Positive

di SalvamiDaiMostri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Confessione ***
Capitolo 2: *** Positive ***
Capitolo 3: *** Tiepido Tramonto ***
Capitolo 4: *** Breve paradiso ***
Capitolo 5: *** La Tietjens ***
Capitolo 6: *** Incubo ***
Capitolo 7: *** Insieme ***
Capitolo 8: *** Cobalto e margherite ***
Capitolo 9: *** Carne e fiato ***
Capitolo 10: *** Thomas ***
Capitolo 11: *** Purpureo bacio ***
Capitolo 12: *** Di corsa verso il vuoto ***
Capitolo 13: *** Insieme, alla deriva ***
Capitolo 14: *** Progressione ***
Capitolo 15: *** Il dono ***



Capitolo 1
*** Confessione ***


Sherlock si osservò nel lussuoso specchio del bagno: sudorazione eccessiva, rossore delle gote, pupille dilatate. Si mise una mano sulla fronte: temperatura leggermente elevata.. Fece scivolare la mano sul collo: battito accelerato e oh mio Dio dov’era finita tutta l’aria???
Leggeva in se stesso tutti i sintomi dell’attrazione sessuale, sembrava di leggere uno dei suoi manuali Comunicazione non Verbale che studiava a memoria da ragazzino. Rassegnato, lasciò cadere il capo a ciondoloni, mentre si reggeva con le braccia tese sul lavandino.
Strinse i pugni. Improvvisamente levò lo sguardo e prese a fissare con disgusto la sua patetica immagine nello specchio: era furioso con se stesso. Si sarebbe preso a pugni, perchè non meritava altro.
A che cazzo stava pensando?? Come diamine poteva essere arrivato a quel punto? Ripensando un attimo agli avvenimenti degli ultimi giorni, non riusciva a riconoscere i suoi stessi gesti, le sue scelte, le sue azioni: era come se avesse gettato alle ortiche tutto quello che faceva di lui ‘Sherlock Holmes’, la fredda macchina calcolatrice, per dedicarsi a tutto ciò che aveva sempre ritenuto poco più che frivolezze inutili. Era grave. Era gravissimo, come aveva potuto non rendersene conto prima?? Ora era troppo tardi, ora che indossava quel nuovo elegantissimo vestito scuro, la sua camicia preferita e quel profumo. Ora che aveva lasciato John al tavolo del miglior ristorante che potesse permettersi in tutta Londra, ed era scappato in bagno in cerca di... di cosa?? Risposte? Aria???
Aveva accettato: era uscito con John Watson. Il suo John. Un vero appuntamento! Perchè aveva detto di sì?? Come?? Aveva tutte le intenzioni di dire no, voleva dire no, la sua lingua e le sue labbra erano pronte a dire no, ne era certo. Ed improvvisamente era finito lì a fissarsi e ad odiarsi davanti a quello specchio. Ma a cosa aveva pensato? A niente, che domande.
 
«John non deve pagare per le mie stronzate. Fottuto egoista.»
 
Non poteva pensare ad altro. Accettare le sue avance non era stato che un gesto di puro egoismo: avrebbe dovuto rifiutarlo, così come anni fa aveva deciso di fare con chiunque, e pagare il supplizio di non aprirsi all’uomo che si era irrimediabilmente reso conto di amare ormai da mesi. E invece no. Quello stronzo egoista che era aveva deciso di mandare tutto a puttane e mettere in pericolo la vita di John per puro egoismo e dire “Sì, perchè no?”
Ma ormai era troppo tardi. Non poteva rimanere in quel bagno per sempre.
Sbilanciò il suo peso sul braccio sinistro e con mala voglia ruotò con la mano destra il rubinetto dell’acqua fredda. La osservò scorrere per qualche istante mentre si tirava leggermente su le maniche di giacca e camicia, poi se ne riempì le mani, abbassò il viso e se lo sciacquò per tornare quanto più possibile in sè. Tornò ad osservarsi: almeno il rossore si era un po’ affievolito.
Ora sarebbe dovuto tornare al tavolo. Un passo dopo l’altro. E poi??
E poi avrebbe trascorso una meravigliosa serata.
Ancora quel suo dannato egoismo: era una cosa nuova. Non che gli fosse mai importato molto degli altri, ma di certo non gli era mai importato neanche un po’ di se steso. John gli faceva quell’effetto: lo faceva stare bene, e glie lo faceva addirittura piacere.
Immerso in tali pensieri, prima che potesse accorgersene, Sherlock aveva già percorso il breve corridoio e aveva attraversato la sala. Improvvisamente lo vide: gli dava la schiena quasi del tutto, poteva vedere il suo viso per tre quarti, ma John non lo aveva ancora visto arrivare. Non potette trattenere un sorriso: anche John stava affogando nell’agitazione. Certo, per ragioni diverse dalle sue. Gli fece tenerezza e, come accadeva ogni giorno da quando si erano conosciuti, se ne innamorò un po’ di più. Abbassò lo sguardo e sorrise sarcastico:
 
«Incredibile.»
 
Lo raggiunse alle spalle senza proferire parola, si avvicinò con passo disinvolto al posto di John, gli appoggiò la mano sulla spalla e la fece scivolare lungo il suo braccio fino ad arrivare a sfiorargli leggermente la mano, solo per un attimo: John ebbe un sussulto. Sherlock prese posto, sorridendo come un deficiente: John lo accolse con altrettanto sincero sorriso, condito con un pizzico di imbarazzo causato da quel gesto inaspettato. Come faceva sempre quando era nervoso, si leccò leggermente il labbro inferiore e, nel vederlo, la mente di Sherlock andò nuovamente in bianco: tutti i cattivi pensieri, che fino pochi secondi prima gli offuscavano la mente tormentandolo, svanirono.
John sedeva davanti a lui, era tutto suo quella sera. Ed era così terribilmente bello. Semplicemente perfetto, e tutto suo.
“Ci hai messo una vita.”
“Mi fai prediche ogni santo giorno, possiamo evitare per una volta che usciamo?”
Risero entrambi. Poi John lo fissò intensamente negli occhi:
“Ti chiedo scusa se tutto questo è... troppo.” Sherlock lo guardò stranito “Uscire a cena, dopo tutto questo tempo... Il ristorante di lusso, è tutto così formale. Non è stata la migliore delle scelte, me ne rendo conto solo ora. Non per te.” Sherlock scoppiò a ridere:
“Hahaha! Non ti preoccupare... Non è male: anche se lo faccio di rado, non mi dispiace andare a cena fuori.” si tirò indietro sullo schienale, con un braccio  indietro e l’altro appoggiato al tavolo dondolandosi leggermente sulle gambe posteriori della sedia “Di norma mi intratterrei deducendo i traumi infantili di qualche commensale o l’anamnesi di un cameriere piuttosto che un altro. Ma oggi, a differenza del solito, sono in buona compagnia.” gli sorrise. Era davvero felice di essere lì, con lui, così.
“Bene, mi fa piacere.” sorrise John compiaciuto. Si prese qualche secondo di pausa, ma Sherlock nemmeno se ne accorse, troppo intento a contemplare il suo blogger. Era deciso a dirglielo, era da troppo tempo che rimandava quel discorso. Lo avrebbe fatto: avrebbe rischiato il tutto per tutto, perchè ormai non aveva più senso continuare ad ignorare quello che la sua anima e il suo corpo desideravano così ardentemente. “Sherlock, comprenderai che questo per me non è solo un modo qualunque come tanti per trascorrere una serata...” Sherlock lo interruppe agitando la mano su e giù davanti al viso e tornando a sedere come una persona civilizzata:
“John, andiamo! Non abbiamo nemmeno ancora cenato e già ti cimenti in discorsi così impegnati...” Sherlock gli prese la mano appoggiata al tavolo, John credette di svenire “Non credermi così ingenuo. Ma, non adesso... Non qui. Dopo, ok?” il povero blogger intuì a grandissime linee il contenuto di quella frase, troppo impegnato ad evitare di sciogliersi e contemporaneamente morire d’infarto per ascoltare: il contatto con la sua mano.. Oh Dio quella mano, probabilmente quanto John amasse di più del suo coinquilino. Non era la prima volta che la toccava, si erano stretti la mano un paio di volte quando si erano conosciuti... Ma forse in tali occasioni portava i guanti di pelle, non riusciva a ricordare. Rise e annuì distogliendo lo sguardo da così divina apparizione che gli sedeva davanti.
Poco dopo, si rese conto che l’attenzione di Sherlock era stata catturata da qualcosa alle sue spalle: stava di certo analizzando una situazione, avrebbe riconosciuto quel suo sguardo attento senza indugio in qualunque circostanza, persino in quella. Si voltò, ma non notò nulla di particolare: personale e commensali svolgevano ognuno il proprio ruolo all’interno della sala così elegantemente adornata.
“Che succede?”
Sherlock si passava i polpastrelli di indice e medio uniti sulla bocca e osservava con attenzione:
 “Quel cameriere... Quello che sta servendo quella signora in abito blu scuro alle tue spalle...” John si voltò per guardarlo: lo vide, si trovava ad almeno cinque metri da loro e non notò nulla di particolare in lui. Sherlock non gli toglieva gli occhi di dosso, aveva assunto un’espressione seria e concentrata, fredda e professionale. Intanto il cameriere aveva terminato di servire la signora in blu e aveva preso  a camminare verso di loro. Li superò, ma Shelock non lo perse di vista nemmeno per un istante. Si diresse verso la cucina, quando ad un tratto infilò la mano nella tasca dei pantaloni.
Fu questione di una manciata di attimi: Sherlock si alzò dal tavolo, gettando la sua sedia a terra, e in un attimo fu addosso al cameriere. Gli tirò un gancio destro, colpo che avrebbe steso qualunque uomo della sua corporatura preso alla sprovvista, ma evidentemente era più forte di quanto sembrasse dato che contrattaccò sfoderando il coltello che portava nei pantaloni. Prese a tracciare archi nell’aria davanti a lui con l’arma, cercando di colpire il consultive detective che evitò le coltellate con rapidi scatti. Prima che John  potesse essergli addosso, con uno dei suoi attacchi, il cameriere riuscì a ferire Sherlock alla mano destra: questo lanciò un urlo tirandosi indietro per fuggire dal raggio di attacco del coltello. A quel punto John riuscì ad immobilizzare l’aggressore, disarmarlo e placcarlo a terra. Tenendolo fermo, preoccupatissimo, alzò lo sguardo per controllare le condizioni di Sherlock che si era gettato a sedere a terra qualche metro più in là: si teneva la ferita con l’altra mano e, con il volto contratto in una smorfia di dolore, disse:
“Sto bene John.” ansimando “Un sicario con l’incarico di assassinare il ministro Gallager che siede al tavolo alla tua sinistra con l’amante... Ovviamente-” si perse nel fiatone. La sua mano grondava di sangue, il taglio era evidentemente molto profondo.
Nel frattempo era giunta la sicurezza del locale dicendo qualcosa come “Ci pensiamo noi” e così John poté correre  in soccorso a Sherlock.
Nonappena Sherlock vide che John stava correndo a grandi falcate verso di lui fu colto dal panico:
“NO! NON TI AVVICINARE!” gridò, gli occhi sgranati. Si strinse quanto più possibile la mano ferita al petto, macchiando irrimediabilmente quella così bella camicia, chiudendo il più possibile il suo corpo come un bambino spinto in un angolo dal bullo più grosso e pericoloso.
John, incredulo, rimase pietrificato:
“Cos-?? Sherlock, sei ferito! Sono un medico, fammi dare un’occhiata...” fece un passo in avanti, Sherlock rabbrividì e si alzò di scatto:
“JOHN WATSON, NON OSARE MUOVERE UN ALTRO PASSO!” John non poteva credere alla scena che gli si presentava: Sherlock aveva gli occhi iniettati di sangue, sembrava davvero che, se avesse mosso un dito per aiutarlo, lo avrebbe ucciso. L’uomo che amava era stato ferito, lui era un dannatissimo dottore e non poteva aiutarlo?? “Come vuoi, cazzo, come vuoi. Non mi muovo, ma ti prego: siediti e premi forte su quel taglio con un tovagliolo pulito.” ne cercò uno su un tavolo alla sua destra e glie lo lanciò addosso “Se continui a sanguinare in quel modo, di questo passo sverrai da un momento all’altro.” In effetti ora che si era tranquillizzato, Sherlock iniziò a sentirsi terribilmente debole. Si sedette su una sedia e, come ordinato dal medico, prese a premersi sulla ferita con il tovagliolo. “Ma si può sapere cosa diamine ti prende??” ruggì John estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Compose l’111 infuriato, Sherlock gettò lo sguardo a terra in preda alla vergogna e al disgusto di se stesso. Non proferì risposta. “Un’ambulanza me la lasci chiamare, sì??”
Personale e commensali del ristorante avevano osservato la scena esterrefatti con le posate a mezz’aria.
Quando giunsero i paramedici, John fece per raccontare loro ciò che era accaduto, ma Sherlock lo fulminò con lo sguardo:
“Posso farcela benissimo da solo.”
John strinse i pugni, digrignò di denti, afferrò il cappotto, girò i tacchi e fuggì da quel ristorante.
 
 
Ci vollero ventiquattro ore prima che Sherlock si ripresentasse al 221b.
John sedeva sulla sua poltrona con il giornale aperto: Sherlock sapeva che lo aveva preso dal comodino pochi secondi prima, nonappena lo aveva sentito salire le scale, ma decise di cucirsi la bocca e non farglielo notare. Si levò il cappotto e con la mano sinistra lo appoggiò al tavolo: la destra portava una fasciatura ben stretta. Poi si sedette sulla sua poltrona. Guardò John: il giornale era palesemente un pretesto per nasconderlo alla sua vista e soprattutto per nascondergli la sua preoccupazione e la sua rabbia. Lo addolorava talmente tanto saperlo preoccupato e così incazzato con lui...
Ancora non si era aperto a John e il loro rapporto già risentiva della sua condizione; era davvero giusto coinvolgerlo? O era solamente l’ennesima conseguenza del suo nuovo egoismo? Di una cosa Sherlock era certo: era stato uno stronzo e John meritava una spiegazione.
“Dodici punti, una trasfusione e un bel po’ di antidolorifici gratis.” irruppe. John sorrise cinico:
“Oh, ora dovrebbe fregarmene?” gettando il giornale sul comodino: avevano appena cominciato la conversazione il tono della voce era già così alto?
 
«Ottimo...»
 
Sherlock sorrise guardando il pavimento:
“Direi che ‘serata rovinata’ sarebbe un eufemismo...”
“Un dannatissimo eufemismo, sì!”
“Perdonami.” John fu sorpreso da tali scuse, non se le aspettava, ma era troppo arrabbiato per capire quanto Sherlock fosse affranto.
“Non c’è nulla da perdonare: non ti fidi di me e, nonostante questo mi ferisca, non è di certo colpa tua.”
“Ora non dire cazzate...”
“CAZZATE?? E come cazzo dovrei interpretare il tuo comportamento ieri sera??”
“John, lascia che ti spieghi...”
“No, non voglio sentirti.” si alzò di scatto e prese il cappotto dal divano “Vado a farmi un giro.” uscì dalla porta d’ingresso. Sherlock gli corse dietro:
“JOHN! Ti prego!” John aveva già sceso i primi quattro scalini “Io sono sieropositivo, John.”
Quelle parole furono una stilettata al cuore del medico che rimase paralizzato a bocca aperta. Si voltò di scatto verso Sherlock che lo guardava triste dall’alto, appoggiato su un fianco alla porta d’ingresso del loro appartamento. Quelle parole risuonarono nella mente di entrambi come un eco cupo e spaventoso e nessuno dei due riusciva a pensare o proferire parola. Pertanto li divise un lungo silenzio.
 
Alla fine, John risalì le scale.

 

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Capitolo 2
*** Positive ***


Sherlock sedeva sul lettino dell’ospedale. Indossava la leggera vestaglia in dotazione;  il nero dei suoi ricci selvaggi contrastava drasticamente con il bianco e l’azzurrino di tutto ciò che lo circondava: la vestaglia, le lenzuola, le pareti, il mobilio. La sua carnagione invece ci si perdeva. Teneva lo sguardo basso, leggermente rivolto verso la sua sinistra, ovvero dalla parte opposta della stanza a quella in cui sedeva sua madre. Suo padre le stava accanto, inpiedi. Entrambi ormai erano ore che lo stavano rimproverando; Sherlock si mordeva il labbro e con i pugni saldi al materasso torturava le lenzuola. Fissava il vuoto mentre questi gli gridavano addosso, non perchè non avesse il coraggio di reggere il loro sguardo, ma perchè era davvero infastidito dalla loro presenza: ormai aveva trent’anni e ancora non erano sufficienti affinchè quelle persone smettessero di intromettersi nella sua vita?? Non riusciva a pensare ad altro.
La signora Holmes era sinceramente preoccupata, Sherlock non ne dubitava affatto:  le occhiaie incavate sotto agli occhi, il suo pallore, il leggero tremolio della mano destra. Tutto indicava che la donna fosse stata sottoposta a grave stress psicofisico nelle ultime settimane: aveva mangiato a malapena, dormito pochissimo e pianto fino all’esasperazione: ogni centimetro del suo corpo ne aveva risentito e lo gridava agli occhi attenti del figlio. Ma questo non l’avrebbe resa meno noiosa. Suo padre invece era più deluso che preoccupato, anche se era certo che anche lui avesse smosso mari e monti per ritrovarlo.
 

Mycroft era solito chiamarlo ogni venerdì sera. Si trattava di una telefonata estremamente breve in cui questo gli chiedeva se stava bene, Sherlock rispondeva di sì, Mycroft gli augurava buonanotte e lui lo mandava a quel paese:  suo fratello lo faceva perchè era sinceramente preoccupato per lui: tale telefonata gli confermava che il suo fratellino stava bene e che si trovava a casa sua. Sherlock lo sapeva e, anche se rispondeva sempre seccato e lo insultava, stava sempre attento ad essere a casa per quell’ora del venerdì per poter rispondere e rassicurare suo fratello.
Tre settimane prima, per la prima volta, Sherlock non rispose al telefono. Mycroft ne fu terrorizzato. Ricompose il numero: ancora nessuna riposta. Chiamò altre quattro volte quella notte: ancora nulla. Nonostante ormai fosse l’alba, si precipitò in strada e prese l’auto diretto all’appartamento di suo fratello: bussò, suonò il campanello fino a romperlo, ma nessuno rispose. Allora avvertì la polizia e denunciò la scomparsa di Sherlock. Le autorità competenti irruppero nell’appartamento: nessun segno di effrazione o rapimento; conclusero che Sherlock avesse lasciato l’abitazione di sua spontanea volontà. Fu subito chiesto a Mycroft se avesse qualche idea di dove potesse trovarsi  suo fratello.
“A iniettarsi eroina in qualche tugurio di questo Paese, nel migliore dei casi.” rispose.
Furono necessarie tre settimane per trovarlo. Mycroft, grazie alla propria posizione all’interno del governo inglese, ottenne il permesso di seguire in prima persona le indagini della polizia, assicurando alle autorità conoscenze approfondite sul ricercato, ma anche la sua intelligenza e il suo intuito. Ma le capacità di Mycroft furono messe a dura prova: Sherlock era dannatamente bravo a non farsi trovare. Non voleva essere trovato.
Lo scovarono, appunto, tre settimane dopo in uno dei più malfamati quartieri di Manchester: malnutrito, più pallido del solito, sporco, vestito di stracci, la barba incolta e le braccia logore dalle punture.
 

“Ma ti rendi conto di quello che hai fatto passare a tua madre?? A tuo fratello, a me?! Non ti sei chiesto cosa sarebbe stato per noi? Abbiamo temuto il peggio per settimane...” suo padre ora aveva preso a camminare avanti e indietro per la stanza mentre gridava: grandioso, ora Sherlock doveva persino muovere la testa man mano che si spostava per continuare ad evitare di guardarlo.
“Non mi è successo niente.” masticò rabbioso
“Oh ti prego Sherlock! Con i luoghi che frequentavi, quella gente... Avresti potuto beccarti una coltellata ad ogni angolo!”
“Magari papà.” Mycroft irruppe nella stanza con una cartella in mano “Magari.”
Sherlock pensò a uno sfogo di rabbia: magari ti fossi preso una coltellata, magari avresti imparato la lezione. Magari ti avremmo trovato in un ospedale.
No. Mycroft non intendeva nulla del genere. Si avvicinò a lui e con tutta la rabbia che aveva in corpo gli scaraventò addosso la cartellina: i fogli che conteneva si sparsero sul letto e a terra. Sherlock li guardò: su uno di essi erano riportati i risultati degli esami del sangue che gli erano stati fatti quella notte.
Allora capì. Magari ti fossi preso una coltellata: esiste la possibilità di sopravvivere a una coltellata.
L’HIV è per sempre. “Positivo” riportava scritto.
Sua madre lo raccolse, lo lesse e si portò la mano alla bocca lasciandolo cadere. Con sguardo terrorizzato pianse come mai in vita sua. Suo marito la abbracciò, Mycroft lasciò la stanza.
Sherlock, come sempre, decise di affidarsi alla logica: avrebbe pagato le conseguenze di ciò che aveva fatto. Era sempre stato una persona estremamente razionale: aveva commesso una sciocchezza, anzi, molte. Pretendere che le sue cazzate non avessero ripercussioni sarebbe stato da stupidi. E Sherlock non era stupido, solo annoiato. Ogni azione comporta una conseguenza: fare uso di eroina in tuguri dimenticati da Dio con la feccia dell’umanità di conseguenze possibili poteva averne tante, l’HIV era una di queste e ora ci avrebbe fatto i conti.
 
La diagnosi non fu mai un problema troppo grave per Sherlock.
Non si era mai aspettato una vita lunga e sana: nonostante la sua straordinaria memoria editetica, non riusciva a contare quante volte nella sua vita qualcuno gli avesse detto che prima o poi si sarebbe fatto ficcare una pallottola in testa; col tempo si era semplicemente abituato all’idea. Arrivare alla vecchiaia non era cosa che gli interessasse: era già stato tutto così terribilmente noioso in quei trent’anni, di certo non sarebbe migliorato nulla nei prossimi sessanta o più.
Con grande sorpresa dei suoi conoscenti, ciò che più premette da allora a Sherlock fu di non infettare nessuno: nessun altro avrebbe pagato il prezzo dei suoi errori. Il sesso non era mai stato una priorità per lui, ne avrebbe fatto a meno senza problemi. Data la sensibilità della sua pelle al freddo dell’inverno inglese, cominciò ad usare sempre spessi guanti neri, per evitare che la pelle si screpolasse e quindi di contagiare qualcuno tramite banali strette di mano a causa di micro-lesioni o graffi. Ovviamente si mantenne sempre a debita distanza dagli oggetti taglienti.
Decise di dedicarsi completamente al suo lavoro e di intrattenere meno relazioni possibili, vivendo ogni giorno al massimo, aspettando il giorno in cui l’AIDS sarebbe sopraggiunta. Accettò la riabilitazione, affrontò le crisi di astinenza, partecipò agli incontri dei tossici anonimi: tutto sommato, sentiva di doverlo ai suoi genitori e a Mycroft.
E, finalmente, dopo anni, tornò il giorno in cui fu libero di tornare a vivere per conto suo. Certo, a dure condizioni: prima di tutto avrebbe accettato che Mycroft continuasse a vegliare su di lui senza opporre resistenza, avrebbe continuato a presentarsi dal proprio medico regolarmente per controllare che il virus non si fosse destato, avrebbe preso i suoi farmaci con costanza e mantenuto uno stile di vita sano. Avrebbe quindi preso casa se e solo se con un coinquilino. Qualcuno che gli tenesse compagnia e che si assicurasse che Sherlock stesse lontano dagli stupefacenti, una persona affidabile sulla quale Mycroft avrebbe potuto fare affidamento. Un’ancora che lo tenesse vincolato alla realtà: qualcuno con cui parlare e sfogarsi, anche se a suon di insulti. Questa clausola irritava molto Sherlock, ma, quantomeno, avrebbe potuto proporre lui stesso i candidati; Mycroft ne avrebbe poi approvato uno.
Passarono le settimane e Sherlock non riusciva a trovare nessun candidato da sottoporre a suo fratello. Non aveva mai avuto un coinquilino al di fuori della sua famiglia e poche settimane infernali al college prima che riuscisse a ricattare il direttore della facoltà, minacciandolo di rivelare la sua piccola perversione, ed ad ottenere quindi una stanza tutta per sé anche là. La verità era che sapeva di essere un terribile compagno, era consapevole dei propri difetti: chi mai lo avrebbe accettato come coinquilino? Inoltre, nella sua così ridotta cerchia di amici, nessuno rispondeva al profilo indicato da Mycroft, oppure avevano famiglia e non sarebbero stati comunque disposti a trasferirsi con lui. Doveva incontrare qualcuno. Ormai non ne poteva più di convivere con suo fratello, ma non sarebbe sceso a patti con se stesso: Sherlock non aveva altro che la sua solitudine e il suo lavoro; colui che avrebbe condiviso anche solo una di queste parti fondamentali non poteva essere uno qualunque. Nessuno sembrava idoneo a ricoprire la carica.
 
La diagnosi non fu mai un problema troppo grave per Sherlock, mai.
Poi, un giorno, John Hamish Watson entrò a far parte della sua vita.

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Capitolo 3
*** Tiepido Tramonto ***


 
Era stata una splendida giornata.
Nel tardo pomeriggio, il sole ancora faceva sentire la sua presenza e la sua luce, ormai arancione, filtrava dalle tende impolverate della sala principale del 221B. Seduto sulla sua poltrona, appoggiato al bracciolo destro di questa, Sherlock ostacolava il passaggio di così tiepida luce, proiettando un’ombra leggera davanti a lui. John, che, come sempre, gli sedeva davanti sulla propria, guardava quell’aura illuminata di arancione che lo circondava, nella quale si riflettevano e danzavano le particelle di polvere.
Erano trascorsi diversi minuti da quando John aveva risalito le scale e aveva oltrepassato Sherlock, il quale aveva poi chiuso l’uscio dietro di lui. Il medico si era subito diretto alla sua poltrona dove si era seduto per tentare di gestire lo shock. Sherlock non lo aveva seguito immediatamente: rimase ancora qualche secondo con la maniglia della porta stretta nella mano, dritto e fermo con il viso contro il legno dipinto di verde.  Cercò dentro di lui la forza per voltarsi ed affrontare John e, una volta per tutte, raccontargli quella verità. Fu difficile, ci vollero diverse smorfie e sospiri, ma poi riuscì a dirigersi al suo posto. Si sedette ed aspettò. Non si accorsero del passare del tempo, ognuno perso nei suoi pensieri, nelle proprie paure. Entrambi si resero conto ad un certo punto che ambedue stavano aspettando che l’altro prendesse l’iniziativa e cominciasse a parlare.
Fu Sherlock a cominciare, poichè, tra i due, era il meno sconvolto.
All’udire il suono della sua voce, John sentì un brivido scorrergli lungo la schiena: lo aveva riportato alla realtà dopo quei momenti di idillio. Quella realtà in cui l’uomo che amava era affetto dalla peggiore tra le piaghe dell’occidente del ventesimo secolo, e lui ne era appena venuto a conoscenza.

Il consultive detective cominciò il suoi racconto: John era già a conoscenza dell’eroina e delle dipendenze che avevano caratterizzato la sua adolescenza e prima età adulta, perciò decise di cominciare da lì. Gli parlò di quando era fuggito, convinto di non tornare, tormentato da quella noia che opprimeva ogni istante delle sue giornate, e, di sobborgo in sobborgo, si era trivellato le braccia con talmente tante siringhe prese da chissà che loschi individui chissà dove. Gli parlò del fatto che era perfettamente consapevole dei pericoli che correva, ma che non gli importava affatto, perchè vivere lo annoiava. Raccontò di essere stato trovato in fin di vita da uno dei tanti investigatori privati ingaggiati da Mycroft. E poi l’amara diagnosi in ospedale, associata al ricordo del pianto di sua madre, il dolore negli occhi di suo padre e la delusione di Mycroft. John ascoltava afflitto e frastornato quella storia che, non poteva fare a meno di notarlo, veniva raccontata incatenando un ricordo dopo l’altro: Sherlock stava riordinando gli eventi lungo un filo quanto più logico solo per lui, in quel momento.

“E’ la prima volta che racconti questa storia?” lo interruppe John con tono sconvolto. Sherlock, sorpreso dalla deduzione, esitò qualche istante prima di rispondere:

“Esclusa la mia famiglia e le persone della riabilitazione, tu sei il primo a sapere della mia condizione.” rispose serio, poi sorrise “D’altronde, era ormai palese che tu sei per me la più grande delle eccezioni...”  Improvvisamente John rivide in quegli occhi verdi la scintilla che avevano l’altra sera, al ristorante, e arrossì. Sherlock tornò serio e proseguì: “Voglio che tu sappia... Che ho infranto ogni mia regola a causa tua.” guardava verso il caminetto “Ho sempre pensato e vissuto secondo logica: ogni azione comporta una conseguenza. E io avrei affrontato le conseguenze del mio comportamento autodistruttivo, io ed io soltanto.  Non che prima fossi un ragazzo molto popolare, ma, da quando so di aver contratto il virus, mi sono imposto regole ferree che ho seguito per anni: nessun contatto non necessario, nessun legame affettivo. Mi sarei semplicemente concentrato su ciò che davvero mi importava: il mio lavoro. Cominciai inoltre ad indossare i guanti sempre più spesso... Non avrei mai infettato nessuno.”
John era sorpreso dalle parole di Sherlock, ma capiva perfettamente. Sherlock sorrise amaramente “Eppure ho accettato il tuo invito... Ed ero così felice di averlo fatto... Non mi importava che fosse contro ciò in cui credevo.” il suo sguardo si rattristò: “L’altra sera...” John ebbe un sussulto “E’ stata la prima volta che mi sono ritrovato... in quelle condizioni.” strinse le dita nei braccioli della poltrona nera, non riusciva a guardare John, e continuava a fissare il caminetto “Ero vulnerabile, ferito e debole... Ricoperto del mio sangue infetto.” ruggì “Dio, per poco non ti ci tuffavi dentro...” chiuse gli occhi e accasciò il viso nella mano destra strofinandoselo con forza, il gomito appoggiato al ginocchio “Sono andato nel panico.” abbassò la testa e la prese con entrambe le mani, affondando le dita bianche e affusolate tra i ricci corvini. John non riuscì a contenersi, impietosito dal dolore che Sherlock provava: si alzò e camminò verso di lui senza proferire parola. Abbassandosi, gli prese la testa tra le braccia, facendolo scivolare giù dalla poltrona nera per appoggiarsi sulle ginocchia e abbracciarlo. Sherlock affondò il volto nella spalla di John e lo abbracciò a sua volta più forte che poteva, più forte di quanto avesse mai fatto. Rimasero così a lungo, in silenzio, illuminati dal tramonto su Baker St.
“Perdonami.” disse ad un tratto Sherlock “Perdonami se ho reagito così. Tu mi hai salvato in così tanti modi... Non meritavi una cosa del genere... Ti prego, non dire mai più che non mi fido di te.” John lo tirò delicatamente indietro per guardarlo in viso “Tu hai la mia vita tra le mani, John-” prima che potesse terminare la frase, John lo baciò delicatamente sulle labbra socchiuse. Nessuno dei due ne fu sorpreso: nulla di più naturale in quel gesto così spontaneo. Un unico, tenero bacio. Tiepido istante che cambiò la vita di entrambi.

Si separarono con un leggero schiocco delle labbra.
Sorrisero. Sherlock appoggiò la propria fronte a quella del blogger, entrambi chiusero gli occhi e John ruppe quel silenzio che manteneva da troppo tempo:
“Affronteremo quello che verrà, insieme.” gli schioccò un bacio sulla fronte e appoggiò il mento sulla sua testa, mentre Sherlock cercò col viso ancora il caldo maglione di John “Saremo io e te, contro il resto del mondo.”
 


[Ciao a tutti! ^^ In primis, vi ringrazio di cuore per aver seguito i primi 3 capitoli di Positive: in questo momento è molto importante per me condividere le mie storie e mi riempie il cuore sapere che vi interessano e vi piacciono. Volevo inoltre dirvi che recentemente mi sono imbattuta in un’altra ff inglese che si chiama anch’essa “Positive” e tratta di Sherlock sieropositivo: non ne avevo idea, non avevo nessuna intenzione di plagiare il titolo, mi era semplicemente sembrata un’ottima idea.. Quindi boh, spero che nessuno si offenda :/ Per quanto riguarda i prossimi capitoli ci vorrà un po’ di più di tempo rispetto ai primi 3, molto semplicemente perchè questi qua erano pronti da più di un mese, gli altri sono solo nella mia testa ^^” Abbiate pazienza, e, magari intanto leggete qualcun’altra delle mie ff ;) E fatemi sapere cosa ne pensate! La vostra opinione è per me preziosa, negativa o positiva che sia <3 Un saluto, _SalvamiDaiMostri]

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Capitolo 4
*** Breve paradiso ***


Sherlock era certo di non essersi mai sentito così felice in vita sua.
In ginocchio sul tappeto, abbracciato a John, il detective si sentiva finalmente al sicuro e protetto; dentro sè, Sherlock rideva di quei pensieri infantili e sciocchi, eppure non poteva fare a meno di credere fermamente di non aver bisogno di nient’altro che Lui, lì, così.
John lo lasciò andare:
“Faccio un té, lo vuoi?” chiese alzandosi. Sherlock si mise a sedere contro la sua poltrona, asciugandosi le lacrime con il polso destro, senza smettere di sorridere. Sentiva di non aver più bisogno di nulla a parte John, ma un té lo prendeva volentieri: annuì.
Il medico si diresse verso la cucina, prese il bollitore e lo mise nel lavandino per riempirlo d’acqua. Improvvisamente, ora che era uscito dal campo visivo di Sherlock, gli mancò l’aria: fu colto dal panico per un singolo istante:
 
«Oh Sherlock... »
 
Si sostenne con le braccia sul lavello col rubinetto aperto. Strinse i pugni e tirò un muto respiro profondo per calmarsi, pregando che Sherlock non si fosse accorto di nulla:
 
«No.»
 
Non si sarebbe concesso di avere paura. Sherlock aveva bisogno che lui fosse forte e di supporto, non che gridasse. John non si sentiva all’altezza di tale compito: il solo pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere a Sherlock gli faceva cedere le ginocchia, ma certo non lo avrebbe deluso, non adesso almeno.
Ormai il bollitore strabordava. John sospirò ancora e fece appello a tutta la sua compostezza di soldato. Chiuse il rubinetto e preparò il té: quel gesto quotidiano lo aiutò a tornare quantomeno apparentemente in sé. Quando le tazze furono colme di Earl Gray fumante, John tornò in sala, si sedette a terra accanto a Sherlock e gli porse la tazza che gli spettava.
John lo osservò soffiare sulla bevanda bollente e dissetarsene.
 
«Perchè. Perchè...»
 
“Risparmiami quello sguardo patetico.” borbottò con gli occhi bassi sull’infusione. John gettò lo sguardo a terra, affranto. Sherlock comprendeva le difficoltà con le quali John si stava confrontando, non era sua intenzione essere scortese, ma sentiva di dover mettere le cose in chiaro subito, ora che la ferita era appena stata inferta. Sospirò: “Ascolta, sto bene ok? Ora sto bene. Non manifesto nessun sintomo... I medici sono piuttosto ottimisti..” John annuì.
“A proposito..” gli domandò “Posso fare il medico solo per un attimo?”
“Immagino di non poterlo evitare.” fece spallucce tornando a sorseggiare il suo té
“Come va la conta dei CD4?”
“Sotto controllo. Mycroft si assicura che io vada a fare gli esami più o meno ogni tre mesi... E da anni i miei valori sono stabili: il mio corpo sta reagendo bene ai farmaci. L’importante per ora è assicurarsi che il virus non diventi immune agli antivirali che assumo, faccio i controlli principalmente per quello.”
“Cosa stai prendendo adesso? Con che dosaggio? Chi è il virologo che si occupa del tuo caso?” Sherlock sorrise:
“Vuoi vedere l’intero fascicolo?”
“Se non hai nulla in contrario...” Sherlock si alzò e gli fece strada verso la sua camera da letto e gli fece segno di sedersi sul letto, poi si diresse verso la cassettiera dalla parte opposta della stanza e prese a frugarci dentro. Da un cassetto estrasse il file e, sedendosi accanto a lui, lo porse a John. Nel vederlo, il medico sentì crescere una forte angoscia: Sherlock in quel cassetto teneva rinchiuso il suo grande segreto, lo aveva fatto per tutto quel tempo in cui avevano vissuto insieme e lui non aveva mai sospettato di nulla. In quanto medico, in quanto amico avrebbe dovuto capire quantomeno che qualcosa non andava e si sentiva terribilmente in colpa per questo. Che idiota che era stato. John aprì la cartella e si immerse nella lettura, Sherlock si distese accanto a lui con la testa sul cuscino.
I valori, i grafici e i nomi impronunciabili dei vari farmaci si susseguivano nelle varie tabelle e schede contrassegnate ogni tanto dalla firma di un medico piuttosto che un altro. John leggeva attento, facendo scorrere l’indice destro di riga in riga alla ricerca delle informazioni che riteneva più utili per costruirsi un quadro della situazione. Estrasse poi dalla cartella i fogli più recenti e cercò l’ultima conta dei CD4.
“423...” sospirò “Ok.. Non sono un virologo, ma direi che va alla grande...” sollevava i fogli, li confrontava “Vedo che i risultati sono sempre piuttosto simili, il farmaco evidentemente fa effetto. Non c’è ragione di credere che i CD4 debbano scendere sotto ai 200-” si bloccò: improvvisamente ricordava quel capitolo del manuale dell’università. Non osò dirlo ad alta voce.
«200.. che significherebbe AIDS... Cazzo, Sherlock. Però stai andando bene. Starai bene.»
Si voltò e vide che Sherlock si era addormentato accanto a lui, evidentemente gli antidolorifici lo avevano sopraffatto. Sul viso di John si disegnò un  sorriso amaro: accarezzò quei riccioli scuri e prese una coperta piegata ai piedi del letto per poi coprirvi Sherlock. Solo allora, guardando fuori dalla finestra, si rese conto che fuori era già buio da un pezzo: spense la luce principale della stanza e accese l’abatjour per continuare ad esaminare il fascicolo con calma.
 
 
La suoneria  del cellulare di John li svegliò entrambi.
Sherlock fu terribilmente infastidito da quel suono ripetitivo del quale non si spiegava la provenienza. Aprì gli occhi e, separandosi a poco a poco dal mondo dei sogni, riconobbe il viso di John contorto in uno sbadiglio che, disteso accanto a lui, si stava svegliando.
“Oh perdonami...” disse estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e tentando goffamente di disattivare l’allarme “Mi sono addormentato qua e mi sono completamente dimenticato della sveglia...”
“Hai... dormito qui...” constatò Sherlock mettendosi a sedere stordito. John si alzò e prese a sbottonarsi la camicia.
“Sì, ti dispiace...?”
“No.. No, figurati...” disse strofinandosi gli occhi “Ma che diamine di ore sono??” borbottò corrucciato. Nel vederlo così spettinato, imbronciato tra le lenzuola bianche, John non poteva fare a meno di paragonarlo a un bambino delle elementari che non vuole alzarsi per andare a scuola.
“Le sei e mezza, scusa.” disse sorridendo “Il turno in ambulatorio comincia alle 8, devo farmi una doccia...” e scappò verso il bagno dicendo ad alta voce “Torna a dormire”.
Sherlock sentì la doccia aprirsi e ascoltò lo scosciare dell’acqua: in un attimo gli tornò in mente tutto ciò che era accaduto il giorno prima che, nello stordimento del risveglio, per qualche momento gli era sembrato frutto di un bel sogno. Un sogno in cui non avrebbe più dovuto mentire a John, un sogno in cui John finalmente sapeva tutto ciò che doveva sapere, in cui John lo aveva baciato e si erano abbracciati sul tappeto. Un sogno che aveva fatto molte volte. Ma questa volta, in qualche illogico e piacevolmente incomprensibile modo, sentiva che era accaduto veramente. Si strinse alle ginocchia e sorrise. Tornò a coricarsi.
 
 
John tornò a casa verso le cinque di pomeriggio.
Sherlock, in tuta e vestaglia blu, stava suonando il violino rivolto verso la finestra con gli occhi socchiusi, godendosi la luce di una seconda giornata di sole che stava giungendo al termine. Quando lo sentì dire “Sono a casa.” si voltò e lo ricevette con un lungo cenno del capo e un sorriso, senza dire una parola: di certo non avrebbe interrotto la melodia che stava eseguendo, per il piacere di entrambi e della signora Hudson che teneva le porte aperte e tendeva l’orecchio quando Sherlock suonava la sera. John sorrise: infondo tra loro sarebbe cambiato ben poco, anche dopo eventi come quelli del giorno prima. Andò di sopra per sistemare le sue cose e mettersi più comodo, così come era solito fare. Mentre stava indossando un maglione, Sherlock terminò di suonare. John, una volta vestito, scese le scale.
Non appena fu a portata di udito, Sherlock disse secco:
“Martedì prossimo alle 15 e 30.” John, scendendo piano, lo guardò perplesso:
“Cosa?”
“Il mio prossimo appuntamento. Vorresti accompagnarmi?” John, per un attimo, arrestò la sua discesa.
“Ah.. Certo, mi farebbe molto piacere.” riprese a scendere e si avvicinò a lui “Vedrò di chiedere a Sara di organizzare i miei appuntamenti in ambulatorio di conseguenza.”
“Sei sicuro? Cioè, è piuttosto noioso e, davvero, non sei costretto...” John si avvicinò a lui che ancora teneva il violino nella mano sinistra e l’archetto nella destra bendata. Lo guardò negli occhi e gli sorrise:
“Certo che sono sicuro.” lo baciò. Sherlock questa volta schiuse le labbra per accogliere il bacio di John e chiuse gli occhi per assaporare quel breve momento di paradiso. “Abbiamo detto insieme: non mancherò.” gli sussurrò John sulle labbra. Sorrisero.
 
“OH. MIO. DIO.” gridò Lestrade dall’entrata dell’appartamento che aveva la porta spalancata. John scoppiò a ridere gettandosi di lato tenendosi la bocca e la pancia per non esagerare con le risate, Sherlock stette impalato e piuttosto infastidito. Lestrade, sconvolto, rimase a bocca aperta immobile per qualche secondo prima di estrarre il cellulare dalla tasca e puntarlo verso di loro dicendo “Oh vi prego, vi prego! Rifatelo o in centrale non mi crederà nessuno!!” John ancora non aveva finito di ridere “Dai ragazzi, ci sono scommesse in ballo da mesi! Devo ritirare i miei soldi, ma senza prove nessuno sgancerà la sua parte!”
“CHE???” gridarono entrambi lanciandogli un’occhiataccia
“Eddai, stavo scherzando...” ritirò il telefono sorridendo
“Perchè sei qui, Lestrade?” sospirò Sherlock ritirando il violino nella sua custodia.
“Eh? Ah! Emm.. Ah, sì! Presunto omicidio nel West End... Un uomo è stato ritrovato impiccato a un lampione della luce, privo di indici e anulari. Pensavo che avreste voluto dare un’occhiata...”
Sherlock guardò John con gli occhi brillanti di eccitazione: evidentemente Lestrade aveva stuzzicato la sua curiosità con un caso interessante e John, davanti a quello sguardo, in un attimo scordò di aver trascorso un’estenuante giornata di lavoro e di essersi appena cambiato, per compiacere quegli occhi verdi bramosi di scene del crimine assurde e omicidi inspiegabili. Come avrebbe potuto negargli quella soddisfazione? Senza dire una parola, John risalì le scale per rivestirsi. Come sempre. Sherlock, fingendo menefreghismo, dichiarò:
“Accettiamo il caso.” e filò dritto in camera sua per rendersi presentabile quanto prima.
Non appena entrambi furono lontani, Greg tuffò la mano in tasca e scrisse a Mycroft:
“Non indovinerai mai cos’ho appena visto...”
 

Quella notte tornarono piuttosto tardi.
Sherlock durante il viaggio di ritorno in taxi sfoggiava uno sguardo compiaciuto, anche se estremamente composto come era solito fare. Era stato brillante, come sempre: gli erano stati sufficienti pochi minuti sulla scena del crimine per tracciare il profilo del killer e determinare l’ordine degli eventi che erano culminati in quel barbaro omicidio. Aveva quindi persuaso Lestrade a dare retta alla sua inverosimile teoria (aveva forse altra scelta?) e a mandare l’arresto dell’uomo che corrispondeva al profilo da lui indicato. Ovviamente Sherlock e John lo trovarono prima di Scotland Yard, furono costretti ad inseguiro, ma alla fine riuscirono ad acciuffarlo e consegnarlo alle autorità. Sherlock ottenne una confessione entro l’una di notte.
Giunti al 221b, Sherlock filò in camera sua mentre John si trascinò verso il bagno, stravolto dall’intensa giornata (e sulla schiena sentiva anche il peso delle ore di sonno perse a leggere il fascicolo di Sherlock la notte prima), per lavarsi i denti andare poi finalmente a dormire.
Dopo aver sputato la schiuma di dentifricio nel lavandino, alzò la testa e improvvisamente vide qualcosa di nuovo appoggiato alla mensola dello specchio: i barattoli dei medicinali di Sherlock. Doveva averli sistemati lì durante la giornata. Evidentemente non c’era più ragione di nasconderli... Non a lui. John ne prese uno e ne lesse l’etichetta: Dio sa dove li avesse tenuti per tutto quel tempo. John realizzò che per tutta la sera si era scordato della condizione di Sherlock, coinvolto com’era nelle indagini. La stanchezza cedette quindi il posto alla tristezza e alla paura.
Riappoggiò il barattolo di plastica sulla mensola e uscì dal bagno per dirigersi verso camera sua.
Sherlock sbucò dalla propria stanza al fondo del corridoio:
“Vai a dormire?” disse sbottonandosi la camicia
“Sì Sherlock, buonanotte...” rispose stanco, senza voltarsi
“Di sopra?” chiese con nonchalance. John si voltò:
“...No?” domandò stranito alzando un sopracciglio. Sherlock rientrò in camera continuando a sbottonarsi la camicia:
“Nah...” rispose storcendo la bocca in un sorriso a mezza bocca.
John rise scuotendo la testa e ripercorse il corridoio chiudendo poi dietro di sè la porta della camera da letto.
 
  
[Ok, la storia comincia a prendere forma! Fino ad ora si è comunque respirato un clima piuttosto sereno e spero di avervi lasciati con un sorriso sul finale: dal prossimo capitolo in avanti , l’angst si farà sentire decisamente di più u.u Mi dispiace terribilmente non aver reso i primi 3 capitoli un unico capitolo, avrei dovuto farlo -.-“ Così risulta decisamente troppo “separato”. Magari in una seconda edizione rimedierò... Comunque, vi ringrazio infinitamente per aver letto fino a qui, spero con tutta l’anima che vi sia piaciuto amche questo capitolo e vi prego di recensirmi: positiva o negativa che sia, la vostra opinione è di fondamentale importanza per me! ;) Grazie ancora. Un saluto,
_SalvamiDaiMostri]

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Capitolo 5
*** La Tietjens ***


Come ad ondate di lucidità che arrivano dolcemente una dopo l’altra, a distanza di lunghi e stanchi battiti di ciglia, Sherlock si svegliò lentamente.
Sùbito avvertì il contatto della propria pelle contro quella di John che dormiva tra le sue braccia: sentì il lieve solletico del suo respiro sul proprio petto, il profumo dei suoi capelli... Poi la freschezza delle lenzuola pulite che li avvolgevano. Sherlock si strinse John a sé arrampicando le mani sulla sua schiena; in quel gesto, sfiorò la vecchia cicatrice sulla spalla sinistra: la accarezzò con i polpastrelli disegnandone i rilievi. Amava quella cicatrice: senza di essa non avrebbe mai incontrato il suo John. Respirò profondamente il suo odore nel tentativo di assumere quanto più potesse di quel momento: non solo i profumi, ma anche i colori, la luce, i suoni e le consistenze in modo tale che la sua mente potesse conservarli e farne tesoro. Non come un dato o un’informazione qualsiasi da catalogare in un angolo del suo affollato mindpalace, no... In modo del tutto illogico e assurdo, Sherlock voleva che quel momento diventasse parte della sua persona, così da poter godere di esso per il resto della sua vita, dipendere da esso e, chissà, essere migliore grazie all’influenza che quel momento avrà su di lui, sentirsi meglio... Sherlock aveva ormai realizzato che in quei momenti di paradiso il suo flusso di pensieri culminava sempre in un’idea rindondante: insieme a John, lui era una persona migliore. Migliore di quanto fosse mai stato. Come se, ora che era suo, l’universo fosse in pace con lui, come se avesse trovato il suo vero scopo all’interno di uno Schema che ovviamente non esiste, eppure così sentiva.

Sherlock spostò lo sguardo pigramente verso la sveglia: segnava le otto e un quarto. Una smorfia di fastidio si disegnò sul suo volto: avrebbe voluto stare ad abbracciare e respirare John per il resto delle loro vite, lì in quel letto, come una cosa sola. Ma, come sempre, l’idillio del risveglio è terribilmente breve: la mattina e i doveri che essa comporta chiamavano a gran voce disturbando i sciocchi pensieri del detective.
“John...” lo chiamò piano. Il medico si mosse in una smorfia scocciata “Dobbiamo alzarci...” John, ancora più infastidito, si girò dalla parte opposta e si sistemò con la testa sul cuscino sbuffando. Sherlock sorrise, si mise a sedere e gli accarezzò la testa.
“La sveglia non ha suonato...” borbottò John e girò la faccia contro il cuscino. Sherlock ora gli passava le dita sulla schiena per risvegliare i suoi sensi con delicatezza.
“Non l’abbiamo messa, sono le otto e un quarto...”
“Allora è il mio giorno libero.” farfugliò nel cuscino “Dormi.” allungò il braccio e gli tirò qualche pacca sulla coscia. Sherlock lo sovrastò a braccia tese:
“Lo so, ma abbiamo l’appuntamento tra un paio d’ore...” John in un unico movimento si voltò facendo sobbalzare leggermente il materasso e si strofinò gli occhi con i palmi.
“Ah già...” si stiracchiò allungando le braccia verso l’alto, scavalcando le spalle di Sherlock con un sorriso stanco. Sherlock gli stampò un bacio sulla fronte e si alzò.
“Preparo colazione, tu svegliati.” e, dopo essersi messo un paio di boxer, una maglietta e la vestaglia che aveva trovato sulla sedia di fronte al letto, si avviò verso la cucina.
 
Quando John si presentò al tavolo, Sherlock aveva fatto il caffé e messo a tavola latte e biscotti. Entrambi in vestaglia, si sedettero uno davanti all’altro e mangiarono, insieme: lo facevano solo una volta a settimana, quando John aveva il suo giorno libero e non dovevano preoccuparsi di andare a dormire presto perchè poi John potesse svegliarsi puntuale. Il martedì sera e tutto il mercoledì erano diventati il loro weeckend e lo trascorrevano insieme, in tranquillità, cominciando dalla colazione in vestaglia. Inoltre, ogni tre mesi, in quel giorno andavano all’appuntamento con la dottoressa Tietjens.
 
Mycroft ovviamente non aveva badato a spese né sforzi per trovarla e reclutarla; era il meglio che tutto il Paese potesse offrire nel campo della virologia: donna estremamente preparata, competente e professionale, una persona straordinariamente intelligente e, tra le altre cose, anche molto simpatica. Era ormai la terza volta che John accompagnava Sherlock all’appuntamento e, sin da subito, la Tietjens era stata molto gentile con lui: con la dovuta discrezione e professionalità si era preoccupata di chiedere il grado di intimità che c’era tra i due ed espose le dovute avvertenze che la prassi impone ad una coppia in cui uno dei partner è sieropositivo. Una volta appreso inseguito che John era anch’egli medico, cominciò a trattarlo come suo pari e a parlare con lui quella lingua che solo i medici conosco, condividendo con lui tecnicismi e lessico specifico che mettevano John a suo agio: la dottoressa gli presentava una panoramica precisa e dettagliata di una situazione che in questo modo diventava familiare, concreta, comprensibilie e quindi gestibile, almeno per lui. Col tempo, fu concesso a John di consultare i risultati delle analisi o discutere la scelta di un farmaco piuttosto che qualunque altra cosa, e gli fu inoltre affidato il tacito compito di vegliare sulla salute di Sherlock nel privato della loro casa.
 

Quando la segretaria li fece entrare nello studio, la dottoressa, seduta alla sua scrivania, si alzò sorridendo per stringere loro la mano.
“Allora signor Holmes, come si sente ultimamente?” chiese sedendosi. A loro voltra si sedettero anche i due uomini su due sedie dal lato opposto alla scrivania, così com’erano soliti fare.
“Bene direi, come sempre.” rispose Sherlock. La dotrtoressa sorrise.
“Si è per caso mostrato qualche sintomo? Perdita di peso, del sonno, affaticamento, sudorazione eccessiva...?” i due si guardarono interrogativi:
“No, affatto...” rispose John perplesso
“Bene.” per un attimo abbassò lo sguardo: Sherlock non potette fare a meno di notare quella falla nella professionalità della Tietjens che, per un singolo instante, aveva mostrato amarezza nei suoi confronti e si allarmò, ma non proferì parola. “Devo purtroppo comunicarvi che, dalle ultime analisi che ha fatto il signor Holmes, la conta dei CD4 risulta leggermente abbassata.” Sherlock e John mutarono di espressione e la fissarono perplessi “Nulla di cui preoccuparsi eccessivamente: ora la conta risulta 392. Non è una caduta drastica, ma sufficiente alla comparsa di alcuni sintomi. Dovete stare molto attenti: signor Holmes, è necessario che si pesi almeno una volta ogni settimana, che registri tali dati e li tenga sott’occhio, così come il resto dei sintomi. Inoltre, stia molto attento a non ammalarsi, lo stesso vale per lei signor Watson. Nel caso aveste anche solo il sospetto che si stia manifestando qualcuno dei sintomi, non esitate a contattarmi immediatamente per poter agire quanto prima: sono a vostra completa disposizione.” entrambi annuirono, tesissimi “Da parte mia, consiglio un cambio nel dosaggio dei farmaci che già assume e aggiungerei questo antivirale...” disse porgendo a John una ricetta indicandogli il nome del medicinale con il dito. Discussero poi più specificatamente del cambio di dosaggio dei vari farmaci. Nel vedere i due uomini tesi e preoccupati, cercò di tranquillizzarli: “Non c’è ragione di allarmarsi, è cosa piuttosto comune. In ogni caso, vorrei che si facesse esaminare con più frequenza, diciamo una volta al mese, e che me ne facesse pervenire i dati: noi, se tutto va bene, ci vediamo tra altri tre mesi, ok?” si alzò e, sorridendo, porse la mano a Sherlock che si alzò a sua volta, così come John.
“Assolutamente. Grazie dottoressa Tietjens.” le strinse la mano
“A rivederci.” la salutò John.
 
Da quando udirono la porta dello studio medico chiudersi dietro di loro, Sherlock e John camminarono in silenzio uno accanto all’altro, immersi nei loro pensieri.
John non riusciva a pensare a nulla di concreto: come medico sapeva che la dottoressa aveva ragione nel dire che non c’era motivo di allarmarsi, ma non poteva fare a meno di essere spaventato e afflitto da quella piccola ma significativa sconfitta del sistema immunitario di Sherlock. Sapeva che non potevano fare altro che seguire i consigli della Tietjens, non era cosa che dipendesse da loro, non c’erano comportamenti da correggere o errori da rimproverarsi: era semplicemente accaduto, e doveva farsene una ragione. Ma la ragione aveva poco spazio nella mente del povero blogger in quel momento.
Quando furono usciti dall’edificio si ritrovarono nel giardino attiguo ad esso e rallentarono il passo: l’aria fresca era in qualche modo consolatoria.
 
John alzò lo sguardo al cielo: ora poteva quasi vederla.
Lassù, qualche metro sopra Sherlock, l’ascia che pendeva sulla sua testa: era là in alto da quando aveva saputo che era sieropositivo, ma ora era più vicina. Non molto, ma la vedeva più grande e più nitida. Senza ombra di dubbio più spaventosa. Non è detto, ma è probabile che prima o poi precipiti per mettere fine alla loro felicità.
 
Sherlock lo osservava camminare e leggeva quel suo sguardo velato di paura fisso nel vuto. Lui non provava timore, ma lo rattristava immensamente vedere John così afflitto per lui, se ne sentiva colpevole. Lo prese per mano: nell’avvertire la stretta, John tornò alla realtà e si rese conto di non essere di aiuto in quello stato. Lui era lì per stare insieme a Sherlock e sostenerlo, non per affliggersi al posto suo. Lo guarò negli occhi, gli sorrise amareggiato e gli strinse la mano a sua volta.
 
 



[Ciao a tutti! Come sempre, vi ringrazio infinitamente per aver letto fino a qui e vi esorto a scrivermi la vostra opinione (che per me è sempre importantissima!). Come potete vedere le cose si complicano... Spero non vi dispiaccia che la ff si stia dilungando COSI’ tanto, ma è un tema complicato e preferisco gestirlo con calma e attenzione... Perciò questa volta va così u.u Grazie ancora a tutti, un saluto <3 _SalvamiDaiMostri]

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Capitolo 6
*** Incubo ***


Sin da quando aveva sentito John entrare dal portone d’ingresso, Sherlock aveva dedotto il suo turbamento per lo più in base al ritmo del suo passo e ai suoi amari sospiri. Quella mattina lo aveva visto piuttosto sereno, perciò doveva trattarsi di un evento accaduto durante la giornata, ma abbastanza recentemente da non ritenere necessario riferirglielo prima via sms.
Oppure abbastanza grave da dover essere discusso di persona.
Quando il medico entrò nella sala principale, trovò Sherlock seduto sulla propria poltrona in un’espressione corrucciata e interrogativa, con le mani giunte sotto al mento:
“Non analizzarmi.” disse scocciato.
“Quindi? Dimmi...” John sospirò di nuovo, posò a terra la ventiquattrore e camminando verso lui si sfilò la giacca, la poggiò sul tavolo e si chinò su Sherlock per dargli un bacio distratto sulle labbra. Sherlock attendeva risposte. John si diresse alla sua poltrona e ci si lasciò cadere sopra. “Ebbene..?” sollecitò ancora.
“Mentre ero in taxi, mi ha chiamato Harry.” il suo sguardo si rattristò. Sherlock era sorpreso: non se lo aspettava. “Sai che sono mesi che non la sento... L’ultima volta è stato il Natale dello scandalo a Belgravia. E’ stata in prigione nell’ultimo mese, mi ha detto. Casini che mi spiegherà poi meglio, dice.” raccontava agitando la mano destra, come per dare forma ondulata al suo nervosismo; poi se la portò alla fronte “Ora entrerà in una clinica per alcolisti, dice che vuole cambiare... Questa sarebbe la quarta volta che prova a disintossicarsi, che dice di essere convinta di farcela e che mi fa mille promesse...” ruggì tra i denti, poi fece una breve pausa. Sherlock lo guardava perplesso. “Ma questa volta mi ha chiesto di raggiungerla.” disse poi tutto d’un fiato. Sherlock annuì. “Vuole che io la aiuti, che le stia vicino...”
“Immagino che andrai da lei.” John lo guardava e sospirò col naso “Le vuoi bene, e lei ti ha chiesto aiuto: l’uomo che siede davanti a me non le negherà mai il suo sostegno.”
“Ma-”
“Certo, forse sarà inutile, non lo nego, ma vale la pena tentar-”
“No, non è questo.” Sherlock, interrogativo, alzò un sopracciglio: “E’ che si trova ad Edimburgo.” il compagno sgranò gli occhi: così lontano? John, in Scozia? “Non so nemmeno come ci sia finita lassù...” ci fu un breve silenzio.
“Non importa.” chiuse gli occhi e fece spallucce: “Ci andrai comunque.”
“Ma si tratterà di settimane... Prima di tutto bisogna vedere se ce la faccio con il lavoro e poi... non voglio che tu resti solo.”
“Sahra gestiva l’ambulatorio anche senza di te, prima che tornassi a Londra: farà benissimo a meno di te per qualche settimana. Per quanto mi riguarda, sono rimasto solo molto tempo nella mia vita: me la caverò anche senza il mio blogger qualche settimana.” rispose sorridendo, John rispose con un sorriso a sua volta “Non preoccuparti.”
“Grazie, Sherlock...”
 


Sherlock guardò il treno partire e improvvisamente si sentì vuoto.
Semplicemente e irrimediabilmente vuoto e solo.
Solo. Dopo così tanto tempo, John non sarebbe più stato al suo fianco.
 
E l’indomani era mercoledì. E avrebbe fatto colazione solo.
 


Harry lo aspettava accanto a un monumento della stazione. Quando scorse John, scoppiò in lacrime: Restò immobile e fu lui a camminarle incontro, terribilmente afflitto. Quando le arrivò davanti fece cadere la borsa e la abbracciò accarezzandole la testa. Lei, senza smettere di piangere e singhiozzare, lo abbracciò con tutta la forza che aveva, lasciando cedere le gambe.
 
Quante volte era già successo.
 
Vedere sua sorella in quelle condizionifacevasorgere in John un dolore antico, quella stessa sofferenza che lo aveva spinto ad arruolarsi ed andare incontro alla guerra, piuttosto che affrontare Harry e ciò che lei comportava.
Avrebbe voluto fuggire di nuovo. Prendere il prossimo treno per Londra e correre fino a Baker st, salire quelle scale scricchiolanti e affondare il viso nel pigiama di Sherlock che, se ne rende conto solo ora, quella sera non vedrà.
 
Ma non lo farà.
 
Non scapperà, non questa volta.
John ci era andato in guerra, e non era servito a niente: rischiare la vita non era servito, patire la fame e il freddo e il caldo non era servito, vedere centinaia di persone morire non era servito. Miseria e distruzione erano rimaste intaccate. Non aveva cambiato il mondo. E si era fatto sparare. Ed era stato tutto inutile: al suo ritorno, la realtà faceva ancora schifo. Non si era sentito più utile di quando era partito. Nè orgoglioso nè fiero di ciò che era e che aveva fatto. La sua vita non aveva acquistato un senso, e la voglia di sparire una volta per tutte da quello schema tedioso che gli rendeva il solo atto di esistere letteralmente doloroso non si era affievolita nemmeno un po’.
 
Ma a Londra aveva ritrovato la gioia di vivere, in Sherlock.
E con essa, la forza per non fuggire.
 
Quella nuova forza che Sherlock gli aveva donato lo avrebbe aiutato a restare con Harry e a sostenerla finchè ne avesse avuto bisogno.


 Sherlock prese il caffé solo, al tavolo della cucina. Come se fosse un qualunque altro volgare giorno della settimana.
Aveva dormito poco e malissimo: il letto era talmente vuoto senza John. Era praticamente da un anno che non dormiva da solo e non ci era più abituato. La stanza era silenziosa senza il suo respiro... I sospiri di Sherlock avevano scandito le ore nella stanza buia, come una conversazione a senso unico: era stata una tortura.
 


John e Harry sedevano nella caffetteria della clinica davanti a due discreti cappuccini e un piatto di biscottini al burro. Erano trascorsi quattro giorni da quando si erano incontrati: lei risiedeva nella clinica, mentre John in un ostello convenzionato con essa, poco distante. Nelle ore d’aria che Harry aveva da programma, i due fratelli passeggiavano per l’incantevole città o semplicemente chiacchieravano in qualche posto tranquillo dell’edificio. Dopo tutto quel tempo che avevano trascorso separatamente, fratello e sorella avevano molte cose da raccontarsi.
 
“Stai scherzando.”
“Nope.”
“Non ci credo. Tu?? No, non ci credo.”
“Non crederci, ma è così.”
“Te lo scopi?!?!”
“E non urlare dai... e poi, che modi sono?”
“Ma da quando??”
“Sarà quasi un anno...”
“Sono scioccata. A papà viene un infarto se lo viene a sapere. Insomma, avevo letto dei pettegolezzi su certe reviste, ma mai avrei pensato che fossero fondati!”
“Non dirlo a me. Tra l’altro, sono cominciati molto prima che noi avessimo effettivamente una relazione...”
“E quindi state insieme...”
“Già.”
“Tu e zigomi d’acciaio...”
“Già...” rispose ridendo
“Da quasi un anno...”
“Sì..”
“E ne sei innamorato?”
John pensò qualche istante alla risposta da darle: pensò a quanto era dannatamente felice insieme a Sherlock. Era profondamente convinto di non poter essere più felice di quanto fosse insieme a lui. Viveva per lui, solo per lui. E nulla avrebbe potuto ormai mutare tale sua condizione.
“Decisamente sì...”
“Mio fratello, innamorato. Questa sì che è nuova! Che io ricordi non ti era mai successo, non è vero?”
“A te è successo sin troppe volte, signora ‘ho trovato l’amore della mia vita sei volte’”
“Beh, ora come ora sono libera!” disse con un ironico tono d’orgoglio. John la guardò negli occhi, serio:
“Speriamo che tu possa esserlo davvero una volta uscita da qui...”
Harry si incupì; poi prese la mano a John:
“Questa volta è diverso John: questa volta ci sei tu, con me.”
 


Squilla il cellulare.
 
- Hey...
- John.
- Come stai?
- Sono perso senza il mio blogger.
- Stronzo...
- Harry? Come sta...?
- Oh, è molto ansiosa di conoscerti!
- Ti prego evitamelo. Con ogni mezzo.
- Prima o poi dovrà succedere...
- Non vedo perchè.
- Lascia perdere... Piuttosto, tu come stai?
- Mi annoio.
 
John sorrise, avrebbe davvero voluto essere con lui in quel momento.
 
- Capisco... Niente casi interessanti? Potresti farti accompagnare da Molly...
- Magari glie lo chiedo.
- Come no. Devo chiedertelo: stai mangiando? A sufficienza?
- John, sei via da sei giorni. Se già fai così, di questo passo impazziremo.
 
La risposta era quindi chiaramente no.
 
- Anche tu? Dolce... Sherlock Holmes impazzirà perchè io non sono con lui...
 
Lo canzonò John, Sherlock arrossì.
 
- Non prendermi in giro. Mi manchi, ebbene? Dì la verità: avevi paura che mi sarei trovato bene da solo con i miei pensieri, senza più te e le tue chiacchiere tra i piedi, non è così? Ebbene ti sbagli. Pensa che non riesco nemmeno a dormie bene...
 
John restò pietrificato a tale dichiarazione. Non ebbe parole per rispondere a tale lusinga.
 
- John?
- Sì sì, ci sono.
- ...
- Mi manchi terribilmente anche tu, sai? E’ dura... Davvero dura. Sto rivivendo un incubo che anni fa mi aveva addirittura convinto che l’Afganistan fosse un supplizio minore. E sono solo... e non è facile.
- Non sei più quell’uomo John.
- ...
- Ora sei più forte e sicuro: un vero detective... e medico e soldato. Sei l’uomo di cui mi sono innamorato.
 
John avvertì una fitta al cuore.
 
- E me lo dici così? Al telefono?? Dopo mesi e mesi che stiamo insieme, tu mi dici che mi ami AL TELEFONO?? Prima o poi ti ucciderò Sherlock...
 
Minacce di morte non erano mai state pronunciate da bocca più sorridente. Diavolo, John: sembrava che avesse vinto alla lotteria con una faccia del genere!
 
- Non era mai stato necessario.
 
Sorrisero entrambi, al telefono, come una coppia di ebeti.
 
- Harry mi chiama...
- Oh...
- Mangia ok? Tre pasti completi al giorno. E esci da quell’appartamento. Ah! Ricordati di pesarti.
- Lo farò.
- Bene. Ti amo, un bacio.
- Buona giornata, John.
 

 
I suoi occhi sono ciò che davvero lo terrorizzano: Moriarty sarebbe un uomo di carne e ossa come tutti gli altri, prevedibile e noioso, se solo non fosse per quel suo sguardo. Quando lo incrocia, non può più liberarsene: è freddo, è folle. Mostra quella sicurezza che solo chi è convinto di aver compreso il gioco di questo mondo può provare. No, anzi: Jim Moriarty sa di poter dirigere il gioco, ora che ha capito. La morte, il dolore, la perdita: per lui non sono niente.
Sorride.
O meglio, la sua bocca sorride. E fa paura. Fa paura perchè sorride da sola, mentre quegli occhi rimangono freddi e penetranti, fissi su di lui.
Inclina la testa.
E’ il demonio. Distruzione per la distruzione stessa. Caos e devastazione, generati da una mente che sa di aver compreso. Compreso il senso di tutto: l’animo umano, il cuore di Sherlock Holmes, il suo.
Non c’è modo di fuggire, non c’è modo di muovere un singolo muscolo: Sherlock non può nemmeno distogliere lo sguardo da quello del killer spietatro che gli si avvicina a passi lenti, minaccioso ed elegante come una serpe. Quella bocca è di una serpe.
Può avvertire il sudore freddo corrergli in rapide gocce giù per la fronte e la schiena, il cuore impazzisce nel petto, le mani tremano: il terrore lo pervade, e il suo corpo lo tradisce.
Ormai è a un passo da lui. E’ spaventoso. Allunga il braccio e gli accarezza il  viso: improvvisamente una voraggine scura e senza fondo si apre dietro a Sherlock, i suoi talloni sono sospesi nel vuoto per metà. Il volto di Moriarty si avvicina al suo, lo affianca. Sherlock chiude gli occhi.
“Bye bye, my love.”
Le sue fredde e piccole labbra si posano sullo zigomo di scerlock in un bacio che dura un istante, eppure il tempo sembra rallentare: l’espressione di Jim è ora straziata e addolorata, Sherlock ha gli occhi chiusi, ma lo sa lo stesso. Improvvisamente si disegna un ghigno diabolico su quel volto e quella stessa mano che lo aveva accarezzato e tenuto per qualche istante, gli afferra i capelli e lo tira indietro, giù nella voraggine.
Sherlock precipita.
Cade senza smettere di guardare negli occhi quel mostro che lo ha tirato giù. L’aria gli taglia le orecchie, il fiato è mozzato e un grido muto tenta inesorabilmente di farsi strada attraverso la sua bocca spalancata dal terrore. E’ stupido, ma le braccia e le gambe cercano un appiglio nella caduta, muovendosi goffamente contro l’attrito dell’aria.
Il buio lo divora. E’ finita.
Questa volta davvero, non c’è via di scampo. Precipiterà in eterno, quel burrone non ha fondo. Ora è solo, Sherlock Holmes morirà solo: lo aveva detto sempre la gente cattiva. “Resterai solo!”.
“Non mi importa!” diceva lui. Ed era vero. Ma adesso sì! Adesso importa! Perchè lui adesso non è solo! NON E’ SOLO! SHERLOCK HA JOHN, NON E’ SOLO! Ma John non c’è. Prova a chiamarlo, con tutte le sue forze, ma dalla bocca non esce suono alcuno. E’ solo, John non verrà: questa volta non può salvarlo nessuno. John non c’è. Il fratellone non c’è. Nessuno lo salverà. Perchè fa così tanta paura? Perchè fa così tanto male??
Aiuto. Grida?! Ora lo sente, ora si sente! Aiuto! AIUTO!! E un urlo si fa strada nella sua gola per poi perdersi nel vuto dell’abisso, in un eco assordante e spaventoso che gli fa perdere la testa.
 
Fu così che Sherlock si svegliò: urlando, in un bagno di sudore, nel suo letto.
Subito gettò la mano alla sua destra per afferrare il braccio di John e calmarsi, ma la mano sbatté sul materasso. Perchè John non c’era.
Era notte fonda. Sherlock si mise a sedere e si prese i capelli umidi di sudore tra le mani: John era ancora a Edimburgo, perciò avrebbe dovuto calmarsi da solo. Cercò di regolarizzare il suo respiro, piano, con calma... Poi si alzò e si diresse verso la cassettiera per prendere un pigiama asciutto: quello sudato era davvero fastidioso sulla pelle e, una volta cambiato, sarebbe stato più facile riprendere sonno. Doveva cercare di dormire: faceva molta fatica ad addormentarsi da quando John era partito e dormiva pochissimo anche per i suoi standard; e non era bene. Possibile che la mancanza di John lo danneggiasse così tanto anche a livello fisico?
 
Certo che era possibile.
 
Si rimise a dormire, questa volta dal lato di John che era fresco e stirato, e affondò il viso nel cuscino che sapeva di bucato come il suo, ma aveva qualcosa di John e perciò lo strinse con tutte le sue forze, in attesa che i suoi occhi si chiudessero di nuovo, nella speranza di sogni più tranquilli.
 


 Che fai oggi? –JW
 
Caso. Rapimento, accompagno Lestrade. –SH
Ma tu questo lo sai già, non è vero? –SH
Hai convinto tu Lestrade a tirarmi fuori di casa. –SH
 
Vai e lavora, che ti piace. –JW
 
Solo perchè il caso è interessante. –SH
Tu cosa farai? –SH
 
Porto Harry al mare... Sta andando bene. –JW
Mi manchi immensamente. –JW
 
Ancora non sai quando tornerai? –SH
 
Oggi le parlo...  Ormai non ce la faccio più. –JW
 
Gli scozzesi ti hanno stufato? –SH
Fammi sapere. Sempre tuo, - SH.
 


 Il caso tutto sommato non era poi così interessante. –SH
 
Spiacente. –JW
 
Quando torni? –SH
La casa è un casino. –SH
 
Che io torni presto o meno, dovrai comunque riordinare da solo. –JW
 
Ancora non sai quindi? –SH
 
Mi ha supplicato di restare ancora qualche giorno. –JW
 
Qualche giorno sia, dunque. –SH
Oppure vi raggiungerò io. –SH
 


Quello era proprio un brutto giorno per realizzarlo.
 
Sherlock si era svegliato di nuovo madido di sudore nel cuore della notte, e questa volta non aveva avuto incubi. Trascinatosi in bagno per sciacquarsi, nell’accendere la luce scorse solchi nel suo torso nudo che non aveva mai visto prima: si mise quindi di profilo e alzò il braccio verso allo specchio e nel compiere tale gesto, le costole e le clavicole spisero contro la pelle in modo decisamente troppo evidente e inconsueto. Ricordò improvvisamente che non si era ancora pesato da quando John aveva lasciato il 221b. Si gettò a terra ed estrasse la bilancia dall’angolo in cui era riposta, si rialzò e, preda del terrore, vi salì.
Prima che trovasse il coraggio di abbassare lo sguardo e vedere dove si era fermato l’ago passarono diversi eterni minuti nei quali Sherlock non poteva fare a meno di chiedersi
 
«Dov’è John?»
«Perchè non è qui con me, adesso??»
 
Aveva perso quasi due chili.
Eppure aveva mangiato regolarmente, anche se controvoglia.
Ormai non era necessaria la conferma della dottoressa Tietjens: perdita dell’appetito, del sonno, di peso e sudorazione eccessiva. Di certo i CD4 erano scesi ancora. Ed era entrato nella fase sintomatica.
Forse fu la prima volta che ebbe davvero paura in tutta la sua vita.
 
Sherlock vide dalla sveglia appoggiata all’armadietto del bagno che erano le tre e diciotto del mattino:
Quello era proprio un brutto giorno per realizzarlo.
 


 John, seduto nella metro con il bagaaglio appoggiato tra le gambe divaricate, batteva freneticamente il piede a terra contando le fermate una dopo l’altra: era in ritardo; o meglio, il treno che lo aveva portato a Londra era stato in ritardo. Da quando era partito da Edimburgo non aveva fatto altro che contare le ore e i minuti, sapeva esattamente quanto gli sarebbe servito per tornare a casa, ma un guasto al treno aveva modificato i suoi piani e i nervi di John non lo sopportavano. Dalla stazione di Kings Cross ci sono cinque fermate di metro prima di Baker St, lo spasmo alla mano si ripresenta, ma lui nemmeno ci fa caso. John ha in mente solo Sherlock: finalmente sta tornando a casa, con un dannato e imprevisto ritardo, ma sta arrivando! Poco prima di scendere, John si alza e carica il borsone sulle spalle: sente il cuore esplodergli in petto e un sorriso idiota disegnarglisi sul viso. Nonappena si aprono le porte con quel fischio fastidioso, John scatta e, finalmente, non pensa più a nulla. Corre, noncurante della gente che potrebbe giudicarlo un pazzo, corre verso il 221b e chi lo abita. In un paio di minuti è davanti al portone nero con quei quattro caratteri in ottone che tanto ama: goffamente estrae la chiave dalla tasca dei pantaloni e apre, facendosi crollare addosso un paio di volte il bagaglio che portava. Improvvisamente si ferma: non vuole fare rumore. Posa il bagaglio e sale le scale un gradino alla volta piano piano: magari Sherlock non lo ha sentito, dopo tutto la sua sciocca idea era quella di fargli una sorpresa per quel giorno speciale. Mentre saliva, tentava in ogni modo di regolarizzare il suo respiro, ma senza riuscirci. Una volta in cima, non esitò un istante e spinse piano la porta per aprirla: nel vedere Sherlock seduto sulla sua poltrona nera, disse in tono trionfante:
“Buon anniversario.” tentando di sorridere col fiatone, chinandosi leggermente in avanti per lo sforzo. Sherlock rise e abbassò la testa, alzandosi:
“Spero non fossi convinto di farmi una sorpresa...” disse camminando verso di lui. John scosse la testa sorridendo:
“Impossibile...” rispose chiudendo la porta dietro di sè. Sherlock lo raggiunse: inclinò la testa facendogli passare una mano dietro la nuca e lo baciò intensamente. John schiuse la bocca per accogliere quel bacio tanto agognato in quelle settimane; prese ad accarezzargli il viso e i capelli con entrambe le mani e lo baciò a sua volta ancora e ancora. Si separarono solo per abbracciarsi forte, con le dita che affondavano nei vestiti e i nasi sprofondati nel collo l’uno dell’altro tra mille sospiri. Era un abbraccio che parlava da sé: diceva «Mi sei mancato così tanto» diceva «Ricomincio a vivere solo ora che sono di nuovo con te» e poi «Siamo una coppia di idioti» ma anche «Ti voglio, ti voglio».
Quanto si erano mancati... Lo avevano saputo ogni instante di tutti quei giorni passati separatamente, eppure era come se se ne fossero resti davvero conto solo in quel momento in cui erano di nuovo uniti.
Sherlock risalì il collo di John a suon di baci fino ad arrivare al suo orecchio per poi sussurrargli:
 
“Voglio fare l’amore con te.”
 
John non potè fare a meno di arrossire: Sherlock non gli aveva mai detto una cosa del genere. E rise, rise di gusto senza smettere di stringerlo... e rise anche Sherlock premendo il suo naso contro a quello di John, prima di tornare a divorarlo di baci insaziabili. Accecati dal desiderio, si baciarono e si spogliarono a vicenda ansimando e ridendo... e, piano piano, si diressero verso la camera da letto. Verso metà del corridoio, John aveva sbottonato completamente la camicia viola di Sherlock e fece per sfilargliela frettolosamente, ma nel passargli le mani sul petto nudo, John ebbe un sussulto: si fermò e lo guardò in viso, scioccato.
Se ne era reso conto solo allora.
 
«Sono un idiota.»
 
Non aveva parole: al tatto avvertiva chiaramente le sue ossa che premevano contro la carne. John, oltre ad essere medico, conosceva quel corpo come nessun altro e, nell’avvertire che era dimagrito così tanto, non poté fare a meno di spaventarsi. Gli passò le mani sul petto e sui fianchi con fare professionale, mano esperta, ma sguardo addolorato. Sherlock non proferiva parola e lo lasciava fare, con le braccia morbide lungo i fianchi: nonostante tutto, era suo diritto di capire la situazione, anche se a modo suo.
Poi alzò le mani per separare quelle di John dal suo petto e intrecciò le dita con le sue; John non alzò lo sguardo:
“Guardami negli occhi.” gli disse con tono dolce, inclinando la testa per trovare il suo sguardo giù dove lo aveva gettato; quando si incontrarono, con una mano gli accarezzò il viso e, tornando diritti, gli sorrise con affetto: “Va tutto bene.” John scosse piano la testa “Sì, John. Tu sei qui: va tutto bene.” il suo sguardo era affettuoso e sicuro, ma le sue mani tremavano e tradivano le sue parole.
“Oh, Sherlock...” fu tutto ciò che ebbe il tempo di dire prima che Sherlock affondasse il naso nel suo collo e ricominciasse poi a baciargli il petto nudo e fremente: non voleva permettere che il loro incontro finisse in lacrime. No: lui era così felice di avere di nuovo John tra le braccia, il suo sapore nella bocca, la sua pelle tra le mani... Non c’era spazio per la tristezza e la paura. Dovette fare leva sui più profondi desideri di John per convincerlo a mettere momentaneamente da parte quei brutti pensieri, per dedicarsi finalmente l’uno all’altro come agognava prima dell’amara scoperta. Sherlock gli cinse quindi i fianchi con le braccia e lo tirò con sè nella stanza da letto.
 

 


[Hey, salve a tutti bella gente! ^^ Prima di tutto vi ringrazio di cuore per essere arrivati a leggere fino a qui: è il regalo più grande che possiate farmi, mi ripaga di tutta la fatica fatta a scrivere :p Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo e vi invito calorosamente a lasciarmi una recensione: sono di fondamentale importanza per me ;) Mi scuso se sto cambiando diversi stili di scrittura... Purtroppo mantenere una vera e propria continuità stilistica è per me molto difficile, spero non sia troppo fastidioso >< Come ben saprete ormai, cerco di aggiornare il prima possibile, ma ormai questi capitoli partono praticamente da zero.. e oltre al tempo materiale per pensarci e scriverli, devo anche trovare il momento giusto per farlo (altrimenti saltano fuori delle schifezze) Perciò vi chiedo di essere pazienti <3 Al prossimo capitolo! Un saluto, _SalvamiDaiMostri]

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Capitolo 7
*** Insieme ***


Sherlock era sveglio ormai da diverso tempo e giaceva a pancia in giù, con le braccia sotto al cuscino e il viso rivolto verso John che dormiva supino serenamente accanto a lui. Il sole che filtrava dalla finestra li illuminava e Sherlock in  quegli istanti ringraziava l’universo per essere tornato a regalargli quei momenti idilliaci che tanto lo rendevano felice.
John si mosse leggermente e, dopo qualche smorfia, si svegliò. Prima di aprire gli occhi si portò le mani al viso e se lo sfregò vigorosamente. Sherlock allora si alzò sui gomiti e si spostò in modo tale da coricare il suo petto sulla pancia del compagno. John abbassò quindi le braccia su Shelrock e prese ad accarezzargli la schiena e le braccia e i capelli, senza che nessuno dei due dicesse una parola.
Sherlock chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni l’odore della pelle di John mentre la sfiorava col naso in piccoli cerchi. Senza guardarlo in viso disse:
“Eppure... Ciò che mi fa più paura... E’ la possibilità di contagiarti...”
John si sorprese e si fermò un momento. Sherlock si voltò verso di lui e adagiò di nuovo la testa su John.
“Non è possibile...” rispose lui accarezzandogli la guancia con le dita
“E invece sì. E’ solo poco probabile.”
“Molto poco probabile.”
“Non mi importa.” John lo guardò incapace di rispondere. Sospirò e lo tirò verso di sè per poi invitarlo a mettersi su un fianco,  appoggiarsi a lui e così abbracciarlo stretto, appoggiando il mento sulla sua spalla.
“Tu sei ciò di cui dobbiamo occuparci ora.” gli schioccò un bacio sul collo “Devi assolutamente parlare alla Tietjens di questa perdita di peso...”
“Alla quale si sommano la perdita del sonno, dell’appetito e una sudorazione eccessiva.” puntualizzò Sherlock. John non rispose, incapace di reagire “L’ho già chiamata ieri, ma le ho chiesto di vederci domani, così oggi saremmo potuti stare insieme. Tanto ventiquattro ore non faranno differenza alcuna.” John sorrise:
“Sapevi davvero che sarei tornato ieri...”
“Elementare.” sorrise e si strinse le braccia di John in vita. Restarono qualche minuto in silenzio. Poi Sherlock parlò: “Se ti capitasse... Tutto questo... Non me lo perdonerei mai.”
“Non potrebbe essere in alcun modo colpa tua. So quello che faccio.”
“Non mi importa.” Restarono abbracciati in silenzio, ancora. “Non dovevo coinvolgerti.”
“Voltati.” Ordinò il compagno. Sherlock si girò su se stesso per guardarlo negli occhi “Sherlock, non dirlo più.” Lo guardava severo e parlava con tono autoritario “Sono un adulto e sono un medico, capace di intendere e volere e del tutto consapevole di ciò che fa e ciò che rischia. E ti amo e voglio starti accanto fino alla fine e, a meno che tu non mi voglia, di qui io non mi muovo.” Sherlock sorrise:
“Certo che ti voglio qui...” Sherlock si strinse a lui e lo abbracciò. Poi rise e sussurrò: “Potremmo sempre smettere di fare sesso...” John si separò di scatto per guardarlo negli occhi con aria sconvolta:
“Stai scherzando, vero?” Sherlock scoppiò a ridere, ma John continuava a guardarlo sconcertato “Hehe, sì, era uno scherzo... vero?” Sherlock continuava a ridere di gusto e, avvicinandosi piano, lo baciò intensamente per poi tirarsi su di lui e continuare a ridere e a baciarlo contemporaneamente.

 

“Signor Holmes, Dottor Watson. Accomodatevi, prego.” la dottoressa li invitò a sedere, come sempre, ma con aria più cupa del solito. In genere mostrava loro sempre un dolce sorriso... Oggi, per la prima volta, quel sorriso non c’era. “Quanto vorrei potervi dire che sono felice di vedervi, come al solito. Ma purtroppo, dalle analisi che mi sono pervenute, pare proprio che i suoi sospetti fossero fondati, Sherlock: lei è ufficialmente entrato nella terza fase dell’infezione, ossia infezione da HIV sintomatica.” si prese una pausa, ma paziente e compagno non proferirono parola. Dunque proseguì: “La conta dei CD4 è scesa a 325, ne sono una chiara prova i sintomi che mi ha detto di aver avuto nelle ultime settimane. Per qualche ragione imprevedibile e a me sconosciuta, il virus è diventato immune al coctail di farmaci che ha assunto fin ora. Tale ricaduta è davvero anomala... Soprattutto trattandosi di un uomo giovane e robusto come lei... Sottoporrò questo caso ai migliori dei miei colleghi a livello internazionale, ma, come di certo entrambi sapete, l’HIV è ancora oggi un mistero e difficilmente sorgeranno riposte utili quantomeno a noi. Ciò detto, ora il suo stato di immunodepressione è decisamente avanzato e dovremo discutere un cambiamento radicale nei suoi farmaci: dovremo introdurre un inibitore della proteasi. Inoltre, essendo immunocompromesso apparentemente da molti giorni, vorrei che si facesse testare per l’eventuale insorgere alcune malattie che il suo sistema immunitario non è più in grado di contrastare: se il test risultasse negativo per tutte, cosa che noi ci auguriamo di cuore, allora ripeteremo tale test ogni tanto. Avete domande?”
“Solo... Quanto tempo? Quanto prima dell’AIDS?” domandò John. La dottoressa sospirò:
“Dottor Watson, lei certo capirà che non posso darle una risposta certa riguardo a questo. Posso dirle che l’AIDS viene diagnosticata nel momento in cui i CD4 raggiungono una conta inferiore a 200. Facendo una media dei milioni di casi registrati, dallo stadio nel quale si trova il signor Holmes fino all’insorgere della malattia, potranno trascorrere dai dodici mesi ai tre anni.” John sgranò gli occhi e sussurrò:
“Un anno...” La dottoressa abbassò lo sguardo per qualche istante, quasi si sentisse sinceramente in colpa per il fallimento della sua terapia, nonostante fosse certa di aver fatto tutto il possibile. Poi riprese:
“Ci tengo a ricordarvi che, con il progresso della ricerca, oggi giorno una persona affetta da AIDS se segue un regime alimentare corretto e assume i giusti farmaci nella maggiorparte dei casi vanta la durata della vita di una persona qualunque. Certo, non sarà facile: si tratterà sempre e comunque di combattere una malattia che aggredisce il sistema immunitario, ma è molto probabile che possiate stare bene e insieme a lungo.”
“Sì, ne siamo consapevoli.” rispose Sherlock. John se ne stava immobile con lo sguardo rivolto verso il pavimento celeste dello studio medico.
“Signor Holmes, il cambio di farmaci come al solito non sarà una passeggiata. Nei primi tempi sentirà astinenza nei confronti di quelli che avrà smesso di assumere e rigetterà le nuove sostanze. Confido della sua costanza e nella sua buona volontà per affrontare ciò che le aspetta. Di norma, sono solita consigliare il sostegno psicologico e il gruppo di sostegno a coloro che si trovano nella sua condizione, ma so per certo che, se lo facessi con lei, nel migliore dei casi verrei semplicemente ignorata. Mi sbaglio?”
“Non sbaglia.” rispose Sherlock sorridendole.
“Non avevo dubbi. Ma lei è una persona forte. E soprattutto ha già tutto il sostegno che le serve in coloro che le stanno accanto.”
“Sì, sì è così.”
“Bene. Allora, se è tutto chiaro, io vi saluto dicendovi che spero di rivedervi il più tardi possibile e vi auguro una buona giornata.”
“La ringrazio infinitamente, dottoressa. Arrivederci.”
“Arrivederci.” saluto Sherlock, perchè John non disse una parola.
 
Una volta usciti dallo studio, passò ancora diverso tempo prima che uno dei due proferisse parola. Questa volta dovettero aspettare di salire in taxi prima che Sherlock trovasse il coraggio di dire qualcosa:
“Immagino di dover definitivamente sospendere i miei esperimenti sulle muffe. E, insieme ad essi, tutti quelli su agenti particolarmente infettivi..” voleva essere una battuta, ma John, che sedeva alla sua sinistra, ruppe la sua compostezza in una smorfia di dolore subito nascosta dai palmi delle mani; non riuscì a soffocare ogni singhiozzo. Sherlock sorrise e si chinò verso di lui: “Hey, hey..” gli accarezzò la schiena. John gli prese la mano, la baciò e poi se la portò alla fronte per stringerla con entrambe le sue.
 “Si supponeva che tu avessi più tempo...” ringhiò tra i denti. Sherlock lo guardò qualche istante, poi chiese al tassista di accostare e di farli scendere: pagò il totale della corsa e prese John sotto braccio.
“Dietro l’angolo c’è il parco. Passeggiamo un po’, ti va?” John annuì. Camminavano lentamente stretti l’uno all’altro: quando entrarono nei cancelli del parco poterono vedere lo sfarzo della primavera esibirsi nelle aiuole colme di gigli gialli e nelle fronde di qualche albero fiorito i quali rami sembravano decorare quel cielo azzurro disseminato di nuvolette bianche che li sovrastava. Sherlock osservava con piacere ciò che li circondava: sembrava godere del cinguettio degli uccellini e del profumo dei fiori, del rumore dell’acqua delle fontane e persino delle persone che come loro erano nel parco. John, invece, non ne trovava la forza. “Non lo facciamo mai. Perchè non lo facciamo mai?”
“Perchè sei sempre troppo impegnato ad annoiarti sul divano.” borbottò John
“Giusto.” rispose sorridendo “Ebbene, dunque, godiamocela questa passeggiata...”
Camminavano in silenzio a passo lento, scandito dal rumore della ghiaia che scricchiolava sotto le suole delle loro scarpe. Giunse il tramonto, il cielo prese a scurirsi e la luce si tinse di arancione. Man mano il parco prese a svuotarsi prima dei bambini, poi degli anziani e infine anche gli adulti se ne tornarono alle proprie dimore, lasciando la coppia da sola a passeggiare nel parco. Sherlock ad un certo punto, mentre continuavano a camminare, disse:
“Tutto questo è il peggior effetto collaterale...” non arrestarono la loro camminata. John domandò.
“Cosa intendi?”
“Tu.. La tua sofferenza.” John, camminando, lo guardò: Sherlock guardava avanti e stava sorridendo, ma era un sorriso terribilmente amaro e affranto “Non avrei dovuto coinvolgerti in tutto questo, nella mia vita. Non avrei dovuto addossarti il fardello di ciò che mi accadrà. La malattia è mia, certo, ma la tragedia è tua.”
“Sherlock, ne abbiamo già parlato-”
“Lo so lo so.” lo interruppe “Tu vuoi starmi accanto in ogni caso. E tu non puoi immaginare quanto questo mi renda felice.. Ecco, voglio che tu capisca questo John.” si fermò e lo guardò negli occhi “Io sono felice. E tanto. Più di quanto io sia mai stato. Insieme a te, io sono un uomo migliore e sono sereno, qualunque cosa accada al mio corpo. Non è questa la cosa più importante?” John annuì “Ebbene, non affliggerti allora: tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata e desidero che tu sia felice, anche se con me.”
“Oh Sherlock..” John lo abbracciò stretto “Non è colpa tua se sono triste...” si tirò indietro e appoggiò la sua fronte contro quella di Sherlock; entrambi tenevano gli occhi chiusi:
“Sì, lo è... Tu saresti un uomo più felice senza un condannato a morte nella tua vita.”
“Non dire stronzat-”
“Fammi finire.” lo interruppe di nuovo. John aprì gli occhi e lo guardò trattenere a stento le lacrime mentre stringeva con rabbia le palpebre: “Ma io, senza di te, so di non poterlo essere.” John ebbe un sussulto “Perciò ho bisogno di te al mio fianco ed è terribilmente egoista da parte mia, ne sono consapevole, ma non posso farci nulla. Ti chiedo scusa per questo.” John lo abbracciò di nuovo dolcemente, appoggiando il viso di Sherlock alla sua spalla “E ti prometto che cercherò di rendere anche te felice... Nonostante tutto questo.” John non riuscì a trattenere oltre le lacrime.

 

Il giorno seguente, John tornò più tardi dal lavoro, verso le otto passate. Aveva preso da mangiare in un ristorante cinese a portar via e subito si sedette a tavola insieme a Sherlock che lo stava aspettando. Cenarono quindi insieme, raccontandosi rispettivamente le proprie giornate. Poi Sherlock si alzò e andò verso la finestra dove era riposto il leggio con gli spartiti: estrasse il violino dalla custodia appoggiata a terra e prese a suonare mentre John sparecchiava la tavola. Quando ebbe finito, John si voltò e guardò il suo compagno che si stava esibendo: Sherlock era in tuta e vestaglia, rivolto verso la finestra, e la sua figura oscillava leggermente seguendo l’andamento della melodia che stava eseguendo nella luce fioca della lampada del salone, creando un particolare effetto di luci ed ombre in musica che rendevano la scena idilliaca. Senza che Sherlock ci facesse troppo caso, John raggiunse la sua giacca appesa all’appendiabiti dell’entrata ed estrasse qualcosa dalla tasca. Poi andò verso la sua poltrona e si appoggiò inpiedi a un bracciolo per assistere al termine dell’esecuzione.
“Straordinario, Sherlock, straordinario.” disse quando ebbe concluso. Lui fece un breve inchino sarcastico e, mentre camminava verso John, disse:
“Non è necessario che tu lo dica ogni volta...” gli arrivò davanti e John gli cinse i fianchi con le braccia e gli diede un bacio fugace.
“So perfettamente che adori sentirtelo dire, non fare il modesto.” Sherlock notò qualcosa di particolare nel tono della voce di John e si incuriosì. Lo osservò con attenzione e ripensò al suo comportamento di quella sera: sospiri continui, sudorazione eccessiva, espressione più sciocca del solito, lo spasmo alla mano sinistra. Già, aveva decisamente qualcosa di strano e non esitò a chiedere spiegazioni:
“Tutto bene, John?” alzando curioso un sopracciglio
“Sì, cioè... Volevo parlarti..” Sherlock si sorprese:
“Dunque? Di cosa si tratta?”
“Si tratta di quello che mi hai detto ieri al parco...” Sherlock si separò da John e si appoggiò al muro alle sue spalle, accanto al camino, per ascoltare. “Sai che, a differenza tua,  non sono bravo con le parole e... Ho dovuto prepararmi un discorso che mi ripeto in testa da allora per essere sicuro di arrivare alla fine.”
“Dimmi, dunque.” John prese fiato.
“Ebbene, non è affatto vero che io sarei felice senza di te.” Sherlock incrociò le braccia e fece per replicare, ma, prima che potesse dire qualunque cosa, John lo interruppe: “Ti prego, lascia che finisca o non ne uscirò mai.” Sherlock sorrise e annuì. “C’è una cosa... Che non ti ho mai detto...” il compagno inclinò la testa incuriosito. “Quando sono tornato dall’Afghanistan, ero distrutto. Non solo per ciò che avevo visto sul campo di battaglia: la mia vita era un disastro ormai da molti anni. Sin da quando Harry aveva fatto outing quando eravamo poco più che adolescenti, vivere era stato l’inferno: io le volevo bene e avrei accettato qualunque cosa l’avrebbe resa felice, ma i miei non la pensavano così e le andarono contro in ogni modo possibile; io mi schierai dalla sua parte e servì solo a peggiorare le cose. Finì per rompere i legami con i miei quasi del tutto quando Harry scappò di casa e io andai alla facoltà di medicina: speravo che almeno io e lei saremmo stati uniti, ma Harriet preferì l’alcol a me e io rimasi solo.” Sherlock davvero non capiva dove volesse arrivare “Cominciai ad essere furioso con il mondo, con le persone.. Ad essere insoddisfatto di ciò che ero e di ciò che facevo e questo mi uccideva. Mi fu consigliato di arruolarmi e non tardai molto a ritenerla la migliore delle opzioni che avevo: credevo che, arrecando un servizio al mio Paese, aiutando chi aveva bisogno, salvando effettivamente delle vite, mi sarei sentito meglio. Ma non fu così. Il campo era l’inferno... Vidi morte e distruzione e poco altro. I pochi compagni che mi erano amici li vidi morire, molti tra le mie stesse braccia. Ogni vita che non riuscivo a salvare era un fallimento che aggravava il mio fardello. Venni anche a sapere che mia madre era improvvisamente venuta a mancare, ma, per varie ragioni, non mi fu permesso di rimpatriare nemmeno per darle un ultimo saluto. Ma la vita al campo era frenetica ed appesa un filo: non ebbi tempo per affrontare il lutto di una madre che avevo lasciato tra urla e insulti diversi anni prima. Quantomeno lavorando mi sentivo utile e mi tenevo impegnato. Il vero colpo di grazia arrivò il giorno in cui mi spararono: mi congedarono con onore dandomi l’invalidità e mi rimandarono a casa. Fu la fine.” Sherlock avvertì la sua voce cedere per un istante “I compagni mi dicevano ‘Vattene da questo inferno, torna a casa’ ma a me il vero inferno aspettava qua: non solo il mondo faceva schifo come prima, ma inoltre io non ero altro che un inutile invalido che non era nemmeno riuscito a farsi ammazzare.” John arrestò il suo discorso per un istante. Prese fiato e riprese: “La pistola d’ordinanza... Richiesi una licenza speciale per tenerla. E non di certo per difesa personale.” Sherlock si portò la mano alla bocca:
“John, tu..? Non dirai sul serio.”
“Sherlock, io non avevo più ragione alcuna di vivere. Il solo atto di respirare mi faceva letteralmente impazzire... Provai con la terapia, ma non servì a nulla. Avevo preso la mia decisione: dopo essere sopravvissuto alla guerra, sarei morto nel peggiori dei modi, ossia ingoiando un proiettile in Patria.” prese una lunga pausa, poi sorrise: “Il giorno che incrociai Mike al parco, fu solo perchè stavo facendo un tour d’addio ed ero passato davanti all’ospedale dove avevo fatto tirocinio, giusto per mandare a fanculo quell’edificio e la gente che ci lavorava. Ma Mike mi salutò. Facendo conversazione, mi inventai la storia dell’appartamento che stavo cercando... Mai nella vita mi sarei aspettato che mi avrebbe portato a te. Ti vidi, e fu un colpo al cuore, un cuore del quale non avvertivo la presenza da tempo immemore. Ma, dato che sono un imbecille, non ci feci caso alcuno.” Sherlock sorrise “Mi chiedesti di venire a vedere il 221b insieme a te, ricordi?” Sherlock annuì “E io mi dissi ‘Giorno più, giorno meno, cosa cambia?’. E, Dio onnipotente, non potevo sbagliarmi più di così. Sherlock, tu mi hai mostrato una realtà che non conoscevo... E, col tuo lavoro e i casi e la vita insieme a te, mi hai dato una nuova e meravigliosa ragione di vivere che io da solo o con qualunque altra persona io ci abbia mai provato non ero mai riuscito a trovare.” John si avvicinò a Sherlock e gli prese le mani. Lo guardava dritto negli occhi e Sherlock arrossì nel vederlo col cuore in mano “Non nego di soffrire nel vederti peggiorare, ma non pensare nemmeno per un istante che io potrei essere felice senza di te. Molto semplicemente perchè, senza di te, io avrei cessato di esistere molto, molto tempo fa. Tu sei letteralmente l’unica ragione per la quale io respiro ancora e la mia vita, cazzo, la adoro ora così com’è, insieme a te! Io sono felice. Io sono più felice di quanto sia mai stato e lo devo solo a te.” Sherlock guardò a terra rattristato:
“E ora.. Risulta che ho la data di scadenza scritta in fronte... Bella ragione di vita di merda. Mi dispiace terribilmente.” John gli prese il viso con una mano e lo portò a guardarlo negli occhi:
“No, non dire così Sherlock. Io, grazie a te, ho un ruolo. E non c’è nulla di più importante che avere un posto nel mondo. E il mio è accanto a te, nel bene e nel male, in salute e in malattia. Non desidererei nient’altro per me. Senza di te, io ormai non sarei più in questo mondo: ogni giorno che ho vissuto da allora, me lo hai regalato tu. E io vorrei solo poter fare altrettanto con te.” John si inginocchiò ed estrasse dalla tasca un anello argentato: Sherlock rimase pietrificato. John rise e glie lo mostrò: “Questa vuole essere la prova del fatto che ti sbagli. Questo è il simbolo del fatto che non desidero altro che starti accanto e vivere insieme a te, qualunque cosa accada, perchè nulla al mondo potrebbe rendermi più felice che dire di essere tuo marito. Perchè ti amo, ti amo moltissimo e so che non smetterò mai di amarti.” Sherlock ebbe un sussulto. “William Sherlock Scott Holmes, vuoi farmi l’onore di diventare mio marito?” Sherlock era rimasto immobile, in silenzio con gli occhi sgranati. John all’inzio sorrideva, ma poi cominciò a sentirsi a disagio man mano che passavano i secondi e lui se ne stava inginocchio con un anello stretto tra pollice ed indice. “Sherlock? Ti prego di qualcosa...” Sherlock abbassò lo sguardo:
“Perchè?” domandò. John rimase esterrefatto:
“Come perchè? Non sono stato chiaro?” si alzò senza lasciargli la mano.
“Non ti basta ciò che abbiamo?”
“No. Decisamente no. Sherlock per dirne una, se ti accadesse qualcosa, in ospedale non potrebbero dirmi nulla in quanto non siamo parenti.. E io ne morirei.”
“Quindi è solo per questo...”
“No! E’ per un miliardo di ragioni! Sherlock, io voglio che sia ufficiale, voglio che il mondo lo sappia. Voglio che mio padre lo sappia! Voglio che ciò che è mio sia tuo e che ciò che è tuo sia mio. Voglio avere il dovere di vivere sotto al tuo stesso tetto, di assisterti, di esserti fedele, e di amarti ed onorarti finchè morte non ci separi.”
“Avere... il dovere...?” ripetè
“Esatto.” annuì e attese qualche istante “La verità è che tu speri ancora che io fugga da te, se e quando la situazione diventi insostenibile, non è vero?.” Sherlock trasalì, colto nel segno, e lo guardò negli occhi “Che ti piaccia o meno, io non lo farò. Lo prometto. E te lo prometto qui, adesso, senza testimone alcuno. Ma vorrei farlo davanti a coloro che amiamo e davanti allo Stato... Certo, se tu vorrai.” gli occhi di Sherlock si colmarono di lacrime e, singhiozzando e tirando su col naso, appoggiò il viso al petto di John. Il compagno gli accarezzò la schiena con entrambe le mani con affetto. Poi avvertì Sherlock annuire con la testa contro il suo petto “Sì?” domandò John. Sherlock allora separò il viso dalla camicia di John, gli prese il viso con entrambe le mani e disse in un rotto sorriso:
“Sì.” e lo baciò sulle labbra. Allora John gli avvolse le braccia attorno al collo e lo strinse in un abbraccio, cedendo anch’egli al pianto di gioia senza smettere di baciarlo.
“Sì?” chiese ancora John incredulo. Sherlock rise e annuì ancora:
“Sì!” e anche John rise, pervaso dalla gioia più grande che avesse mai provato in vita sua. Quindi prese dalla sua mano sinistra l’anello che aveva tenuto stretto nel pugno fino a farsi rimanere un cerchio perfettamente circolare nel palmo. John rise ancora e, non sapendo cosa fare, domandò
“Va nella mano destra, giusto? Perchè nella sinistra sarà poi al matrimonio..” Sherlock rise a sua volta rispondendo:
“E a me lo chiedi??” nel dubbio, John decise di agire così come aveva detto. Gli prese la mano destra e gli infilò l’anello nell’anulare: guardò la mano di Sherlock che adornata da quella striscetta d’argento sembrava apparire più bella, come se fosse finalmente completa e sul suo viso si disegnò un sorriso da orecchio a orecchio. Afferrò quindi il volto del suo Fidanzato con entrambe le mani e lo baciò con passione incontenibile.
 


 
[Hey, salve a tutti bella gente! ^^ Prima di tutto vi ringrazio di cuore per essere arrivati a leggere fino a qui: è il regalo più grande che possiate farmi, mi ripaga di tutta la fatica fatta a scrivere :p Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo e vi invito calorosamente a lasciarmi una recensione: sono di fondamentale importanza per me ;) Mi scuso se sto cambiando diversi stili di scrittura... Purtroppo mantenere una vera e propria continuità stilistica è per me molto difficile, spero non sia troppo fastidioso >< Come ben saprete ormai, cerco di aggiornare il prima possibile, ma ormai questi capitoli partono praticamente da zero.. e oltre al tempo materiale per pensarci e scriverli, devo anche trovare il momento giusto per farlo (altrimenti saltano fuori delle schifezze) Perciò vi chiedo di essere pazienti <3 Al prossimo capitolo! Un saluto, _SalvamiDaiMostri]

 

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Capitolo 8
*** Cobalto e margherite ***


Lestrade bussò alla porta.
“Sherlock, posso?” Attese educatamente una risposta, ma, come previsto, non ne ricevette una. Perciò, dopo qualche secondo, si fece comunque strada da solo all’interno della camera. Trovò il consultive detective che, avvolto in una leggera vestaglia verde scura, gli dava le spalle seduto davanti ad una specchiera, con le mani giunte sotto al mento e gli occhi chiusi. L’ispettore subito credette che Sherlock fosse immerso nel suo palazzo mentale e pensò di andarsene per non disturbarlo, ma, non appena fece per indietreggiare, Sherlock lo fermò:
“Dimmi Gavin...”
L’ispettore sospirò ed entrò nella camera chiudendosi la porta dietro di sè:
“E’ mai possibile che un uomo con le tue capacità mnemoniche non sia in grado di imparare il nome del proprio testimone di nozze? Nonchè amico da... Che saranno, sette? Otto anni?” Sherlock si limitò a rispondere con un’altra domanda senza nemmeno aprire gli occhi:
“Che cosa vuoi?” avvertì quindi il passo di Lestrade che si avvicinava a lui:
“Il tuo anello. Dovrò poi consegnarveli io durante la cerimonia.” Sherlock aprì gli occhi e, nello specchio, vide l’amico alle sue spalle: vestiva un completo grigio non eccessivamente elegante con un gilet grigio, camicia e cravatta color panna e una sobria, piccola boutonniere di pratoline bianche, foglioline e steli verdi avvolti in un piccolo corno verde all’occhiello. Ben pettinato, Lestrade era evidentemente molto felice ed eccitato per la cerimonia e Sherlock sorrise nel vederlo.
“Oh, certo.” rispose voltando il capo verso Greg. Mentre l’ispettore estraeva dalla tasca interna della giacca un astuccio ricoperto di raso verde, Sherlock si sfilò l’anello che John ormai sei mesi prima gli aveva regalato; quindi glie lo porse.  Lestrade lo aprì e, preso l’anello, lo depose nel morbido interno bianco della scatola, accanto a quello di John che già  vi era stato riposto. Nel vedere la fede di John, anche se fu solo per un istante, Sherlock avvertì una scossa lungo tutto il corpo e si sentì inondato di gioia: nel trasporto di tale emozione, si lasciò sfuggire un breve, ma chiaro sorriso che nascose immediatamente, sperando di non essere stato scoperto. Lestrade non aveva detto nulla, ma aveva visto chiaramente la sua espressione: di quel giorno conservò soprattutto quell’istante, un ricordo segreto che sarebbe stato solo suo, di un momento di intimità e spontaneità di quello che era uno degli uomini che più stimava sulla faccia della Terra. Come se nulla fosse, il testimone chiuse l’astuccio e lo ripose accuratamente nella tasca e, una volta sistemata, sorridendo, ci diede due colpetti con il palmo come per dire ‘sono al sicuro’.
“Dovresti prepararti. Sei l’unica persona al mondo perfettamente capace di sposarsi in vestaglia, ma, per il bene di John, indossa il tuo vestito Sherlock. Tra mezz’ora voglio trovarti pronto.”
“Non preoccuparti.” Lestrade uscì quindi dalla stanza aggiungendo:
“Come se non ti conoscessi abbastanza.”
 
Non appena la porta si chiuse, Sherlock scattò in piedi e si avvicinò al letto nella stanza. Sopra all’elegante trapunta bordeaux era stato adagiato il vestito che avrebbe dovuto indossare: era molto simile a quello di Lestrade, differiva solo nella cravatta che era impreziosita da ricami floreali dello stesso colore del tessuto. A lato di esso era delicatamente riposta la boutonniere: anch’essa avvolta in un corno verde, racchiudeva una piccolissima orchidea bianca dall’interno spruzzato di giallo e rosso, accompagnata anch’essa da steli e foglioline verdi. A terra le scarpe nere e lucide. Osservò l’insieme per qualche istante, poi afferrò l’abito per la gruccia e lo osservò con sguardo di sfida:
«Lo sto facendo davvero?»
Quella era la sua ultima occasione: lo aveva prestabilito.
O adesso o mai più: poteva ancora fuggire, non sarebbe stato difficile. La stanza si trovava al primo piano, ma l’edera rampicante che ricopriva la parete esterna dell’edificio era abbastanza resistente da poter sostenere il suo peso (aveva controllato) e, se si fosse calato da quella parte, sarebbe stato lontano dallo sguardo indiscreto di invitati e personale dato che la sua stanza si trovava al di sopra di un salone in disuso. Aveva anche provveduto a fornire una lauta mancia ad un suo fidato collaboratore senzatetto che lo stava aspettando in un’auto accuratamente parcheggiata in mezzo a quelle del personale pronto a portarlo via nel caso avesse deciso di fuggire. Scappare e sparire una volta per tutte dalla vita di quell’uomo meraviglioso del quale si era innamorato e risparmiarlo da quanto l’essere se stesso e la sua malattia avrebbero comportato in futuro.
Nonostante le sue formidabili capacità intellettive, Sherlock non era in grado di concepire un futuro senza John. Non desiderava altro che trascorrere ogni suo istante insieme a lui, al suo fianco, per sempre. Perchè lo amava, lo amava disperatamente. Ed era solo per questo che aveva accettato di arrivare fino a lì, fino al punto di avere tra le mani un abito da indossare al proprio matrimonio.
Ma era ancora in tempo per tirarsi indietro: finchè non avesse indossato quell’abito da cerimonia, avrebbe ancora avuto la possibilità di cambiare il suo destino e quello di John.
Gettò quindi nuovamente il vestito sul letto e si portò le mani al viso: nello sfregarsi la faccia con i palmi, gesto che sapeva di compiere più volte al giorno per trovare la lucidità, notò una differenza in quel contatto. Si guardò quindi le mani nude e realizzò di non avere più la fede al dito.

(Flashback)

John e Sherlock sedevano sul letto in pigiama. Sherlock cingeva le spalle del fidanzato con il braccio sinistro e appoggiava la testa sulla sua in un momento di silenzio e tenerezza. John all’improvviso gli prese la mano destra e la osservò adornata da quell’anello che gli aveva comprato il giorno prima: non aveva ancora avuto occasione di farlo e temeva di aver fatto una scelta sbagliata in gioielleria: Sherlock non aveva mai portato gioielli in vita sua perciò si era sforzato di provare ad indovinare i suoi gusti, adattandoli al proprio portafogli. Aveva optato infine per una coppia di fedi larghe in cobalto lucide con i bordi diamantati a stella, o così almeno le aveva descritte il commesso che glie le aveva caldamente consigliate. Sorrise:
“La trovo decisamente sexy...” concluse soddisfatto. Sherlock, poco convinto, storse la bocca e osservò a sua volta la propria mano alzandola leggermente verso l’alto:
“Dici?”
“Già.” confermò.
“E tu?” domandò Sherlock.
“Io?”
“Non ho idea di come funzioni, ma... Insomma, se ci sposeremo anche tu ne porterai uno... No?”
“Certo, non vedo l’ora...” disse stringendosi teneramente a lui.
“Non vuoi metterla subito, come me? Perchè io si e tu no?” domandò Sherlock in una perfetta via di mezzo tra un tono romantico e il tono di un bambino che sa di non capire le cose dei grandi, ma ci prova lo stesso.  John si rese conto di non sapergli rispondere e lo guardò in viso, confuso:
“Ah, non saprei... Non ci avevo pensato... Insomma, di norma, un uomo regala un anello di fidanzamento ad una donna e fino al matrimonio nessuno dei due indossa una fede, ma lei indossa l’anello di fidanzamento...”
“Mi stai dando della donna?” lo interruppe Sherlock con fare ironicamente stizzito. Risero entrambi:
“No, coglione... Ma insomma, ho sempre e solo visto fare così...”
“Naturalmente si tratta di una sciocca tradizione misogena per la quale una donna è vincolata al fidanzato sin dal fidanzamento ancora prima delle nozze e l’uomo invece no... Ma il nostro è un caso decisamente diverso: non vedo perchè piegarsi a tale sciocca tradizione.”
“Mi pare legittimo...” commentò John facendo spallucce. Sherlock inclinò la testa e lo guardò sorridendo:
“Dunque? Hai la gemella da qualche parte?” nel vederlo sorridere a quella maniera, con quello sguardo e sentendolo dire quelle cose, John non potette fare a meno di arrossire. 
“Sì, nella giacca...” rispose allora lui con un filo di voce.
Sherlock rise e con uno scatto balzò giù dal letto e con passo veloce di allontanò dalla stanza per poi tornare qualche attimo dopo con l’anello stretto nella mano. Si avvicinò al letto dal lato di John e si inginocchiò accanto a lui: John non potette trattenere l’entusiasmo sfoggiando un sorriso da orecchio a orecchio; non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere, eppure una parte di lui, nascosta nel suo profondo, lo aveva desiderato in silenzio da anni.
“Tutto questo è terribilmente superfluo e eccessivamente romantico e costruito sia per i miei gusti che per i tuoi, ma non ti priverò di questo gesto che abbiamo la possibilità i compiere l’uno per l’altro solo una volta nella vita. Perciò confermami, John Hamish Watson, vuoi sposarmi?”


Era sciocco, terribilmente sciocco. Ma Sherlock, guardando quella sua mano spoglia di quell’anello dopo quei pochi mesi che l’aveva tenuto, non riusciva a pensare ad altro che a riaverlo. Desiderava ardentemente che John glie lo rinfilasse al dito dicendo quelle frasi che avevano provato la settimana prima per poi non toglierlo mai più, per nessuna ragione al mondo. Senza quell’anello si sentiva incompleto, nudo. Lo rivoleva, e lo rivoleva per sempre. Così come non avrebbe potuto fare a meno di  John e sapeva che era del tutto e per tutto una cosa reciproca.
E sì, avrebbe sposato John  perchè sì, voleva dannatamente essere suo marito.
E mentre pensava tutto questo, Sherlock si era già infilato i pantaloni e parte della camicia.
 
 
 
John stava rileggendo ancora una volta le promesse seduto sul letto quando sentì bussare alla porta della stanza che gli era stata assegnata ed andò ad aprire:
“Che splendida visione!” esclamò “Signora Hudson, Signora Holmes entrate, prego...” disse facendo segno di entrare alle signore elegantemente vestite che si erano presentate alla porta. La signora Hudson vestiva un tailleur viola con un ampio cappello abbinato, mentre la futura suocera vestiva pantaloni e giacca di lino bianco con uno scialle celeste ricamato in blu, mentre i capelli li portava raccolti in uno chignon decorato da fermagli e fiori dello stesso colore dello scialle.
“Volevamo venire a vedere come stavi... Eccitato??” chiese la signora Hudson con una voce ancora più stridula del solito, in quanto preda all’entusiasmo.
“Beh, di certo molto molto agitato...” disse grattandosi la testa imbarazzato.
La signora Hudson fu la prima ad essere messa al corrente del fidanzamento: c’è chi dice di aver sentito le sue urla di gioia e trionfo sino a Piccadilly Circus e da quel giorno in avanti ripeté talmente tanti ‘io lo avevo detto subito’ che giunti a 647 il tredicesimo giorno, Sherlock smise di contarli.
“Ma non è dolcissimo il mio futuro genero??” disse la madre di Sherlock pizzicando una guancia dell’uomo, la signora Hudson rispose annuendo energicamente. La signora Holmes gli accarezzò il viso: “Già... Il più dolce... Il mio bambino non poteva finire in mani migliori...” lo guardava intensamente e gli si avvicinò poco: “Tu lo sai che sei tutto per lui, non è vero?” John annuì. “Te lo affido, prenditi cura di lui.” Nonostante tutto, John fu sorpreso da quelle parole; prese le mani della signora con entrambe le sue e le strinse forte guardandola negli occhi azzurri:
“Per sempre signora, promesso.” le sorrise e lei si commosse, John rise e le accarezzò le spalle. Anche la signora Hudson si era commossa:
“Che bel quadretto... Oggi diventerete una famiglia...”
“Forza signore! Non è questo il momento per le lacrime...” cercò di rincuorarle “Signora Hudson, grazie ancora per aver accettato di accompagnarmi all’altare...” la signora Hudson scosse la testa avvicinandosi a lui:
“Sciocchezze, sciocchezze... Sai che sei come un figlio per me John.” lui annuì “Vorrei solo che la tua mamma fosse qui per godersi il momento. Sarebbe fiera di te...”
“Oh, io non ne sarei così sicuro se fossi in lei...” John si incupì “Ma sì, avrei voluto che anche lei fosse qui oggi...” calò qualche istante di silenzio che furono poi interrotti dalla signora Holmes:
“Ho visto che tuo padre alla fine è riuscito a venire: che bella notizia, non è vero?”
“Già, è davvero incredibile... Hanno già provveduto a presentarvi?”
“Oh sì, uomo incredibilmente affascinante... Gli somigli molto.” John annuì. Si rivolse poi alla signora Hudson:
“Le hanno detto tra quanto dobbiamo scendere?”
“Il detective Lestrade non fa che correre su e giù per i corridoi... Credo che ormai manchi poco...”
“Uh, ha poco da agitarsi!” interruppe la signora Holmes “Trattandosi di mio figlio, sono certa che i ritardi non mancheranno.” John sorrise:
“Non si può certo dire che io sia stato puntuale...” disse indicandosi. John infatti indossava ancora soltanto i pantaloni, una canotta e le scarpe.
“Oh sì! Ora ti lasciamo, così puoi finire di prepararti.” disse la signora Hudson prendendo sotto braccio la signora Holmes e trascinandola verso l’uscita: “Noi vi aspetteremo all'entrata della sala, a dopo!” e così uscirono dalla stanza e John richiuse la porta alle loro spalle.
 
 
 
Dopo mezz’ora che l’ispettore se n’era andato, qualcuno bussò nuovamente alla porta.
“Entra Lestrade.” rispose Sherlock, ma un’altra voce rispose all’invito:
“Sono Mike, posso?” entrò. Sherlock stava cercando di annodarsi la cravatta guardandosi allo specchio. Vedendolo in difficoltà, Mike si fece avanti “Aspetta, ti aiuto io.” gli si mise davanti e delicatamente prese le due parti della cravatta che gli pendevano dalle spalle per annodargliela decentemente. “Nervoso?” domandò.
“Sciocchezze. E’ che io non indosso le cravatte.” rispose con tono altezzoso.
“Come no, come no...” rise Mike. “Lestrade mi manda in sua vece a controllare che tu non sia ancora in vestaglia e a scortarti di sotto quando sarai pronto. Lui si sta occupando di accogliere gli invitati. Sappi che sei in ritardo...” Sherlock sorrise:
“John mi sta già aspettando?” Mike scosse la testa:
“No, è ancora nella sua stanza: torno or ora dall’assicurarmi che sia tutto a posto.”
“Come l’hai visto?” Sherlock tirava leggermente indietro la testa così da non ostacolare i gesti di Mike che non aveva ancora finito di sistemare la cravatta. Si dava il caso che fossero sette giorni che non si vedevano: era stato più che altro per soddisfare il capriccio della signora Hudson che aveva insistito fino a ridurre all’esasperazione entrambi finchè non ottenne il risultato che voleva. ‘Gli sposi devono trascorrere un ultimo periodo separati prima del grande giorno’ diceva ‘Serve a rafforzare il rapporto, a chiarire i dubbi e a rendere ancora più speciale il grande giorno!’. Alla fine di una lunga e snervante negoziazione, giunsero ad un accordo secondo il quale avrebbero trascorso una settimana senza vedersi: Sherlock al 221b e John ospite del proprio testimone di nozze. Si erano mancati molto e, giunti a quel punto, Sherlock smaniava all’idea di rivedere il suo John in quel giorno tanto speciale, e il dolo pensiero di lui in una stanza di quell’edificio che si stava preparando al grande momento gli dava alla testa. La Hudson, come sempre, aveva avuto ragione.
“Nervoso, certo, ma tanto felice. Gli stai facendo un regalo immenso, lo sai?”
“No Mike, lui lo sta facendo a me... Lui lo sta facendo a me.”

(Flashback)

“Io davvero non saprei chi scegliere...”
“Immagino che dovrebbe essere il tuo migliore amico...”
“Sherlock, sei tu il mio migliore amico...”
“Ok... Infondo è sufficiente che sia un uomo del quale ti fidi, no?”
“Avevo pensato a Lestrade... Più che altro perchè è stato il primo a sapere di noi... Poi è un caro amico ed è parte fondamentale del nostro lavoro e della nostra vita, ma forse sarebbe più adatto come tuo testimone visto che vi conoscete da tutto questo tempo...”
“Io so perfettamente chi vorrei come testimone, e non è Lestrade.”
 
Sherlock lo aspettò fuori dal St Barth una volta concluso l’orario di lezione, seduto su una panchina nei pressi della sua auto in modo tale da essere certo di vederlo quando sarebbe uscito. Quando lo vide arrivare, si alzò: Mike indossava il solito trench beige e portava la sua ventiquattrore in pelle come ogni giorno. Gli andò in contro. Quando Mike lo vide, lo salutò sorridendo e agitando il braccio, come sempre:
“Holmes! Quanto tempo!” Sherlock lo raggiunse e gli strinse la mano.
“Salve Stamphord, come stai?”
“Tutto bene grazie, solite storie con gli studenti... Vita noiosa la mia... Tu piuttosto...” disse indicando l’anello alla mano destra “Vedo che hai notizie delle quali mettermi al corrente!”
“Eeh già...” rispose Sherlock. Mike rise e gli tirò tre veloci e sonore pacche sulla spalla dicendo:
“Congratulazioni amico mio, congratulazioni...”
“Grazie... Senti, ce l’hai un minuto?”
“Certo, dimmi...”
“Ebbene... Vorresti farmi da testimone?” Mike sgranò gli occhi stupito: “So che è una richiesta non del tutto consueta, ma sei un caro amico di entrambi e... Insomma, mi sono ritrovato molto spesso a pensare che se non fosse stato per te, io e John non ci saremmo mai incontrati. Quello che siamo, quello che saremo, lo dobbiamo soltanto a te... Perciò-”
“Certo che ti faccio da testimone Sherlock.” sorrise “Molto volentieri, non servono troppe spiegazioni: se hai scelto me, mi sento onorato e accetto con gioia.” Sherlock rimase piacevolmente sorpreso e ricambiò a sua volta sorridendo.
“In effetti Mike... Mi rendo conto solo ora di non averti mai ringraziato come si deve in tutto questo tempo.” Sherlock lo guardò negli occhi “Con John, io ho scoperto una felicità nuova che mi ha letteralmente cambiato la vita, ed è merito tuo.”
“Sherlock Holmes, stai dicendo cose assurde. Mi attribuisci un merito che non ho: all’epoca pensai solo che sareste potuti andare d’accorto... Anche se qualcosa mi diceva che in qualche modo avevate bisogno l’uno dell’altro. Non avrei saputo dire cosa con certezza, ma aveva dannatamente ragione... Non è così?” Sherlock rise:
“Illogico e assurdo, ma senza dubbio è così.” sospirò “Comunque sposerò l’uomo che mi hai presentato tu e perciò non posso che sentirmi in debito con te: fammi sapere se mai avrò l’occasione di estinguerlo.”
“Essere tuo testimone sarà una ricompensa più che valida.” Mike lo abbracciò: Sherlock si sentì a disagio per un attimo, ma anche lui desiderava tanto abbracciare Mike e dirgli ancora mille volte grazie e grazie ancora. Si separarono “Fammi sapere allora...”
“Non mancherò, a rivederci Mike!”
“Ciao Sherlock.”


Mike infilò il fiore nell’occhiello della giacca:
“Pronto?”gli domandò. Sherlock rispose annuendo. “Alla battaglia!” esclamò il testimone, ma Sherlock lo interruppe alzando un dito e puntualizzando:
“Non è una battaglia, Mike, sto andando a sposarmi.” e così dicendo gli fece un occhiolino uscendo per primo dalla stanza. Mike rise e uscì dopo di lui.
 
I due percorsero un corridoio illuminato da varie finestre che davano sullo splendido giardino: entrambi poterono notare che fuori era una splendida giornata di prima primavera e il verde dominava i campi che circondavano quel casolare che avevano scelto per le nozze. Prima di accorgersene, giunsero alle scale. Scesero. Ad ogni scalino, la voglia di rivedere finalmente John e l’ansia crescevano esponenzialmente combattendo una cruenta battaglia nello stomaco di Sherlock e nella sua mente. Appena girato l’angolo, i suoi occhi lo cercarono immediatamente; e immediatamente lo trovarono. Sorrise. Era splendido: non lo aveva mai visto in divisa prima d’ora. Pantaloni neri con una banda rossa l’ungo il lato esterno di ogni gamba, la giubba anch’essa nera portava tre medaglie variopinte appuntate sul cuore. La decoravano dei bottoni in oro, così come il grado di capitano sulle spalle e la fibbia rotonda della cintura bianca dalla quale pendeva una spada fine dall’elsa dorata. Bianchi erano anche i guanti: quello destro stringeva il berretto morbido dello stesso colore della divisa, l’altro guanto rivelò per un istante lo spasmo che aveva ogni tanto quando era davvero agitato. Ben pettinato, ben rasato, John sfoggiava uno splendido sorriso mentre conversava con Lestrade e la signora Hudson in un angolo dell’atrio. Finalmente anche lui si accorse di Sherlock e il suo viso si illuminò: smise di parlare e si avvicinò lentamente a lui sorridendo. Il mondo intorno a loro sembrò sparire.
“Sei splendido...” commentò John un attimo prima di dargli un bacio fugace. Si presero permano e, ad occhi chiusi, si sorrisero fronte contro fronte. Intanto Lestrade e le due accompagnatrici decisero di spostarsi per lasciare alla coppia ritrovata qualche momento di privacy.
“Ma come fai?” sussurrò Sherlock.
“Mh?”
“Mi hai fatto innamorare ancora un po’ di più di te.” mormorò “Un minuto fa non lo avrei creduto fisicamente possibile...” si abbracciarono “Mi sei mancato tantissimo...”
Lestrade fu costretto ad interromperli bussando contro lo stipite della porta:
“Ragazzi, se siete pronti, è ora di cominciare...” entrambi gli annuirono, lui sorrise e si allontanò nuovamente. Sherlock guardò John negli occhi:
“Lo facciamo davvero? Ci sposiamo?” John sorrise ancora:
“Cazzo sì!” Sherlock rise e rispose:
“Forza allora...” ma prima di avvicinarsi all’ingresso della grande sala, là dove li stavano aspettando soltanto più la madre e la padrona di casa che li avrebbero accompagnati attraverso alla navata, Sherlock gli sussurrò nell’orecchio: “Per la cronaca, sei uno schianto in divisa.” e, mentre lui si fece tutto il serio e l’indifferente, John tentò di soffocare una risata.
 
Sotto esplicita e più volte ribadita richiesta di Sherlock, la cerimonia fu breve e sobria.
La sala era stata arredata da panche in legno scuro decorate da composizioni floreali molto semplici con tanto verde e fiorellini bianchi.
Sherlock e la signora Holmes, l’uno sottobraccio all’altra, precedettero John e la signora Hudson nell’attraversare la navata, accompagnati da un quartetto d’archi formato da conoscenti di Sherlock molto lieti di animare la funzione. Lungo la marcia, i futuri sposi trovarono i propri padri, Mycroft e Harry, Molly, Angelo, Sally, il maggiore Sholto e tutti coloro i quali Sherlock e John amavano, seduti nella sala, accorsi con gioia per assistere all’evento. Alla fine della navata li attendeva un’officiante e i due testimoni.
Il momento del ‘Sì, lo voglio’ e lo scambio degli anelli (prontamente porsi da Lestrade, molto fiero del suo ruolo) arrivò piutosto in fretta, l’officiante dichiarò dunque i due uomini uniti in matrimonio e li invitò poi a baciarsi davanti ai loro cari.
 
Il ricevimento si tenne in una grande sala attigua a quella dove si era svolta la cerimonia: una parte di essa era stata adibita alla pista da ballo mentre il resto era stato arredato da tavoli rotondi con le sedie rivolte al fondo del salone dove era stata preparata una tavola più lunga per gli sposi, i loro genitori e i testimoni. Una volta terminata la cena, fu il momento dei discorsi; entrambi i testimoni parlarono poco e allo scopo di divertire gli invitati parlando del particolare rapporto che li legava ai novelli sposi e facendo non poche referenze ai due a dir poco inconsueti addii al celibato che avevano organizzato. Sia Lestrade che Stamphord ricordarono qualche aneddoto divertente su John e Sherlock e terminarono il loro discorso con i loro migliori auguri, un bel brindisi ai novelli sposi e conseguente applauso da parte degli invitati. Sherlock e John, come tutti, ascoltavano commossi i loro amici tenendosi stretti per mano e ridendo alle battute.
Passò diverso tempo prima che Sherlock si alzasse per ottenere l’attenzione di tutti: John rimase esterrefatto dal vederlo in procinto di fare un discorso... Davvero non se lo aspettava. Quando tutti ebbero fatto silenzio, Sherlock si schiarì la voce e prese a parlare:
“Non vi nascondo che ho fatto molta fatica a scrivere questo discorso. E, se sono riuscito a giungerne a capo, devo ringraziare l’ispettore Lestrade che da amico leale si è precipitato a casa per aiutarmi a farlo. Portandosi dietro elicotteri e forze speciali, tra l’altro... Scusa ancora per il malinteso.” Lestrade rise ancora al ricordo della pessima figura che aveva fatto nello smuovere le squadre speciali credendo che Sherlock gli stesse chiedendo aiuto perchè in grave pericolo; le urla dei suoi superiori ancora risuonavano nella sua testa. Sherlock riprese: “Immagino che nessuno di voi si sorprenderà nel sentirmi dire che, da quando ho accettato la proposta di matrimonio di John, non ho fatto altro che associare quella che sarebbe stata la giornata  di oggi al tedio e ad ogni sorta di sofferenza fisica e mentale.” un velo di perplessità e imbarazzo si diffuse tra gli spettatori “Insomma, mi conoscete: essere costretto a dimostrare affetto a parenti di entrambe le parti, amici e persone che non volevo rivedere, facce sorridenti ovunque, centinaia e centinaia di ipocrite frasi di complimenti e congratulazioni prefabbricate con annessi baci e abbracci e pacche sulle spalle alle quali dover rispondere cortesemente, fingere di non essere annoiato e infastidito,   sopportare il rumore, la musica, la festa...” Sherlock capì dagli sguardi spauriti del pubblico che stava divagando e esagerando, perciò si fermò e riprese dopo qualche secondo guardando verso il basso, malinconico: “Quello che cerco di dire è che... Io sono il più sgradevole e maleducato degli ignoranti, lo stronzo più irritante che si possa avere la sfortuna di incontrare. E mai mi sarei potuto immaginare di poter essere un giorno scelto da qualcuno. E di certo non dall’essere umano più coraggioso, gentile e saggio che abbia mai avuto la fortuna di conoscere.” a tale affermazione, ognuno dei presenti fu colto dalla commozione ad occhi umidi e sgranati. John, tremante, non riusciva a credere a ciò che vedeva e sentiva. Sherlock sospirò e guardò di nuovo verso al pubblico e, sorridendo, riprese nuovamente: “Gavin mi ha consigliato di cercare spunti nel blog di John per ravvivare il discorso...” disse estraendo dalla tasca della giacca il proprio cellulare: “Questa è la documentazione del nostro tempo insieme. Certo, John tende a romanticizzare un po’ tutto, ma, lo sapete, lui è un tipo romantico. Abbiamo avuto casi strani, casi frustranti, commoventi... E, spesso, l’elemento più interessante di essi era John che, mentre io provavo a risolvere un omicidio, salvava una vita. Ci sono misteri che vale la pena risolvere e storie che vale la pena di raccontare... E l’uomo migliore e più coraggioso che io conosca è, come se non bastasse, davvero capace... Tranne che per pianificare matrimoni e tovaglioli, con quelli è negato.” gli invitati, John in particolare, risero di gusto, ma Sherlock non ne comprese la ragione e proseguì. “Io posso capire la scena di un crimine come lui può capire un essere umano e a buon intenditor poche parole: se vi servissero i nostri servizi, io risolverò il vostro omicidio, ma servirà John per salvarvi la vita. Credetemi, io lo so: mi ha salvato così tante volte e in così tanti modi...” si fermò qualche istante, preda dei ricordi. “Questo blog è la storia di due uomini e le loro sinceramente ridicole avventure di omicidi, misteri e confusione... Ma, da ora in poi, ci sarà una nuova storia. Un’avventura più grande...” si rivolse a John e lo guardò intensamente dall’alto verso al basso: “John, io sono un uomo assurdo.” John annuì energicamente in tono ironico, ma intanto cercava di nascondere le lacrime che ormai riusciva a stento a trattenere “Mi riscattano solo il calore e la costanza della tua amicizia. John, tu hai patito guerre, ferite e tragiche perdite, perciò oggi sappi che sei seduto accanto all’uomo che hai salvato e hai reso tuo marito, in breve la persona che più ti ama a questo mondo e voglio prometterti che non ti deluderò mai e ho una vita per dimostrartelo.” Fu solo detto questo che Sherlock si rese conto che aveva praticamente ridotto in lacrime tutti gli invitati; in particolare la signora Hudson e sua madre singhiozzavano con i fazzoletti al naso. Persino Mycroft, l’uomo di ghiaccio, nel vedere il suo fratellino aprire il suo cuore in quel modo, si commosse (certo nessuno lo notò). Ormai John si era arreso e lasciò scorrere le lacrime lungo il viso, senza curarsi di essere in pubblico: sorrideva e piangeva di gioia e commozione e, forse solo in quel momento, si rese davvero conto di essere davvero finalmente suo marito. Ormai erano una cosa sola, non soltanto per loro stessi, ma davanti alla legge e davanti ai loro cari. Sherlock intanto non riusciva a comprendere la reazione di coloro che lo circondavano e, spaesato, si abbassò verso John per chiedergli a bassa voce: “Perchè-? Ho forse detto qualcosa di sbagliato?” John rise davanti alla sua innocenza e alzandosi rispose:
“No.” si asciugò una lacrima con il polso “No, vieni qui.” gli disse aprendo le braccia e lo abbracciò tremante. Pretendere che Sherlock partecipasse attivamente a quell’abbraccio davanti a tutti e dopo tutto quello che aveva detto, sarebbe stato davvero troppo e John lo sapeva: si limitò ad abbracciarlo con forza e gli disse nell’orecchio tra i sospiri “Grazie, grazie Sherlock... Ti amo, ti amo tantissimo..”
 
Nell’assistere all’intera scena, Mycroft aveva mantenuto una posa ieratica ed impassibile, ma i suoi occhi, se osservati con attenzione, avrebbero rivelato la sua terribile afflizione.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma ciò che più premeva a Mycroft era proteggere suo fratello; era una missione che a poco a poco si era insinuata nel suo cuore sin dai primi giorni di vita del piccolo Will (così lo chiamavano un tempo) e, da allora, aveva sempre fatto quanto in suo potere per tenerlo al sicuro. Nell’udire quel discorso, Mycroft non poteva fare a meno di ricordare tutte quelle volte che aveva brutalmente fallito nella sua segreta missione; primeggiava fra tutte quella volta in cui Sherlock era fuggito per poi essere ritrovato sull’orlo di un’overdose nonchè sieropositivo: i suoi sforzi nel cercare di evitare che accadesse una cosa del genere erano stati del tutto vani e, da allora, oltre all’essere dipendente da uno stile di vita che non di rado lo metteva in pericolo, Sherlock aveva una nuova incombente minaccia da fronteggiare, davanti alla quale il suo ricco e politicamente fondamentale fratellone non poteva assolutamente nulla. Ecco, nel vedere Sherlock aprire il suo cuore, esporsi terribilmente a quel modo, Mycroft si sentì di nuovo impotente e inutile come quella volta in ospedale: era davvero così emotivamente coinvolto nella relazione con John? Non lo aveva mai realizzato pienamente. Questo era grave, molto grave. Sherlock era così felice in quel momento, seduto accanto all’uomo che aveva sposato, ma anche solo pensare all’ipotesi che quella felicità sarebbe potuta costare atroci sofferenze al suo fratellino lo atterrava. Come poteva essere così ingenuo da non rendersene conto?? Se Sherlock fosse rimasto ferito ancora da questa vita, non ci sarebbe stata più alcuna speranza per lui.
A tale pensiero Mycroft rabbrividì.
Si rese conto di non poter e voler sopportare oltre quella situazione. Dunque si alzò, prese il cappotto e, senza dire una parola, si allontanò dalla sala.
John, mentre chiacchierava con dei colleghi, con la coda dell’occhio lo vide allontanarsi: subito interruppe la conversazione e gli corse dietro. Una volta uscito nel cortile, lo cercò nel buio della sera e lo trovò mentre si avvicinava alla propria auto. Lo chiamò:
“Mycroft!” l’uomo che gli dava le spalle si fermò e così fece quindi John a circa sei o sette metri di distanza da lui “Non vorrà privarmi del gusto di chiamarla ‘cognatino’ almeno un paio di volte prima di andarsene.” Mycroft non si voltò, ma rispose:
“John, sia gentile, porga i miei saluti a mio fratello e ai miei genitori. Io devo lasciare la festa.”
“E’ davvero ciò che vuole?” John intanto si era avvicinato diversi passi. Mycroft non rispose e aprì la portiera della macchina e si sedette sul sedile anteriore. Poi disse:
“Sa John, la dottoressa Tietjens è una persona che si sta occupando di mio fratello e lo fa nel modo migliore che ritiene, non ne dubito, ma se commettesse un errore sarebbe subito rimossa dal suo incarico e sostituita.” John lo guardò confuso “Mi auguro, John, che lei si renda conto che lo stesso non può valere per lei: lei non è mai stato sostituibile, e ora lo è meno che mai. Sherlock ha scelto lei e lei solo per condividere la sua vita, la sua malattia; lui si fida ciecamente di lei e a questo non c’è rimedio.” si fermò qualche istante “Non lo deluda. Mai. Non tradisca la sua fiducia. Mi giuri che si prenderà cura di mio fratello.” John, all’udire tali parole, rimase di stucco: erano un ordine, una minaccia e allo stesso tempo una supplica disperata. Si ricompose e rispose:
“Quello di oggi non è stato un mio capriccio né tanto meno una messa in scena, sia ben chiaro: amo suo fratello e resterò al suo fianco fino alla fine dei miei giorni qualunque cosa accada. E no, non lo deluderò mai.” Mycroft annuì soddisfatto e fece per chiudere la portiera dell’auto, ma John con uno scatto fu addosso alla macchina e bloccò la portiera a cinque centimetri dal chiudersi con un rapido gesto secco e, guardandolo dritto negli occhi, con un ringhio aggiunse furente: “E questa è l’ultima volta che mette in dubbio la mia totale devozione verso Sherlock.” e, solo una volta detto questo, lasciò che Mycroft chiudesse la porta. Il cognato accese dunque l’auto con atteggiamento noncurante e, senza rivolgere a John ulteriori sguardi, si allontanò in direzione della capitale.
 
 
Le danze furono inaugurate dal primo ballo degli sposi: un valzer composto da Sherlock appositamente per l’occasione, eseguito dallo stesso quartetto d’archi che aveva accompagnato l’intera giornata con melodie morbide e serene. I novelli sposi danzarono divinamente davanti ai loro ospiti:
“Sei felice?” domandò Sherlock mentre danzavano
“A dir così, pare che ci siamo sposati solo per fare un piacere a me.”
“Non ho affatto insinuato questo. Ti ho chiesto se sei felice.” John rise:
“Certo. Certo che sono felice Sherlock.” John appoggiò il viso al petto di Sherlock senza smettere di ballare “Più che mai in vita mia.” Sherlock sorrise “E tu, sei felice?” Sherlock inclinò il viso per baciargli la testa sulla linea in cui i capelli incontrano il viso, qualche centimetro sopra all’orecchio e così rispose:
“Dannatamente felice.” Alla fine del valzer si baciarono ancora tra gli applausi degli invitati che a loro volta cominciarono a ballare. “A proposito, chi ti ha insegnato a ballare così bene?” John gli regalò un mezzo sorriso:
“Sei stato tu.”
“Quale miglior insegnante.”
“Oh, sta zitto...”
“Oppure cosa?” 
“Oppure ti sposo.” al chè Sherlock rispose con una sonora risata, e anche John rise di gusto..

Fu presto chiaro che Sherlock non era più in grado di tollerare i ritmi della serata: la giornata intensa lo aveva affaticato molto (così come tutta la settimana precedente) e, anche se era ancora molto presto, si sentiva terribilmente stanco. Non disse nulla al riguardo, non volendo guastare la festa a John, ma lo sguardo attento del medico non ebbe bisogno di molto tempo per accorgersene da solo. Con sguardo dolce gli consigliò di sedersi e di lasciar perdere gli ospiti per un po’, ma nel vedere che questo non era sufficiente, dopo qualche minuto gli domandò se forse non preferiva andare a distendersi nella sua camera al primo piano. Sherlock non voleva lasciare solo John, non in qualle serata importante, ma davvero ormai non riusciva a nascondere la sua debolezza. John quindi insistette e lo accompagnò fino in cima alle scale, dicendogli che doveva rimanere ancora un po’ con gli invitati e sistemare ancora un paio di cose con il personale prima di congedarsi a nome di entrambi e raggiungerlo in camera più tardi: di certo Lestrade era in grado di gestire la festa fino al suo termine e mandare gli ospiti a casa a poco a poco anche da solo. Così fecero e circa mezz’ora dopo, John raggiunse Sherlock: lo trovò disteso sul letto, addormentato sopra alle coperte, con ancora  pantaloni sbottonati addosso. John non accese nessuna luce e nel cambiarsi fece più piano possibile e con delicatezza si coricò accanto a lui. Sherlock si destò nell’avvertire il materasso muoversi e, senza aprire gli occhi disse:
“Che pessima prima notte di nozze... Mi dispiace...”
“Shh, shh... Dormi Sherlock, abbiamo una vita davanti.” rispose John accoccolandosi a lui: infondo anche lui era stanco morto giunti a quel punto.
“Buonanotte marito...”
 

 


[Buona sera carissimi! Spero che vi sia piaciuto questo nuovo capitolo di Positive.. E’ decisamente diverso da quelli che l’hanno preceduto e che lo succederanno: mi sono lasciata prendere la mano dal fluff (prima volta in vita mia! L’ultima per questa ff) anche se non faceva affatto parte del mio piano originale, ma è andata così u.u Confesso che mi sono persa nello scrivere del matrimonio di John e Sherlock perchè PORCA MISERIA almeno nella mia testa volevo vederlo almeno una volta, eccheccavolo. Non è un caso che io abbia scelto di citare testualmente il secondo episodio della terza stagione, così come non è un caso che il capitolo venga pubblicato in una settimana tutta dedicata ai diritti degli omosessuali, soprattutto legati al matrimonio. Forse ho esagerato con le sdolcinatezze, ma non fateci l’abitudine ;) Intanto siamo andati avanti di altri 6 mesi... Siete curiosi di vedere come proseguirà la nostra storia??
Io, come sempre, vi invito a recensirmi in quanto per me è di fondamentale importanza la vostra opinione e, durante il (spero breve) periodo di attesa del prossimo capitolo, a leggere qualcun’altra delle mie ff e a fornirmi la vostra opinione anche su quelle! Io vi ringrazio infinitamente dal profondo del cuore per aver letto fino a qui <3 Al prossimo capitolo! Un saluto, _SalvamiDaiMostri]
 

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Capitolo 9
*** Carne e fiato ***


Di ritorno dall’ambulatorio, John trovò Sherlock disteso a pancia in su sul pavimento della sala, a petto nudo, che indossava solamente i pantaloni azzurri e grigi del pigiama. Il salotto era illuminato dalle ultime luci del tramonto e Sherlock ne appariva ridipinto; aveva una gamba distesa e l’altra leggermente flessa in verticale, le braccia piegate verso l’alto che sostenevano un libro che era intento a leggere a meno di una spanna dal naso. In effetti Sherlock era letteralmente circondato da decine di libri impilati o aperti o palesemente gettati in aria e rovinosamente caduti a terra: John rimase piuttosto sconcertato nel constatare che tutti quei libri, compreso quello che stava leggendo, erano libri di cucina e ricettari.
“Sempre lieto di trovare il salone in disordine.” salutò John chiudendo la porta di casa dietro di sé.
“Sempre lieto di disordinarlo.” salutò Sherlock senza muoversi minimamente.
“Che stai facendo?” domandò John camminando perplesso verso di lui.
“Traccio un profilo.” rispose l’altro, John si avvicinò ancora.
“E lo fai leggendo...” appoggiò l’indice sulla copertina del libro che Sherlock leggeva e lesse “L’aglio nella cucina irlandese?”
“Esattamente. Caso a dir poco singolare.” confermò.
“E lo fai... Sdraiato sul pavimento.”
“Acuto osservatore, come sempre, John.” Sherlock non distoglieva lo sguardo dalle pagine illustrate.
“Perchè sei sul pavimento, Sherlock?” John pose la domanda in tono seccato, ma non perchè quella situazione lo stesse stufando: faceva parte di una sorta di rito tutto loro nel quale Sherlock aveva il ruolo dell’uomo infantile e imprevedibile e lui invece assumeva quello dell’adulto severo e concreto che rimaneva seccato nel vedere il salone in disordine e suo marito dargli risposte sciocche. Era una loro danza, l’equilibrio che teneva in piedi la loro vita insieme nella quotidianità. In realtà John adorava che Sherlock riuscisse del tutto inconsapevolmente a sorprenderlo ogni giorno con una follia nuova, amava terribilmente che si comportasse come un ragazzino senza regole, e amava corrucciarsi e rimproverarlo solo un po’: tale pensiero gli balenò nella mente per un singolo istante; avrebbe sorriso, ma non faceva parte del ruolo.
“Avevo intenzione di avviare l’intero processo di ricerca coricato sul divano, ma, al mio risveglio, era scomparso. Così come il tappeto. Mistero circa il quale immagino tu sappia qualcosa in più di me.”
“L’hai notato solo oggi? Sono tre giorni che non ci sono.” Sherlock si abbassò il libro sul petto e, alzando un sopracciglio, domandò perplesso:
“Davvero?”
“Davvero.” disse John annuendo; prese a togliersi la giacca.
“E perchè mai?”
“Te l’ho detto chiaro e tondo l’altro giorno: li ho mandati a far pulire e disinfettare da una compagnia specializzata. Come ti ho già detto, nelle tue condizioni non dovresti ficcare il naso nello sporco e, visto che su quel divano ci passi le giornate e Dio solo sa cosa c’era su quel tappeto, mi è sembrato necessario fare qualcosa al riguardo.” John ripose la giacca sull’attaccapanni.
“Giusto.” concluse l’altro. John fece quindi per andarsi a sedere sulla sua poltrona:
“Ti siedi un po’ con me?” Sherlock allora posò a terra il libro che stava leggendo, aperto sulla prima pagina del capitolo ‘Sformati e pasticci’, per andarsi a sedere a cavalcioni su John e abbracciarlo adagiando il mento sulla spalla sinistra del marito. “Com’è andata oggi? Hai dormito un po’?” John faceva scorrere il proprio naso sul collo e tra i capelli di Sherlock per inspirarne il suo odore e accarezzarlo leggermente. Sherlock scosse la testa:
“Nope, non c’è stato verso...”
“Oggi allora proviamo ad andare a dormire presto, ok?” John gli stampò un bacetto sul collo, due dita prima della nuca. Sherlock annuì. “Dimmi del caso, sono curioso...” sussurrò John appoggiando la testa a quella di Sherlock in un gesto di estrema tenerezza.
“Sono state ritrovate cinque vittime in città nelle ultime due settimane... Sono state uccise in modi piuttosto diversi, ma erano tutte donne sopra i settant’anni  e assieme al corpo è stato rinvenuto un libro di cucina... Perciò anche Scotland Yard è riuscita a dedurre che si trattava di un unico serial killer. Sono già diverse ore che consulto i libri ritrovati, ma non sono giunto ad alcuna conclusione rilevante...”
“Strano caso davvero...”
“Lo intitolerai ‘Le nonnine appassionate di cucina morte’.” John rise:
“Ne dubito. Preparo cena, hai fame?”
“No, John...” Sherlock si tirò leggermente indietro così da poter guardare John in viso. Il marito gli spostò i riccioli dalla fronte con due dita e gli accarezzò la guancia con aria preoccupata; sospirò:
“Sono tre giorni che non hai appetito, due che non chiudi occhio. Se i sintomi sono tornati, significa che le medicine non stanno più facendo effetto... Dobbiamo dirlo alla Tietjens...” Sherlock abbassò lo sguardo e annuì serio. John allora lo chiamò con un sussurro: “Hey...” Sherlock tornò quindi a guardarlo negli occhi. “La sai una cosa?” domandò il biondo; Sherlock alzò le sopracciglia con aria interrogativa, dunque John continuò: “Mio marito è molto più bello del tuo.” rise e con lui anche Sherlock che, abbassandosi su di lui, rispose:
“Evidentemente non hai mai incontrato mio marito...” e lo baciò teneramente ridendo ancora.
John assaporava la bocca di Sherlock arrampicando le mani sulla schiena di lui, quando all’improvviso il cellulare del moro squillò: i due si fermarono e Sherlock lesse il messaggio.
“E’ Lestrade... Dice che ci sono sviluppi sul caso... Vieni con me?”
“Alla centrale? Con questo freddo? Sherlock, non penso sia una buona idea che tu vada... Sta notte ti ho anche sentito tossire diverse volte...” Sherlock lo guardò infastidito:
“E’ un caso interessante e voglio andarci: chissà se me ne ricapiterà un altro così!” a quelle parole John ebbe un sussulto.
 
«Oh... Non dire così, Sherlock... Non dire così...»
 
Vinto da tale orribile pensiero, John non potè fare a meno di cedere e concedere quindi a Sherlock quello svago. Quantomeno, pensò, lavorando la sera, probabilmente si sarebbe stancato e sarebbe riuscito a dormire bene una volta rincasati.
“E va bene, va bene...” rispose in un sospiro. Sherlock saltò giù dalla poltrona e corse a vestirsi “Ma dovrai coprirti bene!” aggiunse il medico.
 


Durante il viaggio di ritorno in taxi, Sherlock tossì ancora diverse volte.
“Dannazione Sherlock... A volte ti comporti proprio come un bambino!” Sherlock fece finta di non curarsi di ciò che gli diceva “Certo che, se sapesse, Lestrade non ti avrebbe convocato a quest’ora per così poco... Pensi di metterlo al corrente prima o poi della tua condizione?”
“Se accetto o meno di raggiungerlo, la responsabilità è mia, non di Lestrade.” John annuì in quanto Sherlock aveva effettivamente ragione.
“Ma si tratta comunque di una questione di rispetto nei suoi confronti... E’ stato nostro testimone di nozze accidenti...” Sherlock non rispose “E, come lui, anche Molly e la Hudson dovrebbero esserne messe al corrente...” Sherlock continuava a guardare fuori dal finestrino. Il taxi si fermò davanti al 221b e John pagò il conducente: entrambi scesero. “La Hudson magari potrebbe darmi una mano con le pulizie in casa... Sarebbe di grande aiuto.” Sherlock si voltò di scatto e, con tono serio, freddo e tagliente, rispose:
“La signora Hudson è la nostra padrona di casa, non la governante: non la disturberai perchè venga a farci le pulizzie perchè sia io che te siamo perfettamente in grado di provvedervi da soli e non la disturberai per nessun’altra ragione che riguardi la mia malattia.” John, attonito, non trovò parole per rispondergli e rimase in silenzio qualche secondo. Sherlock sospirò: “Ascolta... Capisco ciò che dici... Loro meritano che io sia sincero con loro... Ma è una cosa che devo fare e farò io ok? E a tempo debito...” John annuì.
“Scusami Sherlock...” Sherlock tirò due colpi di tosse, si schiarì la gola e prese sottobraccio suo marito:
“Rientriamo forza, qui fuori si gela...”
 
Mentre John si abbottonava la camicia del pigiama, Sherlock già si sistemava sotto alle coperte.
“Hai sonno? Voglia di dormire?” domandò John avvicinandosi alla propria parte del letto.
“Abbastanza direi... Credo che riuscirò a dormire un po’ questa notte.” rispose. John sorrise sollevato:
“Bene...” Sherlock si girò su un lato verso l’esterno del letto e John lo abbracciò di spalle. “Buonanotte dunque.”
“Buonanotte.”
 
Stavano dormendo da poco quando John avvertì  svariate volte il corpo di Sherlock scuotersi violentemente per i colpi di tosse, sempre di più, sempre più frequenti. Dunque si separò da lui per evitare di essere scosso e di essergli di peso. Sherlock si svegliò poi nel cuore della notte a causa della tosse e per la stessa ragione non riuscì a riaddormentarsi, mentre John, nonostante il rumore e la preoccupazione, era crollato sotto il peso della giornata.
I colpi di tosse divennero sempre più violenti e fastidiosi e cominciarono ad essere dolorosi: non solo gli dolevano i muscoli del ventre a causa delle contrazioni continue, ma anche il petto.
Verso le tre del mattino, Sherlock ebbe una crisi ti tosse peggiore delle precedenti, tanto da far emergere John dal sonno profondo a uno stato di dormiveglia.
Improvvisamente Sherlock gridò:
“CAZZO! JOHN! JOHN! VIA DAL LETTO! SCENDI!”
John, ancora intontito e mezzo addormentato, si mise a sedere contro la testata del letto strofinandosi gli occhi nel buio:
“Cos-?”
“SCENDI HO DETTO!” e con uno spintone lo buttò giù dal letto. John, dopo essersi ripreso dalla botta presa sul pavimento, si alzò per accendere la luce:
“Ma che cazzo ti prende...?” ma appena accese la luce, tutto fu più chiaro: il pigiama di Sherlock era cosparso di macchie di sangue, così come il suo collo, la bocca e le mani che ora coprivano questa quanto più possibile. Coperte, lenzuola, materasso e cuscini erano stati colpiti da diversi schizzi di sangue, soprattutto dal lato di Sherlock. 
 
«Emottisi... Sta tossendo sangue...»
 
“Dimmi che non ne hai addosso!” supplicò Sherlock disperato scuotendo la testa. John si guardò i vestiti sommariamente e non notò nulla:
“No, non ne ho.”
“Controlla! Controlla!” insistette terrorizzato. John obbedì, andò verso la specchiera e si osservò accuratamente il viso e il resto del corpo:
“Nessuna traccia, tranquillo.”
“Tranquillo un cazzo!” commentò premendosi con rabbia le mani, una sull’altra, alla bocca. John fece per muoversi in direzione di lui, ma Sherlock lo fermò: “No, no, no, John! Vai a prendere i guanti e la mascherina o non ti avvicinare...”
“Sto andando, sto andando: è tutto in bagno. Vado a prenderli.” pochi secondi dopo si ripresentò protetto come richiesto: “Dai, va a lavarti la faccia che io tolgo la biancheria sporca...” Sherlock, nel vederlo al sicuro da lui, si calmò e solo allora realizzò quanto fosse conciato male. Perciò obbedì e si diresse verso il bagno dove si spogliò dei vestiti sporchi e si lavò.
John agì poi con estrema professionalità e freddezza: in quel momento pensava soltanto a come muoversi nel più efficace dei modi; al dramma ci avrebbe pensato dopo.
Quando Sherlock tornò, il letto era già rifatto e la biancheria sporca del suo sangue infetto era stata chiusa in un sacco della spazzatura nel corridoio. Si appoggiò allo stipite della porta:
“Cristo santo...” si porto una mano alla fronte e affondò le dita tra i ricci sudati tirandoli poco verso il basso. “Stavolta, stavolta... Con tutte le volte che ho tossito... Me ne sono accorto troppo tardi che sputavo sangue! Chissà da quanto-??” sgranò gli occhi e portò anche l’altra mano alla testa: “Oddio John, e se te n’è entrato in bocca??” Sherlock, preda del panico, si lasciò cadere a terra scivolando contro lo stipite, con le mani nei capelli, le lacrime agli occhi e una smorfia di orrore disegnata sulla bocca. John gli si avvicinò, si inginocchiò a terra e fece per abbracciarlo, ma Sherlock ebbe un sussulto e cercò di sottrarsi a lui con un gemito:
“Sherlock, non avere paura: sono protetto.” allora Sherlock gli si gettò tra le braccia e si aggrappò a lui tremante. John lo abbracciò a sua volta e stringendolo a lui gli accarezzava la schiena: “Farò il test domani stesso, ok? E continuerò a farli regolarmente, come da quando stiamo insieme. Vedrai che non è successo niente...” Sherlock annuì tante volte, come per autoconvincersi delle parole di John. “Avverti dolore al petto?” Sherlock annuì ancora: “Siediti sul letto e calmati, adesso chiamo l’ambulanza. Se ti viene da tossire ancora, usa i fazzoletti che ho messo sul comodino e poi gettali subito nel sacchetto che c’è lì.” Sherlock obbedì.
Dopo aver effettuato la telefonata in salone, John andò in bagno e raccolse da terra il pigiama sporco che Sherlock si era tolto e lo gettò nel sacco insieme alle lenzuola. Tornò quindi da Sherlock,  il quale era seduto sul bordo del letto. John si accovacciò tra le sue gambe e lo guardò dal basso:
“Allora, stanno arrivando. Quello che faranno in ospedale sarà trovare la fonte di questo sangue... Probabilmente si tratta di lesioni all’interno dei polmoni... E poi cercheranno di individuare la causa di tali lesioni. Una cosa però voglio che ce la diciamo adesso io e te prima che chiunque altro arrivi.” Sherlock annuì. “E’ molto probabile che, appena avranno i risultati dei tuoi esami, verranno a dirti che hai contratto l’AIDS. Voglio che tu lo sappia adesso che sei qui, al sicuro, con me.” Sherlock annuì ancora. “Io sono qui, con te, ok? Non me ne vado nemmeno per un secondo, va bene?” John sorrise prendendogli la mano sinistra con la sua, quella con la fede, e la strinse forte: “Sono tuo marito, non possono mandarmi via.” e dicendo questo si sedette accanto a lui sul letto, lo prese tra le braccia egli baciò la fronte cullandolo dolcemente; Sherlock per quei pochi momenti si abbandonò al calore dell’abbraccio dell’uomo che amava, a quel vago oblio provocato dal dondolio, alla dolcezza di John, alla  sua forza, al suo amore. In quel momento non pensò a ciò che gli stava accadendo o a ciò che sarebbe accaduto: sentiva solamente di essere amato e di amare immensamente. E per questo, Sherlock fu eternamente grato a John.
 
All’arrivo dell’ambulanza, la signora Hudson fu svegliata dalle sirene in strada e dall’entrata dei paramedici all’interno dell’edificio. Uscì dal 221a avvolta in una vestaglia gialla e domandò a John, il quale stava salendo le scale, cosa fosse accaduto:
“Si tratta di Sherlock, signora Hudson... Si è sentito male.”
“Oh cielo... Lo portano via?”
“Si, signora Hudson... La chiamo appena so qualcosa.” la signora fece per salire le scale dietro a John, ma lui, a malincuore, si voltò e le chiese per favore di tornare in casa perchè Sherlock preferiva così. Lei ovviamente non capì, ma decise di ascoltare il suo inquilino e di rispettare la volontà di Sherlock.

 

Quando riaprì gli occhi fu accecato dalla luce e dal candore della stanza d’ospedale. Tramortito da antidolorifici e anestetici, Sherlock non riuscì ad avere immediatamente una chiara percezione della realtà attorno a lui e la sua prima reazione fu di puro terrore: si sentiva terribilmente confuso, sentiva la testa girare e dolergli terribilmente e ad ogni suo respiro provava una forte fitta al  fianco destro, qualche centimetro sotto l’ascella. Ma la cosa peggiore era la continua sensazione di soffocamento: riusciva a sentire il morso chiudersi intorno a qualcosa di rigido che gli scendeva in gola e glie la riempiva di dolore. Il panico lo colse e tentò di portarsi la mano alla bocca per cavare via qualunque cosa lo stesse soffocando, ma John fu pronto e gli afferrò il braccio:
 “Hey hey, sei intubato... Non toccare.” gli disse con voce stanca; a quel contatto Sherlock trasalì e si calmò ancora prima di capire ciò che gli era stato detto: lui era lì, il suo John era lì con lui.
 
«John. E’ John. E’ qui, va tutto bene. Grazie, è qui.»
 
Lo vide, poi, seduto al suo capezzale, con i capelli spettinati e i segni del polsino della camicia sulla guancia: aveva vegliato il suo sonno, era stato con lui per tutto quel tempo... Certo, era ceduto e si era assopito addormentandosi sulle proprie braccia conserte, ma doveva essere un sonno molto leggero perchè, al suo primo movimento, era intervento prima che potesse farsi del male. Facendo non poco sforzo, Sherlock si concentrò e colse quello che John gli aveva detto e comprese la fatica a respirare e il forte dolore che provava.
Il marito si alzò e si avvicinò a lui per accarezzargli la testa e baciargli la fronte: “Va tutto bene, va tutto bene... Sono qui...” gli sussurrò sulla pelle. Sherlock chiuse gli occhi e si fece consolare da quel bacio e quelle carezze.
 
«E’ qui, è qui con me. Grazie. Va tutto bene. Grazie.»
 
Quando John si risedette, Sherlock gli prese la mano e cominciò a scrivere con l’indice sul suo palmo:
“T... U... ‘Tu’? Mi chiedi io come sto?” Sherlock annuì. “Risulto ancora negativo, non preoccuparti per me...” Sherlock si sentì immensamente sollevato, come se dalle sue spalle fosse appena stato rimosso un macigno immenso che era stato lì sin da- ... Sin da quanto tempo?
‘Quanto tempo’ scrisse.
“Da quanto sei qui?” Sherlock annuì. John controllò l’orologio al polso: “Stanno per compiersi le quarantasette ore: finalmente hai dormito un po’.” Sherlock fece per riprendere a scrivere,  ma John gli rispose senza bisogno che ponesse la domanda: “Prima di arrivare in ospedale hai perso conoscenza. Una volta qui, ti hanno sottoposto a vari esami... Dai raggi-x sono subito risultate diverse lesioni sulla parete del polmone destro: sei stato quindi sottoposto ad un’operazione chirurgica per suturare le ferite. Tranquillo, è andata a buon fine: ogni lesione è stata riparata e per ora non accennano a formarsene ulteriori. Sei intubato solamente per facilitare la respirazione mentre eri tenuto in coma farmacologico, credo che di qui a poco verranno a togliertelo.” John sospirò e improvvisamente Sherlock gli strinse la mano e, guardandolo intensamente negli occhi in un misto di paura e rassegnazione, scrisse:
‘AIDS?’ John abbassò lo sguardo e senza proferire parola annuì piano.
Sherlock, senza abbandonare la presa della mano di John, rivolse il suo sguardo in alto, verso il soffitto immacolato della stanza: avrebbe voluto ordinare le idee, riflettere su se stesso, su qualcosa almeno! Ma non riusciva a pensare a nulla.
John ruppe quel silenzio dopo qualche minuto:
“E’ ancora da definirsi la causa delle lesioni.. Hanno già escluso la tubercolosi, eventuali patologie cardiache o epatiche che erano quelle delle quali dovevamo preoccuparci di più.” mentre parlava, John stringeva la sinistra di suo marito con la propria, mentre con la destra continuava ad accarezzargli la fronte e i ricci corvini che la adornavano. “Con ogni probabilità, si tratta di un’infezione delle vie respiratorie che dovremmo poter tenere a bada piuttosto facilmente. La dottoressa Tietjens si occupa di coordinare il tuo caso.” Detto questo, John aveva esaurito le cose da dire.
Se le era ripetute un paio di volte nella testa mentre lo guardava dormire, così indifeso e vulnerabile, cullato dai suoni dei monitor: voleva dirgli tutto e bene, senza dimenticarsi nulla, perchè di certo avrebbe voluto sapere e, sapendo, sarebbe stato più tranquillo. Ma ora aveva esaurito le informazioni. Sherlock giaceva sul lettino e gli stringeva forte la mano, non l’aveva mai lasciata e non avrebbe voluto farlo mai. Lo guardava in silenzio con quei suoi occhi verdi e blu lucidi e supplicanti che mostravano tanta paura e, nel ricambiare il suo sguardo, John si rese conto di non avere più nulla da dirgli ed ebbe paura del proprio silenzio. Aveva ripetuto il suo raccontino come un pappagallo ammaestrato avrebbe saputo fare, e adesso? Si sentì sopraffatto dalla propria inutilità e non riuscì a fare altro che baciare le mani di Sherlock, stringerle a sé e appoggiare la fronte al suo fianco per aggrapparsi a lui e stargli quanto più vicino possibile.


Salve bella gente!
Vi ringrazio infinitamente per aver seguito la mia storia fino a qui e vi invito a lasciarmi una recensione: non potete immaginare quanto tutto questo sia importante per me. I nostri cari ragazzi cominciano a sentire l'angst che volevo, anche se mi sto concedendo molto fluff.
Ci tengo a specificare che ormai mi sto liberamente ispirando a "Positive" di 
whitchry9 (che ho comunque trovato e letto DOPO aver cominciato la mia Positive personale) soprattutto per quanto riguarda la parte più tecnica della malattia: vi passo il link nel caso voleste darle un'occhiata: 
https://www.fanfiction.net/s/9822761/1/Positive
Credo sia inoltre opportuno specificare che non sono certa al 100% che ciò di cui scrivo sia anatomicamente e clinicamente valido e corretto. Mi sono documentata (e tanto!) ma non sono un medico e non presumo di saper fare il mestiere di medico.. Perciò, miei cari lettori appassionati di virologia, spero che sorvolerete sui miei errori :p 
Per ora è tutto, ci vediamo al prossimo capitolo!
Ancora grazie di cuore, un saluto. _SalvamiDaiMostri

 

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Capitolo 10
*** Thomas ***


L’arrivo dell’infermiere fu tempestivo.
Così come John aveva detto, egli aveva l’incarico di privare Sherlock del tubo ormai superfluo. Non fu cosa piacevole né a guardarsi né tanto meno a subirsi, ma, una volta che gli fu tolto, il consultive detective provò molta meno fatica nel respirare e,, quantomeno, la sensazione di soffocamento scomparve. Messo da parte quanto gli era servito per disintubare il paziente, l’infermiere controllò i monitor dei vari macchinari ai quali era connesso e registrò i vari dati, controllò la cicatrice sul suo fianco destro e risistemò il bendaggio. Spiegò che non avrebbe tardato molto in cicatrizzarsi esternamente: la fessura aperta dal chirurgo per poter operare il polmone era di meno di cinque pollici.
 
«Piccolo, certo, anche nascosto. Ma è il primo segno visibile e indelebile che questa malattia lascia sulla mia pelle.»
 
Per quanto riguardava le cauterizzazioni interne avrebbero fatto meglio a domandare alla dottoressa Tietjens in base alla sua diagnosi.  Prima di uscire, disse ai due uomini che la dottoressa li avrebbe raggiunti quanto prima possibile.
Sherlock e John restarono dunque nuovamente soli.
“Va meglio?” domandò John accarezzandogli la spalla. Sherlock annuì; avrebbe voluto sorridergli, ora che non aveva più la bocca ostruita, ma davvero non ci riuscì. “Ho promesso alla signora Hudson che l’avrei chiamata appena avrei saputo qualcosa... Ho preferito aspettare che ti svegliassi… Oramai sarà terribilmente preoccupata, perciò ora la chiamo. Cosa vuoi che le dica?” Sherlock si tirò su per sedersi meglio. Fece per rispondergli:
“Dill-” ma si portò la mano alla gola per il fastidio e tirò due colpi di tosse, seguiti da una smorfia di dolore provocato da quelle contrazioni sulle ferite. John gli versò pronto un bicchiere d’acqua e glie lo porse, Sherlock ne bevve un brevissimo sorso.
“Con calma, piano... Il fastidio dovrebbe passare a poco a poco.” John lo guardava malinconico, conoscendo la brutta sensazione che stava provando. Sherlock riprese quindi dopo qualche minuto:
“Dille... Che… Sto bene. Che... Sono cosciente. E..” l’affanno e la fatica lo costringevano a fare fequenti pause più o meno brevi: “Dille che desidero… Parlarle...” John ebbe un sussulto “Andresti a prenderla... Magari domani? Non voglio che… Si preoccupi troppo... E’ meglio chiarire le cose... Almeno con lei.” John gli sorrise e annuì energicamente:
“Ottimo. Fai bene, Sherlock.” gli prese la mano con entrambe le sue e le strinse forte; Sherlock contraccambiò il suo sorriso. John si sentì molto fiero di lui. Sherlock poi domandò:
“Mia... Madre sa che... Sono qui?” John notò con piacere che la fatica nel parlare diminuiva e le pause si facevano più brevi man mano che Sherlock si sforzava i parlare.
“No, Mycroft mi ha proibito di avvertirla.” rispose John alzando le spalle in un sospiro.
“Mycroft è stato qui?” chiese sorpreso.
“Sì. E’ arrivato più o meno un quarto d’ora dopo di noi. E’ rimasto fin poco prima che tu riprendessi conoscenza.” Sherlock fece spallucce in segno di menefreghismo: “Certo che voi due avete davvero uno strano modo di volervi bene...” notò John.
“Io non voglio /bene/ a mio fratello.” rispose stizzito.
“Ma piantala... Comunque immagino che, se vorrai, potrai contattare tua madre poco prima di essere dimesso: se ho ben capito, Mycroft vuole solo evitare che si affligga inutilmente.”
“Mh...”
La dottoressa Tietjens irruppe nella stanza in quel momento, con una cartella in mano.
Come sempre, fu cordiale e professionale. Comunicò ufficialmente a Sherlock la contrazione della malattia e spiegò loro la nuova terapia che sarebbe stata finalizzata ad una quanto più pacifica convivenza con l’AIDS. Confermò poi che si era  trattato di una polmonite particolarmente fulminante dovuto alla sua nuova condizione, ma che, nonostante tutto, assicurò di poter debellare piuttosto facilmente.
“Entro la fine della settimana potrà tornare a casa e proseguire lì la terapia con l’aiuto del dottor Watson.” fece una breve pausa e sospirò “Desidero che sappia che sono molto dispiaciuta per lei signor Holmes, non avevo davvero previsto una discesa così rapida dei CD4... Il suo deve essere un caso davvero particolare. Purtroppo, ci sono troppe icognite da svelare sull’HIV e i misteri legati ad esso ci impediscono ancora di avere un quadro completo della situazione e nonostante la mia equipe abbia fatto tutto il possibile-”
“La prego, dottoressa.” la interruppe Sherlock: “Non c’è bisogno alcuno di scusarsi.” la dottoressa rimase attonita.
“Sappiamo che ha fatto tutto ciò che era in suo potere.” continuò John. “Non le attribuiamo nessuna colpa.”
Entrambi le sorridevano fiduciosi e cordiali. I due uomini le sorridevano nonostante avessero passato la prima delle notti peggiori della loro vita, nonostante fossero reduci da un’oprazione e dall’aver appena ricevuto la peggiore delle notizie. In effetti, una persona che si affida al sistema medico convenzionale non le avrebbe mai attribuito una colpa, ma chi nella stessa situazione le avrebbe mostrato un sorriso? La dottoressa sapeva di essere molto coinvolta in quel caso, ormai si era affezionata al suo paziente e al suo compagno, li seguiva ormai da anni e quella per lei non era stata solamente una sconfitta professionale, ma anche una brutta notizia. Nei loro volti la Tietjens trovò la forza di proseguire:
“Affronteremo questa cosa, signor Holmes: come lei, anch’io non mi arrendo facilmente di fronte a un caso complicato.” fece loro un occhiolino; Sherlock rise piano.
Era giunto però il momento di chiarire con cura ciò a cui Sherlock sarebbe andato incontro da allora in poi.
La dottoressa prese una sedia e prese posto vicino ai due uomini per parlare loro faccia a faccia. Parlò quindi loro dei nuovi sintomi che avrebbero potuto presentarsi: la parola dolore fu ripetuta molte volte. Decisamente troppe. Sherlock era ora minacciato da tumori di ogni genere, infezioni, anoressia... Le febbri, le nausee, la diarrea, la dispnea e l’ipotensione sarebbero state sue abituali compagne di viaggio e si sarebbero andate intesificando con l’avanzare delle fasi della malattia. In molti casi l’AIDS causava anche demenza e disfunzioni motorie. Mentre il medico avanzava nel suo discorso, i due si tenevano stretti per mano facendosi forza l’un l’altro nell’udire quel terribile elenco di sofferenze.
La Tietjens prese poi a spiegare loro la terapia che avrebbe cominciato a somministrare a Sherlock: si trattava di un cocktail di una serie di farmaci finalizzato a rallentare il degrado del sistema immunitario, a limitare quanto più possibile i sintomi e prevenire l’insorgere delle malattie più frequenti o più pericolose. Ormai, dopo il 2010, nella maggiorparte dei casi, questo genere di terapia consentiva ai malati di AIDS di vivere una vita piuttosto normale e lunga praticamente quanto quella di una persona sana: invitò pertanto la coppia a non arrendersi e a combattere la malattia ogni giorno, l’uno per l’altro.
Prima di andarsene, somministrò i medicinali che Sherlock avrebbe dovuto assumere per qualche tempo per debellare da polmonite. Si congedò augurando loro una buona notte e assicurando loro che si sarebbero visti l’indomani di prima mattina; quindi se ne andò.
John colse dunque l’occasione per telefonare alla signora Hudson per rassicurarla e riferirle ciò che Sherlock le aveva chiesto.
 
La notte, tutto sommato, fu clemente con Sherlock. Sopraffatto da antidolorifici e antibiotici, dormì tutta la notte, ma si trattò di un sonno indotto e leggero, di quelli che, infondo, non riposano. Si lamentò e si mosse nel lettino per tutta la notte e a pagarne le conseguenze fu John: egli rimase a vegliarlo come la notte prima, seduto su quella vecchia sedia, addormentandosi per qualche minuto solo quando, stravolto, veniva sopraffatto dalla stanchezza. Ma poi Sherlock si contorceva o si lamentava e allora John si ridestava e gli prendeva la mano o lo accarezzava, lui si calmava e avanti così in un ciclo continuo.
Per tutta quella notte, John non fece altro che pensare che quella sarebbe stata la prima di molte, moltissime notti e che quella, con ogni probabilità, sarebbe stata la più facile che avrebbero mai avuto: era stravolto e terribilmente affranto, stanco e frustrato... Come avrebbe potuto fare questo per il resto della sua vita, ogni volta che ne avesse avuto bisogno? John davvero non riusciva a rispondersi.

 

“Oh, mio caro...” la signora Hudson si avvicinò con voce tremante a Sherlock, messo a sedere sul lettino d’ospedale. Sherlock tese le mani verso la signora, lei le prese e le strinse nelle sue con in viso un’spressione afflitta e preoccupata: “Cosa ti è successo?” domandò “Perchè non vuoi che John me lo dica?” Sherlock le sorrise, poi si diresse a John:
“Avvicinale la sedia, sii gentile.” e così fece, in modo tale che la signora potesse sedersi accanto a Sherlock. Lei non accennava a tranquillizzarsi. Sherlock sospirò: “Prima che io le risponda, voglio che lei sappia che probabilmente lei ha una concezione della mia condizione decisamente molto discostata dalla realtà e che io sono in queste condizioni da molto prima che ci incontrassimo... Ciò che mi sta accadendo in questo momento è solo un progressivo ed inesorabile, anche se nel mio caso particolarmente precipitoso, aggravarsi della mia malattia...”
“Oh, Sherlock... Sei malato? Oh caro...” la donna si portò una mano davanti alla bocca.
“Si, signora Hudson.” Sherlock prese un bel respiro: “Mi è stato comunicato ieri che ho contratto l’AIDS.” la signora Hudson avvertì il suo cuore fermarsi per un istante. Ad occhi sgranati, scosse la testa come per negare a se stessa ciò che aveva appena sentito.
“No...” fu l’unica parola che riuscì a pronunciare con la voce rotta dal pianto che le sgorgava dalla gola “No...” ripetè portandosi ambe due le mani alla bocca. Sherlock prese quelle mani e le strinse forte e, guardandola negli occhi, annuì dicendo:
“Si, Martha, è così.”
John, che assisteva alla scena, per un istante si domandò se avesse mai saputo il nome di battesimo della propria padrona di casa. Se lo sapeva, di certo non lo ricordava affatto.
“No...” le lacrime presero a sgorgare dagli occhi “Non come il mio Thomas...” John fu colpito da quel nome che non aveva mai sentito nominare alla donna e si domandò chi fosse e cosa centrasse.
“No, signora Hudson, è proprio questo che cercavo di dirle prima: non come Thomas. Ora è diverso.” John era confuso, ma non disse nulla. In ogni caso la signora Hudson non riusciva a smettere di piangere. Sherlock fece per abbracciarla,  ma il fianco gli tirò una fitta dolorosissima e si arrestò per un momento in una smorfia di sofferenza. Poi strinse i denti e si tirò comunque verso di lei per abbracciarla: “Si faccia forza, si faccia forza... Le prometto che non si libererà di me così facilmente...” 
In buona risposta la signora gli tirò uno scappellotto:
“Non dire queste cose!” disse arrabbiata. Sherlock sorrise.
John si fece quindi trascinare dalla curiosità e, porgendo un fazzoletto piegato alla donna, le domandò:
“Chi è Thomas, mrs Hudson? Se posso chiedere...”
La signora prese il fazzoletto e si asciugò gli occhi con fatica, poi vi si soffiò delicatamente il naso.
"Oh, e'... Una vecchia e triste storia, John... Non e' il caso di raccontarla adesso..."
Per un istante si fermò a contemplare Sherlock, il suo dolce Sherlock. Voleva talmente tanto bene a quel ragazzo così particolare, così diverso, a volte scontroso, troppo disordinato, lunatico, ma così speciale. La addolorava profondamente saperlo in quelle condizioni. Il suo dolce Sherlock... Così simile a quel mascalzone di Tom. Ora anche troppo.
“Se lo dice per me, non si preoccupi signora Hudson.” le disse Sherlock prenderndole la mano per un attimo “Soddisfi la sete di curiosità di John: è rinchiuso in quest’ospedale a prendersi cura di me da sin troppe ore.”
“E’... Tanto che non parlo di lui.” sospirò: “Tom era un mio caro, carissimo amico, John...” disse la donna asciugandosi le lacrime, interrotta da qualche singhiozzo “Ci conoscevamo dagli anni della Guerra: eravamo stati evacuati nella stessa casa di campagna, da nonna Meg: così ci siamo conosciuti. Avevamo la stessa età. Siamo cresciuti insieme... Abbiamo affrontato tutto insieme, dalla Guerra in poi. Quando eravamo ragazzi, mi presentò al suo gruppo di amici... Erano così simpatici! Oh, all’epoca non era per nulla facile per quelli come loro... Ogni giorno era una battaglia e noi eravamo uniti per quella buona causa..” nel parlare la bocca gli si allargò in uno splendido sorriso nostalgico “E io ero così felice di unirmi a loro nella loro lotta! Uh, a mio padre non piaceva per niente che io frequentassi quei ragazzi... Sapeste quanto mi urlava addosso ogni volta che scopriva che ero stata a una parata o anche solo al pub con loro. Ma io ero talmente legata a Tom... Eravamo convinti che n’è mio padre nè nient’altro avrebbe mai potuto separarci. Ma evidentemente mi sbagliavo.” la donna guardò in basso e si perse nei propri pensieri per qualche secondo. Poi riprese a voce bassa: “Eravamo così felici il giorno che dichiararono legare essere ciò che erano... Io e Tom avevamo appena trent’anni.” sospirò. Sherlock le prese la mano. Lei lo guardò e gli sorrise: “Si ammalò nell’83. Fu uno dei primissimi... Cadevano come mosche, eppure sembrava non importare a nessuno.  Dovettero cominciare ad ammalarsi gli eterosessuali e le donne prima che qualcuno ai piani alti si occupasse di studiare la malattia, di dire loro cosa fare! Li lasciavano morire come animali... Morti nascoste, si diceva. A volte nemmeno li accettavano negli ospedali! I medici si rifiutavano di avvicinarsi a loro. Persino i cimiteri si rifiutavano di seppellirli... Punizione di Dio, dicevano. Ebbene, Dio se la prenderà con loro quando verrà il loro momento!” parlava con la rabbia tra i denti e alzava i pugni stretti. Poi improvvisamente tornò immobile: “Tom morì in meno di un mese. Neanche un mese... Così poco... E fu un’agonia atroce. C’ero solo io con lui. Avevamo trovato un ospedale che li accettava, ma comunque non potevano fare nulla per loro. Morì senza sapere il perchè. Morì piangendo dal male... E dopo di lui, i suoi amici. Uno dopo l’altro. Chi durò di più, chi di meno. Siamo rimaste in due, sapete? Io e mrs Turner.” rimase in silenzio. “L’AIDS mi ha portato via i più cari amici della mia giovinezza... Io non mi aspettavo che potesse ancora strapparmi via un figlio-” pianse ancora. John allora comprese e si sentì un idiota ad aver insistito tanto. Sherlock si avvicinò a lei, le accarezzò le spalle e le parlò piano, dolcemente:
“Come le ho detto, io sono molto più fortunato di Thomas. Io non mi sono ammalato fino adesso e so di essere infetto dal quasi dieci anni... E, anche se sono malato, posso contare su terapie specifiche e su medici più che preparati... Inoltre, Tom non aveva modo di prevedere o prevenire la sua malattia. Mentre io sapevo perfettamente ciò a cui andavo incontro: sono stato un incosciente ed ero troppo frustrato ed incazzato con il mondo per preoccuparmi di cosa ne sarebbe stato di me. Non merito di essere paragonato al suo amico. Devo a lui e a quelli come lui la libertà di cui godiamo io e mio marito...” John avvertì una fitta al cuore. “Anche se ora mi vede qui, in vestaglia, attaccato a tutti questi monitor, io starò bene: la dottoressa dice che torno a casa tra una settimana... E’ solo polmonite. Vedrà che starò bene.” la signora Hudson annuì:
“Ok.. Ok..” poi rivolse il suo sguardo verso John: “Tu stai bene, mio caro?” John le sorrise:
“Sto bene Mrs Hudson, non si preoccupi.”
“Meno male, meno male...” tirò su col naso.
La padrona di casa restò con loro ancora una mezz’oretta: John le andò a prendere un té caldo alla macchinetta e i tre chiacchierarono insieme finchè lei non si calmò. Poi l’ora delle visite si concluse e John accompagnò la Hudson fino al taxy.
Giunta in casa, andò dritta in camera e da un cassetto estrasse una vecchia scatola di latta celeste rettangolare; la aprì. Dentro vi erano i suoi ricordi di quando frequentava Tom e i suoi amici: le foto del gaypride, qualcuna di loro due insieme al mare, una con lo sfondo del big bang dove si abbracciavano. Ce n’era una che doveva essere stata scattata in una delle sue ultime settimane: sul suo viso si potevano contare almeno nove macchie nere. Era terribilmente magro e pallido... Gli occhi ingialliti coronavano due profonde borse violacee ed erano contornati di occhiaie incopribili. Gli avevano rasato la testa e lui nella foto portava un cappellino di lana grigio e verde... Era inverno, ricordò. Era così giovane, eppure sembrava un vecchio. Quasi come lo sarebbe stato adesso, se non si fosse ammalato. Se non fosse morto. Se non l’avesse abbandonata. Gli si leggeva il dolore negli occhi, ma lui sorrideva. Sorrideva come quando erano bambini e nonna Meg dava loro pane e cioccolata. Dannato mascalzone, quanto gli voleva bene... Nel vedere quella vecchia foto ingiallita, il suo cuore si spezzò ancora una volta e non poté resistere alla malinconia di quei tremendi ricordi.
Quella notte si addormentò sul suo letto ancora vestita, con il cuscino umido di lacrime e la foto di Tom stretta sul cuore.
 
 
“Dormi qui anche questa notte?” 
“Certo, Sherlock.” rispose John sfogliando una revista.
“Su quella sedia?”
“Non è una clinica privata, non posso pretendere chissà cosa. Non mi daranno un letto.”
“Non finchè non sarò terminale” John lo sgridò:
“Perchè dici certe cose?”
“Torna a casa John, dormi in un letto vero. Sto bene... Mentre tu sei chiaramente a pezzi.”
“Non riuscirai a convincermi.”
“Allora coricati con me...” effettivamente il pensiero era già balenato nella mente di John diverse volte in tutte quelle ore.
“Dici che ci stiamo?” chiese chiudendo la revista e appoggiandola sul comodino.
“Sono dimagrito parecchio: non romperemo il lettino. Non sarà il massimo della comodità, ma di certo sarà molto meglio di quella vecchia sedia.” Sherlock non aveva tutti i torti, ma John era piuttosto convinto che una cosa del genere non si potesse fare. Certo era dannatamente stanco e la schiena non smetteva di dolergli da quando erano arrivati l’altra notte. Perciò si convinse: si sfilò le scarpe e la camicia. Sherlock intanto si fece quanto più a drestra possibile, in modo tale che John si coricasse dal lato dove non aveva nè flebo nè cicatrici in via di guarigione. John spense la luce e si coricò accanto a suo marito.
“E’ per questo che non volevi dirglielo?”
“Mh?”
“Per la storia di Thomas... Tu sapevi che lei aveva già tanto sofferto per la stessa cosa...” Sherlock annuì.
“Quando me l’ha raccontato avrei addirittura potuto traferirimi, sapendo ciò in cui andavo incontro. Ma l’appartamento è tutto sommato vivibile e, infondo, un po’ a lei mi sono comuque dovuto affezionare.” John gli dirò una leggera spallata e Sherlock rivelò il suo sarcasmo in un’altrettanto leggera risata.
“Hai fatto bene. Che triste storia...” Passò qualche minuto, poi scoppiò a ridere da solo.
“Che c’è?” domandò Sherlock stranito.
“Niente...” rise ancora e Sherlock lo guardò con aria interrogativa: “Niente, niente... Stavo pensando alla Hudson ai gaypride. Dico, te la immagini??” Sherlock sorrise e poi, focalizzando l’immagine della sua padrona di casa vestita di arcobleni e pallettes gridare in un megafono circondata da transgender e dragqueen, prese a ridere anche lui, ma piano, perchè le cicatrici gli dolevano ancora e intonò in un filo di voce:
“Every woman is a lesbian in her heart... Every woman is a lesbian..(*)” allora John non poté più trattenersi e rise di gusto dopo tutte quelle ore di tensione e serietà.
Ci volle diverso tempo prima che si dessero una calmata e si accoccolassero uno all’altro.
John lo baciò sui capelli e gli disse:
“Buonanotte.”
Sopraffatto dalla stanchezza e dai medicinali, Sherlock si addormentò in pochi istanti.
John, invece, nonostante le sue membra fossero esauste e la sua mente supplicasse qualche ora di riposo, rimase qualche momento in ascolto. Ascoltò con attenzione i suoni che lo circondavano nel buio: il bip dei vari macchinari che monitoravano Sherlock che si incatenavano regolarmente, uno dietro l’altro, ognuno seguendo il suo ritmo. Il ticchettio di un orologio appoggiato sul comodino acanto a lui, il non abbastanza lontano russare di un paziente nella stanza adiacente alla loro, il passo di due infermiere stanche nel corridoio, ed infine i loro respiri. Quello di Sherlock lento e profondo, lo conosceva così bene, lo amava così tanto... Era diventata la sua ninnananna. Anche in tutto quel groviglio di suoni a lui estranei, si distingueva quel respiro familiare così amato. Per un istante pensò di essere di nuovo a casa.
Certo, non erano a casa. Che pensiero sciocco era stato il suo.
La sua mente si soffermò nuovamente sul fatto che quelle erano soltanto le prime di molte notti che avrebbero dovuto trascorrere in ospedale e, con ogni probabilità, queste sarebbero state le migliori. Ma ora, realizzava, era molto meno angosciato della notte prima: tutto sommato, quella era stata una giornata buona; se voleva continuare a vivere insieme ad una persona malata doveva imparare in fretta a distinguere una giornata buona da una cattiva e a farne tesoro. Ora si vergognava di essere stato così testo, così angosciato in quelle ore: a parte il fatto che Sherlock sarebbe stato bene, suo marito non aveva bisogno di un medico basso e brontolone, frustrato e furioso con il mondo, nonchè terribilmente abbattuto. No, lui aveva bisogno di sostegno e quotidianità. Perciò non era stato d’aiuto. Un peso per se stesso e per l’uomo che amava.
Se volevano affrontare quella che sarebbe stata la loro vita insieme e ciò che questa avrebbe messo loro d’ostacolo, allora doveva tirare fuori le palle e farsi forza. Perché era l’unico modo per sopravvivere.
Certo, non era una garanzia. Ma quanti giorni e quante notti come quelli prima gli i sarebbero volute prima di fuggire a gambe levate, esasperato? Non osava rispondersi. Vigliacco.
Non, non se lo sarebbe permesso mai.
Si addormentò molto in fretta, a braccia conserte, accanto a lui, promettendo a se stesso che l’indomani sarebbe stato un giorno migliore e che sarebbe stato forte, per Sherlock.

 


[Nota (*): Slogan/canto del gaypride del 1983, almeno secondo il film Pride]

Ciao a tutti e grazie infinite per aver letto fino a qui! Non sapete il regalo che mi fate ^^ Voglio di nuovo precisare che non garantisco l’attendibilità medica degli eventi che vi presento: io mi sto documentando, e molto! Ma non sono un medico e non voglio presumere di esserlo, perciò se ho scritto qualche cavolata vi prego di segnalarmelo ^^” Come potete vedere, sto cercando di accelerare i tempi di aggiornamento in quanto dal prossimo mese in avanti non so quanto tempo avrò per scrivere… Perciò voglio sbrigarmi! Senza compromettere la storia, s’intende –“ E’ sempre un piacere leggere le vostre recensioni e discutere con voi di quello che scrivo, perciò vi invito come sempre a lasciarmi la vostra opinione qua sotto: positiva o negativa che sia, per me è sempre preziosa ;) Con affetto, un saluto. _SalvamiDaiMostri

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Capitolo 11
*** Purpureo bacio ***


Sherlock fugge i baci di John.
La dottoressa gli ha già ripetuto diverse volte che ormai le lesioni sono del tutto guarite e che non correrebbero più rischi di quanti ne corressero prima, ma non importa. Sul fondo della gola lui sente ancora il retrogusto metallico del sangue: non sa se é frutto della sua frustrazione o se é solo colpa della sua ipersensibilità, ma non permetterà a John di avvicinarsi alla sua bocca finché non smetterà più di avvertire quel sapore, finché quell'arma letale che gli scorre nelle vene smetterà di far sentire la sua presenza. A costo di far passare anni, a costo di conservare per sempre quell'ultimo bacio che si erano dati di sfuggita prima di addormentarsi quella notte che erano poi corsi in ospedale. 
E John ne soffre, terribilmente.
Lo sente distante e avverte il peso della frustrazione di suo marito anche sulle sue spalle: Sherlock si sente una mina vagante, un pericolo per John e questo lo distrugge. John sa che quando Sherlock lo guarda, a volte pensa di fuggire lontano da lui, in modo tale da non essere più un pericolo per la sua vita.. E John teme davvero che un giorno lo faccia: un giorno tornerà a casa e troverà un biglietto che dice 'addio' e, forse, 'perdonami'. 
"Ogni cosa è infetta in me: il mio cuore pompa sangue inquinato. Mi sento sporco."
Lo ha detto un giorno mentre John passava dal corridoio. Lui non ha potuto fare a meno di arrestare il suo passo, sospirare e proseguire poi per la sua strada.
Sherlock é logorato da questi pensieri. Forse é anche per questo che ci sta mettendo così tanto a guarire. Per questo e per l'AIDS, certo. Ed é probabile che centri il fatto che é davvero impossibile trattenere Sherlock e la sua adrenalina a letto per così tanto tempo: la cura più importante per la polmonite é il riposo, ma lui si annoia terribilmente costantemente. La signora Hudson sale molto spesso a fargli compagnia mentre John é in ambulatorio: a volte giocano a scacchi, a volte a carte, prendono il té e, tutto sommato, Sherlock si comporta bene quando é lei a tenerlo a bada. Anche Molly e Lestrade, da quando hanno saputo che Sherlock é costretto a letto a causa di una brutta polmonite, vanno a trovarlo quando possono e gli trovano qualche caso interessante da studiare, qualche campione trafugato in laboratorio da analizzare. John fa il possibile e, appena torna a casa, si corica accanto a lui per ascoltarlo o leggere insieme o discutere qualche caso, ma é tutto inutile. Sherlock é sempre nervoso e annoiato, come una bestia in gabbia. E si lamenta tanto e rumorosamente, come fanno i bambini malati che sanno che giù in cortile ci sono i loro amici che giocano a pallone senza di loro. Una volta John lo sgrida e gli dice che prima o poi dovrà legarcelo a quel maledetto letto se non la pianta di agitarsi in giro per l'appartamento: inutile dire che Sherlock coglie l'occasione per provocarlo e generare tutt'altro che riposo, e John cede e gli si getta addosso maledendolo, ma fa subito per baciarlo e Sherlock si volta di scatto per evitarlo. Allora la magia finisce, John non dice una parola e si ricompone, Sherlock guarda in basso e sussurra:
"Scusa." mentre John é già lontano.

Ma va bene così: John lo ascolta, lo controlla, lo ama e si prende cura di lui, ma soprattutto lo ama profondamente. E Sherlock questo lo sa bene e lo sente nonostante tutto, nonostante quella situazione di merda nella quale vivono ormai da troppi giorni. 
Gli ci vogliono tre mesi e mezzo prima di guarire completamente dalla polmonite ed avere il permesso del medico di uscire di casa. 
Sherlock ne é così felice che per un po' esce tutti i giorni, bello imbacuccato, per fare lunghe passeggiate per Londra; a volte con John, a volte da solo. Piuttosto che uscire, va addirittura a comprare il latte di sua spontanea volontà. 

La prima volta che Sherlock bacia di nuovo John é una domenica di aprile.
Sono a Saint James che passeggiano e la primavera comincia a far vedere la sua presenza nelle gemme di qualche ramo e in qualche primo fiorellino bianco nato spontaneamente ai piedi di qualche albero. Non é che John abbia detto o fatto nulla di particolare, ma Sherlock si volta verso di lui all'improvviso, con una mano gli accarezza il viso e posa le sue labbra su quelle di lui: John non si era mai abituato alla sua lontananza, non ci aveva mai fatto il callo. E ritrovarlo, oh, ritrovarlo é magico. John versa anche un'unica lacrima di gioia. E poi lo abbraccia forte, ma proprio forte, fino a fargli anche un po' male, e poi gli chiede scusa.

Ora Sherlock sta bene, sta bene da circa cinque mesi.
E sta davvero bene. 
Se non fosse per gli otto flaconi di farmaci messi in fila sulla vetrina del bagno, John ogni tanto si dimenticherebbe anche del fatto che Sherlock e malato. 
Sherlock no, ma non importa. 
Hanno voluto cogliere la palla al balzo e si sono fatti una breve vacanza: sono andati in Sussex per un viaggio solo loro due insieme, al mare, all'aria buona. é stato il loro viaggio di nozze che non avevano mai fatto, un regalo dei genitori di Sherlock che non avevano mai usato. Hanno affittato una casetta in cima a un promontorio che si affaccia sul mare: posto meraviglioso, un paradiso in terra... Passano le giornate come due ragazzini innamorati che vanno in vacanza da soli insieme per la prima volta. In effetti é la prima volta in anni, in decenni, che si prendono una vacanza. Scendono in spiaggia, fanno il bagno, prendono il sole e fanno lunghe passeggiate sulla scogliera, accarezzati dal vento, in silenzio, l'uno sottobraccio all'altro, ascoltando l'infrangersi delle onde sulle pietre secolari. 
Ora sono seduti sulla spiaggia, l'uno accanto all'altro, e guardano il tramonto sull'orizzonte.
"Sai già che io non avevo alcuna intenzione di invecchiare." dice all'improvviso Sherlock. John annuisce e si appoggia alla sua spalla: "Ci pensavo adesso: non era solo frustrazione. E' che io non avevo davvero idea di cosa avrei potuto fare una volta che i miei occhi non fossero più funzionati bene, che gran parte dei miei neuroni fosse morta e che il mio corpo non avesse più avuto la risposta rapida e scattante che avevo a quell'età.. Una volta che non avessi più potuto lavorare. Il lavoro era l'unica cosa che poteva interessarmi di questa vita: una volta smesso, vivere non avrebbe più avuto senso, sempre che ne avesse uno."
"Capisco..." John chiude gli occhi e sospira.
"Anche per questo, una volta scoperto di essere malato, tutto sommato ero in pace con me stesso: non era un problema... Non lo era davvero. Finché tu sei entrato a far parte della mia vita." John si desta e si volta verso di lui, Sherlock prosegue scrutando l'orizzonte: "Adesso... Adesso avverto un nuovo desiderio... E' strano. Io adesso penso che sarebbe bello invecchiare, con te." il marito ha un sussulto e sgrana gli occhi; Sherlock si volta verso di lui: "Si! Io voglio vedere i nostri capelli diventare grigi e la nostra pelle diventare cadente e piena di rughe. Voglio che i nostri occhi vedano sempre meno e la nostra schiena ci procuri sempre più acciacchi, insieme. Non sarebbe solo accettabile: io lo voglio con tutta l'anima!"
Rimangono in silenzio, poi si voltano uno dopo l'altro, di nuovo verso al mare e riflettono per qualche istante.
"E questo ti turba?" chiede John. Sherlock non risponde subito. Ci pensa un attimo e sospira:
"Fa paura." si volta verso di lui "Lo desidero così ardentemente... E ho paura di non farcela." John gli cinge i fianchi con le braccia e si appoggia al suo petto "Ho paura di andarmene troppo presto. Di non poter invecchiare al tuo fianco." John annuisce sfregando la testa sulla sua camicia.
Poi John alza la testa e lo guarda negli occhi: Sherlock ha gli occhi lucidi e un'espressione afflitta.
"Ascoltami: nessuno é consapevole del tempo che ha a disposizione. Non lo sei tu, come non lo sono io. Quello che é certo é che la vita é effimera, brevissima." John sorride: "E pensa, Sherlock: io e te abbiamo avuto l'immensa fortuna di incontrarci! In questo così breve tempo che abbiamo a disposizione, io e te ci siamo innamorati e, Cristo, ci siamo sposati Sherlock!" ridono insieme. "Quanti possono dire di avere la fortuna che abbiamo noi?" John gli accarezza il viso e Sherlock si abbandona a qual contatto. "Darei l'anima per poter invecchiare al tuo fianco, ma, per quanto mi riguarda, mi é sufficiente sapere che saremo insieme fino alla fine. Fino all'ultimo instante che ci é concesso." Sherlock annuisce:
"Sì, hai ragione.. E' così anche per me..." 
"Vieni qui." John lo invita con le braccia ad abbracciarlo, gli bacia con forza la guancia e poi si stringono forte, affondando le dita l'uno nei vestiti dell'altro e respirano forte il profumo del compagno. "Ti amo, Sherlock. Tu tieni sempre a mente questo, qualunque cosa accada: io sono accanto a te."
"Lo so, John. Lo so."

Col senno di poi, probabilmente quello é il periodo più felice della loro vita insieme.
E va tutto bene, davvero, va tutto bene.
Poi tornano a Londra e arriva l'autunno.
Sherlock accetta diversi casi e ne risolve la maggior parte: la sua fama di consulente investigativo cresce di giorno in giorno nonostante tutto. La vita al 221b é tornata alla normalità e nessuno potrebbe esserne più felice che i suoi inquilini.
Una mattina di ottobre, Sherlock si alza e va in bagno per farsi la doccia. Si spoglia e quando l'acqua é calda entra nella vasca. Poi arriva John per lavarsi i denti: si gira per un attimo verso Sherlock per dirgli qualcosa, chi sa più cosa, e la vede. La macchia. Scura, ruvida e grossa come una moneta da due sterline. Il purpureo bacio dell'angelo della morte. E' comparsa in quella notte, John non ha dubbi: la sera prima non c'era e adesso c'é. John fa cadere o spazzolino a terra e rimane con la schiuma del dentifricio che gli esce dalla bocca. Tanto lo spazzolino era da buttare, ormai.
Non ci vuole che una biopsia per confermare che si tratta di sarcoma di Kaposi: neoplasia maligna cutanea, lesione numero uno. La notizia non coglie di sorpresa nessuno. 
Di certo, la persona che reagisce nel modo peggiore alla notizia é la signora Hudson: di quelle macchie ne aveva viste troppe in vita sua. Ed erano sempre state il primo segno della fine. E' inconsolabile. John potrebbe ripeterle fino all'esaurimento che adesso si può curare che a lei non farebbe differenza. 
Ora la scelta sta a Sherlock: cominciare il trattamento della chemio o lasciare che tutto faccia ormai il suo corso?
In principio non vuole saperne: altre pillole, diventerebbero una ventina sommando quelle che già prende per tenere a bada l'AIDS e nuovi medicinali, antidolorifici e pastiglie contro gli effetti collaterali delle pastiglie che prenderebbe contro gli effetti collaterali della chemio e queste ultime. Antidiarroici, antiemetici... No. Per non parlare del dolore: Sherlock sa quanto é dura, l'ha visto, l'ha studiato. No, non se ne parla. Ma non é solo per la paura della sofferenza: per la prima volta, Sherlock avverte il desiderio di arrendersi. Arrendersi al cancro, arrendersi all'AIDS. Prima o poi sarebbe morto comunque, e di certo soffrendo, perché farsi ulteriore male così presto? Aveva il diritto di lasciare che le cose facessero il loro corso, sistemare quello che aveva in sospeso e lasciarsi andare, un poco alla volta. Infondo era convinto di non poter ricevere altro da quella vita: la sua felicità era stata piena accanto a John, non desiderava altro.
Di certo, ad alta voce, parla solo di come e in che drammatica misura gli effetti collaterali comprometterebbero le sue capacità fisiche e intellettuali e, di conseguenza, sulla sua capacità di lavorare. 
John capisce, certo, anche se Sherlock non osa dire certe cose, ma insiste comunque, ovvio, e Sherlock accetta di sottoporsi alla chemio, per lui. Solo per lui. Perché così come John non lo avrebbe mai abbandonato, anche Sherlock sente il dovere di restargli accanto il più possibile.
La chemio é una tortura nella maggior parte dei casi, é veleno che ammazza il cancro, ma la fregatura é che il cancro é fatto di te. 
Inoltre, c'é da mettere in conto che Sherlock é anche malato, debole e immunocompromesso da anni: il suo corpo non é forte ormai da tempo e non é pronto ad affrontare ciò che la terapia comporta. 
Sherlock soffre come una bestia per tutto il tempo.  Vomita tutto quello che mangia, ed é grave perché ha bisogno di stare in forze, ma vomita anche se non mangia. Il suo ventre pallido e concavo  si contrae in dolorosissimi spasmi per ore finché non butta fuori anche l'anima ogni giorno, ogni notte. La signora Hudson può sentirlo dal piano di sotto, ed ogni volta é un brivido freddo lungo la schiena. Da quando é in queste condizioni, non riesce più a salire le scale per andarlo a trovare: ha davvero troppa, troppa paura di vederlo. Si limita a chiedere a John come sta, se ha bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa.. Ma, in cuor suo, sa che non é abbastanza.
Una brutta diarrea lo colpisce per giorni, dandogli tregua, a volte per una settimana, non di più . Con il passare dei giorni si presentano dei rush cutanei anche essi dolorosi e da medicare. John non riesce nemmeno a contare quante volte ha avuto la febbre alta. Grazie al cielo i reni per ora stanno bene.  Il dolore lancinante non lo abbandona mai; durante il giorno, Sherlock si zittisce e contiene i lamenti, ma, mentre dorme, John lo sente gemere, alle volte gridare, per il male. Ha lasciato il suo lavoro all'ambulatorio per stargli accanto a casa durante tutto il tempo della terapia perché, praticamente sin da subito, Sherlock non é più in grado di muoversi senza un appoggio, ma soprattutto, ha bisogno che suo marito sia lì con lui. John lo ascolta, gli tiene la mano, gli parla, lo accarezza, gli tiene i capelli quando vomita... Certo, finché li ha... Quando ormai le ciocche nere gli cadono come se non fossero mai state sue, lasciando voragini nude tra i pochi riccioli che angora ostinatamente si aggrappano alla sua cute, é John stesso a rasarlo. 
I suoi splendidi capelli corvini... John li guarda ciocca per ciocca mentre precipitano a terra al passaggio della macchinetta; Sherlock non riesce nemmeno a guardare, e strizza gli occhi fino a sentire male, con le spalle strette e il viso tra le mani mentre sospira.
"Ricresceranno..." gli dice mentre gli passa la macchinetta regolata al numero zero in tutte le direzioni sul suo cranio: "Ricresceranno, vedrai..." e lo accarezza. 

Ogni giorno che passa, Sherlock diventa più debole. Insieme a lui, anche la speranza si indebolisce, é inevitabile. Ogni movimento diventa doloroso e, alla fine, rimanere a letto non é più così difficile, piuttosto diventa l'unica opzione. Arriverà a non essere più autosuffciente e a dover contare sull'aiuto di John per alzarsi e andare in bagno, che, ormai, é l'unica cosa che fa. John lo lava, lo veste, lo alza. 
Ogni tanto, quando fa davvero male o quando John lo sta tirando su dalla vasca o lo aiuta ad infilarsi i boxer, e la situazione per un attimo sembra perdere di dignità per almeno uno dei due, loro si guardano negli occhi per qualche istante e ritrovano l'uno nell'altro la forza per finire la giornata: si sorridono, magari John gli stampa un bacio sulla fronte, e continuano la loro sempre più difficile quotidianità,
I signori Holmes fanno loro visita qualche volta: la signora porta dei fiori o qualcosa da mangiare. Quando arriva, cerca di dare una mano a fare le faccende di casa oppure sta al capezzale del suo bambino e gli racconta tutto quello che gli viene in mente o semplicemente lo guarda dormire sofferente. Per lei ogni giorno é più difficile del precedente: la sola cosa peggiore di avere un cancro é avere un figlio con il cancro. Più lui peggiora, più lei perde ogni barlume di speranza. Arriva presto il giorno in cui non riesce più a varcare la soglia del 221b. Resta a casa a piangere, a pregare che il suo dolce William possa smettere di soffrire.
In quei giorni, Sherlock si fa aiutare da Mycroft per assicurarsi che legalmente ed economicamente John non debba avere alcun problema dopo una sua eventuale dipartita. Con lui, sceglie anche un vestito per la bara, ma tutto questo John non lo sa.
Una notte Sherlock avverte all'improvviso grande difficoltà a respirare e viene portato d'urgenza in ospedale. John, sull'ambulanza, avverte Mycroft che, a sua volta, chiama i suoi genitori per comunicare loro ciò che é successo. Aggiunge che si sta precipitando lui in ospedale e che non é necessario che si muovano di casa a quell'ora, l'indomani mattina presto li avrebbe chiamati per aggiornarli. Terribilmente preoccupati e angosciati, i genitori si coricano di nuovo a letto e concordano che l'indomani sarebbero andati a dare il cambio a John e Mycroft, così che potessero entrambi tornare a casa e dormire un pò. Poco prima di addormentarsi la signora, in lacrime, dice a bassa voce:
"Non voglio vedere nessuno dei miei bambini morire..." Il marito la stringe a se e le dice che andrà tutto bene, e di cercare di dormire.
La signora Holmes non si risvegliò mai più .

La notizia arriva piuttosto tardi nella stanza d'spedale dove Sherlock e John riposano dopo una dura nottata: il signor Holmes appena avutene le forze, ha chiamato Mycroft che, senza dire una parola, si é precipitato fuori dall'ospedale. Prima che fratello e cognato vengano informati deve fare sera.
Per John é come perdere per la seconda volta una madre, e quello é un dolore che ad una persona dovrebbe essere inflitto non più di una volta. 
Per quanto riguarda Sherlock, non pronuncia più  una parola da quando ha saputo.
La prima volta che parla é quando John e la dottoressa parlano nella stanza sull'eventualità di poterlo far uscire di casa in occasione della sepoltura della madre: l'episodio di afasia era un caso isolato, ma la Tietjens sostiene che Sherlock non dovrebbe comunque muoversi di casa. John non sa cosa fare, ma la dottoressa non é donna priva di cuore: se consiglia di non uscire é perché sa che potrebbe essere dannoso. Quando John si siede accanto a lui per spiegare le ragioni della dottoressa, Sherlock  dice:
"Mettono la mia mamma sottoterra, e io sarò  lì, a dirle addio, a costo di non tornare mai più da quel cimitero."
E John proprio non ce la fa a dissuaderlo.
Ce lo portano in sedia a rotelle. Al funerale é presente anche la signora Hudson: é la prima volta che Sherlock la vede da mesi ormai. Quando gli si avvicina, la donna non prova più paura, ma solo tanta pena e tanto dolore: si abbassa per abbracciarlo e gli da un bacio sulla fronte, senza dirgli niente. Di certo, non lo abbandonerà mai più, la Hudson lo giura a se stessa.
Al cimitero é Mycroft a spingerlo, perché John non ce la fa. Lui e il signor Holmes sono inconsolabili: davanti alla bara non riescono a trattenere lacrime e singhiozzi. I fratelli invece rimangono freddi e silenziosi nell'assistere ai vari riti.
La morte di un genitore fa parte degli eventi che normalmente caratterizzano il ciclo vitale di una persona: la logica impone che non ci sia disperazione in questo. Eppure entrambi sono sopraffatti dalla nostalgia, dai ricordi e dai rimpianti, come mai in vita loro. La amavano davvero, ma sentivano di non averglielo dimostrato a sufficienza, sentivano in cuor loro di non essere stati dei bravi figli. Con la loro mamma, era morto un pezzo del loro cuore, ma, nonostante questo, non dicono una parola durante tutta la celebrazione. 
Quando tutti se ne sono andati, rimangono solo loro accanto alla fossa, in silenzio. Fissano la bara sul fondo: la parte irrazionale di loro, piccola e di solito celata, spera in un ultimo miracolo, un equivoco magari. La parte razionale sa invece che non rivedranno più il volto della loro mamma, il suo sorriso.. Non udiranno più la sua voce. 
Sherlock vorrebbe dirle qualcosa, qualunque cosa. 
E' tornmentato dal fatto che non riesce a ricordare qual é l'ultima cosa che le ha detto. E ora vorrebbe tanto rimediare, ma non ci riesce: non trova nulla da dire.
"Tu la facevi sempre sconvolgere..." dice Mycroft a bassa voce.
"Io la facevo sconvolgere?" sorride un istante, in memoria dei vecchi litigi. Parla piano, tranquillo: "Non ero io a sconvolgerla, Mycroft." risponde Sherlock in un sospiro, per l'ultima volta. Passa qualche istante. Poi Mycroft gli chiede:
"Andiamo?" e Sherlock si limita ad annuire.
Avrebbe davvero voluto dirle qualcosa, qualunque cosa.

Gli inquilini del 221b rincasano insieme in taxi. 
La signora Hudson li abbraccia e li bacia entrambi prima di entrare. Ora i due si ritrovano da soli ad affrontare la scalinata: non é la prima volta che la salgono insieme da quando Sherlock é sotto chemio, ma oggi sembra più ripida del solito, quasi minacciosa. John si infila sotto a un braccio di Shelrock e con un braccio gli cinge i fianchi mentre con l'altro sostiene il braccio che ha sulle spalle. Salgono il primo gradino: prima John, poi Sherlock, un piede alla volta. Dopo cinque scalini, Sherlock chiede un attimo di pausa, ma non si siedono perché poi alzarsi sarebbe ancora più faticoso. Sherlock respira affannosamente. Gli fa cenno di ripartire: uno scalino dopo l'altro, arrivano alla curva. Hanno superato la prima metà, ma ciò che resta sembra ancora più difficile. Sostano ancora un paio di minuti sul pianerottolo. E poi ripartono. Scalino dopo scalino, Sherlock avverte le sue difese cedere, i suoi scudi infrangersi: le emozioni lo assalgono e la fatica cede il posto alla disperazione. I respiri affannosi diventano singhiozzi, al sudore si aggiungono le lacrime, e prima di varcare la soglia di casa, Sherlock é disperato. 
Appena entrati si lasciano cadere a terra e Sherlock da sfogo alla sua rabbia, al suo senso di colpa e alla sua tristezza tra le braccia di John con lacrime, grida e pugni. John incassa tutto; vederlo in quelle condizioni e' devastante.
"Era mia madre, mia madre era lì, era lì, la mia mamma!" continua a ripetere ossessivamente in lacrime "La mia mamma era li e io non ho detto niente!" John gli accarezza la schiena e lo culla tra le sue braccia, piangendo a sua volta: il fiato gli si spezza in gola. A mala pena riesce a dirgli:
"Lo so- Lo so-"
"Non c'e più John.. Mia madre non c'é più..."

La cosa peggiore é che  Sherlock, poche settimane dopo la scomparsa della madre, comincia a migliorare.
In un anno il cancro é sconfitto.
Prima di arrendersi, però, é riuscito a lasciare altre dodici macchie nere e indelebili sulla splendida bianca pelle di Sherlock.
Tre di queste sono davvero troppo evidenti perché passino inosservate: una, la più grossa, sul dorso della mano destra, un'altra sull'orecchio destro e una sul mento. Ormai Sherlock non può più nascondere la verità e rivela la sua condizione a Lestrade, Mike e Molly. Uno alla volta. 
Lestrade e Mike non sanno come reagire: il loro amico non si faceva sentire da un po', ma mai avrebbero pensato che fosse a causa di un tumore e tantomeno causato dall'AIDS. 
Lestrade si offende e si arrabbia molto con Sherlock per non averglielo detto prima: gli da del bastardo e lo abbraccia. Gli dice:
"Non dovevate affrontare tutto questo da soli." e Sherlock lo apprezza molto. 
Mike e' piu' comprensivo: chiede se adesso sta bene e si preoccupa anche di chiedere se John sta bene. Offe poi la sua disponibilita' per ogni cosa:
"Davvero ragazzi: se avete bisogno, chiamatemi." 
Molly invece non e' affatto sorpresa: lo sospettava da molto tempo; di certo ne e' molto dispiaciuta. Sherlock si scusa per non avergliene parlato prima:
"Non c'e' bisogno di scusarti. Avrai avuto le tue ragioni e ne hai il diritto. Evidentemente non l'hai ritenuto opportuno... In effetti non so in che modo sarei potuta esserti utile."
"Non dire cosi'..."
"Neghi forse che me lo stai dicendo solo perche' adesso e' impossibile da nascondere?" Sherlock non risponde. Molly gli sorride: "Va tutto bene, Sherlock. Non e' un problema. Sappi che per qualunque cosa io ci sono." Sherlock annuisce e lei, prima di andarsene, lo bacia sulla guancia.

Anche la stampa si interessa alle misteriose macchie apparse sulla pelle del famoso detective sin dalle sue prime uscite e, da allora, non li mollano un attimo, né lui né John, finché, in un'intervista, Sherlock decide di rivelare di essere in effetti affetto da AIDS. Per un breve periodo, la storia provoca qualche scalpore e passa su qualche rivista e in qualche programma tv, ma presto (decisamente in meno tempo di quanto i giornalisti abbiano impiegato a rendere la vita impossibile agli inquilini del 221b per ottenere informazioni) le acque si calmano e a nessuno importa più nulla. Anche se, da allora, ogni tanto arriva qualche lettera di solidarietà' da qualche fan o qualche cliente che Sherlock ha aiutato in passato: gli augurano di stare bene e gli mandano molto affetto. é una bella cosa.
La riabilitazione é lunga e faticosa, ma più o meno quando i capelli sono ricresciuti fino a due dita in meno rispetto a quando erano stati tagliati, Sherlock sta di nuovo bene e riprende a lavorare, così come John aveva fatto sin da quando Sherlock si era rimesso in piedi.

[Ciao a tutti bella gente e ben ritrovati nel nostro angolino! ^^ Come sempre, vi ringrazio infinitamente per aver letto fino a qui, spero di cuore che vi sia piaciuto anche questo capitolo e vi invito calorosamente a lasciarmi la vostra opinione in recensione. Voglio specificare inoltre ancora una volta che, nonostante io mi stia documentando e molto, non garantizzo che la parte biologico-sanitaria di questa storia sia plausibile o verosimile o quel che volete in quanto non sono un medico, menchemeno un virologo, e non voglio fingere di esserlo. 
Se vi piace il tema AIDS e omosessualita' annessa, vi consiglio di cuore la miniserie "Angels in America" tratta dall'omonima opera teatrale (della quale potete trovare una clip mozzafiato protaggonizzata da Andrew Scott al National Theatre) alla quale mi ispiro e che ho adorato con tutta me stessa (nel cast anche Al Pacino e Maryl Streep). Grazie ancora per il vostro sostegno e la vostra fedelta'.. La nostra storia sta giungendo al termine: vi chiedo di restarmi accanto fino alla fine! <3 Un saluto, carico di affetto! _SalvamiDAiMostri

Ps: Non odiatemi T.T ]

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Capitolo 12
*** Di corsa verso il vuoto ***


Una sera d’autunno, al ritorno dall’ambulatorio, John trovó Sherlock intento a frugare rovinosamente con entrambe le mani all’interno di un cassetto della cucina e brontolare seccato contro a ogni cosa che il malcapitato cassetto conteneva: prima ancora che il medico chiedesse una spiegazione, il marito disse che non trovava la sua lente di ingrandimento da nessuna parte e ne aveva bisogno per raggiungere Lestrade ed analizzare insieme a lui una scena del crimine.
Il medico sapeva che il suo compagno aveva un modo tutto suo di tenere le sue cose. All’inizio era infastidito da tutto quel disordine che li circondava: ogni tre passi si rischiava di inciampare in uno scatolone o una pila di libri, se non in sciabole insanguinate o strani marchingegni; ogni tavolo o mensola era sempre stracolmo di provette, microscopi, computer, mappe, manoscritti e quant’altro... ma con il tempo aveva accettato che in quel caos esisteva uno schema preciso che davvero aiutava il consulente investigativo a trovare sempre ciò che cercava al momento giusto, e semplicemente ci aveva fatto l’abitudine. Nonostante la constante confusione, John non ricordava che Sherlock, in tutti quegli anni, avesse mai perso qualcosa. Posó dunque la sua valigetta e il cappotto e si mise a cercare insieme a lui. Prima di cominciare domandò:
“Come mai l’hai tolta dalla tasca del cappotto? Ne hai avuto bisogno oggi in casa?”
Sherlock, che se avesse potuto avrebbe infilato la testa e il busto nel cassetto per assicurarsi che ormai fosse definitivamente vuoto, improvvisamente si alzó, come se colpito da un’illuminazione. Ma fu questione di un paio di istanti prima che sopraggiungessero la consapevolezza e la vergogna e si sentisse un’idiota: come aveva potuto dimenticarsi di guardare nel cappotto? John lesse sul suo viso l’umiliazione e a stento trattenne la risata. Sherlock sbuffó seccato e, dirigendosi verso l’attaccapanni, commentó dicendo solamente:
“Non una parola.” E certamente John non poté fare a meno di ridere di quell’imbarazzante dimenticanza.
“Ma quant’era che la stavi cercando?”
“Non ho intenzione di risponderti.” Rispose serissimo mentre estraeva la lente dalla tasca destra del cappotto. Ce la ricacciò dentro e prese il cappotto con un’espressione che gridava orgoglio ferito e il numero di ore che aveva trascorso a setacciare ogni angolo dell’appartamento prima di controllare nella dannatissima tasca. Nel vederlo corrucciato come se fosse stato costretto a mangiare un limone, John si sforzò di smettere di ridere e si avvicinò a lui: lo abbracciò da dietro.
“Oh, dai, non prendertela... Capita a tutti di avere un lapsus...” disse schioccandogli un bacio sulla spalla.
“Non a me.” Rispose voltandosi. “Vieni con me?”
“Ovviamente!” rispose allora John allungando un braccio verso l’attaccapanni per prendere a sua volta il proprio cappotto.
 
Appena saliti sul taxi, John notò che Sherlock si massaggiava vigorosamente la gamba destra, dall’alto verso al ginocchio.
“Ti da fastidio anche oggi?”
“Ormai praticamente tutte le sere... Soprattutto quando faccio le scale... Ma, insomma, sopportabile, non preoccuparti. Com’è andata oggi?” domandò guardando fuori dal finestrino.
“Te l’ho raccontato prima di uscire: niente di che, l’inverno comincia e mi arrivano i primi mal di gola, tossi persistenti e congestioni nasali. Insomma, mi sono un po’ annoiato. E tu come al solito non mi ascolti.”
“E’ perchè racconti cose noiose.”
“Sei un pessimo marito.”
“Non è vero.”
“No, non è vero..” rispose sorridendo e accoccolandosi a lui.
 
Da quando si era ripreso dal cancro e dalla kemio, Sherlock aveva ricominciato a lavorare a ritmo serrato, un caso dopo l’altro senza darsi pace. John aveva provato a fargli mollare il tiro, ma la risposta era sempre la stessa:
“Devo lavorare finchè posso.”
E ormai entrambi sapevano che aveva ragione: la Tietjens aveva detto loro chiaramente che Sherlock reagiva in modo del tutto obsoleto alle terapie e che non avrebbe saputo dire se e quando il suo sistema immunitario ormai ridotto a brandelli sarebbe stato nuovamente attaccato da una malattia in modo altrettanto aggressivo e possibilmente fatale.
Perciò lo lasciò fare, e gli stette accanto quanto più possibile, aiutandolo a vincere ogni piccola battaglia, a collezionare tutti quei successi che lo avevano portato a così alta fama. L’obiettivo principale era sempre stato Moriarty, sin dai tempi del loro primo caso, e Sherlock cercò in ogni modo di attirare la sua attenzione e finalmente sconfiggerlo. Certo, non fu facile, ma il consultive detective riuscì a porre fine alla follia criminale di quell’uomo.
«Sherlock Holmes ha sconfitto il cancro e Moriarty nello stesso anno!» questo avevano detto i titoli dei giornali. In realtà Moriarty, preda della sua pazzia, si era suicidato sul tetto del Saint Barth. Secondo Sherlock, la rete criminale che si era dedicato a tessere durante la sua carriera non sarebbe potuta essere smantellata che in una decina d’anni, ma allora stava a Mycroft e all’MI6 occuparsene. Lui quantomeno, si ritenne immensamente soddisfatto di aver potuto concludere quel capitolo della sua carriera. Inutile dire che, oltre alla soddisfazione personale, dopo tale successo la fama del consultive detective crebbe più che mai; da principio a Sherlock non piacquero i propri fan, così come le cerimonie e le rassegne stampa, soprattutto da quando per coprire la testa ancora rasata aveva usato un vecchio cappello da cacciatore a due visiere pescato a caso tra tante cianfrusaglie al 221b durante un caso: qualche impiccione gli aveva scattato un paio di foto e ormai era universalmente conosciuto come «il detective col cappello strambo». Ma col tempo ci fece l’abitudine ed “essere Sherlock Holmes” cominciò anche a piacergli. Certamente colui che più gioiva di quella nuova situazione era John, il quale dopo l’incubo del Kaposi non avrebbe mai sperato di poter vedere riconosciuti fino a tal punto i meriti dell’uomo che amava. Non solo aveva potuto tornare a lavorare a pieno ritmo, ma aveva fermato Moriarty e il mondo lo applaudiva per questo.
 
“Ho visto al telegiornale che avete contribuito al ritrovamento di due bambini scomparsi! Incredibile... Ma e’ vero che avete trovato il luogo in cui si trovavano a partire da un’unica impronta?”  
“Beh, a grandi linee, si.”
“Davvero straordinario...”
“Oh, lei è in assoluto il nostro più grande ammiratore, signor Holmes...”
“Sciocchezze John, sciocchezze... Sono soltanto fiero dei miei ragazzi.”
“Troppo gentile, come sempre. A dirla tutta, sta volta, Sherlock ha risolto il caso praticamente da solo... Io sono stato piuttosto inutile.”
“Oh, figliolo, sei tutto fuorche’ inutile... La mia Violet lo diceva sempre.”
“Ma mi dica di lei, signor Holmes, cos’ha fatto di bello negli ultimi giorni? Stanno crescendo quei suoi meli?”
“Eh, quest’anno l’inverno è cominciato presto... Dovranno mettercela tutta per fiorire in primavera....”
“Sono certo che saranno splendidi.”
“Spero tanto che tu abbia ragione... Sah, io andrei a dormire che per questo vecchio chiacchierone si è fatto tardi.”
“La lascio andare allora. Dorma bene, ci sentiamo presto.”
“Buonanotte John, grazie per aver chiamato.”
“Si figuri, è sempre un piacere.”
“Buona notte Will!” John rivolse quindi il cellulare verso Sherlock che sedeva sulla sua poltrona davanti a lui:
“Buonanotte papà.” Rispose quindi lui.
John riattaccò. Mentre appoggiava il cellulare sul tavolino sorrise:
“Che c’è?” domandò Sherlock.
“Adoro quando ti chiama ‘Will’.”
“Ti prego, non cominciare.”
 
Quella notte Sherlock si svegliò gridando e piangendo sotto alle carezze di John.
“Va tutto bene Sherlock, va tutto bene... È solo un sogno. Va tutto bene, sono qui...” ma anche se era sveglio, Sherlock non rispondeva e non la smetteva di piangere. Allora John si spaventò perchè di solito, appena si svegliava, anche se aveva vissuto un brutto incubo, si riprendeva piuttosto in fretta: un abbraccio, qualche carezza e si calmava subito. “Accendo la luce, ok? Copriti gli occhi.” Ma Sherlock aveva già le mani sul viso, anzi, sembrava non volerle toglierle mai più. John si alzò e camminò fino ad arrivare al lato dove dormiva Sherlock: accese l’abatjour  e si accovacciò davanti a lui per accarezzarlo. Il marito ora non piangeva più, ma sembrava trovarsi in un apparente stato di shock: tremava e singhiozzava e non si toglieva le mani dal viso. John lo chiamò ancora: “Sherlock, ti prego rispondimi... Mi riconosci? Amore ho bisogno che tu mi risponda, mi stai spaventando. Sai chi sono?”
Finalmente Sherlock lo ascoltò e si scoprì il viso; ad occhi chiusi annuì.
“Bene, ti prego, apri gli occhi.” Sherlock tremava e tirava su col naso: la paura non era passata. Ma obbedì e aprì gli occhi. “Bravo, così. Mi dici chi sono?” Sherlock cercò di sospirare, ma i singhiozzi gli ruppero il fiato:
“Jo-hn... Sto bene, mi dispia-ce averti svegliato. Ora mi calmo, torna a letto.” Cercava di fare dei respiri profondi.
“Ok, ok.” John spense la lampada e andò a sedersi al suo posto. Il detective ancora non si era calmato, perciò il compagno lo invitò a coricarsi sul suo ventre. Sherlock odiava disturbare suo marito in questo modo: sapeva che doveva alzarsi presto per andare a lavorare, ma si arrese perchè questa volta era davvero scosso. Si trascinò verso di lui e appoggiò la testa su di lui: cullato dal respiro di John, dalle sue carezze, a poco a poco si calmò.
“Cosa succedeva?” domandò.
“Moriarty se la prendeva con te...”
“Nulla di nuovo dunque...”
“In realtà si... Io non riuscivo a reagire. E anche tu eri impassibile. Qualunque cosa ti facesse, la ignoravamo sia tu che io.”
“Come se non sentissi dolore?”
“No.. Più come se cercassimo di resistere. Finchè ci guardavamo riuscivamo a togliergli la soddisfazione.”
“E poi?”
“E poi ti ha dato il giro e a questo punto ti torturava senza pietà e tu urlavi e io non potevo muovermi...”
“Questo è più ricorrente. Cos’è che ti ha scosso così tanto?”
“Ha fatto una cosa che non aveva fatto mai. Ha preso una siringa del mio sangue te l’ha iniettata nel cuore. Tu mi hai guardato e ti sei sgretolato nell’aria.” John rimase qualche secondo in silenzio.
“Il solito romantico.” Rispose sarcastico “Ora va meglio?” Sherlock annuì. “Bene, ci corichiamo?” domandó stampandogli un bacio sulla fronte. Sherlock si distese su un fianco accanto a lui in modo tale che i due potessero guardarsi negli occhi. Il moro tese una mano verso John: questo la prese e la baciò.
“Mi dispiace averti spaventato...”
“Sono tornati gli incubi, dunque... Questo è il terzo questo mese... Inoltre credo che per un paio di minuti fossi in una sorta di stato confusionale, come se non riconoscessi la mia voce...”
“Forse stavo ancora dormendo...”
“Forse... Sì, certo...”
“Dormi John, sto bene.”
 
Da diverso tempo si stavano occupando di evitare un presunto imminente attacco terroristico ai danni di Londra: era stato Mycroft stesso a chiedere aiuto al fratello per risolvere il caso. E, dato che questa volta c’era in gioco la città che tanto amava, Sherlock mollò ogni suo caso per dedicarsi interamente a quest’indagine. I dati che erano riusciti a raccimolare erano davvero scarsi e, nonostante Mycroft e i suoi fossero certi  dell’esistenza del complotto, il consultive detective non riusciva a trovare alcuna anomalia o segno di esso. Solo dopo diversi giorni, arrivò ad avere forti sospetti circa l’implicazione di un certo Sebastian Moran e aveva cominciato a tenerlo d’occhio attraverso la rete di senzatetto al suo servizio, ma, nonostante tutto, non aveva ancora trovato nulla di rilevante o compromettente.
 
Quella sera, Sherlock stava fissando il muro tappezzato di fogli, cartine, foto e documenti scarabocchiati ormai da ore. John, da quando era tornato dall’ambulatorio, si era seduto sulla sua poltrona per sfogliare una serie di file nei quali avrebbe potuto trovare qualcosa di utile al caso, ma era davvero troppo tempo che non trovava nulla di interessante e decise di arrendersi almeno per quel giorno:
“Preparo la cena. Ti va qualcosa in particolare?” domandò appoggiando i documenti a terra.
“Irrilevante.” tagliò corto il compagno senza distogliere lo sguardo dallo schema.
John allora si alzò e si avviò verso la cucina per cercare qualcosa di commestibile all’interno del frigorifero:
“Devo andare a fare la spesa...” sussurrò tra sè e sè nel vedere che non era rimasto praticamente più nulla all’interno dell’elettrodomestico. Estrasse l’occorrente per qualche sandwich e si spostò sul tavolo dove, prima di appoggiare gli ingredienti, dovette spostare un mucchio di cianfrusaglie di Sherlock con il gomito per fare un po’ di spazio. Mentre preparava i panini disse ad alta voce: “Sappi che hai cinque minuti: poi stacchi e vieni a cenare.”
“Oh per l’amor del cielo!” esclamò Sherlock “Lavoro a questo caso da praticamente due settimane: le probabilità di poter concludere qualcosa in meno di cinque minuti sono ridicole!”
“Allora sforzati.”
“Il futuro dell’Inghilterra è nelle mie mani e tu vuoi che mi fermi per ‘cenare’??”
“Esattamente. La gamba ti ha dato problemi oggi?”  domandò John chiudendo un panino al prosciutto. Sherlock sospirò e, senza nemmeno rendersene conto si accarezzò la gamba destra. Nell’ultimo mese non aveva fatto che peggiorare: era un male che parte dalla parte alta della coscia e si diffonde pulsando verso il ginocchio, ogni pulsazione era una fitta. E non c’era crema, non c’era ghiaccio o borsa d’acqua calda, olio, massaggio, posizione o riposo che riuscisse a calmarlo, soprattutto la notte. Di recente aveva preso a fargli male anche durante il giorno, solo qualche volta, ma non quel giorno.
“No, oggi no.”
“Bene. Due minuti.”
“Sei crudele.”
“Irrilevante.”
Sherlock non rispose.
John, incuriosito da tale silenzio, si affacciò dalla cucina e lo vide immerso nella lettura dello schermo del suo cellulare:
“Trovato qualcosa?”
“Ce l’ho.” Disse serio, poi levò lo sguardo verso il compagno “L’ho trovato! Alloggia nella stanza numero 206 del Marriott Hotel County Hall.”
“Si è preso un posto in prima fila...” commentò John visualizzando nella mente il lussuosissimo hotel sulla riva del Tamigi. Sherlock sorrise:
“Prendi il cappotto!”
“Cosa non fai per evitare di cenare...”
 
Il tassista corse quanto più potè sotto gli ordini di Sherlock che visualizzava mentalmente il percorso più rapido per arrivare al Marriott Hotel. Non appena il taxi frenò, Sherlock balzò fuori dalla vettura e si precipitò all’interno della lussuosissima hall, mentre John provvedeva a pagare l’autista. Furono subito ricevuti dal receptioner che non appena udì il nome “Holmes” diede la sua più completa disponibilità ai due uomini e si offrì in caso di una loro qualsiasi necessità: evidentemente Mycoft era un cliente stimato all’interno della struttura.
Sherlock chiese dunque di essere accompagnato alla camera 206: il piano era simulare un servizio in camera, fare irruzione nella stanza e incastrare Moran presumibilmente con le mani nel sacco, in caso contrario avrebbero improvvisato qualcosa con l’aiuto del receptioner, piuttosto entusiasta di poter essere d’aiuto. Si avviarono quindi verso gli ascensori e entrarono nel primo che si aprì. Ma, esattamente un attimo prima che l’ascensore si chiudesse, John vide Moran uscire dal secondo ascensore e avviarsi di corsa verso l’uscita della hall.
“E’ lui Sherlock!” disse prendendo a premere con insistenza il pulsante per l’apertura delle porte: “Ce la fai a correre??” domandò. Sherlock gli sorrise e ha appena il tempo di dirgli:
“Ci puoi scommettere” che l’inseguimento ebbe inizio.
In un battere di ciglia furono fuori dall’hotel: Moran fuggiva a piedi lungo il Tamigi in direzione della Torre di Londra. Nonostante il dolore, Sherlock correva come il vento, correva più di John e guadagnava distanza su Moran, il quale ormai non era che a dieci metri da lui, tredici da John. Correvano a perdifiato, i tre uno dietro l’altro. Sherlock si voltò un instante come per controllare che John fosse ancora dietro di lui, ma immediatamente si voltò di nuovo e continuò ad inseguire il terrorista.
Dopo qualche falcata, John vide il compagno voltarsi ancora,  ora due volte di seguito: aveva un’espressione strana in volto, sembra spaventato.
Qualcosa non andava.
John fece per raggiungerlo, ma Sherlock correva troppo velocemente. Dunque lo chiamò:
“Sherlock! Fermati!” gridò.
In quell’istante, in uno scatto, il detective svoltò in un vicolo a destra e continuò a correre. Una scorciatoia forse? John lo seguì imperterrito.  Suo marito stava correndo all’impazzata in direzione opposta a quella in cui stava fuggendo  Moran, perchè?
“Sherlock! Dove stai andando?? Fermati!” gli gridò ancora John.
L’altro, in corsa, si voltò ancora verso di lui e allora John non ebbe più dubbi: Sherlock era terrorizzato. Non stava più inseguendo nessuno: stava fuggendo. “Sherlock! Sherlock che succede?? FERMATI!” Il medico si sforzò all’estremo per raggiungerlo e gli afferrò il braccio. Sherlock si divincolò con un grido:
“LASCIAMI!” inciampò e cadde rovinosamente a terra, graffiandosi le mani, la faccia e le ginocchia sull’asfalto. John lo raggiunse: entrambi avevano il fiatone. Il medico  allungò un braccio per aiutare Sherlock a sedersi, ma questo gridò di nuovo e si divincolò dalla sua presa: “LASCIAMI STARE! CHI SEI? LASCIAMI!” allora i loro occhi finalmente si incontrano e fu chiaro: John non sapeva perchè, ma Sherlock era terrorizzato da lui e evidentemente non lo riconosceva. Come la notte precedente. Il suo cuore mancò un battito o due, ma cercò di mantenere la calma e si accovacciò davanti a lui:
“Sherlock, sono io, sono John... Mi riconosci?” fece per toccargli il viso, ma Sherlock con una manata scacciò il suo braccio.
“Non mi toccare! Non farmi del male!” per John quelle parole furono pugnalate al cuore: rimase atterrito per un paio di istanti. Poi si riprese e gli afferrò il viso con entrambe le mani e lo costrinse a guardarlo negli occhi:
“Sherlock, calmati, sono io!” disse a voce alta. John vide chiaramente le pupille di Sherlock restringersi e finalmente seppe di essere riconosciuto. Il marito si calmò e guardandolo negli occhi annuì, appoggiò saldamente una mano sulla spalla di John e questo tirò un sospiro di sollievo. Vide quindi che Sherlock era del tutto terrorizzato da quello che era appena successo: aveva completamente perso il controllo. John lo abbracciò forte e gli disse: “Va tutto bene, va tutto bene...”
“Cosa mi è successo, John?” chiese Sherlock con la voce rotta dal pianto “Io.. Io non sapevo.. Io scappavo... Oh John...” Sherlock si aggrappò al marito.
“Shh, va tutto bene, va tutto bene.” ripetè estraendo il cellulare dalla tasca: chiamò quindi Mycroft per avvertirlo di ció che era appena accaduto a suo fratello e della fuga di Moran.
Poi si sedettero a terra.
“John, cosa mi è successo?” continuò a chiedere Sherlock.
“Non lo so, amore.” lo baciò sulla fronte e lo strinse a sè “Proprio non lo so...”
 
Il tempo che impiega un’ambulanza ad arrivare dove la necessitano in centro Londra, di sera, è di circa otto minuti. John e Sherlock la attesero seduti a terra in un angolo: il detective tra le braccia del medico. All’arrivo dei paramedici, John si alzò per parlare con due di loro, mentre un terzo si avvicinò a Sherlock con una coperta e una valigetta di primo soccorso: spiegò loro la condizione di suo marito e raccontò nel dettaglio ciò che era appena accaduto. Concordarono che la cosa migliore da fare era portare Sherlock in ospedale affinchè potessero fargli i dovuti esami e venire a capo di cosa avesse causato questi momenti di smarrimento e confusione.
John era un medico. Lui si era specializzato in traumatologia e chirurgia, ma all’università aveva studiato anche altre diverse branche della medicina, tra le quali, anche virologia e psichiatria. Questo, a volte, rendeva piú facili la cose. Altre volte no. Questa volta, per esempio, proprio per niente: il suo non era solo un sospetto, aveva davvero il terrore di aver diagnosticato già da giorni la peggiore delle ipotesi. Ma tacque.
Tornò da Sherlock il quale ora era avvolto in una coperta arancione che avrebbe dovuto aiutarlo smaltire lo shock: tornò a sedersi accanto a lui e, prendendogli la mano, gli spiegò con calma che sarebbero andati in ospedale. Poi tacque. Perchè proprio c’era assolutamente nient’altro che riuscisse a fare.
Quando arrivarono in ospedale, Mycroft era già lì ad aspettarli: non disse molto, semplicemente si limitò ad accompagnarli. Aveva già disposto tutto il necessario affinchè suo fratello venisse assistito nel migliore dei modi e nei tempi più brevi. La dottoressa Tietjens sarebbe arrivata da un momento all’altro.
Sherlock e John trascorsero la notte nella camera che era stata loro assegnata: ormai erano più che abituati a dormire in ospedale e passarono una notte tranquilla entrambi. Il maggiore dei fratelli Holmes non si fece più vedere fino al giorno seguente.
Più che altro grazie all’influenza di Mycroft, i risultati arrivarono verso metà mattina: John fu invitato ad uscire dalla stanza dalla stessa dottoressa Tietjens, la quale gli consegnò la cartella che conteneva i risultati. Senza dire una parola, aprì la cartella per sfogliarne il contenuto e lo lesse. Sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca.
Avere ragione non era mai stato così doloroso.
Allora la dottoressa disse solamente:
“Mi dispiace tanto dottor Watson. Immagino che, come sempre, non necessiti ulteriormente del mio aiuto. Perciò, vi lascio soli.” e con espressione afflitta girò su se stessa e se ne andò percorrendo il corridoio.
Nonostante sapesse che suo marito lo stava aspettando al di là del muro al quale si era appoggiato, John si prese due minuti prima di entrare e riferirgli i risultati. Entrare e dirglielo:  era convinto di non esserne in grado. Avrebbe voluto morire in quell’istante, piuttosto che doverlo fare. Ancora non si era levato la mano dalla bocca quando Mycroft gli si avvicinò: dritto e composto, l’uomo di ghiaccio disse guardando nel vuoto:
“Si ricorda la promessa che mi ha fatto, dottor Watson? È giunto per lei il momento di dimostrarmi che non ho malriposto in lei la mia fiducia.” E, detto questo, se ne andò, a passo posato, così com’era arrivato. John strinse il pugno con tutta la forza che aveva, sino a far impallidire le nocche, e digrignò i denti: avrebbe voluto corrergli dietro e sfondargli la faccia a pugni, ma aveva ragione. Aveva stramaledettamente ragione.
Respirò profondamente, facendo un vano tentativo di calmarsi, ed entrò nella stanza.
 
Sherlock non era certo un medico, ma nessuno conosceva la sua mente come se stesso: era stata la sua più cara compagna sin da quando era bambino, l’aveva conosciuta, aveva preso confidenza con lei e nel corso degli anni l’aveva indagata fino ad arrivare nei suoi più reconditi angoli nascosti. L’aveva studiata, l’aveva messa alla prova, e lei lo aveva aiutato così tanto, in così tanti modi. Prima di John, Sherlock non aveva fede in nient’altro che nella propria mente. E lei, poche ore fa, per la prima volta da quando erano nati, lo aveva tradito.
Mai si sarebbe aspettato una cosa del genere. E il fatto che fosse accaduto significava che la situazione era davvero grave. Era stata amnesia? Se così fosse, da cosa era stata provocata? Di certo la probabilità che centrasse con l’AIDS era prevalente, ma forse no: forse si era affaticato troppo o magari era stato qualche nuovo effetto collaterale dei medicinali che assumeva... La sua testa era satura di interrogativi che, sapeva, non avrebbero ottenuto risposta finchè John non avesse varcato la soglia di quella porta che fissava con ansia.
Finalmente John entrò.
Al detective non furono necessari che pochi istanti per capire che la notizia che il marito gli stava portando era terribile: il suo passo, lo spasmo alla mano sinistra, la sua bocca, i suoi occhi. Era distrutto. Decise perciò di mantenere la calma e aspettare che fosse lui a spiegargli. Disperarsi non aveva senso: se era così grave, non c’era più nulla da fare.
Mentre John si avvicinava al letto su cui era seduto, Sherlock domandò semplicemente:
“Cos’è questa volta?”
John non parlò ancora. Si sedette accanto al marito, gli prese la mano e la strinse forte, forse per trovare più conforto di quanto potesse darne.
 
«Oh John... Mi dispiace tanto...»
 
“E’ l’ennesima infezione...” disse d’un fiato, con un filo di voce. I suoi occhi fissavano il pavimento.
“Infezione?” domandò, come se non avesse inteso “Un’infezione ha provocato un’amnesia momentanea? Quindi deve centrare il-”
“Sistema nervoso, sì.” lo interruppe John spostando lo sguardo sugli occhi dell’altro disegnando sulla sua bocca un sorriso disperato. Tirò su col naso: “È encefalite Sherlock. Colpa dell’AIDS...”  e, dicendolo, si portò una mano agli occhi per scacciare due lacrime con il pollice prima che sgorgassero, mentre con l’altra ancora stringeva quella di Sherlock. Questo rimase in attesa di una qualche spiegazione che non arrivava: John provava come un nodo alla gola che gli impediva di discendere nei dettagli. Allora il compagno lo supplicò:
“Ti prego, spiegami.”
“Io... Non posso...” rispose con voce rotta.
“Non voglio che sia nessun altro a dirmelo, John. Posso sopportarlo solo se lo fai tu. Come sempre, ti prego.” Avrebbe voluto mantenere la calma, ma il moro si accorse improvvisamente che stava tremando e che anche lui aveva la voce rotta da un pianto che desiderava sfogare la sua paura. Ricordando le parole di Mycroft, John trovò appena il coraggio di prendere un respiro profondo e parlare, ma le lacrime precipitarono lungo le sue guance un secondo prima che cominciasse:
 “E’ un’infiammazione dell’encefalo” disse d’un fiato “Encefalite tardiva da AIDS. Attacca le cellule della sostanza bianca e le gliali.” Si prese un attimo “Non esiste cura.” Sherlock annuì e sospirò.
“Dunque comprometterà definitivamente le mie capacità intellettive...?” John annuì a sua volta, disperato. “Sii più specifico.” Il marito, con gli occhi gonfi di lacrime, supplicava di no scuotendo la testa, ma gli occhi di Sherlock lo stavano implorando: aveva bisogno di sapere a cosa stava andando incontro, quale sarebbe stata la sua fine. E John lo capiva. Perciò cercò di essere quanto più specifico possibile in quel momento in cui a mala pena riusciva ad ordinare un pensiero.
“E’... Una corsa verso al vuoto. Si comprometteranno la capacità di attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni e la comprensione...” Sherlock lo ascoltava e cercava di metabolizzare che ormai aveva finito di lavorare “Cominceranno ad essere ricorrenti momenti di stato confusionale, disorientamento, perdite della memoria sempre più frequenti, disturbi del sonno... Si arriva in fretta alla demenza.” All’udire tale parola, Sherlock ebbe un sussulto. Si sentì mancare. Demenza. Certamente non ebbe mai avuto tanta paura come in quell’istante: perdere la testa... Lo spaventava molto, molto di più di morire. In quel momento Sherlock Holmes sperimentò il vero terrore. Era davvero la sua fine. E, come sempre, il tutto accadde all’interno della sua testa: all’esterno parve solamente che avesse sgranato gli occhi. Fu questione di pochi istanti di disperazione, poi tornò con i piedi per terra: tornò a John, che era sempre la cosa più importante, che stava stringendo la sua mano e sedeva accanto a lui e parlava con voce rotta incatenando una parola dietro l’altra. Sherlock sapeva che lui si sarebbe spento a poco a poco, ma colui che avrebbe sentito il dovere di prendersi cura di ciò che sarebbe rimasto di lui era il suo John: lui avrebbe sofferto. Poi, improvvisamente, andò in bianco: si sentì svuotato di ogni emozione, come se avesse smesso di provare alcunchè. E tornò ad ascoltare il suo compagno: “Di lì in avanti sarà l’aggravarsi di questa, alla quale si aggiungeranno difficoltà motorie ed eventuali crisi convulsive... E... In pochi mesi-”
“Morirò.” concluse secco. Il cuore di John perse un battito: lo guardò negli occhi e vide che gli stava sorridendo “Oh, andiamo, amore mio... Lo sapevamo: prima o poi doveva succedere.” John fece ‘no’ con la testa e con un filo di voce disse:
“Non cosi... Non così...”
“No? E come? Meglio di dissenteria o pertosse? O forse ti aspettavi qualcosa di più epico come una pallottola in fronte, o giù da un edificio??” senza accorgersene, Sherlock aveva notevolmente alzato il tono di voce, stava quasi gridando.
“Smettila!” gridò John.
“Ironico: una delle menti più illustri di questo secolo sbiadirà via dai miei occhi poco alla volta lasciando di me poco più che un vegetale... Si, forse hai ragione tu: così è patetico-”
“Smettila! Smettila! SMETTILA! ” gridò ancora John gettandosi addosso a Sherlock percuotendogli il peto con i pugni. L’altro li ricevette perchè sapeva che John doveva sfogarsi, poi lo abbracciò forte. John, in risposta, gli si avvinghiò al collo:
“Non devi dire così, non devi...” ripeteva ossessivamente con voce tremante.
“Mi dispiace tanto...” gli sussurrò Sherlock mentre lo cullava. Due rivoli di lacrime solcarono le sue pallide guance.
“Oh, Sherlock, io... Io non credo che potrò sopportarlo...” John ora piangeva come un bambino.
“Lo so, amore mio, lo so. Mi dispiace tanto...”
 




[Ed eccoci quasi alla fine del nostro viaggio. Io come sempre vi ringrazio di cuore per essere arrivati a leggere fino a qui e vi invito a lasciarmi un commentino qua sotto, che per me è sempre il regalo più grande ^^ So che ci ho messo molto questa volta, ma capirete se vi dico che non è affatto un argomento facile da trattare: spero di aver soddisfatto le vostre aspettative! Ribadisco che non sono un medico e non voglio presumere di saperne quanto uno studente di medicina, nè molto meno, perciò (anche se mi documento molto) non garantisco affatto che ciò che scrivo sia del tutto corretto dal punto di vista medico. Avrei voluto pubblicare questo nuovo capitolo ieri, in occasione della giornata mondiale per l’AIDS, ma non ci sono riuscita perchè ho preferito rivedermela ieri sera con calma e fare le ultime modifiche, perciò nulla, fate finta :p Con tanto affetto, un saluto e un grande grazie!
 
PS: sempre ansiosa di leggere i vostri commenti! _SalvamiDaiMostri]

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Capitolo 13
*** Insieme, alla deriva ***


“La maggior parte dei pazienti nelle fasi più avanzate dell'AIDS presenta sintomi simili a quelli che si osservano negli stadi terminali dei tumori o di altre malattie irreversibili. Questi comprendono manifestazioni dolorose a varia localizzazione, anoressia, perdita di peso, nausea, vomito, dispnea e tosse, ai quali frequentemente si aggiunge una compromissione delle capacità cognitive e motorie causate dall'encefalite da HIV o da altre patologie croniche del sistema nervoso centrale che causano un notevole peggioramento della qualità di vita.”
John si lascia cadere sulla sua poltrona con un lamento, chiude gli occhi e sospira.
Finalmente Sherlock si è addormentato.
Ora sa che deve occuparsi di mettere in ordine l’appartamento e soprattutto la cucina, perchè, se la signora Hudson dovesse salire e vedere tutto quel disordine, di certo si metterebbe a fare le faccende domestiche al posto suo e John sa che non avrebbe la forza di rifiutare. Ma la dolce signora Hudson è una cara amica, la loro padrona di casa, non la governante.
Sospira di nuovo.
Forse è tempo di assumerne una. Mycroft aiuterebbe di certo a trovare qualcuno di idoneo e a pagarle un salario decente.
Sta perdendo tempo: non sa quanto Sherlock se ne starà buono, di norma non molto, e deve assolutamente dare una sistemata perchè certamente dopo l’ora di pranzo la signora Hudson verrà a far loro visita, come ogni giorno. Apre gli occhi: ci sarà qualcosa da mangiare per pranzo?
Si alza e si dirige verso la cucina. Apre il frigo: dei cavoli e del maiale. Bene, un pranzo può organizzarlo, ma dovrà andare a fare la spesa per mettere qualcosa in tavola a cena. Ma Sherlock si comporterà bene sul taxi? E al supermercato? Forse dovrebbe chiedere a Molly di venire a badare a lui per un’oretta... Ma povera donna, avrà lavorato tutto il giorno. Questa settimana inoltre è già venuta una volta, non può chiederglielo di nuovo. No. Lo porterà con sè, dopo aver dormito sarà tranquillo, spera.
John si guarda intorno: com’è possibile che ci sia talmente tanta roba in giro se ha fatto le pulizie tre giorni prima? Sospira di nuovo e comincia a lavare i piatti. Poi pulirà bene la cucina, ordinerà il salone e andrà a buttare la spazzatura. No, aspetterà che salga la signora Hudosn per uscire: se Sherlock si dovesse svegliare da solo si spaventerebbe.
Bussano alla porta.
John ha un sobbalzo: Così presto?? Perchè è salita così presto? Ora vedrà in che condizioni è l’appartamento! Oh dannazione, doveva muoversi prima e magari cominciare dal salone, pensa tirando un pugno all’aria.
“Arrivo, signora Hudson...” risponde avvicinandosi rassegnato alla porta. Apre: “La prego, non badi alla confus-” Aveva dato per scontato che si trattasse della usa padrona di casa perchè non aveva sentito suonafre il campanello, ma non è lei che trova fuori dalla porta: la donna che gli si presenta carica un borsone blu sulla spalla e lo guarda severamente. “Harry??”
“Mi ha fatta entrare la signora Hudson.”
John è sbigottito e rimane a bocca aperta per diversi secondi prima che sua sorella, spazientita, si faccia strada all’interno del 221b dandogli una spallata. John si volta verso di lei scioccato, con il pomello della porta ancora stretto nella mano.
“Puoi anche chiuderla: non ho intenzione di andarmene.” Dice lei lasciando cadere a terra il proprio bagaglio.
John comprende di essere rimasto imbambolato e si appresta a chiudere l’uscio.
“Harry, non ti aspettavo...” le dice sorridendo.
“Già. Immagino che, dato che mi hai tenuto all’oscuro di ciò che sta succedendo a mio cognato, non ti sia potuto passare per l’anticamera del cervello che sarei venuta a darti una mano!” John guarda a terra: sarà anche stato in guerra, ma la furia di sua sorella era peggiore di qualunque altra minaccia. “Come hai potuto??”
“H-hai ragione, mi dispiace. Non era mia intenzione... È che sta accadendo tutto così infretta, non volevo disturbarti e-”
“Balle.” Lo interrompe. John sospira e le indica la propria poltrona:
“Ti prego, siediti.” Lei si accomoda. Il fratello sospira ancora mentre cammina verso di lei: “Chi te l’ha detto?”
“Molly Hooper.”
“Molly?”
“Ci siamo conosciute al matrimonio, ricordi? Siamo rimaste in contatto... È così carina. In ogni caso, non posso crede che tu mi abbia tenuta all’oscuro di tutto questo!” John intanto si siede sulla poltrona di Sherlock. “Io posso darti una mano. Io voglio aiutarvi.”
“Non posso chiederti questo.” Risponde lui scuotendo la testa.
“Puoi proprio scordarti di affrontare tutto questo da solo!” Harry si rende conto di essere stata troppo aggressiva date le circostanze vedendo che suo fratello ancora non la guarda in faccia; si prende qualche secondo e respira per calmarsi: “John, non puoi farcela da solo...” John di colpo alza lo sguardo per incontrare quello di sua sorella:
«È così evidente?»
Harry viene colpita dritta allo stomaco dall’epressione disperata di suo fratello: fino a quell’istante aveva indossato come una maschera di serenità, probabilmente nella speranza che lei se ne andasse infretta, ma ora il velo è crollato e John non può nasconderle più la sua sofferenza. La donna è improvvisamente sconvolta dal comprendere quanto sia realmente grave la situazione: non ricorda di aver mai visto John così distrutto, nemmeno quando Sherlock era sotto chemio.
“So che non me lo chiederesti mai. Ma non devi farlo: Sherlock fa parte della mia famiglia, io voglio esserci per lui. E aiutarti.” Harry si alza, si avvicina al fratello e si siede sul bracciolo della poltrona nera; gli mette una mano sulla spalla e lui la stringe con la sua “Nella nostra casa un concetto del genere non ci è mai stato insegnato o dimostrato... Lo so. Ma io non commetterò gli stessi errori di mia madre. Non abbandonerò mio cognato, non abbandonerò mio fratello. Qualunque cosa accada.” John si alza e abbraccia forte sua sorella, senza dire una parola; lei subito ne è sorpresa, ma poi lo abbraccia a sua volta. “Va tutto bene John, insieme sarà più semplice, vedrai...” Con voce rotta, John riesce a rispondere:
“Grazie.”
“Dai su, siediti. Hai un aspetto orribile.”
“Lo so...”
“Ti preparo un té, lo vuoi?” il fratello annuisce e lei si avvia verso la cucina “E mister zigomi d’acciaio? È in casa?”
John sorride: fa piacere sentirlo chiamare così.
“Dorme. È stato sveglio tutta la notte...” risponde passandosi una mano sugli occhi stanchi.
“Oh. Vuoi andarti a coricare anche tu un momento? Metto io a posto, non ti preoccupare...”
“No, no... “ dice alzandosi e raggiungendola in cucina: “Voglio esserci quando si sveglia: non voglio che si spaventi nel trovarti qui. È molto probabile che non ti riconosca. Detto francamente, di questi tempi posso ritenermi fortunato se riconosce me quando si sveglia...” John si appoggia allo stipite della porta.
“È già a questi livelli dunque...” lui annuisce “Così rapido? Molly ha detto che è colpa dell’AIDS...”
“Sì, è così. Non è una normale demenza... È causata da un’encefalite, che è un’infezione che ha preso per colpa dell’AIDS. Le cellule del suo cervello stanno morendo ad un ritmo irrefrenabile. Da qui il peggioramento così veloce.”
“Molly ha detto che... Gli restano solo alcuni mesi...”
“Alcuni? Molly è sempre così positiva. No, sinceramente non credo che arrivi a vedere il nuovo anno. Saremo fortunati se potremo passare un altro Natale insieme.” iI cuore di Harry manca un battito. Più che per la gravità della situazione che ormai gli era piuttosto chiara, dal tono della voce di suo fratello: si era rassegnato. Lui è sempre stato un combattente: è forse la prima volta che Harry vede suo fratello accettare una resa davanti a una battaglia ormai più che persa. La sua voce non ha un briciolo di speranza. Lei prende dunque le tazze di té e le poggia sul tavolo. “Harry, non sarà facile... Io dubito che ti accetti. E non possiamo costringerlo a convivere con qualcuno che considera un intruso.”
“Sciocchezze, tuo marito mi adora!” risponde lei strizzandogli l’occhio, ma poi si fa seria e gli prende la mano: “Non ti preoccupare, fratellino, se dovesse rifiutarmi e non ci fosse modo di farmi accettare da lui, mi farò da parte. Ma vale la pena tentare: dopo tutto ho lavorato per diverso tempo in quella pensione per anziani a Cardiff, ricordi? Non sono un’esperta ma ho già avuto a che fare con persone nelle sue condizioni, e me la sono cavata piuttosto bene. Vedrai che non farò passi falsi.”
“Alcuni problemi rivestono particolare importanza: la diarrea, i dolori, la febbre ricorrente, l'ipotensione (pressione bassa) e la demenza. Tra i sintomi che accompagnano gli stadi avanzati di malattia va ricordato il dolore. L'interessamento di più organi ed apparati ad opera di patologie infettive e neoplastiche, in particolare del sistema nervoso centrale e periferico, causa dolori locali o generalizzati, quasi sempre ricorrenti o persistenti.”

Seduti al tavolo della cucina, i due fratelli recuperano il tempo perduto: è molto che non si sentono. Lei è venuta a Londra due volte mentre Sherlock stava combattendo contro il Kaposi e l’ultima volta che si sono visti è stato in occasione del compleanno di John dopo l’effettiva vittoria sul cancro. Da allora è passato molto tempo e la sorella ha molto da raccontare: ora vive in un appartamento in affitto ad Edimburgo perchè finalmente è riuscita a trovare un buon lavoro in un negozietto di alimentari. Mentre lei racconta, John la ascolta sorseggiando il suo té e si scopre veramente orgoglioso di sua sorella nel sapere che ora è finalmente serena. Se solo avesse la forza      per celebrarlo anche solo con un sorriso...
Improvvisamente sentono i passi di Sherlock avanzare nel corridoio. Quando arriva nella cucina, John si alza dal tavolo, va verso di lui e gli da un bacio sulla guancia.
Harry lo può finalmente vedere ed è evidente che è consumato dalla malattia: è di nuovo dimagrito come quando stava facendo la chemio, ha delle occhiaie profonde e un colorito drammaticamente pallido, che affiancato al viola scuro delle macchie lasciate dal Kaposi, risalta ancora di più. Maledette macchie, non si abituerà mai a vedergliele sul viso. Nè i suoi occhi nè i suoi capelli scompigliati brillano più come un tempo, sono velati dalla sofferenza, come quelli di un vecchio stanco.
“Sherlock, lei è Harry, mia sorella...” John trema nel presentargliela: Harry non sarà arrivata che da tre ore, ma John già avverte di essere più sereno e sollevato nell’averla anche solo semplicemente accanto a sé e ha davvero paura che Sherlock reagisca male nell’incontrarla ed essere costretto a salutarla così presto. Inoltre in lui si è accesa una minuscola, quasi impercettibile speranza che sua sorella possa davvero fare la differenza nella loro vita e prega che nulla vada per il verso sbagliato.
Harry gli sorride. Improvvisamente Sherlock muove qualche passo verso di lei e le sorride, stanco, a sua volta:
“Harry, ciao...” le dice nel riconoscerla. Harry si alza ed è lo stesso Sherlock ad abbracciarla.
“Ciao Sherlock, come stai?” lo saluta lei stringendolo a sé e accarezzandogli vigorosamente la schiena. Trova l’attimo per strizzare l’occhio a John che, dal canto suo, sorride come non fa da ormai troppo tempo.
“Io bene, ho dormito, sto bene... Resti qui?” dice separandosi da lei. Parla lentamente. Molto lentamente. Una parola alla volta, come se le cercasse a lungo prima di poterle pronunciare. Sono parole semplici, un discorso essenziale, ma quantomeno ha un senso.
“Vorrei restare, Sherlock. Voglio dare una mano a John con le faccende e stare un po’ insieme a voi ragazzi. Tu cosa ne dici? Ti farebbe piacere se restassi?” mentre gli parla, Sherlock si avvicina al suo compagno e appoggia le mani una sull’altra sulla spalla di John e ci appoggia la guancia, come se fosse il suo cuscino.
“Resta Harry, John è tanto triste. Resta.” A John si stringe i cuore a sentirlo parlare così: sa che soffre nel vedere in che condizioni è ridotto, anche se non lo dice mai, magari perchè non riesce proprio ad interpretare quella sua stessa sofferenza e reagisce ad essa come qualcosa di molesto e fastidioso e può capitare che la situazione non faccia che degenerare. “Però io faccio guai, tanti... Non voglio che ti arrabbi...” dice strusciando gli occhi chiusi contro le sue mani sulla spalla di John, cercando di destarsi del tutto e, di passo, una coccola.
“Non te ne devi preoccupare, tesoro.” Gli risponde lei “Qualunque cosa succeda, non mi arrabbierò con te. E poi osa credi? Sono una dura io! Sono forte!” dice facendo la voce grossa e mostrando i bicipiti con qualche smorfia e Sherlock ride di gusto, come un bambino. John fa davvero fatica a crederci. 
“In corso di AIDS si manifestano anche meningiti da criptococco, da istoplasma e tubercolari (da Mycobacterium tuberculosis) che sono caratterizzate da cefalea, stato confusionale, perdita della memoria, difficoltà psicomotorie, mioclonia, crisi convulsive e grave demenza progressiva fino al coma sono, sintomi tipici che appaiono settimane o mesi prima del decesso. Sono frequenti febbre, disorientamento e stupor, delirio, convulsioni, disturbi motori (movimenti involontari) e l’asimmetria dei riflessi, che sono in parte patologici.”

     
Anche se Harry ha insistito per aiutarlo, John ha fatto ordine e pulizia da solo mentre lei e Sherlock hanno passato la mattinata insieme: lei ha potuto constatare che Sherlock è ancora in grado di vestirsi, mangiare e lavarsi da solo, anche se con qualche difficoltà e con la necessità di essere supervisionato. Da quello che ha capito, accade addirittura che di rado prenda del tutto coscienza per qualche ora, qualche minuto, e torni praticamente lo stesso di un tempo. Ma per la maggiorparte del tempo, ormai appare evidente che la sua mente è gravemente lesa: sembra capire abbastanza quello che gli si dice, ma non è praticamente mai in grado di rispondere, di esprimersi in generale. E questo lo frustra molto: Sherlock è sempre stato una persona irrequieta, di poca pazienza, e soprattutto aveva sempre la necessità di spiegare ogni cosa, di avere l’ultima parola su tutto. E ora non ne è più in grado. A volte non se ne rende conto, ma quando si accorge che John o chiunque altro non lo capisce, si arrabbia parecchio. Un occhio inesperto direbbe che parla a vanvera, che ha degli scatti d’ira ingiustificati, ma non è pazzo: la malattia è terribilmente frustrante e gli impedisce di farsi capire e di comprendere ciò che accade intorno a lui. Inoltre la demenza causa aggressività verbale e gli procura molte ansie, come quella di essere lasciato solo, e lo rende molto sospettoso e diffidente di coloro che lo circondano. Tutto questo ha drammaticamente minato la sua personalità, riducendola a poco più di un brandello dell’uomo di pura mente che era stato.         
Dove mangiano in due, mangiano anche tre persone e John riesce a rimpire tre piatti per un pranzo vagamente decente. Sherlock fa meno capricci per prendere l’innumerevole quantità di pastiglie che toccano all’ora di pranzo che per finire il suo piatto, ma d’altronde Sherock ha sempre fatto troppe storie per mangiare.
Poco dopo aver pranzato, la Signora Hudson bussa alla porta puntualissima ed entra nell’appartamento (bello ordinato) con un vassoietto di biscotti fatti da lei in occasione dell’improvviso arrivo di Harriet. Per prima cosa va verso Sherlock che, seduto sulla sua poltrona, accarezza il suo violino e gli da un bacio sulla fronte. Lui sorride, ma rimane seduto. La donna è molto curiosa di sapere la ragione dell’improvvisa visita e, dopo essere stata aggiornata sulla grande novità, libera la sua sete di notizie sommergendo Harry di domande.
Sherlock non si è ancora alzato dalla sua poltrona e continua a far scorrere le sue dita lungo i lineamenti del suo tanto amato violino. È turbato, John se n’è accorto, ma non lo fa notare così che la Hudson non si preoccupi inutilmente: mentre le donne chiacchierano rumorosamente, John si eclissa dalla situazione per defilarsi a vedere cos’ha che non va suo marito.
Gli si avvicina e si accovaccia davanti a lui per cercare il suo sguardo:
“Hey, tutto bene?”
“No.” Dice scocciato. John storce il naso:
“Mi dici cosa c’è che non va?”
“No.” John sospira:
“Capisco... Un dolcino di quelli che ha portato la signora Hudson lo vuoi? Sono molto buoni...” Sherlock si limita ad annuire, il marito allora va in cucina e gli porta il biscotto al cocco e cioccolato, di certo quello che avrebbe più apprezzato tra quelli sul vassoio. Torna dunque da lui: “Dai, dammi il violino che lo metto a posto, e così  prendi bene il biscotto.”
“No.”
“Sherlock, se tieni tutte e due le cose in mano, richiamo che uno dei due ti cada per terra: lo rimpiageremmo entrambi immensamente se il tuo violino si rompesse. E di certo non vorrai sprecare un dolce fatto dalla signora Hudson.” Sherlock non accenna a dargli il violino. “E va bene, lascio il dolce sul tavolo: quando metterai il violino al suo posto, potrai mangiarlo.”
“IO FACCIO QUELLO CHE MI PARE!” grida allora lui, nella cucina, le donne si zittiscono improvvisamente all’udire le urla.
“Sherlock, non c’è bisogno di urlare. Non ti sto obbligando a far nulla: ma il violino è importante e tu lo sai.”
“Adesso è inutile. Non lo so usare più.” Brontola guardando il pavimento.
«Lo sapevo, di nuovo»
“Ah, è di questo che si trattava allora...” John gli sorride e appoggia la sua mano su quella di Sherlock che non molla la tastiera del violino. “Sherlock, non smetterà mai di essere importante. Anche se sta in silenzio.”
“Non serve a quello.”
“Questo lo dici tu. A me serve moltissimo, anche se sta zitto zitto.” Sherlock ora lo guarda negli occhi “Questo violino ha suonato pezzi meravigliosi insieme a te. E io li ho sentiti tutti e me lo ricordo bene. Per questo è importante. Lo capisci?” Sherlock rimane qualche istante in silenzio. “Lo mettiamo a posto?”
“Voglio tenerlo ancora un po’. Il biscotto lo mangio dopo, quando lo metto a posto.”
“Bravo.” gli dice accarezzandogli la guancia. La signora Hudson a stento trattiene le lacrime.
John racconterà poi a sua sorella che Sherlock ha rotto l’archetto un paio di settimane fa: per l’ennesima volta stava provando a suonare un pezzo, ma, sin dai primi tempi dalla diagnosi della malattia, ha cominciato a sbagliare sempre di più e a rimanere sempre più mortificato ad ogni errore fino ad arrivare all’esasperazione per non riuscire nemmeno a cominciare il pezzo decentemente e l’archetto ha pagato il prezzo della sua ira.
Nel raccontare del giorno in cui John, nel trovare l’archetto spezzato nella spazzatura, realizzò che non avrebbe mai più sentito Sherlock suonare, proprio non riesce a rimanere composto. La voce gli trema e torna lo spasmo alla mano. 
“[In corso di demenza] Le aree della funzione cognitiva più frequentemente colpite sono l'attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni e la comprensione. Si presentano problemi di dispercezioni, talvolta allucinazioni.”


“DEVO ANDARE A CASA!” grida ancora e ancora “È venerdì e Mycroft mi chiama tutti i venerdì: se non arrivo in tempo si preoccuperà! Devo andare a casa mia John, è tardi!”
Harry osserva che da quando si è arrabbiato, Sherlock parla più fluentemente: se non fosse per il fatto che non ricorda di vivere al 221b da anni, non sembrerebbe malato. John le ha già detto che è una scenata che monta spesso la sera (sia o meno venerdì) perciò resta seduta e tranquilla in modo tale da non creare un ambiente ostile attorno a Sherlock che sta affrontando un momento di confusione. John sa cosa fare: ha già provveduto a mandare un sms a Mycroft chiedendogli di chiamare subito, e adesso parla a Sherlock gentilmente, accarezzandogli le spalle e la schiena:
“Sherlock, non ricordi? Mycroft sa che sei qui questa sera... Gli ho chiesto io se potevi restare a dormire qui: vedrai che ti chiamerà qui da un momento all’altro. Abbi pazienza, siediti qui con me: prendiamo il telefono in mano e aspettiamo che chiami.” Lo accompagna a sedersi sul divano e si siede accanto a lui tenendolo sottobraccio e dandogli il telefono in mano. Ma Sherlock è terribilmente inquieto e continua a fare domande:
“Ma lo sa il numero? Glie lo hai dato?”
“Lo sa, lo sa. Adesso chiama, sta a vedere...”
Harry osserva la scena. Ricorda ciò che le era stato detto quando aveva avuto difficoltà a trattare una persona affetta da demenza. Prima regola: assecondare e distrarre. È la malattia a far nascere in lui questi comportamenti, non ha senso cercare di riportarlo alla realtá: provocherebbe solo ulteriormente la sua ira e potrebbero nascere situazioni violente.
Improvvisamente il telefono che Sherlock stringe tra le mani squilla. Subito si agita un po’, ma in un batter d’occhio si ricompone e si fa molto serio. Risponde con estrema calma e freddezza:
“Mycroft.”
“William? John mi aveva detto che oggi saresti rimasto con lui. Tutto bene questa settimana?”
“Perchè mai dovrebbero essere fatti tuoi?”
“Sempre un piacere ascoltarti.”
“Sempre tutto tuo. Se hai finito di importunarmi, riattacco.”
“Certo, salutami John. Ti chiamo venerdì.”
“Al diavolo”. Riattacca. Henry è scioccata dalla scena alla quale ha appena assistito: vorrebbe scoppiare a ridere, ma si contiene per evitare imbarazzi.
“Visto?” gli dice John riprendendosi il cellulare “Uomo di poca fede, te lo avevo detto: devi fidarti di me.” Dice scrivendo un semplice «Grazie.» al cognato senza che il suo compagno se ne accorga, poi rinfila il cellulare in tasca: “Forza, andiamo a dormire adesso?”
“Non ho sonno!”
“Oh si invece: sta notte non hai chiuso occhio, certo che hai sonno. Dai: vai a lavarti i denti e a mettere il pigiama. Adesso arrivo. Devo solo fare il letto a Harriet.” Sherlock è scocciato, ma obbedisce e si avvia verso il bagno: non è usuale che obbedisca di buona lena quando è ora di andare a letto, ma evidentemente oggi è di buon umore. John si rivolge allora alla sorella: “Dormirai di sopra in quella che era camera mia, ti va bene?” Harry annuisce e salgono al piano di sopra. “Il letto è già fatto perchè ogni tanto vengo a dormirci io - ora ti cambio le lenzuola.” dice aprendo un armadio e estraendone due lenzuoli puliti. Harriet intanto priva il materasso di quelli usati. “Sai... È già successo diverse volte che si svegli di notte e si spaventi nel vedermi accanto a lui perchè non sa chi sono... Oppure semplicemente gli do particolarmente fastidio perchè russo o tossisco o semplicemente perchè quel giorno gli da fastidio essere in un letto con un’altra persona e patisce molto e non riesce a dormire. Perciò per non disturbarlo io vado a dormire di sopra. Per ora sembra essere la soluzione migliore. Anche se poi la maggiorparte delle volte lui si sveglia prima che io scenda e si lamenta perchè io non c’ero. Ha sempre molta paura che lo abbandoni.” Dice finendo di sistemare le coperte. Poi tace e si siede sul letto. Lei si siede accanto a lui:
“È colpa della malattia, lo sa che non lo abbandoneresti mai. Ma a volte non può ricordarlo.”
“Lo so, lo so.” Dice sorridendole. “Ma fa tanto male lo stesso...”
“Comunque sta sera è piuttosto lucido...”
“Erano settimane che non lo vedevo così. Non durerà, ma fa piacere quando succede.”
“Dai, va da lui. Buonanotte fratellino.” Dice schioccandogli un bacio sulla testa. Lui la guarda negli occhi e le prende la mano:
“Harriet, grazie per essere qui.”
“Coloro che si prendono cura di una persona affetta da demenza, è opportuno che si ponga sempre queste domande: Di cosa puó avere bisogno? Cosa vuole chiedermi? C’é qualcosa intorno a lui che lo disturba? In quanto un suo anche semplice malessere viene comunemente manifestato sottoforma di irrequietezza, e aggressività (in particolar modo verbale). È consigliabile che le manie tipiche di una persona affetta da demenza vengano assecondate da coloro che lo circondano, i quali devono occuparsi di distrarlo e cercare di non  metterlo in situazioni che non é in grado di gestire, in quanto non farlo farebbe insorgere sentimenti di umiliazione e conseguenti momenti d’ira innecessari ed evitabili.


John si sta abbottonando la camicia del pigiama seduto sul letto quando Sherlock arriva dal bagno:
“Ti sei lavato i denti?”
“Sip” si avvicina a lui sorridendo
“Bene?” Sherlock gli si para davanti sorridendo, ma John non bada a lui mentre infila gli ultimi bottoni nelle asole.
“Vuoi controllare?” risponde con malizia, John sorride e alza lo sguardo su di lui e prima di rendersene conto Sherlock appoggia le sue labbra sulle sue. L’altro sorride, non aspettandosi un simile gesto di tenerezza, ma Sherlock non separa ancora la sua bocca da quella del marito: il bacio di fa più appassionato e Sherlock prende delicatamente la testa di John tra le mani, immergendo le proprie dita nei suoi capelli biondi, e insiste passando ripetutamente la propria lingua sulle labbra socchiuse di John finchè l’altro non si arrende ad aprire la bocca e ad accogliere quel bacio completamente e condividerlo a sua volta con altrettanto entusiasmo. A poco a poco, mentre si baciano, Sherlock lo spinge indietro sul letto finchè John non sdraia la schiena e lui può appoggiare un ginocchio al materasso. Prende allora a baciargli il mento e il collo. John per un momento si lascia trasportare dall’enfasi e da quella passione così improvvisamente dimostrata da suo marito. Ma quando Sherlock comincia a sbottonargli la camicia, John torna improvvisamente con i piedi per terra e si divincola dicendo soltanto:
“No, Sherlock.” E si alza per allontanarsi dalla tentazione. Sherlock si siede scocciato sul letto e a mani aperte chiede:
“Perchè?!” John non ha la forza di rispondere che quella parte della loro vita è finita.
Come puoi fare l’amore con una persona che ormai per un sessanta per cento del tempo non ricorda chi sei o chi è lui? Rasenta lo stupro.
Era stato difficile accettarlo, ma la prima volta che Sherlock si è messo a gridare ad amplesso inoltrato perchè improvvisamente era entrato in stato confusionale e aveva cominciato a prendere a pugni il povero compagno, John aveva capito che non ci sarebbe stata un’altra volta. Era finita.
Certo, Sherlock tutto questo evidentemente in questo omento non se lo ricorda.
“È per queste macchie, non è vero?!” dice indicando il suo volo marchiato per sempre dal Kaposi “Queste macchie schifose! Ti disgustano! Io ti disgusto!” sono pugnalate per John, e non è nemmeno la prima volta, nè la seconda, che Sherlock lo accusa di questo. John non sa se gli fa più male quando crede di disgustarlo o quando lo accusa di avere un altro amante, uno intelligente. Scuote la testa:
“Questo non è vero, Sherlock.” Gli dice sedendosi accanto a lui e prendendo la sua testa tra le braccia: Sherlock ora piange e abbraccia la vita di John e sprofonda il viso sul suo petto. “Non esiste uomo sulla terra più bello di te. E non esiste macchia o cicatrice che possa anche solo offuscarlo.”
“Faccio schifo...” ripete “Faccio schifo...”
“No, Sherlock... Ti prego, smettila di dire così...” lo supplica John mentre lo culla tra le sue braccia.
“Non mi vuoi più...” singhiozza
“Non è vero, amore mio, non è vero... Ma è che è tanto tanto complicato... È tanto tanto difficile...”
Restano così in silenzio per qualche momento. Sherlock sta cercando in tutti i modi di capire.
“Ma io ti amo tanto, John...” dice d’un tratto. Si tira su per guardarlo in viso: “Come faccio a dimostrartelo?”
“Oh, Sherlock...” John non riesce a trattenere le lacrime. Con una mano gli accarezza il viso: “Non è necessario che tu lo faccia... Io lo so...”
“Non piangere, John... Non piangere...” chiede John
“Non piango, amore. Ora la smetto.” Dice asciugandosi gli occhi con la manica del pigiama“Ora smetto...”
 


 
[Salve a tutti bella gente e benvenuti a questo nuovo capitolo! Io, come sempre, vi ringrazio di aver letto sino a qui e in particolar modo vi ringrazio con tutto il cuore dei vostri preziosi commenti e recensioni: nemmeno vi potete immaginare quanto siano importanti per me. Quindi un forte abbraccio a tutti coloro che mi seguono così affiatatamente lungo questo percorso che sta ormai giungendo al termine. Cosa ne pensate di questo capitolo? Vi è piaciuto? ^^ Ho operato scelte difficili, non ve lo nascondo, ma sento la necessità di concludere una volta per tutte quest’avventura e tirare un po’ le fila di questa storia in vista di una degna conclusione. Come sempre ci tengo a specificare che non garantizzo in alcun modo che ció che scrivo sia corretto da punto di vista medico, in quanto non sono un medico e non presumo di saperne poco nulla di medicina, anche se mi documento e molto! Vi invito oggi a passare a dare un’occhiata a questo video che fa un po’ riflettere sulla demenza in cui il caro Christopher Eccleston (meglio noto come il Nono Dottore) appoggia una campagna di solidarietà e ricerca appunto per la demenza: https://www.youtube.com/watch?v=x9MvEZskR6o
Voglio inoltre specificare che i paragrafi che ho inserito in corsivo ogni tanto sono parte di vari trattati di medicina che volevo inserire per dire cose sulla demenza e sulla situazione generale in cui si trova Sherlock a questo punto della nostra storia che non ho voluto esplicitare in altro modo durante il racconto, tanto per darvi un quadro più completo della scena: avrei voluto linkarvi le fonti in una sorta di bibliografia, ma ho perso quei dati nel tempo (dato che, ci crediate o meno, ho ricercato e trovato queste informazioni durante la scorsa estate). Dunque mi dispiace, dovrete credermi sulla parola, se vorrete.
Ancora grazie infinite di cuore. Io vi invito a lasciare una recensione qui sotto e vi saluto fino al prossimo capitolo! Con immenso affetto e gratitudine,  _SalvamiDaiMostri ]

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Capitolo 14
*** Progressione ***


PREMESSA NECESSARIA: Mi scuso immensamente per aver tardato così tanto questa pubblicazione. Ho avuto un casino dopo l'altro. Prima casini a livello di salute piuttosto gravi (concordereste con me che l'universo è estremamente ironico e stronzo), poi esami su esami, poi sono rimasta senza pc e quasi perdo tutti i dati... Dunque. Il capitolo non è completo. Non è così che lo avrei concluso. Voglio che lo sappiate: non era stato pensato per essere concluso così, ma davvero, sto tardando troppo ed è proprio ora di pubblicare qualcosa di nuovo. Quindi eccovi questa prima parte :p Scusatemi ancora! Buona lettura! ;) _SalvamiDaiMostri




L’uomo suona il campanello, ed attende.
Quello è probabilmente uno dei momenti peggiori della giornata del signor Holmes: quella manciata di secondi che trascorre tra l’udire il campanello risuonare all’interno del 221b e l’arrivo di qualcuno degli inquilini che gli apra la porta. In quel momento, improvvisamente tutte le sue paure, le sue angosce e il suo dolore, nel trovarsi a un passo dalla loro fonte, si concretizzano e gli addensano il sangue fino a fargli mancare il respiro. I terribili ricordi del giorno prima, e del precedente e di quello prima ancora si accalcano nella sua mente in un tumulto insopportabile che, al pover uomo, fa solo tanta paura e una gran voglia di fuggire via.
Ringrazia silenziosamente Dio che la sua Vanda non stia assistendo a tutto questo e soffrendo quanto lui in quel momento.
Improvvisamente Harry apre la porta, cogliendo di sorpresa l’uomo anziano immerso nei suoi pensieri. La donna gli sorride:
“Buongiorno Siger, entri prego.” È evidentemente molto stanca. Mentre il signor Holmes entra in casa, le accarezza la spalla vigorosamente dicendo soltanto:
“Grazie, cara.” Cerca di sorriderle, ma non sa se ci sta davvero riuscendo. Sale le scale e Harriet, dopo aver chiuso l’uscio, lo segue. In silenzio, giungono al piano di sopra.
Harriet si dirige verso alla cucina per finire di lavare i piatti e l’uomo si avvia verso la stanza di Sherlock; prima di entrare bussa:
“Posso?”
“Venga pure avanti...” lo invita la voce di John. Entra: “Buongiorno...” lo saluta il genero che siede sulla sua poltona che avevano spostato accanto al letto, al capezzale di Sherlock. Si alza per andare ad abbracciare il suocero:
“Buongiorno, John. Come sta oggi?” domanda. John sospira voltandosi verso Sherlock:
“Un po’ peggio di ieri, come sempre.”
Sherlock siede sul letto in pigiama, sotto alle coperte, appoggiato allo schienale e guarda fuori dalla finestra, come se nulla stesse accadendo attorno a lui. Il padre si avvicina al letto entrando nel suo campo visivo; Sherlock lo guarda:
“Papà.” dice soltanto. Il signor Holmes è in assoluto l’unica persona che Sherlock riconosce sempre. John lo invidia molto per questo. L’uomo si china su di lui e gli bacia la fronte:
“Ciao, Will...” si siede allora sulla poltrona di John facendo al genero cenno di andare pure. Lui dunque lascia la stanza e va in cucina.
“Vado di sopra a dormire: la dottoressa dovrebbe arrivare per le due. Ci pensi tu a preparare loro qualcosa da mangiare per pranzo?”
“Certo, lascio qualcosa anche a te per quando ti svegli?”
“Non so. Non credo che avrò fame.”
Quando Sherlock cominciò a peggiorare sul serio, l’ospedale fu uno dei primissimi luoghi ad apparirgli ostile: sin da subito cominciò a fare molte storie per andarci e, purtroppo, aveva bisogno di recarvicisi ora più frequentemente che mai. Quando e se riuscivano ad arcir, un volta lì erano più urla che capricci: temeva ogni infermiere, ogni medico; ripeteva frasi come “Quello vuole farmi del male” e “Ti prego, andiamo via” fino all’esasperazione di John e Mycroft ed era ormai diventato impossibile fargli fare esami del sangue o risonanze o qualunque altro tipo di operazione che richiedesse che stesse fermo e buono. Arrivò a rifiutarsi categoricamente di andarci e non c’era modo di persuaderlo o ingannarlo o obbligarlo. Mycroft si era perció impegnato a riuscire che suo fratello potesse essere assistito a domicilio dalla dottoressa Tietjens e la sua equipe: non era stato affatto semplice, ma il direttore dell’ospedale gli doveva più di un favore. La dottoressa era di fatto l’unico medico che Sherlock, pur sempre con riluttanza e diffidenza, faceva avvicinare: come la maggiorparte delle persone, l’ex consulente investigativo non la riconosceva da molto tempo, ma evidentemente era rimasto qualche forma di fiducia o rispetto nei suoi confronti nei meandri di ciò che restava della sua mente. Per far sì che potesse recarsi a Baker St ogni giorno e prestare a Sherlock le cure che necessitava, la dottoressa avrebbe dovuto trascurare il resto dei suoi pazienti e per convincerla, Mycroft dovette ricorrere a metodi poco ortodossi: lei stimava Sherlock e John, ma era davvero poco professionale ciò che la stavano costringendo a fare. Detto questo, sia lei che Mycroft avevano concordato sul fatto che per quanto scomodo potesse essere per lei, certamente non sarebbe durato a lungo.
Erano trascorse poco più di due settimane da quando Harriet si era trasferita al 221b e, da allora, la situazione era peggiorata notevolmente.
Ormai Sherlock peggiorava a vista d’occhio: ogni volta che si risveglia, una parte di lui, per quanto piccola, era andata perduta. È una settimana che non torna, nemmeno per un minuto, in sé; John si è arreso al fatto che non potrà più conversare con lui. Dispercezioni e allucinazioni sono più frequenti che mai.
Come se non bastasse, la malattia lo sta logorando anche a livello fisico: è ridotto all’osso, di un colorito mortale, le ocxchiaie profonnde e violacee gli contormnano gli occhi, giallastri e velati. Scariche di diarrea e nausee sono ormai parte della sua cuotidianità. Spesso, per ore, il suo corpo è scosso da brividi di freddo talmente forti che lo squotono per ore, a causa di brutte febbri. è ridotto a uno spettro di se stesso. è da tre giorni che sul braccio sinistro di Sherlock sono comparse altre tre macchie scure: il Kaposi si è risvegliato, e lo divorerà vivo. Il lato peggiore della sua sofferenza fisica, è che non può comprenderla: la demenza non gli permette di capire che sente dolore e debolezza perchè è malato, che non può fare niente al riguardo, che lamentarsi e incolpare John non serve a niente. Sente solo una gran confusione e rabbia e tanto tanto male.
Soffre terribilmente. Il buio lo spaventa, lo spaventa ogni cosa a dire la verità.
Passa le notti ad urlare in bagni di sudore: per la maggiorparte del tempo chiama sua madre.
“Mamma? Sei tu, mamma? Dove sei?? Sto tanto male... Canta per me. Fa freddo qui. Si è fatto tardi, è passata la mia ora. Non ti arrabbiare mamma, ma ho paura: cantami una canzone, ti prego! Fa paura, oh Dio. Mi dispiace tanto...”
I vicini si lamentano e John non può biasimarli. Mycroft fa in modo che i capi dei vicini permettano loro di anticipare di parecchio le loro vacanze di Natale e fa apparire nelle loro buche delle lettere biglietti per tutta la famiglia in tali date per le mete da loro preferite, così che si levino dai piedi e non diano fastidio.
Per John tutto questo è estenuante. Anche per Harny lo è: anche se si turnano e uno va a dormire di sopra, lo sente comunque. Non c’everso di dormire nemmeno per la signora Hudson di sotto in realtà... e lei è una persona davvero troppo anziana e fragile per sopportare tutto questo.
Più notti insonni passa John, peggio reagisce alla nuova natura di suo marito. Non avrebbe mai pensato di poter arrivare fino acerti punti. Sa che nulla di tutto questo è colpa sua, ma ormai la situazione trascende la logica del fatto che è la malattia ad indurlo a gridare e gridare e gridare per così tante ore di fila.
Spesso gli fa pena: è davvero triste vederlo ridotto così. È triste vederlo soffrire così tanto, vederlo così frustrato nella prigione che è diventata la sua mente. Ma a volte la rabbia e l’aggresività prendono il sopravvento su John e lo inducono a sfogarsi, a rispondere alle sue urla, ai suoi insulti, alle sue minacce.
Certo, se ne vergogna immensamente.


Sono un disastro, ecco cosa sono. Piango, e piango fino a quando penso di non poter piangere più. E poi piango ancora di più.
Quello è l’uomo che ha trovato e sconfitto James Moriarty. Quello è l’uomo che ho visto rincorrere un taxi per mezza Londra, e beccarlo. Quello è l’uomo che ho visto combattere contro il Golem.
Quello è l’uomo che è stato la mia roccia per anni.
Com’è possibile che quell’uomo sia il passato di ciò che ho davanti?
Lui non ha i suoi occhi brilanti. Non ha la sua agile parlantina. Non ha i suoi muscoli. Non ha nemmeno il suo odore. Il suo colore. La sua presenza. La sua dignità.
Dal punto di vista logico, so per certo che davanti a me giace Sherlock Holmes. L’unico, l’inimitabile. Eppure non lo riconosco.
Sono un disastro.
Dovrei esssere di supporto. Non dovrei pensare queste cose.
Non dovrei pensare neanche che non dovevo costringerlo a fare la chemio l’anno scorso: che avrebbe sofferto solo una volta e avrebbe conservato la sua dignità fino alla fine.
È assolutamente colpa mia. Come ho potuto fargli questo? Dopo tutto quello che lui ha fatto per me. Anche la chemio l’ha fatta per me.
Mi vergogno tanto. Ho condannato mio marito a... tutto questo.
Lui e la signora Holmes. E il signor Holmes. Mycroft. E la signora Hudson. E mia sorella. E tutti coloro che lo amano.
Sarebbe potuta andare peggio di così? No, sul serio: sarebbe potuta andare peggio?
È ridotto allo spettro di se stesso. È così crudele pensare, a volte, che non ha più la sua dignità? Sì, lo e.
 
Basta. Piantala, imbecille! Codardo!
A cosa serve farti queste seghe mentali?? Reagisci, cazzo! Sarai uno schifoso debole, ma lui ha bisogno di te ora più che mai. Avrai tempo di arrenderti.
Reagisci per lui. Tu sei tutto ciò che ha, davvero. Non tradire così la fiducia che ha riposto in te. Non tradirlo, non deluderlo. Non abbandonarlo.
Nulla di tutto ció che farò in futuro sarà mai importante quanto restargli accanto, ora.

 
Di giorno in giorno Sherlock fa sempre più fatica a camminare o anche più semplicemente a stare inpiedi.
Ha bisogno di aiuto per alzarsi e per sedersi, e, sempre di più anche di un sostegno per camminare. Questo significa che non è nemmeno più in grado di andare al bagno da solo.
Spesso, se viene lasciato solo per qualche minuto, seduto sulla poltrona o a letto, John o Harry se lo ritrovano a terra strisciante verso mete poco definite. A volte sembra divertirlo, perciò John lo lascia fare finchè si stufa.
Ma se si sforza, anche poco, fa sempre più fatica a respirare.
Dopo le difficioltà nella deambulazione, arrivano infatti i problemi di respirazione. Dopo una settimana  Sherlock non riesce a respirare ogni volta che il suo corpo rimane del tutto orizzontale: Mycroft provvede allora a sostituire il loro letto con uno in grado di reclinare la parte della testa verso l’alto per aiutarlo a respirare mentre cerca di dormire e ha fatto installare un impianto di ossigeno per quei momenti in cui la posizioone favorevole non è sufficiente.
John si sorprende nel constatare che ciò che più lo repelle è vederlo soffocare: vederlo bocheggiare, cercare l’aria con le narici dilatatate e la bocca supplicante lo fa rabbrividire; è un’imagine talmente atroce che gli da gli incubi ogni volta che riesce a ciudere gli occhi. Ma ciò che più soffre John sono i suoni che fa quando accade: è il verso dell’agonia, della disperazione, della paura. Quando il marito cade in queste crisi respiratorie, John rimane per qualche istante rimane paralizzato, incapace di reagire, incapace di reagire ed aiutarlo. Si odia per questo. Ha bisogno di fare appello a tutto il suo coraggio e a quelle forze che gli sono rimaste per reagire ed assisterlo.
Dalla seguente visita scoprono, oltre a linfonodi ingrossati e candidosi orali, che dalle analisi risulta che il cancro è arrivato ai reni e al fegato e che stanno a poco a poco cedendo. È ormai l’inizio della fine: ha superato il punto di non ritorno. Nessuno è particolarmente sorpreso dalla notizia e John potrebbe odiarsi un po’ meno, se solo non provasse un logorante senso di sollievo.
La Tietjens opta per cominciare con una terapia farmacologica del dolore con antinfiammatori non steroidei ed oppiacei: ora che non c’è più nulla da fare, lo aiuteranno il più possibile a non soffrire e ad andarsene in pace.


Rieccoci! Come ho scritto in premessa, il capitolo non era stato concepito per essere così: doveva andare un po' più avanti, ma per 100 ragioni non sono ancora riuscita ad andare avanti e ormai era troppo tempo che eravate senza nulla di nuovo. Quindi ho ritenuto necessario darvi questa prima parte. Spero vi sia piaciuta! ^^ Io, come sempre, vi ringrazio infinitamente di aver letto fino qui e di seguirmi con così tanto affetto. Vi invito a lasciarmi un commento qua sotto, che per me è il regalo più grande <3 Con tanto affetto, un saluto! _SalvamiDaiMostri
 

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Capitolo 15
*** Il dono ***


https://www.reddit.com/r/HistoryPorn/comments/3vbkxi/ohio_1989_a_dying_david_kirby_is_held_by_his/
Ohio, 1989: A dying David Kirby is held by his father while his mother comforts his little sister. After being diagnosed with HIV in California, an estranged Kirby asked his parents if he could return home to die with family by his side. The photo is credited for changing the face of AIDS

 


 
Will I loose my dignity?
Will someone care?
Will I wake tomorrow from this nightemare?
Will I, Rent

 

 
Io sono un medico, un medico militare.
Ho visto molta gente ammalarsi e sparire a poco a poco ed, infine, morire.
Tutto questo non è nuovo per me.
Eppure mi coglie impreparato, come se fosse la prima volta. Come se non sapessi che cosa accadrà, come se non sapessi come reagire.
 
Contro ogni previsione, a dicembre inoltrato Sherlock era ancora con me.
Quantomeno, lo era fisicamente.
Giaceva del tutto assente nel suo nuovo letto da settimane; guardava fuori dalla finestra e ogni tanto faceva qualche verso, chissà perchè. Ogni suo tentativo di cercare di farsi capire da me o da chi gli fosse vicino era ormai svanito da giorni.
E piangeva, spesso, in silenzio. La sofferenza era probabilmente l’ultima ombra di personalità che gli fosse rimasta.
Mai potrò cancellare dalla mia mente l’immagine del suo corpo in quei giorni: la sua pelle, ingrigita come quella di un vecchio e marchiata dalle decine di macchie violacee che il cancro gli stava lasciando, ricopriva le ossa sottili, non c’era più nulla a separarli. Il suo braccio, lungo come quello di un adulto della sua altezza, aveva il diametro di quello di un bambino magro. Gli occhi vuoti, opachi e ingialliti a causa del corrompersi del fegato sprofondavano incavati nel suo cranio, le occhiaie nere precipitavano verso gli zigomi che, se erano sempre stati così pronunciati, ora sporgevano dal suo viso a tal punto da essere praticamente taglienti. Respirava ormai con grande fatica nonostante l’ossigeno facilitato dalla bombola. Non ingeriva nulla da settimane, le flebo gli provvedevano nutrimento insieme ai medicinali e, ormai soprattutto, gli antidolorifici. Inoltre era collegato ad un catetere, ormai inutile a causa dell’insufficienza renale, e a diverse macchine che monitoravano le sue funzioni vitali.
Io ed Harriet ci prendevamo cura di lui.
Io in particolar modo cercavo di non lasciarlo mai solo e, a dirla tutta, Harry si prendeva più che altro cura di me in quanto, a suo dire, mi stavo trascurando. Ma, sinceramente, nulla al di fuori di colui che giaceva in quel letto aveva alcuna importanza o senso per me.
Oltre al fatto che Sherlock aveva bisogno di me, io avvertivo un malsano ed egoistico desiderio di averlo accanto, di sentire il contatto del suo corpo con il mio. Di sentire il suo odore, sentire il suono del suo respiro, il sordo battito del suo cuore... Avevo la piena consapevolezza del fatto che mi restavano un numero estremamente ridotto di quei suoni da ascoltare e volevo ad ogni costo farli miei, conservarne il ricordo. Per esempio, un terribile giorno mi assalì il panico perchè mi resi conto che non ricordavo del tutto il suono della sua voce: per un momento il ricordo era come sbiadito. E Sherlock non parlava da poco più di un paio di settimane: era davvero bastato così poco tempo per dimenticare? Cos’erano quei pochi giorni rispetto alla vita che mi rimaneva senza di lui? Corsi al computer per ascoltare il suo discorso al nostro matrimonio e, appena pronunciò la prima sillaba, il ricordo della sua calda voce profonda tornò nitido. E da allora mi tormentava il pensiero di dimenticare tutte quelle piccole cose che facevano di lui Sherlock.
Perciò quando arrivava la sera, se era stato particolarmente tranquillo, mi azzardavo a coricarmi accanto a lui e, se non si lamentava, mi addormentavo al suo fianco.
Una di quelle notti, ero sul punto di addormentarmi, supino disteso accanto a lui; avevo ormai gli occhi chiusi, cullato dal monotono e ripetitivo bippare dei macchinari ai quali era collegato mio marito. Improvvisamente sentii il suono della sua voce chiamarmi: ero convinto di stare ormai sognando. Ma poi la sua mano mi accarezzò il viso e aprii gli occhi: Sherlock mi stava guardando con gli occhi a mezz’asta e mi chiamava.
“John... Sei sveglio?” sussurrava, prono.
“Si, sono sveglio amore...” cercai di mascherare il più possibile la mia sorpresa e la gioia nel vederlo cosciente dopo tutto quel tempo e in quelle condizioni, per non allarmarlo.
“John... Come sto andando? Sto andando bene...?” Mi chiese, chiudendo gli occhi e accoccolando la testa sulla mia spalla.
“Cosa intendi?” lo interrogai, più che altro impaziente di sapere se era in grado di rispondere.
“Quant’è... Che sono malato? Non ricordo bene... Non ricordo... Come sta andando?” Rimasi scioccato: davvero era a quei livelli di consapevolezza? Era del tutto inspiegabile.
Avevo sempre considerato quello dell’ultima giornata buona nient’altro che un mito.
Il canto del cigno...
Una vana speranza alla quale si aggrappano coloro che si trovano accanto a persone che stanno morendo: la speranza di vederli per quello che sono un’ultima volta, poter sorridere insieme, dirsi addio, consapevoli.
Certo è che uno non sa quando è proprio l’ultima giornata buona, finché di giornate non ce ne sono proprio più, e allora pensi “Ecco, quella era stata l’ultima”.
Io ero convinto di averla già avuta l’ultima di Sherlock, quel giorno che era arrivata Harriet e l’aveva riconosciuta. Quella era stata una bella giornata e poi non ce n’erano più state così. Da lì in poi era stato un unico inarrestabile declino. E mi ero rassegnato a conservare quel ricordo.
Mi abbassai su di lui e gli baciai la fronte dicendogli:
“Stai andando bene, tesoro, stai andando bene.” Tentai di dire cercando di ingoiare le lacrime.
“Sono un peso..? Ce la fai da solo..?”
“Non devi preoccuparti, non preoccuparti di nulla. Stai andando benissimo, stiamo bene, Sherlock. E non sono solo: Harry è qui con noi, mi aiuta. E Molly viene spesso...”
“Oh.. Cara Harry.. E Molly... Meno male che c’è lei. Quindi non sei solo..?” parlava sottovoce, piano, senza aprire gli occhi. Almeno non vide che stavo piangendo come un bambino.
“No amore mio, non devi preoccuparti...” risposi col fiato rotto
“È un sollievo...” sorrise. A quel punto non potei contenere un singhiozzo e mi aggrappai a lui, disperato, tentando in ogni modo di mantenere un certo contegno.
“Mi manchi tanto sai? Da impazzire.” Lui allora mi guardò, mi prese la mano e me la baciò.
“Era da così tanto tempo che non parlavamo?” ebbi solo la forza di annuire “Sta per finire, allora.” Annuii ancora, incapace di fermare le lacrime che ormai rigavano le mie guance. Tirai su con il naso:
“Lo sai che è Natale? È la vigilia domani...”
“È Natale..?” sorrise di nuovo “Un ultimo Natale insieme allora... è uno bel regalo, non credi?”
“Si Sherlock.. davvero uno splendido regalo.” Dissi stringendomi a lui e premendo il mio viso sul suo petto. Lui mi appoggiò la mano debolmente sulla schiena.
“Sei... Così stanco...”
“No, non è vero...” negai scuotendo la testa
“Oh, si... Ma manca poco. Riposerai. Avrai il tempo di stare in pace, e riposare dopo che tutto questo sarà finito.” Non risposi nulla “Hai pensato a cosa farai... Dopo?” non volli mentire:
“Ci ho provato. Tre volte, da quando tutto questo è cominciato. Ma l’unica cosa alla quale sono arrivato a capo è che la vita senza di te non mi interessa. Non concepisco un dopo, non ci riesco.. Non voglio pensarci più.”
“Vivi.” Disse nitidamente “Torna a lavorare. In ambulatorio... O risolvi casi... Ma non morire. Butta la pistola. Non insultarmi mai puntandola contro te stesso. Prometti.”
“La pistola l’ho venduta dopo che quasi ti ci ammazzi giocandoci un mese fa-“
“Promettimelo. Un ultimo regalo, John... per me: promettimi... che vivrai.” Ci guardammo negli occhi per un istante eterno: me lo stava ordinando. Ero il suo ultimo desiderio, come potevo negarglielo?
“Tu sei l’unica ragione per la quale io sono vivo. Mi hai salvato così tante volte e in cosi tanti modi-”
“Questo è l’ultimo. Lascia che ti salvi. Un voto. Il tuo ultimo voto: trova la forza di farcela.”
Glie lo promisi. Suggellai quel patto con un bacio.
Ci addormentammo insieme in quel letto.
Non seppi mai se quella conversazione fosse realmente avvenuta, a volte credo si trattasse soltanto di un sogno, ma farebbe davvero differenza?
 
Sherlock non riprese mai più conoscenza.
Nei quattro giorni che seguirono, stette sveglio circa un paio d’ore al giorno.
Poi si perse definitivamente nel vuoto di quei suoi occhi malati.
 
Ritenni fosse necessario che la dottoressa Tietjens venisse a visitarlo per confermarmi ciò che io ormai sapevo bene: non gli restavano più molte ore.
 
Convocai allora coloro che lo amavano perché potessero salutarlo un’ultima volta.
Harry, il signor Holmes e Mycroft vennero per restare e vegliarlo con me: ci turnammo affinché non rimanesse mai solo. Sono certo che ognuno di loro si sia preso il suo tempo per dirgli addio nel privato di quella stanza chiusa.
La mattina presto del giorno seguente, Mike passò prima di andare al lavoro. Li lasciai soli nella camera, ma sentii chiaramente Mike dirgli che era stato un onore conoscerlo ed essergli amico. Gli disse:
“Ci vediamo presto” ed uscì sorridendo, come faceva sempre. Mi salutò e si diresse al San Barth.
Molly e Greg vennero insieme, nel pomeriggio, dopo il lavoro. Lei non volle entrare da sola nella sua stanza, non ci riuscì, perciò Lestrade entrò con lei. Io rimasi sulla porta. Molly si avvicinò al corpo inerme di Sherlock, si abbassò sul suo viso e gli sussurrò qualcosa all’orecchio; poi ruppe in un pianto sconsolato, lo baciò forte due volte sulla fronte accarezzandogli il viso e uscì di corsa da casa. Nessuno le disse nulla. Non so cosa fece Greg mentre andai a chiudere l’uscio che Molly aveva lasciato spalancato, ma quando tornai lui stava uscendo con gli occhi lucidi. Mi Abbracciò all’improvviso e io ricambiai domandando come un idiota:
“Lo hai salutato?” e lui annuì tirando su col naso
“A modo nostro.” aggiunse tentando un sorriso cercando di ricomporsi.
Mi chiese se stavo bene e se avevo bisogno di qualcosa, ma non si aspettava che dicessi la verità. Se ne andò in fretta, cercando di evitare coloro che popolavano la casa.
La signora Hudson salì poco dopo, con l’aria pacifica, di chi ormai ha visto tante persone andarsene e conosce perfettamente quegli ultimi momenti in cui nessuno sa cosa provare. Prese una sedia e sedette accanto al Signor Holmes al capezzale del suo William.
“Vorrebbe pregare con me, signora Hudson?” domandó l’uomo anziano, e lei si limitò ad annuire e stringergli il braccio. Restarono un paio d’ore, poi andarono a dormire entrambi.
Restai dunque solo con lui.
Chiusi la porta, nessuno ci avrebbe disturbati.
Mentre mi avvicinavo al suo letto per sedermi sulla mia poltrona, realizzai che in quegli ultimi giorni ero stato del tutto assente, come apatico. Non avrei saputo dire se avessi davvero provato alcun ché 0dopo quella nostra ultima conversazione.
Mi sedetti accanto a lui e presi la sua mano, la strinsi con entrambe le mie appoggiando i gomiti al materasso e contemplando quel suo volto scarno e livido.
Allora, nello scontrarmi con la tragica realtà dei fatti, le emozioni presero il sopravvento su di me.
Non riuscivo più a piangere, ma presi a parlargli sottovoce, accarezzandogli quei riccioli neri che adornavano la sua fronte: gli dissi ogni cosa, tutto ciò che dovevo dirgli. Parlai per ore, quasi senza prendere mai fiato, eppure non ricordo praticamente nulla di ció che gli dissi.
Aneddoti, pensieri, frustrazioni, ricordi, suppliche, preghiere...
Potevo percepire, dal contatto con la sua mano, la vita abbandonare il suo corpo a poco a poco. Se ne stava inesorabilmente andando e non potevo fare assolutamente nulla per evitarlo.
Ero arrabbiato, furioso con l’universo perchè me lo stava strappando via, con lui perchè mi stava abbandonando, con me stesso consapevole di essere stato causa di tutta la sua sofferenza, con la Tietjens perchè non lo aveva aiutato di più, perchè non aveva fatto abbastanza, con Mycroft per non averla costretta a farlo, eccetera. Ma ero anche terrorizzato, soprattutto all’egoistica idea di rimanere solo, ma anche di ció che il mio Sherlock, l’amore della mia vita stava per affrontare: non volevo che facesse quell’esperienza da solo. Morire. Ma avevo promesso.
Una grande parte di me mi stava odiando perchè ancora lo supplicavo:
“Non abbandonarmi, ti prego, non abbandonarmi”
Quando sapevo perfettamente che per lui la morte sarebbe stata un sollievo dopo quella tortura.
Cominciarono ad attraversarmi la mente immagini terribili e ripugnanti del suo corpo là, sotto a metri di terra fredda, dove tutto era buio e gelido e lui aveva paura del buio e non poteva restare solo! E vedevo i vermi e gli insetti farsi strada a poco a poco all’interno della sua bara e rovinare quel che restava del suo bellissimo corpo e divorarlo e corromperlo penetrandogli gli occhi, il cuore! Io-Io non potevo permetterlo!
E faceva male, cazzo. Tutto, ogni cosa, ogni fibra del mio corpo, ogni parola, ogni respiro bruciava e tagliava e dilaniava il mio essere, ogni istante era peggiore del precedente.
Pregai anche Dio di aiutarlo, di proteggerlo dove io non potevo raggiungerlo, di perdonarlo.
E non smisi di parlare, una parola dietro all’altra, con la bocca ormai asciutta e il cervello esausto, continuavo a parlare e a parlare... Forse in un inutile e patetico tentativo di fargli avvertire in qualche modo la mia presenza, perché dal profondo del suo coma sentisse che io ero accanto a lui e lo sarei stato fino all’ultimo.
“Anche quando morirai sarò sempre tuo. E’ la cosa migliore che potrei mai essere. Ti sarò grato per tutta la vita.” Conclusi, e finalmente tacqui.
Poi il tempo continuò a scorrere, immagino, e si fece mattino.
 
Improvvisamente il bippare dei macchinari, che ormai era diventato la colonna sonora finale della nostra vita insieme, cambió in un fischio continuo ed assordante.
Mi destai e mi accorsi che non ero più solo, ma nella stanza c’erano anche Mycroft, il Signor Holmes, la Hudson ed Harry.
Il suo cuore si era fermato. Il suo petto cessò di alzarsi ed abbassarsi a poco a poco.
Rimasi immobile, con un’espressione disperata, fissando il suo volto, incapace di reagire.
Passarono un paio di eterni secondi.
Poi Mycroft si avvicinò, un passo dopo l’altro, si chinò sul viso del fratello e gli baciò la fronte:
“Addio Will, dí alla mamma che le voglio bene.” E, detto ciò, premette il pulsante per spegnere la macchina che fischiava.
Improvvisamente gli altri ruppero in pianto. Il signor Holmes cadde sulle ginocchia accanto al letto con una mano sugli occhi e l’altra che stringeva il braccio del figlio esanime.
Non mi accorsi di nient’altro.
Rimasi com’ero, con la sua mano tra le mie, fissavo il suo volto. Non so per quanto.
Suppongo che ad un certo punto gli altri mi lasciarono solo con lui.
 
Sei morto la mattina di un mercoledì. La nostra mattina preferita della settimana, anche se non te lo ricordavi più, perchè potevamo fare colazione insieme perchè era il mio giorno libero. Sei morto dopo la peggiore delle notti di tutta la mia vita. Ma va bene così. Ti ho chiesto fin troppo. Riposa ora, la tua sofferenza finalmente è cessata.
 
Venne poi un’infermiera per lavarlo e vestirlo, ma volli farlo io. Ed Harriet mi aiutò.
Ci eravamo ormai più che abituati, e lo avremmo fatto un’ultima volta.
Non credo di aver mai fatto qualcosa di altrettanto doloroso.
 
Mycroft fece lavare e stirare il completo nero preferito da Sherlock, insieme alla camicia bianca.
Dunque lo vestimmo.
 
Mi accorsi presto che avevo il terrore di rientrare in quella stanza, una volta lasciata: avevo del tutto perduto il coraggio di affrontarlo. Di affrontare il fatto che lui fosse ancora lì, immobile, dove e come lo avevo lasciato, perchè era morto. E nulla avrebbe mai cambiato questo.
Ero solo. Di nuovo.
È buffo, il giorno peggiore non è quello in cui perdi qualcuno: almeno quel giorno hai qualcosa da fare. I giorni peggiori sono quelli in cui continuano ad essere morti.
Passai decine e decine di volte per quel corridoio, e mi fermai davanti a quella porta e qualche volta impugnai anche la maniglia, convinto di poter vincere la mia codardia ed entrare e vegliarlo finché potevo, ma non ci riuscii mai. Non lo rividi più fino al giorno del funerale, del quale si occupò Mycroft.
Fino ad allora rimase nella nostra camera, con qualche candela e i fiori che arrivavano a poco a poco da coloro i quali Sherlock aveva aiutato durante la sua carriera, ma anche dagli amici e dagli ammiratori. Di tutto questo si occuparono la signora Hudson, Harry e Molly.
 
La notizia che il grande ed unico consultore investigativo era defunto infatti si diffuse velocemente e la stampa, come previsto, vi si interessó più del dovuto e tentó di avvicinarsi al 221b, ma Mycroft provvide a tenere lontani i giornalisti. I funerali inoltre sarebbero stati privati e chiusi a pubblico e stampa e il luogo di sepoltura non fu reso noto fino a riti conclusi.
 
Quando infine giunse il momento di chiudere la sua bara per portarla al cimitero, entrai per la prima volta nella stanza dov’era rimasto: vedere il feretro nella stanza, accanto alla finestra, mi distrusse. Greg era con me e dovette reggermi mentre mi lasciavo cadere sulle ginocchia, disperato. Non riuscivo a rialzare gli occhi sul suo corpo.
“Codardo!” mi dicevo mentre mi coprivo il viso con le mani.
Sentivo le mani di Lestrade strofinarmi vigorosamente le spalle. Mi diceva di farmi forza, cos’altro avrebbe potuto dire? Mentre mi rialzai, gli risposi che stavo meglio e che ce la facevo. Gli chiesi un minuto da solo con Lui, e lasció la stanza.
Allora mi imposi di voltarmi e mi costrinsi a guardarlo.
Era fisicamente doloroso guardarlo, ma mi avvicinai comunque al letto. Tremavo come una foglia.
Lui giaceva così ben vestito, elegante, ordinato e pettinato nel feretro. Non so chi ce lo avesse messo, ma meglio così perchè avrei potuto tagliargli le mani se lo avessi scoperto. Mi avvicinai. Era così bello... Pacifico. Improvvisamente mi sembró come addormentato; certamente non dormiva così calmo da tempo immemore. Sapevo cosa volevo fare, ma muovermi sembrava diventato terribilmente difficile: ero come gelato. Strinsi i pugni e, esitando tremante, allungai il braccio e presi la sua mano sinistra e con tutta la delicatezza di cui ero capace in quel momento: era gelida e rigida, come fosse stato di plastica.
Gli sfilai allora la fede per metterla al mio dito, davanti alla mia.
Gli accarezzai i ricci corvini e li sistemai sulla fronte pallida.
 
Volli baciarlo un’ultima volta.
 
Poi tornó Greg e, rimanendo sull’uscio, mi chiese:
“Sei pronto?” e io risposi:
“No. Assolutamente no.” E Greg comprese e mi mise una mano sulla spalla e la strinse forte.
Ci raggiunsero allora Mike, Mycroft, il signor Holmes con un ragazzo delle pompe funebri: tutti erano ben rasati, pettinati e indossavano eleganti vestiti neri e lunghi cappotti e sciarpe dai colori scuri, ma comunque di elegante presenza, e un’amara espressione di tristezza, mista a rabbia e tedio in volto. Non avevo nessuna intenzione di agghindarmi, ma mi passai la mano sulla mascella e realizzai che erano parecchi giorni che non mi radevo: decisi che avrei indossato il cappotto lungo e nero per salvare le apparenze.
Nessuno disse una parola.
L’impiegato delle pompe funebri sollevó il coperchio della bara che era appoggiato alla parete e lo depose con professionalità sul feretro prima che potessi trovare la forza di gridare “No! Non chiuderlo! Lascialo qui!”.
Ancora silenzio. Tutti sapevamo cosa fare.
Insieme, tutti e sei sollevammo la cassa sulle nostre spalle; credo che non fosse la prima volta per nessuno di noi e sono certo che tutti per un istante pensammo la stessa cosa: “Mio Dio, quanto è leggero.”
Di lì all’arrivo al cimitero, ricordo poco, nulla in realtà. Devo aver spento il cervello nel tentativo di concentrarmi su ció che stavo facendo ed evitare di fuggire, gettarmi a terra, rannicchiarmi e piangere mio marito, che era tutto ció che volevo davvero fare.
Ricordo appena che Mycroft in auto mi disse che, se volevo, aveva predisposto che io potessi dire due parole ad un certo punto della cerimonia. Non ero certo di voler fare un elogio funebre, non ne vedevo l’utilità. Ma, siccome so che i funerali sono per i vivi, non per i morti, e che coloro che avrebbero presenziato alla cerimonia avrebbero voluto ricordare Sherlock, pensai che, se non lo avessi fatto io, lo avrebbe pronunciato Mycroft stesso un discorso, e Sherlock non me lo avrebbe mai perdonato.
Pensai allora a cosa dire, mentre la vita intorno a me continuava a scorrere senza che io me ne rendessi particolarmente conto: stringevo mani, ricevevo pacche sulle spalle, tante condoglianze, un paio di abbracci, tante, tante, troppe parole.
 
Perchè non tacevano tutti una buona volta? Davvero, non c’era nulla da dire.
 
La bara chiusa, ricoperta di fiori bianchi, sospesa sulla fossa: non vedevo altro.
Non sentivo nulla di ció che diceva colui che ufficiava la cerimonia.
Mycroft mi fece un cenno: toccava a me. Mi alzai, senza sapere davvero cosa avrei detto. Rimasi alcuni secondi in silenzio, ma non credo che nessuno si aspettasse che parlassi in fretta. Improvvisamente avvertii lo spasmo alla mano sinistra: alzai la mano e me la portai sotto al naso per guardarla tremare:
“Già mostro i sintomi della sua assenza.” Risi “Erano anni che non tornava questo spasmo. Da poco dopo che ci conoscemmo... Uno studio in Rosa. Ricordi Mycroft? Mi dicesti che era causa del fatto che mi mancava il campo di battaglia, ma che con tuo fratello avrei visto quella battaglia. E avevi assolutamente ragione. Ed ora.. Beh, suppongo che dovrò imparare a vederlo da solo.” Mi presi qualche altro attimo per ordinare due pensieri “Sherlock era un uomo assurdo, e per molti insopportabile. Ed era brillante come nessun altro. Non è stato amato da molti, ma è stato amato profondamente. Amarlo è stato un vero privilegio per me. Mi ha reso l’uomo più felice della Terra, spero solo di averglielo detto abbastanza volte perchè ci credesse davvero.” Sospirai “Sherlock, sei stato l’uomo migliore e il più saggio che io abbia mai conosciuto. Ed è così che ti ricorderò.”
 
Cominció a piovere, ma non me ne volli andare finché lo ebbero seppellito. Mycroft stette accanto a me, reggendo un ombrello nero sulle nostre teste.
Non ci dicemmo nulla finché non uscimmo dal cimitero per cercare un taxi. Quando arrivó il mio Mycroft mi disse:
“Ha mantenuto la sua parola, Dr Watson. Grazie. È giunto il momento che io mantenga la mia.” E mentre parlava si infiló una mano nella giacca e ne estrasse una busta da lettere; me la porse. “So che avrebbe voluto averla prima, ma seguivo ordini precisi.” La presi senza rispondere nulla. Aprii la portiera del taxi e feci per entrare ma Mycroft mi disse ancora “Essere necessari, che una persona abbia bisogno di te, è un dono. Purtroppo ci si accorge di averlo ricevuto sempre troppo tardi. Non è forse così?” non mi presi nemmeno il disturbo di guardarlo, ma lui proseguí: “Ho perso mio fratello. Sono stato un pessimo fratello. Ho perso mia madre, sono stato anche un pessimo figlio. So di essere un pessimo cognato, John, ma era desiderio di William che io non la perdessi di vista. La prego, non mi costringa a metterla sotto sorveglianza.”
“Io non la costringerò a fare proprio un bel niente, Mycroft, ma se ciò che intende è che ogni tanto vorrà venire a prendere il tè a casa nostra, sappia che è il benvenuto. Le minacce non sono necessarie, non lo sono mai state.” Mycroft sorrise cinico “Quanto tempo fa glie l’ha data questa?” domandai a proposito della lettera.
“Qualche mese fa. Un paio di giorni dopo che gli fu diagnosticata l’encefalite.”
“L’ha letta?”
“È sigillata.”
“L’ha letta?” Ripetei
“Certamente.” Sorrisi un istante anche io.
“Arrivederci, Mycroft.” Mi sedetti nel taxi.
“Arrivederci.” Rispose.

 
 
Will I loose my dignity?
Will someone care?
Will I wake tomorrow from this nightemare?
[Will I, Rent. Film Link: https://www.youtube.com/watch?v=okMdC9-YqrE, Musical link: https://www.youtube.com/watch?v=tmg2JRW_8uY]
 

 
E così si conclude il nostro viaggio. Vorrei poter dire che è stato facile, ma porca miseria se è stata dura! Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto e vi invito a lasciarmi un commento in recensione! Vorrei spendere due parole sui motivi che mi hanno spinta a scrivere questa storia:
10 muoiono di AIDS ogni secondo. Ogni secondo. Nessuno parla di AIDS. O meglio, ogni tanto qualcuno sì, ma mai in maniera specifica. E sta tornando. Ed è colpa dell’eroina. E questo è terribilmente grave. Combinazione un paio di settimane fa è uscito un articolo su Republica.it (link: http://www.repubblica.it/salute/2016/06/07/news/aids_gli_italiani_non_la_conoscono_ancora-141485535/?ref=fbpr ) in cui si dice chiaramente che solo il 57% dei giovani italiani tra i 25 e i 34 anni, ossia la fascia di età più a rischio contagio HIV, sa rispondere alla domands “cos’è l’HIV?”. Questo è estremamente grave. Quindi ve lo chiedo per favore, informatevi. Vi prego. E io mi sono documentata, ma non basta che vi fermiate qui: questa è una storia scritta da una persona a caso. Leggete quanto più possibile, cercate di capire cosa è davvero successo dagli anni 80 a oggi rispetto a questo argomento. Guardate gli splendidi film a tema AIDS! Come The Normal Heart, o Pride, o Rent, o Angels In America (i quali ho citato in più momenti) etc etc.
Inoltre questo è il mese del GayPride; quale miglior periodo per pubblicare il finale di questa storia. In quanti paesi John e Sherlock non si sarebbero potuti sposare? In quanti stati quando Sherlock si fosse ammalato, John non avrebbe potuto essere messo al corrende delle sue condizioni e restargli accanto in quanto non un suo parente? In quante sarebbero potuti andare in prigione o addirittura messi a morte per il solo fatto di amarsi? Ponetevi queste domande perchè, finchè la risposta non sarà “nessuno”, la battaglia non sarà vinta. 
Io vi ringrazio ancora infinitamente per essere arrivati a leggere la fine di questo tragico delirio. Vi mando un bacio con tutto il mio affetto e la mia gratitudine.
Comunque non sparirò.. Ho delle nuove succulente idee in ballo... E adesso ho tutta l’estate per scrivere >< Quindi non mi abbandonate! Ci sentiamo presto, con affetto.

PS: Questa è la mia pagina facebook a tema Sherlock: magari vi va di metterle mipiace ;) https://www.facebook.com/Sherlock_The-Game-is-on-278992678944468/?ref=bookmarks 
 
_SalvamiDaiMostri

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