Ombre nella nebbia

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sei proprio sicura di voler sposare questo pazzo? ***
Capitolo 2: *** Quanto è grossa questa cosa, Steve? ***
Capitolo 3: *** Glielo giuro sul mio distintivo: lo prenderò ***
Capitolo 4: *** L'amore è cieco ***
Capitolo 5: *** Vada per il diversivo ***
Capitolo 6: *** Eccola qui la notizia bomba! ***
Capitolo 7: *** Non avevamo scelta ***
Capitolo 8: *** Avrei voluto che andasse diversamente ***
Capitolo 9: *** Ogni minuto è prezioso ***
Capitolo 10: *** Steve, ci sono novità ***
Capitolo 11: *** Cioè... tu possiedi un'isola? ***
Capitolo 12: *** Resta con me ***
Capitolo 13: *** Io ti ho tradito ***



Capitolo 1
*** Sei proprio sicura di voler sposare questo pazzo? ***


Alla fine di Makani ci eravamo lasciati
con Steve che chiede a Nicole di sposarlo.
Ora sono passati alcuni mesi
e siamo arrivati al lieto evento.
Buona lettura!

 


Gli invitati avevano cominciato ad arrivare da circa un’ora e in quel momento si aggiravano per il giardino, salutandosi e chiacchierando tranquillamente.
Nicole scostò la tenda per sbirciare di sotto. Il sole basso bagnava di morbida luce tutto il giardino che per l’occasione sua madre aveva fatto curare più del solito. Il servizio catering stava servendo l’aperitivo agli ospiti che continuavano ad arrivare e che si accostavano ai tavoli sparsi sull’erba.
Mentre Nicole se ne stava con il naso incollato alla finestra, una Rolls Royce bianca varcò il cancello spalancato e si fermò sotto il portico.
«È arrivata la macchina» esclamò Nicole, dimenandosi inquieta.
«Se stai ferma forse riusciamo a prepararti prima che il comandate McGarrett cambi idea» la rimproverò sua madre che era alle prese con i minuscoli bottoncini sul retro dell’abito.
Finalmente Iolana allacciò l’ultimo bottone e si scostò. Fece due passi indietro per guardare sua figlia, la testa piegata da un lato.
«Sei splendida» constatò con gli occhi lucidi.
«Non piangere, mamma. Altrimenti piangerò anche io e rovinerò tutto il lavoro di Summer».
«È escluso» intervenne l’amica. «Ho usato prodotti resistenti all’acqua. Però sarebbe un peccato far arrossare quei tuoi splendidi occhi viola».
Kono controllò l’orologio. «Nicole, credo sia tempo di scendere».
Cynthia l’aiutò ad indossare il coprispalle di pizzo e glielo sistemò.
Summer era amica d’infanzia di Nicole. Erano cresciute insieme e Nicole la considerava la sorella che non aveva avuto. Ma lo stesso poteva dire per Kono e Cynthia, sebbene le avesse conosciute molto più recentemente.
La prima l’aveva vista per la prima volta meno di un anno prima quando il Governatore Jameson le aveva chiesto di entrare nella sua speciale task force, denominata Five-O.
Cynthia era la moglie di Elliot Reeds, uno degli amici più cari di Steve. Elliot aveva un’agenzia di guardie del corpo. Steve l’aveva contattato in passato per tenere sotto sorveglianza Nicole che aveva subìto delle minacce. Era stato in seguito a quell’episodio che Nicole aveva cominciato a frequentarli e le due donne avevano stretto subito una stupenda amicizia.
Nicole aveva chiesto a Summer, Kono e Cynthia di farle da damigelle e le tre donne indossavano l’abito che avevano scelto insieme. Si trattava di un abito lungo color mattone con sfumature dorate che si sposava benissimo con l’incarnato abbronzato di Summer e Kono e faceva risaltare la carnagione più chiara di Cynthia. L’abito era stretto in vita da una fascia dorata e lasciava scoperto il decolleté e la parte alta della schiena. Nicole aveva chiesto che durante la cerimonia le amiche si coprissero con uno scialle di seta. Anche Iolana era vestita allo stesso modo e con il suo fisico giovanile non sfigurava di certo nei confronti delle ragazze.
Nicole seguì le quattro donne giù dalle scale. Quando amici e parenti la videro comparire sullo scalone, cominciarono a batterle le mani e continuarono finché non ebbe sceso la scala.
Suo fratello Alex si avvicinò e le baciò la guancia.
«Sono emozionato, lo sai?» le bisbigliò.
«A chi lo dici» replicò lei con un sorriso nervoso.
Gli invitati cominciarono a dirigersi verso le proprie auto mentre Nicole si accomodava sul sedile della Rolls e Cynthia l’aiutava a sistemare il vestito. Alex salì davanti, assieme all’autista, mentre sua madre e le damigelle presero posto a bordo della berlina nera che avrebbe preceduto la macchina della sposa.
Il corteo di macchine si avviò lentamente e in breve giunse davanti alla chiesa cattolica di Nostra Signora della Pace. La Rolls si arrestò e già Kono e Summer erano in posizione. Aprirono la portiera e l’aiutarono a scendere, sistemando la gonna del vestito bianco.
Steve stava salutando Iolana e si perse il momento in cui Nicole uscì dall’auto. Ma quando si voltò, entrambi rimasero paralizzati.
Nicole sapeva che avrebbe indossato l’uniforme ma non l’aveva mai visto così vestito se non in fotografia. La giacca doppiopetto nera con i bottoni dorati era disegnata su misura, perfettamente tesa sulle spalle larghe di Steve. Sul petto, oltre alle medaglie che Steve si era guadagnato in missione, brillava lo Special Warfare Badge, il Tridente dei SEAL di cui l’uomo andava particolarmente fiero.
Indossava la cravatta nera e una camicia bianca con i gemelli che lei gli aveva regalato per l’occasione. Teneva il berretto bianco sotto il braccio sinistro e aveva i capelli scuri ordinatamente pettinati e addomesticati con il gel.
Nicole pensò di stare sognando ma Steve la raggiunse e le tese la mano. La donna posò la mano sulla sua e gliela strinse. Steve abbassò il capo per baciarle la guancia.
«Non ti ricordavo così bella» bisbigliò rapito.
Le porse il bouquet di orchidee viola e mentre Danny e Chin si avvicinavano per salutarla, la osservò con attenzione. L’abito di Nicole era bellissimo. Sotto la corta giacca di tulle si intravedeva l’unica decorazione del vestito, un fitto ricamo che le ornava il davanti dell’abito. La parte superiore era allacciata dietro il collo e le lasciava scoperte le spalle e parte della schiena. Il vestito le fasciava i fianchi stretti e si apriva in basso, allungandosi dietro di lei in uno strascico appena accennato.
I capelli, che lui avrebbe preferito sciolti, erano stati arricciati e raccolti in una complessa acconciatura arricchita da alcuni cristalli che davano luce a quella splendida massa di velluto scuro.
Danny abbracciò la sposa e poi la scostò tenendola ad un braccio di distanza.
«Sei proprio sicura di voler sposare questo pazzo?» chiese.
Nicole annuì. «L’idea è quella, sì».
L’uomo sospirò e scosse la testa. «Hai proprio perso la testa per un paio di bicipiti tatuati, eh?».
«Adesso smettila di fare il buffone, Danny» intervenne Chin. «E fammi abbracciare la sposa».
Chin lo scostò e strinse Nicole tra le braccia. «Congratulazioni, Kalea[1]» mormorò.
«Grazie, Chin» replicò lei.
Iolana si avvicinò al gruppetto e si rivolse alla figlia. «Tesoro, dobbiamo entrare in chiesa».
Nicole annuì. Dato che i genitori di Steve erano morti entrambi, l’uomo aveva chiesto a Iolana se voleva fargli l’onore di accompagnarlo all’altare. La donna aveva acconsentito con piacere e Nicole ne era ovviamente stata felicissima.
Cinque mesi prima Nicole era stata ricoverata in ospedale per un grave trauma cranico a seguito del quale era stata in coma per tre settimane. Mentre lei era incosciente, Steve e sua madre si erano alternati al suo capezzale e avevano avuto l’opportunità di conoscersi a fondo. Iolana aveva ben presto capito che Steve era un uomo d’onore e che era davvero innamorato di sua figlia e non si era quindi stupita quando i due, una volta che Nicole si era completamente ristabilita, le avevano comunicato la loro decisione.
Certo, non era passato nemmeno un anno da quando Nicole era entrata a far parte dei Five-O, la speciale task force comandata proprio da Steve. Ma quel tempo era bastato a Nicole per conoscerlo e innamorarsi di lui e lì, sul sagrato di quella chiesa, era riunita quella squadra formidabile di cui facevano parte anche Danny, Chin e Kono. Non era difficile scorgere il legame che univa quei cinque elementi, un legame che andava al di là della semplice stima tra colleghi. Ognuno di loro sapeva di poter affidare senza timore la vita nelle mani degli altri e poteva essere certo di avere le spalle coperte in qualsiasi situazione, sia sul lavoro che nella vita privata.
Iolana si avvicinò a Steve e lo prese sottobraccio. Suo figlio Alex, che avrebbe accompagnato la sorella facendo le veci di suo padre che era mancato otto anni prima, prese posto a fianco di Nicole. La famiglia di Nicole era cattolica da generazioni. Nicole aveva sempre partecipato, ma dopo che si era laureata e si era imbarcata sulla Lincoln non aveva più potuto. Tuttavia, era stata contenta quando Steve aveva accettato di sposarsi in chiesa e non davanti ad uno squallido funzionario pubblico.
Quando entrarono in chiesa, tutti gli sguardi si volsero verso di lei, ma Nicole non aveva occhi che per Steve che l’attendeva all’altare. Alex le prese la mano e la mise su quella di Steve, tendendosi per posarle un bacio sulla guancia.
Mentre il sacerdote cominciava il rito, Steve si chinò verso di lei.
«Sei stata tu, vero?» mormorò e la donna sorrise.
Sapendo quanto gli mancassero i genitori, Nicole aveva fatto fare degli ingrandimenti di due foto che aveva trovato a casa di Steve. La prima ritraeva suo padre John con l’uniforme della Polizia. La seconda mostrava lo sguardo dolce e sereno di sua madre Doris, che in quel momento sembrava osservarli benedicendo la loro unione. Nicole aveva poi aggiunto una foto del proprio padre e le aveva fatte sistemare su tre cavalletti in chiesa, in modo che anche gli affetti che avevano perso fossero concretamente presenti alla cerimonia.
«Mahalo» sussurrò.
La cerimonia proseguì e quando si scambiarono gli anelli e le promesse, Steve recitò le proprie con la voce arrochita dalla commozione.
Al termine della messa gli sposi si scambiarono un bacio, mentre gli applausi scrosciavano sulle loro teste.
Uscirono dalla chiesa sotto i rintocchi delle campane, mentre amici e familiari gettavano su di loro manciate di petali di rosa. Danny fu il primo ad avvicinarsi ai novelli sposi.
«Complimenti, signora McGarrett» esclamò e Nicole rise di piacere, gli occhi scintillanti e la mano in quella del marito. Poi Danny si rivolse a Steve: «Trattala bene, ok? Falla stare male e farai i conti con me». Poi abbracciò di slancio l’amico.
Il resto degli invitati si avvicinò alla coppia, abbracciando la donna e battendo affettuose pacche sulle spalle a Steve. Quando finalmente si calmarono poterono avviarsi verso la villa in cui era stato preparato il ricevimento.
Steve prese posto sul sedile posteriore della Rolls, accanto alla moglie e la cinse con un braccio, mentre l’autista partiva lentamente in testa alla colonna di auto.
«Che effetto fa essere la signora McGarrett?» domandò.
«È una bella sensazione» espresse Nicole e gli accarezzò la guancia, attirando la testa verso la sua per baciarlo.
Fu una splendida giornata. Mentre il sole calava lentamente dietro l’orizzonte e i bicchieri venivano riempiti di frizzante vino bianco, l’atmosfera si fece tranquilla e rilassata. Gli sposi si aggiravano fra i tavoli, salutando i familiari, ma finivano sempre per passare molto tempo con gli amici più cari.
A metà serata, Danny – che era seduto al tavolo accanto a quello degli sposi – si alzò in piedi, attirando l’attenzione della compagnia battendo delicatamente il coltello sul bicchiere. Steve, che si era tolto la giacca ma non aveva ancora allentato il nodo della cravatta, lo guardò con una certa apprensione. Sapeva che Danny stava per tenere il discorso del testimone e aveva paura di ciò che l’amico avrebbe potuto dire sul suo conto.
Ma Danny fu fantastico. Nicole e Steve si erano conosciuti sul lavoro e quindi Danny era stato testimone del loro innamoramento e ne ripercorse i momenti più belli. Era bravo con le parole ed era riuscito a catturare il suo pubblico: li fece prima ridere di gusto e poi li commosse fino alle lacrime.
Terminò il suo momento con un brindisi agli sposi a cui tutti risposero con entusiasmo. Steve e la sposa furono invitati ad aprire le danze e si diressero verso la piccola pista da ballo. Si strinsero in un lento, completamente dimentichi del fatto che non erano soli.
«È il matrimonio che ho sempre sognato, sai?» sussurrò Nicole.
E Steve la strinse di più a sé, sollevandola da terra e facendola piroettare. Dopo il primo ballo, il resto degli invitati sciamò sulla pista. Chin fece ballare sua cugina Kono mentre Danny fece da cavaliere a Summer. La piccola Grace strattonò delicatamente la giacca di Steve, reclamandolo per un giro di pista che il comandante concesse subito.
Quando Nicole tornò fra le sue braccia, girò lo sguardo intorno: Cynthia sedeva da sola al proprio tavolo.
«Tesoro, che ne dici di far ballare Cynthia? Deve essere dura per lei senza Elliot».
Elliot era stato ovviamente invitato al matrimonio, ma non aveva potuto essere presente a causa di un importante impegno di lavoro. Non aveva detto molto a Steve, ma l’uomo sapeva che era all’estero a proteggere un tipo potente.
Steve lasciò Nicole nelle mani di suo fratello Alex che la reclamava per un ballo e si avvicinò all’amica. Scostò una sedia dal tavolo e le sedette accanto.
«È un vero peccato che Elliot non sia potuto venire».
Cynthia sorrise. «Ci siamo sentiti ieri sera. È molto dispiaciuto anche lui di non poter essere presente ma mi ha pregato di farti di nuovo i suoi migliori auguri».
«Deve trattarsi di un lavoro davvero importante» constatò McGarrett.
«Sì, in effetti» spiegò la donna. «Un ingaggio notevole in Venezuela. Sta proteggendo un personaggio che paga molto bene, ma ha preteso il meglio e quindi Elliot ha deciso ad occuparsi personalmente della cosa. Però ha detto che appena torna, dobbiamo assolutamente uscire insieme a festeggiare».
Steve annuì e si alzò in piedi, tendendole la mano. «Mi concede questo ballo, signora Reeds?».
«Con molto piacere, comandante McGarrett» rispose la donna.
Dopo il taglio della torta, la compagnia cominciò a sciogliersi. Molti invitati salutarono gli sposi e si congedarono.
Iolana si avvicinò alla coppia e abbracciò la figlia, bagnandole le guance di lacrime.
«Perché piangi, mamma?» chiese Nicole.
La donna si asciugò le lacrime con un fazzolettino. «Perché adesso te ne andrai a stare da Steve» spiegò.
«Mamma, sicura di sentirti bene? Sono quasi dieci anni che abito da sola e sono undici mesi che già convivo con Steve».
Ad eccezione dell’ultima settimana prima del matrimonio in cui Nicole era tornata a vivere con sua madre, da tempo conviveva con Steve. La loro convivenza era iniziata quando Nicole aveva trovato l’appartamento scassinato e messo a soqquadro. A quel punto lei e Steve avevano confessato la loro relazione ai colleghi, e l’uomo l’aveva invitata a stare da lui, soprattutto per proteggerla da Tony Alvarez, un trafficante di droga che Nicole aveva aiutato ad incastrare e che sembrava averla presa di mira.
Alvarez alla fine era arrivato a lei e Nicole era rimasta gravemente ferita in seguito ad uno scontro con lui. Quando finalmente si era ristabilita, era tornata con naturalezza a stare a casa McGarrett restandoci anche dopo che Steve le aveva chiesto di sposarlo.
«Sì, lo so» disse Iolana. «Però adesso che sei sposata mi sembra più strano».
Mamma e figlia si abbracciarono e Steve le strinse entrambe fra le braccia.
«Non preoccuparti, Iolana. Casa nostra è sempre aperta per te».
«Grazie, Steve» disse la donna, prima di seguire suo figlio Alex che l’avrebbe riportata a casa.
Danny recuperò Grace che aveva fatto subito amicizia con il resto dei ragazzini invitati al matrimonio e passò a salutare gli sposi. Anche Kono e Chin si avvicinarono per congedarsi.
«Vi va di venire da noi a bere qualcosa?» propose Steve agli amici.
«È questa tutta la voglia che hai di stare con tua moglie?» domandò Danny sorridendo.
«Bene, tu sei escluso dall’invito» replicò Steve, voltando deliberatamente le spalle a Danny. «Dunque, ci state?».
Chin e Kono accettarono. Danny si chinò verso Grace.
«Tu che dici, scimmietta? Sei stanca?».
Grace, che adorava Steve, assicurò che non era stanca perciò anche Danny accettò l’invito.
Quando arrivarono in Piikoi Street, Steve aiutò Nicole a scendere dalla macchina e, mano nella mano, raggiunsero la porta di casa. Steve la spalancò ma trattenne la donna che stava per entrare. Nicole si voltò a metà verso di lui.
«Cosa c’è?» chiese e per tutta risposta Steve si chinò e la prese in braccio.
«Sono uno tradizionalista, sai?» mormorò e varcò la soglia di casa con la moglie in braccio.
Nicole gli gettò le braccia al collo e lo baciò, sicché Steve si fermò. Danny, che lo seguiva con Grace in braccio – che a dispetto dell’affermazione di non essere stanca aveva resistito meno di due minuti prima di cadere addormentata in auto – attese qualche secondo e poi sbuffò.
«Che dite se torniamo domani?».
I due si riscossero e Steve posò a terra la donna.
«Scusate. Non siamo poi dei gran padroni di casa» disse lei. «Forza, entrate».
Danny portò Grace al piano di sopra e la mise a letto nella stanza degli ospiti. La bambina si rannicchiò su se stessa e Danny le regalò una carezza sul capo prima di scendere e raggiungere gli amici in salotto.
Steve si stava togliendo la giacca dell’uniforme, appoggiandola con cura su una sedia. Poi sedette sulla poltrona reclinabile sbottonando il primo bottone della camicia e allentando il nodo della cravatta, mentre Nicole girava per casa, sempre vestita da sposa, servendo agli amici birre e bibite. Poi anche lei li raggiunse, allargò la gonna del vestito e si accomodò in braccio a Steve.
Il rapporto che legava i Five-O era molto più di un semplice rapporto di lavoro e serate come quella erano piuttosto comuni. Ognuno di loro cercava la compagnia degli altri anche al di fuori del posto di lavoro ed era proprio per questo motivo che tra loro si era sviluppata una sorta di comunicazione istintiva. Soprattutto quando stavano braccando un pericoloso criminale o si preparavano ad un’irruzione, il fatto di sapersi muovere in perfetta sincronia era fondamentale per la buona riuscita dell’operazione, ma un’intesa del genere si aveva soltanto conoscendosi approfonditamente come loro si conoscevano.
Rimasero a chiacchierare a lungo e le loro risate si persero tra lo scrosciare delle onde oceaniche che rumoreggiavano fuori dalla veranda. Ad un certo punto, quando ormai le bottiglie vuote si erano ammucchiate sul tavolino, Danny sbadigliò.
«A che ora avete il volo domani?» domandò, accennando con il capo verso le valigie già pronte ai piedi della scala.
«Ore 12:25, volo Hawaiian Airlines» spiegò Nicole.
Gli sposi avevano inizialmente scelto un viaggio di nozze sull’isola di Hawaii, l’isola più grande dell’arcipelago, per non essere troppo distanti da Oahu nel caso fosse capitato qualcosa che avesse richiesto un loro precipitoso rientro. Ma quando ne avevano accennato a Danny, l’amico aveva espresso il suo totale disaccordo per la decisione.
«Ascolta, testone» aveva detto a Steve. «È il tuo viaggio di nozze. Non esiste proprio che qualcuno di noi ti richiami in ufficio. Cos’ha l’isola di Hawaii che tu non abbia già visto ad Oahu? È davvero lì che volete andare?».
A quel punto, Steve e Nicole erano ritornati sulla loro prima scelta: l’Australia.
«Sono circa dieci ore di volo quindi, considerato il fuso orario, arriveremo in mattinata» proseguì Nicole.
Steve si volse verso Danny.
«Come abbiamo già stabilito, assumerai il comando in mia assenza. Eccettuato che per gli spostamenti in aereo, il mio cellulare sarà sempre acceso, potrai contattarmi in qualsiasi momento».
Danny gesticolò freneticamente, bloccando la tirata di Steve.
«La vuoi piantare, super SEAL? A parte il fatto che ne abbiamo già discusso diffusamente, pensa a goderti la tua donna e la luna di miele. Non ti fidi abbastanza di noi?».
Steve sbuffò. «Ma certo che mi fido di voi. Non mi preoccupano i casi di tutti i giorni. Ma se qualcuno di voi dovesse essere in qualsiasi tipo di difficoltà, chiamateci e noi due arriveremo il più presto possibile».
«Razza di menagramo!» sbottò Danny. «Cosa vuoi che succeda? Te lo ripeto per l’ultima volta: concediti due settimane per dedicarti solo alla tua donna. Sa Dio se con il nostro lavoro avrai mai un’altra occasione del genere. Non so se lo sai, ma il comandante McGarrett è un vero aguzzino, ci fa lavorare come schiavi».
Chin e Kono scoppiarono a ridere. Erano abituati alle schermaglie di Danny e Steve. Poi entrambi si alzarono.
«Direi che è il caso di lasciare soli gli sposini, non credi Danny?».
«Sì, meglio di sì. Recupero mia figlia».
Danny salì al piano di sopra e prese in braccio Grace. La bambina nemmeno si mosse. Quando scese, baciò Nicole e strinse la mano a Steve.
«Buon viaggio, ragazzi. Divertitevi e non pensate a noi». Poi si rivolse a Steve. «Due settimane senza vedere la tua brutta faccia. Un sogno!».
Steve lo colpì con un leggero pugno sul braccio, attento a non svegliare la piccola Grace, a cui regalò una carezza. Steve e Nicole rimasero sulla porta finché le auto dei loro amici non si furono allontanate. Poi chiusero la porta e salirono al piano di sopra.
«Mi aiuti?» mormorò Nicole, voltandogli le spalle.
Steve le si avvicinò e cominciò a sbottonarle la lunga teoria di bottoncini. Arrivato a metà si abbassò e le baciò il collo, sorridendo divertito mentre le si formava la pelle d’oca sulle braccia.
Continuò lentamente a slacciare un bottone alla volta finché fece scivolare le mani sui fianchi di lei e l’attirò a sé, stringendola dolcemente. Lei fece per muoversi, ma Steve la bloccò.
Infilò le mani fra i capelli e cominciò a toglierle forcine e fermagli. Ben presto la massa scura dei suoi capelli scivolò giù a coprirle le spalle. Quando ebbe terminato si mise di fronte a lei e le tolse l’abito bianco, lasciandolo cadere ai suoi piedi. Poi la prese per i fianchi e la sollevò, facendole scavalcare la massa di raso e pizzo, mentre lei rideva come una ragazzina.
Nicole si appuntò i capelli sul capo e si infilarono insieme in bagno, facendo una velocissima doccia. Poi la donna lo spedì senza troppi complimenti fuori dal bagno.
Lo raggiunse in camera pochi istanti più tardi, vestita solo di un provocante completino intimo nero che lasciava ben poco spazio all’immaginazione. Steve la scrutò per qualche istante, poi sorrise come un monello.
«Ehi, se avessi saputo che essere sposati comportava questo, te l’avrei chiesto prima».
 

[1] Gioia, il nome hawaiano di Nicole

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Capitolo 2
*** Quanto è grossa questa cosa, Steve? ***


Siamo in partenza per il viaggio di nozze,
ma qualcosa di brutto sta per accadere
e turberà le due settimane di luna di miele
dei novelli sposi.
Buona lettura...
e se volete farmi sapere cosa ne pensate... recensite!
Grazie


Il giorno seguente si svegliarono di buon mattino, come erano soliti fare.
Nicole divenne lentamente consapevole di ciò che la circondava e percepì, dietro le palpebre chiuse, il chiarore del sole che irrompeva in camera. Aprì lentamente gli occhi e girò la testa verso sinistra, dove sapeva che doveva esserci Steve. E Steve c’era, già sveglio.
Stava appoggiato su un gomito e la stava osservando. Nicole si perse per un momento in quegli occhi verdazzurro e poi gli sorrise.
«Buongiorno, signora McGarrett».
Nicole inarcò la schiena, stiracchiandosi con grazia.
«Sai che è davvero bello sentirsi chiamare così?».
Scesero a fare colazione e, dato che di lì a qualche ora il fratello di Nicole sarebbe passato a prenderli per accompagnarli all’aeroporto, Steve rinunciò alla sua corsa, dedicandosi ad aiutare Nicole negli ultimi preparativi.
Stavano chiudendo a chiave la porta di casa quando Alex arrivò. Si era offerto di accompagnarli in modo che non dovessero lasciare la loro auto in parcheggio. Alex caricò le valigie nel bagagliaio e partirono.
Lo salutarono all’ingresso del terminal e, concluso il check-in, si apprestarono ad attendere la chiamata del loro volo.
Il viaggio fu tranquillo e quando atterrarono a Sydney furono fortunati e trovarono subito un taxi che li portò in fretta all’hotel dove, stanchi ma felici di essere in luna di miele, dedicarono il lunedì a recuperare la stanchezza del lungo viaggio. I giorni che seguirono furono indimenticabili per entrambi.
Nessuno dei due era tipo da restare due settimane chiuso in una suite nuziale, perciò Steve aveva organizzato diverse attività.
Visitarono dapprima la città di Sydney. La prima tappa fu ovviamente la famosa Opera House, la cui struttura ricordava una serie di barche a vela che stesse uscendo dalla baia. Ma Steve non permise a Nicole di perdersi troppo fra i negozi del centro.
Il giorno seguente raggiunsero un piccolo aeroporto nell’entroterra. Steve aveva organizzato un lancio con il paracadute. Sebbene Nicole non amasse particolarmente l’altitudine, aveva acconsentito a lanciarsi con lui. Si fidava ciecamente di Steve ed il suo passato di Navy SEAL la faceva stare senz’altro tranquilla.
Adam, l’istruttore che li avrebbe accompagnati, era un uomo di mezza età con il viso cotto dal sole e segnato dalle intemperie. Gonfiò le guance come una gigantesca rana toro quando Steve lo informò del fatto che si sarebbe lanciato lui con Nicole.
«Mi dispiace, ragazzo» borbottò, caricando la parola di disprezzo. «Per quanti lanci tu abbia fatto, qui comando io. Non si è mai ferito nessuno con me, e io non lascerò certo che ti sfracelli al suolo con la signorina» concluse, sfiorando con lo sguardo la figura di Nicole.
Detto ciò, senza attendere la replica di Steve, si dedicò a controllare l’attrezzatura. Steve sorrise a Nicole e si accosciò accanto ad Adam, commentando con lui ciò che stava facendo. Ben presto, colpito dalla perizia di Steve che dimostrava chiaramente che sapeva il fatto suo, Adam lo guardò negli occhi.
«Sì, forse ne sai qualcosa di lanci con il paracadute. Ma questo non significa che tu possa lanciarti dal mio aereo con la signorina».
«Mia moglie sarà perfettamente al sicuro con me, mi creda» mormorò Steve prendendo il portafogli e mostrandogli il proprio tesserino.
«Comandante Steve McGarrett, Marina degli Stati Uniti d’America. Ex Navy SEAL».
Adam lo guardò impassibile per qualche istante poi, senza alzare lo sguardo, si rivolse a Nicole.
«Suo marito è stato davvero un Navy SEAL, signora?» chiese.
«Sì, Adam» rispose la donna, trattenendo a stento una risata. Chissà perché la sua parola sembrava valere più del tesserino che Steve gli aveva sciorinato davanti.
«E lei vuole lanciarsi con lui?».
Nicole incrociò lo sguardo con Steve. «Sì, ma solo se per lei va bene».
Ovviamente Adam non poteva resistere al fascino combinato della coppia. Restituì il documento a Steve. «Ho una sincera ammirazione per quelli come lei, signore» biascicò imbarazzato.
«Mi chiami Steve, la prego» disse tranquillo, sorridendogli e tendendo la mano. Adam gliela strinse e sorrise di rimando.
Adam fornì ad entrambi l’attrezzatura adatta e Nicole si vestì nello spogliatoio, infilandosi la tuta, il casco e i guanti. Indossò anche gli occhialini che tirò sulla sommità del casco. Quando fu pronta non poté negare a se stessa di provare un certo nervosismo per l’impresa e strinse più volte i pugni per calmare il leggero tremito che li scuoteva.
Quando uscì, Steve la stava aspettando. Lui e Adam la aiutarono ad entrare nell’imbracatura e poi si diressero verso un piccolo aereo bianco e blu che li stava attendendo all’estremità della pista. Steve prese posto e Nicole sedette davanti a lui. Adam li agganciò e sedette al loro fianco.
Il pilota attese l’ok di Adam e poi avviò il motore. L’aereo rullò lentamente e decollò, lanciandosi nell’azzurro.
Raggiunsero in breve i quattromila metri, la quota da cui si sarebbero lanciati. Nel frastuono del vento relativo non era possibile parlare ma Adam attirò l’attenzione di Nicole, chiedendole se era pronta. La donna rispose con il pollice alzato. Adam fece lo stesso con Steve che confermò.
A quel punto Adam spalancò il portello. L’aria irruppe violentemente nella carlinga e Steve si mosse lentamente, spingendo Nicole – che era assicurata al suo petto – verso l’uscita.
Sedettero sul bordo, le gambe penzolanti nel vuoto che sembrava volerli risucchiare. Steve le strinse brevemente la mano, chiedendole se fosse pronta a lanciarsi e Nicole annuì. L’uomo si dondolò un paio di volte e poi si lanciò fuori dall’aereo.
Piombarono in caduta libera a oltre duecento chilometri orari e Nicole si stupì notando come tutta l’inquietudine provata fosse scomparsa, sostituita da un senso di meraviglia per ciò che si dispiegava sotto di loro.
Era un paesaggio aspro e selvaggio, dipinto nei toni del rosso e del giallo, qua e là spruzzato di leggere macchie di verde dove l’uomo tentava di imporre la sua legge sulla natura.
Dopo circa un minuto di volo, Steve sbirciò l’altimetro. Prese la mano di Nicole gliela strinse, per farle capire che stava per aprire il paracadute e di prepararsi al contraccolpo.
Il colpo ci fu ma meno duro di quanto lei si fosse aspettata, mentre la seta colorata si dispiegava sopra di loro. La discesa rallentò di colpo e rimasero a fluttuare nel blu finché avvistarono sotto di loro il piccolo aeroporto da cui erano partiti. Steve si preparò all’atterraggio che compì con una manovra tranquilla, giungendo proprio al centro dell’area dove un paio di uomini lo stavano attendendo. Afferrarono saldamente Nicole accompagnandone l’arrivo a terra e poi l’aiutarono a sganciarsi.
Non appena fu libera, la donna si voltò e, sebbene intralciata dalla tuta, gettò le braccia al collo del marito che si stava liberando della massa del paracadute, ridendo come una ragazzina.
«Grazie, Steve! È stato fantastico».
In un’altra occasione si recarono a visitare la splendida Ayers Rock, l’immenso monolito roccioso che si innalzava in splendida solitudine in mezzo al deserto. Rimasero affascinati ad osservare come la pietra ferrosa cambiasse colore durante il giorno, passando dall’ocra, all’oro, al bronzo, al viola.
A differenza di molti altri turisti però non si dedicarono alla scalata del massiccio. Per gli aborigeni, quello era un luogo sacro e sia Nicole che Steve venivano dalle Hawaii, dove la tradizione si intrecciava con antiche religioni che erano ancora praticate da alcune minoranze. A nessuno dei due sarebbe mai passato per la testa di profanare uno degli antichi cimiteri hawaiani perciò rimasero rispettosamente a terra, ammirando la straordinarietà di quel particolare fenomeno geologico.
Fecero surf sulle onde australiane. L’oceano era lo stesso a cui erano abituati ma era completamente diverso come lo possono essere due gemelli nati dallo stesso grembo. Sfruttavano la potenza di quelle grandi onde per farsi issare fin sulla cima, cavalcando la cresta in perfetto equilibrio. E quando l’onda perdeva potenza, avvicinandosi alla spiaggia, si lasciavano cadere in acqua, ridendo come ragazzini.
Ovviamente non ci furono solo trekking e lanci col paracadute. Ogni sera ritornavano in albergo con gli occhi pieni di meraviglia per ciò che avevano visto, si concedevano una cena leggera e poi facevano quattro passi per la città, prima di rientrare nella loro camera mentre la notte si chiudeva su di loro, lasciandoli ad assaporare la loro unione.
Sebbene avessero convissuto per un certo periodo prima del matrimonio, c’era una consapevolezza nuova nel loro stare insieme. Anche fare l’amore aveva assunto un sapore diverso, sebbene fin dalla prima volta fra loro ci fosse stata un’intesa particolare. Steve aveva trovato in lei qualcuno che l’aveva rimesso insieme dopo che la sua famiglia era stata praticamente distrutta. Un primo tassello della ricostruzione l’avevano posato i suoi colleghi. Ma Steve aveva davvero recuperato il proprio equilibrio solo quando Nicole era entrata nella sua vita.
Nonostante il Galaxy S4 di Steve (cellulare che aveva preso il posto del suo iPhone da quando Nicole aveva unificato tutta la tecnologia dei Five-0) fosse sempre acceso, nessuno li chiamò. Al termine della prima settimana, fu lui a chiamare l’ufficio.
«Ciao, super SEAL! Proprio non resistevi senza sentire la mia voce, vero?» esclamò Danny.
«Ovvio, tesoro. Sei ancora in ufficio o, visto che il capo non c’è, sei già a bere una birra all’Hilton?».
«Ma per chi mi hai preso?» sbottò Danny con finta indignazione. «Aspetta che ti metto in vivavoce».
Steve immaginò l’amico che usciva dal proprio ufficio e posava il cellulare sul piano della scrivania hi-tech che si attivava immediatamente e mandava il segnale in vivavoce.
«Aloha, Steve».
Riconobbe subito le voci di Kono e Chin.
«Aloha anche a voi. C’è qui la signora McGarrett che vuole salutarvi».
Terminati i saluti e i convenevoli, Steve riprese la parola.
«Ho visto con piacere che non mi avete chiamato in questi giorni. Sono contento che abbiate saputo cavarvela da soli: significa che vi ho insegnato bene» disse, strizzando l’occhio a Nicole.
Dall’altro capo ci fu un lungo momento di silenzio.
«Animale!» sbottò poi Danny, e tutti scoppiarono a ridere. «Quasi quasi riattacco».
«Stavo solo scherzando. L’ho sempre detto che sei permaloso».
Lo scherzoso battibecco continuò ancora per un po’, finché Steve li riportò alla serietà.
«Scherzi a parte, com’è stata la settimana?» domandò.
«Nulla da segnalare. Abbiamo partecipato ad un paio di operazioni, ma non erano casi di nostra competenza e abbiamo soltanto collaborato con il Dipartimento. Davvero, da che te ne sei andato sembra che ad Honolulu regni la pace più assoluta». Danny tacque per un momento, poi riprese. «Non è che stai pensando di trasferirti in via definitiva in Australia?».
«Beh» rispose Steve, cingendo con un braccio la vita della moglie «qui ho tutto quello che mi serve».
«Ma senti com’è diventato sdolcinato il comandante» esclamò Chin, cosa che diede il via ad un altro giro di risate.
Dato che l’atmosfera era assolutamente rilassata, parlarono ancora per un po’ e poi si salutarono.
 
L’S4 rimase muto per altri cinque giorni ma un pomeriggio, quando mancavano ancora un paio di giorni al rientro, mentre Steve e Nicole oziavano prendendo il sole sulla spiaggia, squillò.
Steve allungò lentamente il braccio per prenderlo dalla borsa di Nicole e sbirciò distrattamente il display.
«Merda!» imprecò, e si mise a sedere di scatto. «Buongiorno, Governatore».
Anche Nicole si alzò, consapevole del fatto che il loro breve momento di paradiso era finito. Il Governatore Jameson sapeva che i due erano in viaggio di nozze. Se aveva chiamato Steve significava che c’era un problema molto grosso, circostanza che molto probabilmente avrebbe richiesto il loro rientro anticipato sull’isola.
Steve ascoltava con attenzione finché annuì. «Sì, signora. Capisco».
Il suo tono non fece altro che confermare i timori di Nicole. La conversazione durò ancora qualche minuto poi Steve salutò la Jameson e riattaccò.
«Mi dispiace, piccola. Dobbiamo rientrare, e in fretta».
«L’avevo immaginato». Nicole afferrò il proprio cellulare. «Chiamo in aeroporto per prenotare due posti sul primo volo disponibile» disse, ma Steve la bloccò subito.
«Non serve. La Jameson ha già organizzato tutto. C’è un aereo militare in partenza tra poco più di un’ora, destinazione Honolulu. Torneremo con quello».
«Quanto è grossa questa cosa, Steve?» mormorò preoccupata.
«Ti spiego tutto ciò che so mentre prepariamo i bagagli».
Si affrettarono quindi a raccogliere le loro cose e tornarono in albergo. Mentre Steve spiegava l’accaduto all’albergatore, Nicole salì in camera e fece la doccia. Poi cominciò a fare le valigie. Steve la raggiunse dopo pochi minuti.
«Allora, di che si tratta? Che è successo di così terribile da richiedere il nostro rientro?».
Steve sedette sul letto.
«Ricordi Michael Thorpe? L’abbiamo conosciuto qualche mese fa alla festa della Polizia».
Nicole annuì. «Sì, me lo ricordo. Ricordo che abbiamo parlato della sua Fondazione e del suo impegno per i poveri e i senzatetto».
«Esatto, proprio lui. È uno degli amici più cari del Governatore Jameson e uno degli uomini più impegnati nel sociale ad Honolulu».
Nicole chiuse la propria valigia e la mise a terra, accanto al letto. «Che gli è successo?».
«La figlia è stata trovata morta».
«Santo cielo. Sai com’è successo?».
Steve scosse la testa. «Il Governatore non ha saputo dirmi molto ma mi ha chiesto di rientrare per seguire personalmente le indagini. Non ho potuto dire di no». Si alzò e abbracciò Nicole. «Mi dispiace tantissimo per la nostra luna di miele».
Nicole lo fissò negli occhi e sorrise. «Beh, abbiamo avuto ben dodici giorni di paradiso. Considerato il lavoro che facciamo, sono anche troppi».
Steve la strinse a sé e la baciò. Poi afferrò l’asciugamano e si diresse in bagno per fare la doccia, mentre Nicole tirava fuori dall’armadio la sua valigia e cominciava a riempirla.
L’acqua scrosciava da qualche minuto quando il cellulare di Steve squillò. Era Danny.
«Aloha, Danny».
«Aloha, Nicole. Non mi sembri sorpresa di sentirmi, quindi immagino che la Jameson vi abbia già contattati».
«Sì, purtroppo. Tra poco più di un’ora dovremmo partire con un trasporto militare per tornare in patria».
«Mi dispiace. Credimi, se si fosse trattato di chiunque altro avremmo potuto fare da soli. Ma l’omicidio di Melanie Thorpe è davvero un brutto affare».
«Hai già visto la scena del crimine?» chiese Nicole, mentre Steve usciva dal bagno con l’asciugamano che gli cingeva i fianchi. «Aspetta, ti metto in vivavoce. Steve ha appena finito la doccia».
«Aloha, Danno» esclamò questi, mentre con un secondo asciugamano si frizionava i capelli bagnati.
«Ciao, Steven. Come stavo per dire a Nicole, non ho ancora visto la scena del crimine. Ci sto andando ora».
«Ok. Tu e i ragazzi procedete ai soliti rilievi. Spero che Max riesca ad effettuare l’esame autoptico prima del nostro arrivo, così avremo qualcosa su cui lavorare. Però prendete tempo con i coniugi Thorpe. Voglio esserci quando sarà il momento di raccogliere la loro versione dei fatti».
«D’accordo, attenderemo il vostro rientro prima di parlare con loro. Spero che facciate in fretta; non vorrei che, semmai ci fosse una pista, questa si raffreddasse».
«Lo spero anche io. Ci vediamo presto, Danny».
«Aloha, ragazzi. Buon viaggio».

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Capitolo 3
*** Glielo giuro sul mio distintivo: lo prenderò ***


La luna di miele è interrotta e Steve e Nicole devono rientrare a Oahu,
dove si ritroveranno subito immersi in un efferato caso di omicidio.
Occorre fare in fretta perchè l'assassino di Melanie Thorpe
ha diverse ore di vantaggio.
Buona lettura!


Quando il C130 dell’Aeronautica Militare americana atterrò presso la base di Hickam erano da poco passate le otto di sera e ad attenderli c’era la Camaro grigio scuro di Danny. L’uomo era appoggiato al cofano, le braccia muscolose incrociate sul petto e quando li vide scendere dall’aereo fece balenare il suo sorriso.
Si avvicinò ai due e strinse Nicole in un abbraccio, baciandole la guancia.
«Aloha, Nicole! Com’è andato il volo?».
«Tutto ok, grazie».
Danny prese la valigia della donna e si rivolse a Steve.
«Ciao, fratello!» esclamò, facendo finta di colpirlo con un pugno che Steve schivò come un pugile.
«Dì la verità che ti sono mancato».
Danny socchiuse gli occhi. «Non risponderei a questa domanda neanche sotto tortura».
Caricarono le valigie nel bagagliaio e Nicole prese posto sul sedile posteriore.
Sul sedile del passeggero c’era uno zaino nero che Steve spostò per prendere posto.
«Mi sono permesso di passare in ufficio a recuperare i vostri distintivi e le vostre armi» spiegò Danny indicando lo zaino. «Nicole, c’è anche il tuo tablet» proseguì. Danny avviò il motore.
«Mahalo, Danno» lo ringraziò Steve.
«Immaginavo che, nonostante l’ora, voleste andare subito dai Thorpe» replicò l’amico. Steve annuì e Danny partì.
«Mi dispiace davvero che siate dovuti rientrare così».
Steve si strinse nelle spalle, mentre passava lo zaino a Nicole. «Sapevamo prima di partire che poteva succedere. Piuttosto, ragguagliaci sulle informazioni che abbiamo».
«La vittima è Melanie Thorpe, figlia diciottenne di Michael e Susan Thorpe. I coniugi Thorpe erano ad una festa di beneficenza della fondazione che porta il loro nome, festa a cui la ragazza non ha voluto partecipare. La sua morte è stata scoperta solo il mattino seguente».
«Com’è stata uccisa?» chiese Steve, mentre Danny si fermava ad un semaforo rosso.
«Un solo colpo di pistola in pieno petto, ma Max non ci ha ancora comunicato i risultati dell’autopsia». Proprio in quel momento il cellulare di Danny squillò. «Il maestro Jedi deve averci sentito» mormorò. «Ciao, Max» disse, mettendolo in vivavoce.
«Buongiorno, Daniel».
«Max, Steve e Nicole sono in macchina con me».
Entrambi lo salutarono e l’amico si mostrò perplesso. «È già finito il viaggio di nozze?».
«Siamo tornati qualche giorno prima per dare una mano con l’indagine» spiegò Nicole. «Hai qualcosa per noi, Max?».
Tutti e tre si immaginarono il piccolo orientale mentre si avvicinava al corpo della vittima disteso sul tavolo per l’autopsia.
«La ragazza è stata uccisa da un colpo di pistola al cuore. Non ci sono bruciature intorno al foro d’entrata e non ci sono residui sotto le unghie. L’assassino doveva essere lontano. Il corpo è stato spostato dopo la morte, avvenuta presumibilmente tra le undici e mezzanotte. Il signor Thorpe ha confermato di aver spostato la figlia mettendola sul letto per provare a rianimarla».
Danny mise la freccia e svoltò nel viale che portava alla villa dei Thorpe. «A questo va aggiunto che Kono ha recuperato il proiettile che l’ha uccisa e che, dopo averla trapassata, si è conficcato nel muro».
«So che Fong sta analizzando il proiettile e immagino che a breve vi comunicherà i risultati».
«Molto bene» intervenne Steve, mentre Danny parcheggiava davanti a casa Thorpe.
«C’è un’ultima cosa, comandante McGarrett». Sebbene si conoscessero da anni, ogni tanto Max scivolava nella vecchia abitudine di rivolgersi a Steve con il suo grado. «Dopo essere stata colpita, la vittima ha sbattuto contro il comodino ed è scivolata a terra, dove è rimasta fino all’intervento del padre. Il sangue si è rappreso sul pavimento evidenziando la sagoma di un libro su cui Melanie deve essere caduta. Però, almeno fino a quando sono partito per l’obitorio, del libro insanguinato non c’era traccia».
Steve guardò Danny. «E in effetti non siamo riusciti a trovarlo» confermò questi, aprendo la portiera. «Per ora ti salutiamo, Max. Se ci sono altre notizie, chiamaci subito».
«Senz’altro. Aloha, ragazzi».
Entrarono nella villa dei Thorpe, una grande casa di campagna con un lunghissimo portico che affacciava sul giardino curatissimo. Furono accolti da un maggiordomo al quale Danny chiese dove fossero i genitori di Melanie.
L’uomo disse che sarebbe andato a chiamarli e scomparve per ritornare dopo alcuni secondi seguito da Susan Thorpe. La donna aveva gli occhi rossi e gonfi, ma ciò non sminuiva comunque la sua bellezza. Il viso era incorniciato da una nuvola di capelli biondi, gonfiati ad arte. Aveva la pelle bianchissima, talmente bianca che sembrava di alabastro. Era la pelle perfetta e senza rughe di una donna che di certo andava in profumeria con la carta di credito, senza badare a spese.
Il fatto che fosse vestita con un abito lungo di un colore rosa pastello nonostante la situazione diceva a Steve che era molto attenta al proprio aspetto, ma già lo sapeva. Ricordava la grazia e l’eleganza che aveva mostrato alla festa della Polizia che s’era tenuta qualche mese prima.
«Signora Thorpe, il Comandante Steve McGarrett e l’agente Knight» disse Danny, presentando i due colleghi.
Steve tese la mano. «Le più profonde condoglianze, signora Thorpe».
La donna gli restituì una stretta decisa. «Grazie, Comandante McGarrett». La voce era leggermente rotta dall’emozione che doveva agitarsi dentro di lei, emozione che le inumidì di nuovo gli occhi. «Ricordo bene sia lei che sua… moglie ormai, vero?» mormorò.
«Sì, signora. È esatto». Steve fece una breve pausa e poi riprese. «Signora Thorpe, abbiamo la necessità di parlare con lei e suo marito di quello che è successo».
Susan annuì. «Sì, certo. Seguitemi, vi prego» e si voltò per precederli.
Li introdusse in salotto. Michael Thorpe voltava loro le spalle; era al telefono, accanto alla vetrata che dava sul giardino ma si volse non appena li sentì entrare. Sollevò un dito ad indicare che la telefonata era quasi conclusa e tuttavia continuò a parlare.
«No, Daniel. È meglio che tu rimanga lì, non faresti niente qui». Fece una pausa e poi alzò lo sguardo verso la moglie. «Susan sta resistendo, sì. Ora devo andare, Daniel. Ci sentiamo più tardi, ok?».
Michael chiuse la telefonata e si avvicinò a Steve e agli altri che erano rimasti accanto alla porta.
«Buonasera, Comandante McGarrett» disse, porgendogli la mano.
«Signor Thorpe, mi dispiace enormemente per la sua perdita» disse Steve notando in quel momento come la morte della figlia gli avesse scavato nuove rughe sul volto. Michael Thorpe era senza dubbio impeccabile nel suo completo color antracite, ma le spalle sembravano più ingobbite rispetto all’ultima volta che l’aveva visto. Era come se il peso della terribile perdita gravasse su di lui, schiacciandolo a terra.
«Sappiamo che il momento è drammatico, ma avremmo qualche domanda da farvi».
«Certo» disse Michael, facendo cenno di accomodarsi. Susan sedette sul sofà vicino alla vetrata, accanto al marito. Nicole si accomodò sulla poltrona accendendo il tablet per prendere appunti. Steve rimase in piedi, mentre Danny si appoggiò alla poltrona su cui stava Nicole.
«Ci dica com’è andata, signor Thorpe».
L’uomo fece un profondo sospiro e iniziò a parlare. «Ieri sera io e Susan abbiamo presenziato alla festa della nostra fondazione, a pochi chilometri da qui. Avevamo chiesto anche a Melanie di accompagnarci, ma ha rifiutato. È un’adolescente e come tale è instabile quanto il tempo».
Susan singhiozzò sommessamente e Michael le circondò le spalle con un braccio.
«A che ora siete tornati dalla festa?» indagò Steve.
«Erano quasi le due».
«E non avete controllato la stanza di Melanie, giusto?».
Susan scosse la testa.
«Non lo facevamo mai. Pensavamo che stesse dormendo, quindi non volevamo disturbala. Stamattina però non era a colazione. Ho pensato che non avesse sentito la sveglia quindi ho provato a bussare alla porta della sua stanza. Quando Melanie non ha risposto, sono entrata e…».
Susan non riuscì a proseguire e il marito la strinse ancor più a sé, porgendole il fazzoletto.
Le dita di Nicole volavano sulla tastiera virtuale del tablet, registrando il susseguirsi dei fatti che avevano portato alla scoperta del cadavere.
«Ho sentito Susan urlare e sono corso a raggiungerla» proseguì Thorpe. Steve vide i suoi occhi riempirsi di lacrime e dovette distogliere lo sguardo.
«Ci dispiace sottoporvi a questa sofferenza» intervenne Danny.
Michael scosse il capo. «No, è giusto. Voglio che prendiate il colpevole al più presto e capisco che ogni dettaglio possa diventare fondamentale». Chiuse gli occhi per qualche secondo, premendoci sopra con i polpastrelli.
Poi rialzò il capo e proseguì: «Quando sono arrivato, Melanie era a terra, in una pozza di sangue. Non avrei dovuto, ma il primo istinto è stato quello di metterla sul letto e provare a rianimarla. Ma già quando l’ho presa in braccio, era così fredda».
La voce gli si spense lentamente e un singhiozzo silenzioso gli scosse le spalle.
Nicole alzò lo sguardo e incrociò quello di Steve. Gli fece un cenno con la testa e lui annuì. Si avvicinò a Michael e gli posò una mano sulla spalla.
«Va bene, signor Thorpe. Per ora è sufficiente. Io e i miei colleghi andiamo a dare un’occhiata alla stanza di Melanie, ok?».
Michael raddrizzò le spalle e si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Si alzò in piedi e strinse il braccio di Steve. «Steve, niente potrà riportare indietro la mia bambina. Ma voglio che il colpevole marcisca in carcere. Mi assicuri che lo prenderà».
«Glielo giuro sul mio distintivo: lo prenderò».
«Grazie» mormorò Thorpe, prima di accompagnarli fuori dalla stanza. «Il detective Williams è già stato qui, quindi potrà indicarvi la stanza di nostra figlia».
I tre imboccarono un corridoio, a metà del quale si fermarono. La porta della stanza di Melanie era chiusa, e un cartello sulla porta dichiarava che il locale era posto sotto sequestro. Anche se la scientifica e il medico legale erano già stati lì, tutti e tre indossarono i guanti ed entrarono.
La stanza era quella che ci si sarebbe aspettati da qualsiasi adolescente. I poster di Twilight alle pareti, una libreria carica di volumi e ninnoli accanto alla portafinestra che dava sul giardino, una scrivania con sopra un computer, un enorme letto matrimoniale e, da un lato, due poltrone e un tavolino. Le uniche note stonate erano le macchie di sangue sul muro e sul pavimento.
Il primo particolare che saltò all’occhio di Steve e Nicole che vedevano la stanza per la prima volta fu l’impronta del libro mancante sul pavimento. Steve si chinò per esaminarla meglio. «L’assassino deve aver portato via questo libro, quindi doveva essere qualcosa di importante».
Poi si rialzò e guardò Danny. «Siete riusciti a ricostruire un po’ i fatti?» chiese, sapendo che mentre lui sorvolava il Pacifico per tornare in patria, Danny, Chin e Kono avevano già esaminato la scena. E infatti Danny annuì.
«Chi ha ucciso Melanie deve aver usato questo accesso» disse, indicando la portafinestra. «Quando siamo arrivati, era aperta. Melanie doveva essere a letto ma, dato che indossava jeans e maglietta, probabilmente non si era coricata per dormire». Danny indicò l’abat-jour. «Quella era accesa quando siamo arrivati».
«Forse Melanie stava leggendo il libro scomparso» evidenziò Steve.
Danny annuì. «Probabilmente sì. Quando l’assassino è entrato, Melanie deve essersi alzata. Lui ha sparato, il proiettile l’ha trapassata e si è conficcato nel muro». Danny indicò il punto.
Steve e Nicole si avvicinarono al muro.
«Kono ha recuperato il proiettile». Danny si avvicinò ai due, mostrando gli schizzi di sangue sul comodino. «Melanie deve essere morta sul colpo. Il libro le è caduto di mano e lei ha picchiato contro il comodino, scivolando poi a terra».
Tutti e tre fissarono la pozza di sangue sul pavimento.
«Se il libro ha lasciato questa sagoma rettangolare sul pavimento, significa che è rimasto lì per un bel po’, finché il sangue s’è rappreso. L’assassino deve essere tornato a prenderlo più tardi» sottolineò Nicole. Poi alzò lo sguardo notando che sul comodino c’era un minuscolo lucchetto. «Melanie non stava leggendo un libro» esclamò. «Stava scrivendo sul suo diario».
«Ragazzi, dobbiamo assolutamente recuperare quel diario. Se l’assassino si è sentito in dovere di tornare a recuperarlo, è evidente che contiene qualcosa che lo riguarda, qualcosa che potrebbe farci capire chi ha commesso questo delitto».
Danny scosse la testa. «Abbiamo guardato dappertutto. Il diario non c’è».
Mentre Nicole raccoglieva qualche foto con il tablet, Steve uscì sulla veranda. Era circondata da una bassa ringhiera di ferro battuto, protezione che sarebbe stato semplicissimo scavalcare. Se la portafinestra era aperta, l’assassino aveva avuto via libera per arrivare a Melanie. Girando lo sguardo intorno, si accorse che la casa era circondata da un marciapiede e, più oltre, da un sentiero di ghiaia. Chi aveva ucciso Melanie non aveva nemmeno dovuto preoccuparsi di stare attento a non lasciare impronte.
«Danny» lo chiamò Steve e l’amico uscì. «Melanie era sola in casa?».
«C’erano solo il maggiordomo e gli altri suoi collaboratori. Ma dormono in una dependance staccata dalla casa principale. Nessuno ha sentito nulla. Ammesso che ci fosse qualcosa da sentire, magari l’assassino ha usato un silenziatore».
Con un ultimo sguardo intorno, Steve fece per rientrare ma si bloccò. Nonostante il buio sempre più fitto, l’occhio gli cadde sul marciapiede. A circa tre metri dalla veranda della stanza di Melanie c’era qualcosa che aveva attirato la sua attenzione. Posò le mani sul corrimano, si diede lo slancio e scavalcò la ringhiera.
«Ehi, Rambo! Ti si è acceso il neurone?» lo canzonò Danny.
Steve si accosciò a terra. «Invece di fare battute che non fanno neanche tanto ridere, perché non mi prendi un sacchetto per le prove e una pinzetta?».
Danny sbuffò ma rientrò nella stanza. Ne uscì poco dopo con quanto Steve aveva richiesto. Scavalcò anch’egli la ringhiera e si avvicinò a McGarrett, porgendogli la pinzetta e tenendogli aperto il sacchetto. Sul marciapiede c’erano dei frammenti di carta strappata. Uno era abbastanza grande da riportare una parola, un “non” scritto in una grafia tondeggiane e regolare. Steve li raccolse con la pinzetta, facendoli cadere nel sacchetto.
«L’assassino deve aver strappato le pagine dal diario di Melanie in questo punto. Nel buio probabilmente non s’è accorto di questi brandelli caduti».
«Abbiamo una sola parola completa, ma mi procurerò un campione di scrittura e vedrò se Fong riuscirà a dirci se si tratta della grafia di Melanie» replicò Danny.
Entrambi rientrarono nella stanza.
«Nicky, per favore prova a verificare con la madre di Melanie se la ragazza avesse un fidanzato. Chiedile anche dei suoi interessi, dei suoi amici. Se l’assassino ha portato via il diario, l’ha fatto per qualcosa che c’era scritto. Di certo è qualcuno molto vicino a lei».
«D’accordo» disse Nicole e stava uscendo quando Danny la fermò.
«Avevi anche tu un diario da ragazza, Nicole?».
«Certo che sì. È una cosa comunissima tra le ragazze. Grace non ce l’ha?».
«Sì, ce l’ha anche Grace. Ma tu, cosa ci scrivevi? Degli uomini che frequentavi prima di Steve?» domandò Danny, rispondendo con uno smagliante sorriso all’occhiataccia che Steve gli lanciò.
«Non ho mai frequentato nessun uomo prima di Steve» replicò soavemente Nicole, calcando di proposito sulla parola e uscendo in corridoio senza attendere risposta.
Suo marito sorrise. «Non è meravigliosa?» commentò.
Danny non rispose, ma si passò la mano su un lato della testa, sistemando i capelli già perfettamente tenuti a posto dal gel. Era un gesto a cui si abbandonava quando era nervoso o quando le sue buffonate non finivano come pensava.
Nel frattempo, Nicole raggiunse l’atrio della grande casa. Chiese al maggiordomo dove fosse la signora Thorpe e lui le rispose che era nella sala della musica. La precedette in un’altra ala della villa e si fermò davanti ad una porta a cui bussò.
«Avanti» rispose Susan e il maggiordomo la lasciò entrare.
Susan era seduta al pianoforte ma non stava suonando. Rimase seduta quando Nicole entrò.
«Signora Thorpe, mi dispiace ma dovrei farle qualche altra domanda» intervenne Nicole con molta dolcezza.
La donna parve riscuotersi. «Sì… sì, certo. Mi scusi».
Susan si alzò e le fece cenno di sedersi su un divano addossato alla parete.
«Abbiamo cercato di ricostruire quello che è successo in camera di Melanie. Però abbiamo bisogno di qualche altra informazione».
La madre di Melanie, che ora sembrava più calma rispetto a quando avevano parlato con lei e il marito, annuì.
«Melanie andava a scuola, giusto?».
«Sì, frequentava la Ala Moana Academy, ultimo anno».
Nicole ne prese nota sul tablet e poi alzò lo sguardo.
«Nella stanza di sua figlia abbiamo visto diverse foto che la ritraggono insieme ad una ragazza». Nicole richiamò la foto sul tablet e gliela mostrò.
«Sì, è Kaila. È la sua migliora amica, sono inseparabili. Viene spesso qui: le ragazze si chiudono in camera e ne escono solo per cena».
A Nicole non sfuggì che Susan parlava di sua figlia al presente. Quanto deve essere difficile perdere un figlio?, si chiese.
«Ok. Melanie aveva qualche altra amicizia particolare?».
«A scuola era molto benvoluta. Era una ragazza solare ed espansiva e quando festeggiava il compleanno c’era sempre un turbine di ragazzi in questa casa. Ma erano i suoi compagni di scuola, oltre a Kaila non mi vengono in mente altri nomi».
Nicole prese nuovamente appunti.
«Aveva il fidanzato?».
Susan Thorpe sospirò. «Sì, ce l’aveva. Si chiamava Miles, Miles Gray».
Dal tono in cui lo disse, Nicole dedusse che i genitori di Melanie non erano entusiasti della scelta della figlia.
«Stavano insieme da tanto?» indagò Nicole.
«Un paio d’anni. Ma si erano lasciati qualche settimana fa».
Nicole segnò anche quella informazione e la evidenziò come importante. «Ha idea del perché si fossero lasciati?».
«No» replicò. «So solo che Melanie è tornata disperata e ci ha comunicato che si erano lasciati».
Nicole notò la sofferenza che quel colloquio stava creando in Susan e decise di porvi fine.
«D’accordo, signora Thorpe. Ci è stata di grande aiuto. Per ora è sufficiente questo».
«Mahalo» rispose Susan con un’atroce pronuncia. Lei e suo marito non erano hawaiani, ma Nicole apprezzò lo sforzo.
Entrambe si alzarono e la padrona di casa la accompagnò in atrio. Steve e Danny erano già lì e la stavano aspettando, parlando con Michael Thorpe. Steve gli strinse la mano.
«La terremo informata, signor Thorpe».
«Grazie, comandante. Spero che riusciate a prenderlo in fretta. Voglio guardare in faccia l’assassino di mia figlia».
Si congedarono dai Thorpe e mentre si dirigevano alla loro sede di Iolani Palace, Nicole aggiornò gli altri due su ciò che aveva appreso.
«Voglio un controllo sia su questa Kaila che sull’ex ragazzo di Melanie. E una capatina a parlare con entrambi la faremo in ogni caso».
Quando entrarono in ufficio, Chin e Kono andarono loro incontro.
«Mi dispiace che siate dovuti rientrare così, ma bentornati» esclamò Chin, salutando Steve con un cinque.
Kono abbracciò Nicole. «Com’è stata la vostra luna di miele? Oltre che interrotta?».
«Perfetta» mormorò Nicole.
Terminati i saluti, si diressero tutti verso la scrivania. Quello era il centro operativo e da quando Nicole era entrata nel team, i Five-O erano diventati l’unità più tecnologicamente all’avanguardia delle Forze dell’Ordine dello Stato di Hawaii. Dalla scrivania a cui si erano avvicinati, il cui piano era un immenso schermo touchscreen, potevano accedere ad ogni database, ai programmi di riconoscimento facciale, addirittura al sistema satellitare. Il balzo avanti nell’evoluzione tecnologica era stato possibile grazie alle competenze di Nicole, l’ultima arrivata nel team. Grazie alle sue conoscenze era stata in grado di potenziare la già efficiente rete informatica della squadra.
Nicole posò il tablet sul piano della scrivania e questa si attivò immediatamente. In pochi secondi effettuò la sincronizzazione scaricando i dati che Nicole aveva raccolto a casa Thorpe, le foto ed i suoi appunti.
«Ho già creato una cartella per questo caso» la avvertì Kono. «Puoi salvare tutto lì».
Nicole annuì. Poi richiamò la tastiera e digitò il nome dell’amica di Melanie.
«Ecco qui Kaila Kahanamoku» mormorò quando il computer restituì il risultato. La ragazza era incensurata ma Nicole mandò sui monitor a parete il suo passaporto, in modo che tutti potessero vederla.
Era una ragazza carina, tipicamente hawaiana. Occhi neri e capelli castani che le arrivavano sulle spalle, Kayla aveva un viso solare e aperto.
«Se Melanie ha scritto sul suo diario qualcosa per cui è valsa la pena ucciderla, è possibile che si fosse confidata con Kaila» disse Steve. «E sul fidanzato? Sappiamo qualcosa anche di lui?» chiese poi e le dita di Nicole cominciarono a volare sulla tastiera virtuale, digitando la nuova ricerca.
«Ah! Qui è tutto un altro paio di maniche» esclamò quando vide il risultato. Con un gesto della mano trasferì quanto stava vedendo sui monitor. «Il signor Miles Gray ha un discreto curriculum: ha collezionato un paio di fermi per possesso di droga. Ecco perché la madre di Melanie non era propriamente entusiasta della relazione di sua figlia».
«Benissimo! Due chiacchiere con questo tipetto le voglio proprio fare» disse Steve.
Stava per distribuire gli incarichi quando qualcuno bussò alla porta di vetro dell’ufficio. Era il sergente Lukela, il loro contatto con il Dipartimento di Polizia. Steve gli fece cenno di entrare.
«Aloha, Duke».
«Aloha, comandante McGarrett». Lukela gli porse un volume chiuso in un sacchetto di plastica. «Qualcuno ha trovato questo stamattina».
Steve lo prese e ne osservò la copertina. Era decorata con disegni fatti a mano e, di traverso su tutta la lunghezza, spiccava la scritta “Melanie” in corsivo svolazzante. Tanto la copertina quanto il dorso erano sporchi di sangue.
«Ragazzi, abbiamo il diario di Melanie. Duke, ma dov’è stato trovato?».
«Un paio di giovani l’hanno portato alla Centrale questo pomeriggio. L’hanno notato in un cestino lungo la strada che dalla villa dei Thorpe porta in centro. Hanno visto che era sporco di sangue e, preoccupati, ce l’hanno portato». Duke fece un mezzo sorriso. «Sono stati talmente svegli da avvolgerlo in un fazzoletto per non contaminarlo con le impronte».
«Perfetto, Duke» proruppe Steve e l’uomo sorrise, felice dell’approvazione di Steve.
Danny gli batté la mano sulla spalla. «Come sapeva che lo stavamo cercando?» chiese.
«Ho saputo che eravate stati chiamati a seguire il caso Thorpe e quindi appena ho visto il nome su quel libro ho pensato che fosse di vostra competenza».
«Ben fatto» disse Danny.
Quando Duke uscì dall’ufficio, Steve sfogliò il diario. Alcune pagine, le ultime che Melanie aveva vergato, erano state strappate. Lo richiuse, lo passò a Kono e sbirciò l’orologio.
«Signori, sono quasi le undici. So che rischiamo di perdere tempo, ma io e Nicole non siamo ancora rincasati e veniamo da un volo di dieci ore, quindi direi che possiamo andare a casa. Kono, per favore, porta il diario all’ufficio di Fong. Ho bisogno di avere i risultati delle analisi per domattina, così potremo pianificare una strategia per questo caso».
Poi si voltò verso Danny. «Tu e Chin domattina andrete a parlare con Kaila. Cercate di capire se Melanie si era confidata con lei in merito a qualcosa che la turbava. Nicky ed io andremo a trovare Miles per vedere di capire perché lui e Melanie si fossero lasciati. Ci ritroviamo tutti qui con, spero, nuove informazioni».
Tutti si diressero a casa e Kono, che era di strada, portò il diario all’ufficio della Scientifica. Fong non era di turno quella sera, ma il suo sostituto assicurò che la mattina seguente avrebbero avuto i risultati.
Danny diede un passaggio a Steve e Nicole che, giunti a casa, consumarono una cena leggera, dopodiché Nicole insistette perché rimanessero un po’ sul divano a guardare la televisione.
«È la nostra prima sera in casa da soli da marito e moglie» argomentò davanti alle proteste di Steve, che capitolò.
Lo sfortunato programma in TV non riuscì comunque a catturare l’attenzione di Nicole per più di cinque minuti e la donna si addormentò abbracciata a Steve. Quando se ne accorse, Steve sogghignò, la prese in braccio e la portò al piano di sopra mettendola a letto senza che lei desse segno di essersi svegliata.

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Capitolo 4
*** L'amore è cieco ***


Le indagini proseguono
e Fong fornirà ben presto notizie sconvolgenti
sul proiettile che ha ucciso Melanie.
Buona lettura.

 


Il mattino seguente Nicole si accinse a tirare fuori dal garage la sua macchina. Premette il pulsante di accensione e sorrise quando il potente motore della sua Audi RS5, dopo il primo ringhio rabbioso della messa in moto, si stabilizzò sul consueto mormorio.
Parcheggiò in strada e scese, lasciando il motore acceso. Aprì il baule e si stava infilando il giubbetto antiproiettile quando Steve, dopo aver chiuso la casa, la raggiunse.
«Mi pare un’idea sensata» approvò Steve pescando il proprio giubbetto dal vano.
Ognuna delle loro auto era equipaggiata allo stesso modo: avevano tutte sirena e lampeggianti e nel baule una buona dotazione di caricatori, fumogeni, cassetta del pronto soccorso e tutto ciò che poteva servire loro in caso di emergenza. Ma ogni dispositivo era abilmente nascosto, sicché ogni macchina poteva passare inosservata in qualsiasi contesto. Per quanto potessero passare inosservate la Camaro di Steve o la RS5 rossa fiammante di Nicole.
Steve allacciò l’ultima cinghia del giubbetto e si diresse verso il posto del guidatore.
«Dove vai, tesoro?» lo fermò Nicole.
«Al volante» disse lui, con l’aria innocente di un cherubino.
Nicole scosse la testa aggirandolo e bloccandogli l’accesso alla macchina, posandogli una mano sul petto e spingendolo indietro.
«No, tu non guidi la mia macchina».
«Pensavo che quando ci siamo sposati tutto ciò che era mio fosse diventato tuo e viceversa».
Nicole gli regalò il più dolce dei sorrisi. «Tutto… ma non la mia macchina».
Steve le posò le mani sui fianchi sotto il giubbetto che la donna non aveva ancora allacciato.
«Tutto mio?».
«Certo che sì. Tutto ciò che vedi e che hai tra le mani ti appartiene, eccetto la mia Audi» specificò con un sorriso.
Steve strinse la presa e l’attirò a sé per baciarla. Nicole ansimò sulle sue labbra e chiuse gli occhi. Lui sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
«Piccola, cosa ne dici se ti porto di sopra e da Miles ci andiamo più tardi?» domandò malizioso.
Nicole, sempre stretta a lui, mugugnò. «Era una buona idea… prima che tu mi ammaccassi le costole» boccheggiò.
Steve la lasciò andare, rendendosi conto che attirandola a sé aveva finito per colpirla con il bordo inferiore del giubbetto. «Oh, mi dispiace. Stai bene?».
Nicole si massaggiò lo stomaco. «Sì, sto bene. Ma ti sei giocato la possibilità di guidare la mia macchina!»
Steve rise, la baciò sulle labbra e aggirò l’auto per accomodarsi sul sedile di passeggero. Nicole finì di sistemare il giubbetto e salì in macchina.
La casa di Miles faceva parte di una serie di appartamenti nella zona nord di Honolulu. Al piano terra c’era un piccolo negozio, un banco dei pegni. Alla casa si accedeva tramite una scala esterna. Nicole parcheggiò davanti all’ingresso ed entrambi scesero. Estrasse il portatile dal baule e fece una scansione della casa. Le impronte di calore rivelarono che Miles non era solo.
«Miles ha compagnia. Ci sono tre persone in casa» rivelò a Steve.
«Ok, vediamo se ci fa entrare. Massima attenzione, Nicky».
Salirono la scala e si fermarono davanti alla porta. Dentro si sentiva un mormorio di voci. Steve scambiò un cenno d’intesa con Nicole e bussò.
«Miles Gray! Five-O, apri la porta, dobbiamo farti qualche domanda».
All’interno della casa ci fu un momento di estremo silenzio e poi un forte trambusto.
In perfetta sincronia le mani di Steve e Nicole corsero alla pistola, estraendola dalla fondina sul fianco. Di nuovo Steve scambiò un cenno con la moglie e poi sfondò la porta con un calcio. La serratura si ruppe e la porta girò sui cardini, spalancandosi.
Ci vuole un coraggio tutto particolare per lanciarsi in una stanza senza sapere ciò che si troverà. Eppure Nicole entrò senza esitazioni. Sapeva di avere le spalle coperte da Steve: a quello che si fosse trovata davanti avrebbe reagito d’istinto.
Nell’attimo che le occorse per girare lo sguardo nella piccola stanza fotografò la situazione. Al tavolo del piccolo salotto, oltre a Miles c’erano altri due soggetti, un ragazzo di colore e un hawaiano minuto. Sul tavolo c’erano numerosi sacchetti di polvere bianca che di certo non era bicarbonato. Ma ciò che la mente di Nicole registrò immediatamente furono le due pistole che gli amici di Miles puntavano contro di lei.
«Steve, sono armati» gridò la donna mentre il primo sparo risuonava assordante in quello spazio ristretto.
Nicole si abbassò, schivando il proiettile che colpì il muro da cui si staccò una tagliente scheggia di intonaco che le incise la pelle nuda del braccio e fece e stillare qualche goccia di sangue. Lei e Steve si appiattirono al riparo del divano.
Gli aggressori esplosero un altro paio di colpi nella loro direzione.
«Andiamo via, fratello» sentirono urlare e poi un rumore di vetri infranti.
Steve si sporse lentamente dal riparo. Uno dei due si era già lanciato in strada dalla finestra del primo piano che dava sul lato opposto rispetto a dove avevano parcheggiato l’auto. L’altro stava scavalcando il davanzale in quel momento.
Come vide Steve, sollevò la pistola e sparò. Steve fu costretto a tornare al riparo.
Quando gli spari cessarono, McGarrett si rialzò cautamente.
Notò subito che Miles era a terra, probabilmente colpito da uno dei proiettili vaganti esplosi dall’ultimo malvivente.
«Nicky, occupati di Miles» ordinò, mentre correva alla finestra. Sbirciò di sotto, puntando l’arma davanti a sé.
Il secondo malvivente, quello che si era lanciato per ultimo dalla finestra, stava correndo verso un grosso pickup nero il cui motore era già avviato.
Steve scavalcò il davanzale e atterrò in strada, attutendo il colpo con una capriola da paracadutista. Mentre si rialzava, l’uomo raggiunse il pickup e salì dal lato passeggero. L’auto partì a razzo, facendo fumare le ruote posteriori e lasciando segni neri di gomma sulla strada.
Spedì un paio di colpi contro l’auto facendo esplodere il lunotto e un fanalino posteriore e memorizzando la targa. L’auto arrivò all’angolo della via e sparì alla vista.
Mentre Steve faceva il giro della casa per rientrare, Nicole si stava occupando di Miles.
Appena suo marito era saltato giù dalla finestra, lei si era chinata sul ragazzo che giaceva sul pavimento, privo di conoscenza. Indossava una maglietta unta che Nicole strappò, dopo essersi infilata un paio di guanti di lattice, per esaminare la ferita. Il sangue scorreva scuro da un foro appena sotto la spalla sinistra; non c’era foro d’uscita quindi il proiettile era ancora nel suo corpo.
Nicole recuperò il suo Galaxy dalla tasca posteriore dei jeans. Mentre si apprestava a chiamare l’ospedale sentì degli spari provenire da fuori. Un brivido di apprensione le corse giù per la schiena. Non era per nulla semplice il loro lavoro. E sapere che suo marito stava rincorrendo due uomini armati con il rischio di beccarsi una pallottola non la faceva stare tranquilla. Però era il suo lavoro e l’avrebbe fatto fino in fondo.
«Agente Knight, Five-O. Richiedo l’intervento immediato di un’ambulanza per una ferita d’arma da fuoco».
Mentre dava all’operatore i riferimenti per raggiungere l’appartamento di Miles, Steve rientrò. Lei alzò gli occhi e soffocò un sospiro, sollevata nel vederlo sano e salvo. L’operatore del pronto soccorso le assicurò che l’ambulanza stava arrivando perciò chiuse la comunicazione e infilò il cellulare in tasca.
«Steve, per favore vedi se trovi qualcosa per cercare di arrestare questa emorragia».
Quando le porse un asciugamano recuperato dal bagno, lei lo premette sulla ferita.
«Stai bene, piccola?» disse Steve, notando la leggera ferita sul braccio.
Nicole si strinse nelle spalle. «Non è niente. Solo un graffietto» mormorò. Il taglio infatti non sanguinava già più.
Steve esaminò il tavolo del piccolo soggiorno. «C’è un bel po’ di roba qui». Poi girò lo sguardo per lo squallido appartamento per abbassarlo infine su Miles. «Mi chiedo come abbia fatto una ragazza come Melanie a mettersi con un tipo del genere».
«L’amore è cieco» rispose la donna, mentre cercava di far riprendere conoscenza al giovane.
«Non così cieco» obiettò Steve.
Nicole ridacchiò. Poi sollevò una delle mani sudice di Miles. «Steve, guarda qui. Questo tipo non si lava le mani da un bel po’. Sicuramente non da ieri sera. Se è stato lui a sparare a Melanie, lo scopriremo presto».
«Il giudice non l’ammetterà mai come prova» obiettò Steve. «Sono passate troppe ore dall’omicidio».
«Lo so. Ma se ci dovessero essere residui, avremmo un indizio in più sul fatto che Miles abbia quantomeno usato una pistola nelle ultime ore». Nicole gli fece cenno di avvicinarsi. «Premi qui» ordinò, lasciando che fosse lui a tenere premuto l’asciugamano sulla ferita di Miles, «mentre io recupero i miei attrezzi».
Scese in fretta e prese una valigetta dal bagagliaio. Mentre tornava al piano di sopra, sentì in lontananza l’ululato della sirena dell’ambulanza, e affrettò il passo.
Si accosciò di nuovo accanto a Miles e procedette a raccogliere le prove. Mise al sicuro il tampone e si fece da parte, lasciando spazio ai paramedici che stavano entrando in quel momento. Questi si accertarono che le condizioni di Miles fossero stabili prima di assicurarlo alla barella e caricarlo sull’ambulanza. In pochi minuti furono pronti a ripartire in direzione dell’ospedale.
«Nicky, chiama il Dipartimento e la Scientifica. Dì che vengano a ripulire questo caos. Chiedi anche che mandino un paio di agenti in ospedale. Miles è un sospetto, non vorrei che ce lo lasciassimo scappare».
Nicole annuì. Mentre la donna raggiungeva la macchina e riponeva la valigetta nel bagagliaio, Steve chiamò Danny che rispose subito.
«Dimmi, Steve».
«Danny, com’è andata da Kaila?»
«Kaila è abbastanza sconvolta dalla perdita della sua migliore amica. Ci ha rivelato che Melanie litigava spesso con i suoi genitori, ma quale adolescente non lo fa?».
«Ci ha detto anche che era stato Miles a lasciare Melanie» intervenne Chin. «La ragazza era disperata, ma Kaila non sa i motivi della rottura».
Steve avvertì il tono dubbioso del detective. «Ma c’è qualcos’altro, vero?».
«Beh, sì. Ci è sembrato che Kaila nascondesse qualcosa. Purtroppo non avevamo un mandato e sua madre non ci ha permesso di parlare con la ragazza da soli, quindi non abbiamo potuto insistere più di tanto. Forse varrebbe la pena di interrogarla in sede, lontana dall’influenza di casa sua».
«Ok, ne discuteremo. Per poterla interrogare dobbiamo trovare qualcosa di più di una supposizione» replicò Steve.
«E a voi com’è andata con Miles?» chiese Danny.
«Il signor Miles Gray è attualmente in viaggio verso l’ospedale con un buco nel petto» spiegò Steve.
Dall’altra parte sentì Danny bofonchiare.
«Che stai borbottando, fratello?».
«È mai possibile che tu debba sparare ad ogni sospetto?» proruppe Danny.
Steve alzò gli occhi al cielo. «Non gli ho sparato io, testa di rapa!».
«Allora devo fare due parole con Nicole» sbottò Danny dopo un momento di silenzio. «Quella ragazza sta troppo con te, comincia ad agire come un SEAL».
«Sei completamente fuori strada, Danno. Ti spiego tutto in centrale. Ci vediamo lì».
Steve e Nicole attesero ancora qualche minuto che gli agenti di Polizia raggiungessero l’appartamento di Gray e poi salirono in auto e tornarono allo Iolani Palace, la sede dei Five-0. Nel tragitto, passarono da Fong e lasciarono il campione prelevato sulle mani di Miles.
«Kono è appena andata via. Abbiamo fatto una scoperta interessante sul diario di Melanie. Kono ha tutti i risultati».
«Perfetto. Grazie, Fong» lo ringraziò Steve. «Appena puoi, facci avere i risultati sul test fatto a Miles».
Quando infine giunsero a Iolani Palace, Danny, Chin e Kono erano già arrivati, le loro auto erano nel parcheggio. Li raggiunsero in ufficio.
Mentre Steve e Nicole si liberavano del pesante giubbetto antiproiettile, Kono li aggiornò sulle scoperte che aveva fatto.
«La Scientifica è riuscita a risalire a ciò che era scritto sull’ultima pagina strappata. È interessante» spiegò la donna. Inserì una chiavetta USB in uno slot e digitò alcuni comandi. Sui monitor apparve una fotografia di una pagina del diario.
«Queste sono le pagine intatte del diario. Come vedete, Melanie si lamentava del fatto che i genitori la trattassero ancora come un ragazzina nonostante avesse già compiuto diciotto anni».
Kono passò alla foto successiva. «Come vedete, qui accenna al fatto di stare frequentando l’uomo perfetto».
«Se avessi visto Miles, saresti di tutt’altro avviso, sorella» disse Nicole e Steve assentì.
«Ma quello che è davvero interessante è quello che c’è in quest’altra foto».
Ciò che aveva scritto Melanie e che l’assassino aveva strappato era ben visibile sui monitor. Fong aveva usato le sue apparecchiature per rilevare i segni che la pressione della penna di Melanie aveva inciso sulla pagina successiva a quella strappata.
… avrei mai pensato che avrebbe potuto fare una cosa del genere. Come si può rubare dei fondi destinati alla beneficenza?
E per di più quelli gestiti dai miei genitori! È come se avesse rubato a tutta la famiglia. A TUTTI NOI!!!
Devo affrontarlo! So che questo metterà a repentaglio la nostra relazione, ma non so se potremo averne una dopo questo tradimento.
Io non…
«L’ultima frase è interrotta. Probabilmente Melanie stava scrivendo quando l’assassino le è entrato in camera. Il diario deve essere caduto sotto di lei, impregnandosi del suo sangue. Più tardi l’assassino deve essersi accorto dell’errore e, presumendo che ci potesse essere qualcosa di compromettente, è tornato indietro. Ha strappato le pagine pericolose e ha fatto sparire il resto».
Steve si avvicinò ai monitor. «Mi sembra però che il quadro si stia chiarendo. Miles rubava i soldi della Fondazione Thorpe. Melanie l’aveva scoperto e meditava di affrontarlo. Ma lui è arrivato prima». Si voltò verso i colleghi. «Avvertite l’ospedale che appena Miles riprende conoscenza voglio parlare con lui».
Il telefono di Kono squillò in quel momento.
«Aloha, Fong» disse la ragazza. «Sì, siamo tutti qui. Aspetta un attimo».
Mise il vivavoce in modo che anche gli altri sentissero le novità. «Sei in vivavoce, parla pure».
«Signori, ho un paio di notizie per voi. La prima è che Miles è risultato negativo al test. Sulle sue mani c’era di tutto, ma non polvere da sparo».
Nicole alzò gli occhi verso Steve.
«Ok, Fong» disse Steve. «L’altra notizia?».
«L’altra è abbastanza sconvolgente. È stato completato il test balistico sul proiettile che ha ucciso Melanie Thorpe. Risulta essere stato sparato da una pistola registrata a nome di Michael Thorpe».
I Five-0 alzarono la testa di scatto.
«Michael Thorpe?» chiese Steve incredulo. «Il padre di Melanie? Sei sicuro, Fong?».
«Assolutamente, Steve».
«Bene. Grazie, Fong. Ottimo lavoro».
Salutarono il collega della Scientifica e Kono riattaccò.
Danny si appoggiò alla scrivania. «Ricapitolando: da quel che c’è scritto sul diario, Miles diventa il nostro principale sospettato. Ma, secondo Fong, sembra che non sia stato lui a sparare. E lo sparo è partito dalla pistola di Michael Thorpe».
«Danny, tu e io torniamo dai Thorpe. Dobbiamo chiarire questa faccenda della pistola».

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Capitolo 5
*** Vada per il diversivo ***


L'indagine prosegue ma il caso
si sta rivelando più intricato del previsto.
Nuovi sviluppi attendono i ragazzi di Honolulu.
Buona lettura!

 


Fu Michael Thorpe in persona ad aprire la porta a Danny e Steve.
«Comandante McGarrett» lo salutò. «Mi dica che ha delle novità».
Steve annuì. «Sì, signor Thorpe. Ma non quelle che lei spera di sentire. Possiamo entrare?» chiese poi.
Thorpe si fece da parte. «Sì, certo. Prego».
Li accompagnò nello stesso salotto in cui avevano parlato la prima volta. Sedette sul divano facendo cenno ai detective di fare altrettanto ma entrambi rifiutarono.
«Signor Thorpe, sono arrivati i risultati balistici sul proiettile che ha ucciso Melanie» cominciò Steve, e vide l’uomo sussultare quando nominò la figlia.
Vedendo che l’altro taceva, Thorpe lo fissò negli occhi. «Che deve dirmi, Comandante?».
«Lei possiede una pistola, vero?».
L’espressione del padre di Melanie si fece perplessa. «Sì, una calibro .38 ma… non capisco, perché mi chiede questo?».
«Il proiettile che ha ucciso Melanie risulta essere stato sparato dalla pistola registrata a suo nome» disse Danny.
Michael Thorpe si coprì la bocca con la mano. «Mio Dio!» mormorò.
«Signor Thorpe». Steve richiamò la sua attenzione e l’uomo alzò lo sguardo. «Può mostrarci dove tiene l’arma?».
L’altro annuì. «Sì, certo. È nella cassaforte del mio studio». Si alzò. «Seguitemi» disse e si incamminò per il corridoio.
Si fermò davanti ad una porta chiusa, la aprì e li fece entrare. Lo studio era arredato con mobili di legno scuro. Una parete era occupata da una gigantesca libreria con gli scaffali che arrivavano fino al soffitto. Davanti alla grande finestra che dava sul prato della villa era sistemata la scrivania il cui piano era ordinatissimo.
Dal lato opposto rispetto alla libreria c’era un mobile basso che correva su tutta la lunghezza della parete e, sopra di esso, un quadro di una veduta del deserto dipinta con pennellate rabbiose nei toni del giallo, dell’oro e dell’arancio. Il dipinto dava luce a tutta la stanza, le cui pareti, in perfetto contrasto con i mobili scuri, erano di un tenue color burro.
Thorpe recuperò la chiave da un cassetto e aprì quello che sembrava un mobile bar proprio sotto il quadro, rivelando lo sportello d’acciaio della cassaforte. Girò la chiave nella serratura e si alzò, lasciando che Steve esaminasse il contenuto della cassaforte.
«La pistola è in quella scatola di legno» spiegò, indicandola.
Steve aveva già infilato i guanti perciò la prese e, messo in allarme dal peso della scatola, alzò gli occhi verso Danny. Sollevò il coperchio scoprendo che l’arma non era all’interno.
«Non è possibile» disse Thorpe incredulo. «Non l’ho praticamente mai usata, non capisco. Dovrebbe essere in quella scatola».
Steve si raddrizzò. «Chi altri ha la chiave della cassaforte?».
«Io soltanto. Ogni tanto Susan la usa per riporre qui i suoi gioielli, quando dobbiamo assentarci da casa per qualche tempo. Ma solitamente chiede a me di farlo».
«D’accordo» intervenne Danny a quel punto. «Possiamo parlare con sua moglie?».
Michael scosse la testa. «Susan non c’è. È andata al nostro centro di accoglienza per i senzatetto». Il suo sguardo si addolcì. «Stare in questa casa è diventato terribile. Tutto qui ci ricorda Melanie. Susan aveva bisogno di staccare un po’».
«C’è una chiave di riserva?» lo sollecitò Steve.
«Sì, certo» confermò Thorpe e si girò verso la libreria. Sfilò un libro dalla sua sede e lo aprì, rivelandone la cavità interna. Che risultò essere vuota.
«Non riesco a capire. La chiave di riserva è sempre stata qui».
«Chi altri era a conoscenza di questo nascondiglio?» domandò Steve.
«Nessuno, nemmeno Susan».
La situazione si faceva più oscura. Nonostante tutto, a Steve l’uomo sembrava sincero. Sperava che il suo sesto senso non sbagliasse. Ormai aveva visto diverse situazioni come quella e, anche se in molti casi l’assassino si era rivelato essere una persona vicinissima alla vittima, sperava che il padre di Melanie non fosso coinvolto.
«Steve, guarda qui» lo richiamò Danny, interrompendo i suoi pensieri. Gli porse un foglio che aveva trovato esaminando il contenuto della cassaforte.
Il foglio, vergato a mano, conteneva alcune minacce a Michael Thorpe. La missiva era firmata Tyler Madison.
«Chi è Tyler Madison?» chiese Steve, sventolando il foglio davanti a Thorpe.
«Uno dei nostri finanziatori». Thorpe sbirciò la lettera e fece spallucce. «Non so nemmeno perché l’ho conservata».
«Qui ci sono delle minacce ben precise, però. Perché questo Madison le avrebbe scritto questa lettera?» chiese Danny.
«Io e Susan siamo sempre alla ricerca di nuovi finanziatori per la Fondazione e di aumentare le donazioni di chi già ci dà il proprio appoggio. Secondo Madison abbiamo insistito un po’ troppo».
Steve restituì il foglio a Danny. «Così tanto da arrivare a minacciarvi?».
Thorpe non seppe rispondere.
«Per ora è tutto, signor Thorpe. La ringrazio».
Mentre salivano in auto, il cellulare di Steve squillò.
«Sì, Governatore» rispose.
«Buongiorno, Comandante. Può passare nel mio ufficio?» chiese la donna senza tanti giri di parole.
«Sì, certo» disse, perplesso. «Ci sono problemi, signora?».
«No, nessun problema. Ma voglio essere aggiornata sul caso. In quanto può essere qui?» chiese bruscamente.
«Io e Danny siamo appena saliti in auto, siamo dai Thorpe. Possiamo essere lì in un quarto d’ora».
«D’accordo. Vi aspetto» e riattaccò.
I due uomini si guardarono per un secondo. «Va dritta al sodo, eh?» constatò Danny.
«Come sempre» rispose Steve, mettendo in moto.
Mentre uscivano dalla proprietà, l’uomo richiamò sul display il numero di Nicole.
«Mi ha appena chiamato il Governatore. Io e Danny stiamo andando da lei, vuole essere aggiornata sul caso. Fammi un favore, controlla questo nominativo: Tyler Madison».
«Dammi un secondo». Sentirono in sottofondo che la donna stava digitando sulla tastiera e Steve la immaginò nel suo ufficio, auricolare all’orecchio e occhi ai suoi monitor, mentre lanciava la ricerca sui suoi computer, gli strumenti da cui poteva ricavare qualsiasi informazione.
«Ecco qui: Tyler Madison. Amministratore delegato della Madison Corporation, società impegnata nell’industria pesante».
«Dove abita?» chiese Steve.
«Ha un appartamento in un palazzo di Waikiki».
«Benissimo. Ascolta, Nicole: la pistola di Michael Thorpe non è in cassaforte dove dovrebbe stare. Abbiamo però trovato un biglietto di minacce che Madison ha mandato ai Thorpe. Finché noi due andiamo dal Governatore, tu e Chin andate a trovare questo tizio e scoprite cosa l’ha spinto a mandare quella lettera».
«D’accordo, Steve. A dopo».
La donna bussò alla porta del collega e lo aggiornò in breve su quanto le aveva detto Steve.
«Scommetto che vuoi guidare tu, ho ragione?» disse Chin ridendo.
Sotto il palazzo di Madison non c’era spazio per parcheggiare. Nicole avrebbe potuto lasciare l’auto anche in divieto di sosta, ma l’unica soluzione sarebbe stata quella di lasciarla proprio in strada. Parcheggiò quindi a qualche distanza dalla porta della residenza. Lei e Chin scesero ma, non appena arrivati di fronte alla porta, Nicole si accorse di aver lasciato il cellulare in macchina.
«Tu va avanti, Chin. Recupero il telefono e ti raggiungo».
«Sei proprio smemorata» la prese in giro Chin. «Effetto jet lag o viaggio di nozze?».
La donna rise e corse via.
Chin entrò e si presentò al portiere, un uomo calvo con un paio di occhiali senza montatura e una squillante camicia hawaiana.
«Detective Chin Ho Kelly, Five-0, buongiorno. Sto cercando il signor Tyler Madison».
Dal tono della risposta capì subito che incontrare Madison non sarebbe stato facile.
«Il signor Madison non vuole essere disturbato, mi dispiace».
Chin fece scivolare il proprio distintivo sul bancone dietro il quale stava l’uomo. «È una questione della massima importanza. Stiamo conducendo un’indagine e abbiamo bisogno di parlare con Madison. Mi dica solo in che appartamento si trova e lo avvisi del mio arrivo, per favore».
Il portinaio scosse la testa. «Il signor Madison mi ha espressamente chiesto di non passargli né telefonate, né visite».
Chin, che cominciava a perdere la pazienza, vide con la coda dell’occhio che Nicole stava entrando. Restando nascosto dal bancone le fece un veloce cenno con la mano, segnalandole di non oltrepassare la soglia. La donna capì subito e si fermò fuori dalla grande porta a vetri.
«Allora, ha un mandato?» lo incalzò il portiere, vedendo che Chin indugiava.
«No. Non ho un mandato. Non devo arrestarlo, solo fargli qualche domanda».
«E allora mi spiace, ma non posso lasciarla passare. Buona giornata».
L’uomo chiuse gelidamente il discorso e girò la testa verso il monitor del computer, fingendo di consultare la posta elettronica. A Chin non rimase altro da fare che uscire dal palazzo. Presa in disparte Nicole, le spiegò cos’era successo.
«O ci procuriamo un mandato o un diversivo. Quell’idiota non ci farà passare, altrimenti».
Nicole sorrise. «Vada per il diversivo!».
Tornarono alla macchina e Nicole accese il suo portatile. In pochi minuti violò il database del condominio e scoprì il numero dell’appartamento di Madison.
«Appartamento 8C» annunciò, girando il computer in modo che Chin potesse vedere la piantina dell’ottavo piano. Quando il collega annuì, spense e ripose tutto nel bagagliaio, recuperando la macchina fotografica.
«E per il diversivo?» chiese Chin, e la donna gli fece l’occhiolino.
Si liberò di pistola e distintivo, che consegnò a Chin. Indossava una maglietta blu che sollevò un poco, facendole un nodo su un fianco, in modo da lasciare scoperto l’ombelico. Con i jeans a vita bassa che portava, lasciava scoperta una bella porzione di pelle ambrata.
«Che dici? Vado bene come diversivo?».
«Assolutamente!».
«Ok. Io lo faccio sloggiare in qualche modo dalla reception. Tu raggiungi l’ottavo piano e aspettami».
Mentre Chin restava a sbirciare discretamente da fuori, Nicole entrò. Appoggiò gli avambracci al bancone, inarcando il dorso e sporgendo volontariamente il fondoschiena. Chin, che la osservava da distanza, non poté trattenere un sorriso.
«Farebbe cadere ai suoi piedi anche il demonio in persona».
All’interno, Nicole attirò l’attenzione del portiere. «Mi scusi. Posso chiederle un’informazione?».
Il portiere si girò con aria annoiata e si ritrovò davanti gli occhi viola di Nicole. Saltò su dalla sedia come un tappo di sughero da una bottiglia di Champagne.
«Prego, signorina».
«Sono qui in vacanza. Ho sentito dire che non si è visitata Honolulu se non si è passati da Kalakaua Avenue. Mi può dare le indicazioni per arrivarci?» disse con voce dolce, sbattendo lentamente le palpebre.
L’uomo deglutì, scivolando con lo sguardo sul tratto di pelle nuda che Nicole mostrava sulla schiena.
«Ma certo! È facilissimo da qui».
Quando le ebbe dato le indicazioni necessarie, Nicole sorrise.
«La ringrazio infinitamente» mormorò e fece per andarsene.
Come aveva previsto, l’uomo la accompagnò fuori, fin sul marciapiede, indicandole a gesti la direzione più breve per Kalakaua Avenue. Mentre era impegnato, Chin sgattaiolò dentro. Infilò le scale e salì al primo piano, da cui prese l’ascensore per salire all’ottavo.
Sul marciapiede intanto, Nicole alzò lo sguardo verso la sommità del palazzo.
«Posso chiederle un’altra grande cortesia?» sussurrò, allungando la mano per sfiorargli il braccio.
«Ma certo» rispose prontamente. Ormai avrebbe fatto tutto ciò che lei si fosse spinta a chiedere, pensò la donna dentro di sé.
«Potrei salire sul tetto a scattare qualche foto dall’alto? La fotografia è una mia grande passione» disse Nicole, mostrandogli la macchina che le pendeva sul fianco.
«Sì, la vista è magnifica dal nostro solarium sul tetto» si lodò il portiere del palazzo. «Però io non posso accompagnarla, non posso lasciare sguarnita la reception».
Nicole sorrise e inclinò la testa da un lato. «Se si fida a lasciarmi andare, posso fare da sola».
Il portiere fu così gentile da accompagnarla fino all’ascensore e da attendere con lei che arrivasse al piano terra, chiacchierando amabilmente e sogguardandola senza farsi troppo notare. Dal canto suo, Nicole continuò a civettare con lui finché la porta dell’ascensore non si chiuse.
Poi tornò seria, sciolse il nodo che aveva fatto alla maglietta e premette il pulsante dell’attico, nel caso il suo nuovo amico controllasse. Giunta all’ultimo piano prese le scale e scese fino all’ottavo.
Chin la stava aspettando seduto su un divanetto di fronte all’ascensore. Quando la vide, si alzò e le restituì pistola e distintivo.
«Come mai ci hai messo tanto?» borbottò.
Nicole sbuffò. «Non riuscivo più a levarmelo di dosso».
Trovato l’appartamento 8C bussarono discretamente, ignorando il cartellino appeso alla maniglia.
«Servizio pulizie» disse Nicole e Chin scosse la testa.
«Funziona ancora questo stratagemma?» chiese, e Nicole si strinse nelle spalle.
Una voce irata rispose dall’interno. «Non c’è il cartello “non disturbare”?».
«Mi spiace, signore. Qui non c’è nessun cartello».
Sentirono un rumore di passi all’interno e la porta si aprì.
Sulla soglia apparve un uomo in tuta. Era giovane, probabilmente sui trentacinque anni. I corti capelli scuri erano perfettamente tagliati, la pelle del viso non aveva ombra di barba. Nonostante indossasse una semplice tuta, la portava come un costoso completo di sartoria.
Madison li guardò con aria interrogativa.
«Agenti Kelly e Knight» disse Chin, mostrando il distintivo.
L’espressione di Madison si fece perplessa. «È successo qualcosa?» chiese dopo averli salutati e fatti accomodare nel salotto dell’appartamento.
Nicole notò un trolley e una ventiquattrore in fondo al corridoio d’ingresso, come se Madison fosse pronto a partire. Forse Madison aveva fretta di allontanarsi da Oahu? Eppure non era parso spaventato quando aveva aperto la porta e si era trovato di fronte i due agenti.
«Signor Madison, lei conosce la famiglia Thorpe, giusto?» chiese Chin.
L’uomo annuì. «Sì, certo. Ci conosciamo da anni. L’azienda di cui sono amministratore ha fatto diverse donazioni alla Fondazione Thorpe. Anche io personalmente ho contribuito». Madison sedette su una poltrona e incrociò le braccia. «Volete dirmi cos’è successo?».
«Signor Madison, stiamo indagando sull’omicidio di Melanie Thorpe».
«Melanie uccisa?» domandò spalancando gli occhi. «Mio Dio. Non posso neanche immaginare la disperazione di Michael. Era la sua unica figlia e la adorava».
Sembrava sinceramente colpito, ma avevano vissuto troppe situazioni analoghe per farsi ancora sorprendere da certe cose.
«Conosceva Melanie?» chiese Chin.
«Sì, certo. Una ragazza splendida. Nell’ultimo periodo si faceva vedere poco con i genitori, ma aveva compiuto diciotto anni qualche mese fa, quindi l’età era quella della ribellione».
«Signor Madison» intervenne Nicole. «Nella cassaforte di Michael Thorpe abbiamo trovato un biglietto di minacce scritto da lei».
 «Minacce?» chiese Madison. Poi la comprensione si fece strada sul suo volto. «Ah sì, ora ricordo. Ricordo quella lettera». Alzò gli occhi verso Nicole. «Non crederete che io sia implicato in questa faccenda, vero?».
«La figlia di Michael Thorpe è stata uccisa e in casa abbiamo trovato un biglietto di minacce con la sua firma». Nicole lasciò un attimo la frase in sospeso prima di proseguire. «Ce lo dica lei».
«Sentite, io non so nulla di questa cosa. È vero, ho scritto io quella lettera, ma erano cose che non pensavo sul serio. Era un momento di rabbia. Tra l’altro, sono rientrato stamattina da un viaggio d’affari a Parigi».
Madison quindi aveva un alibi. Chin si fece un appunto mentale di verificare la cosa. Nicole si mosse nella stanza, avvicinandosi alla finestra e lasciando vagare lo sguardo fuori.
«Perché era arrabbiato?» domandò, continuando a voltargli le spalle.
«Susan e Michael continuavano ad insistere perché aumentassi le donazioni. Io capisco che quella Fondazione sia la loro vita, ma erano diventati un’ossessione. Di fronte all’ennesima richiesta mi sono spazientito e ho scritto quelle poche righe. Mi sono pentito di avergliele mandate dieci secondi dopo averlo fatto, ma ormai era tardi».
«Erano diventati così ossessivi da spingerla a minacciarli?» chiese Chin.
Madison annuì. «Sì, chiamavano ad ogni ora, mi intasavano di messaggi la casella e-mail. Le ho conservate, se volete vederle». Madison si lasciò andare contro lo schienale e incrociò di nuovo le braccia sul petto. «Anche perché, diciamolo chiaramente, la Fondazione riceve moltissimi fondi ma i servizi non sono adeguati».
Nicole si voltò. «Che intende?».
«Avete visitato il centro per i senzatetto?» chiese Madison e quando entrambi scossero la testa, sogghignò. «Beh, dovreste farlo. La Fondazione riceve migliaia e migliaia di dollari l’anno e offre ben poco. Anche per questo ero restio ad aumentare le donazioni».
Nicole e Chin si scambiarono uno sguardo: era un’informazione da verificare.
«Molto bene, signor Madison. Ci è stato di grande aiuto».
Chin e Nicole si congedarono e uscirono in corridoio.
«Dobbiamo verificare l’alibi di Madison. Se è confermato, potremo toglierlo dall’elenco dei sospettati».
«D’accordo. Io salgo sul tetto a fare un paio di foto, nel caso il mio spasimante voglia controllare. A te conviene scendere dalla scala antincendio. Ci vediamo alla macchina tra pochi minuti».
Come Nicole aveva previsto, il portiere insistette per vedere le foto che aveva fatto. Quando finalmente Nicole riuscì a liberarsene, raggiunse Chin alla macchina.
«Come sono le foto?» chiese lui, sogghignando.
«Ti ci metti anche tu?» rispose lei esasperata.
Rientrarono in fretta a Iolani Palace e Nicole parcheggiò accanto alla Camaro di Steve. Quando entrarono in ufficio, trovarono Steve e Danny in sala relax. Il primo stava cercando qualcosa da bere in frigo mentre Danny si stava versando un caffè.
«Aloha. Com’è andata dal Governatore?» chiese Nicole.
«Se escludi che ci ha imposto di trovare il colpevole al più presto, niente di che» bofonchiò Danny, mentre anche Kono li raggiungeva.
«Ed era proprio necessario convocarvi per questo?».
«La Jameson è in rapporti molto stretti con i Thorpe» spiegò Steve. «Vuole assolutamente che il colpevole finisca dietro le sbarre e le ho assicurato che stiamo facendo il possibile. A proposito: com’è andata da Madison?».
Chin sogghignò. «Abbiamo avuto qualche problema con il portiere del palazzo di Madison. Poi Nicole ci ha fatti entrare».
«Hai scassinato una finestra?» chiese Steve alzando un sopracciglio.
La donna scosse la testa. «No, è bastato mostrare l’ombelico».
«Ehi, Steven: la prossima volta con tua moglie vado io, ok?» intervenne Danny, alzando una mano come a prenotarsi.
Steve sorrise. «Che vi ha detto Madison?».
«Ha un alibi. Era in viaggio per lavoro a Parigi, è rientrato solo stamattina» spiegò Chin. «Ha ammesso senza problemi di aver scritto il biglietto, ma dice di averlo fatto in un momento di rabbia. I Thorpe continuavamo a sollecitargli nuove donazioni, ma Madison sostiene che la Fondazione riceve molti più fondi rispetto a quelli che utilizza per i propri servizi. Ci ha consigliato una visita al centro di recupero per i senzatetto, perché ci rendiamo conto di quanto sostiene».
«Va bene». Steve sbirciò l’orologio. «Nicky, prima di andare, verifica velocemente sia l’alibi di Madison sia i conti bancari della Fondazione Thorpe».
Mentre la donna si allontanava per svolgere questa incombenza, Steve si rivolse a Danny. «Domattina tu e io andiamo a dare una sbirciata a questo centro. Sperando di trovare qualche indizio: l’assassino di Melanie è a piede libero e ha sempre più vantaggio su di noi».
Nicole tornò pochi minuti più tardi e condivise con loro i risultati delle ricerche.
«L’alibi di Madison è confermato: era rientrato proprio poco prima che noi arrivassimo al suo palazzo» chiarì e poi porse dei fogli a Steve. «Questi invece sono gli estratti conto della Fondazione Thorpe».
Steve li scorse rapidamente. «Madison ha ragione: la Fondazione riceve uno sproposito di sovvenzioni. Dovrebbe offrire un servizio a cinque stelle».
«Domani vedremo con i nostri occhi» disse Danny.

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Capitolo 6
*** Eccola qui la notizia bomba! ***


Il caso Thorpe si ingarbuglia sempre più
e rischia di mettere in seria difficoltà i Five-0.
Dovranno mettere in campo tutta la loro attenzione
e la loro abilità per dirimere la matassa dietro l'omicidio di Melanie.
Buona lettura!


La scintillante Camaro di Steve si fermò di fronte al “Centro Thorpe”. Dato che si trattava di un centro di recupero per senzatetto, non era propriamente nella zona più chic di Honolulu, ma l’ingresso sembrava quello di una banca, marmo bianco e vetro. Quando Steve e Danny si avvicinarono, la struttura si rivelò essere piuttosto cadente: un vetro era crepato e nessuno si era dato pena di sistemarlo se non con qualche pezzo di nastro adesivo, e davanti alla porta c’erano cartacce e altri rifiuti.
«Posticino delizioso, eh?» borbottò Danny mentre varcavano la soglia.
«Suvvia, Danno: hai vissuto in posti peggiori» replicò Steve strappandogli una smorfia.
L’interno era anche peggio di ciò che si vedeva da fuori. I pavimenti consumati non erano propriamente pulitissimi e non c’era nessuno che accogliesse chi entrava, nonostante all’apertura della porta entrambi avessero udito un campanellino suonare.
«C’è nessuno?» provò Danny, ma non ebbe risposta.
Davanti a loro c’era un lungo corridoio al termine del quale si vedeva una grande stanza con tavoli e sedie, probabilmente un refettorio. Lo imboccarono e fatti pochi passi si trovarono di fronte ad una porta con un cartellino che indicava essere la Direzione. Più sotto, un altro cartello indicava che l’accesso era vietato ai non addetti.
«Ci sentiamo addetti?» chiese Steve.
«Io sì. Tu?».
L’amico annuì e sospinse la porta che era solo accostata. La stanza era arredata come un ufficio, con due scrivanie una di fronte all’altra. Appoggiato alla parete di fondo c’era un divano su cui sedeva Susan Thorpe. La donna era fra le braccia di un giovane che le stava accarezzando i capelli. Non appena si accorse che Steve era entrato, si scostò con aria piuttosto colpevole.
«Scusate, abbiamo bussato» mentì disinvoltamente Steve.
Susan si alzò in piedi. Indossava un completo color tortora, molto elegante.
«Buongiorno, Comandante. Ci sono novità?» chiese.
«Purtroppo no, signora. Siamo qui proprio per fare quattro chiacchiere con lei».
Anche il giovane si alzò dal divano.
«Comandante, le presento Daniel Martins, direttore finanziario di questo centro. Daniel, questi sono il Comandante McGarrett e il detective Williams dei Five-0. Stanno indagando sulla morte di Melanie».
Martins tese la mano e strinse quella di Steve. «Spero che lo prendiate presto, quel bastardo» disse con enfasi. Era evidente che era emotivamente coinvolto nella faccenda. Steve prese nota di scambiare due parole anche con lui.
«Stiamo facendo il possibile», rispose.
«Daniel, puoi lasciarci da soli?». Susan fece un cenno per indicare che si accomodassero di fronte alla sua scrivania, mentre Daniel uscì e richiuse la porta.
«Signora Thorpe, può descriverci le attività di questo centro?».
«Offriamo cibo e riparo ai senzatetto di Honolulu. Il centro si regge grazie alle donazioni che riceviamo con la Fondazione che porta il nome di mio marito».
«Avete molti “ospiti”?» chiese Danny.
«Non abbiamo ospiti fissi. C’è gente che va e viene. Offriamo anche assistenza sanitaria con un medico volontario che è qui una volta la settimana».
Danny sapeva che per molti senzatetto vivere per strada era una libera scelta, non una conseguenza della crisi mondiale. «E queste persone si lasciano aiutare?» domandò.
Susan scosse la testa. «Non è sempre facile. Sembra strano, ma molti sono appagati dalla vita in strada e quindi quando vengono portati qui cercano subito di fuggire».
«C’è qualcuno che potrebbe voler fare del male a lei o alla sua famiglia? Qualcuno che avrebbe potuto arrivare a Melanie?».
«Mio Dio, penso di no» disse Susan. «Crede davvero che qualcuno potrebbe arrivare a tanto?».
«Potrebbe essere» sostenne Steve.
«Non saprei proprio. Non abbiamo mai avuto problemi in questo senso. E comunque, Melanie non era mai venuta qui al centro. Diceva di avere paura dei senzatetto».
«Ancora una domanda». Steve fece una pausa, ma non c’era modo di dirlo dolcemente, quindi proseguì: «Melanie è stata uccisa con la pistola registrata a nome di suo marito, quella che conservava in cassaforte».
Susan si coprì la bocca con la mano: «Avevo detto a Michael che non volevo quell’arma in casa. Ne ho sempre avuto paura e non ne capivo l’utilità. E ora lei viene a dirmi che è stata proprio quell’arma ad uccidere la mia bambina?»
La donna prese a singhiozzare. Danny le porse la scatola di fazzoletti e lanciò uno sguardo a Steve. Come al solito, si intesero subito: quel giorno non avrebbero ricavato altre informazioni da Susan.
«Signora, è possibile parlare con Martins?» chiese Steve con delicatezza.
Lei annuì, asciugandosi gli occhi. «Sì, vado a chiamarlo».
Mentre usciva, Steve si chinò verso Danny. «Ricordi l’estratto conto che ci ha mostrato Nicky ieri? Ti sei guardato intorno quando siamo entrati? Direi che c’è qualcosa sotto. Forse il direttore finanziario potrà chiarirci la situazione».
«Penso che sia il caso che chiarisca anche cosa stava facendo sul divano con la signora quando siamo entrati».
L’uomo entrò e sedette alla scrivania.
«Signor Martins, la signora Thorpe l’ha presentata come direttore finanziario. In cosa consiste la sua attività?» domandò Steve.
«Diciamo che Michael decide come impiegare i soldi della Fondazione e io sistemo la contabilità. In passato Michael era più presente qui e aveva le mani in pasta direttamente. Ora è molto impegnato con la Fondazione e con l’apertura di nuovi centri quindi mi ha progressivamente consegnato la gestione di questo ricovero».
«È molto intimo della famiglia Thorpe?».
«In che senso?» chiese l’altro, in tono di leggero allarme che non sfuggì a nessuno dei due detective.
«Li conosce bene?» spiegò meglio Steve e l’altro parve rilassarsi.
«Io e Michael siamo amici da tanti anni, l’omicidio di Melanie mi ha profondamente sconvolto».
«E di Susan Thorpe che mi dice? Mi sembrava che prima foste piuttosto vicini» indagò Danny.
«La povera Susan è talmente sconvolta. Stavo cercando di consolarla. Era molto legata a Melanie e ora trova difficile stare a casa, passare continuamente davanti a quella stanza in cui s’è consumata la tragedia».
«In che rapporti era lei con la vittima?» riprese Danny.
Per tutta risposta Daniel si alzò e stacco un quadretto dal muro dietro la sua scrivania. La foto ritraeva lo stesso Daniel, ma più giovane. Stava in mezzo tra Susan e Michael e teneva un braccio sulle spalle di una giovane Melanie.
«Ero spesso da loro e l’ho vista crescere» spiegò, mostrando loro la foto.
Steve sbirciò Danny che annuì. Era giunto il momento di andare.
«Va bene, signor Martins» disse Steve, alzandosi. «La ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato».
Gli stava stringendo la mano quando udirono lo schianto di una bottiglia che si fracassava a terra e il grido di una donna provenire da fuori.
Le mani di Steve e Danny avevano già impugnato la pistola mentre raggiungevano la porta di servizio che dava sul vicolo. La spalancarono e uscirono nel sole.
La stretta via era ingombra di rifiuti e sporcizia. A circa cinque metri, sul lato opposto rispetto al centro, c’era un enorme cassonetto verde e, proprio lì davanti, videro Kaila.
La ragazza sembrava spaventata e tesa ed entrambi abbassarono le pistole.
«Kaila, che ci fai qui?» chiese Danny, rinfoderando la proprio arma.
«Io… ehm… lavoro al centro» disse la ragazza.
«Non ce l’avevi detto però» fece notare Danny e Kaila scosse la testa.
«Non l’ho detto perché mia madre non sa che lavoro qui. Non è mai stata d’accordo con la mia decisione».
«Che stavi facendo qui?» chiese Steve.
«Volevo gettare la spazzatura» rispose, indicando il cassonetto. «Ma non sono riuscita ad aprirlo» mormorò e arrossì.
«Danny, verifica per favore» ordinò Danny e il collega si avvicinò al cassonetto.
Il coperchio cedette subito quando Danny lo spinse. L’uomo sbirciò all’interno e qualcosa attirò immediatamente la sua attenzione. Prese dalla tasca il fazzoletto e raccolse l’oggetto, tenendolo sollevato in modo che anche Steve vedesse. «Calibro .38» rilevò.
«E quella di chi è?» chiese Steve, rivolgendosi a Kaila e indicando la pistola che Danny aveva recuperato tra i rifiuti.
«Ve l’ho detto: io non sono riuscita ad aprire il bidone» singhiozzò Kaila.
Steve recuperò le manette. «Kaila, devi seguirci alla centrale».
La ragazza cominciò a piangere. «Vi prego, non ho fatto nulla. Io non ho mai visto quella pistola e non so nulla della morte di Melanie. Vi prego, dovete credermi».
Mentre Steve si avvicinava, la ragazza indietreggiò, impaurita. Poi tentò la fuga, cercando di scansare Steve. Ma l’uomo non si fece prendere in contropiede e aprì le braccia. La ragazzina ci finì dentro e Steve gliele strinse attorno.
«Mi lasci. Io sono innocente» strillò, dibattendosi nella sua stretta.
A Steve sarebbe bastato un secondo per bloccarla contro il muro e metterle le manette ai polsi, ma non voleva farle del male, e la ragazzina era talmente fragile. Con mossa improvvisa la fece girare e le bloccò entrambe le braccia dietro la schiena, tenendola con una mano sola. Nell’altra stringeva le manette che fece subito scattare ai polsi della ragazza.
«Kaila Kahanamoku, sei in arresto».
«Sono innocente» ripeté di nuovo la ragazza.
«Se lo sei, lo scopriremo. Ma ora devi venire con noi» disse Steve in tono conciliante e Kaila parve calmarsi e ritrovare un briciolo di lucidità.
Raggiunsero l’auto e fecero salire la ragazza sul sedile posteriore. Mentre Danny depositava la pistola trovata nel cassonetto in un sacchetto per le prove prelevato dal bagagliaio della Camaro, il cellulare di Steve squillò. Era Nicole.
«Dimmi, Nicky».
«Steve, Miles s’è svegliato e ora è in grado di parlare. Io e Kono andiamo all’ospedale a raccogliere la sua versione».
«Aspetta, ci sono novità. Io e Danny abbiamo sorpreso Kaila nel vicolo dietro il centro Thorpe. Era vicina ad un cassonetto in cui abbiamo trovato una pistola che sembra essere compatibile con quella che ha ucciso Melanie».
«E la ragazza che dice?».
«Dice di non saperne niente, ma secondo me mente. Qualcosa sa. Ascoltami, Nicky: manda Chin con Kono da Miles, tu mi servi per interrogare questa ragazzina. Nel frattempo manderò Danny da Fong per un test balistico».
«D’accordo, ti aspetto».
 
Quando Steve entrò nella sede dei Five-0 sospingendo Kaila davanti a sé, la ragazza stava ancora piangendo, cosa che aveva fatto ininterrottamente da che erano partiti dal centro.
Era solo, in quanto Danny era già partito in direzione del laboratorio di Fong.
Salutò Nicole e le chiese di prendere le impronte a Kaila e di mandarle a Fong, in modo che le potesse subito confrontare con quelle eventualmente rilevabili sulla pistola.
Dopo che ebbe completato questa incombenza, Nicole lo seguì sul retro, in una saletta per gli interrogatori. Fecero sedere Kaila su una sedia in mezzo alla piccola stanzetta in penombra e si misero entrambi di fronte a lei.
«Allora, Kaila: perché ci hai mentito?» esordì Steve, fissandola corrucciato.
La ragazza alzò la testa. «Non ho mentito» disse, con la voce che tremava.
«Sì, l’hai fatto. Tanto per cominciare, non ci avevi detto di lavorare al centro Thorpe. Poi ha mentito sulla pistola nel cassonetto».
Nuove lacrime scesero dagli occhi della ragazza. «Ero confusa. E avevo paura».
«Kaila, la tua migliore amica è stata uccisa. Se sai qualcosa, devi dircelo» incalzò Steve.
La ragazza scosse la testa. «Non so nulla, se non quello che ho detto agli altri detective con cui ho parlato ieri», ma Steve si accorse che mentiva.
«Non mentire!» gridò Steve e Kaila scoppiò di nuovo a piangere, coprendosi il viso con le mani.
Nicole decise di intervenire. Sfiorò la spalla di Steve e gli fece cenno di allontanarsi. «Faccio io». Era una tattica che usavano spesso: Steve faceva la parte del cattivo e poi Nicole o un altro dei Five-0 interveniva in quel modo. Il sospetto si sentiva quindi protetto e diventava più incline a parlare.
La donna si accosciò davanti a Kaila e le porse un fazzoletto.
«Coraggio, Kaila. Ora asciugati gli occhi e ascoltami».
Kaila si soffiò il naso e sollevò la testa.
«Da quanto tempo lavori al centro Thorpe?».
Libera dall’ingombrante presenza di Steve, che se ne stava in un angolo, appoggiato al muro a braccia conserte, la ragazza sembrava un po’ più tranquilla. «Lavoro lì da circa un anno e mezzo. Ci vado tre pomeriggi a settimana, dopo la scuola. Così posso racimolare qualche soldo. Non sono molti, ma per me è sufficiente».
«Di cosa ti occupi?».
«Aiuto dove c’è bisogno: alla mensa, all’accettazione, ovunque ci sia bisogno».
«Ti piace quello che fai?» chiese Nicole. Il suo tono di voce era calmo e conciliante per cui la ragazza si stava progressivamente rilassando.
«Sì, mi piace molto. Infatti, dopo il liceo vorrei iscrivermi all’università per diventare assistente sociale».
«Melanie però non condivideva questa tua passione, vero?» chiese dolcemente Nicole.
«No, lei no. Da quel che so, non aveva mai messo piede al centro».
Nicole notò che il nominare l’amica l’aveva messa di nuovo in agitazione. «Vuoi un bicchier d’acqua, Kaila?» le domandò e la ragazza annuì.
«Steve, per favore» chiese senza voltare la testa, «puoi prenderle un po’ d’acqua?».
Sentì la porta della sala interrogatori aprirsi e chiudersi di nuovo. Erano sole.
«So che hai detto ai detective Williams e Kelly che Melanie aveva appena lasciato Miles, vero?».
«Sì, è vero. È successo circa tre settimane fa».
«Il motivo della rottura?» indagò Nicole e non le sfuggì che Kaila si irrigidì.
«Non lo so». Non era la verità. Kaila sapeva tutto, com’era normale che fosse. Era naturale che Melanie si fosse confidata con lei. Eppure, per qualche motivo, non voleva parlare.
In quel momento, Steve rientrò. Porse a Kaila un bicchiere d’acqua e batté sulla spalla di Nicole. La donna capì che voleva parlarle in privato, quindi si alzò.
«Kaila, io esco un attimo a parlare con il Comandante McGarrett, ok? Torno subito».
La ragazza annuì e prese un sorso d’acqua.
Quando uscirono, Steve le disse che Chin e Kono lo avevano chiamato: avevano informazioni importanti per loro. Nicole si avvicinò alla scrivania touchscreen al centro del loro ufficio e avviò Skype. Selezionò il contatto e fece partire la chiamata verso il tablet di Kono.
Dopo un paio di squilli, il volto di Kono apparve sullo schermo appeso alla parete, ripreso dalla webcam del tablet.
«Come sta Miles? Cos’avete scoperto?» chiese Nicole dopo che si furono saluti.
«Miles sta bene, i medici dicono che si riprenderà in fretta. Abbiamo parlato con lui e ci ha dato qualche informazione importante, che potrebbe esservi utile nell’interrogatorio di Kaila».
«D’accordo, sentiamo» disse Steve.
«È rimasto davvero sconvolto quando gli abbiamo detto che Melanie era stata assassinata. Ci ha detto che non la vedeva da almeno tre settimane».
«Cioè da quando Melanie l’aveva lasciato, da quello che mi ha detto Kaila».
«Infatti. Ma non è stata Melanie a lasciarlo. È stato lui ad andarsene».
Steve sbatté il pugno sul bordo del tavolo. «Significa che Kaila ci ha mentito un’altra volta».
«Non è tutto» intervenne Chin, entrando nel campo visivo della webcam. «Miles ci ha detto il motivo della rottura. Aveva lasciato Melanie perché l’aveva sorpresa a baciarsi con un tizio più grande di lei».
«Eccola qui la notizia bomba!» esclamò Steve.
«Ragazzi, cosa sappiamo di questo tizio, oltre al fatto che fosse più grande di Melanie?».
«Molto poco, purtroppo» disse Kono. «Miles sa soltanto che il tipo è proprietario di una berlina sportiva, una BMW a quello che ci ha detto. Li ha sorpresi a baciarsi appoggiati alla macchina e il giorno seguente ha lasciato Melanie».
«La figlia di papà aveva fatto un po’ la birichina, quindi» rilevò Steve. «Quanto ai due simpatici amici che erano nell’appartamento di Miles e che ci sono sfuggiti? Di quelli che ha detto?» chiese Steve.
«Ha detto che lui è pulito da un bel po’ e che non spaccia. Però ha perso il lavoro e per guadagnare qualcosa presta casa sua agli spacciatori».
«Che è come se spacciasse lui» sentenziò Nicole. «Ma credo che ci penserà un po’ su la prossima volta, visto che s’è beccato una pallottola nel petto» concluse.
«Lo credo anche io» confermò Chin.
«C’è altro?» domandò Steve.
«No, eccetto che s’è stupito molto che avessimo fermato Kaila. Secondo lui non può essere stata lei. Erano praticamente sorelle e secondo Miles, Kaila non è in grado di fare del male a nessuno».
«Molto bene, ragazzi. Rientrate» ordinò Steve e Nicole chiuse la comunicazione.
«Quella ragazzina continua a prenderci in giro» sbottò Steve.
«È spaventata e sconvolta per la perdita della sua amica» la giustificò Nicole.
«Sta mentendo alle Forze dell’Ordine, non ai suoi compagni di classe».
«Me ne occupo io, ok?». Nicole sapeva che Steve odiava essere preso in giro in quel modo, ma aveva preso Kaila in simpatia e l’avrebbe protetta. Il suo sesto senso le diceva che non era implicata nella scomparsa di Melanie, quindi avrebbe fatto di tutto per provare la sua innocenza.
Stavano tornando da Kaila quando il cellulare di Steve squillò.
«Aloha, Danno».
«Ciao, Steve. Sono appena uscito dall’ufficio di Fong. Ha rilevato le impronte sulla pistola ma non sono quelle di Kaila, e quando l’ho lasciato aveva appena lanciato una ricerca sul database. Fong ha detto che farà comunque il test balistico ma dal numero di serie non si tratta della pistola di Thorpe. Quindi, non è quella che ha ucciso Melanie».
«A questo punto non abbiamo motivo di trattenerla qui. Grazie, Danny. A più tardi».
Steve chiuse la comunicazione e si rivolse alla moglie. «È evidente che Kaila non c’entra nulla, ma voglio capire perché ci sta mentendo».
Quando rientrarono, Kaila si era calmata. Nicole le si avvicinò di nuovo. Nel breve momento in cui i due si erano allontanati, Kaila sembrava aver recuperato un po’ di tranquillità.
«Ora ascoltami, Kaila. Ora ti farò alcune domande e voglio che tu sia sincera con me, d’accordo?».
«Sì» mormorò la ragazzina.
«I nostri colleghi hanno parlato con Miles, l’ex fidanzato di Melanie. Miles ha detto che è stato lui a lasciare Melanie».
«Non è vero» disse Kaila, ma aveva esitato un attimo di troppo prima di rispondere.
«Sappiamo entrambe che non stai dicendo tutta la verità. Melanie aveva una relazione con un uomo più grande di lei. Miles l’aveva scoperto e aveva deciso di lasciarla».
Kaila rimase in silenzio. Nicole lesse nei suoi occhi che sapeva la verità. Ma in quegli occhi neri lesse anche paura e capì che Kaila non avrebbe parlato.
«Avanti, Kaila. Devi dirci quello che sai. Melanie deve per forza essersi confidata con te, eri la sua migliore amica» disse Nicole, ma la ragazza scosse la testa.
«Se non collabori» intervenne Steve «dovremo incriminarti per complicità nell’omicidio di Melanie». Non era vero, ma Steve tentò di nuovo la carta dell’intimidazione.
«Ve lo ripeto: io non so niente. La sera che Melanie è stata uccisa sono stata chiusa in camera mia tutta la sera».
«Quindi nessuno può confermare il tuo alibi» tentò di nuovo Steve.
«Sono stata tutto il tempo a chattare con i miei amici su Internet. Ho spento verso le quattro del mattino».
Nicole si voltò verso Steve. «Se recuperiamo il suo computer posso verificare se quello che dice è vero».
«Se non lo è, saranno guai» sibilò Steve guardando la ragazza con cipiglio. Poi si rivolse a Nicole. «Chiama Danny, se è ancora in giro può passare a casa di Kaila a prendere il suo computer». Poi uscì.
Nicole rimase ancora un attimo nella stanza. «Stai rischiando, Kaila. Chi stai cercando di proteggere?». La ragazza tacque e la fissò. «Te stessa?», chiese retoricamente Nicole, e di nuovo non ebbe risposta.
«Non potremo farti uscire finché il tuo alibi non sarà confermato. Per il momento, resterai qui. Tra pochi minuti un agente verrà a prenderti per scortarti in cella».
Mentre usciva dalla sala interrogatori, fece il numero di Danny che rispose al secondo squillo.
«Dove sei, Danny?» chiese.
«A cinque minuti da Iolani Palace. Perché?».
«Kaila afferma di essere rimasta tutta la notte su Internet, la notte che Melanie è stata uccisa. Mi servirebbe il suo portatile per verificare se dice il vero».
«D’accordo, vado io. Ci vediamo più tardi».
Quando Danny ritornò entrò nell’ufficio di Nicole e le porse il portatile di Kaila.
«Grazie, Danny» mormorò la donna mentre lo posava sulla sua scrivania e lo accendeva.
«Servo suo, signora McGarrett» rise l’amico. «Com’è andato l’interrogatorio?» chiese poi, mentre Steve li raggiungeva e si fermava sulla porta.
«C’è qualcosa che spaventa Kaila, ma non vuole dirmi cosa».
«Oltre al Comandante?» domandò Danny e Steve sogghignò.
Nicole fece la linguaccia ad entrambi e si mise al lavoro sul computer di Kaila. Forzare la password fu affare di pochi minuti e lo stesso tempo occorse per recuperare i dati relativi alla cronologia Internet di due notti prima.
I dati confermarono ciò che Kaila aveva detto: la notte dell’omicidio era rimasta in camera sua e aveva chattato ininterrottamente fino alle quattro del mattino. Questo la scagionava completamente da ogni accusa, il che voleva dire che poteva essere rilasciata.
Nicole stampò i dati raccolti e li consegnò a Steve che diede ordine di rilasciare Kaila. Quando la ragazza se ne fu andata, Steve chiamò a raccolta i suoi per fare il punto della situazione. Assunsero automaticamente la solita posizione: Steve ad un capo della scrivania hi-tech che era il fulcro dell’ufficio, Danny e Nicole da un lato, Chin e Kono dall’altro.
«Vediamo di chiarirci un po’ le idee, ragazzi. Dunque, Melanie Thorpe viene assassinata nella notte tra mercoledì e giovedì scorso, tra le undici e mezzanotte mentre i genitori sono ad una festa di beneficenza. La madre scopre il cadavere solo giovedì mattina, quando la ragazza non si presenta a colazione».
Danny richiamò sullo schermo alcune fotografie della stanza della ragazza. «Melanie è uccisa con un colpo di pistola al petto sparato da una certa distanza, esploso dalla pistola che appartiene a suo padre, tuttora introvabile. Dalla stanza manca il diario della giovane, che viene recuperato giovedì».
Danny mostrò ciò che la Scientifica aveva recuperato dal diario. «L’assassino ha strappato alcune pagine dal diario, ma i ragazzi della Scientifica riescono a recuperare ciò che la ragazza aveva scritto».
Sullo schermo apparvero le immagini inviate da Fong.
«Da queste pagine sembra che il fidanzato di Melanie rubi alla Fondazione di suo padre» evidenziò Steve. «Ma da ciò che abbiamo saputo da Miles, Melanie aveva una relazione con un uomo più grande di lei, e queste parole potrebbero essere riferite a lui. Di quest’uomo non sappiamo nulla, tranne il fatto che guida una BMW sportiva».
«In tutto questo» intervenne Chin «non abbiamo uno straccio di sospetto: Kaila ha un alibi, non abbiamo nulla che possa incriminare Miles e, come dicevi, non sappiamo nulla del fidanzato segreto di Melanie».
«Non dobbiamo dimenticare però che Tyler Madison ha espresso dubbi sulla legittimità del centro di recupero che abbiamo visitato. Forse ci siamo dedicati troppo poco a questo aspetto. Non possiamo ancora escludere che l’assassino di Melanie non sia collegato all’attività della Fondazione Thorpe».
«Nicole ha ragione» confermò Kono. «Ci avete detto subito che il centro sembra nascondere qualcosa di losco. Dobbiamo andare più a fondo».
«Ok. Nicky, tu e io torniamo al centro. Magari Martins acconsentirà a farti sbirciare nei suoi computer. E se non lo farà, sarà evidente che nasconde qualcosa e ci procureremo un mandato».

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Capitolo 7
*** Non avevamo scelta ***


Nuovi sviluppi in questa intricata vicenda
sembrano portare i Five-0 verso l'assassino.
Ma siamo davvero sicuri che la pista
imboccata dagli agenti più spregiudicati delle Hawaii
sia quella giusta?
Buona lettura


Quando entrarono al centro si ripeté la scena già vista prima: nessuno li accolse presso la fatiscente reception e poterono incamminarsi tranquillamente lungo il corridoio.
Sbirciarono nelle varie stanze ma non c’era traccia né di Daniels né della signora Thorpe. Giunsero in fondo al corridoio ed entrarono nel refettorio. Le veneziane erano chiuse e l’ambiente era in penombra, sicché in un primo momento pensarono che fosse deserto. Almeno finché qualcuno non li chiamò.
«Ehi, amico!».
Steve si voltò e vide un tizio seduto ad uno dei tavoli, intento a fumare una sigaretta.
«Dici a me?» chiese Steve e Nicole notò la sua irritazione tanto nel tono di voce, quanto nel pugno che strinse automaticamente.
«Sì, dico a te. Lo sai che la tua amica è molto carina?» disse, sbirciando curiosamente Nicole.
L’uomo non si era evidentemente accorto che erano agenti.
Steve raggiunse una delle finestre e aprì rabbiosamente una delle veneziane. La luce del sole irruppe nel locale e l’uomo si riparò gli occhi con la mano. Era giovane, non doveva avere più di venticinque anni, e di corporatura media. Era chiaramente hawaiano, con la pelle olivastra e gli occhi scuri. Aveva un tatuaggio sul collo, che scompariva sotto il colletto della maglietta che indossava, e diversi piercing alle orecchie e alle sopracciglia.
Era troppo ben vestito per essere un senzatetto e quando si alzò in piedi i jeans griffati confermarono l’impressione.
«Adesso lo vedi il distintivo?» chiese Steve e il ragazzo alzò le braccia.
«Scusami, amico. Non è il caso di scaldarsi così».
Nicole conosceva abbastanza bene Steve da sapere che la conversazione lo stava irritando sempre di più e si preparò al peggio.
«Non sono amico tuo. Se ti rivolgi a me, chiamami signore, chiaro?».
Il ragazzo capì che non c’era da scherzare e si fece serio.
«Come ti chiami?» continuò Steve.
«Ken Hasamoha».
«Perché sei qui?» chiese Steve.
Ken si strinse nelle spalle e non diede risposta.
«Avanti, contro il muro» disse Steve, posando la mano sulla pistola ma senza estrarla dalla fondina. Il ragazzo sbuffò, ma si mise contro il muro a braccia e gambe divaricate.
«Vedo che sai come ci si muove in questi casi, eh?» domandò Steve, intuendo che non era la prima volta che subiva una perquisizione. «Nicole, controlla la sua identità, per favore».
La moglie stava già verificando i dati di Ken sul cellulare. «Abbiamo qualche precedente di droga, vero Ken?» chiese infine, mentre Steve, che non aveva trovato nulla addosso a Ken, lo faceva voltare.
«Sì, ma sono pulito adesso» borbottò.
«Lo vedremo» fece Steve. «Lo sai che la figlia dei Thorpe è stata assassinata?» chiese poi. Sperava che la domanda a bruciapelo lo avrebbe preso in contropiede, ma Ken rimase tranquillo.
«No. Non so nulla».
Steve annuì. «D’accordo. Ce lo ripeterai in centrale, ok?» disse, prendendo un paio di manette.
Ken sbuffò di nuovo, roteando gli occhi al cielo. Ma anche stavolta si voltò e incrociò le braccia dietro la schiena, lasciando che Steve lo ammanettasse.
«Tu resta qui» disse all’indirizzo di Nicole. «Lo porto in macchina e torno».
Quando Steve uscì, Nicole prese a guardarsi intorno. L’ambiente era fatiscente e il pavimento di consunto linoleum sembrava aver visto la seconda Guerra Mondiale. Un lato era occupato da un grande bancone di acciaio dove di certo venivano serviti i pasti come ad un selfservice. Sul lato opposto invece c’era una serie di bassi mobiletti, alcuni con le ante chiuse malamente. Nicole si avvicinò e ne aprì qualcuno, notando che contenevano piatti e stoviglie. L’ultimo della fila, vicino alla finestra, attirò la sua attenzione.
Era di fattezze diverse dagli altri che invece erano tutti uguali ed era praticamente vuoto. Il pavimento davanti al mobile era tutto segnato, come se fosse stato spostato molte volte, tanto da incidere quei segni sul linoleum. Incuriosita, Nicole lo spostò appena, rivelando una cavità dietro di esso, una nicchia ricavata nello spesso muro.
Stava chinandosi per spostare completamente il mobile e ispezionare il buco nel muro quando il suo cellulare squillò. Era Fong.
«Ehi, Charlie. Dimmi tutto».
«Aloha, Nicole. Ho i risultati balistici della pistola trovata nel cassonetto. È stata usata in una rapina un paio di mesi fa. Il caso non lo avete seguito voi, comunque la pistola è registrata a nome di Alistair Moore».
Nicole fischiò tra i denti: «Moore è un nome conosciuto. Ha creato un bel po’ di confusione con quella rapina e con le sue successive apparizioni».
La donna sentì un rumore dietro di sé e si voltò, pensando che Steve fosse tornato. Ma non era lui. Un uomo alto la fissava puntandole addosso una pistola. Doveva arrivare quasi ai due metri ed era abbastanza muscoloso. Nicole lo riconobbe immediatamente, sia per gli slavati occhi azzurri sia per la cicatrice sul mento.
«Charlie» disse, dato che aveva ancora la comunicazione aperta «dammi due minuti e ti richiamo, va bene?».
«Ok, benissimo» rispose l’altro e riattaccò.
Nicole abbassò lentamente il cellulare.
«Appoggialo sul mobile» le intimò Alistair. «Anche la pistola» aggiunse poi.
Nicole la estrasse e la posò accanto al telefono. Poi alzò le mani. Moore mosse la pistola facendole cenno di allontanarsi dall’arma e lei lo fece, spostandosi di lato di un paio di passi. Contemporaneamente però si avvicinò all’uomo.
«E così il mio nome è conosciuto, eh?» chiese lui, riferendosi alle parole che Nicole aveva pronunciato poco prima.
«Sì, ma difficilmente verrà segnalato per il premio Nobel» mormorò Nicole. Moore scoppiò a ridere, ma continuava a tenerla sottotiro e non abbassava la guardia.
«Five-0, eh?» disse, indicando il distintivo che Nicole aveva agganciato alla cintola. «Ho sentito parlare di voi».
«È evidente che sai molto poco di noi» replicò enigmaticamente Nicole.
«Sarebbe a dire?».
«Non sai che usciamo sempre in coppia?» chiese lei, spostando lo sguardo per fissarlo su un punto alle spalle di Moore.
Lui si girò di scatto e la sorpresa fu grande quando capì il bluff della donna. Ma era troppo tardi e Nicole gli era già addosso.
Gli afferrò il polso, piroettando velocemente su se stessa fino a trovarsi con la schiena contro il petto di Moore, mettendosi al sicuro da un eventuale sparo. Lo colpì con il gomito, in alto, alla bocca dello stomaco.
Moore sfiatò dalla bocca e si piegò per il dolore. La donna approfittò di quel momento di debolezza per disarmarlo, facendogli cadere di mano la pistola e calciandola lontano. L’uomo si riprese e si raddrizzò, scagliando un potente diretto contro il suo viso.
Nicole schivò di lato, avvertendo appena lo spostamento d’aria del colpo, e si chinò, penetrando la sua guardia e centrandolo con un pugno al plesso solare, già colpito in precedenza. Moore grugnì e si raddrizzò di nuovo, allontanandosi da lei e fissandola in cagnesco.
«Non sei granché senza la tua pistola» mormorò lei soavemente. Moore non la spaventava: era più grosso e forte di lei, ma non aveva alcuna coordinazione, mentre lei era addestrata per quel tipo di cose e ringraziò in silenzio le massacranti ore di allenamento con Steve.
Come aveva sperato, le sue parole lo fecero infuriare ancor di più. Si lanciò su di lei con un ringhio, ma Nicole lo stava aspettando. Schivò agilmente il colpo e agganciò il piede dell’avversario, alzando la gamba e facendogli perdere l’appoggio. Moore cadde pesantemente sul linoleum unto e Nicole gli balzò sulla schiena.
«Battuto da una donna, pensa un po’» gli mormorò all’orecchio, mentre gli girava le braccia all’indietro e prendeva le manette.
Quando Steve rientrò, trovo Nicole che stava ammanettando Moore immobilizzato a terra. La ragazza si rialzò e si ravviò i capelli all’indietro.
«Ce ne hai messo, eh?» borbottò.
«Scusa. Ho dovuto spostare l’auto, non potevo lasciarlo in pieno sole». Steve abbassò lo sguardo su Moore: «Non posso lasciarti da sola un attimo. Mi sa che ha ragione Danno: hai preso troppo da me».
La donna lo aggiornò su quanto gli aveva detto Charlie al telefono. Poi sorrise e indicò Moore che giaceva ancora ai suoi piedi. «Questo è tutto tuo» disse, recuperando pistola e cellulare sul tavolino accanto.
Mentre Steve lo aiutava ad alzarsi, Moore si mise ad inveire. «Voglio un avvocato! Quella stronza mi ha colpito senza motivo».
«Quella stronza è mia moglie, quindi stai attento a come parli. Quanto al resto, mi sembra che quella calibro nove sul pavimento sia un motivo sufficiente. Adesso chiudi la bocca e cammina».
Moore si avviò brontolando con Steve alle calcagna. «Vedi di non fare altri danni» disse, prima di uscire in corridoio. Si perse la boccaccia che Nicole fece al suo indirizzo.
Nicole indossò un paio di guanti e si inginocchiò per guardare dietro il mobile che aveva spostato. La cavità era più grande di quanto avesse immaginato e usò la torcia del suo cellulare per illuminarla. Conteneva un borsone scuro.
Lo estrasse e aprì la zip. Dentro c’erano una decina di pacchetti inconfondibili e sul fondo alcune mazzette di banconote. Dovevano esserci almeno cinquantamila dollari, suddivisi in mazzette di banconote di piccolo taglio, più la droga.
Nicole mise da parte il tutto e raccolse le impronte che trovò all’interno del nascondiglio, fotografandole con il cellulare e inviandole via mail a Charlie perché le verificasse. Alla fine rimise il mobiletto al suo posto e raggiunse Steve che l’attendeva accanto alla macchina. Moore e Hasamoha erano entrambi sul sedile posteriore della Camaro.
Steve accennò al borsone che la donna teneva in mano mentre lei lo deponeva nel baule.
«Uno dei tuoi amiconi seduto in auto ha qualcosa da nascondere. Considerato che Moore mi ha minacciata con una pistola quando mi ha vista trafficare vicino al nascondiglio di questa roba è l’indiziato numero uno. Ma Hasamoha ha dei precedenti, quindi non escluderei neanche lui».
«Bene, interrogheremo entrambi e vedremo cosa ne uscirà».
Rientrarono velocemente a Iolani Palace e chiusero Hasamoha in una stanza per gli interrogatori per dedicarsi a Moore. Dato che sfuggiva alla cattura da un bel po’ era chiaramente seccato di essersi fatto beccare da una donna, quindi farlo collaborare non sarebbe stato facile. L’approccio che avevano usato con Kaila non era adottabile.
Steve decise di lasciarlo ammanettato alla sedia per un po’, da solo.
«Avrà modo di ammorbidirsi, credimi» spiegò a Danny.
Nel frattempo Nicole si chiuse nel piccolo laboratorio che avevano da poco allestito in sede e raccolse le impronte sui pacchetti di droga. Una veloce ricerca sul database rivelò che appartenevano a Moore. Quando controllò il profilo dell’uomo, un dato in particolare attirò l’attenzione di Nicole: Moore possedeva una BMW Z4 decappottabile.
Mentre era lì, Fong la chiamò. Mise il vivavoce e posò il cellulare sul banco accanto a sé.
«Hai ragione, dovevo chiamarti. Scusa ma ho avuto un incontro ravvicinato con Moore».
«Sul serio? Tutto ok?» chiese l’amico.
«Sì, certo» ridacchiò Nicole. «Moore è ammanettato nella stanza accanto».
«Bel colpo!» la complimentò Fong. «Allora, dato che ce l’avete lì, immagino che ti interesserà sapere che ho verificato le impronte che hai fotografato oggi. Sono sue. Ha messo sicuramente le mani in quella cavità».
«Benissimo» replicò Nicole. «Dentro quel nascondiglio c’era un borsone pieno di soldi e droga. Le impronte sui pacchetti di droga sono di Moore. Quindi minimo va dentro per spaccio».
Nicole ringraziò Fong e si affrettò a comunicare a Steve i risultati ottenuti.
«Molto bene» disse, sbirciando l’orologio al polso. Era passata quasi un’ora da quando erano tornati a Iolani Palace. «Direi che l’amico è pronto per una chiacchierata».
Quando entrarono, Moore alzò gli occhi su di loro e si divincolò, cercando di liberarsi delle manette che lo tenevano bloccato alla sedia.
«Sono qui da un’ora!» sbottò. «Non potete trattarmi così, io vi denuncio».
Steve lo ascoltò a braccia conserte, poi si rivolse a Nicole. «Ricordami un attimo a che ora è stata registrata l’entrata del signor Alistair Moore, per favore».
«Esattamente cinque minuti fa» rispose lei, cogliendo al volo l’imbeccata di Steve.
Moore li guardò sorpreso per qualche secondo poi si agitò ancora di più, urlando contro di loro. Steve lo lasciò sbollire per un po’, poi fece un passo avanti e lo afferrò per una spalla, affondando le dita nei muscoli. Compresse con forza il nervo della spalla, strappando un ansito di dolore all’uomo, che si bloccò.
«Ora che abbiamo la tua attenzione, lascia che io e l’agente Knight chiacchieriamo un po’ con te. Cominceremo con una domanda facile: che macchina hai?».
L’uomo taceva, perciò Steve gli strinse ancor di più la spalla. Moore trasalì.
«È una domanda molto semplice, Alistair» intervenne Nicole.
«Se rispondi bene, ti lascio andare» sottolineò Steve.
«Ho una BMW» sputò, e Steve lo lasciò andare. «Non capisco però cosa c’entra la mia macchina» borbottò.
«Un’altra domanda facile: conosci Melanie Thorpe?».
«È la figlia di Michael Thorpe, giusto?».
«Esatto» confermò Steve. «La ragazza è stata uccisa e da quello che sappiamo aveva appena lasciato il suo ragazzo per un uomo più grande di lei. Un uomo che aveva una BMW».
Moore trasalì. «E pensate che io fossi l’amante di quella ragazzina?». Scosse la testa. «Vi sbagliate. Io non so nulla di questa storia. Io Melanie non la conoscevo nemmeno, non l’ho mai vista in vita mia».
«Vuoi sapere cosa pensiamo noi, invece?» disse Nicole e proseguì senza attendere risposta. «Tu stai usando il centro Thorpe per coprire i tuoi traffici e contemporaneamente te la facevi con la figlia di Michael. Ma lei ha scoperto le tue attività e ha minacciato di denunciarti. Così l’hai uccisa».
Moore scosse violentemente la testa. «Sentite, vi ripeto che io non so nulla. Io… io voglio un avvocato, non potete accusarmi di omicidio».
Steve cercò sul Galaxy le foto che Nicole gli aveva passato e ne mostrò una del nascondiglio vuoto. «Sai cos’è questo?».
«No, non ne ho idea» replicò Alistair.
«Strano» riprese Steve «Ci sono le tue impronte dappertutto in questo buco».
Moore guardò prima uno poi l’altra. «Sentite, forse ho messo le mani lì, ma è stato prima che ci mettessero la droga».
Nicole si avvicinò e si abbassò, guardandolo negli occhi. «Nessuno di noi ha mai detto che ci fosse droga lì dentro».
Alistair si rese immediatamente conto dell’errore commesso e nello stesso istante capì di non avere scampo. Nicole si raddrizzò e affiancò Steve. Entrambi, a braccia conserte, attendevano che Moore vuotasse il sacco.
«D’accordo» capitolò infine «parlerò. Ma voi dovete assicurarmi che lascerete cadere l’accusa di omicidio. Non c’entro nulla con quella storia. Se mi garantite che sarò al sicuro da quello, vi parlerò della droga».
Steve annuì. «Accordato. Ora dicci ciò che sai».
Moore trasse un respiro. «Un anno fa fui contattato da un uomo. Mi disse di essere arrivato a me attraverso diversi contatti nella malavita e che voleva il mio aiuto».
«Il nome. Come si chiamava quello che ti ha contattato?».
«Non conosco il suo nome. Non l’ho mai visto e abbiamo avuto solo contatti telefonici in cui lui usava un dispositivo per alterare la voce. Però capii che era il titolare del Centro Thorpe».
«Come lo capisti?» chiese Nicole, che prendeva appunti con il suo Galaxy Tab.
«Dalla proposta che mi fece. Mi propose di utilizzare il Centro per il traffico di droga, in cambio di una percentuale sui profitti. La proposta era ottima, il Centro era una perfetta copertura. Così accettai. Questo è quanto».
Steve fece cenno a Nicole di uscire e poi si rivolse al Moore. «Ci sei stato d’aiuto. Finirai dentro per spaccio, ma il giudice apprezzerà il fatto che hai collaborato». Poi uscì.
«Pensi quello che penso io?» chiese Nicole.
«Sì, purtroppo. Ma Michael Thorpe ha un alibi, ricordi? Era alla festa della fondazione. E Moore non ha saputo darci un nome, quindi non siamo certi che abbia parlato proprio con Thorpe».
Nicole annuì. Stava entrando in ufficio quando si bloccò di colpo.
«Steve, dov’era la festa della fondazione?».
«All’Hilton, perché?»
Nicole non rispose ma raggiunse il centro dell’ufficio e richiamò la tastiera sul piano della scrivania. Apparve una cartina di Honolulu: la donna evidenziò subito l’Hilton su Waikiki Beach e poi l’ubicazione di villa Thorpe. Tracciò un percorso dall’uno all’altra: meno di dieci minuti.
«Danno!» chiamò Steve e l’altro si affacciò sulla porta del suo ufficio. «Andiamo a prendere Thorpe».

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Capitolo 8
*** Avrei voluto che andasse diversamente ***


Siamo alla svolta finale di questo caso.
I Five-0 stanno ormai stringendo il cerchio
attorno all'assassino della ragazza.
Secondo voi di chi si tratta?
Buona lettura!

 


«Comandante McGarrett, le ripeto che sta facendo un errore. Come può anche solo pensare che abbia potuto alzare le mani su mia figlia?»
Michael Thorpe era ammanettato in sala interrogatori, bloccato sulla sedia su cui fino a mezz’ora prima era stato immobilizzato Moore. Danny e Steve l’avevano trovato alla villa e tratto in arresto perché sospettato di traffico di droga e dell’omicidio della figlia. Per entrambi i crimini, Thorpe si stava strenuamente professando innocente.
«Melanie aveva scoperto che il centro era una copertura per il traffico di droga. Si era accorta in qualche modo che lei rubava i fondi di beneficenza, coprendo gli ammanchi con i proventi dello spaccio. Ha dovuto ucciderla per farla tacere» sparò Steve, nel tentativo di farlo crollare, ma l’altro scosse la testa.
«Non so chi vi abbia detto queste cose, ma io non so niente né di irregolarità sui fondi né di spaccio di droga. E, per l’amor di Dio, non ho ucciso mia figlia, dovete credermi» disse Michael, in tono concitato.
«Conosce Alistair Moore?» chiese Danny, mostrandogli la foto segnaletica.
Thorpe guardò la foto con attenzione e annuì: «Sì, l’ho visto al telegiornale. Mi pare che l’anno scorso sia stato arrestato per estorsione».
Danny annuì: «L’abbiamo arrestato al centro e lui ha confessato che chi dirigeva il centro gli lasciava carta bianca per utilizzare gli ambienti per i suoi loschi traffici, in cambio di una percentuale sui guadagni».
«Ve lo ripeto: non so niente di questa faccenda».
La porta alle spalle di Steve si aprì e Nicole si affacciò nel vano. «Steve, c’è qualcosa che devi vedere».
L’uomo uscì e la donna gli porse un tabulato. «Ho ricontrollato i dati telefonici di Melanie».
Era una ricerca che la donna aveva svolto subito nonostante il cellulare della ragazza non fosse stato ritrovato.
«Ricordo che mi hai detto che la maggior parte delle chiamate era stata fatta alla sua migliore amica, mentre molte altre risultavano verso una carta prepagata, quindi irrintracciabile».
 Nicole annuì. «Sì, è esatto. Ho cercato altri indizi e, mentre lavoravo, ho agganciato il segnale del telefono di Melanie. Chi ne è in possesso ora l’ha acceso, forse per controllare che non ci fosse nulla di compromettente».
Steve abbassò gli occhi sul foglio che lei gli aveva dato pochi istanti prima. «Il segnale proveniva da qui?» chiese, indicando il puntino rosso sulla cartina.
«Esatto. È l’appartamento di Daniel Martins» spiegò Nicole.
«Chiama Danny, ci andiamo subito». Steve non dovette nemmeno pensarci, ma la donna lo fermò.
«Ho svolto qualche altra ricerca su di lui, Steve. Pochi mesi fa ha acquistato un’auto nuova. Una BMW».
Steve sgranò gli occhi di fronte a quella informazione.
«Sì, Martins era l’amante di Melanie».
Il comandante chiese a Kono di analizzare i conti bancari dell’uomo e richiamò in fretta Danny. Mentre raggiungevano l’appartamento di Martins, Nicole lo aggiornò sulle ultime novità.
«Ci ha mentito, quel bastardo» sbottò Danny. «Evidentemente Susan era diventata troppo vecchia, e ha pensato bene di far restare tutto in famiglia».
Giunsero in fretta nel quartiere dove abitava Martins. Ma quando arrivarono davanti alla porta del suo appartamento, al terzo piano di un condominio di lusso, si accorsero subito che la porta era solo accostata.
Subodorando qualcosa, Steve ordinò in silenzio di prepararsi e i suoi compagni estrassero le pistole. Steve spinse appena la porta che ruotò silenziosamente sui cardini ed entrò.
Notò immediatamente il corpo di Daniel steso a terra, lo sparato della camicia imbrattato di sangue. Vide subito che aveva una pistola accanto alla mano destra e la calciò via.
«Nicky» sussurrò e la donna si chinò sul corpo, verificando ciò che tutti loro avevano già intuito, mentre Steve e Danny controllavano che l’appartamento fosse libero.
Quando si chinò su di lui però, Nicole si accorse che respirava ancora. Quando gli sfiorò il braccio, l’uomo aprì gli occhi. Intuì che voleva parlare, dire qualcosa, e si piegò verso la sua bocca.
«Noi… non avevamo scelta... dovevamo coprire i costi… Poi… abbiamo esagerato…» sussurrò. Poi si irrigidì e, infine, il suo corpo si rilassò. Nicole cercò di sentirgli il polso, ma Martins era ormai spirato.
«È morto» disse, alzando gli occhi su Steve che l’aveva raggiunta, e gli riferì le sue ultime parole.
Danny esaminò il corpo. «Non credo si sia sparato da solo» disse, accennando con il capo alla pistola che Steve aveva fatto scivolare sotto il tavolino del salotto.
Qualcosa attirò la sua attenzione: sul tavolino stesso c’erano i resti di un cellulare fucsia che era stato fatto a pezzi. Danny indossò un guanto e lo sollevò.
«Ecco il cellulare di Melanie» evidenziò.
Steve terminò la telefonata con cui aveva chiesto a Max di raggiungerli subito e si avvicinò all’amico.
«Raccogliamo le prove. Max e la Scientifica avranno parecchio da fare».
 
Data l’urgenza del caso, i risultati arrivarono già nel pomeriggio.
Fong comunicò che la pistola trovata in casa era quella di Michael Thorpe, la stessa che aveva esploso il colpo fatale per Melanie.
Dall’indagine sui conti di Martins, Kono aveva scoperto che aveva un patrimonio di quasi tre milioni e mezzo di dollari, divisi su cinque conti. E, giusto il giorno precedente, era stato trasferito tutto su un conto alle Cayman.
«Bene, direi che il quadro si sta chiarendo» rilevò Steve. «Daniel Martins rubava alla Fondazione da anni e usava i proventi della droga per coprire gli ammanchi».
«Aveva anche una relazione con Melanie» proseguì Danny, «che alla fine aveva scoperto il suo crimine e forse aveva minacciato di smascherarlo».
«Martins non lavorava di certo da solo» intervenne Chin, «e deve aver parlato con il suo complice che ha deciso di mettere a tacere la ragazza e poi anche Martins».
«Sia Melanie che Daniel sono stati uccisi dalla stessa pistola che appartiene a Michael Thorpe, il padre di Melanie, il solo ad avere accesso alla cassaforte in cui era custodita» concluse Kono.
«Mi sembra che il quadro si faccia tristemente chiaro» commentò Nicole.
«Con la copertura della festa di beneficenza, Michael lascia in qualche modo i suoi ospiti» riassunse Steve. «Torna a casa, prende la pistola e uccide Melanie. La pistola scompare e riappare stasera nell’appartamento di Martins, che troviamo praticamente morto per un colpo al petto sparato dalla stessa arma».
«C’è un solo punto che non torna, in questa storia» evidenziò Chin. «Thorpe era qui quando Martins è stato fatto fuori. Non può essere lui».
«Al minimo, ne è il mandante. È ancora qui: se è coinvolto, stavolta confesserà».
Ma, nonostante la veemenza con cui Steve e Danny lo interrogarono, Thorpe non smise di professarsi innocente.
Nicole, Chin e Kono erano rimasti attorno alla scrivania, sbirciando tra i file del caso. Tutti avevano la sensazione che ci fosse qualcosa di più dietro quella faccenda ed erano decisi a scoprire cosa.
Nicole alzò lo sguardo quando sentì aprirsi la porta e soffocò un’imprecazione. «Buongiorno, signora».
Davanti a lei stava Patricia Jameson, Governatore dello Stato di Hawaii, che avanzava nella stanza come se fosse di sua proprietà. E un po’ era vero, dato che i Five-0 rispondevano direttamente a lei.
«Buongiorno, signori» li salutò. «Ho saputo che avete in custodia Michael Thorpe».
«Sì, signora. Secondo gli indizi raccolti, ci sono i presupposti per una condanna per omicidio» rispose Nicole, avendo il grado più alto tra i presenti.
«È impossibile» sbottò la donna. «Mi faccia parlare con il comandante McGarrett».
«Sta interrogando Thorpe. Lo faccio uscire» disse, ben sapendo che era inutile provare a discutere con la donna, e facendola accomodare nell’ufficio di McGarrett.
Quando uscì, Steve raggiunse la donna.
«Comandante, state facendo un errore» disse senza preamboli. «Michael non può aver ucciso sua figlia».
«Signora, capisco che la notizia la sconvolga, dato che era in rapporti di amicizia con la famiglia Thorpe, ma tutti gli indizi portano a lui. La pistola che ha ucciso Melanie appartiene a Michael, che era il solo ad avere la chiave della cassaforte in cui la teneva».
«Michael ha un alibi per la notte dell’uccisione di Melanie». La rivelazione lasciò Steve di sasso, ma la donna proseguì: «La sera in cui la ragazza è stata uccisa, ero anche io alla festa della Fondazione. Verso le undici io, Michael e Daniel ci siamo ritirati in una saletta privata dell’Hilton per discutere di alcuni affari importanti. L’incontro è stato più lungo del previsto e siamo ritornati alla festa verso l’una».
Steve ricordava che la morte di Melanie era stata stimata tra le undici e mezzanotte. Michael sembrava quindi innocente. Anche Daniel era con loro, anche se ora non c’era modo di interrogarlo per sentire la sua versione.
«Comandante, mi creda: Michael Thorpe è innocente. Non farebbe mai del male a sua figlia».
«Va bene. Verificheremo. Nel frattempo, Thorpe resta qui, non fosse altro che per la sua sicurezza».
La donna protestò, ma Steve fu irremovibile. Quando finalmente se ne andò, Steve ordinò a Nicole di convocare immediatamente il responsabile della sicurezza dell’hotel Hilton in servizio quella sera.
L’uomo, un afroamericano in completo scuro, si presentò venti minuti più tardi. Si chiamava Robert Allison e lavorava all’Hilton da cinque anni. Ricordava perfettamente la festa della Fondazione Thorpe e, quando Steve gli chiese notizie in merito, confermò che il Governatore Jameson, Michael Thorpe e un altro che non conosceva (ma che riconobbe quando Nicole gli mostrò la foto di Martins), si erano ritirati in privato e avevano lasciato la festa per qualche ora.
«Non ricorda movimenti strani o qualcosa di inusuale successo quella sera?»
«No, mi dispiace».
«Va bene, signor Allison. Grazie per averci dedicato il suo tempo».
Steve gli tese la mano e l’altro la strinse, alzandosi per uscire. Ma era sulla porta quando si fermò e si voltò di nuovo verso di loro.
«Aspetti un momento. Ora che ci penso, anche la signora Thorpe ha lasciato la festa per un po’» disse.
«Intende che si è unita al marito e al Governatore?» chiese Steve, ma l’altro scosse la testa.
«Ero all’esterno, stavo controllando i miei uomini, quando l’ho vista uscire dalla festa. Sembrava tesa e le ho chiesto se andava tutto bene. Lei mi ha detto di sì, che aveva soltanto un po’ di mal di testa ed era uscita per una boccata d’aria. A quel punto io sono rientrato».
Steve lanciò un’occhiata a Nicole. «Sa dirmi quando è rimasta assente la signora?» domandò poi all’uomo.
«Sì, circa quaranta minuti. È tornata poco prima di mezzanotte e sembrava più tranquilla e rilassata».
Nicole si scusò e sedette alla propria scrivania, mentre Steve ringraziava e accompagnava Allison alla porta. Quando si fermò sulla soglia dell’ufficio di sua moglie, la donna alzò lo sguardo verso di lui.
«Chiama Danny e gli altri: c’è un biglietto aereo prenotato a nome di Susan Thorpe sul volo dell’Hawaiian Airlines in partenza tra venti minuti, destinazione Tokyo».
Riuscirono per un pelo a fermare la partenza del volo e salirono a bordo solo per trovare il posto di Susan vuoto. La compagnia aerea confermò che la Thorpe non si era presentata all’imbarco. Steve era furioso e, mentre il suo cellulare squillava, ordinò a Nicole di scatenare le sue risorse e trovare la donna.
Al telefono era Duke. «Comandante, abbiamo avuto una segnalazione dall’Hawaii Medical Center. Susan Thorpe è stata ricoverata al Pronto Soccorso mezz’ora fa. Sembra sia stata accoltellata».
«Grazie, Duke». Steve riattaccò. «Nicky, puoi risparmiarti il lavoro. L’abbiamo trovata».
Quando arrivarono all’ospedale, le condizioni di Susan erano abbastanza critiche ma stabili, e Steve insistette per parlarle.
«Susan Thorpe, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Melanie Thorpe e di Daniel Martins, oltre che per complicità in spaccio di droga e riciclaggio di denaro sporco» dichiarò Steve.
La donna, prostrata dal dolore per la ferita al ventre, non disse nulla, ma distolse lo sguardo. Steve si avvicinò al letto e si chinò su di lei. «Ha il diritto di restare in silenzio, ma vorrei che rispondesse a questa semplice domanda: perché?»
«Perché?» sibilò la donna. «Mi chiede perché? Perché Melanie era la “bambina di papà” e Michael non aveva occhi che per lei. E, nonostante avesse già tutto, Melanie si è voluta prendere anche Daniel».
«Lei e Daniel avevate una relazione e all’improvviso lei non era più al centro dell’attenzione, vero? All’improvviso Daniel aveva una nuova fiamma, più bella e più giovane di lei».
Susan strinse il pugno e lo sbatté sul letto. «Rubavamo i soldi della Fondazione da anni e Daniel aveva pensato di coprire la cosa con altre attività che rendevano molto di più. Eravamo ormai pronti per trasferirci altrove e vivere la nostra vita insieme, ma Melanie si è messa in mezzo».
«E lei non poteva permetterlo, giusto? Non quando Martins ha cominciato a pentirsi e a capire che quello che stavate facendo era sbagliato. Ha confidato tutto a Melanie e la ragazza voleva denunciarvi, è così?»
«Avrei dovuto sospettare che Daniel non era altro che un debole e…»
La donna non riuscì a finire: rantolò e s’irrigidì, mentre gli strumenti a cui era collegata impazzirono. Due infermiere irruppero nella stanza, dedicandosi a Susan. Una terza si precipitò dentro, spingendo via Steve e il suo gruppo. Prima che potesse tornare nella stanza, Steve la bloccò: «Fate il possibile per salvarla. Dovrà rispondere di fronte al giudice per i crimini orrendi di cui si è macchiata».
L’infermiera annuì e si precipitò al capezzale di Susan.
La donna ebbe bisogno di due trasfusioni e si riprese a fatica dalla ferita che, ironia della sorte, le era stata inflitta da un senzatetto che ciondolava intorno all’aeroporto e che le aveva chiesto l’elemosina. Di fronte al suo rifiuto, l’uomo aveva perso la testa e l’aveva colpita con un pugnale.
Tuttavia, due mesi dopo il suo mancato tentativo di fuga da Oahu, si trovava di fronte al giudice con una lista di accuse notevole tra cui colpiva quella di omicidio premeditato della sua stessa figlia.
Steve si scusò con Michael Thorpe.
«Non si preoccupi» lo rassicurò l’uomo. «Lei stava facendo il suo lavoro e gli indizi puntavano a me». Gli tese la mano che Steve prese: «Io la devo ringraziare, Comandante: mi ha giurato che avrebbe preso l’assassino di Melanie e l’ha fatto».
«Avrei voluto che andasse diversamente, signore» replicò Steve e rimase a guardarlo mentre se ne andava, distrutto dalla perdita di una figlia che adorava e della donna che quella ragazza aveva messo al mondo e cresciuto e, tutto ad un tratto, era diventata un’assassina capace di colpire il suo stesso sangue.

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Capitolo 9
*** Ogni minuto è prezioso ***


Il caso Thorpe è risolto, ma nè Steve nè Nicole
possono prendersi un momento di respiro.
Un'amica bussa alla porta dei due in cerca di aiuto
 e il senso dell'onore di entrambi li costringerà
ad intervenire per risolvere la questione con ogni mezzo necessario.
Buona lettura!

 

Steve e Nicole stavano passeggiando sulla battigia, con le onde che lambivano loro le caviglie ad ogni respiro del grande oceano. Entrambi erano nati alle Hawaii e l’oceano era un elemento fondamentale per la loro vita.
Quella sera avevano deciso di fare una passeggiata perché erano tutti e due troppo irrequieti per stare in casa. Il caso Thorpe li aveva scossi e così avevano chiuso tutto a chiave e si erano avviati sulla sabbia, a piedi nudi, godendosi la fresca brezza che proveniva dal Pacifico. Avevano chiacchierato e teso le orecchie per udire gli inconfondibili scrosci delle balene che saltavano giocose sull’acqua.
Quando ritornarono in vista della casa, Steve alzò lo sguardo e si irrigidì, spingendo Nicole dietro di sé. Aveva notato un movimento nell’ombra, sulla veranda, e subito aveva messo se stesso fra Nicole e la possibile minaccia.
La donna non aveva capito cosa l’aveva messo in allarme, ma era ormai abituata a questo suo modo di fare. Il suo passato di Navy Seal era molto evidente in questi frangenti e non era la prima volta che Steve si comportava così. Come quando entravano in un locale, fosse anche il bar più tranquillo di Waikiki, e lui sembrava perlustrare la stanza con lo sguardo, verificare se c’erano pericoli, memorizzare le possibili vie di fuga e solo dopo riprendeva a dare retta a Nicole. Steve era fatto così, non c’era modo di cambiarlo e, sebbene nei primi tempi l’avesse trovato un po’ esagerato, aveva ben presto capito che era il suo modo di amarla e ora doveva ammettere che era piacevole avere un uomo che si prendesse cura di lei in quel modo.
«Steve? Nicole? Siete voi?» domandò la figura scura. Era una voce di donna ed entrambi la riconobbero immediatamente.
«Cynthia!» esclamò Nicole e la raggiunse sulla veranda, mentre Steve entrava in casa e accendeva la luce in terrazza.
«Tesoro, che è successo?» domandò Nicole quando vide l’amica alla luce. Cynthia aveva gli occhi arrossati come se avesse pianto e, proprio in quel momento, un’altra lacrima le scese lungo la guancia. Singhiozzando, si gettò al collo di Nicole.
Nicole l’abbracciò a sua volta e la fece sedere su uno dei divanetti di vimini. Anche Steve si accosciò davanti alle due donne.
«Ora calmati e spiegaci cosa è successo» disse dolcemente Nicole.
Cynthia si asciugò gli occhi e trasse un respiro tremolante. «Si tratta di Elliot».
Un brivido corse giù per la schiena di Steve. Elliot Reeds, il marito di Cynthia, era uno dei suoi migliori amici. Erano cresciuti insieme e, anche se ad un certo punto le loro strade si erano divise, quando Steve era partito per Annapolis, si erano ritrovati subito quando era tornato a Oahu e avevano immediatamente riallacciato i vecchi rapporti.
«Cos’è successo a Elliot?» chiese Steve.
«Non lo so» confessò la donna. «Ma temo sia qualcosa di grave». E singhiozzò di nuovo.
Nicole le prese le mani. «Devi spiegarci con calma cos’è successo e ti aiuteremo in ogni modo possibile, ok?»
Cynthia annuì e sospirò di nuovo. «Ricordate che Elliot non è potuto venire al vostro matrimonio, vero?»
«Sì, certo» confermò Steve. «Aveva un importante incarico in Venezuela, giusto?»
Cynthia annuì. «Solitamente non opera mai al di fuori delle Hawaii, ma…»
Vedendo che esitava, Nicole le strinse la mano. «Ma?»
«Vedete, le cose non stanno andando benissimo ultimamente. La crisi ha colpito duro il nostro settore ed Elliot è stato costretto a tagliare del personale. Purtroppo non è bastato e ci siamo trovati in difficoltà». Cynthia abbassò gli occhi, torcendo nervosamente le mani. «Così Elliot ha cercato lavoro al di fuori dello Stato ed improvvisamente è saltato fuori questo incarico molto remunerativo».
Steve capì che qualcosa turbava profondamente la donna. «Cynthia, chi è la persona che Elliot doveva proteggere?» chiese. Cynthia non rispose, continuando a tenere gli occhi bassi.
«Cynthia, devi dirmi chi è questa persona».
La donna scosse la testa e nuove lacrime caddero sui pantaloncini che indossava.
«Gliel’avevo detto» mormorò poi.
Nicole si chinò verso di lei. «Che cosa gli avevi detto?»
Cynthia sollevò la testa, con gli occhi traboccanti di pianto. «L’affare sembrava troppo grosso e mi sono insospettita. Così ho fatto un po’ di ricerche. Quello che ho scoperto non mi è piaciuto e l’ho subito riferito a Elliot. Ma lui sapeva che quell’incarico era l’unico modo per salvare l’azienda ed è partito lo stesso».
«Devi dirmi chi è, Cynthia. Chi è questo tizio?» domandò di nuovo Steve.
«Rafael Machado» disse infine Cynthia, dopo un lungo momento di silenzio.
Steve si alzò di scatto. «Rafael Machado?» domandò.
«Lo conosci?» chiese Nicole.
«Sì, lo conosco» disse Steve. «Ma non è venezuelano. È colombiano. È a capo di uno dei cartelli della droga più potenti del Sudamerica».
Cynthia annuì. «Corrisponde con quanto avevo scoperto io. Ho pregato Elliot di non accettare: potevamo trovare qualche altro modo di venire fuori dalla nostra situazione. Ma, sebbene non fosse entusiasta di proteggere quel delinquente, non ha voluto ascoltarmi. Diceva che si trattava soltanto un incarico breve. Poi avrebbe intascato il compenso e avrebbe dimenticato».
Steve prese una sedia e sedette di fronte a Cynthia.
«In che cosa consisteva, esattamente, questo incarico?»
«Elliot doveva incontrare Machado nella sua tenuta in Colombia. Poi avrebbe dovuto proteggerlo in un viaggio d’affari che l’uomo doveva fare in Venezuela. L’incarico durava complessivamente un mese».
Steve annuì. «D’accordo, Cynthia. Ora, perché sei preoccupata per lui?»
«Eravamo d’accordo di sentirci ogni giorno. Ma mercoledì Elliot ha mancato il contatto. Subito non mi sono preoccupata, non è la prima volta che accade. A volte il lavoro lo tiene impegnato per molte ore consecutive e quando riesce a liberarsi può essere che, a causa del fuso orario, io sia a letto e lui non vuole disturbarmi. Così ho aspettato. Però domani saranno quattro giorni che non ci sentiamo. E non è mai accaduto».
Nicole e Steve si scambiarono uno sguardo. «Che ne pensi, Steve?» chiese la donna.
Lui si alzò e fece qualche passo, lasciando correre lo sguardo sull’oceano buio. Poi si voltò e fissò le due donne che aspettavano fiduciose la sua opinione.
«Vorrei pensare che Elliot non si sta facendo vivo perché impegnato con questo suo cliente. Ma se lo conosco bene – e credimi, Cynthia: lo conosco bene! – si è reso conto di aver fatto una stupidaggine accettando questo incarico. Sicuramente avrà provato a metterci una pezza da solo. Solo che quella è gente che non scherza».
Nicole cinse con un braccio le spalle dell’amica. «Che facciamo, Steve?» domandò poi.
«Che facciamo? Lo recuperiamo, ovvio» esclamò Steve, come se progettare un’incursione in un paese straniero fosse cosa di tutti i giorni. Poi sedette di nuovo di fronte a Cynthia.
«Ascoltami bene: ti prometto che te lo riporterò a casa, va bene?»
Cynthia annuì e, per la prima volta quella sera, sorrise. «Grazie, Steve».
«No, non ringraziarmi» sbottò all’improvviso. Nicole sgranò gli occhi perché non si aspettava che si rivolgesse a Cynthia con quel tono, ma subito lo vide sogghignare. «Dopo la lavata di capo che farò ad Elliot, di certo non sarà felice che tu mi abbia coinvolto!»
Entrambe le donne sorrisero ma quando Steve riprese a parlare si fecero serie: «Non sarà semplice riportarlo indietro. Mi ci vorrà un po’ di tempo per organizzare tutto, ma ora è tardi e tu sei molto stanca. Avrò bisogno anche del tuo aiuto quindi ora andiamo tutti a riposare, ok?»
Cynthia annuì e si alzò.
«Puoi restare da noi, se vuoi» disse Nicole ma Cynthia scosse la testa.
«No, ma grazie. Preferisco tornare a casa».
«Sicura?»
«Sì, certo. Sta tranquilla, Nicole».
Steve e Nicole l’accompagnarono alla macchina e Steve si abbassò per parlarle attraverso il finestrino aperto.
«Ti aspetto domattina a Iolani Palace. Voglio che tu sappia esattamente cosa andremo a fare, ok?»
Cynthia annuì e salutò, poi partì. Steve prese sottobraccio Nicole ed insieme tornarono in casa. Si prepararono per andare a letto e quando si stesero sotto il lenzuolo, Nicole gli si rannicchiò contro.
«Credi davvero che Elliot abbia fatto qualche stupidaggine?»
«È sempre stato molto impulsivo. E molto orgoglioso. Avrebbe dovuto dirmi che era in difficoltà, avrei trovato il modo di aiutarlo». Nicole ascoltava la sua voce con l’orecchio incollato al suo petto nudo. «Ha accettato per non andare a picco, ma sapeva benissimo chi era Machado. E una volta là, deve aver fatto una mossa sbagliata». Steve le accarezzò i capelli. «Spero solo che non sia già troppo tardi» mormorò.
La donna si rizzò su un gomito. «Davvero pensi che…» ma non riuscì a finire la frase.
«Quella gente è spietata, Nicky. Non potevo dirlo a Cynthia, ma raramente tengono in giro dei testimoni. Prego Dio di sbagliarmi».
Nicole si accucciò di nuovo al suo fianco. «Dobbiamo fare in fretta, allora. Dobbiamo andare a riprenderlo e riportarlo a Cynthia».
Steve la strinse a sé e la tenne così finché sentì il suo respiro cambiare e farsi più lento. Poi la stanchezza prese anche lui e si addormentò.
 
Il mattino seguente, quando raggiunsero Iolani Palace, i colleghi erano già arrivati e tutti e tre sedevano nei rispettivi uffici.
Steve non aveva ancora deciso se coinvolgerli o meno in quella missione di salvataggio e quel mattino aveva condiviso i suoi timori con la moglie, mentre facevano colazione.
«Avrò bisogno di aiuto per riportare a casa Elliot, ma non so se posso chiedere ai Five-0. Se lo facessi, sono sicuro che mi seguirebbero. Ma non posso metterli in pericolo in questo modo».
«Non possiamo nemmeno andare da soli però. In due siamo un po’ pochi» aveva risposto lei e Steve l’aveva guardata inarcando un sopracciglio.
«Scusa? “Possiamo”? Non so ancora con chi andrò, ma so per certo che tu non verrai con me».
Nicole riconobbe immediatamente il tono e non insistette. Anche lei era certa di una cosa: non avrebbe lasciato che Steve andasse da solo. Ma doveva procurarsi argomentazioni solide come roccia, se voleva farlo capitolare.
Così, quando arrivarono in ufficio, Steve non aveva ancora deciso.
«Nicky, ho bisogno che tu mi trovi tutte le informazioni possibili su Rafael Machado. Quelle note e quelle meno note. Gossip, curiosità, amicizie, posti frequentati. Tutto. Fa più in fretta che puoi, ogni minuto è prezioso».
Nicole annuì e si mise subito al lavoro. Scandagliò a fondo tutti i database delle forze dell’ordine, i registri internazionali, il web. Quaranta minuti più tardi bussò alla porta dell’ufficio di Steve. Era al telefono ma alzò gli occhi e le fece cenno di entrare.
«No, non sono sicuro del teatro dell’operazione. Potrebbe essere Venezuela o Colombia» stava dicendo in quel momento. Nicole sedette su una delle poltrone di fronte alla sua scrivania.
«Sì, lo so. Stiamo lavorando per capire dove si trova l’obiettivo del recupero, appena possibile ti farò sapere». Seguì un’altra pausa poi Steve annuì. «La ringrazio, signore». E riattaccò.
«Ho chiamato Joe White, il mio vecchio comandante alla base di Coronado. Mi deve un favore da un po’ di tempo e gli ho chiesto se posso riscuoterlo ora. Ha cinque uomini liberi che arriveranno qui nel giro di ventiquattr’ore».
«Avremo l’appoggio dei Navy Seals?» domandò lei e quando lui annuì, si sentì immediatamente sollevata. Non che la missione fosse meno difficile così, ma con i Seals era tutta un’altra storia.
«Tra l’altro, Machado è sott’occhio da tempo. Ho chiesto a Joe di provare ad ottenere le autorizzazioni per un’operazione con tutti i crismi, con l’obiettivo principale di beccare Machado, ma me l’ha sconsigliato. Non sa a che punto sia l’indagine su di lui, ma è certo che, se anche fosse in dirittura d’arrivo, ci vorrebbe troppo tempo. Quindi agiremo per conto nostro e non posso nasconderti che forse ci saranno conseguenze. Ma salvare Elliot è la priorità numero uno. In compenso Joe mi ha assicurato che chiederà al comando del Pacifico di fornirci una nave appoggio. Tenterà di farla passare per un’esercitazione». Poi si rivolse a Nicole, indicando la cartellina con il logo dei Five-0 che teneva in mano. «Hai scoperto qualcosa?»
«Rafael Machado, trentasette anni» disse Nicole, prendendo una foto dalla cartellina e spingendola verso di lui. Mostrava un uomo con la carnagione olivastra e i capelli corti e neri. Aveva il viso tondeggiante, la fronte ampia sopra gli occhi nerissimi. L’espressione del viso era quella di un uomo abituato a comandare, spietato negli affari. Nicole proseguì nella sua analisi.
«Figlio di Rafael Senior, ha preso le redini dell’attività di famiglia quando il padre è morto, non più di cinque anni fa. Nelle sue mani, l’azienda ha prosperato in tutti gli ambiti, legali o meno che fossero». Nicole prese un altro foglio e glielo porse. «Come vedi dall’estratto conto, il signor Machado dispone di un discreto patrimonio personale ma la cifra che vedi» e Steve si stupì che un conto in banca potesse avere tante cifre, «è solo quella delle attività legali, quelle di facciata. Il vero business lo fa con le armi e, soprattutto, la droga».
Di nuovo, Nicole gli sciorinò davanti dei fogli. «L’ho collegato ad almeno quattro conti numerati, uno a Zurigo e uno alle Cayman, tanto per citarne alcuni».
Steve sgranò gli occhi. «Come hai fatto a risalire a informazioni con questo grado di segretezza? E in così poco tempo?».
Nicole sorrise e scosse la testa. «Non chiedere. Meglio che tu non lo sappia». Poi proseguì seria. «Al patrimonio monetario comunque dobbiamo aggiungere ville e attività sparse un po’ dappertutto tra Colombia, Ecuador, Brasile e Venezuela».
«È quel che si dice un buon partito, eh?» rise Steve. «Sappiamo dov’è ora?»
«Il suo Gulfstream privato è atterrato due giorni fa all’aeroporto Lopez di Buenaventura. Da lì Machado è partito con il suo yacht per raggiungere l’isola di sua proprietà su cui vive, Isla Niebla [1]. È un’isoletta al largo di Buenaventura, così chiamata per la particolare nebbia che l’avvolge ogni mattina. È da sempre di proprietà della famiglia Machado, ma Rafael ne ha fatto da poco il suo centro operativo».
Nicole estrasse dalla cartellina una foto di Isla Niebla. Era stata scattata dall’alto e ritraeva una piccola isoletta nell’Oceano Pacifico. Era occupata per tre quarti da fitta boscaglia e, immerso nel verde, sul lato nord, spiccava un grande complesso residenziale.
«Sembra un villaggio vacanze, ma è tutto di Rafael Machado. Le sezioni staccate che vedi sono gli alloggi per la servitù e per gli ospiti che di tanto in tanto Machado invita a Isla Niebla».
«Quindi immagino che terrà le attività illegali lontane dall’isola. Non vorrà rischiare che i suoi ospiti ficchino il naso dove non dovrebbero».
«Non direi» obiettò Nicole. E gli porse una scansione termica dell’isola.
«E questa come l’hai avuta?» domandò incredulo. «No, lascia perdere. Ho deciso che non lo voglio sapere» concluse poi, senza che la donna avesse parlato.
Poi guardò meglio il documento. «E questi cosa sono?» chiese, indicando due punti, uno direttamente sotto la casa padronale e l’altro ad una certa distanza, in mezzo alla boscaglia a circa un chilometro dalla casa.
«Non lo so. So solo che il satellite non riesce ad entrare lì dentro».
«Direi che sono entrambi troppo grandi per essere delle ghiacciaie, tu che dici?» scherzò Steve. «E sulla sfera privata che sappiamo?» domandò poi.
Nicole consultò i suoi appunti e tirò fuori tre fotografie che ritraevano tre donne. Tutte di carnagione del colore del miele bruciato, tutte con i capelli neri, tutte con fisici da top model.
«Non è sposato e non ha figli e questi sono i suoi ultimi tre flirt, collezionati negli ultimi otto mesi. Come vedi, ha gusti molto precisi in fatto di donne. Ha detto addio alla sua ultima fiamma un paio di settimane fa e sembra che ora sia solo».
Steve raccolse tutti i documenti in un fascio. «Splendido lavoro, Nicky. Davvero ottimo».
«Hai deciso se coinvolgerai anche Danny e gli altri?».
Steve scosse la testa. «Non posso chiederglielo né permetterò loro di offrirsi volontari. Ma devo informarli di ciò che voglio fare. E probabilmente elaboreremo un piano insieme, perché cinque paia di occhi vedono meglio di uno. Voglio avere qualcosa di pronto per quando i Seals di Coronado arriveranno qui, così con loro dovrò solo aggiustare i meccanismi e risparmieremo tempo».
«Visto e considerato come vi muovete voi Seals, saremo più che sufficienti» disse Nicole.
Steve notò subito il “saremo” di Nicole. «Credevo ne avessimo già parlato».
«Di cosa?» chiese Nicole, avendo però capito subito a cosa si riferiva.
«Tu non verrai con noi».
«Ah, di questo? No, tu ne avevi parlato, tesoro. Io non ho mai accettato ciò che hai detto».
«Non sto scherzando, Nicky. Non è un gioco».
«Mai detto che lo fosse. E comunque hai bisogno di me».
«Ho bisogno di saperti al sicuro, ecco di cosa ho bisogno» sbottò Steve, alzandosi in piedi di scatto.
Nicole si alzò a sua volta. «Io posso arrivare su quell’isola, Steve».
«Come?» domandò.
Nicole allargò le braccia. «Guardami. E immaginami con i capelli neri».
Steve strabuzzò gli occhi, quando la collegò alle tre foto che la donna gli aveva mostrato pochi attimi prima. «Oh no. Assolutamente no! È fuori discussione» sbraitò.
«Steve, è l’unico modo. Io posso arrivare sull’isola prima di voi così da verificare dov’è Elliot. Prova a pensare: Machado sa che Elliot è un cittadino americano. Se si accorgerà che state facendo irruzione capirà al volo che siete Seals e lo farà fuori. Sempre che non l’abbia già fatto».
«Bene, così andrà dentro per omicidio».
«Ma il nostro obiettivo è portare a casa Elliot, non farlo ammazzare per beccare Machado, Steve!»
Steve taceva e Nicole proseguì. «Da dentro capirò meglio la situazione e potrò aggiornarvi, in modo da poter aggiustare il piano. Sai che sono brava in queste cose, Steve. Mi hai già vista all’opera più volte».
Era vero, Steve doveva ammetterlo. La prima missione sotto copertura di Nicole si era svolta appena una settimana dopo che era stata aggregata ai Five-0 e se l’era cavata alla grande. A quella ne erano seguite altre, in cui lei aveva fatto esperienza e aveva perfezionato quell’attitudine particolare al trasformismo. Steve non aveva dubbi che anche in questa occasione ne sarebbe uscita con il massimo dei voti: era più tosta di molti dei Seal con cui aveva lavorato e se si trovava nei guai sapeva trovare il giusto escamotage per cavarsene fuori.
Steve capì che non era preoccupato per le sue competenze. Era preoccupato di quello che avrebbe dovuto fare per farsi portare su quell’isola. Scosse la testa, ma con meno convinzione di prima.
Nicole girò intorno alla scrivania e gli si avvicinò. «Steve, posso farcela e tu lo sai. Vi sarò più utile su quell’isola che qui a casa ad angosciarmi per te. Andrà tutto bene, credimi».
Steve le prese delicatamente il viso fra le mani. «Come faccio a stare tranquillo al pensiero che Machado ti metterà le mani addosso?»
«È questo il problema, vero? Se Kono ti avesse chiesto la stessa cosa non avresti mosso tutte queste obiezioni, vero?»
Steve ci pensò su un po’. «Forse no. Hai ragione, non sono obiettivo. Nella mia testa so che stai dicendo il giusto, so che sarebbe importante averti lì. Ma il cuore mi urla di tenerti il più lontana possibile. Se Machado ti chiederà di andare a letto con lui, che farai?»
«Saprò cavarmela, Steve» disse lei con estrema dolcezza. «Non posso dirti ciò che farò, ma improvviserò qualcosa. Ti devi fidare di me».
L’uomo fece un profondo sospiro. «E sia, farai parte della missione. Ma comando io e farai ciò che ti dirò senza discutere, ok?»
Nicole si scostò velocemente e portò la mano alla fronte, esibendosi nel saluto militare. «Signorsì, signor comandante!» esclamò.
In quel momento, Danny bussò alla porta di vetro dell’ufficio. Con lui c’era Cynthia e Steve li invitò ad entrare.
«Aloha, Cynthia. Tutto bene?» chiese Steve e la donna annuì.
«Abbiamo elementi nuovi» disse poi. «Danny, chiama Chin e Kono, devo informarvi di qualcosa».
Si riunirono tutti nella grande sala centrale.
«Bene, ragazzi. Abbiamo un’emergenza. Conoscete tutti Elliot Reeds? È il marito di Cynthia e un mio carissimo amico».
Chin annuì. «Ha l’agenzia di protezione personale che avevi contattato per Nicole, giusto?»
«Sì, esatto» confermò Steve. «Elliot non era presente al mio matrimonio perché impegnato in un lavoro importante». Si rivolse alla moglie. «Nicky, ti dispiace?» domandò, accennando alla tastiera virtuale sul piano della scrivania.
La donna digitò alcuni comandi e sullo schermo apparve la foto di Machado.
«Eccolo qui. Rafael Machado, capo di uno dei cartelli della droga più influenti in Colombia e in Sudamerica».
Vide subito che Danny inarcò un sopracciglio. «Il tuo amico si è scelto un bel tipo da proteggere» borbottò, salvo poi ricordarsi che era presente anche Cynthia. «Con tutto il rispetto» aggiunse.
«L’azienda di Elliot è in difficoltà economica» rispose Steve. «Elliot sapeva chi era la persona che andava a proteggere, è vero, ma ha dovuto abbassarsi per salvare l’agenzia. Era un lavoro di un mese, ben pagato. Gli sarebbe bastato per rialzare la testa».
Danny alzò le mani, segnalando che non aveva obiezioni.
«Qual è l’emergenza?» domandò Kono.
«Sono ormai quattro giorni che Elliot non si fa vivo con Cynthia. Non è mai successo e Cynthia è preoccupata. E io con lei».
Nicole digitò alcuni comandi.
«Ho cercato di agganciare il GPS del cellulare di Elliot, ma non c’è segnale. Come se fosse disattivato. Lo è da quando Cynthia ha perso i contatti con lui. L’ultimo rilevamento prima che fosse oscurato lo posiziona in Venezuela».
«Sì, non vi ho detto che il lavoro di Elliot consisteva nel proteggere Machado in un viaggio in Venezuela. Dubitiamo però che Elliot sia in Venezuela. Secondo noi è stato portato a Isla Niebla».
«Come interveniamo?» chiese Danny, ma Steve scosse la testa.
«Non interveniamo» disse e Cynthia si voltò di scatto verso di lui che alzò una mano per fermarla. «Intendevo, non interverremo noi direttamente. Ho chiamato il mio vecchio comandante della base di Coronado. Ci manda cinque Seal per questa missione a cui parteciperemo solo io e Nicole».
Nicole richiamò le immagini di Isla Niebla sugli schermi.
«Quella che vedete è Isla Niebla, al largo delle coste colombiane. Il complesso fotografato è la villa del nostro uomo. Nicole ha inoltre procurato una scansione termica dell’isola in cui si vedono un paio di strutture nascoste sotto la casa e a circa un chilometro dalla stessa. Quest’ultima è di grandi dimensioni. Sono impenetrabili al satellite, quindi lì dentro c’è sicuramente qualcosa che Machado non vuole sia vista».
Danny si voltò verso Nicole: «Anche le scansioni termiche? Credi che il Comandante McGarrett ti difenderà quando finirai davanti alla corte marziale?» domandò serafico.
Nicole sollevò su di lui uno sguardo malizioso, e riprese a digitare sulla tastiera virtuale. «Credi davvero che riescano a beccarmi, se io non voglio farmi beccare?»
«Elliot potrebbe essere lì?» chiese Cynthia.
«Non lo sappiamo. Ma è molto probabile. Di sicuro cominceremo a cercarlo da Isla Niebla».
«Come pensavate di muovervi?» chiese Chin.
«Volevo mettere giù una specie di piano prima che arrivino i Seals, ma io e Nicole abbiamo già un’idea di massima. Nicky, vuoi spiegare tu?» le chiese Steve e la donna annuì.
«Le immagini che abbiamo recuperato dal satellite sono troppo poche per permetterci di stendere un piano come si deve. Quindi abbiamo bisogno di qualcuno che vada su quell’isola e raccolga quante più informazioni possibili. Per far questo, dovrei entrare in gioco io. Dovrò raggiungere Machado e farmi “invitare” sulla sua isola. Lì giunta, cercherò di saperne di più su dove è tenuto nascosto Elliot. Quando avrò in mano notizie certe, comunicherò il tutto a Steve che entrerà in azione con i Seals per recuperare me ed Elliot».
«Un piano che a parole è semplicissimo» disse Chin. «In pratica, un po’ meno. Ti espone tantissimo, Nicole».
«Credi che non gliel’abbia detto?» intervenne Steve.
«Non posso permettere che ti succeda qualcosa, Nicole» mormorò Cynthia.
«Sì, ma Nicole ha ragione» s’intromise Danny. «Se c’è una persona che può farti arrivare su quell’isola in tutta tranquillità – beh, insomma: in relativa tranquillità – è lei. L’abbiamo vista in azione e sappiamo che è brava in queste cose».
Steve annuì. «Lo so. Per questo la sua partecipazione non è in discussione. Sarà lei a portarci dentro. Mi sono già messo il cuore in pace. Anche perché, a meno di legarla e rinchiuderla in un bunker, me la ritroverei comunque a Isla Niebla!».
La battuta di Steve servì ad alleggerire la tensione nervosa, ma l’uomo richiamò subito tutti ai problemi pressanti. Stava per parlare quando il cellulare di Nicole che era posato sulla scrivania si animò. La donna controllò e sorrise.
«Che fortunata coincidenza. Ho utilizzato un programmino che “scandaglia” il web e mi comunica qualsiasi notizia abbia a che fare con Machado. Secondo quanto riporta questo articolo, Machado parteciperà ad un’asta di beneficienza che si terrà a Bogotà tra una decina di giorni. Pensa che brav’uomo!».
«Un angelo!» borbottò Danny. «Ci costringe a perdere un po’ di tempo, ma penso che sia la migliore occasione in cui Nicole potrebbe tentare di avvicinarlo. Anche perché ci servirà ancora qualche giorno per organizzare tutto».
«Machado è un uomo ricco e potente» puntualizzò Chin «che di certo è abituato ad ottenere subito ciò che vuole. Se Nicole saprà catturare il suo interesse, le chiederà subito di andare con lui a Isla Niebla».
«Secondo me dovresti presentarti come una giornalista, o qualcosa del genere» suggerì Kono. «In tal modo potresti portare un po’ di attrezzatura come tablet e computer, senza destare sospetti».
«È una buona idea» approvò Steve. «Viceversa, non potrai portare armi. Se per caso dovesse far perquisire il tuo bagaglio, ti troveresti nei guai. Non mi piace l’idea di saperti disarmata, ma non vedo molte alternative su questo punto».
«Bene. Supponiamo che riesca a intrufolarmi all’asta – cosa per la quale non vedo difficoltà – e che riesca a farmi notare da Machado – cosa che non è così scontata. A questo punto lui mi invita ad andare a Isla Niebla e io accetto» ricapitolò Nicole. «Quello che troverò là è un mistero, quindi non possiamo fare molti piani. Sarà fondamentale cercare di capire se Elliot è tenuto prigioniero lì e dove e scoprire cosa sono quei bunker sotterranei che si vedono nelle scansioni termiche».
«Devi muoverti con estrema cautela, Nicky» raccomandò Steve. «Io sarò con i Seals a bordo della nave appoggio. Staremo il più vicini possibile, e anche se dovremo tenerci sotto l’orizzonte per non farci vedere, saremo pronti ad intervenire in caso di bisogno ».
«D’accordo. Per quel che riguarda le comunicazioni, direi di evitare l’auricolare: posso benissimo collegare il mio Galaxy al tuo, così mi potrai ascoltare come se fossi in chiamata».
«Pensi che Machado abbia la possibilità di controllare i segnali in uscita?» domandò Kono.
«È probabile. Quei due bunker sotterranei mi fanno pensare che usi l’isola anche per le attività meno nobili di famiglia. Immagino che la sicurezza abbia un peso particolare e avrà di sicuro apparecchiature per controllare i segnali in ingresso e in uscita. Ma posso benissimo criptare tutto e ci vorranno giorni per decrittare i miei messaggi, sempre che riescano a farcela. Nel frattempo, spero di essere già a casa».
«Le chiamate non sono sicure?» chiese Steve e Nicole scosse la testa.
«Quelle no. Sentirai tutto quello che diremo e potrò inviarti immagini, anche in diretta, con la fotocamera. Comunicheremo solo via mail, così potrò cifrare i messaggi».
«Ok. Nicole, ti do quarantotto ore da quando metterai piede sull’isola. Raccogli più informazioni che puoi, ma se dopo due giorni non avremo ancora nulla in mano, ti tiro fuori da lì, chiaro?»
«Potrebbero non essere sufficienti» obiettò la donna.
«Non importa. Due giorni, dopodiché butto all’aria l’isola, trovo Elliot e vi faccio uscire entrambi».
«Obbedisco» mormorò Nicole e Danny la guardò ad occhi sgranati.
«Ragazza, qualcosa non va? Non ti ho mai vista arrenderti in questo modo».
Nicole sorrise. «Ho dovuto promettere di obbedire ad ogni ordine finché questa storia non sarà finita. Altrimenti mi avrebbe lasciato a casa».
«È per la sua salvaguardia e per la mia salute mentale» borbottò Steve e tutti risero.
«Ammettiamo che tutto vada per il meglio: in due giorni Nicole scopre dove tengono Elliot» disse Chin. «Come interverrai?» chiese a Steve.
«Devo accordarmi con la squadra di Seals che mi aiuterà, ma direi che arriveremo sull’isola di notte. Probabilmente a bordo di due gommoni. A quel punto, molto dipenderà dalle informazioni che ci avrà dato Nicole. Se avrà scoperto dov’è Elliot procederemo a recuperare prima lui e poi lei. Se invece non avremo questo tipo di informazioni, dovremmo tentare un approccio diverso. Sicuramente ci sarà più confusione e rischieremmo di mettere in pericolo Nicole. Quindi penetreremo nella villa, metteremo al sicuro Nicky e troveremo un modo per persuadere il signor Machado a dirci dov’è Elliot».
Dedicarono ancora un’ora a discutere di ogni possibile scenario, ma non c’era molto altro che potessero fare prima che arrivassero i rinforzi promessi da Joe White. Alla fine, Danny prese la parola.
«Sicuro che non ti serve il nostro aiuto? Magari come squadra appoggio, non so» disse, ma Steve scosse la testa.
«Anche mettendo da parte il discorso della vostra sicurezza personale, quello che ci proponiamo di fare potrebbe avere conseguenze a livello diplomatico. Se le cose andassero male, non voglio che le vostre carriere rimangano sporcate da questa cosa. Lo stesso vale per la pazza di mia moglie, ma dubito di riuscire a farla ragionare!»
«Va bene» prese atto Chin. «Ma se vi dovesse servire qualcosa, qualsiasi cosa, sappi che noi saremo qui».
Steve ringraziò e la riunione si sciolse. Cynthia lo seguì in ufficio, mentre Nicole disse che si sarebbe assentata per un po’. Steve sedette con Cynthia sul divano del suo ufficio.
«So che ti sembrerà qualcosa di estremamente pericoloso ma non è la prima volta che faccio una cosa del genere. Abbiamo recuperato persone in situazioni ben peggiori di Elliot».
«Quello che mi spaventa è che siate messi in pericolo. Se dovesse accadervi qualcosa non me lo perdonerei» disse la donna, ma Steve scosse la testa.
«Non ti nascondo che un po’ di preoccupazione c’è anche da parte mia. Ma sei Navy Seals, credimi, bastano e avanzano».
«Il fatto che sia coinvolta anche lei non mi fa stare per nulla tranquilla» mormorò Cynthia.
«Non preoccuparti» la rassicurò Steve. «Non avrei mai permesso a Nicole di accompagnarmi se pensassi che il pericolo è troppo grande. Io non sarò lontano e sarò più che pronto ad intervenire se dovesse averne bisogno. Ma la mia ragazza è perfettamente in grado di cavarsela, dammi retta» disse Steve con orgoglio.
Steve dedicò ancora un po’ di tempo a tranquillizzare Cynthia che alla fine si alzò.
«Non ho parole per esprimerti la mia gratitudine per quello che stai facendo per Elliot e per me. Sei un buon amico, davvero».
Steve si strinse nelle spalle. «Elliot farebbe lo stesso per me».
Mentre la accompagnava fuori, incrociarono Nicole che era rientrata. La donna si infilò in bagno immediatamente e ne uscì tre quarti d’ora più tardi. Quando si presentò nell’ufficio di Steve, l’uomo la guardò a bocca aperta. «I tuoi capelli!» disse.
«Beh, devo pur fare in modo che Machado mi noti» rispose lei e gli si avvicinò.
La somiglianza con le foto delle donne di Machado ora era estremamente marcata perché Nicole aveva tinto i capelli di nero. Steve dovette ammettere che il contrasto con gli occhi viola e la carnagione di Nicole era meraviglioso e si accorse di avere il fiato corto come la prima volta che l’aveva vista. La prese per i fianchi e l’attirò bruscamente a sé, baciandola con passione. Nicole rispose al bacio con lo stesso slancio, ma fu la prima a staccarsi.
«Comandante! Mi meraviglio di lei» disse in tono scherzoso.
«Scusami. Non ho saputo fermarmi» rispose lui con un sorriso. «Non dovrei mandarti nella tana del lupo in queste condizioni: sei assolutamente irresistibile».
Il cellulare di Steve squillò in quel momento. «È Joe» disse.
Nicole uscì dall’ufficio e lo lasciò tranquillo, mentre andava a far vedere il nuovo colore ai colleghi, che dimostrarono di gradire il cambiamento. Quando Steve li raggiunse, aveva buone notizie.
«Joe è riuscito ad ottenere il permesso per cinque giorni di addestramento speciale in quel tratto di Oceano Pacifico. La partenza della squadra di Seals è prevista per stasera alle cinque e dovrebbero arrivare verso le dieci. Nicky, tu mettiti in moto per sistemare le cose per l’asta benefica e il tuo arrivo a Bogotà».
«Sorella, tu occupati dell’asta. Io prenoto volo e albergo» si offrì Kono.
A sera, almeno per quanto riguardava Nicole, era tutto organizzato. Non c’erano voli diretti verso Bogotà, quindi Kono aveva prenotato un volo American Airlines con scalo a Los Angeles e Miami. In una ventina di ore Nicole sarebbe quindi arrivata a Bogotà mercoledì mattina e Kono le aveva prenotato una stanza al Radisson Royal, lo stesso albergo che sabato sera avrebbe ospitato la manifestazione di beneficienza.
Nicole era entrata nel database dell’Associazione che aveva organizzato l’evento e aveva aggiunto il proprio nome tra quelli degli inviati. Aveva dato un’occhiata agli eventi degli anni precedenti: si tenevano all’aperto ed erano abbastanza informali ma eleganti. Si vedeva un grande buffet all’aperto, gente che si aggirava tra i tavoli con il proprio drink in mano, rideva e sembrava divertirsi.
Di certo, pensò fra sé Nicole, imbucarsi a questa festa non dovrebbe essere la parte più difficile del piano.
 

[1] Nebbia, in spagnolo

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Capitolo 10
*** Steve, ci sono novità ***


Elliot, uno dei migliori amici di Steve, è in pericolo.
E se c'è qualcosa a cui Steve non sa resistere
è la richiesta d'aiuto di un amico.
Il piano è pronto e ora tocca a Nicole.
Buona lettura!

 


Erano passate da poco le dieci e mezza di sera quando il volo diretto da San Diego atterrò  all’aeroporto di Honolulu. Nicole si era già occupata di noleggiare un’auto per i Seals e stava attendendo con Steve che gli uomini promessi da Joe White scendessero dall’aereo.
Quando li vide, li riconobbe immediatamente. Era impossibile non notare il passo marziale e l’espressione risoluta. Anche se erano in borghese e non indossavano alcuna insegna del loro grado, era difficile non immaginare che facessero parte dell’esercito. Mentre si avvicinavano, Nicole li osservò attentamente, cercando le differenze e i punti in comune con Steve che era stato un Seal.
Erano tutti alti, più o meno quanto suo marito. Avevano i capelli cortissimi, dal taglio chiaramente militare, e indossavano un assortimento di jeans e pantaloni cargo, magliette e camicie hawaiane. Nicole represse a stento un sorriso quando notò la scritta su una delle magliette: “I’m a good guy” [1]. Chi la indossava era il più massiccio della compagnia, un energumeno di almeno due metri con i bicipiti tatuati che spuntavano dalle maniche della maglietta. Gli altri erano più o meno della stessa stazza di Steve, eccetto uno che era un po’ più piccolo e più magro, anche se sembrava muscoloso esattamente come gli altri.
Anche prima di conoscere Steve, Nicole sapeva che i Seals erano l’èlite. L’addestramento necessario ad entrare nelle forze speciali era massacrante e poteva essere portato a termine con successo solo con dedizione totale, tanto che entrava così in profondità nel loro modo di essere che un Seal non smetteva di comportarsi come tale nemmeno nel momento in cui tornava alla vita civile.
Quando videro Steve, due di loro mostrarono di riconoscerlo. Lasciarono cadere il bagaglio e abbracciarono McGarrett che rispose ridendo al loro saluto. Quando smisero di darsi pacche sulle spalle, i cinque uomini notarono Nicole che era rimasta un passo dietro al marito.
«Adesso ho capito perché ci hai abbandonati per dirigere una task force ad Honolulu» disse uno di loro, fissando Nicole. «È la tua partner?» domandò.
«Sì» confermò l’uomo. «Sul lavoro e nella vita. Quindi abbassa lo sguardo, razza di idiota» brontolò Steve sorridendo. Poi la prese per la vita e l’attirò a sé: «Nicole, questi sono Dean e Sam» disse, indicando i due ragazzi che aveva abbracciato. «Sono stati con me in Corea quando davo la caccia a Victor e Anton Hesse». Poi si rivolse all’intero gruppo. «Signori, vi presento l’agente Nicole Knight dei Five-0. La signora è anche mia moglie e ci accompagnerà nella missione per la quale siete qui».
Dean, quello che aveva chiesto a Steve se Nicole era la sua partner, le tese la mano. «Scusi, signora. Non credevo certo che Steve avrebbe messo la testa a posto, un giorno. Sono lieto di conoscerla» mormorò.
Era alto come Steve ma leggermente più massiccio. Aveva capelli e occhi neri ed era un bel ragazzo se non si considerava il naso deformato come quello di un pugile.
Nicole sorrise e gli strinse la mano. «Gli amici di mio marito sono miei amici quindi, considerato anche che lavoreremo a stretto contatto nei prossimi giorni, direi di abolire le formalità». L’uomo annuì e procedette velocemente a fare le presentazioni.
«Io sono il comandante Dean Cooper, Seal Team Three, e questo è mio fratello Sam» disse, indicando l’altro uomo che aveva mostrato di conoscere Steve.
«Comandante! Ma pensa» proruppe Steve e l’altro sogghignò.
«Lo sarei diventato anche se tu fossi rimasto. La tua inettitudine era ormai evidente» replicò Dean e Steve lo colpì con un pugno scherzoso.
Nicole strinse la mano a Sam. «È un piacere conoscerti, Nicole».
Sam era molto simile al fratello, ma non aveva il naso rotto. Doveva essere più giovane di Dean ma, come seppe più tardi da Steve, aveva solo un anno in meno.
Dean riprese la parola. «Il nostro bravo ragazzo qui» disse, indicando il gigante con la buffa scritta sulla maglietta «è il soldato scelto Alex Huston. È il nostro esperto in… qualsiasi cosa».
Tutti scoppiarono a ridere mentre Nicole pensava che da vicino sembrava ancor più grosso, un gigante d’uomo massiccio come una roccia. Aveva i capelli rasati sul cranio tondo come una palla di cannone e la donna era leggermente in apprensione mentre tendeva la mano e l’uomo la racchiudeva nel suo pugno enorme.
Dean proseguì. «E terminiamo il giro delle presentazioni con il soldato scelto Mason Powell e con il nostro esperto di comunicazioni, Johnny Wood».
Mason aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri e una cicatrice sotto l’occhio destro, mentre Johnny era il più piccolo della compagnia. Aveva il fisico più asciutto ma quando le strinse la mano Nicole avvertì che era muscoloso almeno quanto i suoi colleghi.
Infine, Dean si volse verso il gruppo. «Ragazzi, vi presento Steve McGarrett, il mio vecchio comandante in Corea e Afghanistan. Non so ancora cosa saremo chiamati a fare, ma avrà lui il comando in questi giorni».
Steve strinse la mano a tutti prima che Dean riprendesse a parlare. «Non ho portato un tiratore scelto perché qui c’era il migliore del Team Three. Ma a forza di loco moco [2], mi sa che ti sei rammollito» disse, colpendo leggermente Steve sulla pancia assente.
Le schermaglie proseguirono per un po’ finché toccò a Nicole richiamarli alla serietà. La donna aveva già ritirato le chiavi del SUV che aveva noleggiato per il team Seal quindi uscirono e raggiunsero l’hotel Hilton, dove i cinque uomini avrebbero alloggiato. Prima di salire nelle stanze loro assegnate, si riunirono tutti in una piccola sala riunioni messa a disposizione dall’hotel e Steve espose brevemente l’obiettivo della missione.
«Direi che è un gioco da ragazzi. La casa deve restare in piedi o va rasa al suolo?» chiese Dean, in tono scherzoso.
«La casa possiamo anche demolirla, ma solo dopo aver portato fuori Nicole e Elliot» rispose Steve.
«Non ci avete detto che ruolo avrà Nicole» intervenne Sam.
«Nicky è il nostro biglietto d’ingresso. Venerdì mattina partirà per Bogotà dove incontrerà Machado. Sappiamo che le ultime tre donne da lui frequentate le assomigliavano molto perciò a lei spetterà il compito di sedurlo e farsi portare a Isla Niebla».
I cinque uomini tacquero e Steve capì che erano perplessi dalla sua scelta perciò si sentì in dovere di puntualizzare: «Nella nostra task force, oltre ad essere il nostro supporto informatico, Nicole è specializzata nelle missioni sotto copertura. È brava, credetemi».
«Sì, non lo metto in dubbio» replicò Dean. «È solo che speravo di essere io a dover sedurre Machado!».
«Sei il solito buffone» lo rimproverò Steve. Poi riprese: «Giunta a Isla Niebla, Nicky avrà due giorni per scoprire quante più informazioni potrà sull’isola, possibilmente cercando di capire se davvero Elliot è prigioniero lì e dove. Trascorsi due giorni, in qualunque caso, la tiriamo fuori».
«Come comunichiamo con lei?» chiese Johnny e Nicole prese la parola per la prima volta.
«Presumiamo che Machado possa controllare i segnali in entrata e in uscita e, poco ma sicuro, la casa sarà piena di cimici. Le telefonate sono escluse, così come la possibilità di usare un auricolare, sia per la distanza sia perché Machado potrebbe scoprirmi. L’unico canale sicuro saranno le e-mail che invierò dal mio smartphone».
«Le intercetterà» obiettò Johnny.
«Sì, forse. Ma saranno criptate».
L’uomo si strinse nelle spalle. «Potrebbe forzare il codice» contestò di nuovo e Nicole capì che Johnny stava facendo l’avvocato del diavolo per cercare falle nel piano.
«Non il mio codice» disse e l’altro socchiuse gli occhi.
«Scommettiamo?» buttò lì, ma prima che Nicole potesse replicare, intervenne Sam.
«Ehi, cervelloni: calmate i neuroni, ok?» borbottò sorridendo. «Domani potrete giocare con i vostri computer. Torniamo al piano». Si rivolse a Steve. «Che resistenza possiamo aspettarci?»
«Non lo sappiamo con esattezza. Mentre aspettavamo che arrivaste, io e la mia squadra abbiamo discusso a lungo del piano e abbiamo deciso di mandare lì Nicole per cercare di colmare le lacune che abbiamo».
La discussione andò avanti ancora a lungo tanto che erano passate le due quando si avviarono alla conclusione. Nicole cominciava a sentire la testa leggera per la mancanza di sonno, ma dato che gli uomini non davano segno di stanchezza, era ben decisa a resistere.
Finalmente si accommiatarono e i coniugi McGarrett tornarono a casa. Mentre guidava, Steve cinse la moglie con un braccio e la attirò a sé. Nonostante la Camaro non fosse stata progettata per quello, Nicole riuscì ad avvicinarsi tanto da appoggiarsi a lui che le baciò il capo.
«Che ne pensi?» chiese.
«Sono professionisti, è chiaro. Ma mentre vi ascoltavo, mi sorgeva una curiosità».
Steve le accarezzò il braccio. «Dimmi».
«Ma tutte quelle sbruffonate del tipo “la casa deve restare in piedi o va rasa al suolo?” ve le insegnano mentre fate il BUD/S? O sono proprie del genere maschile?»
Steve ridacchiò mentre fermava l’auto davanti a casa. «Direi, cinquanta e cinquanta. Probabilmente diventare un Seal acuisce certi comportamenti». Poi si girò a guardarla: «Lo faccio anche io?» domandò.
«Qualche volta» rispose lei.
 
Non c’era molto che potessero fare, in attesa di essere sul teatro dell’operazione, quindi dedicarono la mattina seguente a conoscere la task force di Steve e a discutere ogni aspetto della missione. Congegnarono segnali e movimenti, e strutturarono un piano B nel caso Nicole non fosse riuscita a farsi invitare sull’isola di Machado.
Johnny si dedicò a tentare di forzare il codice con cui Nicole aveva criptato le e-mail. Quando non ci riuscì, la guardò con occhi ammirati. «Semmai il comandate McGarrett dovesse stancarsi di te, fa pure domanda di entrare nella nostra squadra Seal!».
Nel frattempo Joe White aveva organizzato tutto. La distanza con la Colombia era troppo elevata per coprirla a bordo della nave appoggio. Quindi i Seals sarebbero dovuti arrivare a Panama e lì si sarebbero imbarcati su una corvetta della Marina Militare. Avrebbero atteso che Nicole arrivasse a Isla Niebla e poi, tempo due giorni, avrebbero assaltato l’isola per riportarla a casa.
Mentre attendevano, si sarebbero comportati come una normale squadra di Seal durante un’esercitazione. Sia il volo di Nicole che quello di Steve erano previsti per quel pomeriggio, a due ore di distanza l’uno dall’altro. Perciò entrambi salutarono i Five-0 che raccomandarono loro di stare attenti e tornarono a casa.
Prepararono le valigie e le caricarono sulla Camaro. Poi Steve chiuse il bagagliaio e prese Nicole fra le braccia. Abbassò la testa e la baciò, assaporando lentamente quel momento. Nella sua testa era certo che l’avrebbe riportata a casa a qualsiasi costo, ma era anche consapevole del fatto che c’erano mille imprevisti che potevano mettersi sul loro cammino e che la stava mandando fra le braccia di un altro uomo.
Si fidava di lei e sapeva che avrebbe cercato in tutti i modi di evitare di andare a letto con Machado. Ma non poteva resistere a lungo o lui avrebbe subodorato qualcosa. Tuttavia, non poteva permettere che quel pensiero diventasse troppo insistente: non gli avrebbe permesso di fare il suo lavoro come doveva.
Quando si staccarono, la guardò negli occhi. «Vorrei dirti di stare attenta, ma te l’ho già ripetuto un milione di volte e non voglio essere il marito iperprotettivo. Quindi, cerca solo di stare attenta, ok?» concluse, facendola sorridere.
Nicole gli accarezzò il viso. «Me la caverò» mormorò, anche se cominciava solo in quel momento a rendersi conto dell’enormità di quello che si riproponeva di fare.
«Ce l’hai l’anello?» chiese Steve e Nicole gli mostrò la sinistra. Aveva dovuto rinunciare alla fede nuziale che aveva riposto nella cassaforte dell’ufficio. Le era già capitato durante le precedenti missioni sottocopertura, non era certo una novità. Per coprire il segno della fede, Nicole aveva progettato e fatto realizzare una riproduzione dell’anello di fidanzamento che le aveva regalato Steve. Le ametiste erano state sostituite da pietre sintetiche e quella centrale, se premuta velocemente tre volte, attivava un minuscolo trasponder che lanciava un segnale d’allarme.
Steve aveva preteso che lo utilizzasse sempre quando era sotto copertura, e questa volta più che mai. La baciò di nuovo, dolcemente, e poi la fissò in quegli splendidi occhi viola. Sentì un nodo in gola e distolse lo sguardo, o avrebbe ceduto all’istinto di portarla il più lontano possibile da quella missione.
«Andiamo, piccola. Non vorrei che facessimo tardi».
In aeroporto si ricongiunsero con Dean e i suoi uomini. Una volta espletate le formalità, si disposero ad attendere la chiamata. Il volo di Nicole partiva prima, perciò quando lo annunciarono la donna si alzò e raggiunse il gate. Salutò i Seals e baciò leggermente Steve sulle labbra. Poi si voltò e salì sull’aereo.
Le ventiquattrore che seguirono furono tra le più lunghe della sua vita. Fortunatamente il viaggio fu tranquillo e senza scosse, ma quando arrivò al Radisson era esausta.
Era entrata nel Paese con i propri documenti, ma da quel momento in poi li avrebbe fatti sparire. In Colombia avrebbe utilizzato il suo nome hawaiano e avrebbe impersonato Kalea Anamoa, giornalista dell’Honolulu Weekly.
Appena le diedero le chiavi della stanza ci si rinchiuse. Chiamò Steve che le rispose subito.
«Stai bene? Ti sento lontanissima» le disse Steve.
«Sono solo stanca. Userò questi giorni per riposare e prepararmi all’incontro con Machado».
«Ho visto il tuo albergo su internet: piscina, palestra, spa. E io a sgobbare sotto il sole» borbottò Steve e Nicole ridacchiò.
Dopo che si furono salutati, appese alla porta il cartellino “non disturbare” e spense la luce. Dormì fino a sera, recuperando le ore di sonno perdute nel viaggio in aereo. Quando si svegliò, si sentiva intontita, quindi decise di approfittare della piscina. Fece una doccia veloce e infilò il costume. Mise l’accappatoio dell’hotel e scese in piscina.
Lasciò asciugamano e accappatoio su una chaiselongue a bordo vasca ed entrò in acqua. C’era solo un’altra coppia, ma da come si guardavano di sicuro non si erano neanche accorti che Nicole era arrivata. Nuotò a rana per un po’ sentendo i muscoli contratti che si scioglievano e l’intontimento provocato dal cambio di fuso orario che svaniva.
I due innamorati ben presto se ne andarono e lei rimase sola. Dato che non c’era anima viva, cambiò ritmo e cominciò a macinare vasche a stile libero. Ad un certo punto, sollevando la testa per respirare, notò che era arrivato qualcuno. Rallentò un po’, fece ancora un paio di vasche e poi si avvicinò al bordo della piscina. Si sollevò a forza di braccia e sedette con i piedi nell’acqua, strizzando i capelli bagnati.
«Spero non si sia fermata per me» disse una voce alle sue spalle.
Nicole si voltò sorridendo e quasi sussultò per la sorpresa. Rafael Machado era disteso su una sdraio e la osservava. Indossava un paio di pantaloncini da bagno neri e gli addominali scolpiti guizzarono mentre si sollevava, senza staccare lo sguardo da lei. Era un bell’uomo, tutto tratti latini, ed era più affascinante di persona che in fotografia. Ma la bocca sembrava fuori posto su quel viso, imbronciata come quella di un bambino capriccioso e petulante.
«Oh no, mi creda. Ma credo che si sia fatto tardi. Sa dirmi che ore sono, per favore?»
Machado sbirciò il cellulare. «Sono le otto e dieci».
Nicole si alzò e prese l’asciugamano. L’uomo la sbirciò avidamente e lei capì che gli piaceva ciò che stava vedendo.
«Sì, si è fatto proprio tardi» mormorò. Decise di fare la preziosa e di farsi desiderare e prima che lui potesse dire qualcosa, si infilò l’accappatoio. «Le auguro buona serata» disse e, voltandosi, uscì. Ma lasciò che il suo sguardo si posasse su di lui e sorrise in modo allusivo.
Fuori della porta notò subito un uomo vestito di nero. Gli sorrise, ma l’uomo non rispose, continuando a guardare fisso davanti a sé. Sotto la giacca vide il rigonfiamento della pistola: doveva essere una guardia del corpo di Machado.
Nicole rientrò in camera e chiamò Steve.
«Steve, ci sono novità».
«Di già?» domandò Steve. Gli sembrava un po’ troppo presto perché si manifestassero dei problemi.
«Machado è qui» disse Nicole. Gli raccontò velocemente dell’incontro in piscina. «Sono sicura che mi abbia notata, ho visto il modo in cui mi guardava».
«Immagino che ti abbia notata!» borbottò Steve, immaginandosi perfettamente la moglie in costume.
«Beh, sono venuta a Bogotà per quello, no? Comunque, se alloggia qui avremo modo di vederci ancora. E questo è un bene: più contatti avremo e più sarà facile per me farmi portare su quell’isola».
Steve convenne con lei su questo punto, anche se il pensiero che la sua donna entrasse in contatto con Machado continuava a non piacergli per nulla. Stabilirono che Nicole attivasse subito la comunicazione tra il suo Galaxy e quello di Steve. In tal modo, in ogni momento, l’uomo avrebbe sentito ciò che si dicevano, direttamente nel suo auricolare.
Quando si salutarono, Nicole si preparò per andare a cena. Sapendo che Machado alloggiava nel suo stesso albergo si preparò con maggior cura, asciugando i capelli in una nuvola vaporosa e truccandosi leggermente. Indossò un vestito rosa pastello che le arrivava poco sopra il ginocchio e le lasciava scoperte le spalle.
Scese al piano terra e notò di nuovo il tizio vestito di nero, fermo all’ingresso della sala da pranzo. Vide che Machado era seduto al bancone del bar centrale, quindi sedette anche lei, dalla parte opposta. Quando incrociò il suo sguardo, gli sorrise, mostrando di riconoscerlo. Ordinò un Daiquiri e attese che il barman glielo preparasse.
Lui prese un altro sorso del suo cocktail poi afferrò il bicchiere e le si avvicinò. Indossava una camicia bianca aperta sul collo e un paio di pantaloni neri.
«Non sta bene bere da sola. Posso farle compagnia?»
«Certo» rispose Nicole, accennando allo sgabello accanto al suo. Rafael appoggiò il suo cocktail sul banco e sedette. Poi le tese la mano.
«Mi chiamo Rafael Machado».
La donna fece per stringergli la mano ma Rafael gliela girò e chinò la testa, sfiorandole il dorso con le labbra. Nicole sorrise e abbassò lo sguardo, come lusingata dal gesto galante.
«Io sono Kalea Anamoa» disse e lo guardò negli occhi. Lo vide trasalire quando notò il colore dei suoi occhi. Dato che doveva far colpo su di lui, diversamente dal solito quando lavorava sotto copertura, non usava lenti a contatto.
«Kalea? Nome molto particolare».
«Sono hawaiana» spiegò.
«Sono stato alle Hawaii un paio di mesi fa» esclamò Machado. «Posto incantevole. Ma non ricordo di aver visto bellezze del genere».
«Probabilmente non ha guardato bene» mormorò Nicole.
Lui rise. Quando rideva il suo viso cambiava completamente e sembrava molto più giovane. Aveva una risata aperta e allegra, piacevole da ascoltare.
«Ha ragione. Avrei dovuto prestare più attenzione. Posso chiederle come mai è a Bogotà? Lavoro o piacere?».
«Entrambi. Sono una giornalista di Honolulu Weekly. Mi sono concessa una vacanza dopo tanto e, dato che ero qui, il mio capo mi ha chiesto di scrivere un articolo sull’asta dell’Associazione “Amigos del Corazón”».
Lui prese un sorso del suo cocktail. «In tal caso, avrò il piacere di vederla ancora. Anche io sono invitato alla manifestazione».
Nicole sbatté gli occhi, fingendosi sorpresa. «Anche lei? Meno male: almeno vedrò una faccia conosciuta».
«Ha già cenato, Kalea?» le chiese lui e la donna scosse la testa. Ma dentro di sé esultava perché capiva dove lui voleva andare a parare: non era sicura che bastasse per farsi portare a Isla Niebla, ma era un ottimo passo avanti.
«Le andrebbe di cenare con me? Sempre che non abbia un altro impegno».
Nicole annuì. «Sarei felice di cenare con lei, Rafael».
Entrambi avevano finito il drink perciò Machado si alzò e le porse la mano che lei afferrò. Scese dallo sgabello e, quando lui glielo porse, intrecciò il braccio al suo. Nicole aveva già notato che in sala c’erano solo tre o quattro tavoli occupati, tuttavia Machado si diresse verso l’uscita. La donna si lasciò guidare verso l’ascensore. Il bodyguard li seguì con molta discrezione.
«Ho una suite. Così potremo stare tranquilli».
Nicole sperò che le cose non le sfuggissero di mano tanto presto. Non poteva prevedere che Machado alloggiasse al Radisson e il piano originale era di incontrarlo solo all’asta. Sentiva la stretta possessiva sul suo braccio e immaginò che non sarebbe stato facile tenerlo a bada così a lungo. Quei pensieri tuttavia rimasero nascosti nella sua testa mentre entravano nell’ascensore e Rafael digitava il codice per l’attico. La guardia del corpo non li seguì.
Appena furono soli, si girò verso di lei. «Hai degli occhi straordinari» passando a darle una maggiore confidenza, come la situazione così intima rendeva spontaneo. Nicole abbassò lo sguardo, fingendo timidezza, ma lui le sollevò il viso con due dita sotto il mento.
«Non abbassare mai gli occhi quando sei con me» mormorò lui e, mentre lo fissava, un brivido le corse giù per la schiena. Ricordava di aver già visto quegli occhi: qualche anno prima aveva fatto un’immersione guidata per vedere gli squali. Uno dei bestioni si era avvicinato alla gabbia, colpendola con il muso. Era solamente curioso di capire di cosa si trattasse, ma tanto bastò per scuoterla e far prendere uno spavento alla guida. In quell’occasione, Nicole aveva guardato direttamente nella pupilla dello squalo i cui occhi neri e disumani l’avevano molto impressionata. Ora, si rese conto, stava guardando gli stessi occhi.
Finalmente l’ascensore si fermò e le porte si aprirono. Entrarono in una piccola anticamera dove stava un altro bodyguard, che salutò Machado con deferenza.
Machado la scortò in salotto e la fece accomodare sul divano. Si allontanò per qualche minuto per chiedere che la cena fosse preparata per due e Nicole ebbe l’opportunità di guardarsi intorno. Il salotto era ampio e spazioso, nei toni del rosso e del mattone. Una parete era completamente occupata da una grande vetrata che dava sul tetto, allestito con piante, sdraio e ombrelloni come fosse un giardino. Nicole si alzò e si affacciò alla vetrata, godendo della splendida vista su Bogotà.
Notò che anche fuori c’erano un paio di guardie del corpo. Machado era piuttosto attento alla propria sicurezza e quello poteva essere un problema. La speranza era che sull’isola le misure di sicurezza fossero meno importanti.
Sui due lati del salotto si aprivano delle porte che con tutta probabilità davano accesso alle camere da letto, ma in quel momento erano chiuse.
Machado tornò e le si affiancò.
«Che meraviglia» sussurrò Nicole, accennando alla vista fuori dalla finestra.
«Allora ho fatto bene a chiedere che ci preparino sulla terrazza».
Quando uscirono, Rafael le scostò la sedia per farla accomodare. La serata era fresca e piacevole e il traffico era abbastanza lontano per risultare un lieve sussurro. La cena era a base di pesce ma Nicole non ebbe tempo per gustarla a fondo. Rafael era molto curioso e voleva sapere tutto di lei.
La donna aveva elaborato il proprio profilo prima di partire ma ugualmente non poteva permettersi distrazioni. La pochette con il suo Galaxy era posata sul bordo del tavolo: sapeva che Steve stava sentendo tutto quello che si dicevano.
Terminata la cena, Rafael la fece accomodare su uno dei divanetti di vimini e ricominciò con le domande. Tutto sommato era un conversatore piacevole e Nicole si accorse di non doversi sforzare di ridere. Mentre chiacchieravano, una cameriera uscì e, con molta discrezione, accese delle candele che crearono subito un’atmosfera intima e romantica.
Rafael comunque si dimostrò un signore. Non fece nulla per metterla in imbarazzo e, quando l’ora si fece tarda, insistette per accompagnarla alla sua stanza. Nessuno dei bodyguard li seguì quindi erano soli quando Nicole aprì la porta della sua stanza con la carta magnetica.
«Grazie mille per la bella serata, Rafael» mormorò Nicole e lui abbassò la testa per baciarla. Si fermò a pochi centimetri dalla sua bocca, tanto che lei sentì il respiro sulle labbra. Nicole voltò la testa e lui sorrise e le baciò la guancia.
«Sogni d’oro, Kalea» disse e si scostò lentamente da lei.
Nicole gli posò il palmo aperto sul petto, sentendo il calore della sua pelle contro la mano.
«Buonanotte, Rafael».
 

[1] Sono un bravo ragazzo
[2] Il loco moco è un piatto tradizionale nella cucina delle Hawaii. Ci sono molte varianti, ma l'essenziale è composto da riso bianco, sormontato da un hamburger, un uovo fritto e sugo.

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Capitolo 11
*** Cioè... tu possiedi un'isola? ***


L'obiettivo di Nicole è già nel mirino,
ma la donna dovrà fare i conti con qualcosa di nuovo.
Di certo, questo non sarà un lavoro come gli altri.
Buona lettura!

 


Nei due giorni successivi, Nicole passò ogni istante con Rafael. La sua compagnia era piacevole e si stupì di com’era facile perdere il senso del tempo quando era con lui.
Insieme, visitarono tutti i monumenti più famosi di Bogotà con Rafael che le fece da guida, mostrandole tutto l’orgoglio che provava per la sua terra. Nicole stava ben attenta a tutto quanto li circondava, rendendosi conto di come le guardie del corpo dell’uomo gli ronzassero continuamente intorno. In quei giorni non aveva bisogno di mandare messaggi a Steve, ma avrebbe faticato a trovarne il modo per staccarsi dalla loro ingombrante presenza.
Venerdì notte, dieci minuti dopo che era tornata nella sua stanza, il suo cellulare trillò per l’arrivo di un’e-mail. Quando il programma di decrittazione l’ebbe decifrato, Nicole lesse il messaggio di Steve con incredulità crescente.
Da ciò che sento, mi pare di capire che la tua vacanza in Colombia stia procedendo alla grande. Le tue risate si odono distintamente fin qua anche senza passare per il tuo cellulare.
Non era difficile leggere una vena polemica in quelle poche righe. Quando aveva accettato quella missione, sapeva che il rischio era proprio quello: Steve non era fondamentalmente una persona gelosa, non marcava il territorio intorno a lei per evitare che qualcuno le si avvicinasse, ma un conto era che qualcuno facesse un apprezzamento su di lei, ben altra cosa era mandare la sua donna a sedurre uno sconosciuto che sicuramente stava pensando ad un modo per portarla a letto.
Ciò che la fece davvero arrabbiare era il fatto che Steve non si fidasse di lei. È vero, non si stava sforzando per flirtare perché Rafael era un bell’uomo ed era piacevole stare con lui, ma ciò non significava che provasse qualcosa.
Velocemente scrisse la sua risposta e la inviò dopo averla criptata. Per chiunque sarebbe sembrata un’innocua mail di lavoro, ma Steve avrebbe letto tutta la sua indignazione in quella semplice stringa di caratteri: la gelosia non ti si addice per nulla.
Il sabato mattina fece colazione con Rafael, sulla terrazza della sua suite. Quella sera avrebbero partecipato all’asta di beneficienza e lui ancora non aveva parlato di portarla a Isla Niebla. Cominciò a sorgerle il dubbio che, terminato l’evento, Rafael avesse qualche altro impegno che l’avrebbe tenuto lontano dal suo rifugio. Se si fosse verificata quell’evenienza, non avrebbe potuto farci nulla e avrebbero dovuto pensare a qualche altra possibilità per liberare Elliot.
Mentre sbucciava un mango, un cameriere si avvicinò e le porse una scatola con un enorme fiocco rosso sopra. Lei alzò gli occhi, incontrando lo sguardo sornione di Rafael.
«Immagino di dover ringraziare te» disse, prendendo la scatola e ringraziando il cameriere che si dileguò con un sorriso.
«Prima aprilo. Non è detto che sia di tuo gradimento».
La scatola conteneva un abito bianco senza spalline, con l’arricciatura sul seno. Il tessuto era liscio al tatto, forse chiffon o magari seta. La donna si alzò in piedi e lo trasse fuori dalla scatola, tenendolo davanti a sé per osservarlo meglio: era semplice ma bellissimo, con una fusciacca nera morbidamente legata in vita.
«Magari lo vorrai indossare stasera».
«Non posso accettare» disse lei, riponendolo nella scatola.
«Insisto».
«Rafael, io…» cominciò, ma con un movimento fluido lui si alzò in piedi e l’avvicinò, prendendole le mani.
«Ti prego, accetta il mio regalo e permettimi di accompagnarti alla festa».
Era vicino, troppo vicino. E quando si umettò le labbra, lei capì cos’aveva intenzione di fare. Tentò di distogliere lo sguardo dai suoi ipnotici occhi neri, ma lui non glielo permise, posandole la mano sulla guancia e girandole il viso verso il proprio.
Era alto, anche più di Steve, e si chinò verso di lei. Posò le labbra sulle sue con una dolcezza che non si sarebbe aspettata da un uomo come lui. Ma non poteva permettersi di stare a fare calcoli. Spinse il corpo in avanti, schiacciandosi contro di lui, sentendo la durezza dei suoi muscoli anche attraverso i vestiti.
Gli cinse la vita con le braccia, scivolando sulla camicia di lino e aprendo le labbra per invitarlo a entrare. La mano di lui salì fin sulla nuca, afferrandole una ciocca di capelli e tirandole leggermente indietro il capo, aggredendo la sua bocca con una fame che per un momento la spaventò: temeva che non sarebbe riuscita a fermarlo, se avesse preteso di più.
Ma si sbagliava. Rafael staccò le labbra dalle sue con delicatezza, aprendo gli occhi e fissando le profondità ametista dei suoi.
«Scusami». Non si era aspettata che lo facesse: le sembrava un uomo che raramente chiedeva scusa. Forse il suo profilo doveva essere rivisto. «È che sei così bella» mormorò, accarezzandole il viso.
La donna sorrise, ma non abbassò lo sguardo nonostante il turbamento che le provocava quell’inattesa intimità.
«Posso sperare di poterti accompagnare all’asta?»
Nicole annuì e il sorriso che gli illuminò i tratti lo rese ancor più affascinante. Si chinò per baciarla ancora, ma un discreto tossicchiare lo fermò.
«Cosa c’è, Iago?» disse, senza alzare la testa.
A Nicole non sfuggì il tono di quella risposta: Rafael era arrabbiato per essere stato interrotto. In un solo istante, era passato dalla tenerezza alla rabbia che gli faceva fiammeggiare gli occhi.
«Signore, c’è una telefonata per lei. È urgente» mormorò Iago.
Rafael si raddrizzò. «Ti prego di scusarmi un momento» sussurrò e sparì nella stanza a fianco. Nicole non sentì ciò che diceva, ma udì il suo mormorio irritato. Avrebbe dato tutto per sapere con chi era al telefono. Se Iago si era arrischiato ad interrompere il suo boss, doveva essere estremamente urgente. Doveva trovare il modo di nascondere una cimice nel cellulare di Rafael.
Lo sentì muoversi e poi parlò di nuovo. Sembrava che non fosse più al telefono. Poi sentì il proprio nome e capì che stava rimproverando Iago per l’interruzione. Il tono era teso e tirato e nonostante la conversazione fosse attutita dalla porta chiusa, lei poteva intuire la rabbia a malapena trattenuta.
Aprì la finestra scorrevole e uscì sulla veranda, aspettando che lui la raggiungesse. Poi uscirono. Gironzolarono per Bogotà come una coppia tanto che a un certo punto, Rafael la prese per mano, intrecciando le dita alle sue. Nicole non rifiutò il contatto.
Pranzarono da Matiz, il miglior ristorante della città. Ogni piatto era una variopinta tavolozza di colori, perfetto in ogni dettaglio. Cominciava a capire come mai Machado fosse così spesso in compagnia di donne bellissime: per lui ogni porta era spalancata, ed era facile restare conquistate da ciò che offriva.
Rientrarono in albergo nel primo pomeriggio.
«Mi sono permesso di farti un altro regalo, mia cara» disse, sfiorandole la schiena con la mano.
«Stai cercando di conquistarmi, Rafael?» chiese lei, civettuola.
«Avresti qualcosa in contrario?» fu la sua replica.
Nicole non rispose, limitandosi a sorridere. Una giovane li raggiunse, tendendole la mano.
«Mi chiamo Riya e sarò a sua disposizione per le prossime ore».
La donna le strinse la mano, voltando la testa verso Rafael, chiedendogli spiegazioni.
«Sei già bellissima, ma Riya si occuperà di renderti perfetta».
Nicole passò le successive tre ore tra scrub, massaggi, manicure e parrucchiera. Poi Riya l’accompagnò in uno stanzino dove l’abito che le aveva regalato Rafael e le scarpe erano stati preparati per lei.
Si vestì e si guardò allo specchio. Senza falsa modestia poteva dire che Riya aveva raggiunto lo scopo: era perfetta, come richiesto da Rafael. L’abito scivolava morbido sul suo corpo, lasciandole scoperte le gambe, la cui forma era sottolineata dai tacchi alti.
«Il signor Machado ha chiesto se può aspettarlo al bar. La raggiungerà subito» la informò Riya e Nicole le strinse la mano.
«Grazie di tutto, Riya» mormorò.
La ragazza sorrise: «Le auguro buona serata, signorina Anamoa».
Nicole raggiunse il bar e ordinò un cocktail analcolico. La serata sarebbe stata lunga e sapeva che avrebbe avuto bisogno di tutta la lucidità possibile.
Il barista le preparò il drink e ne aveva preso appena un sorso quando Rafael entrò nella sala. Indossava un elegante abito bianco dal taglio classico e un po’ retrò, con scarpe bianche, giacchetto con bottoni in madreperla, gilet bianco chiuso sopra una camicia nera ed un fazzoletto di seta bianca arrotolato al collo. Senza che potesse farci nulla, la donna sentì una stretta allo stomaco.
Lui la raggiunse e le porse la mano. L’aiutò a scendere dallo sgabello su cui si era accomodata e la fece piroettare. Lei rise, finché lui la bloccò circondandole la vita con un braccio. L’attirò a sé e la baciò. Il cuore traditore accelerò il battito mentre la bocca di Rafael si muoveva sulla sua e resistette a malapena alla tentazione di cingergli la nuca con le mani per attirarlo più vicino.
Le era già capitato in passato di dover sedurre qualcuno ma mai per un tempo così lungo e mai qualcuno così affascinante. Era troppo semplice lasciarsi andare con lui e con un sussulto colpevole ripensò all’e-mail che le aveva inviato Steve. Stava mantenendo la cosa sul piano professionale o la situazione le stava sfuggendo di mano?
Rafael dovette avvertire ciò che le passava per la testa perché si scostò, scrutandole il viso con espressione perplessa.
«Qualcosa non va?»
«È solo che stiamo andando così di fretta» mormorò.
«Hai ragione. Sei così bella che è difficile resistere» replicò, sfiorandole la guancia con le labbra. «Non mi sto comportando da gentiluomo».
Si scostò e le porse il braccio. Nicole vi si aggrappò e uscirono dalla sala. L’asta di beneficienza si sarebbe tenuta nel grande salone dell’hotel e quando lo raggiunsero, Nicole aveva recuperato un po’ di compostezza.
Era tutto addobbato con palloncini bianchi e neri, che riportavano il logo dell’associazione. C’era già parecchia gente che gironzolava per i tavoli, salutando amici e conoscenti. Nicole rimase al braccio del suo cavaliere e la calca si aprì per lasciarli passare.
Le persone che incontravano salutavano Rafael con rispetto, sorridendo garbatamente a lei ma senza rivolgerle la parola. Presero posto al tavolo che era stato loro riservato, con due guardie del corpo che rimasero in piedi nei pressi delle loro sedie. Altri tre bodyguard stazionavano poco distante, scandagliando la sala con occhiate laser.
«Sono proprio necessarie queste precauzioni?» domandò, chinandosi verso di lui.
«Se ti innervosiscono, posso farli allontanare».
Lei fece cenno di no con il capo. La loro attenzione fu attratta sul piccolo palco dove alcuni ospiti si avvicendarono. Nicole prese un piccolo taccuino dalla pochette e si dedicò a prendere appunti: doveva mantenere la propria copertura di giornalista. L’associazione si occupava di bambini malati di cuore, raccogliendo fondi per la ricerca in quel settore.
Sul palco sfilarono alcuni giovani che avevano risolto i propri problemi di salute proprio grazie ad “Amigos del Corazón” e che volevano lasciare la loro testimonianza. Poi cominciò l’asta e gli ospiti, tra cui Nicole riconobbe diversi VIP, pagarono prezzi esageratamente alti per premi a volte anche banali. Ma era bello vedere quelle persone gareggiare in generosità: magari lo facevano soltanto per apparire, ma l’importante era il fine ultimo.
Alla fine della serata avevano raccolto quasi due milioni di dollari e gli organizzatori erano pienamente soddisfatti.
Rafael la invitò a ballare e mentre la teneva stretta, abbassò lo sguardo su di lei.
«C’è qualcosa che devo chiederti».
Il tono le fece rizzare le orecchie. Attenta che questi sono guai, pensò.
«Dimmi pure».
«Stanotte devo partire» disse.
Non dovette fingere disappunto. Si era aspettata altro, tipo che lui l’avesse in qualche modo smascherata, e invece le stava comunicando che entro poche ore si sarebbe allontanato. La strada per la liberazione di Elliot si complicava.
Abbassò gli occhi ma non prima che lui li avesse visti scintillare. «Mi dispiace» mormorò.
«Anche a me» replicò. «Per questo volevo chiederti se ti va di venire con me».
Nicole riportò gli occhi nei suoi. «Con te?» chiese, con il giusto grado di incredulità e di desiderio.
«C’è un’isola, al largo della costa colombiana» spiegò. «Si chiama Isla Niebla e appartiene alla mia famiglia da un paio di generazioni».
«Cioè… tu possiedi un’isola?»
Lui sorrise. «La mia famiglia è sempre stata benestante, diciamo».
Nicole strabuzzò gli occhi. «No, la mia famiglia era benestante e infatti mi ha spedita a studiare a New York senza borsa di studio».
Rafael ridacchiò. «Stai evitando di rispondermi, Kalea».
Lei finse di pensarci su, ma dentro di sé esultava perché aveva ottenuto ciò che desiderava. «In fondo, ho ancora una settimana di vacanza».
«È un sì?»
Lei sorrise e annuì. Lesse nei suoi occhi che voleva baciarla e si scostò un poco. «Non qui, signor Machado» sussurrò. Sicuramente l’avevano già fotografata quella sera e sicuramente Steve non sarebbe stato contento di ciò che avrebbe visto: poteva almeno evitargli di vederla mentre baciava il loro obiettivo.
Da quel momento in poi, tutto accadde a velocità folle. Terminato il ricevimento, Machado le disse di prepararsi per la partenza. Appena fu sola, comunicò la notizia a Steve. Nonostante l’ora impossibile, lui rispose subito: hai fino a martedì mattina, ore 02.00. Poi ti tiro fuori di lì.
Soltanto mezz’ora dopo, qualcuno bussò alla sua porta. Era Iago, venuto a prenderle la valigia e lo seguì al piano terra, dove l’uomo l’avvisò che Machado aveva saldato il suo conto dell’albergo e la stava aspettando in macchina. La condusse fuori, aprendole la portiera di una lussuosa limousine nera.
Rafael era già a bordo e l’accolse con un sorriso, respingendo ogni protesta per il fatto che le aveva pagato il soggiorno. Raggiunsero l’aeroporto, dove un Learjet attendeva sulla pista. Nicole non era mai salita a bordo di un aereo privato e provò stordimento per tutto il lusso che la circondava. Il volo fu breve e atterrarono all’aeroporto di Buenaventura che erano da poco passate le cinque del mattino.
Una seconda limousine li stava aspettando e partì subito, depositandoli al porto. Salirono su un enorme yacht che mollò gli ormeggi non appena lei e Rafael furono a bordo.
«Scusami, so che ti ho strapazzata. I fiori andrebbero trattati con più delicatezza» mormorò, baciandole la mano. «Purtroppo domattina ho un incontro con alcune persone e devo essere a Isla Niebla il più presto possibile».
La donna si ritirò un attimo nel bagno – che era più grande di quello di casa sua! – e si rinfrescò un po’ il trucco, fermandosi un momento per ragionare su quanto stava succedendo.
Erano le cinque e mezza di domenica mattina. Sapeva che Isla Niebla distava circa undici miglia dalla costa colombiana quindi, stimando in una ventina di nodi la velocità cui quell’enorme yacht fendeva le onde, sarebbero arrivati entro poco più di mezz’ora.
Nicole aveva assoluto bisogno di riposare, ma Rafael aveva accennato ad un incontro con alcune persone e doveva assolutamente vedere di chi si trattava. Poteva essere che fosse qualcuno dei suoi contatti nella malavita, quindi qualsiasi informazione avesse raccolto, sarebbe stata utile per acciuffarlo o, se le cose si fossero messe al peggio, per ricattarlo affinché rilasciasse Elliot.
Ma la sua priorità era muoversi sull’isola e pianificare l’attacco dei Seals, possibilmente cercando di capire se Elliot era tenuto prigioniero lì e dove. Il tutto senza farsi scoprire, tenendolo contemporaneamente lontano dal suo letto.
Un gioco da ragazzi, non c’è che dire, disse a se stessa, prima di tornare in cabina.
Quaranta minuti più tardi, stavano attraccando al molo sul lato settentrionale della piccola isoletta. Scesero dallo yacht che rimase a dondolare placidamente sulle acque e Rafael l’accompagnò nella casa padronale.
Dire che era enorme non rendeva appieno le dimensioni di quella dimora. Era smisuratamente più grande della villa dei suoi genitori che le era sempre sembrata un mezzo castello. L’arredamento doveva essere stato curato da un interior designer perché ogni cosa trasudava gusto e raffinatezza. E Nicole non finse, mentre si guardava intorno a bocca aperta.
Rafael sorrise, spingendola davanti a sé: «Immagino che vorrai riposare. Ti mostro la tua stanza».
Le aprì una porta, facendosi da parte per lasciarla entrare. Pareti, pavimento e soffitto erano interamente ricoperti di legno che regalava un’atmosfera calda e accogliente. Su due lati si aprivano grandi finestre che mostravano lo splendido panorama dell’oceano, così simile a quello delle Hawaii in cui lei era nata. Le luci erano accese e il ventilatore sul soffitto girava pigramente, muovendo appena l’aria.
La donna si addentrò nella stanza, sedendosi sul soffice letto che troneggiava nel mezzo.
«Non dici nulla?» domandò Rafael. «Non ti piace? Ci sono altre stanze, se vuoi».
«È perfetta» rispose lei. «E la tua stanza qual è?»
Metteva in chiaro che non voleva dormire con lui. Sapeva già che quella non la stanza che usava lui. Era chiaramente una stanza degli ospiti, impersonale come una camera d’albergo. Lui sorrise e la invitò a seguirlo. Quando furono in corridoio, aprì la porta di fronte e Nicole, che pensava che la stanza che le aveva assegnato fosse il massimo, dovette ricredersi.
La stanza di Rafael era l’esatto opposto. Niente legno, ma piastrelle color crema sul pavimento e muri dipinti di azzurro. Le luci erano della stessa tonalità e illuminavano il grande letto in ferro battuto che occupava il centro della stanza, tra quattro colonne in muratura. Ma ciò che sconvolgeva era che quella stanza dava direttamente su una piscina. L’acqua era azzurrata dalle luci e nell’angolo più lontano gorgogliava una piccola cascata.
Quella casa era un sogno e Nicole non osava immaginare quali altri meraviglie ci fossero nelle altre stanze. Non lo sentì mentre le si avvicinava. «Voglio vederti in quella piscina» sussurrò. Lei non seppe cosa rispondere, ma prima che il suo cervello fuori fase le suggerisse qualcosa di mediamente intelligente da dire, Rafael la prese per mano e la condusse di nuovo nella sua stanza.
«Io sarò impegnato, quindi non voglio vederti prima di pranzo. Riposati e rilassati» disse, e le sfiorò la guancia con le labbra. «Se hai bisogno di qualcosa, chiedi di Maria».
Quando la lasciò, Nicole s’infilò subito sotto la doccia. Mentre usciva, con un asciugamano umido avvolto attorno alla testa e indossando un accappatoio morbido come una carezza, udì l’inconfondibile battito di un elicottero in avvicinamento. Indossò gli occhiali da sole e uscì sul patio con noncuranza, fingendo di guardare verso l’oceano. Vide il velivolo arrivare dal continente e scomparire dietro la casa dove atterrò e si zittì.
Doveva trattarsi degli ospiti di Rafael e lei doveva assolutamente saperne di più. Aprì la valigia ed estrasse il suo computer. Appena si fu avviato, scansionò la propria stanza, notando un segnale video in uscita. Doveva esserci una microcamera nascosta da qualche parte e il suo programma la segnalò nell’angolo opposto della stanza.
Sbuffando irritata, prese il laptop e sedette sul divano, rendendo lo schermo invisibile a chiunque la stesse osservando. Tenne accanto a sé il taccuino su cui aveva preso appunti la sera prima, fingendo di lavorare al suo articolo, mentre in realtà le sue dita volavano sui tasti cercando di inserirsi nel sistema a circuito chiuso della villa.
Ovviamente ci riuscì e cercò ciò che le interessava fra le immagini rimandate dalle telecamere che aveva notato appena entrata in casa. Finalmente vide Rafael che stringeva la mano ad un uomo di colore.
Erano in una specie di sala riunioni e non erano soli. C’erano altri cinque uomini, due di colore, un orientale e due bianchi. Nonostante non ci fosse audio, ognuno di loro trasudava potere, la stessa aura che aleggiava attorno a Rafael.
Nicole riuscì a catturare un primo piano di ciascuno e lanciò una ricerca sui propri database. Ciò che ne uscì la colpì, ma non si era aspettata di meno.
L’uomo a cui Rafael aveva stretto la mano era Mothusi Kejan, e poteva definirsi un signore della guerra che infuriava in Mozambico. Non era difficile, conoscendo i loschi traffici di Machado, capire perché si trovava lì. Gli altri due uomini di colore non diedero riscontro, ma le immagini che era riuscita a raccogliere non erano particolarmente nitide quindi poteva essere che il programma di riconoscimento non fosse riuscito ad avere sufficienti punti di riferimento.
Il tizio con gli occhi a mandorla era Kim Chul-Moo, personaggio di spicco della malavita coreana. Gli altri due erano trafficanti d’armi sudamericani.
Davvero una bellissima compagnia, pensò dentro di sé, soffocando uno sbadiglio. Le ore di sonno perdute cominciavano a farsi sentire, ma non era la prima volta che non riusciva a dormire per un bel po’ di ore e aveva solo bisogno di caffè.
Grazie ad un programma che aveva lanciato stava registrando tutto ciò che succedeva tra Rafael e i suoi ospiti. Non c’era l’audio, ma a Honolulu avevano personale specializzato nella lettura delle labbra che avrebbe ricavato preziose informazioni da quel video. Chiuse il laptop (che continuò discretamente a registrare senza andare in standby) e si alzò.
I capelli erano ancora umidi quindi li lasciò sciolti, indossò un paio di pantaloncini e una maglietta e uscì. Aveva visto dalle immagini rubate alle telecamere di sorveglianza dov’era la cucina, ma finse di cercarla finché entrò in un salotto immenso. Di fronte a lei c’era una parete curva completamente in vetro che dava su una spiaggia di sabbia bianchissima. L’arredamento era di lusso senza essere ostentativo: pavimento color crema lucido da specchiarsi, divano in pelle chiara che avrebbe agevolmente accolto un reggimento e un tavolo che sarebbe servita la bicicletta per andare da un capo all’altro.
«Salve». Una voce dietro di lei la fece voltare. Era una ragazza che a prima vista non doveva avere più di venticinque anni, i capelli castani ordinatamente raccolti in una crocchia. Portava un vestito nero con sopra un grembiule bianco con la pettorina che la qualificava come una domestica. «Mi chiamo Maria, lei immagino sia la signorina Anamoa» disse con cortesia.
«Mi chiami Kalea, la prego».
«Il signor Machado mi ha detto che starà con noi qualche giorno. Se ha bisogno di qualunque cosa, sono a sua completa disposizione».
Tanto ossequio la metteva un po’ in imbarazzo, ma era evidente che Maria aveva ricevuto ordini precisi e di certo a Rafael piaceva essere trattato in quel modo, quindi lei non l’avrebbe messa in difficoltà.
«Gradirei una tazza di caffè, se non le do disturbo».
Maria sorrise. «Gliela porto subito, signorina» disse, e sparì.
Tornò pochi minuti più tardi con caffè, latte, zucchero, miele, dolcificante e qualche biscottino, il tutto vezzosamente disposto su un vassoio. «Non sapevo quali fossero le sue preferenze» mormorò, quasi in tono di scusa.
«Beh, direi che di sicuro così ci ha preso» rispose Nicole ridendo.
La domestica posò il vassoio sul tavolino di fronte al divano e si raddrizzò. «Se non ha bisogno di altro, io torno alle mie faccende».
Aveva pensato di riuscire ad instaurare una qualche conversazione per capire un po’ come funzionava su quell’isola e se la donna avesse visto movimenti strani nei giorni precedenti, ma capì che non ne avrebbe ricavato nulla quindi la congedò.
La dose di caffeina fece immediatamente effetto, scacciando di dosso parte della stanchezza. Posò la tazza sul vassoio e gironzolò per casa ammirando l’arredamento e i quadri. Aveva assunto l’espressione di chi è esterrefatto di fronte a tanto lusso, ma in realtà era ben attenta a cosa le accadeva intorno e a dove stava andando, avvicinandosi alla saletta dove Rafael aveva accolto i suoi. Ma non andò lontano. Non appena arrivò nelle vicinanze, una delle guardie del corpo di Rafael, un omone che superava i due metri d’altezza, le bloccò il passo.
«Mi dispiace, signorina Anamoa. Il signor Machado non può ricevere visite in questo momento e lei non può stare in quest’area».
«Oh, mi scusi» mormorò Nicole, girando sui tacchi senza discutere oltre.
Va bene, non riesco a sapere cosa succede lì dentro, ma posso sempre farmi un giretto sull’isola. Tornò nella propria stanza, indossò un completo da jogging, mise il cellulare nella fascia da braccio e uscì dalla portafinestra.
Il sole era ormai alto e picchiava forte, ma lei era abituata a quello delle Hawaii, quindi non era un problema. Non c’era nessuno in vista e, nonostante indossasse un auricolare, la musica era spenta in modo che potesse accorgersi se qualcuno la seguiva e la stava osservando.
Si fermò sulla veranda dedicandosi ad alcuni esercizi di riscaldamento per sciogliere i muscoli, ma in realtà si stava orientando in base alla posizione del sole, ricordando le immagini satellitari che aveva scaricato e che mostravano il bunker sotterraneo a poca distanza dalla casa.
Poi partì di corsa sulla sabbia chiara, posizionandosi sulla battigia in modo da avere un appoggio un po’ più solido. Erano arrivati lì con tre guardie del corpo: una era l’omone che l’aveva bloccata prima. Un altro era un tipo biondo e massiccio quasi quanto il primo, e in quel momento stazionava all’ingresso. L’ultimo era un tizio con i capelli neri tagliati molto corti e gli occhi di un verde prodigioso che sembrava giovanissimo. In quel momento non era in vista.
Il suo occhio attento ai dettagli individuò un sentiero che s’inoltrava nella boscaglia e lo imboccò. La grande villa non era in vista, coperta dalle palme, e ben presto intravide davanti a sé un tratto diboscato. Al centro dello spiazzo di cemento stazionava l’elicottero nero che aveva trasportato gli ospiti di Rafael.
Un uomo in camicia bianca stava appoggiato alla fusoliera, fumando una sigaretta, mentre chiacchierava con il bodyguard con gli occhi verdi. A meno che sull’isola ci fosse qualcun altro che non aveva visto, erano tutti impegnati attorno alla casa e all’eliporto.
Bene, pensò, questo mi dà una certa libertà di manovra.
Il sottobosco, con quell’umidità, era rigoglioso e non aveva timore di pestare foglie secche che avrebbero rivelato la sua posizione, ma rallentò comunque il passo e deviò verso sud, addentrandosi ancor di più fra la vegetazione. Ad un certo punto incrociò un sentiero battuto che tagliava quello meno tracciato che stava percorrendo.
Prese a seguirlo, restando in mezzo alla macchia, continuando a tendere l’orecchio ad un eventuale inseguitore. Il terreno si innalzò bruscamente e Nicole si mosse lungo il bordo di quella collina finché si fermò e si accucciò fra gli alberi. Aveva trovato l’ingresso del bunker che dava su un piccolo spiazzo che era stato liberato dagli arbusti ma era coperto dagli alberi, in modo che fosse invisibile dall’alto.
Nicole rilevò la posizione con il GPS, annotando le coordinate per mandarle a Steve. Non c’era nessuno in giro ma, mentre stava per avvicinarsi ad esaminare la struttura un po’ più da vicino, udì delle voci e si acquattò di nuovo.
«Sei sicuro?»
«Sì, ti dico. L’ho vista venire da questa parte».
Il biondo e Mister Occhi Verdi sbucarono sul sentiero davanti al bunker, guardandosi intorno. Nicole indossava un completo arancione, non il massimo per mimetizzarsi, ma era ben decisa a non farsi trovare perciò cominciò ad indietreggiare lentamente.
Si muoveva furtiva e riuscì a non far rumore e, anche grazie al fitto fogliame di quella giungla, poté allontanarsi senza essere vista. Tornò nel punto in cui aveva abbandonato il sentiero e lo riprese, affrettandosi a riguadagnare il tempo perduto nella sua esplorazione. Sbucò sulla spiaggia sul lato nord, notando come fosse più stretta di quella dall’altra parte, dov’era stata costruita la villa.
Si fermò a riprendere fiato, valutando come quella striscia stretta di sabbia fosse sia un vantaggio che uno svantaggio per i Seal: il tratto in cui sarebbero stati allo scoperto era veramente esiguo e lo sbarco sarebbe avvenuto abbastanza vicino al bunker dove presumevano fosse tenuto prigioniero Elliot, ma per recuperare lei avrebbero dovuto attraversare tutta l’isola, che almeno non era così ampia.
Riprese a correre, stavolta seguendo il bagnasciuga e fermandosi di quando in quando per fotografare qualcosa, una pianta o un animale che avessero attirato la sua attenzione. Fece il giro dell’isola, un vero paradiso quasi incontaminato, se si eccettuavano il bunker in mezzo alla giungla e l’enorme villa sul lato nord.
Era quasi in vista della dimora quando udì il sibilo dei rotori dell’elicottero e, poco dopo, lo vide innalzarsi sopra gli alberi, restare librato per qualche istante, e poi partire in direzione della terraferma.
Ci vollero altri cinque minuti di corsa per arrivare alla casa. Rafael si era cambiato: indossava un paio di pantaloncini da bagno e la stava aspettando sulla veranda della sua stanza. Il suo corpo era sodo e muscoloso, piacevole da guardare. La pelle, baciata dal sole, risplendeva di salute: era più scura di quella di Nicole, ma sembrava setosa quanto la sua. Era evidente che Rafael ci teneva al proprio aspetto, come testimoniava il tronco accuratamente depilato con un’unica striscia di peli scuri che dall’ombelico scendeva a perdersi sotto i boxer.
Nicole salì i gradini della veranda e si fermò accanto a lui, ansimando per riprendere fiato.
«Non ti avevo detto di riposare?» la rimproverò Rafael, mentre lei slacciava il velcro che teneva il cellulare assicurato al suo braccio e lo posava sul tavolino.
«Avevo bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe. E ora ho bisogno di una doccia» disse, muovendosi per oltrepassare la soglia ed entrare nella stanza. Ma la mano di Rafael scattò e si chiuse sul suo braccio. C’era forza in quella stretta, molta più di quanta lei ne avesse mai avvertita nei loro precedenti contatti.
«Non così in fretta» mormorò, mentre lo sguardo gli si accendeva di malizia. Prima che potesse replicare, lui sorrise come un ragazzaccio e si chinò per prenderla in braccio. Lei strillò per la sorpresa e gli colpì le spalle con i pugni per farsi mettere giù, ma Rafael mantenne la presa. Saltò i gradini della veranda, atterrando agilmente sulla sabbia e corse verso il mare, finché si tuffò con lei.
Andarono sotto entrambi e riemersero subito. Le mani di Rafael le strinsero la vita, attirandola verso di sé, mentre Nicole cercava di togliersi acqua e capelli dagli occhi.
Il corpo di Rafael premette contro il suo e lui cercò subito la sua bocca. La baciò, e stavolta le sue labbra furono subito roventi. Le prese il labbro inferiore con i denti, tirandolo leggermente; poi lo lasciò andare, accarezzandole la bocca con la lingua, con lenta sensualità.
Le mani di Nicole si mossero senza che lei avesse dato un impulso cosciente, intrecciandosi ai capelli di lui e trattenendogli la testa perché continuasse a baciarla. Nemmeno quelle di Rafael comunque rimasero ferme, salendo sulla schiena, percorrendole la colonna vertebrale in una pigra carezza.
Abbandonò la sua bocca, aggredendole il collo, percorrendo la pelle salata con le labbra. Nicole rovesciò indietro la testa per facilitargli il compito, gemendo come un gattino. Ma quando Rafael l’attirò verso di sé e sentì che era eccitato, tornò in sé con un sussulto. Dio del cielo, che cosa stava facendo? Si stava comportando come una puttanella e l’aveva assolutamente incoraggiato invece di respingerlo. Era contenta che il cellulare fosse rimasto sulla veranda, altrimenti Steve avrebbe sentito con chiarezza i suoi gemiti e difficilmente sarebbe riuscito a non precipitarsi lì.
Rafael si accorse del suo turbamento e interruppe il bacio.
«Qualcosa non va, tesoro?» domandò, cercando di guardarla negli occhi ma lei, che era arrossita, li teneva bassi. Nicole Knight che arrossiva mentre era sotto copertura? A memoria sua non era mai accaduto, nemmeno la prima volta che con i Five-0 si era impegnata in quel tipo di attività.
Sollevò una mano a coprirsi gli occhi, cercando di prendere tempo. Doveva trovare un modo per venirne fuori, ma il cervello era completamente andato e le pareva di non riuscire più a connettere.
Rafael si scostò un po’. «Ehi, che succede?» chiese con dolcezza.
«Scusami» mormorò lei, ancora senza incrociare il suo sguardo. «È che io…» ma non riuscì a proseguire. Cosa poteva dirgli? Perché quel lavoro in incognito non funzionava come gli altri?
«Va bene, capisco» disse lui e Nicole alzò gli occhi quando avvertì la durezza nel suo tono. Lui si voltò per tornare a riva, ma la donna gli afferrò il braccio.
«Sono uscita venti giorni fa da una storia che andava avanti da quattro anni» improvvisò. Come scusa era abbastanza buona – anche se ci si sarebbe aspettati che, stando così le cose, di fronte alla sua proposta di partire con lui avesse quantomeno tergiversato un po’ – ma, almeno, bastò a fermarlo. «Vorrei lasciarmi andare, Rafael. Davvero lo vorrei» continuò, stringendogli il braccio per dare più enfasi alle sue parole. «Ma i ricordi sono ancora troppo vividi in me e ti chiedo di avere pazienza».
Rafael non le sembrava il tipo d’uomo che poteva pazientare e aspettare una donna, qualunque fosse il suo problema. Tuttavia, la guardò negli occhi e si ammorbidì, sollevando una mano ad accarezzarle la guancia.
«Penso che valga la pena aspettarti» mormorò, cogliendola di nuovo di sorpresa. «Vieni» aggiunse, «andiamo a mangiare qualcosa».

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Capitolo 12
*** Resta con me ***


Nicole si rende conto che quel lavoro non è come gli altri,
ma ormai siamo alla resa dei conti.
La cavalleria è in arrivo e, entro le prime ore del mattino successivo,
Steve attaccherà Isla Niebla per tirarla fuori da quell'impiccio.
A Nicole resta da scoprire se Elliot è tenuto prigioniero.
Buona lettura!

 

Il mattino seguente, Nicole si svegliò nel suo enorme letto e notò con sgomento che erano le dieci passate. Aveva perso parte della mattina, ma aveva un disperato bisogno di riposare.
Il pomeriggio e la sera precedenti, Rafael si era comportato in maniera impeccabile, eludendo qualsiasi accenno alla sua situazione, evitando in tutti i modi di forzarla a fare qualcosa che non volesse. E, nonostante avesse intercettato qualche sguardo un po’ più che amichevole, quando l’aveva accompagnata nella sua stanza si era accontentato di un bacio sulla guancia.
Nicole si sentiva terribilmente in colpa. Sapeva di averlo incoraggiato e si vergognava di se stessa perché era felicemente sposata eppure non aveva avuto nessun rimorso mentre lui la baciava e ricordava con turbamento la stretta allo stomaco che aveva provato ogni volta che Rafael l’aveva baciata. Tentava di giustificarsi, dicendo a se stessa che stava facendo il proprio lavoro, ma sapeva bene che non era del tutto vero: baciare Rafael le era piaciuto e non poteva negarlo. Avrebbe dovuto parlarne con Steve non appena quel lavoro fosse finito.
Il led di segnalazione del suo Galaxy lampeggiava, segno che c’era un’e-mail che doveva essere letta. Era di uno dei suoi finti colleghi, sicché veniva da Steve. Il suo cellulare la decriptò: diceva che avrebbero attaccato entro le due del mattino successivo. Avrebbero recuperato prima lei, poi avrebbero assaltato il bunker, liberato Elliot (sempre che fosse lì) e sarebbero fuggiti fino alla nave appoggio che, favorita dall’oscurità, si sarebbe avvicinata il più possibile.
Era evidente che più tempo passavano sull’isola, più sarebbero stati in pericolo. Era di vitale importanza che Nicole riuscisse a capire qualcosa in più sul bunker in mezzo alla giungla e per farlo aveva bisogno di fare un’altra escursione.
Si alzò, indossò una vestaglia e uscì, in cerca di Rafael. Uno dei bodyguard la scortò fino al suo studio: indossava camicia e pantaloni di lino ed era a piedi nudi, perfettamente rilassato.
«Dormito bene?» le chiese, chinandosi per sfiorarle la guancia con le labbra.
«Dormito troppo, direi».
Lui rise: «Non devi timbrare il cartellino qui. Mi spiace soltanto che non hai visto lo spettacolo della nebbia. Stamattina era incantevole».
Nicole accennò con il capo alla sua scrivania: «Tu però sei al lavoro».
«Purtroppo, raramente riesco a fermarmi. Anzi, speravo che rimanessi a letto un po’ di più, cosicché riuscissi a sbrigare le mie faccende e poi sarei stato tutto tuo».
Non era sicura che ci fosse malizia nell’ultima parte della frase, ma fu contenta di aver lasciato il cellulare in camera e Steve non avesse sentito.
«Ho poltrito anche troppo» esclamò con un sorriso. «Se non ti spiace, vado a cercarmi qualcosa da mangiare e poi vado a farmi una corsetta».
«Fa’ pure. Come fosse la tua isola» mormorò. «E comunque, la colazione ti sta aspettando nel salone».
Quando fu pronta, partì di corsa come il giorno prima. Non appena fu sicura di essere fuori vista, si avvicinò progressivamente al bunker. Stavolta, invece di aggirarlo per arrivare all’ingresso, salì la collina finché trovò ciò che cercava: una presa d’aria.
S’inginocchiò, lanciando un’occhiata in giro per essere sicura che nessuno la stesse osservando, e sganciò la piccola borsa che aveva portato con sé. Estrasse il cavo video in fibra ottica e lo srotolò, collegandolo al piccolo tablet con cui stava scansionando il condotto d’areazione per verificare che non ci fossero sensori. Quando fu sicura che la conduttura fosse libera, infilò cautamente il cavo all’interno di essa, mentre le immagini venivano rimandate sul tablet. Arrivò quasi al limite della lunghezza del cavo prima di riuscire a vedere l’interno.
La piccola telecamera montata sul cavo le mostrò quello che pareva un magazzino, con provviste accatastate e grosse taniche d’acqua. Quando girò la fibra e inquadrò l’altro lato, vide che erano ammonticchiate casse con diciture in cirillico. Non conosceva il russo, ma il 7.62 stampigliato non lasciava molti dubbi sul fatto che contenesse dei kalashnikov.
Scattò alcune foto ed estrasse in fretta il cavo: lì non c’era nulla che potesse farle capire se Elliot era tenuto prigioniero. Si mosse con circospezione, tenendo l’orecchio a qualsiasi rumore, finché trovò un secondo condotto. Ripeté la procedura finendo stavolta in una sala di controllo. Due uomini – di spalle rispetto alla telecamera – sedevano di fronte a una consolle piena di monitor sui quali campeggiavano immagini della casa e dell’interno del bunker.
Fece diversi scatti anche lì e stava per far uscire il cavo quando notò un’immagine su uno dei monitor e zumò. In una delle stanze del bunker, c’era un prigioniero. Sedeva per terra, addossato al muro, e indossava una semplice maglietta bianca e un paio di informi pantaloni scuri.
Non poteva vederlo in viso perché teneva la testa appoggiata sulle ginocchia, ma la corporatura corrispondeva con quella di Elliot. Fortunatamente, il monitor su cui campeggiava l’immagine, segnalava anche la stanza da cui proveniva, quindi riuscì ad orientarsi rispetto a dove si trovava in quel momento. Ritirò la fibra ottica e si spostò di nuovo, tenendosi bassa per sfuggire ad un eventuale osservatore.
Era abbastanza ovvio che l’uomo nella cella era un prigioniero quindi, che fosse Elliot o meno, andava liberato, ma voleva essere sicura che fosse lui. La stanza in cui era bloccato era dalla parte opposta rispetto al magazzino che aveva ispezionato qualche attimo prima. Considerò che doveva esserci una conduttura d’areazione anche su quel lato, che probabilmente dava proprio sulla cella. Quando la trovò, usò di nuovo la fibra ottica e si ritrovò proprio nella piccola prigione.
Mentre era impegnata a muoversi all’esterno, l’uomo si era spostato, coricandosi su una brandina che, unita ad una sedia d’acciaio era l’unico arredo della stanza. Mise a fuoco il suo viso e sussultò: era Elliot, ma era stato brutalmente picchiato. La maglietta era sporca di sangue che prima non aveva visto perché era rannicchiato sul pavimento e un occhio era gonfio e bluastro. Aveva anche altri lividi sulle braccia e sul viso, che dovevano avere ormai qualche giorno, e il labbro inferiore con una crosta evidente.
Avrebbe voluto mandargli un qualche messaggio, ma non aveva modo di fargli sapere che era a pochi metri da lui, né che Steve e gli altri sarebbero arrivati a liberarlo entro poche ore. Inoltre, ogni secondo che passava lì, metteva lei e l’intera operazione in pericolo, quindi si affrettò a ritirare il cavo e a riporlo nella borsa, insieme al tablet.
Scese il pendio con cautela e riprese il sentiero, sbucando sulla spiaggia dove si era fermata il giorno prima. Rilevò le coordinate GPS, decisa a mandarle a Steve. Poi prese a correre sul serio: aveva perso un bel po’ di tempo nell’esplorazione del bunker e non voleva dare motivo ai bodyguard di pensare male. Quando arrivò sulla veranda, ansimante ma in perfetto orario rispetto al giorno prima, Rafael non era ad aspettarla.
Entrò nella propria stanza e, pochi istanti più tardi, il telefono sul comodino squillò.
«Il signor Machado chiede di raggiungerlo sulla torre tra mezz’ora» le rese noto Maria.
Nicole ringraziò e riattaccò. Aveva notato subito la torre a base circolare quando era arrivata, anche perché quel braccio della casa si protendeva sulla spiaggia, come un dito puntato verso l’oceano, e svettava diversi metri sopra il tetto della dimora.
Innanzitutto inviò tutti i dati a Steve, con un’e-mail criptata. La risposta non si fece attendere: Steve e i Seals erano già a bordo della nave appoggio. L’orario dell’attacco non era cambiato, ma avendo avuto la certezza che Elliot era nel rifugio blindato avrebbero estratto prima lui e poi lei.
Nicole si preparò, indossando un vestito lungo, colorato e svolazzante che sapeva sarebbe piaciuto a Rafael – tanto per farsi perdonare per averlo respinto – e, snobbando l’ascensore, prese le scale che portavano alla sommità della torre.
Quando arrivò lassù, rimase – per l’ennesima volta in quei pochi giorni – a bocca aperta. Le alte finestre davano l’impressione che l’intera parete fosse fatta di vetro, appena oscurato per rendere la luce del sole non fastidiosa per gli occhi. Data l’altezza, la vista era ininterrotta in ogni direzione, mostrando tutta la bellezza dell’oceano e di quell’isola smeraldina in mezzo alle acque, come una piccola Atlantide privata.
Nicole notò appena il tavolo preparato per due, affascinata dal panorama che si apriva davanti a lei. Non lo sentì arrivare dietro di sé finché lui non le circondò la vita con le braccia, chinando la testa per baciarle la spalla nuda. Nonostante tutto ciò che aveva detto a se stessa, non poté impedirsi di fremere al contatto con quelle labbra morbide.
Lui equivocò, pensando che fosse infastidita dal suo approccio, e fece per scostarsi mormorando delle scuse, ma Nicole lo trattenne.
«È piacevole» disse, stupendosi di nuovo quando si accorse che era la verità, e appoggiandosi a lui. «La vista da qui è meravigliosa».
«Confermo» replicò lui, che però non stava guardando il panorama bensì lei.
Rimasero immobili per un po’, finché lui le baciò di nuovo la pelle liscia della spalla. La fece voltare e la prese per mano, scostandole poi la sedia perché si accomodasse al tavolo. Il pranzo fu servito subito e la donna si concentrò sul proprio piatto, per paura di soccombere a quegli occhi scuri.
Rafael se la prese comoda: come aveva promesso quel mattino, intendeva dedicarsi soltanto a lei e quando lo faceva, diventava irresistibile. Nonostante fosse un delinquente nel senso peggiore del termine, aveva una personalità aperta e affascinante, e sapeva come conquistare una donna, tanto che Nicole si ritrovò a ridere delle sue battute con una facilità che la lasciava spiazzata.
Terminato il pranzo, scesero di sotto e Rafael l’accompagnò nel giardino botanico dove Nicole osservò rapita tutte le varietà di orchidea presenti. Non era difficile capire cosa stava facendo Rafael: il giorno prima, quando l’aveva respinto, aveva soltanto accantonato i suoi progetti su di lei e ora stava facendo di tutto per sedurla, riuscendoci piuttosto bene, dovette ammettere.
A sera, dopo cena, sedettero sul divano in pelle del salone. Nicole si accomodò con le gambe ripiegate sotto di sé, più per cercare di mettere più distanza tra lei e Rafael che per altri motivi. Ma lui sedette comunque vicinissimo alla donna, troppo vicino.
Di nuovo, riversò tutto il suo magnetismo su di lei che ben presto dimenticò ogni preoccupazione, salvo quando guardò l’ora e scoprì con sgomento che era già passata l’una e mezza. Entro meno di mezz’ora, Steve avrebbe attaccato l’isola con i suoi compagni e una sorta di nervosismo la colse.
Rafael se ne accorse e pensò di nuovo che fosse per la sua vicinanza. Stavolta però non si ritrasse: appoggiò una mano allo schienale e si tese su di lei, allungandosi per prendere il telecomando dello stereo. Il calore del suo corpo l’avvolse, attraversando il sottile tessuto di cotone della maglietta. Era vicinissimo, in quel momento.
Afferrò il telecomando e premette un pulsante senza guardare: l’impianto cominciò a diffondere una musica sommessa, contribuendo a rendere ancor più languida l’atmosfera. Rafael le accarezzò la guancia.
«Ti prego» sussurrò, vicinissimo alle sue labbra. «Non respingermi, stavolta».
Avrebbe dovuto farlo: doveva assolutamente allontanarsi da quella specie di incantesimo che le aveva gettato addosso e che le faceva desiderare di tradire Steve. Aveva la salivazione a zero e si umettò le labbra per dirgli che non poteva farlo, che era troppo presto. Ma lui notò il gesto e non resistette, coprendo quell’ultima esigua distanza che li separava.
Il bacio sgretolò in fretta tutta la sua determinazione accuratamente costruita. Spazzò via ogni pensiero razionale, mentre gemeva e il suo corpo cercava istintivamente il contatto con quello di Rafael. Lui, se pure era sorpreso per quell’accoglienza, non lo diede a vedere: la circondò con un braccio, facendola scivolare sul divano finché l’ebbe sotto di sé.
La baciò con dolcezza, quasi fosse timoroso di spaventarla, ma la lussuria aveva ormai debordato oltre la ragione e capì che la donna voleva di più. Abbandonò la sua bocca, spostandosi sul collo, scivolandoci sopra con la lingua, mentre un gemito roco le faceva vibrare la gola. Nicole era completamente fuori controllo, ma quando Rafael le posò la mano sul fianco, facendo risalire un po’ la canotta che indossava, si riscosse con un sussulto.
«Tranquilla» mormorò Rafael, «non ti farò del male, credimi».
Ma che stava facendo? Doveva togliersi da quella situazione, immediatamente. Di certo Steve stava ascoltando la loro conversazione e, dato che il Galaxy era posato sul tavolino lì accanto, non doveva essergli sfuggito nemmeno uno dei gemiti che lei aveva emesso.
La mano di Rafael risalì ancor più sotto il top, avvicinandosi pericolosamente al suo seno e Nicole si irrigidì.
«Rafael, ti prego» sussurrò, mentre premeva velocemente la finta ametista del suo anello.
La sua preghiera bastò a fermare la sua mano, ma non la tolse. La spostò invece sul suo ventre, in una lenta carezza di cui sentì l’eco più in basso, nella reazione del suo corpo traditore.
«Lasciati andare, querida» sussurrò e lei dovette fare appello ad ogni stilla di forza per non ascoltare ciò che il suo corpo pretendeva.
Mentre cercava freneticamente una risposta da dargli che potesse spiegargli quegli improvvisi sbalzi d’umore, sentì vibrare qualcosa contro la coscia. Rafael si sollevò appena e prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni, mentre lei faceva di tutto per evitare di notare come la stoffa tirasse sul davanti.
«Dimmi» disse semplicemente.
Dietro le spalle di Rafael c’era un grande orologio a muro e Nicole vide che mancavano dieci minuti alle due. L’attacco non doveva essere ancora iniziato, ma udì chiaramente la risposta che ricevette al cellulare: «Abbiamo problemi sul lato nord».
«Iago, prendi gli altri e cercate di capire cosa sta succedendo» rispose Rafael con la massima tranquillità.
Nicole non capì la replica di Iago perché Rafael si scostò, alzandosi in piedi. «Non credo di aver chiesto la tua opinione, Iago» disse con voce tesa e secca. «Ora andate» concluse, chiudendo la comunicazione e rimettendo il telefono in tasca.
Si alzò anche lei, abbassando il top a nascondere l’ombelico. «Qualcosa non va?» domandò.
«Niente di preoccupante, tesoro» sussurrò, avvicinandosi con indolenza. «Noi, piuttosto: dov’eravamo rimasti?»
Nicole indietreggiò perché lo scintillio che gli vedeva negli occhi non le piaceva per nulla. Significava guai e il tempo ormai scarseggiava. “Problemi sul lato nord” voleva dire una sola cosa: i Seals avevano anticipato l’attacco rispetto a quanto previsto.
La donna fece ancora un passo indietro, sorridendogli timidamente. «Lo sai che per me è difficile, Rafael» sussurrò.
«Vuoi che ti dica cosa so, invece?»
Non seppe mai cosa voleva dirle perché la notte si accese di luce arancione. Nicole voltava le spalle alla vetrata ma vide quel bagliore specchiarsi negli occhi di Rafael che si contrassero per la sorpresa e, forse, la rabbia.
Il boato di un’esplosione fece tremare i vetri che comunque non s’infransero. Rafael la oltrepassò velocemente, affacciandosi alla finestra.
«Ma che diavolo sta succedendo?» chiese retoricamente.
Nicole aveva un’occasione d’oro: Rafael le voltava le spalle e lei aveva l’opportunità di immobilizzarlo, in attesa che Steve arrivasse con i rinforzi. Se lo conosceva – e lo conosceva meglio di quanto conoscesse se stessa – si sarebbe precipitato da lei non appena messo in salvo Elliot.
Si mosse con cautela, credendo che l’attenzione di Rafael fosse tutta concentrata su quanto succedeva nella giungla, da cui ora provenivano spari e grida. Ma non poteva sbagliarsi di più: notò il ghigno riflesso sul vetro ed ebbe appena un istante per alzare le braccia e parare il colpo.
Rafael si era voltato con un movimento veramente fulmineo, abbattendo il braccio sinistro contro la sua spalla. Nicole non si era aspettata una reazione e non era ben puntellata. Il colpo, diretto alla sua testa, la prese fortunatamente sulla spalla e il braccio alzato in difesa, facendola cadere.
Si rialzò più in fretta che poté, prima che lui l’aggredisse di nuovo. Il braccio le doleva terribilmente ma riusciva a muoverlo in modo normale, quindi il colpo non l’aveva danneggiata come Rafael aveva sperato.
Tenne le mani sollevate davanti a sé, in guardia, mentre lui sogghignava e faceva un passo verso di lei.
«Il tuo maritino è finalmente arrivato a salvarti?» domandò Rafael, sibilando come un serpente. «Cosa dirà quando saprà che hai fatto la puttanella con me?»
Dalle sue parole, Nicole intuì che fino a quel momento aveva giocato con lei. Il suo braccio saettò quasi fosse animato di vita propria, colpendolo con un forte schiaffo. La testa di Rafael schizzò da una parte, ma il sogghigno non abbandonò la sua bocca.
Nicole aveva usato il destro menomato dalla mazzata subìta poco prima e ora lo colpì di nuovo, con il sinistro stavolta, spaccandogli il labbro contro i denti.
Il sapore del sangue lo fece infuriare, che era ciò di cui Nicole aveva bisogno. Si avventò su di lei, caricando come un toro infuriato. Per lei non fu difficile scostarsi e lasciare che lui colpisse lo schienale del divano con il fianco.
Nicole lanciò un’occhiata fuori, notando alcune figure scure muoversi al limitare del bosco di palme, ma non ebbe molto tempo per osservarle, perché Rafael si avventò di nuovo su di lei. Usò di nuovo i pugni, cercando di colpirla alla testa, da vigliacco quale era in realtà. Nicole sollevò il braccio per parare ma, sebbene mancasse di qualsiasi allenamento, Rafael era forte e colpì di nuovo con inaspettata violenza. La donna barcollò, cercando di riprendere l’equilibrio, ma Rafael le fu addosso prima che ci riuscisse. L’afferrò per il collo, sbattendola violentemente contro il muro.
«Credevi davvero che invitassi una sconosciuta sulla mia isola, Nicole?» le domandò a bruciapelo chiamandola con il suo vero nome, continuando a stringerle il collo, togliendole il respiro. «Ho fatto ricerche su di te, tesoro. E non è stato difficile capire che non eri chi dicevi di essere».
Nicole cercò di graffiargli il viso, ma Rafael si scostò, continuando a tenerla stretta. Sentiva le forze venire meno mentre i suoi polmoni reclamavano disperatamente ossigeno. Altre immagini passarono davanti ai suoi occhi e il viso di Rafael si trasformò in quello di Tony Alvarez che anni prima l’aveva bloccata nello stesso modo.
In seguito, Steve le aveva insegnato come liberarsi, ma la stretta ferrea di Rafael le stava togliendo troppe forze e non riusciva a coordinare i movimenti per fermarlo.
«Se vorrà portarti via di qui, il comandante McGarrett dovrà raccogliere il tuo cadavere» sibilò Rafael, prima di voltare bruscamente la testa, osservando qualcosa al di là del vetro.
Nicole girò lo sguardo in quella direzione, notando una ragnatela di crepe sulla finestra. Nonostante la visione che cominciava a restringersi, vide Steve dall’altra parte della parete di vetro, illuminato dalle fiamme che si stavano sviluppando nel bosco. Teneva alto il suo fucile d’assalto Heckler & Koch, sparando nel tentativo di abbattere la finestra e raggiungerla. Le finestre erano a prova di proiettili però, e resistettero al suo assalto.
La distrazione fu comunque sufficiente per sbilanciare Rafael e Nicole sapeva che era la sua unica possibilità. Alzò il braccio sinistro e lo calò con forza su quelli tesi di Rafael, spezzando la presa che ancora aveva sulla sua gola. Aria fresca e benedetta arrivò nei suoi polmoni attraverso la gola dolorante, dandole nuova forza.
Rafael riprese l’equilibrio, mentre Steve continuava a tempestare di colpi lo stesso punto della finestra. Nicole riuscì a colpirlo con il gomito, due volte, in pieno viso. La soddisfazione che provò nel sentire il suo naso che si rompeva, eruttando sangue che andò a sporcargli ulteriormente la camicia di lino bianco già macchiata di rosso, fu sopraffatta dalla certezza che era finita. Non aveva energie per altro che scivolare a terra, mentre vedeva Rafael alzarsi in piedi tenendosi il naso che colava sangue.
La sovrastò, mentre Nicole cercava di strisciare via a quattro zampe e di prepararsi ai colpi con cui di certo avrebbe infierito su di lei. Rafael infatti la colpì con un calcio al fianco che la fece rotolare supina.
«Ti ammazzo, puttana» disse con voce nasale, il viso ormai ridotto ad una maschera di sangue. Alzò la gamba per abbatterla su di lei, mirando allo stomaco indifeso. Nicole si rannicchiò istintivamente, ma Rafael non terminò mai l’azione.
La finestra dietro di lui andò in frantumi, cadendo a terra come un velo e la spalla destra di Rafael esplose in una nuvola di sangue e tessuto. Il colpo lo fece cadere a terra, mentre urlava per il dolore. Nicole alzò lo sguardo: Steve era appena fuori dal vano della finestra, il fucile puntato verso la direzione dove, un attimo prima, c’era Rafael.
Accanto a lui, la donna vide Dean Cooper. Entrambi si precipitarono dentro, calpestando con i piedi calzati di stivali i frammenti di vetro sparsi sul pavimento. Dean puntò la propria arma su Rafael: «Se formuli anche il solo pensiero di muoverti, ti faccio saltare il cervello, è chiaro?»
Il gangster doveva aver perso tutta la sua boria perché non disse nulla e rimase sdraiato sul pavimento, limitandosi a piagnucolare tenendosi la spalla ferita.
Steve s’inginocchiò sulla moglie, circondandole delicatamente la nuca con una mano e aiutandola a sollevarsi un po’.
«Nicky, stai bene?» domandò in un sussurro. Lei annuì, non fidandosi della propria voce. «Ce la fai ad alzarti?»
Quando annuì di nuovo, Steve le circondò la vita con il braccio e l’aiutò ad alzarsi in piedi, tenendola stretta a sé. Mason e Sam li raggiunsero correndo in quel momento: «Siamo pronti a partire, comandante» disse il primo, rivolgendosi a Steve.
«Elliot?» domandò Nicole, la voce roca per i danni riportati alla gola che stava già iniziando a illividirsi.
«Sta bene, è al sicuro con Alex e Johnny». Nel frattempo, Dean aveva immobilizzato Rafael, bloccandogli le mani dietro la schiena, incurante dei lamenti di dolore che emetteva. Steve lanciò uno sguardo ai segni delle sue dita sul collo della moglie e in un impeto di rabbia estrasse la pistola, afferrò il malvivente per il colletto della camicia e lo sbatté senza troppi complimenti contro il muro, proprio dalla parte della spalla lesionata.
«Se anche potessi perdonarti per averle messo le mani addosso» ringhiò, puntandogli la pistola alla tempia mentre quello rantolava di dolore, «averla picchiata non depone a tuo favore». Rafael sogghignò, orrenda visione con il volto coperto di sangue, ma l’espressione gli tornò immediatamente seria quando la canna della pistola premette ancor di più contro la sua testa. «Coraggio, testa di cazzo, sono vicinissimo a farti schizzare il cervello sulla parete».
«Non puoi» borbottò Rafael, ma la paura gli trasudava da tutti i pori.
«Hai ragione: non posso» confermò Steve. «Ma c’è una cosa che posso fare: sbatterti in prigione, dove marcirai per il resto dei tuoi giorni».
Lo strattonò, spingendolo verso Mason e Sam che attendevano appena fuori della finestra distrutta. «Recupero la roba di Nicky e sgomberiamo. Ci vediamo ai gommoni».
Senza perdere tempo, Nicole, Steve e Dean attraversarono la casa. Nessuno dei numerosi domestici si azzardò a farsi vedere. Giunti nella stanza di Nicole, infilarono velocemente le sue cose in valigia e Dean se la caricò addosso.
«Ce la fai a correre?» le chiese Steve.
«Sono ok. Andiamo» replicò la donna, che in quei pochi istanti si era ripresa.
Il terzetto si avviò. Le fiamme partite dal bunker sotterraneo dove fino a poco prima era tenuto Elliot rischiaravano la notte, innalzandosi al di sopra delle cime delle palme. A quella luce, Nicole vide due corpi distesi a terra, davanti alla casa. Dovevano essere le guardie del corpo di Rafael che avevano tentato di bloccare i Seals e dovevano essersi trovate in un inferno di fuoco.
Mason e il suo compagno erano già partiti, ma erano rallentati da Rafael che puntava i piedi e faceva di tutto per perdere tempo sicché ben presto, Steve e gli altri li raggiunsero. Erano nel folto degli alberi: sul lato destro divampava l’incendio che rendeva il loro lato sinistro ancor più buio.
Caddero nell’imboscata a piedi pari, principalmente perché pensavano di aver ridotto al nulla ogni resistenza e non si aspettavano di essere attaccati. Steve vide le fiammelle degli spari davanti a sé e gridò. Mason e Sam si gettarono fuori dal sentiero e si appiattirono sul terreno, tenendo giù anche Rafael. Steve tirò giù Nicole che sussultò, forse per la sorpresa e il rude trattamento.
«Rispondete al fuoco» urlò Steve. «Resta qui» sussurrò alla donna e rotolò un paio di volte su se stesso, fermandosi ventre a terra con il fucile imbracciato.
Il cecchino appostato non era molto furbo perché sparò di nuovo alle ombre, rivelando con chiarezza a Steve la sua posizione. L’uomo lo inquadrò nel mirino sebbene rimanesse basso per evitare di essere illuminato dal baluginio delle fiamme. Appena fu allineato, Steve sparò e vide la testa dell’uomo schizzare all’indietro e il corpo afflosciarsi fra i cespugli.
Si alzò e corse piegato in due, zigzagando per rendere le cose difficili ad un secondo cecchino che fosse eventualmente appostato, anche se gli spari erano arrivati tutti da quell’unico punto. Controllò in fretta la situazione e si riunì con Dean nei pressi del corpo dell’uomo ucciso.
La giungla era libera da entrambe le parti, segno che quell’uomo era solo.
«C’è mancato poco» commentò Dean.
«Nel mio caso si può dire che io non ci sia più abituato, ma quanto a te?» domandò Steve. «Stai invecchiando anche tu, Cooper?»
«Leviamoci dalle palle, e poi ti farò vedere io quanto sono invecchiato!» esclamò.
Ripresero il cammino e, sebbene Steve notasse una preoccupante incertezza nel passo di Nicole, lei continuò imperterrita finché non sbucarono sulla spiaggia. La guidò verso il gommone con a bordo Alex, che la aiutò a salire. Sul fondo, sotto una coperta termica, Elliot mosse appena la testa nella sua direzione.
Nicole si chinò su di lui e sorrise: «Stai bene?».
Lui annuì cautamente e mormorò un’unica parola: «Grazie».
Gli accarezzò la testa mentre Steve spingeva in acqua l’imbarcazione e saliva a bordo. Alex avviò il motore e, seguiti dall’altro gommone, si allontanarono dall’isola, verso la nave appoggio.
Steve sedette accanto a Nicole e abbassò lo sguardo su Elliot. «Stai comodo lì, fratello?» disse, sogghignando. «Piacevole la vacanza a Isla Niebla?»
Elliot fece una smorfia e borbottò qualcosa a proposito del fatto che Steve non avrebbe dovuto infierire mentre non era in grado di difendersi. McGarrett rise, ma si azzittì di colpo quando Nicole attirò la sua attenzione.
«Credo che abbiamo un problema» sussurrò la donna. Solo allora lui vide che si stava tenendo il fianco sinistro e quando scostò la mano, non fu difficile capire che quella sostanza luccicante che la imbrattava era sangue.
L’afferrò al volo prima che si accasciasse in avanti. La tenne fra le braccia, sollevando il top che indossava per esaminare la ferita.
«Alex, ho bisogno di luce» disse, mentre Nicole ansimava nel suo abbraccio. Alex staccò la torcia dalla propria arma e illuminò il ventre della donna, che risultò essere coperto di sangue, liquido che sgorgava da un foro scuro appena sotto le costole.
Steve la tastò con cautela sulla schiena, cercando il foro d’uscita per capire che traiettoria avesse seguito il proiettile, ma la donna scosse la testa.
«È ancora dentro» boccheggiò Nicole, irrigidendosi mentre il gommone beccheggiava sulle onde.
«Alex, metti le ali a questo coso» ringhiò Steve, tenendo più salda Nicole, tentando di salvaguardarla dalla maggior parte degli scossoni.
«Ho freddo, Steve» sussurrò lei ad un certo punto e l’uomo le mise addosso una coperta che non bastò a fermare i tremiti che presero a scuoterla. Sapeva che era la perdita di sangue ad indebolirla in quel modo.
«Tranquilla, ok?» le mormorò vicinissimo al viso, furente con se stesso per averla messa in pericolo e per l’espressione di dolore che le animava il viso. «Te la caverai, Nicky. Andrà tutto bene».
«Fa male» sussurrò lei.
«Lo so» replicò Steve. Gli avevano sparato diverse volte e non aveva dimenticato il dolore bruciante di un proiettile nel corpo. Gli occhi di Nicole si fecero pesanti e chiuse le palpebre, facendo ricadere la testa all’indietro. Steve la scosse con delicatezza. «Non puoi lasciarti andare, Nicky» ordinò, mentre lei si riscuoteva.
«Sono così stanca».
«Resta sveglia, piccola. Resta con me» disse, continuando a ripetere quella litania finché non giunsero in vista della nave. Avvisati del loro arrivo, il medico di bordo e due assistenti erano già presso la murata e avevano calato una barella per issare sul ponte Nicole.
Poi la portarono nella sala operatoria allestita all’interno e a Steve non rimase altro da fare che attendere. E pregare.

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Capitolo 13
*** Io ti ho tradito ***


La missione è compiuta,
ma a che prezzo?

Un leggero bussare svegliò Nicole che aprì gli occhi proprio mentre Steve apriva uno spiraglio nella porta della stanza uno del reparto di medicina dell’Hawaii Medical Center dove la donna si trovava ricoverata da una settimana.
«Ci sono visite per te» sussurrò. «Sei presentabile?»
Nicole sorrise e annuì. Steve spalancò la porta e Cynthia ed Elliot entrarono nella stanza. Quest’ultimo si era ripreso perfettamente dal forzato soggiorno su Isla Niebla e, sebbene la maglia gli ballasse addosso a causa del peso perduto durante la prigionia, era in forma.
Lei sorrise e gli tese la mano, che lui strinse, mentre Cynthia si fermava ai piedi del letto.
«Stai bene, Elliot?» domandò.
Il giovane scosse la testa mentre un sorriso gli incurvava le labbra. «Hai anche il coraggio di chiederlo tu a me! Sei incredibile». Poi divenne serio: «Steve e Cynthia mi hanno raccontato quello che hai fatto per me. Non avresti dovuto metterti in pericolo in questo modo. Hai ben visto che Rafael Machado non è propriamente un sant’uomo e hai rischiato molto».
Nicole si strinse nelle spalle: «Siamo a casa, no? È ciò che conta».
Elliot si chinò per abbracciarla con cautela: «Ti devo la vita. Non potrò mai ringraziarti abbastanza» disse.
«Nemmeno io, per avermelo riportato indietro sano e salvo» gli fece eco Cynthia.
Si trattennero per un po’ e Elliot raccontò a Nicole cos’era successo. Come già sapevano, aveva accettato l’incarico per salvare la sua azienda che da qualche tempo navigava in acque non troppo tranquille. Aveva fatto ricerche su Machado prima di partire, capendo bene che tipo fosse il colombiano. Ma non aveva potuto dire di no; non con le cifre di cui si parlava.
Ma appena arrivato, si era reso conto di non poter proteggere qualcuno che infrangeva la legge in quel modo. Non poteva soffocare ciò che la sua coscienza dettava. Perciò, come Steve aveva previsto, aveva cercato di rimediare da solo, raccogliendo segretamente informazioni sulle operazioni di Machado, nel tentativo di incastrarlo.
Machado però era troppo furbo e se n’era ben presto accorto. Quando era stato scoperto, Elliot aveva cercato di fuggire, ma non ci era riuscito. Rafael l’aveva quindi imprigionato sull’isola per cercare di capire per chi lavorasse. Elliot non aveva parlato, anche perché non lavorava per nessuno se non per amore di giustizia.
«E poi tu e i Seals capitanati da questo pazzo amico che mi ritrovo siete arrivati e mi avete riportato indietro» disse Elliot, scambiando un’occhiata con Steve che si era seduto sul letto della moglie.
«Tu avresti fatto lo stesso per me, se fossi stato in pericolo».
«Ma io ci avrei messo di più. Non posso certo contare su una compagnia di forze speciali».
«Qualcuno ha nominato i migliori?»
Il vocione di Dean Cooper li fece voltare. L’uomo era sulla porta e dietro di lui c’era il resto della compagnia che aveva aiutato Steve ad estrarre Nicole ed Elliot da Isla Niebla.
Entrarono tutti nella piccola stanzetta che divenne ben presto sovraffollata. Un’infermiera di mezza età con un paio di occhialini sulla punta del naso entrò schioccando la lingua in segno di disapprovazione, borbottando oscure minacce e cercando senza successo di sospingere fuori i visitatori. Elliot la tranquillizzò, assicurando che lui e Cynthia se ne sarebbero andati e, dopo aver salutato Nicole e averle augurato di rimettersi presto, uscirono.
L’infermiera rimase sulla porta con i pugni chiusi sui fianchi, ma non poteva vincere una squadra di Seals e alla fine, dopo la garbata richiesta di Steve consentì che rimanessero, ma non più di dieci minuti.
«Come stai, signora McGarrett?» domandò Dean.
«Come se mi avessero sparato!» esclamò la donna. Poi tese le braccia verso il marito: «Ti spiace, Steve?»
L’uomo l’afferrò con delicatezza e la tirò un po’ più su, mentre lei stringeva i denti sentendo i punti tirare leggermente.
«Mi sa che ti sei rovinata il bikini, bellezza» sottolineò Johnny.
«Temo proprio di sì» confermò la donna.
Quando era arrivata sulla nave appoggio, Nicole era stata portata subito in sala operatoria. Il medico le aveva estratto il proiettile che le aveva perforato la milza, rendendo necessaria l’asportazione della stessa. Poi l’aveva ricucita, mentre la corvetta navigava verso Panama. Lì, Nicole era stata imbarcata su un volo militare assieme a suo marito e al resto dei Seals e riportata in patria.
A Honolulu l’avevano operata di nuovo, riaprendo la ferita per suturarla in modo diverso, tentando di limitare i danni, ma le sarebbe comunque rimasta una cicatrice abbastanza visibile. Nicole era ricoverata da una settimana e sperava che presto l’avrebbero dimessa: non desiderava altro che tornare a casa e ritrovare il suo equilibrio e la sua intimità con Steve.
«Ma questi non sono affari tuoi, depravato che non sei altro!» borbottò Steve, e le risate scrosciarono.
Poi Dean alzò una mano e chiese un attimo di silenzio. «Penso di poter parlare a nome di tutti dicendo che sei stata grande, Nicole. Senza il tuo aiuto e le informazioni che hai coraggiosamente raccolto sull’isola, il nostro lavoro sarebbe stato più approssimativo e di certo più pericoloso».
Tra i Seals non c’erano state perdite, lei ed Elliot erano stati portati in salvo senza troppi danni e, cosa più importante, erano riusciti ad assicurare Rafael Machado alla giustizia. In quel momento, il colombiano aveva la residenza presso uno dei carceri di massima sicurezza più top secret del continente, soggiorno che si sarebbe protratto per il resto dei suoi giorni.
«I dati che hai raccolto mentre eri lì e il video che hai registrato il primo giorno sono bastati a incastrarlo per bene. La prossima volta che uscirà di prigione sarà dentro una bara per il suo funerale» concluse Dean. Poi alzò gli occhi verso Steve. «Gliel’hai già detto?»
L’uomo scosse la testa: «Volevo che foste presenti anche voi».
«Dirmi cosa?» chiese Nicole.
«Il mese prossimo, il Presidente Obama verrà in visita alle Hawaii e ha chiesto di incontrarti. Vuole scambiare quattro chiacchiere – e probabilmente dare una medaglia – a chi ha dato un contributo fondamentale alla cattura dell’uomo che da anni forniva armi ai nemici degli USA e alimentava il traffico di droga» spiegò, di fronte all’espressione incredula di Nicole.
«Una medaglia?» chiese lei. «E perché a me? Siete voi ad averlo catturato».
«Ma sei stata tu ad incastrarlo» rispose Johnny.
«E quel riconoscimento te lo meriti alla grande» disse Alex con il suo vocione.
«Anche se si è trattato di un’operazione clandestina?» domandò la donna.
«Il Presidente deve aver visto la tua foto, bellezza!» esclamò Dean e tutti risero.
Nicole non sapeva cosa dire: non aveva fatto altro che quello che per lei non era solo un lavoro ma una vocazione. Suo padre era un ufficiale dell’Esercito e le aveva trasmesso il forte senso del dovere che l’aveva spinta ad arruolarsi in Marina. Il destino gliel’aveva portato via troppo presto, quando ancora non si era laureata, ma sapeva che lui sarebbe stato orgoglioso sia dei risultati che aveva ottenuto, sia della decisione di unirsi ai Five-0, sia di quanto aveva fatto da allora. E di sicuro sarebbe stato fiero nel vederla incontrare il Presidente della Nazione che aveva giurato di proteggere.
«Tua moglie riceverà una medaglia, Steve» evidenziò Sam. «Sei più orgoglioso o più invidioso?»
Steve sorrise, chinandosi per sfiorarle i capelli con le labbra in un bacio delicato: «Soltanto orgoglioso. Ma non credo che le permetterò più di spaventarmi in questo modo».
I Seals risero, richiamando l’attenzione dell’infermiera con gli occhiali che si precipitò di nuovo nella stanza e pretese che se ne andassero, con la scusa che Nicole doveva riposare. I militari la salutarono – sarebbero partiti il giorno seguente – ma promisero di tornare quando Obama avesse deciso di consegnarle l’onorificenza. Steve rimase ancora un po’, poi Nicole insistette perché  andasse in ufficio e anche lui la lasciò, con la promessa di tornare nel pomeriggio.
Lei accese il televisore e si rassegnò all’ennesima giornata di noia in ospedale.
 
L’oceano era stranamente calmo e la brezza era quasi assente. Nicole si godeva l’ultimo sole della giornata distesa su una sdraio, sulla spiaggia privata dietro casa. Erano trascorse tre settimane dal suo ferimento nel corso dell’operazione di salvataggio e dieci giorni dalla dimissione dall’ospedale. Nicole aveva sperato di tornare subito in ufficio ma, nonostante avesse protestato con Steve che un’altra settimana di inattività forzata le sarebbe costata la vita, lui era stato irremovibile, al punto da piazzare un agente davanti a casa per fare in modo che la donna ci restasse.
In effetti, nonostante tutta la sua buona volontà, il colpo era stato notevole e non bastavano pochi giorni per riprendersi da una ferita del genere. Steve lo sapeva e faceva del suo meglio per tenerla a riposo, cosa che la donna aveva infine accettato.
Steve la trovò ancora lì quando rientrò dal lavoro e si avvicinò senza farsi sentire, osservandola mentre, ad occhi chiusi, prendeva l’ultimo sole del giorno. Era in bikini e non era difficile scorgere che era un po’ dimagrita, ma aveva comunque un corpo stupendo, anche se ora la pelle liscia era deturpata dalla cicatrice sul fianco. Il medico aveva detto che, con il tempo, sarebbe sbiadita, ma ora era ancora ben evidente, e gli avrebbe ricordato per sempre quanto vicino a perderla era stato.
«Guardone e pervertito!» esclamò lei ad un certo punto, senza aprire gli occhi. Steve sorrise e si avvicinò. La donna si spostò un po’ e lui sedette sulla sdraio, chinandosi per baciarla.
Le labbra di lei erano calde e morbide. Steve le accarezzò con le proprie e lei le aprì subito, lasciandolo entrare. Le mani della donna salirono a cingergli la nuca. Era più di un mese che non facevano l’amore e il desiderio ribolliva appena sotto la superficie tanto che, mentre le loro lingue giocavano a sfiorarsi e i respiri di Nicole si facevano brevi e spezzati, lui si scostò un attimo, sfilandosi la maglietta e lasciandola cadere per terra.
Riprese a baciarla, accarezzandola sulla pelle che ora non era più rovente soltanto per il sole, finché lei si scostò bruscamente.
«Non posso farlo» sbottò.
Confuso e preso in contropiede dalla sua reazione, Steve ci mise un attimo a riprendersi. Poi si allontanò un po’ dalla moglie.
«Tranquilla, è tutto ok» mormorò, scostandole i capelli dal viso. Prima di arrivare a sfiorarla però, Nicole si scostò di nuovo, evitando il contatto. Quando voltò la testa verso di lui, Steve si accorse che gli occhi, scuri come il mare in tempesta, erano colmi di lacrime.
«Tesoro, che succede?» domandò con dolcezza.
«Devo parlarti, Steve. Ho già rimandato troppo a lungo».
L’espressione dell’uomo era perplessa. «Di che si tratta?»
Nicole tacque; poi trasse un lungo respiro come se si stesse preparando per un’immersione e lo guardò negli occhi.
«Io non posso continuare con questa consapevolezza, Steve» disse, rendendo l’espressione di lui ancor più esitante.
«Non ho idea di cosa stai dicendo».
«Io ti ho tradito» spiegò, calando le palpebre sugli occhi viola e voltando la testa per evitare il suo sguardo.
Lui la costrinse a voltarsi. «Era lavoro, Nicky».
Nicole scosse la testa. «No, non lo era». Era difficile tirare fuori quelle parole, eppure Nicole doveva farlo. Doveva parlare con lui e dirgli ciò che era successo: Steve aveva il diritto di sapere e di decidere. «Non era la prima volta che mi ritrovavo a dover sedurre qualcuno sotto copertura, ma stavolta è stato diverso».
Steve scosse la testa: sapeva cosa voleva dire, l’aveva intuito. Ma non era necessario: «Piccola, va tutto bene. Questo non…» tentò di dire, ma lei lo interruppe. Si raddrizzò e gli afferrò il braccio con forza.
«Machado è un bell’uomo e con le donne ci sa fare… Non sapevo più se ero io a sedurre lui o lui che stava seducendo me… Lasciarsi andare era così facile e io mi sono accorta che mi stavo lasciando andare… Ho cercato di oppormi, ma non…»
Parlava con frasi spezzate e smozzicate, mentre le lacrime le scivolavano giù sulle guance. Steve la prese per le spalle, scuotendola leggermente e facendola tacere.
«Nicky, ora ascolta me, per favore» mormorò con dolcezza. «So cos’è successo con Machado. Ho udito quasi tutto». Le accarezzò il viso con delicatezza. «E so perfettamente come ti devi essere sentita. Ma so anche che non saresti andata fino in fondo con lui».
«Non puoi saperlo, io stessa non…»
«Sssh, va tutto bene» le disse di nuovo. «Hai fatto ciò che dovevi per salvare qualcuno che considero quasi un fratello e va bene, non posso né voglio incolparti di nulla». Le asciugò le lacrime con le dita. «Quando ho accettato che venissi con me, sapevo che il tuo ruolo avrebbe potuto portarti a questo punto. E anche se, mentre eri con lui, la gelosia sembrava divorarmi, non ho mai dubitato che appartenessi a me e a me soltanto».
Non aveva ancora finito di parlare che Nicole già gli gettava le braccia al collo, schiacciando la guancia bagnata di lacrime contro la sua. Steve l’abbracciò stretta.
«Sono stato ad un passo dal perderti per sempre, Nicky. E in quel preciso momento ho capito che non mi importava cos’era successo tra te e Rafael. L’unica cosa importante era che tu tornassi al mio fianco».
Nicole rimase in silenzio fra le sue braccia mentre pensava che, fosse stata nei panni di Steve, la sua reazione non sarebbe stata altrettanto magnanima. Ma aveva davanti a sé un esempio di lealtà che andava oltre il legame che avevano.
«Quando Danny mi ha chiamato, dicendomi che aveva scoperto che Rafael aveva fatto ricerche su di te, mi sono spaventato a morte» proseguì Steve, lisciandole i capelli sulla schiena. «Se lui sapeva che non eri chi dicevi di essere, eri in grande pericolo. Per questo ho anticipato l’attacco. E quando ho sentito il segnale del tuo anello, ho capito che sarei potuto arrivare tardi».
Chinò la testa per baciarle la spalla e riprese a parlare. «Se hai bisogno del mio perdono, non preoccuparti: sei perdonata. Ma, come ti ho già detto, non c’è nulla che io ti debba perdonare».
La donna si raddrizzò, tenendolo a distanza di un braccio. «Sembra una frase fatta, ma mi rendo conto ora di essere una donna fortunata».
«Ma non prenderci l’abitudine, signora McGarrett. Se accadesse fuori dall’ambito lavorativo potrei anche arrabbiarmi».
«Puoi stare tranquillo, Steve».
La baciò, tendendosi per passarle un braccio dietro le ginocchia e cingendole la schiena con l’altro. Poi si alzò in piedi, tenendola contro di sé.
«Ora, se non ti spiace, vorrei dimostrarti quanto mi sei mancata» disse, avviandosi verso la casa con la donna in braccio.
«Non credo che il dottore ci abbia dato il permesso».
«Tranquilla, sarò assolutamente delicato».
«Oh, penso che non sarà necessario. Il dottore non sa proprio tutto», mormorò lei con voce suadente.
Mentre le onde continuavano a infrangersi sulla spiaggia e il sole tramontava annegando nell’oceano, Steve la portò in casa e chiuse la porta spingendola con il piede.

 
NOTE
Dato che non voglio prendermi meriti che non sono miei, è mio dovere informarti, o lettore, che tutta la faccenda del caso di omicidio di Melanie Thorpe è presa da un videogame, nella fattispecie, Special Enquiry Detail - The Hand that Feeds, distribuito da Floodlight Games. Il fatto è che io ho sempre difficoltà con i casi di polizia e quindi, dopo aver terminato questo gioco, mi è saltata l’idea che potesse diventare un caso adatto ai Five-0. Ho quindi cambiato i personaggi, ma la storia è stata mantenuta, per quanto possibile, fedele all’originale.

Per quanto riguarda il titolo di questo lavoro, mi sento di spiegare il perchè della mia scelta.
A volte il titolo è la prima cosa che ti viene in mente, a cui poi si aggrappa tutta la storia. Altre volte, invece, ti arriva soltanto alla fine, quando stai rileggendo la tua creazione per gli ultimi ritocchi. Per me, questa volta, si è trattato della seconda opzione.
Il titolo non si riferisce soltanto a Isla Niebla, il covo di Rafael Machado. Può essere letto in diversi modi.
La nebbia (chi vive nella pianura padana lo sa bene!) ti fa sembrare strane e aliene anche cose che conosci benissimo. Michael Thorpe pensava di conoscere sua moglie, ma la donna lo tradiva, arrivando perfino ad architettare e portare a compimento l’omicidio della sua stessa figlia.
Inoltre, la nebbia ti confonde, ti stordisce. Così come ha confuso e stordito Nicole che, ad un certo punto, si è resa conto di non riuscire più a tenere le cose, con Rafael, sul piano professionale. 
Ma, e questo è certo, sotto la nebbia c’è sempre il sole che prima o poi scalderà l’aria e la farà salire. La nebbia alla fine è salita e Nicole è perdonata da Steve (il solito uomo perfetto che in realtà non esiste! ;-) ed è tornata a vedere con chiarezza ciò che la nebbia nascondeva.

RINGRAZIAMENTI
Beh, dopo tutto questo sproloquiare, mi sento in dovere di ringraziare chiunque è arrivato fin qui e ha avuto la pazienza di seguire la storia fino al suo epilogo.
Spero che vi sia piaciuta e ci terrei tanto a sentire la vostra opinione, positiva o meno che sia.
Perciò, se vi va, recensite con un commento.
Grazie a tutti e a presto.

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