Senza di lei, mai più.

di MAMMAESME
(/viewuser.php?uid=187306)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senza di lei ... ***
Capitolo 2: *** ... mai più. ***



Capitolo 1
*** Senza di lei ... ***


SENZA DI LEI ...


Seguii la cancellata che circondava il cimitero e la saltai nel punto più vicino alla cappella funeraria della mia famiglia, il luogo dove avevamo lasciato Elena a "riposare". Un incantesimo ne impediva l’entrata a chiunque, ma non a me. Avevo chiesto questo  favore a Bonnie … me lo doveva: in fondo non l’avevo ancora uccisa.

Appoggiai le mani alla porta sigillata e la spinsi delicatamente: la serratura cedette docile alla pressione dei miei palmi.

Un intenso odore di polvere e stantio impregnava l’aria.

Non ero mai stato lì prima di quella sera: saperla chiusa in una bara era un dolore troppo forte.

La visione della cassa di legno lucido fece perdere parecchi colpi al mio cuore.

Passai le mani sul cofano coperto di polvere e andai a cercare la fessura che lo separava dalla bara, per infilarci le dita e sollevarlo.

Quella notte avevo davvero bisogno di lei, di illudermi di averla vicino, di sentirla accanto a me.

Ogni sera, rientrando a casa – quando e se decidevo di rientrare – il pensiero che non l’avrei trovata mi annullava. Il suono dei miei passi echeggiava nel vuoto che lei aveva lasciato. Non accendevo nemmeno la luce: non volevo vedere la sagoma della sua assenza.

Entravo barcollando nella mia camera: il letto sempre disfatto e le lenzuola, che avevano ormai perso il suo odore, giacevano stropicciate in fondo materasso.

Disordine. Disordine ovunque.

Sul pavimento del bagno si accumulavo i miei vestiti sporchi mentre sul mio volto la barba incolta segnava il passare del tempo, che non scorreva mai abbastanza in fretta.

Spesso mi svegliavo nel cuore della notte scosso da incubi, percorso da brividi che mi attraversavano dalla pelle al midollo.

All’alba mi alzavo stanco e sfibrato, sempre solo, fradicio di sudore e rabbia.

Il dolore non passava. Il gelo non si scioglieva.

Mi mancava Elena.

I giorni passavano ed io ne tenevo il conto tracciando fregi sull’anima.

Era trascorso quasi un anno e sembravano cento ma, ne ero certo, una volta risvegliata Elena, tutto questo tempo non sarebbe stato che un ticchettio stonato, un rintocco spezzato dell’orologio della torre.

Bonnie sarebbe potuta sopravvivere sessant’anni o sessanta giorni … forse solo sessanta minuti, se avessi dato ascolto al mio desiderio folle di soffocarla nel sonno … comunque per troppo tempo.

Mi ripetevo che il giorno dopo non poteva essere peggiore di quello appena trascorso, che ogni minuto era un minuto in meno da aspettare, un minuto lasciato gocciolare nel passato verso un futuro con lei.

Un pensiero mi tormentava, fastidioso come un picchio dentro la mia testa: se il tempo dell’attesa, se pur lento, fosse infine passato, con quale velocità avremmo esaurito il nostro tempo insieme?

Un giorno o cent’anni non sarebbero stati che un respiro, un lampo di luce dopo un’eternità di buio.

Lei umana. Io umano.

Un battito e tutto sarebbe stato inghiottito nell’oblio.

Ero convinto che ne sarebbe valsa la pena, ma sapevo bene che non mi sarebbe bastato … mai.

Scacciai i tormenti e fissai lo sguardo sul suo volto addormentato.

La magia aveva lasciato i suoi tratti inalterati; solo il colore era scomparso dalle sue guance lasciando un velo di grigio sulla sua pelle.

Posai la mano sul suo cuore per cercare un segno di vita.

I battiti erano lentissimi, dilatati nel tempo, quasi inesistenti per un orecchio umano.

Non era morta, ma non era nemmeno viva.

Se non fossi stato al corrente della folle tortura a cui ci aveva sottoposti l’immagine distorta di una Malefica al maschile, sarei caduto nell’inganno e, come Romeo vedendo Giulietta nella cripta, avrei gettato nella bara il mio anello e sarei andato ad abbracciare il primo raggio di sole.

Le sue palpebre chiuse erano un muro che m’impediva di vedermi riflesso nei suoi occhi, l’unico specchio che mi rimandava un’immagine accettabile della mia anima tetra.

Allungai una mano per accarezzarle la fronte.

Avevo voglia di parlarle.

Avevo voglia di sentire la sua voce.

Avevo voglia di lei.

Afferrai la sua mano fredda e me la portai alle labbra e, illudendomi che mi potesse sentire, chiusi gli occhi e incominciai a parlarle.

Dammi ancora un attimo,
un ultimo respiro, uno sguardo.
Elena, io ti salverò,
anche se dovessi strapparmi il cuore,
e salverò il nostro amore
anche se ciò significa rinunciare a te.
Lo metterò in una bottiglia di vetro,
lo sigillerò col sangue e un tappo di sughero.
lo affiderò alla tempesta,
ai venti impetuosi della disperazione,
affiche attraversi l’oceano del tempo
e approdi sulla spiaggia di quel futuro
in cui ci ritroveremo.
Non ci sarà bonaccia …
Non si infrangerà contro gli scogli del destino ..
Tu camminerai seguendo le tracce delle mie orme cancellate dalle onde,
inciamperai in questo relitto … intatto,
ed io sarò lì
fradicio di pioggia e sale,
ad aspettare che tu rompa quel vetro,
per ricominciare a vivere.
“Elena, spero che tu ti stia riposando per bene. Sappi che sto contando le notti che mi devi e, per ogni notte di attesa, mi dovrai restituire una notte di sesso folle.

Io, per ora, sopravvivo.

Qui fuori c’è un gran casino, dentro di me c’è un gran casino, ovunque è un gran casino.

Le cose per me non sono facili. Sono perennemente arrabbiato con me stesso, con te … con Bonnie che non si decide a schiattare … scherzo.

Anche no.

Stefan tenta di essere comprensivo ma la sua pazienza mi fa stare peggio, mi fa sentire indegno. Mi parla di te nei miei momenti più duri, mi ricorda che ti risveglierai.  

Ma io vivo nel terrore che, risvegliandoti, non mi vorrai più, che mi odierai per non aver ucciso Bonnie, per essermi lasciato andare alla deriva, per non essere rimasto con te in questa bara, ad aspettare il tuo risveglio, a dirti che ti amo fino a quando le mie vene non si fossero essiccate.

Sono tutti comprensivi, ma nessuno capisce fino in fondo cosa mi ha scavato dentro la tua mancanza, il fatto di saperti qui e non poterti avere, di saperti viva ma non vitale, sveglia ed eccitata al mio fianco.”

Parlare e non ricevere risposta era frustrante.

La sua immobilità mi faceva sentire impotente, furioso e stanco … soprattutto stanco.

Stanco di combattere una battaglia persa contro la mia solitudine, contro la voglia di premere quell’immaginario bottone e spegnere ogni emozione che abrade il mio cuore come carta vetrata.

Stanco di esistere e di resistere.

Quella sera il cielo era oscurato da nubi e l’assenza di luna rendeva tutto più tetro. Non c’erano raggi argentei che filtravano tra i vetri ad illuminarle il volto, né una candela a rischiarare la cripta: solo il buio, fuori e dentro.

Avevo passato la giornata ad evitare lo sguardo indagatore di mio fratello, il giudizio patetico degli occhi di mia madre e la tentazioni omicida delle scorribande con Enzo.

La situazione era resa insostenibile dalle continue tensioni tra la polizia e gli “amici” di Lily, che dominavano la città con la loro oscura magia e la loro sete di sangue, tenuta sotto controllo solo dalla ferma determinazione di mia madre affinché la sua famiglia, quella che si era scelta, ovviamente, avesse una dimora stabile e non si trasformasse in una banda di squartatori.

Bonnie si teneva cautamente alla larga da mie eventuali perdite di controllo e aveva sviluppato un certo sesto senso, o un incantesimo ad hoc, che la avvertiva ogni qual volta  mi avvicinavo a lei.

La città era avvolta nella polvere di una noia mortale: tutto era sotto il ferreo controllo di umani e vampiri, coesi in un equilibrio tanto precario quanto necessario perché non si finisse in un bagno di sangue.

Era come vivere in uno di quei film futuristici post catastrofici, in cui l’imposizione di un ordine era la causa stessa di un'imminente rivoluzione.

 Io non mi ero schierato.

Non volevo essere parte di squadre punitive munite di manganelli di legno appuntiti, né far parte di una cerchia di assassini sanguinari che mantenevano una pace apparente per poter continuare ad illudersi di essere una schiera di esseri eletti, destinati a dominare il mondo.

Io volevo essere un vampiro, un uomo … qualsiasi cosa, forse nulla, in attesa di riavere il mio futuro, la mia donna, la mia vita, che giacevano nella bara di fronte a me.

Incapace di resistere oltre, appoggiai le mie labbra sulla sua fronte fredda.

Sperai in una sua reazione, ma lei non ero Aurora ed io non ero il principe Filippo.

Il mio volto scivolò più in basso e le nostre guance si sfiorarono, accendendo in me il bisogno di avere di più.

A detti stretti maledii il destino e la mia debolezza, poi spensi la coscienza per non farmi seppellire dalla follia che stavo per compiere.

Nel silenzio della notte, le assi della bara scricchiolarono mentre m’infilavo in quello spazio angusto e mi sdraiavo accanto a lei.

Al suo fianco: quello era il mio posto.

Incrociai le mie dita alle sue e chiusi gli occhi, la mia fronte incollata alla sua tempia.

Aspettai il battito del suo cuore e cercai di entrare nella sua mente: se stava dormendo, forse sognava.

Buio.

Avrei sognato io per lei.

E questa volta non sarebbe stata una strada, non sarebbe stato un ballo, una resa, un addio.

Questa volta no.

Un altro battito: il leggero scorrere del sangue nelle sue vene mi diede la scossa e l’aroma del suo sangue umano solleticò le mie narici.

Lasciai la sua mano e immersi le mie dita tra i suoi capelli, per stringere la sua testa ancora più vicina alla mia, quasi a voler entrare fisicamente nel suo cervello.

Ero indeciso se rivivere un ricordo o immaginare un futuro, riprovare antiche emozioni o cercarne di nuove.

Lasciai scorrere i pensieri sulla sua pelle e mi ritrovai in camera mia, in un momento senza tempo, in un giorno senza data.

Mi guardai attorno e percepii qualcosa di diverso.

Certo quella non era la camera che avevo lasciato venendo alla cripta, non era la stessa che avevo condiviso con Elena per qualche notte, eppure era la mia camera.

Cercai i piccoli particolari che le la rendevano diversa, come nel gioco “trova le differenze”: le tende non erano le mie tende, le lenzuola non erano le mie lenzuola rosse e le candele profumate che riscaldavano l’aria non le avevo accese io.

C’erano ordine e calore, profumi e colori diversi, avvolgenti … un tocco femminile ben integrato nell’inalterato gusto maschile che permea la stanza.

Era una camera condivisa, era un locale in cui due persone trascorrevano insieme parte del tempo della loro vita.

Riconobbi il tocco di Elena nelle lenzuola blu, negli asciugamani azzurri impilati sulla cassettiera in attesa di essere riposti in bagno, nella luce tremolante delle candele al sandalo che bruciavano lente.

Lei era lì. Era stata lì, non c’erano dubbi. Quella era la “nostra” camera … nostra e di nessun altro.

Una voce echeggiò nella mia testa:

“Ero un po’ stanca del rosso …”

Elena.

“Elena? …”

Silenzio.

Mi guardai intorno ma non riuscii a vederla.

Mi diressi verso il bagno sperando di trovarla immersa in una vasca piena di schiuma … nulla.

L’immagine stava svanendo, come le mie speranze di rivederla, ma al suono di un altro palpito del suo cuore, la stanza riprese i suoi contorni.

“Damon … ti piacciono e tende? Il velluto di prima era troppo pesante e ho pensato che …”
“Elena!”

Era lì. Lei era lì … e dopo un anno mi viene a parlare delle tende?

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ... mai più. ***


2         MAI PIU'.

 

“Elena … dove sei?” la mia voce tremava per la tensione.

“Il sogno è tuo … se non lo sai tu …”

La sua risata mi fece voltare di colpo, ma l’unica cosa che riuscii a vedere fu il suo profilo evanescente contro la finestra buia.

Ancora una volta l’immagine stava perdendo i suoi contorni, cancellata dal buio.

Mi strinsi ad Elena ancora più forte, avvolgendola in un abbraccio di gambe e mani, desiderando con tutto me stesso che la visione non sparisse del tutto.

Posai il palmo aperto della mia mano al centro del suo petto, aspettando il battito successivo.

I polmoni le si riempirono appena di aria quando la pulsazione arrivò.

La camera proiettata nella mia mente riprese forma e, questa volta, Elena era seduta sul letto.

“Cosa ci fai qui, Damon?” mi domandò con un sorriso curioso.

“Secondo te?”

“Bonnie …?”

“Sei ancora addormentata, quindi … Bonnie sta bene … purtroppo.”

“Piantala. Ripeto: cosa ci fai qui, cosa ci faccio io dentro questa visione? Come è possibile?”
“Come sia possibile, non lo so. Perché, mi sembra ovvio,” borbottai.

Parlarle, sentire la sua voce … realtà o illusione non m’importava: era come rinascere.

Quando il corpo di Elena si fece di nuovo evanescente, premetti la mano sul suo sterno, causando un nuovo battito.

Lei riapparve.

Funzionava.

“Se questa sarà la nostra stanza, devo dire che mi piace.” Sorrise.

“Ci hai messo tu lo zampino, te ne se appropriata e l'hai rovinata con le tue 'cose da donna' ”, la punzecchiai.

“L’ho solo sistemata … credo. Non riesco a distinguere il sogno dal presente: sei un gran casinista anche quando crei illusioni.”

Con un ghigno ironico mi avvicinai al letto, fermandomi davanti a lei.

“Vediamo se riesco a fare di meglio” la sfidai.

Elena alzò lo sguardo e mi guardò con un sorriso felice, mentre dentro di me il desiderio e la disperazione facevano a gara per bruciarmi l’anima.

Le presi il mento tra le dita e mi avvicinai, affondando nei suoi occhi, cercando conforto nel calore delle sue iridi color cioccolato.

Lieve, appoggiai le mie labbra sulle sue, godendo nell’inganno di poter assaporare l’aroma del suo respiro.

Le sue labbra si dischiusero per accogliermi ed io mi rifugiai in lei.

Poterla toccare, stringerla a me, respirare il suo bacio, era una consolazione tale da farmi scordare, per un attimo, ogni maledetto giorno passato in solitudine. Le sue mani che scorrevano sul mio viso cancellarono l’amarezza del nostro distacco forzato, la disperazione di quell’anno passato all’inferno.

Senza staccare la mia bocca dalla sua, la feci sdraiare sul letto, adagiandomi sopra di lei, dimenticando la delicatezza e lasciando che la frustrazione diventasse passione e la rabbia una dolente felicità.

Elena si aggrappò alle mie spalle e mi attrasse contro di lei, affamata della stessa fame, assetata dello stesso amore.

Il suo cuore batteva frenetico, confondendo il battito sotto la mia mano con quello sotto il mio corpo.

Era viva, vitale, vivace, vorace …

Le emozioni ricominciarono a scorrere sotto la mia pelle, tanto intense ed improvvise da mozzarmi il fiato.

I sensi si accesero, donandomi un piacere che sconfinava nel dolore.

Alzai il viso per ammirarla, per cogliere la sua bellezza, per leggere sulla sua pelle la risposta alle mie preghiere.

Il bisogno di sentirla, di toccarla, di amarla si fece disperato.

Cercai con le mani la morbidezza del suo corpo sotto i suoi vestiti …

Com’era vestita? Non riesco nemmeno a ricordarlo.

Ricordo solo che quella stoffa mi sembrava una barriera inutile, un ostacolo alla mia fretta alla mia voglia irrefrenabile.

Elena non si oppose al mio assalto: si abbandonò con un sorriso soddisfatto alle mie carezze, adattando le sue curve alle mie mani, il suo corpo al mio.

E il cuore batteva … batteva talmente forte che sembrava volerle uscire dal petto per entrare nel mio.

La visione era talmente vivida e sensoriale sotto ogni aspetto, che mi scordai completamente che non era reale.

Sentivo le sue mani sulla mia schiena.

Sentivo ogni centimetro della sua pelle sotto i miei polpastrelli.

Sentivo la sua voce che mi chiamava, prima in un sospiro poi in una supplica.

Po la voce si distorse fino a diventare un urlo disperato.

“Damon … Damon …”

Il tono era stentoreo e la voce non era più quella della ragazza che mi stava accanto, dormiente.

L’illusione divenne un’immagine sfuocata.

Premetti sul petto di Elena, ma il suo cuore batteva accelerato come nel mio sogno.

Mi strinsi più forte ai suoi fianchi per richiamare la visione, ma la voce, quasi soffocata, mi richiamò crudelmente alla realtà.

“Damon … cosa stai … f … facendo?”

Bonnie.

No! Perché? Perché era qui?

“Bonnie, cosa vuoi? Che cazzo ci fai qui? Lasciami in pace … lasciami con lei”

La rabbia si fuse alla supplica.

I miei ordini scivolarono in preghiere e le preghiere avevano il tono imperioso degli ordini che non accettavano un rifiuto.

“Vattene e lasciami qui con Elena!” urlai con la voce spezzata.

“D…Damon… Mi stai uccidendo!”

Le sue parole non avevano senso: come potevo ucciderla se nemmeno la vedevo?

“Che cosa stai blaterando?” imprecai, mentre cercavo di non interrompere il contatto con Elena.

“Stai cercando di risvegliarla?” mi domandò tra i rantoli.

“No … sto solo …”

“Lei si sta risvegliando?” insistette.

Mi costrinsi a riaprire gli occhi, ma il volto di Elena non aveva cambiato la sua espressione … forse solo le labbra avevano un accenno di sorriso … o forse il buio ne alterava i contorni.

“No … non credo …” risposi, ormai rassegnato a dar retta a quella strega invadente.

“Aspettarmi qui, Elena” le sussurrai all’orecchio. “Mando a quel paese la tua amica inopportuna, poi potremo ricominciare da dove ci ha interrotti.”

Uscii dalla bara, mi diressi alla porta della cripta e, spinto dalla furia, la spalancai.

Bonnie giaceva a terra: annaspava senza fiato.

Per un attimo, per un brevissimo istante, fui tentato di porre definitivamente fine alle sue sofferenze, ma avevo promesso ad Elena che non avrei mai attentato alla vita della nostra amica più cara, quindi mi chinai per capire cosa le stesse accadendo senza oltrepassare la soglia della cripta.

“Damon … il suo cuore …”

“Batte … batteva già quando sono arrivato … non è morta! Ma questo cos’ha a che fare con te e con il fatto che sembra che tu stia per schiattare qui, davanti a me?”

“Quanto forte batte?”

“Cos’è questo? Un episodio di Grey’s Anatomy? Batteva molto lentamente, Dr Bennet, un battito ogni tanto. Poi … sai com’è: la visione, noi … insieme … sul letto …”

“Damon! Se il suo cuore accelera, rallenta il mio … se lei si risveglia, io muoio!”

“Ma lei non può risvegliarsi! Non può … vero?”

“Non dovrebbe, ma a quanto pare tu stai per riuscire a fare quello che non dovresti, stai per riportarla dove non dovrebbe tornare, perlomeno non fino a quando io sarò viva.”

Più rimanevo lontano da Elena, più il respiro di Bonnie si faceva regolare.

Mi voltai spaventato verso la bara, sicuro che Elena stesse tornando nell’oblio, troppo presto, sempre troppo presto.

“Bonnie … voglio stare con lei ancora qualche minuto”  … per sempre ...

“Damon, non so quanto io possa resistere se tu continui a far battere il suo cuore troppo in fretta. Lei dormirà, ma sarà viva … io posso solo morire.”

“Sei morta mille volte … una più una meno …” ringhiai.

Il ronzio della tentazione nefasta di farla finita lì e subito divenne assordante.

Non potevo lasciare che Bonnie morisse.

Non potevo lasciare Elena un’altra volta.

Con la mano aperta diedi una botta allo stipite della porta che mi separava dalla strega accasciata sui gradini di pietra, che mi rinchiudeva in uno spazio tanto infernale quanto paradisiaco. Non potevo essere all’inferno se Elena era con me, non potevo essere in paradiso se non mi era concesso di averla … e il purgatorio era pura agonia.

Sentii Bonnie rialzarsi, riprendere le forze, respirare regolarmente.

Fulmineo mi diressi verso la bara e posai entrambe le mani sul petto di Elena, in attesa di quel lieve battito che mi avrebbe riconnesso con i suoi pensieri.

E ancora chiusi gli occhi.

E ancora la cercai.

La sua figura, tremolante e precaria come la fiamma di un cerino, mi apparve sullo schermo nero delle mie palpebre abbassate.

“Lasciami andare, Damon” sussurrò, con le labbra piegate in un sorriso sereno.

“Tienimi con te” la pregai.

“Torna alla tua vita, io non scappo …” mi schernì con dolcezza.

“Quale vita? Senza di te non ho una vita, solo un lungo, inutile calvario.”

“Dam ...”

L’immagine svanì mentre io crollavo sulle mie ginocchia.

“Damon … vieni fuori … per favore.”

La voce di Bonnie mi violentò i timpani, come unghie sulla lavagna.

“Bennet. Sei viva. Non sfidare oltre la sorte. Vattene.”

Trattenni tra i denti l’urlo che avrebbe buttato le mie parole in faccia a Bonnie con la violenza di una manciata di sassi.

“Ma … tu … non …”

“Vattene ora, o cambio idea e ti trascino in questa bara per farti occupare il posto Elena!” la minacciai.

La sentii allontanarsi con un sospiro rassegnato. I suoi passi scricchiolavano lenti sulla ghiaia del vialetto che conduceva fuori dal cimitero.

Senza alzarmi mi voltai per sedermi con la schiena appoggiata ai sostegni della bara.

Affondai il viso nelle mani e mi stupii sentendole umide.

Gocce di disperazione irrigavano le mie guance senza che me ne fossi reso conto.

Stille di angoscia m’irrigavano il volto arato dalla tensione.

Avevo dato ad Elena i brandelli della mia anima e lei li aveva ricuciti, insieme a quelle parti che credevo perdute per sempre, per poi ritrovarle nel suo sguardo pieno di fiducia.

Mi aveva ricomposto ed ora le appartenevo.

Mi aveva riassemblato, ma sarebbe basato un soffio e il vento si sarebbe ripreso le schegge del  mio essere.

Nel tempo trascorso senza di lei, sentivo che il collante stava per esaurirsi, essiccato dalla mancanza del suo amore. Avevo la sensazione che presto mi sarei sbriciolato se non l’avessi avuta con me e, quando ogni briciola fosse stata ingoiata dai becchi voraci del tempo, di me non sarebbe rimasto che un’ombra, un’anima nera e colma di rabbia, assetata di sangue.

La speranza di rivederla non mi sarebbe bastata, l’attesa mi avrebbe solo consumato, imbruttito, reso crudele. Al suo risveglio, Elena non avrebbe ritrovato l’uomo che ero diventato e nemmeno quello che aveva conosciuto, strafottente e incurante.

Non avrebbe trovato più nulla, solo cenere e tempesta, impossibile da ricomporre, impossibile da amare.

Mi aggrappai ai bordi della bara per rialzarmi, fradicio di lacrime e disperazione.

Guardai Elena e, rassegnato, mi aggrappai al coperchio di quel maledetto sarcofago per richiuderlo sul suo volto sereno.

Il dolore mi trafisse le costole e le mie mani sbriciolarono il legno nel punto in cui avevo stretto la presa.

Il coperchio rimase alzato.

Pensieri e dubbi vorticavano, si rincorrevano in scie confuse nella mia mente.

Fuori mi aspettava una vita non vita.

Nella cripta una morte non morte.

Dolorosa la seconda. Insostenibile la prima.

Un sospiro mi gonfiò i polmoni: ricominciai a respirare … non mi ero nemmeno accorto di aver smesso.

La scelta era solo apparente, l’opzione valida una sola.

Buttai fuori l’aria e con essa i tentennamenti.

Non c’era più nessun dubbio … non c’era mai stata alternativa.

Un sorriso ebete deformò le mie labbra gonfie mentre mi calavo nella bara: non sarei potuto andare da nessun’altra parte, non avrei voluto essere altrove.

“Fammi spazio, angelo mio … credo proprio di aver bisogno di dormire un po’. Appena riaprirai gli occhi, svegliami.”

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3175098