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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Capitolo I. Sung'bar *** Capitolo 2: *** Capitolo II. Gli Inferi *** Capitolo 3: *** Capitolo III. Il Consiglio degli Otto Sovrani *** Capitolo 4: *** Capitolo IV. I due Re *** Capitolo 5: *** Capitolo V. Gemma d'Autunno *** Capitolo 6: *** Capitolo VI. Partenza *** Capitolo 7: *** Capitolo VII. L'ombra del Re *** Capitolo 8: *** Capitolo VIII. La Foresta Grigia *** Capitolo 9: *** Capitolo IX. Attacco *** Capitolo 10: *** Capitolo X. Herzbrenht *** Capitolo 11: *** Capitolo XI. I Mercenari (a) *** Capitolo 12: *** Capitolo XI. I Mercenari (b) ***
Sung'bar, dihe 12, Vaedhorri, 2 henn del III Chranhenn.
Mi ci è voluto del tempo per
raccogliere e dare una forma ed un senso alla gran quantità
di materiale che ho accumulato durante e dopo i fatti che sto per
raccontare. La parte più difficile è stata
proprio parlare con colei che mi era stata più vicina, tra
tutti coloro che ho incontrato. Nonostante avessi passato giorni e
giorni in sua compagnia, non ero riuscito ad avere tutte le
informazioni di cui avevo bisogno per quest'opera, perché
lei doveva andare incontro al destino che si era scelta per poter
vivere come lei desiderava. Grazie al Fato, mi è possibile
dire di conoscerla piuttosto a fondo, o quantomeno di capirla meglio di
molti, anche se sempre meno dell'unico uomo con cui abbia condiviso la
sua intera esistenza e che non la abbandonerà tanto
facilmente. Perché dopo averla scoperta davvero non la si
può lasciare, non ci si può allontanare da lei,
prima di sentire un gran vuoto.
Quel che vi sto presentando non è una ballata, né
un poema epico; non è un racconto di guerra, né
una storiografia; non si può definire la vita di tutte
queste persone, Uomini, Elfi, Lucenti, Inferi, Divinità, che
hanno vissuto questo momento cruciale della storia del Mondo Profano,
con poche parole. Proprio per questo ho scritto questo lungo alternarsi
di voci, pensieri e fatti che portarono alla fine del Secondo Grande
Anno, per tramandare ai posteri, nel modo più efficace e
realistico possibile, le gesta dell'Esercito della Fenice, di grandi
dei e di instancabili Inferi. Perché tutto questo non venga
dimenticato e sia trattato come si deve, cosa possibile solo a chi ha
vissuto direttamente tutto questo. Cioè io.
Potrò sembrare presuntuoso, ma non è da me
vantarmi. Sono solo realista e metto ciò in chiaro sin da
subito. Forse nel parlare di qualche protagonista sarò un
po' imparziale, ma starà a voi scegliere se accettare la mia
visione o vedere la verità senza il filtro delle mie parole,
come ha sempre cercato di fare Lei. Non sono mai stato un uomo dalla
mente aperta, nonostante non possa permettermelo vista la mia natura,
ma proprio per questo motivo ho incontrato sul cammino della mia vita
quella donna.
A Lei dedico questa mia fatica, sperando che al suo risveglio le capiti
una copia del mio lavoro tra le sue mani oramai immortali. Spero anche
che il suo eterno amato mi perdoni per aver osato tanto, lui
comprende quel che provo.
Lo capisce, lo conosce, lo vive.
Buona
lettura, A.
I. Sung’bar
Il Myurohon lasciò alle sue spalle la
pianura del Regno del Nord, addentrandosi nella savana, al confine dei
Campi di Sangue, avanzando instancabile, mettendo un piede davanti
all'altro, rapido e spedito. Gli era stato dato un ordine e lo avrebbe
portato a termine a qualsiasi costo. Nella sua mente, solitamente
vuota, riecheggiavano solo le parole del suo Manipolatore. Non vedeva,
non emetteva altro suono se non qualche verso inarticolato, non provava
fatica né stanchezza. Il soldato perfetto per l'esercito
delle Divinità. Un non-morto, uno zombi senz'anima e senza
sentimenti. Vai a Sung'bar e segui
ogni suo movimento.
Non si poneva alcuna domanda riguardo a quell'ordine privo di alcun
senso per lui. Non pensava, non gli serviva pensare. Lui doveva
eseguire e basta. Era inutile qualsiasi altra funzione che lo avrebbe
reso vivo. Il divino Al non aveva bisogno di compagni, amici, fedeli,
ma solo di schiavi. Quale miglior schiavo di un Myurohon?
I giorni passarono, i chilometri si susseguirono veloci, portando lo
zombi nel Deserto di Zinco, con le sue dune dorate e le terrificanti
creature che abitavano nel buio a miglia sotto terra. Havernio,
Cantabros, Svethios; poi la Notte con le sue ancelle Cathina
l'arancione, Hyustas viola, Illiriha la verde, la grande Elvitias
gialla ed infine Shillas la cremisi, per poi riprendere il ciclo
d'accapo. I Soli e le Lune si susseguivano, noncuranti di coloro che
illuminavano dall'alto della loro dimora. Ed il Myurohon proseguiva
imperterrito verso la carovana che si iniziava ad intravedere
all'orizzonte. Poco più di una giornata di cammino e
l'avrebbe raggiunta.
Il soldato continuò a camminare anche di notte, non aveva
bisogno di dormire. Si fermò solo quando sentì la
Voce di qualcuno molto potente investire tutto il deserto al suo
passaggio. La forza di quella mente lo investì in pieno,
raggelandolo e facendogli quasi dimenticare gli ordini ricevuti. Quasi: essi,
infatti, erano stati impressi molto in profondità,
perché il suo Manipolatore non voleva disattendere il volere
del suo sovrano. Non volontariamente.
Ci volle un po' perché il Myurohon si riprendesse e
ripartisse. Aumentò il passo, andando quanto più
veloce gli permetteva la sabbia sottile del Deserto di Zinco, che gli
bruciava i piedi sotto i Soli cocenti. La carovana era sempre
più vicina e, non appena Svethios calò, il gruppo
di uomini, cammelli e cavalli del deserto si accampò. Era
fatta, li aveva quasi raggiunti.
Le tende furono montate e, dopo un veloce pasto, gran parte delle luci
fu spenta e alcuni soldati rimasero svegli per la ronda, mentre un
grosso fuoco al centro dell'accampamento rischiarava la notte, aiutato
dalle Lune. Il Myurohon si appostò su una duna sopra la
carovana ferma e si distese sulla sabbia, poggiato sui gomiti. Avrebbe
atteso lì, a distanza di sicurezza, che il gruppo
riprendesse il viaggio per eseguire gli ordini che gli erano stati dati.
La rena fu smossa da qualcosa. O qualcuno. Lo zombi si voltò
si scatto e, senza poterle vedere, si ritrovò due spade
puntate alla gola, uno spadone a due mani ed un'elegante sciabola
snella e lucente. Gli occhi bianchi, le cui pupille si erano rivolte
verso l'interno della testa quando era stato richiamato alla vita dal
negromante, rimasero fissi nel vuoto, ma se ne avesse avuto la
possibilità li avrebbe sollevati.
«Un Myurohon», osservò una voce
maschile, profonda e seria.
«Dannazione, cosa ci fa qui?», si
lamentò una ragazza.
«Non ne ho idea...»
Lo spadone si allontanò dal collo del Myurohon e l'uomo si
accovacciò davanti allo zombi, fissandolo curioso.
«È innocuo, non penso gli sia stato ordinato di
uccidere».
«Non mi fido. Uccidiamolo».
La sciabola premette contro la gola del soldato delle
Divinità ed una goccia di sangue nero scivolò
lungo la pelle, incontrando le cuciture sul collo, che gli permettevano
di avere il capo attaccato al busto.
«Fate quel che vi pare, dopotutto siete voi la
regina.» si arrese l'uomo, mettendosi in piedi.
La ragazza sollevò il braccio sinistro, con cui reggeva la
sciabola, e calò il fendente mortale sul Myurohon, che
rimase immobile davanti alla distruzione, senza poter reagire in alcun
modo. Perché non gli era stato ordinato. E perché
la sua morte non valeva niente.
Era solo un granello di sabbia, nulla più.
Una goccia scivolò lenta dal ghiaccio alla schiena nuda del
dio. I sensi risvegliati del signore dei Venti gli permisero di
sentirla ed accoglierla con gioia e piacere. La sua prigionia era
giunta al termine.
Avrebbe voluto stiracchiarsi, ma aveva le braccia bloccate da catene ed
il resto del corpo dal blocco d'acqua congelata. La sua prigione. La
sua gabbia. Tutto per un capriccio di Al. Non sapeva bene
perché, ma qualcosa in lui gli diceva che era quel dannato
la causa di tutto ciò. E
perché, poi?
Non trovando la risposta, rimase in attesa. Anche la memoria sarebbe
tornata, con calma, assieme alla libertà. Che fretta c'era?
Dopotutto aveva l'eternità. Seicento anni rinchiuso in una
cripta ghiacciata, al centro di una collina nel Regno d'Ovest, non
erano nulla.
La rabbia lo pervase e lui si agitò, furente. Sì, che
erano qualcosa. Un ricordo doloroso lo assalì e gli venne
voglia di gridare, senza però che la voce si liberasse dalla
sua gola. Strattonò ancora le catene, che si rifiutarono di
lasciarlo libero. Continuò a ribellarsi come una belva in
gabbia, inferocito e disperato, mentre i ricordi gli annebbiavano la
mente e lo dilaniavano. Cercò di urlare, di nuovo, e gli
uscì solo un cupo ruggito. Si abbandonò, stremato.
Doveva attendere e pazientare. Ancora
un po'.
Helena si rigirò nel letto, sempre più avvolta
nelle lenzuola, finendo per far impigliare le gambe nella stoffa della
camicia da notte. Poi, spazientita, si liberò dalle coperte
e scese dal baldacchino. Doveva fare altro, doveva distrarsi, era
orribile passare la notte insonne. S'infilò le pantofole ed
una vestaglia, cercò qualcosa per far luce, ma alla fine si
accontentò di usare la magia.
«Lahat».
(1)
Una sfera di luce si
materializzò davanti a lei e rimase fluttuante in quella
posizione, finché Helena non si mosse, diretta verso la
specchiera. Si guardò e fece una smorfia contrariata. Aveva
delle occhiaie spaventose ed i capelli corti e biondi arruffati. Ma
quelli non erano un grosso problema. Afferrò una spazzola e
li fece tornare l'ordinato caschetto dal taglio scalato di sempre.
Gettò un altro sguardo al suo riflesso e incontrò
di nuovo i suoi occhi azzurri, cerchiati di viola, nello specchio. Per
fortuna Marihus era con Alexya, altrimenti il mattino dopo si sarebbe
lamentato perché non era stata capace, ancora una volta, a
dormire in santa pace. Ma non ci posso fare
niente, si consolò Helena, voltando le spalle
al suo clone sul vetro. Si passò le mani sul volto e poi
decise cosa fare. Dato che era preoccupata, sarebbe andata a placare i
suoi timori. Nello studio, dunque.
Uscì dalla camera da letto, con le pareti rivestite di
tessuto spesso e pregiato, passando nel soggiorno dai muri affrescati,
in un perfetto ordine quasi innaturale. Si trovò nel
corridoio dell'ultimo piano dello Smeraldo, il palazzo reale del Regno
d'Ovest, a poca distanza da Borgo Smeraldo, la capitale che si
estendeva ai piedi della colline del palazzo reale, fino alla costa
sabbiosa. Si avviò verso le scale di marmo chiaro e le
scese, silenziosa.
Tutto il castello dormiva nell'oscurità, a malapena
rischiarata dalle Lune velate da nubi. Beati loro,
sospirò tra sé la donna. Sollevò da
terra un lembo della vestaglia che rischiava di farla inciampare ed
andò avanti, preceduta dalla piccola sfera di luce.
Giunse fino al pianterreno e svoltò a destra verso un
corridoio più ampio degli altri, percorso da nicchie in cui
avevano trovato alloggio le statue dei precedenti re. Erano parecchi,
così quelli più antichi erano stati tolti di
mezzo, eccezion fatta per il fondatore del regno, Anathor, e le sue
prime regine, le capostipiti delle due famiglie reali, Lahacilla e
Thenesha.
Helena lanciò un rapido sguardo ai suoi antenati, sentendosi
i loro occhi addosso. Sembra quasi che la stessero biasimando per la
sua ansia e preoccupazione eccessiva. Pensa a te stessa e vai a dormire,
parevano dirle, rimproverandola severi. O forse era il suo subconscio.
Scosse la testa. Doveva calmarsi, in qualsiasi modo, o non sarebbe
riuscita a chiudere occhio.
La donna arrivò nella sala dei due troni, in legno con la
seduta e lo schienale imbottiti, alle cui spalle pendeva enorme lo
stendardo verde del Regno d'Ovest, uno smeraldo davanti a due armi
incrociate, uno spadone a due mani ed una sciabola. Ai lati dei seggi
soprelevati, due porticine che quasi non si vedevano sulla parete
affrescata con scene mitologiche e finti marmi. Si diresse proprio
verso una di esse, vi posò la mano sul battente e spinse con
delicatezza e decisione. La porta si schiuse e lei la aprì
maggiormente, per accedere allo studio ordinato dietro di essa. Si
guardò intorno e si sentì frustrata. Come si
vedeva che non aveva avuto nient'altro da fare in quei giorni: le due
scrivanie, messe una di fronte all'altra, erano in perfetto ordine,
persino quella della cugina che aveva sempre mucchi di fogli e libri
sui lati; gli scaffali erano impeccabili, tutti i tomi erano messi
seguendo l'argomento e l'ordine alfabetico; i fiori nei vasi e le
piante erano perfettamente freschi e curati.
Helena lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la parete
delle porte e vide l'unica cosa che non c'era modo di rassettare: la
mappa dipinta sulla parete, la Terra dei Cinque Popoli si estendeva in
verticale sul muro, circondata dal Mare di Smeraldo ad Ovest e dal Gran
Mare di Zaffiro ed Est; sopra gli ingressi si intravedevano le Terre
della Magia che occupavano il resto del globo terrestre. La donna si
avvicinò alla pittura e vide i due dischi, uno bianco con
una L incisa sopra, uno nero con una T, che indicavano la posizione
delle due Regine d'Ovest. Quello di Helena era situato sulla scritta
“Borgo Smeraldo”. La pedina nera, invece, era a
poca distanza da Sung'bar, la città del deserto, nei Campi
di Sangue.
Alla vista del disco ancora aderente al muro, la regina bionda si
rasserenò, solo un poco. Fosse morta Alexya, lei avrebbe
trovato il tassello a terra. Helena sorrise e si diresse verso la sua
scrivania, rivolta verso la finestra. Aprì un cassetto e
prese il suo specchio per le comunicazioni, mettendolo in piedi con
l'apposito supporto. Non le era bastata la rassicurazione della mappa,
la sua ansia era dura a morire. Voleva controllare di persona e
quell'artificio magico l'avrebbe aiutata.
«Ojha-vuls
Alexya!» (2)
Lo specchio baluginò, come
reazione alla magia, e sul vetro apparve un cielo stellato.
Quell'oggetto permetteva di vedere chi si voleva attraverso qualsiasi
superficie riflettente presente dei pressi di tale persona.
Fece capolino nello specchio un viso maschile, giovane ma segnato dalle
fatiche della guerra e da una larga cicatrice che partiva dalla tempia
destra e finiva sullo stesso zigomo. Le folte sopracciglia si
inarcarono, in un moto di sorpresa. I capelli erano dello stesso colore
degli occhi, castani, tagliati corti e disordinati, con un codino alla
base del collo ornato da anellini che riprendevano il verde scuro della
divisa militare.
“Milady, mi avete fatto prendere un colpo”,
iniziò Johan, il capitano delle guardie reali.
Helena si corrucciò. «Non credevo che la mia vista
ti provocasse tali moti di orrore, Johan».
“No, per carità, milady! È solo che non
mi aspettavo di sentirvi di nuovo, oggi”, replicò
il soldato, a mo' di scusa, non troppo convinto delle sue parole. In
realtà la stava accusando: siete talmente ansiosa che non
vi è bastato parlare con vostra cugina tre ore fa.
Helena finse di non aver colto il reale significato delle parole di
Johan e chiese di parlare con Alexya.
Il capitano scosse il capo e si grattò il mento, dove la
barba sfatta gli provocava un fastidioso prurito. “Sono
spiacente, ma Alexya sta dormendo. Lei non può permettersi
occhiaie, dato che deve partecipare al Consiglio”.
La regina bionda aprì la bocca ed assunse un'espressione
contrariata, senza però dir nulla. Subito di
calmò, la rabbia non aveva mai trovato terreno fertile per
le sue radici, nella sua anima.
«Sta bene?», domandò, infine.
Johan sospirò, esasperato. “Certamente,
milady.” Guardò la donna riflessa nello scudo.
“Non dovete preoccuparvi di vostra cugina, ha raggiunto la
maggiore età e sa difendersi molto bene. Potrei persino
lasciarla senza guardia del corpo...” Il capitano vide la
regina precipitarsi a dare una risposta, ma glielo impedì:
“...se solo questo non fosse l'unico modo per impedirle di
avere sempre il vostro fiato sul collo. Dovete star tranquilla, vivere
la vostra vita, ad Alexya ci penso io. Ed anche il vecchio
Marihus.” Vivere la mia vita,
quando mai?, si domandò con una nota amara
Helena, abbandonando la schiena contro la poltrona. Semplicemente il
suo essere regina le impediva di vivere la sua vita. Doveva pensare al
suo popolo, alla sua corte e pure stare attenta agli Anziani, anche se
sembravano più interessati alla rovina della cugina ventenne
che a quella di una donna matura come lei, sebbene solo sei anni
separassero la nascita delle due regine. Helena doveva anche badare ad
Alexya, che non le era sembrata tanto indipendente. Come poteva proprio
Johan, una delle stampelle che mantenevano in piedi la giovane regina,
dire a lei,
Helena dei Lahacilliarum,di non preoccuparsi del sangue del suo sangue?
«Va bene, va bene», lo accontentò la
bionda, giusto per far tacere il capitano. Poi osservò
meglio l'uomo e vide che portava sottobraccio una cassetta di legno
dipinto, che lei conosceva bene. «Johan, cosa ci fai con il
portagioie di Alexya sottobraccio?», domandò
sospettosa. «Non dovrò crederti un
ladro...»
Il capitano fece un gesto noncurante “Oh, non è
niente, milady, ho solo strappato il cuore a vostra cugina e lo
conservo con cura”.
Helena lo fulminò, non sopportava simili scherzetti.
«Johan», tuonò alterata.
L'uomo sorrise ed il suo volto parve tornare quello giovane e
tranquillo di un tempo. “Alexya ed io siamo andati a fare una
passeggiata ed abbiamo trovato un bel Myurohon tra le dune. Ovviamente vostra
cugina ha fatto quel che fa sempre quando si trova davanti ad
un'incognita: l'ha distrutto senza troppi complimenti. Questo a
dimostrare che Alexya è capacissima a badare a...”
«Cosa?!»
strillò Helena, balzando in avanti, gli occhi dilatati dalla
sorpresa. «Un Myurohon?
E cosa ci faceva lì?
Dovevate interrogarlo!»
Johan proseguì, ignorandola. “...se stessa. Fatto
a pezzi il Myurohon, ci siamo incamminati verso l'accampamento, ma
quello schifoso si è ricomposto, così ho dovuto
assistere a vostra cugina che si accaniva sullo zombi. Si è
sporcata il vestito, Marihus gliele ha dette di tutti i colori, anche
perché non c'è acqua e quella potabile non
possiamo sprecarla per lavare i vestiti. Alla fine, il Myurohon lo
abbiamo messo in questo portagioie per non farlo fuggire. Appena a
Sung'bar cercherò un negromante che lo uccida
definitivamente”.
Helena era sparita da davanti allo specchio.
“Milady?” la chiamò Johan, diverse volte.
«Taci,
maledetto soldato!» ordinò Helena, da qualche
parte nello studio. Attese di calmarsi, per tornare alla poltrona della
sua scrivania. «Mi stai dicendo che un Myurohon seguiva
mia cugina e che nessuno
si è preoccupato a capirne il motivo?»,
sibilò, massaggiandosi le tempie.
“Cosa volevate che rispondesse? I Myurohon non parlano, non
hanno lingua, e soprattutto il loro Manipolatore non ordinerebbe mai
che lo facciano.” L'espressione allegra e serena era svanita
dal volto di Johan, lasciando uno sguardo duro e spietato, quello di un
guerriero al servizio del trono d'Ovest.
Helena fu costretta ad accettare la dura realtà. Ma non si
dava pace. Se un soldato delle Divinità stava pedinando
Alexya, perché sapeva che era così, allora ci
doveva essere un motivo. Le tornarono in mente le parole della cugina,
la sera prima della partenza, il lampo di ribellione e sfida nei suoi
occhi mentre le annunciava cosa voleva proporre al Consiglio degli Otto
Sovrani. Qualcuno aveva ascoltato il loro discorso ed esso era giunto
fino alle orecchie del divino Al. Non vi era altra spiegazione.
La regina bionda si passò una mano sul viso. Poteva dire
addio al sonno. Non sarebbe più riuscita a dormire
finché non avesse avuto notizie di Alexya dopo il Consiglio.
Congedò Johan e si avvicinò alla parete alla sua
sinistra, nascosta da uno scaffale pieno zeppo di libri. Si
avvicinò all'unico libro che non seguiva nessun ordine
razionale, dalla copertina verde smeraldo, che recava inciso sul fronte
il titolo “La storia del Regno d'Ovest – Da Anathor
alla XXIII Famiglia”. Lo prese in mano, mentre infilava il
braccio libero nel posto lasciato vuoto dal tomo. Incontrò
una leva sul fondo della libreria e la ruotò verso destra.
La parete indietreggiò e si fermò con un tonfo.
Helena entrò nel varco lasciato libero dallo scaffale e
posò il libro verde per terra, lasciando l'ingresso aperto
alle sue spalle. Davanti a lei, nella più completa
oscurità, delle scale di fredda pietra grigia la condussero
fino ad un cunicolo, umido e stretto, terminante in una vasca a raso di
acqua cristallina che emetteva una lieve luce. La regina
abbandonò le pantofole ed attraversò la piscina
di purificazione, giungendo davanti ad una grande porta di legno
massiccio. Dai battenti emergevano le figure scolpite di Niharn, dea
dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest, e di suo figlio Zephiro, il
dio dei Venti, patrono della famiglia reale. Le loro mani reggevano
grossi anelli di ottone, che Helena tirò a sé per
aprire il portone.
Dinanzi a lei, la cripta nella roccia, illuminata da un'innaturale luce
azzurrina, si spalancò con le colonne eleganti che la
percorrevano in lunghezza, dividendola in cinque navate, il pavimento
di marmo celeste e, in fondo alla sala, l'altare col piano di zaffiro,
sopra il quale era sospeso un blocco di ghiaccio di forma piramidale.
Una goccia cadde sull'altare, dando il benvenuto alla gran sacerdotessa
di Zephiro.
Un botto e acqua da tutte le parti. Helena cadde all'indietro, gli
occhi sgranati, mentre il signore dei Venti libero dalla sua prigione
di ghiaccio atterrava sullo zaffiro dell'altare. Le ali azzurro cielo
erano spalancate e gocciolavano, il gonnellino con decorazioni
geometriche blu e verde chiaro era completamente zuppo, il corpo
statuario del dio era imperlato di gocce d'acqua.
La regina bionda deglutì a fatica, tenendo le mani premute
sul petto, mentre gli occhi scivolavano su Zephiro in piedi
sull'altare. Il dio ritrasse le splendide ali, che si ridussero ad un
tatuaggio sulle scapole. I chobi,
decorazioni per i capelli usate da poche Divinità antiche,
batterono contro il petto di marmo del signore dei Venti, attaccate
alle punte di due grosse ciocche di capelli turchesi che cadevano ai
lati del viso dai lineamenti spigolosi del dio, mentre il resto della
sua chioma era fermato dietro la testa da due bastoncini decorati
seguendo il motivo ad onde sfumate di blu dei chobi.
Zephiro lanciò uno sguardo curioso alla donna seduta per
terra ed il suo cuore si riempì di gratitudine. Erano state
le preghiere ardenti di quella donna a permettergli di tornare libero
più in fretta di quanto avesse previsto. Scese dall'altare
con un balzo aggraziato e si avvicinò alla regina bionda,
che lo fissava ancora a bocca aperta.
Il signore dei Venti si accovacciò davanti a lei e le
accarezzò un guancia. La sensazione della calda pelle umana
fu un accoglienza piacevole e dolorosa nel contempo. I ricordi che lo
avevano torturato durante il suo lento risveglio erano ancora vividi
nella sua mente, ma quella donna minuta e splendente sembrava adatta a
lenire la sua sofferenza.
«Posso sapere chi siete, milady?», le
domandò Zephiro, con un filo di voce, leggera e calda come
una brezza estiva, che Helena sentì chiaramente nella sua
testa.
La regina gli disse nome, famiglia di appartenenza ed il suo titolo. La
fronte di Zephiro si aggrottò un attimo, al passaggio di un
pensiero molesto, ma si rasserenò, come se non fosse
capitato nulla.
«Oh, milady, non posso far altro ringraziarvi»,
così dicendo le posò un delicato bacio sulla
frangia che copriva la fronte.
Helena restò immobile, non sapendo bene che fare. Quando era
stata investita gran sacerdotessa di Zephiro, le era stato detto che il
suo dio era imprigionato in quella cripta, ma con tutte le volte che si
era recata lì per pregare, il dio addormentato nel blocco di
ghiaccio non aveva mai dato segni di vita. Non capiva come fosse
possibile che quella notte il signore dei Venti fosse balzato fuori
dalla sua prigione. Quindi, quel giorno, era giunta la fine della sua
pena. Non poteva esserci altro motivo.
«Di cosa, divino?» domandò la donna, con
tono sommesso.
Zephiro le rivolse un sorriso dolce e le accarezzò di nuovo
la guancia, questa volta provando solo il piacere della carne calda e
vellutata di una donna umana. Gli Uomini gli erano sempre piaciuti per
quello, fragili e mortali come lui non era mai stato.
«Mi pare logico che non lo sappiate, ma per ripagarvi per
l'aiuto che mi avete dato sarò sempre al vostro fianco e vi
spiegherò quel che nessun altro conosce, oltre a noi
Divinità. Ma vi prego», si interruppe il dio dei
Venti. Posò le mani sulle braccia di Helena e la
sollevò da terra. Quando furono entrambi ritti in piedi vide
che la donna gli arrivava appena all'altezza delle sue spalle. Il suo
cuore si riempì di tenerezza. Così piccola,
così fragile, Helena gli sembrava una bella bambola.
Indietreggiò verso l'altare e si poggiò ad esso,
abbassandosi un po', per permettere alla regina di guardarlo negli
occhi.
Helena rimase incantata quando rivolse il suo sguardo verso quello del
dio. Era risaputo in tutto il Mondo Profano che il segno distintivo
delle Divinità, prima di qualsiasi altra cosa, erano i loro
occhi neri: nessun'altra creatura in tutto il globo poteva avere le
iridi color della tenebra, se non chi aveva nelle proprie vene sangue
divino; e comunque, gli occhi dei mezzosangue non erano di quel colore
così stupefacente, di ossidiana pura, di pece liquida,
capace di soggiogare all'istante. La regina finì nelle
catene di quello sguardo nero e solo il dio avrebbe potuto liberarla. E
lo fece, chiudendo gli occhi. Soltanto allora la donna notò
che il bistro con cui tutte le Divinità mettevano in risalto
la loro unicità non era presente. Vi erano dei rimasugli del
trucco nero degli occhi, ma erano privi d'importanza.
«Milady,» richiamò la sua attenzione
Zephiro, sfiorandole il viso con la punta delle dita.
«Ricordate quel che vi sto per dire. Le Divinità
maggiori hanno una capacità che le rende diverse a quelle
comuni: ogni volta che il loro nome viene pronunciato da una creatura
del Mondo Profano, esse acquistano potere. È così
che, grazie al vostro fervore religioso, io ho avuto il potere
necessario per liberarmi più in fretta dalla mia prigione.
Avete capito?»
Helena rimase senza parole. Ecco perché l'aveva ringraziata.
Chinò il capo, umilmente.
«Ho fatto solo ciò che era in mio dovere, divino.
Non avete nulla di cui ringraziarmi, non avete nessun debito nei miei
confronti», si affrettò a dire la regina.
Il dio dei Venti le afferrò il mento e la costrinse a
guardarlo negli occhi. La donna cadde ancora una volta
vittima dell'incanto del suo sguardo di pece liquida.
«Non mi interessa, Vostra Grazia, io ho deciso
così. Perciò accettate la mia offerta, altrimenti
potrei prenderle il vostro rifiuto come un'offesa».
Sconfitta, Helena annuì e chiese perdono per il suo
comportamento. Zephiro sorrise.
«Mi pregavate di aiutare vostra cugina. Per quale
motivo?», domandò il dio, prendendo la mano della
regina ed avviandosi verso l'uscita dalla cripta.
Helena si tormentò il labbro inferiore, prima di rispondere.
«Ha in mente idee che la metteranno in una posizione
pericolosa di fronte al divino Al», biascicò la
donna. Nella sua mente tornò prepotente il ricordo del
discorso prima della partenza.
La Guerra Millenaria,
cugina. Io diventerò colei che sarà ricordata in
tutto il Mondo Profano, per i secoli a venire, come l'unica ad aver
posto fine allo scontro eterno tra Divinità ed Inferi.
Già mi ci vedo, in piedi davanti ad Al che mi implora
perdono.
Alexya aveva riso sguaiatamente alla fine di quella frase, ma Helena
era impallidita mortalmente. Quando la regina bionda
raccontò a Zephiro, di cui non poteva far altro che fidarsi
ciecamente, i piani segreti della cugina, negli occhi del signore dei
Venti lampeggiò qualcosa di indecifrabile. Helena rimase
interdetta da quel che aveva visto, però si
lasciò trasportare dal dio all'interno dello Smeraldo, senza
domandarsi nulla.
I tre Soli erano alti nel cielo e segnavano il mezzogiorno. Dinanzi
agli occhi meravigliati di Alexya si stagliò verso il cielo
la colossale torre di pietra nera, dalla base tozza da cui partivano
quattro tentacoli affondati nella sabbia del deserto, e che andava
assottigliandosi per culminare in una grossa struttura ottagonale di
vetro, tagliata come una gemma preziosa. Quello era il luogo in cui si
riuniva il Consiglio degli Otto Sovrani, dove si sarebbe recata la
Regina d'Ovest il giorno successivo.
Sung'bar, la capitale del deserto, si estendeva sotto la superficie
terrestre, nascosta sotto la sabbia dorata che si estendeva ovunque.
Johan lanciò uno sguardo attorno a sé,
riflettendo ancora una volta sulla bizzarria di quel luogo. Vi si era
recato spesso, al seguito della regina Helena, eppure non finiva mai di
sorprendersi. Non che lo vedesse da prospettive differenti o notasse
nuovi particolari, ma semplicemente non riusciva mai a risolvere
l'enigma di quel luogo sconclusionato. Nei Campi di Sangue l'unica
certezza era il Deserto di Zinco, centrale allo stato, mentre il resto
del territorio variava dalle lussureggianti pianure ad Est, alle paludi
e alla savana a Nord, dalla steppa a Sud alla grande foresta ad Ovest,
che procedendo verso il fiume Sudrione, che nemmeno passava da quei
territori, ma che costituiva comunque un beneficio per essi, la Foresta
Grigia faceva da padrona. Helena aveva detto che i Campi di Sangue
erano così a causa della Guerra Millenaria, che concentrava
una grossa quantità di magia in quei luoghi che subivano
inevitabilmente mutamenti senza senso.
«Finalmente
civiltà!» cantilenò a
squarciagola Alexya, sollevando le braccia in aria, in segno di
vittoria.
Marihus sbuffò sonoramente e la risposta della regina fu un
semplice gesto, che mandava il maggiordomo a quel paese.
«Suvvia, vecchio, è una bambina e poi siamo tutti
amici qua», lo rassicurò Johan, affiancandosi alla
giumenta dell'uomo di mezza età, vestito di tutto punto
persino nel deserto.
«Una bambina lo dici a qualcun altro! Guardala!»
indicò Alexya, in sella ad un elegante cavallo del deserto,
comprato apposta per quel viaggio, che gridava oscenità
assieme ai soldati della sua guardia. «Ha vent'anni, Johan, e
continua a non rendersi conto del suo ruolo!»
Johan tirò una pacca a Marihus, che quasi cadde dalla sua
cavalcatura con un urlo disumano. Il capitano della guardia reale gli
agguantò un braccio e lo tenne in groppa alla giumenta. Il
maggiordomo si aggiustò i capelli brizzolati, tirandoseli
all'indietro, e borbottò contro il giovane.
«Eh, la sottovalutate, te ed Helena. Quella ragazza un giorno
vi lascerà senza parole!» disse Johan, sicuro di
sé. Poi, con un colpo di talloni ai fianchi del suo cavallo,
spinse l'animale verso la regina, che continuava a ridere con i
soldati. Il capitano sorrise benevolo. Quella ragazza aveva la stoffa
per comandare un esercito, dopotutto era figlia di Garstand, uno dei re
più abili in guerra della storia del Regno d'Ovest. Suo
padre l'aveva cresciuta a pane e arti militari. Inoltre, Alexya aveva
avuto lui, Johan, come insegnante di arti marziali, quindi non era
altro che la guerriera più letale dell'Ovest. Ne andava
fiero, sapeva di aver ragione, e la stima dell'esercito era una
conferma. Questo, però, non significava che negli altri
ambiti se la cavasse altrettanto bene.
«Milady, spero non vogliate entrare in Sung'bar vestita in quel
modo», la rimbrottò Johan, con fare bonario.
Alexya inarcò le sopracciglia e lanciò uno
sguardo ai suoi indumenti: pantaloni larghi, di tela leggera, una
camicia da uomo di lino, rubata dalla sacca di Johan, stivali di pelle
da cavallerizza. «Da quando in qua un rozzo soldato come te si preoccupa di
cosa indossi una regina del mio calibro? Non è che viaggiare
con Marihus ti ha fatto prendere la sua stessa malattia?».
Johan rise, mentre i soldati rimanevano indietro.
«Tranquilla, milady, sareste splendida anche vestita di
stracci. È solo che non tutti i vostri pari apprezzano tanta
semplicità».
Alexya tirò un pugno in testa al capitano, con un ghigno.
«Taci, adulatore di...»
Un urlo di Marihus impedì alla regina di proseguire.
«Non usate quel linguaggio da scaricatore di porto,
milady!» gridò ancora il maggiordomo. E
continuò, con un tono di voce normale ed un'espressione
contrariata. «Ecco cosa succede a passare il proprio tempo
tra i rozzi soldati, puah».
La regina roteò gli occhi verdi e fermò il
cavallo. «Mi cambierò qui!» Fece per
slacciare i legacci della camicia, quando Hanan, l'unica ancella cui
avesse permesso di seguirla, strillò piena d'orrore. Marihus
spalancò la bocca, esterrefatto.
Alexya e Johan, invece, scoppiarono a ridere. Lei non aveva davvero
intenzione di denudarsi davanti a soldati in astinenza come quelli che
la seguivano. Non era così stupida.
«E allora sbrigatevi, ritardatari!»
gridò ai due che si avvicinavano lentamente, il maggiordomo
in groppa alla sua giumenta stanca e bizzosa, Hanan sul cammello che
avevano acciuffato durante il viaggio e che era carico di bagagli,
alleggerendo così i cavalli.
Quando la regina fu pronta, uscì dalla tenda che era stata
montata per farla vestire al riparo da occhi indiscreti. Non sembrava
decisamente di buon umore.
«Provate a toccarmi i capelli e vi taglio le mani!»
ringhiò passandosi le dita nella sua castana chioma
boccoluta, gli occhi verdi che lanciavano fiamme.
Johan fece per avvicinarsi alla regina per aiutarla a salire a cavallo,
ma due soldati lo precedettero, sghignazzando. Non appena Alexya li
vide porgerle le mani, lanciò un urlo e saltò in
groppa alla sua cavalcatura spaventata dall'aura tempestosa del suo
conducente.
«Tornate a fare i soldati, marrani!»
ringhiò e spronò il cavallo, costringendolo al
galoppo nella sabbia bollente.
Johan ringraziò il cielo perché non era andato di
persona ad aiutarla. Con i soldati si era trattenuta, ma contro di lui
avrebbe sfoderato la spada. Anche perché lei sapeva che, se
il capitano le avesse mostrato mai un qualche gesto di cortesia, lo
avrebbe fatto solo per prendersi gioco di lei.
Sung’bar, dove due millenni fa Nephas, il primo re degli
Inferi, era stato ferito a morte da Al, era una città piena
di vita: le strette stradine erano sempre affollate, le case di roccia
scura erano attaccate le une alle altre, vi era un gran chiasso, tra le
grida dei mercanti ed il chiacchiericcio della gente. Ma quello era
solo il primo livello, il secondo già iniziava ad essere
più tranquillo ed era lì che si trovavano le
dimore dei nobili; mentre al terzo livello abitavano coloro che
solitamente si trovavano nelle periferie dei centri urbani:
attori, maghi, ciarlatani, medici, guaritori, negromanti.
Per entrare in quel mondo sotterraneo si doveva passare un posto di
blocco lungo le basse mura che attorniavano la torre di roccia nera. La
cinta muraria era realizzata con mattoni di pietra rossastra e si
alzava da terra solo di due metri. Non erano delle vere e proprie
fortificazioni, ma solo la protezione per la rampa che circondava la
città e scendeva sotto terra.
Johan entrò nel tunnel e cominciò a sudare
freddo. Odiava i posti così chiusi e bui. Dopotutto era un
soldato, non doveva vivere in simili cunicoli per ratti. Mentre il
capitano della guardia reale cercava di tranquillizzarsi, Alexya gli si
accostò e, ancora nervosa per il vestito troppo elegante e
sfarzoso che aveva dovuto indossare, rigirò il coltello
nella piaga.
«Trovo questo posto molto confortevole, non è
così, Johan? Umido e scuro al punto giusto. Poi quest'odore
di chiuso è spettacolare!» Piccola vipera,
imprecò il soldato, stringendo i denti per non dar voce ai
suoi pensieri. L'avesse fatto, Alexya si sarebbe divertita ancor di
più ed avrebbe continuato a tormentarlo ad oltranza.
Dopo diverse battutacce riguardo la claustrofobia di Johan, Alexya si
stufò e spinse il cavallo ad accelerare il passo. Passarono
dalla porta del primo livello ed i soldati, al sentire il vociare
continuo, l'odore di cibo, di sudore, di animali, presi dalla nostalgia
dopo quei quattro giorni passati lontani dalla gente, domandarono il
congedo al loro comandate, che glielo accordò senza pensarci
due volte.
«Ah, dopo ci voglio andare anch'io!»
annunciò Alexya, quando le guardie reali si furono
allontanate nella folla.
Marihus gemette, al pensiero della sua regina in mezzo a gente rozza e
malintenzionata. Ma si ricordò che andava spesso con Johan
in giro per taverne a Borgo Smeraldo e che aveva sempre utilizzato
quelle “passeggiate” per conoscere meglio le
persone. Proprio grazie a questo suo mischiarsi al popolo che Alexya
era abbastanza ben voluta dagli abitanti della capitale d'Ovest. Il
maggiordomo sospirò, mentre Hanan gli lanciava un'occhiata
preoccupata.
Proseguirono fino al secondo livello e si addentrarono nelle sue strade
tranquille e silenziose, più ampie rispetto a quelle del
piano superiore.
L’albergo Liocorno era noto in tutto il Mondo Profano per
essere il più sontuoso e regale in assoluto, tanto da poter
far invidia al divino Al in persona: non a caso era stato sempre scelto
come alloggio momentaneo per i sovrani del Consiglio. Un’aria
dorata e lucente lo circondava, completamente differente
dall’ocra, dal rosso, dal marrone e dal nero degli altri
edifici. L’entrata era ampia, tanto da permettere alle
carrozze di entrare nel cortile interno, che conduceva ai corridoi
degli appartamenti ed alla hall dell’albergo. Le pietre delle
pareti non erano quelle tipiche dei Campi di Sangue, erano invece di un
colore dorato e più malleabili delle altre. La placca che
indicava il nome era in oro ed aveva inciso un unicorno che galoppava
con i crini al vento.
La comitiva entrò nel cortile e fu accolta da servitori in
livrea, eleganti e garbati, che aiutarono le donne a scendere da
cavallo e presero i bagagli per portarli all’interno
dell’albergo.
Johan non abbandonò la sua cavalcatura e, non appena un
servo prese il portagioie contenente il Myurohon prigioniero, lo
intercettò e lo caricò sul suo cavallo. Il
ragazzo lo fissò perplesso, ma riprese a fare il suo lavoro
senza porre domande.
Il comandante attese di vedere Alexya accompagnata di Marihus far il
suo ingresso nella hall e tornò in strada, diretto al terzo
livello, alla ricerca di un negromante che potesse uccidere lo zombi.
Il suo lavoro, per ora, lo aveva terminato. Un maggiordomo era
più utile di un rozzo soldato nel parlare con gente
raffinata come quella del Liocorno.
.-.-.-.
Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Lahat: luce
(2) Ojha-vuls Alexya!:
voglio vedere Alexya!
Ciao! Per chiunque sia
arrivato sino alla fine, grazie! Spero non sia
stata una lettura pesante o noiosa, soprattutto perchè non
accade tanto in questo capitolo ed è più
introduttivo. Credo di aver
trovato e corretto tutti gli errori, ma nel caso ve ne siano
perdonatemi (ed indicatemeli, così li correggo ;]). Per qualsiasi
informazione o dubbio, chiedete pure!
Grazie a myki,
Dark Magician
e quigon89.
Per
questo capitolo consiglio l'ascolto di Eyes On Fire di
Blue Foundation (http://it.youtube.com/watch?v=DTj1cXJEn34)
dall'uscita dal Liocorno e Wild
Rover di Týr (http://it.youtube.com/watch?v=leVxwYdteJs)
per il primo livello di Sung'bar.
Buona
lettura ;)
II.
Gli Inferi
Marihus
oltrepassò la soglia del Liocorno, lasciandosi alle spalle
la
porta scorrevole di vetro e pestando un tappeto scarlatto, che
attraversava tutta la hall e saliva le scale fin dove giungeva
l'occhio. Le luci dorate accoglievano i visitatori in un caldo
abbraccio di lusso e luminosità. Il maggiordomo
camminò a
testa alta nella sala semi-deserta, precedendo la sua signora ed Hanan
che perdevano tempo a guardarsi attorno ammirate.
L'uomo
si
avvicinò al bancone dietro il quale un giovane e due donne
trafficavano indaffarati tra plichi di fogli e specchi per le
comunicazioni. Marihus poggiò un gomito al piano, con aria
superiore, ma si sgonfiò subito quando il ragazzo, il cui
nome
sul cartellino era Sand, lo accolse con un sorriso smagliante, studiato
a perfezione.
«Losdihe, signore!
Dite pure», lo accolse Sand, continuando ad impilare fogli. (1)
Marihus
assunse
un'espressione afflitta davanti a tutta quella cordialità.
Il
ragazzo sembrava una macchinetta e lui si sentiva uno stupido che
parlava ad un giocattolo.
«Beh,
dovrebbe essere stata prenotata una camera...»
«A
che nome, signore?»
Il
maggiordomo
roteò gli occhi. Non gli dava nemmeno la
possibilità di
parlare, che diamine! Prese quel gesto come una sfida e disse la frase
successiva a gran velocità, senza che però si
capisse una
singola parola del suo discorso. Tuttavia, l'espressione di Sand non
mutò.
«Scusate
la mia disattenzione, potete ripetere?», domandò
gentilmente il ragazzo.
Marihus
stava per
rispondere come avrebbe fatto con un demente, pregustandosi la
vittoria, quando sentì una mano artigliargli il braccio con
forza disumana. O meglio, poco femminile. Senza nemmeno voltarsi sapeva
chi fosse.
«Alexya
dei
Thenesharum, grazie», replicò al suo posto la
regina,
continuando a stringergli con forza l'arto. Marihus fece una smorfia
sofferente e cercò di liberarsi della mano di Alexya,
inutilmente.
«Losdihe,
Vostra Grazia» la salutò Sand, allungando la mano
verso
una scatola divisa in sezioni. Non degnò di uno sguardo la
tesserina che prese a colpo sicuro e la porse alla ragazza.
«Spero che godiate del vostro soggiorno al Liocorno,
milady».
Con
un sorriso e
qualche frase di circostanza, Alexya si allontanò da sola
verso
l'ascensore in fondo alla sala, proprio di fianco alle scale di marmo
color crema. Sulla parete vi era una mappa dell'albergo che la regina
si fermò a consultare, rigirandosi tra le mani la tessera.
Marihus le andò incontro, con le braccia dietro la schiena.
«Milady,
non vorrei essere scortese, ma le vostre stanze sono nell'ala Sud e per
accedervi bisogna uscire dall'edificio, passare da sotto i portici e
giungere nella struttura alla destra di questa, giungendo dal
cortile», le fece notare casualmente il maggiordomo, parlando
veloce.
«Oh,
l'avevo capito» ribatté Alexya, con tono acido.
«Stavo osservando l'intera mappa per memorizzarla in caso di
necessità. Sai che non c'è mai nulla...»
«...che
non
possa essere imparato, bla bla bla.» concluse Marihus,
scocciato.
«Ora, se invece di citare vostro padre a tempo perso, vi
decidete
a recarvi nelle vostre stanze...»
«Giusto»,
lo interruppe Alexya, annuendo. «Vado a farmi un bel bagno e
poi corro al primo livello».
Marihus
stava
già per iniziare la sua solita serie di lamentele ed Alexya
si
voltò per uscire dalla hall. Passando davanti al bancone,
salutò con un cenno del capo i tre umani che risposero con
un
coro di “buon divertimento”. Varcarono la soglia
della
porta scorrevole e svoltarono a sinistra, sotto i portici di pietra di
un tenue ocra.
«Hanan
dov'è?» domandò Marihus, notando solo
allora
l'assenza della dama di compagnia della regina. La ragazza fece per
rispondere ma si bloccò.
In
fondo al
colonnato un gruppo svoltò ed avanzò nella
direzione di
Alexya e Marihus. Un uomo ammantato di rosso sangue procedeva in capo
al quartetto e, man mano che si avvicinavano, si distinse alla destra
del primo una giovane donna dai capelli color platino, raccolti in
un'elaborata acconciatura, con occhi blu e vestita di un elegantissimo
abito color borgogna. A seguire, un Elfo dai capelli castano scuro,
fermati dietro la nuca, le orecchie lunghe ed appuntite, piene di
orecchini ad anello che scintillavano e occhi di colori differenti: il
destro era celeste, il sinistro dorato. Infine, un giovane vestito di
un'umile mantellina di lana grezza, con la chioma blu notte e due
ciocche bianche legate in modo da sembrare orecchie di lupo.
Marihus,
non
appena riconobbe chi si stava avvicinando, afferrò il
braccio di
Alexya, che aveva iniziato a decelerare fino a fermarsi, gli occhi
spalancati. Un brivido le percorse la schiena nell'incontrare gli occhi
penetranti del capogruppo.
«Milady,
passiamo dal cortile» le suggerì a mezza voce il
maggiordomo. Ma sentì su di sé lo sguardo gelido
dell'uomo in rosso e si pentì di aver parlato. Ormai era
troppo
tardi. Alexya li aveva incontrati, ormai.
Il
giovane uomo
che precedeva tutti proseguì col suo passo fluido e felino,
né troppo veloce né il contrario. I capelli
corvini
scendevano lunghi, lisci e perfettamente ordinati lungo la schiena e
sulle spalle muscolose, che si intravedevano pur nascoste dai vestiti,
e nascondevano il lato mancino del suo volto, mentre l'altra
metà era sovrastata da una frangia lunga. La sua carnagione
era
di un candore simile alla neve, i lineamenti del suo viso erano ben
definiti ed eleganti. Gli occhi dal taglio allungato avevano le iridi
color argento liquido. Il formale vestito nero era corredato da bottoni
recanti il simbolo del suo regno, le Terre d'Ombra: un pipistrello nero
stilizzato le cui ali si incontravano in aria, seguendo il cerchio
argenteo in cui erano contenute.
L'uomo
rallentò nell'avvicinarsi ad Alexya e la guardò
con
attenzione, studiando ogni particolare con la curiosità di
un
predatore. Schiuse un attimo le labbra sottili, come se volesse dire
qualcosa, ma passò oltre, lasciando che i capelli d'ebano ed
il
mantello cremisi svolazzassero alle sue spalle. Attaccati alle sue
orecchie, scintillarono degli orecchini che la regina notò
con
stupore. Gli anelli d'argento erano trascurabili, non volevano dire
nulla, ma i pendenti dalla montatura di avorio, una perla nera sferica
ed una allungata grigia, non facevano altro che ribadire
l'identità della creatura misteriosa.
Il
resto del
gruppo passò affianco ad Alexya e solo la donna bionda le
prestò attenzione, lanciandole uno sguardo minaccioso.
Quando
il
quartetto si fu allontanato, Marihus mollò la presa dal
braccio
di Alexya e proseguirono, senza parlare fino alla stanza della ragazza.
La domanda su Hanan rimase senza risposta, finché l'ancella
non
raggiunse correndo i due.
«Perdonatemi,
ho dovuto dare le indicazioni sui bagagli ai facchini e sono andata in
bagno» spiegò ansimando.
Marihus
degnò di poca attenzione Hanan, che si lasciò
andare sul
un divano della suite. Alexya sospirò rumorosamente.
«Quelli
erano Inferi», disse la ragazza, con tono incerto, rivolgendo
uno
sguardo indecifrabile al maggiordomo. Non attese la risposta dell'uomo
e proseguì, guardandosi allo specchio
dell'ingresso. Si
passò le mani sul viso, ricordando con un certo imbarazzo la
sua
reazione al re Infero. Si voltò verso Marihus.
«Quell'uomo...»
«Lord Nicholas»
la corresse il maggiordomo, con una certa tensione. Non voleva per
nulla al mondo che la ragazza si interessasse tanto a quell'Infero. Era
troppo pericoloso, chiunque sano di mente non si sarebbe impicciato
troppo di lui.
«So
come si
chiama, per Niharn!» si lamentò Alexya, tornando
al suo
comportamento consueto. «Comunque, chi era quella gente con
lui?
La bionda mi avrebbe squartata sul momento...»
«Eh,
quella
è Irene, la sua promessa sposa ed è un membro del
Clan
Canthao, quindi è un demone. Dell'Elfo si conosce solo il
nome,
che dice tutto a suo riguardo: Vaenihum, il veleno dolce come il miele
che uccide nelle più atroci sofferenze. Inoltre, pare che
sia il
braccio destro di milord. Il piccoletto straccione è un
Nobile
di Niha, il messaggero Chester» le spiegò Marihus,
sedendosi su una poltrona. Si grattò il mento e
notò con
orrore di aver bisogno di radere al più presto la barba. Era
imperdonabile.
Mentre
il
maggiordomo era perso nei suoi pensieri estetici, Alexya
ordinò
ad Hanan di prepararle il bagno. Poi fece un rapido giro della suite,
notando che vi erano presenti anche delle piccole stanze per la
servitù, con spartani letti a castello. L'ala designata a
lei
era molto lussuosa, più della sua stanza allo Smeraldo.
Alexya
si consolò pensando che almeno lei aveva cose utili e
funzionali
in camera. Quando Hanan le annunciò che era tutto pronto,
andò nella stanza da bagno e la trovò talmente
immensa,
che iniziò a rodersi d'invidia, soprattutto alla vista
dell'enorme vasca con tanto di idromassaggio.
«Metti
in
ordine le valigie e vieni a controllare che non sia affogata tra
mezz'ora» fu l'ordine di Alexya all'ancella.
Marihus
sussultò a quelle parole e si rasserenò subito
sentendo
la risata della regina. Ma Hanan non si lasciò ingannare. La
conosceva meglio di lui. Si appostò vicino alla porta
chiusa,
allarmata.
Alexya
immerse la
testa sott'acqua, per bagnarsi di nuovo i capelli, e poggiò
la
testa al bordo della vasca, giocherellando con le bolle di sapone.
Stava cercando in tutti i modi di non tornare con la mente all'incontro
di poco prima, ma irrimediabilmente gli occhi argentati dell'Infero le
si palesava dinanzi agli occhi, quasi lo vedesse di fronte a
sé.
Si passò una mano sul volto, soffocando una risata di
scherno.
«Sto
impazzendo», biascicò.
Lanciò
uno
sguardo alla sua mano sinistra, sgombera da qualsiasi gioiello. Attorno
all'anulare, però, si vedeva un tatuaggio formato da
ghirigori
di inchiostro nero che si chiudevano attorno ad una runa rappresentante
l'iniziale del suo nome. Ogni Regina d'Ovest aveva tale decorazione,
che veniva impressa sulla sua pelle appena diventata donna. Solo coloro
che possedevano magia conservavano quel marchio, che altrimenti sarebbe
svanito dopo alcuni giorni. A lei persisteva, nonostante i grossi dubbi
di tutti coloro che la conoscessero, perché lei non aveva mai
dimostrato alcuna dote magica. Quella sua mancanza le bruciava dentro
da quando aveva visto per la prima volta Helena prendere lezioni di
magia. Si sentiva sbagliata, debole, inutile. Così aveva
compensato la carenza con la forza e l'abilità combattiva.
Ed
ora che le
sembrava aver raggiunto un certo equilibrio, aveva incontrato sul suo
cammino creature che rappresentavano ciò che avrebbe voluto
essere: potente, forte e immortale. Gli Inferi non sarebbero stati gli
unici, anche le Divinità erano dotate di grande potere
magico,
ma queste ultime erano a lei più distanti. Si prese il viso
tra
le mani, mentre rivedeva lo sguardo di Nicholas fissarla nel profondo.
L'aveva
usata, quell'Infero aveva usato la magia
su di lei. Le aveva invaso la mente con la Voce e lei non era stata
capace di opporre resistenza, si era annullata dinanzi a lui. Non era
stata più padrona dei suoi pensieri. Solo ora se ne
accorgeva,
lontana da quella creatura e dalla sua influenza. Si sentì
più impotente che mai e fu quasi tentata di immergersi
completamente nella vasca, mettendo fine a quella vita inutile. Tanto
non aveva fatto ancora nulla di notevole, aveva solo progetti che
sarebbero stati vanificati dalla sua incapacità. Non le
serviva
vivere senza uno scopo. Si lasciò scivolare in acqua. Non
aveva
nessun compito da portare a termine, nessuno che dipendesse da lei. Era
sempre lei a dipendere dagli altri. Lei era totalmente inutile. La
schiuma le solleticò le guance.
Poi,
due occhi argentati. Sobbalzò e si mise a sedere di scatto.
In
quel momento, Hanan aprì la porta con cautela.
«Milady, avete terminato?». Grazie ad Al è viva,
pensò l'ancella vedendo la schiena della sua regina fuori
dall'acqua. Quello di prima era stato davvero uno scherzo. Oppure non
aveva avuto l'opportunità di attentare alla propria vita.
Non
era passata ancora mezz'ora, Hanan non ce l'aveva fatta a calmarsi.
Sebbene Marihus ne fosse ignaro, altre volte la ragazza era stata
estratta dall'acqua prima che smettesse di respirare definitivamente.
Nemmeno la regina Helena non era mai stata informata di quei gesti
sconsiderati della cugina, ma le serve più vicine ad Alexya
avevano imparato a star molto attente ai bagni che la giovane regina
era solita fare, soprattutto dopo qualche evento che la lasciava un po'
scossa.
«Sì...»
fu la risposta esitante di Alexya, che non si voltò a
guardare la donna.
Hanan
andò
a prendere i vestiti puliti da far indossare alla ragazza,
già
più tranquilla, e guardò Marihus seduto in
salotto, con
lo sguardo sperso.
«Cos'è
successo mentre io non c'ero?» domandò al
maggiordomo.
L'uomo
la guardò perplesso.
«Perché?».
Hanan
si mise le
mani sui fianchi e sollevò gli occhi al cielo.
«Curiosità» mentì.
«Allora?»
«Ci
siamo
imbattuti in Lord Nicholas e la sua combriccola.
Perché?»
insistette lui, per nulla convinto dalla precedente risposta della
donna.
L'ancella
fece
una smorfia. Ecco perché era strana. Aveva già
sentito
parlare degli Inferi e, conoscendo la sua giovane padrona, di sicuro
dovevano averle lasciato qualche traccia nell'anima. Il genere di segno
che le avrebbe fatto venir voglia di un bagno. «Grazie ad
Al!» sbottò stringendosi le mani davanti al petto.
Tornò
da
Alexya, ignorando Marihus che continuava a far domande, non avendo
capito il senso dell'esclamazione della serva. Prese un asciugamano e
chiese alla ragazza di alzarsi dall'acqua, per poterla coprire.
«Milady,
tutto a posto?» le domandò esitante Hanan.
Lo
sguardo ferito
che le lanciò Alexya non le fu di conforto. «Sono
fregata». Quel che aveva appena detto non aveva alcun senso.
«Quegli occhi mi hanno fermata, Hanan...»
sussurrò
la ragazza distogliendo lo sguardo dalla serva.
Hanan
trattenne
un sorriso. Aveva provato ad uccidersi, ma si era fermata. Avrebbe
dovuto ringraziare... «Gli occhi di chi, milady?»
«L'Infero...»
Nicholas,
pensò Alexya, mordendosi il labbro. Stava parlando troppo
dei
fatti suoi. Perché si sentiva così annichilita?
Non aveva
in sé un briciolo di forza.
Quando
la regina
fu pronta, Marihus notò che Alexya era un po' giù
di
morale ed assente. E tutto sembrava influenzato dal suo umore nero. Le
posò una mano sulla spalla, mentre lei teneva lo sguardo
rivolto
fuori dalla grande vetrata del salotto.
«Non
volevate fare un giro al primo livello?» le
ricordò il maggiordomo.
L'espressione
di gioia che assunse la ragazza rinfrancò gli animi di
Marihus ed Hanan.
Saliti
sulla
carrozza che li avrebbe condotti al ristorante La Mandragola, gli
Inferi rimasero in gelido silenzio per gran parte del tragitto.
Vaenihum lanciò un'occhiata al suo signore e lo vide
assorto,
con un'espressione inconfondibile nei suoi occhi di freddo argento:
stava tessendo la sua tela e non fu difficile all'Elfo comprendere chi
fosse stata la causa scatenante. Lui sapeva sempre quel che Nicholas
voleva e pensava. E faceva di tutto per essergli d'aiuto.
«Nicholas...»
lo chiamò Irene, con la stessa espressione ferita di poco
prima,
quando si erano lasciati alle spalle i due Uomini.
Il
re non le
rivolse la sua attenzione. Non era di alcuna utilità
prestare
attenzione alle farneticazioni gelose della promessa sposa.
Lanciò uno sguardo a Vaenihum.
«Lady
Irene, vostro fratello vi manda i suoi saluti», la
informò
l'Elfo, per distrarla con chiacchiere oziose, che avrebbero liberato il
suo signore dalla donna.
«Come
sta?»
Chester
fece una
smorfia di disgusto. Era così semplice imbrogliare Irene,
per
Nicholas. Ma lui non si scomodava mai, mandava Vaenihum a fare quel
genere di lavoro sporco, che era quasi un'estensione del sovrano. Lui
non ne avrebbe tratto nessun vantaggio, solo un po' di
tranquillità per i suoi ragionamenti contorti. La mente del
re
era sempre al lavoro, non poteva perder tempo lanciando l'osso alla sua
promessa sposa quando essa diventava petulante. Era la Regina d'Ovest, alla mano
sinistra aveva l'anello. Le parole di Nicholas
echeggiarono nella mente di Vaenihum, che non si distrasse dalla
conversazione inutile con Irene. Ma non aveva un briciolo di
energia magica, aggiunse l'Elfo. L'ho notato. Eppure aveva
l'anello. È necessario studiarla da vicino,
replicò il sovrano. Decise che Irene era stata distratta
abbastanza e ruotò il capo verso di lei. Le prese il mento
con
una mano e la costrinse a guardarlo, mentre si chinava verso il suo
viso.
«Dicevi».
Premette le labbra fredde su quelle rosse e piene di Irene. La sua voce
era carezzevole ed avvolgente, nonostante il tono freddo.
La
donna rimase
disorientata. Si aggrappò alle spalle di Nicholas, sperando
in
un approfondimento di quel contatto, ma lui era in attesa di una
risposta che non giunse. Improvvisamente Irene non ricordava
più
cosa la tormentasse tanto.
«Se
non era
nulla di importante, la prossima volta cerca di non
disturbarmi»
concluse Nicholas, con un ghigno crudele.
Lui
le
lasciò il volto ed Irene aggrottò la fronte. Era
sicura
che fosse qualcosa di importante, ma non ricordava proprio niente.
Presa dai suoi pensieri, non notò lo sguardo impietosito di
Chester. Quei due non facevano altro che giocare con quella donna. E
lei nemmeno aveva la possibilità di rendersene conto.
Vaenihum
lanciò uno sguardo di minaccia al messaggero, che fece cenno
di
aver compreso il messaggio. Chester guardò Nicholas con gli
occhi rivolti fuori dal finestrino della carrozza. Cosa aveva in mente
il suo re?
Con
uno scossone,
la vettura di fermò davanti alla Mandragola ed il cocchiere
scese dal suo posto guida, per apprestarsi ad aprire lo sportello della
carrozza ed abbassare lo scalino. Per prima uscì Irene,
reggendosi la vaporosa gonna con una mano, mentre l'altra usava il
cocchiere come appoggio per facilitare la discesa. La seguirono Chester
e Vaenihum. Nicholas fu l'ultimo a lasciare la vettura e
congedò
il cocchiere, ordinandogli di posteggiare il mezzo nello spiazzo
laterale al ristorante e di tenersi nei paraggi. Dopo di che, l'Infero
si avviò verso l'ingresso del locale e, non appena
varcò
la soglia, il proprietario gli fu incontro, seguito dalla giovane e
bella moglie.
«Lord
Nicholas, quale onore!» lo accolse l'uomo baffuto, porgendo
una mano al sovrano.
Quando
Nicholas gli strinse l'arto, il proprietario accennò un
rispettoso inchino.
«È
il minimo che possa fare per ringraziarti della piacevole accoglienza
che mi offri sempre, Arnold», replicò l'Infero con
freddezza.
La
moglie di
Arnold sorrise maliziosa a quelle parole e si fece avanti per salutare
Nicholas, con un inchino seguito da rapidi baci sulle guance, non
abbastanza veloci da impedirle di parlare al sovrano.
«Vi
attendo dopo gli antipasti» gli sussurrò al primo
bacio.
«Non
credo riuscirò a mangiare con te in mente, Mara»
mormorò Nicholas al successivo contatto.
Mara
trattenne
una risatina eccitata nell'allontanarsi dall'Infero. Irene
guardò di traverso la donna che, troppo palesemente, aveva
dimostrato di essersi fatta viva solo per accogliere Nicholas. Il
demone guardò un attimo Arnold. Anche lui sapeva benissimo
cosa
significava avere il Re delle Terre d'Ombra alla Mandragola, eppure non
aveva mai fatto nulla per impedire quegli incontri. Nessuno avrebbe
osato opporsi a Nicholas, nessuno tranne un suicida masochista.
Irene
si
tormentò le labbra, afflitta. Non le importava nulla delle
donne
del re, non erano altro che giocattoli lo sapeva. Non provava nemmeno
un briciolo di gelosia, dopotutto anche a lei era riservato il loro
stesso trattamento. Nicholas non faceva distinzioni, le donne che
incontrava sul suo cammino o non gli interessavano o le otteneva
immediatamente. Alla promessa sposa tornò in mente la
ragazzina
umana. Perché allora lei aveva reagito con tanta gelosia
davanti
a quella mocciosa? Presto avrebbe fatto la fine di tutte, non c'era
nulla di cui preoccuparsi. Ma quel pensiero non la convinceva. L'umana,
oltre ad essere una donna, era anche una regina, non una popolana od
una nobile come tutte le altre. Era diversa,
maledettamente diversa. La ciliegina sulla torta.
Vaenihum
lanciò un'occhiata irritata ad Irene. I pensieri di quella
femmina lo stavano infastidendo. Non riusciva a contenersi, era
inconcepibile per la sua posizione! Rivolse la sua attenzione a
Nicholas, che sembrava impassibile come sempre. Lui riusciva ad
ignorarla. Quando si accomodarono al loro tavolo, l'Elfo
notò lo
sguardo mortale dell'Infero rivolto verso la sua sposa. No, anche il
suo menefreghismo aveva un limite.
«Irene,
controllati» sibilò Nicholas, muovendo appena le
labbra.
La
donna
avvampò e chinò il capo, nascondendosi dietro la
frangia
liscia. «Perdonami» mormorò, imbarazzata.
Vaenihum,
libero dall'ingombro dei trasbordanti pensieri di Irene, si
guardò attorno. Alla ricerca di qualcuno. L'umana non verrà,
non qui, lo avvertì Nicholas, mentre scambiava
chiacchiere di circostanza con Mentius, il Re del Sud, al tavolo di
fianco.
Inizialmente
Vaenihum non capì a quale umana si riferisse. Mara o chi?
Poi
gli tornò in mente la ragazzina, la regina senza potere, ed
ebbe
le idee ancora più confuse.
Marihus
si
maledisse infinite volte, mentre si aggirava con Alexya per i vicoli
maleodoranti e pieni di gente strana al primo livello di Sung'bar.
Hanan si era rifiutata di andare con loro, non tanto per il luogo,
quanto per chi
avrebbero
potuto incontrare. Suo marito faceva parte della guardia reale che
aveva seguito la regina in viaggio e non ci teneva a vederlo ubriaco in
una taverna, stretto ad una prostituta. Preferiva rimanere nella sua
beata ignoranza.
Il
maggiordomo,
invece, avrebbe venduto l'anima a Fato per restare al Liocorno
piuttosto che sentirsi così fuori luogo. Alla fine, era
andato
con Alexya perché non si fidava a farla andare in giro da
sola
in tutta quella bolgia. Era pur sempre una ragazza giovane e bella, le
avrebbero messo gli occhi addosso persone poco affidabili e lui sarebbe
stato in pace con la sua coscienza standole alle calcagna. Quello era
un male necessario.
«Ma
Johan dove si è cacciato?» brontolò
Marihus.
«Te
l'ho
già detto, se non volevi venire, bastava che restassi a far
compagnia ad Hanan» lo rimproverò Alexya,
gettandogli uno
sguardo seccato da sotto il cappuccio. I suoi occhi verdi brillavano
nell'ombra.
Qualcuno
andò a sbattere contro la regina che, per tutta risposta,
gli
tirò una gomitata ringhiando “stronzo”.
L'uomo non
la udì e lei lo lasciò subito perdere.
«Dov'è
Johan?» insistette il maggiordomo, fingendo di non aver visto
il gesto della ragazza.
«Oh,
ma sei
proprio petulante, Marihus! È andato a far uccidere il
Myurohon,
ecco tutto. Nessuna congiura a tuo danno, contento?» rispose
irritata Alexya, facendosi largo a gomitate nella ressa nei pressi di
una taverna.
Marihus
sbiancò. «Cos'è questa storia? Non lo
avete già ucciso?»
«Ma
ti
pare? Non ho magia, io! Solo con...» Alexya si interruppe,
mettendosi in punta di piedi per guardare oltre le teste della gente
accalcata davanti alla taverna Il vagabondo selvaggio, da cui si
sentivano provenire urla inarticolate e l'inconfondibile suono della
lotta. La regina avanzò tra la folla, incuriosita, ed a
nulla
servirono i richiami di Marihus, che si ritrovò costretto a
seguirla.
Quando
la ragazza
giunse all'interno del Vagabondo selvaggio, scoppiò a
ridere. I
suoi soldati si stavano azzuffando con alcuni brutti ceffi. Si vedeva
che erano Uomini d'Ovest. Probabilmente la rissa era iniziata per
sciocchi motivi di orgoglio. Li conosceva bene.
Marihus
la raggiunse, giusto in tempo per vedere una strana luce nei suoi
occhi. Sapeva cosa voleva dire e ne era inorridito.
«No,
no, no!»
la pregò il maggiordomo, prendendole un braccio.
«Forza
ragazzi!» gridò Alexya, ignorando bellamente
l'uomo che
cercava di frenarla. Si scrollò di dosso Marihus e gli
lasciò il mantello. Poi corse incontro ai suoi soldati, per
dar
loro manforte. Afferrò il primo energumeno che si
trovò
tra i piedi, tirandolo per i capelli e gli assestò un pugno
in
pieno volto, rompendogli il naso. La ragazza fece una smorfia di
dolore, realizzando che non aveva alcuna protezione alla mano, ma
dovette lasciar perdere le articolazioni che si lamentavano per
stendere l'uomo che aveva appena fatto infuriare.
Marihus
assistette alla scena sgomento. Era inaudito: una regina che menava le
mani in una bettola del deserto! Helena
non saprà niente!,
giurò a se stesso. Gli si avvicinò un omaccione
panciuto
e calvo, vestito con un largo e sporco grembiule. Gli mise una mano
sulla spalla, facendogli sentite tutta la sua forza.
«Sei
con
quella ragazza, vero?» gli disse l'uomo. «Io sono
Tyr,
l'oste, e se quella mi distrugge qualcosa, dovrai pagarmi i
danni» concluse con un sorriso bonario.
Marihus
non gli
fece sapere che anche i soldati erano, in teoria, con lui ed
annuì avvilito. Stava per gridare ad Alexya di smetterla,
quando
gli volò addosso uno degli uomini della rissa. Tyr
scoppiò a ridere di gusto, con le mani chiuse a pugno sui
fianchi.
«Quella
ragazzina è un uragano!» ragliò,
porgendo una mano al maggiordomo, caduto a terra.
«Alexya, piantatela!»
Tyr
guardò interrogativo Marihus, che gridava contro la ragazza.
Un
altro uomo fu
scaraventato verso il maggiordomo e la rissa parve placarsi. I nove
soldati guardarono la regina, ognuno piuttosto ammaccato ed alcuni
stringendo ancora qualcuno degli avversari in una stretta micidiale.
«Vostra
Grazia!» gridarono esaltati.
Alexya
ridacchiò e si avviò verso Marihus, contenta ed
orgogliosa di se stessa. Le aveva fatto davvero bene prendere a botte
un po' di gente, l'aiutava a non pensare ed a sfogarsi in caso di
bisogno.
«Che
volevi? Ti ho sentito gridare qualcosa, o sbaglio?»
domandò candidamente la ragazza.
Tyr
scoppiò a ridere, mentre il maggiordomo si batteva con forza
una
mano sul viso, abbattuto. Non era servito a nulla sgolarsi, quando
quella ragazzina iniziava a menar le mani staccava il cervello e si
concentrava solo sulla lotta.
«Niente,
niente...» rispose Marihus con tono cupo. Si rivolse verso
l'oste
che continuava a ridere. «Quanto?»
singhiozzò,
infilando la mano in tasca.
Alexya
guardò i due uomini perplessa, mentre i soldati le si
avvicinavano.
«Quanto
cosa?»
«Il
pagamento dei danni, milady...» replicò sconsolato
il maggiordomo.
Tyr
annuì
compiaciuto, iniziando a farsi due conti mentre gli occhi cercavano
tutto quel che era stato distrutto dalla rissa o che fosse un po'
malandato.
«Cinquemila
regi» stimò Tyr, grattandosi una basetta.
«Bada che
ho chiuso occhio su molte cose» si affrettò a
spiegare,
prima che Marihus potesse protestare.
Il
maggiordomo
sospirò disperato. Non aveva tutti quei soldi con
sé.
Erano decisamente troppi. Alexya fulminò l'oste.
«La
prossima volta chiedici di costruirti una nuova taverna»
sbottò acida afferrando la borsa tracolla ed estraendo
cinque
sacchetti di monete d'oro, ognuno contenente mille regi.
«Ecco
qui. La prossima volta che torno qui, voglio trovare questo postaccio
tirato a lucido con tutti i soldi che ti ho dato».
Tyr
batté le palpebre, sorpreso, poi gli brillarono gli occhi
nel soppesare i sacchi.
«Grazie,
milady» la ringraziarono Marihus ed i soldati.
Uscirono
dal
Vagabondo selvaggio, dissipando la folla che si era accalcata
sull'ingresso per assistere alla rissa. Mossero qualche passo tra le
viuzze del primo livello, avanzando come un gruppo compatto.
«Ah,
voglio
cinquecento regi da ognuno di voi» decretò di
punto in
bianco la regina, fermandosi e costringendo gli altri a fare lo stesso.
«Cosa?»
domandò sbigottito un soldato.
La
risposta di
Alexya fu uno sguardo furbo ed inferocito. «Marihus doveva
pagare
i miei danni, voi i vostri. Dato che vi ho anticipato i soldi, dovete
restituirmeli».
«Ma...
milady!»
fece Marihus incredulo.
«Su
su, tirchioni, i miei soldi!»
Johan
legò
il cavallo all'esterno di una catapecchia dagli infissi malmessi e
bussò alla porta, con delicatezza, temendo di mandarla in
frantumi. La cassa sotto il braccio era immobile, quasi al suo interno
ci fossero solo degli oggetti, non un essere vivo. Per quanto potesse
esserlo uno zombi.
Batté
nuovamente le nocche contro il legno, finché qualcuno non
gli
aprì. Una figura incappucciata lo accolse, con uno scheletro
vestito con abiti femminili e con una parrucca arancione sul cranio.
Johan aggrottò la fronte. Cos'era quella roba?
Sperò di aver seguito le indicazioni giuste. Non voleva
diventare parte della collezione di un pazzo maniaco. Né di
rimetterci qualche organo. Tutte le dicerie che aveva ascoltato gli
ronzarono nelle orecchie, riuscendo quasi a spaventarlo quanto il
tunnel di Sung'bar.
«Sì?»,
domandò burbero il negromante. Dal cappuccio spuntava una
treccia nera, le mani erano coperte da guanti con le dita tagliate.
Indossava una tunica beige con ampie maniche, infilata in pantaloni di
pelle marrone.
«Scusate
il
disturbo, ma vorrei solo che uccidiate questo Myurohon»,
dicendo
queste parole, Johan batté una mano sul portagioie.
Il
capitano delle
guardie reali scorse sotto il cappuccio del negromante la bocca
piegarsi in una smorfia di disappunto. Iniziò a pregare
tutti
gli dei esistenti.
«Entrate».
A
quell’invito, sollevato, Johan superò
l’uscio e si
chiuse la porta malandata alle spalle. L’ambiente era buio e
maleodorante, l’unica fonte di luce era la tremolante fiamma
di
una candela di cera nera posta su un tavolo mangiato dalle tarme. Si
avvicinarono al piano di legno e l’uomo vi posò la
cassetta. La aprì e mostrò al negromante il suo
contenuto.
«Guarda,
Laila, guarda come questi Uomini rozzi e villani trattano i tuoi
fratelli!» disse lo stregone, rivolto allo scheletro al suo
fianco. Johan si lasciò sfuggire una smorfia preoccupata. I
suoi
occhi vagarono nella stanza buia, individuando barattoli dal contenuto
dubbio e vertebre unite a cera, candele nuove e pronte all'utilizzo.
Voleva andarsene, il prima possibile.
Però,
incuriosito dal commento del negromante, il capitano guardò
nel
baule e vide il Myurohon, che Alexya aveva fatto a pezzi, ricomposto in
maniera disgustosa, gli arti attaccati dove non dovevano, il corpo
deformato dalla scatola. Possibile che quei morti ambulanti riuscissero
a sopravvivere anche in quelle condizioni? L’esercito delle
Divinità era temibile, se formato solo ed esclusivamente da
quelle creature senz’anima. Johan rabbrividì.
Pregò
Niharn di uscire vivo da quel luogo.
Il
negromante
fece sedere lo scheletro che aveva chiamato Laila alla sedia. Dopo di
che si tirò su le maniche della tunica e pose le mani sopra
il
corpo accartocciato dello zombi. Per quante volte lo si riducesse in
polvere, non sarebbe mai morto davvero. Incatenato nel Mondo Profano da
sentimenti troppo potenti, non sarebbe mai svanito nel nulla. La sua
anima doveva essere pacificata. Solo la magia avrebbe potuto liberarlo
da quella triste esistenza.
Johan
fece
scorrere rapidamente lo sguardo dal volto coperto dello stregone al
Myurohon nel baule. Era una creatura disgustosa, ma infine se ne
sarebbe liberato.
Tre
semplici parole e lo zombi divenne cenere.
«Myurohon ya rohon».
(2)
.-.-.-.
Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Losdihe: buongiorno
(2) Myurohon ya rohon:
il vendicatore io vendico
Spero
sia andata bene la lettura.
Ho
consigliato
tali canzoni perchè sono quelle che ho ascoltato nello
scrivere quei pezzi e li hanno influenzati in un certo qual modo
(notato il nome della taverna e dell'oste? hihi).
La storia è già scritta, da più di sei
mesi, ma
ora mi son decisa di rivederla sul serio, così ho alcuni
capitoli da riscrivere per problemi "stilistici" (ho cambiato stile
durante la stesura .-.). Ergo, questi primi aggiornamenti non saranno
velocissimi. Ma non farò passare un mese, tranquilli. :D
Al prossimo capitolo e, come sempre, per qualsiasi
dubbio o curiosità basta chiedere!
Capitolo 3 *** Capitolo III. Il Consiglio degli Otto Sovrani ***
Grazie a myki e Dark Magician per i commenti. Divertitevi con questo
nuovo capitolo, ragazze! ;D
.-.-.-.
III. Il Consiglio degli
Otto Sovrani
Johan
bussò alla porta della camera della sua regina, ma non
ricevette risposta alcuna. Sta
ancora dormendo,
pensò divertito. Si guardò attorno, poi
entrò
nella stanza buia. Dalle persiane non filtrava la luce di Havernio,
dopotutto erano sotto terra. Il capitano cercò di non
inciampare
da qualche parte, nel buio, mentre andava ad aprire una finestra. Non appena un
po' della
luce artificiale che rischiarava il secondo livello entrò
nella
stanza, Johan si avvicinò al letto su cui riposava Alexya e
si
sedette sul bordo. La guardò dormire, con un sopracciglio
inarcato, indeciso se ridere o provare tenerezza. Di scatto, la
ragazza si
mise a sedere, gli occhi spalancati, ed afferrò con forza il
bavero della giacca militare di Johan, che batté le palpebre
sorpreso. «Milady?» Alexya
sollevò lo
sguardo verso di lui, ansimando. «Per Fato...»
sussurrò, rivolgendo gli occhi sulla coperta. Scosse il capo
e
mollò il capitano, poggiandosi con una mano sul materasso. «Cos'è
successo? Un incubo?» le domandò preoccupato Johan. «Più
o meno,
non so nemmeno io cosa fosse... ricordo solo quegli occhi»
Subito
dopo averle pronunciate, Alexya si pentì di quelle parole.
«Aaah, dannazione!» strillò, premendosi
una mano
sulla fronte. «Avete
solo
incrociato Lord Nicholas e siete rimasta così impressionata?
Guardate che oggi dovete passare molte ore chiuse in una sala, con lui
presente» le fece notare Johan. Quando notò che la
regina
era in camicia da notte, si affrettò a recuperare la
vestaglia
posata sulla panca ai piedi del letto e gliela mise sulle spalle. La
ragazza la strinse contro il petto, ancora presa dai suoi problemi. «L'ha
fatto apposta,
secondo me. Non è normale che mi fissi tanto su un
particolare
così insignificante» rispose Alexya, dopo la lunga
riflessione. «Se
sono
insignificanti i suoi occhi, il resto deve averti fatto ancora
più effetto. Quando ti decidi a trovar marito?»
scherzò il capitano della guardia reale, tirando una pacca
amichevole sulla spalla della regina. «Non bestemmiare.
Helena, a ventisei anni, ancora è lì da sola,
dovrebbe
essere lei a preoccuparsi» ringhiò Alexya,
infastidita da
quell'argomento. Scivolò giù dal letto ed
infilò
le braccia nelle maniche della vestaglia, legandola in vita.
Andò ad aprire un'altra finestra. «Ma che schifo
vivere
qui! Sembra di essere già morti...». Hanan
entrò nella
stanza in quel momento e rimase interdetta sulla porta nel vedere Johan
lì. Sospirò ed avanzò verso il letto,
per metterlo
in ordine e cacciò il soldato con eloquenti gesti della mano. «Su,
sparisci Johan. Non dovresti trovarti qui, nella camera di una signora.
Sciò!». Johan si
alzò dal
materasso e ridacchiando fece quanto gli aveva detto la serva.
Andò a sedersi in salotto ed attese che la regina fosse
pronta
per scortarla alla torre del Consiglio. Attese a lungo, rimuginando su
quanto fossero lente le donne a prepararsi e discorsi simili, che non
servirono a distrarlo più di tanto. Marihus vide
il capitano
della guardia nel soggiorno e comprese che la padrona non era ancora
uscita. Andò a farle visita, ma quando bussò alla
porta
della camera da letto ricevette in riposta due grida che gli ordinavano
di stare alla larga. Scrollò le spalle ed andò ad
accomodarsi di fianco a Johan, con indosso un ordinario pigiama blu. «Tranquillo,
vecchio,
Alexya è viva e vegeta» lo rassicurò il
soldato,
tirandogli una pacca sulla schiena. «Ieri non ho avuto il
tempo
di chiedertelo, ma come è capitato che Alexya si sia
già
imbattuta nell'Infero?». Il maggiordomo
sospirò, sconsolato. «Ah, non so proprio. Ce lo
siamo
trovati davanti al Liocorno e non sono riuscito ad
allontanarla». Il viso di
Johan si fece
pensoso e lui gli grattò il mento. «Mh... allora
Alexya
aveva ragione a dire che milord le ha fatto qualcosa. Detesto che lei
venga presa di mira da un essere del genere». Marihus
concordò. «Ma non possiamo farci più
nulla, il danno è fatto». «Come
no? Guarda che
c'è sempre una via d'uscita. Bisogna solo mettersi d'impegno
e
trovarla» lo corresse Johan, sicuro di sé ed
ottimista.
Bastava evitare che l'Infero riuscisse a mettere le mani addosso alla
loro cara regina e sarebbe già stata una vittoria. Contro
Nicholas, riuscire a fuggire era già un bel vantaggio.
«Dobbiamo solo ricordare ad Alexya le regole». Lo sguardo di
Marihus si
fece cupo. «Mi chiedo che certi tabù imposti alle
regine
non nuocciano loro. Sono prigioniere di leggi che gli Anziani hanno
scelto per loro» farfugliò il maggiordomo, a capo
chino. Johan
abbandonò la
testa all'indietro e sospirò. «È tutto
per il bene
del paese. La vita di due persone non è niente in confronto
a
quella di un intero popolo...» «Ehi,
voi due, la
piantate di parlare come una coppia di mezza età?»
li
schernì Alexya, mettendo piede nel salotto, le mani sui
fianchi.
Indossava un vestito verde, col corpetto di broccato, che metteva in
risalto gli occhi di smeraldo. Un ghigno apparve sul viso della
ragazza. «Allora, siete pronti?» domandò
avanzando.
Lanciò uno sguardo al maggiordomo vestito da notte.
«Tu
non tanto, Marihus, ma te lo perdono, dato che devi restare qui. Forza
Johan, il tunnel ti aspetta!» Alexya
afferrò il
mantello dall'appendiabiti e lo posò sulle spalle,
fermandolo
sul petto con una spilla. Si calò il cappuccio sul capo ed
aprì la porta. Johan balzò giù dal
divano e si
affrettò a raggiungere la regina. «Milady,
ma come
siete impaziente di trovarvi a tu per tu con l'Infero!»
ribatté Johan, particolarmente in vena di punzecchiarla. La porta si
chiuse alle loro spalle e Marihus non poté ascoltare il
resto della discussione.
Nicholas scese
dal letto
con un gesto fluido ed afferrò la vestaglia di seta nera
gettata
sul pavimento. La donna alle sue spalle si agitò tra le
lenzuola, ma non si svegliò. Meno seccature per lui.
Detestava
le smancerie delle donne umane. Non riuscivano a comprendere che lui
non le amava e che non aveva bisogno di provare alcun sentimento per
desiderarle. Avevano una mente così limitata.
Guardò
l'indumento nelle sue mani, indeciso se indossarlo o meno. Alla fine,
scelse di infilarsi sotto la doccia e lasciò la vestaglia
dove
l'aveva ritrovata. Erano le sette
passate, se
ne rendeva conto, ma non aveva avuto voglia di abbandonare il materasso
prima, soprattutto perché la donna non era ancora
addormentata
profondamente e non voleva svegliarla: lo avrebbe solo infastidito e
lui voleva stare in silenzio a pensare. Aveva ricevuto abbastanza
attenzioni quella notte, non ne meritava altre quell'umana. L'altra umana,
la Regina
d'Ovest, era un altro paio di maniche. Non aveva manifestato alcuna
capacità magica e non si era opposta alla sua intrusione
mentale. Così lui aveva potuto registrare parecchie
informazioni
riguardo a lei ed aveva avuto bisogno di molto tempo per organizzarle.
Ora sapeva come utilizzarle ed avrebbe iniziato già quella
mattina. Sapeva cosa frullava nella mente di quella ragazzina mortale e
gli sembrava un'idea interessante. Un bell'imprevisto che avrebbe
mandato in crisi Al ed avrebbe movimentato un po' la Guerra Millenaria.
Era certo che gli altri sovrani, a parte i Lucenti, avrebbero accordato
il loro aiuto all'umana. Li conosceva bene, dopo un secolo e mezzo che
studiava i vari re che si succedevano al Consiglio. Comunque,
l'idea della
Regina d'Ovest avrebbe solo creato un po' di scompiglio, senza
raggiungere il suo scopo. Se non c'era riuscito ancora nessuno, come
poteva giungere una piccola umana e sperare di risolvere la situazione
con poco? Non era nemmeno immortale, non aveva tutto il tempo del mondo
per combattere. E la magia non le era amica. Nicholas si
passò
le dita tra i capelli, tirandoseli indietro. L'acqua gli
scivolò
lungo il viso, bollente. E la ragazza non sarebbe stata capace a
rimanere neutrale. Si sarebbe schierata. In guerra non esistevano le
sfumature di grigio della vita, ma solo il bianco ed il nero. Sollevò
il viso verso il getto d'acqua. I soldati Inferi non erano zombi
senz'anima. Uno non
valeva l'altro. Gli Inferi non
erano illimitati, potevano morire.
Ed in quel caso avrebbero alimentato le file nemiche, se qualche
stupido generale non avesse prestato la dovuta attenzione ai caduti
delle sue legioni. A Nicholas avrebbero fatto comodo degli alleati, oh
sì. Ghignò ed uscì dalla doccia.
Afferrò
l'accappatoio appeso alla parete e lasciò il bagno, diretto
al
salotto. Seduti sui
divani, Vaenihum
e Chester si voltarono verso il sovrano, appena questi mise piede nel
soggiorno. Un inchino di saluto. «Irene
è
venuta cinque minuti fa» lo informò l'Elfo,
abbandonando
la sua lettura e rivolgendo lo sguardo bicolore a Nicholas. L'Infero non
reagì
in alcun modo ed andò a sedersi sulla poltrona.
Allungò
la mano verso il carrello degli alcolici e si versò del
liquore
in un calice, per poi sorseggiare il contenuto ad occhi chiusi. Irene
risultava più pedante del solito. Chissà cosa le
frullava
in mente. Lo sapeva, certo, non aveva il minimo interesse a soffermarsi
oltre sull'argomento, gli bastava che quella donna si controllasse come
aveva sempre fatto. Il contegno che aveva avuto all'inizio della loro
convivenza sembrava sparire ad ogni anno che il demone passava in sua
compagnia. Allontanarla sarebbe stato seccante, o meglio, i Nobili lo
sarebbero stati. Le sue orecchie captarono dei movimenti all'esterno
della stanza. Eccola. Irene
bussò alla
porta d'ingresso alla stanza del promesso sposo e Chester
andò
ad aprirle. Ignorando l'antico spirito, la donna si avvicinò
alla poltrona di Nicholas e si sedette sul pavimento ai suoi piedi. Gli
afferrò una mano e lo guardò intensamente. «Ti
prego, Nicholas, portami con te al Consiglio!» lo
supplicò Irene. Il re
inarcò un
sopracciglio e Vaenihum scosse il capo, esasperato dalla testardaggine
del demone. Lei credeva di convincere Nicholas con quella faccia da
cane bastonato. Povera illusa, si rifiutava di accettare il carattere
del sovrano Infero e sperava ancora di cambiarlo, di impietosirlo, di
farlo innamorare di lei, disperatamente, in qualsiasi maniera. Ma
dimenticava che lui non provava sentimenti veri, non era nella sua
natura di Infero Perfetto. «Non
ne vedo
l'utilità, anche perché non potresti accedere
alla
sala» replicò Nicholas, con tono glaciale. «Mi
basterà
essere nell'atrio, non chiedo altro!» insistette la promessa
sposa, stringendo di più la mano dell'Infero. Già
stufo di
quell'insistenza, Nicholas liberò il suo arto prigioniero e
si
mise in piedi, sovrastando Irene anche fisicamente. Era troppo
insistente, lei. E non aveva motivo di esserlo. Né il
diritto.
Si voltò ed andò a svegliare la donna nella
camera da
letto, liberandosi dell'accappatoio bianco. «Vestimi»
fu
l'ordine che accolse la giovane serva al risveglio. Non ebbe neppure il
tempo di destarsi che già le venivano affidati compiti. Ma
per
quell'uomo lo avrebbe fatto, sia perché era stata messa al
suo
servizio dalla direzione del Liocorno, sia perché voleva
sdebitarsi in qualsiasi modo per quella notte. La serva si
affrettò
a recuperare dei vestiti puliti per il Re delle Terre d'Ombra e lo
aiutò a vestirsi, mentre Irene assisteva assente alla scena.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per seguire Nicholas al Consiglio degli
Otto Sovrani, nonostante non comprendesse il senso di quel suo bisogno
impellente misto alla gelosia. Gelosia di che?, si
domandò seccato Vaenihum, ascoltando i pensieri di Irene,
che erano di nuovo fuori controllo.
«Sì,
sì, lo so! “Fai la brava, non parlare a
sproposito,
ricordati le buone maniere” e così via». Alexya
smontò da
cavallo, parlando per far tacere Johan e le sue raccomandazioni che
puzzavano tanto di Helena. La seccava da morire che la cugina
incaricasse i suoi accompagnatori di rivestire il suo ruolo ingrato.
Perché invece di una sola “mammina”
doveva averne tre?
In seguito avrebbe fatto più attenzione quando viaggiava:
chiunque fosse con lei non doveva avere la possibilità di
parlare con Helena, così lei sarebbe stata costretta a
fidarsi
di quel che Alexya le diceva e la ragazza non sarebbe stata tormentata
dalla presenza incombente di gente troppo attenta a lei. Johan scosse
il capo,
rassegnato. Non poteva farci niente. Lui cercava di accontentare le
richieste inutili di Helena e si sentiva prendere in giro da Alexya.
Che posizione infelice, la sua. «Vado
a lasciare i
cavalli e torno qui» la avvertì il capitano, con
in mano
le redini della cavalcatura della regina. «Non
ho bisogno della
balia, Johan. Se devi rimanere alla torre, vatti a
nascondere».
Detto questo, Alexya si allontanò dall'uomo. La Regina
d'Ovest si
guardò un po' attorno ed individuò una persona
dai lunghi
capelli argentati e lisci, vestita di celeste. Andò in sua
direzione, senza correre. Non era una ragazzina di campagna, ma una
regina e come tale si stava comportando. Avrebbe voluto che
Helena in quel momento la vedesse, così si sarebbe liberata
di
parte delle sue preoccupazioni. Eh,
magari, pensò Alexya, conoscendo molto bene la
cugina. «Wirda!»
salutò la ragazza, ad un passo dalla chioma argentata. Il Re degli
Elfi si
voltò e sorrise lieto, alla vista della giovane regina. Gli
occhi turchesi si illuminarono, infondendo luce al volto eternamente
giovane e bello. Le strinse una mano con la sua, mentre l'altra le
prendeva il viso, in un gesto affettuoso. Alexya lo conosceva da
sempre, l'Elfo era uno degli amici di suo padre e sin dall'infanzia era
abituata alla sua presenza. Ancora adesso le due regine mantenevano
ottimi rapporti col sovrano confinante e questo favoriva i commerci tra
Regno d'Ovest e Regno degli Elfi. «Alexya,
mia piccola Alexya» disse Wirda, sfiorandole la guancia con
le labbra tirate in un sorriso. Alexya si
sentì
completamente a suo agio. Un volto amico l'avrebbe aiutata molto quel
giorno. Ed avrebbe avuto un alleato assicurato per la sua idea. «Infine,
è
arrivata la tua ora per il Consiglio degli Otto! Come passa il tempo
per voi Uomini» fece l'Elfo, guardando la ragazza. Gli
sembrava
solo il giorno prima quando l'aveva vista al funerale di Garstand, una
bambina di otto anni ritta davanti all'urna del padre, l'ultimo
genitore rimastole. Era stata incoronata regina appena dopo la
cerimonia ed aveva rifiutato un reggente con forza. Lui si era chiesto
come avrebbe fatto una bambina ad affrontare la decadenza della corte
d'Ovest, ma sapendola viva giorno dopo giorno, aveva capito che
Garstand l'aveva cresciuta per quello. Oh, benedetta malinconia elfica,
si rimproverò Wirda, accorgendosi che stava viaggiando
troppo
nei ricordi, prestando poca attenzione alla ragazza davanti a
sé. «Per
voi, invece, non passa affatto. Siete sempre lo stesso»,
rispose con un sorriso lei. I due sovrani
si avviarono
verso i due ascensori che risalivano le pareti della torre fino alla
struttura di vetro, chiacchierando del più e del meno. Ogni
tanto Alexya si lasciava distrarre dall'edificio, enorme ed armonioso,
forse indegno dei sovrani che ospitava una volta all'anno. Il Consiglio
degli Otto Sovrani era stato istituito all'inizio della Guerra
Millenaria ed ancora persisteva. Finché ci fosse stata
guerra,
tutti i re della Terra dei Cinque Popoli si sarebbero incontrati
lì e sarebbero stati informati dai due avversari riguardo al
loro scontro. «Sapete,
mi mette
parecchia tristezza l'esistenza di questo Consiglio ancora oggi.
È il ricordo della Guerra Millenaria che torna una volta
all'anno per tormentare noi che non vi partecipiamo. Non capisco
perché i nostri antenati abbiano accettato questo
contentino,
pur di non sentirsi esclusi» confidò
Wirda alla
ragazza. «Beh,
sono stati
stupidi ad accontentarsi. Non hanno mai cercato di mediare tra le due
parti, si sono limitati a sentire un racconto dei fatti, giusto per
calmare il popolo delle frontiere» rispose Alexya, cercando
di
non rivelare così presto il suo piano. «Per
voi Uomini
capisco, ma che necessità c'era che gli Elfi ed i Lucenti si
impicciassero? Siamo chiusi tra i Monti di Luce, protetti e sicuri. Ma
dobbiamo affrontare un lungo viaggio per ascoltare di battaglie che non
ci interessano, solo per salvare le apparenze. Questo mondo
è
stancante, ma non possiamo ribellarci». Wirda
sospirò
rassegnato. L'ascensore
raggiunse il
pian terreno e le porte si aprirono lentamente. I due entrarono nella
cabina di vetro ed attesero che il macchinario ripartisse. «Ai
Lucenti
interessava eccome, per gettarsi ai piedi delle Divinità.
Sono
così servili nei loro confronti da disgustarmi. A questo
punto,
era logico che gli Elfi non volessero essere esclusi, quando ormai
tutta la Terra dei Cinque Popoli si radunava» disse Alexya,
proseguendo il discorso. Wirda
trattenne una risata.
«Anche gli Uomini hanno molto rispetto per le
Divinità, di
solito. Ma questo non è il vostro caso. Eppure Garstand ha
cercato di trasmettervi la sua fede». Il brusco
cambiamento di
argomento, lasciò la regina perplessa. Inoltre, non amava
parlare del padre. Ma con un suo amico non poteva sperare diversamente.
Il filo che legava lei ed il sovrano elfico era proprio Garstand, sia
da vivo che da morto. «Fossero
davvero
degne di venerazione, le Divinità farebbero qualcosa per
noi.
Invece, stanno chiuse nel loro regno dorato a farsi gli affari loro.
Non vedo perché dovrei inginocchiarmi dinanzi a loro ed
implorarle come una pezzente. Penso che, piuttosto, gli Uomini debbano
imparare a contare di più sulle loro forze,
perché ad
attendere l'aiuto divino possono aspettare per
l'eternità»
replicò Alexya, con uno sguardo duro. In passato, aveva
contato
sugli dei, ma essi, sebbene esistessero e camminassero al fianco degli
altri esseri, non avevano fatto nulla per lei. Non erano affidabili,
quindi non aveva bisogno di loro. Forse era proprio per questo che
aveva osato concepire l'idea di intromettersi nella Guerra Millenaria.
L'ascensore si
fermò
nell'atrio posto sotto la sala del Consiglio e le porte si aprirono,
permettendo a Lord Nicholas di uscire dalla cabina, avvolto nel suo
mantello cremisi. Fermi davanti
alla
macchina, Eoforbio e Adhurna parlavano tra di loro, a voce bassa e
calma. Quando percepirono la presenza del Re delle Terre d'Ombra, i due
ruotarono i loro visi verso di lui, rivolgendogli un'occhiata
sprezzante. Eoforbio, il
portavoce di
Al, aveva un caschetto di capelli verde muschio, gli occhi neri come
quelli di tutte le Divinità, ma non aveva le unghie color
pece:
queste erano una prerogativa degli dei maggiori; quelli di classe
infima come lui non potevano averle. In compenso, aveva tatuato in
fronte il simbolo delle Divinità, l'occhio nero cerchiato di
bistro ed allungato verso l'esterno, ad indicare che tra la feccia
aveva un ruolo elevato, cioè quello di burattino nelle mani
del
re degli dei. La donna di
fronte al dio
era una Lucente, creatura nata dall'unione, millenni addietro, di
Divinità ed Elfi. Adhurna, la regina del Regno di Luce, era
cieca come ogni sovrana di quel Popolo. Indossava un vestito lungo,
semplice ed attillato, col colletto di pelliccia, mentre i capelli
ciano erano tirati all'indietro, lasciando scoperta la fronte spaziosa.
Era una creatura piuttosto altezzosa ed inutile, accecata dal fanatismo
religioso, e chissà come faceva ad essere ancora sul trono. Nicholas non
degnò i
due di uno sguardo e si diresse a sinistra dove il portale delle Terre
d'Ombra attendeva di condurlo nella sala del Consiglio. Ma il cammino
del sovrano Infero fu interrotto dallo sputo di Eoforbio, indirizzato
al viso del re e caduto sullo stivale di lucida pelle nera. Adhurna
trattenne una risata, posando una mano sottile sulle labbra bianche. Dopo aver
constatato
rapidamente la condizione del suo stivale, Nicholas si voltò
verso il dio che lo fissava vittorioso. Aveva osato un gesto simile e
credeva di passarla liscia. L'Infero non mosse un dito, limitandosi a
fissare il portavoce di Al, che iniziò a sudare freddo. Solo
ora
si rendeva conto di quel che aveva fatto. Eoforbio deglutì
spaventato, senza però cercare di rimediare. «Pulisci»
sibilò Nicholas, stringendo appena gli occhi. Eoforbio si
sentì
attraversato da un dardo di ghiaccio e rimase paralizzato. Poi, mosse
qualche timido passo verso il Re degli Inferi, lo sguardo basso, mentre
Adhurna tentava di capire cosa stesse succedendo, girando la testa da
una parte e dall'altra. Quando il dio provò ad afferrare un
lembo del mantello rosso di Nicholas, il sovrano tirò
indietro
la cappa con un ghigno. «Usa
la veste della femmina» gli ordinò, con tono
sprezzante. Allora Adhurna
indietreggiò, scuotendo il capo e cercando di formulare
qualcosa
di sensato, muovendo le labbra a vuoto. Eoforbio, senza sollevare lo
sguardo dallo stivale di Nicholas, allungò la mano e prese
la
gonna della Lucente, usandola poi come strofinaccio per ripulire la sua
saliva. «Milord,
come avete
potuto...» iniziò Adhurna, sollevando un braccio
per
cercare l'Infero, che sentiva in forma di gelida ed opprimente presenza
ad un passo da lei. «Dovresti
essere
contenta, la tua veste ha toccato umore di Divinità.
Dovresti
conservarla come reliquia» la schernì Nicholas,
afferrandole il mento con una mano e rivolgendole un sorriso crudele. I due
ascensori erano in
movimento, ma uno giunse nell'atrio per primo e rilasciò
Ludovik
d'Est, il giovane ed effeminato sovrano che rimase interdetto
nell'osservare la scena: una Divinità inginocchiata davanti
ad
un Inferno, mentre gli puliva gli stivali. Nicholas lanciò
uno
sguardo inespressivo al ragazzo dai capelli biondi fino alle spalle e
gli occhi castano chiaro. Ma il sovrano
Infero non
perse tempo ad umiliare ulteriormente Eoforbio, che aveva appena
terminato il suo compito: «Ludovik, volete anche voi uno
schiavo
Divinità? Come vedete sono molto adatti ad eseguire umili
lavori». Ludovik non
seppe cosa
rispondere e faceva scattare gli occhi da Eoforbio a Nicholas, molto
confuso. Poi guardò il secondo ascensore fermarsi ed aprire
la
porta. Nicholas
gettò un'occhiata distratta verso la cabina appena giunta
nell'atrio.
Wirda
domandò ad
Alexya se avesse bisogno di qualche informazione riguardo al Consiglio,
ma la ragazza negò l'aiuto, «Ho già
chiesto ad
Helena tutto quello di cui potrei aver bisogno, grazie», e
sorrise cortese. L'ascensore
terminò
la sua salita ed il suo ingresso si spalancò su una sala
spoglia, con otto pareti di vetro che davano sul Deserto di Zinco,
mentre il soffitto era di scura pietra. All'interno dell'atrio regnava
la penombra, grigia e fredda. Alexya si guardò attorno,
decisa
ad osservare con cura gli otto portali magici, uno per ogni sovrano, i
personalissimi accessi dei re alla sala del Consiglio, formati da un
arco a sesto acuto con inciso sulla chiave di volta il simbolo di ogni
regno; la sua attenzione, però, si concentrò sui
presenti
e soprattutto sugli occhi argentati di Nicholas. Oh no, gemette tra
sé, temendo di non essere abbastanza padrona di lei stessa
per affrontare l'Infero. Eoforbio,
Adhurna e Ludovik
passarono in secondo piano, perché era caduta di nuovo
vittima
del sovrano dal mantello cremisi. Purtroppo. E lui aveva notato con
soddisfazione l'effetto sortito sulla ragazza umana. Wirda
gettò
un'occhiata preoccupata ad Alexya, bloccata davanti alla porta
dell'ascensore, immobile e con lo sguardo fisso davanti a
sé. Le
poggiò una mano dietro la schiena, per invitarla ad
avanzare, e
la regina parve riscuotersi. Raggiunsero il gruppo dall'altra parte
dell'atrio e si fermarono entrambi. «Bene,
c'è già la maggior parte del Consiglio»
disse Wirda, guardando gli altri sovrani. Ludovik
annuì e,
quando parlò, Alexya si accorse che la voce del giovane non
era
molto maschile: «Mentius e Tarus, a quanto pare, sono
già
nella sala. Vogliamo raggiungerli?» propose il Re d'Est.
Eoforbio
annuì, con un'espressione contrariata sul volto. Il bruciore
dell'umiliazione di prima era svanito, rapido così com'era
comparso. Ormai aveva quasi perso il suo orgoglio, che non era mai
stato smisurato. A Gemma d'Autunno gli capitava di peggio, aveva fatto
il callo. «Iniziamo
la seduta
al più presto. Meno tempo si sta in presenza di Uomini ed
Inferi, meglio è» fu la risposta di Adhurna, che
seguì Eoforbio, diretto al suo portale. Alexya
aprì la
bocca, le sopracciglia aggrottate, irritata dalle parole della Lucente.
Ludovik si avvicinò alla regina e l'Elfo. «Salve
Wirda»
lo salutò, per poi rivolgersi alla ragazza, attirando la sua
attenzione su di sé, «Sono Ludovik di Dornior, Re
d'Est.
È un onore conoscervi...» Alexya gli
porse la mano
sinistra per il baciamano ed il giovane sfiorò l'anello
tatuato
con le labbra. «Lo stesso posso dire io. Sono Alexya dei
Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest», si
presentò lei. Nicholas
osservò la
scena in disparte ed attese la dipartita di Ludovik verso il suo
portale, per avvicinarsi alla nuova arrivata. La ragazza, vedendoselo
davanti, freddo e aristocratico, deglutì e
sollevò lo
sguardo verso di lui. Gli occhi verdi avevano un qualcosa di curioso e
spaventato che interessò l'Infero. Eseguì il
baciamano. Appena le
labbra di
Nicholas sfiorarono l'anello, Alexya sentì una scossa che la
fece tremare dal profondo. Pensò di essersi
autosuggestionata, a
causa dello sguardo argenteo del re fisso su di lei anche durante quel
gesto, ma vide che lui aveva percepito il potere che l'aveva
attraversata e si preoccupò sul serio. Cosa significa?, si
domandò allarmata. Wirda
osservò la
scena con un crescendo di inquietudine. Non gli piaceva l'interesse di
Nicholas per Alexya. Tutto ciò che attirava l'attenzione
dell'Infero finiva per essere contaminato dalla distruzione che lui
portava ovunque. Lasciare una ragazza umana in balia di quell'uomo
sarebbe stato pericoloso. Molto pericoloso. Alla fine, pensò
bene di andare nella sala del Consiglio, sperando di trascinare con
sé la regina. Di sicuro lei non avrebbe voluto rimanere sola
con
il Re delle Terre d'Ombra. Però, poco prima di oltrepassare
il
suo varco, vide che i due erano ancora uno di fronte all'altra a
studiarsi. Nicholas si
accorse con
più forza del profumo che gli aveva già pizzicato
il naso
quando aveva incrociato l'umana al Liocorno: era il sangue di Alexya a
chiamarlo, il che non gli andava a genio. Non aveva bisogno di stupide
complicazioni dovute al suo lato vampiro. Inoltre la reazione
dell'anello al suo tocco lo aveva lasciato senza parole. Sapeva cosa
significava, cioè altri problemi. Quella dannata ragazzina
sembrava esser apparsa davanti a lui solo per rendergli la vita
più complessa di quanto non fosse già. Sarebbe
stata una
bella sfida guidare il gioco, mantenere il controllo su quello che
sembrava tanto uno scherzo del Fato, ormai a corto di fantasia. E
l'Infero aveva intenzione di vincerla ad ogni costo. Quello stupido
essere non sarebbe riuscito a controllare la sua vita. «Il
mio nome è
Nicholas e sono l'attuale Re delle Terre d'Ombra. Con chi ho il piacere
di parlare?» disse Nicholas, sfiorando con le labbra il dorso
della mano di Alexya, che ancora stringeva con la sua. La regina si
presentò, raccogliendo tutte le sue forze per mantenersi
concentrata su quanto stava dicendo. Le pelle dell'Infero era fredda a
contatto con la sua e tutto in lui la attirava, volente o nolente.
Sentiva due parti di se stessa lottare tra loro, quella razionale e
quella più istintiva. Cercava a tutti i costi di far
prevalere
la prima, ricordandosi costantemente dell'idea che voleva proporre al
Consiglio degli Otto Sovrani. Se fosse stata accettata, quell'uomo
sarebbe stato suo nemico. E
allora?, ribatteva l'istinto, prima di essere soppresso. «Il
vostro anello ha
reagito» le fece notare Nicholas, per farle comprendere che
quel
particolare non era da sottovalutare. Ed Alexya non aveva intenzione di
farlo. Solo che non era mai riuscita a trovare un testo che trattasse
in modo soddisfacente l'argomento e non aveva la più pallida
idea di cosa significasse quel comportamento del tatuaggio reale.
Quell'anello era un mistero che nessuno le aveva chiarito. Quel compito
sarebbe toccato a sua madre, se avesse avuto l'opportunità
di
conoscerla. Alexya
guardò
l'Infero dritto negli occhi, mordendosi le labbra, il ventre in
subbuglio. «Andiamo... nella sala... dagli altri»
riuscì a farfugliare, infine, dopo un lungo silenzio. Nicholas le
lasciò
la mano, seguendo però la ricaduta del braccio della
ragazza,
sfiorandole la pelle calda con i polpastrelli. Le venne la pelle d'oca
e lui le manifestò di essersene accorto con un ghigno. Il
sangue
di quell'umana continuava a chiamarlo e provocarla in quella maniera
era, per lui, una piccola vendetta per il tormento che gli provocava
quel profumo. Lui, almeno, era capace a dissimulare, al contrario della
regina. «Sì,
venite»
sussurrò l'Infero, ambiguo, senza smetterla di ghignare. Alexya chiuse
un attimo gli
occhi, emettendo un sospiro tremulo, mentre lui si voltava in un
turbinio di cremisi e ali di corvo, e si diresse verso il portale del
Regno d'Ovest, con le orecchie piene della voce piacevole di Nicholas.
.-.-.-.
Oh, inizia a
succedere
qualcosa. Più o meno. Ma sì, dai, quanto mi
voglio
male... XD E questa volta nessuna parolina in "lingua straniera" da
tradurre. Mi sono rifatta nel capitolo successivo, tanto. ;] Nel prossimo
capitolo... eh eh, i due nemici faccia a faccia. Ma per questo dovete
aspettare domenica! Alla prossima!
(myki, questo sì che è riferito a te, parti con
le domande! XD)
Come sempre, grazie
myki e Dark Magician!! E questa volta grazie
anche a Erika91 per aver aggiunto questa storia nei preferiti. Buona lettura! ;)
.-.-.-.
IV. I due Re
Quando Alexya si
ritrovò nella sala del Consiglio fu pervasa dal sollievo.
L'ultima prova che doveva affrontare per confermare di fronte a se
stessa di essere la Regina d'Ovest era proprio il portale d'accesso a
lei riservato: solo chi possedeva il proprio oggetto magico di sovrano
poteva attraversare l'ingresso magico. Se il varco non avesse
riconosciuto chi stava cercando di usarlo, si diceva che costui sarebbe
finito nel vuoto in cui si trovava la dimora della Triade Sacra. Non
era una bella fine essere sospesi, in eterno, nel nulla più
assoluto, ad un passo dalla salvezza, senza però poterla
raggiungere. Nessuno ancora aveva provato ad andare contro le regole
dei portali, quindi non si sapeva con certezza se fosse stato davvero
così o meno. La calma
abbandonò Alexya non appena lei vide Mentius, seduto sulla
poltrona alla destra della sua. Prima di occupare il proprio posto, la
ragazza si fermò in piedi vicino al sovrano del Sud: aveva i
capelli lunghi e mossi, fermati in una bassa coda e striati di bianco,
mentre il resto della chioma era diventato color cenere da qualche
anno. Era un uomo avanti con gli anni, doveva aver passato all'incirca
sessanta inverni, eppure si manteneva in forma e si vedeva chiaramente,
sotto il sontuoso abito di seta, che il suo fisico magro era comunque
asciutto e scattante. Il viso scarno era segnato da lievi rughe
d'espressione, i pochi peli bianchi della barba non erano ancora stati
rasi e la pelle sottile era abbronzata. «Mentius, ne
è passato di tempo» fu il freddo saluto della
regina. L'uomo sudrione
sollevò lo sguardo color nocciola verso Alexya e si
raggelò. Non aveva tenuto in conto che un giorno la figlia
di Garstand sarebbe giunta al Consiglio degli Otto Sovrani. I suoi
incubi continuavano a tormentarlo, nonostante avesse cercarlo di
toglierli di torno, in qualsiasi modo. Dal suo canto, Alexya
osservò con disprezzo puro l'assassino di suo padre. Durante
la Guerra dei Quattro Re, per la supremazia sulla Terra degli Uomini,
era stato Mentius in persona a recarsi da Garstand, nella sua tenda, e
pugnalarlo. Non aveva avuto nemmeno la decenza di uccidere il suo
avversario sul campo di battaglia. In quel modo era venuto meno il
vincitore della guerra e tutto era rimasto immutato, rendendo inutili i
quarant'anni di sanguinose battaglie e morti che avevano segnato la
Terra degli Uomini. Ad Alexya non interessava l'aver perduto il comando
sugli altri tre regni umani, preferiva quella divisione del potere
piuttosto che le difficoltà governative che avrebbero
implicato tutti quei territori. Era l'aver reso vano tutto lo sforzo di
suo padre nel far tornare la pace ad irritarla ed a farle odiare
Mentius. «La figlia
di Garstand...» farfugliò l'uomo, tra lo
sprezzante e l'intimorito. «Ho un
nome» gli fece notare seccata Alexya. Wirda si
affrettò a bloccare la ragazza prima che causasse qualche
sgradevole incidente diplomatico. Le prese un braccio e con la sua
stretta ferma e forte riuscì a calmare la regina. «Mi auguro
che stiate bene» furono le parole successive di Alexya. Mentius
sbatté le palpebre sorpreso dal brusco cambiamento. Vide
alle spalle della ragazza l'Elfo, il suo silenzioso guardiano, e
comprese che doveva mettere da parte anche il suo risentimento. «Sì,
grazie a Fato sì» rispose Mentius, annuendo. Alexya decise che ne
aveva abbastanza di quell'uomo e si voltò verso Wirda.
Incrociò lo sguardo inquietante di Tarus, il Re del Nord, e
gli fece un cenno di saluto col capo. Non poterono far di meglio
perché Eoforbio sembrava aver fretta di iniziare e pestava i
piedi per terra, impaziente e seccato dalle chiacchiere degli altri
sovrani, da cui era accuratamente escluso. «Verrò
a salutarvi come si deve a fine seduta» le promise Tarus, con
un sorriso rassicurante che strideva col suo aspetto: la
metà destra del viso del re era stata sfregiata durante la
Guerra dei Quattro Re, cui lui aveva partecipato appena ventenne, e
nascondeva la deformazione con una maschera bianca. Mancandogli anche
l'occhio dello stesso lato, aveva inserito nella cavità
oculare il rubino simbolo del Re del Nord, che baluginava sinistro
dietro la protezione bianca delle cicatrici. Per il resto, Tarus era un
comune uomo del Nord, un omaccione, imponente ed un po' stempiato,
dagli occhi scuri e capelli neri, lunghi alle spalle e legati dietro la
nuca. Alexya
annuì e gli rivolse un sorriso sincero. Poi si
accomodò sulla sua poltrona ed osservò la
disposizione degli altri sovrani attorno al tavolo circolare: partendo
dalla sua sinistra, c'erano Wirda, Eoforbio, Adhurna e Tarus,
esattamente di fronte a lei, poi Ludovik, Nicholas e Mentius. I posti
erano stati sistemati seguendo la collocazione dei vari regni, a parte
quelli degli Uomini, che erano stati divisi a metà, per far
sedere Divinità ed Inferi ai due estremi. La ragazza si
sentì osservata e si accorse che Nicholas la studiava
con aria sorniona, senza preoccuparsi di esser visto. «Possiamo
iniziare o dobbiamo continuare a cianciare a lungo?» chiese
Adhurna, picchettando le unghie sul tavolo. Tarus le
lanciò un'occhiata rassegnata, con un sopracciglio inarcato.
«Stiamo solo aspettando che Sua Eccellenza
Eoforbio abbia un'illuminazione divina». Il sarcasmo nella
voce del re irritò il portavoce di Al, che storse la bocca
in una smorfia infastidita. «Sempre la
solita solfa, Tarus! Quante volte devo ripeterti che il divino Al non
vuole scomodarsi per parlare con la feccia?» fu la risposta
acida di Eoforbio. «È
divertente vedere quanto tu sia coraggioso davanti a questo Consiglio,
mentre di fronte ad Al sei solo una pulce pavida»
commentò Nicholas, reggendosi la testa con una mano, lo
sguardo sempre rivolto verso Alexya, che cercava di distrarsi da lui. Eoforbio
lanciò un'occhiata velenosa all'Infero, «Io porto
il dovuto rispetto al divino» si giustificò. «Dovreste
portare anche voi rispetto per gli dei, Lord Nicholas» lo
rimproverò Adhurna, facendo seguire le sue parole da un
cenno rispettoso rivolto al portavoce divino. «Tsk,
ridicolo. La feccia trattata con devozione da una sovrana. I Lucenti
sono vicini alla loro fine» rispose il Re delle Terre
d'Ombra, portandosi i capelli scivolati sul tavolo dietro le spalle. Wirda intervenne,
diplomatico, «Il divino Al dovrebbe almeno apparire per
salutare. Ci ha privati persino di questo banale gesto di
cortesia?». Alexya assistette allo
scambio di battute sconcertata. Cosa stavano facendo? Era
così che funzionava il Consiglio? Helena non le aveva mai
detto nulla del genere! Stavano perdendo tempo a battibeccare come
mocciosi su argomenti idioti. Stufa di quelle beghe, batté
una mano sul tavolo. «Per la
Triade, signori, si parli della Guerra Millenaria!»
esclamò Alexya, guardandoli uno ad uno. Tarus
poggiò i gomiti sul tavolo e si sporse verso di lei, con
un'espressione impietosita che diede molto fastidio alla regina. «Oh, milady,
mi fate tanta tenerezza» disse il Re del Nord, poi
ruotò il capo verso Ludovik, alla sua sinistra.
«È così ingenua, non trovate?» L'espressione di
Ludovik si fece dura. «Sì, ma ha
ragione» replicò il giovane. «Purtroppo,
Vostra Grazia, è questo il Consiglio degli Otto Sovrani,
niente di più, niente di meno, decaduto ed imputridito da
anni di disinteresse e stupidi bisticci tra re»
continuò rivolto ad Alexya. Adhurna assunse
un'espressione scandalizzata e Mentius si agitò nella sua
poltrona, in reazione alla scomoda verità che era appena
emersa. Nicholas continuò a studiare con interesse la
ragazza umana. Era così piena di ideali, gli faceva venire
una tremenda voglia di distruggere il suo mondo perfetto e gettarla nel
profondo baratro della disperazione, senza valori da cui trarre forza. «Sapete,
milady, è impossibile parlare della Guerra Millenaria con
qualcuno che non accetta la sconfitta e con gente che non c'entra nulla
eppure si vuole impicciare. Così si viene qui e si scambiano
quattro chiacchiere tra amici: i vostri Popoli sono contenti e voi vi
convincete di aver compiuto il vostro dovere» le
spiegò l'Infero, con gelida crudeltà. Alexya non lo
guardò mentre le parlava, non riusciva a ricambiare il suo
sguardo penetrante. Strinse la gonna del vestito in una mano, mentre
assorbiva lentamente il discorso. «Questo
è inaccettabile» protestò lei, gli
occhi rivolti verso il centro del tavolo. «Soprattutto
perché non fate nulla per risolvere la situazione». Nicholas
ghignò. Era talmente ottimista, quella ragazzina. Ma si
stava lasciando sfuggire un momento adatto alla sua proposta. La
provocò, per farla andare a parare dove voleva lui. «Avete una
soluzione, milady?» le domandò, assumendo un tono
di voce gentile ed adorabile. La Regina d'Ovest
finalmente sollevò gli occhi verso i suoi e lo
fissò. Lui mantenne il ghigno crudele e lei parve intuire
qualcosa. Sì,
proprio quello, le sussurrò con la Voce. La
ragazza sussultò per l'intrusione e guardò gli
altri re. «Sì,
ma voglio che anche il divino Al sia qui» rispose Alexya e
lanciò una rapida occhiata a Nicholas, divertito, senza
darlo a vedere, dal coraggio e dalla spavalderia dell'umana. «Hai
sentito, Eoforbio?» si intromise Mentius, uscendo dal suo
silenzio. Il dio
guardò con astio tutti i presenti. «Il divino sta
ascoltando tutto. Ma voi non meritate di sentirlo parlare». Nell'udire quelle
parole, Alexya si sentì davvero insultata. Non era
intenzionata a sopportare oltre le offese di quello stupido essere.
Saltò in piedi, la fronte corrugata dalla rabbia, le mani
sul tavolo. «Pretendo di parlare
col tuo re. Tu non sei un re, non hai alcun diritto di parlare in
questa maniera con tuoi superiori!» Man mano che parlava,
Alexya sollevò il volume della voce. Tarus
dimostrò apertamente la sua approvazione, sorridendo ed
annuendo, mentre Adhurna spalancava la bocca, senza parole per
l'orrore. Wirda afferrò il braccio della giovane regina,
pronto a proteggerla da un possibile attacco del portavoce divino.
Ludovik e Mentius la guardarono esterrefatti, poiché non si
sarebbero mai aspettati che quella ragazza osasse tanto. Nicholas
poggiò la schiena contro lo schienale della poltrona, pronto
ad assistere allo spettacolo. Eoforbio
tremò di rabbia. Quell'umana... Era andata troppo oltre! E
vedeva chiaramente che aveva l'appoggio dell'Infero, con
quell'espressione così trionfante sul suo viso di marmo. Si
stavano coalizzando contro il suo divino padrone, erano esseri senza
speranza, tutti! Li avrebbero spazzati via, dal primo all'ultimo! I
suoi pensieri iracondi si interruppero all'improvviso. Poi
sentì una presenza nella sua mente, calda e viscida, e
scivolò nell'incoscienza. Il corpo del portavoce
divino crollò sul tavolo e tutti intuirono cosa stesse per
accadere. Nicholas ghignò, mentre i capelli corvini gli
gettavano un'ombra sinistra sul volto perfetto.
Disteso sul triclinio,
Al ascoltava la discussione che attraverso Eoforbio veniva trasmessa
nella sua testa. Quei barbari stavano esagerando e Nephas con loro.
Come osavano opporsi alla sua divina autorità? Fato lo aveva
creato per governare il Mondo Profano e quella feccia aveva ancora da
ridire! I piani del supremo erano chiari e gli altri Popoli erano
troppo accecati da Nephas e le sue menzogne per vedere la
verità. Quei traditori stanno lordando
la mia terra, eletto!, sembrava gridargli Fato dalla sua
dimora, infuriato. Aveva ragione, sì aveva ragione. Li punirò, o supremo,
gli rispose Al con devozione, vedranno
la nostra divina potenza e comprenderanno che voi siete con noi. Il Re delle
Divinità aprì gli occhi di ossidiana e la furia
era iniettata in essi. Tutti cercavano di fermarlo, erano
così idioti da non vedere che lui aveva ragione, non quel
lurido Nephas! Doveva illuminarli, piegarli al suo volere e punirli per
quella serie infinita di errori che commettevano da millenni. Al
balzò giù dal lettino e si avviò verso
un tavolino pieno di ciondoli recanti il simbolo del suo Popolo.
Cercò quello di Eoforbio e lo strinse nella sua mano, le cui
unghie erano nere e lucide. «Myns-o-lahat, thi hopke-nih,
Eoforbio!» recitò solenne Al, abbassando le
palpebre e concentrandosi sull'oggetto che aveva in pugno. (1) La sua coscienza si
ritrovò in un luogo scuro e scomodo, senza alcun punto di
riferimento. Estese la sua essenza e sentì i muscoli reagire
ai suoi comandi. Lentamente, fece raddrizzare la schiena del suo
ospite, si mosse mentre le articolazioni scricchiolavano. La mente del
suo portavoce ormai era in suo potere. Avrebbe reso giustizia a Fato,
avrebbe portato avanti la sua missione. Le immonde creature avrebbero
ricevuto quel che spettava loro dopo tanta tracotanza.
Anche se non aveva una
goccia di potere magico, Alexya percepì con chiarezza la
grande quantità di energia che si stava concentrando in
Eoforbio. Di sicuro, persino gli altri sovrani umani se n'erano
accorti. Wirda le lanciò uno sguardo allarmato e la
invitò a tornare seduta. Nicholas
piegò gli angoli della bocca in un sorrisetto divertito.
L'umana era riuscita a far scomodare Al, che donna pericolosa. Non era
da tutti riuscire in tale impresa. Uscirne indenni era un altro
discorso, ovviamente. Quando Eoforbio si
risollevò, i suoi bulbi oculari erano completamente neri ed
il tatuaggio sulla fronte sembrava ardere, l'inchiostro era lucido e
gelatinoso, quasi fosse risalito sulla superficie della pelle. I
sovrani umani lo guardarono sorpresi, poiché mai era
capitato loro di vedere il portavoce divino posseduto dal suo signore.
Wirda scrutava con cautela e diffidenza il dio assiso al suo fianco. «Uhd eske, jot-ley?»
sibilò la bocca di Eoforbio, con una voce composta da quella
del dio ed una calda ed avvolgente che non gli apparteneva. (2) Alexya
sgranò gli occhi. Dunque Al era lì, almeno con la
mente. E parlava la Maholhan. Conosceva quella lingua, dopotutto era la
parlata da cui derivavano i vari dialetti del Mondo Profano. E serviva
anche per usare la magia. Dove
sei, stupido essere umano?, tradusse mentalmente la regina
e si sentì subito infastidita dal tono. Che modi erano
quelli? Al era un sovrano come tutti loro, eppure si sentiva al di
sopra degli altri re tanto da parlare in un altro idioma, ignorando
quello usato per la diplomazia, e da rivolgersi ai suoi pari con
epiteti non molto rispettosi. «Non vi
è nessuno “stupido essere umano” qui,
divino, ma solo vostri simili. Non avete diritto alcuno di usare una
lingua diversa dalla nostra» rispose Alexya, cercando di
mantenere un tono calmo e basso. Nicholas
inarcò un sopracciglio. «Al, gli umani sono soliti
dire “parla come mangi”» lo
stuzzicò, rivolgendogli una rapida occhiata, fredda e
altezzosa. «Nephas,
codesta immonda favella et la corruzione che in ogni dove spargesti
esmagheremo» fu la risposta furiosa di Al, nel suo modo
arcaico di parlare. I presenti rimasero
molto perplessi nel sentire quel nome riferito a Nicholas. Nephas era
morto da quasi tre millenni, tuttavia il Re delle Divinità
aveva chiamato in quel modo l'attuale sovrano degli Inferi. Forse le
voci sulla sua pazzia non erano poi tanto infondate. Dal suo canto,
Nicholas era abituato alla parlata di Al e non faceva nemmeno caso a
quel nome. Almeno, di solito, era così. Quel giorno,
però, sentì il lato di sé incatenato
nel fondo della sua mente agitarsi, più potente e ribelle
che mai. No, non lo avrebbe liberato, non dopo tutti quegli anni di
pace che si era guadagnato rinchiudendolo. Creò un'altra
gabbia di magia attorno al suo prigioniero, per non avvertire
più, con tanta chiarezza, quella presenza odiosa. «Sì,
Al, hai ragione» acconsentì l'Infero, con
strafottenza. Alexya decise che era
giunto il momento adatto a parlare, evitando che il battibecco si
protraesse all'infinito. «Ho chiesto la vostra presenza qui,
divino, perché ascoltiate la mia idea come farà
anche Lord Nicholas». Il dio non parve
prestare ascolto alle sue parole, mentre Nicholas notò che
lei aveva usato il titolo che tutti gli conferivano senza che lui ne
avesse mai dato il permesso. L'utilizzo del “Lord”
era partito dalla sua corte, dove indicava il principe ereditario, si
era diffuso in tutta la Terra dei Cinque Popoli e continuava ad essere
usato nel riferirsi a lui, sebbene lui fosse già re. «Parlate,
milady» le intimò Nicholas, con un cenno della
mano ed un'espressione trionfante sul volto. Voleva che Al capisse che
lui aveva, ancora una volta, la situazione in pugno e che non si faceva
cogliere di sorpresa da nulla. Era un modo semplice per ribadirgli
quanto fosse superiore persino lontano dal campo di battaglia. Anche se
il dio non avrebbe mai ammesso la sconfitta, un giorno avrebbe ceduto,
inevitabilmente. Così era scritto ed Al ricordava bene quale
fosse il suo destino, benché non volesse ammetterlo e fosse
sempre più pazzo per questo. Alexya non si sentiva
tranquilla. Se Nicholas la stava spingendo ad agire, sapeva d'istinto
che ci doveva essere un tranello. Non voleva diventare un burattino
dell'Infero, ma non poteva neppure tirarsi indietro a quel punto.
Guardò Wirda, alla ricerca di appoggio, poi si
levò in piedi, col mento appena sollevato, fiera e
coraggiosa. «La Guerra
Millenaria si protrae da secoli e secoli, senza mai giungere a
conclusione. Le Divinità e gli Inferi non riescono a trovare
un accordo e questo impedisce la fine degli scontri. Ebbene, un mezzo
per terminare la guerra esiste, ma non lo possiede nessuno dei due
Popoli». La ragazza si interruppe. Quel discorso non era
totalmente suo, anzi non lo era affatto. Lei avrebbe parlato in
un'altra maniera, parole del genere erano più adatte a
qualcuno che viveva la Guerra Millenaria, non ad un'umana che la
conosceva per vie indirette. Sentì la presenza gelida di
Nicholas nella sua mente e la rabbia le montò dentro,
inarrestabile. Aveva ragione, lui voleva usarla come un burattino. Mi ringrazierete dopo,
le sussurrò crudele e suadente Nicholas, iniziando a
ritrarre la Voce. Lui sapeva cosa volevano sentirsi dire gli altri
sovrani e le lasciò informazioni a brandelli, senza che lei
se ne accorgesse. Non ne ho bisogno!,
ringhiò Alexya, dibattendosi come una belva in gabbia. Non
comprendeva perché il sovrano fosse tanto interessato alla
sua idea, ma la sensazione che le lasciava quell'innaturale
interessamento era sgradevole. Lui era coinvolto nella guerra, che
motivo aveva di trovarsi un altro avversario con cui combattere? La
stava prendendo in giro? Calmatevi, le
intimò con tono amabile l'Infero e la lasciò sola
come un'improvvisa folata di vento gelido. Di nuovo padrona della
sua mente, Alexya riprese il discorso, dopo aver lasciato il tempo
necessario agli altri sovrani di comprendere le sue parole,
cioè quelle di Nicholas. Quella consapevolezza la turbava.
Si riscosse, non doveva dar troppo peso agli scherzi di quella
creatura, ora il suo dovere era quello di concludere quel che aveva
iniziato. «Tutto
ciò di cui c'è bisogno è un esercito
neutrale, non partecipe all'odio che divide i due Popoli,
affinché intervenga nella Guerra Millenaria per chiuderla
con la sua vittoria. In questo modo, né Divinità
né Inferi saranno sottomessi o distrutti. Inoltre, i nostri
rispettivi Popoli, sebbene non siano direttamente coinvolti, potranno
ritrovare la pace perduta a causa di questo conflitto che si fa sentire
in ogni regno e che è stato la causa della nascita del
Consiglio degli Otto Sovrani». Le parole le vennero fuori
spontanee ed Alexya si sentì soddisfatta di se stessa. Senza
l'aiuto di Nicholas era riuscita a rendere la sua idea interessante. Sì,
perché lei vedeva le espressioni degli altri re e si era
accorta che il suo discorso aveva trovato terreno fertile in loro.
Lanciò uno sguardo trionfante all'Infero. Lui, invece della
sorpresa, le palesò un perverso divertimento che la regina
non comprese. «Jot-ley, come
osasti! Codesta follia tua non condurrà te in parte alcuna,
sol a la distruzione!» reagì Al, evocando una gran
quantità di potere per colpire la Regina d'Ovest. (3) «Al» lo
chiamò Nicholas, con un tono gelido che non ammetteva
repliche. Persino il Re delle Divinità dovette cedere alla
potenza della sua voce, soprattutto dopo esserne stato colpito come da
una spada di ghiaccio. «Sei un codardo, se provi a colpire un
tuo nemico battendoti ad armi impari», lo accusò
l'Infero. Sapeva quanto Al odiasse sentirsi dare del vigliacco. Era
così fuori di testa da farsi scrupoli di coscienza davanti
agli altri, quando poi inventava qualsiasi tranello per distruggere gli
Inferi senza preoccuparsi dell'onore ed altre sciocchezze simili. Era
incoerente e non se ne rendeva neppure conto. E Nicholas usava sempre
la sua pazzia per batterlo. Poteva essere pure una delle creature
più potenti del Mondo Profano, un membro della Triade
Profana, ma senza lucidità mentale si riduceva ad una banale
Divinità, anche se decisamente imprevedibile. Il corpo di Eoforbio
fremette per la rabbia di Al. Il potere che aveva evocato,
però, era svanito del tutto. L'attacco di Nicholas era
andato a segno, nonostante il dio cercasse di non darlo a vedere,
«Drope thi
phale-nih ohndrarion, Nephas». (4) «Ay, drope dhay, jot»
gli rispose Nicholas, impassibile. Usò di proposito la
Maholhan ed Al parve notarlo con un certo fastidio. L'Infero non era
inferiore a nessuno e non faceva altro che sbattergli questa irritante
realtà in faccia, tutte le volte che ne aveva
l'opportunità. (5) Il dio stava per dire
altro, ma Alexya gli impedì di prolungare la discussione,
interrogando gli altri sovrani: «Allora? Il divino Al ha dato
la sua risposta». «Poni
persino questa domanda, umana» la schernì Adhurna.
«Mi sembra ovvio il rifiuto di noi tutti. È
un'idea stupida ed irrispettosa. Non risolverà nulla. Come
può una ragazzina umana, appena venuta al mondo, ignorare
come vanno queste cose? La vittoria del divino è una
certezza, il tuo ipotetico esercito solo una fantasticheria da mocciosi
vanagloriosi». Alexya
incassò il colpo con una dignità ed una calma che
non sapeva di avere. Non abbassò lo sguardo umiliata, ma
rimase in piedi, con gli occhi verdi fissi sul viso di Adhurna mentre
terminava di sputare veleno come una vipera. Ma, dopotutto, nelle sue
vene scorreva il sangue degli Uomini del Nord, i più
orgogliosi di quel Popolo. Lo sproloquio di una Lucente servizievole
non avrebbe avuto su di lei lo stesso effetto di una delle frecciate di
Nicholas, perché lui mirava e colpiva i punti deboli ed a
quello non c'era rimedio, neppure l'orgoglio dell'Ovest poteva far
qualcosa contro quegli attacchi. Un movimento d'aria al
suo fianco e la regina vide Wirda in piedi, il volto liscio e spigoloso
trasformato in una maschera di fredda e saggia determinazione.
Ricordava uno dei sovrani elfici dell'epica, in quel momento. «Io, invece,
trovo l'idea interessante» obiettò l'Elfo, con
voce ferma ed imperiosa, rivolto agli altri re seduti attorno al
tavolo. Fissò gli occhi turchesi, brillanti come gemme
preziose, in quelli verdi della ragazza. «Vostra Grazia,
potete contare su di me». Un freddo ghigno
comparve sul viso di Nicholas, guardando Alexya colma di gratitudine
verso Wirda. Il Re degli Elfi era una persona rispettata da chiunque
con un po' di senno. Non sarebbe stato difficile conquistare gli altri
re della Terra dei Cinque Popoli con simile alleato. «Anch'io
sarò al vostro fianco, regina Alexya, e con me il Regno
d'Est» annunciò Ludovik, alzandosi a sua volta. Tarus lo
seguì e, con un profondo inchino, annunciò la sua
decisione: «Avete tutto il mio appoggio, milady». Gli sguardi di tutti
si concentrarono su Mentius, l'unico seduto tra coloro che non erano
direttamente coinvolti nella Guerra Millenaria. Nicholas sapeva cosa
stava pensando il sovrano del Sud. Gli eserciti Inferi passavano dai
suoi territori per raggiungere i Campi di Sangue e non voleva che, se
avesse aiutato Alexya, Nicholas lo danneggiasse in qualche modo.
L'alleanza con le Terre d'Ombra aveva sempre impedito al Regno del Sud
di essere saccheggiato e conquistato dagli Inferi e Mentius non era
tanto convinto di mandare alle ortiche la salvezza del suo regno per
l'idea di una ragazzina. Tarus non avrebbe avuto problemi del genere,
era Vraele il dio della Guerra il generale e Manipolatore dei Myurohon
e tendenzialmente questi non amava sprecare energie. Il Re degli Inferi
usò la Voce per costringere Mentius ad accordare il suo
aiuto ad Alexya. Il re umano si mosse e parlò senza
rendersene conto e, quando l'Infero si ritirò dalla sua
mente, si accorse con orrore di quel che aveva fatto, senza capire
subito che era stato Nicholas l'artefice di quell'atto. Fu sul punto di
tirarsi indietro, ma si fermò prima di rendere vano il
lavoro dell'altro sovrano. Il viso di Eoforbio si
stava deformando sempre più, mentre cresceva l'ira di Al.
Adhurna si accorse dell'aura poco amichevole del dio e si
affrettò a ribadirgli la sua posizione, per ricordargli che
non era solo nella sua lotta per la verità. Lei condivideva
gli ideali del Re delle Divinità, avrebbe condiviso
qualsiasi cosa provenisse da Al, avrebbe fatto qualsiasi cosa le avesse
ordinato il dio. «Divino, i
Lucenti sono e saranno per sempre al vostro fianco! Annientate questi
stolti che stanno attentando alla vostra supremazia!». Al non parve udire le
parole di Adhurna. Tornò a concentrare tutta la magia che
riusciva a trovare nel corpo del suo portavoce e nell'ambiente. Poi
esplose, distruttivo e furioso. Il tavolo del Consiglio andò
in mille pezzi quando l'onda di potere lo investì. Wirda si
affrettò a creare una barriera che proteggesse gli Uomini,
per nulla dotati di magia, e se stesso. Alexya assistette all'attacco
con un'espressione sconcertata, mentre gli altri tre uomini guardavano
preoccupati la barriera, sperando che reggesse alla furia di Al. Nicholas, in fondo
alla sala, preparò il suo attacco. Quell'idiota di Al stava
dando in escandescenze. Era davvero una scenata degna di un moccioso.
Lo avrebbe fatto smettere e gli avrebbe danneggiato Eoforbio. Non si
sarebbe accontentato di difendersi da quel pazzo, doveva rompergli
anche il giocattolo. Libero dall'ingombro
del tavolo, l'Infero raggiunse Eoforbio alla velocità della
luce, la mano destra aperta e le dita strette, più simili ad
una punta di lancia che ad un arto. Un gesto rapido e preciso ed il
braccio di Nicholas trapassò lo stomaco del portavoce
divino, facendogli sputare un fiotto di sangue scuro. In quello stesso
istante, con un urlo disumano, Al abbandonò il corpo di
Eoforbio, che si afflosciò a terra non appena il re Infero
ritirò il suo arto insanguinato dal corpo dell'altro. Wirda fece dissolvere
la barriera, mentre Adhurna si gettava in ginocchio affianco al dio
ferito e svenuto, con un urlo isterico che riempì la sala.
Alexya si avvicinò a Nicholas, per vedere da vicino il
portavoce. Il sangue formava una pozza cremisi ai piedi di Eoforbio e
dell'Infero. Un lembo del mantello rosso si era imbevuto nel liquido
che macchiava il pavimento di marmo e strisciando sul pavimento
lasciava una scia scarlatta. Era stata colta impreparata da tutta
quella violenza. L'attacco di Al era mirato solo ad impressionare, a
far un gran baccano e null'altro. Quello di Nicholas, invece, era stato
dettato da ferocia e sadismo, non c'erano altre spiegazioni plausibili,
anche se quella le metteva i brividi. «Al se
n'è andato?» chiese Alexya, lasciando molto
perplesso Tarus che si era accostato nel frattempo. Che domanda era
quella? Non aveva chiesto, spaventata, se Eoforbio fosse morto, non
aveva incolpato di troppa crudeltà Nicholas, neppure molte
altre cose più “normali”. L'Infero
sollevò il braccio insanguinato, arrotolando la manica zuppa
di sangue fino al gomito, indeciso se strapparla o meno. Poi rivolse i
suoi occhi d'argento alla regina al suo fianco. Gli piacque come lei
aveva reagito. Niente isterismi o idiozie simili. Voleva sapere quali
esperienze l'avessero segnata in quel modo. «Certo. Non
sopporta il dolore, la
sua divina Altezza» rispose con naturalezza e
sarcasmo Nicholas. Sfiorò di proposito il viso di Alexya con
la mano destra, lasciandole sulla pelle una linea di sangue.
«Ora che avete la possibilità di venire a
divertirvi con noi durante la bella stagione, sappiate che non avrete
la possibilità di lottare con lui». Alexya strinse gli
occhi, con un'espressione di sfida. «Cos'è, solo
voi potete lottare contro Al?» azzardò la ragazza,
portando le mani sui fianchi. Nicholas la
guardò inespressivo. «Oh no»
iniziò. Fece per chinarsi e leccar via il sangue dalla
guancia di Alexya, per godersi l'imbarazzo certo dell'umana, ma Wirda
gli impedì di portare a termine la sua opera frapponendosi
tra lui e la regina col braccio. L'Infero fece finta di nulla, mentre
assestava un potente colpo con la Voce alla barriera mentale dell'Elfo.
La protezione si distrusse, però Nicholas
lasciò perdere i pensieri di Wirda, non gli
interessavano minimamente. Il suo attacco era mirato solo a ricordare
al sovrano il suo posto nel mondo. «Solo che Al
non scende in campo» concluse poi Nicholas, aggirando
l'ostacolo presentato dall'Elfo. Alexya si era accorta
che il re Infero aveva cercato di farle qualcosa, prima dell'intervento
di Wirda. Ringraziò l'uomo posandogli una mano sulla
schiena, ma seguì Nicholas che si allontanava. Aveva un
dubbio che solo lui poteva risolvere. «Perché
volevate a tutti i costi che la mia idea venisse approvata?»
domandò all'Infero, raggiungendolo a breve distanza dal
portale. Nicholas si
voltò verso Alexya, che notò subito la mano
destra pulita come se non avesse mai incontrato il sangue di Eoforbio.
L'Infero umettò con la lingua il pollice e pulì
la guancia della ragazza. La Regina d'Ovest rimase interdetta per il
gesto e notò gli artigli dall'aspetto decisamente
pericoloso, che adornavano le estremità della dita del
sovrano. «Non vedo la
necessità che voi ne sappiate il motivo» rispose
serafico Nicholas. Non le fu permesso di
protestare, perché il Re delle Terre d'Ombra
attraversò il portale e la lasciò nella sala del
Consiglio, sola con i suoi dubbi.
Wirda, ripresosi
dall'attacco mentale di Nicholas, cercò Alexya con lo
sguardo. La vide ferma davanti al portale delle Terre d'Ombra e si
tranquillizzò. Almeno non aveva seguito l'Infero. Fu
distratto dai suoi pensieri da Adhurna che gridava contro i re umani
che guardavano Eoforbio senza muovere un dito. «Blasfemi! Che Fato
vi maledica, voi e la vostra stirpe di lurida feccia!»
strillò la Lucente, una mano premuta sul ventre del dio,
mentre cercava di curare la ferita. «Quanto mi
fate ridere, monna Adhurna» replicò sprezzante
Tarus, incombendo minaccioso su di lei. Non gli risultava troppo
difficile, data la sua stazza. «Non siete altro che una
sporca mezzosangue che si illude di essere ad un passo dalla
divinità! Se nascesse un Popolo formato da tutti i
mezzosangue che gli dei spargono nel Mondo Profano, voi stupidi Lucenti
non sareste altro che una minoranza tra i semidei con sangue
umano». Ludovik
posò una mano sulla spalla di Tarus, cercando di calmarlo.
«Vi prego, milord, calmatevi o sarà sparso altro
sangue in questa sala» mormorò il giovane
dell'Est, con la voce pacata e soave. Mentius
guardò Eoforbio con una smorfia di terrore. Ora che aveva
visto con i suoi occhi Lord Nicholas all'azione, non si sentiva tanto
sicuro a collaborare con Alexya. Sarebbe andato al più
presto a fare una visita al Re degli Inferi, giusto per evitare
fraintendimenti nefasti. Alexya
tornò al gruppo di sovrani. «Monna Adhurna, se ci
fate la cortesia di portare via Eoforbio, ve ne saremmo davvero
grati» chiese con garbo la regina. Adhurna rivolse il
viso alla ragazza, seguendo il suono della sua voce. «La
cortesia non la farò a voi blasfemi, ma al divino Eoforbio,
allontanandomi da questa sala immonda» sibilò la
Lucente, afferrando il dio svenuto ed alzandosi in piedi. «E
voi, maledetta umana, non avrete pace finché questa vostra
stupida idea non arriverà alla sua fine. Non vincerete la
Guerra Millenaria, un'accozzaglia di Popoli non può nulla
contro il divino potere delle Divinità!» Ho cercato di essere ragionevole,
si giustificò Alexya, mentre la mano scattava alla daga
nascosta nelle pieghe della gonna. Se
l'è cercata, continuò. Ma quelle che
stavano cercando erano solo le spiegazioni da dare ad Helena, appena lo
avesse saputo. Lei era sempre convinta delle sue azioni, il problema
era far capire agli altri le sue ragioni, sempre più che
legittime. Poco prima che puntasse la lama alla gola di Adhurna, Wirda
le afferrò il polso con una mano e la tenne ferma contro di
sé con l'altro braccio. Alexya
sollevò lo sguardo verso l'Elfo, che fulminava Adhurna con
gli occhi turchesi, diventati duri e colmi di rimprovero. «Se avete
finito di avvelenare l'aria, monna Adhurna, vi pregherei per piacere di
andarvene. Una parola in più e non sarò
più tanto indulgente» intimò fermamente
Wirda. La Lucente sostenne lo
sguardo del re a lungo, in una silenziosa lotta di volontà.
Alla fine, Adhurna si voltò e trascinò Eoforbio
verso il portale dei Giardini delle Divinità, che poteva
attraversare solo grazie al tatuaggio sulla sua fronte. Non appena il
dio sparì nel varco magico, lei si diresse verso il proprio
e lasciò la sala del Consiglio. Wirda
liberò Alexya dalla sua stretta e la regina
rinfoderò la daga, sotto lo sguardo attento di Ludovik.
C'era una ragazza pericolosa dietro la facciata cortese e nobile.
Questa sua caratteristica sembrava adatta alla Guerra Millenaria,
secondo il Re d'Est, soprattutto dopo aver visto Al e Nicholas
all'opera. Sperò di aver visto giusto, perché
un'idea così coraggiosa non andava sprecata. «Milady,
avete qualcosa da dire di più preciso riguardo l'esercito
che volete creare?» domandò Mentius, facendosi
avanti. Alexya
annuì. «Il nome, per prima cosa: Esercito della
Fenice. Sapete cosa rappresenta quest'animale?». I quattro re
guardarono la ragazza, curiosi e perplessi. «Poiché
vive cent'anni, per poi morire e risorgere dalle proprie ceneri, si
è soliti considerarla simbolo di una nuova era»
rispose Wirda, ottenendo un cenno di assenso dalla ragazza. «Ma
è anche una Divinità, una delle Bestie Sacre che
governano il Maholeyrion, nelle Terre della Magia»
precisò Ludovik. Alexya
sventolò la mano destra in aria, facendogli intendere che
quell'informazione non c'entrava nulla. Incuriosito, Ludovik attese che
la regina proseguisse. «Ho bisogno
di un tributo in soldati da ognuno di voi. Per esempio, gli Elfi sono
rinomati arcieri, Wirda: mi farebbero molto comodo alcuni di loro;
mentre i cavalieri dell'Est sono i migliori di questa Terra e
così via. L'esercito di ogni regno primeggia in qualcosa ed
io ho bisogno di professionisti, non di contadini cui è
stata messa in mano una spada senza conoscerne l'utilizzo»
spiegò Alexya, ormai completamente calata nel ruolo di
generale. Aveva assistito a così tante riunioni di guerra
col padre, che era quasi stata una sofferenza passare quegli anni senza
un vero esercito cui dare ordini. Non era un sentimento molto sensato,
ma quasi mai cose del genere lo erano. «Però
noi Uomini non siamo avvezzi al tipo di guerra che conducono
Divinità ed Inferi. Basti vedere in che stato sono i Campi
di Sangue per comprendere di che portata sono le loro
battaglie» obiettò Tarus, con le braccia
incrociate sul petto ed il rubino che baluginava dietro la maschera
bianca. «Le Regine
d'Ovest hanno sangue Maho nelle loro vene, sono le uniche oltre agli
Elfi a conoscere la magia, nell'Esercito della Fenice» fu la
spiegazione di Mentius, che aveva appena notato questo particolare,
mentre rifletteva in disparte. Alexya
annuì: quel che aveva detto il Re del Sud, in linea
generale, era vero. Anathor, il primo Re d'Ovest, aveva sposato una
Maholey, una maga proveniente dalle Terre della Magia, di nome Shilya e
quindi le loro gemelle, le capostipiti delle due famiglie reali,
Lahacilla e Thenesha avevano ereditato la magia dalla madre. Purtroppo,
dopo generazioni di grandi maghe, era nata lei, senza potere alcuno.
Doveva trovare un modo per avere quel potere che le mancava,
perché era ciò di cui aveva bisogno nella Guerra
Millenaria. Wirda
lanciò un'occhiata ad Alexya, per accertarsi dello stato in
cui si trovava. Ricordava ancora le preoccupazioni di Garstand, che
temeva per il futuro della figlia senza potere magico, mentre i suoi
figli maschi, i maggiori, morivano in guerra per assicurarle la pace
quando fosse salita al trono. Ho
paura che non riesca a superare la prova dell'anello, gli
aveva confidato Garstand, mentre assisteva dalla finestra dello studio
agli allenamenti di scherma della bambina con Johan. Ma ora che Alexya
era diventata una regina, superando l'ostacolo che tanto assillava il
padre, Wirda si domandava se davvero la ragazza non possedesse nemmeno
un briciolo di potere magico. «Appena
farò ritorno a palazzo, provvederò ad inviarvi
una parte delle truppe. Il resto ve lo invierò di seguito,
così in caso di problemi farò in modo di
risolverli, che ne dite?» fu la proposta di Tarus, che venne
approvata da Alexya e suggerita agli altri sovrani. «Vi
terrò aggiornati» promise la Regina d'Ovest, prima
di congedare i suoi nuovi alleati. Mentius
andò via di fretta, seguito da un Ludovik pensoso. Wirda
rimase ad attendere Alexya, che era stata bloccata da Tarus. «Milady, vi
avevo promesso che a fine seduta vi avrei salutata come si deve.
Ebbene, il momento è giunto» le ricordò
il Re del Nord, con un sorriso galante. Alexya stette al gioco
e gli porse la mano sinistra per il baciamano. «Posso sapere
con quale spirito nobile ho avuto l'onore di parlare?». Tarus
sfiorò con le labbra l'anello e ad Alexya tornò
in mente il comportamento del tatuaggio magico al tocco di Nicholas. Il
sovrano di fronte a lei si presentò come avrebbe dovuto fare
all'inizio della seduta del Consiglio e lei gli rispose, ma il suo
pensiero era altrove. Appena rimase sola con Wirda, si
aggrappò all'Elfo, in cerca di aiuto. «Perché
l'anello ha reagito a Nicholas?» chiese in un sussurro
Alexya, guardando incerta gli occhi turchese dell'uomo. Wirda rimase senza
parole, mentre ricordava sgomento i monologhi di Garstand riguardo
all'erede al trono: Alexya
non ha magia, vive durante la Guerra Millenaria, probabilmente
sarà sola sul trono sotto la minaccia degli Anziani...
cos'ha in serbo Fato per lei?
Giunto al Liocorno,
Mentius passò di corsa dalla sua stanza ed ordinò
ad una concubina di seguirlo, ben vestita e truccata. La donna fece
quanto richiesto, domandandosi se la sua sorte sarebbe stata quella
delle altre compagne dell'harem, che di tanto in tanto sparivano. Il Re del Sud
tornò nel cortile e si recò nell'ala Est
dell'albergo, mentre ripeteva tra sé e sé quel
che avrebbe detto di lì a poco. Non appena fu davanti alla
porta che stava cercando bussò e, dopo una lunga attesa,
Vaenihum gli aprì l'ingresso con aria annoiata. «Lord
Nicholas è presente? Vorrei parlare con la Sua
Maestà» chiese timoroso l'umano. L'Elfo si
scostò dalla soglia e gli fece cenno di entrare. La
concubina fu dietro al suo padrone e, una volta all'interno della
suite, si guardò intorno preoccupata. Si distrasse un minuto
di più, dimenticandosi di seguire Mentius che andava a
sedersi, dietro invito di Nicholas, su un divano. Si accorse di dov'era
finito il re solo quando sentì su di sé lo
sguardo attento di Vaenihum. La donna si affrettò a sedersi
ai piedi del sovrano, in attesa. Il Re degli Inferi era
seduto sulla poltrona, con addosso una camicia nera che non indossava
durante il Consiglio, essendosi accontentato di una semplice giacca
elegante senza nient'altro al di sotto. Ora l'indumento con la manica
impregnata del sangue di Eoforbio era gettata sul divano libero, senza
alcun motivo apparente. «Milord,
sono venuto a domandarvi se avete bisogno di truppe sudrione o ausili
di qualsiasi tipo...» cominciò Mentius,
stringendosi le maniche larghe del vestito. Nicholas lo
zittì con un cenno pigro, mentre buttava giù un
altro calice di vino rosso. Il re umano aspettò che l'Infero
parlasse, sudando freddo. Ma il silenzio continuava a riempire la
stanza, prendendo sempre più consistenza. Innervosito,
Mentius agguantò il braccio della concubina e la spinse
verso l'altro sovrano. «Ho portato
anche...» cercò di dire. «Non ho
bisogno di truppe, ora.
In compenso, ho un consiglio da darti» lo interruppe
Nicholas, porgendo alla serva presente nella stanza il bicchiere, col
tacito ordine di riempirlo. Quando fu fatto, riprese a parlare.
«So che dovete inviare alcune delle vostre migliori truppe
mercenarie alla Regina d'Ovest. Secondo me, gradirebbe molto la
presenza, nelle sue file, dei Dragoni». Poi, bevve lentamente
il vino, studiando la giovane concubina che Mentius aveva condotto con
sé. Il Re del Sud ci mise
del tempo per comprendere cosa intendesse Nicholas. L'esercito del suo
regno era formato non da volontari, ma da professionisti pagati. Vi
erano diverse truppe piuttosto famose, ma i Dragoni erano il meglio del
meglio. Non a caso avevano un capitano Infero, persino appartenente ad
un Clan delle Terre d'Ombra. «Avete
ragione, milord. Farò in modo di mettermi in contatto con
Daniel il prima possibile» rispose Mentius, in preda alla
frenesia senza capirne il motivo. Nicholas
annuì e mosse la Voce verso la mente dell'umano.
«Mandategli questo messaggio da parte mia: la fiammella
sopravviverà grazie alla collaborazione del grande fuoco con
il braciere» disse impregnando di magia le
ultime parole, che rimasero impresse nella memoria di Mentius. La vista
del re sudrione si appannò un attimo e lui
vacillò. Quando lo vide riprendersi, ne
approfittò per ricordargli un affare di poco prima.
«Dicevate di avermi portato qualcosa» gli fece
presente l'Infero, sapendo benissimo in cosa consistesse il suo dono. Mentius si riscosse e
afferrò di nuovo il braccio della concubina, indirizzandola
verso Nicholas. La donna mosse qualche passo insicuro e si
fermò davanti all'Infero, che la guardò
inespressivo. Non costava nulla a quell'uomo fargli dono dei membri
femminili del suo harem, perché non amava né
aveva mai amato le donne il Re del Sud e quelle che entravano nella sua
casa erano perlopiù doni dei nobili che accettava per
questioni diplomatiche. Erano praticamente inutili nel serraglio di
Mentius, ma il sovrano se ne serviva per rabbonire o conquistare
alleati. La concubina
osservò il suo nuovo padrone, con un misto di timore ed
attrazione incontrollabile. Quell'Infero, abbandonato mollemente sulla
poltrona, con la camicia nera sbottonata, le labbra bagnate di vino, i
lunghi e morbidi capelli neri che lo avvolgevano come un manto di
tenebra, la faceva vibrare fin nel profondo con un semplice sguardo di
gelo. Si inginocchiò davanti a lui, in un gesto spontaneo di
abbandono e di resa, aspettando con trepidazione di ricevere le sue
attenzioni. Nicholas
congedò Mentius frettolosamente e fece scivolare lo sguardo
lungo il corpo formoso ed appena velato del regalo del sudrione. Si
umettò le labbra, sentendo il desiderio crescere e diventare
reale. Allora lasciò il bicchiere di vino, non ancora
terminato, sul pavimento e fece un cenno alla donna.
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano: (1)
Myns-o-lahat, thi
hopke-nih, Eoforbio!: luce delle mente, apriti a noi,
Eoforbio! (formula magica) (2)
Uhd eske, jot-ley?:
dove sei, stupido (lett.: idiota) essere umano? (3)
Jot-ley:
stupido essere umano. (4)
Drope thi phale-nih
ohndrarion, Nephas: proprio tu ci parli di onore, Nephas. (5)
Ay, drope dhay, jot:
sì, proprio così, idiota.
Questa volta mi son
data alla pazza gioia con la lingua "straniera", eh eh, ma dopotutto
con un elemento come Al non si può sperare in un discorso
decente. XD Non ripeto
più la storia dei dubbi, altrimenti diventa seccante. Alla prossima!
Ecco qui un nuovo capitolo! C'è voluto un po' per
correggerlo (troppo poco tempo), spero di non essermi lasciata alle
spalle nessun errore di battitura...
Come sempre, un ringraziamento in anticipo a myki (spero
guarita XD) ed a Dark
Magician!! ^O^
.-.-.-.
V.
Gemma d'Autunno
Tornata nella sua suite al Liocorno, Alexya si abbandonò sul
divano con un sospiro e si affrettò a liberarsi dagli
stivali, che sembravano stritolarle i polpacci. Johan si tolse il
mantello e lo attaccò all'appendiabiti, per poi sedersi di
fianco alla regina.
«Allora, com'è andata?» le chiese il
capitano. Prima non aveva avuto il tempo di informarsi,
perché avevano fatto tutta la strada del ritorno assieme a
Wirda e la sua guardia personale, un'Elfa bionda e introversa, che non
aveva detto una parola ed aveva viaggiato in disparte.
«Sono un ammasso di comari litigiose, porca
miseria!» si lamentò Alexya, lanciando lontano da
sé lo stivale appena sfilato. Ruotò il piede
dolorante, mugugnando soddisfatta, poi passò all'altra
scarpa.
«Vostra cugina non ha mai detto nulla del genere»
le fece notare Johan, divertito.
«Lascia perdere quella, non è capace a formulare
pensieri negativi riguardo a nessuno. Se lo facesse chissà
che capiterebbe alla sua anima linda!» fu la risposta della
ragazza che stava lottando con i lacci, sempre più di
pessimo umore. Con uno strattone cercò di tirar via il filo
di cuoio, ma si ruppe. «Ma sono stivali di seconda mano,
queste schifezze?» gridò infuriata, quando si
ritrovò in mano un'estremità del laccio.
«Devi chiedere a Marihus, è lui che ti trova
questa roba chissà dove» replicò
bonario Johan, afferrando la gamba che Alexya aveva iniziato a pestare
per terra, in preda alla rabbia. Era nervosa, lo vedeva chiaramente, e
tra un po' avrebbe avuto un attacco isterico. Tanto valeva darle una
mano. Si portò sulle cosce la gamba della ragazza e
iniziò, con grande pazienza, a sfilare la corda dai fori di
passaggio.
Pian piano, Alexya si calmò ed il capitano ne
approfittò per farle altre domande. Non poteva accontentarsi
di quelle poche parole. E c'erano argomenti che lo interessavano
più del Consiglio in sé.
«E Lord Nicholas?»
La regina rimase in silenzio, con gli occhi sullo stivale che
cominciava a farle respirare la gamba. Non aveva voglia di parlare
dell'Infero, lei stessa non aveva le idee chiare a riguardo. Preferiva
riflettere da sola, prima. Meglio cambiare argomento, gettando un'esca
più gustosa del Re delle Terre d'Ombra.
«Sono riuscita a creare un esercito che lotti nella Guerra
Millenaria» disse, assorta nel movimento delle dita callose
del capitano sui lacci dello stivale.
Johan sollevò la testa di scatto, con gli occhi sgranati.
«Cosa?»
domandò incredulo. «Alexya, ma che
diamine...» cominciò e fu bloccato dalla mano
della ragazza premuta sulla sua bocca. Gli occhi verdi erano fissi nei
suoi e gli trasmettevano nient'altro che risolutezza.
«Non metterti pure tu. Tra un po' mi toccherà
sentire Helena e lei farà già abbastanza storie.
Accetta quel che ho fatto, ormai è tutto deciso. Non
è da te spendere parole in questi casi».
«No, non accetto un bel niente!»
protestò con forza Johan, afferrando con forza Alexya per le
spalle. «Ma ti rendi conto di cosa stai facendo? Ti sei
appena messa contro Inferi
e Divinità!
Non te la faranno passare liscia, quante difficoltà vuoi
passare per una guerra in cui non hai niente a che vedere? Vuoi
sacrificare la tua vita per cosa di preciso? La gloria,
Alexya?». Aveva utilizzato di proposito un tono
più colloquiale, perché in quel momento non stava
parlando con la Regina d'Ovest, ma con la sua allieva, la ragazzina che
aveva seguito da quando era stato ammesso da giovanissimo allo
Smeraldo. Non le avrebbe permesso di fare una mossa insensata come
quella: era umana e mortale, non sarebbe mai stata allo stesso livello
dei suoi avversari, non c'era modo perché ciò
fosse possibile.
«Al attacca frontalmente, non è un problema lui.
É Lord Nicholas a preoccuparmi»
confessò Alexya, guardando il capitano dritto negli occhi.
«Non hai capito niente della vita! I pazzi sono
imprevedibili, le persone troppo lucide e fredde sono la peggior
catastrofe che ti possa capitare. Ti studiano attentamente, trovano
tutti i tuoi punti deboli e con pochi colpi, precisi, letali, ti
annientano! Tu non hai idea di quel che Lor...»
«Perché tu
sì? Oggi non hai visto con che freddezza ha quasi ucciso
Eoforbio! È terribile, è incredibile,
è distruttivo!» lo interruppe inferocita la
ragazza, stringendogli la giacca con i pugni e strattonandolo a denti
stretti.
Johan squadrò la regina ad un soffio da lui e vide nel suo
sguardo non il terrore, ma l'attrazione per il pericolo. Conoscendola,
quello era un comportamento degno di lei. Il pericolo, quando lo
percepiva vicinissimo a lei, la metteva in uno stato di euforia che la
faceva finire nelle situazioni più complicate che potesse
trovare. E poi toccava sempre a lui salvarle la pelle.
«Eppure ha fatto di tutto perché la mia idea fosse
approvata dagli altri re» aggiunse Alexya, distogliendo lo
sguardo da quello del soldato, che rimase senza parole a
quell'affermazione. «Gli ho chiesto una spiegazione e si
è limitato a dirmi che non c'era la necessità che
lo sapessi. Non lo capisco... E questo mi preoccupa più di
qualsiasi altra cosa».
«E non lo devi capire. Qualsiasi cosa abbia in mente, vuole
usarti e basta» ribatté con veemenza Johan.
Helena, quando si recava a Sung'bar al posto di Alexya ancora troppo
giovane per quello, aveva sempre cercato di tenersi alla larga da
Nicholas, sebbene lui avesse provato ad avvicinarla come suo solito.
Era stata proprio la regina bionda a dirgli quelle parole, non solo a
lui, ma a chiunque la seguisse. Aveva sempre avuto cura di chi le stava
intorno. Però Alexya sembrava non esser stata informata
della pericolosità dell'Infero. Johan aveva intuito il
motivo di quell'omissione. E vedendo la sovreccitazione della ragazza,
ne aveva avuto la conferma: Helena non aveva dimenticato nulla, aveva
solo incaricato Marihus di stare in guardia, nel modo più
discreto possibile. Però il maggiordomo aveva fallito e con
lui il tentativo della regina di proteggere la cugina. L'unico
vincitore di quella partita era Nicholas. Il che metteva i brividi a
Johan. Doveva fare un ultimo tentativo per aiutare Alexya, o sarebbe
stato un fallito.
«Non m'interessa! Se lui è necessario per il
successo dell'Esercito della Fenice, allora lo ascolterò. Voglio che la mia
idea abbia successo, percorrerei qualsiasi strada per
riuscirci!» insistette Alexya, fissando determinata il
soldato e stringendo con più forza la sua giacca verde scuro.
Johan si sentì perduto. Troppo tardi. Dannatamente troppo
tardi. Il veleno era entrato in circolo, aveva perso Alexya. Ormai
quella ragazza si era messa in mente un'idea così malsana e
sarebbe stato impossibile farla desistere. L'avrebbero dovuta fermare
prima. Si maledisse per il suo tempismo sbagliato, per la sua poca
attenzione, per tante cose, pur sapendo che era inutile prendersela ora
che il danno era fatto. Però gli rimaneva un dubbio.
«Qualcuno sapeva cosa avevi in mente?» le
domandò.
«Helena. Gliel'ho detto prima di partire e non è
riuscita a dir nulla per lo stupore» rispose Alexya e
scoppiò a ridere, al ricordo dell'espressione sconvolta
dipintasi sul volto la cugina. L'aveva cacciata dalle sue stanze prima
che potesse riprendersi, così si era tolta un peso d'avanti
e nessuno avrebbe potuto dire che lei aveva tenuto per sé le
sue idee.
«Sai che ti dico, Johan? Ora vado a parlare con quella piaga
e vediamo cosa dice» ridacchiò la ragazza,
scivolando giù dal divano e liberandosi dalla stretta del
capitano. Così facendo, gli impedì di farle altre
domande. Voleva riflettere in solitudine, prima di confrontarsi con gli
altri. E soprattutto con Helena.
Borgo Smeraldo brulicava di vita e Zephiro si aggirava per le sue
stradine di terra battuta, tra le botteghe piene di gente che
chiacchierava, faceva spesa o semplicemente passeggiava all'aria
aperta. Il cielo era limpido e tirava un vento fresco da Nord.
Ciò che impensieriva il signore dei Venti era la grossa e
scura coltre di nubi che avanzava da quella direzione. Di sicuro i
Giardini delle Divinità erano tormentati dalla pioggia, come
capitava spesso in autunno. Ma non capiva perché i nembi
giungessero fino ai Monti di Luce, barriera naturale che fermava le
perturbazioni provenienti da Nord. Avrebbe potuto spingere via le
nuvole, ma vide che i campi avevano bisogno di quell'acqua e
lasciò perdere. Non avrebbe creato problemi agli Uomini solo
per un suo capriccio da meteoropatico.
Il dio continuò a vagare per la capitale d'Ovest, curiosando
qua e là, salutando i commercianti che rimanevano sempre
sbigottiti. Quando iniziò a diffondersi la notizia che il
divino Zephiro era in città, lui iniziò ad
imbattersi in persone che volevano la sua benedizione. Così,
seccato dai suoi sgraditi compiti di Divinità, si
levò la maglia che indossava, per non strapparla, e fece
materializzare le sue ali. Stiracchiò gli arti ricoperti di
piume celesti, creando un vuoto attorno a sé.
Salutò garbatamente tutta la gente, ma si
affrettò a levarsi in volo e confondersi nel cielo azzurro.
Zephiro girò attorno allo Smeraldo, come un'aquila, cercando
un ingresso comodo per le sue ali, però alla fine si
rassegnò ed atterrò in uno dei cortili interni
che aveva il tetto scoperto per far entrare il calore solare. Appena
pose i piedi a terra, si sollevò un'onda di sabbia che
investì Sarah, una dei messaggeri reali, intenta a tirare
con l'arco. La ragazza prese a tossire rena ed a liberarsi dai granelli
che le avevano riempito vestiti e capelli. Il dio ritrasse le ali nei
tatuaggi sulle scapole, indossò di nuovo la maglia e corse
incontro alla messaggera.
«Perdonami, avrei dovuto fare più
attenzione» si scusò Zephiro, posandole una mano
sulle spalle.
«No, non è niente, divino...» Due colpi
di tosse, secchi e sofferti. «Avevo notato la vostra
presenza, ma non mi sono scostata, è colpa mia».
Il signore dei Venti capì al volo che quella ragazza non lo
avrebbe mai accusato, per il rispetto che gli portava, quindi decise di
dare una mano e sdebitarsi. Aprì la bocca ed
inspirò una gran quantità d'aria, riempiendo i
polmoni e gonfiando il torace. Poi la liberò sotto forma di
vento tiepido e delicato. La sabbia volò via da Sarah, che
tornò allo stato precedente, smettendo anche di tossire.
«Grazie, divino, ma non dovevate scomodarvi...» fu
il ringraziamento della ragazza, imbarazzata e timorosa.
«Se continui a fare cerimonie, ti sommergo di
sabbia» la minacciò Zephiro, con tono scherzoso.
Sarah decise che era più saggio tacere ed annuì
per indicare che aveva ricevuto il messaggio. Riprese i suoi
allenamenti ed il dio andò nel porticato, entrando poi nello
Smeraldo. Girovagò per il palazzo, salutando tutti i servi
che incontrava. Gli passò davanti un ragazzino con una cesta
di frutta e Zephiro allungò la mano per afferrare una mela
rossa che gli era balzata all'occhio.
«Grazie, piccolo» disse il signore dei Venti,
quando il bambino si bloccò interdetto dal suo gesto.
Zephiro proseguì, addentando la mela mentre guardava gli
arazzi ed i dipinti che ornavano i corridoi dello Smeraldo. Giunse fino
alla sala dei troni e decise di far visita alla sua sacerdotessa.
Sapeva che era rintanata nello studio, percepiva la sua presenza e la
sua ansia. Lungo il cammino, si imbatté in una gatta dal
pelo grigio perla, che avanzava con passo elegante e testa alta,
diretta nella sua stessa direzione.
Un antico spirito, si sorprese Zephiro, quando
incontrò gli intelligenti occhi dorati dell'animale. Cosa ci fa un Infero a palazzo?,
fu la domanda che gli sorse spontanea. Ma probabilmente le regine non
erano nemmeno a conoscenza della vera identità della gatta.
Meglio fingere ignoranza. Bussò ad una porta, giusto per
annunciarsi, poi entrò preceduto dal felino, intrufolatosi
nella stanza non appena si aprì uno spiraglio nell'uscio.
«Cenere!» la riprese Helena, quando la gatta
balzò sulla sua scrivania.
Cenere si distese sul tavolo e la regina non le prestò
più attenzione, perché fu distratta dal dio dei
Venti fermo sulla soglia, la mela davanti alla bocca, mangiata a
metà.
«Divino Zephiro» Helena sobbalzò e si
affrettò a ricomposi, anche se era impeccabile.
Il dio assunse un'espressione accondiscendente. Ah, questa donna...,
sospirò tra sé, con una punta di divertimento.
Qualsiasi cosa la regina bionda avesse fatto, a Zephiro non sarebbe
importato. Continuava a vederla come una creatura diversa dalle altre,
l'unica che fosse riuscita a donargli la libertà e che non
era gonfiata di orgoglio per questo.
«Non mi aspettavo una vostra visita...» aggiunse
lei.
«Dammi del tu, Helena» le suggerì con
tono dolce il dio, accostandosi alla scrivania vuota. Prese la poltrona
e la trascinò verso il tavolo cui era seduta Helena,
sorpresa per tutta la confidenza che pretendeva il signore dei Venti.
Diede ancora un morso alla mela.
«Dicevo che... non mi aspettavo una tua visita»
ripeté la donna, cercando di ordinare il disordine
inesistente della sua scrivania.
«Ho sentito, tranquilla» le fece notare il dio,
posandole una mano sul braccio.
Helena sospirò e si fermò. Stava esagerando, era
nervosissima però. Quello era il giorno del Consiglio degli
Otto Sovrani e la notte, ancora una volta, non aveva chiuso occhio. Le
ore si trascinavano lente e lei fremeva di impazienza in attesa di
notizie positive dalla cugina. Sperava per il suo proprio bene che
fossero tali, altrimenti le sarebbe venuto un colpo, come le augurava
spesso Alexya.
«E calma anche per tua cugina. In qualsiasi situazione si
è cacciata, c'è sempre una via
d'uscita» continuò Zephiro, con un sorriso
caloroso.
La donna annuì, con una smorfia rassegnata. Se ne rendeva
conto, ma non poteva far altro che preoccuparsi. Dopotutto lei voleva
bene ad Alexya e quello era il suo modo, fastidioso forse, per
dimostrare il suo affetto. Ovviamente, la ragazza non lo apprezzava,
per niente. Tuttavia lei avrebbe continuato a prendersi cura della
cugina.
«Che brutta faccia, Helena! Mi hai fatta quasi morire di
paura, per le palle di Hordev!».
Helena impallidì nel sentire quell'espressione da
soldataccio in bocca all'oggetto dei suoi pensieri. Ruotò si
scatto il capo verso lo specchio collocato alla sua destra e
fulminò Alexya, che la fissava con un sorriso sardonico
dipinto in volto. La cugina non nascondeva la soddisfazione che le
provocava scandalizzare l'altra regina e la provocava ogni volta che ne
aveva l'occasione ed era dell'umore giusto. Quindi, per Helena, quello
era già qualcosa di positivo, nonostante le desse molto
fastidio tale comportamento.
«Alexya, non sono nemmeno da sola!»
sibilò la bionda.
Zephiro intuì che era momento di farsi vedere e sorrise
guardando nello specchio. Inarcò le sopracciglia,
piacevolmente sorpreso alla vista dell'umana, con una massa di ricci
castani, più simili a serpi che a capelli, e limpidi occhi
verdi. Se l'aspettava proprio così la ragazza che faceva
tormentare Helena per l'ansia.
«Oh, il divino Zephiro» disse Alexya, gli occhi
sgranati per la meraviglia. «Bentornato, divino! Come vi
trovate?»
Il dio apprezzò la reazione della giovane e le rispose con
tono cordiale, mentre Helena assisteva alla scena aggrappata ai
braccioli della poltrona. Alexya non aveva rispetto neppure per una
Divinità, cos'aveva fatto di male per ritrovarsi una persona
del genere in famiglia?
«Bene, purtroppo vostra cugina è sempre
preoccupata per voi e mi dispiace vederla in questo stato»
Mentre diceva queste parole, il dio indicò la bionda, che
stava inspirando a pieni polmoni per calmarsi.
Alexya scoppiò a ridere di gusto, portandosi una mano
davanti alla bocca e gettando la testa all'indietro.
«Vedi, non hai nulla di cui temere, Helena» la
rassicurò Zephiro stringendole una mano, mentre l'altra
regina si divertiva.
«Perdonatemi, divino, ma ha da preoccuparsi, eccome! Helena,
preparati ad accogliere al più presto truppe degli Elfi, del
Nord, d'Est e persino i mercenari del Sud! La tua mitica cuginetta ha
fatto strage di alleati, ah ah!» esclamò spavalda
Alexya. Ogni traccia della discussione precedente con Johan era
svanita. Lei stessa aveva metabolizzato quanto le era capitato, si era
già preparata ad affrontare la cugina. Appena quella avesse
cominciato la sua ramanzina, avrebbe chiuso il contatto e coperto lo
specchio con le lenzuola. Così sarebbe stata libera e con la
coscienza a posto.
Helena si lasciò sfuggire un urlo assordante, che fece
ritrarre Zephiro di scatto. Il dio si voltò a guardarla,
temendo che le fossero diventati bianchi i capelli per lo spavento, ma
per fortuna erano ancora biondi e si sentì sollevato.
Comunque, non capiva la reazione della regina. Era già stata
avvisata di cosa aveva in mente Alexya al momento della partenza,
eppure sembrava sorpresa, sconvolta più che mai. Si
aspettava forse che la proposta della cugina venisse rifiutata dai
membri del Consiglio? O pensava che l'avrebbero punita in qualche modo?
Non riusciva proprio a comprendere cosa avesse in mente la sua
sacerdotessa.
«Che Al ti aiuti, benedetta Alexya!» fu la
preghiera Helena, nel prendersi la testa tra le mani. Aveva sperato che
stesse scherzando, una vana speranza, ma esistente. E invece, la cugina
aveva fatto un altro passo che l'aveva allontanata da lei, rendendole
più difficile proteggerla. Abbassò le palpebre,
stringendo gli occhi con una smorfia di sofferenza. Non voleva pensare
a tutte le conseguenze di quel gesto. Erano troppe e troppo brutte.
«Non credo che lo farà, dato che mi ha insultata
ben due volte ed ha persino cercato di farci tutti fuori. Per fortuna
Lord Nicholas...» infierì Alexya, facendo
lampeggiare sul suo volto un ghigno.
Helena si sentì mancare. Due elementi infausti in una stessa
frase, la realtà si stava rivelando sempre più
orribile. No, no, no!
Sperò con tutta se stessa di star sognando, che quello fosse
solo uno scherzo di cattivo gusto del dio del Sonno, Chreonte.
«Ehm, milady Alexya, per favore, potete tacere particolari
così sconvolgenti? Non vorrei che vostra cugina muoia
davanti ai vostri occhi, in questo momento» le chiese con
garbo Zephiro, che afferrò al volo la bionda che si
afflosciava sulla scrivania, muta.
«Grande calma, divino Zephiro! Non attenterò
più alla vita della mia ansiosa cugina: il mio dovere l'ho
fatto, posso pure chiudere il collegamento. Magari, quando si riprende,
consigliatele di organizzarmi una bella festa e di invitare anche gli
altri re. Più siamo, meglio è, non è
forse così?» rispose Alexya, con un sorriso
affabile. Avrebbe saggiato i nobili durante quella festa, per sapere
come agire all'interno del regno. Una decisione come la sua non aveva
conseguenze solo nella politica estera del Regno d'Ovest, ma anche in
quella interna. Sapeva qual era la posizione degli Anziani, quindi si
sarebbe dovuta scontrare con quelli e con i loro sostenitori tra i
nobili. Alexya aveva assolutamente bisogno di comprendere chi
condivideva la sua scelta e da chi difendersi. La cugina poteva capire
o meno quel che aveva in mente, l'unica cosa importante era che ci
fossero i festeggiamenti. Ripeté ancora una volta il
messaggio per Helena al dio dei Venti e chiuse la comunicazione,
lasciando i due soli con Cenere, che teneva gli occhi dorati fissi
sulla superficie immobile dello specchio.
«Quella ragazza è fuori di testa...»
borbottò Helena, riprendendosi lentamente.
«Non la conosco e non posso dare giudizi»
replicò Zephiro, poggiando un gomito sul tavolo, per
reggersi la testa mentre guardava la regina. Lanciò un
rapido sguardo alla mela rotolata per terra mentre cercava di aiutare
Helena. Non aveva sprecato nulla, era rimasto solo il torsolo ormai.
Cenere sbadigliò e si stiracchiò, poi scese dalla
scrivania per raggiungere la finestra aperta. Nelle giornate soleggiate
Helena preferiva far entrare il calore dei Soli nello studio per
togliere l'umidità che spesso si infiltrava e che si
rivelava pericolosa per i libri lì conservati. La gatta
guardò giù e decise di saltare, per atterrare
sulla tettoia al piano inferiore, che circondava uno dei cortili
interni, vuoto.
Zephiro, rassicurato dall'assenza dell'antico spirito di cui non
conosceva le intenzioni, riferì ad Helena le ultime parole
di Alexya. Ma la donna aveva sentito, non era svenuta davvero, aveva
solo cercato di controllarsi.
«Per la Triade, quella ragazza pensa prima a festeggiare che
a come sistemare gli Anziani! Ora toccherà a me
affrontarli... Se non ci fossi io, non so che fine farebbe
Alexya». No, Helena non aveva proprio capito cosa volesse
fare davvero la cugina. O forse non voleva accettare che Alexya potesse
badare a se stessa meglio di quanto lei credeva, un modo per sentirsi
ancora utile per la ragazza.
Adhurna ordinò ai servitori di condurre Eoforbio nella sua
stanza e, quando il dio fu collocato sul letto, terminò la
cura e rimase al fianco del portavoce in attesa del suo risveglio. La
superficie dello specchio collocato nella camera fremette e su di esso
apparve un giovane uomo dai capelli biondo cenere, legati alla bell'e
meglio in una treccia leggera che si posava sulla spalla, vestito di
una opulenta giacca militare color cobalto e, particolare
importantissimo, gli occhi neri cerchiati di bistro, che li allungava
verso le tempie. Il trucco e gli occhi di una Divinità.
«Monna Adhurna, losdihe»
salutò il dio, con un cenno del capo. (1)
La Lucente sussultò e si voltò verso l'ospite
inatteso, avendone riconosciuto la voce bassa e cupa. «Divino
Vraele! Grazie a Fato, il divino Al si sta occupando del...».
Il dio della Guerra la interruppe, prima di sentire le solite
stupidaggini da Lucenti. Era un Popolo che non lui rispettava,
perché completamente accecato dal fanatismo ed ai limiti del
servilismo verso le Divinità. Inoltre, la loro nascita aveva
portato all'allontanamento da Gemma d'Autunno di lei. Aveva
sufficienti ragioni per detestarli, sufficienti anni di vita per
rendere quell'astio ben radicato in lui.
«No, affatto. Il mio re mi ha solo ordinato di far tornare
Eoforbio nei Giardini delle Divinità. A vedere il suo stato
attuale, penso che non abbia neppure bisogno di farsi vedere da
Ntonihus. Avete fatto un ottimo lavoro, monna Adhurna»
aggiunse Vraele, con forzata cortesia.
Adhurna annuì e chiamò a gran voce uno dei
servitori assegnati a quella stanza, ordinandogli di preparare le
valigie di Eoforbio e trovargli un palanchino.
Intanto, il portavoce di Al riprese coscienza e aprì gli
occhi, ancora stordito dalla possessione del sovrano e dall'attacco di
Nicholas. Si mise a sedere, con l'aiuto della Lucente e si sorprese nel
vedere il volto cupo di Vraele nello specchio. Brutte notizie, che
altro?
«Vraele, avete qualcosa da dirmi, vero?»
domandò, massaggiandosi le tempie con una smorfia sul viso.
«Se ne sta già occupando monna Adhurna»
mise in chiaro il dio della Guerra, lanciando uno sguardo alla donna
cieca col mento sollevato e le orecchie a punta tese, in ascolto.
«Comunque, Al pretende che tu torni in patria
immediatamente».
Eoforbio si ingobbì sotto il peso di quell'ordine. In
pratica, era impossibile tornare ai Giardini delle Divinità
in quel preciso istante. Gli ci volevano solo tre giorni per
raggiungere Lago di Topazio, la capitale del Nord, ed una mezza
giornata per i Pilastri Trasportatori. Al adorava le missioni
impossibili per i suoi sottoposti. Soprattutto amava quel che accadeva
al fallimento delle stesse, anche se le vittime avevano fatto tutto il
possibile per accontentarlo.
«Ha deciso qualche punizione se dovessi tardare?»
chiese il portavoce avvilito.
«Non essere stupido, Eoforbio: Al non decide queste cose in
anticipo, dipende come gli gira in quel momento. Perciò
sbrigati e cerca di ridurre le tre giornate. Serviti di qualcuna delle
bestie del deserto e raggiungi i Pilastri Trasportatori»
replicò seccato Vraele. Al lasciava sempre a lui compiti
ingrati, ed avvisare il portavoce era tra questi. Inizialmente c'era
stato un dio delle Comunicazioni, ma il re lo aveva ucciso,
perché così gli diceva la sua mente malata, e lo
aveva sostituito, quando gliene era stata fatta notare l'assenza, con
Eoforbio che non aveva risolto la situazione, anzi. Una
Divinità di basso livello non poteva rendersi utile se non
come servo. Lasciare nelle sue mani la diplomazia era da idioti.
«Si sta tenendo l'ennesimo banchetto di matrimonio,
perciò fatti i conti ed approfittane, se ne sei capace. Nevah».
Con quel saluto, il dio della Guerra chiuse il contatto. (2)
Eoforbio rivolse uno sguardo sofferente ad Adhurna, ma quando si
ricordò che la Lucente non vedeva lasciò perdere
la consolazione e si mise in moto. Doveva cercare qualche bestia per
arrivare ad un orario decente a Gemma d'Autunno. Rifletté a
lungo, cercando una qualsiasi informazione avesse a disposizione,
imparata nei suoi anni di apprendistato a corte, ma non
riuscì a ricavare nulla di utile. Sarebbe stato punito, non
poteva far niente per impedire che il destino si compisse. Quando Al si
impegnava a creare un tranello per sfogarsi, era impossibile cercare di
contrastarlo. Anche se Eoforbio si era sempre domandato come potesse il
suo sovrano, visibilmente pazzo, tessere trappole così
infallibili. Era un controsenso.
Tuttavia, «Adhurna, sapete indicarmi un mezzo rapido per
trovarmi ai Pilastri Trasportatori del Nord in giornata?» fu
la richiesta del dio, ancora un briciolo di speranza a invogliarlo a
lottare.
«Ma certo, divino: un Thraslin. Pur essendo creature degli
Inferi, ma sono il mezzo più veloce messo a disposizione nei
Campi di Sangue. Purtroppo i Bardak non...»
Il portavoce smise di ascoltare Adhurna, per ricordare cosa fossero i
Thraslin. Non gli era mai capitato di utilizzarne uno, ma aveva letto
che erano rettili alati, simili ad enormi serpenti, creati da Nephas
millenni addietro assieme ai Bardak, i cavalli demoniaci che erano di
uso esclusivo della famiglia reale Infera. Perché non ci
aveva pensato prima? Certo, perché lui era solo una
Divinità di rango infimo. Persino un mezzosangue gli era
superiore, anche se Adhurna lo trattava con tutti i riguardi di un dio
nobile.
Trovato un modo per evitare di incorrere nelle ire di Al, Eoforbio si
affrettò a lasciare Sung'bar. Forse non gli era stata tesa
una trappola perfetta.
Vraele ed otto Colchici, la guardia personale di Al, erano fermi
davanti ai Pilastri Trasportatori fuori Gemma d'Autunno ed aspettavano
Eoforbio. La pioggia precipitava in grosse gocce, rendendo inutile
qualsiasi riparo. Persino le foglie perennemente autunnali della
foresta non servivano a proteggere il gruppo, nonostante le chiome
degli enormi alberi formassero un tetto vegetale sulle loro teste.
L'acqua scivolava giù dai mantelli neri dei Colchici e sulle
loro maschere inespressive.
I cavalli di tanto in tanto sbuffavano, scrollavano il capo nervosi o
pestavano gli zoccoli. L'attesa era snervante per chiunque, ma per
Vraele era preferibile trovarsi in mezzo ad un temporale, piuttosto che
sopportare un altro banchetto matrimoniale. Questa volta Al aveva
sposato una ninfa proveniente dalla città lacustre di Chril
Dhy, giusto per variare un po' la popolazione femminile del suo gremito
harem. Come se ce ne fosse la necessità.
La magia iniziò a concentrarsi tra le due colonne di marmo
nero e si aprì il portale per il passaggio di Eoforbio, che
fu accolto nei Giardini delle Divinità dalla pioggia
scrosciante che gli schiaffeggiò il volto tirato e
sofferente. Aveva lasciato il Thraslin nel Regno del Nord e gli avevano
assicurato, a Sung'bar, che la bestia sarebbe tornata alla stalla da
sola. Ora il dio era a piedi, ma Vraele aveva pensato a tutto ed aveva
con sé un cavallo in più. Il portavoce
montò in sella, le articolazioni scricchiolanti, ed gruppo
rientrò nella capitale.
L'acqua bagnava le strade lastricate e colava giù dai tetti
e le grondaie, quando però giunsero alla cittadella,
trovarono tutto asciutto, come se la pioggia non avesse mai toccato
quella zona. E così era: una barriera proteggeva da
qualsiasi evento meteorologico la Gemma d'Autunno, il palazzo reale che
dava il nome alla città. Il castello si ergeva al centro
della piazza cinta dalle mura della cittadella, un'enorme costruzione
cubica con decorazioni che la rendevano simile ad un bocciolo. La Gemma
si sviluppava principalmente sotto il piano stradale, dove trovavano
posto gli immensi saloni per banchetti e balli. La parte superiore
ospitava gli appartamenti della corte e dei sovrani.
I quattro Colchici rimasti in città erano di guardia al
portone del castello, in cima alla grande scalinata. Fosse stato per il
dio della Guerra, non si sarebbe portato dietro tutta la guardia di Al;
purtroppo Vraele non era altro che il tenente, mentre il Re delle
Divinità era il vero comandante dei Colchici. Quindi, per
proteggere il portavoce reale, erano stati scomodati due terzi della
guardia, che si erano fatti un giro per la città con Vraele,
senza essere di alcun aiuto. Era completamente sprecata al servizio di
Al una guardia del genere, le uniche Divinità che si
interessassero al combattimento più che al divertimento.
Incupito da quelle considerazioni, Vraele balzò
giù da cavallo ed attese che Eoforbio facesse lo stesso per
entrare nel palazzo. I Colchici lo accolsero battendo i tacchi degli
stivali e due di essi spinsero i pesanti battenti, di legno con intarsi
d'oro. Altro lavoro inutile. Con tutti gli schiavi che c'erano nei
Giardini delle Divinità, soldati scelti dovevano mettersi a
fare fatiche così insignificanti. Il dio della Guerra
lasciò perdere quell'argomento che lo metteva solo di
cattivo umore, senza portare a nulla di buono.
Il portone della Gemma d'Autunno si spalancò, Vraele ed
Eoforbio furono accolti a palazzo dalla musica ipnotizzante e dal fumo
delle incensiere appese ovunque. Il corridoio davanti a loro era
illuminato da lampade ad olio, alcune spente. La luce era poca e mal
distribuita, inoltre le pareti di pietra scura ricoperte di arazzi,
anch'essi di colori cupi, assorbivano tutto il chiarore. Eppure era
impossibile non vedere i corpi gettati qua e là di
Divinità più o meno importanti, in preda alla
sbornia, storditi dalla musica o dai fumi allucinogeni che avevano
inspirato durante il banchetto.
Disgustato da tanta corruzione, Vraele avanzò tutto il tempo
con lo sguardo nel vuoto. Non aveva bisogno di guardare la strada,
ormai il suo corpo si muoveva da solo e conosceva a memoria il
percorso. Eoforbio lo seguiva, osservando con una smorfia sul viso
smunto le persone abbandonate contro le pareti o sul tappeto rosso che
nascondeva il pavimento di assi di legno, lucide e ricoperte di cera
d'api.
Più si avvicinavano alle scale che li avrebbero condotti al
piano inferiore, sempre più volti riconoscevano. Vraele si
riscosse dallo stato di apatia in cui era sprofondato solo quando vide
una giovane dea dai capelli magenta, corti e boccoluti, che vagava nel
corridoio, ben sveglia ed alla ricerca di qualcuno. Lei era il genere
di persona che odiava quei divertimenti distruttivi, eppure si trovava
lì. Appena la dea si accorse dei due che si stavano
avvicinando, affrettò il passo e raggiunse Vraele, mentre
dal volto spariva l'espressione timorosa e preoccupata di poco prima.
«Oh, Vraele!» lo salutò la donna,
afferrandogli una mano.
Il dio gliela strinse, per dimostrarle il suo appoggio.
«Veris, cosa cercate?»
La dea della Primavera si passò una mano sul viso dai
lineamenti delicati, sgombro da qualsiasi trucco che non fosse il
bistro degli occhi. Era abbigliata in maniera sobria, con una tunica
leggera, candida, fermata sotto il seno da una cintura d'oro e perle,
per ricadere lungo i fianchi, fino alle ginocchia, con morbide pieghe.
«Non riesco a trovare Hordev... è sparito da un
bel po', non ho idea di dove possa trovarsi» rispose accorata
Veris e sospirò.
«Io non l'ho visto nei corridoio da cui siamo
passati» si intromise Eoforbio, accostandosi ai due.
Veris rivolse un saluto cortese al portavoce, che le era indifferente
come un sasso sul suo cammino. Finché non le avesse fatto
alcun torto, lei avrebbe accettato la sua esistenza.
«Non oso pensare cosa stia facendo»
sussurrò la dea, con lo sguardo basso, mentre un leggero
rossore si diffondeva sul suo volto.
«Venite con noi, Veris, non mi piace che andiate in giro da
sola» le suggerì Vraele, sinceramente preoccupato
per l'incolumità della donna.
Veris annuì e prese il dio della Guerra braccetto.
Proseguirono verso la sala del banchetto, scendendo due rampe di scale
per ritrovarsi in un altro corridoio, già più
pieno di vita. I servitori andavano avanti e indietro, con incensiere,
vassoi vuoti, brocche di vino o idromele.
«Veris, manca il gatto e i topi ballano?»
domandò una voce alle loro spalle, bassa, maschile e
seducente.
La dea della Primavera si voltò immediatamente, facendo
scivolare la sua mano via dal braccio di Vraele. Intanto si stava
avvicinando a lei il dio della Lussuria, con un sorriso beffardo
stampato sul suo viso bello e perfetto. I capelli biondo grano gli
ricadevano ai lati del volto e la frangia sugli occhi truccati
pesantemente col bistro, rendendo il suo sguardo di pece profondo e
irresistibile. Le ciocche più lunghe che partivano dalla
nuca erano fermate con un nastro nero in una coda, che ondeggiava ad
ogni suo passo. Indossava dei pantaloni di pelle marrone scuro, con una
fascia di seta dorata avvolta attorno ai fianchi, i cui lembi pendevano
davanti.
«Hordev!»
Il sorriso sul volto del dio si allargò e, raggiunta Veris,
le prese il viso tra le mani, facendo tintinnare i bracciali d'oro che
ornavano le sue braccia.
«Che fai, vai a braccetto con quel soldatino di
Vraele?» le chiese con tono scherzoso.
Vraele ignorò le parole di Hordev, perché il dio
aveva l'abitudine di prendersi gioco di tutto e tutti, proprio come
faceva la madre, Adele. Lui era l'erede al trono, la
Divinità più importante nel regno dopo i due
sovrani, e si lasciava sempre correre qualsiasi cosa egli facesse. Il
dio della Guerra però non capiva come Veris riuscisse a
stargli vicina, lei era il suo opposto, pudica e buona; nessuno si
sarebbe mai sognato di vedere quei due andare d'accordo.
«Mi avevi lasciata sola nella sala del banchetto. Sai che non
mi piace quando fai così...» spiegò
Veris, prendendo sul serio quanto aveva detto prima il dio.
Hordev trattenne una risata e nei suoi occhi lampeggiò la
malizia. «E tu sai che spesso ho affari da
sbrigare». Le baciò la fronte, un gesto delicato
che strideva con quel che lui era. Veris arrossì
violentemente ed abbassò lo sguardo, iniziando a farfugliare
cose senza senso, tanto che fece scoppiare a ridere il dio della
Lussuria.
«Hordev, tuo padre è ancora nella sala del
banchetto?» domandò allora Vraele, interrompendo
il quadretto felice.
Hordev guardò il dio della Guerra e liberò Veris,
limitandosi a cingerle i fianchi con le braccia.
«No, si è portato la nuova sgualdrina nei suoi
appartamenti e stava giocando a damska, poco fa. Spero che non abbia
cambiato gioco, altrimenti dovrai attendere in dolce
compagnia» e così dicendo indicò col
mento Eoforbio, che non osò controbattere. Dopotutto lui non
era una delle Divinità maggiori, non avrebbe avuto nemmeno
il diritto di guardarle negli occhi non fosse stato il portavoce di Al.
Accettò di buon grado quella scortesia nei suoi confronti,
piccola considerando quelle che aveva sopportato all'inizio della sua,
per così dire, carriera.
Vraele annuì e, accennato un inchino, girò i
tacchi per risalire le scale e farne altre, diretto all'ultimo piano,
dove si trovavano gli appartamenti reali.
«Vi auguro buona serata, compari»
ridacchiò Hordev mentre si allontanavano.
Veris tirò un colpo al ventre del dio e gli
lanciò uno sguardo di rimprovero. «Non essere
sempre così antipatico. La tua fortuna potrebbe
terminare» lo sgridò, con tono grave.
Hordev le prese il mento con una mano e le posò diversi
baci, leggeri e scherzosi, sulle guance. «Tesoro,
finché tu continui ad illuminarmi non c'è
disgrazia che possa colpirmi» le disse, dolce come il miele.
La dea della Primavera sollevò lo sguardo al cielo,
rassegnata a sopportare il carattere di Hordev. Purtroppo lui l'aveva
catturata nella sua rete molto tempo prima e lei non era più
capace a liberarsi. L'amore
è così insensato, pensò
Veris, maledicendo quel sentimento che la teneva legata a lui, che era
tutto tranne che una persona affidabile e fedele. Non poteva farci
niente lei, era nella sua natura e nel suo titolo.
Sarihele estrasse il pugnale dal fodero assicurato al fianco e ne
strinse l'impugnatura con forza. I passi di corsa sul tappeto di
foglie, bagnato, si avvicinavano sempre di più, senza alcun
timore. Eppure in molti erano a conoscenza di chi abitava quella zona
della foresta attorno a Gemma d'Autunno. Forse era uno dei suoi, ma
c'era anche la possibilità contraria. Tanto valeva stare
all'erta, pronto a dar la morte all'impudente che stava osando tanto.
«Per Gladius, con Gladius!» pronunciò
con decisione il nuovo arrivato.
Era la formula di riconoscimento. Un po' più tranquillo,
Sarihele scivolò giù dal ramo su cui era
accovacciato e, con la coda dell'occhio, notò movimento alle
sue spalle. Non era stato l'unico ad aver accolto con diffidenza la
visita.
Il capo degli Herzbrenht, la Lancia di Ghiaccio, scrutò
attentamente il dio a qualche passo da lui. Lo riconosceva. Devon, uno
dei Colchici, secondo di Vraele. Pur essendo la guardia reale, i dodici
soldati erano più fedeli al loro tenente che al loro
sovrano. Ed il dio della Guerra era fratello di Sarihele.
Devon accennò un inchino, la maschera nera da Colchico nella
sua mano destra, mentre la mancina stringeva un rotolo di pergamena,
bagnato. La lunga coda di capelli corvini gli scivolò
giù dalla spalla e ciondolò inzuppata davanti al
petto nascosto dal mantello nero.
«Solo ora sono riuscito ad abbandonare il mio posto,
perdonatemi herz Sarihele.
Vraele, appena si è saputa in giro la notizia, mi ha dato il
permesso di informarvi appena possibile. Reco con me una lettera
autografa del mio tenente, indirizzata a voi» li
informò Devon, con la sua voce bassa ed autorevole. (3)
Gli altri Herzbrenht lasciarono solo il loro capo. Sarihele
afferrò la missiva che il Colchico gli porgeva ed
aprì il sigillo che la fermava. Srotolò la
pergamena e fece scorrere gli occhi sulle poche, stringate frasi che il
gemello gli aveva rivolto. Ciò che apprese, però,
fu di grande importanza. Non poté far a meno di sgranare gli
occhi alla notizia che gli aveva inviato Vraele. Rilesse la lettera
altre due volte, poi la chiuse ed infilò nel tascapane
appeso alla sua cintura.
«Ti ringrazio, Devon. Avverti mio fratello di interferire,
raggiungerò la fanciulla d'Ovest».
Il Colchico fece un cenno d'assenso col capo e corse via. Sarihele
rimase in mezzo al sentiero tra gli alberi, mentre la pioggia lo
bagnava, impietosa. I capelli tinti di rosso scuro gli si appiccicarono
sul volto segnato, la tunica di lino leggero aderì al suo
petto. Gli si avvicinò Dabar'as, silenziosa e
cauta.
«Herz
Sarihele, è vero quel che ho udito?» gli
domandò, sfiorandogli il braccio per attirare la sua
attenzione.
Il dio delle Ribellioni ruotò la testa e la
guardò, col bistro colato attorno agli occhi penetranti.
«Credevo vi foste allontanati tutti»
considerò, indugiando con lo sguardo sulla donna.
«Non fa la differenza. La mia scelta riguarda tutti noi:
chiama tutti gli herzer,
partiremo al più presto verso Ovest. È
lì che si trova l'opportunità più
concreta per realizzare la nostra causa». (4)
Gli appartamenti reali occupavano interamente il piano più
alto della Gemma d'Autunno, tra le stanze di Al e quelle di Adele.
L'harem si trovava in quello inferiore e si sapeva ben poco di come
fosse, nessuno ne parlava. Però il soggiorno del re era ben
noto a coloro che dipendevano direttamente da lui e Vraele non ci mise
molto a trovarlo nel labirinto di stanze dell'ultimo livello del
palazzo reale.
La porta era spalancata ed all'interno si trovavano solo Al, Adele e la
nuova sposa. La Regina delle Divinità era distesa su un
triclinio, una coppa di vino in mano, cuscini sparsi ovunque. Il viso
dimostrava solo divertimento e le sue labbra rosse e carnose erano
tirate in un sorrisetto sornione. I capelli, lunghi e ricci, le
ricadevano in morbidi boccoli castano chiaro sulle spalle e sul petto
prosperoso, coperto a malapena dal vestito di sottile lino, quasi
trasparente. Indossava una gran quantità di gioielli
piuttosto opulenti, che comunque sfiguravano di fronte alla sua
bellezza. Un tempo era stata la dea dell'Amore, ma ora era solo la dea
dell'Amor Proprio.
Al, invece, era ancora il dio della Forza e nessuno si sarebbe mai
opposto a lui, tanto meno la ninfa dai capelli turchesi sedutagli di
fronte. Lei stava perdendo a damska, com'era ovvio. Anche se avesse
avuto abbastanza acume per riuscirci a giocare, non avrebbe lo stesso
osato sconfiggere il suo illustre avversario.
Vraele e Eoforbio si fermarono sulla soglia, non mossero un singolo
passo finché il sovrano non spostò il suo sguardo
dalla scollatura della ninfa a loro due. Con un molle cenno della mano,
ordinò loro di entrare e di avvicinarsi al tavolino basso
cui era seduto per la partita a damska. I capelli erano rossastri,
lisci e lunghi fin sotto le spalle, con qualche ciocca più
corta che cadeva sul viso spigoloso e bello. Al collo portava una
collana con una placca di oro su cui c'era il simbolo delle
Divinità in ossidiana, con decorazioni in lapislazzuli e
rubino, e frange dorate che si agitavano ad ogni movimento del dio.
Oltre a numerosi altri gioielli di poco conto, una cintura opulenta
reggeva un gonnellino di lino beige. La sua pelle dorata era stata
spalmata di oli profumati e luccicava alla luce delle candele disposte
a casaccio nella stanza.
I due ospiti si inginocchiarono a terra e si prosternarono davanti al
Re delle Divinità, che non prestava più
attenzione a loro. Adele rimase in silenzio, a guardare con lo stesso
divertimento di prima gli dei piegati con la fronte contro il pavimento
di legno.
«O Eoforbio, li servigi tuoi non ci han soddisfatti. La
deprecabile tua negligenza la Maiestade nostra
sdegnò» esordì Al, spostando pigramente
una pedina bianca sulla tavola da gioco.
Eoforbio non osò fiatare, non gli era permesso, anche se era
stato Al ad usare il suo corpo e lui non aveva potuto far nulla.
Avrebbe potuto fermare le alleanze una volta libero, dopotutto il suo
re aveva cercato di distruggere l'intero Consiglio per impedire la
nascita del nuovo esercito, il portavoce invece si era fatto curare da
Adhurna e non aveva mosso un dito. La ferita infertagli da Nicholas
sembrava ormai dimenticata di fronte alle prospettive poco allettanti
che gli offriva la delusione arrecata al suo re.
«Perdonatemi, divina Maestà, non mi sono permesso
di colpirli, perché io potrei fare ben misera cosa rispetto
al vostro divino potere. Solo voi siete capace di annientare quei
blasfemi in tutto il Mondo Profano» si scusò
Eoforbio, con tono umile e servile, credendo davvero a quel che aveva
appena detto.
Vraele fece una smorfia, non visto. Era disgustato, ma anche a lui
spesso era capitato di doversi comportare in quel modo davanti al Re
delle Divinità. Quella era l'unica maniera di rabbonirlo il
minimo necessario per salvarsi dalla tortura.
Adele scese dal triclinio con un movimento aggraziato e raggiunse il
marito, sedendosi sui cuscini al suo fianco, una mano nella sua.
Posò il mento sulla spalla di Al, che le lanciò
lo sguardo che riservava a lei sola. Poi rivolse gli occhi di ossidiana
verso i due dei prosternati a pochi passi da lui.
«Vraele, des
eske thirion thang» disse Al. (5)
Il dio della Guerra fece un lieve cenno d'assenso, pur rimanendo col
viso rivolto al pavimento di legno.
Il re mosse la sua pedina bianca e poté prendere l'ultimo
pezzo nero rimasto alla ninfa, che perse la partita con un risolino
civettuolo. Al osservò la tavola a quadri, assorto nei suoi
pensieri. Distruggila, eletto,
distruggi quell'impertinente!, gridava Fato nella sua
mente. Lo farò, o
supremo, si pentirà di aver osato tanto verso noi. Dopo di
lei, anche Nephas subirà la stessa sorte ed il vostro regno
di giustizia trionferà, gli rispose il sovrano
divino, con fervore. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per portare a termine
la sua missione nel Mondo Profano. Era nato per quello, non poteva
permettersi di disattendere le aspettative di Fato, il suo padrone, suo
amato padre.
Poi, utilizzando la Voce per imprimere l'ordine nella mente del
generale dell'esercito divino, Al scandì in Maholhan:
«Duqer
Myurohon aht niv-Osthley». (6)
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano:
(1) Losdihe: buongiorno.
(2) Nevah: (formula di
saluto) addio.
(3) Herz: lancia
(titolo per indicare, all'interno di Herzbrenht, i suoi membri).
(4) Herzer: lance
(plur.).
(5) Vraele, des eske thirion thang:
Vraele, questo è il tuo momento (lett.: tempo).
(6) Duqer Myurohon aht niv-Osthley:
Conduci i Myurohon dalla giovane abitante dell'Ovest.
Damska:
gioco da tavolo in cui si devono condurre quante più pedine
dall'altra parte del campo, cercando di regare il maggior numero di
danni all'avversario. E' un gioco diffuso sia nelle campagne che nelle
corti del Mondo Profano, con diversi livelli di difficoltà.
Le creature dotate di magia la utilizzano per rendere più
interessante la partita, a condizione che non si rechino danni
permanenti all'avversario.
Bene, oltre al dizionario, questa volta pure la spiegazione di un
gioco. E' banale, ma dopotutto i giochi più diffusi non sono
anche quelli più semplici?
In questo capitolo poca Alexya, niente Nicholas, ma nuovi personaggi ed
i Giardini delle Divinità si sono aperti a voi, eh eh.
Potrebbero esserci dei ritardi con la pubblicazione del prossimo
capitolo, però avviserò in privato chi so di
certo che segue l'EdF. Invece i soliti ignoti dovranno attendere
brancolando nel buio... XD
A presto (spero)!
Eccomi
di ritorno! Ho avuto qualche contrattempo con un Nicholas che non ne
voleva sapere di darsi una regolata nel capitolo VIII, quindi ho
impiegato un po' per terminarlo, ma vabbè.
Dato
che non ce la facevo ad aspettare (ma cosa?? O_O) e poichè
ho avuto un pomeriggio intero libero (siano lodati i saggi, almeno si
perdono tre ore e niente compiti!), ho corretto il capitolo e quindi
eccolo qui, per voi.
Oltre
alle mie care myki
e Dark Magician,
ringrazio anche Marluxia25
(per tutto! *O*), roah,
olghisch e berry345 per i
commenti e Draig_Uisge
per aver messo questa storia tra i preferiti.
Buona
lettura! =]
.-.-.-.
VI. Partenza
La
pioggia batteva contro i vetri e sui tetti di Borgo Smeraldo ed il
palazzo reale non poteva sottrarsi dalla furia degli elementi. Lathiora
lasciò che l'acqua le scivolasse sulla pelle nuda,
sollevando il viso verso il cielo plumbeo. Lui amava la
pioggia.
«Lychros»
sussurrò flebilmente al vento, mentre ricordi dolorosi
tornavano ad affliggerla. Non sopportava di restare a lungo nella sua
forma originaria, proprio per quello. Ma a volte era più
sicuro esser torturata dalla memoria, che far saltare la propria
copertura a causa di vecchio astioso.
Rabbrividì
e decise che le conveniva indossare qualcosa e darsi una mossa.
Scivolò giù dal tetto su cui era seduta,
atterrando in un cortile interno del palazzo reale. Lasciava sempre, in
ogni spazio aperto dentro le mura, una tunica di lana grezza con cui
coprirsi per quando tornava in forma umana. Nessuno faceva caso ad un
mucchio di pezze gettato su una panca. C'erano cose più
importanti cui pensare, allo Smeraldo.
Ora
che Alexya era lontana dal palazzo, Lathiora preferiva passare
più tempo possibile in quella forma, perché
correva meno pericoli, sebbene fosse più vistosa. Arghos non
aveva idea di cosa fosse davvero la creatura che vagava libera nello
Smeraldo e che odiava più di ogni altra cosa. In qualsiasi
versione fosse, Lathiora ci teneva a creargli problemi e intendeva fare
lo stesso anche quel giorno.
Poche
ore prima aveva visto arrivare al castello un messo stremato da un
lungo viaggio e consegnare un messaggio urgente ad un soldato delle
casacche bianche, la guardia personale degli Anziani, vestita di una
tunica di lino, bordata di verde scuro.
«Per
sua Eccellenza» aveva ansimato il messaggero, prima di
stramazzare al suolo. Lathiora sapeva bene a chi era indirizzata la
lettera.
La
casacca bianca non si era occupata dell'uomo, ma era corsa a portare il
messaggio ad Arghos, abbandonandolo sul terreno tra la polvere. Era
proprio tale lettera, ciò che voleva andare a vedere
Lathiora in quel momento. Anche perché, appena due giorni
prima, aveva sentito concentrarsi energia in uno degli specchi dello
Smeraldo, dopo che Helena e la cugina si erano sentite. Aveva
localizzato lo specchio attivato ed era uno della dimora degli Anziani.
Alexya di sicuro non avrebbe parlato mai con uno di
loro, provava un odio viscerale per quei vecchi. Tutto ciò,
quindi, era troppo sospetto per non farla indagare.
Indossata
la tunica povera e sporca, Lathiora raccolse i suoi capelli grigio
perla in una treccia e partì, silenziosa ed invisibile, a
fare una visita all'edificio in cui si trovavano le stanze degli
Anziani, all'interno delle mura dello Smeraldo. Un'intera palazzina
solo per loro, erano trattati davvero bene.
Preferiva
correre sui tetti, leggera ed aggraziata, perché nessuno
avrebbe mai sollevato gli occhi verso quella parte del palazzo. A meno
che non provenissero rumori dal tetto o si oziasse, cosa alquanto
improbabile. Con un balzo, Lathiora atterrò leggiadra sul
terrazzo del dormitorio degli Anziani e si guardò attorno,
solo per abitudine e cautela. Sapeva che tutti erano indaffarati
all'interno dello Smeraldo con i preparativi del ballo per festeggiare
Alexya e l'Esercito della Fenice, eppure non commetteva mai lo stupido
errore di esser troppo sicura. Non era la prima volta che agiva
furtivamente, non era una sprovveduta, non l'avrebbero colta sul fatto.
Nessuno sapeva nemmeno della sua esistenza. Preferiva continuare
nell'anonimato e portare avanti il suo compito, il primo motivo che la
teneva lì nel Regno d'Ovest. Il secondo preferiva ignorarlo,
sarebbe stato meno doloroso.
In
teoria, gli Anziani si sarebbero dovuti trovare tutti a palazzo per
l'ordinaria amministrazione, ma Lathiora si accorse che un paio dei sei
uomini era nel dormitorio, senza un motivo preciso. Arghos no, per
fortuna, lui aveva sempre un qualcosa da fare, lecito od illecito che
fosse. Così lei si poté calare dal terrazzo,
reggendosi al muro grazie alla magia di base, l'unica alla sua portata,
ma anche la più utile. Raggiunta la finestra dello studio
dell'Anziano, sussurrò “hopke-thi”
ed essa si schiuse in silenzio, per poi essere aperta completamente da
Lathiora, che entrò nella stanza senza far alcun rumore,
nonostante la tunica fosse zuppa di pioggia e lasciasse una scia di
bagnato ovunque passasse. (1)
Lo
studio era immerso nella penombra, sebbene ci fosse una grande
finestra, poiché quel lato del dormitorio non vedeva mai la
luce dei Soli, essendo rivolto a Nord. Era tutto in perfetto ordine,
cosa che si confaceva ad Arghos ed a ciò che stava facendo.
Appena qualcuno avesse frugato nelle sue carte, lui lo avrebbe notato
con tutto quell'ordine. Ma non poteva sapere che Lathiora era capace a
rimettere tutto come l'aveva trovato. Infatti, dopo aver osservato con
attenzione com'era stata sistemata la pila di lettere, imprimendo nella
sua mente un'immagine di essa, lei prese i messaggi ed estrasse dal
gruppo, a colpo sicuro, quello che le interessava.
La
lettera era piegata in malo modo in tre parti ed era scritta con una
calligrafia disordinata ed illeggibile, decisamente maschile. Lathiora
lesse a fatica le poche righe e sgranò gli occhi, mentre il
cuore le mancava di un battito. Era sorpresa, sconcertata, sconvolta.
Si sarebbe aspettata di tutto, tranne quello. Ancora
molto scossa, si affrettò a mettere tutto a posto,
asciugò dove aveva bagnato e fuggì dallo studio,
cercando di dominare i battiti del suo cuore, che le martellava nelle
orecchie.
Salì
sul terrazzo, al sicuro, e si accovacciò contro il muretto
basso, prendendosi la testa tra le mani. Doveva calmarsi e recuperare
il sangue freddo. Ma ci mise parecchio tempo. Forse era stata molto,
troppo a lungo tra gli Uomini. Forse le ombre che non aveva ancora
scacciato creavano troppi problemi. In qualsiasi caso, era un po'
troppo emotiva, non ci era abituata. Però, non poteva
fuggire dal Regno d'Ovest, non dopo quel che aveva scoperto. Ti permetto di vivere a palazzo
ad un patto: dovrai guardare le spalle di Alexya, mantenendoti nell'ombra
dello Smeraldo. Mi dispiace, Garstand... posso
difendere tua figlia solo dalla corte, non quando si caccia da sola nei
guai, singhiozzò tra sé Lathiora.
Rimase
un po' di tempo sul terrazzo, mentre la pioggia cadeva incessante. Poi
decise di darsi da fare. Alexya si poteva pur essere buttata nella
Guerra Millenaria, lontana dalla sua protezione, ma allo Smeraldo
Lathiora poteva ancora fare qualcosa. Doveva pensare a come muoversi,
per potersi mettere all'opera in modo fruttuoso. Doveva riuscirci.
Helena
era alle prese con gli inviti per il ballo, quando le fu annunciato
l'arrivo di Arghos. Le rincresceva molto dargli udienza, già
sapeva dove sarebbe andato a parare l'Anziano: le solite lamentele, i
capricci di sempre e la richiesta di pensare ai problemi dei contadini.
Ma lei non avrebbe comunque risolto nulla, perché le udienze
del popolo erano state assegnate agli Anziani proprio su loro
richiesta, quando si erano lamentati di non avere abbastanza
importanza. Ormai in mano loro era persino la giustizia ed avevano
ancora di cui ridire. Andavano al di là persino della sua
comprensione.
«Va
bene, fallo entrare» rispose Helena, con un sospiro. Non
aveva alcuna scusa, stava solo firmando le lettere che aveva fatto
scrivere ad un copista di palazzo. A scriverne così tante di
suo pugno ci avrebbe messo secoli e ciò che stava facendo
non era un lavoro mentalmente pesante. No, non aveva alcuna
giustificazione per rifiutargli un colloquio.
«Vostra
Grazia, buongiorno» salutò Arghos, accennando un
inchino, con eccessivo rispetto.
La
regina rispose al saluto, semplicemente pronunciando il nome
dell'altro. Chissà
che vuole..., si domandò, spostando una lettera
nella pila di quelle già firmate. L'Anziano si
avvicinò alla scrivania e rimase in piedi davanti alla
bionda, che sollevò il viso dai fogli e posò la
penna vicino al calamaio. Arghos era il più giovane tra gli
Anziani, aveva passato appena i cinquanta anni, eppure i suoi capelli
erano già bianchi e le rughe sul suo volto spigoloso
profonde. Il segno di distinzione di quel concilio era la chioma canuta
e lunga, e lui non disattendeva la regola. Vestiva una semplice e larga
tunica verde chiaro, con le maniche ampie e bordata di broccato grigio,
molto curato nell'aspetto, attento ad ogni minimo particolare. Da
quanto aveva saputo da suo padre, un tempo era stato un giovane
marchese che aveva dettato le regole della moda col suo abbigliamento
sempre ricercato.
«Ditemi»
ordinò Helena, incrociando le dita sul tavolo.
Lanciò uno sguardo alle lettere ancora incomplete, sperando
di terminarle al più presto, mentre cercava, in
realtà, di distrarsi da quell'uomo. Altrimenti avrebbe
iniziato a fare ipotesi su cosa lui avrebbe detto e non ne aveva la
minima voglia.
«Vorremmo
riunirci in una seduta con la vostra presenza, milady. Vi è
possibile?» domandò gentile Arghos ed
accennò un inchino, una mano posata sul petto.
Helena
assunse un'espressione afflitta molto, molto convincente e
declinò l'invito. «Ho troppo da fare, Eccellenza,
non riuscirei a terminare il lavoro se venissi fin nella Sala degli
Anziani» replicò, con la voce incrinata da una
finta stanchezza.
Arghos
annuì, fingendo di aver accettato la spiegazione, mentre
dentro di sé sentiva solo stizza. Anche se la regina bionda
era un'attrice nata, lui aveva imparato a conoscerla e sapeva che una
sciocchezza come delle lettere non le avrebbe mai impedito di
partecipare ad una seduta del concilio. «In questo caso, io
sono stato incaricato dagli Anziani di parlarvi a nome di tutti e
sei» propose l'uomo allora, con lo stesso garbo di sempre, i
suoi sentimenti accantonati, nascosti dietro la maschera affabile e
cortese che indossava sempre.
Purtroppo
a quella richiesta Helena non poté dire di no. Lo avrebbe
fatto solo se fosse stata Alexya, che non aveva la minima idea di cosa
fosse la diplomazia. Comunque, lei capiva il risentimento della cugina
verso gli Anziani. Nati come terzo organo di potere del Regno d'Ovest,
con la funzione di equilibrare il governo del paese, evitando che si
accentrasse tutto in una sola mano, da parecchi anni non facevano altro
che bloccare qualsiasi riforma i sovrani volessero applicare.
Così era diventato impossibile governare il regno,
soprattutto in caso di re con idee molto diverse. Alexya aveva dato
segno più volte di voler eliminare il concilio e da allora,
qualsiasi cosa la ragazza facesse, le veniva ritorta contro. Almeno
c'era Helena che cercava di ricucire gli strappi, facendosi venire il
sangue sempre più acido davanti alle argomentazioni assurde
degli Anziani ed all'impulsività dell'altra ragazza, che
perdeva le staffe senza pensarci due volte.
«Ci
è giunta notizia che vostra cugina ha deciso di entrare
nella Guerra Millenaria» esordì brutalmente
Arghos, giungendo, una volta tanto, dritto al punto.
Helena
rimase un attimo senza parole. Era abituata a ore passate a parlare di
nulla con gli Anziani, che amavano girare attorno al problema per far
mettere il piede in fallo all'interlocutore e farsi rivelare quanto
più fosse possibile, prima che questi se ne rendesse conto.
Ciò che aveva fatto Arghos l'aveva lasciata molto
sbigottita. Allora premeva molto per loro quella faccenda? Soprattutto... come hanno fatto
a saperlo, se solo io ne sono stata informata?, si
domandò Helena, scrutando l'uomo di fronte a sé
con sospetto. Sentiva puzza di spia, il che era molto pericoloso,
perché Alexya aveva portato con sé poca gente
fidata, più parte della guardia reale. No, non andava bene.
Come poteva star tranquilla ora che sapeva una cosa simile? E sua
cugina? Sarebbe stata ferita da una simile notizia. La regina
sperò che non fosse nessuno cui l'altra fosse molto legata,
altrimenti i danni sarebbero stati gravi.
Però,
che Arghos le avesse confidato una cosa simile, era strano: o lo aveva
sempre sopravvalutato, oppure la sua era stata una mossa deliberata,
una velata minaccia. Credeva che loro, sapendo di avere sempre gli
occhi degli Anziani addosso, si sarebbero sentite limitate ad agire?
Non ci sarebbe riuscito, assolutamente no. Doveva trovare le spie ed
eliminarle. Ma come?
«Sì,
è così. Eravamo entrambe d'accordo, pur parlando
della proposta in seduta, il risultato non sarebbe cambiato. Inoltre,
non è una scelta che riguardi il regno, ma Alexya»
rispose calma ed imperturbabile Helena, anticipando i successivi
attacchi di Arghos.
«Certo
che riguarda il regno, Vostra Grazia. Il divino Al non
esiterà a maledirci e potremmo avere i territori confinanti
con i Campi di Sangue devastati dai suoi soldati»
ribatté l'Anziano, convinto di quanto stava dicendo. Gli
dava fastidio che non avessero interpellato gli Anziani, soprattutto su
un argomento così delicato. Non gli andava di esser dannato
a causa di una ragazzina che faceva sempre di testa sua. Era stufo
della perenne ribellione della Regina della Guerra. Aveva sorvolato
quando lei era ancora una bambina, ma ora era troppo per la sua
sopportazione. Doveva ricordarle qual era il suo posto e privarla del
perenne sostegno della cugina, che le rendeva quegli atti sconsiderati
più facili da realizzare, giustificandoli persino. Cosa farebbe Alexya?,
chiese a se stessa Helena, cercando un modo per rispondere a tono
all'uomo. Era giunta al punto in cui conveniva usare le maniere forti,
con cervello, per ricordare ad Arghos che gli Anziani erano solo una
minoranza. Quale metodo migliore di quello della cugina testa calda?
Rapidamente, fece lavorare il cervello, considerando le diverse
possibilità. Non poteva dire che anche gli Inferi avrebbero
fatto lo stesso, secondo il suo ragionamento, sarebbe stato come
tirarsi la zappa sui piedi. Gli Anziani sono solo una massa
di vecchi superstiziosi. Andrebbero bruciati vivi tutti e sei,
aveva detto una volta Alexya, dopo una seduta piuttosto burrascosa.
Quand'era presente la cugina, tutte le riunioni degeneravano. La
ragazza tendeva ad essere insofferente verso gli Anziani, era tutta la
vita che sopportava le loro chiacchiere e ormai non portava loro un
briciolo di rispetto né di considerazione. E questo non
faceva altro che rendere le dispute ancora verbalmente più
violente e l'opposizione del concilio sempre più
ostruzionista.
Comunque,
Alexya riusciva spesso a zittirli, nonostante i suoi modacci. Il padre
le aveva fatto studiare da cima a fondo la storia e le leggi del regno,
anche quelle abolite, e quelle degli altri regni. In caso di necessità,
diceva Garstand e cercava anche di convincere Dygghor, il padre di
Helena, di seguire lo stesso metodo educativo per la figlia. Ma lui
aveva preferito insegnarle la diplomazia e la dissimulazione, piuttosto
che quella sfilza di
paroloni ridondanti, come diceva sempre. Deve imparare a sfruttare la
situazione, aggiungeva.
Ricordando
quei particolari della sua infanzia, Helena trovò come
ribattere.
«Alexya
userà il suo esercito per difendere i confini ad Est ed il
Trattato dei Campi di Sangue proibisce a qualsiasi sovrano di attaccare
direttamente i territori del proprio nemico. Siamo al sicuro, non
preoccupatevi perché abbiamo già pensato a
tutto» rispose la regina bionda, a testa alta, emanando
sicurezza e convinzione ad ogni parola.
Arghos
stava per controbattere qualcos'altro, ma entrò nello studio
Zephiro e l'Anziano, con un inchino, se ne andò. Helena
tirò un sospiro di sollievo. Ce l'aveva fatta, ancora una
volta. Ruotò il capo verso il dio e tirò le
labbra in un sorriso cordiale.
Zephiro
la vide sollevata e sorridente ed anche il suo umore
migliorò, nonostante fuori dalla finestra la pioggia
battesse violentemente. Andò a sedersi al suo fianco, per
parlare con la regina, mentre lei terminava il suo lavoro.
Per
sommo dispiacere di Marihus, che ne aveva già abbastanza di
Sung'bar, Alexya si rifiutò di partire il giorno successivo
al Consiglio. Così quella sera si ritrovò a
seguire la sua regina a cena alla Mandragola, dove le era stato detto
che andavano tutti i re. Come poteva mancare lei, una donna
così raffinata, elegante ed aggraziata! Sarebbe stato un
crimine costringerla a fare altrimenti!
«Non
posso passare tutto il tempo con i soldati, ho i miei doveri da regina
da rispettare» gli spiegò Alexya, mentre Hanan le
stringeva il corpetto del vestito comprato quel giorno in una boutique
del secondo livello. «Helena mi farà una statua,
quando saprà che sono andata di mia spontanea
volontà alla Mandragola!» Ed iniziò a
ridere di gusto.
«Milady,
per favore, non riesco a vestirvi!» si lamentò
Hanan, cercando di fermarla.
Con
uno sbuffo, Alexya si liberò delle cure della serva e
provò a togliere il corpetto.
«Non
mi serve mettere questa schifezza, non ho bisogno di sembrare
tettona» bofonchiò la regina, lottando con
l'indumento.
Dal
salotto, intervenne Johan, prima che potesse farlo un Marihus molto
scandalizzato.
«Alexya,
mettetevi il corpetto, non è una questione di forme ma di
vestito!»
La
Regina d'Ovest aprì la bocca, con un'espressione sconvolta,
e guardò Hanan, che le tirava via di mano il corpetto.
«Ma l'hai sentito tu, il rozzo soldato?»
domandò, seria. «Vieni che ti faccio bello,
Johan!» gridò Alexya, perdendo la battaglia con la
serva.
«Forza,
milady, state buona che ora finisco» la incoraggiò
Hanan.
Marihus
riacquisì il dono della parola, dopo quella scenetta
inconcepibile. Non si era ancora abituato a quel lato di Alexya, non
sarebbe mai riuscito a farlo, era troppo fuori dalla sua
mentalità. Era sempre stato circondato da grandi signore che
non cercavano di andare contro le regole delle nobildonne, non si
sarebbe mai aspettato di imbattersi in una ragazza che faceva tutto il
possibile per fare di testa sua. Le aveva concesso le passeggiate, se
così si potevano chiamare, con i soldati perché
le servivano come regina, sebbene le parole che imparasse dai militari
fossero di un registro talmente infimo da fargli dubitare della reale
utilità di quel vizio. Però non le poteva
permettere di disattendere le regole del buon vestire, parlare e
comportarsi, soprattutto davanti ad altri sovrani. Almeno, ora si era
calmata ed accettava le cure di Hanan in silenzio.
Ma
restava il fatto che lui non voleva andare in quel ristorante. Non con
lei, non ce l'avrebbe fatta, andava oltre i limiti della sua
sopportazione. Non avrebbe avuto pace, attendendosi da un momento
all'altro un qualche atto sconsiderato della ragazza.
«Statua
o non statua, milady, non basta il ballo? Spenderete già
abbastanza soldi per quello, la Mandragola non è una
bettola» argomentò il maggiordomo, porgendo ad
Hanan ago e filo per fissare l'abito alla sottoveste.
«Dihoris,
quant'è tirchio quest'uomo!» esclamò
Alexya, sollevando gli occhi al cielo. Poi rivolse lo sguardo a
Marihus. «Che t'importa, sono io che pago, no? E comunque,
ora che me lo ricordi, mi devi ancora cinquecento regi» gli
fece notare la ragazza, con un ghigno.
Marihus
decise che sarebbe stato zitto, almeno avrebbe evitato di mettersi in
situazioni del genere. Sapeva che Alexya amava dire sempre l'ultima
parola, quindi una discussione con lei sarebbe continuata all'infinito
se l'altra parte non avesse avuto il buonsenso di tacere e darla vinta,
almeno in apparenza, alla regina.
Terminato
di occuparsi del vestito, Hanan supplicò Alexya di poterle
acconciare i capelli, in qualsiasi modo, purché la smettesse
di andare in giro con i capelli al vento.
«Diventeranno
ancora più aggrovigliati» spiegò la
donna, convincente.
La
regina la guardò con un misto di accondiscendenza e
sconvolgimento, ma alla fine acconsentì, non
perché convinta dalle parole della serva, ma per motivi
ignoti persino a se stessa. Forse la vanità l'aveva avuta
vinta sulla ribellione. Contenta, Hanan recuperò tutto il
necessario ed iniziò il suo lavoro. Non appena prese il
pettine in mano, Alexya strillò.
«No, dannazione! Diventano crespi!
Non ti piacevano tanto i miei boccoli?» si lamentò
la ragazza, rivolta al riflesso nello specchio della serva.
«Sì,
ma...»
«Niente
ma! Se me li pettini, addio ricci. Ci ho già provato,
fidati...»
Johan,
in salotto, ricordò Alexya a dieci anni, che andava in giro
con i capelli sempre legati e urlava come una pazza quando qualcuno
provava a toccarglieli. Li
ho pettinati e fanno schifo!, si giustificava dopo aver
pestato un piede, generalmente, a lui. Scoppiò a ridere. Non
era cambiata, per niente.
Prima
che Alexya potesse rispondere alla risata del capitano, avendo ben
intuito a cosa lui stesse pensando, Hanan cercò di
convincerla: «Milady, non posso far nulla se non li
pettino».
La
regina, sbuffando, si mise a spiegare come doveva fare la donna ed alla
fine riuscirono ad essere tutte e due soddisfatte. Marihus
sospirò, sollevato. Le sue orecchie aveva avuto il meritato
riposo. Ora sarebbero iniziati i veri dolori, però. Non
voleva proprio andare alla Mandragola. Aveva cercato di convincere
Johan, ma Alexya era intervenuta dicendo che non era luogo da soldato
quello, ottenendo il pieno appoggio del capitano della guardia.
Finalmente
pronta, Alexya andò nell'ingresso, dando ordini a destra e a
manca prima di uscire.
«Hanan,
tu resti qui. Metti in ordine e tieniti tuo marito. Non ho bisogno di
tutta la guardia con me» Si voltò verso Johan.
«Tu, invece, mi segui portando con te Geq e Pjehr. Tre
soldati bastano e avanzano» Poi si avvicinò a
Marihus, rintanatosi in un angolo, e gli posò le mani sulle
spalle, con un sorriso maligno. «Caro mio, tu verrai con me
anche nella
Mandragola. Se osi lamentarti, faccio pagare la cena a te».
Marihus
chinò il capo, rattristato.
Entrata
alla Mandragola, Alexya fu colpita dalla luce, forte, ben distribuita
ed accogliente, così strana in quel luogo a metri sotto il
deserto. Nemmeno il Liocorno era tanto splendente, a parte nella hall
dove le lampade erano meglio distribuite. Si voltò verso la
porta d'ingresso e vide Geq e Pjehr attaccati al vetro, che guardavano
l'interno con la bocca aperta. Johan faceva finta di nulla, ma ogni
tanto buttava uno sguardo dentro, anche lui vinto dalla
curiosità. Quando però vide che Alexya li aveva
scoperti, afferrò i giovani soldati dalla giacca e li
trascinò via, portandoli a bere.
«Milady»
la richiamò Marihus.
La
ragazza roteò gli occhi seccata e, appena le venne incontro
il proprietario, lo salutò garbatamente, presentandosi. Come
aveva immaginato, Arnold le confermò con le sue parole che
Helena era già stata lì. Dopotutto, come avrebbe
potuto una gran signora come lei non andare alla Mandragola? Terminati
i convenevoli, Arnold si gettò alla ricerca di un tavolo per
la Regina d'Ovest.
Nicholas,
con un bicchiere di vino in mano, sollevò lo sguardo e vide
l'umana aspettare paziente nell'atrio del ristorante. Lui era seduto in
fondo alla sala, in modo da poter controllare tutto ciò che
accadeva senza voltarsi o altro. Quando Arnold gli passò
d'avanti, lo fermò senza quasi muovere un dito.
«Fa'
sedere Vostra Grazia al mio tavolo. Riferitele che è un mio
invito».
Il
proprietario della Mandragola annuì e tornò da
Alexya, che rimase senza parole a quel gesto del sovrano Infero.
Marihus cercò di protestare, ma lei lo ignorò ed
accettò l'invito. Intanto che Arnold li guidava da Nicholas,
la ragazza lanciò un'occhiataccia al maggiordomo.
«Ho
la situazione sotto controllo, non t'impicciare» disse
seccamente. Oh sì, voglio vedere
tra un po' chi tra te e Lord Nicholas avrà il controllo,
protestò tra sé Marihus, con un'espressione
contrariata. Sapeva troppo di quell'Infero per credere alle parole
della regina.
Arrivarono
al tavolo degli Inferi e Arnold si volatilizzò, mentre
Nicholas si metteva in piedi e con un inchino invitava Alexya a
sedersi. Con un sorriso appena accennato, le scostò dal
tavolo la sedia messa capotavola, alla sua destra, e la ragazza si
accomodò ringraziandolo con un cenno del capo ed un lieve
sorriso. Alla sinistra dell'Infero sedeva Irene, che non
degnò di uno sguardo l'umana e stringeva con forza la lama
di un coltello, gli occhi fissi nel piatto, cercando di calmarsi.
Vaenihum osservò pigramente la scena e salutò la
Regina d'Ovest con un mezzo inchino. Chester fece un cenno rispettoso
col capo e guardò perplesso la promessa sposa del re che si
feriva, senza preoccuparsi di esser vista.
Marihus
si sedette affianco al messaggero, che gli porse un menu abbandonato a
centro tavola.
«Noi
abbiamo già ordinato e stiamo aspettando» gli
spiegò Chester.
Nicholas
tornò seduto e sentì odore di sangue
schiaffeggiarlo con violenza. Sapeva bene che Irene si stava affondando
il coltello nella mano, ma non era il suo profumo quello. Rivolse uno
sguardo ad Alexya ed i suoi occhi si fermarono sul collo scoperto della
ragazza, i capelli raccolti in un'intricata acconciatura che lasciava
cadere fuori qualche riccio con studiata casualità. Ecco
perché era così forte l'odore. L'Infero smise di
respirare, senza darlo troppo a vedere, e passò un altro
menu alla regina, evitando che questa allungasse la mano e lo colpisse
con un'altra zaffata di profumo di sangue.
Un
cameriere di avvicinò e chiese ai nuovi arrivati se avessero
già deciso cosa prendere.
Mentre
Alexya era occupata nella scelta della cena, Nicholas
afferrò la mano di Irene e le strappò il
coltello, ferendola ulteriormente. Poi avvicinò il palmo
alla bocca e leccò via il sangue, con gesti lenti e
studiati, prima di mormorare un incantesimo di guarigione.
«Kuraeh-thi»
(2)
Alexya
lanciò uno sguardo verso l'Infero e rimase disorientata ed
imbarazzata da ciò che vide. Lo stomaco le si
annodò, così tornò a guardare la lista
di nomi che non aveva alcun senso per lei. Non aveva idea di cosa
scegliere, aveva la testa completamente vuota in quel momento. In
realtà, era solo occupata dalla bramosia che aveva visto
nelle iridi d'argento di Nicholas.
«La
tagliata è ottima» consigliò Chester a
Marihus, che non capiva perché il giovane lo avesse preso in
simpatia. Tra servi di
tiranni..., pensò divertito, ma sapeva di
essere stato ingiusto nei confronti di Alexya. Le rivolse un'occhiata e
notò che aveva la solita espressione di quando aveva altro
per la testa. Guardò Nicholas con la mano di Irene premuta
davanti alla bocca ed intuì qualcosa.
«Nicholas...»
gemette Irene, premendosi la mano libera sulla bocca. Le andavano bene
quelle attenzioni, ma non in un ristorante. Lo trovava tremendamente
imbarazzante.
L'Infero
ignorò il demone e le liberò l'arto solo quando il
cameriere si fu allontanato. Stava già meglio, forse il
sangue dell'umana lo attirava solo se aveva sete. Avrebbe
dovuto stare più attento ai pasti, allora. Si rivolse alla
regina, con un'espressione affabile.
«Non
mi aspettavo di trovarvi qui, milady. Gli altri giorni dove andavate a
pranzare?» cominciò Nicholas, per far
conversazione.
Alexya
non sapeva come rispondere ed aveva la bocca asciutta, la lingua
incollata al palato. Doveva distrarsi da quel che aveva visto. Doveva
pensare ad una risposta. Doveva allora dirgli che andava in giro con i
soldati? Passatempo interessante,
commentò l'Infero, afferrando il bicchiere di vino davanti a
sé.
«In
altri ristoranti», rispose Marihus, ignaro dello scambio di
battute.
La
ragazza sussultò, quando capì cos'era accaduto, e
guardò l'Infero contrariata. Cosa state facendo?
«Perdonatemi»
Ma i vostri pensieri non
sono protetti, non posso far altro che ascoltarli,
spiegò Nicholas, con finta innocenza.
Pure
Vaenihum sentiva quel che pensava la ragazza, sia lui che il re
tenevano sempre tutto sotto controllo utilizzando la Voce. Se avesse
voluto, Nicholas avrebbe potuto far alzare tutti gli ospiti ignari e
farli ballare, o lottare, o fuggire, e questi avrebbero creduto di
agire secondo la propria volontà. Guardò il
maggiordomo che cercava di capire cosa stesse succedendo, muovendo in
continuazione gli occhi dalla sua padrona all'Infero. Ed io non posso proteggerli,
ribatté Alexya piccata. Permettetemi
di essere padrona della mia mente, lo supplicò
poi. La libertà si deve
guadagnare, ma sarò magnanimo con voi, milady,
le concesse Nicholas. Non schermò, però, la mente
della ragazza. Si limitò a non rispondere più ai
suoi pensieri. Dopotutto non c'era motivo per non controllare anche lei.
«Avete
problemi con la magia mi sembra di capire» disse Nicholas,
sorseggiando il vino.
Vaenihum
puntò gli occhi sul suo signore, le sopracciglia inarcate,
sorpreso da quell'uscita diretta. Non c'entrava nulla con la protezione
della mente la magia, ma Alexya non lo sapeva. Essendo digiuna di
quell'argomento, non avrebbe mai capito il trucco. Nicholas voleva
andare a parare lì sin dal primo momento, utilizzando
qualsiasi mezzo a sua disposizione.
Alexya
fissò il piatto vuoto, mentre poneva il tovagliolo sulle
gambe. «Non si possono avere problemi con qualcosa che non si
possiede» replicò, cupa. Secondo il tuo ragionamento, tu
non dovresti essere un problema per milord,
pensò Vaenihum poggiando il mento su una mano.
Nicholas
sentì il commento dell'Elfo, ma lo ignorò. Aveva
ragione, ovviamente. Prese la mano della ragazza, la sinistra, e
sfiorò con i polpastrelli il tatuaggio, tenendo lo sguardo
fisso sul volto di Alexya. Quando l'anello reagì, vide la
sua espressione farsi sofferente, mentre si mordeva le labbra.
«Eppure
avete questo anello» le fece notare, stringendo la mano della
ragazza, calda e delicata nella sua presa di gelido marmo. L'avrebbe
potuta distruggere senza troppo sforzo. Ne era ogni istante
più cosciente.
Irene
si agitò sulla sedia, ma si rifiutò di rivolgere
i suoi occhi verso il re e la sua ospite. Non sapeva come avrebbe
reagito ad un contatto visivo diretto e quindi non voleva rischiare.
Chester, invece, era occupato in una discussione con Marihus riguardo
al cibo migliore, quindi nessuno dei due prestò attenzione
resto del tavolo.
Alexya
sollevò lo sguardo verso Nicholas e rimase incantata, ancora
una volta, dai suoi occhi d'argento. Detestava quella sua reazione, ma
non riusciva a resistergli. L'Infero somigliava ad una catastrofe
imminente, che lei non poteva, o non voleva, fermare in alcun modo.
«Allora
perché non riesco ad utilizzarla?»
domandò la ragazza, stringendo a sua volta la mano
dell'altro.
Con
un gesto lento, ma fluido ed elegante, Nicholas portò l'arto
della regina all'altezza del suo viso e sentì il calore di
quel corpo giovane, umano e pieno di vita, trasmettersi per un attimo
sulla sua pelle pallida e fredda. Non distolse mai lo sguardo da quello
verde di Alexya, che lo fissava con la bocca schiusa, catturata dalla
sua malia.
«Qualcuno
potrebbe avervi imposto un sigillo, in tenera età, che
v'impedisce di usare i vostri poteri. Oppure essi sono talmente grandi,
da risultare pericolosi ed il vostro corpo si protegge in questa
maniera. Ma queste sono solo ipotesi».
Appena
Alexya ascoltò quelle parole, contemplò quelle
due possibilità, trovandole piuttosto logiche e sensate. Non
aveva mai pensato nulla del genere e doveva iniziare a tenerlo in
conto. Potevano esserci vie che non aveva mai immaginato, ma che le
avrebbero permesso di raggiungere la meta. Fu pervasa dal sollievo e
rivolse un sorriso colmo di gratitudine all'Infero.
Vaenihum
inarcò ancora le sopracciglia, divertito a modo suo per
quella reazione della ragazza. Guardò Nicholas e vide che
lui era impassibile, il volto immobile mentre premeva contro di esso la
mano di Alexya, per assorbire ogni goccia del suo calore.
Il
cameriere portò due piatti, che posò davanti ai
due sovrani, con silenzioso garbo. Nicholas notò che sotto
la sua porzione di antipasti era attaccato un bigliettino. Immaginava
chi fosse, solo un'umana poteva usare metodi così banali per
comunicare. Mara si sarebbe potuta presentare al suo arrivo, invece di
mandargli stupidi messaggi con tutta quell'aria di cospirazione. Il suo
seguito era comunque a conoscenza di quel che lui andava a fare.
Così pure suo marito.
Quindi,
allontanatosi il cameriere, Nicholas sollevò appena il
piatto e staccò il biglietto di carta rossa. Amore, il filetto al sangue che
avete ordinato vi attende al secondo piano, stanza 209. Sempre vostra,
Mara. L'Infero ripiegò il foglio, sotto lo
sguardo curioso della Regina d'Ovest, che non aveva ancora iniziato a
mangiare. Amore,
lo aveva chiamato amore.
Un vellutato cappio, altro che affettuoso soprannome. Un modo barbaro
di marcare il territorio dove non c'è nessun altro a
minacciarlo. Era davvero disgustato. Nemmeno oltraggiato, stizzito o
che altro, ma disgustato.
Si domandò come potesse aver avuto così poco buon
gusto. Alla fine, neanche il corpo di quella donna era
chissà cosa. Quelle smancerie gli resero necessario prendere
una decisione, invece di lasciare quella situazione com'era. Avrebbe
cercato un'altra donna cui far visita a Sung'bar, con Mara era durata
troppo, se lei si stava prendendo tante, disgustose libertà.
Fato
volle che in quel momento Arnold passasse nei pressi del tavolo del Re
delle Terre d'Ombra, che lo intercettò e gli porse il
biglietto, con studiata noncuranza.
«Ho
trovato questo messaggio nel piatto. Di' a cuochi e camerieri di fare
attenzione che non cada nulla in questo cibo ottimo» disse
Nicholas, con tono annoiato.
Arnold
impallidì sotto lo sguardo attento di Irene. A quanto pareva
l'Infero si era stancato di Mara. Che
peccato. Ora il proprietario della Mandragola aveva una
prova per accusare la moglie di adulterio, anche perché lei
non era più sotto la protezione di Nicholas. Il demone
pensò che la cosa peggiore fosse proprio quella:
finché l'Infero era interessato ad una donna, questa era
protetta da qualsiasi cosa; per lui, quella era una questione del suo
onore di uomo. Ma, quando la donna perdeva i favori di Nicholas, era
meglio per lei morire che subire tutte le conseguenze di quell'atto.
Irene era fortunata, perché il sovrano era obbligato a
tenerla con sé, altrimenti i Clan gli si sarebbero rivoltati
contro apertamente, avendo una buona scusa come quella. Era una
situazione triste, eppure la metteva su un piano diverso rispetto alle
altre donne.
Irene
guardò Alexya, che osservava a sua volta il proprietario
della Mandragola, e si domandò cosa se ne volesse fare
Nicholas di quella ragazza. Aveva forse lasciato Mara perché
aveva un nuovo giocattolo? Allora non aveva bisogno di esser gelosa,
avrebbe fatto la stessa fine delle altre. Tuttavia, non si
sentì più tranquilla.
«Lady Irene»
sibilò Vaenihum, a volume talmente basso che sarebbe stato
impossibile sentirlo se non avesse utilizzato anche la Voce.
Il
demone ignorò l'Elfo. Non aveva intenzione di perder tempo
pensando ancor di più a quel che sarebbe potuto accadere a
quell'umana. Non le interessava minimamente, non erano affari suoi
finché era la promessa sposa di Nicholas, protetta e
privilegiata.
«Dici
questo perché non hai mai assaggiato quella di
Renan!» esclamò a voce troppo alta Marihus rivolto
a Chester, mentre Arnold si allontanava diretto alle poche stanze poste
sopra il ristorante.
Alexya
aprì la bocca per gridargli contro, ma si ricordò
dov'era, perciò si limitò a pestargli con forza
il piede sotto il tavolo, sfogando anche quella punta di frustrazione
che provava per essere all'oscuro di cosa ci fosse scritto nel
bigliettino di Nicholas.
Quando
arrivò anche il resto dell'antipasto, iniziarono tutti a
mangiare e i due sovrani parlarono del più e del meno,
spaziando dall'organizzazione di un palazzo reale, alla riscossione
delle tasse, fino all'importanza dei nobili, se dovessero o meno
controllare i territori al fianco del sovrano. Avevano idee divergenti,
in qualsiasi ambito, e le discussioni, pacate e ragionevoli, si
protrassero durante tutta la cena, placandosi solo tra un boccone e
l'altro.
«Quando
avete intenzione di partire, milady?» domandò
Nicholas, versandole del vino nel bicchiere vuoto.
«Domani,
non vorrei stare lontana troppo a lungo dallo Smeraldo»
rispose Alexya, mentre col cucchiaino raccoglieva l'ultimo pezzo di
dolce, recuperando la crema sparsa qua e là nel piattino.
L'Infero
riempì anche il suo calice e lo portò alle labbra.
«Dato
che anch'io ho programmato il ritorno per domani, che ne dite di fare
una parte del viaggio insieme a
me?» le propose, prima di bere.
La
ragazza lo guardò sottecchi, con il cucchiaino sospeso
davanti alla bocca. Abbassò la posata, intanto che Marihus
pregava che la ragazza rifiutasse. Era troppo per lui passare giornate
intere con quelle creature, belle per carità, ma così
inquietanti.
«Voi
non dovreste percorrere un altro tragitto?» chiese Alexya.
L'idea le faceva gola, eccome, perché sapeva che gli Inferi
si muovevano in carrozza e le sarebbe piaciuto evitare ore ed ore di
Soli che picchiavano sulla testa. Gli astri erano tre e nel deserto
avevano calore da vendere. Avrebbe preferito stare all'ombra ed al
fresco, senza il mal di schiena dovuto al cavallo, anche se in
compagnia di quei quattro. E comunque, Nicholas non le creava
più molti problemi quando non lo fissava negli occhi. E non
le toccava l'anello.
«No,
non passiamo da Noctibus per raggiungere i Pilastri Trasportatori del
Sud, questa volta. Dobbiamo recarci nella Foresta Grigia, prima di
rientrare, poiché il maestro di palazzo è rimasto
lì» rispose Nicholas e continuò,
anticipando la successiva obiezione della ragazza, «Avremmo,
inoltre, un posto libero, perché Chester partirà
prima di noi per arrivare a palazzo ed avvertire del nostro
ritorno». Fosse stato per lui, sarebbe tornato senza dire
niente a nessuno, ma più volte i Nobili si erano opposti a
quella scelta, quindi era obbligato a mandare il messaggero ad avvisare
i Clan di stare attenti alle loro mosse, perché il re era di
ritorno.
Fingendosi
convinta da quelle parole, mentre in realtà aveva
già deciso da un pezzo, Alexya accettò l'invito.
Quando lasciarono la Mandragola, prima di congedarsi e salire ognuno
sul proprio mezzo di trasporto, i due sovrani si accordarono
sull'orario di partenza.
«A
questo punto, non mi resta che augurarvi un buon riposo, milady. Non
chiuderò occhio in attesa di domani» la
salutò Nicholas, col consueto baciamano.
Ripresasi
dalla scossa che la attraversava a quel contatto, Alexya sorrise
divertita all'Infero. «Come fate ogni notte»
rispose ma, vedendo con la coda dell'occhio l'espressione sconvolta di
Marihus, si spiegò per evitare fraintendimenti
«Dopotutto voi Inferi non avete bisogno di dormire quanto noi
Uomini».
Chester
osservò il maggiordomo impallidire, con un certo gusto.
Quell'uomo era divertente, reagiva sempre in modo esagerato, persino
alle azioni della sua padrona. Era così diverso dagli
Inferi, che non avevano quella stessa spontaneità ormai,
dopo secoli di vita, soprattutto quelli della corte, dove ogni gesto e
sentimento poteva essere riutilizzato per altri fini, conducendo in
baratri da cui diventava impossibile uscire. Nicholas, più
degli altri sovrani delle Terre d'Ombra, aveva dovuto destreggiarsi in
quel labirinto di trappole e continuava a farlo tutt'ora. Infatti,
Chester ad Occhio degli Inferi non avrebbe portato solo la notizia del
ritorno del re, ma anche nuovi ordini per Krados.
Alexya,
Marihus ed i tre soldati avanzavano verso il Liocorno, ognuno preso dai
propri pensieri. Solo Geq e Pjehr parlavano, scambiandosi battute
salaci e pacche sulle spalle. Erano stati in giro a bere con Johan ed
erano un po' alticci ed allegri. Le strade del secondo livello non
erano molto illuminate, di tanto in tanto si trovavano lampioni spenti,
soprattutto davanti alle case, dove nessuno si occupava dell'accensione
per menefreghismo o perché non occupate.
Il
capitano teneva gli occhi ben aperti, del tutto sobrio. Preferiva non
abbassare la guardia, anche se si trovavano nel livello nobiliare che
avrebbe dovuto essere il più sicuro. In realtà,
non era difficile accedervi, uno dei ladruncoli del primo strato non
avrebbe trovato nessuno a sbarrargli il passaggio ed avrebbe potuto
muoversi indisturbato e non visto dato il buio.
«Regina
d'Ovest, potete ascoltare quel che ho da dirvi, oppure andate di
fretta?»
Una
voce ruvida, un po' burbera nonostante il tono garbato, prese alla
sprovvista il gruppo, che si fermò di colpo. Ognuno
sguainò la propria arma, tranne Marihus che non ne aveva mai
una con sé.
Alexya
stava per avanzare e rispondere, ma Johan si frappose tra lei e lo
sconosciuto nascosto nell'ombra. Senza una parola, le fece intendere di
esser più cauta ed attendere che se ne fosse occupato lui.
«Fatti
vedere o non avrai un minuto del suo tempo» fu la replica del
soldato. Subito Geq e Pjehr gli si affiancarono, per dargli manforte in
caso di necessità. La ragazza, con la spada che aveva appeso
alla sella del suo cavallo, attese di vedere il volto di colui che le
chiedeva udienza.
Dalle
tenebre, con un passo silenzioso, emerse il negromante da cui Johan
aveva portato il Myurohon catturato da Alexya. I capelli corvini erano
intrecciati due o tre volte, per poi cadere liberi sul petto del
giovane. Dalle orecchie leggermente a punta, come quelle di
Divinità ed Inferi, pendevano triangoli di metallo laccato
di nero, che dondolarono quando si mosse. Gli occhi, cerchiati da
profonde occhiaie del genere che non sparisce mai, erano neri come
quelli degli dei. Ma non era uno di loro, altrimenti non si sarebbe
trovato lì a fare lo stregone.
«Sono
Archelaos il negromante» si presentò, con un
inchino. «Ho guadagnato udienza, così?»
domandò seccato a Johan, che lo aveva riconosciuto.
Archelaos,
ottenuto il permesso dalla guardia, rivolse il suo sguardo alla
giovanissima regina che spinse il cavallo vicino a lui. Rimase un po'
sorpreso, era una bambina per i suoi standard da immortale. Aveva
immaginato colei che aveva osato sfidare Inferi e Divinità
come una donna matura, una guerriera terribile, una saggia regina. E
invece eccolo di fronte a quella ragazzina.
«Forse
non vi siete ancora posta il problema, ma sono venuto a darvi un
suggerimento per uccidere i Myurohon» le comunicò
il negromante, incrociando le braccia sul petto lasciato mezzo scoperto
dalla tunica grezza aperta.
Alexya
non gli rispose. Non era vero, ci aveva pensato, soprattutto
perché aveva chiesto a Johan come era stato ucciso il
Myurohon del deserto, la sera del loro arrivo. Ma lei non riusciva ad
usare la magia, quindi non poteva utilizzare quel metodo, che
oltretutto risultava lungo e poco efficace durante uno scontro. Aveva
deciso di andare a cercare Nestor, appena ne avesse avuto il tempo,
tornata a Borgo Smeraldo.
«Qual
è questo suggerimento?» chiese la ragazza,
scettica.
«Gli
Inferi hanno trovato il modo per ucciderli durante una battaglia,
purtroppo lo tengono segreto. È stato Lord Nicholas con quel
suo Elfo, ma tutto quel che stanno creando quei due non è
mai uscito dalle Terre d'Ombra...» rispose Archelaos, ma si
accorse di star divagando. «Comunque, vi consiglio solo di
ottenere le informazioni necessarie con il metodo che preferite. Non ho
altro da dirvi, losnath».
Detto questo, fece un passo indietro e sparì nel buio,
così com'era apparso. (3)
Marihus
non aveva capito una parola di quel che era stato detto e comunque non
gli interessava, non c'entrava lui. Johan si avvicinò a
cavallo alla sua regina, che teneva gli occhi puntati dove era sparito
Archelaos.
Un
modo per uccidere i Myurohon in combattimento.
Gli
Inferi.
Il
viaggio in compagnia di Lord Nicholas le avrebbe offerto una
possibilità di indagare di persona. Sì, era
così.
«Proseguiamo»
ordinò Alexya, spronando il cavallo.
Il
giorno seguente, Nicholas lasciò la hall del Liocorno, dopo
aver sistemato le ultime scartoffie, e raggiunse la carrozza. Il
cocchiere corse ad aprirgli lo sportello e il re entrò
tranquillo. Nella vettura si trovava già Irene, imbronciata,
ma lui la ignorò, perché aveva ragione lui. Era
inutile discutere.
Quel
mattino, tutti erano pronti, meno la sua promessa sposa, quindi era
andato nella sua stanza e l'aveva portata fuori di peso, caricandosela
sulla spalla e umiliandola davanti a tutti. Per mali estremi andavano
usati estremi rimedi, perciò lei non aveva nulla di cui
lamentarsi. Altrimenti l'avrebbe mollata lì e l'avrebbe
fatta tornare ad Occhio degli Inferi da sola e a piedi. Così
il suo bel vestito di raso si sarebbe rovinato, i capelli biondi
sarebbero stati intrattabili e i piedi gonfi.
«Non
è modo» brontolò Irene, girando il capo
verso l'esterno della carrozza.
«Hai
assolutamente
ragione» concordò Nicholas, prendendola in giro
con un'espressione ed un tono glaciali.
Il
demone si voltò di scatto verso il sovrano e gli
posò le mani sul petto, afferrando la giacca nera e
strattonandola una volta. «Che ti sarebbe costato farmi
finire di preparare?» lo incalzò la donna.
Nicholas
la guardò, con un sopracciglio inarcato. «Me lo
chiedi pure» commentò, fingendosi sorpreso. Le
mise le mani sui fianchi e la tirò cavalcioni su di
sé, mentre affondava una mano nei capelli platino di Irene,
intrecciati e raccolti in una crocchia dietro la nuca. Con un gesto
secco e repentino, distrusse l'acconciatura facendole non poco male.
Una smorfia di dolore comparve sul volto di Irene. «Sarebbe
stato tempo perso» spiegò in un sussurro. Spinse
la donna contro di sé, baciandole dapprima il collo
disadorno, per risalire alle sue labbra, in una lenta carezza.
Intanto,
Vaenihum era fermo sotto il porticato, i pollici infilati tra cintura e
pantaloni, l'aria annoiata in attesa della Regina d'Ovest, che vide
sbucare seguita dal capitano della sua guardia, mentre erano in mezzo
ad una discussione piuttosto accesa. I due si fermarono, gesticolando
furiosamente, poi Alexya alzò la voce, infuriata, e si
lasciò alle spalle l'uomo.
Johan
guardò l'Elfo in fondo al porticato con aria truce. Poi
decise di raggiungerlo e, con ampie falcate, gli fu davanti. Alexya era
andata direttamente alla carrozza nera al centro del cortile, pestando
i piedi in maniera poco elegante. Il capitano la ignorò, ora
doveva vedersela con il servo dell'Infero.
«Senti,
tu, se le
succede qualcosa ve la farò pagare, a te ed al tuo re
vizioso!» lo minacciò Johan, afferrandolo per il
bavero della camicia elfica.
Vaenihum
lo guardò annoiato. «Non vedo cosa potresti farci,
umano...»
Il
capitano stava formulando una risposta adatta, quando un urlo lo
sconcentrò, attirando la sua attenzione da un'altra parte.
Si voltarono entrambi verso la carrozza e videro Alexya cadere
all'indietro, giù dallo scalino, agitando le mani nel vuoto.
«Alexya!»
urlò Johan correndo verso di lei, per impedirle di finire
per terra. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare in tempo, lo sapeva,
eppure era scattato verso di lei. L'Elfo lo seguì, d'istinto.
Nicholas,
con un movimento fulmineo, si sporse dalla carrozza ed
afferrò con forza il braccio sinistro di Alexya. Nel farlo,
sentì il polso della regina cedere sotto la sua stretta e
l'articolazione del gomito uscire dalla sua postazione. Non aveva ben
calibrato il suo potere, la stava quasi distruggendo. Troppo fragile.
Scese dal veicolo e strinse a sé la ragazza, che ora gemeva
per il dolore al braccio.
Johan
arrivò dopo un po' e non seppe se ringraziare l'Infero per
il salvataggio poco delicato o gridargli contro per quel che aveva
fatto alla sua regina. Quando Vaenihum si fermò al suo
fianco, silenzioso e vigile, il capitano preferì tacere. Lo
avrebbero ucciso senza troppi complimenti, se avesse detto la cosa
sbagliata. E quel che aveva in mente era proprio la cosa sbagliata che
lo avrebbe condannato.
Dalla
carrozza fece capolino Irene, i capelli biondo platino che cadevano
sulle spalle, ondulati per esser stati imprigionati in trecce.
«Cos'è
successo?» domandò, frastornata dalla
rapidità con cui tutto era avvenuto.
I
tre uomini la ignorarono. Lei osservò la scena e
tornò nell'abitacolo. Niente che la dovesse interessare.
«Bisogna
curarla» disse Johan, avanzando di un passo.
Vaenihum
lo imitò. «Ma va» rispose burbero e
l'umano comprese di dover lasciare tutto nelle mani di Nicholas. Non si
sarebbe levato dalle costole l'Elfo, l'aveva capito ormai.
L'Infero
guardò la ragazza che stringeva tra le braccia, sentendo
nella sua mente il dolore che provava quasi fosse suo, mentre la fame
lo assaliva con l'odore del suo sangue così forte e vicino.
Si impedì di respirare e risolse il secondo problema. Doveva
insegnarle a schermare i suoi pensieri, non gli serviva sentire le sue
stesse sensazioni. Col polso rotto ancora stretto nella sua mano,
mormorò l'incantesimo di cura e l'osso si
risistemò sotto la pelle, provocando alla regina un
fastidioso formicolio.
Alexya
non aveva versato una lacrima, il volto schiacciato contro la giacca
dell'Infero, nelle narici nient'altro che il suo odore maschile, ma il
gomito le faceva malissimo, ora che la sofferenza per il polso era
svanita. Non riusciva a piegare il braccio, che le mandava pulsazioni
di dolore sempre più intense. La vicinanza con il re non
l'aiutava ad ignorare la sofferenza fisica.
«Piegatelo,
si aggiusterà» le ordinò Nicholas. Non
gli andava di sprecare potere per una banale lussazione. Con la mano
sull'avambraccio di Alexya, la aiutò a fare quanto aveva
detto.
La
regina sentì l'osso riposizionarsi e subito il dolore
svanì del tutto. Sollevò il viso e
ringraziò Nicholas.
«State
più attenta, la prossima volta» fu tutto
ciò che le disse, prima di allontanarla con gentilezza.
Ormai voleva solo affondare i denti in quel collo delicato e
null'altro. Un istinto animalesco che doveva domare. Risalì
sulla carrozza, costringendo Irene a sedersi al proprio posto e star
buona.
Vaenihum
affiancò la regina umana, in attesa che lei seguisse
l'Infero sulla vettura nera.
«Ma
si può sapere come hai fatto a cadere?» le chiese
Johan, con le idee molto confuse. Era riuscito a vedere poco di quel
che aveva fatto Nicholas per fermare la ragazza, ma quel che voleva
sapere l'aveva appena domandato.
Alexya
non lo guardò né gli rispose, scuotendo appena il
capo. «Teneteci dietro, lentoni» disse
semplicemente, tentando di scherzare. Poi si voltò ed
entrò nella carrozza, seguita dall'Elfo. Il cocchiere chiuse
lo sportello davanti a Johan, muto ed immobile, molto perplesso. Non ho capito niente,
pensò sconsolato il soldato, ma raggiunse la hall del
Liocorno, dove Marihus terminava di occuparsi della burocrazia.
La
regina seguì con lo sguardo l'Elfo che si andava a sedere al
suo fianco, per non guardare Nicholas di fronte a lei. Quando non ebbe
più scuse per ignorarlo, incontrò i suoi occhi
argentati e le parve di rivedere la stessa espressione famelica che
l'aveva fatta reagire in quella maniera tanto esagerata. Mentre prima
le era parsa rivolta alla promessa sposa, ora non c'era alcuna
spiegazione plausibile. Solo lei e lui. Ed il suo povero stomaco
annodato.
Per
il prossimo capitolo, forse mi farò attendere di nuovo 15
giorni. Spero di riuscire ad andare avanti nei due giorni di vacanza
per Carnevale.
In
qualsiasi caso, avviserò chi è interessato.
Eccomi di ritorno!
Prima di cominciare ringrazio myki,
Dark Magician (come
sempre, mille grazie per gli errori... lo ammetto, non so cosa farei
senza di te!), Marluxia25,
berry345 e olghish
(sì, l'avevi già letta questa storia XD).
Ah, non dimentichiamo quanto richiesto da myki: la lista dei personaggi:
Uomini:
Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice,
cugina di Helena; Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya; Johan, capitano
delle guardie reali d'Ovest; Marihus,
maggiordomo dello Smeraldo; Hanan, ancella di
Alexya; Garstand, padre di
Alexya; Dygghor, padre di
Helena; Arghos, uno degli
Anziani; Geq e Pjehr,
soldati della guardia reale; Tarus, Re del Nord; Mentius, Re del Sud; Ludovik di Dornior,
Re d'Est.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le
razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito); Irene di Canthao,
promessa sposa di Nicholas, demone; Chester di Niha,
messaggero reale, antico spirito lupo; Lathiora, vive allo
Smeraldo, antico spirito gatto.
Divinità:
Al, Re delle
Divinità, dio della Forza; Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio; Hordev, figlio di
Al ed Adele, dio della Lussuria; Zephiro, protettore
della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti; Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di
Sarihele, dio della Guerra; Eoforbio, portavoce
reale; Sarihele, capo
degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni; Veris, dea della
Primavera; Niharn, protettrice
del Regno d'Ovest; Devon, sottotenente
di Vraele, Colchico; Dabar'as, membro
degli Herzbrenht.
Campi
di Sangue:
Archelaos,
negromante, semidio; Laila, scheletro di
Archelaos; Arnold,
proprietario della Mandragola; Mara, moglie di
Arnold; Tyr, proprietario
del Vagabondo selvaggio.
Elfi
e Lucenti:
Wirda, Re degli
Elfi; Vaenihum, braccio
destro di Nicholas, medico di corte, Elfo; Adhurna, Regina dei
Lucenti, cieca.
.-.-.-.
VII. L'ombra del Re
Dei tre giorni
necessari per raggiungere i Pilastri Trasportatori ai piedi dei Monti
Oscuri, Chester ne impiegò la metà, attraversando
deserto, steppa, oliveti e campi di grano in forma di lupo dal folto
pelo blu notte. Era stato scelto come messaggero di Lord Nicholas
proprio per questa sua velocità, incredibile persino per gli
Inferi. Inoltre lui, come tutti i giovani purosangue dei Clan, era
obbligato a prestare servizio a corte, a causa dei frequenti complotti
che avevano animato il castello nel primo millennio delle Terre d'Ombra. L'antico
spirito si fermò davanti alle colonne nere. «Hopke-thi Hinferion yanui!»
ordinò, tornato in forma umana per poter pronunciare la
formula, la tunica arrotolata e avvolta attorno al collo. In forma
animale poteva parlare, ma non usare la magia. Non era abbastanza
potente per fare anche quello. (1) Quando lo
spazio davanti a sé fu deformato dalla magia, creando il
varco, Chester tornò ad essere un lupo con un fagotto al
collo ed attraversò il portale con un balzo. Non appena
atterrò dall'altra parte, i Pilastri Trasportatori tornarono
inerti e l'Infero riprese la sua corsa. Ormai mancava pochissimo ad
Occhio degli Inferi. Alle sue
spalle, a chilometri di distanza, le pendici dei Mondi Oscuri
lasciavano spazio ad un territorio brullo e spoglio, con villaggi
sparsi qua e là sulla terra e nel cielo, su isole fluttuanti
che di giorno erano nascoste dalla fitta coltre di nubi che proteggeva
le Terre d'Ombra dalla luce solare, immergendo il regno in un grigiore
perenne. Il Mare di Smeraldo brillava, verde e calmo, ad Ovest e su di
esso si affacciava la capitale degli Inferi. Occhio degli
Inferi pullulava di stradine contorte, eseguite senza criterio solo per
collegare le abitazioni che si aggiungevano di secolo in secolo, ma ad
unire i tre ingressi della cinta muraria ed il porto con il palazzo
c'erano quattro ampli viali lastricati e ben tenuti, lungo i quali si
trovavano le ville nobiliari. Le mura si
estendevano lungo tutto il perimetro della città dalla
pianta irregolare, separate da essa da un paio di chilometri, per le
successive espansioni dovute alla costruzione di nuove abitazioni. Il castello,
invece, si ergeva al centro della capitale, arroccato su un enorme
albero, l'Hinferion Rahan,
fossilizzato già ai tempi di Nephas, che lo aveva trovato
adatto per la sua dimora. Nel tronco passava l'ascensore e si trovavano
i piani inferiori del palazzo, le cui finestre spuntavano dai rami,
permettendo all'interno di essere illuminato dalla flebile luce che
filtrava dalle nuvole. Era una costruzione enorme, quanto l'estensione
della chioma dell'albero, che terminava con delle mura poste attorno ad
un grande piazzale, nel cui mezzo di trovava la torre dal tetto a
cupola che dava il nome alla capitale: l'Occhio degli Inferi permetteva
al sovrano, con la magia, di vedere chiaramente tutti i territori dai
Monti di Luce allo Stretto della Morte, all'estremo Sud della Terra dei
Cinque Popoli. (2) Il palazzo
reale, al suo interno, era contorto come la ragnatela di strade della
città che lo ospitava. I corridoi seguivano percorsi strani,
per evitare rami dell'albero che attraversavano la costruzione, o non
conducevano da nessuna parte oppure in locali pericolosi o riservati.
Chi malauguratamente finiva in queste zone non poteva far altro che
morire. Perciò la servitù veniva ben addestrata e
gli ospiti sempre accompagnati da un anfitrione. Chester
tornò nella sua forma umana davanti alla porta Nord della
capitale, indossò la tunica e si presentò. Le due
guardie, abbigliate di nero e argento, lo riconobbero ed uno
gridò rivolto a qualcuno all'interno delle mura. «Comandante!» Dalla compatta
parete di pietra, si aprì una finestrella e
spuntò una testa. Un soldato semplice, nient'altro. «Chester
del Clan Niha è tornato! Riferisci al comandante»
ordinò il soldato fuori dalla cinta muraria all'altro. Il portone
iniziò ad aprirsi lentamente, ma senza emettere il minimo
rumore. Si mosse finché non si creò un varco
abbastanza grande per far passare il messaggero reale, che lo
attraversò di fretta. Appena mise piede sul viale
lastricato, Chester si trovò davanti un vampiro vestito per
intero in pelle nera: giaccone lungo fino alle caviglie, pantaloni e
stivali tutti dello stesso materiale. I capelli corvini erano tagliati
corti dietro la nuca, mentre davanti arrivavano alla base del collo,
pettinati in direzione del viso, pur senza nascondere gli occhi rosso
sangue del giovane. Era il membro
purosangue del Clan Thener, quello da cui proveniva la prima sposa di
Aexandras e madre di Nicholas. Tutti i Nobili Inferi appartenevano ai
Clan e nelle loro vene scorreva, in diverse quantità a
seconda delle unioni con altre famiglie, il sangue dei sei fratelli di
Nephas. I Clan erano sei ed i loro membri potevano essere
esclusivamente di una delle tre razze Infere: infatti, Niha e Arah
erano antichi spiriti, Thener e Lahat vampiri e, infine, Canthao e
Thena demoni. Per mantenere l'alleanza col trono, a turno, una donna
purosangue veniva offerta in sposa al sovrano. «Molko»
lo salutò Chester, costretto dall'avvicinarsi del
comandante, che sembrava essersi scomodato proprio per lui. Molko, assieme
a Cedric del Clan Lahat, era uno dei generali dell'esercito, ma era al
comando di una sola legione, perché molto incline alla
violenza immotivata. Nicholas aveva bisogno di sottoposti che
ascoltassero subito i suoi ordini, non che si lasciassero trascinare
dalle loro passioni, decidendo arbitrariamente se eseguire o meno
quanto il re diceva. In compenso, gli era affidata la guardia della
capitale, da cui era stata debellata la criminalità grazie
al carattere del comandante. Chester non si trovava a suo agio con lui
e cercava sempre di girargli più lontano possibile. «Chester
Chester, ti sei fatto una bella corsetta, vero?» disse Molko,
tirando un'amichevole pacca sulla spalla dell'antico spirito, con la
sua forza senza limiti. «Faccio una capatina a palazzo
assieme a te, vieni» gli annunciò, compiendo un
giro su se stesso. Chester fu
costretto ad acconsentire, anche perché non gli aveva
lasciato molta scelta. La via fino all'Hinferion Rahan sarebbe stata
molto lunga.
Krados
lasciò ricadere la tenda al suo posto, dopo il passaggio di
Chester accompagnato da Molko. Perfetto,
ora il messaggero sarebbe stato al sicuro e lui avrebbe potuto
terminare il suo lavoro col cuore più leggero. Grazie a Fato, quel vampiro
violento è molto collaborativo quando gli si parla di menar
le mani, pensò il demone di Thena, coprendosi i
capelli blu col cappuccio nero. Silenzioso e
invisibile nel buio, Krados raggiunse il luogo più adatto
per osservare senza esser visto. Conosceva a memoria la pianta del
palazzo nobiliare del Clan Canthao, Nicholas lo aveva obbligato ad
imparare tutto sui membri dei Clan e sulle loro dimore e solo in
momenti come quello gliene era immensamente grato. Si infilò
nell'intercapedine del camino nel salotto in cui era seduto Thitus, il
più importante membro del casato, uno dei demoni
più antichi di tutte le Terre d'Ombra, figlio illegittimo di
Jhadez, uno dei fratelli di Nephas. I capelli boccoluti erano castani
con striature bianche, dovute non tanto alla sua anzianità,
ma all'eredità genetica della madre; erano corti, ma non
abbastanza da impedire alle ciocche più lunghe di
arricciarsi attorno al collo muscoloso e scoperto. Gli occhi verdi
guardavano nel vuoto, nella penombra del soggiorno. Indossava un
vestito di seta rosso vino, di foggia sudriona, aperto sul petto per
mettere in bella mostra il medaglione con la runa del fuoco. Solo i
purosangue avevano tatuato addosso, sulla schiena di preciso, il
simbolo del loro Clan, mentre gli altri membri dovevano accontentarsi
di altri mezzi per affermare la loro appartenenza alla famiglia. Nel camino,
sempre acceso ma con una fiamma magica che non emanava calore,
perché usato solo come ornamento, Krados aveva trovato un
foro abbastanza piccolo da non essere notato durante le ripetute
ristrutturazioni del palazzo, sufficientemente grande da permettergli
di osservare e sentire con facilità. L'intercapedine era
molto spaziosa e di difficile accesso. Con ogni probabilità,
nessuno in quella casa ne conosceva l'esistenza e questo giocava a suo
favore. Una serva
entrò nel soggiorno per annunciare l'arrivo di un ospite.
Thitus permise al nuovo arrivato di sedersi e Krados lo vide in volto,
riconoscendo in lui Apuh, uno dei nobili del Clan Thener. I capelli
corvini erano liscissimi e neri, come in gran parte dei membri di
quella famiglia, lunghi fino alla vita, con la parte anteriore tagliata
fino alle spalle e pettinata all'indietro, scoprendo la fronte bianca e
priva di rughe. I suoi occhi erano di un azzurro sbiadito, torbido, ma
risaltavano nel complesso, perché Apuh, oltre ad avere i
capelli neri, si vestiva anche di quel colore: indossava un lungo
mantello, frontalmente corto sino ai gomiti e fermato con una catena
d'argento; al di sotto indossava solo un coprispalle e pantaloni dal
taglio raffinato, abbinati a scarpe eleganti e lucide. Al mignolo
destro luccicava un grosso anello recante la runa della tenebra. «Nevah,
Thitus» salutò Apuh il padrone di casa,
accomodandosi ad una poltrona. «Ho incontrato il giovane
Chester, mentre mi recavo qui. A quanto pare, il nostro re è
di ritorno». (3) Thitus
brontolò, con la sua voce bassa e profonda, «Non
passa mai abbastanza tempo lontano da Occhio degli Inferi, quando gran
parte dell'esercito è in città. Adora guastarci
le uova nel paniere». Apuh trattenne
una risata, accavallando le gambe con un gesto fluido. Un lembo del
mantello si scoprì, mostrando la pelle nuda e bianca sotto
di esso. «A te
le guasta. L'esercito non mi fa né caldo né
freddo. Sei l'unico che vuole fare le cose in gran stile. L'esercito, ha!»
ironizzò il vampiro, picchettando gli artigli sul bracciolo
della poltrona. Come se tu potessi sentire il caldo o il
freddo, commentò Krados, nel sentire le parole
del Nobile. I vampiri, più di qualsiasi altro Infero, erano
le creature più insensibili al clima ed alla temperatura
dell'intero Mondo Profano. Fosse estate o fosse inverno, loro non
avvertivano nulla. «Oh,
guarda, signor esercito,
pare che sia giunto un altro nostro amico» fece notare Apuh
al demone di Canthao, indicando mollemente la grande finestra alle
spalle di questi. Thitus si
voltò e, vedendo un grosso corvo con una sacca tra le zampe
posato sul davanzale, si alzò dal divano per aprire un
battente e far entrare l'animale. Non appena il padrone di casa
richiuse la finestra, in un batter d'occhio l'uccello assunse forma
umana ed estrasse dalla borsa una tunica lunga e di pregiata fattura,
con ricamato sul petto la runa dell'aria. L'uomo non era molto alto,
tuttavia era possente ed imponente. I capelli tra il castano ed il
biondo avevano un taglio sfilacciato e non superavano le spalle. Negli
occhi nocciola c'era un qualcosa di triste e feroce. Vedendo il viso
sfregiato dalla punta del naso in giù, prima che l'antico
spirito nascondesse la rete di cicatrici con una maschera di ferro a
forma di grosso becco, Krados riconobbe in lui Bhor'la, un nobile del
Clan Niha. Parlarono del
più e del meno, era soprattutto Apuh a tentare di instaurare
una conversazione, ottenendo risposte solo da Thitus, mentre Bhor'la si
limitava a lapidari monosillabi e cenni del capo. Krados
ascoltò il tutto, con infinita pazienza. Faceva parte del
suo lavoro attendere. Non poteva pretendere che dessero informazioni
utili subito. Ogni tanto saltavano fuori nomi di sottoposti favorevoli
alla causa dei Nobili ed il demone li ripeteva parecchie volte,
finché non gli si imprimevano nella memoria. «Non
arriverà nessun altro, a quanto pare» disse di
punto in bianco Apuh, passandosi una mano nei capelli per ravviarli.
«Avrei voluto vedere la mia cara Mhinouke»
singhiozzò il vampiro, con finto rimpianto. «No,
è troppo pericoloso riunirci tutti insieme. A quanto pare
l'ombra di Lord Nicholas non lascia mai la città»
confermò Thitus, cambiando posizione sul divano. «Non
si può conoscere la pozione di un ombra nella terra
dell'oscurità» aggiunse Bhor'la, con la voce
distorta dalla maschera. Apuh assunse
un'espressione sarcastica. «Sempre parole profonde,
Bhor'la» sghignazzò il vampiro, poi si rivolse al
padrone di casa. «Allora parliamo di cose più
serie. L'ombra in questione si sarà già
annoiata». E invece no,
pensò Krados trionfante. Nessuno aveva la sua resistenza e
pazienza tra le spie di Nicholas. Ma nessuno lo sapeva e lui ci teneva
a nascondere simile informazione dietro il suo studiato comportamento
allegro, molle e spensierato. Uno dei molti insegnamenti del suo re. Thitus
acconsentì e portò il busto in avanti. Bhor'la
non si mosse e rimase in piedi affianco a Apuh, le braccia distese
lungo i fianchi, nascoste dalla larga tunica. «Mi
son giunte notizie riguardanti l'ultima seduta del Consiglio degli Otto
Sovrani» esordì il demone di Canthao, con tono
basso e pacato. «A quanto pare, la Regina della Guerra
d'Ovest ha deciso di entrare nella Guerra Millenaria, contro noi Inferi
e le Divinità. Ma non è poi una grande notizia,
sarà solo un passatempo per Lord Nicholas, che
però potrebbe esserci d'aiuto». Apuh
ghignò e guardò con malizia Thitus.
«Vecchio volpone, so già dove vuoi andare a
parare! Il nostro reuccio comincerà a comportarsi nei
confronti dell'umana come con tutte le donne. Dopotutto è
imparentato col mio Clan». Bhor'la si
mise a braccia conserte. «Non vedo l'utilità di
quella donna». Il vampiro si
voltò a guardarlo, senza cancellare dal suo viso il ghigno
di prima. Thitus sollevò lo sguardo verso l'antico spirito,
senza fiatare. «Come
tutto il resto, è un mezzo per il successo della nostra
causa, signor piccione» spiegò Apuh, con un tono
adorabile. L'espressione
sul viso di Bhor'la non cambiò, nonostante il nomignolo non
gli andasse a genio nemmeno un po'. Ma avrebbe sistemato il vampiro
fuori da quella casa, non era momento per i bisticci quello. «Non
voglio puntare su qualcosa la cui esistenza è incerta.
Aspettiamo» disse allora l'antico spirito, distendendo le
braccia lungo i fianchi, i pugni chiusi nascosti dalle maniche della
tunica turchese. Sono proprio messi male,
rifletté Krados, nel sentire quelle parole. Ormai i Nobili
non riuscivano a trovare nessun modo per ottenere ciò che
volevano da secoli, se non giocando con le relazioni altrui. Nicholas
non aveva previsto, prima della partenza, che una Regina d'Ovest si
sarebbe gettata nella Guerra Millenaria, ma quel fatto non poteva avere
conseguenze così gravi sullo sviluppo generale del
conflitto, tanto meno poteva influire in qualche maniera nelle Terre
d'Ombra. È
solo una pulce con la tosse, Lord Nicholas se ne libererà
come fa con tutti i problemi, concluse Krados. «Come
hai ottenuto quest'informazione? Chester non collabora ed è
guardato a vista da Molko, che ti staccherebbe un braccio a morsi
piuttosto che farti avvicinare a chi gli è stato ordinato di
proteggere» domandò Apuh. «I
cani di Nicholas sono fedeli e feroci» intervenne Bhor'la. Thitus
annuì all'affermazione dell'antico spirito. «Se
non posso ottenere notizie dall'interno, allora le cerco all'esterno.
Non posso dire chi è il mio informatore, la sua
collaborazione è di fondamentale importanza. Qualora lo
ritenessimo necessario, potrebbe aiutarci a giungere a
destinazione». Seccato da
tanto mistero, il vampiro di Thener sbuffò e si mise in
piedi, annunciando di esser stufo di quell'aria di cospirazione. «La
prossima volta andiamo a parlare davanti a Nicholas, allora»
rispose Bhor'la, mortalmente serio. Tuttavia Apuh
comprese che si stava prendendo gioco di lui, ma lasciò
correre altrimenti sarebbe rimasto lì fino a sera ad
insultare «il
signor piccione». Dopo un'ora dalla dipartita
del vampiro, anche Bhor'la decise di levare le tende, uscendo dalla
porta principale, come tutti i normali Inferi. Krados rimase
immobile nell'intercapedine, preso dalle sue riflessioni. Chi era
l'alleato tanto importante da poter aiutare i Nobili a uccidere
Nicholas e dividere le Terre d'Ombra in sei distretti?
Al tramonto di
Svethios, il seguito della Regina d'Ovest iniziò a sentire
la stanchezza. Ma Alexya non se ne accorse, perché era
scivolata nel sonno, cullata dal movimento della carrozza tra le dune
del Deserto di Zinco. Johan, allora, spronò il cavallo al
galoppo e raggiunse il veicolo che procedeva di buona lena a parecchi
metri più avanti degli Uomini. «Milady!»
chiamo Johan, cavalcando affianco al finestrino. Nicholas
lanciò un sguardo freddo al capitano e Vaenihum
sfiorò la spalla della ragazza, che sussultò
spaventata. La regina si guardò attorno spaesata e,
incontrati gli occhi d'argento dell'Infero, si riprese. «Dimmi,
Johan». «Possiamo
fermarci per riposare? Abbiamo cavalcato tutto il giorno senza una
pausa» chiese l'uomo. Oh cavolo,
pensò Alexya. Quella prima giornata si era rivelata
piuttosto pesante per lei. Gli Inferi non avevano parlato molto, per lo
più era stata Irene a rompere il silenzio di tanto in tanto.
Nicholas e Vaenihum erano sempre taciturni, il primo preso dai propri
pensieri, l'altro immerso nella lettura di un volume sulle nuove erbe
mediche, o qualcosa del genere, Alexya non aveva potuto sbirciare
troppo. E poi lei aveva pensato ad un modo elegante per ottenere le
informazioni che le servivano per uccidere i Myurohon. A lungo andare,
si era addormentata e nessuno aveva fatto abbastanza rumore, in quella
carrozza, per farla svegliare. «Sì
sì, accampiamoci» disse rivolta a Johan, ma subito
dopo si ricordò che lei era ospite di Nicholas,
così gli rivolse uno sguardo interrogativo. L'Infero
annuì e le parve di vedere un sorrisetto divertito
minacciare l'immobilità del suo volto. Il Re degli
Inferi sollevò un braccio e colpì con il pugno il
tetto della carrozza, tre volte. Il cocchiere non ci mise molto a
fermare l'avanzata dei Bardak. Johan era già tornato
indietro dagli altri ed aveva dato loro il permesso di montare le tende. Alexya si
sollevò da sedere per scendere, prima ancora che il
cocchiere aprisse lo sportello, e si sentì fermare dalla
mano fredda dell'Infero. «Non
costringetemi di nuovo a venire in vostro aiuto» si
limitò a dirle, affidandosi alla sua perspicacia. Lo stomaco
della ragazza brontolò e lei si sentì
tremendamente umiliata, sopratutto perché Irene trattene una
risata. Nicholas assunse un'espressione ironica che non le piacque. «Avevo
dimenticato che voi avevate bisogno di mangiare più volte al
giorno». «Anch'io...»
rispose Alexya, seccata. Aveva fatto una colazione molto abbondante
quella mattina e si era addormentata piuttosto presto. Aveva dormito
quasi tutto il viaggio e non aveva sentito i morsi della fame. Che vergogna, si
lamentò tra sé. Finalmente, il
cocchiere aprì lo sportello e dispose lo scalino per la
discesa. Nicholas lasciò il braccio della regina e, dopo che
lei fu scesa, la seguì. «Vi
accompagno dai vostri uomini» si offrì il re ed
Alexya non poté rifiutare. Lo prese braccetto e
s'incamminò con lui nella sabbia per raggiungere il resto
del gruppo d'Ovest. Erano parecchio distanti, i Bardak andavano molto
più velocemente di un cavallo normale anche al passo. La rena era
ancora calda e ogni tanto la ragazza saltellava aggrappata al braccio
dell'Infero, imprecando a mezza voce. Lui seguiva i suoi movimenti con
un sorriso ironico stampato sul viso. Raggiunto l'accampamento appena
montato, Alexya si gettò su una pila di stoffa ed
iniziò a togliersi gli stivali. Ne aveva presi di nuovi, ma
la sabbia si era infilata da qualche parte e le stava dando fastidio. Nicholas si
sedette al suo fianco e osservò l'operazione, accompagnata
da altre imprecazioni bofonchiate contro il maggiordomo, questa volta. «Marihus!»
gridò la ragazza, spazientita. Il maggiordomo
accorse, con un paio di risposte in mente, ma quando si
trovò in presenza del sovrano Infero dimenticò
tutto e si limitò ad aiutare la sua signora a pulire i piedi
dai granelli di sabbia, tamponandoglieli con un fazzoletto. Dopo di
che, fu congedato ed accolse l'allontanamento con sollievo. Quell'uomo
lo inquietava. Chissà
come fa quella spiantata a sopportare la sua presenza,
pensò Marihus diretto verso la sua piccola tenda. «Quando
riprendiamo il viaggio?» domandò Alexya all'Infero. «Per
arrivare nella Foresta Grigia prima del calare di Svethios, conviene
partire da qui al sorgere di Shillas». Alle due di notte, quindi.
Quanto siamo indietro..., stimò Alexya.
Però, continuando i suoi calcoli, si accorse che avevano
recuperato un giorno di viaggio avanzando a quella velocità. «Perfetto.
Alla fine ci sono otto ore di sonno, bastano ed avanzano». Nicholas
assentì. «Vengo a recuperarvi io, prima di
trovarvi a testa in giù nella sabbia». Alexya
aprì la bocca per rispondere contrariata. Dopo diversi
tentativi, ci riuscì. «Non è vero! Oggi
avevo problemi solo perché era calda. Vedrete che tra
qualche ora sarà più fredda». L'Infero la
guardò divertito e, con un movimento rapido ed aggraziato,
si mise in piedi. «Allora pretendo che vi sediate al mio
fianco in carrozza. Almeno non riuscirete ad addormentarvi». La ragazza
rimase senza parole. Stronzo!,
lo accusò mentalmente, dato che non poteva dirglielo in
faccia. Lui non solo sapeva l'effetto che le faceva, ma anche la
sbeffeggiava invitandola col suo studiato garbo a stargli appiccicata
per lunghe ore. «Vi
ho sentita» le fece notare lui con un ghigno. La Regina
d'Ovest si alzò di scatto, piccata. Però,
ritrovandosi di fronte a Nicholas, finì per aprire e
chiudere la bocca senza pronunciare verbo. Lui non fece una piega,
rimase immobile davanti a lei, in attesa. «Non
mi piace questo genere di intrusione» riuscì a
dire, infine, Alexya, spostando lo sguardo di lato, per non avere
dinanzi agli occhi il petto bianco dell'Infero. Nicholas
sentì la ragazza lamentarsi della sua giacca, indossata
senza una camicia al di sotto, e trovò molto divertente il
disagio che provava l'umana, turbamento dovuto non tanto al suo
abbigliamento, quanto alla reazione di Alexya di fronte ad esso.
L'Infero sollevò una mano e le sfiorò il collo,
scendendo con i polpastrelli fino alla clavicola. Sarebbe andato oltre
senza problemi, se lei non gli avesse afferrato il polso, stringendolo
spasmodicamente. «Vedete,
milady, anche voi dovreste coprirvi di più» le
fece notare, chiudendo le dita dell'altra mano su quella di Alexya. Lei
non sollevò gli occhi per guardarlo, li teneva fissi sulle
sue dita lunghe e bianche, forti come artigli di un'aquila. Poi
mollò la presa, dopo aver indugiato a lungo sul braccio
dell'Infero. «Buonanotte»
gli augurò Alexya, invitandolo ad andar via, e fece un passo
indietro, i piedi nudi sulla sabbia. Non ne sentiva più il
calore, avvertiva solo il bruciore della pelle dove il Re delle Terre
d'Ombra aveva passato le sue dita. Aveva bisogno di ragionare
lucidamente e la vicinanza dell'uomo non la aiutava neppure un po'. Le
piaceva troppo la sua presenza, per permetterle di distrarsi da lui.
Odiava ammetterlo, ma era così. Nicholas
accennò un inchino, sapendo con chiarezza il motivo di tale
reazione della regina, e le prese la mano sinistra, per il baciamano. «No!»
lo implorò la ragazza, con tono sofferente. Ne aveva
già avuto abbastanza, per quel giorno, e non avrebbe
sopportato altri contatti ravvicinati con quell'Infero o sarebbe
impazzita. Si morse il labbro inferiore, trattenendo il respiro,
pregando che la accontentasse. Lo aveva supplicato, per quanto sapesse
che lui non l'avrebbe ascolta, dopotutto che motivo aveva di farlo? Il Re degli
Inferi acconsentì solo a non toccare l'anello,
perché, pur non dandolo a vedere, percepiva anche egli la
scossa che lasciava sconvolta l'umana. Lui, almeno, non era reattivo
come gli Uomini e questo era solo un bene. Si passò i
polpastrelli della mano sinistra di Alexya sulle labbra, gli occhi
fissi sul suo volto, per registrare ogni minimo cambiamento. I muscoli
facciali della ragazza di contrassero in maniera impercettibile, mentre
lei cercava di controllarsi. Il suo cuore, umano e fragile, pompava
sangue furioso e l'Infero lo sentiva come se lo avesse avuto vicino
all'orecchio. È
troppo semplice, considerò Nicholas,
nell'abbandonare delicatamente il suo braccio, accompagnandolo lungo i
suoi fianchi. «Buonanotte»
fu tutto quel che le disse prima di voltarsi e dirigersi verso la
carrozza nera, avvolto nel lungo mantello rosso sangue.
Come promesso,
Nicholas si presentò all'accampamento provvisorio degli
Uomini d'Ovest. Illiriha era pronta a sparire all'orizzonte, seguita da
Elvitias a poca distanza da lei. Sebbene fosse notte fonda, le Lune
rischiaravano il buio e rendevano la sabbia luminosa sotto i loro
raggi. L'Infero trovò Alexya già sveglia e
pronta, che andava in giro tra i soldati intenti a smontare le tende,
controllando lo svolgimento dei lavori con Johan affianco, carica di
un'energia incredibile. «Portatevi
il pranzo da consumare a cavallo» stava dicendo al capitano.
Aveva saputo che il giorno prima i suoi compagni si erano fermati per
mangiare un paio di volte e così erano rimasti indietro,
costringendo i cavalli ed il cammello ad una corsa sfrenata per non
perdere di vista la carrozza. Johan
assentì e gridò a Geq, appena sveglio, di darsi
una mossa. Alexya si passò le mani nei capelli, per legarli.
Una mano fredda la fermò e lei ruotò il capo,
vedendosi Nicholas dietro, col mantello cremisi drappeggiato sulle
spalle. «Lasciateli
sciolti» le intimò. Se avesse dovuto viaggiare col
collo scoperto dell'umana così vicino, lei non sarebbe
tornata allo Smeraldo viva. E Nicholas non ci teneva a sporcarsi
personalmente le mani con la morte di una regina, non era nel suo
stile, non in quel modo. Aveva sempre controllato il suo lato vampiro
ed avrebbe continuato a farlo. Una ragazzina umana non avrebbe fatto
vacillare il suo autocontrollo ferreo. Sebbene non ne
avesse compreso il motivo, Alexya fece quanto le era stato detto. I
boccoli scuri le ricaddero lungo la schiena ed oscillarono. «Siamo
quasi pronti» annunciò la ragazza. Nicholas
annuì. «E comunque Shillas non è ancora
sorta» precisò, rivolgendo un rapido sguardo al
cielo. L'ultima Luna si intravedeva a malapena tra le dune dorate ed il
suo imminente arrivo era annunciato solo da un lieve chiarore cremisi
che non riusciva ancora ad offuscare la luce delle stelle. «Geq, dannazione,
dobbiamo lasciarti qui?» gridò Johan, dirigendosi
verso il soldato assonnato, accucciato vicino alla tenda. Alexya
ignorò la discussione tra i due e proseguì a
controllare il suo seguito, accompagnata da Nicholas che la studiava
con interesse. La regina indossava un vestito leggero, di lino blu, con
un corpetto ed una serie di bottoni sul davanti, che arrivavano fino al
colletto rigido appena aperto. Le maniche erano strette sino ai gomiti,
dove si allargavano con uno spacco. Non indossava scarpe ed i suoi
piedi magri affondavano nella sabbia ad ogni suo passo. Era probabile
che sarebbe andata in giro in quel modo fino alla carrozza, soprattutto
dopo la scenata della sera prima. Si
avvicinarono ad Hanan e Marihus, intenti a sistemare i bagagli sulla
groppa del cammello, che masticava assente ed annoiato. Non appena il
maggiordomo vide i piedi nudi della sua signora, le corse incontro con
un'espressione di puro orrore dipinta sul viso. «Milady,
ma che modi son questi! Vi trovo subito delle scarpe» si
lamentò l'uomo e si voltò a cercare tra i bagagli
qualcosa di utile. Trovò delle normali scarpe eleganti da
donna, con un tacco non troppo alto e si inginocchiò ai
piedi della regina, che lo guardava rassegnata. «Non
perder tempo, le indosserò una volta in carrozza.
È meglio che vada in giro scalza, piuttosto che mi pulisca i
piedi in pubblico» disse e Marihus non poté far
altro che acconsentire, suo malgrado. Con le scarpe
in mano, Alexya terminò il suo giro e Nicholas le porse
l'avambraccio per accompagnarla fino alla carrozza. «Volete
che vi prenda in braccio?» le domandò, pur sapendo
quale sarebbe stata la sua risposta. «Ma
anche no» replicò immediatamente la ragazza,
inarcando le sopracciglia. «Non disturbatevi, non sono una
donzella sprovveduta» aggiunse. «Mmh,
lo spero proprio o la Guerra Millenaria porrà fine alla
vostra giovane vita». Alexya gli
rivolse uno sguardo diffidente, mentre avanzavano nel deserto.
«Perché sarei dovuta entrare in guerra, se fossi
stata una piccola ed indifesa umana?» «Le
passioni di voi umani sono alquanto incomprensibili per gli immortali,
ma direi per sete di fama o sciocche illusioni. Però, ditemi
cosa vi ha spinta a compire questo passo». La ragazza non
rispose, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Nicholas la
scrutò a lungo, ben consapevole che non le avrebbe
più cavato una parola di bocca. La carrozza nera era a poca
distanza da loro e la ricoprirono con pochi passi. L'Infero
aiutò Alexya a salire nell'abitacolo e la seguì,
chiudendosi la porta alle spalle. Il cocchiere ritirò lo
scalino e fece per ritirarsi. «Possiamo
partire, milord?» domandò l'uomo. «Attendi
l'arrivo degli Uomini». Dopo aver
indossato le calzature, Alexya lasciò lo spazio per un'altra
persona tra sé e Nicholas, che sembrò prendere
come una provocazione la lontananza di lei. Vaenihum osservò
il divertimento del proprio sovrano, distogliendo l'attenzione dalla
sua lettura. Incontrò lo sguardo cauto dell'umana, mentre
sentiva la mente di Irene al suo fianco agitarsi furiosa, risentita,
gelosa, mentre la donna se ne stava seduta composta con portamento
fiero. «Milady,
nessuno vi vuol far del male in questa carrozza» le fece
notare l'Infero con tono canzonatorio. La vostra fidanzata mi farebbe a
pezzi con piacere, pensò la ragazza mentre
rispondeva «Lo so, milord». Nicholas si
sporse verso di lei e con l'indice le girò il mento verso di
sé. Non
agisce di propria volontà, non in mia presenza,
«Allora rilassatevi e godetevi il viaggio. Potete pure pormi
le domande che vi assillano dall'altro giorno». Alexya si
morse le labbra. Odiava che la sua mente fosse letta da altri, i suoi
pensieri erano ciò che aveva di più personale.
«Come posso fare a proteggermi dalla Voce?» Non era questa la domanda che
volevo fargli, si rimproverò subito dopo aver
parlato. «Ci
possono riuscire anche gli umani senza magia» rispose
Vaenihum, chiudendo il libro dopo averci infilato tra le pagine un
segnalibro di pelle. Non sarebbe riuscito a leggere durante la
conversazione tra i due sovrani, quindi tanto valeva parteciparvi.
«Con un metodo molto semplice: vi serve un pensiero fisso,
abbastanza forte e radicato in voi da far concentrare la vostra mente
solo su questo. Appena il pensiero vacilla, la barriera
crolla» spiegò l'Elfo, incrociando le lunghe gambe. «Un
pensiero fisso...», ripeté la ragazza, pensosa. «Un
ricordo, è più affidabile» le
consigliò Nicholas, passandosi una mano tra i capelli. Il
profumo del sangue di Alexya non lo chiamava con la forza delle altre
volte, probabilmente perché si trovavano in un ambiente
chiuso impregnato di altri odori che lo distraevano, come quello di
erbe medicinali di Vaenihum e quello forte e pungente alle rose con cui
si era cosparsa Irene. Forse c'era un modo per contrastare quel
richiamo, anche se non gli andava a genio doversi trovare in luoghi
affollati per ignorare il delizioso profumo. Doveva riuscire ad
ottenere lo stesso risultato anche quando si fosse trovato solo con
l'umana. Alexya
lanciò uno sguardo all'Infero e si ritrovò a
fissare i suoi capelli, sottili e neri, posati come soffici piume di
corvo sul petto bianco e muscoloso. Trasalì quando Vaenihum
riprese a parlare, con la sua voce bassa e melodiosa. «Dovete
guardare dentro di voi per trovare lo scudo, intorno non ci sono altro
che distrazioni». Nicholas
assunse un'espressione sinceramente divertita che sorprese non poco
l'Elfo. Suvvia,
Vaenihum, non essere così esplicito. Dov'è andata
a finire la tua solita discrezione elfica?, lo riprese
ironico il sovrano, senza rivolgergli lo sguardo, sempre fisso sul
volto dell'umana, che fingeva di non aver capito cosa intendesse il
braccio destro dell'Infero. «Al
momento non mi viene in mente nulla» si affrettò a
dire Alexya. «Siete
distratta da altro, dopotutto» intervenne Irene, sarcastica. Nicholas
sollevò la gamba e premette il piede contro il ventre del
demone, che boccheggiò. «Dovresti provare anche tu
a distrarti, Irene» le consigliò, con un tono
gentile che nascondeva la minaccia ben celata in quell'invito. La donna
chiuse gli occhi, emettendo un sospiro tremulo, poi annuì e
fu liberata dallo stivale del promesso sposo. «Rifletterete
quando sarete sola. Piuttosto, se volete pormi il vostro vero dubbio,
ne sarei molto contento, milady. Non riesco a sopportare che voi vi
tormentiate in silenzio» le disse Nicholas, ogni parola dolce
come miele, ma vuota e priva di significato, poiché lui non
provava nulla di ciò che diceva. Quel modo di fare gli
permetteva di sembrare più umano, però non era
altro che mera recitazione frutto di secoli di studio degli Uomini. Alexya si
sentiva profondamente turbata da quel che le aveva detto l'Infero,
aveva visto che lui era freddo e privo di alcun sentimento,
così si domandava cosa volesse ottenere davvero da lei.
L'aveva avvicinata, cercava di legarla a sé in qualsiasi
modo ed ora sapeva bene cosa le frullava in testa, eppure voleva che
lei gli chiedesse di come uccidere i Myurohon ad alta voce. Inoltre,
mentre ascoltava quei ragionamenti della ragazza, fingeva con aria
serafica di non aver nulla in mente. «Come
fate voi Inferi ad uccidere i Myurohon?» lo
interrogò, infine. Vaenihum
rivolse i suoi occhi bicolori al re, sul cui volto era apparso un
ghigno. Aveva intenzione di rivelare alla ragazza ciò che
solo loro due conoscevano? Non vedo quale sia il problema,
rispose Nicholas al suo dubbio. Così la aiutate,
gli fece notare l'Elfo. Non c'è divertimento
nel combattere un avversario ad armi impari. Le darò tutto
ciò che le serve a rimanere abbastanza in vita per me,
replicò sicuro di sé l'Infero. «Milady,
questo è un discorso lungo che mi piacerebbe affrontare con
voi in privato. Che ne dite di cenare in mia compagnia questa
sera?» Alexya
aprì la bocca, senza parole. Con quanta scioltezza l'aveva
invitata, era sconvolta! Ma non poté far a meno di
accettare. Solo per le
informazioni, solo per le informazioni e null'altro, si
ripeté, nel tentativo di convincersi.
"Your name Desire Your flesh We are Cold"
Static-X, Cold
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano: (1) Hopke-thi Hinferion yanui!:
Apriti porta delle Terre d'Ombra! (2) Hinferion Rahan:
Vita delle Terre d'Ombra (3) Nevah: salve
Mi sa che
ormai aggiornerò ogni due settimane, così ho
più respiro io e se qualcuno non avesse tempo di leggere
subito il capitolo, avrà ben 14 giorni (precisa, eh XD) per
farlo. Sono un po' lunghi i miei capitoli, me ne rendo conto.
Accumulati uccidono, forse... XD (anche se Marlu non è
morta, nè? XD) Mi
è venuta in mente un'idea malsana: qualcuno di voi ha capito
chi si firma come "A." nella lettera iniziale? Ci sono molti personaggi
i cui nomi iniziano con quella lettera, eh eh... Rispondete, son
curiosa di vedere se avete capito, ihih. Dopo
quest'idiozia, vi saluto. Per qualsiasi
cosa, dite pure!
Capitolo 8 *** Capitolo VIII. La Foresta Grigia ***
E rieccomi! Ce l'ho fatta a correggere il
capitolo, che sollievo... Sono stata in gita fino a ieri sera
(giovedì), in Francia, quindi non ho potuto farlo prima,
come al solito. E quando mi trovo al ridosso di una scadenza entro un
po' in panico.
Spero di aver corretto tutto, altrimenti
chiedo perdono e collaborazione (Dark, attendo le tue correzioni XD).
Prima di cominciare ringrazio myki, Dark
Magician, Marluxia25 e berry345: grazie mille ragazze!
.-.-.-
Uomini: Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice,
cugina di Helena; Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya; Johan, capitano
delle guardie reali d'Ovest; Marihus,
maggiordomo dello Smeraldo; Hanan, ancella di
Alexya; Garstand, padre di
Alexya; Dygghor, padre di
Helena; Arghos, uno degli
Anziani; Geq e Pjehr,
soldati della guardia reale; Tarus, Re del Nord; Mentius, Re del Sud; Ludovik di Dornior,
Re d'Est; Sarah,
messaggera dello Smeraldo.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le
razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito); Irene di Canthao,
promessa sposa di Nicholas, demone; Chester di Niha,
Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo; Krados di Thena,
Nobile purosangue, spia reale, demone; Molko di Thener,
Nobile purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli
Inferi, generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro; Lathiora,
vive allo Smeraldo, antico spirito gatto; Apuh,
Nobile del Clan Thener, vampiro; Thitus,
Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone; Bhor'la,
Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo.
Divinità:
Al, Re delle
Divinità, dio della Forza; Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio; Hordev, figlio di
Al ed Adele, dio della Lussuria; Zephiro, protettore
della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti; Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di
Sarihele, dio della Guerra; Eoforbio, portavoce
reale; Sarihele, capo
degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni; Veris, dea della
Primavera; Niharn, protettrice
del Regno d'Ovest; Devon, sottotenente
di Vraele, Colchico; Dabar'as, membro
degli Herzbrenht.
Campi
di Sangue:
Archelaos,
negromante, semidio; Laila, scheletro di
Archelaos; Arnold,
proprietario della Mandragola; Mara, moglie di
Arnold; Tyr, proprietario
del Vagabondo selvaggio.
Elfi
e Lucenti:
Wirda, Re degli
Elfi; Vaenihum, braccio
destro di Nicholas, medico di corte, Elfo; Adhurna, Regina dei
Lucenti, cieca.
.-.-.-.
VIII.
La Foresta Grigia
Murthen accorse dove indicatogli da una
delle Driadi, che allarmata gli aveva annunciato l'arrivo di una
carrozza trainata da Bardak e seguita da un drappello di uomini a
cavallo. Thenaria gli teneva dietro, silenziosa e cupa, muovendosi di
albero in albero, poco più di un movimento fulmineo sui
tronchi cinerei. Giunto nella radura in cui si erano fermati i due
gruppi, il mezzo-driade si fermò e sgranò gli
occhi. Erano venuti a prenderlo. Non ci avrebbe mai sperato.
Uscì dal cerchio degli alberi,
permettendo ai visitatori della Foresta Grigia di vederlo. Per primo
incontrò un uomo sulla sessantina, vestito di tutto punto
pure in viaggio, i capelli grigi pettinati all'indietro, lasciando
scoperto il viso dai lineamenti marcati e solcato da profonde rughe di
espressione. L'umano sgranò gli occhi castano scuro e si
voltò di scatto verso le altre persone che erano con lui.
«Ehi, è
apparso un essere dai capelli verdi!» gridò, con
tono di voce allarmato.
Murthen gli andò incontro, con
le mani sollevate all'altezza delle spalle. L'uomo lo guardò
di nuovo, indietreggiando.
«Sono solo il maestro di palazzo
di Lord Nicholas» si presentò il mezzo-driade,
cercando di trasmettere la sua innocuità all'umano.
Da dietro alla carrozza nera
spuntò Vaenihum, le sopracciglia inarcate, una smorfia
scocciata sul viso. Perché quel mezzosangue dagli occhioni
languidi doveva fare entrate in scena simili? Non erano nel suo stile,
ovvio che risultava spaventoso dal punto di vista di un Uomo
così pavido.
L'Elfo si avvicinò a Murthen e
Marihus, che si allargava nervosamente il nodo della cravatta con
l'indice destro, senza scostare lo sguardo dal mezzo-driade. Lo aveva
fatto prima ed era stato un errore, perché si era avvicinato
più di quanto ritenesse sicuro. Non avrebbe sbagliato di
nuovo.
I due sudditi di Nicholas si salutarono
con un freddo cenno del capo.
«Milord?»
domandò Murthen.
«Tranquillo, tra un
po' arriva e ti cambia il pannolino» lo rassicurò
Vaenihum, acido.
Marihus non aveva intenzione di passare
altro tempo vicino a quelle creature. Era inutile, non riusciva a
sentirsi a suo agio con loro. Nemmeno con il messaggero c'era riuscito,
sebbene avessero parlato di futilità come vecchi conoscenti.
Aveva bisogno di tornare tra gli Uomini, almeno erano più normali.
Però, sembrava tanto che i
soldati non volessero collaborare a tranquillizzarlo. Invece di montare
il campo, se ne stavano seduti per terra, le gambe incrociate, le tende
chiuse nelle loro mani, nient'altro che oggetti da agitare mentre
gesticolavano, presi dai loro discorsi insensati: alberi contenenti
cadaveri, col sangue che scorreva nei loro vasi linfatici; dolci
bestioline che conducevano le loro vittime lontane dagli altri per
divorarle in santa pace; le Driadi ed i loro tranelli letali.
Il maggiordomo rabbrividì e si
guardò attorno, sudando freddo. La Foresta Grigia era un
posto decisamente lugubre. Immerso nella eterna penombra, dovuta alle
chiome fitte ed intrecciate tra loro dei grossi alberi dalla corteccia
grigio cenere, tutto il bosco pareva morto, ma bastava poggiare la mano
contro una pianta per sentire con chiarezza che c'era vita sotto quella
apparente immobilità. L'erba si trovava solo vicino alle
radici degli alberi ed il terreno era secco e polveroso, decisamente
poco accogliente per qualsiasi forma di vita vegetale. Marihus si
domandava come potesse esistere un luogo del genere. Gli metteva i
brividi e, se avesse pensato di passare la notte lì, sarebbe
fuggito a gambe levate. Raggiunse la sua signora, intenta a discutere
con Johan riguardo la sistemazione della sua tenda.
«Ma perché dobbiamo
stare appiccicati agli Inferi?» domandò il
capitano, a bassa voce.
Alexya roteò gli occhi, con le
mani sui fianchi, poi fissò l'uomo stizzita. «Mi
sembra maleducato fare altrimenti. Stiamo viaggiando in loro compagnia
e non ci hanno fatto nulla. Non vedo alcun problema».
«Milady, io preferirei non
ritrovarmi quell'elfo antipatico o, ancora peggio, il loro re dal viso
pallido come vicini di tenda. Non riuscirei a chiudere
occhio» intervenne Marihus, tormentandosi ancora la cravatta.
La regina spalancò la bocca,
contrariata. Le veniva una voglia tremenda di fare il contrario di
quello che loro dicevano. In quel caso, sentiva il bisogno impellente
di far sistemare la tenda del maggiordomo in mezzo a quelle degli
Inferi. O magari di fargliela condividere con Vaenihum. E lo avrebbe
fatto, se non avessero taciuto.
«Re dal viso pallido»
ripeté una voce alle spalle di Alexya lentamente, quasi
assaporando ogni parola. Lei si voltò rapidamente, mentre
Marihus era sbiancato. Johan inarcò le sopracciglia e
lanciò uno sguardo di compassione al maggiordomo, che
deglutiva terrorizzato.
Nicholas fissava i tre umani freddo ed
impassibile. Si passò una mano tra i capelli, rivolgendo la
sua attenzione solo ad Alexya, non più arrabbiata. Il suo
arrivo l'aveva distratta, altrimenti sarebbe esplosa. Non l'aveva fatto
apposta per bloccarla, ma per il semplice gusto di ricordare agli
Uomini che lui
era l'Infero Perfetto e che loro
non erano al suo stesso livello. Quel vecchio non aveva neppure la
decenza di parlare in quei termini ad una certa distanza da lui, per
non fargli sentire nessuna delle sue idiozie. Portarsi in giro la sua
padrona lo aveva reso troppo audace. Lo sguardo rimase puntato sul viso
della ragazza, anche quando lei sospirò, gli occhi chiusi,
quasi ad interrompere il contatto visivo.
«Fingete di non averlo sentito,
per favore» lo pregò, risollevando le palpebre.
Non avrebbe sgridato il maggiordomo davanti a Nicholas,
perché così avrebbe umiliato Marihus e se stessa,
dimostrandosi debole nei confronti dei suoi sottoposti. Certo, quel che
aveva chiesto all'Infero non era un segno di forza, ma salvava le
apparenze, creando un'illusione di controllo perfetto da parte sua.
Quasi lei avesse già in mente di punire l'uomo, come lui
avrebbe fatto di sicuro in una situazione simile.
Nicholas fece un cenno d'assenso col capo.
«Tra un'ora vi aspetto a cena» le
comunicò, con tono morbido. Però era un ordine,
più che altro. Ed Alexya se ne accorse con un certo disagio.
Le metteva i brividi intravedere il vero volto del sovrano, dietro
quella perfetta maschera che indossava in pubblico. Avvicinarsi a lui
significava anche quello? Il terrore che provò nel
realizzare ciò la rese solo più determinata a non
allontanarsi da Nicholas. L'aura di mistero e la spietata
crudeltà che traspariva da ogni suo gesto avevano l'unico
effetto di attirarla come una falena alla vista del fuoco.
«Perfetto. Avrò modo
di assaggiare la cucina infera?» domandò Alexya,
sorridendo.
L'Infero inarcò un
sopracciglio, le labbra curvate in un ghigno. Sollevò la
mano destra e le prese una ciocca di capelli posata sul petto della
ragazza, che trasalì al contatto. Si attorcigliò
il boccolo attorno all'indice, senza distogliere lo sguardo dalle iridi
verdi. «Vedremo» le rispose, allusivo. Sapeva che
lei non sarebbe arrossita, ci aveva provato in tutti i modi durante il
viaggio. Si sarebbe divertito solo a provocarla, perché
sapeva che reagiva, eccome, a quel tipo di sollecitazione.
«B-bene...» rispose
Alexya, gli occhi puntati sul dito bianco e lungo del sovrano, attorno
al cui c'erano i suoi capelli. Vide con un brivido gli artigli
affilati, vicini alla sua pelle, che avrebbero potuto rendere letale
una sua carezza. Si morse il labbro inferiore, pregando che lui
rompesse quel contatto il prima possibile.
Con un gesto fluido, Nicholas
liberò il boccolo della regina e fece per sfiorarle una
guancia, calda e delicata. Ma lei fece un passo indietro, tormentandosi
ancora le labbra, un'espressione sofferente negli occhi. Stava lottando
con se stessa, una scena sublime. Gli angoli della bocca dell'Infero si
piegarono all'insù, impercettibilmente.
«Non vedo l'ora di riavervi con
me» le disse.
Dopo di che, Nicholas ruotò su
se stesso e si allontanò, il mantello cremisi ondeggiante
alle sue spalle, una macchia di color sangue nella
semioscurità della Foresta Grigia.
Helena allentò la stretta delle
dita sulle posate, man mano che rifletteva su quanto le aveva detto sua
cugina meno di un'ora prima. Certo, l'aveva saputo il giorno precedente
da Johan, ma era davvero terribile sentire Alexya così
frizzante perché in viaggio con il Re degli Inferi,
nonché un suo nemico a causa della sua brillante idea di
entrare nella Guerra Millenaria. Possibile che quella ragazza fosse
tanto incosciente? Non si rendeva conto delle sue scelte? A volte non
sapeva proprio cosa pensare.
Abbandonò le posate ai lati del
piatto, una bistecca con contorno di verdure fresche. Non aveva fame,
non più. Guardò il pezzo di carne. Alexya poteva
finire così, continuando a giocare col fuoco. Un pensiero
sciocco, ma entra troppo angosciata per elaborarne uno migliore,
sofisticato. Lord Nicholas non era esattamente la creatura adatta a
fare da balia alla cugina: l'Infero era più simile ad una
belva feroce che studiava con aria sorniona le sue possibili prede,
scegliendo quella che gli avrebbe dato più divertimento ed
iniziava ad attirarla nella sua tela, giocandoci come fanno di solito i
cani da caccia con la selvaggina, per poi distruggerla. Helena si prese
la testa tra le mani, gli occhi chiusi per non guardare il contenuto
del suo piatto.
Zephiro allungò una mano verso
il cestino di mele e ne prese una, gialla con sfumature rosse,
dall'aspetto molto appetitoso. Lanciò uno sguardo fugace
alla donna e fermò il frutto a poco dalle sue labbra, quando
la vide così preoccupata.
«Cosa succede,
Helena?» le domandò con dolcezza.
La regina sollevò
immediatamente il capo verso di lui, l'azzurro dei suoi occhi sembrava
aver preso vita ed agitarsi a seguito dei pensieri che riempivano la
mente di Helena. Il dio dei Venti afferrò i braccioli della
sedia e la spostò vicino al posto a capo tavola, dove sedeva
la donna. Le mise una mano sul braccio, fissandola fermamente, per
incoraggiarla a parlare.
«Alexya sta viaggiando con Lord
Nicholas» mormorò Helena, come se, pronunciando
quelle parole a voce troppo alta, si sarebbero verificate. Peccato che
fosse tutto vero e lo sapesse bene.
Zephiro sorrise e scosse il capo. Poi
sollevò la mano e accarezzò assorto una guancia
della regina, godendosi la morbidezza della sua pelle, mentre la
nostalgia si faceva sentire. Interruppe il contatto col suo viso, per
riportare il suo arto sul braccio di Helena, coperto dall'ampia manica
del vestito azzurro.
«Ti prego, non agitarti
così tanto, morirai giovane se continui su questa
strada» le suggerì, apprensivo ed ironico.
Helena aggrottò le
sopracciglia, sollevando lo sguardo verso quello del dio. Un discorso
del genere gliel'avrebbe fatto solo Alexya, non se lo sarebbe mai
aspettata dal Signore dei Venti.
«Sapevo che avrebbe
funzionato» disse trionfante Zephiro. Si sporse verso di lei
e le lasciò un delicato bacio sulla fronte.
La regina rimase ancor più
perplessa. «Avete parlato deliberatamente come mia
cugina?» gli domandò. Più che altro si
chiedeva come potesse aver capito così bene il comportamento
di Alexya nei suoi confronti.
Zephiro le passò le dita tra i
capelli, con un sorrisetto. «Certo; ho visto che lei riesce a
farti distrarre dalle tue preoccupazioni, provocandoti»
replicò, rivolgendole un rapido sguardo.
La donna sospirò e
rilassò le spalle. Era vero. Se la si lasciava sola con i
suoi pensieri, non le si dava una mano. Tanto meno se si cercava di
farla parlare a riguardo. Aveva bisogno di distrazioni, doveva trovarsi
qualcosa da fare che non avesse nulla a che vedere con le sue solite
occupazioni. Guardò Zephiro, intento ad osservare i riflessi
sui suoi capelli biondi pettinandoli con la mano, mentre l'altra
stringeva la mela intonsa.
«Ti ringrazio, divino»
fu quanto disse Helena, accennando un sorriso.
Il dio dei Venti colse il rapido movimento
delle labbra della regina e si sorprese. Non avrebbe mai sperato di
vedere un sorriso così sincero sul suo volto. Il cuore gli
mancò di un battito e lui ritrasse la mano, in preda a
qualcosa che non capiva completamente. Riconosceva quella sensazione,
era la stessa che lo aveva fatto condannare da Al. Un motivo ingiusto,
ma pur sempre causa della sua prigionia. Si portò la mela
alla bocca e le diede un morso, con forza, sentendo i denti affondare
nella polpa croccante, il succo dolce bagnargli la lingua.
Iniziò a masticare, con lentezza, gustandosi il boccone.
«Domani dovrebbero cominciare ad
arrivare i nobili dei feudi della frontiera. Volete farvi vedere da
loro, o no?» gli chiese Helena, riprendendo a mangiare.
Zephiro guardò la carne, mentre
veniva tagliata, poi sollevò gli occhi di pece verso il viso
della donna.
«Voglio divertirmi:
fingerò di essere un banale semidio e proverò a
sentire i loro discorsi, che ne dici?» le rispose, per poi
addentare la mela.
Helena, pensierosa annuì e
parlò prima di portare alla bocca la forchetta con infilzato
un pezzo di carne. «Potrebbe essere un'idea».
Il dio dei Venti sorrise, dispettoso.
Quant'era abituata ad essere di rango superiore, quella donna! Non
diceva di sì nemmeno a lui. «Perfetto,
farò così. Alla festa mi presenterò
per quel che sono, anche se farebbe comodo continuare in incognita,
almeno potrei toglierti un pensiero ascoltando i pareri dei nobili
riguardo alla scelta di tua cugina».
«Ufficialmente dovrebbe sapersi
solo quel giorno, purtroppo gli Anziani ne sono già a
conoscenza. Quindi i nobili loro alleati saranno già
informati, farebbe comodo sapere chi sono» mormorò
Helena, tagliando con foga la bistecca.
Zephiro morse la mela, la fronte
aggrottata. Quello era un bel problema. Avrebbe reso Helena ancora
più ansiosa. Purtroppo contro gli Anziani era meglio non far
nulla. Loro lo rispettavano come Divinità, solo per quello,
e gli conveniva, forse, approfittare di quel riguardo quando ne avesse
avuto la reale necessità. Per placare la preoccupazione di
una donna umana si sarebbe dovuto scervellare da solo. Una bella sfida.
Dubitava di riuscirci. Ma tanto valeva tentare.
Vaenihum si addentrò nella
foresta, lontano dagli umani chiassosi, alla ricerca delle piante di
cui doveva rifornirsi e di un po' di tranquillità. La quiete
che regnava nei loro viaggi, turbata da un manipolo di Uomini rumorosi,
lenti e fastidiosi. Era tremendamente seccante. Ed erano poche le cose
che gli facevano provare qualcosa di diverso dall'indifferenza.
Nicholas era pochi passi dietro di lui e,
quando l'Elfo si fermò a raccogliere ciò di cui
aveva bisogno tra le radici di un albero, si poggiò con la
schiena ad un tronco vicino, le braccia conserte, lo sguardo rivolto al
folto della foresta.
«Non dovrei dirlo, milord, ma
non comprendo il vostro interesse per quell'umana»
rifletté Vaenihum, afferrando una pianticella dall'aspetto
poco vivo, per studiarla col tatto prima di sradicarla dal suolo secco.
«Fingerò di non aver
mai sentito un'idiozia simile» replicò gelido
Nicholas, senza rivolgergli lo sguardo. «Non farmi credere di
averti sopravalutato, non mi piace sbagliare».
Vaenihum si raggelò. Cos'aveva
detto di errato? Gli era già capitato di aver qualche
problema a comprendere i piani di Nicholas, in passato, ma mai lui gli
aveva risposto in quel modo. Il suo fine era così ovvio che
avrebbe dovuto essergli già chiaro?
«Allora perdonatemi, mi avete
sopravalutato». L'Elfo si voltò verso il suo
signore, che teneva ancora gli occhi fissi altrove. Poco dopo,
però, Nicholas gli rivolse un'occhiata sprezzante.
«Cerchi la morte»
constatò l'Infero, lapidario.
Vaenihum deglutì, ma sostenne
lo sguardo del re. Non gli piaceva la piega presa da quella
conversazione. Iniziava a sentirsi a disagio. Il che non era un segno
positivo, anche se era Nicholas a provocargli quella reazione, lui
l'unico capace di turbarlo. Chinò un attimo il capo, gli
occhi fissi in quelli dell'Infero. «No, solo
l'illuminazione» lo contraddisse, di proposito. Sarebbe stato
più saggio tacere, eppure non lo fece.
Nicholas non reagì a quella
velata provocazione. Servile e sarcastico, Vaenihum era sempre stato
così, anche se non lo dava a vedere. In quel caso, comunque,
si domandò se i suoi progetti per la regina umana fossero
troppo contorti anche per la persona che ragionava nel modo
più simile al suo. Lo avrebbe accontentato, non gli serviva
a niente un braccio destro ignaro dei suoi piani, tanto meno morto.
«Allora ti basteranno pochi
indizi per dimostrarmi di essere degno della tua posizione:
è a capo dell'esercito che avremo contro nella prossima
stagione bellica, sa poco o nulla del mondo reale, è
completamente digiuna di magia».
Vaenihum batté le palpebre,
dichiarandosi così sconfitto in quella guerra di sguardi
affilati. Poi sgranò gli occhi, mentre un pensiero lineare e
plausibile si faceva spazio nella sua mente.
«Oh»
commentò, davvero sorpreso. «Oh, mi piace. Non
c'avrei mai pensato».
«Potevi evitare la seconda parte
del discorso, ti saresti umiliato di meno» gli fece notare
secco Nicholas. «Era l'idea più logica e banale,
chiunque avrebbe scelto questa strada».
L'Elfo scosse il capo energicamente. Le
erbe da raccogliere erano andate a farsi benedire. Al momento aveva
perso qualsiasi interesse per quell'occupazione. I percorsi mentali
dell'Infero non facevano altro che spiazzarlo. In situazioni del genere
capiva perché aveva insistito tanto per mettersi al suo
servizio quando ancora non lo conosceva così bene. Era
stupefacente. Per un amante della ricerca e della conoscenza come lui,
il Re delle Terre d'Ombra era l'oggetto di studio ideale.
«Per Fato, milord, vi
sottovalutate».
«No, io sono appena realista.
È il resto del mondo che si rivela sempre inferiore alle
aspettative» ribatté Nicholas, con un tono che non
ammetteva repliche. Poco dopo, sentì dei movimenti nella
foresta e rivolse lo sguardo verso i lievi fruscii, i sensi all'erta.
Driadi in avvicinamento.
Dall'ombra più fitta degli
alberi a pochi passi dai due uomini emersero tre donne, dalla pelle di
diverse tonalità di verde, gli occhi grigi, i capelli simili
a rami di piante rampicanti, aggrappate ai loro corpi sottili e
flessuosi. Il trio di Driadi si fermò breve distanza da
Nicholas e Vaenihum, in guardia.
Una variazione di energia
attirò l'attenzione del sovrano. Alle sue spalle, nel
tronco, era comparsa Thenaria. La dea della Terra emerse col busto
dall'albero e cinse Nicholas con le braccia esili, la carnagione
cinerea del tutto simile al colore delle foglie della Foresta Grigia.
Era l'essenza della Divinità presente in quel luogo a
conferire tale aspetto al bosco.
«Nephas...»
sussurrò Thenaria, dolcemente.
«No, non
c'è» replicò Nicholas, con freddezza,
senza comunque allontanare la donna da sé.
La dea tremò e, chiudendo gli
occhi, emise un sospiro tremulo, tradendo sofferenza.
Scivolò fuori dal tronco, distaccandosi dalla corteccia
grigia dell'albero. Sciolse per poco l'Infero dalla sua stretta, per
portarsi davanti a lui e prendergli il viso bello e algido tra le mani.
«Mi avevi promesso che avrei
parlato con lui» gli ricordò Thenaria, la voce
poco più di un molle mormorio.
«Nella prossima stagione
bellica, Thenaria. Il momento non è ancora giunto»
replicò Nicholas.
Sempre la solita storia. Lo infastidiva
l'insistenza di quella donna, ogni volta che metteva piede nella
Foresta Grigia gli faceva la stessa richiesta, immancabilmente. E lui
la accontentava, per avere il bosco a sua completa disposizione.
Installare l'accampamento degli Inferi in quel luogo era conveniente,
perché le Driadi e la dea li proteggevano da possibili
attacchi sorpresa delle Divinità. Inoltre, quello
significava avere donne a sufficienza per sé ed i soldati.
Non c'erano città in quella zona dei Campi di Sangue ed
aveva stretto un patto con i signori delle frontiere, in passato,
affinché lui non permettesse ai suoi Inferi di far
scorribande nei villaggi del Regno d'Ovest o del Sud. Altrimenti si
sarebbero alleati con le Divinità, il che era
controproducente. In tal maniera, illudendo Thenaria di esser
controllato da Nephas che desiderava parlarle, aveva solo da
guadagnare. Non gli importava niente dei sentimenti della dea. Era lei
la sciocca, così innamorata, che nemmeno si rendeva conto
che le sue pretese erano insensate e che lui si prendeva solo gioco di
lei.
«Hai ragione»
mormorò la dea della Terra, lasciando scivolare le mani
dalle dita lunghe e pallide sul petto marmoreo di Nicholas.
Abbassò gli occhi, interamente neri, privi di sclera, ed il
loro movimento fu imitato dal capo della donna. I capelli sottili come
ragnatele e dello stesso colore le ricaddero sul volto, nascondendo
anche la metà sinistra, non sfigurata, e sui seni nudi.
«Però mi manca».
Vaenihum si costrinse a non risponderle,
mordendosi le guance. Sì,
anche a me, le avrebbe detto, sbeffeggiandola. Nicholas
non faceva altro che concederle una notte in sua compagnia, dicendo di
essere controllato da Nephas, quando la realtà era che lui
fingeva di esserlo. La sua era recitazione pure e quella dea, accecata
da un amore mai corrisposto, si crogiolava in quella splendida
illusione che l'Infero le offriva, per usare lei, il suo ruolo ed il
suo potere.
«Devo solo aspettare quel che
rimane di Aozheti
e tutta Idierti.
Non è così tanto tempo, paragonato
all'eternità» disse Thenaria, cercando di
convincersi. Fece un passo indietro, allontanandosi dal re Infero, le
mani in procinto di staccarsi dal suo petto freddo. Sollevò
lo sguardo verso gli occhi argentati di Nicholas, attraverso la cortina
di capelli iridescenti. Abbozzò un sorriso sofferente e
indietreggiò ulteriormente. «Manterrai la
promessa, vero?».
«Ho mai fatto
altrimenti?» rispose l'Infero, gelido.
Thenaria chinò il capo di lato
e continuò a camminare all'indietro fino a toccare un albero
con le spalle. Era molto vicina a Vaenihum, che ne
approfittò per vedere dal vivo la fusione della dea con la
corteccia grigia della pianta. La donna aderì al tronco e si
lasciò risucchiare lentamente da esso, sotto lo sguardo
interessato dell'Elfo.
«Allora... a Shadwanri»
salutò Thenaria, assorbita dall'albero grigio.
Quando anche l'energia della dea
sparì, le tre Driadi accennarono un inchino a Nicholas e
tornarono ad immergersi nell'oscurità della foresta, senza
un fruscio ad accompagnare i loro movimenti.
Alexya inspirò ed
espirò tre volte, cercando di calmarsi. Era nervosa, tesa,
eccitata. Le dava fastidio sentirsi in quel modo, soprattutto
perché immaginava che Nicholas fosse perfettamente
impassibile in quel momento. Nella sua mente, lo vedeva seduto davanti
al tavolo, tranquillo e preso dai suoi pensieri, col volto
imperscrutabile. Ho
passato troppo tempo con lui, per Al, Adele e tutti gli dei!,
si lamentò la ragazza. Il pensiero di essere l'unica
sconvolta dalla vicinanza tra lei e l'Infero la metteva di pessimo
umore, non voleva far la figura dell'umana debole e sentimentale. Aveva
un orgoglio lei! Prese un'altra boccata d'aria, la gonna stretta tra le
mani, ed entrò.
Nicholas le gettò una rapida
occhiata appena la vide sbucare dall'ingresso della tenda, illuminata
da fiaccole poste ai quattro angoli di essa, con un candeliere al
centro del tavolo di legno grigio, quadrato ed elegante, con affianco
due sedie dello stesso materiale. La ragazza inarcò le
sopracciglia e fu sul punto di domandarsi come potessero gli Inferi
portare con loro tanto arredamento. La magia, si
ricordò seccata, rimproverando la sua ingenuità.
Se lei era un'incapace, non significava che tutti lo fossero.
L'Infero tirò indietro la sedia
su cui era accomodato e si mise in piedi, per raggiungere con due ampie
ed eleganti falcate la sua ospite, immobile davanti al tessuto che
chiudeva l'ingresso al baldacchino.
«Milady, avete intenzione di
cenare in piedi? Vi farò compagnia, se sono queste le vostre
intenzioni» le disse, afferrando la sua mano con un gesto
sbadato solo all'apparenza. La sua stretta era salda e mirava ad
attirare l'attenzione dell'umana su di sé. Non l'avrebbe
fatta distrarre, era entrata nella sua tana ed ora lui sarebbe stato il
suo unico interesse, finché non l'avesse liberata.
Alexya ruotò gli occhi verdi e
guardò di traverso il sovrano Infero, sentendo con chiarezza
il contatto con la sua pelle fredda. «Dopo tutte le ore di
viaggio passate seduta, mi farebbe bene, in teoria. Ma credo proprio
che farò la pigra e mi siederò al tavolo, con
voi». Abbozzò un sorriso, attendendosi una
reazione simile da Nicholas. Lui, invece, si portò la sua
mano sinistra alla bocca e le baciò l'anello, con lo sguardo
d'argento fisso nel suo, mentre la reazione del tatuaggio non si fece
attendere.
«Ne sono lieto»
replicò l'Infero, contro la sua pelle, accarezzandogliela
col gelo del suo fiato.
Si sedettero al tavolo, apparecchiato con
una tovaglia nera, bordata d'argento, coordinata alle tende del gruppo
di Inferi. Su di essa, i piatti di forma quadrata spiccavano bianchi,
accompagnati dalle posate ed i calici d'argento: scelta non casuale,
notò la ragazza, perché quel metallo si sarebbe
ossidato in presenza di veleno nel cibo o nelle bevande; una misura
difensiva per lo stesso Nicholas, un eloquente messaggio per Alexya. Si
trattenne dal guardare il sovrano, sentendo il peso dei suoi occhi
penetranti.
Murthen fece il suo ingresso nella tenda,
con un vassoio contenente un piatto ellittico ed un boccale di vino.
Lasciò tutto sul tavolo ed uscì, per tornare
altre tre volte, finché non annunciò di aver
terminato ed augurò un buon appetito ad entrambi i sovrani.
Nicholas allungò la mano verso
la prima portata e sollevò il coperchio, scoprendo
l'antipasto composto da piccole porzioni diverse. Riempì
entrambi i piatti e fece lo stesso col vino. Iniziarono a mangiare,
senza fiatare, la ragazza con gli occhi bassi, concentrata su se stessa
per non avvertire con chiarezza le iridi argentee dell'Infero seguire
ogni suo movimento.
«Siete silenziosa. Imbarazzo o
paura, milady?» la provocò Nicholas, portando alla
bocca il calice di vino.
Alexya sollevò di scatto gli
occhi, con un'espressione irritata sul volto. Quando si accorse che
l'Infero le aveva detto quelle parole proprio per ottenere simile
reazione, si diede della stupida. Sospirò e
rilassò le spalle.
«Imbarazzo» rispose
sinceramente.
Nicholas ghignò, per nulla
sorpreso, e riportò sul tavolo il bicchiere. «Come
siete soliti dire voi umani, non ho intenzione di mangiarvi»
disse e aggiunse, poco dopo, con un ghigno poco rassicurante,
«Per ora».
La ragazza ridacchiò e
portò un boccone alle labbra. «Significa che
provvederò a nutrirmi bene, cosicché voi non
mangiate un mucchio di pelle ed ossa».
L'Infero portò la mano destra
sul petto ed accennò un inchino col capo. «Molto
gentile da parte vostra, vedrò di sdebitarmi».
La tensione, che Alexya aveva percepito
fin da quando aveva messo piede in quella tenda, non era svanita, si
era solo allentata un po'. Ma questo già la rasserenava il
minimo indispensabile perché riuscisse a spiaccicar parola.
«Milord, mi avevate invitata per
parlarmi di come voi Inferi uccidiate i Myurohon in
battaglia...» gli ricordò la ragazza, cauta.
Nicholas saltò la prima
portata, per passare direttamente alla carne. Murthen gli aveva messo
da parte quella più al sangue. Perfetto. Si
riempì il piatto con quella pietanza e cominciò a
tagliarne un pezzo, rivolgendo gli occhi all'umana. Ghignò
guardandola, mentre il liquido cremisi iniziava a bagnare la bianca
ceramica.
«Lo so»
replicò lui, senza andare oltre, enigmatico.
Alexya si fece più audace a
quella risposta. Voleva ad ogni costo quelle informazioni e se lui
aveva intenzione di condurre il gioco, allora lei avrebbe cercato di
vincere. Non voleva farsi mettere i piedi in testa da quell'Infero, per
quanto potesse essere attraente e scaltro.
«Quanto a lungo dovrò
aspettare? Io non ho l'eternità davanti a me, milord, e per
i mortali il tempo è molto importante» insistette
la ragazza, mettendo nel suo piatto un pezzo di focaccia, accompagnata
da un sugo di carne in cui intingerla.
L'Infero portò in bocca la
forchetta, mentre qualche goccia di sangue scivolava lungo la sua
superficie. Teneva lo sguardo fisso in quello della giovane regina,
impassibile nonostante lei avesse osato più del solito.
Stava iniziando ad alzare la testa, quella ragazzina. Era indeciso se
farla diventare ancora un po' spavalda, prima di ricordarle la sua
superiorità, o non attendere oltre. Alla fine, scelse di
divertirsi e non le rispose, attendendo che lei rincarasse la dose.
Masticò la carne in silenzio, tagliandone un altro pezzo.
Alexya guardò il piatto
macchiarsi di rosso, mentre aspettava che Nicholas facesse qualcosa di
diverso dal mangiare o tacere. Quando lui schiuse la bocca per
accogliere un altro boccone, la ragazza di spazientì ed
abbandonò malamente le posate, facendo far loro rumore
contro la ceramica. Batté le mani sul tavolo, sporgendosi in
avanti, verso l'Infero che manteneva un'espressione di gelida
impassibilità sul volto. Quanto meno lui reagiva, tanto
più lei s'infervorava.
«Insomma! Cosa vi costa
rispondermi! Siete stato voi ad invitarmi, abbiate almeno la decenza di
mantenere la parola data!» esclamò Alexya, la
fronte corrugata per la rabbia.
«Non siete venuta qui per quelle
informazioni, milady, anche se vi piace illudervi di questo»
replicò l'Infero, sorseggiando il vino, il coltello
nell'altra mano.
Alexya strinse i denti ed i pugni.
«Io ho accettato l'invito perché voi mi avete
promesso di parlarmi dei Myurohon» ribatté,
cercando di controllare la furia.
«Io non ho fatto alcuna
promessa».
«Voi dite così solo
perché mettete il vostro dannato naso nella mia mente,
sapete tutto in questo modo! È un gioco sleale, voi non fate
altro che essere scorretto» si lamentò Alexya,
alzando la voce.
«Mi avete chiesto di fare
altrimenti? No. Avete fatto di in modo di proteggervi? No. Avete
rifiutato l'invito a giocare? No. Ora ne pagate le conseguenze. E lo
dovete fare in silenzio, perché è stata la vostra
ingenuità, o stupidità che dir si voglia, a farvi
arrivare a questo punto. Tutti hanno cercato di mettervi all'erta, ma
voi avete ignorato chiunque, come una bambina. Questo è
tutto, la colpa è solo vostra e delle vostre scelte
infantili».
La Regina d'Ovest si raggelò,
la bocca aperta e gli occhi appena sgranati nel sentire quelle parole.
Distolse lo sguardo dall'Infero, facendolo vagare nervosamente nella
tenda, senza sapere cosa rispondere, cosa pensare. La sua mente era
svuotata da qualsiasi pensiero coerente, piena solo delle parole di
Nicholas e del suo orgoglio che gridava, ferito.
«Non siete abbastanza forte per
risolvere questa situazione, milady. Perciò potete solo
accettare le mie regole. Nessuna alternativa diversa vi è
offerta» proseguì Nicholas, posando il calice
vuoto sul tavolo.
«Posso ancora schermare la mia
mente...» biascicò Alexya, guardando per terra, la
testa appena china.
«Non mi pare che voi abbiate
ricordi abbastanza forti per riuscirvi» replicò
l'Infero, il gomito sinistro sul tavolo, il mento retto dalla mano
mancina. La luce tremula delle candele gettava sul suo viso dalla
perfezione marmorea ombre minacciose, mentre facevano brillare
l'argento dei suoi occhi.
Alexya si umettò le labbra e
fece per dire qualcosa per salvarsi.
«Volete che ve ne doni
uno?» le propose Nicholas, anticipandola, con una nota di
malizia nella voce.
Gli occhi verdi della regina scattarono
verso il suo viso e la fronte si corrugò lievemente. Era
tentata dal chiedergli aiuto, nonostante tutto quello che le avesse
detto. Lui aveva ragione, detestava ammetterlo, ma il re non riusciva
ad essere nel torto in nessun caso. Che lei accettasse o meno la
realtà, quella era un'altra faccenda. Le era piaciuto
illudersi, pensando che forse lui le dedicasse più
attenzioni che alle altre, dopotutto l'aver fatto ben tre soste durante
il viaggio per farla mangiare o sgranchire era qualcosa di insolito,
secondo lei. Ma forse quelle erano cure dovute ad un giocattolo umano
come lei, affinché non si spezzasse troppo in fretta. Era
una sciocca, un'ingenua, e si stava umiliando da sola davanti a
quell'Infero. No, non avrebbe lacerato ulteriormente il suo orgoglio
facendosi dare una mano a proteggersi dalla stessa persona che era la
causa di tutto ciò. Doveva riuscirci da sola, al massimo
chiedendo aiuto ad Helena. Ecco,
di nuovo, lo stava facendo di nuovo. Stava cercando un
altro appiglio, ora che il precedente si era rivelato troppo insicuro.
Si morse il labbro inferiore.
Nicholas osservò deliziato la
confusione della ragazza, rigirandosi il coltello sporco di carne, sugo
e sangue nella mano. Quando la regina batté le palpebre, lui
la vide drizzarsi.
«No, non ho bisogno di
nient'altro da voi al di fuori delle informazioni sui
Myurohon» rispose Alexya, gli occhi chiusi nel
parlare. In seguito, rivolse uno sguardo determinato al
sovrano.
L'Infero fermò il movimento
della lama, stringendola con forza. Testarda, quella ragazzina era
tremendamente testarda.
«Allora dovrete attendere la
fine della cena per vedere il vostro desiderio soddisfatto»
disse Nicholas, scegliendo quelle parole ambigue con attenzione.
Alexya si mostrò contrariata.
Spinse indietro la sedia, le mani strette al bordo del tavolo, e si
alzò da essa. «Per quanto mi riguarda, io ho
finito» annunciò la regina, secca.
Il Re delle Terre d'Ombra le rivolse uno
sguardo gelido che la fece indugiare un attimo. Giusto il necessario
perché Nicholas allungasse verso di lei tentacoli invisibili
del suo potere e la attirasse sul tavolo, con violenza. Alexya
trattenne il fiato, mentre sentiva i cocci rompersi ed il resto delle
stoviglie cadeva al suolo con fragore. Non riuscì a muovere
un dito, supina sul tavolo, schiacciata dal potere dell'Infero.
Il viso di Nicholas spuntò
nella sua visuale, immobile e freddo.
«Infantile». Una sola
parola che ebbe l'effetto di uno schiaffo, umiliante e bruciante.
Alexya cercò di agitarsi,
infuriata e ferita nell'orgoglio.
«No, milady, non sono disposto a
transigere su questi comportamenti stupidi. Se mi dimostrerete ancora
di essere una mocciosa, non esiterò ad uccidervi. Non amo
sprecare il mio tempo» continuò Nicholas,
poggiando le mani sul tavolo e sovrastando la ragazza, implacabile.
«Stavate perdendo tempo sin
dall'inizio. Qualsiasi cosa vogliate, non l'avrete» rispose
l'umana, mostrando i denti noncurante ormai del contegno.
Nicholas trattenne una risata, tirando le
labbra in un ghigno ed inarcando le sopracciglia, sarcastico.
«Oh, certo. Continuate ad illudervi. Voi mi donerete ogni
cosa di vostra spontanea volontà» la
aizzò, con tono beffardo. La liberò dalla sua
magia, perché voleva vedere cos'avrebbe fatto lei.
Alexya si mise a sedere, sul tavolo, non
sentendo più la pressione del potere dell'Infero sulla
pelle. Pur non riuscendo ad utilizzare i poteri magici, aveva percepito
chiaramente quelli di Nicholas, come una presenza fisica invisibile. Si
voltò verso di lui, perplessa, la rabbia tramutatasi in
sorpresa.
Murthen, avendo sentito rumore, fece
capolino nella tenda, con cautela. Non voleva interrompere il suo
signore, ma quando scorse la regina seduta sul tavolo, i capelli
scarmigliati ed il vestito scomposto, e Nicholas sulla sedia, un ghigno
stampato sul volto, si tranquillizzò un po'. Non era ancora
successo niente, anche se tutto il servizio da tavola era rovesciato
sul terreno. Ritrasse la testa e si allontanò, ben sapendo
che il re aveva notato la sua comparsa, pur senza darlo a vedere.
«Volete un ricordo per
proteggervi la mente o preferite perseverare nella vostra
illusione?».
Alexya aggrottò la fronte.
Aveva intuito che Nicholas non era tipo da fare offerte così
generose. Sembrava quasi
preoccupato per lei. Eppure, immaginava che ci fosse un tranello in
quella proposta.
«No, non sono così
debole» rispose la ragazza, decisa.
«Gli uomini amano
illudersi».
La regina strinse i denti. Continuava
provocarla, a minacciarla, e lei si comportava esattamente come lui
voleva. Si stava facendo manovrare, non si stava nemmeno impegnando a
liberarsi dal suo influsso negativo. In quel momento sentiva l'ira
minacciare di esplodere, ben sapendo che lui mirava a quel risultato
con le sue parole.
Nicholas allungò le mani e
l'afferrò per il bacino. La trascinò verso il
bordo del tavolo e la fece finire sulle sue ginocchia. Alexya rimase
sbigottita, ma non riuscì a ribellarsi. Si limitò
a posare le mani sul suo petto, per mantenere a tutti i costi una
distanza di sicurezza, al fine di salvaguardare la sua salute mentale.
«Siete debole, milady»
le fece notare lui, di nuovo, con un ghigno. «E non siete
capace di fare una scelta sensata. Quindi farò di testa
mia».
«Lo avreste fatto
comunque» brontolò Alexya, aggrottando le
sopracciglia.
Il re Infero mantenne il sorrisetto di
prima, con un braccio attorno alla vita della ragazza, mentre l'altra
mano sostava indecisa sulla gonna di essa. Aveva fatto la scelta
più sadica, quando i suoi sensi furono messi all'erta dalla
Voce di qualcuno molto vicino. Un qualcuno che conosceva bene.
«Milady, sapete combattere
spero».
«Che domande...» fu il
commento di Alexya, che roteò gli occhi, pur di distrarsi
dalla vicinanza dell'Infero.
«Allora usate il pugnale che
avete nascosto sotto il vestito e mantenetevi in vita» le
intimò, facendo seguire alle parole il movimento della mano
libera, che le sollevò appena la gonna, quanto necessario
per infilarsi sotto di essa e sfiorare con le dita la custodia della
lama assicurata alla coscia della regina.
Alexya trasalì, mentre le
mancava il fiato. Strinse con forza la giacca di Nicholas, la fronte
premuta contro il suo collo duro come il marmo. Cercò di
riprendersi, mentre lui ghignava, conscio della sua reazione. Lo
divertiva vedere come la ragazza si comportasse, involontariamente,
proprio come lui desiderava. Però, se avesse continuato a
mostrarsi così prevedibile, si sarebbe stancato presto di
lei.
«Ora che ho qualcosa per cui
combattere non sarà facile uccidermi» rispose
Alexya, a fatica, cercando di dominarsi.
«Meno male. A farlo
sarò solo io» ribatté Nicholas,
stringendola contro di sé, per il puro gusto di farla
soffrire. Solo tormentandola poteva ignorare il delizioso odore del suo
sangue. Da quando aveva messo piede in quella tenda, quel profumo lo
aveva tentato e lui lo aveva combattuto provocando la causa di quella
seccatura. Piccole e sciocche soddisfazioni che contribuivano a non
farlo piegare davanti agli istinti che aveva sempre controllato con
cura maniacale.
Alexya non si mosse, domandandosi il
perché di quelle parole ambigue. Sentì il volto
di Nicholas ruotarsi nella sua direzione, mentre i capelli corvini
scivolavano sul petto, oltre le spalle. Le labbra tra i suoi ricci,
l'Infero parlò, accarezzandola col fiato gelido, «Myurohon».
"I'm
not like you My
life flashes before my eyes No,
I'm not like you The truth turns me upside down"
Pain, Walking on glass
.-.-.-.
Aozheti,
Idierti, Shadwanri: rispettivamente stagione del declinio (autunno),
stagione del riposo (inverno), mese dei venti (il terzo dell'anno)
- il calendario del Mondo Profano è composto da tredici mesi
di ventisette giorni e segue le fasi delle cinque Lune e la rotazione
dei tre Soli attorno al pianeta (anche se è un sistema
eliocentrico, non si può mica pretendere che anche loro
abbiano Copernico, Galileo Galilei e Keplero u___ù). Le
stagioni sono quattro ed oltre a quelle sopraccitate esistono Pherzti (stagione della
rinascita - privamera) e Esharti (stagione della crescita
- estate). La stagione bellica di cui parla Nicholas
è quella compresa tra la fine del mese di Shadwanri (il penultimo della
primavera) e l'inizio di Dhurmastri (mese delle pioggie,
il settimo)
Dopo questa piccola nota avrete capito che
il mio masochismo non ha limiti, tanto che ho persino creato un
calendario (ho dato il nome persino ai giorni della settimana .-.).
Tuttavia, la mia filosofia è "se si deve fare una cosa, va
fatta al meglio", perciò eccomi ad inventare tutto. Almeno
sono in pace con me stessa, nè... ;]
Il prossimo capitolo spero di poterlo
pubblicare tra 14 giorni, dipende tutto se riesco a concludere quello
che sto scrivendo da tre settimane circa. Non voglio finire i capitoli
di scorta, sennò mi sento l'acqua alla gola il che peggiora
la situazione.
Perciò, pregate che
l'ispirazione mi degno della sua attenzione e che la mia vita privata
non mi distragga più del dovuto (a volte preferirei davvero
vivere nel Mondo Profano...).
Alla prossima e, se oltre ai soliti,
qualcuno ha il piacere di lasciarmi un breve messaggio ne sono
contenta. Se ci sono tre pazze che mi lasciano commenti chilometrici,
non significa che anche gli altri debbano fare lo stesso (anche se io
adoro le suddette folli *w*).
Alla prossima!
Eccomi di ritorno. Il
capitolo 10 non è concluso, ma manca un solo paragrafo ed
è troppo tempo che non aggiorno. Ringrazio Dark Magician, myki, marluxia25, berry345 e olghish per i
commenti.
.-.-.-.
Uomini: Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice,
cugina di Helena; Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya; Johan, capitano
delle guardie reali d'Ovest; Marihus,
maggiordomo dello Smeraldo; Hanan, ancella di
Alexya; Garstand, padre di
Alexya; Dygghor, padre di
Helena; Arghos, uno degli
Anziani; Geq e Pjehr,
soldati della guardia reale; Tarus, Re del Nord; Mentius, Re del Sud; Ludovik di Dornior,
Re d'Est; Sarah,
messaggera dello Smeraldo.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le
razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito); Irene di Canthao,
promessa sposa di Nicholas, demone; Chester di Niha,
Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo; Krados di Thena,
Nobile purosangue, spia reale, demone; Molko di Thener,
Nobile
purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi,
generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro; Lathiora, vive allo
Smeraldo, antico spirito gatto; Apuh,
Nobile del Clan Thener, vampiro; Thitus,
Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone; Bhor'la,
Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo; Murthen,
mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.
Divinità:
Al, Re delle
Divinità, dio della Forza; Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio; Hordev, figlio di
Al ed Adele, dio della Lussuria; Zephiro, protettore
della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti; Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di
Sarihele, dio della Guerra; Eoforbio, portavoce
reale; Sarihele, capo
degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni; Veris, dea della
Primavera;
Thenaria, dea della Terra, protettrice del Regno del Nord, signora
della Foresta Grigia e delle Driadi; Niharn,
dea dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest; Devon, sottotenente
di Vraele, Colchico; Dabar'as, membro
degli Herzbrenht.
Campi
di Sangue:
Archelaos,
negromante, semidio; Laila, scheletro di
Archelaos; Arnold,
proprietario della Mandragola; Mara, moglie di
Arnold; Tyr, proprietario
del Vagabondo selvaggio.
Elfi
e Lucenti:
Wirda, Re degli
Elfi; Vaenihum, braccio
destro di Nicholas, medico di corte, Elfo; Adhurna, Regina dei
Lucenti, cieca.
.-.-.-.
IX. Attacco
A quelle parole,
Alexya cercò di divincolarsi dalla stretta dell'Infero,
senza successo. Le sue braccia non si mossero minimamente e lei
finì solo per ritrovarsi ancora più vicina a lui.
«Milord...»
lo pregò, con un fil di voce. Nicholas la
guardò, impassibile. «Non fate
gesti avventati, milady» disse poi, spingendo la sua schiena
contro il proprio petto. Afferrò il pugnale e lo
tirò fuori dalla custodia. Sentì la ragazza
sussultare alla vista della lama, che baluginava alla luce tremula
delle candele. «Trovo alquanto imprudente andare incontro a
un nemico sconosciuto». Alexya strinse i pugni
e si dimenò, di nuovo. Doveva andare dai suoi soldati ad
avvertirli, non importava che lei sapesse poco o nulla riguardo agli
avversari. I suoi uomini ne sapevano ancor meno, non poteva
abbandonarli. Se quello era un attacco sorpresa, perché solo
lei doveva essere avvisata? «Non
m'interessa, i soldati sono nella mia stessa situazione». «Loro sono
sacrificabili». La regina si
raggelò, con gli occhi sgranati. No, non erano
sacrificabili. Lei sapeva che quei dieci uomini avevano delle famiglie
e degli amici, li conosceva da tempo, non erano soldati qualunque.
Avrebbe accettato ciò solo se fossero stati degli
sconosciuti, ma non era quello il caso. «Anch'io
farò la stessa fine, dato che voi non siete
intenzionato a darmi le informazioni di cui ho bisogno»
replicò inferocita la ragazza, ruotando il capo verso
l'Infero, che la osservava gelido. «Ciò
che volete da me è un trucco, che non è
un'informazione. La quantità di nemici lo è. La
loro organizzazione lo è. La loro strategia lo è.
Avete sbagliato domanda, milady» ribatté Nicholas,
allargando appena le gambe per posizionare meglio la ragazza su di
sé. Lei era a disagio, ma anche furiosa e nervosa. Tutte
quelle emozioni destavano in lui interesse e non poteva far altro che
provocarla, sempre di più, per vedere dove sarebbe arrivata,
ma anche per distrarsi dal profumo di sangue appena sotto il suo naso. Alexya fu costretta ad
accettare il fatto. Messa così, l'Infero aveva ragione.
Abbassò le palpebre e sospirò, alla ricerca di un
modo per ottenere ciò di cui aveva bisogno. Un urlo fuori dalla
tenda interruppe i suoi pensieri e la fece scattare. Era iniziato
l'attacco? Avevano colpito qualcuno dei suoi soldati? Purtroppo era
ancora prigioniera del Re degli Inferi e non poté far altro
che agitarsi inutilmente. «Come si
uccidono i Myurohon durante una battaglia, Lord Nicholas?»
gli domandò la ragazza, rivolgendogli uno sguardo di
supplica. Si stava umiliando di sua spontanea volontà per
quella conoscenza, un prezzo altissimo che lui sembrava non accettare.
Cos'altro voleva da lei? «Avete posto
esattamente la stessa domanda di prima, Vostra Grazia» le
fece notare l'Infero, inarcando un sopracciglio, sarcastico. Alexya
corrugò la fronte, seccata. «Cosa vi costa
dirmelo? Non siete forse voi che vi state comportando in maniera
infantile?» insistette. Nicholas
ghignò, divertito dalle sue parole. Le premette la mano sul
ventre, facendola sussultare. «Non cercate di ingannarmi,
milady, vi assicuro che non è conveniente per voi»
la avvisò, minaccioso. «Quel che dovete
comprendere è che se vi accontentassi ora, le mie non
sarebbero altro che parole vuote. Solo quando avrete combattuto con un
Myurohon, potrete comprendere appieno il loro senso». «Ho
già ucciso un Myurohon» gli fece presente la
ragazza, guardando la lama sospesa davanti a lei, ancora stretta in
mano al sovrano. «Non lo
metto in dubbio. Ma non aveva intenzioni ostili nei vostri confronti.
Comprenderete la vera essenza dei Myurohon solo lottando davvero contro di
essi» rispose Nicholas, porgendole l'impugnatura del pugnale,
che lei afferrò senza esitazioni, sollevata e libera dalla
minaccia dell'arma in mano a lui. Aveva preferito non tenere in conto
che lui l'avrebbe potuta uccidere con gli artigli, con la forza o con
la magia. Si era concentrata solo sul coltello, vedendo in esso tutti
pericoli che correva stando così
vicina all'Infero. Ora che la minaccia
del pugnale era sparita e il suo disappunto si era zittito, Alexya
poté udire chiaramente i rumori della lotta che stava
avvenendo fuori dalla tenda. Le uniche urla che sentiva erano quelle
dei suoi uomini, perché i Myurohon non potevano parlare, e
pur consapevole di ciò era preoccupata per la loro vita.
Aveva l'impressione che avrebbero avuto la peggio a sentire le grida
fuori dalla tenda, in cui lei era obbligata a rimanere. «Quanti
sono?» domandò lei. «Una
coorte», quindi erano seicento uomini contro dieci soldati
umani. Uno scontro impari. Dannazione!
«Fatemi andare a...» cominciò Alexya, ma
si ammutolì quando un gruppetto di Myurohon fece il suo
ingresso nella tenda, il volto apatico, armi in mano. Lo zombi in testa
ai cinque mosse il capo in giro, come per captare la presenza di
qualche essere vivente e localizzò subito i due sovrani. Con un gesto fluido,
Nicholas si mise in piedi, tirando con sé la ragazza. A quel
movimento, un Myurohon scagliò il giavellotto che aveva in
mano nella loro direzione. Alexya, eccitata dall'adrenalina entrata
immediatamente in circolo, tirò su la gonna,
sollevò la gamba e fece per tirare un calcio al tavolo, in
modo da lanciarlo addosso al gruppo di zombi. Ma Nicholas fu
più veloce: afferrò un lembo del mantello
cremisi, impregnandolo di magia, e lo fece sollevare in aria, sopra di
sé e l'umana. L'arma rimbalzò sull'improvvisato
scudo di tela e si piantò nel tetto della tenda. «Datevi da
fare» sibilò Nicholas, mentre il mantello ricadeva
dietro la sua spalla. Alexya lo
guardò determinata, sentendo un gran bisogno di muoversi.
Strinse saldamente il pugnale. Doveva procurarsi delle armi decenti, al
più presto, fino a quel momento, però, si sarebbe
accontentata quella lama troppo corta. Corse incontro agli zombi, senza
riuscire a trattenere un grido bellicoso. L'Infero
allungò la mano davanti a sé, mentre la ragazza
affondava il coltello nella carne morta dei Myurohon.
Concentrò parte della sua energia e la modellò
con la mente a formare la sua spada, la Naharzhil, dalla lama nera di
una lega metallica utilizzata solo nelle Terre d'Ombra. La
roteò, sentendo con piacere come la sua mano aderisse bene
all'impugnatura, come fosse perfettamente equilibrata e leggera. L'elsa
gli copriva la mano simile a tentacoli, il pomello argenteo pareva
brillare di luce propria. Quasi gli dispiaceva doverla utilizzare solo
come diversivo, mentre cercava un anello debole nella catena che legava
i soldati zombi a Vraele. La Naharzhil aveva bisogno di togliere vite e
bagnarsi di sangue. Avrebbe ucciso quanti più Myurohon,
prima di colpire il loro comandante, allora. Era il minimo che potesse
fare. Alexya era alle prese
con il gruppo di non-morti, davanti all'ingresso del baldacchino. Non
era ancora riuscita a superarli, perché quando li lasciava
al suolo e si accingeva a lasciare la tenda, essi si rimettevano in
piedi, minacciando la sua vita con la loro banale esistenza. Si stava
innervosendo, il che non giocava a suo favore. Doveva mantenere la
mente lucida, ma continuavano ad aumentare in lei la rabbia e la
frustrazione. Non poteva tirar calci, la gonna glielo impediva e questo
le dava fastidio. Non c'è una cosa che non mi dia fastidio!,
fu il suo grido furioso mentre apriva la gola di un Myurohon. Doveva
uscire da quella tenda, doveva farlo, assolutamente! Restare
imprigionata là dentro peggiorava il suo umore. Nicholas raggiunse la
Regina d'Ovest e decapitò con un movimento rapido e secco
due zombi che gli davano le spalle. Alexya li vide cadere a terra e
ridursi in polvere. Come diamine ha fatto?,
si domandò guardando il re uccidere anche gli altri tre
Myurohon. «Sbrigatevi,
ci sono altri soldati che attendono di perder tempo con voi»
la canzonò l'Infero, superandola. Uscì dalla
tenda e si gettò nella mischia, la Naharzhil che baluginava
bagnata di sangue nero, terribile e crudele quasi fosse viva. La presa in giro
riscosse subito Alexya, che raggiunse l'esterno di corsa. Quando vide
lo spettacolo davanti a sé, sgranò gli occhi.
Myurohon, Myurohon, Myurohon da tutte le parti, con la loro carnagione
cinerea, i gesti meccanici e letali, l'apatia totale.
Abbassò lo sguardo verso il suo vestito. Era solo un
impiccio. Le dispiaceva un po' tagliarlo, ma doveva farlo. Aveva
bisogno di libertà di movimento e quella dannata gonna
glielo impediva. Afferrò un lembo dell'abito e vi
aprì uno spacco laterale, che arrivava fino a
metà coscia. Lo stesso fece dall'altra parte.
Immaginò le urla indemoniate di Marihus appena avesse visto
come aveva ridotto il vestito. Non ebbe il tempo di verificare
l'effettiva funzionalità di quell'intervento,
perché un Myurohon le stava andando incontro, con poche,
ampie falcate la raggiunse e le tirò un fendente con la
spada. Alexya
sollevò il braccio sinistro, quello del pugnale, e
parò il colpo, mentre sollevava la gamba, pronta a sferrare
il suo attacco. Spinse il piede nel ventre dello zombi, lanciandolo
poco lontano da sé. La spada cadde a terra e lei, senza
perder tempo, la afferrò. Giunse dal suo avversario, ancora
disteso a terra, il torace pestato da qualcuno nella furia della
battaglia. Si stava rigenerando, immobile sul terreno, con viscidi
schiocchi di ossa e pelle. La ragazza doveva approfittarne, per provare
la formula che aveva appreso da Johan. «Myurohon ya rohon!»
recitò, sperando con tutta se stessa che funzionasse. (1) La regina non
poté osservare il risultato, perché dovette
parare l'attacco di un altro zombi. Con la spada gli aprì
uno squarcio nel ventre e subito affondò il pugnale
nell'occhio di un secondo Myurohon. Alle sue spalle, il soldato divino
che aveva cercato di uccidere si era rialzato e allungava le mani verso
il suo collo, per stringerlo. Ma Alexya se ne accorse solo quando le
mancò di colpo l'aria. Agitò le braccia, colpendo
gli avversari davanti a sé. Appena essi crollarono a terra,
prima che guarissero, la ragazza conficcò la spada nel petto
dello zombi che la stava strozzando, nella speranza di liberarsi di
lui. I due Myurohon feriti
si rialzarono e lei lo notò, con grande disappunto.
Liberò la lama dallo zombi, ormai libera di respirare, e si
spostò verso sinistra, per non avere nessuno alle spalle. I
suoi avversari le stavano venendo incontro, mentre lei li aspettava
nervosa. Non aveva funzionato quella maledetta formula, non poteva
liberarsi di quei dannatissimi zombi! E col pugnale non riusciva a fare
molto. Aveva bisogno di un'altra spada. Lei era abituata a lottare con
entrambe le mani occupate. Allora si avventò sul Myurohon
che utilizzava la lama di cui aveva bisogno, gettando il pugnale alle
sue spalle. Gli tagliò la testa e si affrettò a
brandire l'arma per rivolgere la sua attenzione agli altri due
guerrieri. Due coltelli si
piantarono nelle teste degli zombi davanti ad Alexya e le lame argentee
brillarono mentre i soldati divenivano cenere. La ragazza ne raccolse
uno da terra. Forse era quello in trucco degli Inferi. Stiletti magici?
Doveva provare e lo fece colpendo il Myurohon appena rialzatosi. Non
accadde nulla. Gli lasciò l'arma nella gola, mentre il
sangue nero sgorgava dalla ferita e scendeva lento lungo il petto dello
zombi, e indietreggiò. «Il segreto
non è nelle lame, Vostra Grazia» la
informò Vaenihum, dietro di lei. Alexya andò
a sbattere contro l'Elfo, che le posò una mano sulla spalla
per impedirle di cadere dalla sorpresa. La ragazza lo
guardò, ma lui proseguì per andare a
riappropriarsi dei suoi coltelli. Lei lo osservò e vide che
aveva la camicia aperta, mostrando il petto coperto da due larghe fasce
di cuoio cui erano infilati un gran numero di stiletti, molto leggeri e
sottili, e un laccio di fibre vegetali che reggeva un ciondolo di forma
rettangolare. Non poté continuare a guardare,
perché sentì un movimento alle sue spalle. Fece
partire un affondo e percepì la spada tagliare la carne
molle di un Myurohon. Poco dopo, uno dei coltelli di Vaenihum
terminò il suo volo nel cranio del soldato. Alexya rivolse
all'Elfo uno sguardo riconoscente e vide il ciondolo della collana
mandare un debole bagliore, mentre lo zombi si distruggeva. Ecco il trucco!,
esultò Alexya e allungò la mano per afferrare il
pendente di Vaenihum, che le andava incontro per recuperare lo stiletto. «Eh no,
milady» la ammonì l'Elfo, prendendole l'arto con
accondiscendenza. «Non si tocca». Indispettita, la
ragazza gli voltò le spalle e si avviò verso un
gruppo di Myurohon poco distante. Aveva lasciato indietro una spada e
doveva procurarsene un'altra. Attaccò i soldati di spalle e
si appropriò di ciò di cui aveva bisogno.
Procedette falciando gli zombi davanti a sé,
finché non s’imbatté in Irene, che
affondava le mani artigliate nel ventre e nel petto di ogni guerriero
le capitasse sottomano, aprendo squarci mortali nei loro corpi. Alexya si
bloccò un attimo, sconcertata da quell'incontro, ma dovette
subito riscuotersi perché i Myurohon non erano intenzionati
a lasciarle tregua, nemmeno per farle capire se era al sicuro o meno.
Ormai, quella battaglia era diventata monotona e la ragazza
riuscì a mettere insieme qualche pensiero,
giacché non doveva ingegnarsi più di tanto per
combattere quegli zombi. Le loro mosse erano ripetitive e noiose, non
c'era alcuna necessità di sprecarsi. La promessa sposa di
Nicholas – Alexya lo sapeva bene – non la vedeva di
buon occhio. Non le aveva mai rivolto la parola, quando parlava in sua
presenza si rivolgeva unicamente all'Infero e non si era dimostrata
molto cordiale, nei suoi confronti. Ora che erano in un combattimento,
rischiava di trovarsela contro? La risposta le giunse
dalla stessa Irene, che uccise un Myurohon al fianco di Alexya per
darle una mano. O almeno così lei interpretò il
gesto. «Grazie»
disse l'umana, per farle intendere che non c'era ostilità da
parte sua. Irene
inarcò le sopracciglia bionde, sorpresa. Quella ragazzina
cosa ci faceva lì? Perché Nicholas non era al suo
fianco a proteggere il suo nuovo giocattolo? Che scherzo era quello? «State
combattendo» notò il demone, mentre
l’arto destro si avvolgeva di fiamme prima di conficcarsi nel
torace di uno zombi. «Ovvio»
replicò Alexya, tagliando la testa a un soldato, mentre
l'altra spada mozzava il braccio proteso di un secondo. «Se
sono entrata nella Guerra Millenaria, non è stato
perché voglio bere il the con Al e Lord Nicholas»
aggiunse, mentre Irene le toglieva dinanzi due avversari. La donna si diede
della stupida. Per cosa era tormentata in quei giorni? Solo per una
pedina di Nicholas, non per una sua amante! Quella ragazzina non lo
aveva attirato in quanto femmina, ma perché si era lanciata
nella Guerra Millenaria. Doveva essere così, per forza,
altrimenti che senso avrebbe avuto lasciarla scorrazzare fuori dalla
sua ala protettiva, facendola lottare? Non aveva motivo di esser gelosa
di lei. Trattenne una risata e ruotò la testa di un
Myurohon, accompagnata dallo schiocco secco delle ossa rotte. Il suo
ciondolo brillò e lo zombi si ridusse in cenere. Irene raggiunse Alexya
che era alle prese con l'ultimo Myurohon rimasto attorno a loro. Quando
la testa dello zombi rotolò per terra, il demone la
pestò con forza e il soldato divenne polvere, come tutti gli
altri. Sollevò lo sguardo verso l'umana, che aveva preso a
guardarsi in giro, catturata dai propri pensieri. «Avete
bisogno d'aiuto?» le domandò, attirando
l'attenzione su di sé. Alexya la
fissò, le sopracciglia inarcate per la sorpresa.
Abbassò lo sguardo dal volto schizzato di sangue nero e
notò che gli avambracci ne erano completamente ricoperti.
«Avete già fatto molto, Lady Irene, vi ringrazio.
Ma forse è meglio che vada a cercare il
Manipolatore» fu la sua risposta. Tornò a
osservare la ressa, concentrata. «Deve essere pure da qualche
parte...» continuò rivolta a se stessa. Irene decise di darle
una mano. Perché avrebbe dovuto privarla del suo aiuto? Non
costituiva una minaccia, in quel momento non la vedeva come tale. E poi Nicholas non la
prenderebbe bene, rifletté amareggiata.
Sì, lo faceva anche per quello. Soprattutto per quello.
Anche se non fosse divenuta una nuova amante dell'Infero, quell'umana
aveva comunque attirato la sua attenzione, gli era utile in qualche
maniera che non implicava solo il letto. Questo le dava un po'
fastidio, sì, ma non quanto il condividere Nicholas con
un'altra donna. «Il
Manipolatore è Vraele, Vostra Grazia» disse Irene,
rivolta ad Alexya. La ragazza sorrise
grata al demone. «Se continuate ad aiutarmi, Lady Irene,
andrò avanti a ringraziarvi all'infinito»
replicò lei. «Perché lo state facendo?
Non mi odiate?» La promessa sposa di
Nicholas si morse leggermente il labbro inferiore, cercando una
risposta adatta. «Non vi conosco abbastanza da odiarvi, al
massimo posso trovarvi antipatica». Alexya
accettò quella replica. Non le andava di sindacare su
sciocchezze simili. Rivolse lo sguardo alla mischia poco distante da
loro due, che si trovavano tra gli alberi, circondate da mucchi di
cenere. I suoi soldati erano tra i Myurohon a combattere, invece.
Probabilmente abbattuti, frustrati perché non riuscivano a
distruggere il loro nemico. Potevano esser morti, per quanto ne sapeva.
Però sentiva ancora urla e rumori della battaglia, qualcuno
in vita c'era di sicuro. Doveva trovare Vraele e obbligarlo a
ritirarsi. Non serviva a niente quella lotta, solo ad affaticare e
uccidere i suoi uomini. Congedatasi da Irene,
Alexya si affrettò verso il centro della radura, anche se
era pieno di Myurohon. Ma, non appena mosse un passo, fu obbligata a
fermarsi dall'arrivo di un uomo dai capelli biondi, atterrato davanti a
lei e che la fissava con aria truce. Irene lo riconobbe e
decise di andare ad avvisare Nicholas. Era strano che non lo avesse
già fermato, forse aveva i suoi piani per lui.
Però ora doveva aiutare la ragazzina. Quello non era un
avversario per lei. «Siete voi
la Fenice?»
Vraele
guardò la ragazzina a soli due metri da sé e si
chiese se avesse visto giusto. Era un'umana sì, ma sembrava
troppo giovane per aver sfidato Al e Nicholas nella Guerra Millenaria,
troppo giovane per esser considerata un serio problema dal suo re.
Certo, la salute mentale di Al non era delle migliori, anzi era la
peggiore del Mondo Profano per quanto ne sapesse, eppure il sovrano se
l'era presa con lei come non mai. Le scaramucce con i Re degli Inferi
erano nulla a confronto. Almeno in quel caso si accontentava della
stagione bellica per danneggiare i suoi eterni nemici. Per quella
ragazzina, invece, si era scomodato già prima del Consiglio
degli Otto Sovrani a causa di voci non confermate giunte da fonti
improbabili. E ora aveva inviato lui e i Myurohon a occuparsi di lei.
Decisamente, era troppo paranoico: vedere un enorme pericolo in una
piccola umana, tsk. «Allora?»
insistette, poiché da lei non giungeva alcuna risposta. «Il divino
Vraele, vero?» domandò la ragazza. «Non mi
avete riposto, milady» le fece notare il dio della Guerra,
infastidito. «Voi
sì» ridacchiò lei. «Sono
Alexya dei Thenesharum, Regina della Guerra d'Ovest. Chi mi ha mai
chiamato Fenice?» Vraele
inarcò le sopracciglia. In effetti, quel soprannome lo aveva
inventato e utilizzato lui in quei giorni, per riferirsi alla ragazza
preso dalle sue riflessioni. «Però,
mi piace...» commentò Alexya, sollevando gli occhi
al cielo, con aria pensosa. «Che
onore» replicò Vraele, sarcastico. Sul viso dell'umana si
dipinse un sorrisetto divertito. «Bene,
divino Vraele, ritiratevi» gli ordinò Alexya,
muovendo un passo verso di lui. Per lo stupore, il dio
si raggelò. Cosa?
Gli aveva impartito un
ordine? Era ridotto davvero male se permetteva a una
ragazzina, umana per giunta, di comandarlo. Permetteva una cosa simile
unicamente ad Al e solo perché rischiava di pagarla cara,
non per altri motivi. Fosse stato libero, sarebbe andato a vivere in un
regno lontano da tutto quello schifo. Però non era libero ed
era al servizio del Re delle Divinità, non della prima
persona che incontrasse, perciò non avrebbe dato retta alla
Fenice. Scoppiò a ridere di gusto. «Siete fuori
di testa» la sbeffeggiò tra le risate. Alexya
scrollò le spalle. Beh, lei ci aveva provato con le buone.
Solo perché cercava di usare, per prima cosa, i metodi di
Helena le sue trattative non funzionavano, mai. Tanto valeva agire suo
stile. Roteò le spade e si avventò sul dio. Lo
aveva colto di sorpresa, era troppo preso dalle sue risate per
accorgersi dei suoi movimenti. Quello era un vantaggio. Aveva,
però, sbagliato i conti. Invece di sentire la lama destra
affondare nel petto dell'uomo, essa scivolò su qualcosa di
liscio e lei perse l'equilibrio. Come
una stupida principiante, si lamentò tra
sé, facendo qualche passo incerto per riprendersi. Si
voltò di scatto verso il dio, che aveva ruotato la testa per
guardarla beffardo con gli occhi di pece, cerchiati di bistro. Una
sciabola dalla lama dai riflessi verdi spuntava dalla sua spalla, posta
davanti al petto di Vraele. Ecco con cosa si era scontrata quella spada
di pessima qualità che stava usando. «Credevate
di prendermi di sprovvista?» le chiese il dio, minaccioso. Alexya
sollevò le spalle, con aria noncurante. «Tanto
valeva tentare». Vraele si
girò con tutto il corpo verso la regina. Non gli andava di
combattere, non con lei. Che senso aveva? Era solo una ragazzina umana,
non poteva essere molto abile nella lotta. Anche se i suoi piani
prevedevano la morte della Fenice per mano di un Myurohon e
ciò non si era verificato. Non aveva contemplato nemmeno per
sbaglio la possibilità che lei avesse la capacità
– fortuna?
– di rimanere intera per scontrarsi con lui. La
osservò attentamente e notò solo alcuni graffi
sugli avambracci, dove le maniche del vestito non nascondevano la
pelle, qualche spruzzo di sangue nero sul volto e altre piccole e
insignificanti ferite sulle gambe. Scoperte,
notò lui con un certo stupore. Aveva tagliato la gonna per
combattere. Inarcò le sopracciglia. Che strana ragazzina. E comunque, non gli
andava di scontrarsi con lei. Perché sarebbe intervenuto Al,
che avrebbe reso il suo corpo schiavo grazie ai tatuaggi che gli aveva
imposto sulle spalle, per utilizzare le sue braccia nei combattimenti.
Perché la sua Divinità non poteva scendere in
campo, nossignore. Il sangue e la polvere gli avrebbero fatto male,
povero. Bisognava capirlo. Scosse il capo. Doveva piantarla di far
sarcasmo. Per quanto ne sapeva, Al poteva essere benissimo all'ascolto
dei suoi pensieri. E lo avrebbe torturato, come minimo, per tale
affronto. «Allora,
divino, rimanete lì in attesa che io vi attacchi di nuovo?
Guardate che prima o poi vi colgo alla sprovvista»
richiamò la sua attenzione Alexya, un'espressione seccata
sul volto. Vraele la
guardò, perplesso. Quella ragazzina era una congiura contro
di lui. La sua esistenza lo aveva portato nella Foresta Grigia, la sua
imprudenza lo stava portando a combattere. Avrebbe lasciato fare a lei,
si sarebbe limitato alla difesa. Se si fosse impegnato troppo, Al
avrebbe notato che lui si stava scontrando e sarebbe intervenuto. Era
proprio ciò che voleva evitare, più della lotta
in sé. E doveva darsi una mossa, perché sapeva
che Nicholas era lì in giro, divertendosi a fare a pezzi i
Myurohon. Sentiva le presenze nella sua testa diminuire, tra grida
atroci che solo lui poteva udire, e l'Infero ancora non aveva attentato
alla sua mente. Doveva sbrigarsela con la Fenice prima che il re
decidesse di prendersela con lui. Per
Fato, sempre in questo schifo di situazioni mi trovo,
imprecò tra sé. Sollevò la sua spada,
la Shylazhil, pronto ad attaccare. Alexya se lo
trovò davanti in un batter d'occhio. Dannazione, ecco
una dimostrazione delle capacità di creature potenti.
Nicholas di sicuro era capace di fare questo e altro.
Incrociò le spade davanti a sé, bloccando il
fendente. Strinse i denti, mentre si opponeva alla forza del dio.
Quando si accorse che quel braccio di ferro l'avrebbe portata alla
sconfitta, liberò le lame spingendo Vraele indietro e gli fu
immediatamente addosso, con una serie di dritti e rovesci che l'uomo si
limitò a schivare, perché gli comportava meno
sforzo di parare con la Shylazhil. Una sola volta una delle lame della
ragazza lo colpì, graffiandogli il petto, a partire da sotto
la clavicola. Dilettante,
la sbeffeggiò tra sé. Quando però
Vraele vide una ferita aprirsi sul suo torace, non troppo profonda ma
parecchio estesa, smise di sottovalutare così tanto la
Fenice. Doveva impegnarsi, tornare a Gemma d'Autunno pieni di taglietti
non era il massimo. Sollevò il braccio in aria, pronto a un
altro fendente. Alexya notò
il cambiamento avvenuto nel suo avversario e smise di stargli addosso,
per porre tra loro le spade. Forza,
attacca, lo incitò, storcendo le labbra in un
ghigno. Quando combatteva, finiva per prenderci gusto. L'adrenalina le
dava alla testa e non riusciva a stare ferma troppo a lungo. Le lotte
ripetitive la annoiavano. Era stata proprio cresciuta male, per essere
una regina. Vraele infuse parte
del suo potere alla Shylazhil e calò il braccio per colpire
la ragazza con un dritto. Lei lo guardò, tranquilla,
perché lui era troppo lontano per raggiungerla. Aveva
calcolato male le distanze? Povero idiota. Forse non ci vedeva bene,
forse... I pensieri di Alexya
furono turbati da quel che vide. La sciabola del dio parve allungarsi e
muoversi nell'aria come un serpente grigio-verde. Sgranò gli
occhi e sollevò immediatamente le braccia per parare il
colpo. Sentì la lama scontrarsi contro le due spade e
avvertì in contraccolpo, che la fece indietreggiare. Poi un
forte bruciore alla guancia destra e qualcosa di caldo che le colava
sulla pelle. Vraele ritrasse il braccio e la Shylazhil tornò
di dimensioni normali. L'aveva ferita al primo attacco serio. Facile,
commentò lui, sicuro di sé. La Regina d'Ovest
guardò il dio della Guerra senza sapere cosa aspettarsi.
Quella sciabola era pericolosa, ora lo aveva provato. Si poteva
allungare a piacimento e neppure una buona parata la poteva fermare. Si
muoveva a caso e troppo velocemente, perché la sua vista
umana potesse seguirne i movimenti. Shylazhil,
ripeté nella sua mente, ricordando il nome della lama,
studiato da bambina, spada
serpente, porca miseria! Doveva impedire al suo avversario
di dar sfoggio di tutte le utilità di quella spada. Non gli
doveva lasciare spazio, perché era ciò di cui
aveva bisogno per colpirla. Presa la sua decisione, Alexya
annuì convinta e corse incontro a Vraele, pronta ad
attaccarlo con un montante destro, mentre la spada sinistra era ferma
davanti al suo petto, per proteggerla da un possibile attacco del dio. L'uomo sorrise
divertito e attese che la regina lo colpisse. L'aveva spaventata e ora
lei gli sarebbe stata addosso. Ma non sapeva che lui poteva usare la
Shylazhil anche da vicino. Povera
ingenua. Era pronto a ricevere l'attacco dell'umana,
quando sentì una presenza fredda e tagliente nella sua
mente. Sgranò gli occhi. Non c'erano più Myurohon
in vita, nemmeno uno. E quel gelo... Nicholas!, lo
riconobbe, spaventato. L'avesse avuto
davanti, Vraele lo avrebbe visto ghignare, con la crudeltà
che brillava nei suoi occhi d'argento. Ma ne ebbe solo la vivida
sensazione nella sua testa. Si distrasse e la spada di Alexya
affondò nel suo fianco. Gemette, mentre altre ferite
inspiegabili si aprivano sul suo corpo e lasciavano fuoriuscire sangue
a fiotti. La divisa s’inzuppò di liquido rosso a
una velocità spaventosa. Il dio abbassò lo
sguardo e incontrò quello perplesso della ragazza. Non
credeva davvero di riuscire a ferirlo, non era tanto illusa. Eppure, la
lama era bagnata del suo sangue color rubino. «Ma
cosa...?» cominciò Alexya, sfilandogli la spada
dalla carne. Vraele vide
l'espressione sul volto della Fenice mutare, dalla sorpresa alla
preoccupazione – pietà,
si corresse rabbiosamente. Quella ragazzina stava provando
pietà per lui.
Intanto Nicholas continuava a straziarlo dall'interno. Il suo potere lo
graffiava in profondità, come i suoi artigli da felino.
Quella situazione era irritante, la sua impotenza lo infastidiva troppo. Levati di torno, Vraele. I tuoi
Myurohon sono inutili, Al non l'ha ancora capito e tu continui, da
idiota, ad ascoltarlo, gli intimò l'Infero
nella sua testa, con un gelido sussurro. Si aprirono altri tagli e la
rabbia frustrata di Vraele aumentò. Ripose la Shylazhil nel
fodero assicurato alla sua schiena e rivolse alla ragazza uno sguardo
inferocito. Lei aveva osato provare pietà per lui. Non
l'avrebbe lasciata vincere, perché lei avrebbe perso, se non
fosse intervenuto Nicholas. Afferrò bruscamente la Fenice
per le spalle e la tirò verso di sé. Sorpresa, la Fenice
non si protesse quando lui le sferrò una violenta
ginocchiata nello stomaco. Alexya crollò a terra, bocconi, e
si appallottolò girandosi su un fianco, con le braccia
strette sullo stomaco. Vraele udì
i suoi flebili lamenti e trovò di aver fatto abbastanza.
Ebbe un giramento di capo e comprese di doversi dare una mossa. Non
doveva svenire nella tana di Nicholas. Non voleva sapere cosa gli
avrebbe fatto, in quel caso. Lanciò un ultimo sguardo alla
regina sofferente – forse aveva esagerato, poi le diede le
spalle e s’inoltrò nella foresta, i tagli aperti
che continuavano a sanguinare. Stava lasciando una scia di sangue alle
sue spalle, ma non gli importava. Non doveva esser catturato dagli
Inferi, non vivo. Alexya
ignorò la fuga di Vraele e iniziò a tossire. Si
portò una mano davanti alla bocca e, quando la
allontanò, vide con orrore che era macchiata di sangue. Il
dolore era un costante martellare, provò a sollevarsi con le
sue forze e sentì un conato di vomito che la convinse a
lasciar stare. Si abbandonò sul terreno, intanto che la
tosse le squassava il petto, impietosa. Un movimento d'aria e
Nicholas fu davanti alla ragazza. La guardò dall'alto,
imperscrutabile, e s’inginocchiò per metterla a
sedere, la Naharzhil già dissolta, tornata a far parte della
sua aura. Le mise le mani sui fianchi e la tirò su,
poggiandola contro di sé, per poi cingerle le spalle magre
con un braccio. La regina sollevò lo sguardo e vide il volto
bianco dell'Infero macchiato del sangue scuro e vischioso dei Myurohon.
Abbassò gli occhi e il petto muscoloso le offrì
la stessa vista. Tossì, la mano premuta sulle labbra. Quando
la scostò, il re la notò tinta di cremisi. «Milady, tra
un po' sverrete» la informò Nicholas, mantenendo
salda la presa sulle sue spalle. Alexya gli rivolse uno
sguardo scettico. «Esagerato, è stato
solo...» Un altro colpo di tosse, più forte dei
precedenti. La ragazza si piegò su se stessa, il dolore allo
stomaco era talmente forte da farle credere di star impazzendo. Poi,
vide tutto bianco, ogni suono tacque e la sofferenza svanì,
assieme alle sue forze. Nicholas
inarcò le sopracciglia, paziente. Passò il
braccio libero sotto le gambe della regina e la prese in braccio. Vaenihum, lavoro,
annunciò all'Elfo, che stava controllando i feriti tra gli
Uomini. Vaenihum rivolse lo
sguardo in direzione del suo re e sospirò, rassegnato.
Marihus
seguì attentamente ogni movimento dell'Elfo. Non che ci
capisse qualcosa, ma doveva assicurarsi che quella creatura facesse il
suo dovere. Anche se era il medico di corte degli Inferi, era pur
sempre il braccio destro di Lord Nicholas. E non si fidava, nossignore.
Vaenihum intinse di
nuovo il panno nella bacinella e lo strizzò, facendo
gocciolare l'acqua sporca di sangue. Poi passò la pezza sul
volto della regina svenuta, sorprendendosi nel trovare un taglio
piuttosto profondo sulla sua guancia. Abbandonò il
rettangolo di tessuto di fianco al viso della ragazza e
sfiorò la ferita dai bordi lineari e perfetti. Un rivolo di
sangue continuava a fuoriuscire, per poco la Shylazhil non era entrata
nella bocca. Riconosceva quel tipo di lacerazione, una volta Nicholas
aveva permesso alla sciabola di Vraele di colpirlo, curioso di scoprire
le capacità di quella lama. E Vaenihum aveva ricevuto il
permesso del suo sovrano per studiare la lesione: inferta dalla punta
tagliente, la ferita era più profonda al centro e la carne
era squarciata con precisione impressionante. Prese il vasetto di
disinfettante dalla sedia posta vicino al letto e intinse le dita nella
pomata, per poi spalmarla sul taglio. Richiuse il barattolo e
posò indice e medio sulla ferita, applicando l'incantesimo
di cura. Quella era stata la lesione peggiore che avesse trovato
esteriormente. Però Nicholas lo aveva informato del colpo
allo stomaco e del sangue che la ragazza aveva sputato. L'Elfo
impugnò uno dei coltelli assicurati al suo petto e
afferrò la manica del vestito di Alexya. Tanto era
già stato tagliato, qualche altro squarcio non avrebbe
peggiorato la situazione dell'abito. Era da buttare in qualsiasi caso. Appena si
udì il primo strappo della stoffa, Marihus si
agitò e si mise in piedi, per vedere oltre Vaenihum, che gli
dava le spalle coprendogli la visuale. «Cosa state
facendo?» domandò il maggiordomo, con una lieve
nota isterica nella voce. «Niente che
vi possa interessare» fu la replica dell'Elfo che, con
un gesto secco, distrusse la manica sinistra del vestito. «Per
Zephiro, cosa diamine
state facendo! Lasciatela stare, maledetto
Elfo!» inveì Marihus, afferrando un braccio del
medico. Vaenihum con un gesto
seccato allontanò l'uomo e passò all'altra
manica. «No, no, no!»
gridò l'umano, riavvicinandosi all'Elfo. Johan, attirato dalle
urla, entrò nella tenda. Marihus lo guardò e gli
chiese aiuto, con urgenza. «Le sta
strappando il vestito! Fermalo,
Johan!» Il soldato
aggrottò la fronte e raggiunse con poche falcate il letto
davanti al quale c'erano i due uomini. Guardò la sua
signora, abbandonata dalle forze, con tagli leggeri sulle braccia
ancora da curare. Rivolse uno sguardo all'Elfo. «Cosa dovete
farle?» gli domandò, mortalmente serio. Vaenihum
roteò gli occhi. Quant'erano ignoranti e petulanti i
sottoposti di quella ragazzina! Ruotò il capo verso Johan,
guardandolo con aria annoiata. «Controllare
che non ci siano altre lesioni, lavarla e farle indossare qualcosa di
decente» spiegò, rassegnato a non esser capito.
Tanto lui avrebbe fatto quel che voleva, due umani non lo avrebbero
bloccato. Johan lo
scrutò con attenzione e diffidenza, poi, convinto della
bontà delle intenzioni dell'Elfo, annuì. «Bene»
commentò Vaenihum, tornando a tagliare il tessuto del
vestito della regina. «Il maggiordomo potrebbe andare a
prendere una camicia da notte per la sua signora, invece di star qui a
far nulla» suggerì poi. «No,
assolutamente no! Io non mi allontano di qui finché non
levate le mani da milady!» protestò Marihus,
pestando un piede per terra con irritazione. «Vacci tu,
Johan!» Il capitano gli
rivolse un'occhiataccia. Il maggiordomo isterico non lo sopportava,
soprattutto perché perdeva l'uso della ragione.
«Non sono io a farle le valigie. Non so dove metter
mano». «Chiedi
aiuto ad Hanan!» «Marihus»
lo chiamò Johan, con un tono basso e minaccioso. Vaenihum stava
ignorando le chiacchiere di quei due umani chiassosi e stava studiando
le cuciture del corpetto. Aveva tagliato la sottoveste assieme alle
maniche, non se n'era reso conto. Le donne degli Inferi non portavano
tutti quegli abiti addosso. «Ho capito,
ho capito! Vado io! Ma tu tieni d'occhio quest'Elfo!»
concesse alla fine Marihus e superò il soldato a grandi
passi, emanando rabbia. Johan seguì
con lo sguardo la dipartita del maggiordomo e tornò a
guardare Alexya. Notò che l'Elfo stava armeggiando col
corpetto. Sollevò gli occhi sul volto di Vaenihum e lo vide
impassibile, concentrato sul suo lavoro, quasi quella sotto di lui non
fosse una donna ma un semplice ammasso di carne su cui doveva lavorare.
Gli scrupoli di Marihus erano del tutto fuori luogo. Con uno strattone,
Vaenihum distrusse il corpetto. I lacci si trovavano lungo la schiena e
lui non poteva metter prono il corpo della ragazza solo per svestirla
secondo le regole. Sentì dei passi alle sue spalle e un
grugnito. «Alla fine
lo avete fatto, Elfo impudico» bofonchiò furioso
Marihus, porgendogli con malagrazia una camicia da notte verde chiaro,
ben piegata e stirata. Vaenihum
lasciò che le parole gli scivolassero addosso senza toccarlo
e controllò che non vi fossero lividi sul corpo della
ragazza. Ne individuò un paio sulla spalla e sul petto,
sotto il seno. Tastò le costole per assicurarsi che non ve
ne fossero rotte e la rivestì, dopo aver fatto sparire le
macchie violacee. L'indumento era privo di maniche e questo gli permise
di curare i taglietti delle braccia senza sentire oltre le lamentele
del maggiordomo. Quando l’Elfo sollevò la gonna
della camicia da notte, Marihus iniziò a borbottare ma Johan
gli fu subito affianco e, posatagli una mano sulla spalla, lo
zittì in qualche maniera che al medico non interessava
minimamente. Ora c'erano solo i graffi sulle gambe. Che la regina non si sarebbe
procurata se non avesse deciso di aprire la gonna e fare la Valchiria,
commentò Vaenihum tra sé, ricordando il Popolo di
donne guerriere che vivevano nel Maholeyrion. Le Valchirie
però non indossavano mai vestiti del genere, quindi non
avrebbero potuto compiere lo stesso gesto della ragazzina. Dettagli. Ormai rimaneva lo
stomaco, di sicuro lesionato, altrimenti perché avrebbe
dovuto tossire sangue? I polmoni non erano stati perforati da nessuna
costola, quindi il problema si trovava lì. Posò
le mani sotto la cassa toracica dove, secondo quanto aveva studiato, si
trovava l'organo che cercava. «Kuraeh-thi»
mormorò e chiuse gli occhi, per controllare che
l'incantesimo facesse effetto. Sentì il suo potere lambire
tessuti lesionati e sanarli in fretta. Sì, il problema era
là e lo aveva risolto. Sollevò i palmi delle mani
dalla pancia della ragazza e afferrò la coperta arrotolata
sotto i suoi piedi, tirandogliela sopra. Infine, si voltò
verso i due umani. (2) «Ho
finito» annunciò piatto, pulendosi le mani con uno
straccio recuperato dalla tasca dei pantaloni. Raccolse quel che aveva
lasciato in giro e si allontanò dalla tenda, cercando di
liberarsi al più presto dei due uomini. E poi avrebbero
avuto da parlare con la ragazza. Marihus
seguì diffidente la dipartita dell'Elfo, mentre Johan
recuperava la sedia vicino allo scrittoio posto in quella tenda e la
trascinava vicino al letto. Si accomodò e guardò
Alexya, sfiorandole il viso con una mano. «Abbiamo
perso quattro soldati e tre sono feriti. Hanan si sta occupando di
loro» disse Johan, la voce ferma. «Appena vi
sentite meglio, venite a far loro una visita, ne hanno
bisogno». Il maggiordomo
lanciò uno sguardo pieno di disagio prima al capitano, poi
alla regina. Lui aveva fatto tante storie mentre l'Elfo la curava e
intanto tre uomini avevano bisogno dello stesso trattamento. Si sentiva
un po' in colpa per questo, era fuggito dalla morte che aveva visto
davanti ai suoi occhi con la scusa di cercare Alexya, era rimasto
rintanato in quella tenda con la scusa di salvaguardare la sua
dignità, aveva fatto di tutto per ignorare qualche era
accaduto agli uomini con cui aveva viaggiato in quei giorni.
Chinò il capo e fece per uscire dalla tenda. Poco dopo
sentì Johan seguirlo, con passi lenti e pensanti, preso dai
suoi pensieri. Non appena fu sola,
Alexya aprì gli occhi e si guardò attorno. Quattro morti. Tre feriti.
Ciò significava che oltre a Johan, altri due soldati erano
ancora in vita. Abbassò le palpebre, stringendo la coperta
nei pugni. Quattro
morti. Quattro... No, doveva pensare ai feriti. Tre, solo tre.
Potevano esser curati. Vaenihum,
Vaenihum!, pregò tra sé,
istintivamente. Aveva guarito lei, cosa gli costava aiutare i suoi
soldati? Forse stava pretendendo troppo dagli Inferi. Nicholas si era
già rivelato abbastanza gentile nei suoi confronti. Ma tre feriti non sono niente!,
si lamentò rigirandosi nel letto. L'Elfo
scostò il tessuto all'ingresso della tenda e
lanciò un’occhiata alla regina. «Milady,
avete forse chiamato?» fu la sua domanda. L’aveva
sentita benissimo, quella ragazza non aveva ancora schermato la sua
mente. Alexya
sussultò e lo guardò, sorpresa. Si tirò a sedere,
meravigliandosi di come si sentisse in forma. Avrebbe fatto un giro tra
i sopravvissuti, come le aveva chiesto Johan. «No, milady,
rimanete a letto a riposarvi. Mi occuperò io dei vostri
uomini» intervenne Vaenihum, seguendo i suoi ragionamenti. La regina gli rivolse
uno sguardo spaesato, poi capì. Dannazione, i miei pensieri!
Anche lui può ascoltarli!, si
ricordò infastidita. Vaenihum non rispose e
si congedò, per fare quell'ultimo favore alla Regina
d'Ovest. La Fenice,
pensò divertito, ricordando quanto aveva udito da Vraele.
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano: (1) Myurohon ya rohon:
il vendicatore io vendico (incantesimo) (2) Khurae-thi: curati
(incantesimo)
Quanto tempo, mado'...
o__ò Purtroppo la scuola è soffocante e le
giornate, purtroppo, non sono di trentasei ore (come minimo) e la
metà di quelle libere dagli impegni scolstici devo usarle
per dormire, mi pare ovvio. Così tra studio e compiti mi
rimane poco tempo e poca forza, persino per scrivere. E' deprimente e
frustrante. Nel capitolo
precedente ho aggiunto quattro versi di una canzone che mi sembrava
adatta alla cena di Alexya e Nicholas. Se credete di non riuscire a
vivere senza conoscerli, andate a leggerli. XD Come al solito, mando
una mail quando aggiorno. Non posso assicurare niente. In qualsiasi caso,
bruciate un incenso o sacrificate una vacca per me, affinchè
riesca ad andare avanti con l'Esercito nonostante la scuola. Alla prossima (quanto
mi sono dilungata u__ù)
E' passato quasi un
mese dall'ultimo aggiornamento, lo so. ^^ Cause di forza maggiore,
capita ogni tanto. Prima del
capitolo, vorrei ringraziare Dark
Magician, myki, marluxia25 e olghish per i
commenti. Sholove
per i preferiti (benvenuta! <3) e di nuovo olghish e Dark Magician,
più berry345
per aver messo questa storia tra le seguite.
.-.-.-.
Uomini: Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice,
cugina di Helena; Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya; Johan, capitano
delle guardie reali d'Ovest; Marihus,
maggiordomo dello Smeraldo; Hanan, ancella di
Alexya; Garstand, padre di
Alexya; Dygghor, padre di
Helena; Arghos, uno degli
Anziani; Geq e Pjehr,
soldati della guardia reale; Tarus, Re del Nord; Mentius, Re del Sud; Ludovik di Dornior,
Re d'Est; Sarah,
messaggera dello Smeraldo.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le
razze degli inferi – demone, vampiro, antico spirito); Irene di Canthao,
promessa sposa di Nicholas, demone; Chester di Niha,
Nobile purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo; Krados di Thena,
Nobile purosangue, spia reale, demone; Molko di Thener,
Nobile
purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi,
generale di una legione dell'esercito Infero, vampiro; Lathiora, vive allo
Smeraldo, antico spirito gatto; Apuh,
Nobile del Clan Thener, vampiro; Thitus,
Nobile del Clan Canthao, capo della congiura, demone; Bhor'la,
Nobile del Clan Niha, antico spirito corvo; Murthen,
mezzo-driade, maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.
Divinità:
Al, Re delle
Divinità, dio della Forza; Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio; Hordev, figlio di
Al ed Adele, dio della Lussuria; Zephiro, protettore
della famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti; Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di
Sarihele, dio della Guerra; Eoforbio, portavoce
reale; Sarihele, capo
degli Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni; Veris, dea della
Primavera;
Thenaria, dea della Terra, protettrice del Regno del Nord, signora
della Foresta Grigia e delle Driadi; Niharn, dea
dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest; Devon, sottotenente
di Vraele, Colchico; Dabar'as, membro
degli Herzbrenht.
Campi
di Sangue:
Archelaos,
negromante, semidio; Laila, scheletro di
Archelaos; Arnold,
proprietario della Mandragola; Mara, moglie di
Arnold; Tyr, proprietario
del Vagabondo selvaggio.
Elfi
e Lucenti:
Wirda, Re degli
Elfi; Vaenihum, braccio
destro di Nicholas, medico di corte, Elfo; Adhurna, Regina dei
Lucenti, cieca.
.-.-.-.
Avviso (soprattutto per marlu XD):alta
concentrazione di Nicholas in questo capitolo. In caso di
infarto, l'autrice non ha alcuna responsabilità.
Avviso
(serio): essendoci una considerevole (enorme, coff coff)
parte di dialoghi in Maholhan, consiglio di copiare il minidizionario,
che si trova in fondo alla pagina, su un word processor
(word, openoffice writer, blocco note, word pad, quel che vi pare).
Questo vi permetterà di leggere immediatamente la traduzione
e capire quel che si dice.
X. Herzbrenht
Irene immerse le mani
nella bacinella di acqua limpida, portata lì dalle Driadi,
su esplicita richiesta di Nicholas. Per lui, Thenaria avrebbe fatto
questo e altro. Era una comodità per la quale lei concedeva
alla dea di stare sempre attorno al suo promesso sposo. Prese del
sapone liquido, sempre dono delle ninfe dei boschi, e lo
utilizzò per liberare la pelle da quel sangue nero che,
seccandosi, aveva creato una disgustosa pellicola gommosa sui suoi
avambracci. Terminato il lavaggio,
si asciugò le mani con un panno morbido, che poi
usò per togliere il trucco. L'ombretto, il fondotinta e il
chiaro rossetto svanirono, lasciando il suo volto lindo e candido, gli
occhi blu che brillavano come scuri abissi marini. Portò le
mani ai capelli e li liberò dai fermagli, sciogliendo le
trecce per pettinarli. Abbassò le palpebre, rilassandosi man
mano che la spazzola scioglieva i nodi. Aveva bisogno di continuare a
non pensare, non ne aveva voglia. Dopotutto aveva aiutato la ragazzina
che le aveva dato tanto tormento e non era sicura di voler capire il
vero motivo per cui l'aveva fatto. Era molto più
rassicurante l'odio a volte, perché impediva di vedere le
innumerevoli strade da percorrere. Strinse i denti. Non pensare, si
ricordò. Aprì gli
occhi e guardò il suo riflesso nello specchio. Ma il suo
sguardo fu attirato da due iridi argentate immerse nella penombra, che
spiccavano gelide e crudeli, offuscando con il loro splendore tutto
ciò che le circondava. Irene si voltò di scatto,
il pettine le sfuggì di mano, però non le
importava più niente. Il cuore le salì in gola
quando lo vide. «Da
quanto...?» cominciò, ma le morirono le parole in
gola. «Avresti
potuto fare il bagno» intervenne Nicholas, giocherellando
distratto con una goccia di rhum rimasta nel bicchiere. Irene si morse il
labbro inferiore, mentre gli occhi definivano la sua figura
nell'oscurità. Era seduto sul divanetto posto nella parte
opposta rispetto alla specchiera, davanti alla quale si trovava lei.
Indossava ancora il vestito con cui aveva combattuto, sporco di sangue
e grumi sulla cui provenienza era meglio non indagare. La donna prese
il panno che aveva usato precedentemente, lo immerse nell'acqua della
bacinella e raggiunse Nicholas sul sofà, mettendosi al suo
fianco. «Sei tu ad
aver bisogno di un bagno» gli disse, sfiorandogli il viso con
la stoffa bagnata. Lui accettò
le sue cure, immobile, continuando a giocare con quel che rimaneva del
liquore, mentre con gli occhi seguiva ogni gesto del demone, sempre
all'erta, la situazione sotto il suo totale controllo. Quando Irene fece
tornare il viso dell'Infero del suo normale e pulito pallore, discese
con lo straccio lungo il suo collo, fino al torace lasciato scoperto
dalla giacca. «Hai aiutato
l'umana» disse Nicholas, interrompendo il silenzio che si era
creato. La donna non rispose,
quella non era una domanda, e continuò ad occuparsi di lui,
finché un suo braccio le cinse i fianchi e la spinse contro
di sé. «L'hai fatto
perché temevi una punizione, o forse perché ti
sei resa conto del tuo comportamento stupido?»
continuò il re, ruotando il capo per guardare dritto negli
occhi Irene, che aveva ripreso a tormentarsi il labbro inferiore, lo
sguardo fisso sul suo petto. «Oppure volevi compiacermi?» Allora la promessa
sposa sollevò le iridi blu e lo fissò a lungo,
senza fiatare. «Stavo agendo in modo sciocco»
rispose, infine, dicendo la cosa che l'avrebbe messa meno in ridicolo.
In realtà, lo aveva fatto per lui, solo e soltanto per lui.
Non le costava nulla non provare odio nei confronti di quella
ragazzina. Era da lui che non voleva allontanarsi. Avrebbe sopportato
quell'umana per lui. Altrimenti, sapeva che il re l'avrebbe messa da
parte, in modo del tutto volontario, per punirla della sua iniziativa. Dovrai accettare le mie scelte e
tutto quello che io faccio, se vuoi mantenere la tua posizione. Non
ammetto pareri discordanti dalla mia consorte, l'aveva
avvisata lui quando i loro padri li avevano presentati, anni addietro.
Irene capiva la sua necessità di circondarsi di persone
fidate che la vedessero come lui, perciò doveva piegarsi. Si
era ribellata a lui prendendosela con l'umana. Aveva osato troppo, lo
aveva quasi perso. Non voleva ricadere in quell'errore. Nicholas
ghignò, restringendo appena le palpebre. Si girò
verso di lei, tirandosela sulle gambe. Poi avvicinò le
labbra a quelle di Irene, dopo averla stretta a sé con
forza. «Vuoi un premio, ora?» le
domandò, la voce bassa e roca. La donna si
aggrappò alle sue spalle, mentre un brivido le risaliva la
schiena, crudele segno dell'eccitazione che si stava impadronendo del
suo corpo. Nicholas amava destare la brama altrui e giocarci,
accrescendo in questo modo il proprio desiderio e legando a
sé la sua vittima. Le prede non potevano divincolarsi, non
potevano svincolarsi dal guinzaglio perché non lo avrebbero
mai voluto davvero. Quella piacevole schiavitù era sottile,
insidiosa e meschina. E Irene non voleva
liberarsene. Abbandonato il
bicchiere per terra, l'Infero utilizzò la mano libera per
accarezzare una gamba della donna, scoprendola al suo passaggio dalla
vestaglia che lei indossava. Risalì fino ai fianchi,
lentamente, mentre quella lo abbracciava con forza. Piegando il capo
sulla sua spalla, Irene ansimò. «Sì,
voglio un premio».
Vraele fece ancora
qualche passo barcollante, poi si gettò a terra, sedendosi
tra le radici di un albero, che fuoriuscivano dal terreno. Chiuse gli
occhi, cercando di rallentare il respiro e riposarsi. Gli girava la
testa, si sentiva debole e nauseato, aveva perso troppo sangue. Doveva
curare almeno le ferite peggiori prima di tornare a Gemma d'Autunno.
Riaprì gli occhi e vide, tra le fronde degli alberi al
limitare della Foresta Grigia, Hyustas ed Illiriha nel cielo scuro. Non
era tanto tardi come aveva pensato, erano all'incirca le dieci di sera.
Inspirò e gemette quando lo squarcio sul petto si
tirò, lanciando una fitta di dolore. Sentì il
sangue caldo scivolargli sulla pelle e strinse i denti. Doveva darsi
una mossa. Ad ogni movimento si riaprivano le lesioni in via di
guarigione. Anche se, come Divinità, aveva una
velocità di rigenerazione dei tessuti maggiore, correndo non
faceva altro che rendere vani gli sforzi del suo corpo. Forza, si
incoraggiò, quando si decise a muovere le braccia e posare
le mani sul taglio che gli attraversava il torace. Si convinse che la
Fenice non lo aveva colpito tanto a fondo, che era stato l'intervento
di Nicholas a peggiorare la situazione. Concentrò il suo
potere e pronunciò l'incantesimo di cura. Ci avrebbe messo
un po' di tempo, ma già sentiva il dolore svanire. Chiuse
gli occhi, la luce delle Lune che gli baciava il volto. Lunar,
pensò con nostalgia. Mentre il suo corpo
guariva lentamente, stremato, Vraele scivolò in uno stato di
dormiveglia in cui la sua mente vagò nel cielo notturno,
nella speranza di incontrarla. Lei, Lunar, la dea delle Lune. Rinchiusa
tra i Monti di Luce, in un volontario esilio che lo aveva lasciato solo
a Gemma d'Autunno. La sua immagine diventò sempre
più nitida davanti agli occhi della memoria, con i suoi
lunghi capelli celesti, che scendevano in morbide onde lungo il corpo
minuto e delicato. “Vraele”
lo chiamò Lunar, sfiorandogli il viso col suo tocco leggero,
quasi impalpabile. “Non starai forse dormendo?” Il dio della Guerra
accennò un sorriso sofferente e grugnì qualcosa,
godendo delle carezze di Lunar. Sembrava tutto così reale,
quanto tempo era passato dall'ultima volta che l'aveva vista? Secoli, millenni. Era
già iniziata la Guerra Millenaria quando lei era andata nel
Regno di Luce, a vivere al palazzo reale dei Lucenti col fratello. La
guardò, registrando ogni particolare di quel volto amato,
gli occhi a mandorla, le guance rosate, le labbra piene e innocenti.
Tese una mano per accarezzarla, era così tangibile, quasi
fosse lì con lui. Fu reale anche il calcio negli stinchi che
gli giunse quando il suo arto era ad un soffio dal viso di Lunar.
Vraele corrugò la fronte. Lei non era violenta, la sua mente
gli giocava brutti scherzi. La stava dimenticando? «Detesto
essere ignorato, fratello» si lamentò una voce ben
nota. Vraele aprì
gli occhi di scatto e rivolse lo sguardo all'uomo che lo sovrastava,
con le braccia incrociate sul petto, i capelli visibilmente tinti di
rosso su cui si rifletteva la luce lunare. «Sarihele!»
lo riconobbe, sbigottito. «Sei stato tu ...?» «A tirarti
un calcio, sì, proprio così. Ti sembro forse
Lunar? O meglio, ti sembro forse una donna?»
replicò Sarihele, distendendo le braccia lungo i fianchi,
dopo averle spalancate per mostrare il suo corpo, maschile. Il generale
dell'esercito divino chiuse gli occhi e sospirò. Il fratello
si accovacciò davanti a lui e lo guardò
attentamente. «Sei
conciato bene, pur essendoti curato, ovvio che deliri. Però
te la sei sempre cavata con gli incantesimi di guarigione, tra un
po’ dovresti migliorare» commentò il dio
delle Ribellioni. Sfiorò il petto dell'altro uomo, dove la
pelle giovane aveva preso il posto dello squarcio. «Grazie a
Nicholas, come al solito» ribatté Vraele,
sconfortato. Sollevò lo sguardo, rivolgendolo al fratello.
«Ho incontrato la Fenice». Sarihele lo
scrutò, cercando di capire cosa intendesse. «La Regina
d'Ovest» spiegò subito Vraele, maledicendo la sua
abitudine a quel soprannome. «Aaah»
fece il fratello, sollevando il mento ed annuendo. «E
com'è?» Il dio della Guerra
rivolse gli occhi al cielo, pensoso. «Ha l'aspetto di una
ragazzina, ma è stata lei a farmi quel taglio sul
petto» fu costretto ad ammettere. Non poteva tenere nascosta
un’informazione così importante a lui. Le iridi nere di
Sarihele brillarono e il fantasma di un sorriso passò sul
suo volto. «Ho avuto il
tempo di colpirla una sola volta con la Shylazhil. Sulla guancia, la
destra» aggiunse Vraele, passandosi una mano sul viso sudato.
«Vuoi unirti davvero a lei?» Il dio delle
Ribellioni si limitò a fissarlo, senza rispondergli. Il
contatto di sguardi durò a lungo, finché Sarihele
non si mise le mani sulle cosce e si tirò in piedi. «A questo
punto, ti saluto. Ho una Fenice da incontrare»
annunciò allora, guardandosi attorno. Gli altri Herzbrenht
erano poco distanti, nella Foresta Grigia, accampati in attesa del suo
ritorno. «Buon rientro a
casa, fratello» lo salutò ironico,
prima di dargli le spalle ed allontanarsi tra gli alberi. Vraele
seguì con lo sguardo il fratello, fino a quando non
sparì dalla vista. Dopo di che, rivolse un'ultima occhiata
al cielo ed alle Lune, il regno e la corte di Lunar, e decise di
alzarsi. Posò una mano per terra e si aggrappò
all'albero per rimettersi in piedi. Rivolse una rapida occhiata alle
sue spalle, poi si incamminò verso Nord, aumentando il passo
fino a correre a gran velocità. Doveva raggiungere Gemma
d'Autunno entro quella notte. Il ritardo avrebbe solo peggiorato la sua
situazione.
Alexya si era stufata
di rimanere distesa sotto le coperte e, nemmeno un po' dispiaciuta di
contrariare Vaenihum, iniziò a curiosare nella tenda ben
arredata. Non voleva continuare a torturarsi col pensiero dei suoi
soldati, morti, feriti o vivi che fossero. Doveva riposare la mente, a
modo suo, cioè distraendosi. Aprì libri e
pergamene di letteratura, storia e mappe di diverse epoche,
frugò qua e là trovando molte cose interessanti,
ma niente di ciò che cercava. Quell'amuleto,
ricordò, che
avevano l'Elfo e Irene. Doveva avercelo anche Nicholas,
lì da qualche parte, dato che quella tenda sembrava
contenere parte dei suoi effetti personali. Non poteva portarlo sempre
addosso, no? Che se ne faceva? Alla fine del giro, la
ragazza si fermò alla scrivania, su cui si trovava un
bauletto tra varie carte. Lo tenne sott'occhio a lungo, indecisa se
violare anche quell'oggetto o lasciar perdere. Vinse la
curiosità e la regina sollevò il coperchio,
trovando la serratura aperta. Il contenuto del cofanetto la
lasciò perplessa: piccole capsule di ferro, con incisi
simboli diversi e con un anello di bronzo a un'estremità.
Rigirò uno degli ovali tra le dita, cercando di comprenderne
la funzione. Concentrata sulla
capsula nelle sue mani, Alexya sussultò quando due mani
fredde le scivolarono sui fianchi, congiungendosi sul suo ventre
nascosto solo dalla sottile camicia da notte. Girò la testa
di scatto e incontrò gli occhi argentei di Nicholas, a
brevissima distanza. «Milord!»
esclamò, sorpresa, riuscendo a far uscire appena un fil di
voce. L'Infero le rivolse un
ghigno e lanciò uno sguardo all'oggetto tra le dita della
ragazza, mentre la stringeva. «Vedo che
non avete perso tempo» constatò lui, affondando le
labbra nei ricci scuri di lei. Non stava respirando, quindi l'odore del
suo sangue non poteva colpirlo. Era molto più libero di
provocarla ed era intenzionato ad approfittarne. Sentì
Alexya venir scossa da un brivido e sapeva bene che non era per la
bassa temperatura del suo corpo. «Cos'è?»
gli domandò lei, sollevando la capsula all’altezza
del viso. Nicholas
ruotò il capo e le sfiorò l'orecchio sinistro con
le labbra. La ragazza si voltò di scatto, ruotando su se
stessa tra le sue braccia, e gli mise le mani sul petto, per
allontanarlo. Rimase accostata alla scrivania, poco distante
dall'Infero, che non si era mosso di un millimetro, ma che si era
limitato a liberarla dall’abbraccio. I suoi occhi verdi lo
guardavano con rabbia, per quel che le stava facendo provare. Lui
tirò la bocca in un altro ghigno, crudele e sadico. «E’
un Tyher»
le rispose, infine. Mosse un passò verso lo scrittoio e la
vide spostarsi di lato, per mantenere una certa distanza da lui. Era
tutto inutile, lei non poteva contrastarlo. Glielo avrebbe fatto notare
in seguito. Ora doveva divertirsi ad impartirle insegnamenti. Conosceva
così poco del mondo, che era quasi un piacere istruirla a
modo suo. Prese un Tyher dal bauletto, dopo aver frugato con noncuranza
tra le varie capsule. «Può contenere qualsiasi
cosa, rimpicciolita infinite volte. Attraverso la magia,
ovviamente». «Ovviamente»
confermò Alexya, con una nota d'invidia nella voce. «La magia fa
parte dell'artefatto, quindi lo possono usare anche le creature prive
di poteri magici» aggiunse Nicholas, giocherellando con il
Tyher. «Per attivarlo, basta ruotare quest'anello»
le spiegò, eseguendo quanto aveva appena detto.
Lasciò la capsula sul tavolo ed essa si tramutò
in una coppa di lamponi, rossi e maturi. La regina si
avvicinò al contenitore, osservandolo ammirata. Era
strabiliante vedere quante strade si aprivano grazie alla magia. Strade
che lei non avrebbe mai percorso, con ogni probabilità.
Anzi, di certo. Eppure non era capace di rassegnarsi. Avrebbe trovato
un modo per acquisire quella capacità che le mancava. L'Infero la guardava,
godendo della sua espressione meravigliata, degli occhi che brillavano,
della bocca appena schiusa nell'incertezza se parlare o meno. Prese un
lampone e lo sollevò tra pollice e indice all'altezza del
viso della ragazza. «Sono
commestibili» le disse, prima di posare il frutto sulle sue
labbra, come in attesa del permesso per violarle. Alexya gli rivolse uno
sguardo sorpreso e spaventato, ma aprì la bocca, per
assaporare il lampone che lui le stava porgendo. Le dita di Nicholas
lasciarono la presa ed i polpastrelli sfiorarono lascivi le labbra
della regina. Non riuscendo più a sopportare lo sguardo
dell'Infero, lei abbassò le palpebre e si
concentrò sul lampone, che le parve incredibilmente dolce e
succoso. Lo masticò appena, poi deglutì e
riaprì gli occhi, accorgendosi che il re non aveva smesso di
guardarla in quel
modo, con famelica bramosia che le faceva annodare lo stomaco e venire
i brividi. «Per
disattivarlo» riprese lentamente Nicholas, avvicinando la
mano alla coppa di lamponi. «Si deve ruotare di nuovo
l'anello» continuò e posò l'indice
sull'anello di bronzo collocato sul bordo del contenitore. Un movimento
della mano e riapparve il Tyher, che rotolò un poco sul
piano, finché l'Infero non lo afferrò e lo ripose
nel bauletto. Mosse un passo, avvicinandosi ad Alexya. Lei lo
osservò, così vicino, così seducente. No, non lo è,
si ricordò infastidita da simili pensieri. Doveva distrarsi,
pensare a qualcos'altro. Sulle labbra sentiva ancora il suo tocco, il
che non serviva a distogliere la sua mente da lui. Inoltre, come se non
bastassero il suo sguardo e la sua prossimità, lui indossava
solo una vestaglia nera. Ormai l'aveva capito, quell'Infero aveva la
pessima abitudine di andare in giro mezzo svestito. Pessima, pessima, davvero pessima,
ripeté tra sé, finché non le
sembrò di crederci. Il tessuto, sul davanti, lasciava
scoperto il petto – si
è lavato, pensò notando l'assenza
dello sporco che aveva visto poco prima di svenire – e i
capelli corvini gli erano scivolati oltre la spalla, infilandosi
nell'indumento. Avevano un aspetto così soffice, setoso che
non resistette ed allungò la mano per prenderne una ciocca
tra le mani. Sì, l'apparenza non ingannava, non in quel caso. Nicholas
seguì i suoi gesti, mentre le labbra si tiravano in un
sorrisetto beffardo. Stava cedendo, la regina stava cedendo e lui non
vedeva l'ora di osservarla crollare definitivamente, tra le sue
braccia. Sarebbe stato divertente, molto divertente. Ma rimase
immobile, senza facilitare il raggiungimento del traguardo, lasciandola
agire secondo i suoi tempi, per non spaventarla com'era capitato
poc'anzi. Bastava farle prendere confidenza, con calma,
perciò doveva aveva ancora un po' di pazienza. Alexya
sollevò il viso e si riscosse vedendo l'espressione
divertita e trionfante dell'Infero. Le tornò in mente quel
che stava cercando prima del suo arrivo. L’amuleto. Doveva
avercelo addosso, ne era certa ormai. Dopotutto lo aveva visto con i
suoi occhi uccidere i Myurohon e, se il segreto non era nell'arma come
aveva detto Vaenihum, allora era davvero quel ciondolo,
d’altronde lo aveva visto sia sull’Elfo sia su
Irene. Per cui, non poteva sbagliarsi. Portò entrambe le
mani sul petto di Nicholas e risalì fino a raggiungere il
collo. Lì avrebbe trovato di sicuro la collana, non poteva
averla messa da nessun'altra parte. Passò i polpastrelli
sulla pelle fredda e si fermò quando sentì sotto
le sue mani una sottile striscia di cuoio. La percorse e raggiunse il
nodo, proprio dietro la sua gola. Allora le braccia del re si strinsero
attorno ai fianchi della ragazza, tirandola contro il suo corpo di
marmo con un gesto brusco. «Cosa...»
iniziò Alexya, guardandolo negli occhi, sorpresa. «Ad ogni
azione segue una reazione uguale e contraria. Mi state provocando,
milady» fu quanto disse Nicholas, avvicinandosi al viso della
regina. «Non
è vero,
stavo prendendo...» cercò di spiegarsi lei,
mettendo una parola dietro l'altra, di fretta. «Avreste
potuto usare la bocca, ma avete preferito le mani» la
interruppe l'Infero, facendo salire una mano lungo la schiena della
regina. «Ero disposto a darvi le informazioni che
desideravate, ora che avete provato di persona uno scontro con i
Myurohon. Però avete fatto di testa vostra,
perciò pagatene le conseguenze». «Posso
prendere il ciondolo, quindi?». Improvvisamente,
Nicholas scoppiò a ridere, lasciando Alexya senza parole.
Non si sarebbe mai aspettata di vederlo reagire in una maniera tanto
sincera. Si era accorto che lei aveva finto ingenuità
– sapeva che era difficile ingannarlo –,
però la sua mossa banale lo aveva divertito come una persona
normale. Era incredibile.
Appena l'Infero smise
di ridere, la prese per i fianchi e la sedette sulla scrivania, per poi
portare le mani dietro il collo e slacciare il laccio di cuoio. Era
molto lungo e il ciondolo rimaneva, così, nascosto sotto i
vestiti, che lasciavano scoperto solo il petto del re. Sembrava tutto
studiato per non far notare quel pendente. Probabile che fosse
così, dopotutto era di Nicholas che si stava parlando e lui
non faceva mai nulla per caso. Il sovrano le fece oscillare un attimo
davanti agli occhi la collana, di cui lei afferrò il
pendaglio per osservarlo. Era un cartiglio di oro bianco, quello del
sovrano, e le rune incise sopra recitavano la formula che lei aveva
provato senza successo: Myurohon
ya rohon. (1) «Come ci
siete riuscito?» gli domandò, incantata. Quanti
oggetti del genere avevano gli Inferi? I Tyher prima, poi quegli
amuleti. Era stupefacente, non avrebbe mai immaginato cose simili. «Ho solo
sciolto il nodo» replicò beffardo Nicholas. Quando
lei lo guardò torva, ghignò e le
avvicinò la collana alla gola, cominciando a passarle il
laccio attorno ad essa un paio di volte, per accorciarlo e infine
legarlo. «Se credete che vi racconti un segreto simile,
allora siete proprio una povera illusa». Alexya
guardò il ciondolo posato sul suo petto, sorpresa. E un po'
emozionata, doveva ammetterlo. Le aveva donato un oggetto simile,
qualcosa che gli apparteneva e che gli sarebbe stato utile. Di sicuro
Nicholas ne aveva a disposizione chissà quanti,
però lei no e quel singolo amuleto significava molto,
moltissimo per lei. Anche se era l'unica a possederlo, almeno aveva in
mano un modo semplice per uccidere i Myurohon in battaglia. Avrebbe
potuto mostrarlo a qualcuno e provare a duplicarlo. Erano infinite le
strade che le si erano aperte grazie a quel regalo inatteso. Colma di
gratitudine, mista a euforia e qualcosa che lei non comprendeva,
rivolse lo sguardo all'Infero. «Non
ho parole per ringraziarvi» disse e si
trovò sciocca e banale subito dopo aver pronunciato quella
frase. Nicholas
ghignò. «Preferisco i fatti. Ma il ringraziamento
adeguato implicherebbe la perdita della vostra
virtù». Alexya
ridacchiò imbarazzata e sfiorò il ciondolo che
brillava, a contatto con la pelle lasciata scoperta dalla scollatura
della camicia da notte. Il Re degli Inferi poggiò le mani
sullo scrittoio, di fianco alle sue cosce, e avvicinò il
viso a quello di lei. Non avrebbe ripreso a respirare per gustarsi il
suo profumo delizioso, sarebbe stato troppo pericoloso.
Guardò la ragazza negli occhi e non vide più
l'innocente incertezza di prima. Prese la sua espressione come un
tacito permesso e posò le labbra sulle sue, toccandole
appena, all'inizio. Quando lei le schiuse, impaziente, Nicholas non
indugiò e la baciò come voleva lui, assaporando a
fondo il mortale calore della sua bocca. La regina gli passò
le braccia attorno al torace, stringendolo con la stessa forza di un
naufrago aggrappato ad uno scoglio, la sua unica salvezza. Poi, sangue. I canini di Nicholas
la ferirono e qualcosa nell'Infero si liberò. Lui interruppe
il bacio, senza dare troppo a vedere quel che stava accadendo in lui.
Aveva allenato il suo autocontrollo durante anni per quell'evenienza.
Con un enorme sforzo. Non avrebbe mandato tutto in aria lasciandosi
andare. «Vi conviene
dormire, domani dovrete continuare il vostro viaggio» le
disse, muovendo un passo indietro, lontano da lei. Sentiva in bocca il
suo sapore, quello del suo sangue, così delizioso e
irresistibile da fargli venir voglia di saltarle alla gola. Un istinto
animalesco che tentava di combattere dietro la sua maschera impassibile. Alexya
annuì, senza guardarlo negli occhi. «Buona notte,
milord» gli augurò in un sussurro, rimanendo
seduta sulla scrivania. Si sentiva del tutto priva di forze. Quasi
ringraziò quel taglio sulla lingua per averla salvata.
Avrebbe perso se stessa, se Nicholas avesse continuato. Era una cosa
tragica, esagerata, ma era quello che sentiva e che le dava persino
fastidio ammettere. L'Infero non attese di
vederla tornare a letto, né le chiese se avesse bisogno di
aiuto per raggiungerlo. Uscì dalla tenda, mentre dentro di
lui un'altra presenza, potente, immensa e antica quanto il Mondo
Profano godeva della riacquistata libertà.
Nicholas mosse qualche
passo di fretta, dirigendosi nel folto della foresta, a denti stretti.
Doveva imprigionarlo di nuovo, prima che potesse riemergere
completamente, e per questo doveva darsi una mossa. Lo aveva sempre
messo di pessimo umore tale situazione e preferiva tenersi lontano
dalla gente. Nessuno doveva vederlo lottare con se stesso, quello era
uno spettacolo vietato a chiunque. Da quanto tempo, figliolo,
lo salutò beffarda una voce nella sua testa. La presenza si estese,
riallacciando i collegamenti con i suoi ricordi, con i suoi pensieri,
con le sue sensazioni. Era tornata libera ed era poco intenzionata a
farsi sottomettere ancora una volta. L'Infero si prese il
capo tra le mani e si poggiò con la schiena a un albero,
concentrandosi per sottrarre quanto più di sé a
lui, che però continuava inarrestabile la conquista della
sua mente. Sembrava che la prigionia gli avesse fatto recuperare i
poteri persi nelle loro interminabili lotte per la supremazia in quel
corpo, troppo stretto per due anime. Era addirittura più
potente di prima. Nephas, da dove hai preso questo
potere?, gli domandò seccato Nicholas, premendo
con forza le dita sulle tempie. Gli stava venendo un'emicrania tremenda
a causa di quel maledetto. Il riposo, la pace dei sensi.
Sai, ti devo ringraziare, perché finalmente ho raggiunto
l'illuminazione. Posso farti davvero da coscienza, ora,
replicò il Primo Infero con tono sardonico. Senti chi parla, lo
sbeffeggiò Nicholas, deciso a ricordargli ancora che quel
corpo, così somigliante a quello dell'antenato, era suo e di
nessun altro. Potevano anche condividere la mente, ma quell'insieme di
ossa, muscoli e sangue gli apparteneva. Verificalo tu stesso. La
prigionia mi ha dato il tempo per riflettere, rispose
Nephas, tranquillo. Non
avrai creduto che io ti abbia lasciato in pace perché
sconfitto, vero? Non è da te, da noi, illudersi. In realtà,
Nicholas aveva trovato troppo sospetta la pace che aveva regnato nella
sua mente negli ultimi cinquant’anni. Aveva sentito qualche
volta l'antenato agitarsi, al Consiglio degli Otto, per esempio, ma lo
aveva sepolto sotto un mucchio di magia... Che lo aveva potenziato.
Ecco come aveva fatto. Altro che pace dei sensi. Nephas si era nutrito
della sua energia, pur senza indebolirlo. Nicholas sapeva di avere
potere in eccesso e mai
gli aveva dato fastidio quella sua particolarità, fino a
quel momento. Scoprire che la sua stessa forza accresceva quella del
Primo Infero era uno stupido scherzo del Fato. Un maledettissimo
scherzo, che lo incatenava, che lo privava della libertà di
cui si era sempre vantato. Se non avesse voluto rendere più
potente Nephas, non avrebbe dovuto usare la sua magia per bloccarlo. Impossibile. Doveva
forse permettere a quel dannato di parlargli in testa, rendendolo uno
schizofrenico come Al? Assurdo. Son contento di non esser
diventato un idiota una volta reincarnato,
commentò Nephas, che aveva taciuto per seguire i pensieri
del suo ospite. Fato
sarebbe stato davvero sciocco a sprecarmi in quel modo. Comunque,
figliolo, non prendertela con lui. Non è sempre colpa sua. Nicholas storse la
bocca, in un sorriso amaro. Hai
ragione: l'idiozia è tua, la profezia è sua.
Non solo era stato la causa della sua morte, ma anche l'antenato aveva
fatto in modo di non crepare definitivamente. Non ci fosse stata
l'usanza di mescolare parte delle ceneri del defunto sovrano allo
smalto per rivestire la sua statua, l'anima di Nephas sarebbe morta col
suo corpo. E lui sarebbe stato libero da quell'impiccio. Quella
tradizione era nata su richiesta del Primo Infero, di sicuro era stato
un suo piano per riavere un corpo nel Mondo Profano e poter terminare
la sua battaglia con Al. E lui doveva andarci di mezzo, ovvio. «Nephas!»
lo chiamò Thenaria, emergendo da un albero vicino a quello
cui era poggiato Nicholas. L'Infero le rivolse
uno sguardo freddo, che non scoraggiò minimamente la dea.
Uscì dal tronco e raggiunse il re, muovendosi leggera sul
terreno arido. Sfiorò lato sinistro del volto dell'uomo,
quello nascosto dai capelli, e glielo scoprì, tirandogli
indietro gran parte delle ciocche corvine. Così la
somiglianza con Nephas era perfetta, quasi il suo corpo fosse ancora
intatto e vivo. «Ho
sbagliato a non prestare sufficiente attenzione, ho permesso a quelle
creature immonde di metter piede nella Foresta Grigia. Eppure, Lord
Nicholas, voi avete risvegliato il mio amato»
continuò Thenaria, abbassando le palpebre e sorridendo con
dolcezza. Nephas
frugò nella memoria della sua reincarnazione, che aveva
deciso di lasciarlo fare per il momento. Avrebbero ripreso il braccio
di ferro in seguito. Così
non va, per niente, fu il suo commento. Avesse avuto un
corpo, avrebbe scosso la testa rassegnato. Capisco la tua
necessità, figliolo, ma trova mezzi più onorevoli
per raggiungere il tuo fine. Non puoi illudere Thenaria per non dover
provvedere anche alla protezione del tuo esercito,
continuò. «Immaginavo
che sareste stata molto turbata, per questo ho chiesto a Nicholas il
permesso di parlarvi, anche se va contro i vostri patti»
rispose il Re degli Inferi, entrando nella parte del suo antenato. Per Fato, ma ti diverte tanto
prenderti gioco di lei?, sbottò Nephas. Subito
dopo, si sentì schiacciare dalla presenza della sua
reincarnazione e tacque. Lo conosceva abbastanza bene da sapere che, se
avesse continuato a interferire così tanto, Nicholas se ne
sarebbe fregato delle conseguenze e lo avrebbe rinchiuso in un angolo
della sua mente gelida e buia, forse in maniera definitiva. Meglio non
scherzare troppo con quel fuoco, perché anche se freddo
aveva tutta la capacità di distruggere ogni cosa. Thenaria
guardò l'Infero, gli occhi lucidi, il cuore che le scoppiava
in petto. «Oh, grazie,
grazie!»
disse, quando riuscì a spiccicar parola. «Vi giuro
che la prossima volta impedirò l'accesso a chiunque abbia
intenzioni ostili nei vostri confronti!». Nicholas
annuì, un falso sorriso di riconoscimento dipinto sul volto.
Piegò il capo di lato e la cortina di capelli
tornò a coprirgli la metà sinistra. Non gli
piaceva somigliare al suo antenato. Quel metodo, la frangia, era
efficace e poco dispendioso. Non avrebbe mai barattato la sua bellezza
per cancellare il ricordo di Nephas, di cui aveva le sembianze. «Ditemi, mia
cara, Vraele è già uscito dalla Foresta
Grigia?» le domandò poi, con falso garbo. Gli
riusciva particolarmente bene la simulazione. Osservare gli Uomini
aveva i suoi pregi. Pochi, ma c'erano. La vasta gamma di sentimenti che
provavano e di espressioni che assumevano era un'ottima materia di
studio, che si rivelava sempre utile. Soprattutto per ingannare gli
sciocchi. «I due
gemelli si son scambiati i posti. Anche Sarihele è qui per
la ragazzina, ne stava parlando con Vraele» rispose Thenaria,
con tono dolce. «L'ho vista e tutti sono interessati a lei.
Chi è?» Nicholas rivolse lo
sguardo davanti a sé, verso la foresta immersa nel buio.
Come spiegarlo in poche parole? Non era necessario troppo impegno.
Dopotutto non gli importava un bel niente che quella donna sapesse la
verità. Tornò a guardarla. «Colei che
si opporrà ad Al in nome di tutti gli altri Regni di questa
Terra» ribatté, infine. Avesse detto che era anche
una sua avversaria, Thenaria l'avrebbe danneggiata. Il che era
controproducente per i suoi piani. Non voleva troppe interferenze
esterne. Quella ragazzina era prevedibile al punto giusto, non aveva
bisogno di complicazioni in aggiunta al desiderio del suo sangue. «Ora vi devo
salutare, mia cara. Nicholas domani tornerà ad Occhio degli
Inferi, non posso affaticarlo maggiormente. Ci rivedremo, siatene
certa» si congedò il re e batté le
palpebre, per farle credere che Nephas fosse tornato a rintanarsi nella
sua mente. Thenaria assunse
un'espressione triste e si passò le dita tra i capelli che
le nascondevano il lato sfigurato del viso cinereo. Lo aveva visto per
così poco tempo… «A Shadwanri»
disse Nicholas, prima di incamminarsi verso la radura. (2)
Adele si richiuse il
battente alle spalle e mosse qualche passo al buio, raggiungendo il
letto a baldacchino di Al. Scostò la tenda leggera dalla
parte in cui riposava il marito e gli sfiorò il viso con i
polpastrelli, per svegliarlo. Il Re delle
Divinità aprì gli occhi e li fissò in
quelli della moglie, senza fiatare. Lei tirò le
labbra rosse in un sorriso, poi parlò: «Vraele eske-koman, ailishe»
gli annunciò, in un sussurro. (3) Al si tirò
a sedere e si liberò dalle lenzuola che nascondevano la sua
nudità, scivolando giù dal letto per afferrare il
gonnellino abbandonato sulla poltrona posta lì vicino.
Indossò l'indumento di lino, fermando un lembo di tessuto
con uno spillone, e si cinse i fianchi stretti e magri con un'opulenta
cintura d'oro e gemme. In seguito, i piedi scalzi sul pavimento di
legno, si diresse precipitosamente all'esterno della camera da letto,
alla cui guardia c'erano due Colchici, che gli andarono dietro
silenziosi. Adele, prima di
imitarlo, lanciò uno sguardo alla ninfa addormentata
nell'alcova. Dopo di che, ruotò su se stessa e
seguì con calma il marito. Raggiunta la sala del
trono collocata al pian terreno, Al si sedette ad suo posto e attese
che Vraele fosse condotto al suo cospetto da due Colchici, che lo
avevano scortato fino a quel salone, nell'esatto centro della Gemma
d'Autunno ed era di forma circolare, alto quanto tutto il palazzo
reale, col soffitto di vetro che permetteva ai raggi solari di
illuminare l'ambiente e far brillare le decorazioni dorate. Ma era
notte, in quel momento, e la luce lunare non rischiarava la sala del
trono. I quattro candelabri erano stati accesi prima dell'arrivo del
sovrano, probabilmente per ordine della Regina delle
Divinità. Quando Adele raggiunse
il fianco del marito, accomodandosi sul grande cuscino a lei riservato,
fecero il suo ingresso nel salone anche Vraele e i due Colchici. Il dio della Guerra
era sorretto da una delle guardie reali, che aveva riconosciuto come
Devon dalla sua stretta ferma e dalla voce che, pur distorta dalla
maschera, lo aveva incoraggiato a proseguire. Era distrutto, la corsa
fino ai Pilastri Trasportatori del Regno del Nord di solito non lo
sfiancava così tanto. Ma era ferito, seppur in modo lieve, e
questo fattore poteva rallentare persino una Divinità. Vraele fu abbandonato
ad un paio di metri dal trono, sul tappeto scarlatto che copriva il
pavimento di marmo. I Colchici fecero un passo indietro, nello stesso
istante, battendo i tacchi degli stivali per terra. Immobili alle
spalle del dio della Guerra, erano ormai più simili a statue
che ad esseri viventi. Con qualche
difficoltà, Vraele si mise in ginocchio, per poi
prosternarsi come volevano il protocollo e il suo corpo affaticato.
«Ya eske dher
e vis-munis, Dhy Al» si annunciò il
dio. (4) Il sovrano lo
guardò irritato, una ruga andava formandosi in mezzo alle
sopracciglia. «Ojhak thirion-los, skethen
anchre-nih. Whankos» disse Al, poggiando il
mento su una mano. (5) Vraele non
fiatò, né si mosse. Era una realtà di
fatto, Al sapeva bene com'erano andate le cose eppure perdeva tempo a
ragionare ad alta voce, quasi a ricordargli il suo smacco, per
umiliarlo. Ma ormai il dio della Guerra non aveva più un
vero orgoglio, perché era stato calpestato e straziato nei
secoli. Fargli notare la sua presunta inettitudine non era un vero
fastidio, per lui. Lo era, invece, rimanere in quella sala,
inginocchiato con la fronte contro il pavimento, il corpo spossato e la
punizione che aleggiava minacciosa nell'aria. «Nih-phandi vuls car, car thi
de-suphet prephed adhika lim-ghut, Vraele?»
proseguì il sovrano. (6) «Car, Dhy Al...»
Si interruppe. Non poteva dire che era stata colpa il Re delle
Divinità, che aveva sottovalutato la ragazzina umana. La
punizione sarebbe stata peggiore, in tal caso. E non ci teneva proprio
a peggiorare la sua situazione già tragica. «ya ea-munerine. Des eske yarion
gaden». (7) Adele rivolse lo
sguardo al marito, sul cui volto era comparso un sorriso soddisfatto.
Gli occhi gli lampeggiavano, pregustando l’azione successiva.
La Regina delle Divinità fece cenno a uno dei Colchici della
scorta di Al perché si avvicinasse. «Duqe dher Ephremyus»
gli sussurrò, prima che il dio al suo fianco riprendesse a
parlare. (8) «Nos-thi phrusti-nih, kehn Vraele?»
domandò Al, mellifluo. (9) Il dio della Guerra
non fiatò, non sarebbe cambiato nulla. Ormai era rassegnato
a ricevere una punizione. Quel che voleva sapere era il tipo di pena
che avrebbe dovuto pagare. Ogni volta Al aveva un'idea diversa, alcune
al di là della sua sopportazione. Pregò Fato
perché non rimanesse infermo per troppo tempo. Se dell'umore
giusto, il sovrano degli dei poteva trovare sbagliati persino i lunghi
periodi di guarigione, il che comportava altre sofferenze. Perché continuo a
star qui?, chiese mentre rifletteva sulle possibili
torture. Perché io sono questo,
si rispose poco dopo, ricordando che Sarihele in passato gli aveva
già posto quella domanda. Le sconfitte, le punizioni, le
cicatrici. Non posso sfuggire da tutto ciò, o non sarei
più Vraele il dio della Guerra. Al lanciò
un'occhiata all'omaccione pelato entrato nella sala del trono di
soppiatto, nonostante il suo corpo eccessivamente muscoloso e alto due
metri facesse pensare che la grazia non fosse il suo forte. Nemmeno gli
anelli di bronzo attorno ai polsi e alle caviglie avevano tintinnato. Ephremyus, il
torturatore, eseguì un inchino, la pelle dorata cosparsa di
oli che lo fecero scintillare alla luce dei candelabri, vestito solo di
un perizoma di lino. «Tham Myurohon ahke ephit?»
chiese Al, accavallando le gambe e tamburellando le dita sui braccioli
del trono. (10) Vraele
inspirò. «Whank
kohrs». (11) I Colchici alle spalle
del dio della Guerra, il loro tenente, si mossero e lo afferrarono per
le braccia, tirandolo in piedi. Vraele si lasciò trascinare
e non mosse un dito, né batté ciglio quando gli
strapparono di dosso la giacca. Rimase a torso nudo davanti ai sovrani,
mostrando le ferite infertegli da Nicholas e la Fenice ormai in via di
completa guarigione. Adele fece scorrere lo
sguardo sul corpo lacerato del dio della Guerra con indifferenza, al
contrario di Al che tirò le labbra in un ghigno, la follia
che colmava le iridi nere. Ephremyus si
avvicinò a Vraele, sgranchendosi le dita della mano destra.
Gli schiocchi delle articolazioni riempivano il salone e, quando
l’arto subì la metamorfosi cui si stava preparando
il torturatore, questi si rivolse al suo sovrano e padrone. «Dunque, una
coorte, Divino?» domandò Ephremyus, a conferma di
quanto aveva intuito dal discorso delle due Divinità. Il suo
grado era basso, quasi quanto quello di Eoforbio, e capiva poco della
Maholhan. Giusto il necessario per comprendere gli ordini. «Così
è». Seicento frustate. Poteva andare peggio,
pensò Vraele. La mano di Ephremyus
calò sulla sua schiena, le dita rese lunghe e flessibili
dalla magia, le unghie simili a uncini straziarono la pelle e
riaprirono le lacerazioni dell'attacco alla Foresta Grigia. Sottili rivoli di
sangue bagnarono la carne. Un'ondata di dolore assalì
Vraele, che non urlò. Era ancora troppo presto. Cinquecentonovantanove.
Nicholas
sentì l'umana agitarsi nel letto e le gettò uno
sguardo. Si era appena svegliata e lo stava guardando senza parole.
Forse si stava domandando cosa ci facesse lui lì. Dubbio
sciocco, dato che quella era la sua
tenda. Era del tutto naturale che lui avesse passato la notte seduto
alla scrivania leggendo, mentre la Regina d'Ovest occupava il suo
giaciglio. «Buongiorno,
milady. Dormito bene?» le chiese l'Infero, chiudendo il libro. Alexya, prima di
rispondere, cercò di capire se la stesse sbeffeggiando.
Aveva quella brutta sensazione, ma alla fine lasciò perdere.
Si mise a sedere e si passò le mani tra i capelli
aggrovigliati. «Buongiorno
a voi, milord» cominciò. «Sì,
grazie, ho fatto buon riposo». Nicholas
ghignò e sfogliò distratto il volume.
«Dopotutto, nessuna donna ha mai detto di aver dormito male
nel mio letto» commentò, con noncuranza. La ragazza gli
lanciò un'occhiata perplessa, che lui ricambiò
con un sorriso maligno. L'Infero abbandonò il tomo sullo
scrittoio e si alzò dalla sedia, per andare a sedersi sul
letto, vicino alle gambe della sua ospite. «Ieri sera
vi ho offerto il mio aiuto per trovare un ricordo che faccia da
barriera alla vostra mente, ricordate?». Nicholas aveva preso
quella decisione proprio quella notte, dopo essersi sorbito i sogni e i
ricordi del cervello della regina. Erano stati uno studio interessante,
almeno finché non gli avevano impedito di dedicarsi ad
altro. Non aveva la minima voglia di bloccare anche l'ingresso dei
pensieri altrui. Soprattutto per una ragazzina umana. E comunque, se
fosse stato necessario, sarebbe riuscito a farle abbassare le difese. Alexya
batté le palpebre sorpresa. «Sì, ma non
ho un...». Si interruppe, mentre la bocca di Nicholas si
tirava in un ghigno. Oh, sì, che aveva un ricordo. Si
tormentò le mani, distogliendo lo sguardo da quello
argentato dell'Infero. «Cosa devo
fare?» domandò la ragazza, dopo una pausa. «Concentratevi
su di esso». La regina
aggrottò la fronte. Che senso aveva? Non sarebbe riuscita a
pensare ad altro così, non era un metodo molto furbo. Nicholas
seguì paziente i ragionamenti della ragazza, poi intervenne. «Non
è il pensiero in sé a costituire una barriera, ma
le proprie sensazioni. Cosa avete provato ieri sera, milady?»
le spiegò l'Infero. Con una smorfia di
disappunto, Alexya lanciò uno sguardo all'uomo.
«Che domanda è questa? Mi state prendendo in
giro». «Esattamente»
sghignazzò Nicholas, sfiorando con una mano la coscia della
regina. «E ora concentratevi». La ragazza
abbassò lo sguardo, fissando le mani abbandonate in grembo.
Lasciò vagare la mente e il ricordo della sera prima pian
piano si fece largo tra i suoi pensieri. Sentì le labbra
fredde di Nicholas sulle sue, il corpo di marmo premuto contro di
sé. L'eccitazione e il desiderio, che l'avevano pervasa
nelle ore precedenti, s'impossessarono ancora di lei. L'Infero le
gettò un'occhiata compiaciuta, quando il flusso dei
sentimenti di Alexya cessò. Per Fato, è
già caduta nella tua trappola!,
esclamò Nephas, ripresosi dopo la gran quantità
di sensazioni che aveva provato attraverso il contatto tra le menti dei
due sovrani. Non era abituato a così tante passioni,
Nicholas aveva una freddezza che lo aveva reso insensibile alla
vivacità che regnava negli altri. E ne è pure contenta,
considerò sentendo gli ultimi strascichi dei sentimenti
della regina. In realtà, si vuole
convincere che non le piaccia, replicò Nicholas. Sei una bestia, ragazzo mio. Riesce a schermarsi la mente solo chi possiede magia. L'hai fatto per
verificarlo?, continuò Nephas. L'Infero non
replicò, era una cosa talmente ovvia che gli sembrava
sciocco che il suo antenato gliel’avesse domandata. Ora che
aveva la conferma definitiva, oltre a quella fornita dall'anello, che
quell'umana aveva poteri magici, sapeva di poterla utilizzare. Prima,
però, doveva scoprire perché lei non poteva
usufruirne. C'era qualcosa dietro e la regina non ne era al corrente.
Il che lo incuriosiva ancora di più. «I miei
complimenti, milady, ci siete riuscita» le
annunciò Nicholas, con un sorriso forzato. Alexya lo
guardò incredula. «Davvero?» Lui si
limitò ad annuire e si mise in piedi. Aveva sentito qualcuno
avvicinarsi. Un umano, ne era certo. «Milady?»
disse una voce femminile dall'ingresso. Alexya
lanciò uno sguardo a Nicholas, quasi chiedendo il permesso
di far entrare la sua ancella. «Hanan, entra pure». La donna
scostò con una mano il lembo di tessuto che fungeva da porta
e si fermò, interdetta. Cosa ci faceva Lord Nicholas nella
stessa tenda della sua signora? Lo trovava sconveniente. Alexya era
piuttosto screanzata, lo sapeva bene, ma quell'Infero non collaborava a
mantenere intatta la sua virtù. Sollevò il
braccio occupato da un vestito, facendo segno alla regina che era
arrivata lì per vestirla. «Milord,
dovrei cambiarmi. So che questa è la vostra tenda e non ho
alcun diritto di chiedervelo, ma se per piacere usciste un attimo, ve
ne sarei grata» disse Alexya e allontanò le
lenzuola. Scese dal letto e sentì su di sé lo
sguardo dell'Infero, che la studiava, mentre lei era vestita solo di
una leggera camicia da notte. «Come
desiderate» le concesse Nicholas, accennando un inchino. Si
girò e si diresse alla porta, i capelli che ondeggiavano
alle sue spalle. Hanan seguì
i movimenti del sovrano con soggezione e, finalmente libera dalla sua
presenza, si rilassò. Andò vicino ad Alexya e
lasciò l'abito sul letto. «Milady,
noto che non avete ancora imparato cosa sia la decenza»
sussurrò la donna, piccata. La regina
inarcò le sopracciglia e la guardò perplessa,
mentre la serva le sfilava la camicia da notte, sostituendola con una
sottoveste di lino. L'amuleto di Nicholas brillò, attirando
per poco l'attenzione delle due donne. Hanan notò
l'espressione scettica della sua padrona. «Non fate quella
faccia!» sbottò, spazientita, pur mantenendo la
voce bassa. «Vi sembra adatto a una donna del vostro rango
restare in indumenti intimi davanti a un uomo?». Alexya
scrollò le spalle, mentre la serva prendeva l'abito verde
scuro dal materasso. «Primo, parlare a bassa voce non serve:
gli Inferi hanno un udito migliore del nostro». La donna
arrossì al pensiero che Nicholas l'avesse sentita. Non le
piaceva che qualcun altro l'ascoltasse mentre riprendeva la sua regina.
Finiva sempre che le davano della campagnola e il giudizio altrui la
imbarazzava. Considerando che in quel caso non era un essere umano, ma
un Infero, una creatura con un'altra cultura, era ancor più
a disagio. «Secondo,
non sono sposata, posso fare quel che mi pare»
continuò Alexya, portando le mani sui fianchi. Hanan si riprese e
fulminò con lo sguardo la ragazza. «Che discorsi
son questi, milady?» Le fece indossare il vestito da viaggio,
passandoglielo dalla testa. La gonna leggera ricadde lungo i fianchi
della regina, nascondendo le gambe pallide, mentre il corpetto
incontrò qualche difficoltà a contenere la
sottoveste. Allora, la serva tirò da sotto l'indumento di
lino, facendolo aderire meglio contro il busto della padrona e chiuse
il corsetto, stingendo prima i lacci e poi chiudendo i bottoni che
nascondevano i primi. «Le donne, di qualsiasi rango siano,
dovrebbero evitare di restare da sole in una stanza con un
uomo». «Hanan, stai
esagerando. Ho vent'anni, non dieci! Non devi raccontarmi nessuna fiaba
che mi insegni a diffidare degli sconosciuti! Nemmeno Helena farebbe
tante storie» si lamentò Alexya, sollevando gli
avambracci e gesticolando irritata. «Mi è stato
fatto qualcosa? No,
e allora! Che ti lagni?» «Siete
troppo ingenua, milady» concluse sconsolata Hanan,
allacciando l'ultimo bottone. Si guardò attorno alla ricerca
delle scarpe, sapeva che erano lì, Marihus non le aveva
riportate indietro. Le individuò ai piedi del letto e le
prese. Si inginocchiò davanti ad Alexya, per fargliele
indossare. La regina era in
silenzio, un'espressione imbronciata sul volto. Persino un'umana come
lei le aveva dato dell'ingenua. Da una creatura immortale lo accettava
senza problemi, era ovvio no? Aveva vissuto più a lungo,
vantava di una maggiore esperienza. Ma dalla sua serva... Era assurdo.
Lei non era ingenua. Si fidava delle persone che meritavano la sua
fiducia e basta. Afferrò la gonna e sollevò un
piede da terra per infilarlo nella calzatura. «Sono tutti
pronti per partire?» domandò la regina, indossando
l'altra scarpa. Hanan
sollevò gli occhi, prima di rimettersi in piedi, e
guardò la padrona con aria severa. «I soldati
avevano chiesto di voi. Perché non li avete
visitati?» «Ho mandato
Vaenihum. Anch'io dovevo riprendermi». La serva si
tirò su e sospirò. «Lo so, ma avevano
bisogno di esser confortati dalla loro regina. Le cure mediche erano di
minor importanza per loro, rispetto al vedervi. Hanno combattuto fino
allo stremo contro nemici immortali, senza sapere dove voi
foste». «Ho la
soluzione per i nostri problemi, ora. Non è una notizia
migliore?» domandò Alexya, distogliendo gli occhi
dalla serva. Si passò una mano sul collo, dove le era stato
legato l'amuleto di Nicholas. La chiave che avrebbe impedito ai suoi
uomini di temere i Myurohon. Hanan scosse il capo.
«Meglio lasciar perdere». Se c'era una cosa in cui
Garstand aveva fallito nell'educazione della figlia era stata proprio
quella: non aveva dato molto affetto alla figlia e lei non era capace a
provarne con molta facilità, né comprendeva i
sentimenti altrui, a meno che non fossero l'odio e la rabbia. Era
sempre impacciata quando si trattava degli altri. Ragionava con la sua
mente pratica e non comprendeva il perché di certi gesti
dettati dai sentimenti. «Sono tutti in vostra attesa, milady.
Non fateli più aspettare». Detto questo, la serva
uscì dal baldacchino per raggiungere Marihus ed i superstiti
dello scontro. Alexya
lasciò la tenda dopo Hanan e incontrò subito
Nicholas, poggiato contro un albero nei paraggi e le braccia conserte.
Lo vide e fu tentata di andargli incontro. Però non lo fece,
limitandosi ad un cenno si saluto. Si fermò e
chinò il capo, poi proseguì tra le altre due
tende degli Inferi. L'Infero la
seguì, determinato a recuperare la sua attenzione. Lei non
doveva permettersi di ignorarlo. «Milady,
state già tornando a Borgo Smeraldo, nevvero?». La regina si
bloccò, raggelata. Non lo aveva sentito camminare alle sue
spalle, era troppo silenzioso per i suoi gusti. Si voltò e
se lo ritrovò più vicino di quanto avesse intuito
dalla sua voce. Fece un passo indietro, deglutendo. «Sì,
milord». Nicholas
piegò il capo di lato e gli orecchini di perla grigia
ciondolarono. «Mi rincresce pensare che, con ogni
probabilità, non ci rivedremo fino alla stagione
bellica» cominciò. Allungò la mano e
prese quella sinistra della ragazza, per avvicinarla al proprio viso.
«Vi mancherò». Alexya non
riuscì a distogliere lo sguardo da quello del sovrano. Lui
le baciò l'anello e la scossa la fece tremare, accompagnata
dall'eco delle sue parole. Quella dell'Infero non era una domanda, ma
una certezza che sapeva di minaccia. E lei si domandava
perché dovesse sentir nostalgia di quell'uomo. Mi ha aiutata, si
rispose, anche se in
modi poco ortodossi. La gratitudine l'avrebbe legata a
lui, per prima. Le dava un po' fastidio pensarlo, certo. Strinse le
dita attorno a quelle di Nicholas. «Spero di
no» mormorò la ragazza, corrugando la fronte. Nicholas
ghignò e lasciò la sua mano per affondare la
propria nei ricci della Regina d'Ovest, portandola dietro la nuca. La
costrinse a sollevare il viso verso di sé, senza mutare
espressione. «Fate buon
viaggio, allora» le augurò, accarezzandole le
labbra con la mano libera. Una fitta al ventre
fece sentire Alexya piuttosto a disagio. Quell'uomo la provocava troppo. Non era
abituata a tante attenzioni e alle sensazioni che queste le facevano
provare. Avrebbe cercato di indietreggiare, se lui non l'avesse tenuta
così saldamente, se il suo sguardo non fosse stato
così irresistibile. Cercò qualcos'altro cui
rivolgere l’attenzione e notò, alle spalle
dell'Infero, Irene uscire dalla propria tenda. Nicholas si accorse
che la regina aveva indirizzato il suo interesse alla promessa sposa,
alla ricerca di una via di fuga, e la lasciò perdere. Quella
ragazza non riusciva ad abbandonarsi lui. Sembrava determinata a non
perdere il controllo. In un certo senso, si comportava come lui, con
minor successo però. Liberò la mano dai boccoli
di Alexya, senza farsi sfuggire l'occasione si sfiorare la pelle
lasciata scoperta dalla scollatura del vestito e far sussultare l'umana. Irene si
avvicinò ai due sovrani, fissando attentamente la Regina
d'Ovest. Sentì il suo imbarazzo quasi fosse una presenza
fisica e se ne compiacque. Non c'era motivo di esser gelosa di un
giocattolo. Doveva convincersene fino in fondo. Accennò un
sorriso alla ragazza. «Fate buon
viaggio, milady. Spero di rincontrarvi presto» la
salutò il demone, cortese. «Vi
ringrazio. Arrivederci, Lord Nicholas e Lady Irene».
Alexya
lanciò uno sguardo al seguito composto di sole otto persone.
I soldati sopravvissuti all'attacco erano tornati di buon umore,
vedendola in forma. Bastava così poco a farli star bene?
Eppure avevano perso quattro compagni. Forse stanno cercando di non
pensarci, si disse. Probabile, anche se lei non ne era
stata capace alla morte di suo padre. Però Helena lo aveva
fatto: si era dedicata completamente al Regno d'Ovest,
finché non era terminato il lutto nazionale. Non l'aveva
vista versare una lacrima davanti a lei, né assumere
un'espressione triste in pubblico. In fondo alla fila,
Johan sollevò gli occhi e incontrò quelli della
regina. Tirò le labbra, accennando un sorriso, cui non
partecipò il resto del volto. Era pensieroso e l'aria della
Foresta Grigia lo preoccupava. I cavalli stavano andando al passo,
quando avrebbero potuto benissimo galoppare. Passare così
tanto tempo in quel luogo non gli piaceva. Soprattutto dopo l'attacco
quella notte. Johan sentì
dei movimenti tra gli alberi e obbligò il cavallo a
fermarsi. Rimase in ascolto, ma il rumore degli zoccoli distraeva il
suo udito, benché si stesse affievolendo man mano che il
gruppo si allontanava da lui. Poi, un cavallo che gli andava incontro.
Ruotò il capo e vide Alexya raggiungerlo, con un'espressione
preoccupata. «Cosa
succede?» gli domandò, mantenendo basso il tono
della voce. «Ho sentito
qualcosa muoversi nel bosco» le spiegò Johan,
guardandosi attorno. Alexya non
replicò e aguzzò le orecchie per cogliere il
più possibile. Non avendo ottenuto risultati, scosse il
capo. «Ti sarai
sbagliato» disse, sempre all'erta. «Oppure
è una creatura immortale». «Non sembri
molto preoccupata» notò il capitano. La regina gli
lanciò uno sguardo, senza fiatare. Se era vera la seconda
possibilità, allora lei non poteva far altro che esser
pronta ad accogliere chi si nascondeva nella boscaglia. Prima o poi si
sarebbe fatto vivo, soprattutto se era lei che voleva. Cosa molto
probabile. «Raggiungiamo
gli altri» ordinò la ragazza e incitò
il cavallo. Pur con qualche
perplessità, Johan la seguì al passo. A quanto
pareva, Alexya non andava di fretta. Intuì cosa avesse in
mente la sua signora e sospirò in silenzio. Gli conveniva
assecondarla, altrimenti sarebbe stato peggio dopo. Lei era piuttosto
vendicativa, quando dei sottoposti non la ascoltavano. Erano in vista del
resto del gruppo, fermatosi per attendere la regina e il capitano,
quando delle figure comparvero con gran velocità davanti a
loro, inginocchiate sul terreno. Alexya fece arrestare il cavallo e
portò la mano alla spada, assicurata alla sella. La estrasse
e sentì Johan fare lo stesso al suo fianco. La Regina d'Ovest fece
scorrere lo sguardo sul gruppo di uomini e donne, vestiti di colori
chiari e freddi, a pochi passi da lei. Avevano tutti la carnagione
dorata e gli occhi neri, che notò sull'unico che aveva la
testa alzata e si trovava in una posizione avanzata rispetto agli
altri. Senza dubbio era il capo. Alexya spinse il cavallo avanti di
qualche passo ed estrasse la spada dal fodero. «Chi abbiamo
qui?» chiese la ragazza, puntando la lama contro il dio che,
intanto, si era messo in piedi. «Sarihele,
il dio delle Ribellioni» si presentò la
Divinità, con un cenno della testa. «Capo degli
Herzbrenht». Alexya
inarcò le sopracciglia. Non aveva mai sentito parlare di
“Herzbrenht” in vita sua. Non aveva idea di chi
fossero né cosa potessero volere da lei. Perciò
preferì non abbassare la guardia. «A cosa devo
questo... incontro?» domandò ancora la regina. Sarihele
accennò un sorriso. «Vorremmo unirci al vostro
esercito, Fenice. Da anni lottiamo contro Al, ma non abbiamo ottenuto
nessun risultato. Però pensiamo di potervi essere
d'aiuto». A quelle parole,
Alexya si chiese perché dovesse accettare la collaborazione
di gente che non era riuscita a combinare niente. Ingrossavano le sue
file, ma rischiavano di rivelarsi un peso morto. Non del tutto, hanno la magia,
sono Divinità, si ricordò. Forse
avrebbe fatto bene a dar loro una possibilità. Non rischiava
nulla, al momento. Tanto valeva tentare. La ragazza
ripensò alle parole che le erano state rivolte. Fenice, l'aveva
chiamata Sarihele. Anche lui, come Vraele. Era una curiosa coincidenza. «Preferirei
conoscervi meglio prima di accettare la vostra collaborazione. Ma
questo non mi sembra il luogo né il momento adatto, inoltre
vorrei tornare a Borgo Smeraldo al più presto. Seguiteci, se
siete davvero intenzionati a unirvi all'Esercito della
Fenice» replicò Alexya, riponendo la spada nel
fodero. Sarihele la
fissò intensamente, prendendo tale risposta come
affermativa. Dunque, gli Herzbrenht avevano trovato un alleato e altri
uomini che combattessero per la loro stessa causa. La sua utopia
assumeva una forma sempre più reale e a portata di mano. Ce
l'avrebbero fatta, Al sarebbe stato deposto, i millenni di crisi
sarebbero terminati e per le Divinità sarebbe tornata
l'età dell'oro. Sì, era possibile, dovevano riuscirci. Gladius, i Giardini delle
Divinità presto avranno bisogno di te,
pensò Sarihele, rivolgendosi al dio del Ghiaccio, quasi
questi potesse ascoltarlo.
“Tear a hole so I can see My devastation Feelings from so long
ago I don't remember” Disturbed, Remember
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano: (1) Myurohon ya rohon:
in vendicatore io vendico (2) Shadwanri: mese dei
venti (marzo) (3) Vraele eske-koman, ailishe:
Vraele è arrivato, mio amato. (4) Ya eske dher e vis-munis, Dhy Al:
Sono qui al vostro servizio, Divino Al (5) Ojhak thirion-los, skethen
anchre-nih. Whankos: Guardando il tuo volto, diremmo che
ci hai deluso. Ancora una volta. (6) Nih-phandi vuls car, car thi
de-suphet prephed adhika lim-ghut, Vraele?: Vuoi spiegarci
perché, perché non sei capace a terminare un
compito come si deve (lett.: come giusto), Vraele? (7) Car, Dhy Al... ya ea-munerine.
Des eske yarion gaden: Perché, Divino Al...
l'ho sottovalutata. È stato un mio errore. (8) Duqe dher Ephremyus:
Porta qui Ephremyus. (9) Nos-thi phrusti-nih, kehn Vraele?:
Sai di averci deluso, vero Vraele? (10) Tham Myurohon ahke ephit?:
Quanti Myurohon hai perso? (11) Whank kohrs: Una
coorte.
Che capitolo
lungo e quante parole in Maholhan tutte d'una volta. Dopo una cosa del
genere dovrei vergognarmi XD Con ogni
probabilità ci vorrà un altro mese per sfornare
(partorire? XD) un nuovo capitolo, soprattutto considerando che il
periodo di gestazione di questo è stato quanto per partorire
un giaguaro: 3 bei mesi, sìsì. Dato che l'11
giugno finisco scuola, conto di scrivere allora, senza impegni
nè stress. Spero che
questo capitolo sia piaciuto. Alla prossima!
Eccomi qui di ritorno, dopo quasi due mesi. Dovrei
vergognarmi, lo so, ma ho scritto un capitolo di venti pagine, che ci volete fare? Però, visto che io stessa mi
taglierei le vene davanti a un capitolo così lungo, lo divido in due ed entro
questa settimana aggiorno con la seconda parte (che è anche la più complicata
da correggere… troppi casini, santo cielo 0.0).
Prima di cominciare, vorrei ringraziare chi ha commentato il
mio giallo (lo faccio qui perché sono quasi le stesse persone che seguono l’Esercito):
un grazie enorme a Dark Magician,
come al solito mitica; e un grazie a berry345
e olghish (sono contenta che le note
all’inizio e alla fine del giallo vi siano state utili per scrivere il commento
^^).
Ora passo ai ringraziamenti per l’Esercito, perché questa
volta sono di più: oltre a Dark Magician,
myki e marluxia25 (il suo commento è postato nel capitolo 1, ma si
riferiva al 10 *accarezza la testa di marlu*), grazie anche a Hamish per il commento e per le “seguite”
e a Juliettina per le “seguite”.
.-.-.-.
Uomini:
Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di
Helena;
Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle
guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello
Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;
Geq e Pjehr, soldati della
guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re
d'Est;
Sarah, messaggera dello
Smeraldo.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze
degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa
sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, Nobile
purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;
Krados di Thena, Nobile
purosangue, spia reale, demone;
Molko di Thener, Nobile
purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale
di una legione dell'esercito Infero, vampiro;
Lathiora, vive allo
Smeraldo, antico spirito gatto;
Apuh, Nobile del Clan
Thener, vampiro;
Thitus, Nobile del Clan
Canthao, capo della congiura, demone;
Bhor'la, Nobile del Clan
Niha, antico spirito corvo;
Murthen, mezzo-driade,
maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan.
Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio
della Forza;
Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed
Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della
famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio
della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli
Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Niharn, protettrice del
Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di
Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli
Herzbrenht.
Campi di Sangue:
Archelaos, negromante,
semidio;
Laila, scheletro di
Archelaos;
Arnold, proprietario della
Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del
Vagabondo selvaggio.
Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di
Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti,
cieca.
.-.-.-.
Prima di iniziare il capitolo, devo dedicarlo a delle persone
speciali.
Per le Tre Martine: Dark
Magician, myki e marluxia.
Ragazze, grazie di tutto.
Visto che una dedica non basta, in questo capitolo appare un
tributo a voi tre. Trovatelo (è una cosa contorta XD) <3
Mentius tirò
una boccata di fumo dall’hookah, la
pipa ad acqua tipica del Sud, e sentì sul palato il tabacco bruciato e la
menta, con cui l’aveva aromatizzato. Inarcò le sopracciglia e allontanò il
beccuccio dell’hookah dalle labbra. Lanciò uno sguardo alle carte in mano,
prima di abbandonarle sul tavolo, sono
stato battuto per poco, maledizione. Avrebbe vinto con quel turno che non
ci sarebbe mai stato.
«Avete vinto,
di nuovo. Potrei pensare che stiate barando, duca Sherden» commentò il Re del
Sud, appendendo il beccuccio della pipa a un gancetto, che si trovava lungo il
corpo cilindrico dell’hookah. Prese le carte sparse sul tavolino basso e le
mischiò, per giocare ancora a lhenk. Doveva
vincere.
«Milord, come
potete sospettare una cosa simile! Io non oserei mai, lo sapete» si giustificò
Sherden, portandosi una mano sul cuore, mentre gesticolava con l’altra.
Mentius
sollevò lo sguardo. Schiuse le labbra per parlare, ma poi lasciò perdere e
continuò a mescolare le carte. Terminata l’operazione, posò il mazzo sul
tavolino e lo fece separare in due da Sherden, che distribuì tre carte
ciascuno. Intanto, il sovrano aveva ripreso il beccuccio dell’hookah per
aspirare altro fumo.
L’ombra di un
servo si stagliò sulla porta di fogli di riso e chiese il permesso di entrare.
«Vostra Maestà,
ho con me una lettera urgente per voi» gli comunicò.
«Entra».
Il servitore
fece scorrere la porta e raggiunse il basso tavolino cui era seduto il suo
signore. Si inginocchiò a un paio di metri da lui e gli porse il vassoio di
legno laccato, contenente una missiva.
Mentius allungò
la mano verso la lettera, abbandonando le carte sul tavolo.
«Aggiungi del
carbone all’hookah, si sta consumando» ordinò il re, mentre osservava il
sigillo che chiudeva il foglio nelle sue mani. Sulla ceralacca verde era
impresso il simbolo del Regno d’Ovest. Il che lo lasciava perplesso.
Intanto che il
servo si dava da fare attorno all’hookah e Sherden attendeva paziente, Mentius
ruppe il sigillo e aprì la lettera.
Borgo Smeraldo, dihe 22, Ghervenri, 3518 henn o II
Chranhenn
A Mentius di Shyllion, Re
del Sud.
Mi auguro la buona salute
vostra e del vostro trono.
Purtroppo allo Smeraldo
siamo minacciati dall’interno e non possiamo farcela da soli.
Come avrete di sicuro
saputo, al Consiglio degli Otto Sovrani, la Regina della Guerra d’Ovest, Alexya
dei Thenesharum, ha osato sfidare gli Inferi e, soprattutto, il divino Al. A
causa di questa blasfemia, è ben chiaro che il nostro regno risulta in
pericolo: per questo, ho pensato subito al più fedele e abile alleato che abbia
mai avuto.
Voi, Vostra Maestà,
disponete delle capacità per difendere il Regno che avete già aiutato in
passato. Perciò io e gli Anziani confidiamo in voi per liberare Borgo Smeraldo
dalla più insidiosa delle minacce.
Spero di ricevere una
risposta al più presto, perché allora potremo discutere liberamente dei
dettagli.
Sempre vostro fedele,
Arghos di Jhamanna
Poche righe,
scritte con cura e astuzia. Arghos lo stava lusingando, dando per scontato la
sua collaborazione. A ragione, perché Mentius avrebbe aiutato di nuovo
l’Anziano. Dopo aver ucciso Garstand, cosa poteva essere per lui eliminare pure
la figlia? Il problema era un altro.
Lord Nicholas
pretendeva che lui inviasse i Dragoni ad Alexya. Il messaggio dell’Infero gli
ronzava in testa, quando era da solo e immerso nella meditazione. Però Daniel e
i suoi non erano ancora rientrati a Noctibus, rimanevano sul confine coi Campi
di Sangue a svolgere dei loro affari. Mentius aveva chiesto informazioni sul
loro ritorno, aveva mandato messaggeri dai mercenari, ma non era giunta alcuna
risposta. Si trovava in una bella situazione, davvero.
Il re vide che
il servo aveva aggiunto un altro pezzo di carbone sulla brace dell’hookah e che
attendeva nuovi ordini. Sherden, invece, osservava oziosamente le tre carte che
aveva in mano.
Mentius piegò
la lettera a metà e la infilò nella giacca del vestito. «Preparami l’occorrente
per scrivere e torna tra un’ora con notizie dei Dragoni» disse poi,
abbandonando con riluttanza l’hookah. Posò le mani sul tavolo e si tirò in
piedi.
Sherden si
sporse in avanti, le sopracciglia inarcate in un’espressione sorpresa. «Milord,
ma la nostra partita?»
Mentius fece
un gesto seccato e uscì dalla saletta. Aveva affari più importanti da sbrigare,
invece di giocare a carte con un giovane nobile. Non era il momento per lo
svago. Purtroppo.
Il Re del Sud
gettò una manciata di sabbia sulla lettera appena scritta, per far seccare
l’inchiostro più velocemente, e lanciò uno sguardo fuori dalla porta aperta sul
cortile. Una femmina di pavone passeggiava attorno al laghetto artificiale,
costruito entro le mura del palazzo. Gli alberi iniziavano a perdere le foglie,
si avvicinava il freddo, anche se in quelle regioni la temperatura era più
mite. Ho bisogno dell’hookah, pensò
Mentius, interrompendo l’osservazione del giardino.
Allora l’uomo
prese un angolo della lettera e la sollevò, facendo scivolare la sabbia sul
tavolino. Controllò che non ci fossero sbavature e la piegò in tre parti.
Afferrò un mestolino e lo immerse nella ciotola sospesa su un piccolo braciere,
riempiendolo di ceralacca gialla che versò lungo il bordo della lettera. Vi
appose il sigillo del Regno del Sud, un cobra in rilievo sul suo bracciale.
Quando il re
fece per alzarsi e tornare nella saletta in cui stava giocando con Sherden,
sentì dei passi sul pavimento di legno della veranda. Si fermò, in ascolto, e
sulla porta comparve un servitore, accompagnato da un uomo che Mentius conosceva
bene. Nel corso della sua vita, aveva visto molte volte il capitano Infero dei
Dragoni e l’unica cosa che era cambiata in lui era stato il taglio dei capelli
castano chiaro. In quel periodo, erano lunghi fino alle spalle, sfilacciati
perché accorciati con un coltello non adatto a tale uso. Attorno alla testa
aveva annodato una fascia rossa, sporca di terra e sudore, che nascondeva la
fronte. Gli occhi verde scuro guardavano il sovrano annoiati, mentre il resto
del corpo era teso, i muscoli e i nervi tirati. Addosso aveva abiti sudici: una
camicia ingiallita, con le maniche strappate via e dei pantaloni larghi,
chiazzati di sangue e infilati negli stivali di pelle.
«Ti sei fatto
attendere a lungo, Daniel» lo accolse Mentius, tornando a sedersi sul cuscino.
L’Infero
storse la bocca, in una smorfia infastidita, e mosse qualche passo verso il
tavolino. Allora si vide chiaramente, sul braccio destro, un dragone tatuato
che partiva con la coda dalla spalla e terminava sul dorso della mano, le fauci
spalancate e il corpo avvolto attorno all’arto.
Il re seguì
con lo sguardo Daniel, che si sedette di fronte a lui, le gambe incrociate e le
braccia conserte, in attesa. Allora Mentius congedò il servo e gli fece
chiudere la porta scorrevole.
«Siete stato
piuttosto insistente, Vostra Maestà. Perché avete preteso il ritorno dei
Dragoni in città? Era il nostro periodo di riposo, lo sapete bene» disse
Daniel, piegando appena la testa di lato.
Mentius gettò
un’occhiata alla lettera sul tavolo davanti a sé e ci mise sopra le mani
intrecciate.
«Pochi giorni
fa, si è tenuto il Consiglio degli Otto e la Regina d’Ovest ha richiesto il mio
appoggio al suo progetto per riportare la pace nella Terra dei Cinque Popoli:
vuole formare un esercito con truppe provenienti dai regni alleati per
terminare la Guerra Millenaria-» cominciò il re.
Daniel non
attese che lui proseguisse. «Ha dichiarato guerra ad Al… e Lord Nicholas?» domandò, incredulo.
Il sovrano
annuì, fingendo che l’interruzione non gli avesse dato fastidio. «Proprio così.
Perciò, intendo inviare voi Dragoni-».
L’Infero
intervenne: «Siamo in cinquecento uomini, non mi sembra un numero sufficiente
per un esercito che deve andare incontro agli
Inferi».
Mentius batté
una mano sul tavolo. «Fammi finire di
parlare!» esclamò, irritato.
Daniel sollevò
le mani all’altezza delle spalle, in segno di resa, e il Re del Sud riprese
parola.
«E’ stato Lord
Nicholas in persona a chiedermi, gentilmente, di mandare i Dragoni dalla Regina
d’Ovest. Ed io non ho la minima intenzione di contraddirlo per una banale
questione di numeri». Erano in gioco il suo regno e i suoi sudditi, non avrebbe
lasciato tutti in balia degli Inferi. Erano peggio dei Myurohon, perché agivano
di loro spontanea volontà, diventando più crudeli a seconda dell’umore.
«Lord
Nicholas?»
Mentius ignorò
la domanda dell’Infero. «Puoi portare con te le truppe sudrione che ritieni
necessarie. A seconda della quantità di uomini che mi sottrarrai, la paga
varierà». Inoltre, aveva avuto un’idea che gli avrebbe permesso di dare anche una
mano agli Anziani d’Ovest. Sarebbe andata un po’ per le lunghe, il risultato
non sarebbe stato immediato, ma per quel giorno avrebbero organizzato tutto
alla perfezione. Conosceva i mercenari e sapeva che genere di educazione aveva
impartito Garstand alla figlia. Avrebbe potuto prevedere le sue mosse con
sufficiente precisione.
«Da quanto si
parte?» chiese Daniel, poggiando il gomito sul tavolo e reggendosi il mento con
pollice e indice.
«I Dragoni, da
soli, lasceranno Noctibus con cinquemila oregi ciascuno. Al loro ritorno ne
riceveranno altrettanti» replicò il sovrano.
L’Infero
strinse le palpebre, riflettendo sulla somma offerta – un’enormità rispetto
alla solita paga – e sull’opportunità di rinunciare a uomini che non conosceva
e di cui non si fidava, per contribuire al benestare dei suoi soldati.
«Inoltre, Lord
Nicholas mi ha affidato un messaggio per te» aggiunse Mentius.
A quelle
parole, Daniel deglutì, inquietato.
Il Re del Sud
chiuse gli occhi, mentre dalla memoria riemergeva la frase che Nicholas aveva
impresso nella sua mente. Gli parve di sentire la voce fredda e carezzevole,
quasi il sovrano Infero fosse in quella stanza, al suo fianco.
«La fiammella sopravvivrà grazie alla
collaborazione del grande fuoco con la fiaccola» disse Mentius e, non
appena pronunciò l’ultima parola, ogni traccia di quel messaggio svanì dai suoi
ricordi. Disorientato, il sovrano scosse il capo e batté le palpebre. Vide
l’Infero seduto davanti a sé pallido e immobile.
«L’offerta non
ti è gradita, Daniel?» domandò Mentius, credendo che quell’espressione fosse
dovuta alla sua proposta di avere uno stipendio più alto, a discapito della
quantità di uomini al suo servizio. Secondo lui, era uno scambio più che
ragionevole. Con cinquemila oregi ciascuno, i mercenari sarebbero riusciti a
bere senza problemi. Riguardo alle donne, avrebbero trovato qualche
contadinotta compiacente che avrebbe evitato loro di spendere soldi con
prostitute. Avrebbero avanzato parecchi soldi, se avessero fatto attenzione
alle spese.
Daniel prese
una boccata d’aria, poi rispose. «No, la vostra offerta è molto generosa,
Vostra Maestà. Partirò domani mattina con i miei Dragoni. Per Borgo Smeraldo,
vero? Avete detto che è stata la Regina d’Ovest a chiedere il vostro appoggio».
Mentius annuì.
«So che lo stipendio non vi basterà per tutta la durata della guerra, ma è
logico che sarà la regina a pagarvi».
«Ovvio, ci ha
assoldati lei» concordò Daniel. Mise entrambe le mani sul tavolo e si alzò. «Vi
ringrazio ancora per l’offerta, Vostra Maestà. Buona giornata».
Il Re del Sud
osservò l’Infero uscire dallo studio e richiudersi la porta alle spalle. Dopo
di che, portò lo sguardo sulla lettera nascosta dalle sue mani. Doveva
correggerla e parlare del piano che gli era venuto in mente grazie ai Dragoni?
No, una sorpresa così positiva non avrebbe dato fastidio ad Arghos. Lo avrebbe
informato solo se tutto fosse andato come prevedeva. C’era tempo.
E poi non gli
andava di rompere il sigillo di ceralacca.
Quando Daniel
uscì dal palazzo reale, una delle guardie alla porta gli restituì l’alabarda,
sequestrata poco prima. Con la sua arma in mano, le piccole ossa e le
conchiglie sotto la lama che tintinnavano a ogni movimento, l’Infero si sentì
più calmo. Sufficientemente tranquillo per analizzare il messaggio di Nicholas.
La fiammella sopravvivrà grazie alla
collaborazione del grande fuoco con la fiaccola, aveva detto il Re delle
Terre d’Ombra. Daniel era certo di essere il grande fuoco, dopotutto era il
Purosangue capoclan di Canthao. Quindi, sua sorella Irene era la fiammella.
Fermò il suo cammino verso la porta della cittadella nobiliare, sgranando gli
occhi. E Nicholas è la fiaccola, che si è
accesa prendendo una parte del grande fuoco, cioè Irene! Allora non sono io, ma
il Clan Canthao, grazie a Irene Nicholas è imparentato col Clan, pensò
Daniel, restando in mezzo alla strada. No,
sono io. Altrimenti non avrebbe senso che lui mi abbia mandato questo messaggio,
si corresse, riprendendo ad avanzare.
Però c’era
ancora qualcosa che sfuggiva a Daniel. La minaccia nascosta in quella frase
sibillina era palese: se lui non avesse collaborato, Irene non avrebbe avuto
vita facile; lì nasceva il problema. Perché, se con grande fuoco Nicholas
intendeva il Clan Canthao, allora l’Infero avrebbe dovuto badare a fermare
Thitus e i suoi piani sovversivi. Cosa alquanto improbabile, il re non avrebbe
mai chiesto a lui, un Nobile che
preferiva fare il mercenario piuttosto che attendere ai suoi doveri politici e
sociali, aiuto per una faccenda che avrebbe potuto sbrigare senza difficoltà
col solo Krados a fargli da informatore. Inoltre, lui non aveva alcun legame
con le trame di Thitus: gli era stato proposto di collaborare e si era
rifiutato. E basta.
A Daniel
tornarono in mente le parole di Mentius riguardo al Re degli Inferi: è stato Lord Nicholas in persona a
chiedermi, gentilmente, di mandare i Dragoni dalla Regina d’Ovest. Sospirò.
Ecco la chiave. Il sovrano voleva che lui lo tenesse aggiornato su quanto
sarebbe avvenuto nel Regno d’Ovest. Tipico di Nicholas approfittare della prima
persona appena fidata che si trovasse dove necessario, ottenendo la sua fedeltà
e collaborazione con il ricatto. Daniel detestava quel comportamento, però non
poteva far altro che chinare la testa e accettare gli ordini. Non solo perché
ne andava di mezzo sua sorella, ma anche perché, se Nicholas fosse arrivato ad
attuare la minaccia, non si sarebbe limitato a uccidere Irene. Il mercenario non
temeva la propria morte; quello che avrebbe passato prima era un pensiero
abbastanza terrificante da spingerlo alla collaborazione. Aveva assistito alla
morte della seconda sposa reale, Serjen, e non era stato un bello spettacolo.
Il suono del
gong, seguito dal rullo di grossi tamburi, riscosse Daniel dai suoi pensieri.
Doveva sbrigarsi, stavano chiudendo le porte della cittadella nobiliare per la
notte. Non sarebbe stato più possibile uscire dalle mura, altrimenti. L’Infero
iniziò a correre e, quando giunse in vista del portone Nord, si sbracciò,
gridando.
«Aspettate!»
Daniel superò
le guardie, che si erano girate a guardarlo, e rallentò la corsa. Lasciando l’alabarda
per terra, mise le mani sulle ginocchia e cercò di calmare la respirazione. La
porta fu chiusa alle sue spalle, ma ormai non gli interessava. Adesso doveva
andare a recuperare Stephan. Solo lui e il suo braccio destro erano entrati a
Noctibus, il resto dei Dragoni era rimasto fuori dalle mura. Dato che il
portone della città veniva sbarrato un’ora dopo quello della cittadella, c’era
ancora il tempo di tornare dai suoi uomini.
L’Infero
raccolse l’alabarda e si raddrizzò, poggiando l’arma su una spalla. Poi,
proseguì lungo il viale davanti a sé. Conoscendo Stephan, era in qualche
bettola a bere in compagnia di una prostituta o due. E forse sapeva dove.
Abbandonata
l’alabarda contro il muro vicino, Daniel mise le mani sui due battenti di legno
e li spinse, avanzando verso l’interno della Signora dei Monti. Mosse ancora
qualche passo e lasciò andare la porta, che tornò a chiudersi. Si guardò
attorno, stordito dal chiasso, dal fumo e dalla forte illuminazione, cui si
dovette abituare dopo aver camminato per i vicoli scuri di Noctibus.
In uno dei
tavoli al centro della sala, l’Infero vide un uomo dai capelli biondi, crespi,
arruffati e sporchi, legati in una coda molle. L’uomo agitò in aria un boccale
di birra, per poi la berla tutta d’un sorso, versando gran parte della bibita
sul viso e sulla canotta. Idiota,
pensò Daniel, andando in direzione di Stephan. Notò che l’altro braccio del
mercenario era sulle spalle di una donna che ridacchiava, mentre con un
tovagliolo cercava di tamponare la birra colata.
L’Infero
giunse alle spalle di Stephan e gli mise una mano attorno al collo, con una
leggera pressione. Sentì l’uomo sussultare e voltarsi di scatto. Gli occhi
castani erano annebbiati e l’espressione dipinta sul volto era da ebete. Era
rincretinito dall’alcol. Che non reggeva.
«Daniel!»
esclamò Stephan, battendo le palpebre. Liberò la donna dal suo abbraccio e
abbandonò il boccale sul tavolo. Gli altri uomini seduti attorno al tavolo non
si interessarono e continuarono a far rumore.
«Paga e
sbrigati» ordinò Daniel, liberando il collo dell’uomo.
Stephan annuì
e infilò una mano in tasca, sotto lo sguardo dell’Infero. Lasciò una decina di
red sul tavolo, e ne diede altri venti alla donna, che sorrise raggiante. Troppi. Ma Daniel non glielo avrebbe
detto, doveva imparare a stare attento.
I due
mercenari uscirono dalla Signora dei Monti e Daniel recuperò l’alabarda. In
lontananza si sentirono dei rintocchi. Era passata mezz’ora dalla chiusura
della cittadella e ne mancava un’altra per le porte della città. Avrebbero
fatto in tempo ad uscire.
«Dan, che è
tutta ‘sta fretta?» domandò Stephan, passandosi una mano sul viso. Si sentiva
molto stordito e non riusciva a camminare in linea retta.
«Abbiamo un
nuovo lavoro».
«Ma siamo in
vacanza!» protestò l’uomo.
Daniel lo
ignorò e proseguì. Appena gli avesse detto quanto avrebbero guadagnato, Stephan
avrebbe smesso di lamentarsi.
«Non c’ho
voglia di lavorare, sono stanco, Dan, devo riposare!» continuò l’altro.
L’Infero,
spazientito, si fermò e gli batté l’asta dell’alabarda in testa.
«Chiudi quella fogna!» gli ordinò,
tirando un colpo sulla strada con l’arma. «Dobbiamo unirci a un esercito e
combattere nella Guerra Millenaria».
Stephan fece
per lamentarsi.
«Inoltre» si
affrettò ad aggiungere Daniel. «Mentius ci dà cinquemila oregi adesso e cinquemila al ritorno dalla guerra».
L’espressione
sul viso dell’uomo iniziò a mutare. Stupore.
«E poi la
Regina d’Ovest, quella che ci ha assoldati, ci pagherà il solito stipendio
mensile» concluse l’Infero. «Qualcosa da ridire?»
Stephan scosse
il capo, sorridente.
Daniel poteva
immaginare quali fossero i suoi pensieri: con cinquemila oregi si sarebbe
potuto permettere la miglior birra e non solo; anche i forti liquori dei nobili
sarebbero stati raggiungibili e le migliori prostitute della città. Si
accontentava di poco l’umano, che scemo.
«Quando
partiamo?» domandò eccitato Stephan.
L’Infero
sospirò. Non ci poteva fare nulla. Era stato lui a renderlo così. Almeno non
doveva sentirlo brontolare.
«Questa notte,
se usciamo da Noctibus prima della chiusura delle mura».
Lathiora
lanciò un’occhiata al manipolo di Elfi, accucciata sul tetto spiovente del cortile
d’ingresso. Si trovava dalla parte rivolta al giardino dello Smeraldo, non
l’avrebbero vista. La servitù aveva di meglio da fare che passeggiare per un
angolo così isolato del palazzo. E lei voleva assolutamente vedere quelle
creature. L’unico Elfo che aveva visto era stato Vaenihum, ma lui di elfico
aveva solo le orecchie affusolate, più passava il tempo più diventava Infero.
I veri Elfi,
invece, erano davanti a Helena e Zephiro, usciti in cortile per dare il
benvenuto. Lathiora sapeva che le stanze all’interno dello Smeraldo non erano
state attrezzate per loro. Perciò, in seguito, la regina li avrebbe condotti a
un luogo adatto per l’accampamento. Gran parte della truppa era rimasta fuori
dalle mura del palazzo, solo dieci uomini e il loro capitano, un’Elfa di nome Martha,
avevano proseguito.
«Benvenuti a
Borgo Smeraldo! Mi auguro abbiate fatto buon viaggio» salutò Helena, facendo un
cenno del capo agli Elfi.
L’Infero osservò
quelle creature, incuriosito. Vestivano con abiti semplici, adatti a un viaggio
e portavano una piccola tracolla che non sembrava molto piena. Gli archi erano
assicurati dietro la schiena, la corda di sicuro si trovava nella borsa, mentre
le frecce si trovavano in una faretra appena alla cintura di cuoio. Immobili e
all’erta, gli Elfi avevano dipinta sugli occhi una fascia blu, che riprendeva
il colore dei pantaloni di tela. Tutti gli arcieri portavano i capelli
cortissimi, facevano eccezione solo Martha e un uomo che si distingueva per la
mantella blu, lunga fino ai fianchi. Lathiora si domandò se la lunghezza dei
capelli dagli Elfi indicasse il potere dell’individuo, come per gli Inferi, o se
fosse più pratica per i soldati. Ma si disinteressò quando vide il capitano
degli arcieri fare un passo avanti e un inchino.
Martha prese
parola: «Vi ringraziamo per il benvenuto, Vostra Grazia. Mi duole annunciarvi
che il Nobile Wirda non ha potuto accompagnarci».
Lathiora
inarcò le sopracciglia. Non vedeva di che utilità potesse essere il re allo
Smeraldo.
«Gli spiace
essere assente al banchetto, ma gli impegni hanno impedito al nostro Re di
allontanarsi dal Regno» proseguì Martha.
L’Infero la
osservò, divertita: era una donna alta e muscolosa, vestiva abiti maschili, si
muoveva come un soldato; neppure i capelli castano chiaro, lunghi e raccolti in
una coda alta, né gli occhi grandi e castani riuscivano a farla sembrare
graziosa.
Helena annuì,
abbozzò un sorriso, poi domandò: «Avete fatto buon viaggio? Siete arrivati
prima di quanto previsto».
Lathiora trovò
corretta quella domanda. In effetti, era strano che fossero già arrivati a
Borgo Smeraldo dopo meno di cinque giorni dal Consiglio degli Otto Sovrani. Da
Ibiscus alla capitale d’Ovest erano necessari sette giornate, a cavallo.
Pensandoci su, forse gli Elfi erano riusciti a creare un ibrido tra i Bardak e le
loro razze elfiche.
«Sì, Vostra
Grazia. I nostri cavalli sono più veloci di quelli degli Uomini, e il Nobile
Wirda ha ordinato di prepararci alla partenza il giorno del Consiglio» replicò
Martha.
Helena
cominciò a parlare, ma Lathiora non poté prestare attenzione alle sue parole.
Si sentiva osservata. Male, molto male.
Si guardò attorno. Nel giardino non c’era nessuno, gli Elfi erano concentrati
sulla Regina d’Ovest, le guardie attendevano sul portone, Zephiro… Dannazione!, pensò l’Infero. Non si era
mai interessata al dio dei Venti, non credeva potesse essere un pericolo. Aveva
sempre l’aria distratta e questo l’aveva tratta in inganno. Il secondo errore
in poco tempo.
Lathiora
scivolò giù dal tetto, attenta a non fare rumore, poi si allontanò nel
giardino. Lo sentiva alle sue spalle. Maledizione!
Zephiro si
accostò a Helena e le posò una mano sulla spalla. Lei gli rivolse lo sguardo.
«Scusami, ma
devo controllare una cosa» le sussurrò.
Quando Helena
annuì, il dio dei Venti fece tre passi indietro e si sfilò la maglia. Le ali
azzurre spuntarono dai tatuaggi davanti agli Elfi, che le osservarono sorpresi.
Con la
maglietta in mano, Zephiro fletté le gambe e batté le ali. Si sollevò da terra
e prese quota con un altro colpo d’ala. Virò verso il giardino dello Smeraldo,
dove aveva visto fuggire la donna dai capelli grigi. Ma tutto ciò che vide
furono degli stracci abbandonati per terra e Cenere che trotterellava tra
l’erba. Il dio del vento storse le labbra, perplesso.
Come
un’aquila, Zephiro piombò addosso alla gatta grigia, che balzò indietro
soffiando minacciosa, gli artigli di fuori, il pelo ritto. Inginocchiato sul
terreno, lui fece sparire le ali e allungò una mano verso Cenere, che si
schiacciò ancor di più contro il suolo.
«Buona, buona»
disse il dio dei Venti, con tono gentile.
La gatta smise
di soffiare e non reagì in maniera violenta quando Zephiro le sfiorò il capo.
Pian piano, si lasciò accarezzare e coccolare; poi si distese col collo
scoperto, facendo le fusa.
Il dio la
accontentò, studiandola attentamente. Cenere era un Infero e la donna che aveva
visto sul tetto non era umana. Perché c’era un Infero allo Smeraldo? Voleva
saperlo. Doveva saperlo. Ma Helena non aveva le risposte che cercava. Era
quella gatta la chiave, doveva parlare con lei.
«So cosa sei»
mormorò, sedendosi per terra.
Cenere aprì un
occhio, pigra, ma non reagì. Capiva, però cercava di non darlo a vedere,
illudendosi che lui potesse cambiare idea. Zephiro le sorrise.
«Non vuoi
parlare con me?» le domandò, facendo scivolare la mano verso il ventre della
gatta, continuando ad accarezzare il morbido pelo. Grigio perla. Come i capelli
della donna sul tetto.
Cenere ora lo
fissava con entrambi gli occhi aperti. D’oro puro. Intelligenti. Non animali.
Aspettava una sua mossa, Zephiro lo sapeva bene.
«Un giorno ci
riuscirò» promise lui.
La gatta tese
le orecchie e sgusciò via, correndo verso le mura. Con un balzo vi saltò sopra,
lasciando il dio dei Venti molto perplesso. Era fuggita per qualcosa che aveva
detto lui? Comunque, le capacità di quell’animale non facevano che confermare
la sua natura Infera. Un gatto normale non avrebbe raggiunto la cima delle
mura.
Zephiro fece
riapparire le ali e raggiunse Cenere. Atterrò sul camminamento dei soldati e si
accostò alla gatta, seduta sul parapetto. Allora vide cosa aveva attirato la
gatta. Un gruppo di uomini a cavallo si stava avvicinando sulla strada che
conduceva allo Smeraldo. Avevano quasi raggiunto gli Elfi, che si erano voltati
a osservare il gruppo.
Quando iniziò
a riconoscere i nuovi arrivati, il dio dei Venti sgranò gli occhi. Divinità! Cosa diamine ci facevano lì?
Lasciò perdere Cenere – ora non era importante – e corse sul camminamento, per
raggiungere i soldati nelle torri all’ingresso del palazzo. Vide gli uomini
osservare tranquilli il gruppo in avvicinamento, mentre Helena gli andava
incontro. Spiegò le ali e le fu affianco. Le mise una mano sulla spalla e la
voltò verso di sé.
«Helena,
perché stanno arrivando delle Divinità?» le chiese Zephiro.
La regina
sbatté le palpebre. «E’ tornata Alexya e quelli sono gli Herzbrenht, suoi
alleati» rispose. «L’ho sentita ieri sera e mi ha raccontato l’incontro con
loro, non te l’ho detto?».
Zephiro
corrugò la fronte. «No».
Helena gli
posò la mano sul braccio e accennò un sorriso. «Mi dispiace, allora me ne sono
dimenticata. Mi perdonerai?»
Il dio annuì.
«Certo» le concesse. Ora si sentiva più tranquillo. Se erano alleati della
cugina di Helena, allora non aveva di che preoccuparsi. Lanciò uno sguardo al
gruppo e si accigliò. C’era qualcosa che non andava. Helena se n’era resa
conto?
Helena si
tormentò le mani, nascoste dalle maniche del vestito. Finalmente, quella pazza
era tornata. Adesso era di nuovo sotto il suo controllo. Tutto riprendeva il
proprio corso, lei sarebbe stata meno in ansia, Alexya si sarebbe data una
regolata e gli Anziani avrebbero rivolto di nuovo la loro attenzione alla
cugina. In quei giorni, anche quei sei vecchi l’avevano fatta preoccupare, e aveva
dovuto cercare di capire cosa organizzavano, perché spesso si trovavano nella
sala del banchetto e parlavano con i servi. Prima era Alexya a occuparsi di
loro, a Helena non piaceva avere a che fare con gli intrighi. Preferiva
controllare che la cugina non si facesse del male, che non fosse scortese,
sgraziata e sgarbata. Un’apparenza da perfetta regina sarebbe stata più
convincente di tutte quelle manovre sottobanco.
Al suo fianco,
Zephiro non sembrava partecipe al suo sollievo. Lui aveva avuto la fortuna di
non conoscere Alexya. Ora ne avrebbe avuto tutto il tempo e avrebbe condiviso
le sue preoccupazioni. Lui la capiva.
Helena cercò
il volto della cugina. Vide le guardie reali – diminuite in maniera spaventosa,
vide Marihus, vide Hanan, ma mancavano Johan e Alexya. Dov’è?, si domandò, sgranando gli occhi. Mosse qualche passo
avanti, esitante, poi strinse i pugni e andò incontro al maggiordomo. Lo vide
sussultare e impallidire. Hai la
coscienza sporca, eh, constatò Helena, prima di fermarsi davanti al cavallo
di Marihus.
«Che fine ha
fatto mia cugina, Marihus?» chiese la regina, severa.
Il maggiordomo
deglutì, a disagio, e lanciò uno sguardo ad Hanan, seduta su un cavallo senza
sella. Allora Helena notò che la donna indossava un vestito di Alexya, che le
andava stretto sui fianchi, sul petto, sul ventre. La serva abbassò gli occhi,
imbarazzata.
«Perdonatemi,
milady, vostra cugina mi ha obbligata a far scambio di abiti» spiegò Hanan.
Helena annuì e
tornò a fissare Marihus, in attesa di spiegazioni. Zephiro intanto si era
avvicinato, incuriosito.
«Dov’è
andata?» insistette la regina.
Il maggiordomo
sospirò e fece per scendere da cavallo, a fatica. Ebbe difficoltà a passare la
gamba sul dorso dell’animale e rischiò di cadere all’indietro. Helena lo spinse
contro la sella, cui lui si appigliò disperatamente.
«Grazie,
milady» disse l’uomo, riuscendo a mettere i piedi a terra. Si rassettò l’abito
e si voltò verso la regina. «Alexya ha visto il suo cavallo nel recinto con gli
altri ed è andata a prenderlo, milady. Poi è andata a Borgo Smeraldo con il
divino Sarihele e Johan».
Helena inspirò
profondamente, cercando di controllarsi. Quella screanzata! Invece di tornare
allo Smeraldo e occuparsi delle sue faccende, preferiva andare in città a bere
con un soldato e un dio. In effetti, se aveva portato con sé Sarihele c’era un
motivo. Forse voleva parlare con lui? Non doveva averlo già fatto? Pensare che
era con Johan la calmò. La presenza del capitano della guardia significava che
sarebbero andati di sicuro all’Airone, dove lavorava sua moglie. La taverna si
trovava nella piazza centrale di Borgo Smeraldo, non era un luogo malfamato.
Sì, la situazione non era terribile.
«Sai quando ha
intenzione di tornare?» domandò Helena a Marihus.
«Johan mi ha
assicurato che non le permetterà di tornare più tardi del tramonto di
Canthabros» replicò il maggiordomo, più rilassato.
La regina
annuì, sentendo lo sguardo di Zephiro addosso. Lo guardò e lui le sorrise.
«Ci sono un
po’ di ospiti da sistemare, no?».
Helena
sospirò. «Andiamo a mostrare l’accampamento agli Elfi e agli Herzbrenht»
concordò.
Alexya lanciò
un urlo di gioia, quando Janus accelerò lungo la discesa che portava a Borgo
Smeraldo. Seduto dietro di lei, Sarihele aumentò la stretta attorno alla sua
vita. Stare in due su un cavallo al galoppo era doloroso per la schiena, ma lei
voleva correre. Doveva ammettere che le era mancato il suo Janus, i cavalli
normali non erano alla sua altezza.
«Milady, rallentate!» gridò Johan, una decina di
metri più indietro.
Ridendo, la
regina inclinò la schiena indietro e tirò leggermente le redini. Janus ridusse
la sua velocità e il cavallo del soldato lo raggiunse.
«Alexya,
nessuno vi ha mai detto di non mandare i cavalli al galoppo durante una
discesa?» le domandò l’uomo, lanciando occhiate preoccupate a Janus, che
avanzava senza problemi.
«Certo, ma
Janus è partito da solo. E poi è più resistente delle vostre mezze cartucce»
replicò la ragazza.
Sarihele
osservò la strada di terra battuta davanti a sé.
«La capitale è
distante dal palazzo» constatò il dio.
«Non tanto. Lo
Smeraldo è su quella collina». Così dicendo, Alexya indicò un palazzo alla loro
destra, qualche chilometro più in là delle prime case di Borgo Smeraldo. «Che è
la più vicina al mare e alla città. C’è anche una strada che porta dritta al
centro della capitale. Il cammino vi sembra più lungo perché siamo usciti dalla
via principale per lo Smeraldo e siamo passati per delle viuzze di campagna».
Sarihele gettò
uno sguardo alle sue spalle e dopo sulla strada che stavano percorrendo.
«Vedete,
quelle catapecchie sono già considerate parte di Borgo Smeraldo» lo informò
Alexya, con un cenno del mento in avanti. Sarebbero passati per le vie
secondarie fino a raggiungere la piazza centrale. Erano meno trafficate e i
cavalli non rischiavano di doversi fermare spesso, per non inciampare su
baracche, carretti e gente che passeggiava per i viali.
Alexya fu
costretta a fermare Janus, per farlo andare al passo. In città non potevano
correre, purtroppo. Johan la imitò, e passò davanti a lei e Sarihele.
Superarono le prime abitazioni della capitale e proseguirono in mezzo ad altre
case umili e poco curate. I cittadini ricchi abitavano sulle vie principali e
nella piazza centrale gli unici nobili della città, cioè la famiglia che si
occupava dell’amministrazione cittadina, i Tayoden, da cui proveniva il padre
di Helena. La ragazza sperava di non incontrarli, o l’avrebbero costretta a
prendere il the con loro invece di andare all’Airone. Ruotò il capo e controllò
l’espressione di Sarihele, che sembrava incuriosito dal Borgo Smeraldo. Non
aveva mai visto una città umana? Che strano.
La regina
guardò davanti a sé e notò che iniziava ad esserci più gente per strada, segno
che erano vicini a qualche viale. I negozi attiravano sempre molte persone. Rassegnata,
si preparò a salutare ogni passante.
«Divino
Sarihele, avete qualche problema a farvi vedere in nostra compagnia?» chiese
Johan, fermando il cavallo in mezzo alla strada.
Alexya inarcò
le sopracciglia e guardò il dio. In effetti, seduto su Janus, avrebbe attirato
l’attenzione più di quanto volesse.
«Meglio che
prosegua a piedi» disse Sarihele, lanciando un’occhiata alle abitazioni che li
circondavano. «Camminando sui tetti, posso seguirvi senza farmi vedere».
La ragazza si
guardò attorno. Le case erano in gran parte palazzine per quattro famiglie, era
raro trovarne di diverse, soprattutto nel centro.
«Posso
lasciarvi il mio cavallo e io vado a piedi con milady» propose Johan.
Alexya fulminò
il capitano e aprì la bocca per rispondergli. Non sopportava tutte quelle
cerimonie. Se il dio aveva detto di voler fare in quel modo, perché
contraddirlo? Era un comportamento maleducato, secondo lei.
Sarihele
scosse il capo e rifiutò: «Non so come muovermi per tutte queste stradine; sui
tetti non guarda nessuno, non c’è alcun problema così».
Poi scese da
Janus, un braccio attorno alla vita della ragazza, l’altra mano sulla schiena
del cavallo, mentre la scavalcava con la gamba destra. Atterrò con grazia e si
portò affianco alla regina.
«Dove mi devo
dirigere, di preciso?» domandò il dio.
«Basta seguire
lungo in viale, la piazza è proprio in fondo. Dobbiamo andare alla taverna
l’Airone» rispose Alexya, stringendo tra le dita le redini di Janus.
Sarihele annuì
e con un inchino indietreggiò. «A presto, milady» la salutò.
La regina
seguì la sua breve corsa con lo sguardo. Lo vide spiccare un balzo e appendersi
a un balcone con le mani. Poi lui si issò in piedi sul parapetto e saltò di
nuovo, raggiungendo il terrazzo della casa a due piani. Il dio si voltò e le
fece segno che era tutto a posto. Alexya gli fece cenno di seguirli ancora, poi
spronò Janus.
Johan era
ancora davanti e, quando lui giunse all’incrocio col viale, la ragazza sollevò
lo sguardo verso Sarihele e gli suggerì a gesti di proseguire tranquillamente.
Poi inspirò e uscì nella strada affollata, pronta agli sguardi della gente. Dai, si incoraggiò, c’è di peggio.
Johan era
rimasto indietro, per tenere lontane le persone più insistenti, mentre Alexya
si avvicinava all’Airone. Si fermò e si guardò attorno, alla ricerca di
Sarihele.
«Com’è andata
la passeggiata, milady?» chiese il dio, al suo fianco.
La ragazza gli
rivolse lo sguardo e vide che aveva preso in mano le redini di Janus.
«La gente non
ha ancora capito che le richieste si devono fare agli Anziani, ma questo è
nella norma» replicò la ragazza.
Sorridendo,
Sarihele portò il cavallo più vicino alla taverna e lo legò a un anello di
ferro attaccato al muro.
«Volete una
mano per scendere?» le domandò poi.
Alexya esitò.
Sapeva smontare anche da sola e ne era fiera, però rifiutare sarebbe stato
sgarbato. Soprattutto perché lui era andato da lei per un’alleanza. Iniziava a
pensarla come Helena, non la entusiasmava ciò. Alla fine, annuì e lasciò che il
dio le mettesse le mani sui fianchi e la sollevasse dalla sella. Scavalcò il
dorso di Janus e si fece posare a terra. Il garrese del cavallo le arrivava
alla testa, eppure era sempre riuscita a scendere da cavallo; ma doveva
ammettere che era stato più comodo farsi aiutare da qualcuno molto più alto.
Osservò Sarihele di fianco al cavallo. Doveva essere almeno quindici centimetri
più alto di lei. Ma era più basso di Nicholas. In quel periodo aveva incontrato
gente troppo alta per i suoi gusti. La facevano sentire una nana.
«Grazie» disse
Alexya, con un sorriso.
Rumore di
zoccoli e Johan fu dietro di loro.
«Milady,
potete portarlo nella stalla il vostro cavallo» le fece notare il capitano.
La ragazza lo
guardò seccata. «Quante volte ti ho detto che Janus odia stare al chiuso?»
Johan roteò
gli occhi. «Io ci porto il mio, in qualsiasi caso».
«Ti ho detto
di fare altrimenti? Vai, va» lo scacciò Alexya.
Sarihele
osservò la scena divertito, poi passò una mano sul collo di Janus. «E’ più
resistente e veloce degli altri cavalli. Non è di una razza degli Uomini,
vero?»
La regina gli
rivolse uno sguardo ammirato. «Nessuno me l’ha fatto presente, prima d’ora» gli
disse. «Lo ha regalato Wirda a mio padre, è un ibrido tra il frisone elfico e i
cavalli da guerra Inferi. Poi è passato a me, meno male». Così dicendo, Alexya
sorrise e batté una mano sulla spalla di Janus. Le era sempre piaciuto quel
cavallo, col pelo ocra e i crini rossicci. Che fosse stato di suo padre era un
particolare che lo rendeva ancora più prezioso. «Entriamo, prima che Johan
venga a cercarci» suggerì poi.
Sarihele annuì
e le offrì il braccio, accompagnandola all’interno dell’Airone. Salirono i tre
gradini davanti alla porta spalancata e furono nel locale. Havernio stava
sparendo all’orizzonte, segnalando che era passata l’ora di pranzo, quindi la
taverna era mezza vuota. Le cameriere stavano pulendo i tavoli e il pavimento,
così il dio e la regina dovettero fermarsi vicino al bancone. Alexya cercò
Johan e lo vide parlare con una donna dai capelli lisci e castani e gli occhi
scuri, in grembiule, intenta a portare via dei boccali vuoti.
«Johan, come
sei freddo! L’hai salutata per bene, tua moglie?» gli gridò la ragazza,
poggiandosi al bancone.
Il capitano si
voltò in sua direzione e le rivolse uno sguardo assassino. La donna sorrise e
le andò incontro.
«Milady,
scusateci se vi facciamo attendere, ma dobbiamo assolutamente finire di pulire»
le spiegò lei.
«Tranquilla,
Mansbove, morirò di fame in silenzio e senza sporcare» replicò Alexya.
La moglie di
Johan ridacchiò e portò i boccali nella cucina, passando dietro il bancone.
Poco dopo spuntò un donnone, vestito di stoffe colorate, con i capelli raccolti
in una cuffia di pizzo.
«Vostra
Grazia! Cosa vi preparo oggi?» domandò la donna. «Oh, ma vedo che siete
accompagnata» notò poi, posando gli occhi su Sarihele. Lo osservò e si dipinse
sul suo viso un sorriso compiaciuto. Sotto lo sguardo divertito di Alexya, gli
porse una mano e si presentò: «Piacere, sono Graça, la proprietaria
dell’Airone. I vostri occhi sono neri, siete un semidio?»
Alexya stava
per correggerla, ma Sarihele la fermò: «Il piacere è mio, signora. Sì, sono un
semidio: mi chiamo Doime».
«Oh, grazie,
che ragazzo gentile» si complimentò Graça. «Allora, miei giovani, che volete
mangiare?»
«Per me,
birra, pane e arrosto» disse Alexya.
«Lo stesso per
me, grazie» replicò Sarihele.
«Ed io,
Graça?» chiese Johan, appena giunto al bancone.
«Sentiamo cosa
vuole il soldatino» gli concesse la donna.
«Sidro, farinata
e spezzatino. So che c’è, me l’ha detto Mansbove».
«Sì, sì, c’è»
confermò Graça, sbuffando. Poi guardò la sala, alla ricerca di un posto dove
farli andare a sedere. «Jenna,
sbrigati e apparecchia» urlò alla cameriera che si stava occupando di un tavolo
in fondo alla sala. La ragazza gridò una risposta e raccolse lo straccio, per
affrettarsi a prendere tovaglia, bicchieri e posate da una credenza nei
paraggi.
«Andate pure a
sedere. Il cibo arriva presto» disse Graça, prima di tornare in cucina.
.-.-.-.
Minidizionario
Maholhan-Italiano:
(1)Lhenk: significa “sei” ed è un
gioco di carte del Mondo Profano.
Eccoci a “fine
primo tempo”. Chissà se il tributo alle Tre Martine è stato colto, ihih.
Ed eccomi con le ultime dieci pagine di questo lungo e
sudato capitolo 11!
Il tributo l’ho spiegato alle dirette interessate, ma per
chi fosse morto di curiosità, ecco la risposta: Mansbove, la moglie di
Johan ^^
Prima di cominciare ringrazio le Tre Martine,
Dark Magician,
myki e marluxia25, cui anche questa seconda
parte è dedicata, e una nuova aggiunta, Targul, che ha “preferito” l’Esercito! <3
Buona lettura ^O^
.-.-.-.
Uomini:
Alexya dei Thenesharum,
Regina della Guerra d'Ovest, creatrice dell'Esercito della Fenice, cugina di
Helena;
Helena dei Lahacilliarum,
Regina delle Messi d'Ovest, sacerdotessa di Zephiro, cugina di Alexya;
Johan, capitano delle
guardie reali d'Ovest;
Marihus, maggiordomo dello
Smeraldo;
Hanan, ancella di Alexya;
Garstand, padre di Alexya;
Dygghor, padre di Helena;
Arghos, uno degli Anziani;
Geq e Pjehr, soldati della
guardia reale;
Tarus, Re del Nord;
Mentius, Re del Sud;
Ludovik di Dornior, Re
d'Est;
Sarah, messaggera dello
Smeraldo;
Duca Sherden, nobile del
Sud, compagno di giochi di Mentius;
Mansbove, moglie di Johan,
cameriera all'Airone;
Graça, proprietaria
dell'Airone;
Jenna, cameriera
dell'Airone;
Stephan, mercenario, braccio
destro di Daniel, membro dei Dragoni.
Inferi:
Nicholas figlio di Aexandras,
Re delle Terre d'Ombra, Infero Perfetto (appartenente a tutte e tre le razze
degli inferi – demone, vampiro, antico spirito);
Irene di Canthao, promessa
sposa di Nicholas, demone;
Chester di Niha, Nobile
purosangue, messaggero reale, antico spirito lupo;
Krados di Thena, Nobile
purosangue, spia reale, demone;
Molko di Thener, Nobile
purosangue, capitano della guardia cittadina di Occhio degli Inferi, generale
di una legione dell'esercito Infero, vampiro;
Lathiora, vive allo
Smeraldo, antico spirito gatto;
Apuh, Nobile del Clan
Thener, vampiro;
Thitus, Nobile del Clan
Canthao, capo della congiura, demone;
Bhor'la, Nobile del Clan
Niha, antico spirito corvo;
Murthen, mezzo-driade,
maestro di palazzo dell'Hinferion Rahan;
Daniel di Canthao, Nobile
purosangue, fratello di Irene, mercenario, capo dei Dragoni.
Divinità:
Al, Re delle Divinità, dio
della Forza;
Adele, Regina delle
Divinità, dea dell'Amor Proprio;
Hordev, figlio di Al ed
Adele, dio della Lussuria;
Zephiro, protettore della
famigliare reale d'Ovest, dio dei Venti;
Vraele, generale
dell'esercito divino, tenente dei Colchici, fratello gemello di Sarihele, dio
della Guerra;
Eoforbio, portavoce reale;
Sarihele, capo degli
Herzbrenht, fratello gemello di Vraele, dio delle Ribellioni;
Veris, dea della Primavera;
Niharn, protettrice del
Regno d'Ovest;
Devon, sottotenente di
Vraele, Colchico;
Dabar'as, membro degli
Herzbrenht.
Campi di Sangue:
Archelaos, negromante,
semidio;
Laila, scheletro di
Archelaos;
Arnold, proprietario della
Mandragola;
Mara, moglie di Arnold;
Tyr, proprietario del
Vagabondo selvaggio.
Elfi e Lucenti:
Wirda, Re degli Elfi;
Vaenihum, braccio destro di
Nicholas, medico di corte, Elfo;
Adhurna, Regina dei Lucenti,
cieca;
Martha, comandante degli
arcieri elfici.
.-.-.-.
XI.
Mercenari
Dirigendosi dove Jenna
apparecchiava, Alexya toccò il braccio di Sarihele, per attirare la sua
attenzione. «Perché non avete detto la verità?» gli domandò.
«Se avessi
voluto che tutti sapessero della mia presenza qui, prima sarei venuto a cavallo
con voi. Quella donna sembra chiacchierona» spiegò il dio.
«Lo è»
confermò Johan.
La regina lo
fulminò con lo sguardo.
«Il nome che
ho usato è davvero di un semidio. Doime è uno dei bastardi di Arihost» aggiunse
Sarihele, giunto vicino al tavolo.
«Prego,
signori» li invitò Jenna, scostandosi dopo aver messo l’ultimo bicchiere sulla
tovaglia.
Alexya andò a
sedersi sulla sedia a capo tavola, Sarihele e Johan occuparono le panche ai due
lati della regina.
«Ho sentito spesso
parlare dei vari figli di Arihost. E’ il dio delle Ombre, non ha senso il suo
comportamento» disse la ragazza, portando una mano sulle posate per cominciare
a giocarci.
«Prima della
nascita di Hordev, era lui il dio della Lussuria. E’ insito nella sua natura,
aver perso un titolo non gli impedisce di spargere bastardi per il Mondo
Profano» rispose Sarihele.
Alexya inarcò
le sopracciglia, sorpresa. «Questa non la sapevo».
«E’ successo
millecinquecento anni fa, difficile che abbiate ricordi di quel periodo»
scherzò il dio.
La ragazza
accennò un sorriso, ma continuò: «Intendevo che non l’ho mai letto su nessun
libro. Non è un fatto da poco, porta cambiamenti per i culti».
«Nessuno
venera il dio della Lussuria» disse Sarihele.
«Perdonatemi,
divino, ma nei bordelli c’è sempre un’icona di Hordev» intervenne Johan.
«Johan, vai
per bordelli? Mansbove lo saprà» lo minacciò Alexya, ghignando.
«In quelli
umani; solo voi avete bisogno di icone per pregare» replicò il dio delle
Ribellioni, prima che il capitano potesse ribattere alla regina.
«Comunque,
arrivano pochissime notizie dai Giardini delle Divinità» li interruppe la
ragazza, cercando di spostare il discorso dove desiderava. Non le interessava
di bordelli o di culti, aveva portato Sarihele lì per parlare della loro
alleanza. Voleva capire con chi aveva a che fare e chiarire i termini della
loro collaborazione. «Per esempio, non ho mai sentito parlare degli
Herzbrenht».
Il volto del
dio si oscurò. «Il nostro regno è troppo isolato e noi non ci siamo mai esposti
troppo. Al ha spesso cercato di eliminarci, se non ci è riuscito è solo perché
i Colchici sono fedeli a Vraele e lui ha sempre sviato le ricerche. Se un
gruppo di Herzer uscisse dai Giardini delle Divinità, sarebbe più vulnerabile».
«Eppure siete
venuti a cercarmi» notò Alexya, rigirando la forchetta nella mano.
«Infatti, ci
siamo spostati tutti insieme. Siamo in cinquanta, con molti collaboratori tra
gli altri dei, ma siamo comunque troppo pochi» le spiegò Sarihele.
Arrivò
Mansbove con i piatti di carne. «Ecco a voi» annunciò, posando le porzioni di
carne davanti a chi le aveva ordinate. «Ora porto il pane e da bere» disse e si
allontanò.
«Siete così
pochi? Mi è sempre sembrato che ci fosse un numero esagerato di Divinità nei
templi, non riuscite a trovare alleati?» domandò Alexya, lanciando uno sguardo
al piatto.
«Quelle sono
le Divinità maggiori, cento in tutto. Gli dei minori sono circa duemila, o
duemila e cinquecento, distribuiti tra Gemma d’Autunno e Chril Dhy».
«Beh, le
Divinità maggiori sono quelle più potenti e tra cui avete degli alleati, no? Mi
sembra strano che non siate riusciti a combinare nulla» commentò Alexya.
«Ed ecco il
pane» disse Mansbove, posando il cestino di vimini sul tavolo. Lasciò anche le
due brocche. «Il vino e il sidro, per voi. Buon appetito»
«La mia
farinata?» domandò Johan, rivolgendo un’occhiata triste alla moglie.
La donna
sorrise e gli tirò un buffetto. «E’ col pane».
«Meno male,
credevo volessi farmi morire di fame» replicò il capitano.
Alexya roteò
gli occhi e si rivolse a Sarihele. «Allora, cosa vi impedisce di attaccare Al?»
domandò, afferrando una pagnotta dal cestino.
Il dio lanciò
uno sguardo alla coppia davanti a lui, poi guardò la regina che spezzava il
pane.
«Al non è
debole. Se cercassimo uno scontro, utilizzerebbe i Myurohon e i Colchici contro
di noi. Vraele in quel caso dovrebbe eseguire i suoi ordini senza fiatare, i
tatuaggi sulle sue spalle lo farebbero agire secondo il volere di Al, come una
marionetta. Non avremmo scampo e gli Herzbrenht verrebbero decimati. Tutti i
traditori tra le altre Divinità verrebbero giustiziati. Al non aspetta altro,
vuole liberarsi della minaccia che noi Herzbrenht rappresentiamo» spiegò
Sarihele, prendendo le posate e tagliando la carne.
Alexya pensò
che, fosse stata al posto di Al, avrebbe fatto la stessa cosa. Tagliò un pezzo
di carne, la liberò del grasso e dei nervi, poi la portò alla bocca. Lei
avrebbe cercato di provocare i ribelli, finché non avessero attaccato, per
avere una motivazione valida per il loro sterminio. Con gli Anziani faceva
così: lasciava il guinzaglio allentato, permetteva loro di tramare, lasciava
passare le scaramucce, li provocava nei consigli; ma Arghos non era stato
ancora abbastanza scemo da attaccarla in pubblico. Masticò la carne,
lentamente. Pochissima gente sapeva dei contrasti tra Regine e Anziani, se
Alexya avesse provato a eliminarli ora, i nobili sarebbero insorti di sicuro e
anche il popolo. Doveva aspettare che si esponessero a sufficienza per rendere
palesi i loro intenti e giustificarsi. Ma l’attesa era fastidiosa, per lei.
Prese la brocca di vino, se lo versò nel bicchiere. Ed Helena collaborava poco,
non amava trovarsi invischiata negli intrighi di corte. Era un comportamento
ingenuo, perché Arghos non si faceva scrupoli: appena ne avesse avuto
l’opportunità, avrebbe usato persino un errore di Helena per minacciarla. Aveva
un fianco scoperto, che faceva difficoltà a proteggere. Portò il bicchiere alle
labbra e bevve.
«Quindi,
quando vi manda contro i Colchici, lo fa per provocarvi. Per questo non
pretende che Vraele vi colpisca davvero» disse Alexya, posando il calice sul
tavolo.
Sarihele
interruppe la masticazione, sorpreso. Buttò giù il boccone, si versò del vino e
ne bevve un sorso. Poi riuscì a parlare.
«Sì, è così.
Non credevo che-» cominciò il dio.
«Milady è
cresciuta mangiando spade e intrighi a colazione» commentò Johan, prima di
addentare un pezzo di farinata.
Alexya lo
guardò seccata e gli puntò contro il coltello. «Hai finito di fare il
cascamorto con tua moglie?» gli domandò.
Poi abbassò di colpo la mano con la lama e il capitano scattò all’indietro. Ma
la ragazza aveva infilzato un pezzo di spezzatino, per nulla intenzionata a
colpire davvero il soldato. «E allora continua a mangiare e non blaterare» gli
ordinò, portando la carne nel suo piatto.
«Qual è, di
preciso, l’obiettivo degli Herzbrenht?» chiese Alexya, al dio delle Ribellioni.
«Deporre Al»
replicò Sarihele.
«Fin qui c’ero
arrivata».
Il dio corrugò
la fronte. «Il problema non è Al in sé, sono le sue azioni. I Giardini delle
Divinità stanno marcendo, le nostre ricchezze sono sperperate in feste e in
questa inutile guerra. Siamo un Popolo vecchio, non nascono più purosangue, ma
solo semidei. Gli ufficiali del nostro esercito non sono Myurohon, sono
Divinità e muoiono in gran numero. Stiamo sparendo e questo perché Al continua
a unirsi a Divinità minori, se non addirittura mezzosangue».
«Hordev è suo
figlio, no?» domandò la ragazza.
«Così sembra.
La sua nascita è stato un fatto inspiegabile. Ma il suo titolo divino palesa la
corruzione del nostro regno. Perché credete che molti dei maggiori vivono fuori
di Giardini delle Divinità?» rispose Sarihele. «I quattro protettori dei Regni
degli Uomini e i loro figli, Solarium, Lunar, le Bestie Sacre, l’Eremita dei
Ghiacci: tutti si sono allontanati secoli addietro, quando ancora il marciume
non era così diffuso».
«Arihost vive
nella Fohst-Nathrion e non nei Giardini delle Divinità, pur essendo un perfetto
esempio di “decadenza divina”» commentò Alexya, mangiando il pezzo di spezzatino
preso da Johan.
«Di Arihost
non si hanno più notizie, ogni tanto compare qualche nuovo bastardo, però non
si è più fatto vedere a corte. Lui è un caso a parte, collabora con la nostra
caduta» spiegò il dio.
«Capito.
Allora, cosa proponete? Dovreste avere un valoroso, un puro di cuore, da
mettere al trono al posto di Al. Avete intenzione di diventare Re delle
Divinità, divino Sarihele?» chiese Alexya, tornando a tagliare il suo arrosto.
«Non mi state
prendendo sul serio, milady».
«Non tanto,
non mi piacciono i discorsi sulla morale» replicò la ragazza e, dopo aver detto
quelle parole, si domandò da quanto tempo provasse così fastidio per i
moralisti. Suo padre li aveva sempre avuti in odio, gli Anziani erano un ottimo
esempio della categoria, ma lei non si era mai trovata davanti a una persona
che combattesse per quello e che volesse lei come alleata. Arghos le si era
messo contro, Sarihele la stava cercando. Non aveva molto senso. «Il punto è
che io non ho nulla di personale contro Al. Quel che voglio fare è
riappacificare la Terra dei Cinque Popoli e questo mi mette contro ad Al e a
Lord Nicholas» continuò Alexya.
A quelle
parola, Johan lo fissò ironico. E la ragazza capì perfettamente cosa stava
pensando il capitano.
«Al e Lord
Nicholas in quanto Re delle Divinità e Re delle Terre d’Ombra, Johan» gli fece
notare, irritata. «Ho già detto di non avercela con la loro persona».
«Certo, certo.
Però ti sai fatta portare in giro dall’Infero, hai cenato e dormito nella sua
tenda. Stavi cercando informazioni per batterlo?» rispose Johan, inarcando le
sopracciglia. «Se continui così, il tuo bell’Esercito della Fenice diventerà
un’appendice di quello Infero e mi spieghi che fine fa la tua geniale idea?
Tutto questo per finire nel letto di uno che gira sempre mezzo nudo, ci prova
con ogni paio di tette che incontra ed è la mente più calcolatrice che sia mai
esistita. Credi che ti abbia avvicinata perché l’hai ammaliato? Lui vuole
l’Esercito da mandare avanti per indebolire Al, solo questo!»
Alexya scattò
in piedi, il coltello in una mano. L’altra afferrò con forza il collo del
capitano. «Che diritto credi di avere per parlarmi in questo modo, soldato?» ringhiò, puntandogli la lama
alla gola.
Mansbove
lanciò un urlo, dal bancone dove osservava la scena.
«Non sono l’unico
che la pensa così, milady. Dopo l’attacco dei Myurohon i soldati erano di
cattivo umore e voi non siete andata a visitarli. Certe cose non si dimenticano
facilmente. Anche se non l’hanno dato a vedere, le guardie reali, Marihus e
Hanan non approvano il vostro avvicinamento all’Infero» continuò Johan.
«Hanan me l’ha
detto in faccia. E comunque voi non dovete interessarvi a quello che faccio»
replicò Alexya.
«L’Alexya che
conoscevo non avrebbe mai detto una cosa simile. Siete arrabbiata e non
ragionate» disse il capitano.
Il coltello si
posò sulla pelle dell’uomo. Sarihele si alzò dalla panca e mise una mano sul
braccio della ragazza, quello che reggeva la lama. Mansbove si avvicinò
premendosi un lembo del grembiule sulla bocca, gli occhi sgranati per il
terrore.
«Milady, per
favore» la pregò il dio.
Alexya lanciò
uno sguardo al viso di Sarihele e notò la determinazione a farla smettere.
Avrebbe usato la forza per metterla a sedere, che senso aveva? Non se la stava
prendendo con lui, ma con quell’idiota irrispettoso che era Johan. Ma decise di
calmarsi, stava dando spettacolo in una taverna al centro di Borgo Smeraldo;
anche se in quel momento era quasi deserta, Graça aveva la lingua lunga e molte
cameriere avevano preso la stessa abitudine. Mollò la presa sul collo del
capitano e tornò seduta, inspirando profondamente.
«Ne parleremo
più tardi, Johan» disse Alexya, usando il coltello per tagliare un altro pezzo
di carne.
«No, sono
mortificato, milady, ma io ho detto tutto. Parlate con gli altri soldati semmai»
replicò il soldato. Scivolò un poco sulla panca e si mise in piedi affianco
alla regina. «Io ho finito di mangiare, chiedo congedo».
«Concesso»
rispose la ragazza. Osservò la carne nel suo piatto e si accorse di non avere
più fame. Prima di abbandonare le posate nel piatto, sentì i passi di Johan
allontanarsi e Mansbove avvicinarsi a lei.
«Milady,
perdonatelo» le chiese, rigirandosi la fede nuziale sull’indice destro.
«L’ho già
fatto» mormorò Alexya, portando alle labbra il bicchiere di vino.
Mansbove si
lasciò cade sulla panca dove era stato seduto Johan. «Cercherò di farlo
ragionare, non può dare di testa-».
«Lascia
perdere, ti prego» la zittì la ragazza, lanciandole uno sguardo sofferente.
Finché era Hanan a borbottare, o quella piaga di Marihus, era un conto. Se
Johan iniziava a lamentarsi allora c’era davvero qualche problema. Ma come lo
poteva risolvere? Doveva lasciar perdere Nicholas? Ripensò all’amuleto contro i
Myurohon. No, aveva tutto da guadagnare. Lui era nella Guerra Millenaria da più
tempo, aveva la tecnologia necessaria a mettere in pari l’Esercito della Fenice
con quelli delle Divinità e degli Inferi. Sui libri di suo padre non aveva mai
trovato quelle informazioni, lo stesso negromante di Sung’bar aveva detto che
Nicholas e Vaenihum non permettevano la diffusione delle loro scoperte al di
fuori delle Terre d’Ombra. No, no, no, Nicholas le serviva. Non poteva tagliare
i ponti all’improvviso. I suoi soldati avrebbero capito, quando avrebbero visto
i Myurohon morire sotto i loro colpi.
«Vai a
tenergli compagnia, Mansbove» suggerì Alexya alla donna.
La cameriera
annuì e si mise in piedi, congedandosi con un inchino.
«Stavamo
parlando del nostro sostituto Re delle Divinità» le ricordò Sarihele.
La regina
concordò, tornando composta e mettendo da parte i suoi problemi. Ora doveva
occuparsi dell’Esercito della Fenice, il resto non contava. «Chi volete
proporre?»
«L’Eremita dei
Ghiacci, Gladius, il dio della Neve e del Ghiaccio» rispose la Divinità.
Alexya lo
guardò perplessa. «Non ne ho mai sentito parlare» ammise.
«E’ normale:
si è ritirato sui Monti di Luce, nessuno sa dove di preciso, e il suo culto è
diffuso soprattutto tra i Lucenti e gli Elfi montanari; inoltre, è una persona
solitaria, ha sempre preferito l’anonimato. E’ stato uno dei primi a esser
stato creato dopo Al e Adele» le spiegò Sarihele.
«Preferisce
l’anonimato? Non vi siete posti il dubbio che lui possa rifiutare?» obiettò
Alexya.
Il dio
sorrise. «A lui non piacciono i Giardini delle Divinità come sono ora, per
questo ha cercato di mettersi da parte. Io lo prego spesso, questo è l’unico
modo in cui posso tenermi in contatto con Gladius. Lui è sempre aggiornato sui
nostri movimenti; se non gli andasse bene qualche nostra scelta, si farebbe
sentire».
Alexya era
comunque perplessa da quella storia. Però le Divinità avevano la magia, erano
nei gradini più alti nella gerarchia di capacità magiche, assieme agli Inferi.
Le avrebbero fatto molto, molto comodo. E che volessero eliminare Al sembrava
un fine capace di spingere gli Herzbrenht a darsi da fare per aiutarla. Sì,
poteva farli entrare nell’Esercito della Fenice.
«Accetto voi
Herzbrenht, perché avete la magia. Per questo sarete voi a occuparvi della
protezione magica dell’Esercito e cercherete umani con sangue magico nelle vene,
per istruirli come si deve» disse la regina.
«Grazie a
Vraele so abbastanza della Guerra da poter organizzare degli addestramenti
mirati per i soldati» fece notare il dio.
«Le vostre
conoscenze mi potranno essere d’aiuto più avanti. Ora ho intenzione di
aspettare l’arrivo di tutte le truppe, saggiare le loro capacità e poi
organizzare l’esercito come si deve. Quel che voglio sono soldati altamente
specializzati, non con una cultura generale. Devono saper svolgere il loro
compito al meglio, quello degli altri non li deve riguardare» lo contraddisse
Alexya, prima di bere ancora il vino.
«Non è un’idea
malvagia» considerò Sarihele.
Alexya abbozzò
un sorriso.
«E prendi quel cinghiale, Bhor’la!»
L’antico
spirito di Niha ruotò la testa in direzione di Apuh, che aveva gridato, disteso
sotto una magnolia in compagnia della vampira di Lahat. Lo fissò minaccioso,
mentre il cavallo correva dietro il cinghiale. Jansen lo superò urlando,
eccitato dalla caccia.
«Troppo
lento!» lo schernì, roteando la lancia, la sottile coda verde che fluttuava
alle sue spalle.
Thitus osservò
i due antichi spiriti correre a cavallo, inseguendo un servo di Jansen, che era
stato obbligato a prendere le sue sembianze animali per far divertire due
Nobili. Lui si era rifiutato di partecipare alla caccia, i cinghiali non gli
piacevano. Apuh non vi aveva preso parte solo perché era più interessato a
stare alla calcagna di Mhinouke; altrimenti la caccia la organizzava sempre
lui.
«Non ho ancora
capito perché quei due stiano facendo gli scemi, quando dovremmo parlare di
cose serie» commentò Neben, portando alla bocca un pezzo di crostata alle
albicocche della cuoca di Mhinouke.
Thitus scosse
la testa. «Se si stancano ora, dopo non iniziano a punzecchiarsi».
«Beh, dubito
che Apuh sarà stanco alla fine della caccia. Se lui ha la forza di fare lo
spiritoso, Bhor’la e Jansen risponderanno nonostante tutto» replicò Neben,
lanciando uno sguardo all’albero a qualche passo da loro.
Il demone di
Canthao la imitò e inarcò le sopracciglia vedendo Apuh disteso sull’erba, con
la testa sulle ginocchia di Mhinouke, parlandole in continuazione; intanto lei
lo ignorava, più interessata al libro che aveva in mano che alle chiacchiere
del vampiro. Mhinouke era obbligata a stare all’ombra, era albina e quindi sopportava
i Soli meno degli altri Inferi. Però non era necessario che Apuh stesse sotto
la magnolia con lei. Lui si divertiva a fare il cascamorto perché lei fingeva
disinteresse con una grazia che deliziava il vampiro. Thitus non trovava tanto
normale un comportamento simile.
«Purtroppo hai
ragione» concesse il demone a Neben.
La donna fece
spallucce, mentre spezzava con i denti un altro pezzo di crostata. La masticò,
rivolgendo lo sguardo a Jansen, che arrestava il cavallo vicino al cinghiale trafitto
dalla sua lancia. «Bhor’la si lascia sempre fregare da quella serpe» borbottò
il demone di Thena. Ruotò il capo verso Thitus, mettendo in bocca quello che
restava del dolce.
«Hanno finito,
ora verranno qui» commentò l’uomo.
Una serva si
avvicinò al tavolino di ferro battuto e marmo su cui si trovavano i vassoi di
cibo e la teiera. «Serve altro, padrona?» domandò la giovane a Neben.
«Vai a
scaldare il the, si è freddato» ordinò la donna.
La cameriera
prese la teiera e si allontanò, silenziosa.
«Aah, Neben,
vuoi mangiare con me il cinghiale?» esordì una voce alle spalle della donna.
Thitus sollevò
lo guardo e vide Jansen in piedi dietro la padrona di casa, la preda sulle
spalle nude.
«Non mi do al
cannibalismo, Jansen» replicò lei. Lo osservò, i riccioli verdi incollati sul
viso spigoloso e allungato, il codino e la pelle del busto sporchi del sangue
dell’antico spirito. Indossava solo i pantaloni di lino marrone e gli stivali
di cuoio, la pelliccia l’aveva abbandonata prima di andare a caccia. «E poi,
così sporco e sudato, non vorrai sederti sulle mie sedie?»
Il Nobile di
Arah ghignò, lasciò cadere il cinghiale per terra e si accomodò affianco a
Neben, avvicinandosi di più a lei. «A quanto pare sì».
La donna
rivolse uno sguardo seccato a Thitus. «La caccia non li ha stancati
minimamente» gli fece notare.
Bhor’la si
avvicinò a tavolo e si lasciò andare su una sedia vicino al demone di Canthao,
con un sospiro rumoroso per via della maschera. «Sono stufo di questi giochi
sciocchi» annunciò, e prese la tunica inzuppata di sudore tra pollice e indice
e la sollevò dal petto.
Jansen gli
rivolse uno sguardo malizioso. «Dici sempre così, ma poi vieni comunque.
Ammetti che ti piace vedermi a torso nudo» lo provocò, allungando un braccio
per passarlo attorno alle spalle di Neben.
«Jansen,
dovresti smetterla di ammazzare i tuoi servitori ogni volta che tardano a
correre da te» commentò Mhinouke, avvicinandosi al tavolo dove si trovavano gli
altri Nobili.
Thitus le
scostò una sedia. «Prego, accomodati» la invitò, con un cenno della mano.
«Ma, Mhinouke,
io mi diverto!» protestò Jansen, per nulla serio.
La vampira
mise una mano sulla gonna bianca, per evitare che si stropicciasse sedendosi.
Si portò una mano davanti alla bocca e tossì, senza far troppo rumore.
Neben lanciò
uno sguardo preoccupato a Mhinouke. «Chiedo di spostare il tavolo all’ombra?»
le domandò.
L’altra fece
cenno di no con la mano e indicò il parasole bianco che reggeva nell’altra
mano. «Questo basta. Oggi le nubi sono più fitte, credo stia arrivando la pioggia»
rispose la vampira.
Apuh si
avvicinò al tavolo, il mantello nero che ondeggiava dietro le spalle. Lanciò
uno sguardo a Mhinouke, che aveva allungato la mano sul tavolo per prendere un
biscotto, e si sedette vicino a lei, poggiando il gomito sul bracciolo della
sua sedia.
«Pioggia o non
pioggia, non lo sentite anche voi?» chiese Apuh, fissando Mhinouke con un
sorrisetto. Provò a passare una mano tra i capelli quasi bianchi della donna,
ma gli occhi rossi lo fulminarono, senza che il suo volto pallido fosse turbato
da qualche emozione.
Thitus abbassò
le palpebre per concentrarsi sulla percezione dell’aura. Oltre alle cinque
attorno a sé, potenti, e un numero imprecisato di energie più deboli nella
villa di campagna di Neben, un’enorme presenza si avvicinava a Occhio degli
Inferi. Aprì gli occhi di scatto e incontrò lo sguardo di Neben.
«E’ tornato
Lord Nicholas» annunciò Thitus.
Bhor’la annuì,
in silenzio. Mhinouke gli lanciò uno sguardo, poi prese un altro biscotto e lo
mise in bocca ad Apuh, impedendogli di fiatare.
Jansen scrollò
le spalle. «Non importa, tanto noi possiamo rimanere qui senza essere spiati»
disse.
Neben si
liberò del braccio dell’antico spirito di Arah e si mise in piedi, tra i
borbottii contrariati dell’uomo.
«Voi potete
rimanere qui, io vado ad accogliere Sua Altezza» disse la padrona di casa.
«Dimmi a che
serve andare da lui, quando noi dobbiamo pensare a come togliercelo dai piedi!»
protestò Jansen, cercando di afferrare la donna dai fianchi, per farla tornare
a sedere.
«Non dire idiozie,
sai che lui non direbbe mai di no a una donna. Sto semplicemente cercando un
punto debole per colpirlo» spiegò Neben, allontanandosi di qualche passo
dall’antico spirito.
«Thitus, dille
che sta perdendo tempo! Diglielo!» lo incitò Jansen, sporgendosi verso il
tavolo.
Il demone di
Canthao scosse il capo. «Sta portando avanti la sua vendetta, collaborando con
noi. Non vedo perché ostacolarla» rispose. «Comunque, tutto quello che dovevo
dirvi è che abbiamo un alleato abbastanza potente e antico da poter contrastare
Lord Nicholas. D’ora in poi, possiamo osare di più, abbiamo un’arma di cui
nessuno conosce l’esistenza, che ci verrà in aiuto quando ne avremo bisogno».
Thitus osservò
la sorpresa e il dubbio sui volti dei suoi compagni. Ma non gli interessava.
Vedendo i risultati, avrebbero capito. Lui non era intenzionato a lasciarsi
sfuggire il raggiungimento del traguardo, per cancellare la perplessità dei
Nobili. Il miglior alleato che potessero trovare era con loro. Il Mezzosangue
era uscito dal mito, per aiutarli.
Murthen corse davanti a Nicholas,
per impartire ordini alla servitù radunata davanti all’ascensore dell’Hinferion
Rahan. Il Re degli Inferi proseguì lungo il corridoio, seguito da Vaenihum e
Irene.
Casa, dolce casa! Mi sei mancata!,
esclamò Nephas.
Vai a chiamare Krados, ordinò Nicholas
all’Elfo, fregandosene dell’antenato che parlava nella sua mente.
Vaenihum si
fermò e, con un inchino, cambiò strada. La servitù si era dispersa, ma
rimanevano in attesa del sovrano tre persone.
Il primo a
pararsi davanti a Nicholas fu Molko, che s’inchinò e prese parola.
«Bentornato,
Vostra Altezza. Ho eseguito gli ordini ricevuti, non c’è stato alcun
contrattempo. Attendo altre direttive» disse il vampiro, con orgoglio.
Nicholas
inarcò le sopracciglia. «Mi sembra il minimo. Sarà Cedric ad assegnarti i
prossimi compiti» replicò e passò avanti.
Sempre antipatico, figliolo. Perché nessuno
ti ha ancora ammazzato?, lo rimproverò Nephas.
Irene si
accostò al sovrano. «Vado nelle mie stanze» lo avvertì, in un sussurro.
«Mh» rispose
Nicholas e fu costretto a rivolgere la sua attenzione al vampiro biondo che gli
si era piazzato sul cammino. Perché tutti avevano la brutta abitudine di
andargli a parlare appena tornato a palazzo? Non potevano chiedere udienza come
le persone normali? Li aveva abituati male. La volta successiva avrebbe preso
provvedimenti drastici. Ora voleva avere delle determinate informazioni.
Sei più acido del solito, o sbaglio?,
commentò Nephas, imperterrito.
L’Infero
guardò il giovane davanti a sé, con i capelli biondi legati in una coda bassa,
e il completo militare nero, pantaloni e la giacca, portata senza niente sotto.
A quanto pare, stava diventando una moda andare a petto nudo come lui. Gli
seccava questa storia, ma non aveva la minima voglia di vestirsi troppo solo
perché veniva imitato. Non gliene fregava più di tanto. Incontrò gli occhi
rossi del vampiro e annuì, permettendogli di parlare.
«Ho novità da
riferirvi, Vostra Altezza» annunciò il giovane.
E’ il secondo che ti chiama “Vostra
Altezza”. Li stai istruendo per bene, questi giovanotti, disse Nephas,
divertito.
«Tra mezz’ora,
fatti trovare davanti alla mia porta, Cedric» rispose Nicholas, liberandosi del
mantello. Gli stava andando incontro una serva per aiutarlo a svestirsi, quindi
le lasciò la cappa rossa in mano.
Cedric fece un
inchino e si allontanò. Sarebbe andato ad appostarsi davanti alla sua porta, il
Re degli Inferi lo sapeva. Era sempre così. Proseguì e si avvicinò alla donna
che lo attendeva, con uno sguardo astioso. Le lasciò scorrere lo sguardo
addosso: non degnò di troppa attenzione i capelli castani con ciocche più
chiare che spuntavano qua e là, né si soffermò sugli occhi color muschio;
invece, studiò deliziato lo scollo del vestito amaranto, che metteva in risalto
il seno prosperoso della donna. Ghignò e le prese una mano, per baciargliela.
«Lady Neben,
se venite a cercarmi, almeno fingete di esser contenta di vedermi» la canzonò.
Il demone di
Thena inarcò le sopracciglia. «Se vi dà fastidio la mia espressione,
ignoratemi, Lord Nicholas».
Non vorrei dire, ma ha ragione,
intervenne Nephas.
Nicholas le
passò una mano attorno alla vita e la costrinse a seguirlo, trascinandola
finché lei non decise di assecondarlo.
«Ignorarvi?
Avrei tutto da perdere» replicò lui. Sapeva perché Neben andava a cercarlo e
non la rifiutava perché questo gli permetteva di controllarla. Lui non le
avrebbe mai fatto sapere nulla di utile, le avrebbe parlato di minuzie
illudendola di avere grandi informazioni. Era più sicuro di lasciarla andare in
giro per il palazzo, libera di ficcare il naso ovunque.
«Andiamo a
fare un bagno» la informò, con un ghigno.
Neben gli
rivolse gli occhi, indecisa se accettare o meno. Alla fine, annuì. Ma Nicholas
aveva dato per scontata la risposta. Neppure l’odio che nutriva nei suoi
confronti per la morte di Serjen, sua sorella, poteva nulla contro di lui.
So che stai facendo così per farmi stare
zitto, Nicholas. Ignorarmi non serve, sono dentro di te e se mi colpisci con la
magia divento più forte, lo provocò Nephas.
Nicholas finse
ancora di non averlo sentito.
Bastardo, bofonchiò il Primo Infero,
chiudendosi nel mutismo. Non voleva partecipare al bagno del suo corpo.
Neben osservò Nicholas uscire dalla
vasca, l’acqua che scorreva sul corpo marmoreo, i capelli corvini bagnati e
incollati sulla pelle. Chiuse gli occhi e sospirò sofferente, attirando
l’attenzione del sovrano su di sé.
Lui la guardò,
abbandonata sul bordo della vasca, la testa all’indietro, le ciocche castane
scompigliate, il seno appena nascosto dall’acqua. Prese l’asciugamano che gli
porgeva una serva e se lo avvolse attorno alla vita, mentre la donna ne usava
un altro per tamponare i capelli, prima di pettinarli.
«Avete
intenzione di sfruttare la mia generosità ancora a lungo, lady Neben?» le
domandò, in piedi a un passo dal suo viso, sovrastandola.
Neben drizzò
il capo e si portò la mano sulla spalla, ritrovandosela sporca di sangue. Però
la ferita era quasi completamente rimarginata.
«Se chiamate
generosità strappare la carne dalle ossa della gente, allora non oso pensare
come voi siate di cattivo umore» commentò il demone.
Ancora una volta ha ragione. Peccato che tu
non te la sbatta perché è simpatica, si lamentò Nephas, tornato alla carica.
Nicholas si
liberò delle cure della serva e si accovacciò alle spalle di Neben. L’afferrò
per i capelli e la costrinse a piegare la testa all’indietro.
«Volete
provarlo, nevvero?» le propose, senza allentare la presa davanti alla smorfia
di dolore sul volto della donna.
«Mi accontento
di questo assaggio» rispose Neben, portando le mani ai capelli.
«Mi piace
parlare con donne intelligenti» disse Nicholas, prima di mollare la presa. «E
ora uscite dall’acqua».
Ripeto: antipatico e acido, commentò
Nephas.
Il demone di
Thena si voltò e mise le mani sul bordo della vasca, issandosi fuori
dall’acqua. Si sedette e strizzò i capelli. Un’altra serva le porse un
asciugamano e Neben si mise in piedi, per stringerselo attorno al seno.
Nicholas
seguiva i suoi movimenti impassibile, mentre la giovane alle sue spalle finiva
di pettinare i capelli. Poi ordinò alle due donne di vestire in fretta la
Nobile.
«Dopo, lady
Neben, lascerete questo palazzo» le ordinò, gli occhi d’argento fissi nei suoi.
Il sovrano si
voltò e uscì dalle terme di palazzo, percorrendo il corridoio fino alle scale.
Salì due rampe di gradini di marmo nero, poi giunse al piano delle stanze della
famiglia reale. Erano tutte vuote, a parte la sua e quella di Irene. Ma
Nicholas non aveva intenzione di riempirle con mogli e figli, erano solo
problemi. Arrivò in fondo al corridoio e trovò Cedric in piedi davanti alla
porta dei suoi appartamenti.
Ma perché hai al tuo servizio gente così
ligia al dovere? Non te la meriti, disse Nephas.
Se lo sono, è perché li ho obbligati io a
diventare così, gli fece notare Nicholas.
Con Molko non hai fatto un buon lavoro,
replicò il Primo Infero.
Dici così perché non sai com’era qualche
anno fa. E ora, taci, ordinò il sovrano.
«Entra alla
chiamata Vaenihum» disse Nicholas a Cedric.
«Come
desiderate, Vostra Altezza» rispose il vampiro.
Il Re delle
Terre d’Ombra mise la mano sulla maniglia e aprì uno dei battenti della porta,
entrò e la richiuse alle sue spalle. Nella penombra nella stanza, poté vedere
con chiarezza Vaenihum in piedi davanti al camino a destra, con le mani dietro
la schiena, mentre uno dei divani a destra era occupato da Krados, che aveva
abbandonato il mantello sullo schienale e giocherellava con la catena di una
delle sue falci.
«Bentornato,
milord» lo salutò la spia, sollevando lo sguardo verso di lui.
Nicholas
attraversò la stanza e aprì la porta del guardaroba. Le serve che stavano
mettendo a posto le valigie sussultarono, poi con un inchino gli diedero il
benvenuto.
«Vestimi»
ordinò il sovrano alla ragazza più vicina.
La serva si
affrettò a prendere un completo pulito dall’armadio, mentre l’altra continuava
il suo lavoro. Porse a Nicholas i pantaloni, poi la cintura, infine la giacca,
che gli abbottonò, mentre lui chiudeva i polsini.
Vestito, il re
uscì dal guardaroba passandosi le mani tra i capelli, e si sedette sulla
poltrona vicino al camino. A un suo cenno, Vaenihum fece un giro della stanza e
toccò tutte le porte che si affacciavano nel salotto, creando una barriera che
impediva ai suoni di passare.
Krados si alzò
dal divano e si avvicinò a Nicholas. Fece un inchino e attese il permesso di
parlare.
«Cos’hai da
dirmi, Krados?» chiese il re, il gomito sul bracciolo della poltrona, mentre la
mano gli reggeva la testa.
Il demone
accennò un sorriso. «I Nobili si sono inventati qualcosa di nuovo.
Relativamente» cominciò, incrociando le braccia sul petto. «Appena siete
partito, pensavano di “aiutare” Irene a sposarvi, così lei avrebbe avuto un
debito con loro e alla vostra morte precoce – e violenta – avrebbe concesso ai
Clan di amministrare il paese. Era un’idea idiota e l’ho fatto capire seguendo
la procedura da voi indicata».
«Chi hai
eliminato?» domandò Nicholas, mentre Nephas iniziava a preoccuparsi.
«Gheddo di
Arah, l’idiota che ha proposto a sir Jansen quest’idiozia» rispose Krados.
«Poi?»
«Poi sono
arrivate notizie da Sung’bar, non so come, ma hanno saputo del Consiglio e
hanno pensato di sfruttare l’umana d’Ovest – come si chiama?» continuò la spia.
«Non importa,
vai avanti» lo incitò Nicholas, con un cenno della mano libera.
«Comunque, sir
Bhor’la ha detto che non si fidava e hanno messo da parte l’opzione».
«Hanno risolto
qualcosa, oppure si sono limitati a prendere il the?» domandò il re.
«No, infatti
oggi avevano organizzato una merenda da lady Neben, nella villa in campagna; peccato che mi sia impossibile
raggiungerla» rispose Krados.
«E’ facile
persuadere le serve di una nobildonna, se si è uomini» disse Nicholas.
La spia inarcò
le sopracciglia. «Devo proprio?»
«Il mio non
era un consiglio».
Krados sospirò
e acconsentì. «Eseguirò l’ordine quanto prima». Poi aggiunse: «Alla fine, credo
di aver scoperto qualcosa di importante: sir Thitus ha accennato a un alleato
abbastanza potente da assicurare loro la vittoria. Però non ho idea di chi
possa essere, né sono riuscito ad avere maggiori informazioni».
«E’ una
Divinità» disse Nicholas.
Poi mi spieghi di che utilità ti è una spia,
quando puoi sapere tutto da solo, commentò Nephas, cercando di nascondere
la sorpresa.
Il demone spia
rimase interdetto. Ci ragionò sopra, per un po’, poi lasciò andare le braccia
lungo i fianchi. «D’accordo. Cercherò di capire quale dio è».
Nicholas
annuì. «Altro?»
«No, tutto
qui. Ci sono ordini? Oltre a sedurre le serve di lady Neben, conoscere
l’identità del dio e farmi furbo, intendo» chiese Krados.
Il re accennò
un sorriso. «Hai dimenticato che devi tenere gli occhi e le orecchie aperti».
«Giusto! Che
sbadato» replicò la spia, battendosi una mano sulla fronte. «Posso andare?»
Nicholas fece
un cenno di assenso col capo. Krados s’inchinò e andò a prendere il mantello
dal divano. Poi si diresse verso la porta.
«C’è Cedric di
qua» lo avvertì Vaenihum, in piedi davanti all’ingresso, pronto a togliere la
barriera.
«Vero»
concordò Krados. Girò su se stesso e andò dritto verso la finestra. Spostò la
tenda nera e vide il cielo nuvoloso dietro la stretta finestra. La aprì, si
sedette sul davanzale e, dopo aver rivolto un cenno di saluto al Re degli
Inferi, si buttò di giù.
«Sempre queste
uscite di scena» borbottò Vaenihum, distruggendo la barriera alle porte. «E
solo per arrampicarsi a un ramo e scendere al piano di sotto».
«Chiama
Cedric» gli ordinò Nicholas. «E fammi portare del vino».
L’Elfo andò
alla porta. «Cedric di Lahat, Vostra Altezza vi concede udienza» annunciò fermo
sull’uscio. Poi si spostò, per lasciar entrare il vampiro, e chiuse il
battente, andando a chiamare una serva dalle cucine.
Cedric
raggiunse la poltrona di Nicholas e si inginocchiò davanti a lui. «Ai vostri
ordini, Vostra Altezza».
Ma perché è così servizievole?, domandò
sconvolto Nephas. Frugò nella memoria del sovrano e aggiunse: Gli hai persino fregato la donna, una volta!
Appunto, era solo una donna. Dopotutto è in
vita perché l’ho salvato dalle grinfie del Clan Lahat, replicò Nicholas.
Mhinouke, dai tuoi ricordi, non sembra una
persona così terribile, disse il Primo Infero.
E’ una delle donne più astute che abbia mai
incontrato. La sua aria malaticcia e graziosa nasconde una scaltrezza al di
sopra della norma, spiegò il re.
Perché non l’hai ancora fatta fuori?
Sto aspettando un passo falso. Ho già teso
da tempo la mia trappola, rispose Nicholas, poi smise di dar corda al suo
antenato, per invitare Cedric a far rapporto, con un cenno del capo.
«Vostra
Altezza, in vostra assenza sono stati trovati dei Myurohon nei pressi della
capitale. Abbiamo provveduto a inseguirli ed eliminarli. Ho lasciato il compito
a sir Molko, perché ha insistito per averlo» cominciò il vampiro.
«Lo ha
concluso come si deve?»
«Sì, Vostra
Altezza».
«Allora
prosegui» ordinò Nicholas.
«Stamane, sir
Daniel si è messo in contatto col palazzo. Ha detto di esser partito subito
dopo aver parlato con Mentius; ha detto anche di aver compreso il vostro
messaggio e che si metterà all’opera appena giunto a Borgo Smeraldo» continuò
Cedric, poi guardò il sovrano negli occhi. «Vostra Altezza, posso sapere a
quale messaggio si riferiva sir Daniel?»
«Non è
un’informazione utile a te» replicò Nicholas.
Scusa, figliolo, ma se lui in assenza di
Murthen svolge anche i suoi compiti, perché non dirglielo? Murthen non è al
corrente di quel che fai?, domandò Nephas.
No, Murthen è uno sciocco, si accontenta di
eseguire i doveri che gli assegno, senza fare domande. Per Cedric vale la
stessa regola: niente domande, rispose il sovrano.
Il vampiro
chinò il capo. «Perdonatemi, allora» disse. «Tre giorni fa è arrivata una
lettera dal Regno d’Ovest. Non mi sono permesso di aprirla».
«Passamela».
Cedric infilò
una mano nella tasca della giacca ed estrasse una missiva piegata a metà. La
porse al re, che osservò il sigillo verde con impresso lo smeraldo e le due
spade incrociate. Proprio dalla reggia del Regno d’Ovest. Ruppe la ceralacca e
lesse la lettera.
Borgo Smeraldo, dihe 22, Ghervenri, 3518 henn o II
Chranhenn
A Sua Altezza Lord Nicholas, Re delle Terre d’Ombra,
Infero Perfetto.
Vostra Altezza, le Regine d’Ovest sono liete
d’invitarvi al banchetto del giorno 12, di Kohonri prossimo venturo.
La Vostra presenza allo Smeraldo sarà molto gradita.
I migliori auguri,
la Regina delle Messi d’Ovest, Gran Sacerdotessa di
Zephiro,
Helena dei Lahacilliarum
Nicholas
inarcò un sopracciglio, divertito. E lui che aveva creduto di non rivedere più
Alexya. La stessa cugina della sua vittima gli aveva offerto un’altra occasione
per legare la ragazzina umana a sé. Non se la sarebbe lasciata sfuggire.
«Cedric, puoi
andare» lo congedò il re.
Il vampiro si
mise in piedi, s’inchinò e uscì dalla porta. Si imbatté in Vaenihum, appena
tornato in compagnia di una serva con un vassoio in mano.
«Il vino,
milord» annunciò l’Elfo.
La giovane si
avvicinò al sovrano, silenziosa e con gli occhi bassi.
Portami carta, penna e inchiostro, Vaenihum:
ho un invito cui rispondere, gli ordinò Nicholas, lanciandogli uno sguardo
trionfante, mentre portava il bicchiere di vino alle labbra.
.-.-.-.
Sorprendente, in questa metà nessuna parola di Maholhan. Mi
sarò stufata? No, affatto =D
Ora, ringrazio tutti coloro che hanno commentato, preferito,
seguito o anche solo letto senza lasciar traccia del loro passaggio.
Purtroppo, sono costretta a interrompere l’aggiornamento
dell’Esercito della Fenice, ma continuerò a riscrivere gli ultimi tre capitoli
che mancano e finirò di correggere il resto del primo volume. La mia avventura
con questa storia non è finita ^^
Perciò, spero di avervi fatto divertire e che questo “addio”
non vi deprima troppo *piena di sé*.
Cercherò di postare qualche nuova storia, se in estate riesco a concluderne
qualcuna XD perciò non disperate! *continua ad essere
piena di sé*
Grazie a tutti e un abbraccio,
Kanako
EDIT 18.07.09: Se
dovessi riprendere ad aggiornare l’Esercito, manderò una mail a tutti i lettori
“conosciuti” ^^ Premio fedeltà (ahahah)