You Can Remember

di callingonsatellites
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il risveglio ***
Capitolo 2: *** Il cellulare ***
Capitolo 3: *** Ritorno a casa...con sorpresa ***
Capitolo 4: *** Partenza inaspettata ***
Capitolo 5: *** Un basso e un ragazzo capelluto ***
Capitolo 6: *** Occhi-nocciola ha un nome... ***
Capitolo 7: *** Scoperta ancora più scioccante ***
Capitolo 8: *** Ciao, Kimmy! ***
Capitolo 9: *** "Preferirei starti lontano..." ***
Capitolo 10: *** "...ma a quanto pare non ne sarei capace." ***
Capitolo 11: *** Pizze e macchine virtuali ***
Capitolo 12: *** Shopping pazzo e telefonate ancora peggio ***
Capitolo 13: *** Settembre ... ***
Capitolo 14: *** Un pastrocchio sul muro e un intervento non desiderato ***
Capitolo 15: *** Complicazione ***
Capitolo 16: *** Blue hair-dye ***
Capitolo 17: *** Guai ***
Capitolo 18: *** Angeli degli autobus ***
Capitolo 19: *** Brutte situazioni ***
Capitolo 20: *** E rieccoli in arrivo ***
Capitolo 21: *** Vieni sabato sera? ***
Capitolo 22: *** Provare non fa per noi. ***
Capitolo 23: *** ... rimanere sobri nemmeno. ***
Capitolo 24: *** Camminando sola ***
Capitolo 25: *** Forse puoi farcela ***
Capitolo 26: *** Not so long, and goodnight. ***
Capitolo 27: *** Thanks for the sweetest memories ***
Capitolo 28: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il risveglio ***


Di quel giorno, o quel momento (non ricordava bene quanto fosse lontano e né quanto fosse durato), aveva solo pochi, confusi ricordi. L'aria fresca che sbatteva sulle braccia. Le gambe leggermente indolenzite, come se avesse fatto una lunga corsa. Gli occhi che bruciavano per la luce del sole. E poi un forte dolore alla testa.  E adesso era lì, distesa su un letto d'ospedale, a fissare il soffitto bianco. Bianco come le pareti. Bianco come i camici dei medici che le mormoravano attorno. Bianco come la sua mente. Un foglio bianco, vuoto.
Non capiva. Non ricordava nulla. Si sentiva debole, incapace anche solo di alzare la testa, o di dire una parola. Per fortuna ci pensò qualcun altro per lei.
-Kim? Kim, tesoro...mi senti?- una voce familiare la chiamava poco distante. Un lampo squarciò il bianco che aveva in testa: "Mamma". Ecco che le rotelle ricominciavano a girare.
-Kim, riesci a sentirci? Riconosci questa persona? Ti ricordi di lei?- un medico indicava sua madre. "Ma certo che la conosco!! E' mia mamma!" pensò Kim. Ma non riuscì a dirlo. Così si limitò ad annuire, sussurrando "mamma".
-Esatto, cara. Questa è tua madre. Sai come si chiama?- le chiese ancora il medico.
-Ka...Karen.- riuscì a sillabare lei, debolmente.
-Bravissima. E come si chiama il tuo papà?
-Michael. - "Perché mi sta facendo queste domande sceme?!" si chiedeva Kim.
-Stia tranquilla, signora. E' solo una lieve amnesia dovuta alla botta sulla testa. La ragazza ha tutti i ricordi fondamentali, forse avrà scordato qualche amica, o qualche giornata, ma niente di più. Molto, molto riposo, e si riprenderà in breve.- "Amnesia??" Kim sgranò  gli occhi (per quello che riusciva).
-Ok. D'accordo. Su, piccola, ti lascio riposare ancora un po', poi tra qualche giorno ti porto a casa. Vabene?- gli occhi di sua madre erano lucidi di lacrime, nonostante cercasse di mantenere la calma. -Arrivederci, dottore. Grazie mille ancora...ma proprio non posso rimanere qui?- chiedeva, speranzosa.
-Chiediamolo a lei...Kim, vuoi che la mamma resti qui con te?- quel dottore le parlava come se avesse cinque anni, benché ne avesse ben dieci in più. Kim fece di no con la testa. Voleva rimanere da sola, non sapeva il perché. Così Karen uscì dalla stanza, accompagnata dal dottore. E l'ultima cosa che Kim vide fu la porta chiudersi.
 
Correva con il vento e il sole contro, correva senza una meta precisa. Sbatté su un muro, e cadde. Rimase per un po' accasciata a terra, con le mani sulla testa dolorante. All'improvviso tutto era stato circondato dalla nebbia, e l'unica cosa visibile era una il muro davanti a lei. Una figura le si mosse vicino. Alzò lo sguardo...due occhi nocciola la fissavano. Poi il buio completo.
 
Si svegliò ansimante. Era stato solo un sogno? Dove aveva sbattuto? E chi era la figura dagli occhi scuri? Riuscì a calmarsi. "Un sogno. Solo un sogno. Niente di che". Il soffitto bianco non era cambiato. Si guardò intorno. Poche infermiere giravano per la stanza, con delle cartelline in mano. Chiuse gli occhi. L'immagine del volto della madre le comparve nella mente. Dov'era andata? Ah, giusto, la aveva mandata via lei. Chissà perché, poi... ma non importava. Il medico aveva parlato di lieve amnesia, a proposito, e di una botta sulla testa. Forse aveva sbattuto la testa da qualche parte e aveva perso i sensi. Era strano, però, non si sbatte la testa così, a caso. Forse era caduta. Il medico aveva detto un'altra parola...amica. Amica, amica...provò a pensare ad una sua amica. Buio completo. Le sembrava di vivere la classica "ansia da foglio bianco", che si ha di solito nelle verifiche. Verifica. Pensò a una verifica. Zero assoluto. Era come se qualcuno avesse riformattato la sua mente, a parte i "ricordi fondamentali", come li aveva chiamati il dottore. Probabilmente intendeva i nomi dei suoi familiari, o gli oggetti nella sua stanza. Certo, dei suoi familiari si ricordava. Mentre la sua camera...ansia da foglio bianco. Ma ce l'aveva, almeno, una camera, fuori da quell'ospedale??? Che domande, certo che ce l'aveva. Doveva solo provare a ricordarsela. Ah, che cosa ardua, ricordarsi le cose... già di suo non era mai stata la campionessa mondiale di memoria, figuriamoci dopo una botta sulla testa. Ripensò a quegli occhi color nocciola. A quelli non sapeva proprio dare una spiegazione. Forse erano i suoi stessi occhi. Com'erano i suoi occhi? Dovette specchiarsi sulla struttura in metallo del letto, per ricordarselo. Ah, giusto, verdi. Occhi verdi e capelli castani. Provò a pensare ad una ragazza che fosse come lei, con gli occhi e i capelli come i suoi. Non gliene venne in mente nessuna. Ok, basta, per oggi aveva ricordato abbastanza. O almeno, ci aveva provato.
 
 
 
Hi girls!!!! Io sono The Rocker Alien1 (1 perché condivido il profilo con un'amica), e questa è la mia prima storia. Mi sono buttata in questa avventura delle FF così, vedendo le fantastiche storie scritte dalle altre autrici, che saluto tutte, e mi sono detta, perché non ne scrivo una anche io? Così eccomi qua, con questo primo capitolo. Recensite in tante, mi raccomando!! Segnalatemi eventuali cavolate che ho scritto, e ditemi cosa ne pensate!! See you soon guys, baci!! ;)

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Capitolo 2
*** Il cellulare ***


...rieccomi con un nuovo capitolo! Scusate se ci ho messo tanto, ma sono stata molto impegnata in questo periodo, e anche il fatto di non aver ricevuto recensioni mi ha un po' demoralizzata...ma ho deciso di andare avanti comunque, per i lettori/lettrici silenziose! Detto questo, vi lascio al capitolo...

Kim aprì gli occhi. Era piuttosto stanca, doveva essersi addormentata. Non c'era nessuno nella stanza. Meglio, preferiva rimanere da sola. La porta si aprì..."Come non detto, ecco che entra qualcuno" pensò.     
-Kim, tesoro! Come stai oggi?-era sua madre.
"Quanto ho dormito?" si chiese nella sua mente la ragazza.
-Due ore-la donna la guardava con sguardo dolce. Kim la fissò stralunata. Le aveva letto nel pensiero?
-No tesoro, stai parlando. Forse non te ne rendi conto, ma stai parlando a voce alta.
-Oh.- Kim era diventata rossa. Che figura! Meno male che non c'era il dottore.
-Signora Wendell, sua figlia sembra migliorata. Provi a darle il cellulare come avevamo detto, così forse le torneranno in mente le sue amiche, i luoghi della sua vita, eccetera...-ecco, come non detto, c'era anche il dottore. Che figura, che figura!!...
-Ok. Tieni Kim, ti ricordi? Questo è il tuo cellulare. Te lo ha regalato lo zio Harry, lo ha comprato direttamente in America. La cover l'hai decorata tu con i giornalini vecchi di tuo fratello, ti ricordi?- sì, se lo ricordava. "Te lo ricordi, te lo ricordi?" sua madre glielo ripeteva di continuo. Iniziò a stufarsi di quelle tre parole. Prese in mano il cellulare: era spento, così dovette farselo accendere e sbloccare. Andò su Whats App. "Chissà come faccio a ricordarmi come si usa quest'affare" le sembrava strano ricordarsi le cose, insomma, aveva avuto un'amnesia! Diede un'occhiata ai contatti...non conosceva nessuno. O meglio, non si ricordava nessuno. Ma non le interessava più di tanto, lei voleva vedere una sola cosa...uscì dall'applicazione, entrò nella galleria...bloccata. Accidenti. Provò a dare il cellulare alla madre, ma non sapeva la password. "La prossima volta meglio non mettere password" pensò amareggiata Kim. La galleria era l'unico posto che le veniva in mente dove ci potessero essere foto del ragazzo con gli occhi nocciola. Caspita, non riusciva a togliersi la sua immagine dalla mente...lo aveva sognato di nuovo, quella notte.
-Cosa stavi cercando?- le chiese la mamma.
-Uhm, niente- rispose lei semplicemente. Non aveva molta voglia di parlarne, anche perché qualcosa le diceva che era meglio di no.
-Allora, io vado...vuoi che ti lascio il cellulare?
-Sì, lascialo qua...-non le serviva a niente, ma decise di tenerselo lo stesso. Attese che il medico e la mamma uscissero, quindi si mise comoda nel letto, e sentendoli parlare, tese le orecchie.
-Signora, sua figlia soffre di amnesia globale transitoria, detta TGA. Come le avevo già detto, ricorda perfettamente chi è, il proprio nome e le persone che le stanno più vicine, come, appunto, la madre e il padre. Potrebbe non avere bene in mente il fratello, visto che non lo vede molto spesso.-"Fratello? Ho un fratello?" si chiese.- Non ricorderà i volti di alcuni amici, o persone che vede molto spesso. Potrebbe magari ricordarsi il ritmo di una canzone, per esempio, ma non ricordare le parole, lo stesso autore.-a quelle parole la ragazza di illuminò. La canzone! La melodia del sogno...cos'era?- Di solito si risolve in qualche ora...nel caso la prego di rispondere a tutte le domande che le farà, anche se saranno ripetute più volte, poiché il paziente non sempre ricorda la risposta che gli è stata data...-intanto il dottore continuava a parlare, ma a lei non interessava più di tanto. Adesso voleva solo andare a casa. Ma la mamma aveva detto che ci sarebbe voluto qualche giorno..."Spero che si sbrighino a passare, questi giorni..." pensò lei amareggiata. Di sicuro quando sarebbe entrata nella sua stanza, nella sua casa, le sarebbe tornato in mente tutto...almeno così sperava.
Una musichetta la distolse dai suoi pensieri. Proveniva dal cellulare. "Che faccio, rispondo? E se non mi ricordo chi è?" questa cosa nel non-ricordarsi-niente iniziava a ossessionarla. "Ok, dai, rispondo". Prese il telefono, e toccò l'icona verde.
-Pronto?
-Kim!! Ehi, K, è un po' che ti cerco...-era una voce femminile.
-Chi è?...-chiese preoccupata.
-Come chi è? Dico, K, ti è saltato il cervello?- "No, ho solo avuto un'amnesia, niente di che".
-Chi sei?
-Sono io! Natasha! La tua vicina di banco!
-Non capisco...facciamo così, descriviti- forse così si sarebbe ricordata almeno la sua faccia.
-Oh, insomma...non bastavamo  i temi di scuola! Adesso i devo pure descrivere con te! Ok...dai, sono alta, mostruosamente sexy, e molto, molto più abbronzata di te, piccola.
-Aspetta, forse ho capito chi sei...
-E aspetto, io! Nessun problema, sai?!- la voce iniziava a essere impaziente.
-Sei...sei quella vicino a me?
-Ma buongiorno!! E' tutto il tempo che sto cercando di dirtelo.
Adesso aveva capito chi era. La ragazza all'altro capo del telefono era Natasha, la ragazza afroamericana che era sua vicina di banco.
-Ehi, ci sei?
-Eh? Ah, sì, ci sono. Ti serviva qualcosa?
-Solo sapere dov'eri. Era un po' che non ti sentivo, ti ho chiamato un paio di volte, ma non hai risposto. C'è chi dice che sei in ospedale, che ti sei rotta qualcosa dopo una caduta in bicicletta. Come stai?
-Sono...sono in ospedale, sì. Ma è tutto ok.
-Sul serio? Cosa è successo?!- l'istinto pettegolo di Natasha non finiva mai.
-Ehm...devo andare, ciao, ne parliamo un'altra volta.
-No! Aspetta...- le chiuse il telefono in faccia. Forse non era molto educato, ma quello non era proprio il momento adatto. Così spense il cellulare in modo da evitare altre chiamate scomode, e lo appoggiò al minuscolo tavolino affianco al letto. L'unica cosa che voleva era tornare a casa.
 
Eccomi qua, con questo nuovo capitolo...la nostra Kim inizia a ricordare sempre di più! Mi scuso ancora per il ritardo, e ci sentiamo al prossimo capitolo!! Ringrazio chiunque voglia recensire, in positivo o in negativo, e ringrazio anche i lettori/lettrici silenziose!!
PS> Forse cambierò nickname, ma ancora non ho deciso quale...forse sarà Bosso Senza Fondo, o qualcosa di simile, ma non sono sicura. Nel caso, vi avverto! ;)
PS2>Se vi state chiedendo come faccio a conoscere nomi e sintomi dell'amnesia temporanea... nulla di strano, mi sono solo informata ;)

Baci e alla prossima!!   The Rocker Alien

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Capitolo 3
*** Ritorno a casa...con sorpresa ***


Eccoci qua con un nuovo capitolo! Scusate ancora se ci ho messo un po’, ma ho dovuto scervellarmi per dare un po’ di movimento a questa storia. Sì, perché dovete sapere che io scrivo ogni volta che mi va di andare avanti, quindi di quello che succederà ne so quanto voi. A proposito, volevo dirvi anche che i primi due capitoli erano un po’ un prologo, quindi ora la mia modalità di scrittura cambierà leggermente. Quindi, abbiate pazienza… intanto ecco pronto il nuovo capitolo! Spero vi piaccia…

#
 
 -Pronto, chi è?- la signora Wendell rispondeva al telefono, nella sala d’attesa dell’ospedale.

 -Karen, sono io.

 -Michael! Dimmi tutto… è successo qualcosa?

 -Sì, dall’ufficio mi hanno chiamato per un colloquio…

 -E cosa ti hanno detto?

 -Che l’azienda chiude e si trasferisce in Germania.

 -Cosa?! …ma quindi… troverai un nuovo lavoro?

 -Negativo. Dovremo trasferirci lì.

 -Ma… Michael! Io non so il tedesco, e nemmeno tu! E poi come facciamo con Kim? Non si riprenderà mai se la partiamo in un posto completamente sconosciuto! Lo sai che ha bisogno di luoghi e persone familiari per superare l’amnesia!

 -Lo so, lo so… ma mi dispiace, io devo proprio andare, e non mi va di lasciarvi a casa da sole.

 -Ma…  potremmo trasferirci da mia mamma, o da tuo fratello, per il momento! Almeno finché Kim non recupererà la memoria completamente…
Ci fu un lungo sospiro all’altro capo del telefono.

 -Ok. Allora facciamo così.  Adesso vengo lì a salutare Kim. Poi vado a casa, preparo le valigie e domani alle otto sono in aeroporto . Vi chiamerò ogni giorno, mattina e sera. Per la lingua non ti preoccupare, avremo un insegnante apposito. Fra un mese al massimo vi aspetto a Wolfsburg. Vi dirò io che aereo prendere e come arrivare alla casa. Non serve discutere, non posso fare altrimenti.

Karen respirò a fondo. –Vabene- si limitò a dire, con tono freddo e distaccato.

 -Allora… ci vediamo fra un po’.

 -A dopo.- Karen chiuse la chiamata. Voleva piangere. Sapeva che quel lavoro era importante per suo marito, lui non poteva perderlo. E lei non poteva perdere lui. Se fosse stato necessario, l’avrebbe seguito fino in capo al mondo.

#
 
 -Ciao Kim.

Michael Wendell entrò nella satnza dov’era ricoverata sua figlia. Lei aprì gli occhi, le ci volle un attimo per riconoscerlo.
 
-Ciao papà.
 
-Allora… come stai?
 
-Mmh… bene.
 
-Stavi dormendo? Ti ho disturbato?
 
-Sì…no. Non importa.

Michael sorrise. Non sapeva più cosa dire. Quindi decise di andare.
 
-Adesso io vado. Tu riposati, e fai la brava. Ci vediamo fra un mese in un posto bellissimo…
 
-Sarebbe?
 
-La Germania. Ci trasferiremo lì per lavoro…
 
-Oh… va bene.
 
-Bene. Allora… ciao. Riposati, fai la brava, e ci vediamo fra un mesetto. Ti voglio bene.
Le stampò un bacio sulla fronte, come faceva da quando era solo un fagottino in braccio alla mamma. Lui amava sua figlia, lei era la sua piccola principessa, e avrebbe fatto qualsiasi cosa perché fosse felice e vivesse bene. Gli costava caro separarsene, soprattutto dopo quell’incidente che l’aveva tanto impensierito. “Ci vediamo fra un mesetto”, si ripeté nella mente. Fece un sospiro, quindi aprì la porta e uscì.
#

Quello stesso giorno ritornò a casa. I medici dissero che era guarita e che ora tutto stava nel graduale recupero della memoria. Dopo le ultime raccomandazioni, fissato l’appuntamento per la visita una settimana dopo, salutarono mamma e figlia e queste poterono finalmente uscire da quel posto. Kim respirò l’aria fresca, le sembrava di non farlo da una vita.

Era in macchina con sua madre, e guardava la strada. Alcuni tratti li ricordava bene, altri più o meno, altri no. “Normale”, pensò, “come avrebbe detto il medico”. Parcheggiata l’auto in garage, entrarono in casa. Perfettamente familiare, ne ricordava ogni particolare, e per questo si sentiva un drago. Entrò finalmente in camera sua. C’erano poster ovunque, foto e disegni di gente che non conosceva. Fortunatamente nella maggior parte di essi c’era scritto il nome della persona ritratta nella foto… Kim passò da una certa Avril Lavigne, a un’altra chiamata Katy Perry, a sei tizi chiamati Maroon 5. “Sarà il nome della band, è abbastanza scontato che non possono chiamarsi tutti e sei chiamarsi così”, constatò Kim. Era un pensiero stupidamente ovvio, ma se ne sentì soddisfatta lo stesso. Altri poster ritraevano persone vestite in maniere sempre più strane, nelle pose sempre più assurde, ma del ragazzo con gli occhi nocciola non c’era traccia. “Che palle” pensò sconsolata. “L’immagine di quel tizio mi tormenterà la vita! Meno male che almeno è bello.” Bello. Bello? Ma che bello! Bellissimo! Si auto-sgridò mentalmente per averlo definito solo “bello”.

Si sedette sul letto, e si mise a fare facce strane allo specchio, per passare il tempo, quando, fra una linguaccia e l’altra, una vocina nella sua testa le disse di aprire l’armadio. All’inizio la ignorò, ma poi questo presentimento che nell’armadio ci fosse qualcosa aumentò sempre di più, finché Kim non decise di alzarsi. Si avviò, dubbiosa, verso il mobile. Indugiò un attimo sulla maniglia, come se dentro ci potesse essere qualche mostro cattivo. Quindi si decise ad aprirlo. E ne rimase incantata.

#
 
Foto di quel ragazzo tappezzavano l’interno delle ante dell’armadio da cima a fondo. Lui, solo lui regnava sovrano nelle ante dell’armadio. C’erano foto del ragazzo con gli occhi scuri in tutte le pose: serio, sorridente, con le mani sui fianchi, in piedi, seduto. Primi piani, secondi piani, foto in bianco e nero. Alcune immagini erano modificate con effetti speciali, altre scarabocchiate con milioni di cuoricini. Kim lo osservò attentamente. La sua pelle era perfetta, i meravigliosi occhi nocciola erano contornati da uno smokey eyes nero. I capelli erano lunghi, neri con le punte bianche, sparati intorno al suo viso come nei personaggi dei manga giapponesi. La ragazza rimase incantata da quello spettacolo, il suo bel giovanotto con gli occhi nocciola era lì davanti a lei, moltiplicato decine di volte nella limitata superficie delle ante dell’armadio. E guardava lei, la guardava attraverso l’obbiettivo della fotocamera che aveva imprigionato la sua immagine e lo aveva immortalato su quella carta. E la guardava, attraverso la carta. In quel momento Kim si rese conto di quale beneficio erano stati onorati quei pezzi di carta, di portare per sempre su di sé la bellissima immagine di quel ragazzo misterioso.

Dopo un po’ si riscosse dal suo stato di trance, e rise, felice di avere un peso in meno e un bel pensiero in più.
 
 
Hola, guys! Allora? Che ne dite? La nostra Kim ha finalmente trovato questo benedetto tizio, e adesso si sente molto, molto meglio a quanto pare! Ma vi siete accorte/i anche voi… che così presa dal fissarlo incantata non sa nemmeno il suo nome! Beh, avrà modo di scoprirlo, tranquille/i…
Ringrazio infinitamente MartyK e Alessia483 per aver recensito i precedenti capitoli. Girls, siete la mia forza! :D    Detto questo, ci sentiamo ai prossimi capitoli. Bye!           The Rocker Alien^^
(volevo avvisare che, se ce la farò, il mio nuovo nick sarà al 99per cento
Blue Moon…ma vedremo, e speriamo bene! XD )
 
 

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Capitolo 4
*** Partenza inaspettata ***


Eccomi con il nuovo capitolo! Chiedo scusa se scriverò qualche stupidaggine, ma ho dovuto fare i salti mortali per dare un senso a questo capitolo, mi era preso quello che si dice “blocco dello scrittore”. Detto questo, spero vi piaccia!
 
I due giorni seguenti Kim e la mamma furono impegnate ad andare da tutti i parenti possibili e immaginabili per assicurarli che lei stava bene, che si era ripresa, che non era successo niente. Una scusa come un'altra per andare da zie mai viste e scroccare fette di torta. Finiti i parenti, si fa il giro degli amici.
-Ma non si può semplicemente telefonare?- chiese esasperata Kim alla mamma.
-No, bisogna andare di persona. Altrimenti, con una telefonata, si impensieriscono ancora di più, e tanto prima o poi vorranno vederti, quindi tanto vale togliersi subito il pensiero.
Come tutta risposta, la ragazza mise la testa fuori dal finestrino per disintossicarsi da quel putrido odore misto di sedili dell’auto e case vecchie e polverose.
#
Il giorno dopo, Kim si svegliò. Per un attimo fu presa dal panico, non aveva la minima idea di dove si trovasse. Poi tornò il ricordo dei due giorni prima, quando era arrivata a casa (finalmente) e aveva scoperto le foto dell’armadio, e delle barbosissime visite ai parenti e amici. Sorrise, quindi si alzò.
-Buongiorno dormigliona!
-Buongiorno mamma.- si diresse verso il tavolo della cucina, dove la aspettava una tazza fumante piena di un liquido rosso/viola. Si sedette, quindi bevve un sorso.
-Mh! Buona questa roba! Cos’è?
-Tisana ai frutti rossi. La tua preferita. Non ti è mai piaciuto il latte.- le rispose Karen, sedendosi accanto a lei.
-Sì, in effetti è squisita.
La signora sorrise. Squillò il telefono…
-Uffa, chi è che inizia a disturbare già così presto?!- si lamentò Karen, quindi si alzò e prese in mano il cellulare. La sua espressione infastidita mutò in sorpresa.
-Chi è mamma?...
-Uhm, adesso vedo…-  la liquidò la signora, quindi si chiuse nella prima stanza che trovò. A Kim giungevano solo pezzi del discorso.
-Cosa c’è?... sì… come?!....ok… ma sei sicuro?...va bene. Vedrò di fare il possibile…come stai…dove sei…come faccio a stare calma?...ooh, insomma!....e va bene. Ciao. Sì, ti voglio bene.
-Mamma?... cos’è successo?- domandò Kim con gli occhi a palla.
-Ah… niente, tesoro… - cercò una scusa la signora Wendell.
-Mamma. Ho perso un po’ di memoria, ma non sono diventata scema. Cos’è successo?
Karen sospirò. Quella figlia la scopriva sempre, quando tentava di nasconderle qualcosa.
-E’ successo un incidente vicino allo studio di papà. Ma non è niente di grave, tranquilla…
-Come sta lui?
-Oh, lui sta benissimo. Tutto il quartiere vicino è stato evacuato.
-Cos’è successo di preciso?
-Uffa Kim! Una fuga di gas, tutto qui.
-E se è solo una fuga di gas, perché hanno evacuato tutto?- cavoli, quella ragazza non demordeva.
-Si tratta di un gas particolarmente pericoloso, quindi hanno considerato  che evacuare le case vicine fosse la cosa migliore.
-Uhm, ok. Però che sfiga, il papà. Nemmeno due giorni in Germania e c’è già un casino da risolvere.
-Oh, puoi stare tranquilla. Per il momento verranno trasferiti in un ufficio di Magdenburgo, lì vicino. E ci rimarranno finché non sarà risolto il problema.  
-E fammi indovinare, noi dobbiamo raggiungere subito il papà a … quel posto lì che hai detto.
-Magdenburgo. E sì, esatto. Prepara le valigie, che fra un paio di giorni dobbiamo andare.-
Karen si morse il labbro. Proprio lei, che aveva insistito tanto per rimanere più tempo possibile in Inghilterra, adesso aveva tutta quella fretta di andare via.
#
Dall’aereo si vedeva tutto come se fosse un Lego. Un minuscolo Lego visto dall’alto, con gli edifici pari a una gomma per cancellare, le auto pari a un decimo di Tic-Tac e le persone pari a formiche agitate.
-Posso portarvi qualcosa?- domandò gentilmente una hostess di passaggio.
-Si grazie, un caffè lungo.- rispose Karen. Kim non disse niente. Aveva sonno, e un caffè non l’avrebbe aiutata molto a dormire. Si era alzata strapresto quella mattina, intorno alle sei e mezza. Aveva fatto colazione alla velocità della luce, e prima di uscire, aveva staccato dall’armadio tutte le foto del ragazzo con gli occhi scuri, e le aveva riposte delicatamente in una cartellina, che aveva poi nascosto sul fondo della valigia. E adesso era stanchissima… il viaggio sarebbe durato qualche ora, e lei aveva tutto il tempo di dormire, cullata dal rumore dei motori che sentiti da lontano sembravano una specie di phon acceso; e dal mormorio della gente.
“Perfetto”pensò, prima di addormentarsi.
#
-Ehi! Dormigliona! Sveglia!- sua madre la scuoteva come se fosse stata uno shaker.
-Yawn…cosa c’è?!
-Siamo arrivati. Muoviti, che dobbiamo scendere.- Karen sembrava agitatissima, e chissà perché!...
-Sì, ok, mi muovo. Un attimo!- Kim si alzò con tutta la calma del mondo, con sua madre che la guardava del tipo “perché mia figlia non è Speedy Gonzales?!”, con tanto d’occhi a palla.
-Dai, che dobbiamo scendere a prendere le valigie, e poi bisogna cercare tuo padre che in questo casino chissà dov’è e … aaaaaaah! Se non esploderò oggi non esploderò mai più.
Per tutta risposta, Kim mugugnò.
 
Eccoci qua, la nostra supereroina in viaggio per la Germania, o meglio per Wolfsburg, o meglio per Magdenburgo. Chiedo ancora scusa per le stranezze presenti in questo capitolo ma dovevo per forza collegare in qualche modo l’inizio al resto della storia, che vaga nella mia testa malata, muahahhah.
Ringrazio un milione MartyK e alessia483 che hanno recensito, e anche tutti i lettori silenziosi. ^^ See you soon, Humans!                             Happy_Moon ^^  (che bello firmarsi con un nick decente)

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Capitolo 5
*** Un basso e un ragazzo capelluto ***


Hey Humans! Ecco finalmente il nuovo capitolo! Ce l’ho fatta a scriverlo, finalmente! We are the champions, we are the champions… ok, basta scrivere monate, vi lascio a leggere e sto zitta che è  meglio. o.o
 
-Uff…ma perché non si è messo vicino all’uscita, così lo trovavamo subito? Ah, Dio, quando lo trovo gliene canto su di tutti i colori a quel genio di tuo padre… Kim… Kim?! Mi stai ascoltando?!
-Ugh! Che… che cosa, mamma? Non ho capito.
-E ci credo che non hai capito, dormivi in piedi! Svegliati, che se ci perdiamo poi mi tocca girare per l’aeroporto come una scema a trovarti, come se dover cercare papà non sia sufficiente...
-…ma non puoi chiamarlo al cellulare??!
-No, il mio abbonamento telefonico funziona solo a casa, non è internazionale, quindi qui non funziona.
-Ma nemmeno la chiamata d’emergenza?
-No, nemmeno quella.
-Ah, siamo messe bene.
Qualche infinito minuto dopo, passato nella confusione più totale di gente che va e che viene, Karen e figlia avvistarono finalmente Michael.
-Michael! Tesoro! Michael! Non mi sente. Michael!!
-Lo credo bene che non ti sente, c’è più casino qua che in uno stadio! E smettila di urlare, che sembri una pazza.
-Beh, non è che la gente intorno a noi sembri tanto più sana di mente.
In effetti era vero, c’era chi urlava di continuo, ragazzi che sfrecciavano in mezzo alla gente di corsa, mamme impazzite a tenere contemporaneamente tre bambini, due cani, quattro valigie e un marito poco sveglio.
Kim roteò gli occhi, e seguì la madre verso il padre facendosi strada a spintoni e “Scusate, permesso”.
-Ragazze! Finalmente! E’ un’ora che vi aspetto.
-E noi è un’ora che ti cerchiamo! Non potevi venirci incontro?! E non chiamarci “ragazze”, mi dà sui nervi.
-Ma sentila, la mia tortorella… ti sono mancato, eh? Si vede.
-E si sente- aggiuse Kim, ancora sonnolenta.
#
Arrivarono all’appartamento venti minuti dopo, con un taxi. Il condominio era abbastanza grande, circondato da un giardinetto verde con alcune piante in vaso. Seguirono il sentierino lastricato che conduceva alla porta d’ingresso, era piuttosto scassato, gli avrebbe fatto bene un po’ di calce.
Salirono qualche rampa di scale, Kim era troppo addormentata per mettersi a contarle. Arrivarono davanti alla porta d’ingresso, l’aprirono e la prima cosa che colpì Kim fu quella che sembrava una vecchia chitarra elettrica abbandonata in salotto. “Uhm, dopo darò un’occhiata. Prima, vado a studiare meglio il mio letto…” fu il suo ultimo pensiero, prima di abbandonarsi a peso morto sul letto dell’unica camera singola dell’appartamento(sarebbe stata comunque la sua, dato che non ce n’erano altre), ancora vestita di tutto punto e senza aver nemmeno chiesto a qualcuno.
#
-Hey, principessa, sveglia- Michael  la scosse un pochino per il braccio, agitandole sotto il naso una tazzina di caffè.
-Yawn…quanto ho dormito? Uh, caffè! Grazie- rispose Kim, prendendo in mano la tazzina.
-Esattamente due ore.
-Ah sì? A che ora  mi sono addormentata?
-A mezzogiorno. E adesso sono le due.
-Uhm, ok.- finì il suo caffè, osservando lo zucchero ancora intatto sul fondo. –Non avete mescolato bene lo zucchero.
-Mi rincresce averle recato questo tremendo dispiacere… vado a gettarmi nella fossa, sua maestà?
-Nah, per oggi mi sento gentile. – rise lei, appoggiò la tazzina in cucina e uscì, non prima di aver preso sottomano la vecchia chitarra ed essersi messa addosso una maglia pulita.
#
Si trovava seduta su una panchina, in un piccolo parco, piuttosto affollato. C’erano vecchietti che leggevano il giornale, signore che chiacchieravano, giovani mamme con i passeggini, bambini che giocavano a palla o che si arrampicavano sugli scivoli; poi una ragazza seduta su una panchina con una chitarra elettrica sulle ginocchia, Kim, per l’appunto. Non aveva voglia di stare nell’appartamento, voleva conoscere il posto, prendere un po’ d’aria fresca, tanto a svuotare le valigie ci avrebbe pensato sua madre.
#
Un ragazzo di media statura, capelli lunghi e castani, espressione corrucciata mani in tasca, stava girovagando per le strade di Magdenburgo. Non si preoccupava di essere riconosciuto, lui non era appariscente come i suoi “colleghi”. Solo una fan-occhio-d’aquila avrebbe forse potuto accorgersi di un anomalo ragazzo con i capelli lunghi ben noto nel suo paese, ma non era molto probabile, il lunedì pomeriggio.
Si addentrò in un parco, aveva voglia di vedere gente. Si divertiva a guardare come la gente normale occupava il suo tempo, la sua anonima vita. Girava però lontano dai gruppetti di ragazze, non aveva voglia di essere rincorso per tutto il paese per una foto. Adocchiò una panchina libera. O almeno, sembrava libera. No, era occupata. Cavolo. La ragazza seduta lo incuriosiva, sembrava stesse guardando qualcosa. “Boh, starà leggendo un libro, una rivista. Meglio che giro lontano.”, pensò il capelluto, ma poi si accorse che la giovane non stava guardando nessuna rivista. Era una chitarra. O meglio, un basso. “Eh, no, qua ci vuole il mio intervento”, e si avvicinò, senza fare rumore.
#
-Ehi, lo sai cos’è quello?
Kim sussultò. Una testa capelluta era comparsa da dietro la panchina, la fissava con un’espressione divertita.
-E’…è una chitarra elettrica, no?
-Esatto, no. Quello è un basso, vedi? Le chitarre hanno sei corde, il basso ne ha quattro.
Kim osservò lo strumento. Cavolo, quel tizio aveva ragione. C’erano quattro corde.
-Oh…non me ne ero accorta. Pensavo fosse normale, sai, non me ne intendo di chitarre…e bassi.
-Beh, hai incontrato la persona giusta. Io suono uno di questi. Mi conosci?
La ragazza lo squadrò da cima a fondo. Le sembrava di averlo già visto, ma non aveva idea di chi fosse.
-No, non ti conosco. Perché me lo chiedi?
-Bah, di solito le ragazze come te mi conoscono…
 Kim fece una smorfia.
-Ehi, non pensare male, non intendevo in quel senso. Intendevo che… bah, chi se ne importa. Ti va se ti spiego come funziona questo oggetto anomalo che hai in mano?
-Certo! Sei gentile, grazie.
Non sapeva se poteva fidarsi, in fondo quello era uno sconosciuto, anche se la sua testa le diceva di averlo già visto. Ma in fondo era un ragazzo, avrà avuto qualche anno più di lei, e poi, scusa, vuoi mettere una lezione di basso gratis?...
#
Rimase un’oretta seduto vicino a lei a spiegarle come si suonava quell’affare. E le corde così, gli accordi cosà, suonare con le dita, con il plettro, però ci vuole l’amplificatore, eh, ma sai, questo, quello, pollice, indice, eccetera eccetera  eccetera.  Dopo un po’ però gli era squillato il cellulare, allora aveva risposto, aveva detto che era la sua ragazza, così aveva salutato Kim e se n’era andato. Adesso era rimasta da sola, ma era contenta, perché in quella città del tutto sconosciuta aveva già conosciuto una persona. Poi si abbandonò ai suoi sogni più remoti, immaginando se al posto di quel tizio capelluto avesse incontrato occhi-nocciola. Rise, pensando che lo sguardo del ragazzo ritratto nelle foto in camera sua era talmente dolce che creava dipendenza, si poteva paragonare alla Nutella.
                    
Eh sì, raga, la Nutella è dappertutto! Yummi. Insomma, avete visto? OH MA CHISSARAMAI? Eh, non ve lo dico. Tranquille, vedremo altre sue apparizioni nella storia (credo), ma non vi rivelo nient'altro. Ciaoooo mi dileguoo…. *stelline e polverina magica*
Ps. Grazie milione a _MartyK_ che recensisce everywhere, e a tutte le lettrici silenziose!  ;*
Ps2. Ho controllato nel dizionario on-line, l’aggettivo “capelluto” esiste davvero!
Bacii    Happy_Moon^^

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Capitolo 6
*** Occhi-nocciola ha un nome... ***


Hey Humans! Rieccomi qua. Non dico nunca, vi lascio solo al capitolo…(che è meglio) ;) spero vi piaccia!...
 
Era passata una settimana. Dopo la “lezione” di quel tizio nel parco (si accorse solo dopo un po’ che non le aveva nemmeno detto il suo nome), Kim si era appassionata allo strumento, e aveva iniziato a seguire corsi su Internet, dato che i suoi erano troppo impegnati con il lavoro e non avevano tempo per cercare un maestro che parlava inglese. Dopo qualche ricerca era riuscita a trovare l’amplificatore, nelle cantine dell’appartamento, così poteva sentire ciò che suonava. Ma non c’era solo quello, doveva pure imparare il tedesco, adesso, altrimenti a scuola cosa ci andava a fare, se non capiva niente. Così, fra lezioni di tedesco tutte le mattine domeniche escluse, poteva dedicarsi allo strumento solo il pomeriggio, assieme a tutto il resto che faceva di solito più gli esercizi di lingua.
“Guarda te se mi tocca andare a scuola anche in vacanza” si ripeteva, sbuffando, tutti i giorni “Perché in pratica è come se andassi a scuola, ho pure i compiti da fare!” , ed ecco che allo sbuffo si aggiungeva l’esasperazione.
Un giorno, seduta nullafacente davanti al  suo vecchio portatile, si decise a cercare un po’ chi era il tizio del parco.
“Ha detto che avrei dovuto conoscerlo, quindi deve essere famoso” pensò, digitando ‘bassista’ sulla ricerca Google. Il risultato furono più o meno quindici pagine di link e dodici pagine di immagini.
“No, non era per niente una bella idea. Kim, stai perdendo colpi! Come si fa a trovare un tizio scrivendo semplicemente ‘bassista’ su un motore di ricerca del genere?! Certo che sono, eh”
Si distese sul letto.
“A volte mi stupisco delle mie geniali idee.”
Il suo sguardo si posò sulla cartella sopra la scrivania, quella che conteneva le foto del ragazzo-nutella. Preferiva tenere e foto nascoste,  non sapendo chi fosse era meglio che rimanesse chiuso nella cartellina.
“Adesso cerco di capire chi sei. Dio, ce l’avrai un nome, sarai un qualche attore, cantante o che!”
Andò sulla ricerca Google, scrisse ‘attori del momento’; ma la sua faccia non veniva fuori.
Allora cambiò ‘attori’ con ‘cantanti’. Vennero fuori un miliardo di facce, tizie bionde stratruccate, tizie con i capelli di cinquecento colori, tizi dalle espressioni più varie. Le tornò in mente il momento in cui era entrata nella sua stanza, piena di poster.
Squadrò la pagina da destra a sinistra, riguardandosi ogni foto in ogni minimo particolare. Non passò molto tempo prima che trovasse una foto con una faccia familiare.
“Bingo! Penso che questo qui sia tu, caro mio”
Nella foto c’erano quattro ragazzi, con il suo leone-dark in mezzo. Cliccò sull’immagine. Le venne fuori il nome di un gruppo, i Tokio Hotel.
“Bello… bel nome per un gruppo come questo. Un secondo… Tokio non si scrive con la ipsilo…” si bloccò un attimo.
Allargò la foto sul ragazzo tutto a destra.
“Oh.” Si lasciò cadere indietro sulla sedia.
“Ecco perché.”
Si rialzò velocemente, aprì la pagina, lesse avidamente tutto quello che c’era scritto, aveva sete di informazioni su quel gruppo; e si mise a ridere pensando all’immagine di uno stalker curvo sul pc a cercare informazioni sulla propria vittima.
Scoprì che il ragazzo-leone si chiamava Bill, ed era il cantante del gruppo, il rasta vicino a lui era suo fratello gemello Tom, chitarrista. Il ragazzo biondo a sinistra era Gustav il batterista, e quello tutto a destra, beh, quello era Georg, il bassista del gruppo, nonché il misterioso tizio del parco.
Volse gli occhi sgranati al soffitto.
“Vuoi dire che io ho imparato le informazioni base sul basso dal bassista dei Tokio Hotel in persona?”
Stentava a crederci.
“Nah, per me è solo uno che gli somiglia e si diverte a fare il sosia”
Controllò un’altra volta la pagina aperta.
“Eppure…qui c’è scritto che i fratelli sono originari di Magdenburgo, dove vivono tuttora. Quindi anche lui deve vivere qua vicino… no, non è possibile”
Poi ripensò a come si era dileguato in fretta, dandosi mille occhiate in giro, come un criminale ricercato.
“Ok, forse è possibile”
One moment. I due fratelli (gemelli, tra l’altro!) erano di Magdenburgo. Lei era a Magdenburgo.
…ma perché il suo cervello ci metteva così tanto? Era rallentata una cifra dopo quella botta!
-Cristo! Mammaaaaaa!!!!!...-urlò, in preda a un semi-panico. Poi ci ripensò.
-Cosa?- chiese Karen dalla cucina.
-Ehm, niente… c’era… c’era un ragno.
-Tutto a posto allora?
-Sì sì…
Si spostò indietro una ciocca, deglutì. Il ragazzo dagli occhi meravigliosi, che lei sognava praticamente tutte le notti, poteva essere nel giro di qualche decina di chilometri da lei. E lei aveva incontrato qualcuno che lo vedeva tutti i giorni e ci lavorava. Cristo.
-Ok, non mi riprenderò mai da questo shock, credo.
 
Hallo, kleine androids! Spero vi sia piaciuto, lo so che è tutto un po’ breve e ripetitivo, ma vedrete che dal prossimo in poi ne vedremo di tutti i colori!! :3 Ringrazio uno strabilione per ventisette (quindi ventisette strabilioni) _MartyK_ che recensisce tutti i capitoli, e anche le lettrici e i probabili lettori silenziosi.
….bacissimi a tutti, ci sentiamo al prossimo capitoloooooo….
*sparisce fra le stelline*
Happy_Moon^^
 

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Capitolo 7
*** Scoperta ancora più scioccante ***


Heeeyy Humanoidi sono tornata muahahah. Premetto che sarà un capitolo folle (raccogliere le erbacce fa venire belle idee, ve lo consiglio), e non dico altro. Vi lascio, buona lettura! ^^
 
Kim aveva passato i due giorni seguenti sul vecchio portatile, ad ascoltare ogni singola canzone di questo fantomatico gruppo; a cercare, leggere e rileggere ogni singola informazione sul loro conto. Eppure, quando ripensava al sogno che la assillava da settimane, sentiva che qualcosa non andava. Era come se quel brandello di ricordo che aveva di quei due occhi magnetici non avesse nulla a che fare con il mondo della musica, piuttosto a … qualcosa di più personale, che non riusciva a spiegarsi.
 
“Ma è impossibile, io non mi sono mai mossa dalla Gran Bretagna, finora” continuava a ripetersi, e si chiedeva, intanto, che cosa ci fosse che non andava.
 
Ad un certo punto, spazientita da tutti questi dubbi e con gli occhi che, a forza di guardare lo schermo, ci vedevano quadruplo, decise di andare a prendere un po’ di aria fresca. Non ci mise molto a scegliere cosa mettersi, non aveva –o almeno, da dopo la perdita della memoria- mai fatto molta attenzione a cosa si metteva addosso, secondo lei era più importante valutare qualcuno da dentro che da fuori. Ergo: chissenefrega di quello che indossi, l’abito non fa il monaco. Quindi, buttò su un jeans e una normalissima t-shirt senza fronzoli, con le sue Converse rosse.  
 
-Ciao mamma, io esco- si militò a dire, prima di uscire da quello stretto condominio, che dopo un po’, a dire il vero, iniziava a non dispiacerle.
 
-Aspetta un attimo! Facciamo un po’ di strada assieme, che io esco per andare al supermercato- le urlò la madre di rimando. Kim sospirò, alzò gli occhi al cielo e si fermò ad aspettare.
 
-Eccomi qua- Karen le si affiancò poco dopo. –Possiamo andare.
 
#
 
Percorsero la strada in silenzio. Karen passeggiava tranquillamente, lo sguardo fisso davanti a sé, lanciando ogni tanto un’occhiata alla figlia. Quest’ultima, invece, si guardava intorno molto più agitata, sapeva che avrebbe potuto vedere certe persone da un momento all’altro, e non voleva assolutamente farsele scappare.
 
Per evitare di dover percorrere la trafficata strada principale e intossicarsi di smog, decisero di tagliare per il parco. Imboccando il primo sentierino, a Kim venne un brivido. Aveva … belli? No, sconvolgenti ricordi di quel posto. Arrivata alla panchina della volta prima, la giovane si fermò.
 
-Io mi fermo qui, tu vai pure avanti. Non credo che mi muoverò da qua, quindi puoi stare tranquillissima.
 
-Va bene! Ciao, allora, ci vediamo dopo a casa- la donna fece per andarsene, ma Kim la fermò prima.
 
-Ma … non passi di qui per tornare indietro?- Karen la guardò stupita. Era strano per lei, la sua ragazza indipendente, quella che non voleva mai mammina in giro. Ma dopo quell’incidente, doveva sentirsi un po’ smarrita, poverina.
 
-Uh, sì … se proprio ci tieni.
 
#
 
Erano passati circa dieci minuti, durante i quali Kim non aveva fatto altro che inspirare ed espirare l’aria fresca, con gli occhi chiusi, per poco non si addormentava sulla panchina.
 
“Tanto, se passa qualcuno, lo sentirei arrivare…”
 
Come a sottolineare il suo pensiero, un chiasso di ragazze si fece sentire dal vialetto, con il sottofondo di musica ad alto volume. Kim aprì gli occhi di scatto, giusto per vedersi il branco di adolescenti davanti, che la squadravano come un’aliena caduta dal cielo.
 
-Hallo! Wer sind Sie?- fece una ragazza bionda, con alcuni piercing sull’orecchio.
 
Kim aveva capito ciò che le aveva detto, le aveva chiesto chi fosse.
 
-Sono Kim. Piacere di conoscerti- rispose in tedesco.
 
-Piacere Kim. Sono Ayla, e loro sono Adele, Ignes, Marta e Rahel.
 
Kim strinse la mano ad ognuna, poi chiese che musica stessero ascoltando. Ovviamente l’aveva già capito, ma voleva sentirselo dire.
 
-Der Letze Tag, Tokio Hotel! Conosci?- chiese Rahel, capelli rosso acceso e occhi azzurri.
 
-Certo che li conosco. Voi …- pensò a come chiedere se li avessero mai incontrati di persona; ma uscì solo un insieme sghembo di parole che per fortuna le ragazze parvero capire lo stesso.
 
 
-Una volta, abbiamo incontrato Tom per strada. Siamo impazzite, abbiamo fatto molte foto. E’ stato molto gentile con noi … - le rispose Ayla. Dalla sua espressione si capiva che sarebbe potuta andare avanti per ore, ma Adele, capelli neri e trucco abbondante, la fermò in tempo, chiedendo a Kim da dove venisse. Aveva capito che non era del posto, e non solo per il suo nome inusuale.
 
-Sono della Gran Bretagna. Vicino a Liverpool- rispose lei, illuminandosi al pensiero di casa sua. –Mi sono trasferita per il lavoro dei miei.
 
-E sei contenta di essere venuta qui?
 
-Certo!- “Soprattutto dopo quello che ho scoperto”, pensò, ma non lo disse.
 
Parlò con quelle ragazze ancora per un po’, dopo si salutarono, sperando di vedersi presto. Quando se ne furono andate, Kim si alzò dalla panchina, e si diresse verso il laghetto al centro del parco. Qui trovò un’altra invitante panchina, e, maledicendosi per la sua pigrizia, si sedette beatamente.
 
#
 
Venne riscossa dai suoi pensieri da una voce che la chiamava. All’inizio non lo riconobbe. Poi pensò che fosse solo qualche idiota che l’aveva scambiata per un’altra. Ma quando il ragazzo in questione le si parò davanti, Dio, avrebbe potuto morire sul posto.
 
Altissimo, capelli lunghi e neri. Occhi truccati di nero. Una persona qualunque avrebbe potuto scambiarlo per una ragazza. Lei no.
 
-Kim! Non ti ricordi di me, che non mi rispondi?- le chiese, in inglese.
 
“Non puoi essere tu! Perché dovrei ricordarmi di te? Perché sai il mio nome? Perché sai che non sono tedesca?”. Avrebbe voluto sommergerlo di domande. Ma si limitò a stare ferma sulla panchina, con gli occhi fuori dalle orbite e la mascella che rischiava di cadere a terra da un momento all’altro.
 
Una voce familiare le venne in soccorso.
 
-Bill! Caro! Quanto che non ti vedo!
 
-Signora Wendell! Ho giusto trovato Kim … che cosa fate qui?
 
… sua madre?! Cosa faceva lì sua madre? E perché gli parlava come se fosse un vecchio amico di famiglia?! E che vuol dire “quanto che non ti vedo”?!...
 
-Oh, chiamami Karen. Ci siamo trasferiti a Magdenburgo per lavoro … a proposito, come va a te? Ho saputo che il lavoro non vi manca…
 
-No, per fortuna, anzi!- rispose lui, ridendo.
 
Nel frattempo Kim era ancora imbambolata.
 
-Scusi, Karen, ma sembra che sua figlia non si ricordi di me.
 
-Lo credo anch’io! Ha avuto una perdita di memoria in seguito a un incidente. Penso che sia normale che non si ricordi di te …
 
-Perché dovrei ricordarmi di … lui?- chiese lei con voce tremante.
 
-L’anno scorso, cara, a Parigi. Non ti ricordi proprio niente, eh?
 
-NO, mamma. Mi sembra logico- Kim iniziava ad innervosirsi. Perché sua madre chiacchierava tranquillamente con il suo idolo? E cosa cazzo centrava Parigi?! …
 
-Beh, lo credo. Sentite, io vi lascio … vado a preparare un po’ di cena, che non si fa mica da sola. Ciao Bill! E’ stato un piacere incontrarti- gli strinse la mano e gli diede due baci sulle guancie. –E tu, miss, non fare tardi a casa!- aggiunse, rivolta alla figlia, prima di girarsi e andarsene.
 
-Ehm …
 
-Hai appena incontrato il tuo sogno sotto forma di ragazzo e hai scoperto che in teoria dovresti conoscerlo?
 
-… leggi nel pensiero? … -“Oltre a cantare divinamente?”
 
-No, ti capisco soltanto. Non ti ricordi davvero niente di me, quindi deduco che bisognerà ricominciare da zero- le porse la mano, sorridente. –Ciao, non credo che ci sia bisogno di dire il mio nome.
 
Lei gliela strinse, tremante. –N-neppure io.
 
-Sai come faccio a conoscerti?
 
-N-no. M-mi potresti spiegare? ...
 
Bill sorrise. Con quel suo sorriso divino, che bastava a illuminare da solo un teatro completamente buio. E poi iniziò a raccontare…
 
 
… e per sapere dovrete aspettare il prossimo capitolo! Buahaha, lo so, sono perfida. No, dai, apparte la demenza, ultimamente sono sempre in giro e la ‘pigronite’ si fa sentire …  mi scuso per l’enorme ritardo, cercherò di pubblicare più frequentemente! ^^’
Ringrazio un milione _MartyK_  che recensisce sempre (il tuo entusiasmo è il mio carburante, grazie centomila!! <3), e ovvio tutti i lettori silenziosi, che lasciano comunque un bel numero di visite!! Baci a tutti…
 
Al prossimo capitoloohh!
Happy_Moon^^
 
 

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Capitolo 8
*** Ciao, Kimmy! ***


Hey rieccomi! Facendo i salti sono riuscita a pubblicare anche oggi, beh non dico niente, vi lascio leggere. :)
 
Stava camminando in un sentierino appartato del parco, che serpeggiava in mezzo agli alberi; con al suo fianco il ragazzo che la tormentava dal giorno del suo risveglio. Si chiese se fosse impazzita del tutto o cosa.
 
-Beh, tu non ti ricordi, ma ci siamo conosciuti a Parigi. Tu eri lì in vacanza con i tuoi, io per il tour. E’ capitato per caso, perché eravamo vicini di stanza. Mi ricordo la faccia di Tom quando si è reso conto che tu non avevi idea di chi fossimo. Sul serio, non ci conoscevi proprio!...- Bill fece una pausa, le rivolse uno sguardo incuriosito. –Ci sei?
 
-Uh? Ah, sì, io … ti sto ascoltando- ribatté lei confusa.
 
-Insomma, dicevo …  ero entusiasta del fatto che tu non fossi la solita fan impazzita, voglio dire, noi adoriamo le nostre fans, ma poter parlare normalmente con qualcuno che non conosciamo è un lusso che capita poco spesso.
 
-… davvero?- Kim si comportava come se fosse in un sogno, perché non poteva credere che lui fosse lì, vicino a lei, in quel momento.
 
-Sì, essere personaggi famosi in tutto il mondo è difficile. Più che difficile, direi complicato. Non cambia tanto, diresti tu, ma se ci pensi da “difficile” a “complicato” cambia … oh, scusa, sono andato fuori strada. Mi perdo spesso nei miei discorsi filosofici- scherzò, ridendo.
-Ti stavo dicendo, ho voluto subito fare la tua conoscenza, anche se mio fratello non era del tutto convinto. Dopo un po’ però si è lasciato andare, e allora abbiamo passato praticamente tutta la settimana insieme. E tu ridevi sempre del fatto che noi due dovessimo incappucciarci dalla testa ai piedi per non essere riconosciuti, mentre te ne stavi tranquillamente in maniche corte e occhiali da sole.  E mi ricordo quando Gustav ha scoperto che non hai mai mangiato un piatto di crauti come si deve, e ti ha subito costretto ad andare in un “certo posto poco lontano dove li fanno davvero bene”. Di come Gustav faccia a conoscere tutti i posti in cui “i crauti li fanno bene” è un mistero. Georg dice che esce di notte a nostra insaputa.
 
-Georg mi ha insegnato a suonare- si lasciò scappare, estasiata.
 
Il ragazzo la guardò a bocca aperta.
 
-Georg ti ha insegnato a suonare? … non ho capito, scusa.
 
-Io … volevo dire … niente, lascia perdere- “Dimenticatene, Bill, non ho detto niente!!”
 
-Ok … allora lascio perdere- si girò verso di lei, sfoggiando il suo sorrisone a trentadue denti. Era uguale a quello delle foto nella sua cartellina, eppure era diverso allo stesso tempo. Sembrava più … più vero.
Kim impallidì a quella vista, diventando subito dopo rossa come un peperone. Si girò per non farsi vedere, fece finta di starnutire sperando che il sangue affluisse via in fretta.
Poi, non seppe dire se per fortuna o meno, squillò un cellulare che non era il suo.
 
-Accidenti, questo è Tom che mi dice che David è infuriato perché ho fatto tardi. Scommettiamo? Pronto?...
 
Bill passò qualche minuto al telefono a bisticciare con suo fratello, mentre Kim continuava a pizzicarsi una gamba per vedere se si svegliava. Non poteva essere vero, nulla di tutto quello. Quando la sua povera coscia martoriata iniziò a farle male sul serio, decise di smettere e arrendersi all’ “amara verità”. E che amara.
 
-Beh, avevo ragione- disse Bill chiudendo la chiamata e infilando il cellulare nella tasca dei pantaloni.- Adesso devo andare.
 
-…di già?
 
-Sì, lo so, questi manager sono una rotta. Beh, mi ha fatto un sacco piacere vederti! Lo so che non è molto cavalleresco mollarti in mezzo al sentiero, ma davvero, se non sono lì entro cinquanta secondi sono un uomo morto.
 
-Ah, tranquillo, non importa… so… so la strada- lo rassicurò lei, sorridendo.
 
-Ci vediamo allora! Ciao Kimmy!-la salutò Bill, agitando la mano, allontanandosi in fretta.
 
-Ciao… Bill- rispose lei debolmente.
 
Tutto questo le sembrava inverosimile...insomma, il bassista della sua band preferita che le insegna a suonare, il cantante che arriva e dice di averla conosciuta un'anno prima in una vacanza in Francia, a Parigi, e che si diverte a raccontare annedoti. Insomma, non poteva che essere tutto uno scherzo di pessimo gusto, perché in caso contrario... in caso contrario avrebbe perso per strada uno degli avvenimenti più belli della sua vita! Si chiese malinconica quanti altri bei ricordi avesse perso dalla mente dopo la perdita di memoria. Magari aveva pure incontrato la Regina Elisabetta, e non se lo ricordava. Magari aveva fatto il giro del mondo in barca a vela, e non se lo ricordava. Beh, tanto valeva...
Un attimo.
“Kimmy? Da quando sono Kimmy?” si chiese nella sua mente. Poi una vocina, che assomigliava molto a quella del ragazzo che se n’era appena andato, rispose alla sua domanda.
“Da quando sei una delle mie poche, rare amiche, Kimmy”.
 Giusto. Perché anche se poteva aver perso dalla mente metà della sua vita, non importava un granché. Ormai aveva capito che non interessava il passato...in fondo le bastava il presente.

"Una delle mie poche, rare amiche, Kimmy".

Cuaio a tuttii! Non badate ai miei strani saluti, e vi prego di non linciarmi per questa “sorta di cosa” che ho scritto. Lo so è breveee! Ma ultimamente la mia testa ha la pigronite, non riesce a produrre tante belle idee tutte assieme. Beh, ringrazio all’infinito _MartyK_ che ha inserito la storia tra le seguite e le preferite (chissà da quanto tempo, non me ne ero nemmeno accortaa  O.o) e che recensisce sempre, e i lettori silenziosi! :*
Baci a tuttiiii……                                                                       Happy_Moon ^^
 

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Capitolo 9
*** "Preferirei starti lontano..." ***


Heyo gente! Scusate l’attesa, rieccomi qua…spero vi piaccia e vi auguro buona lettura!
Arrivò a casa decisa a fare una bella chiacchierata con la madre riguardo a una “certa cosa”. La vena sognante che le aveva attraversato la mente poco prima si era trasformata in acuto nervosismo.
Spalancò la porta dell’appartamento senza tante cerimonie e chiamò la madre urlando.
 
-Cosa c’è?! Dio, guarda che c’è altra gente qua, non ci siamo mica solo noi! E tedeschi, per di più! Ma sei matta?!- la sgridò la madre andandole incontro.
-Mamma chi era quello?
 
-Bill, il ragazzo che hai conosciuto l’anno scorso!
 
-Perfetto, chi è oltre ad essere “il ragazzo che ho conosciuto l’anno scorso”?!


Karen sbuffò, roteando gli occhi.
-Non iniziare con queste domande! Che cavolo ne so io?
 
-Bah, sei stata tu a chiedergli “come va il lavoro”!
 
La donna parve fermarsi un attimo, come per elaborare i pensieri.
 
-Alludi alla band?
 
-Sì, capo, alludo alla band. Cazzo hai solo la più remota idea di quanto siano famosi?!
 
-E con questo cosa vorresti dire scusa, che non ho ben capito? E non usare questo linguaggio con me!
 
-Vorrei dire che forse io avrei potuto conoscerli, diamine! O essere una loro fan sfegatata?- Kim si fermò un attimo a pensare a quello che aveva detto; non aveva molto senso dire ‘fan sfegatata’ quando conosci una band da appena una o due settimane. Ma loro sono un caso speciale …
 
-Guarda che per me stai esagerando, signorina, datti una calmata!
 
-Tu cosa avresti fatto se ti si fosse avvicinato Paul McCartney e ti avesse detto “Hey, ciao, quanto che non ci vediamo!”?!
 
Karen si rallegrò un attimo dentro di sé a sentir citare la sua anima beat.
 –Beh, non potevo sicuramente prevedere che saresti impazzita in questo modo! Che ne so io delle band che ascolti tu! Voi ragazzi non vi si capisce. Prima esigete privacy e dopo vi lamentate perché non sappiamo niente di voi?! Certo che sei, eh!
 
-Io … ah … grrrrrrrrrrr!- Kim si allontanò con un grugnito, continuando a borbottare fra sé e sé.
 
-Ragazzi…- sospirò la signora Wendell, scoutendo la testa. Poi lo sguardo le cadde sullo stereo lasciato incustodito sul tavolino del salotto. Sogghignò … “Mai lasciare uno stereo incustodito quando c’è Karen Wendell in giro!” pensò, poi mise su il suo caro vecchio ‘Let It Be’, cantando a memoria ogni singola parola.
#
 
Kim stava distesa sul letto, fissando il soffitto. Non sapeva se la sua vita fosse stata distrutta completamente o iniziata solo in quel momento. Un po’ tutte e due, forse …
Forse era solo impazzita, magari si sarebbe svegliata da un momento all’altro sul letto d’ospedale, nella stanza bianca, con i dottori vestiti di bianco e la mamma che la guardava quasi piangendo; o ancora meglio, sul suo bellissimo letto a Liverpool, nella sua bellissima stanza tappezzata di poster. Ora che ci pensava, era strano che non ci fosse nemmeno una foto dei Tokio Hotel nella sua camera. Solo nell’armadio, nascoste, al riparo da occhi indiscreti, come se fossero un suo segreto personale.
Ripensò a quello che la vocina aveva detto nella sua testa.
 
“Una delle mie poche, rare, amiche”.
 
Poche? Rare? Perché? … beh, certo, lui era una star internazionale, ogni persona che lo vedeva poteva saltargli addosso da un momento all’altro, e non necessariamente con buone intenzioni. Non era strano che avesse pochi amici. Amiche femmine, per di più. Quante amiche poteva avere uno del genere? Quante persone poteva avere intorno che non fossero interessate solo ai suoi soldi? Un ragazzo così giovane, poi, già con i milioni. Non doveva essere facile una vita come la sua. Ma se la vita privata era impossibile, in compenso doveva sentirsi meravigliosamente sul palco. Kim aveva sempre invidiato le persone come lui, i cantanti famosi, si era sempre immaginata su un palcoscenico sopra un mare di persone che si erano fatti un mazzo così per comprare il biglietto, venute lì da chissà quali parti del mondo solo per ascoltare lei. Si era sempre chiesta come fosse avere la consapevolezza che milioni di ragazzi e ragazze potessero provare sollievo, gioia, emozionarsi ad ascoltare una sua canzone. E adesso che aveva qualcuno a cui poterlo chiedere, era spaventata, non voleva sentirsi di nuovo condizionata dalla sua presenza. Preferiva stare per sempre relegata nella sua stanza, ammirarlo in foto come una stella irraggiungibile come aveva sempre fatto, piuttosto che doverlo sentire di nuovo vicino a sé.
Girò la testa verso l’orologio appeso alla parete. Le sette e mezza, ormai. Non aveva fame. Si sorprese del fatto che la madre non fosse venuta a chiamarla, doveva aver capito. Si rigirò nel letto, afferrò un cuscino e ci sprofondò dentro, sperando che quando avesse tolto la faccia dalla stoffa della federa ogni dubbio e preoccupazione ci sarebbe rimasto intrappolato dentro.
 
#
 
-Kim, da quanto è che non esci?- le chiese impaziente la madre, affacciandosi alla porta della camera.
 
-Mmh … due giorni, mamma, mica un anno. Sono stanca, posso rimanere tranquilla a casa?!- rispose scocciata la ragazza dal letto.
-Sì, ma quel letto sprofonderà se rimani lì ancora un po’.
 
Kim sbuffò. Sua madre sapeva essere noiosamente convincente. Posò il cellulare, si alzò dal letto e si stiracchiò un po’. Quindi infilò stancamente le ciabatte, e si avviò a passi lenti verso la cucina. L’orologio segnava le dieci e mezza del mattino. Si rese conto che non aveva nemmeno fatto colazione, fece per aprire la dispensa quando Karen trillò allegramente:
 
-Se hai fame puoi benissimo uscire a prenderti un caffè. Vai al bar qui davanti, le loro brioches sono una meraviglia. Garantito.
 
-Mi vuoi fuori a tutti i costi, eh? Ma cosa devi fare di tanto segreto?- chiese Kim afferrando la scatola dei biscotti.
 
-Io assolutamente nulla. Tu piuttosto, mi spieghi cos’è tutta questa pigronite?! Hai saltato ben due lezioni di lingua e poi il tuo basso si sta impolverando.
 
-Mi sono stancata di suonare. Non ci capisco niente- ringhiò lei stringendo ancora di più i biscotti.
 
-Non ci credo. Non è vero niente. Adesso vai a farti un giro e ti levi quella faccia da moribonda- la sgridò Karen mentre la figlia, sconsolata, si infilava le scarpe.
 
-E molla i biscotti!!
 
Kim si bloccò sulla soglia. Beccata.
 
#
 
Girovagava per la città, masticando una brioche. Non aveva scuse, mamma aveva ragione. Quella roba era deliziosa. Si era alzata il cappuccio, e girava alla larga dal parco. Non aveva voglia di incontrarlo di nuovo. Né lui né i suoi compari. Non voleva sentirsi di nuovo in balìa della corrente, come un’onda che la travolgeva senza pietà.
Incrociò per caso le ragazze che aveva incontrato quel giorno. C’erano Adele, Ayla, Ignes  e Rahel. Quest’ultima aveva cambiato colore di capelli, era passata dal rosso fuoco al blu notte. Kim sorrise, pensando che doveva essere una di quelle che cambiano colore come cambiano i calzini.
 
-Hallo Kim! wie schön , Sie wiederzusehen !

 

 

 
-Für mich , Mädchen!- le salutò allegramente. 

 

 
Era migliorata in tedesco, anche grazie all’aiuto del traduttore. Era quasi sicura di riuscire a fare un discorso di senso compiuto con un madrelingua. Era stata fortunata ad incontrare quelle ragazze, un  po‘ perché così non era sola completamente, un po‘ perché poteva allenarsi in lingua.
 
-Hai l’aria stanca, va tutto bene?- le chiese Adele, premurosa.
 
-No, niente, è che ieri sono andata a letto tardi… piuttosto, ho visto che Rahel ha cambiato colore di capelli! Lo fai spesso?- cercò di sviare il discorso, non aveva voglia di parlarne con delle semi-sconosciute.
 
-Almeno una volta al mese, ah ah ah! Dovresti vedere i miei capelli a volte, sembro un porcospino per quanto sono crespi! E allora devo subito mettermi quintali di olio per idratarli un minimo, altrimenti mia madre non mi fa uscire di casa!- scoppiarono a ridere, anche Kim, anche se aveva capito forse la metà di quello che aveva detto. Chiese  loro di parlare più lentamente, altrimenti non avrebbe capito un corno.
 
-In che scuola andrai a settembre?- le chiese Ayla.
 
-Al liceo scientifico, mia madre ne ha trovato uno qui vicino, ora non mi viene il nome …
 
-Hey, se ho capito quello che intendi è lo stesso in cui andiamo noi.
 
-Un attimo … ma saremo dello stesso anno? Voglio dire, io ho appena finito il ginnasio, andrò in prima liceo …
 
-Anche noi! Uguale!
 
-Ah, perfetto allora!
 
-Sì, l’unico problema è che non potremo dirti nulla sui professori, perché cambieranno tutti! Ci dispiace- ammise Rahel.
 
-Ma che importa! Sempre a trovare i lati negativi, tu?!- la sgridò Adele.
 
Intanto che le ragazze litigavano, Kim si guardò un attimo intorno. Aveva come l’impressione che qualcuno la stesse guardando. Bingo. Eccolo lì.
 
#
 
Bill stava camminando “tranquillamente” per le vie di Magdenburgo, e con “tranquillamente” si intende “incappucciato all’inverosimile per non farsi riconoscere”. In teoria doveva andare a casa di Georg, a pescare suo fratello per riportarlo a casa, visto che né lui né Simone si fidavano di lasciargli fare la strada da solo. Tom poteva essere un pericolo pubblico, senza volerlo. Per non parlare del fatto che non si coprisse mai, e quindi veniva riconosciuto subito e preso d’assalto. Incredibile, a volte doveva farlo lui il fratello maggiore.
 Perso nei suoi pensieri, si era fermato ad un semaforo. Aveva sentito il cianciare di un gruppo di ragazze, le aveva guardate, avranno avuto sedici anni. Conosceva più o meno i volti della città, ma uno lo aveva colpito in maniera particolare. Per Dio, era Kim! Aveva voglia di andare a salutarla, di vedere se era uscita dal suo “shock” e se l’avrebbe trattato come un amico qualsiasi; ma quelle ragazze attorno a lei glielo impedivano. Gli sarebbero saltate addosso come le mosche sul miele, non che gli dispiacesse chissà quanto, ma aveva un obbiettivo preciso.
Indeciso sul da farsi, era rimasto fermo vicino al semaforo; e, incredibile, Kim si era girata e l’aveva visto. Lui voleva salutarla, ma si obbligò a stare fermo. Voleva vedere la sua prossima mossa, se avrebbe fatto finta di nulla o se gli si sarebbe avvicinata. Perché nel primo caso, sarebbe andato avanti come se nulla fosse.
Invece, lei disse qualcosa alle sue amiche, e si allontanò in fretta, come per andare dalla parte opposta. Poi, circa a metà della strada, si era fermata ed era tornata indietro, verso di lui.
Bill sorrise sotto la sciarpa.
 
“Kimmy”.
 
Heilà! Eccomi qua, come promesso, con un capitolo un pochino più lungo del solito. Cercherò di pubblicarli sempre più lunghi d’ora in poi, perché in effetti i capitoli precedenti erano davvero corti. Beh, non dico altro, ringrazio tantissimo _MartyK_ che non manca mai di recensire, e anche i lettori silenziosi, che fanno comunque numero di visite. J
Beh, baci a tutti, ci sentiamo al prossimo capitolooouuu!! :*                         Happy_Moon^^
ps. per il tedesco ho usato il traduttore...spero sia tutto giusto e che non sia buggato u.u 
 
 

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Capitolo 10
*** "...ma a quanto pare non ne sarei capace." ***


Aw! Ecchimi. Non dico niente e vi lascio leggere che è meglio per tutti noi. :P
Ps. In caso il nome del capitolo non venisse fuori del tutto, ve lo scrivo qui.
9.“…ma a quanto pare non ne sarei capace”
 
-Ehm…ciao- lo salutò Kim, timidamente.
 
-Ma buongiorno! Come va la vita? Non sembri troppo contenta di vedermi.
 
-Lo so, è che… boh, niente. Meglio se lasciamo perdere. Devo abituarmi alla tua presenza?
 
-Bah, se ti do fastidio non mi avvicinerò più- fece Bill con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere un iceberg.
 
“Tu? Fastidio? Ma quando mai…” pensava la ragazza.
-No, non mi dai assolutamente alcun fastidio. Piuttosto, diciamo che mi fa strano sentirti vicino a me. Insomma, ti ho sempre guardato in foto. Ok, non sempre.
 
-Wow, mi sento lusingato!- esclamò  Bill, esplodendo in quella sua risata bellissima. Kim arrossì violentemente.
-Io sto andando a prendere mio fratello. Ti va di accompagnarmi o lasci girare da solo per le pericolose vie di Magdenburgo?
 
-No, no, ti accompagno. Chissà cosa potrebbe succederti se non fossi con te- scherzò Kim rilassandosi. A quanto pare sì, avrebbe dovuto abituarsi alla sua presenza.
 
-Che facevi con quelle ragazze?
 
-Ci parlavo, perché? Sono mie amiche.
 
-Ci stai poco a farti delle amiche. O sbaglio?
 
-Beh, potrei dire che sbagli. Ma potrei anche dire che hai ragione. Dipende.
 
-Ma tu non ti ricordi proprio niente di me, vero?
 
-No, assolutamente niente se non che sei appeso nel mio armadio sotto forma di fotografia.
 
Bill deglutì abbassando il capo.
-O-ok. Perfetto.
 
Kim si voltò a guardarlo.
-C’è qualcosa che non va?- chiese sospettosa.
 
-No, no, assolutamente niente- la tranquillizzò il ragazzo tornando al suo sorriso smagliante.
 
Dopo un attimo di silenzio, Kim chiese seria:
-Ma che cavolo di dentifricio usi tu, scusa?
 
Bill scoppiò a ridere.
-Invidiosa, eh? Ammettilo che proprio non riesci a staccarmi gli occhi di dosso.
 
-Sì, sì, ok, non iniziare a fare la ruota come un pavone, adesso.
Svoltarono ancora per un paio di stradine, poi arrivarono ad una grande casa piuttosto in periferia. Si avvicinarono al cancelletto, e Kim lesse sul citofono il cognome “Listing”.
 
-E’ casa di Georg questa?
 
-Sì, esatto. Arguta la ragazza!
 
-Ha ha ha.
 
Bill suonò il citofono, e da dentro qualcuno aprì il cancelletto. Entrarono, percorsero un vialetto in salita e arrivarono di fronte all’entrata, la porta era aperta.
 
-‘Giorno! Disturbo?- fece Bill entrando.
 
-No, assolutamente. Anzi, forse sì. Fatto sta che stiamo giocando alla playstation e non abbiamo un terzo controller- rispose una voce da dietro il divano, non molto distante dalla porta d’ingresso.
 
-Per questa volta ne farò a meno. Allora, Tom, ti sbrighi? Non ho intenzione di aspettare tutto il giorno per…
 
-Sì, sì, diamine, arrivo, un attimo. Mi ci vuole tempo ad alzarmi, sai?!- lo interruppe una seconda voce. Kim vide un ragazzo piuttosto alto, con i lunghi capelli rasta legati in una coda di cavallo. Portava vestiti esageratamente larghi, e una simpatica espressione di noia pura era dipinta sul suo volto. Alzò la testa, e la sua faccia mutò in sorpresa quando vide Kim.
-E questa chi è?
 
-Dai, Tom, sforzati di far lavorare il cervello ogni tanto. La conosci.
 
Il ragazzo rasta ci pensò per qualche istante.
-No, non ho idea di chi sia- disse stancamente, prima di infilarsi un paio di scarpe da ginnastica e prendere un cappellino da qualche parte dietro al divano. Quando fu pronto per uscire, si piazzò davanti al fratello, ignorando Kim.
-Allora, dov’è tutta questa fretta? Andiamo sì o no?
 
-Certo, dopo che ti sarai coperto con qualcosa. Lo sai che detesto finire in preda ai giornalisti per colpa tua.
 
-Che palle! Devo per forza conciarmi come un talebano per fare quattro metri?!- si lamentò Tom.
 
-Per prima cosa non sono quattro metri ma ben due chilometri, e secondo, SI’, DEVI.
 
Tom protestò di nuovo, i due sarebbero andati avanti per tutto il pomeriggio se qualcuno non ci avesse messo il naso in mezzo. A proprio rischio e pericolo.
 
-Scusate, ma dalle copertine vi facevo un po’ più intelligenti! Tu, deciditi a metterti almeno un paio di occhiali da sole e finiscila, per favore- disse, rivolta a Tom. Wow, stava sgridando il suo chitarrista preferito, era una cosa fantastica. –E comunque, levati questa faccia da sbattuto che viene voglia di prenderti a schiaffi. Ce la fai?
 
Tom la fissò inebetito. Poi si illuminò di colpo.
-Ma sì!! Tu sei quella tipa che abbiamo incontrato un anno fa, certo, come ho fatto a non pensarci! Scusa, ma i videogiochi mi danno alla testa. Tutta colpa di Georg- esclamò, uscendo dal salotto-ingresso.
 
-MIA!- protestò il bassista mettendo fuori la testa da dietro il divano. Un’ombra di dubbio gli comparve sul viso nel vedere Kim, ma Tom la stava già trascinando fuori cianciando allegramente con un’improvvisa fretta.
 
#
 
Arrivarono davanti a casa Kaulitz, Bill la invitò ad entrare, ma lei rifiutò gentilmente perché non aveva voglia di dare pensieri a sua madre. Sapeva benissimo che a Karen non sarebbe dispiaciuto per nulla che lei fosse rimasta fuori ancora un po’, ma iniziava a sentire la mancanza del suo letto. E dei biscotti.
Memorizzò la posizione della casa, e si ripromise che sarebbe passata di lì un giorno di quelli.
 
#
 
Era notte fonda, e Kim giaceva inerte nel suo letto, con gli occhi verdi puntati sul soffitto e i capelli sparsi a mo’ di Medusa sul cuscino. Aveva un sacco di domande e dubbi scemi, misti a questioni filosofiche impossibili da risolvere nella testa. Pensò che fosse colpa di Tom con tutte le sue chiacchiere. Non era più abituata a sentire una persona chiacchierare così freneticamente. Molto probabilmente era ubriaco. Eppure per quell’attimo che l’aveva visto, Georg sembrava perfettamente sobrio. Ci ripensò un secondo. Nah, potevano benissimo essere ubriachi tutti e due. Alla faccia delle prove. Chiuse gli occhi. Respirò profondo. E nella sua mente echeggiò una domanda.
 
“Ma se metto una batteria nell’acqua frizzante cosa succede?”.
 
“…”
 
“Sul serio, bella domanda”.
 
Aprì gli occhi. Ok, il giorno dopo sarebbe andata a trovare i Fantomatici, Stravaganti, Incredibili ed Introvabili Gemelli Kaulitz.
 
Konnichiwa gente. E sono ancora qua… eh già… uhuhuhuh, citazione da Vasco Rossi. Lo so, si vede che Kim non è stata l’unica ad essere contagiata dalla Nonsensezza di Tom ubriaco. O cannato. Lascio decidere a voi! Cosa ha si è fatto Tom a casa di Georg? :P
Rinchiudetemi in manicomio, per il bene della comunità. #aiutiamoipoverimatti. Anzi, direi #aiutiamolepoverealiensperchétantosisadichièlacolpa. Sì, poster di Humanoid, sto guardando proprio te. Bando alla demenza, ringrazio un milionesimo _MartyK_ che mi recensisce sempre, e tutti i lettori silenziosi. Baci a tuttiiiii :*                    
 Al prossimo “capitolo” icsdì. XD       Happy_Moon^^
 

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Capitolo 11
*** Pizze e macchine virtuali ***


Haw! Scusate il ritardo, sono di nuovo qui siiiiii. Muahahha ne avrò ancora da rompervi con questa storia. Ma scherzo. Lo so che il titolo non è un granché, ma non avevo idee migliori, perdonatemi, capirete il senso verso la fine. Baci e buona lettura! :)
 
Quella mattina Kim non fece altro che leggere anticipazioni di romanzi su Internet, guardare video di bassisti alle prese con lo strumento, e assordarsi le orecchie del beat di sua madre, che dal giorno prima sembrava aver deciso che lo stereo non sarebbe più stato spento. Tutto questo rosicchiando mele rosse fino allo sfinimento.
 
Quando finalmente decise di muoversi, si accorse che era ancora in pigiama. Incredibile.
 
“Non posso certo andare dai Kaulitz in pigiama. Non offenderti orsetto, non hai niente di male” pensò stendendo sul letto il pigiama con l’orsetto disegnato.
 
Infilò un paio di jeans skinny, e la “maglietta con il logo delle Converse”. Quindi prese un ultima mela rossa, e uscì senza nemmeno pettinarsi. Poco male. Bill non era certo quello che avrebbe criticato i capelli per aria, in fondo …
 
“Lisa, era una pessima battuta.”
 
Sì, Kim, lo penso anche io, gehehe.
 
#
 
Suonò il citofono, le rispose Simone dicendo che erano in sala prove. Lei non conosceva la madre dei gemelli, ma sembrava che non le facesse differenza. In fondo, chissà quanta gente aveva già suonato quel benedetto campanello a caccia di autografi e Dio solo sa che cosa.
 
Kim non aveva idea di dove fosse la “sala prove”, quindi decise che avrebbe girovagato per l’oretta successiva, poi avrebbe ritentato.
 
Gettò i resti della mela in un prato incolto, e fece per pulirsi la bocca con un fazzoletto, quando sentì che “qualcuno” la stava chiamando.
 
-Hey, ragazza maleducata! Esistono i cestini per qualcosa, sai?- il ragazzo rasta la guardava da in mezzo alla strada con le braccia conserte e il finto broncio.
 
-Hey, ragazzo matto, esistono i marciapiedi per qualcosa, sai?- gli disse lei ridendo quando Tom schivò un’auto in corsa per un pelo.
 
-Vaffanculo.
 
-Poco fa sono passata a casa vostra e tua madre ha detto che eravate in sala prove.
 
-Ma mia madre dice sempre così, ormai ha la scusa pronta per ogni persona che si presenta alla porta. Una volta ha mandato via pure mia nonna dicendo “sono in sala prove”.
 
Kim scoppiò a ridere.
 
-Ok, ma senti … per quale motivo oscuro al mondo mi sei venuto dietro?
 
-Beh, ti ho visto così di striscio, ed è già tanto che il mio criceto disagiato abbia fatto lo sforzo di riconoscerti, quindi per averti rincorso come un deficiente merito almeno una medaglia. Dov’è Obama con le sue medaglie?!
 
-In America! Ma il tuo sciagurato fratello, scusa, dove sarebbe?
 
-A casa, sul divano, più morto che vivo.
 
Kim fece la faccia terrorizzata.
 
-Sta dormendo!! …
 
-Ah, ok … Cristo Kaulitz, non farmi prendere questi colpi!
 
-Hey, non pensavo che ci cascassi! Insomma, è un modo di dire.
 
-Beh, scusa, su una povera fan fa effetto.
 
-Sé, ok … cosa volevi prima?
 
-Bah niente … volevo passare il pomeriggio. A proposito, ieri cosa ti eri fumato?
 
Tom la guardò come se avesse detto che il giorno prima era stato sulla Luna.
 
-C-che cosa?
 
-Dai, non prendermi in giro. Si vedeva che eri ubriaco.
 
-Allora, punto uno: o sono fumato o sono ubriaco! E punto due, non mi avevi mai visto prima, come fai a dire che sembravo fumato?
 
-Perché riconosco un cannato quando lo vedo.- “Uh, che grossa bugia…” pensò, prima di proseguire.-E poi, scusa, voi star piene di soldi avrete il diritto di farvi ogni tanto!
 
-Appunto, avremo il diritto! Quindi non dire niente.
 
-Ma … mi hai fregato con le mie parole! …
 
-Vedo che ci senti!- Tom si mise a ridere. –E comunque no, non ne ho idea di cosa ho fatto ieri a casa di Georg. Ricordo però una grossa lattina di birra. Io non reggo molto bene l’alcol, quello lo so di certo.
 
#
 
Camminando senza meta, i nostri due eroi erano arrivati in una delle tante piazzette della città. Stavano ammirando una statua discutendo sull’acidità dei professori di lettere, quando squillò un telefono. Anzi, più che altro squillò un allarme di bombardamento.
 
-Ma che cavolo è?- urlò Kim coprendosi le orecchie.
 
-La mia suoneria, mi serve quando sono mezzo addormentato sul divano! La detesto, però è utile. – premette l’icona verde, poi portò il cellulare all’orecchio. –Pronto!
 
-Io sono pronto, Tom sciagurato che non sei altro! Dove cavolo sei?
 
-In giro, perché, te ne sei accorto?
 
-Ah ah ah, non è divertente! Quanto tempo fa sei uscito?!
 
-Bah, tre quarti d’ora, anche meno. Tu dormivi!
 
-Lo so che dormivo!
 
-Come fai a dire “lo so che dormivo”? Quando si dorme non si è coscienti!
 
-Ma stai zitto idiota.
 
Kim, che aveva sentito la conversazione, si mise a ridere.
 
-Chi c’è lì con te?
 
-C’è Kim. E’ venuta prima a suonare, mamma l’ha mandata via ma io le sono corso dietro. Tu dormivi, e …
 
-E basta! Giuro che se me lo rinfacci ancora una volta non chiuderò più occhio in tutta la mia vita!
 
-No, Billuccio, poi come fai con le occhiaie? Va bene che il viola fa dark, ma poi il trucco viene male.
 
-Taci prima che inizi a dire brutte parole. Adesso non ho voglia di venire a cercarvi, quindi vedi di non fare stupidate. E non provarci con le sconosciute, o ti farai una brutta immagine!
 
-Ma io ce l’ho già una brutta immagine, fratellino- disse Tom facendo l’occhiolino a Kim, e chiudendo la chiamata giusto per bloccare l’imprecazione proveniente dal telefono.
 
#
 
-Ding dong!- fece Tom aprendo la porta di casa.
 
-Ma buonasera!- rispose Bill dal divano, senza staccare gli occhi dal libro. –Ci sei solo tu?
 
-No, ci siamo Io, Me Stesso, Tom, Kaulitz, Thomas, Il Chitarrista, Quello Rasta, Quello Figo … - sarebbe potuto andare avanti per un po’, se Kim non fosse entrata facendo notare la sua presenza.
 
-Heilà Kimmy! Meno male che ci sei tu! Sai, io ci devo convivere tutti i giorni con ‘sta gente, dopo un po’ diventa noioso.
 
Tom, intanto, che stava ancora elencando, lo guardò sconcertato ed esclamò: - Ma con Quello Con I Vestiti Sformati non ci si annoia mai!! …
 
-Sì, ma quello si vede solo una volta ogni tanto. Ti fermi a cena, Kim?- domandò Bill togliendo finalmente lo sguardo dalla pagina e rivolgendolo alla ragazza, in piedi vicino a lui.
 
-Bah, non lo so, non ho detto niente a casa. Non vi do fastidio?
 
-Macché! Questa sera sono da solo con quella specie di fratello che ho, un po’ di compagnia non dispiacerebbe a nessuno.
 
Kim sorrise. –Avverto casa- disse infine, prendendo il cellulare.
 
#
 
Erano seduti sul divano, che divoravano pizze lanciati in una competizione sfrenata a Need For Speed 4, quando suonò il campanello.
 
-Salve! Non disturbo, vero?- erano i G&G, che a quanto pare non avevano altri programmi per la serata. E avevano pure una cassetta di birra.
 
-Assolutamente! Ci siamo solo noi due … tre- rispose Tom, senza staccare lo sguardo dal televisore.
 
Gustav entrò in quel momento, e non appena i suoi occhi incrociarono il televisore, disse perentorio:
-Kaulitz. Dammi un controller. Ora!
 
Bill gliene lanciò uno, e così si ritrovarono tutti e quattro attaccati alla Playstation, a parte Georg, che fissava la scena a metà fra lo stupito e il divertito.
 
-VAAIIIIIIIII!! Ma vieni!! Primoooooo!!- Tom si mise a ballare per il salotto non appena tagliò il traguardo.
 
-Ma non vale, mi hai tagliato la strada! … - protestò debolmente Kim, ma Bill la guardò scuotendo la testa, come dire “tanto è inutile, vince sempre lui”. Si alzò a prendere un bicchiere d’acqua, passando davanti a Georg, che fino a quel momento non si era fatto notare.
 
-Noi per caso ci conosciamo?- domandò il bassista.
 
-Certo! Mi fa piacere rincontrarti- rispose lei, allungandosi per prendere un bicchiere.
 
Georg sorrise. –Suoni ancora?
 
-Quasi tutti i gior …
 
SBADABAMM!
 
Bill, Tom e Gustav accorsero dal salotto.
 
-Che cavolo? …
 
Bill scoppiò a ridere nel vedere la scena, Kim lunga distesa per terra in mezzo a mestoli, posate e resti di bicchieri sfortunati.
 
-Wendell, tu sei sorprendente! Sei l’unica persona nel giro di dodici anni che viviamo qui che è riuscita a tirar giù la mensola della cucina!
 
-Gah … - fu la debole risposta della “vittima”.
 
 
Augh! Rieccomi, vi ho portato un nuovo capitolo! Wwwihuuu! Mi scuso per il ritardo, dovevo aggiornare ieri ma alla fine non ci sono riuscita. Beh che dire, ringrazio un Oceano Atlantico _MartyK_ che mi recensisce tuttotutto, e niente, ci sentiamo al prossimo capitolohh.
A proposito, volevo avvisare che io sono una che la tira lunga, quindi questa fic potrebbe piuttosto lunga, mi piace allungare il brodo.
Baci a tutte umanoidi!! :* :*                          Happy_Moon^^
 
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Shopping pazzo e telefonate ancora peggio ***


Buongi!! Scussssatemi, probabilmente non verrà fuori il titolo completo… ve lo metto qui sotto.
“Shopping pazzo e telefonate ancora peggio”.
 
Quella mattina Kim venne svegliata dal cane dei vicini che abbaiava.
 
“Stupido cane” pensò sbadigliando. Ma convenne che in effetti se non l’avesse svegliata il cane l’avrebbe fatto poco dopo sua madre con le pentole.
Ricordava perfettamente la sera prima, Tom che andava in giro ad ostentare la sua vittoria con la Playstation, e Georg che lo guardava ridendo e rosicchiando patatine, poi lei che chissà come era riuscita a tirare giù il ripiano della cucina distruggendo i bicchieri, e Bill che tentava di raccoglierli con il solo risultato di ferirsi quelle mani di burro. Alla fine, dopo aver ripulito il disastro, avevano coperto i graffi sul parquet spostando un po’ il tappeto, ed erano tornati davanti ai videogiochi come se niente fosse successo. Questa volta, però, avevano messo su The Sims, e avevano indetto una sfida a chi faceva morire in meno tempo quel povero Cristo del Sim, che fra l’altro (colpa di Georg) era pure vestito peggio di un barbone. Alla fine aveva vinto Gustav, che lo aveva fulminato con il microonde in quattro minuti e mezzo.
Era arrivata a casa accompagnata dai gemelli verso mezzanotte, era entrata in silenzio in casa e si era infilata sotto le coperte senza fare rumore.
 
“Chiudi bene la porta, o domani mattina potresti trovarti Tom nel letto …” le aveva detto Bill prima di rientrare in macchina.
 
“Stupido. E comunque non ci avevo pensato” aveva risposto suo fratello, facendo un sorriso demente.
 
Dopo l’abbastanza ovvio quarto grado da parte della mamma, era finalmente riuscita a mettere il naso fuori, giusto per fare un giro per i negozi e comprarsi qualcosa per l’inizio della scuola, visto che le sue felpe antiche non erano nel migliore degli stati. E per non parlare delle scarpe, non aveva abbandonato le povere Converse dalla seconda media; era un miracolo che fossero ancora integre, e comunque non troppo presentabili se si voleva fare bella figura con i nuovi compagni.
Tornò a casa con due borse piene di roba, e Karen ebbe la pietà di non commentare … jeans strappati, maglie deformi, decolté piene di borchie verde fluo e sneakers con la para alta almeno quattro centimetri. Si chiese se quella povera figlia che aveva non fosse impazzita del tutto, oltre ad aver perso la memoria; ma in fondo non sapeva che il “lato creativo” nascosto da tanto tempo in un angolino del cervello di Kim era venuto fuori solo in quel momento.
Erano passati tre giorni, e Kim non sentiva i ragazzi da un po’. Fece il numero di Bill sul cellulare, e dopo un paio di squilli rispose:
 
-Pronto?
 
-Buongiorno! Come gira lì da voi?
 
-In senso orario.
 
-Tua madre ha scoperto il disastro sul pavimento?
 
-No, l’ha scoperto Gordon, ma ha avuto pietà di noi e non ha detto niente. I fondo, dai, non è che sia tutta questa tragedia, sono quattro graffi.
 
-Sì, vabbé …
 
-Ti serviva qualcosa? Oh, spero non i duecento euro che hai lasciato qui, perché li ho spesi in scarpe questa mattina.
 
-COSA?! Di che soldi parli??
 
-Ah aha ha ha ha, sto scherzando. Comunque ho davvero speso duecento euro in scarpe questa mattina!
 
-Che combinazione, anch’io.
 
-Niente più Converse storiche?
 
-No, ho deciso di dar loro la pensione. E comunque, niente, volevo solo sapere come andava. Che palle, io fra una settimana devo iniziare la scuola.
 
-Noi fra una settimana partiamo in tour!
 
-Beato te, almeno ti fai un giro.
 
-Bah, ci sono i pro e i contro. Non è simpatico risalire su un aereo ogni settimana per sei mesi, sai? Soprattutto con i bagagli da portare avanti e indietro.
 
-Ah, non hai lo shiavetto con il tuo nome marchiato a fuoco sulla fronte?
 
-Non ci ho mai pensato. Potresti farlo tu, se vieni da me oggi pomeriggio ti marchio subito.
 
-Eh ehh, ma anche no grazie! Preferisco di gran lunga andare a scuola!
 
-Brava, brava, impara e istruisciti che se no resti ignorante.
 
-Mi stai dando dell’ignorante?
 
-Vedi, non sei così ignorante, lo capisci da sola.
 
-Idiota.
 
-Sì, dalla nascita! Adesso scusa, ma ho lo schiavo con il mio nome impresso a fuoco sulla fronte che mi aspetta.
 
-Ergo?
 
-Mia madre che mi sta urlando dietro per il mascara sgocciolato sul cuscino. Forse non mi sono struccato ieri sera, non lo so, ero ubriaco.
 
-Voi Kaulitz, sempre appesi alla bottiglia!
 
-Eh già, che cattivi ragazzi. Sì, arrivo!! Scusa, il comandante chiama.
 
-Allora ti lascio, saluta Simone!
 
-Ciao- salutò Bill prima di riattaccare.
 
Le faceva strano pensare che sarebbero spariti dalla sua vita per seei, luunghi, mesi, li conosceva da poco ma si era già affezionata a quei quattro pazzi scatenati. Ripensò a tempo prima, quando per lei gli occhi di Bill erano solo un sogno sconosciuto. Adesso non le faceva più nemmeno tanto effetto, anche se non poteva rimanerne indifferente.
 
“Ti piace, eh?” disse una vocina nella sua testa.
 
“Ma che cazz… NO!” si rispose da sola, avvampando dalla testa ai piedi.
 
“O forse, non lo so”. Si sentì improvvisamente triste, come ogni volta che non sapeva risolversi un dubbio.
 
“Boh” concluse, aprendo il frigo. Ah, il frigo. “La soluzione a tutti i problemi” pensò trangugiando un bicchiere di succo all’ace.
 
 
Ahu! ‘Giorno. Lo so, lo so che è corto, ma mi serviva da “collante” alla situazione di prima con la mia idea di dopo. Gehehehe, voi non lo sapete cosa vi aspetta. Non sto qua a dilungarmi, ringrazio settecentoquarantamila … facciamo così, all’INFINITO _MartyK_ che recensisce tutti i capitoli =D e tutti i lettori/lettrici silenziosi … \\^^// Sayonara a tutti gente, ci sentiamo al prossimo capitolo, o più semplicemente al prologo della nuova storia che pubblicherò presto.                       Kisu \\^*^//                                Happy_Moon^^

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Capitolo 13
*** Settembre ... ***


 
Hey alienità!! Sono dinuovo qua siii non sono sparita :D Mi scuso un sacco per l’enorme ritardo D: spero che il capitolo vi piaccia =) (e che non sia troppo lungo O-O)
ps. Lo so, il titolo fa pena, ma non sapevo cosa inventarmi abbiate pietà di me. ToT
 
 
Erano passate circa tre settimane, e l’agognato Settembre era arrivato. Kim e i ragazzi si erano rivisti più di qualche volta, anzi, si poteva tranquillamente dire che, lavoro permettendo, erano sempre insieme. Più di una volta si erano ritrovati ad essere assaliti dalle fan nel tentativo di mangiare una pizza in qualche posto, e più di una volta Kim si era presa un insulto da qualche fan gelosa. Più di una volta avevano rischiato di fondere la Playstation, come quel giorno in cui Kim e i gemelli si erano lanciati in una sfida con i videogiochi d’auto, dovevano essere giusto tre gare, che fra un pareggio e l’altro erano diventate trenta. Tom aveva spento giusto in tempo la console prima che si fondesse completamente.
Altre volte si erano buttati in karaoke assurdi, come quando Georg sfidò la ragazza a cantare Durch Den Monsun, rigorosamente in tedesco, e Bill a suonarla alla chitarra di suo fratello. Tom era quasi impazzito dal terrore, le orecchie del povero Gus che non centrava niente avevano sofferto, e meno male che l’insegnante di tedesco non c’era.  Per non parlare delle sfide a Twister. Ci avevano provato una volta, poi, dopo essere riusciti a staccare i capelli di Bill dalla cerniera della felpa di suo fratello, avevano deciso che era un gioco pericoloso. E non bisogna dimenticare quel giorno in cui il povero David, andato a casa dei gemelli per stabilire le date del tour, aveva trovato quattro malati di mente che si agitavano in modo scomposto nel tentativo di fare una partita a Just Dance, con il quinto disagiato che rotolava per terra dal ridere, dicesi Gustav. Quel momento rimase impresso per sempre nella vita del povero (sfigato) manager.
Ma appunto, con la fine dell’estate, Kim si era ritrovata in men che non si dica seduta in una classe di perfetti sconosciuti. Ma facciamo un passo indietro.
 
 
#
 
 
Suonò il campanello. Karen, seduta al computer a curiosare nei siti di scarpe, si era alzata ad aprire, ormai non serviva nemmeno più chiedere “chi è”.
 
-Buongiorno!- aveva fatto il rasta entrando.
 
-E’ sera, stupido- aveva risposto ridendo Kim dal divano.
 
-Scusami, devo aggiornare l’orologio biologico.
 
-Buonasera! Disturbiamo?- aveva fatto Bill chiudendo l’ombrello, fuori pioveva a dirotto, e lui non si fidava di lasciarlo all’entrata del condominio.
 
-Sì, disturbate la mia seduta serale di Jules Verne!
 
-Ventimila Leghe Sotto i Mari! Che figo!- urlò entusiasta Bill alla vista del libro che la ragazza teneva in mano.
 
-Inutili parole!- era stata invece la reazione di Tom.
 
-Vi serviva qualcosa di preciso?
 
-Sì! Indovina un po’?- il moro aveva fatto un sorrisone che non faceva presagire niente di buono.
 
-Ti sei rifatto la corona dentale?
 
-Nnnnon proprio. Diglielo tu, Tommi!
 
-Andiamo in tooooour- mugugnò il ragazzo con l’entusiasmo di una lucertola in un giorno di tempesta.
 
-Ah, sono contenta per voi!
 
-Come sarebbe a dire “ah sono contenta per voi”? Corri a comprare i biglietti! Non sei impaziente di incontrare i tuoi idoli?
 
-Certo, fremo all’idea stare al freddo, schiacciata addosso ad altre tremila persone, a vedervi suonare canzoni che conosco a memoria! Soprattutto non vedo l’ora di farmi autografare il cd e fare una bella foto ricordo, quando  mai ne riavrò l’occasione?
 
-Ecco, non vedi l’ora! Alza il fondoschiena dal divano e vai a prenotare il biglietto, che saranno quasi finiti. Ci penso io a tenerti il posto caldo, tranquilla … - fece Tom scansandola dal divano.
 
-E levati!!- rispose lei e iniziarono a scansarsi a vicenda riuscendo solo a spiegazzare la federa dei cuscini sul divano.
 
-Eh-ehm …
 
-Uh! Scusa Bill, mi ero distratta. Cos’è che volevo chiederti?... Ah, sì. Quanto è che starete via?
 
-Bah, per quel che ne so più o meno sei mesi …
 
-CHE?!? SEI MESI?!
 
-E che cavolo, guarda che ci vuole tempo a girare tutto il mondo! Partiremo più o meno fra una settimana …
 
-Uffa però, voi viaggiate dappertutto e io devo stare a casa e andare a scuola. Non è giusto!!
 
-Ahahahaha, soffri e taci, mortale!- fece Tom con una bella risatona malvagia. Gli altri due si voltarono a guardarlo.
 
-… che ho detto?
 
-Che è successo?- chiese Karen entrando, era andata in cucina a mettere su la pasta.
 
-Niente, gli accessi di malvagità di mio fratello. Adesso se non vi spiace noi dovremmo andare, eravamo passati giusto a dire queste due cose. Aiuto, adesso dovrò ripassare in mezzo a tutta quell’umidità … arriverò a casa che sembrerò un pazzo che ha preso la scossa- si lamentò Bill uscendo.
 
-Bibi, tu sembri sempre un pazzo che ha preso la scossa- replicò pazientemente suo fratello aprendo l’ombrello.
 
-Dillo di nuovo! …
 
-Ho detto che sembri un pazzo fulminato!
 
-Ciao, raga … -li salutò Kim mettendo la testa fuori dalla porta. Per tutta risposta Bill urlò un “Ma ti fulmino io” a suo fratello, iniziando un dibattito che probabilmente sarebbe durato fino al giorno dopo. Rientrò che il vociare dei gemelli si sentiva ancora giù per le scale.
 
“ … ma non avranno freddo a fare concerti in pieno dicembre?” pensò chiudendo la porta.
 
“I fan devono essere davvero affezionati se hanno voglia di stare due ore in piena notte al freddo e al gelo” si diresse in camera sua.
 
“Apparte all’emisfero australe, dove in teoria in questo momento sta per iniziare l’estate, se mi ricordo ancora qualcosa di geografia” si sedette sul letto.
 
“Ah, bene, mi ci vedo proprio io che già non capisco un cavolo a scuola, ad ascoltare una spiegazione in tedesco. Aiuto” prese il cellulare, e fece scorrere i numeri sulla rubrica.
 
“Persone che non conosco, persone che non conosco … e ancora persone che non conosco. Uh, Georg  e Gus. Ah, ecco qua Kaulitz Uno e Kaulitz Due. Poi vediamo … gente che non conosco, giusto” in effetti, a parte i numeri dei genitori e dei quattro amici non conosceva quasi nessuno dei numeri che comparivano nella rubrica.
 
“Posso anche eliminarli, tanto a Liverpool mi sa che non ci si torna” iniziò a cancellare i numeri di telefono “anche perché non è che abbia tutta ‘sta voglia di tornarci”; chiuse l’applicazione, spense il cellulare e volò in cucina, afferrò un pezzo di pane al volo e si buttò sul divano.
 
 
#
 
 
Tornando al punto di partenza, adesso la nostra eroina si trovava seduta in una classe di sconosciuti che borbottavano in una lingua che conosceva più o meno.
 
Quella mattina era stata puntualmente sbrandata alle sei da sua madre, che le aveva urlato di vestirsi in fretta e l’aveva spedita fuori di casa con tanto di soldi per l’abbonamento dell’autobus e cornetto alla cioccolata freddo.
Si era incamminata per le strade in cerca di un’edicola, o di un posto dove facessero gli abbonamenti per l’autobus, dato che si era dimenticata di farlo prima. Per fortuna aveva trovato un giornalaio aperto, aveva fatto la tessera e si era avviata alla stazione. Aveva preso il bus che si fermava più vicino alla scuola, e si era seduta nei posti in fondo, dato che era completamente vuoto. Dopo un paio di fermate aveva iniziato a riempirsi, e le si era seduta accanto una ragazza grassottella e dai capelli biondissimi; che d’altronde non era strano per il posto.
Avevano fatto qualche chiacchiera per la strada, Kim aveva scoperto che la ragazza si chiamava Ellen e che frequentava un liceo linguistico abbastanza lontano.
Ellen era scesa alla stazione dei treni, e al suo posto si era seduto accanto a Kim un ragazzo altissimo, con uno zaino nero e una camicia a quadrettoni troppo larga. Non aveva proferito parola per tutto il viaggio, così Kim se ne era rimasta buona al suo posto.
 
Quando finalmente scese dall’autobus, entrò a scuola e raggiunse la sua classe, si accorse che non conosceva proprio nessuno dei ragazzi che aveva intorno. Sfiga aveva voluto che Aya, Adele e tutte le ragazze che aveva conosciuto fossero tutte in sezioni diverse dalla sua, così si ritrovava a dover partire da zero. Si sedette in seconda fila, in un banco vuoto vicino ad un ragazzo che sembrava più interessato al soffitto dell’aula che al resto del mondo. Presto il posto vicino a lei venne occupato da una ragazza piuttosto bassa, rossa di capelli, che indossava una maglietta verde con il logo dell’Hard Rock Cafè e dei jeans blu che cadevano morbidi sopra le Converse rosse. Posò la borsa sul banco, si stirò la schiena e fece un sospiro soddisfatto. Poi si voltò a guardare Kim con i suoi occhi enormi e curiosi, scostò un ciuffo rosso e sorrise porgendole la mano.
 
-Piacere, sono Joey. Sei nuova? Non ti avevo mai visto.
 
-Sì, sono nuova … vengo da Liverpool. Mi chiamo Kim.
 
-Liverpool! Figo! La città originaria dei Beatles. È bella? Non sono mai stata in Inghilterra, mi piacerebbe farci un giro, prima o poi.
 
-Diciamo che merita tutti i suoi complimenti. È una bellissima città, c’è il Bluecoat, l’università di medicina, la Walker Art Gallery … è uno dei miei posti preferiti, è pieno di dipinti, quando ci sono stata per la prima volta a sei anni ti giuro che non volevo più uscire!
 
-Immagino! Ti piace l’arte?
 
-Diciamo che mi affascina. Tu invece … - Kim squadrò Joey da capo a piedi, soffermandosi sulla maglietta.
 
-Ah, sì, diciamo che … mi piace la musica rock, ecco, se non si è capito! …
 
Kim rise.-Tranquilla, si capisce!
 
Poco dopo entrò la professoressa, e iniziò la lezione, che si allungò per tre, lunghe ore.
 
Quando finalmente suonò la campanella dell’intervallo, tutti gli studenti si alzarono e si diressero verso l’uscita. Kim venne inghiottita dal fiume di gente diretta all’esterno e perse Joey; ma la ritrovò in mezzo al cortile intenta a parlare con alcuni ragazzi.
 
“Joey deve essere molto popolare” pensò avvicinandosi “in effetti farei bene anche io a farmi qualche amico in più … bah, c’è tempo”. Immersa nei suoi pensieri non si accorse di essere andata a sbattere contro qualcuno.
 
Si guardò intorno, e scorse solo dopo un attimo la ragazzina a cui era inavvertitamente andata addosso. Un essere completamente vestito di nero, viso e capelli completamente bianchi, le inveiva contro con un’espressione chiaramente incazzata. Kim si allontanò velocemente, Joey le venne incontro.
 
-Scusa, sai chi è quella ragazza? Quella lì, bassetta …
 
-Oh, quella dici? È Christina, meglio conosciuta come Quella Sempre Perennemente Incazzata. Nessuno dice di averla mai vista ridere finora.
 
-Ma … è un’impressione mia o ha i capelli completamente bianchi?
 
-E’ albina. Spesso si tinge i capelli, a volte li porta semplicemente bianchi. Si vede che questa mattina aveva finito i gessi. Il bello è che si veste sempre di nero, quindi sembra ancora più bianca. Per me lo fa apposta, a sembrare una morta in piedi. Tanto il carattere ce l’ha, non le manca niente.
 
Kim si voltò ancora una volta per guardare la ragazzina, ma era scomparsa nel nulla.
 
“Certo che ce n’è di gente inquietante”
 
 
#
 
Quella sera, dopo aver cenato, aprì Skype, Bill era online.
 
-Heilà, viaggiatore! Come le è andato il viaggio?- chiese, appena vide apparire la schermata della chat. Erano partiti da circa un paio di settimane, e non si erano mai sentiti perché non c’era mai stata l’occasione.
 
-Ciao … tutto bene qui. Abbiamo appena finito le prove … David è asfissiante, sono due giorni che proviamo per stasera e non gli basta mai, manco non sapessimo più suonare. Abbiamo circa un’ora per mangiare e farci i cavoli nostri, poi dobbiamo correre in camerino a prepararci, che alle nove dobbiamo essere sul palco.
 
-Ah ah ah, sfigato!
 
Bill rispose con una pernacchia.
-Ma … come ti è andata? Hai iniziato oggi la scuola?
 
-Sì … ho già conosciuto una ragazza simpatica, poi boh, non sembra niente male.
 
-C’è ancora il graffito di Tom sulla facciata?
 
-Il … che?
 
-Ah, non ti avevamo detto? Niente, è che una sera Tom era ubriaco …
 
-Bill, eravamo tutti ubriachi, anche tu- si sentì una voce da dietro al ragazzo.
 
-Sì, ok, ma tu lo eri più di tutti!
 
-Dai, che cos’è successo dopo? …
 
-Beh, semplicemente Tom ha trovato delle bombolette mezze piene in mezzo alla strada e ha pensato bene di andare a scarabocchiare il primo muro che vedeva, in questo caso la facciata nord del liceo classico. Nessuno si ricorda di preciso cosa fosse venuto fuori, chissà se è ancora lì.
 
-Ok, capito tutto, domani vado a vedere, e se c’è ancora dico che è stata colpa di Tom Kaulitz!
 
In quel momento comparve il famoso rasta sullo schermo.
-NO!! No cazzo scordatelo!
 
-Oh sì, glielo dico chiaro e tondo. Sono testimone della tua confessione, Kaulitz!
 
-Non mi prenderete mai!! … - furono le ultime parole di Tom prima di lanciarsi (letteralmente) sul pavimento, non si sa con quale intenzione di preciso.
 
Bill lo guardò un attimo. –Cosa speravi di fare?- gli domandò, trattenendo una risata.
 
Tom alzò la testa, con l’espressione del bambino che non ha avuto le caramelle. -Non sono diventato invisibile? …
 
-Ok, hai bevuto. Ciao Kim …
 
-No! Aspetta! Che cavolo voglio salutarla anch’io- si lamentò Tom alzandosi in fretta, piazzandosi poi con il suo sorriso ebete di fronte al monitor.
-Gheh, ciao Kim.
 
-Sì, ciao Tom. Anche io sono contenta di vederti.
 
-Hai sentito? Ha detto che è  contenta di vedermi! Sono emozionato.
 
-Piantala di fare il demente, fratello stupido.
 
-Ehi, guarda che sono di ben dieci minuti più grande di te.
 
-Piantatela che sto ridendo come una deficiente!
 
-Scusa scusa! Adesso la smettiamo.
 
-Ehi ciao essere umano!- fece intanto Georg passando.
 
-Ciao Ge. Dov’è Gustavino? Voglio Gustavino!
 
-Sono qua! ‘Giorno, anzi, ‘sera.
 
-Ciao Gustavino. Bene adesso potete andare via se volete.
 
-Esatto ragazza, adesso meglio se VOLATE in camerino che è tardi!- si sentì la voce del manager, passato in quel momento.
 
-Ma … ma manca più di un’ora e mezza! …- cercarono di protestare i membri della band, con poco successo.
 
-Dai, che ci sono le vostre fan che vi aspettano!
 
-Uffa però. Allora vado. Vado, eh?- la prese in giro Bill.
 
-Sì, dai, vai!- stette al gioco lei.
 
Risero entrambi. Si guardarono per qualche secondo.
 
-Ciao Kimmy. Fai la brava finché non torniamo, eh?
 
-Uhm, potrei dirvi la stessa cosa!- sorrise.- Ciao. Ci sentiamo, boh, presto. In bocca al lupo per stasera!
 
Bill la ringraziò e fece ciao con la manina prima di chiudere la chat.
 
 
Hey popolo alieno! Lo so che sono in straritardo, ma che volete non ci possho fare niente se sono impegnata. \\°-°//
(vero niente, ho disegnato tutto il tempo) uuuh, Ready Set Go! *o*
Eh-ehm, scusate, torno in me. Ringrazio centomila volte _MartyK_ che è onnipresente e onnirecensente (non so se esiste questa parola, Word me la segna sbagliata quindi vuol dire che non esiste. Segnatela sul dizionario con il mio nome!! :D), e anche chi legge senza recensire. Baci gente!! Ci sentiamo al prosssssssimo capitolo! :*                      Happy_Moon ^^
 
 
 

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Capitolo 14
*** Un pastrocchio sul muro e un intervento non desiderato ***


 
Nota: se il titolo non viene fuori x intero lo scrivo qui ... un pastrocchio sul muro e un intervento non desiderato. Buona lettura! ^^

Il giorno dopo era stanca. Abbastanza stanca da non avere voglia di pettinarsi e quindi di ritrovarsi nell’autobus a cercare di dare un bell’aspetto a quella massa di capelli aggrovigliati. All’entrata della scuola non mancò di salutare le ragazze dell’altra classe, e alcuni ragazzi con cui aveva fatto conoscenza. Si diresse verso la classe, e una volta seduta al suo posto, si abbandonò stancamente sopra il banco; e rimase lì per una bella decina di minuti finché Joey non la scosse (quando era arrivata?) per un braccio. Alzò la testa e si accorse che tutta la classe la stava fissando in attesa di qualcosa. Girò lo sguardo verso la prof, che la guardava con il registro in mano.

 

-Kim Wendell?- ripeté di nuovo.

 

-Ah, presente!- ecco, l’appello.

 

-Speriamo, signorina!





Ci fu una risata generale, e Kim fece di tutto per nascondere il rossore. Mai più libri fino alle undici, mai più!

Per fortuna non ci volle molto prima che l’attenzione non tornasse alla prof, che nel frattempo aveva iniziato a spiegare un qualche argomento di storia.

 

-Non hai dormito stanotte?- le sussurrò Joey non senza un sorrisino, da dietro il libro.

 

-Insomma. Potevo fare di meglio- rispose Kim aprendo alla pagina indicata dalla prof.

 

Le due ore successive trascorsero così, nella noia più letale, con le prof che parlavano della differenza fra la quinta ginnasio e la prima liceo, che blateravano di università e cose simili, delle ‘mille strade che vi offre questa scuola’, e tutte cose così. In pratica, il programma di quella giornata, ormai Kim l’aveva capito, sarebbe stato ‘storia-chiacchiere-chiacchiere’. Beh, meglio, no? Piuttosto che dover seguire inutili lezioni.

Al suono della campanella, tutti i ragazzi si alzarono di scatto, fiondandosi fuori dalla porta manco ne valesse della loro vita. E come al giorno prima, Kim venne trascinata dal fiume di gente verso il cortile esterno dove si passava la ricreazione. Fissava un punto impreciso del muro della scuola, quando si ricordò di quello che aveva detto Bill la sera prima. Il graffito sulla facciata nord.

Joey stava ridendo con alcune ragazze, non le andava di disturbarla, quindi si diresse da sola verso il muro incriminato. Riuscì a vedere qualcosa sporgendosi dal cancello … in effetti vedeva uno scarabocchio sospetto, ma non era sicura che fosse proprio quello.

 

“Appena usciamo faccio una bella foto e stasera la mando ai ragazzi …” stava pensando, quando un urlo la fece spaventare. Si girò di scatto, e vide alcuni ragazzi che si lanciavano un cordino nero, probabilmente una collana, con appesa una piccola croce d’argento. Al centro del gruppo stava … una ragazzina bassa, vestita di nero, che si agitava tentando di afferrare la collanina.

 

“Oh, la vedo bene”.

 

-Che devi fare con questa, ci uccidi i vampiri?- fu la intelligentissima battuta di uno di loro.

 

“Ok, non mi va di stare qua ad assistere agli atti di bullismo” pensò Kim prima di andarsene.

“E dire che queste cose si facevano alle elementari, incredibile che ci sia gente di 16 anni che si diverte ancora con queste sciocchezze”.

Aveva appena girato l’angolo, quando il senso di colpa si fece strada nella sua mente. Diede un’occhiata ai ragazzi, e a Christina nel mezzo. Forse era abbastanza alta da riuscire a strappare la collanina agli altri ragazzi. Si avvicinò abbastanza timorosa al gruppetto. Non aveva voglia di lanciarsi in mezzo alla mischia, quindi si limitò a urlare:

 

-Prof!

 

All’improvviso i ragazzi si voltarono a guardarla con lo sguardo degli animali braccati. Christina si abbassò e raccolse la collana che era caduta a terra. Uno di loro si mosse verso Kim. Kim spalancò gli occhi, avrebbe fatto meglio a lasciar perdere. Una mano la prese per il braccio e la trascinò via giusto prima che l’armadio di ragazzo che aveva davanti grugnisse qualche cosa.  

Arrivata al cortile, scosse il braccio e si guardò intorno. Vicino a lei c’era Christina che si spazzolava la gonna che portava sopra ai leggins neri.

 

-Tu hai fatto un favore a me, io lo faccio a te. Non dire niente che non serve. Non avvicinarti più. Quelli ti fanno il muso nero per una sciocchezza del genere- alzò lo sguardo, dura, su di lei. –Avresti potuto fregartene, tanto prima o poi si sarebbero stancati. Adesso ti hanno nel mirino. Odiano essere denunciati- Kim la interruppe.

 

-Avrei potuto fregarmene, ma non l’ho fatto. Le persone si aiutano fra di loro, sai?

 

Christina la guardò con rabbia. –Io. Non ho bisogno. Del tuo aiuto. – si sistemò i capelli candidi. –Né di quello degli altri. Lasciami stare.

 

Detto questo, si avviò verso la classe, sparendo fra gli studenti.

Kim rimase a fissare il punto dov’era sparita, finché non arrivò Joey a scuoterla (per la seconda volta in un giorno solo) per il braccio.

 

-Hey, sei proprio stanca oggi! Che c’è?

 

-Ehm, niente. Guardavo una ragazza, ecco, mi sembrava un viso familiare.

 

#

 

Quel pomeriggio, arrivata a casa, per prima cosa tirò fuori il cellulare. Aveva fatto una foto al graffito, in effetti si vedeva che non era proprio sobrio l’artista che l’aveva fatto. Aprì il portatile, che fece mostra di tutti i suoi anni con un bello scricchiolio.

 

“Ok, prossima missione, portatile nuovo”.

 

Andò nella casella di posta, e diede un’occhiata a ‘posta arrivata’. Erano perlopiù messaggi pubblicitari, e mail da persone il cui nome non le diceva niente. Forse i suoi vecchi amici, pensò. I suoi vecchi amici. E se fosse tornata in Gran Bretagna? Che figura ci avrebbe fatto a presentarsi a scuola, magari, e vedere tutti i propri amici come perfetti sconosciuti? Scosse la testa. Non sarebbe tornata, se l’era già detto. Scrisse l’indirizzo di Tom nella barra apposita, e allegò la foto che nel frattempo aveva trasferito dal cellulare con Bluetooth. Incredibile che quel vecchio catorcio del pc prendesse ancora Bluetooth, pensò. Inviò la mail, e chiuse il computer.

Soffocò una risatina. Il pensiero di Tom ubriaco che pasticciava un muro le avrebbe tormentato il sonno in eterno.

 

#

 

Aveva appena finito di mangiare, entrò in camera e accese la luce. Con l’arrivare dell’inverno i giorni si accorciavano, e ormai la luce naturale non bastava più a illuminare la stanza.

Si sedette alla scrivania, aprì il libro di storia e diede un’occhiata a ciò che avevano fatto in classe quella mattina, dato che durante la lezione era presente solo fisicamente.

Ad un certo punto partì un bip-bip dal computer aperto. Una chiamata Skype. A Kim si illuminarono gli occhi. Si sedette sul letto con il portatile sulle ginocchia, e aprì la chiamata.

 

-Buonasera! Come gira in Germania?- il suo amico capellone fece capolino da dietro lo schermo.

 

-Mah, in senso antiorario, come tutto il resto del mondo.

 

-Davvero la terra gira in senso antiorario?

 

-Così ci avevano detto a scuola, poi può darsi che si sbaglino. Ovvio che per te che non hai nemmeno finito le scuole questa è una novità.

 

-Mi stai dando dell’ignorantone?! Guarda che mi arrabbio!

 

-Sì, l’obbiettivo era quello. Dai, sei troppo carino quando ti arrabbi.

 

Bill fece una faccia come dire “ah ah ah, divertente”.

 

Kim scoppiò a ridere.

-Dai, che ti sto prendendo in giro! Come va a voi?

 

-Mah, domani ripartiamo. Altre tre ore di aereo per arrivare a … dov’è che andiamo domani?- chiese Bill sporgendosi a destra, probabilmente verso una porta.

-Ehi, caggatemi. Dov’è che si va domani? … come non detto. Sono invisibile in questa stanza d’hotel- chiuse gli occhi e si massaggiò la testa, col fare di qualcuno molto stressato. –Comunque dovrebbe essere dalle parti della Francia. O la Spagna. Boh. Beh, siamo appena stati in Austria, quindi o in Francia, o in Italia … boh, non ne ho idea. È stancante, sai? Quasi quasi ti invidio. E siamo solo al secondo giorno.

 

-La vedo dura allora! Poveri i tuoi capelli, chissà come saranno dopo tutto questo stress!- gli fece la battuta Kim.

 

Bill la guardò perplesso. –Ma com’è che stasera mi vuoi così male?! E comunque è vero, in fondo non hai detto una cosa poi così sbagliata.

 

-Avete preso qualche ricordo? Guarda che voglio una foto per ogni posto dove andate.

 

-Allora stai tranquilla, che con la sua smania per i luoghi d’arte Gustav fa più foto che altro.

 

-Davvero? Gusti? E chi l’avrebbe mai detto.

 

-Certo! Ti giuro.

 

-Ma aspetta … cosa intendi per “luoghi d’arte”?

 

-Mah, musei, ristoranti …

 

-Ah, ecco.

 

Il biondino in questione apparve dietro a Bill nello schermo.

 

-E certo! Che pensavi? Ho fatto una panoramica stupenda di Vienna, e poi ho segnato con il pennarello nero tutti i posti dove abbiamo mangiato, con un’accurata descrizione del menù e del personale. Sono un turista serio, io!

 

-Non lo metto in dubbio! Avete visto la foto, alla fine?

 

-Ah, sì, Tom l’ha guardata appena prima. Non saperi dirti se si tratta proprio del suo graffito (graffito per modo di dire), nessuno si ricorda niente di quella sera. Aspetta, forse forse se chiedo a Georg … ehi Listing! Ti ricordi per caso di questa roba?

 

Georg fece la sua comparsa nello schermo, fissando qualcosa nel cellulare di Bill.

-Sì, è quel coso che ha disegnato Tom nel muro della scuola. Perché, l’hanno denunciato ed è finito su tutti i giornali?

 

-Ti piacerebbe, stronzo!- fece una voce dietro di loro.

 

-No, dai, Tomi ci serve. A poco o niente, ma ci serve- disse Kim per “rassicurarlo”.

 

-Grazie, mi sento molto meglio!

 

-Ok ragazzi, adesso devo andare a ripassare storia, che per tutta la lezione non ho fatto altro che dormire. Statemi bene!

 

-Ciao, ci sentiamo- dissero in coro i ragazzi.

 

-Certo che siamo un coro pazzesco, dovremmo iscriverci al gospel, altro che Tokio Hotel- disse Georg, giusto prima che Kim chiudesse la chiamata.

 

“Certo che siete matti voi” pensò con un sorriso. “e meno male, i matti ci vogliono nel mondo, se no è troppo noioso”, si disse sospirando. E dire che quei ‘matti’ le mancavano anche.

 

 

Heiiii alienaggine! Eccomi, sono risorta. Lo so che non mi faccio viva da un po’ di tempo, e in effetti non ho nemmeno scuse, dato che è un sacco che passo i pomeriggi a disegnare e cazzeggiare piuttosto che fare cose utili al mondo come scrivere. Eheeemmm perdonate i miei accessi filosofici. Ringrazio subito tutti coloro che leggeranno, chi lascerà una recensione e anche chi preferirà rimanere in silenzio. Un grazie speciale a Marty che recensisce sempre. Baci, al prossimo capitolo!! ^^             Happy_Moon =)

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Capitolo 15
*** Complicazione ***


 
Il giorno dopo, nella scuola girava un’aria strana. Gli studenti la guardavano male, alcuni tra lo stupito e l’imbarazzato, gruppi di ragazze le lanciavano occhiate velenose per poi chiudersi in gruppo a parlottare. Joey era assente, perciò nessuno a cui chiedere … cosa, poi?
Perfino le ragazze che aveva conosciuto al suo arrivo non le si avvicinavano. La guardavano dubbiose, timorose di farsi avanti.
Passarono così le prime tre ore, fra sguardi poco benevoli e commenti nascosti: alla terza campanella, quella che annunciava la ricreazione, Kim non ce la faceva già più, si sentiva come se fosse stata nuda in mezzo a tutti. Passò la ricreazione in un angolo, cercava di origliare qualche conversazione ma non le giungeva niente. Ad un certo punto, vide Christina, la ragazza goth, passarle vicino. Troppo vicino.
 
-Stupita che ti guardano tutti?- le chiese, fissando un punto lontano.
 
-Tu sai perché?- ribatté Kim, disperatamente alla ricerca di una risposta.
 
L’albina la guardò disgustata.-Ma tu non leggi mai qualche rivista?
 
L’interessata fece una faccia degna di un cucciolotto rimasto senza mamma.
 
-Immaginavo- aggiunse Christina, scostandosi dal muro al quale era appoggiata, e sbattendo addosso a Kim un giornale di gossip aperto.-Tieni, leggi per bene.
 
-Io … - prese il giornale, e diede un’occhiata alla pagina. Bene in grande, la foto di lei e i gemelli più spiati di Magdenburgo, ridenti in una via della città. Non era possibile. La sua vita era finita.
 
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-Allora, come ti è andata la giornata?- la salutò allegra Karen appena sentì sbattere la porta.
 
Kim non aveva il fiato di rispondere.
 
-Buongiorno- scandì per bene sua madre, fissandola negli occhi. –Sembri una scalmanata. Cos’è success …
 
-Mamma, tu sapevi di questo?- si limitò a dire Kim, mostrandole l’articolo della rivista, che ricamava largamente sulla nuova ragazza di uno dei gemelli Kaulitz.
 
-Oh- l’espressione sul volto della donna chiariva che no, non se l’aspettava.
 
Kim si fece cadere a peso morto sul letto. Dopo aver respirato profondamente per un paio di volte, si decise a prendere il cellulare, e fece il numero di Bill.
 
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-Bill, ti suona il cellulare- ululò stancamente Tom da qualche parte nel corridoio.
 
Il ragazzo voltò la testa in direzione del ‘mezzo disturbante’. Lo prese in mano, corrugò la fronte.
 
-Chi è?- fece sempre Tom, facendo capolino da dietro la porta.
 
Bill premette il tasto verde senza rispondere alla domanda.-Pronto, Kim?
 
-…aah- sussurrò il rasta dalla porta, con espressione dolorante.
 
-Bill, ho un cazzo di problema- il nervosismo colava a fiumi dal telefono.
 
-Sì, anche noi- rispose Bill guardando suo fratello.
 
-Come cavolo? …
 
-Sono dappertutto, Kim. Non c’è da stupirsi, in effetti.
 
All’altro capo nel telefono si sentì un lungo sospiro.
 
-Certo che sono fantasiosi, però!
 
Bill si lasciò sfuggire una risata nervosa.-Credimi, ci sono andati moolto leggeri, stavolta.
 
-Non oso immaginare cosa vi abbia fatto passare la stampa!
 
-Ah, vuoi un elenco?
 
-No, grazie.
 
-Senti, c’è Tom che mi stressa, te lo passo.
 
-Ok … hei Tommi.
 
-Ciao.
 
-Ti sento mogio!
 
-Perché tu sei piena di energia, immagino!
 
Risata nervosa.
 
-Per prendere a pugni qualcuno, sì- ammise Kim, continuando a ridere.
 
-Verrei con te, se non fossi a qualche ora d’aereo.
 
-Gli altri due furbi dove sono?
 
-Dio lo sa, noi no.
 
-Capito. Beh, salutatemeli.
 
-Ok … e, Kimmy, senti …
 
-Sì, Tom? …
 
Sembrava parecchio dispiaciuto. –Sorridi. E limitati a ripetere che non è vero.
 
-…grazie, Tom. Lo farò- concluse la chiamata, senza lasciare il tempo a Tom di ribattere.
 
Il rasta guardò per qualche secondo il telefono, che lampeggiava di rosso con la scritta ‘chiamata terminata’.
 
-Mi sa che è un po’ colpa nostra, B- mormorò sconsolato.
 
-Un po’ tanto, direi- lo liquidò l’altro, alzandosi e uscendo dalla stanza.
 
-Adesso inizierai a girare nervosamente per le stanze, sbuffando e sistemandoti i capelli ogni tre per due?- gli chiese Tom dalla camera.
 
-Sì, è un problema?!- ecco: era appena iniziata la fase ‘primadonna isterica’.
 
-Almeno cerca di non rompermi mentre me ne sto a poltrire, ok?
 
-Sì sì, ok.
 
Tom sospirò. Sapeva, che, alla seconda volta che Bill gli sarebbe passato davanti, gli avrebbe detto di alzare quel suo fondoschiena dal divano e di fare qualcosa di utile all’umanità, invece di disturbare tutti con quella sua palpabile voglia di fare niente.
 
 
Heiii! Sono ancora viva!!!! Lo so, ma sono come Tom, la mia è una palpabile Voglia Di Fare Niente. Ma Bill-Primadonna-Isterica è passato anche a casa mia, quindi ho deciso di darmi da fare. Non mi dilungo in chiacchiere! Ringrazio chiunque leggerà e recensirà questo capitoluzzo. =)
Baciiiii a tutte, auguri di buon Natale (alla faccia del ritardo) e mille mille auguri di buon 2016!!         Happy_Moon^^
 
 

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Capitolo 16
*** Blue hair-dye ***


Nota: non chiedetemi perché abbia questa fissa dei capelli colorati. SONO FIGHIIIII li voglio blu sparafleshato. *-*

Una settimana, due, tre, un mese, due. Il tempo passava in fretta per Kim, confinata nella sua camera in un appartamento malandato di Magdenburgo, semidistesa sul letto a leggere, tagliati tutti i contatti con il mondo esterno. I curiosi avevano smesso di darle fastidio, ormai quello scatto rubato era storia vecchia; ma ormai si era abituata a tenere sempre tutto spento, a stare chiusa in casa come era stata costretta a fare in quel breve e disastroso periodo, e in fondo doveva ammettere che non si stava affatto male.
Ovvio, non si era data all’asocialità, almeno finché si stava a scuola; sorrideva a tutti, che ormai in bene o in male la conoscevano, passava il tempo a chiacchierare con Joey e con la sua comitiva di amici rockettari che ormai erano diventati anche amici suoi. Non andava neanche male nello studio, superata la difficoltà della nuova lingua non aveva più grossi problemi … insomma, se messa in confronto con quella di altre persone, la sua esistenza era un sogno.
Però, il carattere pigrone le era rimasto. Anzi, a dire il vero un po’ pigra lo era sempre stata, si vede che a forza di tenere la serranda abbassata era emerso il suo lato ciabattone. Beh, per un motivo o per l’altro, aveva una buona occasione per fare ciò che si prefissava da anni: l’intera collana dei sette libri di Harry Potter di suo fratello, abbandonata in uno scatolone nello sgabuzzino, non aspettava nient’altro che qualcuno che la tirasse fuori. Sì, è vero, forse era un po’ grande per i fantasy da ragazzi, ma era da quando aveva cinque anni che fissava quei benedetti libri come se contenessero un tesoro segreto, e non ne aveva mai aperto uno. In poche parole, fregatene e leggi.
Dunque, in questo momento  la nostra protagonista stava proprio seduta sul letto con ‘La Camera dei Segreti’ in mano, quando squillò il cellulare.
Un attimo … il cellulare? Pensava di averlo spento. Mah. Diede un’occhiata al display … premette il tasto verde, e le rispose la voce squillante di Joey.
 
-Hey, polenta!
 
-Polenta sarà il tuo gatto!- in effetti sì, Joey aveva proprio un gatto marroncino, così pigro da essere chiamato Polenta.
 
-Sabato pensi di venire con noi?
 
Kim aggrottò le sopracciglia. Non le risultava niente di previsto per quel giorno.
-Vengo dove, di preciso?
 
-Scusa, nella patria del tè delle cinque non si fanno i balli scolastici?
 
-Davvero? Sabato c’è un ballo a scuola?!
 
 
-No, per finta. Certo, intelligentona! Dov’eri quando Mercy distribuiva i volantini?
 
-…- Kim ci pensò su. –Non lo so. Non mi risulta.
 
-…
 
-Un attimo, ma di solito non è che i ragazzi invitano le ragazze, o al contrario, insomma, una di quelle cose lì?
 
-Beh, in teoria i ragazzi invitano le ragazze, ma noi ce ne freghiamo e andiamo in blocco.
 
-E secondo te ci lasciano entrare?
 
-Non sono previsti bodyguard di cinquecento chili, quindi non credo che ci siano grossi problemi.
 
-Ok … ma … senti …
 
-Sento cosa?
 
-Devo venire … insomma, tirata a lustro?
 
Joey tacque un attimo. Parve pensarci su.
 
-Metti quello che ti senti di mettere. Noi veniamo vestiti a caso.
 
Kim sorrise. ‘Vestiti a caso’, per Joey e la sua banda, significava ‘facciamo vedere che siamo metallari seri’. Quindi, erano previste borchie, pelle, e forse anche qualche cresta blu.
 
#
 
Alla fine, giusto per prendere un po’ di aria, aveva deciso di uscire a prendersi qualcosa per sabato. Giusto uscendo, aveva trovato posta: una cartolina, proveniente da Londra, con la bellissima foto del London Eye. Il retro era scarabocchiato con una grafia illeggibile, riconducibile probabilmente all’egualmente disordinato Tom Kaulitz. ‘Siamo quasi a metà! Finalmente. Questa sera ci aspettano in uno stadio enorme, sarà pieno di inglesini denti gialli come te! Bill non vede l’ora, si gasa ogni volta. E dai che ti vogliamo bene! I poveri disgraziati Tokio Hotel’. Vicino alla scritta c’era il disegno di una mano malformata che faceva ‘ciao’, e le firme dei quattro.
Kim sorrise. Visto il normale ritardo delle poste internazionali, doveva essere di almeno qualche settimana prima, ciò significava che, se non ricordava male dalla veloce sbirciata che aveva dato alla scaletta del tour, a quel punto erano già in America, oltre oceano. E pensare che le mancavano, anche, quei quattro terremoti. Le mancavano le stupidaggini di Tom, i sermoni di Georg, le mancava vedere Gustav con la faccia dentro la dispensa. E le mancava vedere Bill che le faceva gli occhioni. Coraggio, sono solo tre mesi, ormai. La sua vita era troppo tranquilla senza di loro. Tranquilla, noiosa.
 
Passò tutto il pomeriggio prima che la malandata palazzina di periferia vedesse ritornare la giovane Wendell, carica di borse, a dispetto del ‘paio di magliette’ che aveva intenzione di prendere. Senza salutare nessuno, Kim salì diretta le scale, mollò il malloppo sopra il letto e si diresse con una piccola busta in mano in bagno. Si piazzò convinta davanti allo specchio, e aprì una delle scatole contenute nella busta. Si guardò allo specchio, con un sorrisino maligno.
 
#
 
-Tesoro! Sono a casa- Karen entrò sbattendo forte la porta, segno che era appena tornata dal supermercato e non aveva mani libere per chiudere la porta.
 
-Papà dovrebbe arrivare tra po … -non riuscì a finire la frase.
 
Quello che comparve sul volto della figlia era un sorrisone a trentadue denti, tipico dei bambini entusiasti di essersi sporcati la faccia con il pennarello indelebile.
 
-Non … non stai male- riuscì a biascicare la madre, superato lo shock iniziale. Se qualcuno avesse visto lo stato in cui era ridotta la donna in quel momento, avrebbe potuto dire che sua figlia si era tinta all’improvviso i capelli di blu. Ipotesi più che giusta! Infatti, da sotto la capigliatura scalata castano chiaro di Kim uscivano lunghi ciuffi blu elettrico. Detto così potrebbe sembrare strano, ma bisognava ammettere che nel complesso, con la camicia a quadretti blu e rossi che Kim indossava in quel momento ci stavano.
 
-Davvero? Grazie mamma!- Kim le saltò al collo. –Ero indecisa tra blu, fucsia e verde lime.
 
-Ehm … blu ti sta bene. Puoi staccarti?
 
Kim si scostò (anzi, si staccò) dalla mamma, e volò in camera. Prese il cellulare al volo, e compose velocemente il numero di Bill.
Attese un paio di squilli, poi ci ripensò e buttò giù. Voleva fargli una sorpresa, meglio  non far intuire nulla.
 
#
 
Mattina. Kim si alzò a razzo dal letto, prese una brioche al volo e si fiondò nell’armadio. Prese una camicia a caso, e un paio di pantaloni praticamente stracciati, e si infilò le Converse di mille anni prima.
 
-Ciao mamma, papà- salutò velocemente, e infilò la porta sgusciando dietro al padre, fermo in mezzo alla cucina, più di là che di qua.
Il povero signor Wendell si svegliò solo qualche minuto dopo.
 
-Ma … quando si è fatta i ciuffi blu?- chiese, con la voce assonnata.
 
-Ieri- rispose la moglie stancamente.
 
-E dove va così di fretta?
 
-A scuola, che dici?
 
Lui ci pensò qualche secondo.
 
-Sì, può darsi.
 
#
 
Aveva passato la giornata praticamente al centro dell’attenzione. Il gruppo di perfettine la guardava di sbieco, mentre Joey non smetteva di toccarle quei benedetti capelli.
A ricreazione, le era sembrato che pure Chistina la guardasse sorridendo. Quel giorno aveva i capelli blu anche lei.
Comunque, passiamo al momento che aspettava da tutto il giorno. Tom le aveva detto che tutti i giorni erano liberi fino alle tre-quattro del pomeriggio, quindi in teoria poteva ancora sperare di trovarli in Skype.
 
-Rispondi, rispondi, rispondi, rispondi …
 
La schermata della si accese sul soffitto di una stanza.
 
-Vai!
 
Una mano passò davanti alla telecamera, e raddrizzò lo schermo, dove apparve il faccione dubbioso di Georg.
 
-Georg!
 
-Io? Ah, ciao bella!
 
-Come gira? Siete già oltreoceano?
 
-Gira abbastanza bene, e sì, siamo a New York, precisamente.
 
-Perché ‘abbastanza bene’?
 
-Perché Gustav ha mangiato un hot dog di troppo e adesso ci vede triplo. Chissà cosa c’era dentro …
 
-Pensavo fosse un pozzo senza fondo!
 
-Beh, devo sfatarti il mito. Tu come stai?
 
Kim sorrise malignamente. Si alzò in piedi, e sciolse la coda di cavallo facendo cadere tutti i ciuffi blu sulle spalle.
L’espressione che si dipinse sul volto del bassista era esilarante.
 
-No, aspetta … che fighi! Li voglio anche io così!
 
Kim si risedette di fronte al pc, ridendo.
 
-NO, non ridere!! Dico davvero. No dai, sto scherzando. Per me verdi.
 
-Ti donerebbero.
 
-Sicuramente! Aspetta che vedo se quegli zoticoni degli altri tre sono ancora vivi. Tokio Hotel! Venite qua.
 
Tre sagome indefinite sfrecciarono sullo schermo, distorte dai pixel, per poi piazzare i loro nasi a qualche centimetro dalla telecamera.
 
-Ma chi si vede!- esordì Gustav.
 
-Cosa hai fatto ai capelli?- venne fuori Bill.
 
-Sposta il tuo culo grasso …- tutti si voltarono verso Tom. –Parlavo con Gustav! Con voi mi sento incompreso.
 
-Io non sono grasso.
 
-Sì invece!
 
-No, dai, solo qualche chilo di troppo … - mormorò il cantante.
 
-Parli tu che sei anoressico!
 
-Scusate?- si intromise Kim, schiarendosi la voce.
 
I quattro si voltarono verso di lei.
 
-Hey! Ti è arrivata la cartolina?- chiese Tom dopo qualche secondo.
 
-Sì, circa ieri. Quanto tempo fa l’avete spedita?
 
-Un mese fa, più o meno.
 
-Ah, le poste stanno peggiorando … - commentò Gustav, l’esperto di turno.
 
-Cosa hai fatto ai capelli?- chiese di nuovo il vocalist.
 
-Tinti ieri!- sorrise a trentadue denti, proprio come aveva fatto il giorno prima con la mamma. –Come mi stanno?
 
-Spettinati, in questo momento- commentò Tom.
 
-Sssh, te non capisci niente di queste cose- lo sgridò il fratello. –Ti dona- aggiunse poi, sorridendo appena.
Rimasero in silenzio qualche istante.
 
-Cos’era l’altra cosa che dovevamo chiederti?- venne fuori Georg da dietro la giungla di capelli del cantante.
Il chitarrista gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
 
-Ah, sì!- il bassista parve illuminarsi. –Tieniti buoni tutti i fine settimana di Febbraio, che uno di quelli torniamo.
 
Gustav lo guardò, sussurrando un ‘e…?’.
 
-…e facciamo una festa mega-super-disastro-APOCALITTICA!- urlò Bill in preda alla crisi mistica.
 
-WOW! E quanta gente invitate?
 
-La domanda giusta sarebbe: quanta vodka comprerete?- aggiunse Tom furbescamente.
 
-Non ne abbiamo idea. Probabilmente … trecento persone?
 
-Sì, trecento è un numero che mi piace.
 
-Perfetto … metterò le scarpe alte, così mi vedrete da lontano in mezzo alla folla.
 
-Cosa sono le scarpe alte?- chiese innocentemente Bill.
 
-Vedrai vedrai. Anche se devo ancora comprarle. Comunque scarpe belle. Te le farò provare.
 
Il viso del vocalist si illuminò di un sorriso infantile.
 
-Raga io vado. Il mio panino si sta raffreddando- Gustav si alzò dalla sedia.
 
-Ma non stavi crepando fino a cinque minuti fa?
 
-Cinque minuti sono tanti, giovane inesperto! Ho fame.
 
-Lo sai solo tu, eh.
 
In breve, dopo qualche chiacchiera inutile, anche gli altri due musicisti sparirono dalla vista della telecamera, dopo essersi fatti promettere che sarebbero stati richiamati presto.
Kim e Bill rimasero a fissarsi per un po’. Forse nessuno sapeva cosa dire, o magari si stavano solo scrutando a vicenda. Bill aveva un’espressione vagamente malinconica. Dopo qualche secondo si riscosse:
 
-Beh, penso che sia meglio che vada dietro a quei tre. Sai, non mi fido di lasciarli soli.
 
Kim sorrise. –Ti capisco. Nemmeno io mi fiderei.
 
Si fissarono ancora.
 
-Beh, ciao- fece infine il ragazzo al capo americano.
 
-Mi manchi- concluse la ragazza al capo tedesco.
 
Chiusero la chiamata.
 
 
 
 
AW! Si, oggi vi lascio con l’amaro in bocca. Non sapete cosa ho in serbo per voi, AHAHAHHAHAA!! NO, scherzo, non ho in serbo niente, devo ancora pensarci. Beh, se avete notato però è un po’ prima del solito!! :DDD No, forse è solo un’impressione mia.
Se vi state chiedendo quando finirà questa polenta infinita (a proposito: NON HO IDEA se in Germania esista o meno la polenta, licenza d’autore), vi dico che abbiamo superato la metà. EVVIVAAAAAAA :D
Adesso vi lascio, babes!! Un bacione a tutti quelli che leggeranno e recensiranno. Ciao belliiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!! xD                       Happy_Moon

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Capitolo 17
*** Guai ***


Sabato. Già sabato!
 
-Oh porca. E non ho neanche qualcosa da mettermi questa sera. Che palle- pensava tra sé Kim, che stava seriamente valutando l’idea di non presentarsi nemmeno.
Ma ovviamente sapeva che non le sarebbe convenuto, visto che Joey aveva detto che ‘sarebbero venuti a prenderla’. ‘Sarebbero’ significava che un grumo di gente di sarebbe ammassato sul povero cancelletto dell’appartamento, e avrebbe torturato il campanello fino a che lei non sarebbe venuta fuori. Lo sapeva bene, aveva già avuto modo di assistere a quella scena.
 
-Quindi hai intenzione di uscire, stasera?- domandò il padre, che leggeva il giornale seduto a tavola.
 
-In teoria … sì- rispose lei piuttosto di fretta, cercando il libro che le mancava nel meandri del salottino, in parte alla cucina.
 
-Ah … bene. E con chi vai?
 
-Papà, l’interrogatorio puoi farmelo dopo? Adesso sono di fretta.
 
-Uh?- Michael la guardò di sottecchi, alzando lo sguardo dal giornale. –Certo, scusa. Hai ragione. Buona giornata- le augurò, tornando a dedicarsi al suo giornale.
 
-Sì, ciao- Kim salutò di fretta i genitori, e infilò velocemente la porta, giusto in tempo per scampare alla scenata di sua madre che ordinava al padre di tirare giù i piedi dal tavolo.
Era un’occasione avere papà a casa, per Kim; il lavoro gli fregava la maggior parte del tempo, e tornava la sera tardi, giusto in tempo per darle la buonanotte. Solo le domeniche e qualche sabato, gli era concesso di stare a casa, se qualche collega magnanimo si offriva di fare quelle due ricevute al posto suo.
 
Prese l’autobus per un pelo, e dovette pure farsi il viaggio in piedi, visto che era strapieno, schiacciata in mezzo a due ragazzotti che non conoscevano l’uso del sapone.
 
Una volta arrivata in classe, buttò stancamente lo zaino in parte alla sedia, per poi abbandonarsi sulla sedia: la giornata non si prospettava delle migliori.
 
-Tutto ok?- le chiese squillante la voce di Joey, che si era appena seduta al posto vicino al suo.
 
-Insomma. Domanda di riserva?
 
La rossa rise, allegramente. –Ho capito. Lasciamo perdere.
 
Nel frattempo, un ragazzo dal banco davanti si girò verso di loro, e richiamò la loro attenzione:
 
-Oh, avete sentito, la Schmitt oggi manca- sussurrò il ragazzo, abbastanza forte perché lo sentissero.
 
Sul volto delle due ragazze si dipinse un’espressione che avrebbe potuto illuminare una stanza buia.
Si guardarono, e si batterono il cinque per poi saltarsi al collo.
 
-Vai!!! Niente matematica!- Kim sciolse l’abbraccio. –Bene, dai, almeno senza quella sanguisuga la giornata si prospetta migliore …
 
Qualcuno si schiarì la voce, per attirare l’attenzione degli studenti. Un uomo sulla quarantina, vestito elegantemente con giacca e cravatta, fece il suo ingresso poggiando la borsa di cuoio costosa sulla cattedra. Quello che si levò dagli alunni della classe era un lamento degno delle anime dell’Inferno dantesco.
 
-No, ti prego, tutti tranne lui …- mormorò Kim sbattendo la testa sul banco.
 
-Buongiorno ragazzi. Sono qui per sostituire la professoressa Schmill … - il professore continuò a parlare, gesticolando, ma l’unica voce in testa di Kim era la propria, che continuava a mugugnare sull’ingiustizia della vita.
 
#
 
Erano già le tre del pomeriggio, e la nostra povera martire era ancora china sui libri, a cercare di far fuori rapidamente la montagna di compiti che il supplente aveva assegnato per il lunedì: sapeva che non ce l’avrebbe fatta a farli tutti la domenica, anche perché aveva in programma un uscita con qualche amica, quindi aveva cercato di dividere equamente.
 
All’ennesimo problema impossibile, Kim decise che per quel giorno bastava.
-Okay, io ci rinuncio- si disse, scoraggiata. –Meglio iniziare a vedere che cosa abbiamo qua dentro…
 
Aprì cautamente l’armadio, per evitare che la pila di abiti le crollasse addosso: montagne di pantaloni, felpe e t-shirt riempivano quello spazio angusto infestato dalla polvere, dando tanto l’effetto dei monti dell’Himalaya con la bufera di neve.
 
-Bene bene … dunque- iniziò a spostare qualche cosa, per vedere che cosa c’era di interessante.
-Mi ci vorrebbe Bill. Lui sa come ci si veste, altro che io- sospirò, afferrando una maglia …
-Aspetta … uh, idea.
 
#
 
Perfetto. Erano le sei e mezza spaccate, e Kim era pronta fuori di casa sua: alla meglio, aveva indossato gli skinny strappati, e una maglia bucata e deforme dalla stampa indecifrabile, con le immancabili scarpe alte cinque centimetri, che ormai erano il suo marchio di fabbrica. Il tutto completato da un giubbotto jeans preso a caso, perché comunque non era che ci fosse poi tanto caldo, in quel periodo dell’anno.
Puntuale, il grumo di rockettari che avrebbe dovuto sequestrarla quella sera, fece la sua comparsa trionfale davanti al cancelletto, con … uno stereo acceso al massimo, ma erano dettagli.
 
-Dai, sbrigati che siamo a piedi!- la chiamò una voce, probabilmente Joey, da sotto il fracasso della radio.
 
Kim sorrise, scuotendo la testa, e si avviò di corsa verso il gruppo.
 
#
 
Mezz’ora dopo, erano arrivati alla scuola, precisamente all’ampia palestra dove si sarebbe svolta la serata.
Gruppi di studenti si stavano già ammassando nel cortile, altri all’entrata, altri correvano di qua e di là, manco fossero stati in mezzo a una partita di calcio. Anzi, a dire il vero stavano proprio giocando a calcio. In mezzo alla gente, perché ovvio si fa così.
La musica spacca timpani dei ragazzi con cui Kim era arrivata era un sussurro in confronto al volume pazzesco a cui era sparata la musica da dentro la palestra. A naso, avrebbero dovuto usare il microfono per parlarsi a due metri di distanza.
Kim decise di entrare, a vedere che cosa stavano facendo i ragazzi dentro. Oltre a ballare, ovvio.
Beh, non che ci fosse altro da fare ai balli scolastici oltre che agitarsi a ritmo di musica e sbaciucchiarsi quando arrivavano le canzoni lente.
 
Un ragazzo piuttosto grosso e alto le venne addosso.
-Ehi … scusa, sai, potevi chiedere permesso!- si lamentò lei, mentre il ragazzo si limitò a girarsi e guardarla con indifferenza.
 
-Eh, sai com’è … capita, alle serate come questa- fece una voce alle sue spalle.
 
Kim si voltò di colpo. Vide che la voce apparteneva ad un altro ragazzo, anche lui piuttosto grosso e alto, in jeans e camicia, che la guardava da dietro il bicchierino di … roba, che aveva in mano. Probabilmente qualche miscuglio strano.
 
-Uhm, può darsi- mugugnò lei, facendo per andarsene.
 
-Ehi- la fermò il tizio, prendendola per un braccio. –Non mi sono nemmeno presentato.
 
-Ah. Non sapevo avessi intenzione di presentarti.
 
-Certo. Sono un ragazzo educato, io.
 
-Sì … certo. Vedremo.
 
-Che significa ‘vedremo’? Non mi credi?- fece  lui, con lo sguardo da furbetto.
 
-NO- rispose lei, senza badare troppo a non offenderlo. –Penso solo che tu sia uno che non aveva nessuna da portare a ballare, quindi va a importunare la prima che passa. Sbaglio?
 
-Non mi sembra di essere un caso molto diverso da te, comunque.
 
Kim scrutò l’espressione del ragazzo con attenzione. Non sembrava offeso dalle sue parole, che rifiutavano chiaramente l’invito non espresso.
 
-Dimmi un po’, tizio, sei venuto da solo?
 
-Ti sei risposta da sola, poco fa.
 
-Intendo, sei venuto con degli amici?
 
Quello fece una bella risata. –Vedi, già ti fai i fatti miei. Innanzitutto, non mi chiamo tizio, mi spiace.
 
Kim sospirò, roteando gli occhi. –E sentiamo, non-tizio, come ti chiami?
 
-Aron. Puoi chiamarmi Aron, visto che ti interessa.
 
-Non ho mai detto che mi interess…- stava ribattendo Kim, ma chiuse la bocca, perché si era accorta che l’aveva fregata. –Grrr! Non mi piacciono questi giochetti, te lo dico subito- mise in chiaro.
 
-D’accordo, signorina. Niente giochi perfidi.
 
-Kim. Mi chiamo Kim, niente ‘signorina’.
 
Aron sorrise. –E levati quel sorriso deficiente dalla faccia, per piacere.
 
-Dipende cosa intendi per ‘deficiente’. Posso fare un altro sorriso, se vuoi.
 
Stava ufficialmente andando su tutte le furie. –Mi sto stufando di te.
 
-Oh. Mi ferisci- cinguettò lui, con una mano sul petto.
 
-Devo chiamare un’ambulanza? No, perché ti lascerei volentieri qui a morire dissanguato.
 
Aron fece una smorfia. –Davvero divertente.
 
-Il sarcasmo è una difesa corporale contro gli stupidi, dicono alcuni- affermò Kim, sorridendo beatamente.
 
-Interessante- intanto, però, sulla faccia del ragazzo era tornato il sorriso strafottente. –Sono curioso di sentire il tuo sarcasmo, prima o poi.
 
Kim si limitò ad un’occhiata fulminante nei suoi confronti. La quindicesima, probabilmente.
 
-Scusa se mi stacco, ma avrei una vita sociale- lo liquidò, allontanandosi.
 
-Ma come- fece lui, fingendosi un cavaliere oltraggiato. –Proprio adesso che iniziano i lenti?- domandò, con aria innocente, spalle alzate e braccia aperte.
 
Kim rabbrividì. –Mi spiace, odio i lenti- tagliò il discorso, dirigendosi al sicuro in mezzo alla folla.
 
Dopo qualche minuto passato a vagare a caso, trovò finalmente Joey e i metallari, in un angolo della palestra, che facevano battute stupide alle ragazze che passavano. Sembrava divertente, ridevano come i matti a vedere le loro facce.
 
-Ehi, non sai cosa mi è successo- fece a Joey, avvicinandosi.
 
-Cosa? Hai trovato il principe azzurro?
 
-Bah, gli sarebbe piaciuto. C’era un tizio che non mi mollava più- Kim rabbrividiva al solo pensiero.
 
-Carino?
 
-Ma per favore!- le venne spontaneo rispondere. Anche se non poteva dire che fosse proprio inguardabile. Anzi, ripensandoci –Ehm, sì, dai, guardabile. Ma insopportabile- si affrettò ad aggiungere.
 
-E come si chiamava?
 
-Uhm … una cosa tipo Ryan … iniziava per A …
 
-Ryan non inizia per A.
 
-Ah, ecco, Aron. Aron- affermò, sicura.
 
L’espressione di Joey era la stessa di un pesce palla che aveva visto un fantasma.
-C-come?- per poco non si soffocava con quella roba che stava bevendo. –Non starai mica parlando di quello lì?
 
-Grazie. Quanti ‘quello lì’ conosci?
 
Prima di rispondere mandò giù, per evitare di crepare dinuovo.
-Era castano? Occhi chiari e sorriso strafottente?
 
Non aveva fatto caso alle sue caratteristiche fisiche, ma pensandoci, sì. –Bah, penso di sì.
 
-Oddio Kim. Kimmy Kimmy, tu mi combini guai …
 
-Cosa ho fatto?
 
-Beh, quello che ti stava appiccicato era tipo … il ragazzo più popolare della scuola? Sì, diciamo che rientra nella categoria. Beh, fatto sta che si è appena mollato con la sua ragazza, che è una cheerleader tutto pepe. Ma che pepe! Peperoncino, molto molto piccante. E prega che non vi abbia visto, perché altrimenti sei sotto la sua mira.
 
-Ah. Wow- furono le uniche due parole che Kim riuscì a spiccicare, prima che una mano la prendesse per un braccio, e prima di trascinarla via, la congedasse gentilmente dai suoi amici con uno ‘scusate, oggi avevamo deciso di ballare insieme’.
 
In breve, Kim si trovò di nuovo in mezzo alla gente, al centro della palestra adibita a pista da ballo, con le mani sulle spalle di Aron.
 
-è vero?
 
-Cosa?- fece lui, con aria innocente.
 
-è vero che ti sei appena mollato da una cheerleader tutto peperoncino?
 
Il ragazzo rise forte. –Vedi? Te l’ho detto. Ti fai già i fatti miei. Comunque mi aveva stufato. Troppo … gallina.
 
No. Kim non ci trovava da ridere. E a quanto pare, nemmeno la bionda che la stava praticamente arrostendo con lo sguardo a qualche metro di distanza.
 
-Dio, ti prego. Se esisti, fa che non mi punti.
 
-Chi, scusa?- la voce di Aron le giunse lontana.
 
-Nessuno dei due- rispose Kim, a sé stessa.
 
 
Aw, gente! Arrivo con due giorni di ritardo. Pardon, mi avevano fregato il pc D: giuro, se no il capitolo era pronto per ieri.
Anyway, abbiamo visto che la nostra Kimmy si è già cacciata nei guai. Argh. Non so voi, ma io non vorrei mai trovarmi in una situazione simile … ok, sarebbe divertente all’inizio sfottere la ex, ma poi la situazione diventa pesante.
Ne vedremo delle belle!! Nel frattempo, un bacione enorme a tutti quelli che leggeranno e recensiranno!!!           Lisa^^

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Capitolo 18
*** Angeli degli autobus ***


 
Era riuscita a scollarsi da Aron per miracolo, e altrettanto per miracolo era riuscita a uscire da quella palestra, diventata improvvisamente opprimente come una prigione.
Stava camminando velocemente, si sarebbe volentieri messa a correre, ma non voleva dare nell’occhio … d’altronde, non che ci fosse così tanta gente fuori dell’edificio, escludendo le coppiette che amoreggiavano, che non avrebbero decisamente badato a lei. Rallentò nell’osservare due ragazzi seminascosti dietro un albero, che si sbaciucchiavano. Senza pensieri, loro due, tranquilli, c’erano solo loro e la notte. E lei lo sapeva bene come ci si sentiva in quei momenti.
 
No, aspetta un attimo … lo sapeva?!
 
Scosse la testa. La sua memoria danneggiata le faceva brutti scherzi. Ogni tanto le capitava, che le venissero in mente immagini, voci, pensieri, così di punto in bianco; memorie appartenenti ad un’altra che prendevano prepotentemente possesso della sua mente, lasciandola stordita, a chiedersi perché, non appena svanivano.
E questo era un momento di quelli.
Scosse la testa di nuovo, e riprese a camminare, sempre velocemente, verso un qualsiasi posto fosse abbastanza lontano dalla musica assordante, dai ragazzi popolari e single, e dalle biondine rognose. Non voleva nemmeno sapere il suo nome. Non voleva saperne proprio niente, lei non c’entrava niente con quello che era stato il suo ragazzo, e non ci avrebbe mai avuto a che fare. Era meglio iniziare a convincersi per bene, se voleva inculcarlo anche alla bionda.
Camminava senza meta da qualche minuto, o anche di più, forse anche qualche ora. Non lo sapeva. Sapeva solo che voleva solo allontanarsi.
Si rese conto che in effetti era abbastanza lontana, anzi, non aveva più idea di dove fosse andata a finire.
 
‘Bella idea, Kimmy’ sussurrò una voce nella sua testa.
 
‘Sì, proprio bella idea’ si auto rispose, girando nervosamente la testa da una parte all’altra, cercando di riconoscere qualche punto di riferimento.
 
Iniziava a preoccuparsi seriamente. Era in un quartiere messo non troppo bene, con pochi lampioni … funzionanti. La strada polverosa era deserta, ci mancavano solo i cespugli rotolanti del far west.
 
‘Ok, piccola, mantieni la calma’ cercò di rassicurarla un’altra voce nella sua testa.
 
‘Magari. Mi piacerebbe’ si auto rispose di nuovo.
 
‘Bene, facciamo il punto della situazione’ prese il sopravvento una terza voce, dal tono pragmatico. ‘Ti sei persa in un vicolo che non conosci, dall’aspetto poco rassicurante, di notte, può darsi che esca un qualche malvivente da un momento all’altro, ma può anche darsi di no, in fondo … in teoria sei arrivata qui procedendo sempre dritta dall’uscita del cortile del liceo; quindi potresti ritrovare la strada se ritornassi in quella direzione …’ aveva ragione. La voce aveva dato un ottimo suggerimento, bastava … rigirarsi dalla parte giusta.
 
‘Bene, se non sbaglio sono arrivata da questa parte’ pensò Kim, girandosi verso la strada alle sue spalle. ‘Dunque, stando a ciò che dici tu … sì, potremmo farcela’  concluse, iniziando a camminare, sicura,  seguendo la strada.
 
‘Come vivresti senza di me? …’
 
‘Non vivrei. Uno a zero per te’
 
#
Un po’ di tempo dopo (minuti, ore, non aveva grossa importanza), era finalmente riuscita a rinfilarsi in una strada conosciuta. Adesso camminava più tranquilla, anche considerando che si era resa conto di essere veramente stanca.
 
‘Bene, adesso cerco la strada di casa e mi infilo diretta sotto le coperte … e ai balli scolastici non ci vengo più nemmeno se mi pagano tutto l’oro del mondo’
 
In effetti, poco dopo riuscì a trovare la strada di casa sua, e procedeva diritta e sicura verso la porta d’ingresso. Si fermò un attimo, giunta davanti alla porta, con la mano a pochi centimetri dalla maniglia. Aveva un dubbio, come se le servisse qualcosa …
 
‘Maledizione! Le chiavi!’
 
Si maledisse in tutti i modi e in tutte le lingue. Solo in quel momento si era accorta di non avere indosso il giubbino jeans con la quale era andata via quella sera … maledetto quel momento in cui l’aveva tolta.
 
‘Quindi … adesso dovrai tornare a scuola, prendere la giacca, e tornare qui?’ domandò la Voce numero 1.
 
‘Col cavolo che mi faccio tutta quella strada. Col cavolo proprio’
 
‘Guarda che non hai alternative, a meno che tu non voglia svegliare i tuoi, farti sgridare per averli svegliati e per aver dimenticato giubbotto e chiavi in un posto dove probabilmente te le avranno già rubate’ aggiunse Voce 1, con la malizia di chi sa di avere tremendamente ragione.
 
‘Bene, quindi secondo te io dovrei rifarmi tutta la strada?! Ci vorrà mezz’ora, e direi che ho già superato il coprifuoco da un pezzo’
 
‘Beh, quelli sono problemi tuoi’ intervenne Voce 2.
 
‘In teoria sono anche tuoi, visto che sei nella mia mente!’ lo rimbeccò Kim.
 
‘Guarda che se vuoi posso anche sparire adesso, eh!’
 
‘E magari andare ad infestare qualcun altro con la tua ottusa intelligenza da primato? No grazie, sono altruista’
 
‘EEHH! PROPRIO!’ la presero in giro tutte le Voci, in un connubio di schiamazzi mischiati assieme.
 
‘Sì, dai, ok, smettetela. Riflettiamo sul da farsi … che si fa? Si va o si resta?
 
‘Io suggerirei di rimanere qui fino a domattina, ti fingi una barbona e non ti noterà nessuno’ fece di nuovo Voce 2.
 
‘TACI!! Ti ho già chiarito che NON VOGLIO sentirti parlare’ lo zittì Kim.
 
‘Che palle’ mormorò la Voce, mentre Kim iniziava a correre furiosamente verso la fermata dell’autobus.
 
‘No, aspetta … che fai adesso?!’ intervenne un’altra voce, Voce 4.
 
‘Oddio, questa è pazza …’ commentò Voce 3 …
 
‘Ma no, stupidi! Guardate, c’è un autobus! Ma certo! …’ venne fuori Voce 1. ‘Gli autobus del turno di notte, cavolo! Come abbiamo fatto a non pensarci! …’
 
Il mezzo si era accostato alla fermata, si era fermato giusto qualche istante per far scendere due passeggeri che si avviarono mogiamente verso strade differenti. Stava ripartendo, ma forse poteva farcela …
 
‘Eddai!! Muovi quel culo poco sodo!’ urlò Voce 2, ma Kim non badava più a loro ormai. Doveva solo raggiungere quel benedetto autobus, farsi notare dall’autista prima che ripartisse …
 
‘Cacchio cacchio cacchio!! Muoviti dannazione! Quello si sta muovendo!! …’ la stressava Voce 3 … non aveva tutti i torti, il bus si stava muovendo, lentamente ma inesorabilmente …
 
Fece le ultime tre falcate quasi cadendo sui propri piedi. Non aveva più speranza. Si sarebbe dovuta fare mezza Magdenburgo a piedi, in piena notte, per recuperare un’insulsa giacchetta, che probabilmente già era stata portata via da qualcun altro. Avrebbe sicuramente passato la notte per le strade, in una camminata inutile
Sicuramente … se non fosse stato per quella mano potente che afferrò la sua, tirandola su e spingendola proprio sul tetto dell’autobus, dove venne presa al volo da un altro paio di braccia muscolose.
 
#
 
-Bello da quassù, vero?
 
Kim stava seduta sul tetto dell’autobus, a gambe incrociate, e fissava la città scorrere velocemente sotto i propri occhi.
 
-Sì. Pittoresco- era l’unico aggettivo che le era venuto in mente. Dopo tutta l’agitazione della corsa, e la certezza di non farcela, e la sorpresa di vedersi tirare su, ora si sentiva come una bambola senza imbottitura, mollemente ripiegata su sé stessa.
 
-Miles dice che si incollerebbe al tetto di un autobus solo per poter avere sempre l’aria gelida che gli sbatte addosso- commentò un altro ragazzo, avvicinandosi a lei e al tizio che le si era seduto accanto. Kim continuava a chiedersi come facessero, quei ragazzi, a passeggiare così tranquillamente sul tetto di un mezzo in corsa.
Il ragazzo si lasciò cadere vicino a lei, scrutando la città che passava loro davanti.
 
-Miles è pazzo. È un pazzo furioso. Tipico inglese- alle parole ‘tipico inglese’ Kim si riscosse dal suo torpore.
 
-Chi è inglese?!- esclamò, voltandosi finalmente a guardarli in faccia.
 
Il ragazzo che aveva appena parlato rimase un attimo perplesso dalla sua espressione. –Miles è inglese. Miles è quello lì- ripeté, indicando un altro ragazzo, che stava beatamente disteso poco lontano da loro, occhi chiusi, mani dietro la testa e torso nudo.
 
-Anche io sono … inglese- sillabò Kim, fissando quel pazzo furioso che stava mezzo nudo in una notte di ottobre in Germania.
 
-Ah! Figo! Miles, hai una compaesana- gridò il ragazzo a Miles. Ce ne voleva di voce, per comunicare con il vento contro. Ma quei ragazzi sembravano esserci abituati.
 
Miles aprì gli occhi, e alzò la testa, voltandosi verso Kim. –Sul serio?- chiese, in inglese, con un tipico accento londinese.
 
-Sì, sul serio. Liverpool- rispose Kim, sorridendo.
 
-Bello. Bellissima città. Patria dei Beatles- commentò Miles, riappoggiando la testa a terra. All’autobus, pardon.
 
-Ma … voi sostate abitualmente sui tetti degli autobus?- chiese poi, rivolta al ragazzo vicino a lei.
 
-No, solo di notte. Di giorno ti vedrebbero subito. Di notte, invece … la città ha tutto un altro sapore. È come … è come se tutto prendesse vita, di notte. La gente dorme, i pensieri di tutto un giorno si depositano sul fondo della mente, tutto cade nell’oblio e nel silenzio. E quando il gatto dorme, i topi ballano: questo per dire che, quando la gente dorme, quando non c’è nessuno per le strade, se non qualche auto e questi sfigatissimi autobus deserti, a quel punto la città prende vita, è come se ogni palazzo, ogni casa, ogni strada, ogni singolo lampione si sciogliesse dalla sua posizione statica, e lasciasse andare … una magia. È magico.
 
Kim ascoltava rapita le sue parole.
 
-E beh … quando cala la notte entriamo in gioco noi. Ovvio che non ci limitiamo a fare pazzie solo di notte, ci muoviamo anche di giorno. Ma come ti ho detto … di notte ha tutto un altro sapore. È come se fosse fatta per noi. Siamo gli unici pazzi che si aggirano per Magdenburgo di notte, se escludiamo gli ubriachi drogati dei pub e le signore … troppo disponibili. Quando cala il buio è come un richiamo. Ci è inevitabile uscire e fonderci con la notte, essere sua parte … è come la droga. Siamo dei drogati, in fondo, drogati della magia della notte … non so se mi spiego- farfugliò le ultime parole sorridendo, come chi sa di aver parlato troppo con qualcuno che non glielo aveva chiesto, e che probabilmente sarebbe passato per un idiota.
 
-è bellissimo. Hai fatto un discorso bellissimo- rispose invece, ammirata, Kim.
 
-Wow, davvero? Strano, di solito mi dicono che parlo a sproposito- commentò ridendo nervosamente il ragazzo.
 
A quel punto Kim si sentiva davvero una stolta. Lui le aveva raccontato tutti i suoi principi di vita, lei non sapeva nemmeno il suo nome.
 
-Come ti chiami?- gli chiese, alla fine.
 
Lui tolse lo sguardo dalla città, e si girò verso di lei sorridendo stupito. –Sul serio? Che figo, qualcuno che mi chiede il mio nome senza esserne obbligato! Sai, di solito la gente non si interessa di me. Loro sono gli unici amici che ho.
 
Tacque per qualche minuto. Poi fu Miles a rompere il silenzio:
 
-Ed, ti ha chiesto come ti chiami, ti ha solo chiesto come ti chiami, non la storia della tua vita.
 
‘Ed’ divenne tutto rosso. Poi aggiunse, imbarazzato:
 
-Mi chiamo Friedrich, comunque. Friedrich Adalwin Maier.
 
-Ah. Bel nome.
 
-Col cavolo. Ho un cognome da vecchia signora fa-centrini.
 
-Beh, in effetti Wanda Meyer è stata un’eroina italiana nella seconda guerra mondiale- commentò Kim, ridacchiando.
 
-Sul serio?! Woh, questa notizia è sconvolgente. Comunque puoi chiamarmi Ed.
 
-Ah. Ok, Ed.
 
-Dove andavi, a proposito?
 
Quella domanda la colse di sorpresa. Si era completamente dimenticata che doveva andare a scuola.
 
-Ehm … io … credo di avere già perso la fermata- farfugliò sconsolata Kim.
 
-Beh, giusto per informarvi siamo alla fermata vicino al liceo- li informò un altro ragazzo, appostato a qualche metro da loro.
 
-Davvero?! Allora io scendo, raga … ho lasciato lì giacca e chiavi.
 
Friedrich la guardò stranito. –A scuola? E le vai a prendere adesso?
 
-Ehm .. diciamo che è una storia lunga. Tornavo da un ballo …
 
-Ah, certo! Oggi i liceali facevano baldoria … beh, posso assicurarti che non troverai proprio un bel niente. Te le hanno già fregate- aggiunse Friedrich risoluto. Probabilmente stava pensando a qualche suo episodio personale.
 
-Oh, merda … lo sapevo. E adesso come ci entro, in casa?
 
I ragazzi si voltarono tutti verso di lei. Uno in particolare, sorrise in un sorriso pieno di sottintesi, fissando Ed, che divenne di un colorito-lenzuolo.
 
-Oh, no, non starai pensando … - mormorò, rivolto al ragazzo che sorrideva.
 
-Beh, a cosa ci servono se no?- fece quello.
 
Friedrich trasse un lungo sospiro, per poi voltarsi verso Kim.
 
-Allora … ascoltami bene: quello che ti sto per dire non ti farà piacere. Sappi in primis che io non approvo …
 
-Ma?- Kim lo esortò a continuare.
 
-Ma, in pratica, nella nostra banda di pazzi scatenati, ci sono anche dei criminali nati. Diciamo che … non le abbiamo mai utilizzate a fini illegali, te lo giuro sui miei capelli, ma … insomma …
 
Indugiò ancora qualche istante, poi buttò fuori tutto d’un colpo:
 
-ABBIAMO UNA COPIA PER OGNI CHIAVE DI MAGDENBURGO- ammise.
 
La faccia di Kim era statica. Inespressiva. Assorbì la notizia. I suoi occhi si illuminarono di sorpresa … e poi un enorme sorriso si aprì sulla sua faccia.
 
-MA E’ FANTASTICO!!- quasi urlò, rischiando di farli scoprire.
 
-SSSSHHHHHHH!!!!!!!!- tutti i ‘passeggeri’ del tetto si buttarono su di lei, tappandole la bocca, mentre quello che aveva sorriso poco prima rimase al suo posto.
 
-Allora … è fatta- disse, in fine, fissando complice Kim.
 
 
 
Wooooooooo, ragga! Sì, lo so, ‘ma in che razza di buco si criminali l’hai mandata?!’ vi starete chiedendo … beh, vi dico solo che non sapevo cosa scrivere, e il mio spirito vandalico-writer-streetdancer da fan di Step Up è emerso al momento giusto.
E poi dai, diciamocelo, a chi è che non piacerebbe fare parte dei The Mob?!! xD
Comunque, tornando a EFP, state tranquille, sono bravi ragazzi. Kimmy non finirà in galera.
Dunque!  Ringrazio in anticipo tutti quelli che leggeranno, recensendo o meno, anche questo capitolo!! Mi scuso per il leggero ritardo. Spero sia compensato dalla lunghezza … xD (solo a me sembra così lungo questo capitolo, vero?)
 ps. un biscotto a chi mi riconosce tutte le voci (che si rifaranno sentire spesso)! :D

Baci ragggga!!!!! :DDDDDDDDD               Lisa, che forse ha trovato la soluzione ai suoi eterni dilemmi da nickname, e forse non romperà più lamentandosi di questo ^^
Ciaooooooo :DDDDDDDDDD
 

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Capitolo 19
*** Brutte situazioni ***


 
Premessa: questo capitolo è infinito. A mio parere. °-°

Il pullman stava passando vicino alla fermata da dove Kim aveva cercato di salire poco prima, anzi, da dove era effettivamente salita; cioè quella vicino a casa sua.
Miles, il pazzoide, le aveva spiegato come fare a scendere senza farsi notare e arrivare tutta intera nello stesso tempo. In pratica dovevano saltare giù, a chiodo, e cercare di ammortizzare con le ginocchia. Molto semplice. Impossibile.
L’altra opzione era quella di buttarsi di fianco e rotolare giù, ma non era praticabile.
 
-Non possiamo semplicemente aspettare che si fermi e saltare giù con molta calma?- chiese, preoccupata.
 
Miles, appostato sul brodo del tettuccio, la fissò stranito.
-Ovvio. Scusa, credevi di saltare giù dall’autobus in corsa?
 
-Ah- fece Kim in terribile imbarazzo. –Hai ragione. Sì. Sì, ovvio. Razionale.
 
-Pronti!- la voce di un altro ragazzo, un biondino, vestito con l’eccezionale combinazione di bermuda da spiaggia e felpone da polo nord, richiamò l’attenzione del gruppo. Un secondo dopo, erano tutti sani e salvi sul marciapiede, che camminavano tranquillamente. Loro non erano assolutamente appena saltati giù da un mezzo pubblico.
 
-Ecco a lei- fece il ragazzo con l’espressione da criminale, porgendo una chiave argentata a Kim. Era identica alla sua.
-Te la regalo. Ti serve più che a noi.
 
-Molto gentile a concedermi uno dei tuoi cimeli- lo ringraziò lei prendendo la chiave. E non scherzava, anzi: in quel breve tratto di strada, era riuscita a conoscere quei quattro gatti pazzi un po’ meglio.
C’era Friedrich, detto Ed, detto Ad, detto Wanda, detto da lei Fried; il buonista del gruppo. Se c’era una cosa che non gli veniva, era di essere cattivo con la gente; e questo spesso lo faceva finire male. Cercava sempre di far stare tutti buoni, e spesso e volentieri si prendeva la colpa del quale era accusato … non perché non volesse controbattere, o accusare gli altri, ma perché non ne aveva proprio la forza psicologica. Non a caso era un bel bersaglio, a scuola. Ragazzino magro, debole, agnellino innocente e allettante. E così era stato, finché un tizio strano, dal sorriso ottimista e ricco di sottintesi come solo quello di un matto può essere, lo aveva trascinato su e giù per i palazzi di Magdenburgo al calare della sera, per poi finire davanti a un muro completamente dipinto, sulla facciata est di un edificio abbandonato. Poi gli aveva dato un grosso pennarello nero. La parete era ancora liscia, quindi si poteva scrivere. Gli aveva detto di scribacchiare qualcosa, o di disegnare la prima cosa che gli fosse venuta in mente.
Inizialmente Fried non sapeva cosa scrivere, anche perché non aveva ancora capito cosa ci faceva lì con quel tizio inquietante. Poi, il suddetto tizio si era stufato di aspettare, gli aveva preso la mano e aveva scritto bello in grande ‘VAFFANCULO’, sulla punta di un polipo verde con la cresta punk.
E allora Fried si era fermato, impalato per qualche istante davanti alla scritta, e poi era uscito con un ‘ma hai rovinato il polipo!’, che aveva definitivamente convinto il pazzoide che quel ragazzino era irrecuperabile.
Ma d’altronde non poteva mollarlo ai bulli, era comunque un pazzoide giusto e non poteva permettere che la situazione continuasse; così l’aveva preso lo stesso sotto la propria ala protettiva, fatta di saltare giù dai tetti, dipingere i muri esterni delle sale insegnanti, e scorrazzare sui tetti dei pullman in servizio notturno.
Codesto pazzoide era appunto Miles: essere non-umano, dotato di uno strano senso della vita e apparentemente adrenalinomane: apparentemente, perché a differenza di tutti gli altri drogati di adrenalina lui non aveva nessun bisogno di buttarsi in un burrone con l’elastico per soddisfarsi dell’adrenalina che avrebbe prodotto il suo corpo, perché per lui saltare giù da un burrone con l’elastico era normale come bere un bicchiere d’aranciata. E non farlo, per lui, equivaleva non bere aranciata. Della serie: no grazie, magari più tardi.
Ma non era solo: con lui c’erano già altri tre ragazzi: Christoph il graffitaro (vi basti sapere che, se una cosa non è scarabocchiata, non è sua. Mutande comprese), Albert il criminaloide, cresciuto con un padre oggi carcerato e domani no, dal quale per fortuna non aveva preso esempio che non fossero i soliti trucchetti che potrebbero rivelarsi utili, tipo la cosa delle chiavi; qualsiasi cosa possedessero quei ragazzi di utilizzo non totalmente legale (ma niente droghe: erano tutti rigorosamente contro fumo, tossici e iperalcolici … “ci teniamo alla pelle”, aveva detto Miles. Il che forse avrebbe potuto far venire qualche dubbio, se non fosse stato per l’approvazione assolutamente seria degli altri) era di sua proprietà; ed era etichettato con una scusa per giustificarne l’utilizzo nel caso qualcuno avesse chiesto qualcosa (“perché avete tutte quelle chiavi?” “eh, sapesse, ho tredici zie gemelle tutte mezze cieche, che vivono in tredici case diverse, perdono spesso la chiave di casa …”), e infine Rupert, Quello Intelligente, il semi-nerd del gruppo.
Con il tempo si erano aggiunti altri ragazzi alla banda, tutti cugini degli amici dello zio del portinaio della parrucchiera eccetera eccetera che un giorno erano capitati lì per caso, oppure ragazzi salvati da una situazione simile a quella di Fried; questi ultimi però se ne erano andati tutti dopo poco, giusto il tempo di rafforzarsi un po’ nel fisico e nell’animo, con l’aiuto degli angeli degli autobus. Perché era così che Kim li aveva soprannominati, gli angeli degli autobus, i suoi angeli degli autobus che l’avevano salvata da una morte lenta e dolorosa sotto le urla isteriche di sua madre e l’ordine esplicito di non uscire dalla propria stanza se non per mangiare, andare in bagno e a scuola, e l’obbligo di non prendere voti inferiori al nove e mezzo pena una padella sulla capoccia.
Comunque, erano abbastanza conosciuti a livello cittadino: erano un po’ come le crew dei film di danza, tutti sanno che ci sono, tutti sanno cosa fanno, e alcuni sanno anche chi di preciso sono; ma ufficialmente non esistono, nel senso che non sta scritto da nessuna parte che loro ci sono e che loro fanno questo e questo. Per farla breve, quando arriva la polizia tutti santerellini, anche se era raro che ci avessero a che fare.
Quei quattro gatti matti, che in realtà erano molti, molti di più (ve l’ho detto, non esiste nulla di ufficiale: potevano essere due e potevano essere duecento), erano la ‘crew’ di Magdenburgo. Non ce l’avevano un nome; erano semplicemente ‘loro’. Quando a Mag si parlava di ‘loro’, tutti sapevano a chi ci riferiva.
Era abbastanza facile riconoscerli: se incontravi un ragazzo/ragazza con ciuffo, Converse e skinny jeans, che cammina spedito, sorride e ti guarda come se sapesse esattamente tutta la storia della tua vita incontravi; in nove casi su dieci, uno di Loro.
 
-Ok, spero di non svegliare i miei …
 
-Ricordati: sei tornata a l’una, e loro si erano appisolati. Per quello non ti hanno sentita- le sussurrò il biondo di prima, detto Schweit, in pratica l’unico biondo di tutti. E tinto, a detta sua.
 
-Ovviamente, mamma, te l’ho detto che non dovevi aspettarmi- recitò lei fingendo risentimento.
 
Schweit  sorrise. Aveva un sorriso accecante.
Kim ricambiò, salutando e ringraziando di cuore i due che l’avevano seguita. Poi entrò, e salì con passo felpato fino al suo appartamento e si infilò nella propria camera senza fare rumore.
 
#
 
-Ma che vuole ancora?!
 
Imprecò un paio di volte, ricambiando lo sguardo d’odio che le era stato lanciato dalla cheerleader biondina, distante una decina di metri da lei e circondata dal suo bel gruppetto di galline ammaestrate.
 
-Stai buona e non guardarla- la ammonì Christina. –Non è bene farsi nemici del genere.
 
Alla fine, sarà incredibile da dire, ma sembrava che la goth avesse deciso che Kim era degna della sua compagnia. Non era proprio la ragazza più simpatica del mondo; ma era intelligente e sapeva come muoversi nel caso ti trovassi ad essere il bersaglio di mezza popolazione femminile della scuola. E quello era il caso.
 
-Lo so, maledizione- borbottò Kim in risposta. –Ma quella mi dà sui nervi. E io non ho i nervi molto saldi.
 
-Alla fine sei riuscita a tornare a casa ieri sera, spero- chiese la goth, per cambiare discorso.
 
-Beh … diciamo di sì. È una storia lunga … - si perse a guardare un punto della muratura alla quale erano appoggiate particolarmente interessante. –Ma tu come fai a sapere che ho avuto difficoltà a rientrare?- esclamò, dopo averci pensato.
 
Christina sorrise con aria di sufficienza. –Ti ho vista a correre come una pazza fuori dalla scuola. Non avevi la giacca, e nemmeno l’aspetto di una persona abbastanza lucida da essersi presa le chiavi di casa … sono rimasta fuori dal cancello per un po’, e non ti ho vista rientrare a prenderla. Quindi l’interrogativo mi è venuto spontaneo.
 
Kim la fissò stranita. –Fammi indovinare, tu sei il tipo che resta sveglia la notte per leggere Sherlock Holmes e non ha una vita sociale perché passa i pomeriggi a guardarsi tutti i polizieschi esistenti su questa terra stagione dopo stagione?
 
-Buon intuito. Sì, sono una Holmes-dipendente. E tu?- le chiese ironica.
 
-Sto leggendo Harry Potter, modestamente.
 
-Avada Kedavra*!- esclamò Christina, spostando lo sguardo per tenere d’occhio le cheerleader.
 
-Sì, volentieri, su di loro- disse mesta Kim, guardando anche lei il gruppetto.
 
-Occhio. Tizio castano con occhi chiari e sorriso strafottente in arrivo a ore sei- la avvertì Joey, che era rimasta in silenzio fino a quel punto.
 
-Omm…- Kim tirò un’imprecazione colorita, per poi posare lo sguardo su Aron, che avanzava inesorabilmente verso di loro.
 
-Non possiamo spostarci o far finta di non averlo visto. Possiamo solo far buon viso a cattivo gioco- constatò miss Holmes.
 
-Il che significa … - ormai era praticamente arrivato. - … sorridi e annuisci. Ciao .. – terminò Kim, salutando il ragazzo, alto ma non troppo robusto. Non aveva la corporatura di un atleta, ma sembrava molto agile.
 
-Buongiorno, signorine- ricambiò lui, teatralmente.
 
-Cosa vuoi di preciso?- lo pugnalò diretta Christina, con il suo sguardo duro spaccapietre.
 
-Oh-oh. Qui qualcuno non gradisce la mia presenza. Qual è il tuo problema? Possiamo parlarne.
 
-No, non mi va di ‘parlarne’- gli fece il verso lei. –Mi va che ti levi di torno. Tu porti guai, e i guai sono l’ultima cosa che ci servono.
 
-Oh, certo. Mi dispiace, in questo caso, credo di non poter farci niente.
 
La goth non gli levava gli occhi glaciali di dosso.
 
-Non ti ho più visto, ieri sera- esclamò lui, rivolgendosi a Kim. –Hai dovuto scappare, immagino. Avevi il coprifuoco troppo presto?
 
-Ehm … sì, certo, hai ragione- cercò una scusa Kim. Christina lo stava provocando. E lei voleva solo che si levasse il più presto possibile di torno. –Troppo … troppo presto. Beh, ora penso che dovremmo … - stava per filare via, ma Aron la interruppe.
 
-Questa penso che ti appartenga- venne fuori serio, afferrandola per un braccio. Teneva in mano la giacca jeans. –Il che mi fa sospettare del fatto che tu sia riuscita a tornare a casa… -aggiunse poi, tirando fuori le chiavi dalla tasca anteriore, e  un sorriso bastardo.
 
Kim rimase bloccata, a fissare il piccolo pendaglio a forma di orsacchiotto sorridente che pendeva dalla chiave di casa. Un attimo dopo però squillò la campanella, e fuggì rapidamente approfittando della marea di studenti che si era riversata su di loro.

*avada kedavra: incantesimo della morte, per uccidere le persone :D .. nota: non venite a fangirlarmi harry potter perché non l'ho letto nè visto. Ma è nella mia lista delle cose da fare :P

#
 
Stava torturando nervosamente una povera matita innocente da più di mezz’ora.
-Ti vuoi dare una calmata?!- le sussurrò Joey per l’ennesima volta dall’inizio dell’ora.
 
-Ma che diamine gli racconto adesso?!- ribatté Kim agitata.
 
-Ma che te ne frega! Dì che avevi un’altra chiave, o che tua mamma ti ha aperto lo stesso … tanto mica vive sopra la tua testa, quello, che ne sa!
 
-Eh, magari fossi capace di inventare una megabugia del genere …
 
-Ehm, signorine! Di cosa stavamo discutendo?- intervenne la professoressa.
 
Kim e Joey fissarono la faccia truccata dell’anziana prof come due pesci lessi fissano il coperchio della pentola.
 
-Ricopierete l’intero capitolo per casa. Due volte- sentenziò la signora, dopo qualche istante sotto lo sguardo dei due pesci lessi.
 
La lezione riprese normalmente. La testa di Kim, invece, stava esplodendo per la seconda volta nel giro di due mesi.
 
#
 
-Allora?- le chiese Aron, dopo tre minuti che stavano appoggiati uno di fianco all’altra al muretto fuori dalla scuola.
 
-ALLORA COSA?! Fatti i cavoli tuoi! Mica sei mio padre, o … mio fratello o …
 
-O il tuo fidanzato?
La molesta vocetta nasale che aveva interrotto i farfugliamenti di Kim apparteneva ad una ragazza piuttosto alta e prosperosa, labbroni sporgenti e abbronzatura naturale quanto i boccoli platino che le ricadevano sulla giacca da cheerleader.
 
-E tu che cavolo vuoi?! Aaargh … mi farete impazzire in questa benedetta scuola- buttò fuori Kim senza pensarci tanto.
 
La biondina non si era mossa. –E allora vattene.
 
Rimasero a fissarsi per qualche minuto. La bionda immobile, occhi semichiusi, bocca a pesce e mano appoggiata sul fianco; Kim che fissava lei con un espressione poco lucida, posizionata sul muretto con la grazia di un cadavere; Aron che andava con lo sguardo da una all’altra divertendosi come un matto.
 
-Ti presento Gertrud. Gertrud, ti presento …
 
-Seh, seh. La ragazza del rasta sfigato- fece con sufficienza rivolta a lei. –E non chiamarmi Gertrud, stupido idiota!- strillò  poi rivolta al ragazzo, mollandogli un ceffone.
 
-AHI! Ma che cavolo hai in quella testa tinta!- urlò lui, continuando a imprecare.
 
Kim cercò di approfittare della situazione di litigio dei due per sgattaiolare via, ma una altro davanzale abbronzato artificialmente le si piazzò davanti alla faccia.
-Scusa, Ger, ma che dobbiamo fare con lei?- fece svogliatamente la proprietaria del davanzale, masticando una gomma rosa.
 
-Ah, sì! Oggi non sono qui per te stronzo, quindi levati di torno. Tu, piuttosto …
 
Kim osservò inquietata il numero rosso arrotondato che le si avvicinava piano. Poi uno scintillio di gel rosa shocking le volò davanti alla faccia, e dopo di quello la sua guancia si infiammò come se mille aghi l’avessero punta.
Si ricordava di quella sensazione. La ricollegava alla cucina, nella sua vecchia casa a Liverpool; lei con una manina sporca di panna, e sua madre rossa come un pomodoro che le gridava contro, perché aveva rovinato la torta per i suoi cinque anni.
Un altro brusco ceffone la fece tornare alla realtà.
 
-Ma che diamine?!- ebbe il tempo di dire, prima che l’ennesima mano perfettamente curata le volasse pochi millimetri sopra la testa. Da quel momento fu un tripudio di pugni, calci, ceffoni … altre persone accorsero; e al miscuglio si aggiunsero scintillii di borchie e cerniere argentate … poi alcune persone gridarono qualcosa; voci non del tutto nuove, e ci fu silenzio.
Kim si ritrovò seduta sul marciapiede ai piedi del muretto di poco prima. Le cheerleader di poco prima, accompagnate da alcuni ragazzi delle varie squadre di sport della scuola rigorosamente fidanzati e accaniti sostenitori delle ragazze pon-pon, erano tutti spariti. Erano rimasti solo lei, Aron, alcuni ragazzi accorsi lì a caso, Joey con la sua squadra di amici punk, chi con un occhio nero, chi si lamentava della cresta rovinata. Kim li ringraziò con lo sguardo, uno dopo l’altro: quelli ricambiarono sorridendo, per loro intervenire in una rissa era una cosa normale.
E poi, in piedi tutto intorno a loro, c’erano alcuni ragazzi col volto parzialmente coperto; che si scambiavano occhiate l’un l’altro.
Kim li osservò attentamente. Aveva una strana sensazione … in poco tempo, quando si furono assicurati che la situazione si fosse calmata, i ‘loschi figuri’ decisero di levare le ancore, e in men che non si dica, chi correndo, chi infilandosi in vicoli nascosti e chi arrampicandosi in fenditure nascoste degli edifici; sparirono.
 
-Maledizione a voi … - questo era Aron. Maledizione a lui, invece. Non se n’era ancora andato?
-Ecco, stavo per dirlo. Ti hanno aiutato loro a tornare a casa, l’altra sera. Lo so, inutile che neghi.
 
Kim rivolse uno sguardo interrogativo a Joey, seduta di fianco a lei. –I “Loro” di Magdenburgo. Sono più rispettati loro dell’esercito americano, qua, in pratica valgono più della polizia. Se c’è una cosa impossibile, per Loro è possibile. Non so se mi spiego.
 
-Li conoscevo, una volta. Dannazione a loro- aggiunse Aron, continuando a lanciare ingiurie contro i ragazzi che si erano defilati poco prima.
 
Kim, invece, fece un respiro di sollievo. Per nessuna ragione precisa, si sentiva semplicemente … meglio.
 
-Kim, scusa … - intervenne Christina, spuntata da chissà dove. –Credo che quello ti stia salutando.
 
Kim si voltò nella direzione indicata dall’albina. Un giovane, appeso fra un lampione vecchio e il muro di fianco ad esso, nella penombra di un vicolo, si abbassò per un secondo la bandana che gli copriva la bocca, rivelando un sorriso.
 
‘Fried?’
 
Gli fece ciao con la mano, ricambiando il sorriso. Un attimo dopo, Fried detto Ed detto Wanda detto Ad era scomparso.
 
#
 
 
-E così … fate i poliziotti a Mag?- chiese Kim, fissando una stella particolarmente interessante, dall’alto di un muro scrostato in un vicolo imbucato nella Culonia di Magdenburgo.
 
-Diciamo che quando gli sbirri mancano li sostituiamo noi. È più comodo, no? Niente denunce, niente manette … tutti tornano a casa, e non è successo niente- rispose, molto esaurientemente, Albert, dondolandosi da un asta che una volta era servita a qualcosa.
 
-Vieni giù da lì … che ti ammazzi, e io non ho voglia di portare la tua bara sulle spalle- lo ammonì Schweit, aggiustandosi il cappellino sui capelli biondi, assolutamente inutile visto che era sera.
 
-Ah! Ma davvero? Pensavo mi avresti fatto questo piacere- commentò Albert, saltando giù dall’asta.
 
-Se quando morirai avrai perso almeno venti chili potrei pensarci.
 
-Non possiamo fare discorsi meno macabri?- intervenne Kim, che non aveva mai apprezzato troppo parlare di morti, ossa rotte, sangue che cola e cose simili.
 
-A proposito!- venne fuori Miles, girandosi di colpo verso di loro.
-Volevamo chiederti se ti andava di unirti a noi.
 
Kim lo fissò per qualche istante. –Ma … cosa devo fare?
 
-Assolutamente niente! Perché? – chiese Fried, con una ruga in mezzo alla fronte.
 
-Non so … di solito per entrare in gruppi come questi bisogna fare qualche strana iniziazione …
 
I ragazzi scoppiarono a ridere. –Hey, non siamo mica in una commedia americana! Rilassati, da qui si entra e si esce in ogni momento- spiegò Albert, rilassatissimo nell’osservare un manifesto teatrale vecchio di anni appeso al muro sul quale erano seduti.
 
-Sul serio?
 
-No, scherzavamo, per entrare nel nostro gruppo devi trovare dieci artigli di drago e tre capelli di sirena e farne una minestra da versare nel Sacro Graal.
 
-Ah. Ok. Dove trovo i draghi?
 
-Ma in Scozia! Sìììì, tutti in Scozia.
 
-E va bene. Chi vado a comprare i biglietti.
 
#
 
Stava tornando a casa, camminando sicura per le strade di Magdenburgo. Era profondamente diverso dal terrore che provava solo un paio di sere prima, percorrendo quelle stesse strade.
 
-Allora, ci hai pensato?- le chiese Fried, al suo fianco. Sì, ok che era più sicura, ma col cavolo che se andava in giro da sola.
 
-In effetti … non lo so. Insomma, saltare dai tetti, dipingere i muri, girare di notte … non so se fa per me.
 
-Sei sicura? Non sei obbligata a saltare dai tetti. Ci sono anche alcune ragazze con noi …
 
-Lo so, lo so … devo pensarci.
 
-Allora facciamo così … tu ci pensi, e quando decidi mi fai un colpo di telefono- le allungò un angolo di foglio a quadretti con un numero scribacchiato sopra.
 
-Mmmmh … ok. Andata!- si diedero il cinque, e si misero a ridere. Ridevano spesso, fra di loro.
Bene, dunque. Ora, oltre a conoscere la band più famosa del momento, ad aver perso la memoria per colpa di un incidente, e ad essere finita su un giornale insieme ai gemelli più conosciuti del mondo, poteva anche dire di avere la possibilità di entrare in una crew di parkouristi graffitari e chissà cos’altro. E aveva solo sedici anni. Wow.
 
 
Wooooo!!! Scusate l’immenso ritardo. Sono stata super impegnata ultimamente (vero niente, vero niente!! Ha dormito tutto il giorno!).
Spero che mi perdonerete D:
 
bene bene, ora che conosciamo un po’ meglio questi loschi figuri la faccenda si fa interessante (dopo 20 capitoli si fa interessante??). lo so che è un secolo che non si vedono i Tokio … tranquille, nel prossimo capitolo li ribecchiamo, e ce li portiamo dietro fino alla fine … perché sì, per la felicità del popolo di efp si può dire che questa ff sia verso la fine!! Yeee … no,scherzo, in realtà sto piangendo come una fontana. No, vero neanche quello.
 
Anyway!!! Lasciatemi qualche commentino carino … e ci sentiamo al prossimo capitolo, spero che questo vi sia piaciuto(nota: il titolo è dato di fretta, non ha molto senso lo so)!!! Ora scappo °-°
Bacioski :***************                     Lisa^^
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 20
*** E rieccoli in arrivo ***


Ricordate quando ho detto che la storia volgeva al termine?
Beh, non è vero. MENTIVOOOOOO AHAHAHAHAHHHH >:D
Mi avrete fra le scatole ancora per un bel po' :) ma non perdiamo altro tempo u.u passiamo alla storia!! ;)
 
Erano passati due mesetti.
Ormai, dopo la semi-rissa all’uscita da scuola, Kim non aveva più avuto problemi con la ‘zona popolare’ della scuola … anche se Aaron continuava a starle appiccicato come una benedetta sardina in una lattina piena d’olio.
 
-Buongiorno, signore!
Ebbenesì, anche quel giorno era venuto a portare la sua presenza rompimaroni dinanzi al terzetto, composto da Kim, Joey e Christina, che come tutti i giorni stava tranquillamente appoggiato al muro, guardando l’allegro vociare degli altri studenti. Ora Chris era parte integrante del terzetto (in pochi avrebbero mai creduto che la goth deficiente di melanina riuscisse a costruirsi un minimo di vita sociale), e la sua presenza, seppur non la più simpatica che si potrebbe avere, aveva i suoi lati positivi.
 
-Levati o ti pianto uno stivale borchiato nel muso da cavallo che ti ritrovi.
Ecco, per esempio era molto abile nel togliere di mezzo i pretendenti molesti.
 
-Non credo di assomigliare ad un cavallo.
Ma non sempre funzionava. Aaron sembrava avere un potere speciale contro la velenosa cattiveria di Chris.
 
-Ho preso i biglietti per il concerto di questo weekend- meno male che al momento giusto interveniva Joey.
 
-…che concerto c’è questo weekend?...- domandò spaesata Kim. Come al solito, Kimmy cara, non avevamo dubbi che tu fossi tra le nuvole.
 
-Il tuo ragazzo e la sua band di nippomani suonano a Berlino- grazie dell’informazione, faccia da cavallo. 
 
-…davvero?
 
-Bentornata sul pianeta Terra- aggiunse sarcastica Chris. –Dovresti saperle tu queste cose.
 
-Ma io non so niente sui concerti …
 
-Vero- si intromise Joey.
 
-…è Joey che se ne intende.
 
-Vero anche quello- continuò. –Ma come vivresti senza di me, Wendell?
 
-Vivrei senza sapere tutte le date dei concerti rock in Germania.
 
-…molto male, dunque- completò soddisfatta la rossa. –Meno male che ci sono io.
 
-Ne hai presi tre, vero?
 
-Credo di sì. In caso Kim sta a casa.
 
-NO!- protestò la diretta interessata.
 
-Stavamo scherzando. Sappiamo che non riusciresti a vivere con la consapevolezza di … - iniziò a blaterare Joey, mentre, molto lentamente, con tutta la calma necessaria, il cervello mezzo andato di Kim macinava …
 
‘Ma se questo weekend suonano a Berlino …’ dai, dai che ci arrivi.
‘Significa che sono tornati a casa!’ Kim si illuminò tutto d’un tratto, come un criceto che vede la ruota per correre.
 
-Che hai adesso? …
 
-Niente, niente … - smentì, senza smettere di sorridere.
 
#
 
-Buon… hei! Dove vai così di fretta?- Karen stava comodamente appollaiata in cucina ad affettare zucchine, quando entra Kim con la grazia di un ciclone estivo volando in camera sua, dalla quale arrivò un flebile ‘dopo ti spiego’ con il tipico tono di chi, ovviamente, dopo non spiegherà niente perché se ne saranno tutti dimenticati.
 
-Tipregotipregotipregotipregotiprego- implorò Kim aprendo lo scassato portatile. –Accenditiaccenditiaccenditiaccenditi … oh, grazie al Cielo!
 
Cliccò furiosamente sull’icona di Skype. Ovviamente ci volle un mezzo minuto buono prima che quest’ultimo si aprisse.
 
-MIODDIO, tre chiamate- si lagnò, una volta che il programma si fu attivato. –Da Tomilpiùfigodelmondo89.
 
Senza perdere un attimo, inviò subito una richiesta di chat all’indirizzo … che a dire il vero non ci mise troppo tempo a rispondere.
La webcam si accese mostrando il meraviglioso schienale di una sedia da studio, dietro al quale si ergeva in tutta la sua imponenza un armadio di legno scuro con le ante aperte e il finimondo dentro. Beh, anche fuori. Jeans larghi, cinture borchiate, calzini di tutti i generi e svariate bottigliette di lacca erano sparsi per tutto il campo visivo. Tipico dei Kaulitz, dovevano aver appena smontato le valigie.
 
-E-hem …- Kim provò a farsi notare, e finalmente qualcuno si degnò di farsi vedere: peccato che quel ‘qualcuno’ avesse due orecchie pelose e due occhi a fanale.
 
-Kasmir? … - sì, in effetti a rispondere alla chiamata era stato proprio il gatto di casa Kaulitz. Kasmir.
 
-Maledetto gatto- imprecò qualcuno, fuori dal campo visivo. –Lascia stare il mio benedetto comp…- Tom si avvicinò e prese in braccio il gatto, probabilmente con l’intento di lanciarlo fuori dalla finestra. Poi, evidentemente accortosi che era partito il collegamento Skype, si era seduto sulla sedia fissando il monitor con gli occhi a pesce.
 
-Ciao.
 
-Ciao.
 
Kim e Tom si scambiarono sguardi molto espressivi e molto svegli per qualche istante; prima di decidere che era ora di dare un senso compiuto alla conversazione.
-Interessante.
 
-Già.
 
-E quello chi è, il tuo segretario? … - chiese Kim, rivolta al gatto che nel frattempo continuava a muovere le zampe verso la webcam.
 
-No, è il mio rompipalle. Vero, rompipalle?- Tom iniziò a fare i versi a Kasmir, che non lo badava di striscio.
 
-TOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOMM- giunse uno strillo svogliato da fuori la camera, riconducibile solo ad una persona. –Te l’ho detto che non voglio più trovare la biancheria delle ragazze che ti scopi nelle mie valigie! La prossima volta te la faccio man…
 
-Taci Dio mio, emerito deficiente che non sei altro …- la Regina Bill era entrata nella stanza, espandendo il suo alone di aria isterica post-tour anche ai poveri mortali; con in mano un paio di reggiseni di dubbia provenienza.
 
-BIIIIIIIIIIILLLL- Kim strillò entusiasta dall’altra parte della webcam, e fu debitamente ricambiata.
 
-KIIIIIIIIIIIIIIIIIMMMMMMMMMMYYYYYCCCCIAOOOOOOO!
 
I due continuarono la loro conversazione da fan girl aizzate per qualche minuto, mentre Tom imprecava ancora sottovoce per le sparlate del fratello su argomenti che preferiva rimanessero all’interno del gruppo.
Nel frattempo, il gatto si era arrampicato sul collo di Bill, che aveva iniziato a coccolarlo senza smettere di strillare con Kim.
 
-Ok, penso che sia sufficiente; le mie orecchie stanno morendo, la potete smettere? … - tentò di tranquillizzarli Tom, ma senza riuscirci.
 
-Bill, questo weekend devi cantare, non vorrai consumarti l’ugola strillando spero?- ritentò una seconda volta; e si vede che centrò il punto debole del discorso, perché entrambi la smisero immediatamente.
Dopo qualche istante per riassestarsi, i tre ragazzi ricominciarono a fissarsi.
 
-Sei a casa?- esordì poi Bill.
 
-Sono praticamente sempre a casa, quando non sono sopra i palazzi di notte- ammise Kim sorridendo.
 
-Cosa vuol dire? … - chiese Tom sghignazzando.
 
-Ve lo spiego un giorno con calma, magari … in quanto a voi, signorini?
 
-Noi stiamo arrivando, quindi hai tre minuti esatti per farti trovare pronta sotto casa tua- affermò entusiasta Bill, lasciando spiazzati sia Kim che suo fratello. L’unico che sembrava d’accordo era Kasmir, che continuava a strusciarsi sulla sua mano soddisfatto.
 
-Ah … ehm … giusto … ok.
 
-Bene, Tom, muoviti! Sei pronto? Io sono pronto!- fece Bill allontanandosi con il gatto in braccio.
 
-Non finisce mai di stupirmi. E io che credevo di conoscerlo così bene … - rifletté il chitarrista, fissando il vuoto con l’espressione da grande pensatore.
 
-Per il fatto che organizza appuntamenti di sana pianta? ..
 
-No, per il fatto che, incredibilmente, sia già pronto per uscire.
 
#
 
Le foglie proiettavano un’ombra di un bel verde caldo sulla terra nuda e polverosa ai piedi dell’albero sotto al quale i tre si erano appostati, col sedere per terra visto che una coppia di mamme con un vasto repertorio di chiacchiere a disposizione avevano fregato loro l’unica panchina ancora disponibile nel parco.
 
-Dunque? Che notizie portate dal mondo?- chiese Kim, dando una bella leccata al cono alla menta che aveva in mano.
 
-Beh … è tondo- rispose Tom, ficcandosi in bocca una bella palettata di panna.
 
-Davvero? Allora non è piatto come dicevano i medievali.
 
-No. E non ci sono nemmeno i draghi dopo le Colonne d’Ercole.
 
-Ah no? … cosa c’è dopo?
 
-Mah … per un po’ mare, poi si incontra un sacco di gente che mangia frittelle e bacon alla mattina per colazione.
 
-Wow … altro che noi europei arretrati.
 
-Già.
 
Bill non aveva ancora proferito parola, troppo concentrato sul suo cono con tre palline mischiate in modi improbabili.
 
-Beh, a dire il vero i ragazzi in America strillano parecchio.
 
-Vorrei dire, se il bacon alla mattina non dà abbastanza energia.
 
-Eh già.
 
-Sapete che quando noi scambiamo conversazioni di questo genere, secondo gli scienziati, in pratica non parliamo di nulla?- venne fuori dopo un po’ Bill, scambiando sguardi in cagnesco con una bambina con le treccine in cima ad uno scivolo.
 
-E da quando ti intendi così tanto di relazioni sociali? …
 
-Cose che si sentono alla radio dei tourbus quando le frequenze tedesche non prendono- smentì svogliato Tom, distogliendo lo sguardo dalla panna per rivolgerlo agli occhi verdi e interrogativi di Kim.
 
-Almeno avete imparato qualcosa.
 
-Con questo volevo dire che non stiamo parlando praticamente di nulla- tornò fuori il cantante, smettendo finalmente di fissare la bambina trecciuta.
 
-Hai ragione.
 
-Cosa intendevi dire prima, quando hai detto che di notte sei sopra i palazzi?- chiese invece.
 
-Beh … - Kim si sistemò per bene sulla panchina, per iniziare a raccontare.
-…spero che vi piacciano le storie lunghe, perché questa lo è abbastanza.
 
-Mai cosa ci fu più gradita delle storie lunghe- si inserì Tom, anche se non gli prestò attenzione nessuno.
 
-Ero alla festa della scuola, una di quelle classiche feste piene di gente che balla, fuma e beve in barba ai prof. Quelle dove si rimorchia, Tom- spiegò bene, per farsi capire dal gentleman di turno. –Fatto sta che un tizio si avvicina e decide che deve darmi fastidio; destino vuole che il tizio in questione si fosse appena mollato con la tipica boss della scuola … che a sua volta decide che deve odiarmi fino alla fine dei suoi giorni, ma a questo ci arriviamo dopo.
Bene, il suddetto tipo mi aveva abbastanza stancato, quindi decido di prendere e uscire, a caso. A caso, perché la mia giacca in jeans con le chiavi di casa è rimasta dentro alla palestra della scuola, chissà dove.
Bene, arrivo a casa. Mi accorgo che non ho le chiavi per entrare e non posso svegliare i miei perché vengano ad aprirmi. Decido che è meglio tornare a scuola e cercare le mie chiavi, anche se è un’impresa pressoché impossibile.
Rincorro un autobus, e stavo puntualmente per perderlo;quando una mano mi prende e mi tira sul tetto dell’autobus.
 
-Seh, raccontane un’altra.
 
-Non crederci se non vuoi, ma ti dico che sopra a quel benedetto autobus c’erano delle persone. Insomma, attacchiamo una conversazione, e si viene a scoprire che questi individui sono i classici vandali graffitari-parkouristi conosciuti da tutti e da nessuno; e che possiedono una copia per ogni chiave esterna di Magdeburgo.
 
-Ma sei seria?
 
-No Tom, mi sto inventando tutto di sana pianta! Secondo te?
 
-Tom, essere poco utile alla società, falla andare avanti.
 
-Grazie. Bene, con l’aiuto dei suddetti tizi riesco ad infilarmi in casa senza far sapere ai miei che sono arrivata ben dopo il coprifuoco previsto. Ma questo è solo l’inizio … perché in effetti, con questi tizi ci stavamo simpatici, e ci siamo rivisti un paio di volte: mi hanno pure dato una mano a sedare la rissa che si era formata intorno a me a causa della tribù di seguaci della boss della scuola drogati di popolarità; e un bel giorno mi dicono … - la ragazza si perse un attimo nel ricordo di quella sera; lei e Fried che camminavano nelle buie strade di Magdeburgo, lui che sorrideva come un bambino con le caramelle quando gli disse che ci avrebbe pensato su. Il sorriso di Fried ce l’aveva ancora impresso nella mente: proprio come quello di un bambino, grande e innocente. Fried aveva tutti i lati positivi che avevano i bambini … ma non quelli negativi. Per il momento non aveva ancora trovato un lato negativo valido per quel ragazzo.
 
-…ti dicono?- ci pensò Bill a riscuoterla dai suoi pensieri, evidentemente ansioso che andasse avanti.
 
-…beh, mi chiedono se voglio unirmi a loro.
 
La frase lasciò spiazzati i gemelli: Tom stravaccato addosso all’albero con il cucchiaino carico di panna a mezz’aria e la faccia da ‘mi prendi per i fondelli?’; Bill con gli occhi carichi di trucco spalancati fino a formare una perfetta circonferenza e il cono gelato che gocciolava sui jeans extra-skinny.
 
-…e tu hai accettato?...-chiese cauto Bill, come uno spettatore che guarda una telenovela giunta al momento clow.
 
-Haì- Kim tirò un’altra bella leccata alla pallina verde pastello che troneggiava sul suo cono.
 
-NONONONONONONONO aspetta. Keep calm. Tu quindi fai parte di una crew di graffitari-parkouristi notturni sparsi per Magdeburgo? …- chiese ancora Tom.
 
-Haì, ho detto. È giapponese, significa sì.
 
I gemelli si scambiarono uno sguardo complice, poi tornarono a poggiare gli sguardi nocciola su Kim.
Lei aveva paura di averli scandalizzati. Magari da quel giorno non le avrebbero più rivolto la parola considerandola una criminale.
 
Poi si decisero a proferire parola:
 
-DEVI PORTARE ANCHE NOI!
 
 
MACCIAOOOOOOOOOBBBELLLAGGENTEEE. Ci credete che mi sono accorta solo di recente che non si dice Magdenburgo ma Magdeburgo? No, sul serio, io l’ho sempre scritto con la N … se qualche tedesco arriverà e mi denuncerà per aver offeso la Germania, sappiamo il perché.
Bene, finalmente i nostri amati gemellini si sono rifatti vedere! E sembrano pronti a tutto … io ho paura. Non so voi, ma io temo per l’incolumità del pianeta Terra ç_ç
Spero di non aver lasciato H in giro. Già, il mio tasto è ancora incruccato. Devo decidermi a toglierlo e rimetterlo. No, meglio di no. Potrei fare casini. °-°
Bene, dunque credo che mi toglierò dalle scatole. Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento :**
ps. Avete fatto gli auguri a Georg? Il nostro bassistone è ventinovenne, people B)
Adesso vado a vedere se la mia tisana alla menta è fredda, che devo fare i ghiaccioli. :P Baci!! :D            Lisa^^

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Capitolo 21
*** Vieni sabato sera? ***


Heyyyy ciaino non ci crederete i’m coming back. Ci ho messo un casino di tempo lo sooo è che avevo un casino di impegni (ultimamente le mie settimane sono un disastro, perdonatemi Dx). Adesso vi lascio al capitolo :*
 
-Continuo a pensare che non sia giusto. Cos’ho che non va?
 
-Guardandoti, Bill, devo dirti la verità, nemmeno un club di biliardino per pensionati ti prenderebbe.
 
-Ma! …
 
-Tom ha ragione, Bill. Non devi agitarti se non ti hanno lasciato entrare.
 
-Però … perché non hanno lasciato entrare me?
 
-Ecco, adesso ti lamenti tu però! Giusto, lui cos’ha che non va?
 
-Ragazzi, mi state facendo venire l’emicrania! Non lo so. Lo chiederò a … - Kim si tappò la bocca. Niente nomi. –Qualcuno mi darà una risposta. Però voi state buoni! Non fatevene un dramma.
 
-Sì invece. Sto ingrassando.
 
-Cosa c’entra? … che poi sei un grissino, figuriamoci se proprio tu ingrassi.
 
-Ma non vedi? I jeans mi stanno stretti, non si chiudono.
 
-Bill, è difficile che possano starti più stretti di così. E ti ricordo che non ti si chiudono perché li hai presi di una taglia in meno per farli stare ancora più stretti.
 
-Non è giusto però. Cos’ho che non va?
 
-Non ricominciare da capo. Dimentichiamo tutta la faccenda.
 
-No.
 
-Non fare il bambino.
 
-A proposito …- una delle poche cose che Tom faceva giuste era intervenire al momento giusto. –Verrai a Berlino questo weekend?
 
-Uh?
 
-Diamo una festa gigante dopo il concerto.
 
-Ah. Non siete stanchi dopo i concerti?
 
I gemelli si scambiarono uno sguardo complice. –HA! Giammai.
 
Kim li guardava scettica.
 
-Ok, lo ammetto, ci facciamo una caraffa di caffè concentrato.
 
-Caffè dello Studente?
 
-Eh?
 
-Il Caffè dello Studente! Si fa il caffè, poi se ne fa un altro mettendo quello appena fatto al posto dell’acqua. Caffè dello Studente.
 
-AH. Capisco. Sai com’è, siamo usciti da quell’ambito da un pezzo.
 
-Che ignorantoni.
 
-Veramente, non lo so io. Dovrebbero mandarci direttamente a scuola.
 
-Bene, allora, domani pomeriggio tutti a casa mia a tradurre tre testi in latino!- gridò battagliera Kim alzando i pugni in alto.
 
-EH?- i gemelli la fissavano con un’espressione a metà tra due vecchiette rugose e due drag queen scadute. Un paio di mamme allontanarono preoccupate i loro bambini, non si sa mai. –Scusa, non ho inteso. COME? LATINO? Cos’è il “latino”, un nuovo modo di scrivere le poesie? …
 
-Con voi ci sarà molto da lavorare, presumo. Comunque … cosa diceva Tom a proposito della festa?
 
Il criceto all’interno della testa di Tom iniziò a correre all’indietro. Si sentiva chiaramente la rotellina girare nel senso contrario.
-Dunque … latino, scuola, caffè … festa! Giusto, festa. Dopo il concerto a Berlino faremo una serata fra pochi eletti per festeggiare la fine del tour. Vieni?- l’espressione finale di Tom era l’esatta personificazione della smile con due punti e una D.
 
-Beh … non lo so … non so se sarò ancora in grado di reggermi in piedi.
 
-Non ti preoccupare, ti faremo avere i biglietti per il backstage.
 
-E questo cosa c’entra? …
 
 Tom e Bill si esibirono in un perfetto ‘ghigno malefico alla Kaulitz’.
 
Sul viso di Kim si dipinse un’espressione di puro terrore.
 
#
 
-Wendell! In ritardo, come sempre!
 
‘No prof, io non arrivo in ritardo. Solo alle sue lezioni. È colpa sua’ –Scusi prof, ho portato la giustifica.
 
-Vorrei ben dire! Voli al suo posto.
 
‘Ma voli lei in Cina con un biglietto di sola andata’ –Certo prof. Scusi ancora.
 
Appoggiò con forza il libretto sulla cattedra e scivolò verso il posto libero in seconda fila in parte a Joey.
Il prolisso professore di latino iniziò a scribacchiare alla lavagna, mentre il trio dell’Ave Maria partì a bisbigliare. Per Kim, Joey e Christina seguire la lezione non rientrava nel programma; i bei voti erano merito di Santo Stuart in Prima Fila che ne sapeva una più del diavolo su Bigliettini&Affini.
 
-Allora? Notizie del giorno?- chiese Chris sporgendosi dal banco dietro.
 
-Sabato sera, dopo il concerto i Kaulitz danno una festa. Ho inviti liberi per tutta la gente che voglio portare- annunciò Kim, ripensando a Tom che diceva ‘solo per pochi eletti’. Erano i loro standard. –Voi due ci siete, giusto?
 
-Sì- affermò la rossa, sorridendo.
 
-No!- si lamentò la  … bianca? –Non ho voglia né di assistere al concerto di quei cosi urlanti né di averceli a meno di tre chilometri di distanza.
 
-Chris, non sono tanto più urlanti dei metallari assatanati che ascolti tu.
 
-Sì, ma almeno loro urlano con criterio. I cosi giappocrucchi no.
 
-Ovvio, perché gli Slipknot hanno molto criterio.
 
-Vuoi mettere in discussione il criterio di Corey Taylor?!
 
-Taci che quel sacco in testa la dice già lunga. Possiamo tornare a noi?
 
-No. Non voglio venire.
 
-MADDAI! Tanto saranno tutti ubriachi. Nessuno si accorgerà di chi sei e magari riesci anche a farti qualcun…ouff- il colpo di stivali a para alta che Joey ricevette sugli stinchi riecheggiò in tutta l’aula.
 
-E allora? Joey, ripeta tutto quello che ho appena detto!
 
-Io … faccio testamento- mugugnò la rossa da sotto il banco, dove era scivolata nel frattempo gemendo.
 
-FUORI!
 
#
 
-Al prossimo calcio che mi tiri ti faccio nera anche la faccia.
 
-Al prossimo accenno che fai sul mio perenne stato di single ti tiro ben peggio di un calcio.
 
-Allora quando passo a prendervi?
 
-Ma io non ci voglio venire!
 
-Ma tu ci vieni! Non puoi rimanere chiusa in casa tutto il tempo.
 
-Sì che posso!
 
-No che non puoi. Inizia a scegliere qualcosa di decente che sabato alle sette sono sotto casa tua.
 
-Ma …
 
-Niente ma. Adesso meglio che BUONGIORNO HERR HAUFMANN- le tre ragazze scattarono sull’attenti come soldatini addossati al muro bianco e scrostato del corridoio, alla vista del preside che arrivava da dietro l’angolo.
 
-Buongiorno ragazze. Come mai qua fuori?
 
-Ehm … noi andavamo a prendere … del ghiaccio. Sa, per la mia amica- si giustificò Kim ammiccando a Joey. –Che è inciampata e si è fatta male. Ha difficoltà a camminare, perciò la scortiamo in due- terminò, con un sorriso che andava da un orecchio all’ altro; e mettendo un braccio intorno all’amica moribonda e invitando Christina a fare lo stesso. Il sorrisino tirato di Joey che faceva compassione terminava perfettamente il quadro.
 
-Uhm. Capisco. Beh, buona giornata- augurò loro il signore, allontanandosi fischiettando con le mani in tasca.
 
Le tre ragazze crollarono in un sospiro si sollievo. Letteralmente, si accasciarono accanto al muro.
 
-Allora, posso contare su di voi?- chiese Kim alle amiche, fissando un punto indefinito degli armadietti di fronte a loro.  
 
-Sì- confermò Joey decisa.
 
-…no…- sussurrò Chris sconfitta.
 
-Bene.
 
-Cosa ci fate voi qui?- tuonò la voce del professore di latino, arrivato giusto in tempo per interrompere il momento. –Alzatevi subito e volate in classe! Per punizione, all’intervallo copierete sedici testi dal libro! Verrò a controllarvi, potete starne certe! Siamo in una scuola, non sotto un ponte!
 
I tre soldatini sconfitti facevano la loro marcia estenuante dentro l’aula, mentre il professore gridava loro dietro peggio di Hitler nei film anni novanta.
Il primo, in fondo, esplodeva d’entusiasmo.
Il secondo, si struggeva.
Il terzo, aveva un bruttissimo-issimo-issimo presentimento riguardo ai backstage.
 
Ciao a tutti renne lapponi! Rieccomi. Intanto, ripeto, perdonate il ritardo incredibile che ho fatto nel postare questa cosa chiamata capitolo, in cui abbiamo visto esibire tutta l’immensa stupidità dei nostri amati personaggi. Ve lo dico subito, nel prossimo ne vedremo delle belle. (provo ancora pena per i poveri gemelli. Non li hanno presi)
… chi conosceva il Caffè dello Studente? Io ne sono venuta a conoscenza da un’amica che boh. Non ho voglia di provarlo (dicono che se ne bevi più di uno in pochi giorni crepi LOL :D ), fatemi sapere se qualcuna di voi ha esperienze in proposito :P e lasciatemi un bel commentino!! Adesso devo scappare.
Rakastan sinua tutti!!! Ci vendiamo al prossimo capitolo. :**** (un bacino speciale per la Marty che sopporta questo mio sclero infinito da mò. Non ho idea di quando quest’agonia finirà. Ma spero presto. Scherzo dai xD )        Lisa-La-Renna^^
 

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Capitolo 22
*** Provare non fa per noi. ***


-Allora, sei pronta?
 
-Sì, Madonna Cristo. Sto arrivando.
 
-Dai Chris, muoviti. Non ho voglia di stare in fondo alla platea solo perché tu ci hai fatto fare tardi.
 
-Beh, di quello non vi dovete preoccupare, ho tre biglietti per il backstage.
 
-Oh, bene allora! Faccio meglio a nascondermi direttamente dentro l’armadio.
 
-Daiiiiiiiiii Chriiiis, vedrai che sarà una serata fighissima.
 
-Smettila, Jo. Non mi piacciono gli ottimisti esaltati.
 
-A te non piace l’ottimismo in generale, tesoro. Sei pronta o no?!


-SI’ CRISTODDIO. SI’. STO USCENDO.
 
-Eh, speriamo.
 
Finalmente Christina si decisa a uscire dalla sua stanza: ovviamente con skinny strappapelle tagliati e spillati in più punti, cannottiera con i laccetti e t-shirt a rete che cadeva larga sulla sua esile figura: poi una bella riga nera intorno agli occhi grigio-neve* e rossetto. Tutto ovviamente, rigorosamente, meravigliosamente, allegramente, nero.
 
-Beh, non si poteva pretendere di più, immagino.
 
-Mi sembra che subito dopo il concerto dovremo andare ad una festa, giusto?! Ho pensato di vestirmi decentemente.
 
Le altre due continuarono a fissarla dubbiose.
 
-Non vi aspetterete certo che indossi una t-shirt dei Tokio Hotel, spero!
 
-Mah, si va al loro concerto.
 
-Esatto, e io non ci volevo venire.
 
-Beh, è ragionevole!- ammise Kim sorridente. –Ora muoviamoci.
 
Salirono sulla ventenne Audi gentilmente concessa dai genitori di Joey e partirono a tutta birra verso Berlino: non c’era un attimo da perdere.
 
# * gli albini in teoria hanno gli occhi azzurri o rossi, ma la nostra Christie si vede che mette le lenti a contatto. Cioè, voglio dire, che fighi gli occhi grigio neve. :P
 
Parcheggiarono sul retro dello stadio dove si sarebbe tenuto il concerto, e vi trovarono un gruppo di ragazze … o meglio, di esseri posseduti da Satana, che si accalcavano addosso a due poveri bodyguard, che tentavano con tutte le loro forze di tener chiuse le porte d’entrata.
Con tutto lo stile possibile ed immaginabile, il nostro trio delle meraviglie scese lentamente ed epicamente dall’auto, dirigendosi con una camminata degna dei protagonisti di Hazard, verso la calca creatasi attorno alle porte.
Si fecero spazio fra le fan girl, e arrivate abbastanza vicine all’entrata esibirono i biglietti per il backstage alle povere guardie, le quali espressioni si fecero ancora più disperate: ora la missione era far entrare tre ragazze senza provocare un’invasione da parte delle altre cinquanta.
Beh, in qualche modo che ora non staremo a spiegare perché troppo astruso ed arcano, ci riuscirono.
Dopo qualche corridoio e qualche porta qua e là, finalmente trovarono la zona dove i ragazzi stavano provando: provando in teoria, visto che Bill si stava ancora sistemando il trucco seduto allo specchio; Gustav stava mangiando hot dog; Georg stava usando gli stuzzicadenti di Gus come freccette da tirare a Bill; e Tom stava facendo accordi a caso beandosi del gruppetto di ragazze (probabilmente altre fortunate come loro, o semplicemente gente piena di soldi da spendere per andare nel backstage) che lo adulava intorno.
Fatto sta che c’era un microfono collegato ad un paio di casse abbandonato sul pavimento, e Kim non era ancora stata notata.
 
-ALLOOOOORA, BUONGIOOOORNO! VEDO CHE SIETE MOOOLTO IMPEGNAAAATI NELLE PROOOOVE! I VOSTRI FAAAN SOOONO PROOOPRIO CURIOOOSI E PIEEENI DI ASPETTATIIIIVE PER IL CONCEEEERTO DI STASEEERA!- gridò senza pietà nel microfono: con il risultato di far capottare i quattro nullafacenti e correre in giro terrorizzate le ragazze intorno a Tom.
 
-Ma chi diavolo …
 
-Kimmyyyyyyyyyyyyyyyyyy!- strillò il vocalist, l’unico che non era rovinato troppo pesantemente a terra. Corse incontro all’amica e si lanciò in un abbraccio stile koala nostalgico, che per poco non li fece cadere tutti e due, coinvolgendo Joey che era lì vicino.
 
-Bill … meglio se scendi … sai, sei solo venti centimetri più alto di me …
 
E Bill scese. Incredibile! Bill obbedì alla gentile richiesta di qualcuno! Non succedeva mai.
 
-Vedo che hai portato compagnia! Chi c’è?
 
-Ragazzi, vi presento Joey alla mia destra- la diretta interessata salutò con la mano i ragazzi della band e fece mostra di un bel sorriso entusiasta. -…e Christina alla mia sinistra!
 
-Kim, non c’è nessuno alla tua sinistra.
 
-Oh- Kim si diede un’occhiata intorno. No, in effetti non c’era nessuno. Dove diavolo …
 
-Hey Kim! Non ci crederai, ho trovato delle foto degli Iron Maiden autografate in corridoio! Vieni a vedere …
 
Tutti guardarono la direzione da cui era venuta la voce:
 
-Sarebbe la nana laggiù?- sussurrò Tom a Georg, il quale alzò le spalle.
 
-Christina, è lei. Puoi venire un attimo, che ti presento ai ragazzi? …
 
-Oh, che palle. Arrivo.
 
-Loro sono Tom,- il rasta fece un sorriso smagliante assottigliando gli occhi nella sua espressione più pesce lesso-sexy. –Gustav,- il biondo agitò il resto di hot dog che aveva in mano sorridendo. –Georg … - il bassista chinò il capo sorridendo alla buona. -…e Bill- aggiunse Kim con un sospiro sognante. Del resto, nessuno se ne accorse dato che il vocalist era impegnato a tormentare la vita a Chris, guardando i suoi vestiti da ogni angolazione perché ‘Wooooh, sono troppo fighi!’.
 
-Bill …
 
-Uh? Sìììì?
 
-Muoviti. Dobbiamo provare, andiamo in scena tra un paio d’ore.
 
Il moro emise un brutto verso gutturale e si lanciò verso il microfono a terra. Lo afferrò, e con l’agilità degna di una tartaruga ninja volteggiò con una giravolta sopra il piccolo palco a disposizione degli artisti per le prove nel backstage: non appena le suole delle sue All Star toccarono le malandate travi di legno, i tre musicisti erano già appostati con i propri strumenti, con il primo accordo già nelle dita. O il primo battito nelle bacchette.
Dipende dai punti di vista.
 
#
 
-Ragazzi, siete pronti?
 
L’ululato di David interruppe i quattro nel bel mezzo delle prove.
 
-NO!- si lagnò Bill.
 
-Ho perso una bacchetta!


-Come cavolo si fa il la minore?!


-Quanto tempo devo aspettare prima di ripartire in Ready Set Go?
 
-Ok, ok, stiamo calmi. Adesso datevi una sistemata e tranquillizzatevi. Poi vedrete che sul palco farete un figurone come sempre!- intervenne Kim: tutti la guardarono a bocca aperta.
 
-Woh, denti gialli, tu sei meglio di David- borbottò Tom.
 
-EHI! Sono qua sai?
 
-Concordo- fecero gli altri tre in coro, mentre il viso di Kim prendeva quante più possibili sfumature di viola.
-Oook … adesso muovetevi.
 
Detto, fatto: in meno di trenta secondi i Tokio Hotel erano belli che pronti, strumenti alla mano. Kim fece per avviarsi verso l’entrata del palco dietro a David, ma una mano la trattenne.
 
-Cosa? …
 
Era Tom, che la guardava con un ghigno malefico, con gli altri tre che facevano da sfondo come i Minion con Gru in Cattivissimo Me.
 
-Prima un po’ di questo.
 
Il vocalist le porse una tazza da colazione piena di un liquido scurissimo, caldo e profumato.
 
-Caffè? …
 
-Oh, non semplice caffè. Bevi.
 
-Ma non arriveremo in ritar…glbbrghhufffbb- mentre Bill rovesciava praticamente il contenuto della tazza addosso alla povera ed impotente Kim, i musicisti e le altre ragazze trangugiarono i loro mega-caffettoni.
 
-Allora, ci muoviamo?- li esortò Bill una volta finita la pausa-caffettone.
 
La sezione musicale rispose con un urlo di battaglia (con tanto di pugni alzati in aria), e la band fece il suo ingresso trionfale sul palcoscenico, accolta dalle urla sclerotiche dei fan in delirio.
 
-Guten abend, Berlino!- urlò Bill nel microfono, e i fan risposero con un’ovazione degna di una qualche divinità scesa in terra.
 
Le chitarre iniziano ad urlare. Berlino è in delirio.
 
E Kim si chiede ancora perché cazzo le hanno fatto bere mezzo litro di caffè ultraconcentrato.  
 
Heyyyy ggente. capitolo corto (e in ritardo) lo so. In teoria doveva essere un tutt'uno col prossimo, ma capirete che una decina di pagine in un solo capitolo sono un po' tante. così l'ho diviso in due. devo solo finire la seconda, tranquille non ci metterò tanto. Baciiiiii adesso filo a rimettermi al lavoro. :* Lisa^^

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Capitolo 23
*** ... rimanere sobri nemmeno. ***


-Arghhhh!
 
-Ok, io non ci vengo più sul palco. Non mi va di avere addosso gli occhi tutta quella gente, che vorrebbe solo essere al mio posto.
 
-Maddaiiiiiiii … almeno hai visto quanto siamo bravi da vicino!
 
In effetti non era una bugia, erano proprio bravini. Panico iniziale a parte, non avevano sbagliato una nota. Conclusione? Nel caffè c’era qualche doping.
 
-Bene … adesso meglio che ce ne andiamo. Dov’è Chris? …
 
-NONONONONO voi non andate da nessuna parte. Adesso si va tutti a casa Kaulitz, ve ne siete già dimenticate?
 
-Ah. Giusto. Hai ragione.
 
-Coraggio miei prodi! Tutti alla Tokiomobile!- ululò Bill per poi trascinare ragazze e compari fuori dal backstage e direttamente nel camioncino hippie scassato che li attendeva fuori.
 
-Ah … e questa sarebbe la vostra Tokiomobile?
 
-Per il momento quella ufficiale è in riparazione. È colpa di Gustav, parla con lui.
 
-IO?!
 
-Beh, non credo che Bill avrebbe potuto correre come un carro armato buttandosi nei sedili posteriori con quindici pacchi di patatine aperti; con la conseguenza di far esplodere le povere cuciture dei rivestimenti e mandare a puttane gli ammortizzatori.
 
-Perché, la vostra auto aveva gli ammortizzatori?!
 
-Certo. Scherzi? Perché non dovrebbe averceli?
 
-Beh … non dovete andare in un gran canyon …
 
-Ma abbiamo Gustav. Vorrei vedere io un’auto normale in balia di quel coso grosso e saltellante.
 
-BENE, DISCORSO CHIUSO!
 
Ci volle il suo tempo, ma alla fine l’eroico Volkswagen a fiorellini riuscì a portare i suoi passeggeri sani e salvi a destinazione.
C’era già una bella folla ad attenderli in giardino … alla faccia dei pochi eletti.
 
-Signore e signori … scendete e divertitevi!
 
#
 
Erano passate circa due ore da quando erano arrivati a casa: Joey era già brilla, e stava sfidando Tom a chi suonava meglio le canzoni dei Guns ‘N’ Roses; Bill stava dirigendo un coro  sulle note di Bob Marley; Georg ci stava provando con ogni essere femminile presente in quella festa e nel frattempo Kim stava ancora vagando alla ricerca di Christina.
 
-Oh, eccoti qui- la trovò finalmente, impegnata a discutere con altri darkettoni su quanto dovessero essere alte le platform in fondo agli stivali delle ragazze rispetto a quelle dei ragazzi.
 
-Ah, buonasera. Non vai a divertirti?
 
Kim trattenne a stento un sorriso. –Rifarò un giro più tardi.
La gara a chi divorava più velocemente un pacco di bastoncini piccanti con Gustav era finita in modo abbastanza esilarante. Diciamo che da una parte, squadra Bill-tizia x, c’erano stati più lamenti che altro (da parte di Bill. La tizia era messicana, e mangiava tranquillamente un bicchiere di bastoncini alla volta come se fossero marshmallow), mentre dall’altra parte del ring, squadra Gustav-Kim, erano volati bastoncini messicani ovunque, da quanto velocemente quelle due specie di animali li stavano divorando. Alla fine Bill era finito per terra agonizzante, abbracciando spasmodicamente una bottiglia d’acqua minerale; la tizia aveva continuato a mangiare bastoncini ridendo; mentre Kim e Gustav si erano fatti un giro sulla folla da buoni vincitori, interamente coperti di polverina rossa non identificata.
 
-Tu resti qui?
 
Chris ci pensò un attimo prima di rispondere. Nel frattempo i darkettoni avevano iniziato a fumare sigarette di dubbia origine come i turchi.
 
-Vengo con te- disse Chris senza smettere di fissarli.
 
#
 
Passò un’altra ora. La musica assordante pompava a tutta birra, tanto che tremavano i muri: metà dei partecipanti era già fatta completa (ne erano una dimostrazione Joey e Georg, che da buoni amici fattoni stavano vagando per la sala sorreggendosi a vicenda e ridendo come due vecchie comari, lanciando commenti poco educati alternati a perle di saggezza al primo che gli capitava a tiro), l’altra metà o stava pomiciando da qualche parte o stava provvedendo a sbronzarsi.
Kim aveva perso di vista gli altri della band. A naso, Tom stava di sicuro pomiciando; Gustav stava di sicuro mangiando … Bill non si sapeva. Era imprevedibile.
Decise di non pensarci, e di uscire a prendere un po’ di aria fresca.
La porta d’ingresso era aperta, ma la folata d’aria fredda della notte tedesca la investì comunque senza pietà. Strettasi nelle spalle, fece qualche passo verso l’esterno. I cori che dentro casa intonavano le tracce di Scream, senza una guida o un’intonazione precisa si sentivano fin da fuori: non poté fare a meno di sorridere. Se Bill avesse sentito come stavano storpiando le sue canzoni si sarebbe strappato tutti i capelli uno ad uno.
Bill.
Bella idea. Non sapeva che fare. Meglio mettersi a cercarlo
 
Nel frattempo, Kim non era l’unica che aveva deciso di uscire all’aria aperta stufa del bordello che stavano combinando dentro: una certa albina stava in piedi appoggiata al muro della casa, braccia incrociate e schiena gobba, china a fissarsi le cinghie degli stivali imprecando su chi l’aveva trascinata in quella festa per … persone che hanno voglia di far casino e socializzare.
Per giunta ci vedeva doppio se non triplo per tutto quello schifo superalcolico che le avevano fatto bere. Era ubriaca marcia, sarebbe stato meglio tornare a casa …
 
-Ehi, Miss Asocialità.
 
Chi cavolo aveva parlato? Alzò la testa molto lentamente nel tentativo di non cadere per terra in modo umiliante, ma l’unica cosa che riuscì a intravedere attraverso il caleidoscopio che le occupavano la visuale fu una figura abbastanza alta e grossa, probabilmente appoggiata al muro della casa con un gomito. Probabilmente indossava qualche sorta di cappello.
 
-Chi … chi cazzo è?
 
-Wow, sei ubriaca marcia tesoro! Vuoi un passaggio a casa?…-  adesso stava ridendo. Aveva già l’aria del bastardo, non poteva anche ridere di lei.
Si staccò dalla parete con uno slancio e si buttò addosso alla figura con un pugno in carica, sperando di beccare qualche punto sensibile.
 
-AH! Ma che cazzo hai bevuto?! …
 
Ha. Haha. Hahahahahh. L’aveva preso.
Un paio di mani le afferrarono i polsi. Oh no.
Adesso avrebbe iniziato a darle i peggiori epiteti mai inventati dall’uomo, poi probabilmente a menarla.
 
-Cavolo, sei grave. Non ti sbronzi molto spesso, eh?...- no, cosa? Quel coglione stava ancora ridendo. –Vieni dai. Ti porto dentro, che se ti trova qualcuno qua fuori non so che fine fai.
 
Aspetta … si stava comportando da persona gentile? Gentile? Nessuno era gentile. Non con lei.
 
-Met … mettimi giù.
 
-No cara, mi dispiace.
 
-Te … lo dico per … per l’ultima volta.
 
-Tranquilla, ho già avuto a che fare con ragazze ubriache. Non sono un granché a letto.
 
Un altro pugno volò in direzione dell’individuo.
 
-AH! Ma che cazzo hai di male?!- urlò quello, mollandola di colpo. Lei cadde per terra ai suoi piedi, ma almeno adesso erano vicino ad una luce e poteva vederlo –più o meno- in faccia.
Aveva un bel viso. Gli occhi vagamente a mandorla, le labbra grosse e i capelli … lunghi, tipo. Boh. Si mise a ridere.
 
Anche lui iniziò a ridere. Si sedette per terra accanto a lei. Probabilmente era anche lui ubriaco fradicio.  Peccato, era bravo a nasconderlo.
 
-Allora … come ti è sembrato il concerto?- chiese il tipo.
 
-Mah … odio la vostra musica. Mi ci hanno trascinato delle amiche.
 
Quello si mise a ridere come un matto.
 
-Ma non ti offendi?
 
-Ah, cara, sono più ubriaco di una botte millenaria e più fatto di un giamaicano convinto … che me ne frega di quanto ti piace la nostra musica.
 
Strano. Ubriaco ma cosciente.
 
-Molta gente considera la nostra una musica di merda. Ma non ci cambia la vita; anzi, ci rende ancora più motivati ad andare avanti, a rompere sempre di più le palle al mondo- fece una pausa.
-È un po’ il lato oscuro dei Tokio Hotel. Urla perché lo senti. Urla perché lo credi …
 
-…e se inizia a far male, urla più forte- concluse Christina sovrappensiero.
 
-Ecco, vedi che te la ricordi?- constatò il ragazzo ridendo. Non finiva di ridere.
 
-Beh, mi piace come la pensi.
 
-Anche tu. Non credo che quegli idioti del liceo ti sbavino dietro per come ti vesti. Eppure … vuoi mettere la soddisfazione di farti detestare? Di fare casino con il tuo disturbante modo di essere? E più loro ti odiano, più si sforzano tentando di non vederti e non sentirti, più vanno giù, e giù sotto di te, scavandosi la fossa con le proprie mani, inconsapevolmente. È malvagio.
 
-Sì.
 
-Però è figo.
 
-Sì. Ed è divertente.
 
-Farsela a carico degli haters. Per questo conviene molto di più unirsi alla parte urlante.
 
-E chi non ci riesce …
 
-O non vuole. Spesso ci sono gli indifferenti. Sono gli unici che si salvano.
 
-Ma nel frattempo il resto … viene sopraffatto comunque.
 
-Beh, è vero. Noi sui giornali ci siamo comunque. Tu, e quelli come te, nel mondo esistete comunque. L’odio non può fermarvi.
 
-Può renderci solo più forti.
 
-Esatto. Madonna, che bravo predicatore che sono.
 
Restarono distesi sull’erba per un tempo indefinito, uno accanto all’altra a godersi la sbornia.
 
-Sei una che pensa. Posso portarti a letto?
 
-No.
 
-Tanto riesco a portatrici lo stesso.
 
-Mah. Come ti pare. Tanto siamo ubriachi fradici, e tutte le gran cazzate che stiamo dicendo e facendo in questo momento finiranno in qualche remoto buco della nostra fottuta coscienza.
 
-L’ho detto io che sei una che pensa.
 
-A differenza tua.
 
-Eh. Già.
 
#
 
Bill era seduto sul tetto di casa, solo, e osservava il nulla ascoltando le pulsazioni della musica attraverso il tetto. Pareva non accorgersi del trambusto che stava facendo qualcuno arrampicandosi sulla grondaia.
 
-Ah! Ti ho trovato, finalmente.
 
Il moro si voltò di scatto. Una ragazza si stava avvicinando, barcollando in equilibro sulle tegole. Sorrideva.
 
-Allora? Che ci fai quassù tutto solo?
 
Bah. Per il momento si perdeva nelle spirali mentali provocate da quella roba verde che gli avevano fatto bere. Sperava solo non fosse detersivo.
 
-Ubriaco?
 
-Uhm … sì. Tu no?
 
Lei scosse la testa. Sorrideva ancora. Non sembrava per nulla fatta. Chissà che aspetto orribile doveva avere lui in quel momento.
 
-Infatti mi sembravi … un po’ perso. Stanco di stare là sotto?
 
Annuì. –Dopo un po’ le canzoni house a palla stancano. Tu dove sei stata fin’adesso?
 
-Beh, dove vuoi che fossi stata? Ero di sotto. Poi sono venuta a cercarti.
 
-Sul serio? … e come mi hai trovato? … pensavo fosse un posto sicuro questo.
 
-Non volevi compagnia? …
 
-Non quella di un certo tipo.
 
-E … di che ‘tipo’ parli?
 
-Boh … prendi le ragazze che c’erano prima nel backstage. Ecco, la maggior parte degli invitati è gente del genere. Ci conoscono a malapena di persona, e non fanno altro che stressarti con cose stupide. Del tipo … Bill, facciamo una foto? Bill, vieni a ballare? Bill, hai assaggiato questo cocktail? È buono? … e roba del genere.
 
-Capisco. Vuoi che me ne vada?
 
-NO!- il moro si lanciò verso di lei e si appese al suo braccio con tutta la sua forza. –Ti prego resta qui. Mi piace la tua compagnia.
 
-Oh … ok.
 
-Una coriosità ... a cosa serviva il caffè di prima? ...- chiese lei dopo un po'.
 
-A non farti crollare addormentata nel bel mezzo del mio salotto. Noi lo facciamo sempre-r rispose Bill. Se avesse cosa c'era lì dentro oltre al caffè ...
 
Rimasero in silenzio. Ma non era come il silenzio della notte, dove nessuno dice niente, nessuno è realmente presente. Era come il silenzio nelle verifiche: denso di pensieri, ragionamenti astrusi, paura di sbagliare.
Dopo un po’ si ritrovarono abbracciati.
Diavolo, se ne aveva, Bill, di paura di sbagliare. Lei non si ricordava niente. Non si ricordava di quando erano a Parigi. Non si ricordava di lui.
E lui non voleva azzardare.
Si limitò a stringere l’abbraccio, quasi sull’orlo delle lacrime.
Venne tradito da un singhiozzo.
 
-Che c’è?- scattò su lei.
 
-Niente!! Niente … io sono stanco. Sai, mi capita quando sono stanco … io piango.
 
Come giustificazione faceva pena. Ma forse poteva tenere. Strinse le labbra, nel tentativo di essere convincente.
 
-Ti rovinerai il trucco- constatò lei sorridendo. Aveva riappoggiato la testa sulle sue gambe, e adesso guardava il giardino sottostante. Sembrava una bambina.
 
-Oh … hai … hai ragione- era rimasto … più che stupito. Di solito nessuno credeva alle sue scuse. Lei ci si era buttata subito. E poi … era così tranquilla. Non poteva essere totalmente lucida. Aveva bevuto almeno un pochino.
Adesso sembrava che dormisse.
Bill iniziò a giocare con i suoi capelli, come faceva con i baffi dei gatti. E nel frattempo pensava.
Ma forse era solo ubriaco.
Si addormentò stretto a lei. Potevano cadere.  
 
 
…sul tetto. Comodo, vero?! Chi non adora dormire sui tetti … molto sicuri soprattutto. Si ha la certezza di essere al sicuro, soprattutto.
NO, vabbé, a parte le mie cazzate … avvertitemi se lascio sterischi (****, per intenderci) in giro, eh. Che può darsi.
Adesso vado, belle e belli!!! Ciaoooo :D          
Baci, gentaglia :******     Lisa^^

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Capitolo 24
*** Camminando sola ***


 
Ladies and gentelmen, preparatevi al capitolo più lungo e depressivo del mondo. :*
-Buongiorno, bella addormentata!
 
Kim aprì gli occhi su un soffitto dipinto di bianco. No. Non poteva essere. Non ancora: si alzò di scatto sussultando.
Si guardò in fretta intorno … no, era a casa dei gemelli. Nel salotto per la precisione, su uno scomodo divano schizzato di vodka alla pesca. Rimase qualche istante a fissare la macchia.
 
-Eh, ehh … scusa, dobbiamo finire di dare una pulita. Non me ne ero accorto- si scusò Tom ridendo. Sembrava ancora brillo dalla sera prima.
 
-Ma … i miei sanno che sono qui, vero?- chiese Kim decidendo di non commentare.
 
-Certo!- esclamò il chitarrista. –Georg ha chiamato tua madre. Sembra che le stia simpatico. Mica lo conoscevi?
 
-Oh … beh, è una lunga storia- rispose senza pensare troppo a ciò che diceva, continuando a guardarsi mesta intorno. Per un attimo le era venuta la sensazione di trovarsi di nuovo sul letto d’ospedale, chissà perché poi. Scosse la testa: colpa dell’alcol.
 Un paio di altri ragazzi erano distesi scompostamente su qualche divano, o rannicchiati su un tavolo. Ronfavano come orsi con la broncopolmonite, stringendo spasmodicamente qualche bottiglia semivuota di qualche alcolico colorato.
A stonare con la scena, c’era Tom, con il grembiule a fiorellini  e i guanti di gomma, che spazzava il pavimento fischiettando. Kim scosse la testa. Probabilmente stava ancora sognando, forse aveva ragione a preoccuparsi, ad avere paura di svegliarsi in ospedale. Forse era effettivamente tutta una grandissima pippa mentale inventata dalla sua mente ammaccata durante un lungo periodo di coma. Magari in quel momento c’erano i suoi che la fissavano dalla finestrella della porta del reparto nello squallido ospedale a Liverpool.
NO, per la miseria, doveva smettere di farsi questi pensieri. Kim Wendell era ben che sveglia, viveva a Magdeburgo e conosceva personalmente i Tokio Hotel, era stata ad un loro concerto e poi alla loro festa, aveva bevuto qualcosa e si era svegliata su un divano sporco di vodka. Ecco tutto.
 
-Dove sono gli altri?- chiese.
 
-Geo è di sopra a dormire. Sul mio letto- rispose Tom con una smorfia di disappunto. –Gustav credo stia facendo il giro del giardino per vedere se è rimasto qualche ubriacone nascosto nei cespugli.
 
-…ah. E tuo fratello?
 
Tom raddrizzò la schiena, appoggiando il manico della scopa al brodo del tavolo. –A dire il vero non ne ho idea. Forse è in camera sua. Sapevi che vi eravate addormentati sul tetto?
 
-Uhm, sì. Me lo ricordo.
 
Tom sogghignò. –Non è un po’ scomodo?
 
Kim lo guardò come si guarda un pesce marcio che ti sorride da dentro il secchio della spazzatura. –Fatti i cavoli tuoi. Non ti sei portato nessuno a letto ieri sera?
 
-Vuoi dire “nessuna”. Cambia, sai?
 
-Per quel che ne so tu potresti fotterti chiunque.
 
-Ha, ha, grazie. Comunque sì, anche se adesso non mi ricordo chi fosse- disse la Bella Lavanderina, riprendendo a spazzare il pavimento.
 
Kim si alzò e raggiunse le scale senza fare rumore. Poi si ricordò che in tutta quella bisboccia ci si era fiondata assieme ad altre due persone. Si voltò e richiese a Tom:
-Hai idea di dove siano le due ragazze che erano con me?
 
Quello si grattò la testa con un’espressione buffa. –Boh. La rossa si era addormentata sotto un tavolo, ma poi mi sembra che si fosse svegliata e che se ne fosse andata. L’altra non ne ho idea.
 
Kim fece una smorfia di disappunto, sia per la disinformazione del chitarrista che per l’idea che Joey se ne fosse andata senza avvisare. Ma non era il caso di credere a lui. Non sembrava granché affidabile quella mattina. –Grazie comunque. Le chiamerò dopo.
 
Salì le scale fino al piano di sopra, e girovagò per un po’ nel corridoio, chiedendosi che porta aprire. Alla fine, dopo aver esaminato le varie possibilità, optò per una porta in un angolo a sinistra, con un grande cartello nero che diceva “CAMERA DI BILL E TOM” scritto in brillantini argento e decorato con disegnini che una scimmia neonata disgrafia avrebbe fatto meglio.
 
-C’è nessuno?- sussurrò aprendo la porta. Sbirciò dentro, in effetti c’erano due persone. Una era Georg, disteso al contrario sul letto di Tom –o almeno quello che, secondo i suoi istinti da Sherlock Holmes, poteva essere il letto di Tom- che stringeva un peluche a forma di bulldog–a grandezza naturale. E dormiva. L’altra era una figura indeterminata, arrotolata in mezzo a qualche decina di coperte sull’altro letto, che a giudicare dai braccialetti appesi alla testiera e alle varie foto con Avril Lavigne doveva appartenere al vocalist.
Provò  a chiamarlo.
Nessuno rispose, così Kim si avvicinò al grumo di coperte e lo scosse piano.
 
-Bill- chiamò piano. –Hey, Bill- chiamò più forte, e una voce mugolò che non era lui.
 
-Chi sei allora?- chiese Kim scettica. A quelle parole, una ragazza dai capelli verde lime mise la testa fuori dalle coperte, ringhiando.
 
-Mi chiamo Dalilah. Bill è sotto il letto.
 
Kim la guardò perplessa. –Come mai, scusa?- ‘E tu cosa ci fai qui?’ stava per chiederle, ma pensando che anche lei stava dormendo su un divano a casa di altri fino a poco prima decise che non era il caso.
 
-Perché si era addormentato sopra di me. Io mi sono mossa e lui è rotolato giù dal letto- spiegò, chiara e circoncisa Dalilah, richiudendosi a mo’ di crisalide con le coperte, come a dire ‘E questo è tutto’.
 
Kim controllò sotto il letto. In effetti, qualcuno c’era.
 
-Bill?- sussurrò punzecchiando la figura con un dito, come fanno i bambini curiosi con i ricci sotto la siepe.
Si complimentò con sé stessa per la similitudine Bill-riccio. Ha, haha, haha. Davvero molto azzeccato.
 
-Mmmmgh. Sìììì?- si lagnò la figura. Sì, evidentemente questa volta aveva azzeccato.
 
-Sono io. Kim.
 
-Uh?- si girò di scatto, sbattendo la testa sulle assi del letto. –Ahu!
 
-Stai attento, per la miseria. Vieni fuori, non credo tu stia granché comodo là sotto.
 
Il cantante rotolò stancamente fuori, e cacciò un urletto quando venne investito dalla luce del sole.
-Aaaagh … dov’è mio fratello?- disse, coprendosi gli occhi con una mano. A quel punto mancava solo che iniziasse ad incenerirsi, e poi l’effetto Dracula sarebbe stato completo. Seriamente, non aveva per nulla un bell’aspetto. Era bianco come un cencio, gli occhioni da panda erano ornati da due abbondanti occhiaie di una brutta sfumatura di viola, ed era tutto rannicchiato su sé stesso.
Decise di non farci caso per non allarmarlo troppo. Probabilmente nemmeno lei aveva una bella cera.
 
-Di sotto che fa la bella lavanderina.
 
-Ah.
 
-Perché eri là sotto?
 
-Non lo so. Mi era sembrato di essermi addormentato fuori. Non mi ricordo dove. Poi mi sono svegliato … ma dov’ero di preciso?- si chiese, girandosi all’indietro.
 
-Eri sotto il tuo letto.
 
-Ah. Bene. Fantastico. Ero proprio fatto, allora- affermò sbrigativo. Dura nascondere la verità, che non era affatto … proprio fatto. Cioè, non così tanto. Si ricordava esattamente come era finito sotto il suo letto, e come era troppo debole per alzarsi e prendere possesso del proprio letto. E si ricordava esattamente anche quello che era successo la sera prima. Quello che le aveva detto, e quello che non le aveva detto. E gli sembrava tutto terribile, impronunciabile, blasfemo. Sperava se ne fosse dimenticata, quindi cercava solo di non risollevare l’argomento. Anche perché non era bello pensarci. Gli faceva male, perché non era bravo a nascondere le bugie, non gli piaceva per niente. Soprattutto quando si trattava dei dilemmi nella sua testa, quando non aveva un Georg incurante a cui raccontarli, un Tom disposto a dargli un abbraccio o anche solo un foglio dove poter scrivere qualcosa. Una canzone. Li risolveva così, i problemi. Gran parte degli sfoghi personali del povero essere che Bill Kaulitz si ritrovava a dover impersonare finivano in rime, per poi essere abbandonati in un cassetto vicino ad una cintura nera ornata di borchie o sotto lo specchietto di una confezione di ombretto.
 
-Posso vedere mio fratello?
 
-E chi te lo vieta? È di sotto- rispose Kim sorridendo. Bill si alzò in piedi. Lei sorrideva sempre. Lei non si scolava bottiglie intere per dimenticare la delusione di essere dimenticato. Non ne aveva bisogno, si sorprese a pensare, amaramente. Lei era … felice? Boh. Bill non lo sapeva. Sapeva solo che lei era una persona ‘pulita’. Lui no. Per niente.
 
-Tom?- chiamò, una volta arrivato di sotto.
 
Gli rispose un fischio allegro, anche troppo allegro. Poco dopo, il Bel Lavanderino fece la sua comparsa trionfale dinanzi al gemello, continuando a raccogliere bicchieri di plastica dai poveri resti del tappeto.
 
-Ma dove la trovi l’energia per fare cose del genere la mattina presto?- commentò Kim, spuntata da dietro il vocalist.
 
-Su di lui il caffè doppio ha un effetto … doppiamente prolungato. Per i prossimi due giorni non chiuderà occhio e saltellerà di qua e di là cantando come un idiota. Giusto, Tom?
 
Tom annuì allegramente.
 
-Visto? E’ anche diventato momentaneamente scemo. Vero Tom?
 
Tom annuì di nuovo.
 
-Puoi chiedergli quello che vuoi  e lui lo fa. Una volta è perfino venuto a fare shopping con me. E mi ha portato tutte le borse senza lamentarsi. Anzi, era pure felice di fare lo schiavo.
 
-Wow. Farebbe comodo a casa mia.
 
-Già.
 
Bill era piuttosto malmesso, non solo esteticamente, Kim se n’era accorta. Voleva chiedergli cosa ci fosse che non andava, ma qualcosa le diceva che non gli avrebbe fatto piacere la domanda, quindi se la tenne per sé.
 
-Ragazzi, io … meglio se per il momento vado a fare un salto a casa, giusto per avvisare mia madre che sono ancora viva, sapete…- disse invece, piano. Si sentiva in colpa a mollare i gemelli, Bill in particolare. Anche se non aveva la minima idea di cosa potesse fare per lui, sentiva il bisogno di stargli accanto, finché non sarebbe tornato di un colore normale e un umore decente.
 
-Certo, fai con comodo!- urlò Tom, come se se ne fosse già andata e fosse fuori dalla porta.
Almeno c’era lui a fare la nota comica nel quadretto squallido e strano che era quella bella casa, vuota e in completo disordine, con qualche povero soldato caduto che non si era ancora ripreso.
Mentre si avvicinava alla porta, dove sperava che fosse ancora la sua felpa, e quindi anche le sue chiavi per tornare a casa –la sua autostima le impediva seriamente di tornare da Albert a farsi dare un’altra copia delle chiavi di casa. Insomma, un criminaloide come lui non poteva avere più considerazione di lei su cose del genere. Anche se era di sicuro più organizzato.
Ringraziando la Madonna per i suoi miracoli, la felpa era ancora lì, quindi … poteva andare? Poteva sul serio lasciare quella festa finita, quel ‘luogo del delitto’ con i suoi due criminali rimasti in piedi più o meno coscienti, a guardarla, lei, testimone pericolosa del crimine compiuto quella notte?
Scosse la testa in modo impercettibile: a quel punto era proprio giunta al limite con le fantasie mentali. Meglio andare a farsi un’aspirina subito e non pensarci più. Tanto sarebbe sicuramente tornata, nel pomeriggio; insomma, con tutta la buona volontà che Tom poteva avere non sarebbe mai riuscito a sistemare quel bordello in un giorno da solo, con quel fantasma di suo fratello che lo fissava lavorare.
Si morse la lingua. Era inutile nasconderselo, Bill non stava bene. Qualcosa lo assillava.
 
-Beh, allora … io vado. Ci vediamo dopo, vi giuro che torno- salutò, cercando di essere spiritosa. I gemelli le sorrisero, chi più chi meno, poi lei infilò la porta e tutto sparì dietro al pannello di legno scuro. Con i sensi di colpa quasi ingiustificati che le rodevano l’anima dentro, ma riuscì a lasciare quella scena del crimine.
 
#
 
-Sono a casa- gridò spalancando la porta. Adesso la mamma avrebbe iniziato a fare storie, e meno male che Georg l’aveva chiamata altrimenti sarebbe stata giustiziata sul posto.
 
-Oh, buongiorno! Pensavo non avresti più fatto ritorno- borbottò Karen spuntando dalla cucina. –Dimmi un po’, ti sei divertita?- chiese, sarcastica.
 
-Sì mamma. Grazie ciao- concluse sbrigativa Kim rinchiudendosi in camera e lasciando la madre in piedi in mezzo alla cucina come uno stoccafisso, dato che non aveva nessuna voglia di rispondere ad un sacco di domande inutili; perché viva lo era, a casa ci era tornata, e quindi non c’era bisogno di sapere altro.
 
‘Bene, ora i miei progetti sono: dormire, dormire e mangiare. E poi dormire, e poi tornare a fare un salto dai raga. Perfetto, direi’, pensò, buttandosi sul letto senza preoccuparsi di togliersi i vestiti.
 
#
 
-Kim.
 
-Kiiiiiimmm.
 
-Figlia ignobile, alzati! Io e tuo padre abbiamo due cose da dirti.
 
-Uffa. Arrivo, mamma.
 
Si alzò, borbottando contrariata dato che l’avevano interrotta nel bel mezzo di un piacevole sogno popolato da folletti verdi e zucchero filato a fiumi, prevedendo la solita ramanzina del cavolo. Ma quando arrivò al tavolo della cucina, lei e tutti i suoi folletti immaginari, dove i suoi la aspettavano, qualcosa le disse che non era proprio di quello che dovevano parlare.
Papà era seduto a capotavola, con un’espressione a metà tra il sapere di star per dire qualcosa di fantastico e l’essere coscienti che forse qualcuno non la prenderà bene. Nella sua testa si accese la spia d’emergenza.
La mamma, invece, stava in piedi con le mani sui fianchi, con l’aria di non avere troppo tempo da perdere.
 
-Tesoro …  -iniziò papà.
 
-Ssssì? … -fece incerta Kim.
 
-Gli uffici sono stati messi in sicurezza e resi riutilizzabili.
 
-Quali uffici, papà?- chiese, innocente. Qualcosa le diceva che non le avrebbe fatto piacere la risposta.
 
-L’ufficio dove tuo padre lavorava a Liverpool- specificò Karen, alzando gli occhi al cielo, come se fosse più che ovvio.
 
-… e con ciò?
 
-Ma come, piccola? Non ci sei arrivata?
 
-Beh, NO a quanto pare- iniziava ad essere sinceramente nervosa.
 
-Torniamo a casa!
 
#
 
-…. Come, scusa?- a quel punto la sua voce si era fatta sottile sottile.
 
-L’ho detto! Finalmente possiamo lasciare questo buco di birraioli incomprensibili e tornare a Liverpool! Non sei contenta?
 
Suo padre era davvero entusiasta, e anche la mamma sorrideva anche se cercava di nasconderlo.
 
-No, papà. Non sono contenta- sussurrò alzandosi dalla sedia. –Io … ho degli amici, qui, adesso.
‘Io ho degli amici, in questo buco di birraioli. Sono andata ad una festa, ho fatto dei mesi di scuola. Ho conosciuto delle persone. Ho fatto e visto cose che voi non immaginereste. Sono diventata qualcuno, qualcuno che avevo perso in un incidente di cui non ricordo nulla, in questo buco di birraioli’ pensava.
 
-Ma laggiù ne avevi molti di più! E poi ci sono tutti i nostri parenti …
 
-Avevo, papà, avevo. Non mi ricordo un tubo della nostra vita a Liverpool. Ho solo vagamente presente di com’era casa nostra- l’immagine degli interni di un armadio, coperti di foto. -e di un paio di zie- il gusto di un sacco di torte quasi tutte uguali, e tende di pizzo ovunque. -; dei miei amici ricordo solo una voce sì e no- una telefonata da parte di una ragazza, che al momento aveva riconosciuto ma che ora non aveva presente. Che parole ripetitive, nella sua mente-!
 
-Beh, è l’occasione giusta per recuperare, no?
 
-NO, MALEDIZIONE!- scattò urlando. Stava esagerando, lo sapeva, lo sentiva in ogni cellula che si stava comportando da bambina. Ma non riusciva a impedirselo, il suo cervello aveva innescato il pilota automatico. –NON VOGLIO TORNARE LAGGIU’, NON CI VENGO!
 
-Calmati, stai avendo un comportamento da bambina- ora suo padre era diventato serio, e la fissava minaccioso da dietro gli occhiali lucidi e rettangolari da impiegato d’ufficio. Da uno stupido ufficio che poteva essere la ragione della sua rovina. –Ormai è deciso. A fine mese prenderemo l’aereo e ci lasceremo alle spalle Magdeburgo.
 
-Ma … !
 
-Ho già avvisato che lunedì tre marzo sarò seduto alla mia scrivania come lo sono stato per dieci anni, e così sarà- affermò deciso, alzandosi dal tavolo e lasciandola lì, con i capelli ancora spettinati dal sonno e la mente in confusione completa.
 
-Vuoi qualcosa da mangiare?- chiese premurosa la madre, era ormai mezzogiorno passato e lei non mangiava dalla sera prima.
 
Kim scosse piano la testa. In quel momento non era più una necessità primaria. La necessità era sapere che non avrebbe lasciato quel luogo, che il suo equilibrio mentale e quel filo di memoria costruita nel corso dei mesi non sarebbe andato a puttane.
-No. No, grazie, devo andare a dare una mano a … a Bill e Tom, a mettere a posto casa. Prenderò qualcosa per strada- mormorò, ancora incapace di connettere quello che le era appena stato detto. Ancora incapace di elaborare una strategia per fuggirvi.
 
Sua madre le disse qualcosa, ma nella sua testa non entrò. Prese le scarpe e il portafoglio e uscì senza pensare.
Arrivata fuori, prese una mountain bike abbandonata nel portabici da chissà quanto tempo, dove sapeva che l’avrebbe trovata, come al solito, e si fiondò in strada alla velocità della luce.
Poteva prendere un autobus, aveva ben due modi fra cui scegliere come salirci, ma le andava un giro in bicicletta.
Pedalava rapidamente, con una cuffietta nell’orecchio che cantava una canzone che non sentiva e l’altra che pendeva su un ginocchio; fissando i sassolini rotondi incatramati assieme di cui era formata la strada scorrere sotto le ruote.
Non sapeva dove stava andando.
Stava solo … andando.
Probabilmente stava infrangendo decine di regole stradali, ma non poteva permettersi di starci attenta. Il suo cervello andato in panna, gli ingranaggi fermi che non riescono a distruggere il pezzo di legno incastrato fra i denti delle route, non poteva permetterglielo.
Così, quando un clacson le fece alzare la testa di scatto, si ritrovò a dover scartare di colpo un’auto che le arrivava addosso, finendo in un agglomerato di cespugli e ferraglia, se pali della luce, cartelli o cosa non lo sapeva; ma di sicuro qualcosa di abbastanza duro da procurarle un gran dolore alla testa.
E lì fu bianco.
E in quel momento non c’erano le vecchiette che arrivavano di corsa e balbettavano preoccupate parole in tedesco, non c’erano passi affrettati dei passanti che accorrevano, non c’era il rumore delle ruote della bici che giravano a vuoto.
C’erano visi, visi che scorrevano come una pellicola in un triste cinema vuoto.
C’era il viso di Bill, che sorrideva di un sorriso finto di circostanza, bianco come la cera e stanco come se avesse lottato in eterno, che la osservava andare via stringendo in mano la sola promessa che l’avrebbe vista tornare. Che non l’avrebbe lasciato da solo.
Non sapeva niente, sapeva solo che doveva tornare e aiutare quel ragazzo. Chiedergli come stava. Che si doveva alzare e andare dall’unica cosa che in quel momento si ricordava, dall’unica cosa che tempo prima non aveva dimenticato.
Non vedeva e non sentiva.
Vedeva un solo volto, due soli occhi neri  e stanchi e tristi.
Le stavano facendo un sacco di domande, ma non poteva rispondere perché non sapeva niente.
Sentiva una voce suggerirle qualcosa: proveniva da un solo orecchio e gracchiava che era sola, e camminava sola sull’unica strada che avesse mai conosciuto, che forse un giorno qualcuno l’avrebbe trovata ma che per ora la sua ombra era l’unica che le camminava appresso sulla sua strada dei sogni distrutti.
Poi un’altra, voce nel suo cervello, che le diceva di alzarsi. Ma i comandi inviati al corpo non venivano ricevuti. I suoi arti ammaccati da soldato caduto non rispondevano.
 
‘Non di nuovo’ riuscì a comporre.
 
Poi fu buio.
 
 
Ci credete che questo capitolo depressivo l’ho scritto ascoltando i Green Day? No, sul serio, io non riesco a crederci. Mi chiedo ancora come la combinazione chimica sia possibile.
Ebbene, signori, siamo punto e a capo!! …
No, dai, tranquilli, non dovrete aspettarvi altri trenta capitoli. … inizio a pensare che le mie storie saranno sempre lunghissime, non so voi ma io non riesco a scrivere poco D: non mi riesce proprio. :P
Beeene, ora vado. Un bacione mega a tutti quelli che non si sono ancora stufati di me, in particolare alla Marty che segue questa storia dai tempi (sarà tipo un anno che sto scrivendo. Ma non vi siete stufati? XD Oddio, voi siete santi. Maiggod) eeeecciaio :*                Lisa^^
 

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Capitolo 25
*** Forse puoi farcela ***


Aprì gli occhi.
Dejà vù.
Non riusciva ad alzarsi, aveva come la schiena bloccata.
 
‘Oh no. Qualunque cosa sia successo, fa che non mi si sia paralizzata’ fu il primo, terrorizzato pensiero che le attraversò la mente.
Provò ad alzare la testa. Si fissò per qualche secondo le punte dei piedi nascoste sotto le lenzuola bianche, chiedendosi per quale motivo fosse lì.
Poi, piano piano, vennero a galla immagini sfocate, come vecchie Polaroid che riemergono da un relitto affondato nell’oceano.
Una festa da sballo. Una notte stellata e una superficie fredda. Visi, visi … uh, sì. Già.
… musica.
Musica, una canzone. Una canzone di un gruppo punk prima che diventasse tutto nero …
 
-Boulevard Of Broken Dreams, dei Greenday!- buttò fuori tutto d’un fiato alzandosi di scatto.
Scena piuttosto buffa, davanti a sé aveva il viso da panda terrorizzato di un ragazzetto magro.
 
-Tutto … ok?- sussurrò Bill. Oh, bene, collegava i nomi. Buon segno.
 
-Uh, sì- sbuffò, ri-sprofondando nel cuscino.-è un esercizio che mi avevano insegnato tempo fa.
 
-Eh? Scusa ma non capisco- mormorò il ragazzo, sempre più confuso.
 
-Tempo fa … sì, cavolo, ecco! È già successo … sì, un … un anno fa. Ho battuto la testa- ricominciò ad elencare, tornando a sedere. -Ho avuto un’amnesia. Ho traslocato in un altro paese e non ho più pensato a … alla mia vita di prima. Giusto?- si voltò di scatto verso Bill, con gli occhi spalancati ad aspettare un’approvazione.
 
-Ehm … credo … credo di sì.
 
Kim si rilassò, e chiuse gli occhi. Poi li riaprì. –Uff. E stavolta cos’è successo?
 
Il vocalist fece una risatina. –Ci hai fatto l’abitudine, eh?
 
-Sì. Boh. Non so- assottigliò gli occhi. –Stavo … venendo da te. Stavo venendo a cercarti! Sì, per … oh, questo  non lo so.
 
Bill seguiva la scena, sempre più perplesso. Si disse di non intervenire, stava facendo tutto da sola.
 
-Tu non ne hai idea, vero?- si sentì domandare, dopo un po’.
 
-N…no- rispose, sentendosi un po’ inutile alla causa.
 
-Oh, vabbè. È più che sufficiente, per ora- dichiarò la ragazza, chiudendo gli occhi e accomodandosi sul materasso non troppo morbido.
 
Nella stanza calò il silenzio.
 
Bill era rimasto a bocca asciutta. Insomma, si aspettava di doverla rassicurare, di dover elencare cose come il suo nome, i nomi dei suoi familiari, cosa aveva fatto il giorno prima … invece aveva snocciolato tutto da sola. Certo, si era tolto una preoccupazione, ma ci era rimasto un po’ male. Come un Watson che rimane interrotto con l’indice alzato e le parole a mezz’aria da uno Sherlock che in quindici secondi ha già risolto il caso. Sì, Kim aveva la stessa aria trasognata e iperventilata di un detective nel suo palazzo mentale. Non poteva certo fargliene una colpa, in effetti. Si maledisse per aver anche solo potuto pensare di attribuirle un comportamento sgarbato.
 
-Bill- chiamò la ragazza dal letto, nel quale nel frattempo si era rivoltata un paio di volte.
 
-S…sì?- rispose lui, accigliandosi.
 
-Dove siamo?- borbottò lei con la faccia affondata nel cuscino.
 
Ah, ecco. Gli era sembrato fin troppo bello non dover rispondere a domande di questo genere. –A Magdeburgo, in Germania.
 
-Mh. Meno male.
 
‘Meno male?’ no, non era il genere di risposta che si aspettava.
 
-Avevo sentito i miei dire che … che saremmo tornati a Liverpool. Era solo un sogno- le parole uscivano timorose da sotto la massa di ciuffi blu sparpagliati a Medusa sul cuscino. Come se tentassero di rassicurarsi da sole. Ma la disperata domanda di approvazione e la totale mancanza di sicurezza si avvertivano fin troppo chiaramente nella falsa forza di quella voce.
 
Non si sentiva per nulla di dirle che non era un sogno. Aveva paura che potesse andare in panico.
Ma perché, poi, doveva esserci proprio lui, lì? Perché era corso immediatamente in ospedale non appena gli era arrivata la chiamata dall’operatore medico che aveva trovato il suo cellulare? Che poi che idiota anche quel tizio, chiama sua madre, non chiamare il primo sconosciuto che appare in rubrica. Perché aveva insistito a rimanere lì lui, mentre Karen (aveva ancora impressa nella mente la voce totalmente presa dal panico della madre, che blaterava di essere uscita per fare una commissione e di essere rimasta imbottigliata nel traffico, che si malediceva per non essere lì immediatamente, per averle detto in quel modo che sarebbero ripartiti, senza un minimo di tatto, e che sputava i peggio epiteti al corpo medico che non l’aveva chiamata immediatamente) arrivava? Che poi, erano passate già un paio d’ore, dove diavolo era finita quella donna? Possibile che le strade tedesche fossero così trafficate? O forse avevano deciso di lasciarla fuori. Chissà. Non spettava a lui farsi certi problemi, si stava dando un sacco di paranoie.
 
-Già … certo.
 
Non suonava per niente sicuro di sé. Non ci avrebbe creduto nemmeno un bambino.
 
-Bill?
 
-Sì?
 
-Non era un sogno, vero?- chiese Kim, rassegnata. Ecco, come non detto. Non era stato per nulla convincente.
 
-Ehm …
 
-Tranquillo, non è colpa tua. Non importa, davvero. Lo sapevo che qualcosa non andava.
 
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse pensando che sarebbe stato meglio non dire proprio niente. Ne avrebbero riparlato … magari fuori di lì. Che poi, perché doveva pretendere di riparlarne? Chi era lui, per dover sapere di queste cose? Non era suo fratello, né suo padre, né il suo ragazzo. Uh?
Con questo pensiero il suo viso già pallido scalò di altri dieci toni verso il bianco lenzuolo. Che le fosse mai venuta in mente una cose del genere? O era solo lui a perderci le notti? …
 
-Hey- fece di nuovo Kim.
 
-Sì?- certo che suonava proprio deficiente, a ripetere ‘Sì’ come un bambino quando quella che aveva appena preso una qualche sorta di trauma cranico era lì che gli diceva di ‘stare tranquillo’.
 
-Dimmi qualcosa di bello.
 
-Qual…cosa di b-bello?
 
-Sì! Dai, oltre alle tue paranoie da adolescente emo avrai qualcosa di bello da dire, spero. Ovvio, le paranoie da emo sono molto più interessanti. Chissà cosa penserebbero tutti i vostri fan se all’improvviso iniziaste a fare canzoni su com’è giallo il sole la mattina, o come sono buone le brioches a merenda con il caffè. Credo che non incrementerebbe le vostre vendite, eh?- la ragazza ridacchiò da sola. Forse era diventata matta. Meglio stare al gioco.
 
-Beh … in effetti sì. Hai ragione. Non sono per niente allenato a comporre pensieri felici. Uhm … vediamo … direi che … che Tom è molto bravo a suonare l’ukulele. E che ho appena detto una bugia grande come una casa.
 
-Perché, tuo fratello non sa suonare l’ukulele? Pensavo che fosse come suonare una chitarra.
 
-Infatti è come suonare una chitarra, ma più piccola. E Tom è impedito a fare le cose in piccolo. Non sai che disastro quando ha provato a dipingere. Tutto bene finché doveva spennellare il cielo d’azzurro. Ma con gli alberi in lontananza ha fatto un disastro. Gli tremava la mano in una maniera incredibile. Non oso immaginare cosa succederebbe se provasse a fare un tatuaggio a qualcuno.
 
-Non vorrei essere quel qualcuno.
 
-Direi di no.
 
Altro silenzio. Ognuno guardava nel vuoto davanti a sé.
 
-Basta?
 
-Basta cosa?
 
-Cose allegre. Sei davvero scarso- rise lei.
 
Bill divenne rosso. No, forse non era proprio allenato ad essere felice.
-Perché, tu sei davvero così brava ad essere felice?- chiese, tentando di sembrare ironico.
 
-Non lo so. Non me lo ricordo!- rispose stridula lei, alzando le spalle facendo la finta faccia dispiaciuta.
 
-Ha ha. Ti fa comodo, eh? Anche io voglio un trauma cranico allora. Scusa Tom, non mi ricordo dove ho nascosto i tuoi vestiti, dovrai girare per casa in mutande- recitò lui imitando il suo tono di voce.
 
-Davvero nascondi i vestiti a tuo fratello?
 
-Certo, chi non lo fa. Anche Georg non è da meno! Devo ammettere che è molto più bravo di me a trovare nascondigli impossibili. Ovunque: negli armadietti, nella custodia di qualche trombone abbandonato nei backstage … è un’arte.
 
-E nel frattempo Tom gira per il backstage in mutande?- Kim scoppiò a ridere, immaginando la scena.
 
-Precisamente. Adesso mi viene in mente quella volta che era sotto la doccia, e non aveva niente a parte l’asciugamano. Ge gli ha fregato pure quello, e lui è rimasto con solo la tendina di plastica, a urlare insulti a destra e manca, minacciando che se non gli avessimo riportato la sua roba si sarebbe impegnato per il resto della sua esistenza a renderci la vita un inferno. Ovviamente noi siamo rimasti fuori a sghignazzare come iene, e quando dopo un po’ si è messo a supplicare abbiamo deciso che sarebbe stato meglio ridargli l’asciugamano.
 
-E il resto?
 
-Il resto se l’è dovuto cercare da solo, e per poco una truccatrice non sveniva a vedere quel coso bagnato girare per il posto mezzo nudo.
 
-Certo che siete proprio perfidi.
 
-Sai com’è, sono così triste che non posso fare a meno di comportarmi male con mio fratello- si scusò Bill, facendo la faccia da cucciolo bastonato.
 
Kim stava per dire qualcosa, quando vennero interrotti dall’aprirsi della porta. Entrò un uomo in camice bianco, con gli occhiali bassi sul naso e una cartella in mano.
-Oh, piacere di vederti ben sveglia, Kim. Tua madre vorrebbe parlare con te.
 
Spostò lo sguardo su Bill, seduto su una sedia a un paio di metri dal letto. –Preferirebbe che foste sole- aggiunse, accigliato.
 
-Oh. Certo. Tolgo il disturbo- il vocalist uscì, e il medico richiuse la porta dietro di lui. L’ “aspetta” di Kim rimase a mezz’aria.
 
#
 
Karen scostò appena la porta. –Tesoro?
 
-Mamma?
 
Entrò piano nella stanza, richiudendosi dietro la porta. –Oh, tesoro- sussurrò, prima di fiondarsi –delicatamente- addosso alla figlia. –Oh, tesoro. Scusa, scusa se non sono arrivata subito.
 
-Mh … mamma … non importa. Sto bene.
 
Si scostò guardandola negli occhi. –Sei sicura? … non ti fa male la testa?
 
-E’ ovvio che mi fa male la testa … ma sto bene. Ti giuro.
 
Tornò a stritolare la ragazza come se non ci fosse un domani. –Oh mio Dio, meno male che stai bene.
 
-Uhm … sì, mamma. Puoi anche stare tranquilla. Non credo di essermi fatta niente.
 
-Beh, questo non saprei. Dovremo attendere qualche esame.
 
-Uhm. Già. Ma io sto bene.
 
Karen sorrise. Abbassò lo sguardo, e il suo sorriso si spense in una smorfia pensierosa.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito e si spalmò in faccia il sorriso più convincente che riuscisse a venirle.
 
-Beh, allora …
 
-Mamma- la interruppe Kim.
 
-Sì?
 
Prese fiato. Ma quando alzò lo sguardo, decise che era meglio di no. Anzi, si può dire che davanti agli occhi supplichevoli della madre decise che era meglio risparmiarle almeno questa, per il momento.
-Dov’è papà?
 
Il viso contorto dalla preoccupazione di Karen sembrò perdere dieci anni. – Oh, sta arrivando.
 
 
Ciao brave persone che stanno ancora leggendo. Credo di poter dire che questi saranno gli ultimi capitoli. Sì, dai, non manca molto.
(?)
E allora, come ve la state passando l’estate? … io ad ascoltare musica a caso. Tipo, la mattina mi alzo e decido che ho voglia di punk. La mattina dopo ho voglia di sentirmi hipster. Insomma, sono molto decisa sul mio stile. Yea.
… ok, ho capito, giusto. Non vi disturbo più. u_u
Buon ferragosto, felici camicie da boscaiolo e una car radio a tutti -e scusate per il capitolo un po' così, e per il titolo abbastanza senza senso, vi prometto ch per il gran finale farò di meglio-!! :D               Lisa^^

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Capitolo 26
*** Not so long, and goodnight. ***


Vi avviso che non ho riletto. Se trovate errori ... beh, sareste veramente zucchine dolci a segnalarmeli. ^3^ Detto ciò ... *sparisco*
 
Si alzò sbuffando.
Non aveva nessuna voglia di staccarsi dal suo morbido letto; ma d’altronde lei stessa aveva insistito per andare a scuola quella mattina.
Era stata dimessa dall’ospedale la mattina prima, con la sola raccomandazione di non muoversi troppo in fretta e non sforzare troppo gli occhi (cosa c’entrassero gli occhi con il suo incidente, non era dato saperlo ma … il laureato in medicina non era lei, quindi …). Insomma, niente di grave. Solo una brutta botta e un grosso spavento.
I suoi avevano insistito perché restasse praticamente incollata al divano, e la cosa le faceva anche piacere fino ad un certo punto, perché non doveva alzarsi nemmeno per prendersi un bicchiere d’acqua. Le mancava solo il monocolo e l’aria aristocratica, poi sarebbe stato perfetto. Del resto invece le dava un grosso fastidio; non era in fin di vita e riusciva benissimo a camminare e fare le cose come una normalissima diciassettenne. Forse un po’ tonta e lenta, ma non aveva nessun problema.
In compenso, aveva avuto tutto il tempo di finire tutti e sette i libri di Harry Potter che si era data di iniziare pochi mesi prima. Poteva inserirlo nel Guinness World Record, in effetti. A parte il fatto che c’erano persone che leggevano anche duecento libri in  tre mesi. Tipo Geraldine, la sua cugina dal nome antico e stranissimo, con gli occhiali rotondi e i denti in fuori. Che roba, adesso stava pure iniziando a pensare casualmente alle persone più lontane. Chissà, forse il secondo colpo le aveva fatto pure bene.
Aveva passato i tre giorni successivi all’incidente a leggere e chiacchierare –al telefono, di persona, via Skype, urlando fuori dalla finestra- con i Raga, che erano riusciti a farsi detestare da ogni singola persona del personale dell’ospedale, dalle infermiere ai chirurgi che passavano, i tre parassiti erano ormai noti per il loro ‘fare casino e disturbare la gente, parlare a voce troppo alta e ridere sguaiatamente’. Avevano evitato per un pelo di farsi strigliare da qualche agente di polizia; e lo avevano evitato travestendosi da infermieri –Georg e Gustav- e sgusciando fuori con una barella –sotto la quale era nascosto Tom- per poi buttarsi in mezzo ai cespugli. Tutto mentre qualche decina di infermieri cercavano di capire dove fossero finiti quei tre scapestrati. Tutt’altro discorso era invece il vocalist.
Diciamo che Bill –per quanto carino e coccoloso, dolce ed ubbidiente potesse dimostrarsi- non si era mai scollato dalla sedia della stanza, tanto che al terzo giorno aveva finito per stringere spasmodicamente lo schienale come se fosse la sua unica speranza di vita, mentre gli infermieri lo pregavano invano di lasciare la stanza. Nessuno si era dimostrato ostile con il piccolo panda dimagrito che presenziava nella stanza, anche se stava sulle scatole a parecchia gente. La tipica scena era: un medico entra nella stanza. Si rivolge gentilmente a Bill, chiedendogli se può uscire. Bill fa la faccia da pulcino che ha perso la mamma, seguito a ruota da Kim, e inizia a balbettare cose incomprensibili, il dottore cerca di calmarlo ma lui inizia a strillare e farsi salire le lacrime, dopo un po’ entrambi stanno praticamente frignando come bambini; fino a che il medico non li assicura che Bill può tranquillamente restare, che non c’è nessun problema; poi fa quello che deve fare e se ne va stizzito borbottando su come sono viziati i ragazzi di oggi. Appena la porta si richiude, i ragazzi iniziano a ridere come i forsennati, rotolandosi sul pavimento. Poi dipende, capita che se ne tornino ai loro posti sospirando di felicità, e capita che si girino di scatto trovandosi a meno di due centimetri di distanza; un ragazzo truccato come un panda con troppe cose che premono da dentro la sua testa che rischia di esplodere, pallido come un personaggio di Tim Burton nella sua casa grande e buia dove le persone si aggirano come fantasmi pretendendo severamente qualcosa da lui; e una ragazza con gli occhi verdi e i capelli blu, che al posto della memoria ha una grande scatola aperta, da cui le cose entrano ed escono e tornano e bruciano, senza che nessuno le tenga sotto controllo, che è probabilmente impazzita forte ma che nella sua casa grande e buia ospita tanti morti che sono però più vivaci e colorati dei vivi. Kim che viaggia cercando sé stessa con il suo seguito di scheletri colorati e festaioli e Bill che cerca di sopravvivere rimanendo aggrappato con le sue unghie smaltate e perfette al briciolo di sé stesso che il mondo non dovrà prendere.
Capita che i loro sguardi restino incatenati per ore, i vivi morenti che tendono la mano ai morti viventi, come in un’opera del più grande magnate dell’animazione macabre. Oppure capita che si voltino di scatto scappando l’uno dall’altra, come poli positivi di due calamite, schizzando ognuno al suo posto con il fiato corto, domandandosi con istinto quasi primordiale che cosa ci sia negli occhi dell’altro che attrae come le galassie potrebbero attrarre un astronomo che non ha avuto nulla dalla vita se non le sue stelle.
 
-Mangi qualcosa, vero?
 
-Sì, mamma. Tranquilla, non ho ancora tendenze anoressiche, puoi pure prepararmi qualcosa.
 
Non c’era nemmeno bisogno di dirlo. Caffèlatte e un paio di brioches  erano volati sul suo piatto, accompagnati dal sorriso premurosissimo di Karen e Michael, che se fossero rimasti così ancora un paio di secondi le loro facce si sarebbero strappate a metà. Bbblllll, che pensieri contorti.
 
-Preferisci  che tuo padre ti accompagni?
 
-No, prendo l’autobus come al solito.
 
La partenza per Liverpool –della quale alla fine non avevano potuto fare a meno di parlare, per pura iniziativa della stessa Kim, che aveva messo in chiaro che non avrebbe messo i bastoni tra le ruote alla vita lavorativa del padre per nessun motivo. Se doveva tornare in Inghilterra, così sarebbe stato, sarebbero partiti quanto prima e Magdeburgo sarebbe rimasta un ricordo, aveva chiarito di fronte alle facce basite dei genitori. Sarebbero tornati fra i loro conoscenti, dove si parlava la loro lingua e dove era giusto che stessero- era stata fissata per quel fine settimana, così Kim aveva ancora qualche giorno per fare il giro dei saluti, che, prometteva di continuo, non sarebbero stati addii.
 
-Torni?- le chiedevano, con gli occhi sbarrati, e lei rispondeva abbassando lo sguardo, con un sorriso sotto i baffi.
–Vedremo.
 
E poi, non poteva fare a meno di vedere Joey e Chris. E di sfottere un’ultima volta il prof di latino.
 
Quando scese dall’autobus, e percorse la breve distanza fra la fermata e l’ingresso del liceo, osservò con il naso per aria ogni singolo particolare del grigio paesaggio mattutino magdburghese, con i piccioni pigri che svolazzavano, gli studenti imbronciati che camminavano a testa bassa, e i vecchi che leggevano le disgrazie del giorno seduti sulle panchine con la vernice scrostata. Poi raggiunse le ragazze nel solito angolo imbucato del cortile.
 
-Hei- le salutò, come ogni mattina.
 
-Meh? Che hai fatto negli ultimi tre giorni?- fece con il solito tatto Chris.
 
-Potrei farvi la stessa domanda, visto che ve ne siete sparite lasciandomi a pisolare sul divano.
 
-Sembravi un angioletto, chi avrebbe avuto il coraggio di svegliarti?- ironizzò la più bassa.
 
-Pensavo che te ne fossi andata anche tu- si sorprese invece la rossa. –A dire il vero non sono stata a guardarmi troppo intorno quando ho tolto le ancore. Già era tanto se riuscivo a reggermi sui miei piedi- rifletté. –Tu invece dove cavolo eri?- chiese, rivolta a Christina, che –se possibile- sbiancò a quella domanda, per poi diventare rossa come una fragola matura.
 
-Non te ne frega- sibilò. Ebbero la buona idea di non tornare sul discorso.
 
-Piuttosto … è una cazzata da corridoio e te ne vai?- chiese di nuovo Joey.
 
-Eh, purtroppo no. Papà è stato richiamato alla sede di Liverpool, quindi … - alzò le spalle. –Torno a casa.
 
-Uh.
 
-E non ti dispiace nemmeno un po’?
 
-Sarebbe una grossa cazzata dire che non mi dispiace. Insomma, che cavolo me ne frega dell’Inghilterra. Dopo l’incidente non mi ricordo niente, e non mi sono sforzata per farlo. Però se bisogna farlo lo si fa.
 
-Ma senti che discorsetto da ragazza responsabile.
 
La campanella trillò, e tutti si diressero nella propria classe.
 
#
 
Stava di nuovo camminando, aveva salutato le ragazze, aveva fatto incazzare il prof di latino e aveva tirato frecciatine a Gertrude. Quel giorno usciva dal liceo sorridendo.
Ogni tanto si fermava a ridere, perché Chris si era rifiutata di abbracciarla, limitandosi ad una stretta di mano e ad un cenno con la testa, quasi come un saluto militare. Come un piccolo, piccolissimo generale goth che congedava un soldato che aveva fatto un buon lavoro. Joey, al contrario, le si era appesa addosso come una sanguisuga e si era lagnata che le sarebbe mancata tantissimo, e che l’avrebbe odiata e le avrebbe spedito una bomba se non l’avesse chiamata almeno una volta a settimana. Ovviamente si era fatta dare il suo indirizzo a Liverpool.
Quando, con l’aiuto di Chris, era riuscita a staccarsela di dosso, era in ritardo per l’autobus. Infatti, appena arrivata alla fermata, senza fiato, quello se ne era già ripartito.
Era rimasta qualche istante con la bocca aperta e il respiro a metà, a fissare il culo del pullman che si allontanava. Avrebbe dovuto farsi mezza Mag a piedi, ed era ora di pranzo. Quindi, avrebbe dovuto farsi mezza Mag a piedi, nell’ora di punta, con lo stomaco che si contorceva per la fame e minacciava di digerirsi da solo.
 
-Alla signorina serve un passaggio?
 
Si era voltata in preda allo spavento, al suono di quella voce vagamente familiare. E si era trovata di fronte tre ragazzotti con gli occhiali da sole e ciuffi di capelli in faccia, che sorridevano manco fossero nella pubblicità di un dentifricio.
 
-Dejà vù, eh?- aveva ironizzato, una volta capito chi si trovava di fronte. –Non credo che potremo saltare sopra un camion in pieno giorno.
 
-Beh, non giriamo mica solo di notte- aveva borbottato Schweit, riconoscibile per la zazzera bionda sotto il cappellino con il logo di Superman. –Tu Sali con Fried- aveva poi esclamato allegramente, indicando un paio di Vespe con la vernice scrostata dietro di loro.
 
-Ma siete sicuri che non ci mollino in mezzo alla strada? Insomma … quanti anni avranno quegli affari?
 
-Meredith è più affidabile del cemento armato. In fondo ha solo quindici anni!- aveva raccontato sorridente, mentre saltava sul seggiolino scricchiolante del motorino.
 
-Sarà … ma almeno ce l’avete un casco, vero?
 
-E a che serve, scusa? Imbottigliata com’è la strada, non c’è pericolo di fare incidenti, è già tanto se riusciremo ad andare a trenta all’ora. E poi con tutti quei capelli che hai! Se vuoi posso darti un cappello. Ma non so se lo stile un po’ hipster ti piace- aveva sentenziato Miles, tirando fuori un cappello nero da Dio solo sa dove.
 
-Ah. E quello da dove l’hai preso?
 
-Questo è mio, e viene dalla mia personale collezione di cappelli. Solo che con la nuova tinta non ci sta, quindi posso anche buttarlo giù da un ponte.
 
-Ma non è che il nero sta con tutto? … insomma, ne so poco di moda. Ma di questo sono sicura- fece lei, occhieggiando la pettinatura verde scuro dell’inglese.
 
-Sarà, ma non mi piace. E poi questi trogloditi dicono che è da donna. Voi con i vostri cappelletti da baseball, non capite un cavolo- borbottò, mentre saliva sul posto del passeggero dietro a Schweit, che nel frattempo aveva messo in moto.
 
Kim era ancora indecisa se fidarsi di quel rottame o no, ma d’altronde l’alternativa non era allettante. Quindi si sistemò alla meglio dietro a Fried, che scuoteva la testa e guardava il cielo sorridendo, mentre l’altro continuava a parlare di quanto fossero degli zoticoni senza buon gusto.
 
-A cosa stai pensando?- le chiese infine, una volta partiti, parlando un po’ più forte sopra il rumore dell’aria.
 
-Non so se ti va di saperlo- rispose lei, sempre gridando.
 
-Nel senso che non è il caso di parlarne su una Vespa scassata in mezzo al traffico di mezzogiorno?
 
-Esattamente.
 
-Allora mi prometti che dopo me lo dici. O è un segreto?- continuò lui, dal tono si capiva che stava sorridendo.
 
-No, dopo ve lo spiego- acconsentì alla fine.
 
-Allora è qualcosa di grosso!
 
-Uhm, diciamo di sì.
 
Proseguirono il viaggio in relativo silenzio, relativo perché mentre loro due ridevano sotto i baffi, Miles e Schweit stavano litigando su come si dovrebbe vestire un ragazzo stando alla moda ma senza sembrare una drag queen.
 
-Perché mi viene da pensare al tuo amico?- intervenne ad un certo punto Fried.
 
-Chi, Bill?
 
-Sì, lui- continuò.
 
-Nel senso che sembra una drag queen?
 
-Beh, insomma! …
 
-Senti Wanda, tu non sei molto più mascolino- intervenne Schweit.
 
-Parla quello alto mezza sega e tre mele marce- lo zittì l’altro.
 
-Senti Louis Vitton, tu e i tuoi capelli verdi e i tuoi cappelli da donna …
 
-Sono da hipster, non da donna!- protestò.
 
-Appunto, per colpa dei tuoi cappelli da donna rischiamo di schiantarci contro qualche pensionata con tutto questo blaterare!
 
-Però eri d’accordo sul fatto che non servisse procurarsi dei caschi!
 
-Oh, al diavolo- sbraitò il biondo alto mezza sega e tre mele marce, mettendo fine alla discussione fra i due.
 
-Comunque non è vero che Bill sembra una drag queen. È solo … particolare!- esclamò, mentre schivavano per un pelo una coppia di ragazzi che stavano per attraversare. O forse erano due ragazze … fatto sta che una era mora e l’altra bionda. No, aspetta …
 
-Chi diavolo erano quei due lì? Cristo, stavo per andargli addosso.
 
-Beh … - borbottò Kim, mentre si girava e alzava le spalle in un’espressione di scuse ai gemelli che la fissavano con gli occhi fuori dalle orbite, leggermente piegati in avanti. Si ripromise che li avrebbe chiamati, se mai fosse arrivata sana e salva a casa. Poi sparirono dalla vista.
 
#
 
-Eccoci qui! Sani e salvi!- annunciò Schweit una volta arrivati sotto al condominio giallo pallido. Inchiodò davanti al cancelletto.
 
-Ma porco quarantaquattro- fece Fried, fermandosi in tempo prima di piantarglisi dritto dritto sulla ruota posteriore.
 
-Non ce lo offri il pranzo, vero?- si lagnò poi il biondo.
 
-Che domande, lei è inglese. Gli inglesi sono raffinati, non ospitano in casa gli zotici sciattoni come te- borbottò Miles. Si vedeva che era ancora arrabbiato.
 
-Grazie del passaggio, ragazzi- intervenne Kim, che nel frattempo era scesa dalla Vespa e se ne stava tranquillamente andando, mentre loro avevano ricominciato a bisticciare.
 
-UH?
 
-AH?
 
-Ci vediamo più tardi?- chiese tranquillo Fried.
 
-Puoi scommetterci- acconsentì lei prima di lasciarli fuori e salire allegramente le scale.
 
-Ma … il mio cappello!
 
-Meglio che se lo tenga lei, fidati.
 
-Cosa stai insinuando?
 
-Vi prego, smettetela o giuro che vi taglio le gomme e vi lascio qui- si lamentò esasperato Fried.
 
-Non ne saresti capace- sentenziarono i due in coro.
 
-Uff. Vi prego, muoviamoci.
 
#
 
-Quindi?
 
Adesso stava seduta di fronte allo stesso muro dell’altra volta, di fianco a Fried, e guardava Christoph che pastrocchiava i suddetti mattoni.
 
-Beh, è una faccenda un po’ complicata. Tu sai che sono inglese.
 
Quello rispose con un ‘sì’ ambiguo, prolungando la vocale per spingerla ad andare avanti.
 
-Insomma, per dirla senza fronzoli, l’azienda per cui lavora mio padre ha sedi più o meno ovunque. Eravamo venuti qui perché a Liverpool c’era stato un incidente e non ci si poteva più stare, fondamentalmente.
 
-E adesso hanno messo a posto il casino e vi hanno detto di tornare.
 
-Ma guarda un po’ il piccolo genio!
 
-No, niente complimenti per lui, che poi lo metti in imbarazzo- intervenne Albert.
 
-E tu da dove vieni?
 
-Direttamente dall’Inferno, muahahaha.
 
-Non c’è da sorprendersi.
 
-Ehi. Guarda che lo prendo come un complimento.
 
-Beato te.
 
Nel frattempo Miles aveva raggiunto il gruppo. –Maaa … - si era infilato nella conversazione. –Quindi ho capito bene? Torni a casuccia?
 
-Eh, sì. Mi dispiace …- attaccò Kim, con tutta l’intenzione di fare un bel discorso commemorativo da ridurre tutti in lacrime.
 
-È OVVIO CHE TI DISPIACE!- esclamò Christoph, voltandosi improvvisamente. –Lasciarci così, abbandonati a noi stessi! Vorrei vedere a chi non dispiacerebbe.
 
-Nah, l’Inghilterra è molto più bella di qui. Molto più elegante e trendy di voi tedeschi zotici- sentenziò Miles.
 
-OH CRISTO- si lagnò Schweit, che era rimasto in silenzio a meditare sul senso della vita fino a quel momento.
 
-Ce l’ha ancora per quella storia?- chiese incredulo Fried.
 
-Senti denti-gialli- fece Cristoph tornando ai suoi scarabocchi. –Da quando sei navigato sull’altra sponda?
 
-Che io sia alla moda non significa che io sia gay. Che poi che te ne frega? Se fossi gay non saresti più mio amico?! … - strillò.
 
-Vi prego, fermatelo prima che cominci uno dei suoi discorsi filosofici sull’omofobia- disse Albert, voltandosi dall’altra parte. Così, mentre Miles marciava avanti e indietro per il vicolo brandendo la sua bandierina arcobaleno, i ragazzi ricominciarono a parlare.
 
-E cosa pensi di fare una volta lì? …
 
-Mah. Non saprei. So che mi annoierò a morte per due anni, perché sarò in mezzo ad un sacco di gente di cui non ricordo niente, che mi assillerà da mattina a sera con un sacco di domande tipo ‘com’era la Germania?’ ‘è vero che conosci i gemelli Kaulitz?’ e ‘ti ricordi di me, vero?’ …
 
Cristoph rise sguaiatamente, tenendosi le mani sulla pancia. –Allora felice soggiorno! …
 
-Perché ‘per due anni’?- chiese invece Fried.
 
-Perché … - abbassò gli occhi e fece un sorriso malizioso. –State bene attenti, perché siete gli unici a cui lo dico …
 
Tutti, Miles compreso, si avvicinarono per sentire il suo piano malefico.
 
#
 
-Pronto?
 
-Pronto? Kim?
 
-Sì, sono io.
 
-Ah, ciao.
 
Attimo di silenzio …
 
-Scommetto che non stai nella pelle dal sapere cosa facevo questa mattina su una Vespa scassata in centro a Magdeburgo accompagnata da tre matti da legare …
 
-Beh, ci hai visto giusto- sorrise Bill all’altro capo.
 
-Ho semplicemente perso l’autobus, con i saluti a destra e manca …
 
-AH. Ma quindi sono sempre loro! …
 
-Esatto. Vedi? … secondo me quei ragazzi si sono messi d’accordo con l’autista.
 
-Può darsi. Anche se non vedo chi dovrebbe guadagnarci. Boh, noi tedeschi siamo strani.
 
-E zoticoni, a detta di quello con i capelli verdi.
 
-Ah, quello che urlava? …
 
-Sì- soffocò una risata al pensiero.
 
-Beh, io non sono zoticone. Non come Tom, almeno- la protesta di Tom si sentì chiara in sottofondo.
 
-Credo che siano d’accordo … si ricordano di te.
 
-Ah, fantastico.
 
Altro istante silenzioso …
 
-Ma quindi te ne vai? … - chiese incerto Bill dopo un po’.
 
-Sì- sospirò lei. Pensarlo non era difficile … ma dirlo, alla persona che più di tutte sapeva che ci sarebbe rimasta male, le chiudeva la bocca dello stomaco.
 
-…ah. E quando posso venire a salutarti? …
 
‘Qui, subito, adesso anche se questi trenta metri quadrati di appartamento sono peggio di un bazar a cielo aperto, mia madre è isterica e siccome i miei vestiti sono in fondo alla valigia ho addosso gli stessi jeans da ieri, tu puoi venire qui in questo preciso momento se vuoi, e …’ –Fra un paio di giorni in aeroporto, credo. A meno che mia madre non decida di darmi qualche oretta libera … siamo praticamente impiantati in mezzo al trasloco… eh, eh- al telefono suonava come una risata triste, ma chi avesse visto la faccia di Kim avrebbe notato una certa somiglianza con il ghigno straziato di un cantante che urla una canzone drammatica.
 
-Eh … ti capisco- fece il ragazzo all’altro capo, perché capiva perfettamente due cose: primo, la situazione frenetica in cui si trovava in quel momento, con la polvere che galleggia per casa, mutande e calzini ovunque e un paio di genitori isterici; secondo, quanto avesse voglia di uscire anche spaccando il muro se necessario e fiondarsi fra le sue braccia e non staccarsi mai. Necessità perfettamente condivisa.
-Allora ci vediamo … presto.
 
-Presto … ciao, Kim- lui fece per riattaccare.
 
-Uh, Bill- lo interruppe lei.
 
-Sì?...
 
-Ti voglio bene.
 
-E ti mancherò, giusto?
 
-Mi hai rubato le parole di bocca, eh … eh …
 
-Allora te le rigiro da parte di tutta la band.
 
Kim sorrise. Le sarebbero mancati sul serio. Riattaccò.
 
 
 
No, non ve lo dico il piano malefico. Lo conoscere il prossimo-prossimo capitolo, che sarà anche l’ultimo. Quindi preparatevi psicologicamente. @_@
Avvertenza: i riferimenti a cantanti che cantano canzoni drammatiche con ghigni straziati non riguardano in NESSUN MODO Helena dei MCR. Noohh. Ma come potete anche solo averlo pensato. –consiglio per i Killjoys. Cercate il mashup Photograph of Helena, perché è tipo una strafigata. Vi avverto che (sarò strana io) ma me lo ascolto sempre con il magone, crispio)-
Baci a tutti Fairly Locals. :****        …e grazie ancora per resistere a questo sclero. La prossima pubblicazione sarà per One Story, che sono un attimo indietro. °-°  Ciaoooooo-oh-oh-oh-oh-ooooh.            Lisa^^

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Capitolo 27
*** Thanks for the sweetest memories ***


Ed ecco a voi il fantomatico Ultimo Capitolo. Preparate i fazzoletti e l'insulina, ce ne sarà bisogno :') ok basta non rompo più :*



A Magdeburgo la mattina presto fa freddo.
Parecchio freddo.
E Kim lo stava imparando a proprie spese, con le braccia strette intorno al torace, in mezzo ad un’isola di valigie giallo limone sul marciapiede, aspettando un taxi che portasse lei e i suoi genitori all’aeroporto.
-Certo che i tassisti tedeschi non hanno fretta la mattina- commentò suo padre, scrutando il fondo della strada, con una mano sulla fronte, cercando di scorgere qualche auto con il tanto desiderato cartellino sul tettuccio.
-Anche tu, però, potevi anche cercare un volo che non partisse alle 7:30 di mattina. Forse avremmo avuto qualche possibilità in più di non arrivare in aeroporto con l’ultimo taxi raccattato nei vicoli di questa città- lo rimbeccò acida Karen, che in vista della partenza, iniziava a nutrire una certa repulsione verso tutto ciò che era più tedesco del necessario. Ergo: non avrebbe sopportato un altro giorno in Germania.
-Sentite, non è colpa mia. Era l’unico dove ci fossero tre posti vicini, due con finestrino.
-E cosa ci importa del finestrino?!
-Importa a me! Preferisci che ti vomiti tutta la colazione sulle scarpe? …
Era già da un po’ che i suoi andavano avanti a tirarsi frecciatine, e a lei iniziavano a congelarsi i piedi. Avrebbe tanto voluto una di quelle Vespe scassate che, seppur portassero addosso un immenso rischio di prendersi una multa per chissà quante infrazioni, almeno funzionavano e potevano trasportare persone. Si era veramente rotta le scatole di aspettare.
E aveva i piedi congelati.
-Mamma …
-Che posso farci io se il frigo era totalmente vuoto?! Potresti anche andarci tu a fare la spesa, ogni tanto!
-Ma lo sai che io con il tedesco non capisco un corno! Già è tanto se la cucino, la roba che porti a casa!
-Mamma, cavolo, non aspetterà ancora tanto se continuate a bisticciare in quel modo!- strillò esasperata Kim dopo un po’.
I due litiganti si zittirono di colpo, girandosi verso la figlia, che era riuscita –a quanto pare- a beccare un tassista, che sembrava piuttosto impaziente di partire.
Non persero tempo e si schiacciarono immediatamente nel divanetto posteriore.
-Come si dice ‘aeroporto’?- chiese il padre, in preda ad un vuoto di memoria degno di una ragazzina durante l’esame di terza media.
-Flaughafen- borbottò Kim, mezza schiacciata contro la portiera.
-Ah, giusto. Al flaughafen- riferì al tassista, che se non altro aveva capito dove quei tre disgraziati dovessero andare, e non fece altre domande.
Kim sospirò, e schiacciò la fronte contro il vetro gelido del finestrino. Non è che avesse tutta questa gran voglia di andarsene. E i ragazzi che lasciava non erano l’unico problema: in fondo, quelle che erano diventate le sue migliori amiche –Joey e Chris- le poteva ancora chiamare al telefono, o via Skype. In fondo, i ragazzi che le avevano insegnato come ci si salva il fondoschiena se si resta chiusi fuori di casa alle due di notte, era sicura che se li sarebbe ritrovati anche sotto casa a Liverpool, tanto erano praticamente ovunque. In fondo, lo specchio con il quale si era colorata le ciocche di blu non era diverso da quello che c’era in camera sua, a casa, e poi, aveva pure imparato un’altra lingua, che non fa mai male.
In fondo, abbandonare quei due grandi occhioni truccati a sé stessi non era il problema più grosso.
Il problema più grosso era: che faccio quando arrivo lì? Non mi ricordo un cavolo dell’Inghilterra. Tutto ciò che c’era prima del colpo in testa era buio e confuso, seppur in quei pochi mesi, si era rifatta una vita a Magdeburgo. Adesso la città sconosciuta sarebbe stata Liverpool, dove era nata e cresciuta. Adesso gli estranei sarebbero stati i suoi compagni di classe, con cui aveva passato maggior parte del suo tempo fino ad allora. Beh, magari non per forza tutti. Cristopher, con i capelli sparati su con il gel e la maglia die Green Day, che voleva essere il futuro Mike Dirnt, se lo ricordava benissimo. Anche la ragazza che l’aveva chiamata subito dopo l’incidente, una certa Natalie, forse, se la ricordava più o meno. Ma non aveva tanti altri esempi da fare. Ne era sicura, la vita a Liverpool sarebbe stata una continua gaffe.
Questo era il problema più grande.
 
Non era vero.
Se ne fregava altamente delle brutte figure che avrebbe fatto perché non si ricordava niente e nessuno, come se ne fregava altamente che nessuno avrebbe più prestato troppa attenzione alla matta che aveva perso la memoria, era andata via, ed era tornata con l’accento tedesco e una grossa confusione in mente.
Il problema più grosso era proprio abbandonare quei due grandi occhioni truccati a sé stessi, perché in fondo non ricordava più tanto nemmeno su quegli occhi, almeno non tanto quanto sarebbe servito per dire di conoscerli davvero. Cosa c’era stato tra quegli occhi e i suoi? Cosa dovevano dirle, ogni volta che le si rivolgevano, pieni di tutto  e pieni di niente? Non lo sapeva, ma lo sapeva, in fondo, bastava andare a pescarlo dal fondo di tutto il mare incasinato che c’era nella sua testa. E non poteva farlo da sola. E non era nemmeno questo il problema più grosso, di nuovo. Non era cercare di ricordare cosa significasse quel ragazzo che non era un ragazzo per lei, ma sopravvivere senza. Senza sapere, senza ricordare, ma anche più semplicemente senza averlo vicino e poterglielo chiedere.
No, non glielo voleva chiedere. Non l’avrebbe mai fatto, perché solo un’oca stupida lo farebbe. Però avrebbe potuto scoprirlo. Ma non poteva scoprire proprio un cavolo marcio se volava via, lontano chilometri e chilometri.
Bill era famoso, e informazioni su di lui si trovavano ovunque. Ma quella non era una domanda che poteva essere risolta leggendo un giornale per tredicenni.
E se avesse semplicemente provato a dimenticarsene? Ok, era impossibile, ma se ci avesse provato? Melodrammi Shakespeariani a parte, forse avrebbe anche potuto farcela. In fondo cos’era Bill Kaulitz per lei? … non era mica innamorata.
Eeeek. Fitta allo stomaco. Bugia.
Piuttosto stupida anche. Bugia grossa e stupida: non avrebbe potuto rinchiuderlo in un angolino della sua testa. Non per sempre. Ma neanche per poco tempo. Non ci sarebbe riuscita proprio.
Perché in fondo, si sarebbe innamorata di Bill Kaulitz comunque. Era una cosa ovvia, da DNA. Se non lo avesse mai conosciuto  non sarebbe ovviamente successo, avrebbe conosciuto tante altre persone, avrebbe avuto una vita diversa. Ma era successo, le loro strade si erano incrociate, e seppur sotto gli occhi di tutti e condividendo il tempo in cose abbastanza stupide, come uccidere i Sim o mangiare patatine piccanti, cantare una canzone più vecchia di loro o guardarsi negli occhi in videochiamata, si erano lentamente incollati l’uno all’altra, senza poterci fare più di tanto: lui e i suoi occhi profondi e pieni di storie. La sua voce che le cantava tutti i giorni, a milioni di persone che le facevano proprie, nel profondo, profondo delle proprie vite. La sua risata e il brillio nei suoi occhi, che, puoi parlare quanto vuoi, ma vengono fuori sempre, di continuo; perché ti monopolizzano, ti inchiodano, ti piantano in asso e non ti mollano più.
Ma lui, che era una creatura così fragile e meravigliosa, cosa mai ci aveva trovato in una come Kim? Cosa aveva di particolare? Cosa poteva possere, per essere così speciale da attrarre una fata?
Non poteva saperlo, non lo immaginava, non se lo ricordava. Che scusa frequente. Non gliel’avrebbe chiesto. Assolutmaente no.
-Hei? … Kim? Ci sei?!
-Uh? AH! Sì, arrivo- si diede una scrollatina di spalle, si aggiustò il cappello in testa –era ancora il cappellino nero che le aveva prestato Miles. Aveva deciso che non gliel’avrebbe ridato, se lo sarebbe tenuto perché le stava bene e le piaceva pure- e sgusciò fuori dalla macchina ringraziando il tassista.
Si trascinò fino all’entrata dell’aeroporto, un enorme edificio in vetro e cemento da cui si scorgevano partire i primi velivoli della mattinata: in breve furono tutti e tre stravaccati sulle poltroncine di plastica della sala „per chi non ha voglia di aspettare in mezzo a tutto il fracasso di persone che vanno avanti e indietro“. Anche se alle 7:00 di mattina, seppur in una città di discreta grandezza come Magdeburgo, non è che ci sia tutto questo movimento in aeroporto. Diciamocelo, erano semplicemente spolpi e non avevano voglia di stare in piedi.
-Tesoro, io vado in bagno. Vieni con me?- fece la madre alzandosi.
Entrambi gli altri due scattarono su, con un mugugno collettivo.
-A chi ti riferisci?
-A Kim- spiegò lei voltandosi. –Con te sono ancora arrabbiata per la questione della colazione.
-Oh, Santo Cielo! Non è possibile!- di disperò l’uomo, mettendosi le mani nei capelli e guadagnandosi un’occhiata solidale da un uomo che passava in quel momento. Beh, Dio, definirlo uomo era tanto, avrà avuto sui vent’anni. Vent’anni e i capelli piuttosto lunghi.
-Georg?
-E alla fine ci si ribecca in ogni caso, eh?- disse allegramente, per poi stravaccarsi sulla sedia libera vicino a Kim.
-Come fai a sapere che ero qui?
-C’è solo un aeroporto a Mag. E un solo volo per Londra prima di mezzogiorno … immaginavo voleste evitare di arrivare a casa a notte fonda, quindi non potevate trovarvi altrove che qui- rispose, esprimendo tutta la sua finta modestia.
-E come le sai tutte queste cose scusa?- chiese Kim, che era rimasta più o meno ferma a „mezzogiorno“.
-Si chiamano polizieschi, e io ne guardo troppi.
-Già, me ne ero accorta.
Rimasero un attimo in silenzio, a fissare il culo grasso di una signora con un’enorme valigia fucsia acceso.
-Ma il basso lo suonavi ancora?- chiese lui dopo un po‘.
-Certo. Cioè, ogni tanto. Strimpellavo senza amplificatore. Sai, siamo in un condominio- spiegò. Poi si morse la lingua, perché non stanno in condominio. Stavano. E se ne stavano andando.
-Al diavolo le chiacchiere perditempo. A cosa pensi?
-Che non ho voglia di tornare a Liverpool.
-Solo?
-Tanto lo sai a cosa sto pensando- sbuffò la ragazza, scivolando sulla sedia.
-Capisco. Ma è definitivo?
-Cosa?
-Che te ne vai. Intendo dire … non torni proprio mai più?
-Sembri me a cinque anni quando mio zio si travestiva da Babbo Natale per portarci i regali- borbottò. –Mi appendevo alla barba finta e gli chiedevo quando sarebbe tornato.
Il bassista rise, di quella sua risata grossa e sincera.
-Dai, cavolo, rispondi.
-Mh … perché?- mugugnò, sorridendo.
-Perché stai ridendo?
-Che ne so io!
-Ok, smettila. Puoi rispondere alla mia domanda?
-No.
-No cosa?!
-No! La tua domanda.
-No nel senso che non vuoi rispondere o nel senso che non torni mai più?
-No!
-NO COSA?! Mi stai mandando in confusione!- strillò in preda al panico. Adesso era Kim che rideva.
-Beh, secondo me … se cerchi bene nel tuo cuore, dice il saggio, vedrai che conosci la risposta!- si limitò a recitare lei, con la voce da grosso e grasso vecchio cinese.
-Uffa. Mi hai rotto.
-E allora cosa fai ancora qua?
-Cosa diavolo hai contro di me?! Ti diverti?
-Certo che mi diverto!- continuò con la sua risata sadica, finché Georg non si arrese e sbuffò, sprofondando anche lui sullo schienale della sedia si plastica.
-Questi affari sono scomodi.
-Già.
-Tua madre?
-In bagno.
-Ah. Giusto.
Silenzio.
-Certo che ne hai tu di buona volontà. Io non mi alzerei presto la domenica mattina per andare in posti deprimenti come gli aeroporti.
-Invece, siccome io sono un bravissimo amico, sono venuto a salutarti.
-Dovrebbero darti un Nobel, allora.
-Mi sono già candidato, per quello ... mi hanno dato la nomination.
-Stai confondendo i premi. Quello è l’Oscar.
-Uh?- il bassista si accigliò. –Può darsi. Non mi intendo di teatro.
-L’Oscar si dà agli attori, Georg- rise Kim sotto i baffi.
-Oh, quello che è. Fatto sta che io sono il migliore amico del mondo, e tu sei una persona fortunata ad avermi conosciuto- proclamò soddisfatto.
Kim sorrise.
 Altro silenzio.
-Sono quasi le 7:20- mormorò Kim, sovrappensiero.
-Non ti garba l’idea di andartene. Lo so, me l’hai già detto e non vuoi che te lo ripeta! Sto zitto.
-Bravo.
-Lo so. Sono il miglior amico del mondo!
A quelle parole Karen spuntò dall’angolo, facendo schioccare le mani:
-Allora? Sveglia tuo padre, che fra poco si parte. Oh, ciao Georg! Non ti avevo visto! Che bravo ragazzo, si presenta sempre. Non ce ne sono più tanti del genere, in giro- trillò allegra, saltellando verso il mucchio di bagagli che stava in parte alla fila di sedie.
Lui ricambiò con un cenno del capo, per poi mormorare, senza farsi sentire:
-Non vede l’ora, eh?
-E‘ la più contenta dei tre- rispose Kim fissando la madre. –Beh, direi che è giunto il momento di salutarci!- fece poi, scattando in piedi.
-A presto, soldato Wendell- proclamò sollenemente il bassista, tendendole la mano.
Kim la strinse con forza, le tornò in mente quel primo giorno sulla panchina.
-Allora, pronta?-  i suoi genitori la aspettavano, con le valigie in mano, sulla porta della Saletta.
Lei rivolse un sorriso già nostalgico al ragazzo, che la salutò con la mano. Poi si accodò ai due.
 
#
Era di nuovo seduta, su una specie di blocco di cemento, appena fuori dallo stabile dell’aeroporto. I suoi erano insieme al gruppo di passeggeri che aspettavano di salire sull’aereo, le valigie erano già state caricate.
Sapeva benissimo che era impossibile, ma spesso le piaceva affermare di star guardando il vento che passa. E non è possibile perché l’aria è trasparente, però lei guardava comunque il vento che tirava. Ed era rilassante.
-Carino il cappello. Ti sta bene.
Uh? Già era strano che il vento si vedesse, ma che parlasse era piuttosto impensabile. Girò di novanta gradi (sì, proprio novanta gradi!), e si trovò faccia a faccia … con un ciuffo di capelli in faccia, che le solleticavano il naso.
-Oh, scusa, avevo qualcosa sulla scarpa- fece di nuovo la voce del vento, che non era il vento ma era il ragazzo celato dietro a tutti quei capelli, che alzò il viso e le rivolse un sorriso largo e triste come quello di uno di quei cuccioli che sembrano sempre tristi.
-Oh- sussultò, stupita. A dire il vero se l’aspettava. Insomma, aveva passato tutta la mattinata ad immaginarselo. –Bill. Sei venuto da solo?
-Sono venuto con Georg. Non l’hai visto, prima?- adesso aveva spalancato ancora di più gli occhi. Quant’erano belli. Gliel’avrebbe mai detto? Magari era solo la sua immaginazione da calo di caffeina.
-Oh, certo. È passato a salutarmi.
Il ragazzo si voltò, tornando a sorridere.
-I tuoi capelli provocano un moto d’aria- commentò Kim, spostando un ciuffo che le si era infilato in un occhio.
-Oh, lo so. Sono terribili. C’è ancora tutta la lacca di ieri, non mi sono nemmeno fatto una doccia e ora sono completamente sparati a caso. A volte vorrei tagliarmeli a un millimetro, come quelli dei marines- borbottò imbronciandosi. –Credo che sarei carino come skinhead.
Dovette trattenersi dal dirgli che sarebbe stato carino in ogni caso. –Non so come la prenderebbero i tuoi fan … beh, se proprio vuoi provare, potresti sparire nel nulla e cambiare identità, poi andare a vivere in un posto dimenticato da Dio e lì potresti anche tagliarti i capelli a un centimetro e colorarteli di rosa acceso, per quello che ne so io.
-Uhm … rosa acceso, dici?- sembrò rifletterci seriamente. –Lo appunterò nella lista di cose da fare.
-Però dovresti colorarti anche le ciglia, secondo me. Per dare più coordinazione, sai- ma che cavolo stava dicendo. Era completamente fusa.
-E tu ci verresti?- fece lui, dopo un po‘.
-Dove?- Kim cadde di nuovo dalle nuvole.
-Nel paese dimenticato da Dio. Non ci andrei da solo.
-Certo che verrei con te. Che domande. E se vuoi, mi raserò i capelli a un centimetro e li colorerò di verde acido, per farti compagnia.
-Piuttosto che compagnia faremo la coppia di matti con qualche ingranaggio che non va- disse lui, sghignazzando.
-I matti del paese dimenticato da Dio. Mi aggrada, come futuro.
Il viso del ragazzo si coprì di un evidente velo di malinconia. Era come un disegno, un manga giapponese in cui ogni espressione del viso era moltiplicata per mille e mille ancora. Un libro spalancato.
-Quando tornerai?- chiese poi.
Kim non rispose subito. Non le aveva chiesto Se, le aveva chiesto Quando. Non serviva nemmeno dirglielo, lo sapeva già.
-Perché mi mancherai. Te ne sei già andata una volta- sussurrò più a sé stesso che a lei.
Kim si voltò completamente verso il ragazzo, e senza nemmeno pensare a cosa cavolo stesse facendo, si mise in ginocchio sul blocco di cemento in modo da guardarlo bene negli occhi, e gli afferrò letteralmente il viso, schiacciandogli le guance fra i palmi delle sue mani. Era sicura che visti da un’altra angolazione dovevano essere esilaranti, ma aveva assolutamente bisogno di …
-Tu sai che non ti lascerò mai da solo. È inutile che te lo chiedi, e che ti arrovelli su questo. Te lo prometto sul mio cappello nuovo, sui tuoi capelli e sul paese dimenticato da Dio, su questo coso dove siamo seduti che non so a cosa serva, su ogni cosa che ci sta intorno e su ogni persona sulla faccia della terra- partì in quarta, incollando il suo sguardo verde e agitato in quello castano e perso del ragazzo a pochi centimetri da lei. –Devo confidarti un segreto. Ti ho sognato. Più di una volta. Ti sognavo di continuo, quando era ancora a Liverpool; quando ero in una sorta di coma e non avevo davvero la più pallida idea di chi fossi. Apparivi a caso, e mi fissavi negli occhi proprio come stai facendo adesso, e poi sparivi e io ci restavo malissimo, perché tutto tutto diventava immensamente grigio e senza senso, a quel punto avevo solo voglia di svegliarmi e … e non lo so, pensavo che se mi fossi svegliata ti avrei visto. In un certo senso era così, eri ovunque. Dentro il mio armadio, c’erano decine di foto con la tua faccia sopra. Mi tormentavo tutti i giorni su chi diavolo fossi. Vedevo i tuoi occhi dappertutto. Fermavo le ragazze con i capelli neri per strada e facevo un sacco di brutte figure, poi sono dovuta venire qui, e oh, non sai che paura avevo di essermi allontanata ancora di più dalle mie speranze di vederti. E poi mi sei comparso in parte, su una panchina totalmente a caso di un parco senza senso, e non sai quanto ti ho sognato quella notte, e … Cristo, non sai quante cose vorrei spaccare se ciò servisse a permettermi di rimanere con te, non ti lascerei da solo nemmeno per tutto l’oro del mondo, piuttosto ti ucciderei e poi ucciderei me stessa per sperare di riverderti anche in un mondo dopo questo; lo so, forse ti sto spaventando?...- non sapeva definire se fosse puro terrore quello che si rifletteva nelle iridi nocciola del ragazzo o qualche luce strana e non definita, in effetti aveva veramente paura di essere stata scambiata per una maniaca pazzoide, forse raccontare di tutti i suoi sogni da fuoriuscita mentale non era stata la più grande idea del mondo. Beh, fatto sta che, forse per il principio dell’American Psycho che deve avere il suo corrisposto American Beauty, anche se nessuno dei due era americano, forse bastava il fatto che lei fosse assolutamente pshyco e lui assolutamente beauty (di solito non funziona così, ma loro erano un caso speciale); Bill non ebbe reazioni strane: le afferrò il fantastico cappello nero, che aveva quella foggia un po‘ da mafioso napoletano, sicuramente sarebbe stato bene anche a lui, ce l’aveva un nome, quel tipo di cappello, ora non gli veniva in mente, magari se lo sarebbe ricordato e avrebbe potuto scriverglielo per messaggio, o sussurrarglielo all’orecchio sotto le stelle; ma a noi non interessa del cappello. La tirò verso di se e si buttò sulle sue labbra agitate, magari perché aveva sempre voluto farlo, magari perché la amava, magari solo per farla stare zitta; fatto sta che si baciarono, si baciarono come i matti, su un blocco di cemento messo a caso da un ingegnere che non aveva niente di meglio da fare in parte ad una pista d’atterraggio, in mezzo al fracasso di aerei che andavano e venivano e persone che parlavano, che erano in ritardo, in anticipo, il traffico aereo era una brutta roba, che queste assistenti di volo sono incompetenti, che questa gioventù con la capiscono, che questi due cosa cavolo stavano facendo.
E per la prima volta, o la decima o la millesima, Kim non lo sapeva, ma le esplose dietro le palpebre un’immagine distinta, delle luci della sera di Parigi, della Tour Eiffel che si stagliava contro il cielo, della Senna che scorreva e di altre persone, che ridevano e parlavano in francese, strascicando le parole e arrotolando le r, e di due ragazzi, che erano proprio loro due, sì erano proprio Kim Wendell e Bill Kaulitz, che si baciavano, perché questo i ragazzi fanno, i ragazzi innamorati in una città come Parigi, su un ponte che chissenefrega come si chiama, i piedi inchiodati su mattoni millenari che cadono a pezzi e la testa tra le nuvole, tra le ali degli angeli che per una volta scendevano a vedere, i loro fratelli giovani con le ali tagliate, abbandonati a sé stessi, su una terra che non capisce niente. E voleva quasi piangere, perché si cavolo, si ricordava chi era Bill. Bill era la persona più splendida e la maledizione più terribile che potesse capitare, e non importava quanto queste frasi fossero dette e stradette da milioni di poeti senza arte né parte, ma in fondo se qualcuno si era inventato una frase del genere significava che un senso ce l’aveva.
 
#
-Kim?

-Kim, stiamo perdendo l’aereo.
Si staccarono di colpo, e per poco non rotolarono giù dal blocco di cemento come due dolci cioccolatini abbandonati a sé stessi.
Anzi, altro che per poco, fecero un bel ruzzolone in mezzo alle gambe di una signora che stava al telefono proprio in parte a loro.
-AH!- urlò Kim
-AAAAGH!- strillò la signora.
-CI SCUSI!- piagnucolò mortificato Bill.
-CHIAMATE LA POLIZIA!!
-Stia tranquilla, signora, va tutto bene, non vogliono farle nulla di male. Adesso ce ne andiamo- intervenne Karen, esibendo uno dei suoi sorrisi rassicuranti e trascinando via il groviglio unico di gambe, braccia capelli –e cappelli- che era diventata sua figlia assieme al vocalist, sotto gli sguardi sospettosi degli altri passegeri.
-Vi dispiace sgrovigliarvi, ora, senza dare troppo nell’occhio?- sussurrò all’orecchio di Bill, continuando a sorridere alla gente.
-Ci stiamo provando- borbottò Kim, disincastrando un ciuffo blu dal piercing al sopracciglio del … fidanzato? Ragazzo? Amico? Metà? Si era largamente stufata di farsi domande di questo tipo. Perciò diede fine alla diattriba una volta per tutte:
-Bill?- sussurrò, mentre recuperava il cappello.
-Sì?- rispose lui, mentre guardava con orrore un’unghia malamente rotta.
-Cosa siamo adesso?- continuò, lasciando perdere il cappello e guardando il ragazzo negli occhi, il quale lasciò perdere l’unghia a sua volta per ricambiare lo sguardo.
Incatenarono i loro occhi per un breve ma intenso lasso di tempo, pochi secondi in cui venivano catapultati in un universo verde e nocciola, pieno di riflessi e di mascara, di luci e di ombre, di speranze e grumi di eyeleiner.
-Siamo … non so. Non mi interessa. Non mi piacciono le etichette. Credo nemmeno a te. Mi basta sapere che significhiamo qualcosa. E che non ci separeremo. Giusto? Non ci separeremo, Kim?- mormorò, la voce che era salita di un’ottava.
-N…no. No, mai. Finché sarò presente su questa terra, no- rispose Kim. –E nemmeno dopo.
Il ragazzo sorrise, abbassando le palpebre e chiudendo l’universo verde e nocciola. Rise, e appoggiò la fronte a quella della ragazza. Poi la abbracciò. Forte.
Parecchio forte.
-Ragazzi, mi rincresce in un modo incredibile interrompervi, ma stanno per partire senza di noi- li avvisò il padre di Kim, non senza una nota di dispiacere nella voce.
I due si staccarono –di nuovo-, e si guardarono intorno. Un piccolo capannello di persone si era raccolto intorno a loro, come nei film di Natale, dove di solito a questo punto inizia a nevicare, ma sarebbe meglio di no, altrimenti dovrebbero rimandare i voli, il che sarebbe grandemente apprezzato dai due, ma sarebbe comunque meglio di no.
-Ti prometto che tornerò. Guarda che l’ho detto solo a te- disse Kim, alzando la testa e abbassando le spalle, come quando bisogna annunciare qualcosa di importante. –Beh, a dire il vero l’ho detto anche ad altri ragazzi, ma …  a te questo non interessa. Sappi solo che mi rivedrai. Non fra troppo tempo.
Bill sorrise. Del suo sorriso felice e disarmante da panda troppo magro.
-D’accordo. Sappi che ti credo.
-Non mi permetterei mai di dirti una bugia, dovresti immaginarlo- fece quasi per rimproverarlo, ma suonava come una specie di supplica.
Lui non disse niente. Si limitò ad un abbraccio di slancio, poi la spinse via e arretrò, con le mani dietro la schiena.
A quel punto lei si girò, e si diresse verso la scala che portava al portellone d’entrata, girandosi più o meno ogni tredici secondi verso Bill, che nel frattempo continuava ad indietreggiare e sorridere, ogni volta sempre di più. Giusto un secondo prima che un grosso signore la spingesse dentro l’aereo, fece in tempo a sentirlo dire:
-Fra i bagagli, c’è qualcosa di tuo!
Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo, e le sembrò che lui rispondesse qualcosa come:
-Georg ha detto che te lo stavi dimenticando!
Ma era già dentro, ed era talmente ubriaca di felicità e meraviglia che poteva sentire qualsiasi cosa.
 
#
 
Mentre l’aereo decollava, lei ovviamente con gli occhi fissi sulla pista, sarà stata sicuramente la sua immaginazione, ma le sembrò di vedere un Georg che le faceva una sorta di occhiolino, seminascosto dietro ad un tizio enormemente grosso.
 
 
 
WOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO
I LOVE THE WAAYYY
I LOVE THE WAYYYYYY
I LOVE THE WAYYYY YOU HURT ME BABYYYYYYYYYYYYYYYYYY
Salve a tutti i boys & gurls che hanno avuto la curiosità, il coraggio e il buon cuore di arrivare fin qui a leggere questo mio grande sclero, prima produzione in assoluto nel grande ed immenso regno delle FANFICTION! :DDD
… lo so che a tutti è venuto un grande attacco di diabete verso la fine, però … non potevo non esagerare con il miele –a parte il fatto che avrò riscritto l’ultima parte qualcosa come quindici volte- . E poi, dai, ditelo che adorate il miele. >:DDD     *feeling diabolic*
Ecco, una roba: a partire dal punto in cui il papà chiede come si dice aeroporto in tedesco c’è più o meno il 100‘000‘000% di probabilità che siano comparsi strafalcioni, parole in tedesco invece che italiano e orrori grammaticali, questo perché word ha iniziato a prendere tutto in tedesco e ho dovuto disattivare la segnalazione degli errori (=non avevo voglia di cercare come rimettere in italiano, anche perché non è la prima volta che mi succede ed è una vera rottura di palle). Quindi, grande SORRY per questo piccolo problem. (nota: il discorso dell’American Beauty/American Psycho è frutto del mio prolungato ascolto dell’omonima canzone dei Fall Out Boy. Se non avete niente da fare andate ad ascoltarli perché sono persone FIGHE)
…. E NIENTE! La storia finisce qui grazie ciao. : ))))))
 
HAAA HAAAA CI SIETE CASCATI non è vero. Ci sentiamo fra pochi giorni –il tempo di scriverlo e capacitarmi del fatto che l’ho finita- per l’epilogo, carucci. Lo sooo che mi volete bene. Perciò ora mi volatilizzo. :**
Un baciottone mega enorme a tutti coloro che hanno letto/recensito/anche solo visto questa storia. Vi adoro tutti quanti, in particolare la Marty_K che è una persona fantastica davanti a cui tutti dovreste inchinarvi. *gli angeli discendono e iniziano a suonare la cetra* *una luce dorata illumina il tutto* *Marty mi tira uno scapellotto* *cado dal secondo piano e mi rompo un piede* *arriva Gerard* *REMEMBER WHEN YOU BROKE YOUR FOOT FROM JUMPING OUT THE SECOND FLOOR* -no ok lascia perdere quest’ultima parte dovevo sclerare ancora un po‘.
VI VOGLIO BENE UN CASINO         CIAO           BUONE RENNE E FOGLIE GIALLE A TUTTI    L’AUTUNNO È FIGHISSIMO    Lisa^^

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Capitolo 28
*** Epilogo ***


Hey boys & gurls. Incredibile ma vero, siamo arrivati all’EPILOGO DI QUESTA STORIA INFINITA! Dai, ditelo che un po‘ vi dispiace. Perché in fondo a me dispiace un pozzo (?), e non so se sopravviverò senza l’ansia di dover aggiornare You Can Remember. Voi che dite? Che se sono sopravvissuta all’influenza sopravviverò a tutto (questo per dirvi: COPRITEVI CHE FUORI FA FREDDO, NON FATE COME ME CHE MI SONO FATTA DUE GIORNI A LETTO E HO ANCORA IL MAL DI GOLA. Tutto ciò è tragicamente tragico D: )? Speriamo. Adesso me ne vado e vi lascio a leggere :** baci guys :D


Da dieci minuti si sentiva un nitido e fastidioso bussare alla porta. E siccome ovviamente nessuno aveva voglia di alzarsi e andare ad aprire, il rumore continuava.
-Oh, Kim, ti prego. È sempre la moglie del vicino, che viene a lamentarsi perché ieri stavate suonando. Vai a chiedere scusa e chiudila fuori- borbottò Karen, da sotto il cuscino.
-Oppure chiudila fuori direttamente- le fece eco Michael.
Che allegra mattinata.
-Per me può anche continuare a suonare all’infinito… - disse Kim, alzandosi e infilandosi una sorta di vestaglia di spugna rosa sopra il pigiama, composto da un paio di pantaloncini senza arte né parte e una vecchissima maglia die Ramones. - … che tanto non mi sentirà più suonare- concluse, giusto un attimo prima di infilarsi gli occhiali, stamparsi un bel sorriso in faccia e aprire la porta; dietro alla quale comparse la faccia matusalemmica di una signora alta un metro e trenta, che avrebbe potuto avere settant’anni come centoventi, con quella classica espressione da Vecchietta Che Si Lamenta Dei Giovanotti d’Oggi.
-Buongiorno, signora Edwright! Ha dormito bene questa notte?...- chiese Kim, venendo ovviamente interrotta dalla signora.
-Spiegatemi come avrei fatto a dormire! Avete fatto casino fino alle nove e mezza! Ma quando andate a letto voi?! I vostri genitori non vi danno nessuna regola?! Siete una generazione vergognosa. Se avessi fatto io una cosa del genere… ah, non ci sarebbe nemmeno venuto in mente! Voglio parlare con tua madre!
-Signora, ci dispiace tantissim…
-Eh no, cara! Non te la cavi con le solite scuse! La prossima volta chiamo la polizia! E dico sul serio!!- minacciò la vecchietta, agitando l’indice sotto gli occhi della ragazza.
-Le prometto che non succederà più. Così non dovrà chiamare la polizia e potrà dormire tranquilla. Va bene? …
Non attese la risposta, congedò la signora e chiuse la porta. Potrà sembrare parecchio scortese, ma non ci si poteva fare più di tanto: la signora Edwright andava a letto alle otto e mezza, e alle nove pretendeva silenzio assoluto nel raggio di quindici chilometri, altrimenti avrebbe fatto il giro di tutte le case a lamentarsi del rumore. E siccome spesso, come era accaduto la sera prima, Kim si trovava con alcuni ragazzi a suonare qualche canzone nel garage di casa sua, la visita della signora per il giorno dopo era più che assicurata.
Ma non sarebbe più stata un problema. Non per lei e i suoi genitori, almeno: il trolley rosso ciliegia in cui aveva ammassato ciò che riteneva indispensabile alla sua sopravvivenza la attendeva nel bel mezzo del salotto, troneggiando sul tappeto finto persiano fra i cd dei Rolling Stones, che si guardavano in cagnesco con i vinili dei Beatles di sua madre appoggiati sul tavolino di fronte.
Se ve lo state chiedendo, sì, è proprio così: quello stesso giorno, Kim Wendell avrebbe levato le tende da casa. Ma andiamo con ordine.
-Preparo caffé anche per voi?- non c’era nemmeno bisogno di chiedere una cosa del genere.
-Ma certo. Anzi, dovremo iniziare a pensare di alzarci, cara- disse Michael. –A che ora è che parte il tuo aereo?
-Alle dieci e mezza, papà- rispose la figlia, sorridendo mentre tirava fuori un pacco di biscotti al cioccolato.
-Oh, caspita. Allora meglio sbrigarsi.
Cinque minuti dopo, tutti pronti e seduti intorno al tavolo della cucina, i tre si sbirciavano a vicenda da dietro le tazzone di caffelatte.
-Sei sicura che non ti vorranno mandare a quel paese, quando ti vedranno?- chiese, protettivo come sempre il papà.
-Ma và, che dici. Voi uomini non capite un cavolo di queste cose- lo zittì Karen. –Piuttosto … sei riuscita a trovare quelle scarpe stranissime, alla fine?- chiese, masticando un biscotto.
-Per un soffio. Era l’ultimo numero disponibile.
-E credi che gli piaceranno?- intervenne di nuovo Michael.
-Ma chiudi quella bocca! Non te lo ricordi? Certo che gli piaceranno.
-Oh, e va bene! Allora non parlo più.
-Esattamente quello che vorremmo che facessi- sarebbero andati avanti tutta la mattina, non che non si volessero bene anzi si amavano alla follia, ma i suoi genitori erano maghi nel perdere ore a discutere di cose stupide.
-Sono le nove e un quarto, mamma!- avvisò Kim, ripulendosi un baffo di latte.
-Oh cielo- esclamò la madre, scattando in piedi. –Sbrigati tesoro. Ci vuole un’ora per arrivare in aeroporto. Ci conviene uscire.
Michael rispose con un mugugno, trangugiò l’ultimo rimasuglio di latte e si alzò restio, fissando con dispiacere la confezione dei biscotti.
 
#
 
  L’altoparlante comunicò l’imminente partenza del velivolo, in direzione Berlino.
-Uh, tesoro, credo sia il tuo aereo- disse Karen, toccando la spalla alla figlia.
-Sì- fece lei, osservando la scaletta che veniva avvicinata all’entrata dell’aereo per far salire i passeggeri. –è proprio il mio.
-Allora fai buon viaggio- le augurò il padre, sorridendo da dietro gli occhiali. –E mi raccomando.
Kim abbracciò i genitori, e mormorò un –Vi voglio bene- soffuso sulla camicia mal stirata di suo padre. Poi, giusto in tempo per accodarsi alla fila, afferrò la maniglia del trolley e salì a bordo, trattenendo il cappello –che, sì, era lo stesso di due anni prima- dall’aria che tirava. Poi, mandò un bacio ai genitori, e continuò a sventolare la mano dal finestrino finché la pista non divenne una lontana striscia grigio pallido.
Venne riscossa dalla voce gentile di una hostess che le chiedeva se desiderasse un caffè, o qualcosa da mangiare.
-Un caffè lungo- disse, sarebbe stato il secondo quella mattinata e probabilmente le sarebbe costato un costante nervosismo ed una fastidiosa iperattività, ma non aveva voglia di mandarla via. –Lo prendo amaro- aggiunse.
Quando la donna si fu allontanata, tornò a volgere lo sguardo verso il finestrino. Liverpool era diventata un grumo grigio e verde, adesso. Come quando era andata via a sedici anni, e quando era tornata più o meno sei mesi dopo. Si chiese se non avesse dovuto farsi un abbonamento a vita, per quel benedettissimo volo.
 
#
 
Atterrarono,  ora più ora meno, verso mezzogiorno. Il sole picchiava abbastanza forte, ma, come c’era da aspettarsi, non faceva per niente caldo. Prese i suoi bagagli dal nastro trasportatore, il trolley rosso ciliegia e la custodia del basso. Sorrise ricordandosi la sorpresa di trovarlo fra le valigie della sua famiglia, all’atterraggio in Gran Bretagna più o meno tre anni prima. Georg era un ragazzo maledettamente sveglio, lei non ci aveva minimamente pensato: d’altronde meno male, altrimenti avrebbe dovuto prenderne uno nuovo. Si divertiva seriamente a strimpellare, e le veniva piuttosto bene: avrebbe potuto offrirsi come bassista a qualche band del luogo. Oppure sperare che il caro Listing si rompesse un dito e fargli da sostituta in qualche concerto.
Uscì dalla struttura fischiettando, e all’uscita venne investita da una folata di vento che le portò via il cappello.
-Argh! Diamine … - si lamentò, correndo dietro al copricapo, che sventolava allegro nell’aria fredda.
All’improvviso comparve una mano da dietro un angolo, che lo afferrò al volo. –Preso!
Kim si fermò sul marciapiede, e attese che il proprietario della mano si facesse vedere: infatti, non dovette aspettare troppo per veder spuntare un ragazzo alto e smilzo, con una zazzera di capelli color amarena e una maglia con su scritto “English Is Better”.
-Incredibile, mi calza ancora a pennello. Sai che potrei reclamarlo?- disse, in perfetto inglese londinese, ballonzolando con la sua camminata stilosa verso la ragazza, che, lentamente cercava di scannerizzare chi avesse davanti.
-Uh- fece, quando lui fu abbastanza vicino. –Miles? Possibile?
-Possibile che sia io? Certo, io sono ovunque- disse lui, sistemandosi i ciuffetti rosa sotto il cappello.
-No, possibile che ti sia tinto di … fucsia? E questo è mio. Compratene un altro- aggiunse, riprendendosi il cappello.
-Ehi!- protestò il ragazzo, ma senza successo. –Comunque sì. E Albert ha detto che non mi vorrà più vedere finché non sarò tornato di un colore normale.
-Ma quindi … i ragazzi sono ancora tutti lì? Schweit, Fried …
-Buh, ovvio- borbottò, grattandosi la testa. –Anche se ora siamo maggiorenni patentati e con un lavoro, non significa che non possiamo cazzeggiare in un vicolo- disse, come se fosse un concetto elementare scritto in qualche pagina di Wikipedia.
-Beh, giusto. Magari più tardi li passo a salutare. Piuttosto … non è che sapresti indicarm-
-Ah! Ti piacerebbe che non fossimo venuti anche noi? E ci avresti lasciati come ultimi nella tua lista degli impegni. Che pessima amica- la interruppe un nano biondo, spuntato da dietro un albero mezzo secco in parte alla strada.
-Oh. Ma spiegatemi, perché lui ha cambiato colore e tu no?- chiese Kim, additando la capigliatura biondiccia di Schweit.
-Scusa, perché lui si colora una volta al mese io devo cambiare tinta? Non capisco i tuoi ragionamenti! Piuttosto, carino il verde lime. Ti dona- rispose il biondo, imitando con scarsi risultati la voce di una ragazza.
Kim sorrise, arrotolandosi una ciocca verde su un dito. Nel frattempo altri due ragazzi erano spuntati dal nulla cosmico, commentando il sole incredibile che c’era quel giorno.
-Kim, spiegagli che la luce solare è sempre la stessa, la differenza sta nel fatto che lui vive segregato nel suo antro e quindi non la vede mai- disse uno dei due, identificabile come un Cristoph molto, molto cresciuto, indicando un Fried che non era cambiato un cavolo, fosse per la peluria da capretta sotto il mento.
-Hai mangiato lievito, Cris?- chiese Kim.
-No, è diverso, è Ad che ha mangiato concime, gli è cresciuta l’erba in faccia- disse lui, prendendo in giro il moretto in parte a lui, che però non arrivava nemmeno a dargli una pacca sulla nuca da quanto l’altro fosse alto.
-Mi siete mancati, ragazzi- disse Kim, ridendo.
-Lo sappiamo benissimo, è ovvio che ti siamo mancati. Come ti manca un passaggio per arrivare a casa del tuo fidanzato, o sbaglio?- fece Fried, ancora appeso alla spalla di Cristoph, tentando di tirargli uno scappellotto.
-Rinfresco la mia teoria nel dire che sei un piccolo genio, Wanda. Non ditemi che avete ancora una di quelle cose malefiche che …
Troppo tardi, la sua frase venne interrotta dal movimento fluido con cui il gruppo si divise, mostrando non due, ma ben tre Vespe scassate, parcheggiate in grande stile sul marciapiede.
 
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-Ok, d’ora in poi lavorerò come una scema per comprarmi una macchina decente, poi mi incollerò al sedile per non essere costretta a farmi dare di nuovo un passaggio da voi- dichiarò Kim, con tanto di indice alzato, quando –per miracolo- riuscì a scendere dalla cosa infernale che l’aveva portata per mezza Berlino fino al parcheggio dell’enorme palazzo, completamente in cemento e vetro dove era diretta.
-Oh, fa come ti pare … io continuo a fidarmi di Meredith più di mia madre- disse Miles, tirando una pacca al fanalino della Vespa, che se non si era già staccato era solo per grazia di Dio.
-Ti stai chiedendo come facevamo a sapere dove abitavano i gemelli, vero?- chiese Fried, cambiando discorso.
… e qui arriva la parte in cui vi svelo il piano malefico: nella sua piccola testolina di genio del male, Kim aveva già progettato, tre anni prima, quando aveva saputo che sarebbero andati via da Magdeburgo, ciò che avrebbe fatto: avrebbe atteso i vent’anni anni, quindi la maggiore età e anche un po’ di più, poi avrebbe affittato un appartamento a Berlino, e sarebbe tornata in Germania di soppiatto. Aveva studiato indirizzandosi al management, e lì c’era un’università abbastanza buona per diventare manager o economista o qualcosa del genere, i suoi l’avrebbero aiutata a pagare gli studi e l’affitto e avrebbe trovato qualche lavoretto del cavolo, giusto per non campare sulle spalle dei suoi; e in questo modo si garantiva una sopravvivenza. Ma la parte importante del piano malefico, quella che ci interessa è quella che riguarda il dove.
Infatti il compito affidato ai baldi giovanotti di Magdeburgo era di tenere costantemente sott’occhio la band, i gemelli in particolare, Bill in particolare ancora più particolare. Non solo per tenere informata ventiquattr’ore su ventiquattro la ragazza, che si rodeva dentro ogni giorno dal nervoso di essere così dannatamente lontana da lui, e a cui non sarebbero bastati tutti i messaggi e le chiamate del mondo, in più era un po’ che i ragazzi non si facevano sentire. Maledette interviste e concerti e album da promuovere e canzoni da scrivere e tutto il resto. Ma stiamo tragiversando: ciò che dovevano assolutamente sapere i ragazzi era Dove Sarebbero Andati a Vivere i Gemelli Kaulitz (Una Volta Lasciata La Magione Materna). Perché sì, nonostante la cifra stratosferica e tutto il resto, Kim avevrebbe affittato proprio  quello accanto. *
E questo è il piano diabolico. Cosa sarebbe successo dopo, era un mistero. Intanto è bene essere arrivati fin qui, no?
-Stupiscimi con il tuo racconto!
-Ringrazia Melanie, per questo … se c’è qualcuno bravo a sembrare una fan esageratamente innamorata e scassa scatole, disposta a tutto per pedinare costantemente la sua band preferita, è di lei che stiamo parlando. Che poi le è riuscito ancora più facile, perché i Tokio Hotel le piacciono sul serio, ed è seriamente innamorata persa del tizio con le treccine … com’è che si chiama?
-Tom?!- a Kim era caduta la mascella per terra. Aveva visto migliaia di foto del chitarrista piene di cuoricini e milioni di ragazze che dichiaravano al mondo il loro amore per quest’ultimo, ma ogni volta, ogni santa volta, non poteva fare a meno di ricordarsi di lui, alla festa dopo il concerto, ubriaco marcio, che corteggiava un vaso cinese posto sulla mensola del camino come se fosse una bella ragazza. E se non ve l’avevo raccontato prima, era solo per conservare la sua già scadente decenza reputazionale.  
-Ma aspetta, Melanie è quella con le lentiggini finte grosse come palle degli occhi e i capelli tinti a metà di due colori diversi?- chiese dopo averci riflettuto un po’.
-Esatto, proprio lei- le rispose Cristoph, lasciandosi scappare un sospiro sognante. –Sapessi come disegna bene le farfalle? Le ho chiesto di fare un paesaggio che ricordasse il Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol una volta, e … ah, che meraviglia, che meraviglia!- iniziò a straparlare, senza troppe intenzioni di fermarsi.
-Siete matti tutti e tre, sia tu, che lei che il tizio che l’ha inventato. Per quello c’è questo feeling tra voi- commentò Miles, mentre si esaminava un ciuffo amarena.
-E tu sei frocio, per quello- rispose acido Cris.
-E allora?!- sbottò isterico l’inglese. –Ti cambia la vita?! Smettila di usare quella parola come un insulto! Che poi non sono gay. Sono stiloso. È diverso. Sai quanti gay vedo che si vestono come i barboni e quanti etero tirati a lucido manco fossimo alla corte della regina? Tu hai troppi stereotipi.
-E tu troppe paranoie- avrebbero potuto continuare così tutto il giorno.
-Proprio tu, l’artista, dovresti sostenermi! E invece …
-Certo che non siete cambiati per nulla, eh?- commentò Kim.
-Giusto, dimostriamo alla nostra amica qui presente che siamo degli adulti maturi e intelligenti- intervenne Fried, iniziando a spingerli uno lontano dall’altro, e intimando loro di tornare sulla propria Vespa. –E leviamoci di torno, che credo abbia da fare- concluse, mettendo in moto e facendole l’occhiolino.
Lei alzò una mano in cenno di saluto, tanto se avesse detto qualcosa non l’avrebbe sentita perché quei catorci facevano troppo casino. Li guardò allontanarsi, con Cris e Miles ancora che se ne dicevano su.
-Ah- sospirò, una volta che furono spariti dietro la strada, girandosi verso l’entrata del condominio. –Bene, credo sia meglio portare dentro la roba.
 
# *So che è alquanto inverosimile. Ma capitemiiii, dovevo fare un po’ di scena. E poi tutti sappiamo che in fondo tutti gli inglesi sono pieni di money u.u (su, su, credeteci con me) … abbiate pietà di me, sono una fangirl esaurita <:D
 
Spinse la pesante porta di vetro della reception –perché ovviamente quel posto aveva pure la reception-, e si trovò sotto un’ondata di luci bianche a led. Semi-accecata, raggiunse il bancone, e si rivolse alla signora:
-Salve, sono Kim Wendell … ho affittato la stanza numero 21.
-Uh- mugugnò quella, voltandosi e spiandola da sotto gli occhiali. –Mgh, certo, ecco le sue chiavi- le allungò un portachiavi di metallo argentato, con appese un paio di chiavi identiche. –Buon soggiorno.
Kim biascicò un ‘grazie’ mentre trascinava la sua roba su per le scale.
-Guardi che se vuole c’è l’ascensore.
-Uhm, no, grazie. Vado per le scale- a dire il vero voleva allungare il tragitto il più possibile, non vedeva l’ora di trovarsi in cima, non aveva idea di chi o cosa avrebbe trovato lì, se avrebbe incrociato uno dei ragazzi, non aveva avvisato proprio nessuno, a parte i ragazzi di Mag, che sarebbe tornata quel giorno, quindi sarebbe stata una sorpresa enorme per tutti. Non vedeva l’ora di rivedere Bill in faccia. Di toccarlo, sentire il suo profumo, guardare il suo sorriso da sogno, baciare di nuovo quelle labbra che aveva toccato solo una volta. Non serve stare ad elencare tutte le volte in cui si era ritrovata, la mattina, a sbavare sul cuscino a causa di quelle grosse e piene labbra rosee.
-Argh. Quante cavolo di rampe ci sono ancora?-si chiese, alzando il basso un attimo prima che sbattesse contro uno scalino.
-Non so se avere più paura per quella valigia o per quel povero strumento, sappi che ogni pacca che prende è come una coltellata per il mio povero cuore, dentigialli- la canzonò una voce dietro di lei.
‘Oh Mio Dio. Non ci credo’ pensò, girandosi –molto lentamente, altrimenti avrebbe fatto un bel ruzzolone giù per le scale.
-Tom?
Il ragazzone moro con le treccine e i jeans pari a un paio di tende cucite insieme la fissava divertito da una rampa di scale più in basso. Era abbastanza difficile da riconoscere, insomma, erano passati tre anni abbondanti: ma l’espressione da pesce lesso era unica e inconfondibile.
-Non corri ad abbracciarmi?- chiese lui, spalancando le braccia con le maniche della giacca che pendevano come ali da pipistrello  e un gran sorriso ebete che ornava la faccia abbronzata.
-Primo: come cavolo hai fatto a riconoscermi?- chiese lei, alzando un indice, quando ebbe finito di boccheggiare per la sorpresa. Tom rimase un attimo interdetto, poi abbassò le braccia.
-Beh, diciamo che, mentre ero per strada, ho visto scorrazzare una tipa con i capelli verdi (che ricordo dall’ultima volta che hai chiamato mio fratello via Skype) insieme ad un branco di tizi urlanti su una Vespa scassata senza casco (scena che sappi che non dimenticherò facilmente), poi ho visto che tenevi stretta una custodia bianca da basso come quella che avevi nel salotto a Mag, poi ho collegato il fatto che quei tizi mi stessero palesemente stalkerando per mezzo della loro amica fan girl con i capelli di due colori diversi e … - tacque un attimo, contanto più di una volta gli “indizi” che aveva raccolto sulle dita. –E basta, il resto non me lo ricordo. E poi, beh, la tua grazia è inconfondibile, dentigialli- fece, alzando le spalle.
Lei rimase letteralmente a bocca aperta dal monologo d’intelligenza che le aveva appena fatto Tom. Che fosse diventato un ragzzo sveglio? … -Complimenti, Tom! Mi hai stupito, sul serio. Ma serio serio.
-Bene. Ora mi abbracci?- chiese di nuovo lui, ri-spalancando le braccia. 
-No, altrimenti cade giù tutto. Piuttosto, mi aiuteresti a portare questa roba all’appartamente 21? Poi, se fai il bravo, ti abbraccio.
Il chitarrista obbedì mugugnando, e insieme si avviarono su per le scale. –Ma l’affitto lo paghi di tasca tua?
-Mamma e papà mi danno una mano.
-Oh. Capisco … tanto non credo che dovrai preoccuparti di questo. Non appena Bill ti vedrà, sarà disposto a comprare l’intero palazzo per garantirti un posto dove stare il più possibile vicino a lui- sghignazzò Tom, d’altronde aveva ragione. Bill aveva il cuore grande, e le tasche grandi almeno quanto il cuore, ci si sarebbe dovuto aspettare da lui una cosa del genere. Ma Kim non era così meschina da chiedergli di pagarle il posto dove stare. Un po’ di orgoglio british ce l’aveva, in fondo in fondo.
-Non glielo dirai, vero?- chiese Kim.
-Che sei qui?
-Esatto.
-Beh, lui è in casa in questo momento, e stiamo facendo talmente tanto casino che sono sicuro, lo scoprirà da solo- borbottò Tom.
A Kim vennero i sudori freddi a immaginare una possibilità del genere. Davvero non riusciva a farsi entrare in testa che, Cavolo, stava per rivederlo. E se avesse voluto mandarla a quel paese? E se avesse avuto un’altra ragazza?
-Tom?
-Sì?
-Bill è sempre stato single?- si sentì incredibilmente oca a fare una domanda del genere. Agitazione delll’ultimo momento, si giustificò.
Difatti Tom scoppiò in una grassa risata.
-Perché, gelosa?
-Dai, porco quarantaquattro, rispondimi!
-Heee heeee … Kim è gelosa.
-Tom. Guarda che chiamo Melanie.
-Melanie? Oh. Ok. No, nessuna ragazza. Non credo che a Bill piacciano le ragazze.
Kim lo guardò stranita e tremendamente perplessa.
-A parte te, ugh, ovvio. Era per dire … insomma, tu non sei il tipo di ragazza a cui si pensa quando si dice ‘ragazza’- disse, dando enfasi alle sue parole con un’epressione stramba da filosofo fallito. -Una ragazza normale non gli piacerebbe. Credo che se ti dovesse tradire lo farebbe con un ragazzo.
-Ah. Ma non lo ha mai fatto. Vero?
-E che ne so? Non sto mica nelle mutande di mio fratello, io!- protestò Tom.
-Però certe teorie dicono di sì, tesoro- lo prese in giro lei, con un sorrisino malizioso.
-NO! Non iniziare a parlare di twincest, o come si chiama. È la peggio cosa che uno dei nostri fan potesse mai pensare!- frignò l’altro.
-SHHHHHH, cavolo, non urlare- gli tirò una pacca sulla schiena.
Che poi, che conversazione stupida. A meno che non avesse bevuto un concentrato di cattiveria, Bill non sarebbe mai stato capace di trovarsi un’altra persona. Non era così meschino. Anche se in una cosa Tom aveva ragione, il moro non era il tipo da ragazza. Scosse la testa, scacciando pensieri poco consoni da fan girl arrapata all’ultimo stadio.
-Ok, dovremmo essere arrivati …
Spuntarono da dietro l’angolo della parete della tromba delle scale, e si ritrovarono in un piccolo corridoio su cui si affacciavano tre porte diverse: i numeri incisi sulle targhette erano 19, 20 e 21.
Kim si avvicinò alla terza, quella con il numero 21. –Questa dovrebbe essere la mia- inserì la chiave, e la girò nella toppa un paio di volte, facendo scattare la porta. –Uh, ottimo. Allora tu aspettami qua, che porto la ro…
-Ah, Tom, sei qua, proprio te cercavo, senti, non è che per cas… hey, lei chi…
-SHHHHHHHH!!!!- il chitarrista si lanciò addosso a Georg, uscito in quel preciso istante dalla porta numero 19 assieme ad una diffusa melodia grunge, mentre Kim volò a chiudere la porta prima da cui era venuto che potesse uscire qualcun altro.
-Georg? Hey, Georg … - chiamò, infatti, una voce da dentro. –Tutto ok?
-Dì che è tutto ok e che scendi un attimo- gli ordinò Tom sottovoce, con il viso paonazzo.
-Uhm, sì, tranquillo Bill, guarda, scendo un secondo a vedere se tuo fratello è per strada … torno subito- recitò, fissando interrogativo il chitarrista, che nel frattempo sbirciava dentro il buco della serratura per controllare che il fratello non stesse uscendo, tenendo chiuso lo spioncino con le dita.
Quando furono sicuri che non stesse arrivando nessuno, trascinarono il povero bassista che nel frattempo non aveva ancora capito niente all’interno dell’appartamento 21.
-Cos’è, un tentativo di rapimento?- chiese quest’ultimo, quando Kim ebbe chiuso la porta.
-Certo, da parte di due persone che conosci- disse Tom, passandosi una mano sul viso e sospirando.
-Beh, io ti conosco, ma lei non ho idea di chi sia- gli fece presente Georg, indicando Kim, che era girata di schiena, intenta a fissare oltre lo spioncino.
-Oh, Cristo salvatore. Denti gialli, facci la cortesia di girarti e toglierti gli occhiali, che poi … quando cavolo è successo che hai messo gli occhiali?- borbottò Tom, mentre Kim si girava e toglieva gli occhiali, a Georg si spalancavano gli occhi e cadevano le braccia, entrambi sorridevano come bacucchi e correvano ad abbracciarsi in stile Bay Watch.
-Hey … denti gialli … mi hai sentito?
-Uh, hem, certo, sì- disse lei, ricomponendosi.
-Beh … mi spiegate adesso? Com’è che compari così tutto d’un tratto?- iniziò a chiedere il moro, senza smettere di sorridere euforico.
-Giusto, bella domanda, alla fine non l’ho capito nemmeno io. Racconta, su, su.
-Il mio piano malefico non ve lo spiegherò mai- disse lei. –Vi basti sapere che, finché avrò soldi per pagarmelo, questo appartamento è mio e non mi smuoverò più dalla Germania. Credo.
I due compari si scambiarono uno sguardo perplesso, e poi chiesero all’unisono, rivolti a Kim:
-Ma proprio mai più?
-Ma proprio mai più- confermò lei, lasciandosi andare ad un bel sorrisone beato e spalancando le braccia, inspirando a pieni polmoni quell’aria che, sebbene avesse respirato per poco tempo rispetto ai suoi diciannove anni di puro smog inglese, le era mancata tanto.
 
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-Secondo me inizia a insospettirsi- borbottò Georg, aspirando gli ultimi rimasugli di milkshake dal fondo del bicchiere con la cannuccia.
-No, più che altro avrà paura di essere finito al centro di una cospirazione e che tutti noi siamo tenuti sotto tiro da criminali svevo-russi che mirano a rapirlo usando noi come mezzi per attirarlo in trappola- ribatté Tom, mimando con le braccia il gesto di mirare con un fucile.
-O molto più semplicemente si chiederà perché oggi tutti lo evitano, e tu devi guardare meno telefilm- disse invece Kim, controllando l’ora sul display del cellulare. –E basta far casino con quella cannuccia!- sibilò, fulminando il bassista con un’occhiataccia.
-Insomma, Georg! Datti una regolata, siamo in presenza di una signorina- lo redarguì Tom.
-Disse Lo Hobbit- mormorò Georg acido; parole sottolineate dal chitarrista che tirò un bel rutto da concerto.
-Ma dove si è perso Gustav?!- si chiese Kim, scrutando fra le facce dei clienti seduti all’interno del bar in cui si erano rifugiati. Stare nella stanza 21, così vicini all’obbiettivo Porcospino, era troppo pericoloso per la loro missione. Sì, perché quella era una missione segreta e molto importante, e avevano deciso pure degli accurati nomi in codice (Porcospino non si addiceva più di tanto alla super-leccata di mucca nero lucido che aveva adottato il cantante in quel momento abbandonando la cara capigliatura alla Goku, ma l’avevano comunque stabilito all’unanimità, in memoria dei vecchi tempi).
-Aspettate, vado a controllare al banco delle ciambelle- fece Tom, alzandosi con un sospiro affaticato.
-Ugh, no, fermo, eccolo là- disse Georg, strattonandolo giù.
Difatti, il batterista comparve poco dopo, con tre krapfen grandi quanto un emisfero cerebrale in ogni mano, guardandosi le spalle ogni tanto mentre camminava in direzione del tavolo 7, dove erano seduti i tre.
-Pellicano, muovi il tuo culo grosso e poggialo sulla benedetta sedia prima di domani, per favore- ringhiò Tom, facendo finta di parlare al walkie-talkie e trascinado il povero biondo al suo posto.
-Aspetta, spiegami perché ‘Pellicano’- disse subito Gustav.
-E’ il tuo nome in codice, agente. Siamo in missione, e non devi sgarrare- lo minacciò il chitarrista. –Adesso ascolta bene.
-Aspetta … e tu chi saresti? No, un attimo … oh, mio Dio! Non ci posso credere!- si aggiustò gli occhiali, sbattendo le ciglia dalla sorpresa. –Wendell? La dentigialli? Quando sei arrivata?
Kim fece per rispondere, ma venne interrotta da un Georg fin troppo frettoloso. –Giusto questa mattina. Adesso chiudi la bocca e apri le orecchie.    
-Allora- incominciò Tom, allargando le mani sul tavolo fra i tre, e guizzando con lo sguardo da uno all’altro. –La questione è molto semplice. Dobbiamo tenere all’oscuro mio fratello.
-Perché?- lo interruppe immediatamente il biondo, masticando il primo krapfen.
-Perché che sorpresa sarebbe altrimenti?!
-Ma aspetta, non ho capito. Perché lei è qua di preciso?
-Aaaaargh- sospirò Tom, sbattendosi una mano in fronte. –Smettila di fare domande con ovvie risposte. Si è trasferita a Berlino, nella stanza vicino alla nostra, Bill non lo sa e non deve saperlo. Deve essere una sorpresa.
-Aaah, ok. Ho capito. Quindi siamo tipo wedding-planner, in questo momento. Solo che al posto di un matrimonio dobbiamo organizzare un ri-incontro romantico. Uh, chiaro- borbottò, con la bocca piena di quello che era già il secondo krapfen.
-Oh, alleluia, ci sei arrivato. Bene. Ora la questione è … dove? Come? Quando?- elencò Tom, sollevando un dito alla volta.
-Ma scusa … dobbiamo per forza? Insomma, non possiamo chiamarlo tipo qui e adesso, andarcene e lasciare che si arrangino loro due?- chiese ovvio il batterista, indicando Kim che nel frattempo era diventata color ciliegia matura.
-Uhm- mugugnò Tom. –In effetti non era una soluzione che avevo considerato.
-Ma io non voglio!- strillò Kim in preda al panico. –Cioè, sì, voglio, ma ho paura. Sono agitata. E-mo-zio-na-ta. Troppo. Capisci?!?!- farfugliò, muovendo le mani a caso. –Non. Abbandonatemi. Per favore- aggiunse sottovoce, appendendosi al braccio di Georg, che in tutto questo tran-tran era rimasto fermo al suo milkshake finito.
-Oook, ook. Lasciate fare al maestro del romanticismo. Tranquilla baby, me ne occupo io- affermò, sbattendo il bicchiere sul tavolo con grande aria da boss.
-NO! Non permettetegli di prendere il telefono!!- ululò il chitarrista, già pronto a lanciarsi su di lui brandendo una qualche spada immaginaria.
-N … non intendevo chiamarlo. Aspetta un attimo. Non hai capito un tubo- scandì Georg, alzando le mani. –Ascoltate, il mio piano è estremamente semplice.
 
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Due ore dopo, erano tutti e quattro riuniti sotto l’ingresso del ristorante cinese poco lontano dall’appartamento dei gemelli: un gruppetto decisamente agitato e messo a lustro, che attirava non poco l’attenzione di chi passava di lì.
Tom, che per l’occasione si era messo una camicia della sua taglia e pure delle scarpe nuove, diede le ultime disposizioni ad un Georg che non faceva altro che controllare l’orologio ogni tre millisecondi, un Gustav che spiava di continuo avanti, indietro, a destra e a sinistra dando l’effetto di uno struzzo con problemi cervicali, e ad una povera Kim andata in iperventilazione già da un pezzo che stava morendo lentamente sopra un paio di tacchi troppo alti.
-Allora, ripetiamo per l’ultima volta. L’appuntamento è esattamente qui, alle otto. Sappiamo che ritarderà di almeno dieci minuti. Quando arriverà, Kim sarai al tavolo, ben infossato in fondo al locale che ho già prenotato. Fin qui ci siete?
-Ma sei sicuro che gli piaccia il cinese?- chiese Gustav, alzando un dito e sporgendosi verso sinistra.
-Cristo, Gus, lo conosci solo da dieci anni ben che abbondanti. Sì, gli piace il cinese, a anche il giapponese, ma il cinese di più. E smettila di fissare quel bambino prima che la madre ti faccia causa!- sibilò Tom tirandogli una leggera pacca sulla nuca.
-E sei sicuro che sia il caso di farli rintanare in quel buco angusto?- intervenne il bassista.
-Non è un ‘buco angusto’, è un tavolo appartato. È diverso.
-Ma ci sono le foglie della pianta che impediscono di vedere chi si ha di fronte.
-INSOMMA! Ho rimorchiato mezza Germania con questo sistema, andrà benissimo anche per loro due. Posso andare avanti?- proseguì senza attendere la risposta. –Quando arriverà, gli diremo di andare al tavolo 42, quello che “abbiamo prenotato”, mentre noi siamo fuori ad aspettare Karina e sua sorella, che “avranno avvisato” di “avere un contrattempo”. Chiaro?
I tre annuirono.
-Bene. Poi il tutto è molto semplice. Ci assicuriamo che non vada a pescare la ragazza sbagliata al tavolo sbagliato, e ci piazziamo dalla parte opposta al ristorante; dove comunque potremmo avere una visione del quadretto.
-E se decido che dovete levarvi di torno … - mormorò Kim, fissando Tom da dietro le lenti a contatto che avevano sostituito la montatura grossa, nera e decisamente poco elegante che era solita portare da poco a quella parte.
-Appoggi le tre dita della mano destra sulla guancia, verso di noi. Chiaro?
-Cristallino.
-Recepito.
-Aaaargh …
Erano le otto meno cinque.
-Coraggio, soldato Wendell- la incoraggiò il buon Georg, dandole una pacca sulla spalla. –Vai alla tua postazione!
-Andrà tutto bene, vedrai- aggiunse sottovoce, prima di spedirla nell’intrigo di pareti rosse e lanterne gialle, sola e in balia dell’emozione e del vestito troppo stretto, alla ricerca del tavolo 42.
 
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Bill voleva un applauso. Come minimo: era riuscito a farsi la doccia, sistemarsi i capelli, truccarsi e non infilzarsi con un orecchino in meno di trenta minuti. Per non parlare della rapidità con cui aveva scelto l’outfit: meno di dieci minuti. Ed era pure riuscito a scendere velocemente le scale senza fare un capitombolo con gli stivali a tacco alto, ma ormai quella era diventata un’arte. Avrebbe battuto Bolt sui cento metri, con i tacchi.
Adesso si trovava sul bordo della strada, dalla parte opposta rispetto al ristorante. Poteva vedere da lontano Gustav che gli faceva ‘ciao’ con la mano, mentre nell’altra teneva un cartoccio un po’ unto semivuoto. Non aveva voglia di sapere cosa fosse.
Aspettò che passassero un altro paio di auto, poi sgambettò a tutta velocità verso i tre.
-Allora? Sono in anticipo?- chiese, tutto trafelato.
-Rispetto ai tuoi tempi, sicuramente sì. Ben due minuti rispetto alla tempistica stimata- affermò Georg, controllando un orologio grosso e dorato che non ricordava di aver mai visto. –Complimenti, Kaulitz. Mi hai sorpreso.
-Abbiamo prenotato al numero 42. Tu vai, così evitiamo che quale dentig- uhm, muso giallo ce lo freghi. Noi stiamo qua ad aspettare Karina e Anne, hanno avuto un problemino con la macchina e arriveranno tra una decina di minuti- spiegò Tom, evasivo, facendo scorrere lo sguardo qua e là sui passanti. Bill rimase un attimo fermo lì, cercando di seguire gli occhi del fratello, ma poi venne spintonato dentro dalle mani unticcie di Gustav; che Dio, no, il suo povero cappotto Versace nuovo! …
-E muoviti!
Non appena varcò la soglia, venne investito da un’onda calda di odore di fritto. All’inizio era un po’ stomachevole, ma poi ci si abituava e diventava quasi piacevole. Almeno, a lui piaceva l’odore del cinese. Sapeva di caldo.
-Uhm, mi scusi … cerco il numero 42- chiese ad una cameriera di passaggio, che dovette alzare quasi all’indietro la testa per guardarlo in faccia.
-Qualantadue? In fondo a destla, vicino alle vetlate- rispose lei, marcando il suo bell’accento cinese, l’indice teso verso un punto indefinito vicino ad una finestra.
-Uh. Grazie- si avviò in quella direzione, anche se lì c’erano solo pochi tavoli da due. Si aspettava che avessero richiesto una tavolata almeno da quattro persone, insomma, non aveva voglia di mangiare solo con suo fratello mentre Georg e Karina facevano i piccioncini al tavolo accanto. Lo faceva sentire tremendamente solo.
Ad un certo punto si fermò, esaminando i numeri dei tavoli.
-Umm … 39 … 40 … 41 … - girò di centottanta gradi, compiendo un perfetto angolo piatto ruotando sulla punta degli stivali e provocando un soffuso scampanellìo con i vari gingilli che aveva addosso. I suoi occhioni immensamente nocciola e perfettamente contornati di nero si fermarono esattamente sul cartellino giallo, posto sul tavolo esattamente di fronte a lui, che recava in una scrittura elegante il numero … -42.
Restò un attimo perplesso, perché in effetti quello contrassegnato era un tavolo da due, ed era anche mezzo coperto dalle foglie pendenti di una pianta fin troppo verde. Stava per girarsi verso un cameriere per chiedere se non ci fosse stato un errore, quando …
-Eeetcìì!- ma … si stava ancora sognando o aveva ascoltato troppi dischi dei Nirvana consecutivamente? La pianta aveva starnutito? No, un attimo, erano due piante diverse. Cioè, sotto una prima grande pianta ce n’era un’altra, più verde. Verde lime?
Quella che gli era sembrata una pianta, ma che invece a quanto pare era una testa, una testa di ragazza, si alzò puntandogli due grandi occhi verdi e terrorizzati addosso. –Uh? Cosa? TU? AH! NO! U … un attimo! Io … sei già qui?! Cosa … aargh. No, mi sono sbagliata. Non è possibile. Dove diavolo è Tom quando serve?! … - quella cosa stava iniziando a strillare, e lui non aveva ancora capito cosa stava succedendo.
Anche se …
Oh. Un attimo.
-P … perché mi fissi in quel modo?- biascicò la ragazza, scrutando l’espressione di assoluta sorpresa che si era dipinta sul viso perfetto del ragazzo.
-Io … tu … - strinse gli occhi riducendoli a due fessure, mentre mormorava parole senza senso.
-B … Bill … sei un po’ inquietante- fece la ragazza.
-KIMMY!- urlò un secondo esatto dopo, spalancando gli occhioni e facendo sussultare mezzo ristorante, compresi i tre compari che nel frattempo si erano piazzati dietro il tavolo con i biscotti della fortuna, e stavano prendendo un colpo di cuore dietro l’altro a seguire la scena.
Lei non fece in tempo a replicare che subito venne stritolata in un abbraccio, di una forza che non ci si sarebbe potuti aspettare da uno magrolino come Bill, un abbraccio fatto di gel e capelli verdi, eyeleiner e tacchi altissimi, puzza di fritto e odore di piante e di notte. Dopo un attimo di confusione, anche Kim gli cinse le spalle con le braccia, ricambiando la stretta: quanto aveva desiederato farlo. Tre lunghissimi anni, in cui ogni volta che abbracciava qualcuno, sentiva quasi l’esigenza che quella persona si trasformasse nel moro. Nel ragazzo a cui pensava per ultimo prima di dormire, che ricompariva come un tatuaggio indelebile sulle sue palpebre e un film permanente nei suoi sogni.
E a proposito di sogni. Durante quei tre anni abbondanti, dopo quel bacio che non aveva mai, mai dimenticato, erano comparse tante di quelle cose: le bastava chiudere gli occhi per veder riaffiorare un ricordo che non aveva. Una cena in un ristorante parigino. Un passante che si offriva di far loro una foto sotto la Torre. Un gelato che sapeva di lamponi freschi. Una parola storpiata in francese, un attimo di panico in cui lui non si ricordava come si diceva quella determinata cosa in inglese. Parlavano sempre in inglese, lui lo parlava quasi meglio di lei. Ma ogni tanto, si ricordava, ora, finalmente, persi a guardarsi negli occhi, facevano entrambi un tale casotto con quelle dannate parole che avrebbero voluto prendere tutti i dizionari del mondo e bruciarli, fare un enorme falò che stesse a significare quanta poca importanza avessero le parole per loro.
Dal canto suo, Bill non aveva vissuto quei tre anni in maniera molto differente. Ogni volta che partiva, che tornava a casa, che prendeva in mano quel dannato cellulare, scorreva velocissimo i messaggi in cerca di un segno di lei. E se –raramente- dovesse succedere che non ne trovava, si fiondava subito a scrivere, anche due, tre, dieci messaggi diversi pieni di quanta voglia avesse di rivederla. Di notte stringeva il cuscino e fissava il soffitto a occhi spalancati, parlava nel sonno e si svegliava avvinghiato a suo fratello, quelle volte che dormivano insieme, che si lamentava di quanto fosse diventato appiccicoso. Il povero Tom avrebbe meritato una medaglia per i momenti come quelli. Almeno una volta su due, dopo due ore che gli aveva dato la buonanotte,  Bill si ripresentava alla sua porta in cerca di qualcosa di una ragione stupida per non restare solo nella sua camera. Come se la solitudine fosse una grossa e pericolosa bestia nascosta sotto il letto, pronta a schizzare fuori e divorarlo senza pietà, lasciandolo in un pugno di singhiozzi e lacrime.
Bill era sensibile. Tremendamente sensibile. E lei gli era mancata, perché la vedeva in ogni persona con gli occhi verdi gli capitasse a tiro, la sentiva in ogni ‘Bill?’ che gli veniva rivolto. E sentiva il sapore delle sue labbra rosse e screpolate dal freddo in bocca tutte le mattine.
Ma adesso era tutto finito. Adesso lei era lì. Non gli importava quanto sarebbe rimasta. Era lì, perché era maledettamente certo che fosse lei, ed era maledettamente certo che fosse lì. E non l’avrebbe lasciata andare per nessun motivo al mondo, proprio nessuno, nessuno nulla faccia della Terra e dentro l’Universo, dentro ogni Universo parallelo che fosse mai esistito non esisteva cosa che avrebbe potuto separarli di nuovo. Adesso erano lì, abbracciati sotto una pianta in una tavolo imbucato di un ristorante cinese, e contava solo questo.
-Bill?- pigolò lei, la faccia schiacciata contro la superficie ruvida del cappotto Versace con la schiena unta per colpa di Gustav.
-Sì?- fece lui, scostandosi quel poco che bastava per guardarla negli occhi.
E per una volta, per una dannata volta Kim non indugiò un minuto di più e, in barba al carpe diem, lo baciò come mai nessuno aveva baciato nessun’altro nella storia. È vero che per poco non si ribaltarono all’indietro sul cameriere che passava con le braccia piene di ciotole di brodo e spaghetti rischiando un’alluvione, però, cavolo; gli prese quel bel viso pallido fra le mani, e chiuse quella splendida bocca perfetta nel bacio più dolce che le sue labbra inesperte potessero inventare.
E in quel momento, al tavolo 42 del Chinatown di Berlino, vicino alla pianta che faceva starnutire e fra i commensali e i camerieri che per un attimo di erano girati a guardare chi fossero i Romeo e Giulietta della serata, sotto gli occhi vigili dei G&G e di Tom, che sorridevano e si davano gomitate come le nonnine che guardano le telenovelas spagnole, ammiccando come i matti; Bill e Kim erano di nuovo, per la seconda volta di una lunghiiiiisssima serie, su quel ponte scassato, illuminato dalle luci della Tour Eiffel nella densa notte parigina, che non facevano altro che i ragazzi innamorati, e, per una volta, felici, ma felici sul serio.
 
 
DA
DANNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNNN
*coro angelico discende dal cielo*
Non sapete quanto sia strambo dire queste parole CAVOLO è la prima volta che finisco una storia *-* c’è anche da dire che questa è stata la mia prima ff, iniziata puramente a caso, senza una minima parvenza di trama, partendo da un’idea che mi era venuta mentre giravo in tondo con la bici. Due anni fa più o meno.
OCCRISTO DUE ANNI?!?!?! Ma stiamo scherzando?!?! Incredibile che sia passato tutto questo tempo!! Che poi se avessi aggiornato più spesso si sarebbero dimezzati anche quattro volte, però … o porco due. D: raga io ancora non ci credo. Ma voi ci credete?? Cioè … woh. Che roba.
HO FINITO YOU CAN REMEMBEEEEERRR OMMIODDIOOOOOOOOOO XoX però sono felice. Voi siete felici? Mi state tirando dietro casa vostra con tutti i mobili perché il finale vi fa schifo? Nooo, daiii, siate buoni anche questa volta.
… mi sto trattenendo dallo scrivere un altro mezzo papiro di roba, potrebbe essere infinito questo epilogo-e dire che di solito prologo ed epilogo sono le parti più corte. Altro che, qua saranno dieci pagine e passa di Word. Dico sul serio ç_ç
Anyway … personalmente mi stanno ancora tremando le mani, l’epilogo l’avevo finito già ieri sera ma erano le undici passate ed era meglio infilarsi a nanna prima di avere un colpo di cuore; quindi me la sono presa comoda a portarlo fino a oggi.
SUL SERIO vorrei aggiungere altro ma NON LO FARO’ quindi teniamocelo così com’è. Dio, io spero vi piaccia almeno quanto possa esservi piaciuto questo sclero di storia in sé … e qui bisogna fare un GRANDISSIMO ENORMISSIMO ALTISSIMO PURISSIMO LEVISSIMO CATTIVISSIMO –coi Minions- GRAZIE a tutti quelli che sono anche solo passati a dare un’occhiata schifata a questa fic:  ma soprattutto a chi ha letto e recensito, parlo di Martry_K soprattutto, onorate e ringraziate questa brava e santa donna, perché se non c’era lei a recensire tutti i benedetti capitoli io rimanevo sola nella mia piccola depressione, ma anche chi ha lasciato solo un paio di commenti, come alessia483, e tutte le anime senza nome che sono passate a dare una letta senza scrivere niente. Voglio bene anche a voi. <3
EBBENE, non aggiungerò altro ma vi lascerò a godere della magnifica sensazione di non avere più questo sclero tra le scatole!!! … mi ci vorrà un po’ a recepire quest’idea, sarò sincera u_u però sono felice un casino n_n perché nonstante tutto … è stata una bella storia, ed è stata divertente da scrivere!! Spero, per voi, divertente da leggere.
Sia tutti voi, che le quattro fascinose muse ispiratrici di questa cosa (?-Georg vestito da musa, ve lo immaginate? X_x), non vi ringrazierò mai abbastanza. :’)    
Baci, e ci sentiamo al prossimo capitolo di One Story Many Stories, che arriverà non appena avremo sistemato il prossimo di You Keep Giving Me a Taste of Your Venom (che vi consiglio di leggere se vi piacciono le cose molto punk e molto disagiate, con tentativi di defrocizzamento(?) e ovviamente, triangoli per tutti! :D --->>> spamspamspamspam o_o), e, perché no, alla prossima fan fiction disagiata che verrà prodotta dalla geniale mente della sottoscritta, da voi conosciuta come callingonsatellites, oppure …
Baci :*                         Lisa^^
 
 
 
[nota a fine pagina sotto la nota a fine pagina (?):
So che non è molto professionale ma … mi sono resa conto di non aver finito il discorso delle scarpe di cui si sente parlare all’inizio. Fatto sta che non sapevo dove infilarlo, il tutto ci stava fin troppo bene concluso così, e AAGh. Beh, vi basti sapere che di altro non si tratta altro che di due palazzoni alti venti centimetri che un giorno Kimmy trovò in un negozio imbucato nella ridente Liverpool, e che avevano così tanto la faccia di un paio di scarpe da Bill Kaulitz che … beh, il suo Instagram ce la dice lunga su come è andata a finire. 8)]

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