si sarebbe ossidato in presenza di veleno nel cibo o nelle bevande; una misura difensiva per lo stesso Nicholas, un eloquente messaggio per Alexya. Si trattenne dal guardare il sovrano, sentendo il peso dei suoi occhi penetranti.
Murthen fece il suo ingresso nella tenda, con un vassoio contenente un piatto ellittico ed un boccale di vino. Lasciò tutto sul tavolo ed uscì, per tornare altre tre volte, finché non annunciò di aver terminato ed augurò un buon appetito ad entrambi i sovrani.
Nicholas allungò la mano verso la prima portata e sollevò il coperchio, scoprendo l'antipasto composto da piccole porzioni diverse. Riempì entrambi i piatti e fece lo stesso col vino. Iniziarono a mangiare, senza fiatare, la ragazza con gli occhi bassi, concentrata su se stessa per non avvertire con chiarezza le iridi argentee dell'Infero seguire ogni suo movimento.
«Siete silenziosa. Imbarazzo o paura, milady?» la provocò Nicholas, portando alla bocca il calice di vino.
Alexya sollevò di scatto gli occhi, con un'espressione irritata sul volto. Quando si accorse che l'Infero le aveva detto quelle parole proprio per ottenere simile reazione, si diede della stupida. Sospirò e rilassò le spalle.
«Imbarazzo» rispose sinceramente.
Nicholas ghignò, per nulla sorpreso, e riportò sul tavolo il bicchiere. «Come siete soliti dire voi umani, non ho intenzione di mangiarvi» disse e aggiunse, poco dopo, con un ghigno poco rassicurante, «Per ora».
La ragazza ridacchiò e portò un boccone alle labbra. «Significa che provvederò a nutrirmi bene, cosicché voi non mangiate un mucchio di pelle ed ossa».
L'Infero portò la mano destra sul petto ed accennò un inchino col capo. «Molto gentile da parte vostra, vedrò di sdebitarmi».
La tensione, che Alexya aveva percepito fin da quando aveva messo piede in quella tenda, non era svanita, si era solo allentata un po'. Ma questo già la rasserenava il minimo indispensabile perché riuscisse a spiaccicar parola.
«Milord, mi avevate invitata per parlarmi di come voi Inferi uccidiate i Myurohon in battaglia...» gli ricordò la ragazza, cauta.
Nicholas saltò la prima portata, per passare direttamente alla carne. Murthen gli aveva messo da parte quella più al sangue. Perfetto. Si riempì il piatto con quella pietanza e cominciò a tagliarne un pezzo, rivolgendo gli occhi all'umana. Ghignò guardandola, mentre il liquido cremisi iniziava a bagnare la bianca ceramica.
«Lo so» replicò lui, senza andare oltre, enigmatico.
Alexya si fece più audace a quella risposta. Voleva ad ogni costo quelle informazioni e se lui aveva intenzione di condurre il gioco, allora lei avrebbe cercato di vincere. Non voleva farsi mettere i piedi in testa da quell'Infero, per quanto potesse essere attraente e scaltro.
«Quanto a lungo dovrò aspettare? Io non ho l'eternità davanti a me, milord, e per i mortali il tempo è molto importante» insistette la ragazza, mettendo nel suo piatto un pezzo di focaccia, accompagnata da un sugo di carne in cui intingerla.
L'Infero portò in bocca la forchetta, mentre qualche goccia di sangue scivolava lungo la sua superficie. Teneva lo sguardo fisso in quello della giovane regina, impassibile nonostante lei avesse osato più del solito. Stava iniziando ad alzare la testa, quella ragazzina. Era indeciso se farla diventare ancora un po' spavalda, prima di ricordarle la sua superiorità, o non attendere oltre. Alla fine, scelse di divertirsi e non le rispose, attendendo che lei rincarasse la dose. Masticò la carne in silenzio, tagliandone un altro pezzo.
Alexya guardò il piatto macchiarsi di rosso, mentre aspettava che Nicholas facesse qualcosa di diverso dal mangiare o tacere. Quando lui schiuse la bocca per accogliere un altro boccone, la ragazza di spazientì ed abbandonò malamente le posate, facendo far loro rumore contro la ceramica. Batté le mani sul tavolo, sporgendosi in avanti, verso l'Infero che manteneva un'espressione di gelida impassibilità sul volto. Quanto meno lui reagiva, tanto più lei s'infervorava.
«Insomma! Cosa vi costa rispondermi! Siete stato voi ad invitarmi, abbiate almeno la decenza di mantenere la parola data!» esclamò Alexya, la fronte corrugata per la rabbia.
«Non siete venuta qui per quelle informazioni, milady, anche se vi piace illudervi di questo» replicò l'Infero, sorseggiando il vino, il coltello nell'altra mano.
Alexya strinse i denti ed i pugni. «Io ho accettato l'invito perché voi mi avete promesso di parlarmi dei Myurohon» ribatté, cercando di controllare la furia.
«Io non ho fatto alcuna promessa».
«Voi dite così solo perché mettete il vostro dannato naso nella mia mente, sapete tutto in questo modo! È un gioco sleale, voi non fate altro che essere scorretto» si lamentò Alexya, alzando la voce.
«Mi avete chiesto di fare altrimenti? No. Avete fatto di in modo di proteggervi? No. Avete rifiutato l'invito a giocare? No. Ora ne pagate le conseguenze. E lo dovete fare in silenzio, perché è stata la vostra ingenuità, o stupidità che dir si voglia, a farvi arrivare a questo punto. Tutti hanno cercato di mettervi all'erta, ma voi avete ignorato chiunque, come una bambina. Questo è tutto, la colpa è solo vostra e delle vostre scelte infantili».
La Regina d'Ovest si raggelò, la bocca aperta e gli occhi appena sgranati nel sentire quelle parole. Distolse lo sguardo dall'Infero, facendolo vagare nervosamente nella tenda, senza sapere cosa rispondere, cosa pensare. La sua mente era svuotata da qualsiasi pensiero coerente, piena solo delle parole di Nicholas e del suo orgoglio che gridava, ferito.
«Non siete abbastanza forte per risolvere questa situazione, milady. Perciò potete solo accettare le mie regole. Nessuna alternativa diversa vi è offerta» proseguì Nicholas, posando il calice vuoto sul tavolo.
«Posso ancora schermare la mia mente...» biascicò Alexya, guardando per terra, la testa appena china.
«Non mi pare che voi abbiate ricordi abbastanza forti per riuscirvi» replicò l'Infero, il gomito sinistro sul tavolo, il mento retto dalla mano mancina. La luce tremula delle candele gettava sul suo viso dalla perfezione marmorea ombre minacciose, mentre facevano brillare l'argento dei suoi occhi.
Alexya si umettò le labbra e fece per dire qualcosa per salvarsi.
«Volete che ve ne doni uno?» le propose Nicholas, anticipandola, con una nota di malizia nella voce.
Gli occhi verdi della regina scattarono verso il suo viso e la fronte si corrugò lievemente. Era tentata dal chiedergli aiuto, nonostante tutto quello che le avesse detto. Lui aveva ragione, detestava ammetterlo, ma il re non riusciva ad essere nel torto in nessun caso. Che lei accettasse o meno la realtà, quella era un'altra faccenda. Le era piaciuto illudersi, pensando che forse lui le dedicasse più attenzioni che alle altre, dopotutto l'aver fatto ben tre soste durante il viaggio per farla mangiare o sgranchire era qualcosa di insolito, secondo lei. Ma forse quelle erano cure dovute ad un giocattolo umano come lei, affinché non si spezzasse troppo in fretta. Era una sciocca, un'ingenua, e si stava umiliando da sola davanti a quell'Infero. No, non avrebbe lacerato ulteriormente il suo orgoglio facendosi dare una mano a proteggersi dalla stessa persona che era la causa di tutto ciò. Doveva riuscirci da sola, al massimo chiedendo aiuto ad Helena. Ecco, di nuovo, lo stava facendo di nuovo. Stava cercando un altro appiglio, ora che il precedente si era rivelato troppo insicuro. Si morse il labbro inferiore.
Nicholas osservò deliziato la confusione della ragazza, rigirandosi il coltello sporco di carne, sugo e sangue nella mano. Quando la regina batté le palpebre, lui la vide drizzarsi.
«No, non ho bisogno di nient'altro da voi al di fuori delle informazioni sui Myurohon» rispose Alexya, gli occhi chiusi nel parlare.  In seguito, rivolse uno sguardo determinato al sovrano.
L'Infero fermò il movimento della lama, stringendola con forza. Testarda, quella ragazzina era tremendamente testarda.
«Allora dovrete attendere la fine della cena per vedere il vostro desiderio soddisfatto» disse Nicholas, scegliendo quelle parole ambigue con attenzione.
Alexya si mostrò contrariata. Spinse indietro la sedia, le mani strette al bordo del tavolo, e si alzò da essa. «Per quanto mi riguarda, io ho finito» annunciò la regina, secca.
Il Re delle Terre d'Ombra le rivolse uno sguardo gelido che la fece indugiare un attimo. Giusto il necessario perché Nicholas allungasse verso di lei tentacoli invisibili del suo potere e la attirasse sul tavolo, con violenza. Alexya trattenne il fiato, mentre sentiva i cocci rompersi ed il resto delle stoviglie cadeva al suolo con fragore. Non riuscì a muovere un dito, supina sul tavolo, schiacciata dal potere dell'Infero.
Il viso di Nicholas spuntò nella sua visuale, immobile e freddo.
«Infantile». Una sola parola che ebbe l'effetto di uno schiaffo, umiliante e bruciante.
Alexya cercò di agitarsi, infuriata e ferita nell'orgoglio.
«No, milady, non sono disposto a transigere su questi comportamenti stupidi. Se mi dimostrerete ancora di essere una mocciosa, non esiterò ad uccidervi. Non amo sprecare il mio tempo» continuò Nicholas, poggiando le mani sul tavolo e sovrastando la ragazza, implacabile.
«Stavate perdendo tempo sin dall'inizio. Qualsiasi cosa vogliate, non l'avrete» rispose l'umana, mostrando i denti noncurante ormai del contegno.
Nicholas trattenne una risata, tirando le labbra in un ghigno ed inarcando le sopracciglia, sarcastico. «Oh, certo. Continuate ad illudervi. Voi mi donerete ogni cosa di vostra spontanea volontà» la aizzò, con tono beffardo. La liberò dalla sua magia, perché voleva vedere cos'avrebbe fatto lei.
Alexya si mise a sedere, sul tavolo, non sentendo più la pressione del potere dell'Infero sulla pelle. Pur non riuscendo ad utilizzare i poteri magici, aveva percepito chiaramente quelli di Nicholas, come una presenza fisica invisibile. Si voltò verso di lui, perplessa, la rabbia tramutatasi in sorpresa.
Murthen, avendo sentito rumore, fece capolino nella tenda, con cautela. Non voleva interrompere il suo signore, ma quando scorse la regina seduta sul tavolo, i capelli scarmigliati ed il vestito scomposto, e Nicholas sulla sedia, un ghigno stampato sul volto, si tranquillizzò un po'. Non era ancora successo niente, anche se tutto il servizio da tavola era rovesciato sul terreno. Ritrasse la testa e si allontanò, ben sapendo che il re aveva notato la sua comparsa, pur senza darlo a vedere.
«Volete un ricordo per proteggervi la mente o preferite perseverare nella vostra illusione?».
Alexya aggrottò la fronte. Aveva intuito che Nicholas non era tipo da fare offerte così generose. Sembrava quasi preoccupato per lei. Eppure, immaginava che ci fosse un tranello in quella proposta.
«No, non sono così debole» rispose la ragazza, decisa.
«Gli uomini amano illudersi».
La regina strinse i denti. Continuava provocarla, a minacciarla, e lei si comportava esattamente come lui voleva. Si stava facendo manovrare, non si stava nemmeno impegnando a liberarsi dal suo influsso negativo. In quel momento sentiva l'ira minacciare di esplodere, ben sapendo che lui mirava a quel risultato con le sue parole.
Nicholas allungò le mani e l'afferrò per il bacino. La trascinò verso il bordo del tavolo e la fece finire sulle sue ginocchia. Alexya rimase sbigottita, ma non riuscì a ribellarsi. Si limitò a posare le mani sul suo petto, per mantenere a tutti i costi una distanza di sicurezza, al fine di salvaguardare la sua salute mentale.
«Siete debole, milady» le fece notare lui, di nuovo, con un ghigno. «E non siete capace di fare una scelta sensata. Quindi farò di testa mia».
«Lo avreste fatto comunque» brontolò Alexya, aggrottando le sopracciglia.
Il re Infero mantenne il sorrisetto di prima, con un braccio attorno alla vita della ragazza, mentre l'altra mano sostava indecisa sulla gonna di essa. Aveva fatto la scelta più sadica, quando i suoi sensi furono messi all'erta dalla Voce di qualcuno molto vicino. Un qualcuno che conosceva bene.
«Milady, sapete combattere spero».
«Che domande...» fu il commento di Alexya, che roteò gli occhi, pur di distrarsi dalla vicinanza dell'Infero.
«Allora usate il pugnale che avete nascosto sotto il vestito e mantenetevi in vita» le intimò, facendo seguire alle parole il movimento della mano libera, che le sollevò appena la gonna, quanto necessario per infilarsi sotto di essa e sfiorare con le dita la custodia della lama assicurata alla coscia della regina.
Alexya trasalì, mentre le mancava il fiato. Strinse con forza la giacca di Nicholas, la fronte premuta contro il suo collo duro come il marmo. Cercò di riprendersi, mentre lui ghignava, conscio della sua reazione. Lo divertiva vedere come la ragazza si comportasse, involontariamente, proprio come lui desiderava. Però, se avesse continuato a mostrarsi così prevedibile, si sarebbe stancato presto di lei.
«Ora che ho qualcosa per cui combattere non sarà facile uccidermi» rispose Alexya, a fatica, cercando di dominarsi.
«Meno male. A farlo sarò solo io» ribatté Nicholas, stringendola contro di sé, per il puro gusto di farla soffrire. Solo tormentandola poteva ignorare il delizioso odore del suo sangue. Da quando aveva messo piede in quella tenda, quel profumo lo aveva tentato e lui lo aveva combattuto provocando la causa di quella seccatura. Piccole e sciocche soddisfazioni che contribuivano a non farlo piegare davanti agli istinti che aveva sempre controllato con cura maniacale.
Alexya non si mosse, domandandosi il perché di quelle parole ambigue. Sentì il volto di Nicholas ruotarsi nella sua direzione, mentre i capelli corvini scivolavano sul petto, oltre le spalle. Le labbra tra i suoi ricci, l'Infero parlò, accarezzandola col fiato gelido, «Myurohon».

"I'm not like you
My life flashes before my eyes
No, I'm not like you
The truth turns me upside down"
Pain, Walking on glass

.-.-.-.

  Aozheti, Idierti, Shadwanri: rispettivamente stagione del declinio (autunno), stagione del riposo (inverno), mese dei venti (il terzo dell'anno) - il calendario del Mondo Profano è composto da tredici mesi di ventisette giorni e segue le fasi delle cinque Lune e la rotazione dei tre Soli attorno al pianeta (anche se è un sistema eliocentrico, non si può mica pretendere che anche loro abbiano Copernico, Galileo Galilei e Keplero u___ù). Le stagioni sono quattro ed oltre a quelle sopraccitate esistono Pherzti (stagione della rinascita - privamera) e Esharti (stagione della crescita - estate). La stagione bellica di cui parla Nicholas è quella compresa tra la fine del mese di Shadwanri (il penultimo della primavera) e l'inizio di Dhurmastri (mese delle pioggie, il settimo)

Dopo questa piccola nota avrete capito che il mio masochismo non ha limiti, tanto che ho persino creato un calendario (ho dato il nome persino ai giorni della settimana .-.). Tuttavia, la mia filosofia è "se si deve fare una cosa, va fatta al meglio", perciò eccomi ad inventare tutto. Almeno sono in pace con me stessa, nè... ;]
Il prossimo capitolo spero di poterlo pubblicare tra 14 giorni, dipende tutto se riesco a concludere quello che sto scrivendo da tre settimane circa. Non voglio finire i capitoli di scorta, sennò mi sento l'acqua alla gola il che peggiora la situazione.
Perciò, pregate che l'ispirazione mi degno della sua attenzione e che la mia vita privata non mi distragga più del dovuto (a volte preferirei davvero vivere nel Mondo Profano...).
Alla prossima e, se oltre ai soliti, qualcuno ha il piacere di lasciarmi un breve messaggio ne sono contenta. Se ci sono tre pazze che mi lasciano commenti chilometrici, non significa che anche gli altri debbano fare lo stesso (anche se io adoro le suddette folli *w*).
Alla prossima!

Kanako

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Capitolo 9
*** Capitolo IX. Attacco ***


Eccomi di ritorno. Il capitolo 10 non è concluso, ma manca un solo paragrafo ed è troppo tempo che non aggiorno.
Ringrazio Dark Magician, myki, marluxia25, berry345 e olghish per i commenti.

.-.-.-.

Uomini:
Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;
Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;  
Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re d'Est;
Sarah, messaggera dello Smeraldo.

Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;
Krados di Thena, Nobile purosangue, spia reale, demone;
Molko di Thener, Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro;
Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto;
Apuh, Nobile del Clan Thener, vampiro;
Thitus, Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone;
Bhor'la, Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo;
Murthen, mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.

Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio della Forza;
Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Thenaria, dea della Terra, protettrice del Regno del Nord, signora della Foresta Grigia e delle Driadi;
Niharn, dea dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

Campi di Sangue:
Archelaos, negromante, semidio;
Laila, scheletro di Archelaos;
Arnold, proprietario della Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca.

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IX.
Attacco



A quelle parole, Alexya cercò di divincolarsi dalla stretta dell'Infero, senza successo. Le sue braccia non si mossero minimamente e lei finì solo per ritrovarsi ancora più vicina a lui.
«Milord...» lo pregò, con un fil di voce.
Nicholas la guardò, impassibile.
«Non fate gesti avventati, milady» disse poi, spingendo la sua schiena contro il proprio petto. Afferrò il pugnale e lo tirò fuori dalla custodia. Sentì la ragazza sussultare alla vista della lama, che baluginava alla luce tremula delle candele. «Trovo alquanto imprudente andare incontro a un nemico sconosciuto».
Alexya strinse i pugni e si dimenò, di nuovo. Doveva andare dai suoi soldati ad avvertirli, non importava che lei sapesse poco o nulla riguardo agli avversari. I suoi uomini ne sapevano ancor meno, non poteva abbandonarli. Se quello era un attacco sorpresa, perché solo lei doveva essere avvisata?
«Non m'interessa, i soldati sono nella mia stessa situazione».
«Loro sono sacrificabili».
La regina si raggelò, con gli occhi sgranati. No, non erano sacrificabili. Lei sapeva che quei dieci uomini avevano delle famiglie e degli amici, li conosceva da tempo, non erano soldati qualunque. Avrebbe accettato ciò solo se fossero stati degli sconosciuti, ma non era quello il caso.
«Anch'io farò la stessa fine, dato che voi non siete intenzionato a darmi le informazioni di cui ho bisogno» replicò inferocita la ragazza, ruotando il capo verso l'Infero, che la osservava gelido.
«Ciò che volete da me è un trucco, che non è un'informazione. La quantità di nemici lo è. La loro organizzazione lo è. La loro strategia lo è. Avete sbagliato domanda, milady» ribatté Nicholas, allargando appena le gambe per posizionare meglio la ragazza su di sé. Lei era a disagio, ma anche furiosa e nervosa. Tutte quelle emozioni destavano in lui interesse e non poteva far altro che provocarla, sempre di più, per vedere dove sarebbe arrivata, ma anche per distrarsi dal profumo di sangue appena sotto il suo naso.
Alexya fu costretta ad accettare il fatto. Messa così, l'Infero aveva ragione. Abbassò le palpebre e sospirò, alla ricerca di un modo per ottenere ciò di cui aveva bisogno.
Un urlo fuori dalla tenda interruppe i suoi pensieri e la fece scattare. Era iniziato l'attacco? Avevano colpito qualcuno dei suoi soldati? Purtroppo era ancora prigioniera del Re degli Inferi e non poté far altro che agitarsi inutilmente.
«Come si uccidono i Myurohon durante una battaglia, Lord Nicholas?» gli domandò la ragazza, rivolgendogli uno sguardo di supplica. Si stava umiliando di sua spontanea volontà per quella conoscenza, un prezzo altissimo che lui sembrava non accettare. Cos'altro voleva da lei?
«Avete posto esattamente la stessa domanda di prima, Vostra Grazia» le fece notare l'Infero, inarcando un sopracciglio, sarcastico.
Alexya corrugò la fronte, seccata. «Cosa vi costa dirmelo? Non siete forse voi che vi state comportando in maniera infantile?» insistette.
Nicholas ghignò, divertito dalle sue parole. Le premette la mano sul ventre, facendola sussultare. «Non cercate di ingannarmi, milady, vi assicuro che non è conveniente per voi» la avvisò, minaccioso. «Quel che dovete comprendere è che se vi accontentassi ora, le mie non sarebbero altro che parole vuote. Solo quando avrete combattuto con un Myurohon, potrete comprendere appieno il loro senso».
«Ho già ucciso un Myurohon» gli fece presente la ragazza, guardando la lama sospesa davanti a lei, ancora stretta in mano al sovrano.
«Non lo metto in dubbio. Ma non aveva intenzioni ostili nei vostri confronti. Comprenderete la vera essenza dei Myurohon solo lottando davvero contro di essi» rispose Nicholas, porgendole l'impugnatura del pugnale, che lei afferrò senza esitazioni, sollevata e libera dalla minaccia dell'arma in mano a lui. Aveva preferito non tenere in conto che lui l'avrebbe potuta uccidere con gli artigli, con la forza o con la magia. Si era concentrata solo sul coltello, vedendo in esso tutti pericoli che correva stando così vicina all'Infero.
Ora che la minaccia del pugnale era sparita e il suo disappunto si era zittito, Alexya poté udire chiaramente i rumori della lotta che stava avvenendo fuori dalla tenda. Le uniche urla che sentiva erano quelle dei suoi uomini, perché i Myurohon non potevano parlare, e pur consapevole di ciò era preoccupata per la loro vita. Aveva l'impressione che avrebbero avuto la peggio a sentire le grida fuori dalla tenda, in cui lei era obbligata a rimanere.
«Quanti sono?» domandò lei.
«Una coorte», quindi erano seicento uomini contro dieci soldati umani. Uno scontro impari.
Dannazione! «Fatemi andare a...» cominciò Alexya, ma si ammutolì quando un gruppetto di Myurohon fece il suo ingresso nella tenda, il volto apatico, armi in mano. Lo zombi in testa ai cinque mosse il capo in giro, come per captare la presenza di qualche essere vivente e localizzò subito i due sovrani.
Con un gesto fluido, Nicholas si mise in piedi, tirando con sé la ragazza. A quel movimento, un Myurohon scagliò il giavellotto che aveva in mano nella loro direzione. Alexya, eccitata dall'adrenalina entrata immediatamente in circolo, tirò su la gonna, sollevò la gamba e fece per tirare un calcio al tavolo, in modo da lanciarlo addosso al gruppo di zombi. Ma Nicholas fu più veloce: afferrò un lembo del mantello cremisi, impregnandolo di magia, e lo fece sollevare in aria, sopra di sé e l'umana. L'arma rimbalzò sull'improvvisato scudo di tela e si piantò nel tetto della tenda.
«Datevi da fare» sibilò Nicholas, mentre il mantello ricadeva dietro la sua spalla.
Alexya lo guardò determinata, sentendo un gran bisogno di muoversi. Strinse saldamente il pugnale. Doveva procurarsi delle armi decenti, al più presto, fino a quel momento, però, si sarebbe accontentata quella lama troppo corta. Corse incontro agli zombi, senza riuscire a trattenere un grido bellicoso.
L'Infero allungò la mano davanti a sé, mentre la ragazza affondava il coltello nella carne morta dei Myurohon. Concentrò parte della sua energia e la modellò con la mente a formare la sua spada, la Naharzhil, dalla lama nera di una lega metallica utilizzata solo nelle Terre d'Ombra. La roteò, sentendo con piacere come la sua mano aderisse bene all'impugnatura, come fosse perfettamente equilibrata e leggera. L'elsa gli copriva la mano simile a tentacoli, il pomello argenteo pareva brillare di luce propria. Quasi gli dispiaceva doverla utilizzare solo come diversivo, mentre cercava un anello debole nella catena che legava i soldati zombi a Vraele. La Naharzhil aveva bisogno di togliere vite e bagnarsi di sangue. Avrebbe ucciso quanti più Myurohon, prima di colpire il loro comandante, allora. Era il minimo che potesse fare.
Alexya era alle prese con il gruppo di non-morti, davanti all'ingresso del baldacchino. Non era ancora riuscita a superarli, perché quando li lasciava al suolo e si accingeva a lasciare la tenda, essi si rimettevano in piedi, minacciando la sua vita con la loro banale esistenza. Si stava innervosendo, il che non giocava a suo favore. Doveva mantenere la mente lucida, ma continuavano ad aumentare in lei la rabbia e la frustrazione. Non poteva tirar calci, la gonna glielo impediva e questo le dava fastidio. Non c'è una cosa che non mi dia fastidio!, fu il suo grido furioso mentre apriva la gola di un Myurohon. Doveva uscire da quella tenda, doveva farlo, assolutamente! Restare imprigionata là dentro peggiorava il suo umore.
Nicholas raggiunse la Regina d'Ovest e decapitò con un movimento rapido e secco due zombi che gli davano le spalle. Alexya li vide cadere a terra e ridursi in polvere.
Come diamine ha fatto?, si domandò guardando il re uccidere anche gli altri tre Myurohon.
«Sbrigatevi, ci sono altri soldati che attendono di perder tempo con voi» la canzonò l'Infero, superandola. Uscì dalla tenda e si gettò nella mischia, la Naharzhil che baluginava bagnata di sangue nero, terribile e crudele quasi fosse viva.
La presa in giro riscosse subito Alexya, che raggiunse l'esterno di corsa. Quando vide lo spettacolo davanti a sé, sgranò gli occhi. Myurohon, Myurohon, Myurohon da tutte le parti, con la loro carnagione cinerea, i gesti meccanici e letali, l'apatia totale. Abbassò lo sguardo verso il suo vestito. Era solo un impiccio. Le dispiaceva un po' tagliarlo, ma doveva farlo. Aveva bisogno di libertà di movimento e quella dannata gonna glielo impediva. Afferrò un lembo dell'abito e vi aprì uno spacco laterale, che arrivava fino a metà coscia. Lo stesso fece dall'altra parte. Immaginò le urla indemoniate di Marihus appena avesse visto come aveva ridotto il vestito. Non ebbe il tempo di verificare l'effettiva funzionalità di quell'intervento, perché un Myurohon le stava andando incontro, con poche, ampie falcate la raggiunse e le tirò un fendente con la spada.
Alexya sollevò il braccio sinistro, quello del pugnale, e parò il colpo, mentre sollevava la gamba, pronta a sferrare il suo attacco. Spinse il piede nel ventre dello zombi, lanciandolo poco lontano da sé. La spada cadde a terra e lei, senza perder tempo, la afferrò. Giunse dal suo avversario, ancora disteso a terra, il torace pestato da qualcuno nella furia della battaglia. Si stava rigenerando, immobile sul terreno, con viscidi schiocchi di ossa e pelle. La ragazza doveva approfittarne, per provare la formula che aveva appreso da Johan.
«Myurohon ya rohon!» recitò, sperando con tutta se stessa che funzionasse. (1)
La regina non poté osservare il risultato, perché dovette parare l'attacco di un altro zombi. Con la spada gli aprì uno squarcio nel ventre e subito affondò il pugnale nell'occhio di un secondo Myurohon. Alle sue spalle, il soldato divino che aveva cercato di uccidere si era rialzato e allungava le mani verso il suo collo, per stringerlo. Ma Alexya se ne accorse solo quando le mancò di colpo l'aria. Agitò le braccia, colpendo gli avversari davanti a sé. Appena essi crollarono a terra, prima che guarissero, la ragazza conficcò la spada nel petto dello zombi che la stava strozzando, nella speranza di liberarsi di lui.
I due Myurohon feriti si rialzarono e lei lo notò, con grande disappunto. Liberò la lama dallo zombi, ormai libera di respirare, e si spostò verso sinistra, per non avere nessuno alle spalle. I suoi avversari le stavano venendo incontro, mentre lei li aspettava nervosa. Non aveva funzionato quella maledetta formula, non poteva liberarsi di quei dannatissimi zombi! E col pugnale non riusciva a fare molto. Aveva bisogno di un'altra spada. Lei era abituata a lottare con entrambe le mani occupate. Allora si avventò sul Myurohon che utilizzava la lama di cui aveva bisogno, gettando il pugnale alle sue spalle. Gli tagliò la testa e si affrettò a brandire l'arma per rivolgere la sua attenzione agli altri due guerrieri.
Due coltelli si piantarono nelle teste degli zombi davanti ad Alexya e le lame argentee brillarono mentre i soldati divenivano cenere. La ragazza ne raccolse uno da terra. Forse era quello in trucco degli Inferi. Stiletti magici? Doveva provare e lo fece colpendo il Myurohon appena rialzatosi. Non accadde nulla. Gli lasciò l'arma nella gola, mentre il sangue nero sgorgava dalla ferita e scendeva lento lungo il petto dello zombi, e indietreggiò.
«Il segreto non è nelle lame, Vostra Grazia» la informò Vaenihum, dietro di lei.
Alexya andò a sbattere contro l'Elfo, che le posò una mano sulla spalla per impedirle di cadere dalla sorpresa. La ragazza lo guardò, ma lui proseguì per andare a riappropriarsi dei suoi coltelli. Lei lo osservò e vide che aveva la camicia aperta, mostrando il petto coperto da due larghe fasce di cuoio cui erano infilati un gran numero di stiletti, molto leggeri e sottili, e un laccio di fibre vegetali che reggeva un ciondolo di forma rettangolare. Non poté continuare a guardare, perché sentì un movimento alle sue spalle. Fece partire un affondo e percepì la spada tagliare la carne molle di un Myurohon. Poco dopo, uno dei coltelli di Vaenihum terminò il suo volo nel cranio del soldato. Alexya rivolse all'Elfo uno sguardo riconoscente e vide il ciondolo della collana mandare un debole bagliore, mentre lo zombi si distruggeva.
Ecco il trucco!, esultò Alexya e allungò la mano per afferrare il pendente di Vaenihum, che le andava incontro per recuperare lo stiletto.
«Eh no, milady» la ammonì l'Elfo, prendendole l'arto con accondiscendenza. «Non si tocca».
Indispettita, la ragazza gli voltò le spalle e si avviò verso un gruppo di Myurohon poco distante. Aveva lasciato indietro una spada e doveva procurarsene un'altra. Attaccò i soldati di spalle e si appropriò di ciò di cui aveva bisogno. Procedette falciando gli zombi davanti a sé, finché non s’imbatté in Irene, che affondava le mani artigliate nel ventre e nel petto di ogni guerriero le capitasse sottomano, aprendo squarci mortali nei loro corpi.
Alexya si bloccò un attimo, sconcertata da quell'incontro, ma dovette subito riscuotersi perché i Myurohon non erano intenzionati a lasciarle tregua, nemmeno per farle capire se era al sicuro o meno. Ormai, quella battaglia era diventata monotona e la ragazza riuscì a mettere insieme qualche pensiero, giacché non doveva ingegnarsi più di tanto per combattere quegli zombi. Le loro mosse erano ripetitive e noiose, non c'era alcuna necessità di sprecarsi.
La promessa sposa di Nicholas – Alexya lo sapeva bene – non la vedeva di buon occhio. Non le aveva mai rivolto la parola, quando parlava in sua presenza si rivolgeva unicamente all'Infero e non si era dimostrata molto cordiale, nei suoi confronti. Ora che erano in un combattimento, rischiava di trovarsela contro?
La risposta le giunse dalla stessa Irene, che uccise un Myurohon al fianco di Alexya per darle una mano. O almeno così lei interpretò il gesto.
«Grazie» disse l'umana, per farle intendere che non c'era ostilità da parte sua.
Irene inarcò le sopracciglia bionde, sorpresa. Quella ragazzina cosa ci faceva lì? Perché Nicholas non era al suo fianco a proteggere il suo nuovo giocattolo? Che scherzo era quello?
«State combattendo» notò il demone, mentre l’arto destro si avvolgeva di fiamme prima di conficcarsi nel torace di uno zombi.
«Ovvio» replicò Alexya, tagliando la testa a un soldato, mentre l'altra spada mozzava il braccio proteso di un secondo. «Se sono entrata nella Guerra Millenaria, non è stato perché voglio bere il the con Al e Lord Nicholas» aggiunse, mentre Irene le toglieva dinanzi due avversari.
La donna si diede della stupida. Per cosa era tormentata in quei giorni? Solo per una pedina di Nicholas, non per una sua amante! Quella ragazzina non lo aveva attirato in quanto femmina, ma perché si era lanciata nella Guerra Millenaria. Doveva essere così, per forza, altrimenti che senso avrebbe avuto lasciarla scorrazzare fuori dalla sua ala protettiva, facendola lottare? Non aveva motivo di esser gelosa di lei. Trattenne una risata e ruotò la testa di un Myurohon, accompagnata dallo schiocco secco delle ossa rotte. Il suo ciondolo brillò e lo zombi si ridusse in cenere.
Irene raggiunse Alexya che era alle prese con l'ultimo Myurohon rimasto attorno a loro. Quando la testa dello zombi rotolò per terra, il demone la pestò con forza e il soldato divenne polvere, come tutti gli altri. Sollevò lo sguardo verso l'umana, che aveva preso a guardarsi in giro, catturata dai propri pensieri.
«Avete bisogno d'aiuto?» le domandò, attirando l'attenzione su di sé.
Alexya la fissò, le sopracciglia inarcate per la sorpresa. Abbassò lo sguardo dal volto schizzato di sangue nero e notò che gli avambracci ne erano completamente ricoperti. «Avete già fatto molto, Lady Irene, vi ringrazio. Ma forse è meglio che vada a cercare il Manipolatore» fu la sua risposta. Tornò a osservare la ressa, concentrata. «Deve essere pure da qualche parte...» continuò rivolta a se stessa.
Irene decise di darle una mano. Perché avrebbe dovuto privarla del suo aiuto? Non costituiva una minaccia, in quel momento non la vedeva come tale. E poi Nicholas non la prenderebbe bene, rifletté amareggiata. Sì, lo faceva anche per quello. Soprattutto per quello. Anche se non fosse divenuta una nuova amante dell'Infero, quell'umana aveva comunque attirato la sua attenzione, gli era utile in qualche maniera che non implicava solo il letto. Questo le dava un po' fastidio, sì, ma non quanto il condividere Nicholas con un'altra donna.
«Il Manipolatore è Vraele, Vostra Grazia» disse Irene, rivolta ad Alexya.
La ragazza sorrise grata al demone. «Se continuate ad aiutarmi, Lady Irene, andrò avanti a ringraziarvi all'infinito» replicò lei. «Perché lo state facendo? Non mi odiate?»
La promessa sposa di Nicholas si morse leggermente il labbro inferiore, cercando una risposta adatta. «Non vi conosco abbastanza da odiarvi, al massimo posso trovarvi antipatica».
Alexya accettò quella replica. Non le andava di sindacare su sciocchezze simili. Rivolse lo sguardo alla mischia poco distante da loro due, che si trovavano tra gli alberi, circondate da mucchi di cenere. I suoi soldati erano tra i Myurohon a combattere, invece. Probabilmente abbattuti, frustrati perché non riuscivano a distruggere il loro nemico. Potevano esser morti, per quanto ne sapeva. Però sentiva ancora urla e rumori della battaglia, qualcuno in vita c'era di sicuro. Doveva trovare Vraele e obbligarlo a ritirarsi. Non serviva a niente quella lotta, solo ad affaticare e uccidere i suoi uomini.
Congedatasi da Irene, Alexya si affrettò verso il centro della radura, anche se era pieno di Myurohon. Ma, non appena mosse un passo, fu obbligata a fermarsi dall'arrivo di un uomo dai capelli biondi, atterrato davanti a lei e che la fissava con aria truce.
Irene lo riconobbe e decise di andare ad avvisare Nicholas. Era strano che non lo avesse già fermato, forse aveva i suoi piani per lui. Però ora doveva aiutare la ragazzina. Quello non era un avversario per lei.
«Siete voi la Fenice?»

Vraele guardò la ragazzina a soli due metri da sé e si chiese se avesse visto giusto. Era un'umana sì, ma sembrava troppo giovane per aver sfidato Al e Nicholas nella Guerra Millenaria, troppo giovane per esser considerata un serio problema dal suo re. Certo, la salute mentale di Al non era delle migliori, anzi era la peggiore del Mondo Profano per quanto ne sapesse, eppure il sovrano se l'era presa con lei come non mai. Le scaramucce con i Re degli Inferi erano nulla a confronto. Almeno in quel caso si accontentava della stagione bellica per danneggiare i suoi eterni nemici. Per quella ragazzina, invece, si era scomodato già prima del Consiglio degli Otto Sovrani a causa di voci non confermate giunte da fonti improbabili. E ora aveva inviato lui e i Myurohon a occuparsi di lei. Decisamente, era troppo paranoico: vedere un enorme pericolo in una piccola umana, tsk.
«Allora?» insistette, poiché da lei non giungeva alcuna risposta.
«Il divino Vraele, vero?» domandò la ragazza.
«Non mi avete riposto, milady» le fece notare il dio della Guerra, infastidito.
«Voi sì» ridacchiò lei. «Sono Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest. Chi mi ha mai chiamato Fenice?»
Vraele inarcò le sopracciglia. In effetti, quel soprannome lo aveva inventato e utilizzato lui in quei giorni, per riferirsi alla ragazza preso dalle sue riflessioni.
«Però, mi piace...» commentò Alexya, sollevando gli occhi al cielo, con aria pensosa.
«Che onore» replicò Vraele, sarcastico.
Sul viso dell'umana si dipinse un sorrisetto divertito.
«Bene, divino Vraele, ritiratevi» gli ordinò Alexya, muovendo un passo verso di lui.
Per lo stupore, il dio si raggelò. Cosa? Gli aveva impartito un ordine? Era ridotto davvero male se permetteva a una ragazzina, umana per giunta, di comandarlo. Permetteva una cosa simile unicamente ad Al e solo perché rischiava di pagarla cara, non per altri motivi. Fosse stato libero, sarebbe andato a vivere in un regno lontano da tutto quello schifo. Però non era libero ed era al servizio del Re delle Divinità, non della prima persona che incontrasse, perciò non avrebbe dato retta alla Fenice. Scoppiò a ridere di gusto.
«Siete fuori di testa» la sbeffeggiò tra le risate.
Alexya scrollò le spalle. Beh, lei ci aveva provato con le buone. Solo perché cercava di usare, per prima cosa, i metodi di Helena le sue trattative non funzionavano, mai. Tanto valeva agire suo stile. Roteò le spade e si avventò sul dio. Lo aveva colto di sorpresa, era troppo preso dalle sue risate per accorgersi dei suoi movimenti. Quello era un vantaggio.
Aveva, però, sbagliato i conti. Invece di sentire la lama destra affondare nel petto dell'uomo, essa scivolò su qualcosa di liscio e lei perse l'equilibrio. Come una stupida principiante, si lamentò tra sé, facendo qualche passo incerto per riprendersi. Si voltò di scatto verso il dio, che aveva ruotato la testa per guardarla beffardo con gli occhi di pece, cerchiati di bistro. Una sciabola dalla lama dai riflessi verdi spuntava dalla sua spalla, posta davanti al petto di Vraele. Ecco con cosa si era scontrata quella spada di pessima qualità che stava usando.
«Credevate di prendermi di sprovvista?» le chiese il dio, minaccioso.
Alexya sollevò le spalle, con aria noncurante. «Tanto valeva tentare».
Vraele si girò con tutto il corpo verso la regina. Non gli andava di combattere, non con lei. Che senso aveva? Era solo una ragazzina umana, non poteva essere molto abile nella lotta. Anche se i suoi piani prevedevano la morte della Fenice per mano di un Myurohon e ciò non si era verificato. Non aveva contemplato nemmeno per sbaglio la possibilità che lei avesse la capacità – fortuna? – di rimanere intera per scontrarsi con lui. La osservò attentamente e notò solo alcuni graffi sugli avambracci, dove le maniche del vestito non nascondevano la pelle, qualche spruzzo di sangue nero sul volto e altre piccole e insignificanti ferite sulle gambe. Scoperte, notò lui con un certo stupore. Aveva tagliato la gonna per combattere. Inarcò le sopracciglia. Che strana ragazzina.
E comunque, non gli andava di scontrarsi con lei. Perché sarebbe intervenuto Al, che avrebbe reso il suo corpo schiavo grazie ai tatuaggi che gli aveva imposto sulle spalle, per utilizzare le sue braccia nei combattimenti. Perché la sua Divinità non poteva scendere in campo, nossignore. Il sangue e la polvere gli avrebbero fatto male, povero. Bisognava capirlo. Scosse il capo. Doveva piantarla di far sarcasmo. Per quanto ne sapeva, Al poteva essere benissimo all'ascolto dei suoi pensieri. E lo avrebbe torturato, come minimo, per tale affronto.
«Allora, divino, rimanete lì in attesa che io vi attacchi di nuovo? Guardate che prima o poi vi colgo alla sprovvista» richiamò la sua attenzione Alexya, un'espressione seccata sul volto.
Vraele la guardò, perplesso. Quella ragazzina era una congiura contro di lui. La sua esistenza lo aveva portato nella Foresta Grigia, la sua imprudenza lo stava portando a combattere. Avrebbe lasciato fare a lei, si sarebbe limitato alla difesa. Se si fosse impegnato troppo, Al avrebbe notato che lui si stava scontrando e sarebbe intervenuto. Era proprio ciò che voleva evitare, più della lotta in sé. E doveva darsi una mossa, perché sapeva che Nicholas era lì in giro, divertendosi a fare a pezzi i Myurohon. Sentiva le presenze nella sua testa diminuire, tra grida atroci che solo lui poteva udire, e l'Infero ancora non aveva attentato alla sua mente. Doveva sbrigarsela con la Fenice prima che il re decidesse di prendersela con lui. Per Fato, sempre in questo schifo di situazioni mi trovo, imprecò tra sé. Sollevò la sua spada, la Shylazhil, pronto ad attaccare.
Alexya se lo trovò davanti in un batter d'occhio. Dannazione, ecco una dimostrazione delle capacità di creature potenti. Nicholas di sicuro era capace di fare questo e altro. Incrociò le spade davanti a sé, bloccando il fendente. Strinse i denti, mentre si opponeva alla forza del dio. Quando si accorse che quel braccio di ferro l'avrebbe portata alla sconfitta, liberò le lame spingendo Vraele indietro e gli fu immediatamente addosso, con una serie di dritti e rovesci che l'uomo si limitò a schivare, perché gli comportava meno sforzo di parare con la Shylazhil. Una sola volta una delle lame della ragazza lo colpì, graffiandogli il petto, a partire da sotto la clavicola. Dilettante, la sbeffeggiò tra sé.
Quando però Vraele vide una ferita aprirsi sul suo torace, non troppo profonda ma parecchio estesa, smise di sottovalutare così tanto la Fenice. Doveva impegnarsi, tornare a Gemma d'Autunno pieni di taglietti non era il massimo. Sollevò il braccio in aria, pronto a un altro fendente.
Alexya notò il cambiamento avvenuto nel suo avversario e smise di stargli addosso, per porre tra loro le spade. Forza, attacca, lo incitò, storcendo le labbra in un ghigno. Quando combatteva, finiva per prenderci gusto. L'adrenalina le dava alla testa e non riusciva a stare ferma troppo a lungo. Le lotte ripetitive la annoiavano. Era stata proprio cresciuta male, per essere una regina.
Vraele infuse parte del suo potere alla Shylazhil e calò il braccio per colpire la ragazza con un dritto. Lei lo guardò, tranquilla, perché lui era troppo lontano per raggiungerla. Aveva calcolato male le distanze? Povero idiota. Forse non ci vedeva bene, forse...
I pensieri di Alexya furono turbati da quel che vide. La sciabola del dio parve allungarsi e muoversi nell'aria come un serpente grigio-verde. Sgranò gli occhi e sollevò immediatamente le braccia per parare il colpo. Sentì la lama scontrarsi contro le due spade e avvertì in contraccolpo, che la fece indietreggiare. Poi un forte bruciore alla guancia destra e qualcosa di caldo che le colava sulla pelle. Vraele ritrasse il braccio e la Shylazhil tornò di dimensioni normali. L'aveva ferita al primo attacco serio. Facile, commentò lui, sicuro di sé.
La Regina d'Ovest guardò il dio della Guerra senza sapere cosa aspettarsi. Quella sciabola era pericolosa, ora lo aveva provato. Si poteva allungare a piacimento e neppure una buona parata la poteva fermare. Si muoveva a caso e troppo velocemente, perché la sua vista umana potesse seguirne i movimenti. Shylazhil, ripeté nella sua mente, ricordando il nome della lama, studiato da bambina, spada serpente, porca miseria! Doveva impedire al suo avversario di dar sfoggio di tutte le utilità di quella spada. Non gli doveva lasciare spazio, perché era ciò di cui aveva bisogno per colpirla. Presa la sua decisione, Alexya annuì convinta e corse incontro a Vraele, pronta ad attaccarlo con un montante destro, mentre la spada sinistra era ferma davanti al suo petto, per proteggerla da un possibile attacco del dio.
L'uomo sorrise divertito e attese che la regina lo colpisse. L'aveva spaventata e ora lei gli sarebbe stata addosso. Ma non sapeva che lui poteva usare la Shylazhil anche da vicino. Povera ingenua. Era pronto a ricevere l'attacco dell'umana, quando sentì una presenza fredda e tagliente nella sua mente. Sgranò gli occhi. Non c'erano più Myurohon in vita, nemmeno uno. E quel gelo... Nicholas!, lo riconobbe, spaventato.
L'avesse avuto davanti, Vraele lo avrebbe visto ghignare, con la crudeltà che brillava nei suoi occhi d'argento. Ma ne ebbe solo la vivida sensazione nella sua testa. Si distrasse e la spada di Alexya affondò nel suo fianco. Gemette, mentre altre ferite inspiegabili si aprivano sul suo corpo e lasciavano fuoriuscire sangue a fiotti. La divisa s’inzuppò di liquido rosso a una velocità spaventosa. Il dio abbassò lo sguardo e incontrò quello perplesso della ragazza. Non credeva davvero di riuscire a ferirlo, non era tanto illusa. Eppure, la lama era bagnata del suo sangue color rubino.
«Ma cosa...?» cominciò Alexya, sfilandogli la spada dalla carne.
Vraele vide l'espressione sul volto della Fenice mutare, dalla sorpresa alla preoccupazione – pietà, si corresse rabbiosamente. Quella ragazzina stava provando pietà per lui. Intanto Nicholas continuava a straziarlo dall'interno. Il suo potere lo graffiava in profondità, come i suoi artigli da felino. Quella situazione era irritante, la sua impotenza lo infastidiva troppo.
Levati di torno, Vraele. I tuoi Myurohon sono inutili, Al non l'ha ancora capito e tu continui, da idiota, ad ascoltarlo, gli intimò l'Infero nella sua testa, con un gelido sussurro. Si aprirono altri tagli e la rabbia frustrata di Vraele aumentò. Ripose la Shylazhil nel fodero assicurato alla sua schiena e rivolse alla ragazza uno sguardo inferocito. Lei aveva osato provare pietà per lui. Non l'avrebbe lasciata vincere, perché lei avrebbe perso, se non fosse intervenuto Nicholas. Afferrò bruscamente la Fenice per le spalle e la tirò verso di sé.
Sorpresa, la Fenice non si protesse quando lui le sferrò una violenta ginocchiata nello stomaco. Alexya crollò a terra, bocconi, e si appallottolò girandosi su un fianco, con le braccia strette sullo stomaco.
Vraele udì i suoi flebili lamenti e trovò di aver fatto abbastanza. Ebbe un giramento di capo e comprese di doversi dare una mossa. Non doveva svenire nella tana di Nicholas. Non voleva sapere cosa gli avrebbe fatto, in quel caso. Lanciò un ultimo sguardo alla regina sofferente – forse aveva esagerato, poi le diede le spalle e s’inoltrò nella foresta, i tagli aperti che continuavano a sanguinare. Stava lasciando una scia di sangue alle sue spalle, ma non gli importava. Non doveva esser catturato dagli Inferi, non vivo.
Alexya ignorò la fuga di Vraele e iniziò a tossire. Si portò una mano davanti alla bocca e, quando la allontanò, vide con orrore che era macchiata di sangue. Il dolore era un costante martellare, provò a sollevarsi con le sue forze e sentì un conato di vomito che la convinse a lasciar stare. Si abbandonò sul terreno, intanto che la tosse le squassava il petto, impietosa.
Un movimento d'aria e Nicholas fu davanti alla ragazza. La guardò dall'alto, imperscrutabile, e s’inginocchiò per metterla a sedere, la Naharzhil già dissolta, tornata a far parte della sua aura. Le mise le mani sui fianchi e la tirò su, poggiandola contro di sé, per poi cingerle le spalle magre con un braccio. La regina sollevò lo sguardo e vide il volto bianco dell'Infero macchiato del sangue scuro e vischioso dei Myurohon. Abbassò gli occhi e il petto muscoloso le offrì la stessa vista. Tossì, la mano premuta sulle labbra. Quando la scostò, il re la notò tinta di cremisi.
«Milady, tra un po' sverrete» la informò Nicholas, mantenendo salda la presa sulle sue spalle.
Alexya gli rivolse uno sguardo scettico. «Esagerato, è stato solo...» Un altro colpo di tosse, più forte dei precedenti. La ragazza si piegò su se stessa, il dolore allo stomaco era talmente forte da farle credere di star impazzendo. Poi, vide tutto bianco, ogni suono tacque e la sofferenza svanì, assieme alle sue forze.
Nicholas inarcò le sopracciglia, paziente. Passò il braccio libero sotto le gambe della regina e la prese in braccio. Vaenihum, lavoro, annunciò all'Elfo, che stava controllando i feriti tra gli Uomini.
Vaenihum rivolse lo sguardo in direzione del suo re e sospirò, rassegnato.

Marihus seguì attentamente ogni movimento dell'Elfo. Non che ci capisse qualcosa, ma doveva assicurarsi che quella creatura facesse il suo dovere. Anche se era il medico di corte degli Inferi, era pur sempre il braccio destro di Lord Nicholas. E non si fidava, nossignore.
Vaenihum intinse di nuovo il panno nella bacinella e lo strizzò, facendo gocciolare l'acqua sporca di sangue. Poi passò la pezza sul volto della regina svenuta, sorprendendosi nel trovare un taglio piuttosto profondo sulla sua guancia. Abbandonò il rettangolo di tessuto di fianco al viso della ragazza e sfiorò la ferita dai bordi lineari e perfetti. Un rivolo di sangue continuava a fuoriuscire, per poco la Shylazhil non era entrata nella bocca. Riconosceva quel tipo di lacerazione, una volta Nicholas aveva permesso alla sciabola di Vraele di colpirlo, curioso di scoprire le capacità di quella lama. E Vaenihum aveva ricevuto il permesso del suo sovrano per studiare la lesione: inferta dalla punta tagliente, la ferita era più profonda al centro e la carne era squarciata con precisione impressionante. Prese il vasetto di disinfettante dalla sedia posta vicino al letto e intinse le dita nella pomata, per poi spalmarla sul taglio. Richiuse il barattolo e posò indice e medio sulla ferita, applicando l'incantesimo di cura. Quella era stata la lesione peggiore che avesse trovato esteriormente. Però Nicholas lo aveva informato del colpo allo stomaco e del sangue che la ragazza aveva sputato.
L'Elfo impugnò uno dei coltelli assicurati al suo petto e afferrò la manica del vestito di Alexya. Tanto era già stato tagliato, qualche altro squarcio non avrebbe peggiorato la situazione dell'abito. Era da buttare in qualsiasi caso.
Appena si udì il primo strappo della stoffa, Marihus si agitò e si mise in piedi, per vedere oltre Vaenihum, che gli dava le spalle coprendogli la visuale.
«Cosa state facendo?» domandò il maggiordomo, con una lieve nota isterica nella voce.
«Niente che vi possa interessare» fu la replica dell'Elfo che, con un gesto secco, distrusse la manica sinistra del vestito.
«Per Zephiro, cosa diamine state facendo! Lasciatela stare, maledetto Elfo!» inveì Marihus, afferrando un braccio del medico.
Vaenihum con un gesto seccato allontanò l'uomo e passò all'altra manica.
«No, no, no!» gridò l'umano, riavvicinandosi all'Elfo.
Johan, attirato dalle urla, entrò nella tenda. Marihus lo guardò e gli chiese aiuto, con urgenza.
«Le sta strappando il vestito! Fermalo, Johan!»
Il soldato aggrottò la fronte e raggiunse con poche falcate il letto davanti al quale c'erano i due uomini. Guardò la sua signora, abbandonata dalle forze, con tagli leggeri sulle braccia ancora da curare. Rivolse uno sguardo all'Elfo.
«Cosa dovete farle?» gli domandò, mortalmente serio.
Vaenihum roteò gli occhi. Quant'erano ignoranti e petulanti i sottoposti di quella ragazzina! Ruotò il capo verso Johan, guardandolo con aria annoiata.
«Controllare che non ci siano altre lesioni, lavarla e farle indossare qualcosa di decente» spiegò, rassegnato a non esser capito. Tanto lui avrebbe fatto quel che voleva, due umani non lo avrebbero bloccato.
Johan lo scrutò con attenzione e diffidenza, poi, convinto della bontà delle intenzioni dell'Elfo, annuì.
«Bene» commentò Vaenihum, tornando a tagliare il tessuto del vestito della regina. «Il maggiordomo potrebbe andare a prendere una camicia da notte per la sua signora, invece di star qui a far nulla» suggerì poi.
«No, assolutamente no! Io non mi allontano di qui finché non levate le mani da milady!» protestò Marihus, pestando un piede per terra con irritazione. «Vacci tu, Johan!»
Il capitano gli rivolse un'occhiataccia. Il maggiordomo isterico non lo sopportava, soprattutto perché perdeva l'uso della ragione. «Non sono io a farle le valigie. Non so dove metter mano».
«Chiedi aiuto ad Hanan!»
«Marihus» lo chiamò Johan, con un tono basso e minaccioso.
Vaenihum stava ignorando le chiacchiere di quei due umani chiassosi e stava studiando le cuciture del corpetto. Aveva tagliato la sottoveste assieme alle maniche, non se n'era reso conto. Le donne degli Inferi non portavano tutti quegli abiti addosso.
«Ho capito, ho capito! Vado io! Ma tu tieni d'occhio quest'Elfo!» concesse alla fine Marihus e superò il soldato a grandi passi, emanando rabbia.
Johan seguì con lo sguardo la dipartita del maggiordomo e tornò a guardare Alexya. Notò che l'Elfo stava armeggiando col corpetto. Sollevò gli occhi sul volto di Vaenihum e lo vide impassibile, concentrato sul suo lavoro, quasi quella sotto di lui non fosse una donna ma un semplice ammasso di carne su cui doveva lavorare. Gli scrupoli di Marihus erano del tutto fuori luogo.
Con uno strattone, Vaenihum distrusse il corpetto. I lacci si trovavano lungo la schiena e lui non poteva metter prono il corpo della ragazza solo per svestirla secondo le regole. Sentì dei passi alle sue spalle e un grugnito.
«Alla fine lo avete fatto, Elfo impudico» bofonchiò furioso Marihus, porgendogli con malagrazia una camicia da notte verde chiaro, ben piegata e stirata.
Vaenihum lasciò che le parole gli scivolassero addosso senza toccarlo e controllò che non vi fossero lividi sul corpo della ragazza. Ne individuò un paio sulla spalla e sul petto, sotto il seno. Tastò le costole per assicurarsi che non ve ne fossero rotte e la rivestì, dopo aver fatto sparire le macchie violacee. L'indumento era privo di maniche e questo gli permise di curare i taglietti delle braccia senza sentire oltre le lamentele del maggiordomo. Quando l’Elfo sollevò la gonna della camicia da notte, Marihus iniziò a borbottare ma Johan gli fu subito affianco e, posatagli una mano sulla spalla, lo zittì in qualche maniera che al medico non interessava minimamente. Ora c'erano solo i graffi sulle gambe. Che la regina non si sarebbe procurata se non avesse deciso di aprire la gonna e fare la Valchiria, commentò Vaenihum tra sé, ricordando il Popolo di donne guerriere che vivevano nel Maholeyrion. Le Valchirie però non indossavano mai vestiti del genere, quindi non avrebbero potuto compiere lo stesso gesto della ragazzina. Dettagli.
Ormai rimaneva lo stomaco, di sicuro lesionato, altrimenti perché avrebbe dovuto tossire sangue? I polmoni non erano stati perforati da nessuna costola, quindi il problema si trovava lì. Posò le mani sotto la cassa toracica dove, secondo quanto aveva studiato, si trovava l'organo che cercava.
«Kuraeh-thi» mormorò e chiuse gli occhi, per controllare che l'incantesimo facesse effetto. Sentì il suo potere lambire tessuti lesionati e sanarli in fretta. Sì, il problema era là e lo aveva risolto. Sollevò i palmi delle mani dalla pancia della ragazza e afferrò la coperta arrotolata sotto i suoi piedi, tirandogliela sopra. Infine, si voltò verso i due umani. (2)
«Ho finito» annunciò piatto, pulendosi le mani con uno straccio recuperato dalla tasca dei pantaloni. Raccolse quel che aveva lasciato in giro e si allontanò dalla tenda, cercando di liberarsi al più presto dei due uomini. E poi avrebbero avuto da parlare con la ragazza.
Marihus seguì diffidente la dipartita dell'Elfo, mentre Johan recuperava la sedia vicino allo scrittoio posto in quella tenda e la trascinava vicino al letto. Si accomodò e guardò Alexya, sfiorandole il viso con una mano.
«Abbiamo perso quattro soldati e tre sono feriti. Hanan si sta occupando di loro» disse Johan, la voce ferma. «Appena vi sentite meglio, venite a far loro una visita, ne hanno bisogno».
Il maggiordomo lanciò uno sguardo pieno di disagio prima al capitano, poi alla regina. Lui aveva fatto tante storie mentre l'Elfo la curava e intanto tre uomini avevano bisogno dello stesso trattamento. Si sentiva un po' in colpa per questo, era fuggito dalla morte che aveva visto davanti ai suoi occhi con la scusa di cercare Alexya, era rimasto rintanato in quella tenda con la scusa di salvaguardare la sua dignità, aveva fatto di tutto per ignorare qualche era accaduto agli uomini con cui aveva viaggiato in quei giorni. Chinò il capo e fece per uscire dalla tenda. Poco dopo sentì Johan seguirlo, con passi lenti e pensanti, preso dai suoi pensieri.
Non appena fu sola, Alexya aprì gli occhi e si guardò attorno. Quattro morti. Tre feriti. Ciò significava che oltre a Johan, altri due soldati erano ancora in vita. Abbassò le palpebre, stringendo la coperta nei pugni. Quattro morti. Quattro... No, doveva pensare ai feriti. Tre, solo tre. Potevano esser curati. Vaenihum, Vaenihum!, pregò tra sé, istintivamente. Aveva guarito lei, cosa gli costava aiutare i suoi soldati? Forse stava pretendendo troppo dagli Inferi. Nicholas si era già rivelato abbastanza gentile nei suoi confronti. Ma tre feriti non sono niente!, si lamentò rigirandosi nel letto.
L'Elfo scostò il tessuto all'ingresso della tenda e lanciò un’occhiata alla regina.
«Milady, avete forse chiamato?» fu la sua domanda. L’aveva sentita benissimo, quella ragazza non aveva ancora schermato la sua mente.
Alexya sussultò e lo guardò, sorpresa. Si tirò a sedere, meravigliandosi di come si sentisse in forma. Avrebbe fatto un giro tra i sopravvissuti, come le aveva chiesto Johan.
«No, milady, rimanete a letto a riposarvi. Mi occuperò io dei vostri uomini» intervenne Vaenihum, seguendo i suoi ragionamenti.
La regina gli rivolse uno sguardo spaesato, poi capì. Dannazione, i miei pensieri! Anche lui può ascoltarli!, si ricordò infastidita.
Vaenihum non rispose e si congedò, per fare quell'ultimo favore alla Regina d'Ovest. La Fenice, pensò divertito, ricordando quanto aveva udito da Vraele.

.-.-.-.

Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Myurohon ya rohon: il vendicatore io vendico (incantesimo)
(2) Khurae-thi: curati (incantesimo)

Se dovessero interessare, i miei disegni (tra  cui se ne trovano abbastanza sull'Esercito) sono qui: http://kanako91.deviantart.com/
Poi vi consiglio assolutamente questo (Dark, te no XD): http://livemylex.deviantart.com/art/character-meme-feng-sha-119894552

Quanto tempo, mado'... o__ò Purtroppo la scuola è soffocante e le giornate, purtroppo, non sono di trentasei ore (come minimo) e la metà di quelle libere dagli impegni scolstici devo usarle per dormire, mi pare ovvio. Così tra studio e compiti mi rimane poco tempo e poca forza, persino per scrivere. E' deprimente e frustrante.
Nel capitolo precedente ho aggiunto quattro versi di una canzone che mi sembrava adatta alla cena di Alexya e Nicholas. Se credete di non riuscire a vivere senza conoscerli, andate a leggerli. XD
Come al solito, mando una mail quando aggiorno. Non posso assicurare niente.
In qualsiasi caso, bruciate un incenso o sacrificate una vacca per me, affinchè riesca ad andare avanti con l'Esercito nonostante la scuola.
Alla prossima (quanto mi sono dilungata u__ù)

Kanako

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Capitolo 10
*** Capitolo X. Herzbrenht ***


E' passato quasi un mese dall'ultimo aggiornamento, lo so. ^^ Cause di forza maggiore, capita ogni tanto.
Prima del capitolo, vorrei ringraziare Dark Magician, myki, marluxia25 e olghish per i commenti. Sholove per i preferiti (benvenuta! <3) e di nuovo olghish e Dark Magician, più berry345 per aver messo questa storia tra le seguite.

.-.-.-.

Uomini:
Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;
Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;  
Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re d'Est;
Sarah, messaggera dello Smeraldo.

Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;
Krados di Thena, Nobile purosangue, spia reale, demone;
Molko di Thener, Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro;
Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto;
Apuh, Nobile del Clan Thener, vampiro;
Thitus, Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone;
Bhor'la, Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo;
Murthen, mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.

Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio della Forza;
Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Thenaria, dea della Terra, protettrice del Regno del Nord, signora della Foresta Grigia e delle Driadi;
Niharn, dea dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

Campi di Sangue:
Archelaos, negromante, semidio;
Laila, scheletro di Archelaos;
Arnold, proprietario della Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca.

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Avviso (soprattutto per marlu XD): alta concentrazione di Nicholas in questo capitolo. In caso di infarto, l'autrice non ha alcuna responsabilità.

Avviso (serio): essendoci una considerevole (enorme, coff coff) parte di dialoghi in Maholhan, consiglio di copiare il minidizionario, che si trova in fondo alla pagina, su un word processor (word, openoffice writer, blocco note, word pad, quel che vi pare). Questo vi permetterà di leggere immediatamente la traduzione e capire quel che si dice.


X.
Herzbrenht


Irene immerse le mani nella bacinella di acqua limpida, portata lì dalle Driadi, su esplicita richiesta di Nicholas. Per lui, Thenaria avrebbe fatto questo e altro. Era una comodità per la quale lei concedeva alla dea di stare sempre attorno al suo promesso sposo. Prese del sapone liquido, sempre dono delle ninfe dei boschi, e lo utilizzò per liberare la pelle da quel sangue nero che, seccandosi, aveva creato una disgustosa pellicola gommosa sui suoi avambracci.
Terminato il lavaggio, si asciugò le mani con un panno morbido, che poi usò per togliere il trucco. L'ombretto, il fondotinta e il chiaro rossetto svanirono, lasciando il suo volto lindo e candido, gli occhi blu che brillavano come scuri abissi marini. Portò le mani ai capelli e li liberò dai fermagli, sciogliendo le trecce per pettinarli. Abbassò le palpebre, rilassandosi man mano che la spazzola scioglieva i nodi. Aveva bisogno di continuare a non pensare, non ne aveva voglia. Dopotutto aveva aiutato la ragazzina che le aveva dato tanto tormento e non era sicura di voler capire il vero motivo per cui l'aveva fatto. Era molto più rassicurante l'odio a volte, perché impediva di vedere le innumerevoli strade da percorrere. Strinse i denti. Non pensare, si ricordò.
Aprì gli occhi e guardò il suo riflesso nello specchio. Ma il suo sguardo fu attirato da due iridi argentate immerse nella penombra, che spiccavano gelide e crudeli, offuscando con il loro splendore tutto ciò che le circondava. Irene si voltò di scatto, il pettine le sfuggì di mano, però non le importava più niente. Il cuore le salì in gola quando lo vide.
«Da quanto...?» cominciò, ma le morirono le parole in gola.
«Avresti potuto fare il bagno» intervenne Nicholas, giocherellando distratto con una goccia di rhum rimasta nel bicchiere.
Irene si morse il labbro inferiore, mentre gli occhi definivano la sua figura nell'oscurità. Era seduto sul divanetto posto nella parte opposta rispetto alla specchiera, davanti alla quale si trovava lei. Indossava ancora il vestito con cui aveva combattuto, sporco di sangue e grumi sulla cui provenienza era meglio non indagare. La donna prese il panno che aveva usato precedentemente, lo immerse nell'acqua della bacinella e raggiunse Nicholas sul sofà, mettendosi al suo fianco.
«Sei tu ad aver bisogno di un bagno» gli disse, sfiorandogli il viso con la stoffa bagnata.
Lui accettò le sue cure, immobile, continuando a giocare con quel che rimaneva del liquore, mentre con gli occhi seguiva ogni gesto del demone, sempre all'erta, la situazione sotto il suo totale controllo.
Quando Irene fece tornare il viso dell'Infero del suo normale e pulito pallore, discese con lo straccio lungo il suo collo, fino al torace lasciato scoperto dalla giacca.
«Hai aiutato l'umana» disse Nicholas, interrompendo il silenzio che si era creato.
La donna non rispose, quella non era una domanda, e continuò ad occuparsi di lui, finché un suo braccio le cinse i fianchi e la spinse contro di sé.
«L'hai fatto perché temevi una punizione, o forse perché ti sei resa conto del tuo comportamento stupido?» continuò il re, ruotando il capo per guardare dritto negli occhi Irene, che aveva ripreso a tormentarsi il labbro inferiore, lo sguardo fisso sul suo petto. «Oppure volevi compiacermi
Allora la promessa sposa sollevò le iridi blu e lo fissò a lungo, senza fiatare. «Stavo agendo in modo sciocco» rispose, infine, dicendo la cosa che l'avrebbe messa meno in ridicolo. In realtà, lo aveva fatto per lui, solo e soltanto per lui. Non le costava nulla non provare odio nei confronti di quella ragazzina. Era da lui che non voleva allontanarsi. Avrebbe sopportato quell'umana per lui. Altrimenti, sapeva che il re l'avrebbe messa da parte, in modo del tutto volontario, per punirla della sua iniziativa. Dovrai accettare le mie scelte e tutto quello che io faccio, se vuoi mantenere la tua posizione. Non ammetto pareri discordanti dalla mia consorte, l'aveva avvisata lui quando i loro padri li avevano presentati, anni addietro. Irene capiva la sua necessità di circondarsi di persone fidate che la vedessero come lui, perciò doveva piegarsi. Si era ribellata a lui prendendosela con l'umana. Aveva osato troppo, lo aveva quasi perso. Non voleva ricadere in quell'errore.
Nicholas ghignò, restringendo appena le palpebre. Si girò verso di lei, tirandosela sulle gambe. Poi avvicinò le labbra a quelle di Irene, dopo averla stretta a sé con forza. «Vuoi un premio, ora?» le domandò, la voce bassa e roca.
La donna si aggrappò alle sue spalle, mentre un brivido le risaliva la schiena, crudele segno dell'eccitazione che si stava impadronendo del suo corpo. Nicholas amava destare la brama altrui e giocarci, accrescendo in questo modo il proprio desiderio e legando a sé la sua vittima. Le prede non potevano divincolarsi, non potevano svincolarsi dal guinzaglio perché non lo avrebbero mai voluto davvero. Quella piacevole schiavitù era sottile, insidiosa e meschina. E Irene non voleva liberarsene.
Abbandonato il bicchiere per terra, l'Infero utilizzò la mano libera per accarezzare una gamba della donna, scoprendola al suo passaggio dalla vestaglia che lei indossava. Risalì fino ai fianchi, lentamente, mentre quella lo abbracciava con forza. Piegando il capo sulla sua spalla, Irene ansimò.
«Sì, voglio un premio».

Vraele fece ancora qualche passo barcollante, poi si gettò a terra, sedendosi tra le radici di un albero, che fuoriuscivano dal terreno. Chiuse gli occhi, cercando di rallentare il respiro e riposarsi. Gli girava la testa, si sentiva debole e nauseato, aveva perso troppo sangue. Doveva curare almeno le ferite peggiori prima di tornare a Gemma d'Autunno. Riaprì gli occhi e vide, tra le fronde degli alberi al limitare della Foresta Grigia, Hyustas ed Illiriha nel cielo scuro. Non era tanto tardi come aveva pensato, erano all'incirca le dieci di sera. Inspirò e gemette quando lo squarcio sul petto si tirò, lanciando una fitta di dolore. Sentì il sangue caldo scivolargli sulla pelle e strinse i denti. Doveva darsi una mossa. Ad ogni movimento si riaprivano le lesioni in via di guarigione. Anche se, come Divinità, aveva una velocità di rigenerazione dei tessuti maggiore, correndo non faceva altro che rendere vani gli sforzi del suo corpo. Forza, si incoraggiò, quando si decise a muovere le braccia e posare le mani sul taglio che gli attraversava il torace. Si convinse che la Fenice non lo aveva colpito tanto a fondo, che era stato l'intervento di Nicholas a peggiorare la situazione. Concentrò il suo potere e pronunciò l'incantesimo di cura. Ci avrebbe messo un po' di tempo, ma già sentiva il dolore svanire. Chiuse gli occhi, la luce delle Lune che gli baciava il volto. Lunar, pensò con nostalgia.
Mentre il suo corpo guariva lentamente, stremato, Vraele scivolò in uno stato di dormiveglia in cui la sua mente vagò nel cielo notturno, nella speranza di incontrarla. Lei, Lunar, la dea delle Lune. Rinchiusa tra i Monti di Luce, in un volontario esilio che lo aveva lasciato solo a Gemma d'Autunno. La sua immagine diventò sempre più nitida davanti agli occhi della memoria, con i suoi lunghi capelli celesti, che scendevano in morbide onde lungo il corpo minuto e delicato.
“Vraele” lo chiamò Lunar, sfiorandogli il viso col suo tocco leggero, quasi impalpabile. “Non starai forse dormendo?”
Il dio della Guerra accennò un sorriso sofferente e grugnì qualcosa, godendo delle carezze di Lunar. Sembrava tutto così reale, quanto tempo era passato dall'ultima volta che l'aveva vista? Secoli, millenni. Era già iniziata la Guerra Millenaria quando lei era andata nel Regno di Luce, a vivere al palazzo reale dei Lucenti col fratello. La guardò, registrando ogni particolare di quel volto amato, gli occhi a mandorla, le guance rosate, le labbra piene e innocenti. Tese una mano per accarezzarla, era così tangibile, quasi fosse lì con lui. Fu reale anche il calcio negli stinchi che gli giunse quando il suo arto era ad un soffio dal viso di Lunar. Vraele corrugò la fronte. Lei non era violenta, la sua mente gli giocava brutti scherzi. La stava dimenticando?
«Detesto essere ignorato, fratello» si lamentò una voce ben nota.
Vraele aprì gli occhi di scatto e rivolse lo sguardo all'uomo che lo sovrastava, con le braccia incrociate sul petto, i capelli visibilmente tinti di rosso su cui si rifletteva la luce lunare.
«Sarihele!» lo riconobbe, sbigottito. «Sei stato tu ...?»
«A tirarti un calcio, sì, proprio così. Ti sembro forse Lunar? O meglio, ti sembro forse una donna?» replicò Sarihele, distendendo le braccia lungo i fianchi, dopo averle spalancate per mostrare il suo corpo, maschile.
Il generale dell'esercito divino chiuse gli occhi e sospirò. Il fratello si accovacciò davanti a lui e lo guardò attentamente.
«Sei conciato bene, pur essendoti curato, ovvio che deliri. Però te la sei sempre cavata con gli incantesimi di guarigione, tra un po’ dovresti migliorare» commentò il dio delle Ribellioni. Sfiorò il petto dell'altro uomo, dove la pelle giovane aveva preso il posto dello squarcio.
«Grazie a Nicholas, come al solito» ribatté Vraele, sconfortato. Sollevò lo sguardo, rivolgendolo al fratello. «Ho incontrato la Fenice».
Sarihele lo scrutò, cercando di capire cosa intendesse.
«La Regina d'Ovest» spiegò subito Vraele, maledicendo la sua abitudine a quel soprannome.
«Aaah» fece il fratello, sollevando il mento ed annuendo. «E com'è?»
Il dio della Guerra rivolse gli occhi al cielo, pensoso. «Ha l'aspetto di una ragazzina, ma è stata lei a farmi quel taglio sul petto» fu costretto ad ammettere. Non poteva tenere nascosta un’informazione così importante a lui.
Le iridi nere di Sarihele brillarono e il fantasma di un sorriso passò sul suo volto.
«Ho avuto il tempo di colpirla una sola volta con la Shylazhil. Sulla guancia, la destra» aggiunse Vraele, passandosi una mano sul viso sudato. «Vuoi unirti davvero a lei?»
Il dio delle Ribellioni si limitò a fissarlo, senza rispondergli. Il contatto di sguardi durò a lungo, finché Sarihele non si mise le mani sulle cosce e si tirò in piedi.
«A questo punto, ti saluto. Ho una Fenice da incontrare» annunciò allora, guardandosi attorno. Gli altri Herzbrenht erano poco distanti, nella Foresta Grigia, accampati in attesa del suo ritorno. «Buon rientro a casa, fratello» lo salutò ironico, prima di dargli le spalle ed allontanarsi tra gli alberi.
Vraele seguì con lo sguardo il fratello, fino a quando non sparì dalla vista. Dopo di che, rivolse un'ultima occhiata al cielo ed alle Lune, il regno e la corte di Lunar, e decise di alzarsi. Posò una mano per terra e si aggrappò all'albero per rimettersi in piedi. Rivolse una rapida occhiata alle sue spalle, poi si incamminò verso Nord, aumentando il passo fino a correre a gran velocità. Doveva raggiungere Gemma d'Autunno entro quella notte. Il ritardo avrebbe solo peggiorato la sua situazione.

Alexya si era stufata di rimanere distesa sotto le coperte e, nemmeno un po' dispiaciuta di contrariare Vaenihum, iniziò a curiosare nella tenda ben arredata. Non voleva continuare a torturarsi col pensiero dei suoi soldati, morti, feriti o vivi che fossero. Doveva riposare la mente, a modo suo, cioè distraendosi. Aprì libri e pergamene di letteratura, storia e mappe di diverse epoche, frugò qua e là trovando molte cose interessanti, ma niente di ciò che cercava. Quell'amuleto, ricordò, che avevano l'Elfo e Irene. Doveva avercelo anche Nicholas, lì da qualche parte, dato che quella tenda sembrava contenere parte dei suoi effetti personali. Non poteva portarlo sempre addosso, no? Che se ne faceva?
Alla fine del giro, la ragazza si fermò alla scrivania, su cui si trovava un bauletto tra varie carte. Lo tenne sott'occhio a lungo, indecisa se violare anche quell'oggetto o lasciar perdere. Vinse la curiosità e la regina sollevò il coperchio, trovando la serratura aperta. Il contenuto del cofanetto la lasciò perplessa: piccole capsule di ferro, con incisi simboli diversi e con un anello di bronzo a un'estremità. Rigirò uno degli ovali tra le dita, cercando di comprenderne la funzione.
Concentrata sulla capsula nelle sue mani, Alexya sussultò quando due mani fredde le scivolarono sui fianchi, congiungendosi sul suo ventre nascosto solo dalla sottile camicia da notte. Girò la testa di scatto e incontrò gli occhi argentei di Nicholas, a brevissima distanza.
«Milord!» esclamò, sorpresa, riuscendo a far uscire appena un fil di voce.
L'Infero le rivolse un ghigno e lanciò uno sguardo all'oggetto tra le dita della ragazza, mentre la stringeva.
«Vedo che non avete perso tempo» constatò lui, affondando le labbra nei ricci scuri di lei. Non stava respirando, quindi l'odore del suo sangue non poteva colpirlo. Era molto più libero di provocarla ed era intenzionato ad approfittarne. Sentì Alexya venir scossa da un brivido e sapeva bene che non era per la bassa temperatura del suo corpo.
«Cos'è?» gli domandò lei, sollevando la capsula all’altezza del viso.
Nicholas ruotò il capo e le sfiorò l'orecchio sinistro con le labbra. La ragazza si voltò di scatto, ruotando su se stessa tra le sue braccia, e gli mise le mani sul petto, per allontanarlo. Rimase accostata alla scrivania, poco distante dall'Infero, che non si era mosso di un millimetro, ma che si era limitato a liberarla dall’abbraccio. I suoi occhi verdi lo guardavano con rabbia, per quel che le stava facendo provare. Lui tirò la bocca in un altro ghigno, crudele e sadico.
«E’ un Tyher» le rispose, infine. Mosse un passò verso lo scrittoio e la vide spostarsi di lato, per mantenere una certa distanza da lui. Era tutto inutile, lei non poteva contrastarlo. Glielo avrebbe fatto notare in seguito. Ora doveva divertirsi ad impartirle insegnamenti. Conosceva così poco del mondo, che era quasi un piacere istruirla a modo suo. Prese un Tyher dal bauletto, dopo aver frugato con noncuranza tra le varie capsule. «Può contenere qualsiasi cosa, rimpicciolita infinite volte. Attraverso la magia, ovviamente».
«Ovviamente» confermò Alexya, con una nota d'invidia nella voce.
«La magia fa parte dell'artefatto, quindi lo possono usare anche le creature prive di poteri magici» aggiunse Nicholas, giocherellando con il Tyher. «Per attivarlo, basta ruotare quest'anello» le spiegò, eseguendo quanto aveva appena detto. Lasciò la capsula sul tavolo ed essa si tramutò in una coppa di lamponi, rossi e maturi.
La regina si avvicinò al contenitore, osservandolo ammirata. Era strabiliante vedere quante strade si aprivano grazie alla magia. Strade che lei non avrebbe mai percorso, con ogni probabilità. Anzi, di certo. Eppure non era capace di rassegnarsi. Avrebbe trovato un modo per acquisire quella capacità che le mancava.
L'Infero la guardava, godendo della sua espressione meravigliata, degli occhi che brillavano, della bocca appena schiusa nell'incertezza se parlare o meno. Prese un lampone e lo sollevò tra pollice e indice all'altezza del viso della ragazza.
«Sono commestibili» le disse, prima di posare il frutto sulle sue labbra, come in attesa del permesso per violarle.
Alexya gli rivolse uno sguardo sorpreso e spaventato, ma aprì la bocca, per assaporare il lampone che lui le stava porgendo. Le dita di Nicholas lasciarono la presa ed i polpastrelli sfiorarono lascivi le labbra della regina. Non riuscendo più a sopportare lo sguardo dell'Infero, lei abbassò le palpebre e si concentrò sul lampone, che le parve incredibilmente dolce e succoso. Lo masticò appena, poi deglutì e riaprì gli occhi, accorgendosi che il re non aveva smesso di guardarla in quel modo, con famelica bramosia che le faceva annodare lo stomaco e venire i brividi.
«Per disattivarlo» riprese lentamente Nicholas, avvicinando la mano alla coppa di lamponi. «Si deve ruotare di nuovo l'anello» continuò e posò l'indice sull'anello di bronzo collocato sul bordo del contenitore. Un movimento della mano e riapparve il Tyher, che rotolò un poco sul piano, finché l'Infero non lo afferrò e lo ripose nel bauletto. Mosse un passo, avvicinandosi ad Alexya.
Lei lo osservò, così vicino, così seducente. No, non lo è, si ricordò infastidita da simili pensieri. Doveva distrarsi, pensare a qualcos'altro. Sulle labbra sentiva ancora il suo tocco, il che non serviva a distogliere la sua mente da lui. Inoltre, come se non bastassero il suo sguardo e la sua prossimità, lui indossava solo una vestaglia nera. Ormai l'aveva capito, quell'Infero aveva la pessima abitudine di andare in giro mezzo svestito. Pessima, pessima, davvero pessima, ripeté tra sé, finché non le sembrò di crederci. Il tessuto, sul davanti, lasciava scoperto il petto – si è lavato, pensò notando l'assenza dello sporco che aveva visto poco prima di svenire – e i capelli corvini gli erano scivolati oltre la spalla, infilandosi nell'indumento. Avevano un aspetto così soffice, setoso che non resistette ed allungò la mano per prenderne una ciocca tra le mani. Sì, l'apparenza non ingannava, non in quel caso.
Nicholas seguì i suoi gesti, mentre le labbra si tiravano in un sorrisetto beffardo. Stava cedendo, la regina stava cedendo e lui non vedeva l'ora di osservarla crollare definitivamente, tra le sue braccia. Sarebbe stato divertente, molto divertente. Ma rimase immobile, senza facilitare il raggiungimento del traguardo, lasciandola agire secondo i suoi tempi, per non spaventarla com'era capitato poc'anzi. Bastava farle prendere confidenza, con calma, perciò doveva aveva ancora un po' di pazienza.
Alexya sollevò il viso e si riscosse vedendo l'espressione divertita e trionfante dell'Infero. Le tornò in mente quel che stava cercando prima del suo arrivo. L’amuleto. Doveva avercelo addosso, ne era certa ormai. Dopotutto lo aveva visto con i suoi occhi uccidere i Myurohon e, se il segreto non era nell'arma come aveva detto Vaenihum, allora era davvero quel ciondolo, d’altronde lo aveva visto sia sull’Elfo sia su Irene. Per cui, non poteva sbagliarsi. Portò entrambe le mani sul petto di Nicholas e risalì fino a raggiungere il collo. Lì avrebbe trovato di sicuro la collana, non poteva averla messa da nessun'altra parte. Passò i polpastrelli sulla pelle fredda e si fermò quando sentì sotto le sue mani una sottile striscia di cuoio. La percorse e raggiunse il nodo, proprio dietro la sua gola. Allora le braccia del re si strinsero attorno ai fianchi della ragazza, tirandola contro il suo corpo di marmo con un gesto brusco.
«Cosa...» iniziò Alexya, guardandolo negli occhi, sorpresa.
«Ad ogni azione segue una reazione uguale e contraria. Mi state provocando, milady» fu quanto disse Nicholas, avvicinandosi al viso della regina.
«Non è vero, stavo prendendo...» cercò di spiegarsi lei, mettendo una parola dietro l'altra, di fretta.
«Avreste potuto usare la bocca, ma avete preferito le mani» la interruppe l'Infero, facendo salire una mano lungo la schiena della regina. «Ero disposto a darvi le informazioni che desideravate, ora che avete provato di persona uno scontro con i Myurohon. Però avete fatto di testa vostra, perciò pagatene le conseguenze».
«Posso prendere il ciondolo, quindi?».
Improvvisamente, Nicholas scoppiò a ridere, lasciando Alexya senza parole. Non si sarebbe mai aspettata di vederlo reagire in una maniera tanto sincera. Si era accorto che lei aveva finto ingenuità – sapeva che era difficile ingannarlo –, però la sua mossa banale lo aveva divertito come una persona normale. Era incredibile.
Appena l'Infero smise di ridere, la prese per i fianchi e la sedette sulla scrivania, per poi portare le mani dietro il collo e slacciare il laccio di cuoio. Era molto lungo e il ciondolo rimaneva, così, nascosto sotto i vestiti, che lasciavano scoperto solo il petto del re. Sembrava tutto studiato per non far notare quel pendente. Probabile che fosse così, dopotutto era di Nicholas che si stava parlando e lui non faceva mai nulla per caso. Il sovrano le fece oscillare un attimo davanti agli occhi la collana, di cui lei afferrò il pendaglio per osservarlo. Era un cartiglio di oro bianco, quello del sovrano, e le rune incise sopra recitavano la formula che lei aveva provato senza successo: Myurohon ya rohon. (1)
«Come ci siete riuscito?» gli domandò, incantata. Quanti oggetti del genere avevano gli Inferi? I Tyher prima, poi quegli amuleti. Era stupefacente, non avrebbe mai immaginato cose simili.
«Ho solo sciolto il nodo» replicò beffardo Nicholas. Quando lei lo guardò torva, ghignò e le avvicinò la collana alla gola, cominciando a passarle il laccio attorno ad essa un paio di volte, per accorciarlo e infine legarlo. «Se credete che vi racconti un segreto simile, allora siete proprio una povera illusa».
Alexya guardò il ciondolo posato sul suo petto, sorpresa. E un po' emozionata, doveva ammetterlo. Le aveva donato un oggetto simile, qualcosa che gli apparteneva e che gli sarebbe stato utile. Di sicuro Nicholas ne aveva a disposizione chissà quanti, però lei no e quel singolo amuleto significava molto, moltissimo per lei. Anche se era l'unica a possederlo, almeno aveva in mano un modo semplice per uccidere i Myurohon in battaglia. Avrebbe potuto mostrarlo a qualcuno e provare a duplicarlo. Erano infinite le strade che le si erano aperte grazie a quel regalo inatteso. Colma di gratitudine, mista a euforia e qualcosa che lei non comprendeva, rivolse lo sguardo all'Infero.
«Non ho parole per ringraziarvi» disse e si trovò sciocca e banale subito dopo aver pronunciato quella frase.
Nicholas ghignò. «Preferisco i fatti. Ma il ringraziamento adeguato implicherebbe la perdita della vostra virtù».
Alexya ridacchiò imbarazzata e sfiorò il ciondolo che brillava, a contatto con la pelle lasciata scoperta dalla scollatura della camicia da notte. Il Re degli Inferi poggiò le mani sullo scrittoio, di fianco alle sue cosce, e avvicinò il viso a quello di lei. Non avrebbe ripreso a respirare per gustarsi il suo profumo delizioso, sarebbe stato troppo pericoloso. Guardò la ragazza negli occhi e non vide più l'innocente incertezza di prima. Prese la sua espressione come un tacito permesso e posò le labbra sulle sue, toccandole appena, all'inizio. Quando lei le schiuse, impaziente, Nicholas non indugiò e la baciò come voleva lui, assaporando a fondo il mortale calore della sua bocca. La regina gli passò le braccia attorno al torace, stringendolo con la stessa forza di un naufrago aggrappato ad uno scoglio, la sua unica salvezza.
Poi, sangue.
I canini di Nicholas la ferirono e qualcosa nell'Infero si liberò. Lui interruppe il bacio, senza dare troppo a vedere quel che stava accadendo in lui. Aveva allenato il suo autocontrollo durante anni per quell'evenienza. Con un enorme sforzo. Non avrebbe mandato tutto in aria lasciandosi andare.
«Vi conviene dormire, domani dovrete continuare il vostro viaggio» le disse, muovendo un passo indietro, lontano da lei. Sentiva in bocca il suo sapore, quello del suo sangue, così delizioso e irresistibile da fargli venir voglia di saltarle alla gola. Un istinto animalesco che tentava di combattere dietro la sua maschera impassibile.
Alexya annuì, senza guardarlo negli occhi. «Buona notte, milord» gli augurò in un sussurro, rimanendo seduta sulla scrivania. Si sentiva del tutto priva di forze. Quasi ringraziò quel taglio sulla lingua per averla salvata. Avrebbe perso se stessa, se Nicholas avesse continuato. Era una cosa tragica, esagerata, ma era quello che sentiva e che le dava persino fastidio ammettere.
L'Infero non attese di vederla tornare a letto, né le chiese se avesse bisogno di aiuto per raggiungerlo. Uscì dalla tenda, mentre dentro di lui un'altra presenza, potente, immensa e antica quanto il Mondo Profano godeva della riacquistata libertà.

Nicholas mosse qualche passo di fretta, dirigendosi nel folto della foresta, a denti stretti. Doveva imprigionarlo di nuovo, prima che potesse riemergere completamente, e per questo doveva darsi una mossa. Lo aveva sempre messo di pessimo umore tale situazione e preferiva tenersi lontano dalla gente. Nessuno doveva vederlo lottare con se stesso, quello era uno spettacolo vietato a chiunque.
Da quanto tempo, figliolo, lo salutò beffarda una voce nella sua testa.
La presenza si estese, riallacciando i collegamenti con i suoi ricordi, con i suoi pensieri, con le sue sensazioni. Era tornata libera ed era poco intenzionata a farsi sottomettere ancora una volta.
L'Infero si prese il capo tra le mani e si poggiò con la schiena a un albero, concentrandosi per sottrarre quanto più di sé a lui, che però continuava inarrestabile la conquista della sua mente. Sembrava che la prigionia gli avesse fatto recuperare i poteri persi nelle loro interminabili lotte per la supremazia in quel corpo, troppo stretto per due anime. Era addirittura più potente di prima.
Nephas, da dove hai preso questo potere?, gli domandò seccato Nicholas, premendo con forza le dita sulle tempie. Gli stava venendo un'emicrania tremenda a causa di quel maledetto.
Il riposo, la pace dei sensi. Sai, ti devo ringraziare, perché finalmente ho raggiunto l'illuminazione. Posso farti davvero da coscienza, ora, replicò il Primo Infero con tono sardonico.
Senti chi parla, lo sbeffeggiò Nicholas, deciso a ricordargli ancora che quel corpo, così somigliante a quello dell'antenato, era suo e di nessun altro. Potevano anche condividere la mente, ma quell'insieme di ossa, muscoli e sangue gli apparteneva.
Verificalo tu stesso. La prigionia mi ha dato il tempo per riflettere, rispose Nephas, tranquillo. Non avrai creduto che io ti abbia lasciato in pace perché sconfitto, vero? Non è da te, da noi, illudersi.
In realtà, Nicholas aveva trovato troppo sospetta la pace che aveva regnato nella sua mente negli ultimi cinquant’anni. Aveva sentito qualche volta l'antenato agitarsi, al Consiglio degli Otto, per esempio, ma lo aveva sepolto sotto un mucchio di magia... Che lo aveva potenziato. Ecco come aveva fatto. Altro che pace dei sensi. Nephas si era nutrito della sua energia, pur senza indebolirlo. Nicholas sapeva di avere potere in eccesso e mai gli aveva dato fastidio quella sua particolarità, fino a quel momento. Scoprire che la sua stessa forza accresceva quella del Primo Infero era uno stupido scherzo del Fato. Un maledettissimo scherzo, che lo incatenava, che lo privava della libertà di cui si era sempre vantato. Se non avesse voluto rendere più potente Nephas, non avrebbe dovuto usare la sua magia per bloccarlo. Impossibile. Doveva forse permettere a quel dannato di parlargli in testa, rendendolo uno schizofrenico come Al? Assurdo.
Son contento di non esser diventato un idiota una volta reincarnato, commentò Nephas, che aveva taciuto per seguire i pensieri del suo ospite. Fato sarebbe stato davvero sciocco a sprecarmi in quel modo. Comunque, figliolo, non prendertela con lui. Non è sempre colpa sua.
Nicholas storse la bocca, in un sorriso amaro. Hai ragione: l'idiozia è tua, la profezia è sua. Non solo era stato la causa della sua morte, ma anche l'antenato aveva fatto in modo di non crepare definitivamente. Non ci fosse stata l'usanza di mescolare parte delle ceneri del defunto sovrano allo smalto per rivestire la sua statua, l'anima di Nephas sarebbe morta col suo corpo. E lui sarebbe stato libero da quell'impiccio. Quella tradizione era nata su richiesta del Primo Infero, di sicuro era stato un suo piano per riavere un corpo nel Mondo Profano e poter terminare la sua battaglia con Al. E lui doveva andarci di mezzo, ovvio.
«Nephas!» lo chiamò Thenaria, emergendo da un albero vicino a quello cui era poggiato Nicholas.
L'Infero le rivolse uno sguardo freddo, che non scoraggiò minimamente la dea. Uscì dal tronco e raggiunse il re, muovendosi leggera sul terreno arido. Sfiorò lato sinistro del volto dell'uomo, quello nascosto dai capelli, e glielo scoprì, tirandogli indietro gran parte delle ciocche corvine. Così la somiglianza con Nephas era perfetta, quasi il suo corpo fosse ancora intatto e vivo.
«Ho sbagliato a non prestare sufficiente attenzione, ho permesso a quelle creature immonde di metter piede nella Foresta Grigia. Eppure, Lord Nicholas, voi avete risvegliato il mio amato» continuò Thenaria, abbassando le palpebre e sorridendo con dolcezza.
Nephas frugò nella memoria della sua reincarnazione, che aveva deciso di lasciarlo fare per il momento. Avrebbero ripreso il braccio di ferro in seguito. Così non va, per niente, fu il suo commento. Avesse avuto un corpo, avrebbe scosso la testa rassegnato. Capisco la tua necessità, figliolo, ma trova mezzi più onorevoli per raggiungere il tuo fine. Non puoi illudere Thenaria per non dover provvedere anche alla protezione del tuo esercito, continuò.
«Immaginavo che sareste stata molto turbata, per questo ho chiesto a Nicholas il permesso di parlarvi, anche se va contro i vostri patti» rispose il Re degli Inferi, entrando nella parte del suo antenato.
Per Fato, ma ti diverte tanto prenderti gioco di lei?, sbottò Nephas. Subito dopo, si sentì schiacciare dalla presenza della sua reincarnazione e tacque. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che, se avesse continuato a interferire così tanto, Nicholas se ne sarebbe fregato delle conseguenze e lo avrebbe rinchiuso in un angolo della sua mente gelida e buia, forse in maniera definitiva. Meglio non scherzare troppo con quel fuoco, perché anche se freddo aveva tutta la capacità di distruggere ogni cosa.
Thenaria guardò l'Infero, gli occhi lucidi, il cuore che le scoppiava in petto.
«Oh, grazie, grazie!» disse, quando riuscì a spiccicar parola. «Vi giuro che la prossima volta impedirò l'accesso a chiunque abbia intenzioni ostili nei vostri confronti!».
Nicholas annuì, un falso sorriso di riconoscimento dipinto sul volto. Piegò il capo di lato e la cortina di capelli tornò a coprirgli la metà sinistra. Non gli piaceva somigliare al suo antenato. Quel metodo, la frangia, era efficace e poco dispendioso. Non avrebbe mai barattato la sua bellezza per cancellare il ricordo di Nephas, di cui aveva le sembianze.
«Ditemi, mia cara, Vraele è già uscito dalla Foresta Grigia?» le domandò poi, con falso garbo. Gli riusciva particolarmente bene la simulazione. Osservare gli Uomini aveva i suoi pregi. Pochi, ma c'erano. La vasta gamma di sentimenti che provavano e di espressioni che assumevano era un'ottima materia di studio, che si rivelava sempre utile. Soprattutto per ingannare gli sciocchi.
«I due gemelli si son scambiati i posti. Anche Sarihele è qui per la ragazzina, ne stava parlando con Vraele» rispose Thenaria, con tono dolce. «L'ho vista e tutti sono interessati a lei. Chi è?»
Nicholas rivolse lo sguardo davanti a sé, verso la foresta immersa nel buio. Come spiegarlo in poche parole? Non era necessario troppo impegno. Dopotutto non gli importava un bel niente che quella donna sapesse la verità. Tornò a guardarla.
«Colei che si opporrà ad Al in nome di tutti gli altri Regni di questa Terra» ribatté, infine. Avesse detto che era anche una sua avversaria, Thenaria l'avrebbe danneggiata. Il che era controproducente per i suoi piani. Non voleva troppe interferenze esterne. Quella ragazzina era prevedibile al punto giusto, non aveva bisogno di complicazioni in aggiunta al desiderio del suo sangue.
«Ora vi devo salutare, mia cara. Nicholas domani tornerà ad Occhio degli Inferi, non posso affaticarlo maggiormente. Ci rivedremo, siatene certa» si congedò il re e batté le palpebre, per farle credere che Nephas fosse tornato a rintanarsi nella sua mente.
Thenaria assunse un'espressione triste e si passò le dita tra i capelli che le nascondevano il lato sfigurato del viso cinereo. Lo aveva visto per così poco tempo…
«A Shadwanri» disse Nicholas, prima di incamminarsi verso la radura. (2)

Adele si richiuse il battente alle spalle e mosse qualche passo al buio, raggiungendo il letto a baldacchino di Al. Scostò la tenda leggera dalla parte in cui riposava il marito e gli sfiorò il viso con i polpastrelli, per svegliarlo.
Il Re delle Divinità aprì gli occhi e li fissò in quelli della moglie, senza fiatare.
Lei tirò le labbra rosse in un sorriso, poi parlò: «Vraele eske-koman, ailishe» gli annunciò, in un sussurro. (3)
Al si tirò a sedere e si liberò dalle lenzuola che nascondevano la sua nudità, scivolando giù dal letto per afferrare il gonnellino abbandonato sulla poltrona posta lì vicino. Indossò l'indumento di lino, fermando un lembo di tessuto con uno spillone, e si cinse i fianchi stretti e magri con un'opulenta cintura d'oro e gemme. In seguito, i piedi scalzi sul pavimento di legno, si diresse precipitosamente all'esterno della camera da letto, alla cui guardia c'erano due Colchici, che gli andarono dietro silenziosi.
Adele, prima di imitarlo, lanciò uno sguardo alla ninfa addormentata nell'alcova. Dopo di che, ruotò su se stessa e seguì con calma il marito.
Raggiunta la sala del trono collocata al pian terreno, Al si sedette ad suo posto e attese che Vraele fosse condotto al suo cospetto da due Colchici, che lo avevano scortato fino a quel salone, nell'esatto centro della Gemma d'Autunno ed era di forma circolare, alto quanto tutto il palazzo reale, col soffitto di vetro che permetteva ai raggi solari di illuminare l'ambiente e far brillare le decorazioni dorate. Ma era notte, in quel momento, e la luce lunare non rischiarava la sala del trono. I quattro candelabri erano stati accesi prima dell'arrivo del sovrano, probabilmente per ordine della Regina delle Divinità.
Quando Adele raggiunse il fianco del marito, accomodandosi sul grande cuscino a lei riservato, fecero il suo ingresso nel salone anche Vraele e i due Colchici.
Il dio della Guerra era sorretto da una delle guardie reali, che aveva riconosciuto come Devon dalla sua stretta ferma e dalla voce che, pur distorta dalla maschera, lo aveva incoraggiato a proseguire. Era distrutto, la corsa fino ai Pilastri Trasportatori del Regno del Nord di solito non lo sfiancava così tanto. Ma era ferito, seppur in modo lieve, e questo fattore poteva rallentare persino una Divinità.
Vraele fu abbandonato ad un paio di metri dal trono, sul tappeto scarlatto che copriva il pavimento di marmo. I Colchici fecero un passo indietro, nello stesso istante, battendo i tacchi degli stivali per terra. Immobili alle spalle del dio della Guerra, erano ormai più simili a statue che ad esseri viventi.
Con qualche difficoltà, Vraele si mise in ginocchio, per poi prosternarsi come volevano il protocollo e il suo corpo affaticato. «Ya eske dher e vis-munis, Dhy Al» si annunciò il dio. (4)
Il sovrano lo guardò irritato, una ruga andava formandosi in mezzo alle sopracciglia.
«Ojhak thirion-los, skethen anchre-nih. Whankos» disse Al, poggiando il mento su una mano. (5)
Vraele non fiatò, né si mosse. Era una realtà di fatto, Al sapeva bene com'erano andate le cose eppure perdeva tempo a ragionare ad alta voce, quasi a ricordargli il suo smacco, per umiliarlo. Ma ormai il dio della Guerra non aveva più un vero orgoglio, perché era stato calpestato e straziato nei secoli. Fargli notare la sua presunta inettitudine non era un vero fastidio, per lui. Lo era, invece, rimanere in quella sala, inginocchiato con la fronte contro il pavimento, il corpo spossato e la punizione che aleggiava minacciosa nell'aria.
«Nih-phandi vuls car, car thi de-suphet prephed adhika lim-ghut, Vraele?» proseguì il sovrano. (6)
«Car, Dhy Al...» Si interruppe. Non poteva dire che era stata colpa il Re delle Divinità, che aveva sottovalutato la ragazzina umana. La punizione sarebbe stata peggiore, in tal caso. E non ci teneva proprio a peggiorare la sua situazione già tragica. «ya ea-munerine. Des eske yarion gaden». (7)
Adele rivolse lo sguardo al marito, sul cui volto era comparso un sorriso soddisfatto. Gli occhi gli lampeggiavano, pregustando l’azione successiva. La Regina delle Divinità fece cenno a uno dei Colchici della scorta di Al perché si avvicinasse.
«Duqe dher Ephremyus» gli sussurrò, prima che il dio al suo fianco riprendesse a parlare. (8)
«Nos-thi phrusti-nih, kehn Vraele?» domandò Al, mellifluo. (9)
Il dio della Guerra non fiatò, non sarebbe cambiato nulla. Ormai era rassegnato a ricevere una punizione. Quel che voleva sapere era il tipo di pena che avrebbe dovuto pagare. Ogni volta Al aveva un'idea diversa, alcune al di là della sua sopportazione. Pregò Fato perché non rimanesse infermo per troppo tempo. Se dell'umore giusto, il sovrano degli dei poteva trovare sbagliati persino i lunghi periodi di guarigione, il che comportava altre sofferenze. Perché continuo a star qui?, chiese mentre rifletteva sulle possibili torture.
Perché io sono questo, si rispose poco dopo, ricordando che Sarihele in passato gli aveva già posto quella domanda. Le sconfitte, le punizioni, le cicatrici. Non posso sfuggire da tutto ciò, o non sarei più Vraele il dio della Guerra.
Al lanciò un'occhiata all'omaccione pelato entrato nella sala del trono di soppiatto, nonostante il suo corpo eccessivamente muscoloso e alto due metri facesse pensare che la grazia non fosse il suo forte. Nemmeno gli anelli di bronzo attorno ai polsi e alle caviglie avevano tintinnato.
Ephremyus, il torturatore, eseguì un inchino, la pelle dorata cosparsa di oli che lo fecero scintillare alla luce dei candelabri, vestito solo di un perizoma di lino.
«Tham Myurohon ahke ephit?» chiese Al, accavallando le gambe e tamburellando le dita sui braccioli del trono. (10)
Vraele inspirò. «Whank kohrs». (11)
I Colchici alle spalle del dio della Guerra, il loro tenente, si mossero e lo afferrarono per le braccia, tirandolo in piedi. Vraele si lasciò trascinare e non mosse un dito, né batté ciglio quando gli strapparono di dosso la giacca. Rimase a torso nudo davanti ai sovrani, mostrando le ferite infertegli da Nicholas e la Fenice ormai in via di completa guarigione.
Adele fece scorrere lo sguardo sul corpo lacerato del dio della Guerra con indifferenza, al contrario di Al che tirò le labbra in un ghigno, la follia che colmava le iridi nere.
Ephremyus si avvicinò a Vraele, sgranchendosi le dita della mano destra. Gli schiocchi delle articolazioni riempivano il salone e, quando l’arto subì la metamorfosi cui si stava preparando il torturatore, questi si rivolse al suo sovrano e padrone.
«Dunque, una coorte, Divino?» domandò Ephremyus, a conferma di quanto aveva intuito dal discorso delle due Divinità. Il suo grado era basso, quasi quanto quello di Eoforbio, e capiva poco della Maholhan. Giusto il necessario per comprendere gli ordini.
«Così è».
Seicento frustate. Poteva andare peggio, pensò Vraele.
La mano di Ephremyus calò sulla sua schiena, le dita rese lunghe e flessibili dalla magia, le unghie simili a uncini straziarono la pelle e riaprirono le lacerazioni dell'attacco alla Foresta Grigia.
Sottili rivoli di sangue bagnarono la carne. Un'ondata di dolore assalì Vraele, che non urlò. Era ancora troppo presto.
Cinquecentonovantanove.

Nicholas sentì l'umana agitarsi nel letto e le gettò uno sguardo. Si era appena svegliata e lo stava guardando senza parole. Forse si stava domandando cosa ci facesse lui lì. Dubbio sciocco, dato che quella era la sua tenda. Era del tutto naturale che lui avesse passato la notte seduto alla scrivania leggendo, mentre la Regina d'Ovest occupava il suo giaciglio.
«Buongiorno, milady. Dormito bene?» le chiese l'Infero, chiudendo il libro.
Alexya, prima di rispondere, cercò di capire se la stesse sbeffeggiando. Aveva quella brutta sensazione, ma alla fine lasciò perdere. Si mise a sedere e si passò le mani tra i capelli aggrovigliati.
«Buongiorno a voi, milord» cominciò. «Sì, grazie, ho fatto buon riposo».
Nicholas ghignò e sfogliò distratto il volume. «Dopotutto, nessuna donna ha mai detto di aver dormito male nel mio letto» commentò, con noncuranza.
La ragazza gli lanciò un'occhiata perplessa, che lui ricambiò con un sorriso maligno. L'Infero abbandonò il tomo sullo scrittoio e si alzò dalla sedia, per andare a sedersi sul letto, vicino alle gambe della sua ospite.
«Ieri sera vi ho offerto il mio aiuto per trovare un ricordo che faccia da barriera alla vostra mente, ricordate?». Nicholas aveva preso quella decisione proprio quella notte, dopo essersi sorbito i sogni e i ricordi del cervello della regina. Erano stati uno studio interessante, almeno finché non gli avevano impedito di dedicarsi ad altro. Non aveva la minima voglia di bloccare anche l'ingresso dei pensieri altrui. Soprattutto per una ragazzina umana. E comunque, se fosse stato necessario, sarebbe riuscito a farle abbassare le difese.
Alexya batté le palpebre sorpresa. «Sì, ma non ho un...». Si interruppe, mentre la bocca di Nicholas si tirava in un ghigno. Oh, sì, che aveva un ricordo. Si tormentò le mani, distogliendo lo sguardo da quello argentato dell'Infero.
«Cosa devo fare?» domandò la ragazza, dopo una pausa.
«Concentratevi su di esso».
La regina aggrottò la fronte. Che senso aveva? Non sarebbe riuscita a pensare ad altro così, non era un metodo molto furbo.
Nicholas seguì paziente i ragionamenti della ragazza, poi intervenne.
«Non è il pensiero in sé a costituire una barriera, ma le proprie sensazioni. Cosa avete provato ieri sera, milady?» le spiegò l'Infero.
Con una smorfia di disappunto, Alexya lanciò uno sguardo all'uomo. «Che domanda è questa? Mi state prendendo in giro».
«Esattamente» sghignazzò Nicholas, sfiorando con una mano la coscia della regina. «E ora concentratevi».
La ragazza abbassò lo sguardo, fissando le mani abbandonate in grembo. Lasciò vagare la mente e il ricordo della sera prima pian piano si fece largo tra i suoi pensieri. Sentì le labbra fredde di Nicholas sulle sue, il corpo di marmo premuto contro di sé. L'eccitazione e il desiderio, che l'avevano pervasa nelle ore precedenti, s'impossessarono ancora di lei.
L'Infero le gettò un'occhiata compiaciuta, quando il flusso dei sentimenti di Alexya cessò.
Per Fato, è già caduta nella tua trappola!, esclamò Nephas, ripresosi dopo la gran quantità di sensazioni che aveva provato attraverso il contatto tra le menti dei due sovrani. Non era abituato a così tante passioni, Nicholas aveva una freddezza che lo aveva reso insensibile alla vivacità che regnava negli altri. E ne è pure contenta, considerò sentendo gli ultimi strascichi dei sentimenti della regina.
In realtà, si vuole convincere che non le piaccia, replicò Nicholas.
Sei una bestia, ragazzo mio. Riesce a schermarsi la mente solo chi possiede magia. L'hai fatto per verificarlo?, continuò Nephas.
L'Infero non replicò, era una cosa talmente ovvia che gli sembrava sciocco che il suo antenato gliel’avesse domandata. Ora che aveva la conferma definitiva, oltre a quella fornita dall'anello, che quell'umana aveva poteri magici, sapeva di poterla utilizzare. Prima, però, doveva scoprire perché lei non poteva usufruirne. C'era qualcosa dietro e la regina non ne era al corrente. Il che lo incuriosiva ancora di più.
«I miei complimenti, milady, ci siete riuscita» le annunciò Nicholas, con un sorriso forzato.
Alexya lo guardò incredula. «Davvero?»
Lui si limitò ad annuire e si mise in piedi. Aveva sentito qualcuno avvicinarsi. Un umano, ne era certo.
«Milady?» disse una voce femminile dall'ingresso.
Alexya lanciò uno sguardo a Nicholas, quasi chiedendo il permesso di far entrare la sua ancella. «Hanan, entra pure».
La donna scostò con una mano il lembo di tessuto che fungeva da porta e si fermò, interdetta. Cosa ci faceva Lord Nicholas nella stessa tenda della sua signora? Lo trovava sconveniente. Alexya era piuttosto screanzata, lo sapeva bene, ma quell'Infero non collaborava a mantenere intatta la sua virtù. Sollevò il braccio occupato da un vestito, facendo segno alla regina che era arrivata lì per vestirla.
«Milord, dovrei cambiarmi. So che questa è la vostra tenda e non ho alcun diritto di chiedervelo, ma se per piacere usciste un attimo, ve ne sarei grata» disse Alexya e allontanò le lenzuola. Scese dal letto e sentì su di sé lo sguardo dell'Infero, che la studiava, mentre lei era vestita solo di una leggera camicia da notte.
«Come desiderate» le concesse Nicholas, accennando un inchino. Si girò e si diresse alla porta, i capelli che ondeggiavano alle sue spalle.
Hanan seguì i movimenti del sovrano con soggezione e, finalmente libera dalla sua presenza, si rilassò. Andò vicino ad Alexya e lasciò l'abito sul letto.
«Milady, noto che non avete ancora imparato cosa sia la decenza» sussurrò la donna, piccata.
La regina inarcò le sopracciglia e la guardò perplessa, mentre la serva le sfilava la camicia da notte, sostituendola con una sottoveste di lino. L'amuleto di Nicholas brillò, attirando per poco l'attenzione delle due donne.
Hanan notò l'espressione scettica della sua padrona. «Non fate quella faccia!» sbottò, spazientita, pur mantenendo la voce bassa. «Vi sembra adatto a una donna del vostro rango restare in indumenti intimi davanti a un uomo?».
Alexya scrollò le spalle, mentre la serva prendeva l'abito verde scuro dal materasso. «Primo, parlare a bassa voce non serve: gli Inferi hanno un udito migliore del nostro».
La donna arrossì al pensiero che Nicholas l'avesse sentita. Non le piaceva che qualcun altro l'ascoltasse mentre riprendeva la sua regina. Finiva sempre che le davano della campagnola e il giudizio altrui la imbarazzava. Considerando che in quel caso non era un essere umano, ma un Infero, una creatura con un'altra cultura, era ancor più a disagio.
«Secondo, non sono sposata, posso fare quel che mi pare» continuò Alexya, portando le mani sui fianchi.
Hanan si riprese e fulminò con lo sguardo la ragazza. «Che discorsi son questi, milady?» Le fece indossare il vestito da viaggio, passandoglielo dalla testa. La gonna leggera ricadde lungo i fianchi della regina, nascondendo le gambe pallide, mentre il corpetto incontrò qualche difficoltà a contenere la sottoveste. Allora, la serva tirò da sotto l'indumento di lino, facendolo aderire meglio contro il busto della padrona e chiuse il corsetto, stingendo prima i lacci e poi chiudendo i bottoni che nascondevano i primi. «Le donne, di qualsiasi rango siano, dovrebbero evitare di restare da sole in una stanza con un uomo».
«Hanan, stai esagerando. Ho vent'anni, non dieci! Non devi raccontarmi nessuna fiaba che mi insegni a diffidare degli sconosciuti! Nemmeno Helena farebbe tante storie» si lamentò Alexya, sollevando gli avambracci e gesticolando irritata. «Mi è stato fatto qualcosa? No, e allora! Che ti lagni?»
«Siete troppo ingenua, milady» concluse sconsolata Hanan, allacciando l'ultimo bottone. Si guardò attorno alla ricerca delle scarpe, sapeva che erano lì, Marihus non le aveva riportate indietro. Le individuò ai piedi del letto e le prese. Si inginocchiò davanti ad Alexya, per fargliele indossare.
La regina era in silenzio, un'espressione imbronciata sul volto. Persino un'umana come lei le aveva dato dell'ingenua. Da una creatura immortale lo accettava senza problemi, era ovvio no? Aveva vissuto più a lungo, vantava di una maggiore esperienza. Ma dalla sua serva... Era assurdo. Lei non era ingenua. Si fidava delle persone che meritavano la sua fiducia e basta. Afferrò la gonna e sollevò un piede da terra per infilarlo nella calzatura.
«Sono tutti pronti per partire?» domandò la regina, indossando l'altra scarpa.
Hanan sollevò gli occhi, prima di rimettersi in piedi, e guardò la padrona con aria severa. «I soldati avevano chiesto di voi. Perché non li avete visitati?»
«Ho mandato Vaenihum. Anch'io dovevo riprendermi».
La serva si tirò su e sospirò. «Lo so, ma avevano bisogno di esser confortati dalla loro regina. Le cure mediche erano di minor importanza per loro, rispetto al vedervi. Hanno combattuto fino allo stremo contro nemici immortali, senza sapere dove voi foste».
«Ho la soluzione per i nostri problemi, ora. Non è una notizia migliore?» domandò Alexya, distogliendo gli occhi dalla serva. Si passò una mano sul collo, dove le era stato legato l'amuleto di Nicholas. La chiave che avrebbe impedito ai suoi uomini di temere i Myurohon.
Hanan scosse il capo. «Meglio lasciar perdere». Se c'era una cosa in cui Garstand aveva fallito nell'educazione della figlia era stata proprio quella: non aveva dato molto affetto alla figlia e lei non era capace a provarne con molta facilità, né comprendeva i sentimenti altrui, a meno che non fossero l'odio e la rabbia. Era sempre impacciata quando si trattava degli altri. Ragionava con la sua mente pratica e non comprendeva il perché di certi gesti dettati dai sentimenti. «Sono tutti in vostra attesa, milady. Non fateli più aspettare». Detto questo, la serva uscì dal baldacchino per raggiungere Marihus ed i superstiti dello scontro.
Alexya lasciò la tenda dopo Hanan e incontrò subito Nicholas, poggiato contro un albero nei paraggi e le braccia conserte. Lo vide e fu tentata di andargli incontro. Però non lo fece, limitandosi ad un cenno si saluto. Si fermò e chinò il capo, poi proseguì tra le altre due tende degli Inferi.
L'Infero la seguì, determinato a recuperare la sua attenzione. Lei non doveva permettersi di ignorarlo.
«Milady, state già tornando a Borgo Smeraldo, nevvero?».
La regina si bloccò, raggelata. Non lo aveva sentito camminare alle sue spalle, era troppo silenzioso per i suoi gusti. Si voltò e se lo ritrovò più vicino di quanto avesse intuito dalla sua voce. Fece un passo indietro, deglutendo.
«Sì, milord».
Nicholas piegò il capo di lato e gli orecchini di perla grigia ciondolarono. «Mi rincresce pensare che, con ogni probabilità, non ci rivedremo fino alla stagione bellica» cominciò. Allungò la mano e prese quella sinistra della ragazza, per avvicinarla al proprio viso. «Vi mancherò».
Alexya non riuscì a distogliere lo sguardo da quello del sovrano. Lui le baciò l'anello e la scossa la fece tremare, accompagnata dall'eco delle sue parole. Quella dell'Infero non era una domanda, ma una certezza che sapeva di minaccia. E lei si domandava perché dovesse sentir nostalgia di quell'uomo. Mi ha aiutata, si rispose, anche se in modi poco ortodossi. La gratitudine l'avrebbe legata a lui, per prima. Le dava un po' fastidio pensarlo, certo. Strinse le dita attorno a quelle di Nicholas.
«Spero di no» mormorò la ragazza, corrugando la fronte.
Nicholas ghignò e lasciò la sua mano per affondare la propria nei ricci della Regina d'Ovest, portandola dietro la nuca. La costrinse a sollevare il viso verso di sé, senza mutare espressione.
«Fate buon viaggio, allora» le augurò, accarezzandole le labbra con la mano libera.
Una fitta al ventre fece sentire Alexya piuttosto a disagio. Quell'uomo la provocava troppo. Non era abituata a tante attenzioni e alle sensazioni che queste le facevano provare. Avrebbe cercato di indietreggiare, se lui non l'avesse tenuta così saldamente, se il suo sguardo non fosse stato così irresistibile. Cercò qualcos'altro cui rivolgere l’attenzione e notò, alle spalle dell'Infero, Irene uscire dalla propria tenda.
Nicholas si accorse che la regina aveva indirizzato il suo interesse alla promessa sposa, alla ricerca di una via di fuga, e la lasciò perdere. Quella ragazza non riusciva ad abbandonarsi lui. Sembrava determinata a non perdere il controllo. In un certo senso, si comportava come lui, con minor successo però. Liberò la mano dai boccoli di Alexya, senza farsi sfuggire l'occasione si sfiorare la pelle lasciata scoperta dalla scollatura del vestito e far sussultare l'umana.
Irene si avvicinò ai due sovrani, fissando attentamente la Regina d'Ovest. Sentì il suo imbarazzo quasi fosse una presenza fisica e se ne compiacque. Non c'era motivo di esser gelosa di un giocattolo. Doveva convincersene fino in fondo. Accennò un sorriso alla ragazza.
«Fate buon viaggio, milady. Spero di rincontrarvi presto» la salutò il demone, cortese.
«Vi ringrazio. Arrivederci, Lord Nicholas e Lady Irene».

Alexya lanciò uno sguardo al seguito composto di sole otto persone. I soldati sopravvissuti all'attacco erano tornati di buon umore, vedendola in forma. Bastava così poco a farli star bene? Eppure avevano perso quattro compagni. Forse stanno cercando di non pensarci, si disse. Probabile, anche se lei non ne era stata capace alla morte di suo padre. Però Helena lo aveva fatto: si era dedicata completamente al Regno d'Ovest, finché non era terminato il lutto nazionale. Non l'aveva vista versare una lacrima davanti a lei, né assumere un'espressione triste in pubblico.
In fondo alla fila, Johan sollevò gli occhi e incontrò quelli della regina. Tirò le labbra, accennando un sorriso, cui non partecipò il resto del volto. Era pensieroso e l'aria della Foresta Grigia lo preoccupava. I cavalli stavano andando al passo, quando avrebbero potuto benissimo galoppare. Passare così tanto tempo in quel luogo non gli piaceva. Soprattutto dopo l'attacco quella notte.
Johan sentì dei movimenti tra gli alberi e obbligò il cavallo a fermarsi. Rimase in ascolto, ma il rumore degli zoccoli distraeva il suo udito, benché si stesse affievolendo man mano che il gruppo si allontanava da lui. Poi, un cavallo che gli andava incontro. Ruotò il capo e vide Alexya raggiungerlo, con un'espressione preoccupata.
«Cosa succede?» gli domandò, mantenendo basso il tono della voce.
«Ho sentito qualcosa muoversi nel bosco» le spiegò Johan, guardandosi attorno.
Alexya non replicò e aguzzò le orecchie per cogliere il più possibile. Non avendo ottenuto risultati, scosse il capo.
«Ti sarai sbagliato» disse, sempre all'erta. «Oppure è una creatura immortale».
«Non sembri molto preoccupata» notò il capitano.
La regina gli lanciò uno sguardo, senza fiatare. Se era vera la seconda possibilità, allora lei non poteva far altro che esser pronta ad accogliere chi si nascondeva nella boscaglia. Prima o poi si sarebbe fatto vivo, soprattutto se era lei che voleva. Cosa molto probabile.
«Raggiungiamo gli altri» ordinò la ragazza e incitò il cavallo.
Pur con qualche perplessità, Johan la seguì al passo. A quanto pareva, Alexya non andava di fretta. Intuì cosa avesse in mente la sua signora e sospirò in silenzio. Gli conveniva assecondarla, altrimenti sarebbe stato peggio dopo. Lei era piuttosto vendicativa, quando dei sottoposti non la ascoltavano.
Erano in vista del resto del gruppo, fermatosi per attendere la regina e il capitano, quando delle figure comparvero con gran velocità davanti a loro, inginocchiate sul terreno. Alexya fece arrestare il cavallo e portò la mano alla spada, assicurata alla sella. La estrasse e sentì Johan fare lo stesso al suo fianco.
La Regina d'Ovest fece scorrere lo sguardo sul gruppo di uomini e donne, vestiti di colori chiari e freddi, a pochi passi da lei. Avevano tutti la carnagione dorata e gli occhi neri, che notò sull'unico che aveva la testa alzata e si trovava in una posizione avanzata rispetto agli altri. Senza dubbio era il capo. Alexya spinse il cavallo avanti di qualche passo ed estrasse la spada dal fodero.
«Chi abbiamo qui?» chiese la ragazza, puntando la lama contro il dio che, intanto, si era messo in piedi.
«Sarihele, il dio delle Ribellioni» si presentò la Divinità, con un cenno della testa. «Capo degli Herzbrenht».
Alexya inarcò le sopracciglia. Non aveva mai sentito parlare di “Herzbrenht” in vita sua. Non aveva idea di chi fossero né cosa potessero volere da lei. Perciò preferì non abbassare la guardia.
«A cosa devo questo... incontro?» domandò ancora la regina.
Sarihele accennò un sorriso. «Vorremmo unirci al vostro esercito, Fenice. Da anni lottiamo contro Al, ma non abbiamo ottenuto nessun risultato. Però pensiamo di potervi essere d'aiuto».
A quelle parole, Alexya si chiese perché dovesse accettare la collaborazione di gente che non era riuscita a combinare niente. Ingrossavano le sue file, ma rischiavano di rivelarsi un peso morto. Non del tutto, hanno la magia, sono Divinità, si ricordò. Forse avrebbe fatto bene a dar loro una possibilità. Non rischiava nulla, al momento. Tanto valeva tentare.
La ragazza ripensò alle parole che le erano state rivolte. Fenice, l'aveva chiamata Sarihele. Anche lui, come Vraele. Era una curiosa coincidenza.
«Preferirei conoscervi meglio prima di accettare la vostra collaborazione. Ma questo non mi sembra il luogo né il momento adatto, inoltre vorrei tornare a Borgo Smeraldo al più presto. Seguiteci, se siete davvero intenzionati a unirvi all'Esercito della Fenice» replicò Alexya, riponendo la spada nel fodero.
Sarihele la fissò intensamente, prendendo tale risposta come affermativa. Dunque, gli Herzbrenht avevano trovato un alleato e altri uomini che combattessero per la loro stessa causa. La sua utopia assumeva una forma sempre più reale e a portata di mano. Ce l'avrebbero fatta, Al sarebbe stato deposto, i millenni di crisi sarebbero terminati e per le Divinità sarebbe tornata l'età dell'oro. Sì, era possibile, dovevano riuscirci.
Gladius, i Giardini delle Divinità presto avranno bisogno di te, pensò Sarihele, rivolgendosi al dio del Ghiaccio, quasi questi potesse ascoltarlo.

Tear a hole so I can see
My devastation
Feelings from so long ago
I don't remember
Disturbed, Remember

.-.-.-.

Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Myurohon ya rohon: in vendicatore io vendico
(2) Shadwanri: mese dei venti (marzo)
(3) Vraele eske-koman, ailishe: Vraele è arrivato, mio amato.
(4) Ya eske dher e vis-munis, Dhy Al: Sono qui al vostro servizio, Divino Al
(5) Ojhak thirion-los, skethen anchre-nih. Whankos: Guardando il tuo volto, diremmo che ci hai deluso. Ancora una volta.
(6) Nih-phandi vuls car, car thi de-suphet prephed adhika lim-ghut, Vraele?: Vuoi spiegarci perché, perché non sei capace a terminare un compito come si deve (lett.: come giusto), Vraele?
(7) Car, Dhy Al... ya ea-munerine. Des eske yarion gaden: Perché, Divino Al... l'ho sottovalutata. È stato un mio errore.
(8) Duqe dher Ephremyus: Porta qui Ephremyus.
(9) Nos-thi phrusti-nih, kehn Vraele?: Sai di averci deluso, vero Vraele?
(10) Tham Myurohon ahke ephit?: Quanti Myurohon hai perso?
(11) Whank kohrs: Una coorte.

Che capitolo lungo e quante parole in Maholhan tutte d'una volta. Dopo una cosa del genere dovrei vergognarmi XD
Con ogni probabilità ci vorrà un altro mese per sfornare (partorire? XD) un nuovo capitolo, soprattutto considerando che il periodo di gestazione di questo è stato quanto per partorire un giaguaro: 3 bei mesi, sìsì. Dato che l'11 giugno finisco scuola, conto di scrivere allora, senza impegni nè stress.
Spero che questo capitolo sia piaciuto.
Alla prossima!

Kanako

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Capitolo 11
*** Capitolo XI. I Mercenari (a) ***


Eccomi qui di ritorno, dopo quasi due mesi. Dovrei vergognarmi, lo so, ma ho scritto un capitolo di venti pagine, che ci volete fare? Però, visto che io stessa mi taglierei le vene davanti a un capitolo così lungo, lo divido in due ed entro questa settimana aggiorno con la seconda parte (che è anche la più complicata da correggere… troppi casini, santo cielo 0.0).

Prima di cominciare, vorrei ringraziare chi ha commentato il mio giallo (lo faccio qui perché sono quasi le stesse persone che seguono l’Esercito): un grazie enorme a Dark Magician, come al solito mitica; e un grazie a berry345 e olghish (sono contenta che le note all’inizio e alla fine del giallo vi siano state utili per scrivere il commento ^^).

Ora passo ai ringraziamenti per l’Esercito, perché questa volta sono di più: oltre a Dark Magician, myki e marluxia25 (il suo commento è postato nel capitolo 1, ma si riferiva al 10 *accarezza la testa di marlu*), grazie anche a Hamish per il commento e per le “seguite” e a Juliettina per le “seguite”.

 

.-.-.-.

 

Uomini:

Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;

Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;

Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;

Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;

Hanan, ancella di Alexya;

Garstand, padre di Alexya;

Dygghor, padre di Helena;

Arghos, uno degli Anziani;  

Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;

Tarus, Re del Nord;

Mentius, Re del Sud;

Ludovik di Dornior, Re d'Est;

Sarah, messaggera dello Smeraldo.

 

Inferi:

Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);

Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;

Chester di Niha, Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;

Krados di Thena, Nobile purosangue, spia reale, demone;

Molko di Thener, Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro;

Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto;

Apuh, Nobile del Clan Thener, vampiro;

Thitus, Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone;

Bhor'la, Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo;

Murthen, mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.

 

Divinità:

Al, Re delle Divinità, dio della Forza;

Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;

Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;

Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;

Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;

Eoforbio, portavoce reale;

Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;

Veris, dea della Primavera;

Niharn, protettrice del Regno d'Ovest;

Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;

Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

 

Campi di Sangue:

Archelaos, negromante, semidio;

Laila, scheletro di Archelaos;

Arnold, proprietario della Mandragola;

Mara, moglie di Arnold;

Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

 

Elfi e Lucenti:

Wirda, Re degli Elfi;

Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;

Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca.

 

.-.-.-.

 

Prima di iniziare il capitolo, devo dedicarlo a delle persone speciali.

 

Per le Tre Martine: Dark Magician, myki e marluxia.

Ragazze, grazie di tutto.

 

Visto che una dedica non basta, in questo capitolo appare un tributo a voi tre. Trovatelo (è una cosa contorta XD) <3

 

.-.-.-.

 

XI.

               Mercenari

 

 

 

«Lhenk». (1)

Mentius tirò una boccata di fumo dall’hookah, la pipa ad acqua tipica del Sud, e sentì sul palato il tabacco bruciato e la menta, con cui l’aveva aromatizzato. Inarcò le sopracciglia e allontanò il beccuccio dell’hookah dalle labbra. Lanciò uno sguardo alle carte in mano, prima di abbandonarle sul tavolo, sono stato battuto per poco, maledizione. Avrebbe vinto con quel turno che non ci sarebbe mai stato.

«Avete vinto, di nuovo. Potrei pensare che stiate barando, duca Sherden» commentò il Re del Sud, appendendo il beccuccio della pipa a un gancetto, che si trovava lungo il corpo cilindrico dell’hookah. Prese le carte sparse sul tavolino basso e le mischiò, per giocare ancora a lhenk. Doveva vincere.

«Milord, come potete sospettare una cosa simile! Io non oserei mai, lo sapete» si giustificò Sherden, portandosi una mano sul cuore, mentre gesticolava con l’altra.

Mentius sollevò lo sguardo. Schiuse le labbra per parlare, ma poi lasciò perdere e continuò a mescolare le carte. Terminata l’operazione, posò il mazzo sul tavolino e lo fece separare in due da Sherden, che distribuì tre carte ciascuno. Intanto, il sovrano aveva ripreso il beccuccio dell’hookah per aspirare altro fumo.

L’ombra di un servo si stagliò sulla porta di fogli di riso e chiese il permesso di entrare.

«Vostra Maestà, ho con me una lettera urgente per voi» gli comunicò.

«Entra».

Il servitore fece scorrere la porta e raggiunse il basso tavolino cui era seduto il suo signore. Si inginocchiò a un paio di metri da lui e gli porse il vassoio di legno laccato, contenente una missiva.

Mentius allungò la mano verso la lettera, abbandonando le carte sul tavolo.

«Aggiungi del carbone all’hookah, si sta consumando» ordinò il re, mentre osservava il sigillo che chiudeva il foglio nelle sue mani. Sulla ceralacca verde era impresso il simbolo del Regno d’Ovest. Il che lo lasciava perplesso.

Intanto che il servo si dava da fare attorno all’hookah e Sherden attendeva paziente, Mentius ruppe il sigillo e aprì la lettera.

 

Borgo Smeraldo, dihe 22, Ghervenri, 3518 henn o II Chranhenn

 

A Mentius di Shyllion, Re del Sud.

Mi auguro la buona salute vostra e del vostro trono.

Purtroppo allo Smeraldo siamo minacciati dall’interno e non possiamo farcela da soli.

Come avrete di sicuro saputo, al Consiglio degli Otto Sovrani, la Regina della Guerra d’Ovest, Alexya dei Thenesharum, ha osato sfidare gli Inferi e, soprattutto, il divino Al. A causa di questa blasfemia, è ben chiaro che il nostro regno risulta in pericolo: per questo, ho pensato subito al più fedele e abile alleato che abbia mai avuto.

Voi, Vostra Maestà, disponete delle capacità per difendere il Regno che avete già aiutato in passato. Perciò io e gli Anziani confidiamo in voi per liberare Borgo Smeraldo dalla più insidiosa delle minacce.

Spero di ricevere una risposta al più presto, perché allora potremo discutere liberamente dei dettagli.

Sempre vostro fedele,

Arghos di Jhamanna

 

Poche righe, scritte con cura e astuzia. Arghos lo stava lusingando, dando per scontato la sua collaborazione. A ragione, perché Mentius avrebbe aiutato di nuovo l’Anziano. Dopo aver ucciso Garstand, cosa poteva essere per lui eliminare pure la figlia? Il problema era un altro.

Lord Nicholas pretendeva che lui inviasse i Dragoni ad Alexya. Il messaggio dell’Infero gli ronzava in testa, quando era da solo e immerso nella meditazione. Però Daniel e i suoi non erano ancora rientrati a Noctibus, rimanevano sul confine coi Campi di Sangue a svolgere dei loro affari. Mentius aveva chiesto informazioni sul loro ritorno, aveva mandato messaggeri dai mercenari, ma non era giunta alcuna risposta. Si trovava in una bella situazione, davvero.

Il re vide che il servo aveva aggiunto un altro pezzo di carbone sulla brace dell’hookah e che attendeva nuovi ordini. Sherden, invece, osservava oziosamente le tre carte che aveva in mano.

Mentius piegò la lettera a metà e la infilò nella giacca del vestito. «Preparami l’occorrente per scrivere e torna tra un’ora con notizie dei Dragoni» disse poi, abbandonando con riluttanza l’hookah. Posò le mani sul tavolo e si tirò in piedi.

Sherden si sporse in avanti, le sopracciglia inarcate in un’espressione sorpresa. «Milord, ma la nostra partita?»

Mentius fece un gesto seccato e uscì dalla saletta. Aveva affari più importanti da sbrigare, invece di giocare a carte con un giovane nobile. Non era il momento per lo svago. Purtroppo.

                

Il Re del Sud gettò una manciata di sabbia sulla lettera appena scritta, per far seccare l’inchiostro più velocemente, e lanciò uno sguardo fuori dalla porta aperta sul cortile. Una femmina di pavone passeggiava attorno al laghetto artificiale, costruito entro le mura del palazzo. Gli alberi iniziavano a perdere le foglie, si avvicinava il freddo, anche se in quelle regioni la temperatura era più mite. Ho bisogno dell’hookah, pensò Mentius, interrompendo l’osservazione del giardino.

Allora l’uomo prese un angolo della lettera e la sollevò, facendo scivolare la sabbia sul tavolino. Controllò che non ci fossero sbavature e la piegò in tre parti. Afferrò un mestolino e lo immerse nella ciotola sospesa su un piccolo braciere, riempiendolo di ceralacca gialla che versò lungo il bordo della lettera. Vi appose il sigillo del Regno del Sud, un cobra in rilievo sul suo bracciale.

Quando il re fece per alzarsi e tornare nella saletta in cui stava giocando con Sherden, sentì dei passi sul pavimento di legno della veranda. Si fermò, in ascolto, e sulla porta comparve un servitore, accompagnato da un uomo che Mentius conosceva bene. Nel corso della sua vita, aveva visto molte volte il capitano Infero dei Dragoni e l’unica cosa che era cambiata in lui era stato il taglio dei capelli castano chiaro. In quel periodo, erano lunghi fino alle spalle, sfilacciati perché accorciati con un coltello non adatto a tale uso. Attorno alla testa aveva annodato una fascia rossa, sporca di terra e sudore, che nascondeva la fronte. Gli occhi verde scuro guardavano il sovrano annoiati, mentre il resto del corpo era teso, i muscoli e i nervi tirati. Addosso aveva abiti sudici: una camicia ingiallita, con le maniche strappate via e dei pantaloni larghi, chiazzati di sangue e infilati negli stivali di pelle.

«Ti sei fatto attendere a lungo, Daniel» lo accolse Mentius, tornando a sedersi sul cuscino.

L’Infero storse la bocca, in una smorfia infastidita, e mosse qualche passo verso il tavolino. Allora si vide chiaramente, sul braccio destro, un dragone tatuato che partiva con la coda dalla spalla e terminava sul dorso della mano, le fauci spalancate e il corpo avvolto attorno all’arto.

Il re seguì con lo sguardo Daniel, che si sedette di fronte a lui, le gambe incrociate e le braccia conserte, in attesa. Allora Mentius congedò il servo e gli fece chiudere la porta scorrevole.

«Siete stato piuttosto insistente, Vostra Maestà. Perché avete preteso il ritorno dei Dragoni in città? Era il nostro periodo di riposo, lo sapete bene» disse Daniel, piegando appena la testa di lato.

Mentius gettò un’occhiata alla lettera sul tavolo davanti a sé e ci mise sopra le mani intrecciate.

«Pochi giorni fa, si è tenuto il Consiglio degli Otto e la Regina d’Ovest ha richiesto il mio appoggio al suo progetto per riportare la pace nella Terra dei Cinque Popoli: vuole formare un esercito con truppe provenienti dai regni alleati per terminare la Guerra Millenaria-» cominciò il re.

Daniel non attese che lui proseguisse. «Ha dichiarato guerra ad Al… e Lord Nicholas?» domandò, incredulo.

Il sovrano annuì, fingendo che l’interruzione non gli avesse dato fastidio. «Proprio così. Perciò, intendo inviare voi Dragoni-».

L’Infero intervenne: «Siamo in cinquecento uomini, non mi sembra un numero sufficiente per un esercito che deve andare incontro agli Inferi».

Mentius batté una mano sul tavolo. «Fammi finire di parlare!» esclamò, irritato.

Daniel sollevò le mani all’altezza delle spalle, in segno di resa, e il Re del Sud riprese parola.

«E’ stato Lord Nicholas in persona a chiedermi, gentilmente, di mandare i Dragoni dalla Regina d’Ovest. Ed io non ho la minima intenzione di contraddirlo per una banale questione di numeri». Erano in gioco il suo regno e i suoi sudditi, non avrebbe lasciato tutti in balia degli Inferi. Erano peggio dei Myurohon, perché agivano di loro spontanea volontà, diventando più crudeli a seconda dell’umore.

«Lord Nicholas?»

Mentius ignorò la domanda dell’Infero. «Puoi portare con te le truppe sudrione che ritieni necessarie. A seconda della quantità di uomini che mi sottrarrai, la paga varierà». Inoltre, aveva avuto un’idea che gli avrebbe permesso di dare anche una mano agli Anziani d’Ovest. Sarebbe andata un po’ per le lunghe, il risultato non sarebbe stato immediato, ma per quel giorno avrebbero organizzato tutto alla perfezione. Conosceva i mercenari e sapeva che genere di educazione aveva impartito Garstand alla figlia. Avrebbe potuto prevedere le sue mosse con sufficiente precisione.

«Da quanto si parte?» chiese Daniel, poggiando il gomito sul tavolo e reggendosi il mento con pollice e indice.

«I Dragoni, da soli, lasceranno Noctibus con cinquemila oregi ciascuno. Al loro ritorno ne riceveranno altrettanti» replicò il sovrano.

L’Infero strinse le palpebre, riflettendo sulla somma offerta – un’enormità rispetto alla solita paga – e sull’opportunità di rinunciare a uomini che non conosceva e di cui non si fidava, per contribuire al benestare dei suoi soldati.

«Inoltre, Lord Nicholas mi ha affidato un messaggio per te» aggiunse Mentius.

A quelle parole, Daniel deglutì, inquietato.

Il Re del Sud chiuse gli occhi, mentre dalla memoria riemergeva la frase che Nicholas aveva impresso nella sua mente. Gli parve di sentire la voce fredda e carezzevole, quasi il sovrano Infero fosse in quella stanza, al suo fianco.

«La fiammella sopravvivrà grazie alla collaborazione del grande fuoco con la fiaccola» disse Mentius e, non appena pronunciò l’ultima parola, ogni traccia di quel messaggio svanì dai suoi ricordi. Disorientato, il sovrano scosse il capo e batté le palpebre. Vide l’Infero seduto davanti a sé pallido e immobile.

«L’offerta non ti è gradita, Daniel?» domandò Mentius, credendo che quell’espressione fosse dovuta alla sua proposta di avere uno stipendio più alto, a discapito della quantità di uomini al suo servizio. Secondo lui, era uno scambio più che ragionevole. Con cinquemila oregi ciascuno, i mercenari sarebbero riusciti a bere senza problemi. Riguardo alle donne, avrebbero trovato qualche contadinotta compiacente che avrebbe evitato loro di spendere soldi con prostitute. Avrebbero avanzato parecchi soldi, se avessero fatto attenzione alle spese.

Daniel prese una boccata d’aria, poi rispose. «No, la vostra offerta è molto generosa, Vostra Maestà. Partirò domani mattina con i miei Dragoni. Per Borgo Smeraldo, vero? Avete detto che è stata la Regina d’Ovest a chiedere il vostro appoggio».

Mentius annuì. «So che lo stipendio non vi basterà per tutta la durata della guerra, ma è logico che sarà la regina a pagarvi».

«Ovvio, ci ha assoldati lei» concordò Daniel. Mise entrambe le mani sul tavolo e si alzò. «Vi ringrazio ancora per l’offerta, Vostra Maestà. Buona giornata».

Il Re del Sud osservò l’Infero uscire dallo studio e richiudersi la porta alle spalle. Dopo di che, portò lo sguardo sulla lettera nascosta dalle sue mani. Doveva correggerla e parlare del piano che gli era venuto in mente grazie ai Dragoni? No, una sorpresa così positiva non avrebbe dato fastidio ad Arghos. Lo avrebbe informato solo se tutto fosse andato come prevedeva. C’era tempo.

E poi non gli andava di rompere il sigillo di ceralacca.

 

Quando Daniel uscì dal palazzo reale, una delle guardie alla porta gli restituì l’alabarda, sequestrata poco prima. Con la sua arma in mano, le piccole ossa e le conchiglie sotto la lama che tintinnavano a ogni movimento, l’Infero si sentì più calmo. Sufficientemente tranquillo per analizzare il messaggio di Nicholas.

La fiammella sopravvivrà grazie alla collaborazione del grande fuoco con la fiaccola, aveva detto il Re delle Terre d’Ombra. Daniel era certo di essere il grande fuoco, dopotutto era il Purosangue capoclan di Canthao. Quindi, sua sorella Irene era la fiammella. Fermò il suo cammino verso la porta della cittadella nobiliare, sgranando gli occhi. E Nicholas è la fiaccola, che si è accesa prendendo una parte del grande fuoco, cioè Irene! Allora non sono io, ma il Clan Canthao, grazie a Irene Nicholas è imparentato col Clan, pensò Daniel, restando in mezzo alla strada. No, sono io. Altrimenti non avrebbe senso che lui mi abbia mandato questo messaggio, si corresse, riprendendo ad avanzare.

Però c’era ancora qualcosa che sfuggiva a Daniel. La minaccia nascosta in quella frase sibillina era palese: se lui non avesse collaborato, Irene non avrebbe avuto vita facile; lì nasceva il problema. Perché, se con grande fuoco Nicholas intendeva il Clan Canthao, allora l’Infero avrebbe dovuto badare a fermare Thitus e i suoi piani sovversivi. Cosa alquanto improbabile, il re non avrebbe mai chiesto a lui, un Nobile che preferiva fare il mercenario piuttosto che attendere ai suoi doveri politici e sociali, aiuto per una faccenda che avrebbe potuto sbrigare senza difficoltà col solo Krados a fargli da informatore. Inoltre, lui non aveva alcun legame con le trame di Thitus: gli era stato proposto di collaborare e si era rifiutato. E basta.

A Daniel tornarono in mente le parole di Mentius riguardo al Re degli Inferi: è stato Lord Nicholas in persona a chiedermi, gentilmente, di mandare i Dragoni dalla Regina d’Ovest. Sospirò. Ecco la chiave. Il sovrano voleva che lui lo tenesse aggiornato su quanto sarebbe avvenuto nel Regno d’Ovest. Tipico di Nicholas approfittare della prima persona appena fidata che si trovasse dove necessario, ottenendo la sua fedeltà e collaborazione con il ricatto. Daniel detestava quel comportamento, però non poteva far altro che chinare la testa e accettare gli ordini. Non solo perché ne andava di mezzo sua sorella, ma anche perché, se Nicholas fosse arrivato ad attuare la minaccia, non si sarebbe limitato a uccidere Irene. Il mercenario non temeva la propria morte; quello che avrebbe passato prima era un pensiero abbastanza terrificante da spingerlo alla collaborazione. Aveva assistito alla morte della seconda sposa reale, Serjen, e non era stato un bello spettacolo.

Il suono del gong, seguito dal rullo di grossi tamburi, riscosse Daniel dai suoi pensieri. Doveva sbrigarsi, stavano chiudendo le porte della cittadella nobiliare per la notte. Non sarebbe stato più possibile uscire dalle mura, altrimenti. L’Infero iniziò a correre e, quando giunse in vista del portone Nord, si sbracciò, gridando.

«Aspettate!»

Daniel superò le guardie, che si erano girate a guardarlo, e rallentò la corsa. Lasciando l’alabarda per terra, mise le mani sulle ginocchia e cercò di calmare la respirazione. La porta fu chiusa alle sue spalle, ma ormai non gli interessava. Adesso doveva andare a recuperare Stephan. Solo lui e il suo braccio destro erano entrati a Noctibus, il resto dei Dragoni era rimasto fuori dalle mura. Dato che il portone della città veniva sbarrato un’ora dopo quello della cittadella, c’era ancora il tempo di tornare dai suoi uomini.

L’Infero raccolse l’alabarda e si raddrizzò, poggiando l’arma su una spalla. Poi, proseguì lungo il viale davanti a sé. Conoscendo Stephan, era in qualche bettola a bere in compagnia di una prostituta o due. E forse sapeva dove.

 

Abbandonata l’alabarda contro il muro vicino, Daniel mise le mani sui due battenti di legno e li spinse, avanzando verso l’interno della Signora dei Monti. Mosse ancora qualche passo e lasciò andare la porta, che tornò a chiudersi. Si guardò attorno, stordito dal chiasso, dal fumo e dalla forte illuminazione, cui si dovette abituare dopo aver camminato per i vicoli scuri di Noctibus.

In uno dei tavoli al centro della sala, l’Infero vide un uomo dai capelli biondi, crespi, arruffati e sporchi, legati in una coda molle. L’uomo agitò in aria un boccale di birra, per poi la berla tutta d’un sorso, versando gran parte della bibita sul viso e sulla canotta. Idiota, pensò Daniel, andando in direzione di Stephan. Notò che l’altro braccio del mercenario era sulle spalle di una donna che ridacchiava, mentre con un tovagliolo cercava di tamponare la birra colata.

L’Infero giunse alle spalle di Stephan e gli mise una mano attorno al collo, con una leggera pressione. Sentì l’uomo sussultare e voltarsi di scatto. Gli occhi castani erano annebbiati e l’espressione dipinta sul volto era da ebete. Era rincretinito dall’alcol. Che non reggeva.

«Daniel!» esclamò Stephan, battendo le palpebre. Liberò la donna dal suo abbraccio e abbandonò il boccale sul tavolo. Gli altri uomini seduti attorno al tavolo non si interessarono e continuarono a far rumore.

«Paga e sbrigati» ordinò Daniel, liberando il collo dell’uomo.

Stephan annuì e infilò una mano in tasca, sotto lo sguardo dell’Infero. Lasciò una decina di red sul tavolo, e ne diede altri venti alla donna, che sorrise raggiante. Troppi. Ma Daniel non glielo avrebbe detto, doveva imparare a stare attento.

I due mercenari uscirono dalla Signora dei Monti e Daniel recuperò l’alabarda. In lontananza si sentirono dei rintocchi. Era passata mezz’ora dalla chiusura della cittadella e ne mancava un’altra per le porte della città. Avrebbero fatto in tempo ad uscire.

«Dan, che è tutta ‘sta fretta?» domandò Stephan, passandosi una mano sul viso. Si sentiva molto stordito e non riusciva a camminare in linea retta.

«Abbiamo un nuovo lavoro».

«Ma siamo in vacanza!» protestò l’uomo.

Daniel lo ignorò e proseguì. Appena gli avesse detto quanto avrebbero guadagnato, Stephan avrebbe smesso di lamentarsi.

«Non c’ho voglia di lavorare, sono stanco, Dan, devo riposare!» continuò l’altro.

L’Infero, spazientito, si fermò e gli batté l’asta dell’alabarda in testa.

«Chiudi quella fogna!» gli ordinò, tirando un colpo sulla strada con l’arma. «Dobbiamo unirci a un esercito e combattere nella Guerra Millenaria».

Stephan fece per lamentarsi.

«Inoltre» si affrettò ad aggiungere Daniel. «Mentius ci dà cinquemila oregi adesso e cinquemila al ritorno dalla guerra».

L’espressione sul viso dell’uomo iniziò a mutare. Stupore.

«E poi la Regina d’Ovest, quella che ci ha assoldati, ci pagherà il solito stipendio mensile» concluse l’Infero. «Qualcosa da ridire?»

Stephan scosse il capo, sorridente.

Daniel poteva immaginare quali fossero i suoi pensieri: con cinquemila oregi si sarebbe potuto permettere la miglior birra e non solo; anche i forti liquori dei nobili sarebbero stati raggiungibili e le migliori prostitute della città. Si accontentava di poco l’umano, che scemo.

«Quando partiamo?» domandò eccitato Stephan.

L’Infero sospirò. Non ci poteva fare nulla. Era stato lui a renderlo così. Almeno non doveva sentirlo brontolare.

«Questa notte, se usciamo da Noctibus prima della chiusura delle mura».

 

Lathiora lanciò un’occhiata al manipolo di Elfi, accucciata sul tetto spiovente del cortile d’ingresso. Si trovava dalla parte rivolta al giardino dello Smeraldo, non l’avrebbero vista. La servitù aveva di meglio da fare che passeggiare per un angolo così isolato del palazzo. E lei voleva assolutamente vedere quelle creature. L’unico Elfo che aveva visto era stato Vaenihum, ma lui di elfico aveva solo le orecchie affusolate, più passava il tempo più diventava Infero.

I veri Elfi, invece, erano davanti a Helena e Zephiro, usciti in cortile per dare il benvenuto. Lathiora sapeva che le stanze all’interno dello Smeraldo non erano state attrezzate per loro. Perciò, in seguito, la regina li avrebbe condotti a un luogo adatto per l’accampamento. Gran parte della truppa era rimasta fuori dalle mura del palazzo, solo dieci uomini e il loro capitano, un’Elfa di nome Martha, avevano proseguito.

«Benvenuti a Borgo Smeraldo! Mi auguro abbiate fatto buon viaggio» salutò Helena, facendo un cenno del capo agli Elfi.

L’Infero osservò quelle creature, incuriosito. Vestivano con abiti semplici, adatti a un viaggio e portavano una piccola tracolla che non sembrava molto piena. Gli archi erano assicurati dietro la schiena, la corda di sicuro si trovava nella borsa, mentre le frecce si trovavano in una faretra appena alla cintura di cuoio. Immobili e all’erta, gli Elfi avevano dipinta sugli occhi una fascia blu, che riprendeva il colore dei pantaloni di tela. Tutti gli arcieri portavano i capelli cortissimi, facevano eccezione solo Martha e un uomo che si distingueva per la mantella blu, lunga fino ai fianchi. Lathiora si domandò se la lunghezza dei capelli dagli Elfi indicasse il potere dell’individuo, come per gli Inferi, o se fosse più pratica per i soldati. Ma si disinteressò quando vide il capitano degli arcieri fare un passo avanti e un inchino.

Martha prese parola: «Vi ringraziamo per il benvenuto, Vostra Grazia. Mi duole annunciarvi che il Nobile Wirda non ha potuto accompagnarci».

Lathiora inarcò le sopracciglia. Non vedeva di che utilità potesse essere il re allo Smeraldo.

«Gli spiace essere assente al banchetto, ma gli impegni hanno impedito al nostro Re di allontanarsi dal Regno» proseguì Martha.

L’Infero la osservò, divertita: era una donna alta e muscolosa, vestiva abiti maschili, si muoveva come un soldato; neppure i capelli castano chiaro, lunghi e raccolti in una coda alta, né gli occhi grandi e castani riuscivano a farla sembrare graziosa.

Helena annuì, abbozzò un sorriso, poi domandò: «Avete fatto buon viaggio? Siete arrivati prima di quanto previsto».

Lathiora trovò corretta quella domanda. In effetti, era strano che fossero già arrivati a Borgo Smeraldo dopo meno di cinque giorni dal Consiglio degli Otto Sovrani. Da Ibiscus alla capitale d’Ovest erano necessari sette giornate, a cavallo. Pensandoci su, forse gli Elfi erano riusciti a creare un ibrido tra i Bardak e le loro razze elfiche.

«Sì, Vostra Grazia. I nostri cavalli sono più veloci di quelli degli Uomini, e il Nobile Wirda ha ordinato di prepararci alla partenza il giorno del Consiglio» replicò Martha.

Helena cominciò a parlare, ma Lathiora non poté prestare attenzione alle sue parole. Si sentiva osservata. Male, molto male. Si guardò attorno. Nel giardino non c’era nessuno, gli Elfi erano concentrati sulla Regina d’Ovest, le guardie attendevano sul portone, Zephiro… Dannazione!, pensò l’Infero. Non si era mai interessata al dio dei Venti, non credeva potesse essere un pericolo. Aveva sempre l’aria distratta e questo l’aveva tratta in inganno. Il secondo errore in poco tempo.

Lathiora scivolò giù dal tetto, attenta a non fare rumore, poi si allontanò nel giardino. Lo sentiva alle sue spalle. Maledizione!

 

Zephiro si accostò a Helena e le posò una mano sulla spalla. Lei gli rivolse lo sguardo.

«Scusami, ma devo controllare una cosa» le sussurrò.

Quando Helena annuì, il dio dei Venti fece tre passi indietro e si sfilò la maglia. Le ali azzurre spuntarono dai tatuaggi davanti agli Elfi, che le osservarono sorpresi.

Con la maglietta in mano, Zephiro fletté le gambe e batté le ali. Si sollevò da terra e prese quota con un altro colpo d’ala. Virò verso il giardino dello Smeraldo, dove aveva visto fuggire la donna dai capelli grigi. Ma tutto ciò che vide furono degli stracci abbandonati per terra e Cenere che trotterellava tra l’erba. Il dio del vento storse le labbra, perplesso.

Come un’aquila, Zephiro piombò addosso alla gatta grigia, che balzò indietro soffiando minacciosa, gli artigli di fuori, il pelo ritto. Inginocchiato sul terreno, lui fece sparire le ali e allungò una mano verso Cenere, che si schiacciò ancor di più contro il suolo.

«Buona, buona» disse il dio dei Venti, con tono gentile.

La gatta smise di soffiare e non reagì in maniera violenta quando Zephiro le sfiorò il capo. Pian piano, si lasciò accarezzare e coccolare; poi si distese col collo scoperto, facendo le fusa.

Il dio la accontentò, studiandola attentamente. Cenere era un Infero e la donna che aveva visto sul tetto non era umana. Perché c’era un Infero allo Smeraldo? Voleva saperlo. Doveva saperlo. Ma Helena non aveva le risposte che cercava. Era quella gatta la chiave, doveva parlare con lei.

«So cosa sei» mormorò, sedendosi per terra.

Cenere aprì un occhio, pigra, ma non reagì. Capiva, però cercava di non darlo a vedere, illudendosi che lui potesse cambiare idea. Zephiro le sorrise.

«Non vuoi parlare con me?» le domandò, facendo scivolare la mano verso il ventre della gatta, continuando ad accarezzare il morbido pelo. Grigio perla. Come i capelli della donna sul tetto.

Cenere ora lo fissava con entrambi gli occhi aperti. D’oro puro. Intelligenti. Non animali. Aspettava una sua mossa, Zephiro lo sapeva bene.

«Un giorno ci riuscirò» promise lui.

La gatta tese le orecchie e sgusciò via, correndo verso le mura. Con un balzo vi saltò sopra, lasciando il dio dei Venti molto perplesso. Era fuggita per qualcosa che aveva detto lui? Comunque, le capacità di quell’animale non facevano che confermare la sua natura Infera. Un gatto normale non avrebbe raggiunto la cima delle mura.

Zephiro fece riapparire le ali e raggiunse Cenere. Atterrò sul camminamento dei soldati e si accostò alla gatta, seduta sul parapetto. Allora vide cosa aveva attirato la gatta. Un gruppo di uomini a cavallo si stava avvicinando sulla strada che conduceva allo Smeraldo. Avevano quasi raggiunto gli Elfi, che si erano voltati a osservare il gruppo.

Quando iniziò a riconoscere i nuovi arrivati, il dio dei Venti sgranò gli occhi. Divinità! Cosa diamine ci facevano lì? Lasciò perdere Cenere – ora non era importante – e corse sul camminamento, per raggiungere i soldati nelle torri all’ingresso del palazzo. Vide gli uomini osservare tranquilli il gruppo in avvicinamento, mentre Helena gli andava incontro. Spiegò le ali e le fu affianco. Le mise una mano sulla spalla e la voltò verso di sé.

«Helena, perché stanno arrivando delle Divinità?» le chiese Zephiro.

La regina sbatté le palpebre. «E’ tornata Alexya e quelli sono gli Herzbrenht, suoi alleati» rispose. «L’ho sentita ieri sera e mi ha raccontato l’incontro con loro, non te l’ho detto?».

Zephiro corrugò la fronte. «No».

Helena gli posò la mano sul braccio e accennò un sorriso. «Mi dispiace, allora me ne sono dimenticata. Mi perdonerai?»

Il dio annuì. «Certo» le concesse. Ora si sentiva più tranquillo. Se erano alleati della cugina di Helena, allora non aveva di che preoccuparsi. Lanciò uno sguardo al gruppo e si accigliò. C’era qualcosa che non andava. Helena se n’era resa conto?

 

Helena si tormentò le mani, nascoste dalle maniche del vestito. Finalmente, quella pazza era tornata. Adesso era di nuovo sotto il suo controllo. Tutto riprendeva il proprio corso, lei sarebbe stata meno in ansia, Alexya si sarebbe data una regolata e gli Anziani avrebbero rivolto di nuovo la loro attenzione alla cugina. In quei giorni, anche quei sei vecchi l’avevano fatta preoccupare, e aveva dovuto cercare di capire cosa organizzavano, perché spesso si trovavano nella sala del banchetto e parlavano con i servi. Prima era Alexya a occuparsi di loro, a Helena non piaceva avere a che fare con gli intrighi. Preferiva controllare che la cugina non si facesse del male, che non fosse scortese, sgraziata e sgarbata. Un’apparenza da perfetta regina sarebbe stata più convincente di tutte quelle manovre sottobanco.

Al suo fianco, Zephiro non sembrava partecipe al suo sollievo. Lui aveva avuto la fortuna di non conoscere Alexya. Ora ne avrebbe avuto tutto il tempo e avrebbe condiviso le sue preoccupazioni. Lui la capiva.

Helena cercò il volto della cugina. Vide le guardie reali – diminuite in maniera spaventosa, vide Marihus, vide Hanan, ma mancavano Johan e Alexya. Dov’è?, si domandò, sgranando gli occhi. Mosse qualche passo avanti, esitante, poi strinse i pugni e andò incontro al maggiordomo. Lo vide sussultare e impallidire. Hai la coscienza sporca, eh, constatò Helena, prima di fermarsi davanti al cavallo di Marihus.

«Che fine ha fatto mia cugina, Marihus?» chiese la regina, severa.

Il maggiordomo deglutì, a disagio, e lanciò uno sguardo ad Hanan, seduta su un cavallo senza sella. Allora Helena notò che la donna indossava un vestito di Alexya, che le andava stretto sui fianchi, sul petto, sul ventre. La serva abbassò gli occhi, imbarazzata.

«Perdonatemi, milady, vostra cugina mi ha obbligata a far scambio di abiti» spiegò Hanan.

Helena annuì e tornò a fissare Marihus, in attesa di spiegazioni. Zephiro intanto si era avvicinato, incuriosito.

«Dov’è andata?» insistette la regina.

Il maggiordomo sospirò e fece per scendere da cavallo, a fatica. Ebbe difficoltà a passare la gamba sul dorso dell’animale e rischiò di cadere all’indietro. Helena lo spinse contro la sella, cui lui si appigliò disperatamente.

«Grazie, milady» disse l’uomo, riuscendo a mettere i piedi a terra. Si rassettò l’abito e si voltò verso la regina. «Alexya ha visto il suo cavallo nel recinto con gli altri ed è andata a prenderlo, milady. Poi è andata a Borgo Smeraldo con il divino Sarihele e Johan».

Helena inspirò profondamente, cercando di controllarsi. Quella screanzata! Invece di tornare allo Smeraldo e occuparsi delle sue faccende, preferiva andare in città a bere con un soldato e un dio. In effetti, se aveva portato con sé Sarihele c’era un motivo. Forse voleva parlare con lui? Non doveva averlo già fatto? Pensare che era con Johan la calmò. La presenza del capitano della guardia significava che sarebbero andati di sicuro all’Airone, dove lavorava sua moglie. La taverna si trovava nella piazza centrale di Borgo Smeraldo, non era un luogo malfamato. Sì, la situazione non era terribile.

«Sai quando ha intenzione di tornare?» domandò Helena a Marihus.

«Johan mi ha assicurato che non le permetterà di tornare più tardi del tramonto di Canthabros» replicò il maggiordomo, più rilassato.

La regina annuì, sentendo lo sguardo di Zephiro addosso. Lo guardò e lui le sorrise.

«Ci sono un po’ di ospiti da sistemare, no?».

Helena sospirò. «Andiamo a mostrare l’accampamento agli Elfi e agli Herzbrenht» concordò.

 

Alexya lanciò un urlo di gioia, quando Janus accelerò lungo la discesa che portava a Borgo Smeraldo. Seduto dietro di lei, Sarihele aumentò la stretta attorno alla sua vita. Stare in due su un cavallo al galoppo era doloroso per la schiena, ma lei voleva correre. Doveva ammettere che le era mancato il suo Janus, i cavalli normali non erano alla sua altezza.

«Milady, rallentate!» gridò Johan, una decina di metri più indietro.

Ridendo, la regina inclinò la schiena indietro e tirò leggermente le redini. Janus ridusse la sua velocità e il cavallo del soldato lo raggiunse.

«Alexya, nessuno vi ha mai detto di non mandare i cavalli al galoppo durante una discesa?» le domandò l’uomo, lanciando occhiate preoccupate a Janus, che avanzava senza problemi.

«Certo, ma Janus è partito da solo. E poi è più resistente delle vostre mezze cartucce» replicò la ragazza.

Sarihele osservò la strada di terra battuta davanti a sé.

«La capitale è distante dal palazzo» constatò il dio.

«Non tanto. Lo Smeraldo è su quella collina». Così dicendo, Alexya indicò un palazzo alla loro destra, qualche chilometro più in là delle prime case di Borgo Smeraldo. «Che è la più vicina al mare e alla città. C’è anche una strada che porta dritta al centro della capitale. Il cammino vi sembra più lungo perché siamo usciti dalla via principale per lo Smeraldo e siamo passati per delle viuzze di campagna».

Sarihele gettò uno sguardo alle sue spalle e dopo sulla strada che stavano percorrendo.

«Vedete, quelle catapecchie sono già considerate parte di Borgo Smeraldo» lo informò Alexya, con un cenno del mento in avanti. Sarebbero passati per le vie secondarie fino a raggiungere la piazza centrale. Erano meno trafficate e i cavalli non rischiavano di doversi fermare spesso, per non inciampare su baracche, carretti e gente che passeggiava per i viali.

Alexya fu costretta a fermare Janus, per farlo andare al passo. In città non potevano correre, purtroppo. Johan la imitò, e passò davanti a lei e Sarihele. Superarono le prime abitazioni della capitale e proseguirono in mezzo ad altre case umili e poco curate. I cittadini ricchi abitavano sulle vie principali e nella piazza centrale gli unici nobili della città, cioè la famiglia che si occupava dell’amministrazione cittadina, i Tayoden, da cui proveniva il padre di Helena. La ragazza sperava di non incontrarli, o l’avrebbero costretta a prendere il the con loro invece di andare all’Airone. Ruotò il capo e controllò l’espressione di Sarihele, che sembrava incuriosito dal Borgo Smeraldo. Non aveva mai visto una città umana? Che strano.

La regina guardò davanti a sé e notò che iniziava ad esserci più gente per strada, segno che erano vicini a qualche viale. I negozi attiravano sempre molte persone. Rassegnata, si preparò a salutare ogni passante.

«Divino Sarihele, avete qualche problema a farvi vedere in nostra compagnia?» chiese Johan, fermando il cavallo in mezzo alla strada.

Alexya inarcò le sopracciglia e guardò il dio. In effetti, seduto su Janus, avrebbe attirato l’attenzione più di quanto volesse.

«Meglio che prosegua a piedi» disse Sarihele, lanciando un’occhiata alle abitazioni che li circondavano. «Camminando sui tetti, posso seguirvi senza farmi vedere».

La ragazza si guardò attorno. Le case erano in gran parte palazzine per quattro famiglie, era raro trovarne di diverse, soprattutto nel centro.

«Posso lasciarvi il mio cavallo e io vado a piedi con milady» propose Johan.

Alexya fulminò il capitano e aprì la bocca per rispondergli. Non sopportava tutte quelle cerimonie. Se il dio aveva detto di voler fare in quel modo, perché contraddirlo? Era un comportamento maleducato, secondo lei.

Sarihele scosse il capo e rifiutò: «Non so come muovermi per tutte queste stradine; sui tetti non guarda nessuno, non c’è alcun problema così».

Poi scese da Janus, un braccio attorno alla vita della ragazza, l’altra mano sulla schiena del cavallo, mentre la scavalcava con la gamba destra. Atterrò con grazia e si portò affianco alla regina.

«Dove mi devo dirigere, di preciso?» domandò il dio.

«Basta seguire lungo in viale, la piazza è proprio in fondo. Dobbiamo andare alla taverna l’Airone» rispose Alexya, stringendo tra le dita le redini di Janus.

Sarihele annuì e con un inchino indietreggiò. «A presto, milady» la salutò.

La regina seguì la sua breve corsa con lo sguardo. Lo vide spiccare un balzo e appendersi a un balcone con le mani. Poi lui si issò in piedi sul parapetto e saltò di nuovo, raggiungendo il terrazzo della casa a due piani. Il dio si voltò e le fece segno che era tutto a posto. Alexya gli fece cenno di seguirli ancora, poi spronò Janus.

Johan era ancora davanti e, quando lui giunse all’incrocio col viale, la ragazza sollevò lo sguardo verso Sarihele e gli suggerì a gesti di proseguire tranquillamente. Poi inspirò e uscì nella strada affollata, pronta agli sguardi della gente. Dai, si incoraggiò, c’è di peggio.

 

Johan era rimasto indietro, per tenere lontane le persone più insistenti, mentre Alexya si avvicinava all’Airone. Si fermò e si guardò attorno, alla ricerca di Sarihele.

«Com’è andata la passeggiata, milady?» chiese il dio, al suo fianco.

La ragazza gli rivolse lo sguardo e vide che aveva preso in mano le redini di Janus.

«La gente non ha ancora capito che le richieste si devono fare agli Anziani, ma questo è nella norma» replicò la ragazza.

Sorridendo, Sarihele portò il cavallo più vicino alla taverna e lo legò a un anello di ferro attaccato al muro.

«Volete una mano per scendere?» le domandò poi.

Alexya esitò. Sapeva smontare anche da sola e ne era fiera, però rifiutare sarebbe stato sgarbato. Soprattutto perché lui era andato da lei per un’alleanza. Iniziava a pensarla come Helena, non la entusiasmava ciò. Alla fine, annuì e lasciò che il dio le mettesse le mani sui fianchi e la sollevasse dalla sella. Scavalcò il dorso di Janus e si fece posare a terra. Il garrese del cavallo le arrivava alla testa, eppure era sempre riuscita a scendere da cavallo; ma doveva ammettere che era stato più comodo farsi aiutare da qualcuno molto più alto. Osservò Sarihele di fianco al cavallo. Doveva essere almeno quindici centimetri più alto di lei. Ma era più basso di Nicholas. In quel periodo aveva incontrato gente troppo alta per i suoi gusti. La facevano sentire una nana.

«Grazie» disse Alexya, con un sorriso.

Rumore di zoccoli e Johan fu dietro di loro.

«Milady, potete portarlo nella stalla il vostro cavallo» le fece notare il capitano.

La ragazza lo guardò seccata. «Quante volte ti ho detto che Janus odia stare al chiuso?»

Johan roteò gli occhi. «Io ci porto il mio, in qualsiasi caso».

«Ti ho detto di fare altrimenti? Vai, va» lo scacciò Alexya.

Sarihele osservò la scena divertito, poi passò una mano sul collo di Janus. «E’ più resistente e veloce degli altri cavalli. Non è di una razza degli Uomini, vero?»

La regina gli rivolse uno sguardo ammirato. «Nessuno me l’ha fatto presente, prima d’ora» gli disse. «Lo ha regalato Wirda a mio padre, è un ibrido tra il frisone elfico e i cavalli da guerra Inferi. Poi è passato a me, meno male». Così dicendo, Alexya sorrise e batté una mano sulla spalla di Janus. Le era sempre piaciuto quel cavallo, col pelo ocra e i crini rossicci. Che fosse stato di suo padre era un particolare che lo rendeva ancora più prezioso. «Entriamo, prima che Johan venga a cercarci» suggerì poi.

Sarihele annuì e le offrì il braccio, accompagnandola all’interno dell’Airone. Salirono i tre gradini davanti alla porta spalancata e furono nel locale. Havernio stava sparendo all’orizzonte, segnalando che era passata l’ora di pranzo, quindi la taverna era mezza vuota. Le cameriere stavano pulendo i tavoli e il pavimento, così il dio e la regina dovettero fermarsi vicino al bancone. Alexya cercò Johan e lo vide parlare con una donna dai capelli lisci e castani e gli occhi scuri, in grembiule, intenta a portare via dei boccali vuoti.

«Johan, come sei freddo! L’hai salutata per bene, tua moglie?» gli gridò la ragazza, poggiandosi al bancone.

Il capitano si voltò in sua direzione e le rivolse uno sguardo assassino. La donna sorrise e le andò incontro.

«Milady, scusateci se vi facciamo attendere, ma dobbiamo assolutamente finire di pulire» le spiegò lei.

«Tranquilla, Mansbove, morirò di fame in silenzio e senza sporcare» replicò Alexya.

La moglie di Johan ridacchiò e portò i boccali nella cucina, passando dietro il bancone. Poco dopo spuntò un donnone, vestito di stoffe colorate, con i capelli raccolti in una cuffia di pizzo.

«Vostra Grazia! Cosa vi preparo oggi?» domandò la donna. «Oh, ma vedo che siete accompagnata» notò poi, posando gli occhi su Sarihele. Lo osservò e si dipinse sul suo viso un sorriso compiaciuto. Sotto lo sguardo divertito di Alexya, gli porse una mano e si presentò: «Piacere, sono Graça, la proprietaria dell’Airone. I vostri occhi sono neri, siete un semidio?»

Alexya stava per correggerla, ma Sarihele la fermò: «Il piacere è mio, signora. Sì, sono un semidio: mi chiamo Doime».

«Oh, grazie, che ragazzo gentile» si complimentò Graça. «Allora, miei giovani, che volete mangiare?»

«Per me, birra, pane e arrosto» disse Alexya.

«Lo stesso per me, grazie» replicò Sarihele.

«Ed io, Graça?» chiese Johan, appena giunto al bancone.

«Sentiamo cosa vuole il soldatino» gli concesse la donna.

«Sidro, farinata e spezzatino. So che c’è, me l’ha detto Mansbove».

«Sì, sì, c’è» confermò Graça, sbuffando. Poi guardò la sala, alla ricerca di un posto dove farli andare a sedere. «Jenna, sbrigati e apparecchia» urlò alla cameriera che si stava occupando di un tavolo in fondo alla sala. La ragazza gridò una risposta e raccolse lo straccio, per affrettarsi a prendere tovaglia, bicchieri e posate da una credenza nei paraggi.

«Andate pure a sedere. Il cibo arriva presto» disse Graça, prima di tornare in cucina.

 

.-.-.-.

 

Minidizionario Maholhan-Italiano:

 (1) Lhenk: significa “sei” ed è un gioco di carte del Mondo Profano.

 

Eccoci a “fine primo tempo”. Chissà se il tributo alle Tre Martine è stato colto, ihih.

A presto.

 

Kanako

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XI. I Mercenari (b) ***


Ed eccomi con le ultime dieci pagine di questo lungo e sudato capitolo 11!

Il tributo l’ho spiegato alle dirette interessate, ma per chi fosse morto di curiosità, ecco la risposta: Mansbove, la moglie di Johan ^^

Prima di cominciare ringrazio le Tre Martine, Dark Magician, myki e marluxia25, cui anche questa seconda parte è dedicata, e una nuova aggiunta, Targul, che ha “preferito” l’Esercito! <3

Buona lettura ^O^

 

.-.-.-.

 

Uomini:

Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di Helena;

Helena dei Lahacilliarum, Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;

Johan, capitano delle guardie reali d'Ovest;

Marihus, maggiordomo dello Smeraldo;

Hanan, ancella di Alexya;

Garstand, padre di Alexya;

Dygghor, padre di Helena;

Arghos, uno degli Anziani;  

Geq e Pjehr, soldati della guardia reale;

Tarus, Re del Nord;

Mentius, Re del Sud;

Ludovik di Dornior, Re d'Est;

Sarah, messaggera dello Smeraldo;

Duca Sherden, nobile del Sud, compagno di giochi di Mentius;

Mansbove, moglie di Johan, cameriera all'Airone;

Graça, proprietaria dell'Airone;

Jenna, cameriera dell'Airone;

Stephan, mercenario, braccio destro di Daniel, membro dei Dragoni.

 

Inferi:

Nicholas figlio di Aexandras, Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);

Irene di Canthao, promessa sposa di Nicholas, demone;

Chester di Niha, Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;

Krados di Thena, Nobile purosangue, spia reale, demone;

Molko di Thener, Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro;

Lathiora, vive allo Smeraldo, antico spirito gatto;

Apuh, Nobile del Clan Thener, vampiro;

Thitus, Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone;

Bhor'la, Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo;

Murthen, mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan;

Daniel di Canthao, Nobile purosangue, fratello di Irene, mercenario, capo dei Dragoni.

 

Divinità:

Al, Re delle Divinità, dio della Forza;

Adele, Regina delle Divinità, dea dell'Amor Proprio;

Hordev, figlio di Al ed Adele, dio della Lussuria;

Zephiro, protettore della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;

Vraele, generale dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio della Guerra;

Eoforbio, portavoce reale;

Sarihele, capo degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;

Veris, dea della Primavera;

Niharn, protettrice del Regno d'Ovest;

Devon, sottotenente di Vraele, Colchico;

Dabar'as, membro degli Herzbrenht.

 

Campi di Sangue:

Archelaos, negromante, semidio;

Laila, scheletro di Archelaos;

Arnold, proprietario della Mandragola;

Mara, moglie di Arnold;

Tyr, proprietario del Vagabondo selvaggio.

 

Elfi e Lucenti:

Wirda, Re degli Elfi;

Vaenihum, braccio destro di Nicholas, medico di corte, Elfo;

Adhurna, Regina dei Lucenti, cieca;

Martha, comandante degli arcieri elfici.

 

.-.-.-.

 

 

XI.

                   Mercenari

 

 

 

Dirigendosi dove Jenna apparecchiava, Alexya toccò il braccio di Sarihele, per attirare la sua attenzione. «Perché non avete detto la verità?» gli domandò.

«Se avessi voluto che tutti sapessero della mia presenza qui, prima sarei venuto a cavallo con voi. Quella donna sembra chiacchierona» spiegò il dio.

«Lo è» confermò Johan.

La regina lo fulminò con lo sguardo.

«Il nome che ho usato è davvero di un semidio. Doime è uno dei bastardi di Arihost» aggiunse Sarihele, giunto vicino al tavolo.

«Prego, signori» li invitò Jenna, scostandosi dopo aver messo l’ultimo bicchiere sulla tovaglia.

Alexya andò a sedersi sulla sedia a capo tavola, Sarihele e Johan occuparono le panche ai due lati della regina.

«Ho sentito spesso parlare dei vari figli di Arihost. E’ il dio delle Ombre, non ha senso il suo comportamento» disse la ragazza, portando una mano sulle posate per cominciare a giocarci.

«Prima della nascita di Hordev, era lui il dio della Lussuria. E’ insito nella sua natura, aver perso un titolo non gli impedisce di spargere bastardi per il Mondo Profano» rispose Sarihele.

Alexya inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Questa non la sapevo».

«E’ successo millecinquecento anni fa, difficile che abbiate ricordi di quel periodo» scherzò il dio.

La ragazza accennò un sorriso, ma continuò: «Intendevo che non l’ho mai letto su nessun libro. Non è un fatto da poco, porta cambiamenti per i culti».

«Nessuno venera il dio della Lussuria» disse Sarihele.

«Perdonatemi, divino, ma nei bordelli c’è sempre un’icona di Hordev» intervenne Johan.

«Johan, vai per bordelli? Mansbove lo saprà» lo minacciò Alexya, ghignando.

«In quelli umani; solo voi avete bisogno di icone per pregare» replicò il dio delle Ribellioni, prima che il capitano potesse ribattere alla regina.

«Comunque, arrivano pochissime notizie dai Giardini delle Divinità» li interruppe la ragazza, cercando di spostare il discorso dove desiderava. Non le interessava di bordelli o di culti, aveva portato Sarihele lì per parlare della loro alleanza. Voleva capire con chi aveva a che fare e chiarire i termini della loro collaborazione. «Per esempio, non ho mai sentito parlare degli Herzbrenht».

Il volto del dio si oscurò. «Il nostro regno è troppo isolato e noi non ci siamo mai esposti troppo. Al ha spesso cercato di eliminarci, se non ci è riuscito è solo perché i Colchici sono fedeli a Vraele e lui ha sempre sviato le ricerche. Se un gruppo di Herzer uscisse dai Giardini delle Divinità, sarebbe più vulnerabile».

«Eppure siete venuti a cercarmi» notò Alexya, rigirando la forchetta nella mano.

«Infatti, ci siamo spostati tutti insieme. Siamo in cinquanta, con molti collaboratori tra gli altri dei, ma siamo comunque troppo pochi» le spiegò Sarihele.

Arrivò Mansbove con i piatti di carne. «Ecco a voi» annunciò, posando le porzioni di carne davanti a chi le aveva ordinate. «Ora porto il pane e da bere» disse e si allontanò.

«Siete così pochi? Mi è sempre sembrato che ci fosse un numero esagerato di Divinità nei templi, non riuscite a trovare alleati?» domandò Alexya, lanciando uno sguardo al piatto.

«Quelle sono le Divinità maggiori, cento in tutto. Gli dei minori sono circa duemila, o duemila e cinquecento, distribuiti tra Gemma d’Autunno e Chril Dhy».

«Beh, le Divinità maggiori sono quelle più potenti e tra cui avete degli alleati, no? Mi sembra strano che non siate riusciti a combinare nulla» commentò Alexya.

«Ed ecco il pane» disse Mansbove, posando il cestino di vimini sul tavolo. Lasciò anche le due brocche. «Il vino e il sidro, per voi. Buon appetito»

«La mia farinata?» domandò Johan, rivolgendo un’occhiata triste alla moglie.

La donna sorrise e gli tirò un buffetto. «E’ col pane».

«Meno male, credevo volessi farmi morire di fame» replicò il capitano.

Alexya roteò gli occhi e si rivolse a Sarihele. «Allora, cosa vi impedisce di attaccare Al?» domandò, afferrando una pagnotta dal cestino.

Il dio lanciò uno sguardo alla coppia davanti a lui, poi guardò la regina che spezzava il pane.

«Al non è debole. Se cercassimo uno scontro, utilizzerebbe i Myurohon e i Colchici contro di noi. Vraele in quel caso dovrebbe eseguire i suoi ordini senza fiatare, i tatuaggi sulle sue spalle lo farebbero agire secondo il volere di Al, come una marionetta. Non avremmo scampo e gli Herzbrenht verrebbero decimati. Tutti i traditori tra le altre Divinità verrebbero giustiziati. Al non aspetta altro, vuole liberarsi della minaccia che noi Herzbrenht rappresentiamo» spiegò Sarihele, prendendo le posate e tagliando la carne.

Alexya pensò che, fosse stata al posto di Al, avrebbe fatto la stessa cosa. Tagliò un pezzo di carne, la liberò del grasso e dei nervi, poi la portò alla bocca. Lei avrebbe cercato di provocare i ribelli, finché non avessero attaccato, per avere una motivazione valida per il loro sterminio. Con gli Anziani faceva così: lasciava il guinzaglio allentato, permetteva loro di tramare, lasciava passare le scaramucce, li provocava nei consigli; ma Arghos non era stato ancora abbastanza scemo da attaccarla in pubblico. Masticò la carne, lentamente. Pochissima gente sapeva dei contrasti tra Regine e Anziani, se Alexya avesse provato a eliminarli ora, i nobili sarebbero insorti di sicuro e anche il popolo. Doveva aspettare che si esponessero a sufficienza per rendere palesi i loro intenti e giustificarsi. Ma l’attesa era fastidiosa, per lei. Prese la brocca di vino, se lo versò nel bicchiere. Ed Helena collaborava poco, non amava trovarsi invischiata negli intrighi di corte. Era un comportamento ingenuo, perché Arghos non si faceva scrupoli: appena ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe usato persino un errore di Helena per minacciarla. Aveva un fianco scoperto, che faceva difficoltà a proteggere. Portò il bicchiere alle labbra e bevve.

«Quindi, quando vi manda contro i Colchici, lo fa per provocarvi. Per questo non pretende che Vraele vi colpisca davvero» disse Alexya, posando il calice sul tavolo.

Sarihele interruppe la masticazione, sorpreso. Buttò giù il boccone, si versò del vino e ne bevve un sorso. Poi riuscì a parlare.

«Sì, è così. Non credevo che-» cominciò il dio.

«Milady è cresciuta mangiando spade e intrighi a colazione» commentò Johan, prima di addentare un pezzo di farinata.

Alexya lo guardò seccata e gli puntò contro il coltello. «Hai finito di fare il cascamorto con tua moglie?» gli domandò. Poi abbassò di colpo la mano con la lama e il capitano scattò all’indietro. Ma la ragazza aveva infilzato un pezzo di spezzatino, per nulla intenzionata a colpire davvero il soldato. «E allora continua a mangiare e non blaterare» gli ordinò, portando la carne nel suo piatto.

«Qual è, di preciso, l’obiettivo degli Herzbrenht?» chiese Alexya, al dio delle Ribellioni.

«Deporre Al» replicò Sarihele.

«Fin qui c’ero arrivata».

Il dio corrugò la fronte. «Il problema non è Al in sé, sono le sue azioni. I Giardini delle Divinità stanno marcendo, le nostre ricchezze sono sperperate in feste e in questa inutile guerra. Siamo un Popolo vecchio, non nascono più purosangue, ma solo semidei. Gli ufficiali del nostro esercito non sono Myurohon, sono Divinità e muoiono in gran numero. Stiamo sparendo e questo perché Al continua a unirsi a Divinità minori, se non addirittura mezzosangue».

«Hordev è suo figlio, no?» domandò la ragazza.

«Così sembra. La sua nascita è stato un fatto inspiegabile. Ma il suo titolo divino palesa la corruzione del nostro regno. Perché credete che molti dei maggiori vivono fuori di Giardini delle Divinità?» rispose Sarihele. «I quattro protettori dei Regni degli Uomini e i loro figli, Solarium, Lunar, le Bestie Sacre, l’Eremita dei Ghiacci: tutti si sono allontanati secoli addietro, quando ancora il marciume non era così diffuso».

«Arihost vive nella Fohst-Nathrion e non nei Giardini delle Divinità, pur essendo un perfetto esempio di “decadenza divina”» commentò Alexya, mangiando il pezzo di spezzatino preso da Johan.

«Di Arihost non si hanno più notizie, ogni tanto compare qualche nuovo bastardo, però non si è più fatto vedere a corte. Lui è un caso a parte, collabora con la nostra caduta» spiegò il dio.

«Capito. Allora, cosa proponete? Dovreste avere un valoroso, un puro di cuore, da mettere al trono al posto di Al. Avete intenzione di diventare Re delle Divinità, divino Sarihele?» chiese Alexya, tornando a tagliare il suo arrosto.

«Non mi state prendendo sul serio, milady».

«Non tanto, non mi piacciono i discorsi sulla morale» replicò la ragazza e, dopo aver detto quelle parole, si domandò da quanto tempo provasse così fastidio per i moralisti. Suo padre li aveva sempre avuti in odio, gli Anziani erano un ottimo esempio della categoria, ma lei non si era mai trovata davanti a una persona che combattesse per quello e che volesse lei come alleata. Arghos le si era messo contro, Sarihele la stava cercando. Non aveva molto senso. «Il punto è che io non ho nulla di personale contro Al. Quel che voglio fare è riappacificare la Terra dei Cinque Popoli e questo mi mette contro ad Al e a Lord Nicholas» continuò Alexya.

A quelle parola, Johan lo fissò ironico. E la ragazza capì perfettamente cosa stava pensando il capitano.

«Al e Lord Nicholas in quanto Re delle Divinità e Re delle Terre d’Ombra, Johan» gli fece notare, irritata. «Ho già detto di non avercela con la loro persona».

«Certo, certo. Però ti sai fatta portare in giro dall’Infero, hai cenato e dormito nella sua tenda. Stavi cercando informazioni per batterlo?» rispose Johan, inarcando le sopracciglia. «Se continui così, il tuo bell’Esercito della Fenice diventerà un’appendice di quello Infero e mi spieghi che fine fa la tua geniale idea? Tutto questo per finire nel letto di uno che gira sempre mezzo nudo, ci prova con ogni paio di tette che incontra ed è la mente più calcolatrice che sia mai esistita. Credi che ti abbia avvicinata perché l’hai ammaliato? Lui vuole l’Esercito da mandare avanti per indebolire Al, solo questo!»

Alexya scattò in piedi, il coltello in una mano. L’altra afferrò con forza il collo del capitano. «Che diritto credi di avere per parlarmi in questo modo, soldato?» ringhiò, puntandogli la lama alla gola.

Mansbove lanciò un urlo, dal bancone dove osservava la scena.

«Non sono l’unico che la pensa così, milady. Dopo l’attacco dei Myurohon i soldati erano di cattivo umore e voi non siete andata a visitarli. Certe cose non si dimenticano facilmente. Anche se non l’hanno dato a vedere, le guardie reali, Marihus e Hanan non approvano il vostro avvicinamento all’Infero» continuò Johan.

«Hanan me l’ha detto in faccia. E comunque voi non dovete interessarvi a quello che faccio» replicò Alexya.

«L’Alexya che conoscevo non avrebbe mai detto una cosa simile. Siete arrabbiata e non ragionate» disse il capitano.

Il coltello si posò sulla pelle dell’uomo. Sarihele si alzò dalla panca e mise una mano sul braccio della ragazza, quello che reggeva la lama. Mansbove si avvicinò premendosi un lembo del grembiule sulla bocca, gli occhi sgranati per il terrore.

«Milady, per favore» la pregò il dio.

Alexya lanciò uno sguardo al viso di Sarihele e notò la determinazione a farla smettere. Avrebbe usato la forza per metterla a sedere, che senso aveva? Non se la stava prendendo con lui, ma con quell’idiota irrispettoso che era Johan. Ma decise di calmarsi, stava dando spettacolo in una taverna al centro di Borgo Smeraldo; anche se in quel momento era quasi deserta, Graça aveva la lingua lunga e molte cameriere avevano preso la stessa abitudine. Mollò la presa sul collo del capitano e tornò seduta, inspirando profondamente.

«Ne parleremo più tardi, Johan» disse Alexya, usando il coltello per tagliare un altro pezzo di carne.

«No, sono mortificato, milady, ma io ho detto tutto. Parlate con gli altri soldati semmai» replicò il soldato. Scivolò un poco sulla panca e si mise in piedi affianco alla regina. «Io ho finito di mangiare, chiedo congedo».

«Concesso» rispose la ragazza. Osservò la carne nel suo piatto e si accorse di non avere più fame. Prima di abbandonare le posate nel piatto, sentì i passi di Johan allontanarsi e Mansbove avvicinarsi a lei.

«Milady, perdonatelo» le chiese, rigirandosi la fede nuziale sull’indice destro.

«L’ho già fatto» mormorò Alexya, portando alle labbra il bicchiere di vino.

Mansbove si lasciò cade sulla panca dove era stato seduto Johan. «Cercherò di farlo ragionare, non può dare di testa-».

«Lascia perdere, ti prego» la zittì la ragazza, lanciandole uno sguardo sofferente. Finché era Hanan a borbottare, o quella piaga di Marihus, era un conto. Se Johan iniziava a lamentarsi allora c’era davvero qualche problema. Ma come lo poteva risolvere? Doveva lasciar perdere Nicholas? Ripensò all’amuleto contro i Myurohon. No, aveva tutto da guadagnare. Lui era nella Guerra Millenaria da più tempo, aveva la tecnologia necessaria a mettere in pari l’Esercito della Fenice con quelli delle Divinità e degli Inferi. Sui libri di suo padre non aveva mai trovato quelle informazioni, lo stesso negromante di Sung’bar aveva detto che Nicholas e Vaenihum non permettevano la diffusione delle loro scoperte al di fuori delle Terre d’Ombra. No, no, no, Nicholas le serviva. Non poteva tagliare i ponti all’improvviso. I suoi soldati avrebbero capito, quando avrebbero visto i Myurohon morire sotto i loro colpi.

«Vai a tenergli compagnia, Mansbove» suggerì Alexya alla donna.

La cameriera annuì e si mise in piedi, congedandosi con un inchino.

«Stavamo parlando del nostro sostituto Re delle Divinità» le ricordò Sarihele.

La regina concordò, tornando composta e mettendo da parte i suoi problemi. Ora doveva occuparsi dell’Esercito della Fenice, il resto non contava. «Chi volete proporre?»

«L’Eremita dei Ghiacci, Gladius, il dio della Neve e del Ghiaccio» rispose la Divinità.

Alexya lo guardò perplessa. «Non ne ho mai sentito parlare» ammise.

«E’ normale: si è ritirato sui Monti di Luce, nessuno sa dove di preciso, e il suo culto è diffuso soprattutto tra i Lucenti e gli Elfi montanari; inoltre, è una persona solitaria, ha sempre preferito l’anonimato. E’ stato uno dei primi a esser stato creato dopo Al e Adele» le spiegò Sarihele.

«Preferisce l’anonimato? Non vi siete posti il dubbio che lui possa rifiutare?» obiettò Alexya.

Il dio sorrise. «A lui non piacciono i Giardini delle Divinità come sono ora, per questo ha cercato di mettersi da parte. Io lo prego spesso, questo è l’unico modo in cui posso tenermi in contatto con Gladius. Lui è sempre aggiornato sui nostri movimenti; se non gli andasse bene qualche nostra scelta, si farebbe sentire».

Alexya era comunque perplessa da quella storia. Però le Divinità avevano la magia, erano nei gradini più alti nella gerarchia di capacità magiche, assieme agli Inferi. Le avrebbero fatto molto, molto comodo. E che volessero eliminare Al sembrava un fine capace di spingere gli Herzbrenht a darsi da fare per aiutarla. Sì, poteva farli entrare nell’Esercito della Fenice.

«Accetto voi Herzbrenht, perché avete la magia. Per questo sarete voi a occuparvi della protezione magica dell’Esercito e cercherete umani con sangue magico nelle vene, per istruirli come si deve» disse la regina.

«Grazie a Vraele so abbastanza della Guerra da poter organizzare degli addestramenti mirati per i soldati» fece notare il dio.

«Le vostre conoscenze mi potranno essere d’aiuto più avanti. Ora ho intenzione di aspettare l’arrivo di tutte le truppe, saggiare le loro capacità e poi organizzare l’esercito come si deve. Quel che voglio sono soldati altamente specializzati, non con una cultura generale. Devono saper svolgere il loro compito al meglio, quello degli altri non li deve riguardare» lo contraddisse Alexya, prima di bere ancora il vino.

«Non è un’idea malvagia» considerò Sarihele.

Alexya abbozzò un sorriso.

 

«E prendi quel cinghiale, Bhor’la!»

L’antico spirito di Niha ruotò la testa in direzione di Apuh, che aveva gridato, disteso sotto una magnolia in compagnia della vampira di Lahat. Lo fissò minaccioso, mentre il cavallo correva dietro il cinghiale. Jansen lo superò urlando, eccitato dalla caccia.

«Troppo lento!» lo schernì, roteando la lancia, la sottile coda verde che fluttuava alle sue spalle.

Thitus osservò i due antichi spiriti correre a cavallo, inseguendo un servo di Jansen, che era stato obbligato a prendere le sue sembianze animali per far divertire due Nobili. Lui si era rifiutato di partecipare alla caccia, i cinghiali non gli piacevano. Apuh non vi aveva preso parte solo perché era più interessato a stare alla calcagna di Mhinouke; altrimenti la caccia la organizzava sempre lui.

«Non ho ancora capito perché quei due stiano facendo gli scemi, quando dovremmo parlare di cose serie» commentò Neben, portando alla bocca un pezzo di crostata alle albicocche della cuoca di Mhinouke.

Thitus scosse la testa. «Se si stancano ora, dopo non iniziano a punzecchiarsi».

«Beh, dubito che Apuh sarà stanco alla fine della caccia. Se lui ha la forza di fare lo spiritoso, Bhor’la e Jansen risponderanno nonostante tutto» replicò Neben, lanciando uno sguardo all’albero a qualche passo da loro.

Il demone di Canthao la imitò e inarcò le sopracciglia vedendo Apuh disteso sull’erba, con la testa sulle ginocchia di Mhinouke, parlandole in continuazione; intanto lei lo ignorava, più interessata al libro che aveva in mano che alle chiacchiere del vampiro. Mhinouke era obbligata a stare all’ombra, era albina e quindi sopportava i Soli meno degli altri Inferi. Però non era necessario che Apuh stesse sotto la magnolia con lei. Lui si divertiva a fare il cascamorto perché lei fingeva disinteresse con una grazia che deliziava il vampiro. Thitus non trovava tanto normale un comportamento simile.

«Purtroppo hai ragione» concesse il demone a Neben.

La donna fece spallucce, mentre spezzava con i denti un altro pezzo di crostata. La masticò, rivolgendo lo sguardo a Jansen, che arrestava il cavallo vicino al cinghiale trafitto dalla sua lancia. «Bhor’la si lascia sempre fregare da quella serpe» borbottò il demone di Thena. Ruotò il capo verso Thitus, mettendo in bocca quello che restava del dolce.

«Hanno finito, ora verranno qui» commentò l’uomo.

Una serva si avvicinò al tavolino di ferro battuto e marmo su cui si trovavano i vassoi di cibo e la teiera. «Serve altro, padrona?» domandò la giovane a Neben.

«Vai a scaldare il the, si è freddato» ordinò la donna.

La cameriera prese la teiera e si allontanò, silenziosa.

«Aah, Neben, vuoi mangiare con me il cinghiale?» esordì una voce alle spalle della donna.

Thitus sollevò lo guardo e vide Jansen in piedi dietro la padrona di casa, la preda sulle spalle nude.

«Non mi do al cannibalismo, Jansen» replicò lei. Lo osservò, i riccioli verdi incollati sul viso spigoloso e allungato, il codino e la pelle del busto sporchi del sangue dell’antico spirito. Indossava solo i pantaloni di lino marrone e gli stivali di cuoio, la pelliccia l’aveva abbandonata prima di andare a caccia. «E poi, così sporco e sudato, non vorrai sederti sulle mie sedie?»

Il Nobile di Arah ghignò, lasciò cadere il cinghiale per terra e si accomodò affianco a Neben, avvicinandosi di più a lei. «A quanto pare sì».

La donna rivolse uno sguardo seccato a Thitus. «La caccia non li ha stancati minimamente» gli fece notare.

Bhor’la si avvicinò a tavolo e si lasciò andare su una sedia vicino al demone di Canthao, con un sospiro rumoroso per via della maschera. «Sono stufo di questi giochi sciocchi» annunciò, e prese la tunica inzuppata di sudore tra pollice e indice e la sollevò dal petto.

Jansen gli rivolse uno sguardo malizioso. «Dici sempre così, ma poi vieni comunque. Ammetti che ti piace vedermi a torso nudo» lo provocò, allungando un braccio per passarlo attorno alle spalle di Neben.

«Jansen, dovresti smetterla di ammazzare i tuoi servitori ogni volta che tardano a correre da te» commentò Mhinouke, avvicinandosi al tavolo dove si trovavano gli altri Nobili.

Thitus le scostò una sedia. «Prego, accomodati» la invitò, con un cenno della mano.

«Ma, Mhinouke, io mi diverto!» protestò Jansen, per nulla serio.

La vampira mise una mano sulla gonna bianca, per evitare che si stropicciasse sedendosi. Si portò una mano davanti alla bocca e tossì, senza far troppo rumore.

Neben lanciò uno sguardo preoccupato a Mhinouke. «Chiedo di spostare il tavolo all’ombra?» le domandò.

L’altra fece cenno di no con la mano e indicò il parasole bianco che reggeva nell’altra mano. «Questo basta. Oggi le nubi sono più fitte, credo stia arrivando la pioggia» rispose la vampira.

Apuh si avvicinò al tavolo, il mantello nero che ondeggiava dietro le spalle. Lanciò uno sguardo a Mhinouke, che aveva allungato la mano sul tavolo per prendere un biscotto, e si sedette vicino a lei, poggiando il gomito sul bracciolo della sua sedia.

«Pioggia o non pioggia, non lo sentite anche voi?» chiese Apuh, fissando Mhinouke con un sorrisetto. Provò a passare una mano tra i capelli quasi bianchi della donna, ma gli occhi rossi lo fulminarono, senza che il suo volto pallido fosse turbato da qualche emozione.

Thitus abbassò le palpebre per concentrarsi sulla percezione dell’aura. Oltre alle cinque attorno a sé, potenti, e un numero imprecisato di energie più deboli nella villa di campagna di Neben, un’enorme presenza si avvicinava a Occhio degli Inferi. Aprì gli occhi di scatto e incontrò lo sguardo di Neben.

«E’ tornato Lord Nicholas» annunciò Thitus.

Bhor’la annuì, in silenzio. Mhinouke gli lanciò uno sguardo, poi prese un altro biscotto e lo mise in bocca ad Apuh, impedendogli di fiatare.

Jansen scrollò le spalle. «Non importa, tanto noi possiamo rimanere qui senza essere spiati» disse.

Neben si liberò del braccio dell’antico spirito di Arah e si mise in piedi, tra i borbottii contrariati dell’uomo.

«Voi potete rimanere qui, io vado ad accogliere Sua Altezza» disse la padrona di casa.

«Dimmi a che serve andare da lui, quando noi dobbiamo pensare a come togliercelo dai piedi!» protestò Jansen, cercando di afferrare la donna dai fianchi, per farla tornare a sedere.

«Non dire idiozie, sai che lui non direbbe mai di no a una donna. Sto semplicemente cercando un punto debole per colpirlo» spiegò Neben, allontanandosi di qualche passo dall’antico spirito.

«Thitus, dille che sta perdendo tempo! Diglielo!» lo incitò Jansen, sporgendosi verso il tavolo.

Il demone di Canthao scosse il capo. «Sta portando avanti la sua vendetta, collaborando con noi. Non vedo perché ostacolarla» rispose. «Comunque, tutto quello che dovevo dirvi è che abbiamo un alleato abbastanza potente e antico da poter contrastare Lord Nicholas. D’ora in poi, possiamo osare di più, abbiamo un’arma di cui nessuno conosce l’esistenza, che ci verrà in aiuto quando ne avremo bisogno».

Thitus osservò la sorpresa e il dubbio sui volti dei suoi compagni. Ma non gli interessava. Vedendo i risultati, avrebbero capito. Lui non era intenzionato a lasciarsi sfuggire il raggiungimento del traguardo, per cancellare la perplessità dei Nobili. Il miglior alleato che potessero trovare era con loro. Il Mezzosangue era uscito dal mito, per aiutarli.

 

Murthen corse davanti a Nicholas, per impartire ordini alla servitù radunata davanti all’ascensore dell’Hinferion Rahan. Il Re degli Inferi proseguì lungo il corridoio, seguito da Vaenihum e Irene.

Casa, dolce casa! Mi sei mancata!, esclamò Nephas.

Vai a chiamare Krados, ordinò Nicholas all’Elfo, fregandosene dell’antenato che parlava nella sua mente.

Vaenihum si fermò e, con un inchino, cambiò strada. La servitù si era dispersa, ma rimanevano in attesa del sovrano tre persone.

Il primo a pararsi davanti a Nicholas fu Molko, che s’inchinò e prese parola.

«Bentornato, Vostra Altezza. Ho eseguito gli ordini ricevuti, non c’è stato alcun contrattempo. Attendo altre direttive» disse il vampiro, con orgoglio.

Nicholas inarcò le sopracciglia. «Mi sembra il minimo. Sarà Cedric ad assegnarti i prossimi compiti» replicò e passò avanti.

Sempre antipatico, figliolo. Perché nessuno ti ha ancora ammazzato?, lo rimproverò Nephas.

Irene si accostò al sovrano. «Vado nelle mie stanze» lo avvertì, in un sussurro.

«Mh» rispose Nicholas e fu costretto a rivolgere la sua attenzione al vampiro biondo che gli si era piazzato sul cammino. Perché tutti avevano la brutta abitudine di andargli a parlare appena tornato a palazzo? Non potevano chiedere udienza come le persone normali? Li aveva abituati male. La volta successiva avrebbe preso provvedimenti drastici. Ora voleva avere delle determinate informazioni.

Sei più acido del solito, o sbaglio?, commentò Nephas, imperterrito.

L’Infero guardò il giovane davanti a sé, con i capelli biondi legati in una coda bassa, e il completo militare nero, pantaloni e la giacca, portata senza niente sotto. A quanto pare, stava diventando una moda andare a petto nudo come lui. Gli seccava questa storia, ma non aveva la minima voglia di vestirsi troppo solo perché veniva imitato. Non gliene fregava più di tanto. Incontrò gli occhi rossi del vampiro e annuì, permettendogli di parlare.

«Ho novità da riferirvi, Vostra Altezza» annunciò il giovane.

E’ il secondo che ti chiama “Vostra Altezza”. Li stai istruendo per bene, questi giovanotti, disse Nephas, divertito.

«Tra mezz’ora, fatti trovare davanti alla mia porta, Cedric» rispose Nicholas, liberandosi del mantello. Gli stava andando incontro una serva per aiutarlo a svestirsi, quindi le lasciò la cappa rossa in mano.

Cedric fece un inchino e si allontanò. Sarebbe andato ad appostarsi davanti alla sua porta, il Re degli Inferi lo sapeva. Era sempre così. Proseguì e si avvicinò alla donna che lo attendeva, con uno sguardo astioso. Le lasciò scorrere lo sguardo addosso: non degnò di troppa attenzione i capelli castani con ciocche più chiare che spuntavano qua e là, né si soffermò sugli occhi color muschio; invece, studiò deliziato lo scollo del vestito amaranto, che metteva in risalto il seno prosperoso della donna. Ghignò e le prese una mano, per baciargliela.

«Lady Neben, se venite a cercarmi, almeno fingete di esser contenta di vedermi» la canzonò.

Il demone di Thena inarcò le sopracciglia. «Se vi dà fastidio la mia espressione, ignoratemi, Lord Nicholas».

Non vorrei dire, ma ha ragione, intervenne Nephas.

Nicholas le passò una mano attorno alla vita e la costrinse a seguirlo, trascinandola finché lei non decise di assecondarlo.

«Ignorarvi? Avrei tutto da perdere» replicò lui. Sapeva perché Neben andava a cercarlo e non la rifiutava perché questo gli permetteva di controllarla. Lui non le avrebbe mai fatto sapere nulla di utile, le avrebbe parlato di minuzie illudendola di avere grandi informazioni. Era più sicuro di lasciarla andare in giro per il palazzo, libera di ficcare il naso ovunque.

«Andiamo a fare un bagno» la informò, con un ghigno.

Neben gli rivolse gli occhi, indecisa se accettare o meno. Alla fine, annuì. Ma Nicholas aveva dato per scontata la risposta. Neppure l’odio che nutriva nei suoi confronti per la morte di Serjen, sua sorella, poteva nulla contro di lui.

So che stai facendo così per farmi stare zitto, Nicholas. Ignorarmi non serve, sono dentro di te e se mi colpisci con la magia divento più forte, lo provocò Nephas.

Nicholas finse ancora di non averlo sentito.

Bastardo, bofonchiò il Primo Infero, chiudendosi nel mutismo. Non voleva partecipare al bagno del suo corpo.

 

Neben osservò Nicholas uscire dalla vasca, l’acqua che scorreva sul corpo marmoreo, i capelli corvini bagnati e incollati sulla pelle. Chiuse gli occhi e sospirò sofferente, attirando l’attenzione del sovrano su di sé.

Lui la guardò, abbandonata sul bordo della vasca, la testa all’indietro, le ciocche castane scompigliate, il seno appena nascosto dall’acqua. Prese l’asciugamano che gli porgeva una serva e se lo avvolse attorno alla vita, mentre la donna ne usava un altro per tamponare i capelli, prima di pettinarli.

«Avete intenzione di sfruttare la mia generosità ancora a lungo, lady Neben?» le domandò, in piedi a un passo dal suo viso, sovrastandola.

Neben drizzò il capo e si portò la mano sulla spalla, ritrovandosela sporca di sangue. Però la ferita era quasi completamente rimarginata.

«Se chiamate generosità strappare la carne dalle ossa della gente, allora non oso pensare come voi siate di cattivo umore» commentò il demone.

Ancora una volta ha ragione. Peccato che tu non te la sbatta perché è simpatica, si lamentò Nephas, tornato alla carica.

Nicholas si liberò delle cure della serva e si accovacciò alle spalle di Neben. L’afferrò per i capelli e la costrinse a piegare la testa all’indietro.

«Volete provarlo, nevvero?» le propose, senza allentare la presa davanti alla smorfia di dolore sul volto della donna.

«Mi accontento di questo assaggio» rispose Neben, portando le mani ai capelli.

«Mi piace parlare con donne intelligenti» disse Nicholas, prima di mollare la presa. «E ora uscite dall’acqua».

Ripeto: antipatico e acido, commentò Nephas.

Il demone di Thena si voltò e mise le mani sul bordo della vasca, issandosi fuori dall’acqua. Si sedette e strizzò i capelli. Un’altra serva le porse un asciugamano e Neben si mise in piedi, per stringerselo attorno al seno.

Nicholas seguiva i suoi movimenti impassibile, mentre la giovane alle sue spalle finiva di pettinare i capelli. Poi ordinò alle due donne di vestire in fretta la Nobile.

«Dopo, lady Neben, lascerete questo palazzo» le ordinò, gli occhi d’argento fissi nei suoi.

Il sovrano si voltò e uscì dalle terme di palazzo, percorrendo il corridoio fino alle scale. Salì due rampe di gradini di marmo nero, poi giunse al piano delle stanze della famiglia reale. Erano tutte vuote, a parte la sua e quella di Irene. Ma Nicholas non aveva intenzione di riempirle con mogli e figli, erano solo problemi. Arrivò in fondo al corridoio e trovò Cedric in piedi davanti alla porta dei suoi appartamenti.

Ma perché hai al tuo servizio gente così ligia al dovere? Non te la meriti, disse Nephas.

Se lo sono, è perché li ho obbligati io a diventare così, gli fece notare Nicholas.

Con Molko non hai fatto un buon lavoro, replicò il Primo Infero.

Dici così perché non sai com’era qualche anno fa. E ora, taci, ordinò il sovrano.

«Entra alla chiamata Vaenihum» disse Nicholas a Cedric.

«Come desiderate, Vostra Altezza» rispose il vampiro.

Il Re delle Terre d’Ombra mise la mano sulla maniglia e aprì uno dei battenti della porta, entrò e la richiuse alle sue spalle. Nella penombra nella stanza, poté vedere con chiarezza Vaenihum in piedi davanti al camino a destra, con le mani dietro la schiena, mentre uno dei divani a destra era occupato da Krados, che aveva abbandonato il mantello sullo schienale e giocherellava con la catena di una delle sue falci.

«Bentornato, milord» lo salutò la spia, sollevando lo sguardo verso di lui.

Nicholas attraversò la stanza e aprì la porta del guardaroba. Le serve che stavano mettendo a posto le valigie sussultarono, poi con un inchino gli diedero il benvenuto.

«Vestimi» ordinò il sovrano alla ragazza più vicina.

La serva si affrettò a prendere un completo pulito dall’armadio, mentre l’altra continuava il suo lavoro. Porse a Nicholas i pantaloni, poi la cintura, infine la giacca, che gli abbottonò, mentre lui chiudeva i polsini.

Vestito, il re uscì dal guardaroba passandosi le mani tra i capelli, e si sedette sulla poltrona vicino al camino. A un suo cenno, Vaenihum fece un giro della stanza e toccò tutte le porte che si affacciavano nel salotto, creando una barriera che impediva ai suoni di passare.

Krados si alzò dal divano e si avvicinò a Nicholas. Fece un inchino e attese il permesso di parlare.

«Cos’hai da dirmi, Krados?» chiese il re, il gomito sul bracciolo della poltrona, mentre la mano gli reggeva la testa.

Il demone accennò un sorriso. «I Nobili si sono inventati qualcosa di nuovo. Relativamente» cominciò, incrociando le braccia sul petto. «Appena siete partito, pensavano di “aiutare” Irene a sposarvi, così lei avrebbe avuto un debito con loro e alla vostra morte precoce – e violenta – avrebbe concesso ai Clan di amministrare il paese. Era un’idea idiota e l’ho fatto capire seguendo la procedura da voi indicata».

«Chi hai eliminato?» domandò Nicholas, mentre Nephas iniziava a preoccuparsi.

«Gheddo di Arah, l’idiota che ha proposto a sir Jansen quest’idiozia» rispose Krados.

«Poi?»

«Poi sono arrivate notizie da Sung’bar, non so come, ma hanno saputo del Consiglio e hanno pensato di sfruttare l’umana d’Ovest – come si chiama?» continuò la spia.

«Non importa, vai avanti» lo incitò Nicholas, con un cenno della mano libera.

«Comunque, sir Bhor’la ha detto che non si fidava e hanno messo da parte l’opzione».

«Hanno risolto qualcosa, oppure si sono limitati a prendere il the?» domandò il re.

«No, infatti oggi avevano organizzato una merenda da lady Neben, nella villa in campagna; peccato che mi sia impossibile raggiungerla» rispose Krados.

«E’ facile persuadere le serve di una nobildonna, se si è uomini» disse Nicholas.

La spia inarcò le sopracciglia. «Devo proprio?»

«Il mio non era un consiglio».

Krados sospirò e acconsentì. «Eseguirò l’ordine quanto prima». Poi aggiunse: «Alla fine, credo di aver scoperto qualcosa di importante: sir Thitus ha accennato a un alleato abbastanza potente da assicurare loro la vittoria. Però non ho idea di chi possa essere, né sono riuscito ad avere maggiori informazioni».

«E’ una Divinità» disse Nicholas.

Poi mi spieghi di che utilità ti è una spia, quando puoi sapere tutto da solo, commentò Nephas, cercando di nascondere la sorpresa.

Il demone spia rimase interdetto. Ci ragionò sopra, per un po’, poi lasciò andare le braccia lungo i fianchi. «D’accordo. Cercherò di capire quale dio è».

Nicholas annuì. «Altro?»

«No, tutto qui. Ci sono ordini? Oltre a sedurre le serve di lady Neben, conoscere l’identità del dio e farmi furbo, intendo» chiese Krados.

Il re accennò un sorriso. «Hai dimenticato che devi tenere gli occhi e le orecchie aperti».

«Giusto! Che sbadato» replicò la spia, battendosi una mano sulla fronte. «Posso andare?»

Nicholas fece un cenno di assenso col capo. Krados s’inchinò e andò a prendere il mantello dal divano. Poi si diresse verso la porta.

«C’è Cedric di qua» lo avvertì Vaenihum, in piedi davanti all’ingresso, pronto a togliere la barriera.

«Vero» concordò Krados. Girò su se stesso e andò dritto verso la finestra. Spostò la tenda nera e vide il cielo nuvoloso dietro la stretta finestra. La aprì, si sedette sul davanzale e, dopo aver rivolto un cenno di saluto al Re degli Inferi, si buttò di giù.

«Sempre queste uscite di scena» borbottò Vaenihum, distruggendo la barriera alle porte. «E solo per arrampicarsi a un ramo e scendere al piano di sotto».

«Chiama Cedric» gli ordinò Nicholas. «E fammi portare del vino».

L’Elfo andò alla porta. «Cedric di Lahat, Vostra Altezza vi concede udienza» annunciò fermo sull’uscio. Poi si spostò, per lasciar entrare il vampiro, e chiuse il battente, andando a chiamare una serva dalle cucine.

Cedric raggiunse la poltrona di Nicholas e si inginocchiò davanti a lui. «Ai vostri ordini, Vostra Altezza».

Ma perché è così servizievole?, domandò sconvolto Nephas. Frugò nella memoria del sovrano e aggiunse: Gli hai persino fregato la donna, una volta!

Appunto, era solo una donna. Dopotutto è in vita perché l’ho salvato dalle grinfie del Clan Lahat, replicò Nicholas.

Mhinouke, dai tuoi ricordi, non sembra una persona così terribile, disse il Primo Infero.

E’ una delle donne più astute che abbia mai incontrato. La sua aria malaticcia e graziosa nasconde una scaltrezza al di sopra della norma, spiegò il re.

Perché non l’hai ancora fatta fuori?

Sto aspettando un passo falso. Ho già teso da tempo la mia trappola, rispose Nicholas, poi smise di dar corda al suo antenato, per invitare Cedric a far rapporto, con un cenno del capo.

«Vostra Altezza, in vostra assenza sono stati trovati dei Myurohon nei pressi della capitale. Abbiamo provveduto a inseguirli ed eliminarli. Ho lasciato il compito a sir Molko, perché ha insistito per averlo» cominciò il vampiro.

«Lo ha concluso come si deve?»

«Sì, Vostra Altezza».

«Allora prosegui» ordinò Nicholas.

«Stamane, sir Daniel si è messo in contatto col palazzo. Ha detto di esser partito subito dopo aver parlato con Mentius; ha detto anche di aver compreso il vostro messaggio e che si metterà all’opera appena giunto a Borgo Smeraldo» continuò Cedric, poi guardò il sovrano negli occhi. «Vostra Altezza, posso sapere a quale messaggio si riferiva sir Daniel?»

«Non è un’informazione utile a te» replicò Nicholas.

Scusa, figliolo, ma se lui in assenza di Murthen svolge anche i suoi compiti, perché non dirglielo? Murthen non è al corrente di quel che fai?, domandò Nephas.

No, Murthen è uno sciocco, si accontenta di eseguire i doveri che gli assegno, senza fare domande. Per Cedric vale la stessa regola: niente domande, rispose il sovrano.

Il vampiro chinò il capo. «Perdonatemi, allora» disse. «Tre giorni fa è arrivata una lettera dal Regno d’Ovest. Non mi sono permesso di aprirla».

«Passamela».

Cedric infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse una missiva piegata a metà. La porse al re, che osservò il sigillo verde con impresso lo smeraldo e le due spade incrociate. Proprio dalla reggia del Regno d’Ovest. Ruppe la ceralacca e lesse la lettera.

 

Borgo Smeraldo, dihe 22, Ghervenri, 3518 henn o II Chranhenn

 

A Sua Altezza Lord Nicholas, Re delle Terre d’Ombra, Infero Perfetto.

Vostra Altezza, le Regine d’Ovest sono liete d’invitarvi al banchetto del giorno 12, di Kohonri prossimo venturo.

La Vostra presenza allo Smeraldo sarà molto gradita.

I migliori auguri,

la Regina delle Messi d’Ovest, Gran Sacerdotessa di Zephiro,

Helena dei Lahacilliarum

 

Nicholas inarcò un sopracciglio, divertito. E lui che aveva creduto di non rivedere più Alexya. La stessa cugina della sua vittima gli aveva offerto un’altra occasione per legare la ragazzina umana a sé. Non se la sarebbe lasciata sfuggire.

«Cedric, puoi andare» lo congedò il re.

Il vampiro si mise in piedi, s’inchinò e uscì dalla porta. Si imbatté in Vaenihum, appena tornato in compagnia di una serva con un vassoio in mano.

«Il vino, milord» annunciò l’Elfo.

La giovane si avvicinò al sovrano, silenziosa e con gli occhi bassi.

Portami carta, penna e inchiostro, Vaenihum: ho un invito cui rispondere, gli ordinò Nicholas, lanciandogli uno sguardo trionfante, mentre portava il bicchiere di vino alle labbra.

 

.-.-.-.

 

Sorprendente, in questa metà nessuna parola di Maholhan. Mi sarò stufata? No, affatto =D

 

Ora, ringrazio tutti coloro che hanno commentato, preferito, seguito o anche solo letto senza lasciar traccia del loro passaggio.

Purtroppo, sono costretta a interrompere l’aggiornamento dell’Esercito della Fenice, ma continuerò a riscrivere gli ultimi tre capitoli che mancano e finirò di correggere il resto del primo volume. La mia avventura con questa storia non è finita ^^

 

Perciò, spero di avervi fatto divertire e che questo “addio” non vi deprima troppo *piena di sé*. Cercherò di postare qualche nuova storia, se in estate riesco a concluderne qualcuna XD perciò non disperate! *continua ad essere piena di sé*

Grazie a tutti e un abbraccio,

 

Kanako

 

EDIT 18.07.09: Se dovessi riprendere ad aggiornare l’Esercito, manderò una mail a tutti i lettori “conosciuti” ^^ Premio fedeltà (ahahah)

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