Messaggi in Re minore ad un destinatario perduto

di Clockwise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Tempesta ***
Capitolo 2: *** King's Cross ***
Capitolo 3: *** Between the Bars ***
Capitolo 4: *** Fra le righe ***



Capitolo 1
*** La Tempesta ***


Bonne soir, intrepidi avventori.
Storia senza troppe pretese, più uno sfogo che altro. Non so quanti capitoli, punto di vista variabile (un personaggio diverso ad ogni capitolo). 
Avevo intenzione di scrivere della fatidica notte in cui (nel mio immaginario) Mary muore per mano di uno dei tirapiedi di Moriarty sfuggito a Sherlock, ma non ci sono riuscita. Ormai, non riesco a scrivere altro che introspezione, sembra. 
A voi,
-Clock

PS. Sì, mi diverto a fare banner insensati. No, non ho altro da fare. Cioè, in realtà sì, ma facciamo finta di no.

 

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La Tempesta

 
He who fights with monsters might take care lest he thereby become a monster. And when you gaze long into an abyss the abyss also gazes into you.
Friedrich Nietzsche
 
Caro John
Per l'amor del cielo, sembra l'inizio di un romanzo rosa.
John.
Peggio di un telegramma.
Amico mio,
Peggio di Mycroft.
Per la miseria.
 
(Lo scotch di Mycroft è quasi finito. Credevo di averne bevuto di meno.
Beethoven, ho bisogno di lui.)
 
Non sono bravo con le parole, John, lo saprai meglio di chiunque altro. E in questa circostanza suonano vane tutte le parole che io potrei mai rivolgerti. Dio, se penso a tutte le migliaia di inutili e vuote parole che hai ricevuto in questi ultimi giorni...
Potrei non scriverti, lasciare tempo al tempo come suggerisce Mrs Hudson e sperare che “tutto vada per il meglio”. Ma niente andrà per il meglio da sé, a meno che noi non diamo a questo “niente” una spinta nella giusta direzione.
Ma guarda. Ora mi diletto anche di filosofia. Niente è più al suo posto, John.
Amanda sta piangendo. Incubi, probabilmente. Torno subito.
 
(Altro scotch. La campana di vetro va abbattuta, e questo è il sistema più indolore – e squallido, lo riconosco.)
 
Come immaginavo. Non le piace Beethoven, a quanto pare. Non la biasimo. È angosciante, quando vuole. Ma anche passionale. Delicato, a tratti. Estatico, a volte.
Conosci la Sonata numero 17, in Re minore, Opera 31 numero 2, suppongo? Nota dal volgo come “la Tempesta”.
È la mia preferita. Mamma l'aveva suonata, una volta, a Natale. A casa dei suoi genitori, sul loro vecchio pianoforte a muro, un po' scordato. Avevo dieci? Undici anni? Redbeard era appena morto.
Mi sentivo esattamente come la Sonata. È una cosa assurda da dire (metafore, non riuscirò mai a comprenderle fino in fondo), ma è così. Inquieto, instabile, mutevole. Pronto a correre via, all'occorrenza.
Redbeard. Ti ho mai parlato di lui? Ne dubito. Non ti ho mai detto molto su di me. Ho sempre avuto paura. Come ora. Per questo sto bevendo.
È cominciata con Redbeard. Un setter irlandese. Il mio fidato ammiraglio. Il mio unico amico. (Mycroft era troppo grande per giocare con me.) Ero solo un bambino. Forse, diresti, anche piuttosto fragile. (Come sono strane queste parole. Fragile. Un bambino. Neanche fosse fatto di vetro. Eppure è così.)
È morto dopo quattro anni. Una malattia al fegato, non ricordo più. L'abbiamo seppellito in giardino. Io e papà. Gli altri, erano impegnati.
Avevo amato quel cane, infinitamente. Non avevo nessun altro, ed ero pur sempre un bambino. E che cosa ne ho ricavato? Tante lacrime.
Caring is not an advantage. Avrei voluto scolpirmelo sulla tomba: lapide di un uomo che non soffrì mai. Che idiota. Ho sofferto il doppio.
Amanda piange ancora.
Vorrei fare qualche commento sarcastico su di te che ti faccia sorridere controvoglia, ma non me ne vengono.
 
Eccola, è qui con me ora. Se trovi qualche macchia, sai a chi dare la colpa. Non vuole saperne di tornare a dormire. Sta guardando Doctor Who in televisione.
Dobbiamo davvero pensare ad un altra soluzione per la sua stanza. È indegno che io debba fare le scale tutte le volte che salgo da lei. E quando crescerà? Non potrai tenertela in camera per sempre. Potremmo ristrutturare il soggiorno, ricavare una camera da qualche parte... O il 221c? Restaurato, con trattamento anti-muffa. Mrs Hudson controllerebbe che non esca la sera oltre il coprifuoco e che rientri ad orari decenti. O potrei installare una telecamera. O un sensore alla porta. (O potrebbe avere la tua camera, la mia è spaziosa.)
Sempre che voi rimaniate, beninteso. Buffo, l'ho già dato per scontato. Come se ormai tu, e anche Amanda, foste diventati parte dell'appartamento, una clausola nell'affitto – si accludono John e Amanda Watson, prendere o lasciare. (Prendere, sempre prendere, non lasciare mai.)
Ed è ancora più buffo se pensi che, ormai, quest'appartamento sono io. È l'unico posto in cui sto davvero bene, non provo il costante impulso di uscire, scappare via – è stato così per tutta la vita, ho sempre cercato vie di fuga. Dagli altri, dalla mia mente, da me stesso.
Il mio Mind Palace, la sua stanza più nascosta, quella dei ricordi più belli, è uguale a questo soggiorno. Che parla di te, in ogni angolo.
 
Per la miseria.
 
(Devo alzarmi, sgranchirmi le gambe, aspettare che la sensazione – inappropriata, del tutto inappropriata – di calore mi liberi il corpo. Stupido corpo, impietosa chimica.)
 
Dicevo. Redbeard. Non ho imparato subito la lezione. Mi ci è voluto anche Victor, e neanche lui è bastato.
Era rimasto invischiato in un affare di droga e voti regalati. La sua famiglia era influente, lui aveva un profilo piuttosto alto, anche a scuola, all'università. Ci conoscevamo dalle medie, era l'unico che non mi ignorasse o insultasse.
Mi aveva baciato, un giorno. Due giorni dopo, l'hanno ucciso. Non ero stato in grado di prevederli, e l'avrei potuto fare benissimo, ho risolto casi molto più complicati. Ma indovina un po'? Ero stato troppo impegnato ad interrogarmi sui miei sentimenti per Victor, ed i suoi per me. Avevo ventun anni, era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile. Ero spaventato. È questo che i sentimenti mi fanno: paura. Non li capisco, non li controllo. Mi fanno tremare. Ma io sono Sherlock Holmes, consulting detective, unico al mondo, non posso tremare.
Ho giurato sulla tomba di quel ragazzo che l'avrei vendicato, che sarei diventato un uomo migliore – un detective migliore, che non si lascia distrarre, preciso e implacabile.
Ho infranto quel giuramento il maledetto meraviglioso giorno in cui ti ho incontrato, John.
 
(Amanda profuma di buono. Ha fatto il bagno appena due ore fa. John non è ancora tornato. È in ritardo. Ora della cena, devo alzarmi. E versarmi un altro bicchiere.)
 
 
Tua figlia ha decisamente preso da te il suo appetito. Speriamo non anche la tua facilità ad allentare la cintura – anche se ultimamente è tutto il contrario: le cinte si stringono e le guance si incavano.
(E dovresti davvero raderti. Sembri un senzatetto con tutta quella barba.)
Dicevo? (Ci sto davvero prendendo gusto.)
Di quando sono diventato una macchina senza emozioni, votata al solo lavoro, giusto.
Non avrei mai dovuto darti corda, quel giorno (29 gennaio, 2010). Affascinarti, incuriosirti – l'ho fatto apposta. Volevo che tu venissi con me, che diventassi il mio coinquilino. E, magari, mio amico.
Vedi, è proprio questo il problema: mi ero votato al lavoro, solo e soltanto a quello, ma allo stesso tempo desideravo qualcuno, un essere umano con cui passare il giorno – la vita. Che idiozia. Non riuscivo a convivere con la solitudine. Eppure non ero – non sono – fatto per i rapporti umani, non li capisco, mi confondono. Sono stato solo così a lungo – nonostante sembrassi circondato da persone, nessuno, dopo Redbeard, mi era mai stato veramente vicino, ero solo dentro, fino a te. Sempre tu, John Watson.
Eppure, ancora una volta, mi sono lasciato distrarre, non mi sono concentrato su questi famigerati sentimenti, e mi sono gettato da quel tetto e ti ho causato del male per cui non potrò mai scusarmi abbastanza. Se solo mi fossi sforzato di capirti.
E anche stavolta, è stata colpa mia. Avrei dovuto prestare più attenzione al caso più delicato della mia vita, forse avrei potuto evitare la tragedia, invece di autocommiserarmi nel mio appartamento vuoto – fissando la tua poltrona.
È inutile cercare di lenire il dolore con false carezze, blande giustificazioni: renderanno la consapevolezza solo più grave. Per questo sono qui. Mettere a nudo tutti i miei peccati e le mie ombre, presentarti i miei mostri sotto il letto e sperare nella salvezza, nel tuo perdono, per l'ennesima volta.
Sono un uomo debole. Fragile.
I miei incubi sono gli occhi rossi di Moriarty, le mani viscide di Magnussen, una pistola sulla tua tempia, Amanda fredda e immobile come una bambola, gli occhi chiari di Mary quando è morta guardandoti, Redbeard ammalato, Victor che mi volta le spalle, il tuo dito accusatore, il tuo odio, la paura strisciante che ti si arrampica per la spina dorsale, ti fa tremare di freddo e seccare la bocca, ti svuota la mente, le notti lontano da Londra.
(Non ti ho mai parlato di quei due anni, nessuno di noi due l'ha fatto. Forse è troppo doloroso per entrambi.
Ho dovuto uccidere, per la prima volta in vita mia, guardandoli negli occhi, appesantito dalle notti insonni, dai digiuni, dalla tensione, dalla paura, dalla nostalgia, dalla vendetta, dal rancore, dall'odio, dalla solitudine, dalla nostalgia.
Basta, il passato nel passato.)
I miei sogni più dolci sono banali: qui, nel soggiorno. Ci sei tu. A volte c'è Amanda, Redbeard. Addirittura Mary, Molly, Lestrade, Mrs Hudson, mio padre. Odore di tè, pagine polverose e formaldeide. Non facciamo niente. C'è pace. E mi rendo conto che ne ho bisogno, è come respirare dopo una lunga apnea, a volte bisogna smettere di correre. La mia mente è calma – tu non hai idea del frastuono continuo, incessante, faticoso. C'è musica. (Divenire, Ludovico Einaudi. L'ascoltava mio padre, tanto tempo fa, di notte, quando si sentiva solo.)
Sono un uomo molto incline alla dipendenza, dalle cose più svariate – dalla droga, dall'adrenalina, da te, John.
Sono un uomo che si è illuso di aver costruito una fortezza impenetrabile della sua vita, e si è visto crollare il castello di carte al soffio della brezza dell'Est.
Sono un uomo solo, che ha paura della solitudine.
Sono un uomo spaventato, che ha nascosto talmente tanti scheletri nell'armadio da esserne più spaventato di prima.
Perché è questo che succede a far finta di niente, a indossare i paraocchi tutto il tempo: quando cadono, la luce acceca.
Non mi sono lasciato andare a te, la prima volta, e ti ho perso – sono morto, tu ti sei sposato.
Ho cercato di negarmi, di soffocare quel che sentivo – e per una volta lo vedevo con chiarezza – per te, ho sacrificato la mia libertà senza pensarci due volte; ho perso di vista il bersaglio e Mary è morta.
Ti ho causato tanto di quel male. Sei ancora qui, però. Forse non per molto.
Ti capirei se te ne andassi, se non volessi avere più niente a che fare con me. Ma sono l'uomo più egoista su questa maledetta terra. Perché ti chiedo, di nuovo, di assolvermi e di non abbandonarmi. Per favore, John. Sei migliore di me. Sei forte, e buono. E capace di tanto amore, tanto perdono. Sei la persona migliore che io abbia mai incontrato, e mai, mai avrei pensato di potermi trovare in una situazione come questa, col cuore che mi scoppia in petto e non capisco neanche perché, stordito, con le gambe molli e così spaventato.
L'amore che io posso darti è pallido e malato, come un albero cresciuto all'ombra. Se lo accetti, è tuo, in qualunque forma tu lo preferisca.
Non sono più nulla. Solo una voragine che mi scava le viscere.
Aiutami, John Watson. Di nuovo e per sempre.
 
(Passi lenti per le scale. Non ho sentito la porta aprirsi, ero troppo concentrato. Niente campanello: John.
Presto: lettera nel fuoco, bicchiere in cucina. Farò finta di dormire, Amanda con me, così John non farà domande.
È stata una pessima idea.)
 
John si sarebbe accorto di una voluminosa palla di carta appallottolata in un angolo del camino solo il mattino dopo. L'avrebbe raccolta, spiegata, tentato di leggerla oltre la cenere, le bruciature, le parole mancanti e la grafia aguzza e nervosa. Avrebbe tremato, dentro.
Sherlock non seppe mai quanto e cosa John avesse letto. Nessuno di loro parlò mai di quelle parole angosciose.
John rimase a Baker Street, e Sherlock capì.

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Capitolo 2
*** King's Cross ***




King's Cross

 
To look life in the face. Always to look life in the face and to know it for what it is. At last to know it. To love it for what it is, and then, to put it away.
Virginia Woolf
 
Siamo arrivati?
Onestamente, me l'aspettavo diverso. C'è troppa nebbia per essere l'Inferno.
Ma forse non è l'Inferno, forse non esiste.
E allora cos'è?
Oh, mi sento tanto Harry Potter. Certo, però, un Silente potevano pure mettercelo. O un angioletto, un cartello stradale, qualcosa.
C'è una cabina telefonica, o sbaglio? Sì, sì, è una cabina. Non è blu, però. Peccato. E puzza di cane come le cabine vere, purtroppo. Uffa.
Pronto? Pronto-o? In diretta dall'anticamera dell'Aldilà, qui per voi, la sola e unica...
Mary Morstan. Così mi conoscono quelli che mi amano, ma non è questo il mio nome.
E allora qual'è?
Non me lo ricordo, non ha importanza.
Credo di capire a cosa serva questa cabina. Mi domando se funzioni. Proviamo. Devo avere qualche spicciolo in tasca...
Squilla.
Oddio.
Non è facile. C'è così tanto da dire, è un'opportunità preziosa, ho paura di lasciarmela sfuggire...
Ecco.

John.
Ciao. In questo momento probabilmente mi stai sognando, o piangendo per me, o hai stabilito un qualche tipo di contatto. E io sono qui.
Ho così tante cose da dirti, John, ma dovrò limitarmi all'essenziale.
Prima di tutto, mi dispiace. Non di essere morta – da una parte me l'aspettavo, e dall'altra non riesco proprio ad immaginarci come due vecchietti bonari e attempati (saremmo finiti a litigare ogni due per tre e ci saremmo inaciditi e avvizziti come limoni).
Mi dispiace di averti lasciato solo con Amanda. Povero tesoro... So cosa vuol dire crescere senza una madre, e mi spezza il cuore – metaforicamente parlando – sapere che alla mia bambina toccherà la stessa sorte. Ma so che tu sarai un padre migliore del mio, e non la abbandonerai.
Mi dispiace di averti mentito.
In mia difesa posso solo dire che nulla di tutto questo sarebbe dovuto accadere. Dovevo solo avvicinarmi a te, “tenerti d'occhio” mentre Sherlock era “via”, gli ordini erano questi. Doveva essere il mio ultimo incarico – avevo chiuso con quella vita anni prima – più un debito da pagare, in realtà, ad una mia vecchia conoscenza nel giro di Jim. E invece ti ho sposato. Chiamala ironia.
L'interesse che mostravo nei tuoi confronti i primi tempi non era genuino, no, faceva parte della recita. Però, poi, Mary Morstan ha preso il sopravvento sull'agente segreto che c'era sotto, e io mi sono innamorata di te. La terza volta che ci siamo visti, credo. Quando, nonostante soffrissi ancora per Sherlock, sei venuto a portarmi un muffin ai mirtilli, uno splendido sorriso e un tulipano – ti avevo detto che li adoravo appena il giorno prima, e tu te ne sei ricordato – durante la pausa pranzo.
Sono cresciuta praticamente da sola, con i miei due fratelli maggiori, in una città spietata e fredda, e sono diventata come lei, spietata e fredda. Ho lavorato... con la peggiore... feccia di questo maledetto mondo. Dai grandi e potenti in giacca e cravatta dietro scrivanie eleganti ai più infimi ricettatori con il coltello nella cintura e i denti scheggiati.
Ma non voglio parlarti di questo. Sei stato in guerra e hai vissuto con Sherlock Holmes, sai – più o meno – di cosa parlo.
Sappi solo che mi hai resa tu quella che sono. Mary Morstan era soltanto un nome, prima di conoscere te, una maschera. Poi si è fusa con il mio viso man mano che mi affezionavo a te, fino a che non sono diventata Mary Morstan (in Watson). I migliori pregi della donna che hai sposato, la madre di tua figlia, sono in gran parte opera tua.
Mi dispiace per tutto il resto. Non te lo meritavi.
Probabilmente in questo momento mi odierai – hai scoperto che ti ho mentito dal primo giorno in cui ci siamo conosciuti. E lo capisco, davvero. Mi odierei anch'io. Ti prego solo di non contagiare Amanda. Non parlarle di me, ora che è così piccola, ma quando sarà grande e riuscirà a capire, raccontale tutto e lasciala scegliere: se l'avrai cresciuta come io sono certa che la crescerai, capirà e mi perdonerà, anche se ci vorranno anni, esattamente come farai tu.
Raccontale quanto profondamente l’ho amata. È stata l’unica cosa buona che io abbia mai combinato.
Raccontale che ha il mio nome, per dimostrare al mondo che da una peccatrice può nascere un angelo, perché la vita sta nelle nostre scelte, non nel nome che ci portiamo dietro, e che non serve prendersela con il caso o con divinità fittizie.
Capirà, un giorno, che suo padre è l’uomo più buono della Terra, e il suo padrino è il più grande. Sancio Panza e Don Chisciotte.
E io? Non Dulcinea, sicuramente. L’Autore, forse.
Devo andare via, John, il tempo è scaduto, e mi rimane solo un altro quarto, per un'altra telefonata.
Perdonami, sei puoi. E sappi che Mary Morstan ti ha amato.



John si rialzò, spazzolandosi i pantaloni, la schiena dolorante. Tirò su con il naso e rassettò i fiori nel vaso, quindi raddrizzò le spalle e si voltò, diretto verso l'uscita. Aveva un gran mal di testa, ma un inspiegabile sollievo gli alleggeriva il petto.



Cielo, non pensavo potesse essere così difficile. Non ho più voglia di parlare, voglio solo andarmene, qualunque sia la mia destinazione.
Ma non posso, non ancora. Un'altra telefonata.

Sherlock? Sherlock, stacca un attimo quel tuo mirabolante cervello ed ascoltami, solo per un istante.
Non è colpa tua, ti prego credimi.
Il bastardo di Moran, Tom, mi avrebbe trovata comunque prima o poi, e si sarebbe vendicato, con o senza il tuo intervento. Era un pazzo geloso. Se soltanto avesse saputo quanto mi abbia disgustato, a posteriori, la mia relazione con suo padre, anni fa, mi avrebbe compatito, non cercato di uccidermi. Ma era un pazzo, e un fanatico. Il modo in cui ci ha incastrati è... Assurdo. Ed è davvero ridicolo che nessuno di noi si fosse accorto della trappola prima. Siamo stati tutti così ciechi, ciascuno distratto dal proprio tumultuoso universo personale: io e John preoccupati per il nostro matrimonio raffazzonato che rischiava di strapparsi ad ogni piè sospinto, Mycroft occupato a gestire te e un'inopportuna crisi di mezza età (sospetto si sia infatuato di Greg, ma non dirglielo, feriresti il suo ego), tu quasi preda della pazzia, fra il “ritorno” di Moriarty e i tuoi sentimenti soppressi tanto a lungo.
Sì, anche tu, Sherlock. E l'unica cosa che posso dirti è di non lasciarti mai più imbavagliare così. Lascia parlare il tuo cuore, non ignorarlo. Ne soffri, come ne soffre John, come ne soffriamo tutti noi.
E a proposito di John, tendigli la mano. Liberalo del rancore e della rabbia che prova, prima che sedimentino in lui, o non sarà mai più in grado di amare. E amare è la nostra unica salvezza.
Cielo, come sono diventata sdolcinata. Date le circostanze forse è comprensibile, ma io sono stata addestrata tutta la vita ad essere impassibile e impermeabile, per la miseria.
Questa cabina puzza sempre di più e si sta formando una discreta fila, là fuori. Santo cielo, cosa sarà successo? Vado a curiosare.
Stammi bene, Sherlock. Dai un abbraccio a Mrs Hudson, un fiore a Molly, un cerotto alla nicotina a Lestrade – deve assolutamente perdere il vizio –, una fetta di torta a Mycroft, un bacio ad Amanda e a John soltanto un abbraccio (siete peggio di due iceberg, è probabile che arrossiate anche solo così. E lui è ancora in lutto, non fargli venire dubbi e domande con dimostrazioni d'affetto più esplicite. Oh, probabilmente sei arrossito, quanto darei per vederti).
Vivi una vita di cui andare fiero, Sherlock: fai in modo di non dover telefonare a nessuno, di non dover lasciare messaggi dell'ultimo minuto.
Ti tengo il posto accanto a me, ciao, ciao.



Sherlock si svegliò di soprassalto nel soggiorno vuoto, con un brutto torcicollo. Sbatté le palpebre, massaggiandosi il collo, e si guardò intorno, cercando di capire quanto fosse durato il suo sonno imprevisto. Sentì dei rumori in cucina e allungò il collo, scoprendo John intento a preparare il tè. Dedusse dalle leggere impronte di fango sul pavimento che era stato al cimitero, eppure sembrava piuttosto tranquillo.
Gli porse il tè con un mezzo sorriso e una battuta sul suo pisolino.
Sherlock rispose pungente, con un leggero sorriso che gli addolciva il volto.


 


Io adoro Mary. Ma ho paura di non essere in grado di mostrarlo abbastanza. Sicuramente non le rendo la giustizia che si merita. Vuol dire che ci riproverò (non vi libererete facilmente di me!)
Grazie, se avete letto fin qui, e grazie alle belle personcine che hanno recensito, inserito fra preferite/seguite/ricordate.
A presto! =)
-Clock

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Capitolo 3
*** Between the Bars ***


Between the bars
 

Too much love will kill you
It'll make your life a lie
Yes, too much love will kill you
And you won't understand why
You'd give your life, you'd sell your soul
But here it comes again
Too much love will kill you
In the end.
Queen, Too Much Love Will Kill You



(Ok. Il laptop è acceso, sono pronto.
Mh, no, ci vuole del tè, prima. Assolutamente. Il tè è una priorità.)

(Ok. Ora posso farcela.
Dovrei controllare Amanda.)

(Si era svegliata. Ora sta giocando con i pupazzi qui sul tappeto. Forse Mrs Hudson ha bisogno di aiuto per mandare fuori la spazzatura...
No, basta. Sto tergiversando.
Iniziamo.)

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(Ok. Inspira. Espira. Possiamo farcela.)





L'ultimo post di questo blog risale a quasi due anni fa, e l'aveva scritto Sherlock, il giorno del mio matrimonio. Dopo, dire che le cose sono precipitate sarebbe usare un eufemismo.

Mia moglie si è rivelata non essere la dolce e divertente infermiera che credevo, quanto piuttosto un'agente segreto “in pensione”, collaboratrice, in passato, tanto della CIA quanto di Jim Moriarty. Un cecchino dalla mira infallibile, per di più. Pensate, aveva sparato a Sherlock centrandolo appena sotto il polmone sinistro, il punto perfetto tra la morte sicura e una probabile guarigione. Ovviamente, aveva mirato a quel preciso punto, perché non voleva certo uccidere il migliore amico di suo marito; ferire gravemente poteva bastare per sfuggire dalla spiacevole situazione in cui ci eravamo venuti a trovare (lei con una pistola alla testa di Magnussen, io e Sherlock appena infiltrati nel suo ufficio).
La conseguenza di questo sono state diverse settimane di separazione – il mio vecchio letto a Baker Street non era stato toccato da nessuno fuorché la polvere (ho il vago sospetto che ci abbia dormito anche Sherlock, c'era un odore diverso sulle lenzuola, ma è solo un sospetto) – fino a che Sherlock non ci ha praticamente costretti a tornare insieme – Natale tutti insieme a casa Holmes, testimoni della perfetta armonia domestica dei genitori di Sherlock, un tocco di classe.
L'ho perdonata, certo che l'ho fatto.
Ero felice con Mary, davvero. Nonostante non sapessi il suo vero nome, né chi veramente fosse stata prima di conoscere me, non mi importava, ed ero felice. La donna (agente segreto, spia, assassina, quello che volete) di un tempo era stata sostituita da Mary Watson, ed era di lei che ero innamorato. Quindi andava bene.
Ma a quanto pare qualcuno non era d'accordo.

Chi di voi era stato al mio matrimonio forse si ricorderà dell'inquietante fidanzato di Molly – la copia brutta di Sherlock; quello del “pugnale di carne”, per essere precisi, Tom Baker. Io e Sherlock lo abbiamo incontrato di nuovo, mesi dopo, in una bizzarra rappresentazione di Re Lear (con la partecipazione di circa metà dei senzatetto di Londra, Irene Adler rediviva e un consumato attore famoso di cui non avevo mai sentito parlare che hanno tentato di avvelenare sul palco. Oh, e mia moglie è volontariamente andata in shock anafilattico mangiando noccioline, a cui è


(Dio.)

era allergica, perché gliel'aveva chiesto Sherlock “per il bene del caso”. Ordinaria amministrazione. Allora.)
In ogni caso, Tom Baker interpretava Edgar/Tom il matto. E direi che il ruolo gli calzava a pennello.
Tom era, in realtà, il figlio illegittimo di Lord Sebastian Moran, braccio destro di Moriarty. Sherlock l'aveva ucciso, dopo aver finto il suicidio, ma non sapeva nulla del figlio. Il quale si era avvicinato a Molly – povera Molly, sembra assurdo – perché supponeva che lei conoscesse il nascondiglio di Sherlock. Ha rotto con lei quando i suoi fini sono diventati altri. Per la precisione: riportare in vita la rete di Moriarty e vendicarsi di Mary.
Ammirava e amava tanto quello psicopatico, da volerlo in qualche modo resuscitare. Come? Mettendo Sherlock a centro della scacchiera. Chi se non la mente più brillante del secolo, logicamente?
Per quanto riguarda Mary, la sua vendetta era strettamente personale. Lei, infatti, aveva avuto una relazione con Moran e Moran aveva dedicato molte più attenzioni a lei che al figlio, all'epoca solo un ragazzino “di troppo”.
Mi faceva pena, se non fosse che era più psicopatico di Moriarty e che ha causato la


(Dio.)

morte di mia moglie.

E, fra l'altro, ho scoperto anche che Mary non era venuta da me, la prima volta, spinta da curiosità o interesse per il dottore di mezza età a cui aveva sorriso in corridoio, no: era venuta a lavorare alla mia clinica e si era avvicinata a me perché un suo vecchio collega – e collega di Moriarty, ma Mary, a quanto ho capito, era una specie di freelance – le aveva chiesto di scoprire quanto poteva su Sherlock Holmes, se veramente era morto, dove si nascondeva e così via. E chi meglio del suo vulnerabile migliore amico in lutto? E io ci sono cascato con tutte le scarpe, come al solito.


(Altro tè. Corretto, magari.)

Io e Sherlock l'abbiamo scoperto appena prima che morisse, non sono mai riuscito a parlarne con lei.
Per diverso tempo non sono neanche riuscito a guardare in faccia Amanda, nostra figlia, senza provare un giramento di testa e un principio di nausea. Le assomiglia così tanto. Non solo fisicamente, anche perché è ancora molto piccola, ma è vivace, sveglia e curiosa, esattamente come Mary. E ha il suo nome.
Mary me lo aveva rivelato pochi giorni prima di


(Respiro.)

andarsene. Sherlock era corso via ad indagare su chissà cosa all'improvviso, piantando in asso tutti e tre a Baker Street. Le iniziali di Mary erano A.G.R.A., me le aveva rivelate dopo aver sparato a Sherlock. E mi ha detto, così, all'improvviso, che Amanda portava il suo nome, che le dispiaceva di non avermelo detto prima, ma che per lei era importante. Ricordo di essermi arrabbiato, un po', ma non gliel'ho detto, ho fatto finta che non fosse un problema. Forse voleva essere un bel gesto, le sue intenzioni non erano sicuramente malvagie, ma mi ha ferito.
Amanda è colei che deve essere amata e porta il nome della persona a cui avevo giurato amore eterno senza veramente conoscere neanche il suo nome.

Mi sembra che tutta la mia vita sia stata un susseguirsi di eventi e di persone che mi hanno trascinato nei loro uragani senza che io potessi farci nulla. È stato così dopo l'Afghanistan, dopo Sherlock, è così dopo Mary. E sono davvero stanco.

Sto migliorando, però. Quando sono tornato dal cimitero, l'altro giorno, ero molto più tranquillo del solito. Suppongo che odiare non porti a nulla. Anzi. Ho amato Mary, profondamente, e, per il bene di Amanda, devo ricordare cosa ho amato di lei, dimenticando le brutte avventure, dimenticando il rancore. Racconterò, ad Amanda, della bella infermiera bionda che mi sorrideva in corridoio; lascerò l'agente segreto a quando sarà molto più grande, e potrà capire – e io potrò capire con lei. Perché l'ho amata.


(Il maledetto tè è finito.)

Ma se non fosse stato per Sherlock, non so davvero che fine avremmo fatto, io e Amanda.
Sherlock, che ci ha accolto a Baker Street senza dire una parola, ha organizzato il funerale al posto mio, ha evitato di mostrarmi i messaggi di condoglianze inappropriati e ha allontanato le persone che non volevo vedere (ovviamente, senza chiedere nulla, lui sa prima che io abbia anche solo formulato il pensiero); Sherlock, che si è occupato di Amanda, portandola al primo posto, a discapito di sé stesso e dei suoi casi, delle sue occupazioni; Sherlock, che poi si è occupato anche di me, mi ha dato una mano a venire fuori da tutto quanto. Senza Sherlock, Amanda probabilmente non avrebbe mai sentito di avere un padre.
E ora, non sarebbe sbagliato dire che ne ha due. Glielo devo, per tutto quello che ha fatto per noi. Ed è inevitabile, gli si legge negli occhi quanto le voglia bene, ed è una visione che scalda il cuore.
E poi quei due sono inseparabili. E molto simili, anche. Iperattivi, incredibilmente curiosi, dai ritmi allucinanti e con una spiccata passione per tutto ciò che non possono fare. Devo solo fare in modo che Amanda non diventi anche capricciosa e volubile come Sherlock (che sa essere molto più infantile di lei).

Sono così simili. È inevitabile anche che io li ami entrambi più di quanto non riesca ad ammettere, giusto? Più di quanto non riesca a dimostrare, anche, a dire. A capire. Li guardo, e dimentico qualunque altra cosa – Mary, il latte che manca, qualunque sciocca preoccupazione mi passi per la testa: guardo loro due e sorrido, senza pensarci.
Sherlock ha ragione, sono un terribile romanziere: non riesco a scrivere due parole sui miei sentimenti senza farmi venire il mal di testa. (Non è lui quello che ha problemi con queste cose.) Forse, ho troppa paura di scoprire cosa provo davvero: ultimamente, la verità si è rivelata un fardello pesante, che avrei preferito ignorare. Ma tanto Sherlock non leggerà mai queste righe, quindi tanto vale scriverlo.

Ti devo tutto, Sherlock, senza mezzi termini. Non so chi tu sia per me – è sempre stato difficile stabilirlo, per noi due: sicuramente, la persona più importante sulla terra, la mia àncora, la mia medicina. La mia casa.
Vorrei, credimi, vorrei davvero... provare di nuovo quello che provavo un tempo ed avere più coraggio e meno ritegno, essere in grado di esplorare quel sentimento inespresso, mai nato. Ma è tutto così complicato, adesso.
Ho bisogno di te, più di quanto voglia ammettere. Ma tutto quello che posso darti è questo misero spaventapasseri bucherellato. Forse, in mezzo alla paglia, è rimasta qualche goccia d'amore; se la vuoi, è tua.
Non credo che riuscirò mai a


«John?»

(Porca puttana. È lui. Non l'ho sentito arrivare. Spegniti, spegniti...)

«Sherlock! Come mai così presto?»

(Non convinco nessuno, tanto per cambiare. È sospettoso.)

«Molly mi ha cacciato via, aveva un appuntamento. Con Lestrade, ti pare vero? Buonasera, Amanda, non sei ancora a letto?John, perché non è ancora a letto? È il tuo blog, quello?»
«Cos-? Oh, hem, s-sì, stavo giusto...»

(Spegniti, spegniti... Porca troia, ho pubblicato per sbaglio. Merda...)

«Eh... C'è un problema con... il Wi-Fi credo, non prende bene...»

(Sto sudando freddo. Per l'amor del cielo...
Sta prendendo il suo portatile. Non voglio vedere la sua faccia, è troppo. Prendo in braccio Amanda.)

«In ogni caso, non importa. Allora i-io, noi, hum, andiamo. B-buonanotte.»

Sherlock mugugnò una risposta e corrugò le sopracciglia, entrando nel profilo di John senza tanti problemi (come si fa ad avere una password ridicola come “blacktwosugars”?). C'era un nuovo post, che non aveva ricevuto ancora nessuna lettura – per fortuna, era stato chiaramente pubblicato per sbaglio.
Si accigliò ancora di più, scorrendolo rapidamente, senza soffermarsi troppo a leggere, il cuore che accelerava, impietoso, e doleva, sanguinante.
Lo cancellò velocemente, prima che altri potessero conoscere il cuore oscuro e tormentato di John Watson; quello doveva essere un suo esclusivo fardello e privilegio.
 








Il blog di John è una lettura... interessante (*detto con la voce sexy e ombrosa di Sherlock*). E l'ultimo post è semplicemente fantastico (e davvero c'è gente a questo mondo che si mette a scrivere blog del genere, con i post, i commenti e tutto...)
Buooonasera!
Between the Bars è una bellissima canzone di Elliott Smith; i Queen sono risultati sorprendentemente azzeccati, casualmente.
Penultimo capitolo, ladies and gents. Grazie di cuore se siete arrivati fin qui, grazie ancora a chi recensisce/segue/preferisce ecc <3
Adieu, e che Moriarty sia con voi (meglio con voi che contro di voi, suppongo).
-Clock

 

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Capitolo 4
*** Fra le righe ***


Fra le righe

 
Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l'anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa.
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente

 
Capitolo 17.
Il dilemma del porcospino

Bisogna che oggi l'Amore rimanga nel mio cuore; come farò, altrimenti a vivere fino a stasera?
Oscar Wilde, De Profundis

Le luci si alzano e illuminano Hamish, seduto per terra al centro del palco. Tiene lo sguardo verso l'alto, come riflettendo.
William, a lato, incrocia le dita, sperando di aver scelto le parole giuste.
«È tutto finito ora, suppongo. La fine di uno spettacolo è arrivata quando annusi il profumo della morte.
E lei è morta
Grace non è morta davvero, come ha fatto credere a tutti loro: in realtà è scappata – al momento si trova in Norvegia e si fa chiamare Elizabeth.
«E io?
Cosa sono, io?
Un'ombra su un palcoscenico, trascinato sulle onde di eventi che non controllo.
Sono fatto di parole,
effimere,
fuggevoli,
incostanti parole.
Ombre, anch'esse
Sogghigna.
«Non lo siamo forse tutti?
Non siamo forse tutti creature di inchiostro che si nutrono di carta?»
Hamish si alza, le mani in tasca. Avanza al centro del palco come se stesse parlando con qualcuno. A un cenno di William, dei fogli di carta stampata – spartiti, pagine di libri, illustrazioni – vengono fatti volteggiare sul palco, lanciati dall'alto.
«Devo odiarla, perché è morta?
No. A che servirebbe? È morta, non se ne fa niente del mio odio.
Mentre io mi guasto, e marcisco dentro.
Bisogna fare spazio all'Amore, o non arriveremo fino a stasera.»
William può vedere gli occhi di Hamish diventare più scuri. Non sta più recitando.
«Far spazio all'Amore...
E al perdono.
Perdono per me stesso, per lei, per lui.
Lui, che mi ha salvato, nonostante tutto.
Che continua a torturarmi, qui dentro.
Non riesco a perdonargli di avermi sconvolto la vita, suppongo.»
Hamish stringe i pugni, una stilla di rabbia, che sicuramente non appartiene al suo personaggio, trabocca nella sua voce.
«Ci sono tanti di quei demoni, nel nostro passato.
Eppure.
Devo far spazio all'Amore!
So che me ne è rimasto un po', da qualche parte.
Sarà diventato amaro, dopo tutto questo tempo.
Eppure.
Perdonare è amare. Dimenticare è una medicina.
Per andare avanti, è l'unico modo
William abbassa il capo, facendo cenno agli altri attori di entrare. Questi avanzano lentamente fra le ombre in fondo al palco, come fantasmi.
«Il rancore ci imprigiona, ci costringe a restare ancorati al passato.
Amiamo, e tendiamo una mano avanti.»
Luci, sipario.
Il soffitto è scosso da applausi.

William è strattonato per la camicia. Si volta, perplesso e un po' seccato – gli attori stanno per salire e salutare il pubblico, e anche lui deve prendersi la sua parte di applausi. Hamish lo guarda, furente.
«Grace. È davvero scappata? Mi ha lasciato ed è scappata? Non è morta?»
William scuote la testa.


(Perché è scappata? La storia con Hamish e William non basta. Non è nemmeno così importante, a questo punto, però devo rivelarlo, ho fatto patire questi due per sedici capitoli per colpa sua!
Non ne ho idea. Sarà meglio chiedere.)

«Papà? Che cosa può spingere una persona a cambiare nome e nazionalità all'improvviso senza dire niente a nessuno, facendo credere a tutti di essere morta?»
Sherlock sollevò lo sguardo dal microscopio, pensieroso.
«Dettagli.»
«Donna, intorno ai 30 anni, attrice teatrale, aveva lasciato il ragazzo perché sospettava che lui non l'amasse veramente, come è vero, lui ama un altro ma ancora non lo sa. Finisce in Norvegia.»
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale della sedia, corrugando le sopracciglia. John si sporse per guardare sua figlia dalla sua posizione davanti al lavandino e a un mucchio di patate.
«È ancora per quella storia che stai scrivendo? Non ti sembra di starle dedicando un po' troppo tempo? Hai degli esami fra due mesi, signorina.»
Amanda incrociò le braccia al petto, indispettita.
«Questa storia è il preludio ai libri che mi porteranno fama e gloria, in futuro, e un premio Nobel. Vale ben più di qualche stupido esame.»
John sorrise scuotendo la testa mentre Sherlock si alzava con un movimento fluido, avvicinandosi alla libreria.
«Queste inclinazioni artistiche sono preziose, John. Non si dovrebbero mai tarpare le ali alla gioventù.»
«Non le sto tarpando le ali, sto solo dicendo...»
«Se non avessero tarpato le mie, a quest'ora sarei stato un ballerino di danza classica famoso in tutto il mondo» affermò, estremamente serio. John sollevò le sopracciglia, divertito.
«Tu ballerino? E da quando...?»
«Sei un pessimo osservatore, John» commentò Sherlock, voltandosi verso di lui con una graziosa mezza piroetta. «Saresti probabilmente diventato un pessimo giornalista, se avessi assecondato le tue inclinazioni.»
Amanda ridacchiò.
«Grazie. Ma, vedi, non ci saremmo mai incontrati, allora.»
Sherlock sollevò un sopracciglio, frugando fra i libri.
«Oh, sì, invece. Un aspetto curioso del giornalismo è che non sai mai chi ti capiterà di intervistare.»
John rise.
«Non mi daresti tregua, eh? Neanche in un universo parallelo.»
Sherlock gli indirizzò un mezzo sorriso dei suoi, allungando un fascicolo al Amanda.
«Figlio indesiderato da qualcuno di compromettente. Buona scrittura.»
Amanda sorrise e tornò al 221c saltellando.

(Figlio indesiderato, sì, può essere plausibile.)

«Aspettava un figlio e, considerati la sua posizione e il padre, non era proprio auspicabile che rimanesse qui, o sarebbe scoppiato uno scandalo. E poi, suppongo temesse la tua reazione.»
Hamish non ha il tempo di reagire che il resto degli attori spinge lui e William sul palcoscenico, a bearsi dell'acclamazione degli spettatori in visibilio.
Riescono a parlare solo molto più tardi, quando il teatro è ormai vuoto, salvo cartacce e un paio di uomini del servizio di pulizia.


«Amanda!»

(Apro la porta e mi affaccio in corridoio, sospirando.)

«Sì?»
«La cena è pronta fra venti minuti, la tua presenza sarebbe gradita!»
«Non tarparle le ali, John.»
«La cena è un pasto importante! La sua storia potrà aspettare.»
«Sei la persona meno artistica con cui abbia mai avuto a che fare. E sono cresciuto con Mycroft
«Sarà stata la convivenza con un sociopatico di mia conoscenza... Sherlock Holmes, era forse una linguaccia, quella?»

(Meglio chiudere. Diventano imbarazzanti dopo un po'.)

«I could be bounded in a nut-shell, and count myself a king of infinite space, were it not that I have bad dreams1.»
«Non sono davvero sicuro che tu possa stare su quel palco.»
Hamish è esausto, William se ne accorge alla prima occhiata.
«Rilassati, non c'è nessuno. E non si può dire di no ad Amleto
Hamish avanza lungo la platea con le mani in tasca e gli occhi piantati in quelli dell'altro, recitando pensieroso.
«Doubt thou the stars are fire,
Doubt that the sun doth move,
Doubt truth to be a liar,
But never doubt I love2.»
Si ferma davanti al palco, i pugni stretti e lo sguardo fisso sulle assi.
«È così? È davvero così, Hamish?»
La voce di William non trema, per quanto scosso egli si senta dentro – sconquassato da un vorticoso terremoto interiore.
Hamish alza la testa e lo guarda. Il cuore gli batte all'impazzata, e si ritrova a pensare, con la lucidità di chi non ha più nulla da perdere, che i loro ruoli si sono invertiti: di solito, è lui quello sul palco a parlare parole d'altri, mentre William lo guarda da sotto in su, monitorando le sue mosse perché siano fedeli al copione che ha scritto e alle indicazioni che, come regista, ha preteso.
«Words, words. They're all we have to go on3» mormora Hamish, abbassando di nuovo gli occhi.
«Sarebbe anche ora che smettessimo di giocare, non credi?» propone William, amarezza che gocciola da ogni nota nella sua voce. Hamish annuisce.
«Non sono mai stato molto coraggioso, William, lo sai meglio di me. È per questo che sono diventato un attore, per rifugiarmi dietro le parole di altri. È molto più semplice.»
«Ma io non le voglio. Voglio...» avvampa all'improvviso e tace. Hamish solleva lo sguardo verso di lui, una scintilla quasi ferina negli occhi scuri.
«Cosa? Cos'è che vuoi, William? Dimmelo, per una volta, finalmente, dimmelo
William trema, ma non può più negarsi.
«Te
È appena un soffio nell'aria pesante del teatro vuoto, un riverbero sulla pelle di Hamish, che rabbrividisce.
I suoi occhi torturano William, sfavillando come pietre scure sotto la violenta luce artificiale del palcoscenico. Abbassa lo sguardo, sconfitto.
«Mi dispiace.»
Rialza gli occhi, stupito. Il volto di Hamish è disteso, illuminato d'oro da un faretto dimenticato nell'angolo.
«Non sono mai stato in grado di essere del tutto chiaro, con te. Ho lasciato sempre tutto a metà. Io...»
«Una volta, hai detto di amarmi.»
Hamish fa una smorfia di stupore.
«Sono passati quasi dieci anni! E tu eri completamente ubriaco.»
«Posso evitare di studiare Seneca, ma non dimenticherei mai questo.»
Hamish sorride, lusingato.
«Sì, era così. Poi te ne sei andato, senza dirmi nulla; pensavo non volessi più avere niente a che fare con me. Ed è arrivata Grace. E l'amavo. Ma non amo te allo stesso modo.»
«Grazie a Dio reciti quello che scrivono altri» commenta William, in un'eco del suo solito sarcasmo. Hamish gli indirizza un'occhiata di divertito rimprovero.
«Quello che voglio dire... è che le cose sono cambiate. Quello che provo per te non è romantico. E non è nemmeno un affetto da amici, è qualcosa che va oltre. Non credi?»
«È Amore.»
«Con la maiuscola, sì. Non credo di poter provare qualcosa del genere per nessun altro. Ti sono devoto, e fedele, e penso di non poterti vivere lontano.»
«Credo che dovremmo diventare coinquilini.»
Hamish solleva un sopracciglio, sorpreso.
«Buona idea.»
«Non porteremo mai la nostra relazione ad un livello romantico, suppongo, né tantomeno fisico. Lo sai, non me la cavo bene in quel tipo di relazioni.»
«Non potrei chiedere altro» sorride Hamish. William annuisce, con un sorriso sghembo dei suoi.
E capisce, mentre Hamish lo stringe in un abbraccio che hanno atteso troppo a lungo, che non c'è altro posto in cui possano stare.
Al di là di qualunque cosa, in qualunque situazione si trovino, in epoche lontane o in universi paralleli, sotto qualunque forma o nome, Hamish e William dovranno stare insieme. Di legami come il loro ne esistono pochi, poche sono le persone che riescono a trovarsi e a incastrarsi così perfettamente, nonostante i casi, nonostante gli ostacoli.
«Ma esiste davvero?» sussurra Hamish, senza sciogliere l'abbraccio. «Questa cosa, questo Amore. Può esistere davvero?»
William lo stringe a sé, incredulo di averlo lì, fra le braccia, caldo e vivo e palpitante, dopo tanti anni di sogni, ferite e fiumi di inchiostro e parole polverose.
«Siamo a teatro, Hamish. Tutto può esistere.»
Ed Hamish si sente a posto, finalmente. Un languido senso di colpa gli annacqua le viscere, al pensiero di Grace – aveva davvero creduto di avere qualcosa, con lei – ma questa, si dice, è tutta un'altra cosa, non ha a che vedere con lei, che ricorderà sempre, senza più rancore. William... È il sole intorno a cui ruota, non può farci nulla. Ha provato a vivere senza di lui, e non ne è uscito fuori granché bene.
A nessuno dei due è rimasto molto da dare: ma quel poco che c'è va ceduto, basta battaglie. Bisogna fare spazio all'Amore, non c'è altra scelta, in qualunque forma esso si presenti.
Come farò, altrimenti, a vivere fino a stasera?


(È finita. È finita davvero.)

«Amanda! La cena è pronta! Scriverai il tuo capolavoro un'altra volta.»
«Vengo!»
«John, passami quel sacchetto di lingue. Accanto ai cetrioli.»
«Per l'amor del cielo, Sherlock! Sto per mangiare!»
«E io sto per risolvere un caso di omicidio, ora passami le lingue. Oh, Amanda, finito il tuo lavoro?»
«Sì, sembra di sì. Che c'è per cena?»
«Lingue
«Oh, John, smetti di brontolare. Le ho anche etichettate, casomai dovessi scambiarle per qualcos'altro.»
«Non sono così idiota, Sherlock. E sono un medico, so riconoscere delle lingue umane.»
«Eh, già. Il mio idiota preferito.»
«Sherlock
«Volete smetterla? Siete stomachevoli, voi e le vostre battutine da flirt al pub.»
«Amanda, stai condensando gli ultimi vent'anni di me e John in un flirt da pub? E poi, John flirtava con me da Angelo, la prima sera che l'ho conosciuto, non in un pub.»
«Non stavo flirtando!»
«Papà sei arrossito!»
«Sherlock, io ti uccido.»
Come potrei vivere senza di te?

«Un'impresa non da poco. Buona questa zuppa, John.»
Non potresti.
E, paradossalmente, il tuo essere e la tua pessima cucina sono ciò che tiene in vita me.

«Grazie
Tu e i tuoi complimenti. Sono quasi lusingato.

«Era altamente ironico.»
Non c'è bisogno di altre parole, John.

«Sherlock. Smetti di sghignazzare.»
A noi non sono mai servite troppe parole, Sherlock.


(No, forse non è finita.
Forse, la loro storia è destinata a continuare ancora per secoli, celata sotto altre vesti e altre parole. Storia antica, in fondo, scritta ai margini e fra le righe, di un silenzioso amore multiforme.)








 
1 Shakespeare, Amleto
2 Sempre Amleto
3 Tom Stoppard (l'uomo che ha sceneggiato Parade's End, una miniserie dove, guarda i casi della vita, recita il Cumberbaccio nel ruolo di un piagnone inglese con una brutta pettinatura), Rosencrantz and Guildenstern are dead (toh, guarda, personaggi da Amleto)





E anche stavolta, siamo alla fine.
Grazie immensamente a chi mi (ci) ha seguita fin qui, ai preziosi commenti ed opinioni. Spero di non aver deluso nessuno, è stato un capitolo faticoso. 
E' stato un bel viaggio, ma era ora che finisse.
Adieu, e buona estate =)
-Clock

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