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di Sea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** XXIV ***
Capitolo 25: *** XXV ***
Capitolo 26: *** XXVI ***
Capitolo 27: *** XXVII ***
Capitolo 28: *** XXVIII ***
Capitolo 29: *** XXIX ***
Capitolo 30: *** XXX ***
Capitolo 31: *** XXXI ***
Capitolo 32: *** XXXII ***
Capitolo 33: *** XXXIII ***
Capitolo 34: *** XXXIV ***
Capitolo 35: *** XXXV ***



Capitolo 1
*** I ***



 
HERO


 
Polvere.
Silenzio.
Una luce tiepida batteva sul bancone di legno della biblioteca di quella città sperduta tra le colline inglesi. Il legno di ciliegio si accendeva di rosso.
Forse quello era il suo momento preferito della giornata: l’ora di pranzo. Quando tutti andavano via, a mangiare da qualche parte in compagnia di qualcuno, lasciandolo finalmente solo nella sua quiete. Qualche volta riusciva anche a schiacciare un pisolino, ma quello era un lunedì di Dicembre e gli studenti erano nel pieno degli esami, quindi dubitava che per quella volta avrebbe potuto chiudere gli occhi per completare le sue giornaliere 5 ore di sonno.
Edward conduceva una vita decisamente stancante, ma non aveva nessuno con cui condividere quel dettaglio. I suoi segreti li confidava soltanto ai libri di quella biblioteca in cui faceva l’impiegato. Trovare quel lavoretto era stata una fortuna, buona paga e orari comodi, ma tutta quella polvere lo faceva impazzire.
Per il resto, non era un lavoro troppo pesante, ma sapete com’è, andare avanti e indietro tra gli scaffali alla ricerca di libri che non aveva mai letto -  nascosti chi sa dove - e poi riordinare tutti i libri restituiti, poteva diventare faticoso, soprattutto in quel periodo dell’anno. Spesso e volentieri usciva da lì stanco morto, abbastanza da poter rinunciare a tornare a casa e dormire lì, ma non glielo permettevano. La parte che più odiava di quel lavoro, era il contatto con le persone. Non era un tipo molto socievole, non gli piaceva parlare, a dire il vero non gli piacevano gli esseri umani. E si vedeva.
Non parlava mai con nessuno, evitava di aprire la bocca il più possibile, probabilmente agli occhi degli altri era soltanto il tizio strano al banco dei prestiti della biblioteca, quello col muso lungo, i capelli rossi e le occhiaie. A lui, comunque, non importava. Non voleva avere a che fare con nessuno, gli esseri che trovava quando tornava a casa gli bastavano ad annullare qualsiasi voglia di socializzare con altri esseri viventi.
Era sempre in mezzo alla gente, ma era solo. L’unica persona per la quale rimaneva ancora in quella città era sua nonna, che a 80 anni suonati aveva ancora la forza di dirgli che la vita è bella e che il suo futuro era luminoso. Probabilmente avrebbe dovuto portarla a fare una visita oculistica. Tutt’al più nel suo futuro c’era quella biblioteca polverosa.
Da quando sua madre era morta, aveva abbandonato il suo sogno di cantare. Non appena ebbe ottenuto il diploma, il suo patrigno lo intimò di cercarsi un lavoro, altrimenti lo avrebbe cacciato fuori dalla sua stessa casa, ritrovandosi così con un idiota, suo figlio e sua nonna sulle spalle. Era stato un amico di suo padre a trovargli quel posto e lui, messo così alle strette, non potè che accettare la proposta.
Era ironico per lui lavorare in mezzo a una miriade di libri ed essere una cenerentola in piena regola, come se fosse sceso da uno scaffale e si fosse messo lì a fare le pulizie, esattamente come aveva sempre fatto.
Era la sua vita. Non poteva farci quasi niente.
Mentre le ragazze e i ragazzi uscivano dalla sala tiepida, vide il suo fratellastro avanzare a grandi falcate verso di lui, camminando sul vecchio pavimento in cotto.
Era del tutto fuori luogo in quel posto: capelli e occhi neri, giaccone nero, stivali ancora più neri. Non era esattamente un tipo da biblioteca, mettiamola così, lui preferiva definirlo un pipistrello con la faccia di un ragazzo, ma era viscido esattamente come sembrava.
Si alzò dal suo sgabello alto e si avvicinò al bancone.
  • Ehi, idiota. – fece quello. – Si può sapere perché non sei a casa a preparare il pranzo?
  • Ciao anche a te, Jef. – rispose, mettendo nel suo tono un’ironia e un sarcasmo che il suo fratellastro non sapeva mai cogliere. – Sai com’è, sono a lavoro.
Jeffry non era un tipo molto intelligente, la sua stupidità era direttamente proporzionale alla quantità di collane che portava al collo. Ed erano tante.
  • E chi mi prepara il pranzo? – disse, allargando le braccia in segno di protesta.
  • Indovina un po’, Jef? – rispose, trattenendo una risata sotto i baffi. – Tu.
Lo indicò con l’indice e quello strabuzzò gli occhi, sconvolto dal fatto che avrebbe dovuto prepararsi il pranzo da solo. Ed – come lo avevano sempre chiamato – attese la monotona reazione del fratellastro: lasciar cadere la braccia, roteare gli occhi, sbuffare sonoramente e andare via, protestando per la sua incompetenza.
Fece un sospiro, stanco persino di chiamarlo ‘idiota’ nella sua mente e si portò una mano al collo, strofinando sulla nuca per cacciare via quel brivido che gli dava averlo a meno di due metri di distanza. La loro convivenza non era esattamente pacifica.
Non che lui fosse un tipo esile, ma non riusciva a fare certe cose senza che la sua coscienza non lo rimproverasse e alla fine glielo impedisse. Un giorno tutto quello strazio sarebbe finito – o almeno così sperava.
Afferrò il suo giaccone blu e lo infilò, mentre oltrepassava il bancone per dirigersi all’esterno, a godersi quella pausa pranzo mangiando qualcosa. Prese le chiavi della porta principale facendole tintinnare, poi le infilò nella toppa, diede un paio di mandate e uscì fuori.
Il suo respiro si trasformava in vapore sotto quel cielo grigio. Guardò in alto, sperando che non cominciasse a nevicare e – ovviamente – un fiocco di neve gli si posò proprio sulla guancia. Non che avesse qualcosa contro quel fenomeno atmosferico così apprezzato dai più, ma lui non aveva una macchina ed era costretto a girare in bicicletta. Non era divertente cadere a causa del ghiaccio.
Prese un profondo respiro ed infilò le mani in tasca, avviandosi dall’altra parte della strada. I marciapiedi curati e i lampioni in ferro battuto di quella piccola cittadina, rendevano quel luogo così accogliente che quasi gli dispiaceva odiarlo, ma non poteva farci niente. Desiderava soltanto dimenticare ogni cosa e voltare pagina per sempre.
 
Entrò nella caffetteria poco distante da lì e lasciò che il calore lo accogliesse, insieme allo scampanellio della porta. Salutò il proprietario con un cenno della mano e andò a sedersi al solito tavolo, in fondo alla sala. Ordinò il solito, mentre si stringeva nel suo vecchio maglione.
Era un cliente fisso di quel caffè da quando aveva cominciato a lavorare alla biblioteca e tutti, lì dentro, sapevano chi fosse, eppure l’unica persona che lo salutava era il proprietario. Sapeva di avere un’aria poco rassicurante, sempre così taciturno e cupo, ma a lui non faceva differenza. Mangiò da solo, guardandosi intorno per vedere chi degli habitué fosse presente: c’era il nerd con uno dei suoi libroni, la barbie col rossetto rosa, la vecchia signora col suo barboncino minuscolo e il solito gruppetto che sembrava il trio di Harry Potter appena uscito da scuola, con la solita tazza di cioccolata calda davanti. Mancava ancora qualcuno, ma probabilmente sarebbero arrivati a breve, più o meno quando lui si sarebbe alzato per tornare ad aprire la vecchia topaia. Invece si sbagliava: era stato un illuso a pensare di conoscere alla perfezione ogni movimento di quel posto a quell’ora, poiché proprio in quel momento stavano entrando due persone che non aveva mai visto.
Una ragazza spinse la porta, chiedendo alla persona dietro di lei se stesse bene e capì perché quando vide l’enorme pancione che portava davanti. Augurarono il buongiorno al personale e si diressero al tavolo accanto alla vetrata.
Fecero cadere un po’ di neve a terra, mentre sfilavano i cappotti.
Distolse lo sguardo, pensando che lui non si sarebbe mai seduto in un posto così esposto ed illuminato. Prese un sorso d’acqua per inghiottire l’ultimo boccone del suo panino e alzò di nuovo lo sguardo, consapevole del fatto di essere invisibile agli altri. Nessuno mai lo notava, quindi era libero di osservare la gente senza essere disturbato. Si soffermò su quella nuova presenza e analizzò la sua figura. No, non l’aveva mai vista, nemmeno in biblioteca.
Bassina, gambe sottili, capelli lunghi, non aveva un’aria familiare, ma sembrava una tipa a posto: aveva il suo permesso di frequentare quel posto.
Sorrise a se stesso per quell’assurdità e guardando l’orologio, decise che era ora di alzarsi. Mentre scioglieva le gambe dal loro intreccio, afferrò il cappotto e si alzò. Passò davanti a quel tavolo, ma non degnò nessuno di uno sguardo, dirigendosi prima alla cassa e poi direttamente alla porta. Andò via con la convinzione che nessuno lo avesse notato, ma due occhi verdi presero a seguirlo oltre la vetrata.
 
Quella sera doveva suonare in un locale in periferia e nevicava come se Dio stesse lanciando tonnellate di coriandoli tutte su quella città. Le strade si erano già imbiancate e la sua bicicletta non era al coperto. Terminò di risistemare i libri più in fretta che potè, altrimenti sarebbe arrivato in ritardo per preparare la cena. Non sapeva cucinare bene, come ci si aspetta da un uomo, quindi era giunto alla conclusione che il suo patrigno si divertisse a rendergli la vita impossibile ed era effettivamente così, dato che lui era l’unico a lavorare in casa e doveva mantenere tre persone adulte, occupandosi anche delle faccende e dei pasti. Negli anni era diventato una brava massaia, ma non abbastanza da farsi piacere quella fatica e quella casa.
Dato che ci era cresciuto, lì dentro, aveva almeno i ricordi di sua madre che la mattina preparava i toast con la marmellata di more o di suo nonno che gli insegnava a giocare a battaglia navale. Quei fantasmi e sua nonna, erano la sua unica consolazione.
Con quel pensiero nella mente, posò l’ultimo libro di letteratura inglese e si fiondò fuori dal portone. Tolse la piccola montagna di neve che occupava il sellino e pregò di arrivare intero a casa.
L’aria era gelida. Sentiva le guance subire il pizzicore provocato dal freddo, come lame di coltelli, dovette concentrarsi per non chiudere gli occhi lacrimanti. Era già stanco. Non sapeva come avrebbe fatto ad arrivare alle 3:00 della mattina successiva, ma avrebbe dovuto farcela.
Lungo le strade illuminate, le automobili gli sfrecciavano accanto, incuranti del fatto che fosse un povero ragazzo in bici sotto una tormenta.
Per fortuna il cancello davanti casa sua non era stato ancora bloccato dalla neve. Il grande vialetto che portava alla sua piccola villa, l’eredità di suo nonno, portava i segni di alcune impronte. Avevano ospiti?
Superò il colonnato antistante la casa, mettendosi al riparo sotto la veranda. Quando entrò dalla porta, sentì il suo patrigno che parlava con qualcuno, ma non aveva idea di chi potesse essere. Non riusciva a distinguere le parole dell’uomo che stava parlando, così si fermò per un istante ad ascoltare, ma il rumore dei passi di Jef che scendeva le scale, lo costrinse a rivelare la sua presenza, altrimenti avrebbero capito che stava origliando. Ancora una volta, si sentì prigioniero in casa sua. Annunciò il suo arrivo, facendo rimbombare la sua voce sulle pareti dell’ingresso. Jef lo vide sulla porta e rimase in silenzio appoggiato alla ringhiera delle scale. Non ebbe il tempo di ragionare che il suo patrigno e l’uomo misterioso uscirono dal salotto. Continuarono a parlare, ignorandolo. Nemmeno i suoi capelli rossi attirarono l’attenzione dell’uomo anziano che, dopo un saluto veloce, uscì fuori in mezzo alla tormenta.
  • Finalmente.
Ben, l’uomo che proclamava di essere suo padre, scuriva lo sguardo dall’altezza del suo metro e novanta. Alzò i suoi occhi chiari per incontrare il suo sguardo e non rispose, rimanendo immobile al suo posto.
  • Che cosa stai aspettando? Ho fame.
Quell’uomo, una cinquantina d’anni, era la persona più oscura e crudele che conoscesse. Quella sera evidentemente era di buon umore, altrimenti sarebbe ancora lì a ricordargli che la sua esistenza era superflua e che sua madre avrebbe fatto meglio ad abortirlo.
Ovviamente sapeva che non era vero, ma il solo fatto che un uomo del genere osava pronunciare il nome di sua madre gli dava il voltastomaco. Si tolse il cappotto, scoprendo le spalle larghe. Il fatto di essere più basso di lui di 15 centimetri, faceva svanire qualsiasi vantaggio il suo corpo gli offrisse.
Nel giro di 20 minuti preparò la prima cosa che trovò in cucina, inghiottì la sua porzione seduto accanto al camino e volò in camera sua a prendere la chitarra.
La sua stanza sembrava un campo di battaglia, prima o poi avrebbe dovuto riordinarla altrimenti ci si sarebbe perso dentro. Forse uno di quei giorni avrebbe trovato il tempo di lavare i suoi vestiti e magari di stirare una camicia, ma in quel momento si preoccupava solo che la tormenta finisse per permettergli di uscire da quell’inferno e percorrere quei 13 chilometri che lo separavano dal locale. Se fosse rimasto un minuto di più, avrebbe rischiato di uscire di lì in ritardo e con un occhio pesto. Ben aveva aperto la sua nuova bottiglia di gin e lui non voleva partecipare alla festa.
 
Aveva i piedi bagnati e congelati, sperò di non prendersi la febbre, sarebbe stata una tragedia. Quando entrò, il barista gli diede indicazioni su dove mettersi, guardandolo con sufficienza, come se poi lui fosse un uomo di mondo, chiuso in quella bettola in vecchio stile, con le luci soffuse e il bancone ancora in legno. Si diresse allo sgabello posto al centro di una minuscola pedana, collocata in un angolo del locale. Un faretto giallo era puntato proprio su di lui, mentre abbandonava il cappotto pieno di neve a terra e si toglieva la brina dai capelli.
Era sabato e quel posto aveva una certa clientela, evidentemente la tormenta aveva portato la gente a chiudersi nei locali. Era raro per lui avere un pubblico che superasse le 20 persone, quindi quella cinquantina gli sembrò una folla, ma quando si trattava di musica non si faceva intimidire da qualche persona in più. Non ci doveva mica parlare.
Testò il microfono che, come gli succedeva sempre, fischiò facendolo sembrare uno sfigato. Non capiva perché avesse quella sensazione: era colpa del microfono, mica sua.
  • Ciao, - si fece coraggio – sono Ed Sheeran e questa sera vi terrò compagnia per un po’. Buona serata a tutti.
Strinse l’ultima chiave della chitarra e provò l’accordo. Quella melodia che lo aveva stregato da bambino e che lo aveva tenuto lontano da tutto e da tutti, ancora una volta costituiva la sua finestra su quel paradiso in cui non esistevano Ben o Jef o qualunque altro essere vivente che avesse intenzione di fargli vivere l’inferno in terra. Quando cantava era un uomo libero.
Per un attimo la sala si zittì quando prese un respiro e cominciò a cantare una sua canzone, ma ben presto la gente tornò a chiacchierare. Odiava che la gente non facesse silenzio, ma d’altronde non erano lì per lui, era lui che era lì per loro e per quei miseri spiccioli che gli avrebbero dato 6 ore dopo.
Era abituato a non curarsi del fatto che la metà delle persone non lo ascoltasse affatto, ma sperava sempre che qualcuno lì in mezzo apprezzasse almeno un po’ le sue dita sulla chitarra e le sue parole riversate in musica, perché erano quelle canzoni a tenerlo vivo e magari qualcuno se ne sarebbe accorto.
Con i soldi di quella sera avrebbe potuto comprare una una loop station e fare una musica più d’effetto e magari avrebbe potuto chiedere un po’ di più per un’intera serata di spettacolo.
Non sempre le sue canzoni catturavano la folla, quindi spesso si dedicava a cover di pezzi famosi ed era allora che la gente si divertiva, ma la serata passava più lentamente.
A volte si chiedeva cosa vedesse la gente, quando guardava verso quel ragazzo così strano, jeans calanti, maglione scuro, Vans al piede. Come appariva agli occhi degli altri?
Era lo stesso Edward che vedeva lui allo specchio?
Di certo non si distingueva dalla massa per la sua vivacità.
Ad un certo punto della serata, gli si avvicinò il cameriere con il vassoio poggiato sul palmo della mano.
  • Qualcuno ti manda una birra! – urlò quello, per tentare di farsi sentire oltre quel chiacchiericcio.
Doveva avere un’espressione sconvolta, perché il cameriere lo fissò mentre gli tendeva la bottiglia, in attesa che lui la prendesse. Si scosse dai suoi pensieri e l’afferrò, guardando il vetro luccicare alla luce del faretto.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, non sapeva cosa pensare.
Alzò lo sguardo sul locale gremito, pensando di incontrare lo sguardo del mandante, ma non avvenne, così si limitò a dire qualcosa al microfono.
  • Grazie per la birra, chiunque tu sia. – alzò la bottiglia alla salute dello sconosciuto e prese un sorso. Era la sua preferita.
Per qualche motivo, continuò a vagare con lo sguardo tra la gente, cercando di individuare il possibile benefattore, ma non aveva la minima idea di chi potesse essere o se fosse ancora lì. Non che gli dispiacesse che qualcuno gli avesse offerto una birra, ma era una cosa che non gli capitava mai e il suo inconscio lo portava a chiedersi cosa ci fosse dietro quel gesto, quale richiesta, quale pretesa.
Non aveva mai avuto nulla di gratuito in vita sua e non si aspettava che sarebbe accaduto mai, ma per quella volta volle godersi la birra fresca in quel posto caldo.
Quando la gente cominciò ad andare via, erano le 2 del mattino e aveva le dita che gli facevano male. Mezz’ora dopo scese dallo sgabello e per inerzia prese i soldi ed uscì fuori. Nevicava ancora, ma la bufera era finita. Si allacciò bene il cappuccio in testa e si assicurò la chitarra in spalla, per percorrere quei 13 chilometri nel buio e nella desolazione di una notte di Dicembre nell’hinterland inglese.
Quando finalmente superò la porta d’ingresso di quella casa, desiderò uscirne immediatamente sentendo i passi di Ben raggiungerlo all’ingresso. Era troppo tardi per scappare in camera sua.
  • Si può sapere che fine hai fatto?
L’odore dell’alcool si sentiva da metri di distanza. Fece un passo verso la prima via di fuga che vide, ma quello si mosse inconsapevolmente nella stessa direzione.
Ebbe la sensazione che qualcuno volesse fargli pagare quella birra gratis.
  • Ti ho detto che prima di andare via devi lavare i piatti, altrimenti…
Era sempre così. Quell’idiota si ubriacava e non vedeva l’ora che tornasse a casa per sfogarsi su di lui.
  • Sei l’essere più inutile che conosca. Maledetto ragazzino, tua madre avrebbe fatto meglio a lasciarti a qualche istituto.
Sentiva l’ansia assalirgli il petto mentre Ben faceva un altro passo verso di lui. Prese un profondo respiro, senza distogliere lo sguardo dal suo corpo oscillante. Rideva, mentre la distanza tra loro diminuiva. Sapeva già come sarebbe finita.
Quello si scagliò su di lui: lo prese per una spalla e lo bloccò contro il muro. Ben era più forte di quanto sembrasse e lui era troppo basso e troppo stanco per riuscire a liberarsi da quella morsa. Infondo, lui era un ex lottatore.
Il pugno nello stomaco arrivò forte come un’auto in corsa, facendolo piegare in due subito dopo. Con la vista appannata fece un passo in avanti e lo superò appena in tempo per evitare il secondo colpo. Trascinò la sua chitarra su per le scale, ma quando fu quasi fuori la porta della sua stanza, Ben riapparve come dal nulla e gli mollò un altro cazzotto in pieno viso. Lo spinse via, approfittando della sua ubriachezza e riuscì a rifugiarsi in camera. Prima ancora di pensare al dolore, chiuse la porta a chiave e si lasciò andare a terra, pregando che quella vita finisse in fretta.
Ben continuava a sbraitare fuori dalla porta, urlandogli di essere una maledetta spina nel fianco.





Angolo autrice:

Salve gente! Dopo Afire love non ho saputo resistere e ho cominciato a scrivere un'altra storia.
Mi auguro di non deludere le aspettative di chi ha letto la precedente, spero che questa malsana idea sia sensata e che io abbia la lucidità di portarla a termine, ma sono ancora in alto mare.
Che dire, che ve ne pare? Qual è la vostra prima impressione?
Ovviamente, aspetto le vostre recensioni piene di consigli e correzioni, mi raccomando!
Tempo al tempo, la storia andrà avanti.
Al prossimo capitolo! :)

S.

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Capitolo 2
*** II ***






 
II

 

Non era la prima volta che andava al lavoro con un livido in viso, pensava che la gente si fosse abituata a vederlo barcollare dietro il bancone, cercando di resistere alla forza di gravità.
Quella mattina sembrava che il desiderio di farsi prestare un libro dalla biblioteca avesse conquistato tutti, dato che era passata solo un’ora e aveva già fatto compilare 27 moduli. Il mondo ce l’aveva con lui, ma per fortuna quella sera sua nonna aspettava la sua visita ed aveva una buona scusa per rientrare il più tardi possibile.
Una ragazza gli aveva chiesto di trovarle un libro sulla mitologia greca che non aveva mai sentito nominare, quindi si avventurò nella sezione più sperduta della biblioteca, sperando di trovarlo come per magia. Come se il suo desiderio si fosse realizzato, una scritta a caratteri dorati lo attirò ed era proprio quel libro. Quando lo riportò al bancone e ve lo poggiò sopra, una nuvola di polvere si alzò, facendo tossire la ragazza che, ancora colpita dal suo livido, firmò in fretta e furia e andò via. Succedeva sempre così. La gente aveva una mentalità ristretta, si comportava come se quel livido se lo fosse meritato, come se fosse un poco di buono da cui stare alla larga.
Guardava tutti quei ragazzi in fila per il prestito come fossero degli allocchi, in attesa che un libro gli cambiasse la vita, ma non sapevano che non era così che funzionava?
Di modulo in modulo, sentiva lo stomaco aggrovigliarsi per quel pugno e per la nausea, desiderando soltanto fare 5 minuti di pausa per concentrarsi sul dolore.
Gironzolò per la grande sala per tutta la mattina, il suo maglione blu si riempiva sempre più di polvere ad ogni libro, provocandogli spesso e volentieri qualche starnuto che non faceva che acuire il suo mal di testa.
  • Mi servirebbe un libro sui pipistrelli.
Un libro sui pipistrelli. L’avevano preso per mago Merlino, forse? Che ne sapeva lui dei libri sui pipistrelli? E poi a cosa gli serviva un libro sui pipistrelli?
La gente era strana, lo capiva da tutti i libri strani che cercava in quel posto: libri sui fantasmi, sul ricamo, sulle leggende medievali ed ora sui pipistrelli.
Si avventurò nuovamente nella sezione “animali” e cominciò a cercare tra gli scaffali alla sua altezza. Non era una novità che qualcuno si cercasse libri da solo, ma di solito chi lo faceva non si arrampicava sulle mensole. Proprio dall’altra parte della libreria, riusciva a scorgere qualcuno intento a raggiungere un posto decisamente più alto di lui, così fu costretto ad aggirare gli scaffali e andare a controllare cosa stesse succedendo: guarda tu se doveva dire ad una persona adulta di scendere dalla libreria. Sbuffò mentre si affacciava dall’altra parte, ma poi vide qualcuno di familiare: era quella tizia nuova del caffè.
Era tutta intenta a raggiungere la quota 1.80 m dalla sua statura, ma non ci riusciva. D’un tratto si voltò verso di lui e strabuzzò gli occhi, vedendo il suo tesserino. Scese dallo scaffale e parlò.
  • Scusi, scusi! Non lo faccio più! – era davvero in imbarazzo.
Ed trattenne una risata, sentendo il livido pulsargli al minimo movimento del viso.
  • Ti serve qualcosa? – disse soltanto, tirandosi giù le maniche del maglione.
  • Quel libro lassù.
Indicò un libro con la copertina rossa davvero troppo in alto per lei. La vide spostarsi indietro i lunghi capelli castani, probabilmente ripensando alla figuraccia che aveva appena fatto. Ballonzolando nel suo jeans, si avvicinò a lei e senza dire una parola, si sporse in alto per recuperare il libro. “Un mondo di fiabe”.
Senza indugiare un momento, glielo porse, vedendola da vicino per la prima volta. Era più alto di lei di almeno 7-8 centimetri, ma la sua corporatura minuta la faceva sembrare ancora più piccola. Afferrò il libro con le dita lunghe e gli sorrise, illuminando il viso.
Si sentì in imbarazzo dinanzi a quel gesto, nessuno gli sorrideva mai, soprattutto quando aveva un livido in faccia. Tentò di rifugiarsi dentro il maglione quando lei lo ringraziò.
  • D-di niente. – doveva essere davvero patetico.
La ragazza alzò la mano in segno di saluto e andò via, lasciandolo di nuovo solo. Ultimamente gli capitavano cose strane e non sapeva se fosse un bene. Tornò alla ricerca del libro sui pipistrelli, senza smettere di ripensare agli occhi verdi di quella nuova sconosciuta. Probabilmente avrebbe fatto meglio a dimenticarsi presto anche della sua esistenza, ma per qualche motivo si sentì meno solo per quella mattinata.
 
Non la vide più, né al caffè né in biblioteca. Probabilmente non l’avrebbe affatto vista nemmeno nei giorni a seguire.
Quando uscì dalla caffetteria, facendo tintinnare il campanello, il suo cellulare vibrò. Lo prese dalla tasca e rispose a Jef.
  • Papà vuole che tu vada a ritirare delle cose per lui. – la voce era ancora assonnata.
  • Sto rientrando a lavoro, Jef. – rispose, atono.
  • Penso che tu faccia meglio ad andare, fratellino. Non è di buon umore oggi. Fatti trovare fuori alla stazione centrale tra 15 minuti o sarà peggio per te quando tornerai a casa. Ma non c’è bisogno che te lo dica io.
Chiuse la chiamata percependo chiaramente il dolore allo stomaco tornare a tormentarlo. Aveva vergogna di se stesso ad ammettere di avere paura di quell’uomo, ma riusciva sempre a perdonarsi quando ripensava a tutto ciò che gli aveva fatto passare. Un altro come lui sarebbe nelle sue stesse condizioni, trovandosi a preferire l’obbedienza al dolore fisico.
Sotto i primi fiocchi di neve, andò a prendere la bicicletta e cominciò a pedalare verso la stazione più veloce che poteva, pregando di non cadere.
Il freddo di quella giornata gli anestetizzava il livido che gli copriva lo zigomo e gli spostava i capelli rossi sulla fronte. Incurante del fatto che sarebbe arrivato tardi a lavoro, si fermò fuori alla vecchia stazione. Era una di quelle classiche stazioni inglesi in ferro battuto, tutte decorate di intarsi e lampioni dalla luce gialla. L’uomo dietro al vetro della biglietteria sonnecchiava col giornale in mano.
Col respiro pesante, scese dalla bici, pregando che questa persona arrivasse presto, altrimenti avrebbe avuto un richiamo. Non poteva permettersi di perdere il posto.
Fece vagare i suoi occhi chiari tra la gente, alla ricerca della persona che lo aspettava, ma qualcuno lo fece sobbalzare mettendogli una mano sulla spalla.
  • Edward?
  • Sì! – disse, scattando. – Sì, sono io.
  • Mi raccomando. – e gli porse una busta gialla porta-documenti – Devono arrivare intatti.
Quell’uomo di mezza età, calvo e con gli occhiali, poteva sembrare una persona normalissima nel suo completo da ufficio, ma a lui sembrava appena uscito da un manicomio con quello sguardo da psicopatico. Afferrò la busta e lasciò che l’uomo andasse via, camminando a passo svelto sulla neve fresca. Guardò il malloppo e vide che era tutto sigillato. Non poteva ficcare il naso in nessun modo.
Qualche volta credeva che quelle commissioni che sbrigava per Ben riguardassero anche lui, come se gli tenesse nascosto qualcosa di vitale importanza. Forse era il fatto che il testamento di suo nonno era sparito, a farlo fantasticare in quel modo. O forse era soltanto paranoico.
Rimontò in sella e quando arrivò alla biblioteca, decine di ragazzi erano già in attesa fuori al portone. Corse nel retro, poi dentro ed andò ad aprire il portone dall’interno. Immediatamente i ragazzi tornarono a sedersi ai lunghi banconi, lasciandosi sfuggire qualche commento poco carino sul fatto che il tipo dei prestiti non riuscisse nemmeno ad aprire in orario.
Come se non bastasse, il suo responsabile fece il suo ingresso nella sala e lui doveva ancora togliersi il cappotto: era nei guai.
  • Sheeran! – urlò, incurante del fatto che fossero presenti altre persone. – Cosa stai combinando? Dove ti eri cacciato?
Sì, era proprio nei guai.
  • Hai aperto la porta con 15 minuti di ritardo! Di nuovo! Non vedi che la gente aspetta? Questo è un luogo pubblico, non puoi fare come ti pare.
  • Sì, signore. – disse, abbassando il capo.
  • Se lo fai di nuovo, potrei licenziarti. Quindi, che non accada mai più!
Dopo avergli puntato il dito contro ed aver messo fine alla sua pubblica umiliazione, si voltò e andò via. Come sempre, si trovò a dover ignorare gli sguardi dei presenti.
Ripose la busta gialla sotto al bancone, al sicuro e finalmente potè riprendere a respirare regolarmente.
Diverse ore dopo, si ritrovò solo a pulire il pavimento da tutto il fango che la gente aveva portato all’interno. In quei momenti gli piaceva ascoltare musica, isolandosi per un po’ da quella vita. Chiunque lo avesse visto cantare con la mazza delle pulizie in mano, avrebbe detto che quel tizio aveva davvero qualche rotella fuori posto. E poi non sapeva ballare, quando lo faceva era davvero ridicolo, ma tanto non c’era nessuno.
Doveva sbrigarsi, altrimenti sarebbe arrivato in ritardo da sua nonna e il supermercato avrebbe chiuso e in quel caso sarebbero stati guai.
Fece partire la musica dal computer della biblioteca e per un po’ lasciò che le sue angosce scivolassero via attraverso la sua voce.
Qualcuno lo stava ascoltando in silenzio, nascosto dietro gli alti scaffali in fondo alla biblioteca, ma non se ne accorse. Continuò a pulire il fango come se stesse pulendo le sue ferite e quando ebbe finito, si allontanò per andare a riporre i suoi fedeli compagni, secchio e spazzolone, nello stanzino in fondo alla sala.
Quando tornò indietro, trovò un biglietto sul bancone. Pensò che fosse caduto a qualcuno, ma quando lesse cosa ci fosse scritto, capì che era proprio per lui:
Se ti va, puoi venire a cantare all’Hawking Pub, sabato.
Presentati, cercano qualcuno come te.
Ma cosa…? L’unica spiegazione plausibile era che qualcuno lo aveva sentito cantare mentre faceva le pulizie. Oh Dio, che figura. Non lo avrebbe fatto mai più.
Si portò una mano sulla fronte, dandosi dello scemo, poi tornò a guardare il biglietto. La scrittura apparteneva chiaramente ad una donna, ma non sapeva se potesse fidarsi. Certo, tentare non gli costava nulla…ci avrebbe pensato. L’Hawking Pub era uno dei migliori pub della città e non credeva di essere all’altezza di quel posto. Quando tempo fa vi entrò, leggendo l’annuncio “Cercasi cantante/band per lavoro part-time”, non doveva aver fatto una buona impressione, perché non appena lo videro – un povero ragazzo trasandato e stanco – lo mandarono via. Perché mai quella volta doveva essere diverso?
Uscì dalla biblioteca che la luce era già del tutto sparita e si diresse dall’altra parte della città, a trovare sua nonna.
Evangeline, 80 anni, era il suo angelo custode, la sua stella cometa. La donna più straordinaria che conoscesse. Viveva in un ospizio da quando sua madre era morta e riusciva appena a campare con la sua pensione, quindi Ed provvedeva alla metà delle sue spese mediche, ogni mese. Era l’unica persona che gli fosse rimasta. La sua famiglia.
Quando entrò nella stanza delle visite, fu lieto di vedere il caminetto acceso e lei che si scaldava le mani, con indosso il suo scialle azzurro.
  • Nonna! – la chiamò, tirando fuori un sorriso stanco.
  • Edward, tesoro. Pensavo che il freddo ti avesse fermato.
La vide allargare le braccia, per accoglierlo nel suo abbraccio e lui, come sempre, non si tirò indietro. Qualche volta si chiedeva come avrebbe fatto quando lei fosse andata via, ma in quel momento preferì non pensarci e godersi la sensazione delle sue dita nodose sul viso.
Quando si allontanò, la vide cambiare espressione.
  • Edward, quando ti deciderai ad andare via da quella casa? – gli carezzò lo zigomo violaceo. – Sei un così bel ragazzo, meriti di meglio.
  • Lo so, nonna, ma…
  • …ma non vuoi abbandonare la casa del nonno. – terminò lei, sistemandosi la crocchia di capelli bianchi che aveva in testa. I suoi occhi chiari parlavano per lei.
  • E non ho abbastanza soldi da poter pagare un affitto da solo e mantenere contemporaneamente altre due persone.
Sua nonna non sapeva che pagava le sue spese non coperte dall’ospizio e quello era il motivo principale per cui non poteva andarsene dalla sua casa. Poi c’era il fatto che quella dimora gli apparteneva per eredità e che suo nonno aveva lasciato un testamento, ora scomparso. Non avrebbe mai lasciato quella casa a Ben e Jef, che asserivano di essere comproprietari da quando sua madre era venuta a mancare. Prima o poi, quando il tempo glielo avesse concesso, avrebbe fatto chiarezza in quella storia.
  • Oh, Edward… - riprese Evangeline – Tuo nonno sarebbe orgoglioso di te. Diceva sempre…
  • …che il valore di un uomo di misura dalla forza del suo cuore. – finì lui, sorridendo al ricordo della voce di suo nonno. – Come stai, nonna?
  • In perfetta forma, tesoro, non preoccuparti per me. Piuttosto, cosa ti ha fatto quel bruto? – tornò a concentrarsi sul suo livido.
  • Niente, nonna, sono caduto dalle scale. – disse, poco convincente.
  • Sì, certo e io sono Marylin Monroe. – fece una pausa. – Come va al lavoro? Sei andato in quel locale?
Sua nonna era a conoscenza di molti dettagli della sua vita, compreso il fatto di avere un sogno nel cassetto.
  • Sì, è andata bene. Pensa che qualcuno mi ha offerto una birra e oggi ho trovato questo biglietto. – e glielo mostrò.
  • Hawking Pub. È quello carino sulla terza strada, vero? Cosa stai aspettando? – non perdeva mai l’occasione di incoraggiarlo. – Vai lì e fagli vedere chi sei.
Se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere sua nonna, probabilmente si sarebbe trovato senza le parole giuste. Quella donna non diceva le cose a caso, apriva la bocca soltanto per dire quello che pensava e quando gli diceva che credeva in lui, sapeva che era vero.
Uscì dall’ospizio prima del solito, ma si diresse al supermercato con un insolito sorriso.
Fece la spesa per la successiva settimana e riuscì a portarla a casa senza che la bici si piegasse sotto il suo peso. Preparò la cena, fece il bucato e pulì il vialetto dalla neve.
Ovviamente, Ben aveva sempre qualche commissione da affidargli, come andare a riordinare il garage. Non avevano un’automobile, ma quel posto era in disordine come se ci entrassero tutti i giorni. D’un tratto, Ben alzò la saracinesca grigia, provocando un fracasso insopportabile e facendogli cadere quell’enorme scatolone per lo spavento.
  • Sei andato alla stazione?
Oh cazzo.
  • Rispondi, idiota, sei andato alla stazione? – agitò la bottiglia che aveva in mano.
  • Sì, ci sono andato. – disse, cercando di controllarsi.
  • Dove hai messo la mia consegna? – fece un passo verso di lui.
  • L’ho… - deglutì, al pensiero di ciò che lo aspettava. – L’ho dimenticata in biblioteca.
  • Cosa?!
Cominciò ad avanzare verso di lui, che protese le mani istintivamente, mentre indietreggiava verso gli scaffali di ferro.
  • Ben, te la porto domani mattina, ok? – disse, sperando che servisse a qualcosa.
  • Non sei in grado nemmeno di portarmi quattro scartoffie! – la sua voce rimbombava nel piccolo garage, facendogliela percepire ancora più scura e arrabbiata. – Se domani non mi porti quei documenti – e lo afferrò per il collo del maglione – ti farò passare i momenti più brutti della tua vita.
Quando partì il primo cazzotto, tentò di fermarlo, ma ottenne soltanto una reazione peggiore. Ben lo spinse con forza contro il muro, facendogli picchiare la testa e – come sempre – sfogò la sua ubriachezza su di lui. Era incredibile come riuscisse a placcarlo e ad impedirgli di fuggire. Ci provava ogni volta, in qualsiasi modo, ma quell’uomo era troppo grosso, troppo forte, troppo arrabbiato. L’unica cosa che riusciva a fare era evitare qualche colpo, ma ben presto il suo maglione si macchiò di sangue.
Quando fu abbastanza soddisfatto, lo lasciò a terra, piegato su se stesso. Passavano sempre diversi minuti prima che riuscisse a muoversi, perché non solo Ben era forte, ma sapeva dove e come colpire. Tossì, sentendo il sangue caldo scorrergli sul viso e macchiandosi ulteriormente le mani di sangue. Che macello.
Jef entrò nel garage, riconobbe la sua andatura da “Io sono figo”, ma non si voltò verso di lui.
  • Sei patetico. – disse. – Adesso, per favore pulisci questa merda che hai combinato, altrimenti domani non posso organizzare la festa.
Respirò profondamente, chiudendo gli occhi. La rabbia cominciò a coprire la sensazione di dolore che aveva al petto, ma non avrebbe reagito. Non si sarebbe comportato come loro, mai.
A costo di essere deriso da quell’idiota, non avrebbe mai ricambiato quel trattamento con altrettanta violenza. Era sbagliato e non lo avrebbe mai fatto.
Un giorno avrebbe scoperto la verità su quel testamento e gliel’avrebbe fatta pagare. Doveva solo avere pazienza.
Si tirò su, aggrappandosi agli scaffali e si passò una manica del maglione sulla bocca.
  • Se non ti sbrighi, chiamo papà. Muoviti, idiota.
Quel deficiente con un negozio di collane al collo, lo lasciò solo. Non avrebbe sopportato di essere osservato per un minuto di più.
Doveva fermare l’emorragia, quindi andò in bagno e si diede una ripulita, premendo per diverso tempo un asciugamano inzuppato di acqua fredda sul naso e sul labbro. Guardandosi allo specchio, per un attimo le lacrime gli pizzicarono gli occhi, ma non cedette ad esse.
Il giorno dopo sarebbe sembrato il gobbo di Notre Dame o un hobbit e la gente lo avrebbe evitato come la peste.
Quando terminò di sistemare il garage, scappò in camera sua, sentendo nuovamente i passi di Ben sopraggiungere. Si chiuse dentro e si gettò sul letto matrimoniale di sua madre. Per fortuna aveva un bagno a sua disposizione.
Rimase sotto la doccia per un tempo indefinito, ma lungo. Lasciò che tutto quello schifo gli scivolasse di dosso, per cercare di trovare un po’ di pace.
Non chiedeva tanto, alla vita, solo un po’ di serenità, quella che non trovava mai in quelle brevi notti buie. Il giorno dopo si sarebbe alzato, ripromettendosi di dare una svolta alla sua vita, ma poi si sarebbe lasciato distrarre dalla necessità di sopravvivere.
Probabilmente non lo avrebbero accettato all’Hawking Pub, conciato in quel modo e per quel mese avrebbe dovuto fare i salti mortali affinchè Ben non si accorgesse che aveva guadagnato di meno.
Non sapeva come riusciva a vivere.
Non sapeva come riusciva a guardarsi allo specchio.
Non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito.







Angolo autrice:

Eccoci con un altro capitolo!
Cominciamo a conoscere meglio questo strano Ed, frutto della mia insana e capricciosa mente.
Non so come andrà questa storia, non vedo l'ora di scoprirlo anch'io, ma intanto fatemi sapere cosa ne pensate, il vostro contributo mi è fondamentale!
Grazie per l'attenzione e alla prossima! :)

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Capitolo 3
*** III ***




 



III




Aveva 23 anni e tutti i giorni desiderava che quella vita terminasse. Non avrebbe mai avuto il coraggio di suicidarsi o roba simile, per questo magari la morte avrebbe potuto coglierlo per caso. Magari qualcuno lo avrebbe investito, il fatto che girasse in bici anche di notte era a suo favore, ma non succedeva mai.
Lui non era così. Non era mai stato taciturno, tantomeno depresso. Ricordava tempi in cui usciva con gli amici e studiava per il college, tempi in cui qualcuno lo amava e gli dava baci sotto il portico. Ricordava sapori di labbra e pelli morbide, brindisi a capodanno e cene di Natale. In qualche modo era riuscito a non trasformare quelle immagini in rimpianti, non aveva fantasmi che lo perseguitavano, solo demoni che lo accompagnavano ogni giorno.
Anche quella mattina, si alzò dal letto e si guardò allo specchio: il naso cominciava a sgonfiarsi, ma il livido era ancora visibile. Il dolore allo sterno era costante.
Si passò una mano sul petto, quasi ad incoraggiarsi e il buio che c’era ancora fuori non lo invogliava a restare a casa, come sarebbe successo a chiunque altro.
Mancavano 20 giorni a Natale e lui non vedeva l’ora che passasse.
Il gelo del mattino sembrò la medicina migliore per il suo viso. Non era potuto andare a trovare sua nonna per quell’aspetto e insieme alla sua mancanza, sentiva anche il coraggio di presentarsi all’Hawking svanire di giorno in giorno. Sfrecciando sulla bicicletta, ci passò proprio davanti e l’annuncio per le band era ancora lì. Tirò via dritto, impaurito persino dal pensiero di essere sbattuto fuori dal locale.
Quella mattina era il suo turno di andare al rifugio per animali a riempire le ciotole. Arrivò davanti a quel triste e sporco edificio che il sole stava appena spuntando. Le scritte fatte dai ragazzini infestavano tutto il muro in mattoni rossi, ma almeno davano un tocco di allegria a quel luogo, già abbastanza lugubre così com’era. Erano rimasti in pochi a curarsi ancora degli animali, nonostante si trattasse per lo più di cani e gatti. Tirò la sua copia delle chiavi fuori dalla tasca e fece scattare la vecchia serratura. Di solito quando entrava faceva un fischio, come per dire “sono tornato” ed effettivamente quando metteva piede lì, un po’ si sentiva a casa. Immediatamente, i cani presero ad abbaiare e a scodinzolare dietro i loro steccati. Accarezzò qualcuno di sfuggita, rivedendo in quelle creature qualcosa che sentiva di condividere: l’essere spaesati. Confusi dall’assenza di entità amorevole, dall’abbandono, dal maltrattamento. Prese il sacchetto del cibo per cani e cominciò il suo giro, riempiendo le ciotole fino all’orlo. Qualcuno ancora si affannava a leccargli il viso e a tentare un abbraccio e non potè che ridere per quell’irrequieto affetto, autentico e gratuito. Carezzò le orecchie di un vecchio beagle, troppo assonnato per alzarsi. Quando fu il turno dei gatti, lo scenario non fu certo lo stesso, ma per qualche motivo amava quelle creature. Come prima, prese il sacchetto e cominciò il giro. Qualcuno di loro, i nuovi e i piccoli, si precipitò a fargli le fusa, quasi impedendogli di avanzare nelle sue Vans scure. Tenne per ultimo il suo amico, un giovane gatto arancione che sembrava il suo riflesso. Era un tipo pigro, indifferente e freddo, ma avevano un legame particolare, riusciva a percepirlo dagli sguardi che si scambiavano. Era come se lui e il gatto fossero la stessa persona. Lo aveva chiamato Paw, sì, molto originale per un gatto, ma era stato il primo nome che gli era venuto in mente. Se ne stette lì a guardarlo mangiare, piegato sulle gambe come quando era bambino. Guardava il gatto e poi guardava il suo riflesso nel vetro della finestra: quando lo aveva trovato, sua madre era appena morta e Paw era stato seduto sul suo grembo per 5 ore, dietro un vicolo; era solo un cucciolo, ma in quel momento fu come se fosse suo fratello, anche lui aveva perso ogni cosa e – come si dice – mal comune, mezzo gaudio. Non se ne liberò per giorni e poi lo portò lì. Ogni settimana degli ultimi 5 anni, che ci fosse il sole, la pioggia o la neve, lui andava lì e si prendeva cura dei suoi “fratelli”.
Paw si allontanò dalla ciotola vuota e andò a sedersi sulla stoffa tesa del suo jeans, tra le sue gambe. In un certo senso, si erano salvati la vita a vicenda.
Rimase lì per un po’, a farsi coccolare dai gattini dell’ultima cucciolata che giravano liberi per la stanza ancora buia, ma alle 8:00 dovette alzarsi e andare via, non prima di aver dato una pulita alle lettiere e al disordine. Fece un grattino a Paw e richiuse la porta.
Quella mattina non nevicava, ma la neve era rimasta intatta ai bordi delle strade.
Il vapore gli usciva anche dal naso, ma nulla lo disturbava di più delle mani congelate. Lungo le strade senza buche, lasciava spesso andare il manubrio per infilare le dita in tasca: Jef si era preso il suo ultimo paio di guanti il giorno prima e non li aveva più avuti indietro.
La sua testa rossa sfrecciò per le strade popolate e girò sulla strada curata della biblioteca, percorrendo l’ultimo tratto di asfalto sotto gli alberi alti e spogli. Lasciò la bici nel retro ed andò ad aprire la porta principale: sperò che quella mattina passasse in fretta, perché aveva intenzione di presentarsi all’Hawking. Qualcosa gli diceva che sarebbe rimasto sorpreso.
 
Ovviamente, si era solo illuso. Quando era entrato nel locale, durante le prime ore di apertura, si era limitato a dire che era lì per l’annuncio ed il cameriere, dopo averlo guardato dalla testa ai piedi, andò a chiamare il proprietario. L’uomo di cui conosceva già l’aspetto non sembrò riconoscerlo, ma sembrò elaborare lo stesso pregiudizio che aveva formulato la prima volta che si era presentato lì. Lo vide squadrarlo fino alla punta dei capelli, senza escludere un’attenta analisi dei suoi lividi. Era, in un certo senso, ovvio che il tizio si facesse due domande sul suo conto, vedendolo conciato il quel modo. Se il locale fosse stato suo, non ci avrebbe pensato troppo ad eliminare il possibile rischio di sfasciare le panche in legno intarsiato, il bancone lucido in stile tradizionale e le lampade fioche originali. Tuttavia, avrebbe gradito che la gente fosse meno diffidente nei suoi confronti.
  • Come mai ti sei presentato? – la sua voce era grossa e piena.
  • Per-Perché ho visto l’annuncio, signore. – rispose, tentando di sembrare normale.
  • Tutto qui? – fece quello, come se si aspettasse una risposta diversa.
  • Mi hanno detto che farei al caso suo. – e si strinse nelle spalle.
  • Davvero? Oh, beh… - e si guardò intorno, come se cercasse qualcuno, ma poi tornò a prestargli attenzione. – Cosa suoni?
  • La chitarra, signore. – e andò a prenderla dall’altro lato della stanza, dove l’aveva lasciata.
Tirò lo strumento fuori dalla custodia, e cominciò a suonare qualcosa. Si sentì quasi in imbarazzo ad essere studiato da quell’uomo e dalla metà del personale, soprattutto perché stava cantando qualcosa di suo. Si passò una mano tra i capelli, nervoso per tutta quell’attenzione e pregò che le sue dita non facessero cilecca proprio ora che il proprietario dell’Hawking lo stava ascoltando.
  • Basta così, ragazzo. – lo interruppe di colpo. – Francamente non so se sei adatto a questo posto, ma se vuoi posso tenerti in considerazione nel caso in cui un altro gruppo dovesse darmi buca.
  • Oh. Va bene.
Doveva aspettarselo. Era stato uno stupido a cantare quella sua canzone, doveva fargli sentire la cover di qualche pezzo forte e conquistarselo, ma chi sa per quale motivo insisteva tanto a far sentire i suoi pezzi personali. Si alzò dal suo posto e scrisse il suo numero di cellulare sul pezzo di carta che gli porgeva il proprietario. Dopo avergli stretto la mano, rimise il fodero in spalla e uscì dalla porta. Non era rimasto deluso, poiché in realtà non aveva riposto alcuna speranza in quel colloquio, ma non potè fare a meno di chiedersi chi fosse stato a lasciargli quel biglietto, chi mai avesse creduto che lo avrebbero assunto.
Sapeva che non avrebbe mai svelato quel mistero, così decise di mettersi l’anima in pace e ignorare quella storia. Col viso rivolto al cielo, scese gli scalini di ingresso e si diresse a casa.
Quella città in qualche modo lo soffocava. Era sempre più piccola e lui si sentiva sempre più giudicato, additato dai perfetti sconosciuti come quello “strano”. Lo vedeva sui volti della gente in biblioteca o alla caffetteria o nei locali in cui ogni tanto suonava. I suoi vecchi amici gli avevano voltato le spalle quando Jef era entrato nella sua vita e quando lo vedevano per strada lo evitavano, ma non riusciva ad odiarli. Era troppo rassegnato alla sua situazione, per riuscirci.
Così, ancora una volta, non ebbe una scusa per restare fuori e oltrepassò il cancello di casa sua, sperando che Ben non avesse già aperto la bottiglia.
 
Dopo quel fallimento all’Hawking, quella mattina in biblioteca sembrò particolarmente interessante. Studiò i volti di tutte le ragazze sedute ai tavoli, ma non sorprese mai nessuno a guardarlo o roba simile. Moriva dalla voglia di sapere chi tra quelle persone si era preso il disturbo di scrivergli un biglietto, ma non aveva ancora molto tempo, poiché quel giorno aveva la mezza giornata e a breve avrebbe dovuto chiudere. Quando suonò la campana che annunciava la chiusura, guardò bene tutte le ragazze che tornavano a restituire i libri prima di andar via e nessuna di loro sembrò volergli comunicare qualcosa. Quando anche l’ultima fu fuori, si sentì ridicolo. Stava per andare via, ma qualcuno entrò di nuovo dalla porta.
Era quella ragazza, quella che si era arrampicata sugli scaffali.
La vide entrare un po’ spaesata dall’assenza di persone, avvolta nel suo parka troppo grande.
Aveva un cappello morbido in testa, coperto di neve. Puntò gli occhi su di lui.
  • Scusa, forse stavi chiudendo.
  • Ehm. Sì, oggi è mezza giornata. – spiegò, più serenamente possibile. Non era abituato a conversare.
  • Quindi, per restituire il libro devo tornare domani? – chiese, senza smettere di guardarlo in faccia.
  • Oh, se vuoi puoi lasciarlo a me.
La vide sorridere e poi avvicinarsi al bancone, infilando le mani in una grossa borsa e tirandone fuori il libro di fiabe che le aveva preso dallo scaffale.
La guardò mentre lo poggiava direttamente tra le sue mani e non seppe decifrare la luce che aveva negli occhi. D’un tratto gli sembrò che il riscaldamento fosse troppo forte.
Procedette ad inserire la restituzione del libro nel database e le diede una ricevuta, segnata con la data di quel giorno.
  • Grazie. - gli disse.
  • Figurati.
Per qualche motivo, era convinto che quella ragazza lo fissasse in un modo inappropriato: ok che non si radeva da giorni, ma non stava poi così male. Si passò una mano sulla barba senza neanche accorgersene e sentendo dolore, si ricordò dei lividi.
Sapeva di aver cambiato espressione, perché lei sembrò rendersi conto di quello che stava facendo, infatti prese a battere velocemente le ciglia, distogliendo lo sguardo.
  • Uhm… - era imbarazzata. – Scusa. Ciao.
  • Ciao.
Riuscì a dire solo quello e poi la vide uscire dal portone antico. Lei in quel momento non lo aveva giudicato. Lo sapeva. Guardò di nuovo il libro di fiabe e si chiese se magari non fosse proprio lei la fata madrina che lo aveva fatto andare all’Hawking. Peccato che il suo orologio fosse fermo sulla mezzanotte da così tanto tempo.
 
Per il primo anno dopo la morte di sua madre, aveva sfruttato quella mezza giornata per riposare, ora invece era costretto a tornare a casa, preparare il pranzo, fare le pulizie che altrimenti non avrebbe fatto nessuno e poi correre al bar a fare il cameriere per poche sterline l’ora. Indossò la divisa nel minuscolo bagno degli uomini, notando che la camicia gli andava sempre più stretta, di anno in anno. Non era più un fuscello, le sue spalle si erano allargate abbastanza da far risultare stretto anche il gilet. Si diede una sistemata ai capelli e attaccò a lavorare. Il capo lo guardò storto quando vide i suoi lividi, ma non poteva farci niente.
Era un bar del centro, frequentato per lo più da signore d’ufficio che venivano a prendere il the con le colleghe dopo il lavoro. Quel tipo di clientela lo obbligava a mostrare costantemente un sorriso e a rivolgersi alle persone con un certo tono e un certo garbo, non sempre ricambiati. Perlomeno non era a casa a farsi dare altre botte.
Aveva appena sollevato il vassoio con la teiera stracolma di acqua bollente, quando si voltò e la vide: la ragazza di quella mattina lo fissava dalla vetrata che dava sulla strada: i suoi occhi lo colpirono come un fulmine. Ovviamente, quella piccola distrazione ebbe le sue conseguenze: in quella frazione di secondo, si scontrò con l’altro cameriere, facendo cadere l’acqua bollente e bruciandosi un dito. Immediatamente, distolse lo sguardo da lei e si preoccupò che nessuno si fosse fatto male, per fortuna le tazze erano intere o avrebbe dovuto pagarle. Incurante delle parole del suo collega in divisa, il pensiero di quegl’occhi lo portò a guardare fuori, con la speranza che lei fosse ancora lì, ma non c’era nessuno.
Era lei, certo che era lei. Aveva riconosciuto immediatamente quel verde smeraldo che aveva negli occhi, ma non si spiegava ancora quella frenesia che aveva provato nel vederla. Era stato come se volesse fermarla, per parlarle ancora. Lui non era interessato alle ragazze, non aveva tempo per una relazione, quindi quella sua reazione doveva essere dovuta soltanto alla necessità di rapporti sociali, il minimo indispensabile a sopravvivere.
Sì, doveva essere così, pensò mentre si portava istintivamente il dito bruciato alle labbra. Tornò a pensare al vassoio prima che il capo lo vedesse, altrimenti avrebbe perso il posto.
 La vecchia signora che aveva ordinato il the lo guardava come se fosse il peggior incompetente che avesse mai visto, ma non si curò di lei mentre puliva il pavimento dall’acqua caduta. Il pantalone classico nero che aveva come divisa era altrettanto bagnato, così come la camicia e il cravattino rosso e tutto per quell’assurda reazione. Cavolo, Ed, sei proprio disperato. Dopo 5 ore di servitù, il capo lo lasciò andare, lasciandogli la spazzatura da buttare.
Ancora in divisa, uscì dalla porta del retro e cominciò a camminare in direzione dei cassonetti, ma qualcosa lo fermò: un luccichio lo colpì direttamente agli occhi.
Lasciò andare i grossi sacchi accanto al cassonetto e nel silenzio si diresse verso il fascio di luce del vecchio lampione sulla strada. Si accovacciò e prese quell’oggetto da terra: una catenina dorata con un’iniziale. La osservò, lasciando che il vapore gli uscisse dalle narici, unica figura nel deserto di quella strada.
Quando il freddo cominciò a farlo intirizzire, si alzò e tornò dentro. Chiese alle poche donne che lavoravano con lui se la catenina appartenesse a loro, ma nessuna gli disse di sì, quindi la infilò nella tasca dei jeans che aveva nuovamente indossato e andò via.
Come avrebbe fatto a restituirla, non lo sapeva, ma quella che era stata la sua vita negli ultimi giorni, lo intrigava.
Quando il giorno dopo andò in biblioteca, notò di essere molto distratto. C’era qualcosa che ronzava nella sua testa e che non riusciva a spiegarsi, portandolo a inserire i dati sbagliati nei moduli, a scambiare i libri da dare in prestito, a non rispondere alle domande che gli venivano poste. Si ritrovava spesso a guardarsi intorno, quando invece avrebbe dovuto essere tra gli scaffali a pulire la polvere, come tutti i sabati.
Ed aveva la sfortuna di essere nato sognatore e quell’aspetto di sé lo rendeva così vulnerabile alla speranza, che persino gli occhi di una sconosciuta lo facevano andare in tilt. Non era la prima volta che gli capitava di incontrare gli occhi di qualcuno, ma quando era successo era riuscito a scrivere e musicare i testi per un intero album. Era consapevole che al 99,99% quel momento era passeggero, che la sua mente aveva soltanto bisogno di fantasticare per un po’, poi sarebbe tornato tutto alla normalità. I vecchi libri lo guardavano dagli scaffali, come ad invitarlo a sognare ancora, mentre giocherellava con la catenina misteriosa.
Per un momento il suo pensiero andò a quella sera, quando sarebbe tornato a casa senza un lavoro part-time: l’immagine di Ben all’uscio lo faceva rabbrividire, ma poi i suoi occhi chiari tornarono a perdersi tra le figure sedute ai tavoli stracolmi di libri.
Quando verso sera rimase solo, si diede dello sciocco e chiuse nuovamente la porta che dava sui suoi sogni.
Stava per montare in sella, costretto a tornare a casa, dato il freddo che faceva, ma frenò i suoi movimenti quando sentì il suo cellulare squillare. Credette che fossero Ben o Jef, ma quando vide il display, un numero che non conosceva gli saltò agli occhi. Titubante, rispose alla chiamata e quando portò il dispositivo all’orecchio, un chiasso assordante glielo fece subito allontanare.
  • Pronto? – disse, confuso.
  • Ragazzo! Per fortuna hai risposto.
Non poteva credere alle sue orecchie, ma la voce di quell’uomo era così particolare che l’avrebbe riconosciuta anche tra mille.
  • Ho bisogno di te, quindi prendi quel tuo aggeggio e vieni qui!
  • D-dice sul serio?!
  • Certo che dico sul serio, ragazzo. Muoviti o chiamo qualcun altro!
  • Sì, signore! Arrivo subito, non chiami nessuno!
Il tizio chiuse la chiamata senza rispondere ancora.
Aveva ancora il fiato sospeso mentre riponeva il cellulare in tasca, facendo attenzione a non perdere l’equilibrio mentre saltava sulla bici e volava verso casa a recuperare la sua chitarra.
Stringeva le mani sul manubrio fino a bloccare la circolazione, si sporgeva in avanti per cercare di andare più veloce di quanto riuscisse a fare, non si curava del fatto che il tenere gli occhi così aperti lo facesse lacrimare. Quella era un’occasione d’oro, come non gliene erano mai capitate e non stava nella pelle al pensiero di sfruttarla al meglio.
Quella sera avrebbe suonato all’Hawking Pub, il migliore della città e si sarebbe fatto valere.
 
La sua buona stella sembrava essere risorta da un lungo periodo di tenebra.
Quando entrò nel locale, affannato dalla corsa, l’intera clientela esordì con un applauso, probabilmente a conoscenza del fatto che la band aveva dato buca al proprietario, ma soprattutto a loro. Sorrise spontaneamente nel sentire quel baccano e la sua preoccupazione riguardante il suo aspetto livido, svanì quasi del tutto.
Si sentiva osservato, studiato da quella folla di persone che si ammassava nella stanza, credendo che qualcuno lo avesse riconosciuto, dati i sussurri. Una ragazza con un grembiule nero e i capelli raccolti, lo guidò su una pedana posta di fronte al bancone delle birre. Quella volta non sarebbe stato in un angolo. Quando mise piede sul piccolo rialzo, cominciò a sentire l’ansia salire, persino le maniche troppo lunghe del suo maglione divennero un problema: ansia da prestazione. Qualche uomo l’aveva per il sesso, lui l’aveva per la musica, ma non faceva differenza. Cercò di farsi scivolare di dosso tutta quell’attenzione, concentrandosi. Non sapeva nemmeno con cosa avrebbe cominciato.
Quando si sedette sullo sgabello a sua disposizione e abbassò gli occhi, capì che qualcuno gli voleva bene, perché una loop station nuova di zecca lo salutava dal basso.
Chiuse la bocca che aveva spalancato per la sorpresa e rimodellò l’espressione da idiota che doveva avere in viso, dandosi un contegno. Scese da lì e controllò che fosse attiva e sì, era pronta per lui. Era un secolo che non ne usava una, ma non ebbe difficoltà ad entrare nel meccanismo.
La gente lanciò qualche gridolino sentendo della musica, incoraggiandolo a continuare.
Cominciò a registrare la base per una delle sue cover e quando rialzò gli occhi per cantare, la vide. Per un attimo credette che la voce non sarebbe uscita dalla sua gola, perché lei era proprio lì, con la divisa del locale, che portava birre da un tavolo all’altro, ballando sul beat che aveva creato. Per qualche motivo, l’unica sensazione che riuscì a provare, guardandola, fu paura.






Angolo autrice:

Eeeeeh già, eccoci qua. Seriamente, non so nemmeno io cosa stia succedendo, quindi abbiate pietà.
Fatemi sapere cosa pensate di questa storia, quali sono le vostre aspettative e le vostre opinione e se vedete qualche errore segnalatemelo pure!
Ringrazio tantissimo GinevraMollyArkanian e Nature_ che hanno recensito - grazie ragazze - e tutti i lettori silenziosi che fanno alzare il numero di visite. :D
A prrrresto!


 

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Capitolo 4
*** IV ***






Angolo autrice:

Innanzitutto, vi ringrazio di cuore per le recensioni e il numero di visite, non mi aspettavo nulla del genere. *-*
Detto ciò, sappiate che sono appena rientrata e che il primo pensiero è stato quello di aggiornare la storia, ma non ho rivisto il capitolo, quindi perdonatemi strafalcioni e/o errori grammaticali di cui ho immensamente vergogna. Rivedrò la storia con calma in questi giorni e mi dedicherò nuovamente alla sua stesura, intanto fatemi sapere cosa ne pensate, consigli, opinioni, aspettative - tutto è concesso.
A presto! :D
S.


IV




Aveva un lungo repertorio dal quale attingere, ma sembrò che non sarebbe bastato per quella serata. Era solo a suonare per tutta quella gente e cominciava ad essere fisicamente stanco, le dita tremavano, aveva bisogno di una pausa, ma non aveva il coraggio di prendersela spontaneamente.
Era un piacere essere lì ed essere ascoltato, ma erano già 3 ore che cantava senza sosta.
Ogni tanto la vedeva farsi largo tra la gente al bancone per raccogliere la nuova ordinazione, ma non era mai riuscito ad incontrare i suoi occhi, non sapeva nemmeno se lei si fosse accorta che fosse lì. Comunque, si sentiva internamente combattuto: nessuno gli aveva detto che quella ragazza fosse speciale o che lui dovesse avere qualcosa a che farci, ma era stranamente attratto dalla sua persona e contemporaneamente se ne voleva allontanare come fanno due magneti uguali. Era curioso e spaventato. Chiuse gli occhi e terminò la canzone cercando di allontanare i pensieri.
Sorrise e raccolse il suo applauso, mentre si sedeva sullo sgabello, stremato. Sembrava che nessuno si fosse accorto che avesse smesso di suonare, ma tanto meglio, poiché lei stava procedendo a passo svelto nella sua direzione. D’un tratto desiderò sparire.
Era sudato e pieno di polvere e aveva i capelli probabilmente spettinati come quelli di una vecchia barbie e lei stava andando proprio da lui. Con la chitarra ancora al collo, si passò le dita nei capelli rossi. Eccola, erano praticamente faccia a faccia.
  • Te l’avevo detto che cercavano qualcuno come te. – sorrise in risposta alla sua espressione confusa. – Tieni.
Era stata lei a scrivere il biglietto, era lei che lo aveva sentito cantare in biblioteca. Oddio, che vergogna. Voleva sprofondare.
  • La prendi o no?
Lo guardava stranita mentre gli porgeva una birra che non aspettava altro che essere afferrata. Come se si stesse svegliando da un incantesimo, si scosse e la prese dalle sue mani, senza riuscire a chiudere la bocca o a sembrare una persona normale.
  • Grazie. – disse soltanto, mentre cercava di rimettere insieme i pezzi.
Lei andò via, diretta nuovamente al bancone.
Quella birra era la stessa della settimana scorsa, ma non poteva credere che fosse stata lei anche in quel caso. Ne bevve un sorso e poi si sfilò la chitarra dalla spalla per togliersi il maglione, altrimenti si sarebbe sciolto sulla pedana. Quando tirò fuori la testa dal groviglio di lana, si guardò intorno, poi guardò lei, poi guardò la birra. Oh, no. No, no, no. Non doveva aspettarsi niente. Tutta quella storia – pensò mentre riprendeva la chitarra e la birra – era soltanto un momento di fortuna, che molto presto lo avrebbe lasciato in balia della sua vita. Era meglio per lui se rimetteva la testa a posto, non poteva rischiare di ripetere lo stesso errore: credere in qualcuno non era mai una buona idea, perché prima o poi ti avrebbe voltato le spalle e quella volta non sarebbe stato diverso.
Come se fosse tornato davvero con i piedi per terra, sentì la pedana di legno fare attrito sotto la gomma delle sue scarpe, riavviò la pedale loop e riprese a suonare, deciso ad evitare lo sguardo di quella ragazza per il resto della serata.
La sua mente sembrò acquietarsi di canzone in canzone, tenendo gli occhi chiusi, pensando che tra un paio d’ore sarebbe stato nel suo letto a riposare. Soltanto quando le lancette toccarono le 2:00 la gente cominciò ad uscire dal locale, dandogli modo di calare il ritmo e cantare qualche suo pezzo meno frenetico dei precedenti. La vita notturna di quella cittadina si limitava a quello ed aveva degli orari abbastanza definiti, anche perché – parliamoci chiaro – non c’era nulla da fare dopo l’1:00 del mattino, con quel freddo e quella neve.
Se la ragazza gli era passata davanti qualche volta, non se n’era accorto, ma il ridotto numero di persone faceva in modo che le probabilità di vederla aumentassero. E infatti successe, ma evitò palesemente il suo sguardo. Si sentiva un traditore mentre lo faceva, perché in fondo era grazie a lei che si trovava lì, ma quel dettaglio non doveva influenzarlo.
Quando anche l’ultima persona fu fuori, rimasero lui, il proprietario e i dipendenti che pulivano i tavoli. Spense la pedale loop con un movimento così fluido da sembrare un’abitudine agli occhi degli altri, tant’è che il proprietario gli si avvicinò e gli disse:
  • Bravo, ragazzo! – e gli diede una pacca sulla spalla. – Mi hai salvato.
  • Grazie, signore. – disse, ricambiando il suo sorriso.
  • Come ti chiami? – lo guardava negli occhi, con lo sguardo dell’uomo d’affari.
  • Edward Sheeran, signore. – e strinse ufficialmente la sua mano tesa. Aveva una stretta micidiale, ma non diede segni di resa.
  • Bene, Edward, pensi che potrei chiamarti ancora sabato prossimo?
La risata che sfuggì al proprietario dell’Hawking, era il chiaro segno che aveva fatto un’altra figuraccia: lui stesso si rendeva conto di non riuscire a chiudere la bocca o a riportare gli occhi ad un’apertura normale. L’uomo agganciò i pollici alle sue bretelle blu e facendo muovere i baffi grigi, riprese a parlare.
  • Credo sia un sì. – fece, mentre scuoteva le spalle per la risata.
  • Sì, signore, mi scusi! – disse lui, conscio della sua goffaggine.
L’uomo infilò la mano destra in una tasca e ne tirò fuori dei soldi. Doveva essere la sua paga per la serata. L’uomo lo salutò e gli disse che lo avrebbe telefonato. La quantità di banconote che aveva tra le mani, era molto più consistente di qualsiasi paga avesse ricevuto all’uscita di qualsiasi locale.
Si passò una mano tra i capelli, mentre le metteva in tasca: con quelle avrebbe potuto pagare la visita di sua nonna della settimana successiva.
Rimise la chitarra nel fodero ed infilò nuovamente la testa nel maglioncino, ma quando lo tirò giù sul collo, si ritrovò davanti quella ragazza, che lo fece saltare sul posto per la sorpresa. A volte si sentiva un alieno per quel suo atteggiamento.
  • Scusa, ti ho spaventato! – disse lei, senza particolare enfasi.
Rimase muto. Non diede alcun segno di voler rispondere.
  • Sei stato bravo. – gli sorrise. Sembrava che volesse cominciare una conversazione, ma restò fermo nel suo silenzio, limitandosi ad un sorriso lieve. – Tornerai anche sabato prossimo? – e lui fece spallucce. – Tutto bene? – evidentemente si era accorta del fatto che non rispondesse di proposito.
Capì subito che i suoi occhi erano fermi sui suoi lividi. Sentiva il suo sguardo aggrottarsi per quell’analisi così attenta, ma per fortuna qualcuno la chiamò, facendola voltare. I suoi capelli lunghi si mossero con lei.
  • Scusa, devo andare. – disse, tornando ai suoi occhi. – Ciao!
Alzò la mano, rispondendo al suo saluto e lasciò andare l’aria che stava inconsapevolmente trattenendo. L’altra cameriera gli aveva appena svelato il suo nome: Marina.
Attraversò la fredda notte pensando cosa c’entrasse quel nome con lei, ma non seppe darsi una risposta, perché non la conosceva.
Quando mise piede dentro casa, corse dritto nella sua stanza e si gettò sul letto. La schiena gli faceva male per le troppe ore passate in piedi, così chiuse gli occhi e si godè il piacere del sentire i muscoli rilassarsi. Sentiva tutto: la morbidezza del piumone, il freddo della stanza, la schiena che si distendeva, la mente che si abbandonava alla stanchezza. Aprì forzatamente gli occhi per cambiarsi e la prima cosa che vide fu la catenina d’oro sul comodino. Allungò la mano e la prese.
Non seppe dire se non ci avesse semplicemente pensato o se il suo inconscio avesse voluto volontariamente ignorarlo, ma l’iniziale appesa a quella sottile catena, era una M.
 
Era domenica e di solito niente lavoro la domenica, niente posta la domenica. Era l’unico giorno libero che aveva e non poteva passarlo in casa sua a riposare, dato che era assediato da Ben e da Jef. Di solito si va in chiesa la domenica, ma lui no, lui andava a fare una cosa più utile e carina del pregare. Doveva sempre vedersela con Ben la domenica mattina, perché uscire di casa per qualcosa che non producesse denaro era disdicevole per il suo figliastro già abbastanza d’intralcio. Di solito, la domenica mattina faceva una doccia, si infilava qualcosa di comodo e preparava la colazione prima che tutti si svegliassero, ma qualche volta si era preso qualche cazzotto perché il the si era freddato o i cereali erano finiti. La domenica mattina era sempre una sfida tra lui e Ben a chi avesse la meglio, se lui che voleva riempirlo di botte o Ed che tentava di scappare e quella domenica mattina, Ben si era alzato con qualche ora di anticipo. Sentì un capogiro quando percepì la sua presenza in cucina.
Fece finta di niente mentre preparava il the, sperando che lui non dicesse una parola per fermarlo, quando sarebbe uscito dalla stanza. Si avviò a passo svelto su per le scale, ma dato che Ben lo aveva mollato, Jef avrebbe preso il suo posto.
Era in piedi nel suo pigiama grigio, al centro delle scale, deciso a non farlo passare.
  • Jef, fammi passare. – lo guardò dritto negli occhi, nervoso.
  • Che c’è, Edward? – lo canzonò. – Stai scappando?
Il suo viso magro e pallido sapeva decorarsi delle espressioni più odiose. Quella mezza calzetta sarebbe caduto sotto un suo pugno nel giro di un nanosecondo, ma no. Lui era Ed.
Lo spintonò, ignorando le sue parole, ma quelle si attaccarono al suo cervello mentre prendeva il suo zaino e la chitarra.
Quando fu sul vialetto innevato, fuori da quella casa inerme, sentiva ancora l’eco della voce del suo fratellastro. Gli aveva reso la vita un inferno per anni, ma da quando era diventato più largo e più alto aveva paura di lui, quindi aveva cambiato tattica, passando dalle mani alle parole. Stai scappando? Non riusciva a trovare un senso preciso alla domanda, ma a qualunque cosa si riferisse, la risposta era sì.
Quella domenica mattina, come tutte le altre domeniche, stava scappando dalla sua casa, dai suoi incubi, ma soprattutto dai suoi sogni. Erano due anni che faceva volontariato per il reparto “Oncologia infantile” dell’ospedale della città e quel posto era diventato un punto di riferimento per lui. Sì, assurdo che fosse così, ma quando entrava in quell’ospedale, qualsiasi pensiero negativo che riguardasse la sua vita, evaporava nell’aria come se fosse una boccata di fumo presa da una sigaretta. Effimero. Ininfluente.
L’edificio grigio e bianco accoglieva fin troppe persone rispetto alla sua reale capienza, infatti quando vi entrava, superando la scritta rossa “Hospital” posta sulle porte automatiche in vetro, c’era sempre una folla di parenti, infermieri, medici che andavano avanti e indietro, senza sosta. Anche lui era stato in quella sala d’aspetto diversi anni prima, ma non era quello il motivo per cui si vestiva da pagliaccio tutte le domeniche.
Ogni volta che passava al bancone d’accoglienza, la segretaria Stephany lo salutava, rimproverandolo per il suo aspetto stanco. Lei era una delle persone più carine che conosceva, con quella sua corporatura abbondante, la pelle scura e gli occhi luccicanti, una delle poche che salutava con sincerità. Camminando alla luce dei neon bianchi, sul pavimento lucido, cercò di abituarsi all’odore di disinfettante che infestava l’ospedale e si diresse direttamente alle scale. Al secondo piano, entrò nel reparto di suo interesse e salutò un paio di infermiere con la mano. Cercò di non farsi vedere da nessuno ed entrò nello stanzino che lo aiutava nella sua trasformazione: lui ormai era il pagliaccio magico che veniva dal suo pianeta lontano per raccontare le sue avventure a quei bambini. Quando era lì dentro, non esisteva più Ed Sheeran. Si guardò allo specchio e cominciò a stendere il cerone bianco sul viso, cambiando identità. I suoi occhi chiari sembravano trasformarsi quando lo faceva. Indossò il costume e cominciò il suo giro.
Fece un profondo respiro prima di entrare nella prima stanza e col naso rosso ben fermo, fece il suo ingresso. Non era mai facile sorridere davanti a quei bambini, la visione non era propriamente di quelle che ti aiutano a fingere, ma ormai si era abituato a trovare il coraggio di andare a sedersi su quei letti e non badare all’assenza di capelli, ai fili, ai macchinari, al pallore. Conosceva quei bambini uno ad uno, ma ogni settimana sembrava che ce ne fossero di più. I genitori, prima che andasse via, gli posavano una mano sulla spalla, lo guardavano negli occhi e lo ringraziavano, lasciandolo sempre col dubbio di non aver fatto ancora abbastanza.
Aveva imparato trucchi di magia di ogni tipo, a creare cagnolini con i palloncini, a far apparire monete dalle orecchie ed ogni volta gli sembrava che fossero i bambini a dare forza a lui, non il contrario.
Li vedeva sorridere dai loro letti e non avrebbe mai voluto lasciare quelle loro manine bianche.
  • Ciao Jake, ci vediamo la settimana prossima per una nuova storia! – disse al nuovo arrivato, falsando la voce.
  • Ciao pagliaccio! – fece il piccolo, agitando la mano.
Uscì dalla porta bianca e si diresse nell’ultima stanza, pronto a raccontare di nuovo la sua storia all’ultima bambina, Kathy.
  • Ciao Kathy! – urlò, spalancando la porta.
  • Ciao pagliaccio! – scattò la piccola, tirando su il busto ed alzando le mani al cielo.
Si diresse direttamente ad abbracciarla, facendo attenzione all’ago che le perforava il dorso della mano. La bambina gli spettinò tutti i capelli, ma la lasciò fare. Dall’ultima volta che l’aveva vista aveva decisamente meno capelli biondi, ma si forzò di ignorare la cosa, di non guardarla.
Quando alzò gli occhi per salutare sua madre, ebbe una sorpresa inaspettata. La donna non era sola e con lei indovinate un po’ chi c’era, nel suo grosso parka?
Marina.
Marina era lì e lo fissava sconvolta, ma ancora una volta…non lo stava giudicando. Si congelò, guardandola negli occhi, tornando per un attimo ad essere Ed. Cosa diavolo aveva la vita contro di lui? Cosa ci faceva lei lì? Erano settimane che la bambina era in ospedale, abbastanza da poter dire di non averla mai vista lì, eppure era in piedi che lo guardava con gli occhi sgranati.
Per un attimo la tensione fu così palpabile che la madre della bambina li guardò entrambi, probabilmente chiedendosi cosa stesse accadendo.
Beh in realtà non stava accadendo proprio un bel niente, maledizione. Riprese a muoversi, rischiacciando il tasto play del tempo e cominciò a parlare con Kathy.
  • Come stai, Kathy? – si sforzò di essere il pagliaccio da cui era vestito.
  • Io sto bene e tu? Mi racconti una storia? – chiese.
  • Certo che te la racconto! – disse, sentendosi tremendamente osservato da lei. – Allora…questa settimana sono stato in un posto davvero particolare – cominciò – Era pieno di altri pagliacci come me, che si erano riuniti per dare una grande festa. Come ben sai, ad una festa di balla e si canta – e fece un paio di mosse per far ridere la piccola, più intirizzito del solito.  – ma non c’erano i musicisti!
  • E come avete fatto?
  • Allora, sono intervenuto io! Ho preso la mia fedele chitarra e ho cominciato a suonare! – prese a suonare qualcosa di allegro e la piccola gli portava il tempo con le mani.
  • E poi?
  • Tutti ballavano e cantavano, ma io cominciavo ad essere stanco. Forse qualcuno se n’era accorto, perché mi hanno portato una magica bevanda che mi ha ridato tutta la forza. – nel pronunciare quelle parole, sentì gli occhi della ragazza su di lui, pesanti.
  • Chi è stato? – chiese Kathy, curiosa.
  • Una principessa misteriosa, con dei lunghi capelli!
  • Come Marina! – e guardò la ragazza ancora in piedi, che si godeva lo spettacolo.
  • Già, come Marina.
Il finto rossore che aveva sulle guance, copriva il suo reale imbarazzo mentre la guardava. Si compresero al volo.
Continuava a chiedersi cosa ci facesse lì, ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo e in un certo senso, nemmeno voleva farlo. Continuò il suo show, esibendosi in qualche trucchetto e cantando qualche canzone per bambini, poi salutò Kathy e cominciò a raccogliere le sue cose per andare via.
Cercando di evitare lo sguardo delle due donne nella stanza, si accovacciò sul suo zaino, cercando di infilarci i giochi più velocemente del solito, ma una presenza si impose davanti a lui, bloccando la luce bianca che entrava dalla finestra. Alzò istintivamente lo sguardo e se la trovò davanti, accovacciata come lui, tra le mani aveva il suo gonfietto per i palloncini.
  • Hai perso questo. – disse, col volto disteso e i capelli che le cadevano in avanti, come delle tendine.
  • Oh. – lo prese dalle sue mani e tornò con gli occhi sullo zaino.
Sembrò che lei non volesse rialzarsi, ma lui lo fece senza problemi, pronto a scappare più veloce della luce. Disse un rapido “Buonasera” e afferrò la maniglia della porta, convinto che sarebbe stato l’unico ad oltrepassarla, ma non fu così. Non si accorse che Marina fosse dietro di lui, così si comportò come se nulla fosse, prendendo un lungo sospiro e portandosi una mano alla fronte, mentre incurvava la schiena.
  • Ciao! – fece lei, col tono più alto del normale, per fargli notare la sua presenza.
Ed sentì quella voce trapassargli la schiena, prendendolo così di sorpresa da fargli sibilare l’aria nella gola, a causa dello spavento. Letteralmente, saltò e poi si girò verso di lei, stringendosi nelle spalle.
  • Come stai? – continuò lei, come se ignorasse coscientemente la sua volontà di evitarla.
  • Uhm… - lei rimase in silenzio, in attesa di una risposta. - …bene. – disse lui, guardando altrove, in un punto indefinito del soffitto.
  • Oh, anche io, grazie. – rispose, portandosi una mano alla bocca, per nascondere la sua risata. – Ma quanti lavori hai?
  • Questo…non è un lavoro. – osservò lui. Cosa stava facendo?
  • Un po’ lo è. – disse.
Cadde il silenzio. Lui era rimasto esattamente immobile nella sua posizione, il viso in un’espressione di terrore, le spalle contratte. Voleva soltanto scappare via da quella conversazione. Non era abituato alle conversazioni. Non gli piacevano, gli sembrava di denudarsi quando parlava.
Lei cominciò a guardarsi i piedi e a muoversi sul posto, cercando con gli occhi qualcosa che non c’era. Il silenzio di quel ragazzo la confondeva. Era deviante e non corrispondeva all’idea che si era fatta di lui e questo la rendeva soltanto più curiosa.
  • Sei strano. – disse, di punto in bianco.
Strano? Accigliò lo sguardo nel sentire quella parola. Si poteva sapere cosa ci trovasse di strano la gente in lui?
  • Perché non parli?
Vaglielo a spiegare a questa perché non voleva parlarle.
  • Io… - cominciò, un po’ dispiaciuto, ma convinto di quello che stava facendo. - …devo andare.
  • Oh. – e guardò in un punto indefinito. – Ok. Ci vediamo.
Lei alzò la mano per salutarlo, poi fece un passo indietro e si voltò per tornare nella stanza di Katy, lasciandosi dietro soltanto la visione della sua figura minuta. Si sentì un vero idiota, perché strano lo era davvero: un tizio coi capelli rossi, vestito da pagliaccio, con una chitarra in spalla, era strano sul serio, ma sapeva che non era quello il punto. Quelle ultime due parole furono come due scosse, ma non sapeva dire se ora si sentisse meglio o peggio di prima. Lentamente, assorto da quel pensiero, entrò nello stanzino e tornò ad essere l’Edward di sempre, lo sciatto ragazzo con le Vans e i capelli scompigliati, troppo rossi rispetto alla norma. Quando raggiunse la bici, fuori dall’ospedale, si guardò indietro, mirando lo sguardo alle finestre del secondo piano. Sperò che Marina non stesse guardando fuori, perché se lo avesse visto avrebbe pensato che fosse matto a cercarla con gli occhi, dopo averla trattata a quel modo.
Ma era meglio per lui.
Era meglio così.

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Capitolo 5
*** V ***





V



Il fatto che lui fosse timido era chiaro, ma non si spiegava quel suo atteggiamento.
Quando l’aveva visto per la prima volta nel caffè, seduto a quel tavolo da solo, aveva avuto la netta sensazione di conoscerlo, ma non riusciva a ricondurre il suo viso a nessun nome.
Aveva pensato che magari lo avesse incontrato per strada qualche volta, ma la sua memoria non la aiutava.
Quella mattina stava andando in biblioteca, di nuovo, ma non per lui.
Doveva ancora riuscire a spiegarsi il motivo per il quale fosse così determinata a parlargli, ma probabilmente quel ragazzo le faceva soltanto un po’ pena con tutti quei lividi che aveva sempre. Era evidente che qualcuno lo riducesse in quel modo, ma lui sembrava così tranquillo. Si era accorta che la gente lo evitasse, che tutti elaboravano giudizi troppo pesanti su quel tipo, ma lei si rifiutava di rientrare nella categoria di persone a cui basta un sguardo per pregiudicare. Forse era il suo lavoro che le permetteva di non avere una tale presunzione, o forse era solo che il tizio rosso le ricordava tanto uno dei suoi alunni.
Ora, non è che in biblioteca ci stesse andando di proposito, era solo che il suo esame per la specialistica si avvicinava e lei ancora doveva preparare una bozza della tesi, quindi avrebbe dovuto sfruttare il tempo che le restava fino all’ultimo secondo. E poi non aveva certo tutto quel materiale a casa, se non ci fosse stata quella biblioteca sarebbe stata costretta ad andare a Londra.
Camminava a passo spedito, per riscaldarsi, poiché il freddo sembrava penetrare attraverso il cappotto, il maglione spesso e tutte le altre maglie che la ricoprivano. Gli stivali termici non sembravano bastare, i capelli lunghi erano infilati nel cappotto e il cappello tirato fino al collo. Più di così, non poteva fare.
Quando svoltò l’angolo e cominciò a camminare sulla stradina della biblioteca, lo vide sfrecciare sulla bici, diretto verso il retro. Quella vista era durata per un secondo, ma era stato abbastanza da permetterle di notare il suo labbro rotto. Cosa diavolo succedeva a quel tizio?
L’istintiva necessità di aiutarlo era inspiegabile, si presentava in lei senza una motivazione logica. Quando l’aveva visto fiondarsi nella stanza di Kathy, aveva pensato che dovesse essere il suo gemello quello che vedeva, perché non lo aveva mai visto sorridere o parlare. Uno così, con il muso e i lividi, poteva fare il naso rosso negli ospedali? Chi era quel ragazzo?
Il solo vederlo scendere al volo dalla bicicletta, le faceva sorgere mille domande: quando aveva imparato a farlo? Quanti lavori ha? Mantiene una famiglia? È solo? Ha bisogno di aiuto?
Peccato che lui la evitasse. Era palese e un po’ le dispiaceva, non voleva che pensasse male di lei, magari credendo che volesse prenderlo in giro o roba simile.
Quando spinse la porta in legno scuro, sapeva di trovarla aperta e non vide l’ora di rifugiarsi nel tepore di quella stanza, ma quando entrò sentì lo stesso gelo che c’era all’esterno. Capì subito che doveva esserci qualcosa che non andava, perché lui era accovacciato accanto al termosifone che studiava qualche manopola. Le persone già presenti in biblioteca si lamentavano del freddo, ma non vedevano che lui stava già cercando di risolvere il problema?
Non si avvicinò, non voleva disturbarlo mentre era al lavoro, magari la sua presenza lo avrebbe soltanto fatto agitare di più, quindi rigò dritto alla sua solita scrivania.
Posò la sua grossa borsa e si sfilò il cappello, arruffandosi i capelli. Qualcuno la salutò e lei ricambiò distrattamente, mentre continuava a guardare nella direzione di quella testa rossa.
In quel momento si rese conto di non sapere nemmeno il suo nome. Nella sua testa, non aveva ancora un’identità.
Voleva dargli una mano, troppo infastidita dai commenti di chi la circondava e non faceva niente per risolvere il problema, ma quando si era convinta ad avvicinarsi, lui si era già alzato. Sparì dietro una porta.
  • Pel di carota, datti una mossa! Ma chi l’ha assunto?
Si voltò verso il ragazzo che aveva appena pronunciato quelle parole e lo guardò furibonda. Sentiva che stava per scattare, ma si trattenne dal mettergli le mani addosso.
  • Se pensi di essere più capace, perché non vai a risolvere tu questo problema?
  • Non è mica compito mio, Mar, è compito suo.
  • Allora non permetterti di giudicare il lavoro degli altri.
La sua faccia diceva da sola che non ammetteva repliche ed infatti lui chiuse la bocca che aveva aperto per ribattere. Deglutì, autoconvincendosi a non fare mai più una cosa del genere, altrimenti qualcuno l’avrebbe presa per pazza, poi tornò a guardare verso la postazione dei prestiti, ancora vuota.
Tanto per cominciare, iniziò a guardare tra le sue scartoffie, aggirandosi col cappotto tra gli scaffali polverosi, alla ricerca di alcuni volumi di Pedagogia. Li trovò da sola, senza arrampicarsi sulle mensole e dopo averne fatta una pila, lanciò un’ultima occhiata al bancone vuoto e si mise a studiare. Per fortuna gli animi degli studenti si erano acquietati, ma soltanto perché l’assessore aveva annunciato che i tecnici stavano arrivando per risolvere il problema e fu soltanto allora che il rosso tornò allo scoperto.
Interruppe la sua scrittura frenetica e si soffermò ad osservarlo. Era un tipo un po’ fuori dagli schemi con i suoi jeans un po’ larghi e le Vans consumate, per non parlare delle sue camicie a quadroni e dei suoi maglioncini con le maniche troppo lunghe. Inoltre, i capelli rossi erano l’ultima cosa che gli serviva per passare inosservato. Aveva le mani piccole, le gambe piene, le spalle larghe. Gli occhi chiari spiccavano nel buio della stanza, ma avevano l’aria così persa e triste. Avrebbe giurato che una volta fossero ancora più luminosi. La sua andatura era quasi…morbida, mentre si dirigeva dietro al bancone, aprendo il varco prestiti. Nel momento in cui lui alzò lo sguardo, incontrò i suoi occhi. Per una frazione di secondo rimase immobile, poi, come se le avessero dato un pizzico, ritornò immediatamente a scrivere, abbassando il capo sul suo quadernetto a righi.
Avrebbe voluto vedere la sua reazione, ma girarsi di nuovo non era una buona idea. Sospettava che lui la considerasse una stalker.
Per un’ora abbondante, rimase in quella posizione, con le gambe incrociate sulla sedia e il cappotto sulle spalle. La mano fredda non la aiutava a velocizzare il lavoro ed aveva bisogno di un caffè dopo la nottata passata in bianco in ospedale. Kathy non era stata molto bene quella notte. Drizzò la schiena e protese le braccia verso l’alto, per cercare di sgranchirsi un po’, il torpore dovuto al freddo e alla stanchezza, voleva prendere il sopravvento.
Si chiese come lui facesse a stare senza cappotto, ma forse era troppo ingombrante da tenere addosso dietro quel bancone o per sistemare i libri sugli scaffali. Non osava guardare in modo esplicito verso di lui.
Lentamente, si alzò dalla sedia e distese le gambe, guardando l’orologio: non aveva molto tempo, il suo turno a scuola cominciava tra un’ora e lei era solo a metà dell’opera. Con la consapevolezza che quella sarebbe stata una lunga giornata, prese qualche spicciolo dal portafogli per andare al caffè di fronte a prendere qualcosa di caldo. Magari un espresso.
Fu costretta a passare davanti a lui, ma cercò di essere indifferente. Aveva il capo chino su un modulo, il vecchio tesserino sul petto era storto. Sembrò che lui non si fosse accorto del suo passaggio, ma quando ebbe superato il suo campo visivo, la sensazione di essere osservata la colpì dietro al collo come una freccia.
Ma cosa diavolo le importava? Perché la impietosiva a tal punto?
Fece un pesante sospiro ed appoggiò una mano alla maniglia, ma qualcuno aprì la porta prima di lei. Un ragazzo dai capelli scuri, con troppe collane al collo, entrò con baldanza nella stanza, dopo averla guardata dall’alto in basso con due occhi freddi come il ghiaccio. Un tipo dall’aura inquietante. Non ci badò ed uscì.
I suoi stivali affondarono nella neve, facendola oscillare un attimo, ma riprese il controllo con le braccia aperte ed arrivò al caffè. Entrò, facendo suonare il campanello e si diresse al bancone.
  • Salve. – fece il proprietario. – Che freddo, eh?
  • Già, si gela oggi. – disse.
  • Un bel caffè caldo? – disse l’uomo baffuto, sorridendo. Le infondeva serenità.
  • Sì, è proprio quello che ci vuole.
Quello si voltò di spalle e cominciò a trafficare accanto alla macchina del caffè, lasciandola sola, con le dita aggrappate ai bordi del bancone. Il tepore di quel posto le sembrò una benedizione e il suo pensiero corse a quel ragazzo senza cappotto, intrappolato tra gli scaffali polverosi. Doveva essere congelato. Pochi secondi dopo, l’uomo gli porgeva il caffè da portare via.
  • Senta. – disse, titubante. L’uomo la guardò. – Mi faccia anche un the da portare via. Earl Grey.
  • Certo, signorina, subito. Intanto le faccio lo scontrino.
Lasciò le monete sul bancone ed intascò lo scontrino. Aveva chiesto un the che non sapeva come gli avrebbe dato o se l’avrebbe bevuto, non sapeva se l’avrebbe considerato un gesto troppo confidenziale. Oddio, era una stalker.
Sorrise di rimando ai baffi grigi e prese i due tazzoni. Aprì la porta con il mignolo e tornò allo scoperto. L’aria fredda le condensava il respiro, svegliandola dall’incanto: in effetti stava facendo una cosa inusuale, ma in fondo era solo una gentilezza, non importava se lui l’avrebbe ritenuta una sconsiderata. Spinse la porta con la spalla ed entrando vide al banco dei prestiti quel tipo inquietante. Stavano parlando, ma l’atmosfera non era esattamente distesa. Di passo in passo riusciva a vedere l’espressione del rosso, contratta e cupa. Evidentemente si conoscevano e non potè evitare di connettere i suoi lividi ai pugni serrati che l’altro poggiava sul bancone. Si fermò, sentendo i toni alzarsi e per un attimo ebbe paura, ma poi il ragazzo moro se ne andò, stringendosi nel suo cappotto nero, guardandola intenzionalmente prima negli occhi e poi lungo tutto il corpo. Un brivido di repulsione le attraversò la schiena. Poco prima che la superasse, guardò le due tazze, poi guardò lei e poi guardò il rosso dietro al bancone, che ora lo ignorava. Due secondi dopo era fuori.
Alzò gli occhi a lui e vide il turbamento dipinto sulle sue sopracciglia increspate, mentre guardava un foglietto che ora infilava in tasca.
Fece il primo passo verso di lui, facendo oscillare il cartoncino del the ancora immerso nell’acqua. Lui sembrò non accorgersi della sua presenza al bancone, immerso nella lettura di un documento e non seppe cosa fare. Intanto appoggiò la tazza fumante sul banco, poi lo guardò, tesa, e cercò di attirare la sua attenzione.
  • Ehm. – cercò di iniziare. – Ciao…
Lui si girò, ma evidentemente non si aspettava di vedere lei, perché cambiò immediatamente espressione e tornò in posizione eretta, posando la penna che aveva tra le dita. Era chiaro che stava cercando di non tradirsi, ma attese che fosse lui a parlare, stringendo troppo la tazza di carta. Si morse un labbro, trepidante.
  • Uhm…ciao. – disse, non potendo evitarla. Vide i suoi occhi correre alle tazze e poi di nuovo a lei.
  • Ti…ti ho portato qualcosa di caldo. – e spinse la tazza verso di lui. – Spero che il the ti piaccia.
Vide i suoi occhi dilatarsi e poi battere le palpebre, confuso da quel gesto. Le sue mani si agitavano sul bancone, quasi incerto se accettare o no la bevanda calda.
  • Se non ti piace, non fa niente. – disse, allora.
  • Oh, no. Mi piace. – aveva una bella voce.
Le sembrò incredibile che stesse prendendo quella tazza.
  • Meno male. – gli sorrise, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Le dita di lui giocherellavano intorno al contenitore, mostrando una timidezza sincera per quella situazione. Magari era schivo per natura, ma in quel momento era sinceramente imbarazzato, lo confermavano le gote rosse che ora aveva in viso.
  • G-grazie. – disse lui.
  • Figurati. – sorrise ancora, con sguardo comprensivo. – Buon lavoro.
Fece un passo indietro, per congedarsi e lentamente si voltò. Aveva fatto una gentilezza a qualcuno che le sembrava in difficoltà, non c’era niente di male. Forse cercava solo di auto convincersi che non era pietà quella che provava per lui, soltanto l’istinto di crocerossina che la assaliva troppo spesso. Deformazione professionale.
La sua tesi si basava proprio sulle difficoltà sociali che permeavano le istituzioni scolastiche del paese, quindi forse il suo inconscio era naturalmente votato ad agire in quel senso.
Tornò a sedersi al suo posto, imponendosi di finire il lavoro entro 45 minuti, poi sarebbe andata via.
Dovette sforzarsi di guardare il quaderno e non pensare a controllare se lui stesse bevendo il suo the. Durante l’ultimo quarto d’ora, si alzò per andare a rimettere a posto i libri che aveva preso e cominciò a girare tra gli scaffali, pensando a cosa avrebbe dovuto comprare al supermercato più tardi, poi girando un angolo lo vide. Si fermò di colpo vedendolo in piedi, con la tazza in mano.
Lo vide portarsela alle labbra lentamente, assaporandone il contenuto quasi compiaciuto. Sorrise spontaneamente a quella vista e riprese ad avanzare, cercando di non lasciar prendere il sopravvento a quelle fantasticherie sulla sua vita privata. Lo affiancò e si sporse per posare il libro. Sentì il suo sguardo posato su di lei, mentre posava il volume tra la polvere e lo guardò, cogliendolo di sorpresa. Sembrò che si stesse imponendo di controllarsi mentre distendeva visibilmente l’espressione, rimanendo serio. Lei sorrise serenamente e provò a mettersi nei suoi panni: se fosse stata al suo posto, si sarebbe sentita perseguitata, quindi non disse nulla e andò via, voltandogli le spalle. Lui non disse nulla e poco dopo Marina uscì dalla biblioteca, guardandosi indietro un’ultima volta.
 
Non poteva permettersi un abbonamento per il pullman, né una bicicletta, quindi era costretta a camminare a piedi sulle strade ghiacciate, a qualunque ora del giorno e della notte. A passo svelto, oltrepassò il cancello della scuola in cui insegnava e non appena fu all’interno, fece un sospiro di sollievo: entro pochi minuti avrebbe ripreso il calore perduto.
Quando entrò in classe, i bambini si alzarono dai loro banchi ed andarono a salutarla, con le mani sporche di pittura. Quella sera avrebbe dovuto smacchiare i jeans, ma poco importava.
Jody, la sua amica e collega, entro pochi giorni sarebbe andata in maternità per gravidanza a rischio e per un po’ avrebbe dovuto fare doppi turni, finchè la preside non avesse trovato un supplente o delle attività alternative: non esattamente un bene per la sua tesi.
  • Sembri un ghiacciolo! – disse Jody, carezzandosi il pancione.
  • Lo sono, Jo! In biblioteca il riscaldamento era rotto, mi sono congelata. – rispose, mentre carezzava le teste dei suoi piccoli.
Aveva una classe di 4 anni e quell’anno stavano seguendo un progetto didattico sulle stagioni e sugli elementi e quello era il giorno dedicato alle cose artistiche. Sapeva che presto avrebbe avuto i capelli verdi e rossi.
Quando i bambini tornarono ai loro posti, gli chiese cosa stessero facendo e subito il gruppo rispose a gran voce, mostrando il loro operato.
Non appena tornarono al lavoro, incoraggiati dal fatto che lei attendesse di vedere l’elaborato finale, si portò al termosifone per scaldarsi le mani.
  • Sei riuscita a studiare? O ti sei lasciata distrarre dal bel tenebroso? – rise la sua amica.
  • E dai, Jody, smettila. Lo sai, è più forte di me, quel ragazzo mi fa così pena!
  • Sì, certo.
  • Oggi gli ho offerto un the.
  • Se io fossi in lui mi sentirei stalkerata, Mar. Non pensi di star esagerando? – fece seria Jody, senza smettere di carezzarsi il ventre.
Marina la guardò negli occhi scuri, perdendosi nei suoi capelli ricci africani e nella sua pelle scura. Se c’era una cosa che le piaceva di lei era che sembrava essere la sua coscienza.
  • Sono stata solo gentile. – rispose, dopo qualche secondo.
Jody la guardò come per farle intendere che sapeva cosa le passasse per la testa e che non era del tutto sincera, ma lasciò correre. La sua amica non aveva certo cattive intenzioni, era solo troppo buona per quel mondo. Pranzarono insieme ai bambini, facendo volare l’ora successiva.
  • Allora io vado, ho la visita dal ginecologo.
  • Mi raccomando, stai attenta per strada, è pieno di ghiaccio. E fammi una telefonata quando arrivi a casa.
  • Va bene. Ci sentiamo più tardi. – le diede un bacio sulla guancia ed uscì dalla porta.
Quel pomeriggio lei e i suoi frugoletti avrebbero fatto un percorso motorio in palestra, quindi prese armi e bagagli e li portò dall’altra parte della scuola, attraversando i freddi corridoi.
Quando predispose i materiali per il percorso ad ostacoli, le rimase da fare solo una cosa: travestirsi da Babbo Natale. Non che i bambini dovessero credere che lo fosse, ma era un ottimo elemento per dare senso a quel percorso che stavano facendo: aiutare babbo Natale a recuperare tutti i regali caduti dalla slitta.
Come un lampo, la visione del ragazzo dei prestiti travestito da pagliaccio le fulminò la mente. Sarebbe stato perfetto in quel ruolo e sorrise al pensiero del suo viso pulito e sorridente, proprio come il giorno prima in ospedale. Si chiese ancora chi fosse davvero, cosa ci fosse dietro quella spessa maschera di serietà e indifferenza.
Col cappello natalizio in testa, passò le prime ore del pomeriggio nella fredda e piccola palestra della scuola, senza riuscire a smettere di tormentarsi, di farsi domande che non la riguardavano, di risultare pedante e lunatica anche a se stessa. Un minuto moriva dalla voglia di conoscerlo, un altro non capiva perché non si facesse i fatti suoi e continuasse a vivere la sua vita.
Si sentiva ancora più piccola di quanto fosse fisicamente o all’anagrafe, realizzando che in realtà, per una persona che non conosceva e che aveva i suoi problemi, poteva fare ben poco.
Non era uno dei suoi alluni che ora saltava nei cerchi per aiutare Babbo Natale, non poteva portarlo a scuola e farlo sedere in mezzo ai banchi per insegnargli la speranza o altre utopie. Lei ci credeva davvero, ma non poteva essere lo stesso per tutti gli altri.
Ma allora a cosa serviva il the di quella mattina? Voleva scaldargli l’animo e invece gli aveva scaldato solo lo stomaco.
Lei – lo sapeva – voleva provarci a tutti i costi a far sparire quella tristezza dai suoi occhi azzurri, ma – lo sapeva – non poteva essere l’eroina che voleva. Era solo una maestra, una specializzanda, una ragazza qualsiasi in una cittadina fuori Londra. Anonima e altrettanto sola.
Quella sera sarebbe tornata a casa, si sarebbe messa a studiare e avrebbe dimenticato ogni cosa.
Infondo lui sembrava volerla evitare quindi…lo avrebbe accontentato, riportando le cose al loro stato originale – come se poi non lo fossero sempre state.
Aveva tentato di entrare nella sua vita senza il suo permesso, perché le piaceva scommettere sulle persone, così come scommetteva sui suoi alunni, ma era arrivato il momento di smettere. Jody aveva ragione, aveva esagerato.
Quando la campanella suonò, uno ad uno i suoi piccoli le diedero un bacio e poi corsero via, verso le braccia aperte delle loro famiglie, così prese il suo cappotto e le sue cose, si imbacuccò e se ne andò.
Poche ore dopo, mentre sistemava la spesa nei cassetti, guardò fuori dalla finestra del suo piccolo appartamento, il bilocale con l’affitto più basso della città. Quella notte sarebbe stata particolarmente gelida, lo capiva dalle brusche folate di vento che facevano tremare i vetri.
I primi fiocchi di neve aleggiavano nell’aria, senza mai riuscire a posarsi.
Sperò che lui fosse a casa, lontano dalla gelida mano dell’inverno inglese.






Angolo autrice:

Se non si era capito, questo capitolo è narrato dal punto di vista di Marina.
Era ora di conoscerla un po' meglio, sta ragazza.
La storia è lenta, lo so e ancora poco formata, ma prima o poi succederà qualcosa, diamine.
Anyway, fatemi sapere cosa ne pensate e mille grazie per le visite e le recensioni!
A presto! :)

S.

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Capitolo 6
*** VI ***





VI


 

Non aveva ancora capito se quella fosse stata una tecnica di abbordaggio o cosa.
Cosa? Cosa voleva quella ragazza? Fare amicizia e basta? Ma chi più, al giorno d’oggi, voleva fare amicizia e basta? Con lui, poi.
Quella Marina non gliela raccontava giusta. Ormai la vedeva così spesso che gli sembrava di conoscerla, quando in realtà a stento ci aveva scambiato due parole e lei insisteva a trattarlo come se la sua vita le riguardasse. Come se si conoscessero da sempre.
Quella notte aveva riposato male, un po’ per il dolore alla spalla provocatogli da Ben, un po’ per tutta quella strana situazione che stava vivendo: Marina, l’Hawking Pub, Ben. Ben, soprattutto, che ultimamente riceveva visite da persone diverse, ma tutte con la stessa aria, lo stesso atteggiamento e una valigetta da lavoro. Era preoccupato, per questo: era convinto che gli stesse nascondendo qualcosa, ma a causa di Jeffry non riusciva mai ad origliare per più di un minuto, era sempre lì ad aspettarlo sulle scale e non credeva che fosse una casualità.
Sua nonna lo aveva messo in guardia, diceva sempre che quando qualcuno entra in una casa è sempre per lasciarci qualcosa. Ma cosa?
A parte l’insignificante fatto che quel mese sarebbero andati in rosso per la risonanza di sua nonna, il suo fratellastro lo stava coinvolgendo in qualcosa da cui voleva stare alla larga. Quando si era presentato in biblioteca il giorno prima, con quel foglietto, aveva rifiutato l’incarico che voleva affidargli, ma lui non ci mise molto a passare alle minacce: se non fosse andato a quell’appuntamento, avrebbe detto a Ben che la metà dei soldi che guadagnava, li spendeva per sua nonna. In quel caso, Evangeline sarebbe stata sfrattata dall’ospizio perché il suo patrigno avrebbe preso in gestione il suo conto corrente e purtroppo per lui, non era difficile che ci riuscisse, era un uomo dalle molte – troppe – conoscenze. Se non fosse stato in grado di lavorare, le cose per lui sarebbero finite molto, molto male. Avrebbero potuto cacciarlo di casa e non aprire la porta per giorni. Era già capitato.
Così, quella sera avrebbe dovuto armarsi di forza di volontà ed uscire verso mezzanotte per dirigersi in una bettola di periferia, per avere la consegna di Jef. Ovviamente, i soldi che chiunque avesse trovato avrebbe voluto in cambio, dovevano uscire dalla sua tasca.
Quella storia non gli piaceva, non gli piaceva per niente, ma non aveva altra scelta.
Quel pomeriggio, Marina non era in biblioteca e non c’era stata nemmeno quella mattina. Tra un po’ avrebbe chiuso la porta e sarebbe uscito di lì, senza sapere bene come sarebbe finita quella giornata. Quando fu fuori e il freddo gli penetrò le ossa, si sentì più stanco del solito, anche se erano solo le 18:00 e il cielo era sereno. Magari prima di tornare a casa poteva passare al cimitero da sua madre.
Montò in sella e cominciò a pedalare, lungo le strade la gente affollava i marciapiedi e spesso si fermava a far attraversare qualche vecchietta infreddolita. Il freddo e l’aria pulita di quella zona poco trafficata lo fecero rinvenire da quello stato di dormiveglia in cui era precipitato, portandolo a strofinarsi gli occhi e a sbadigliare. Quando riprese la marcia e svoltò l’angolo, pensò di essere davvero perseguitato da quella donna: era lì che attraversava la strada insieme alla stessa ragazza incinta che aveva visto quella volta al caffè. Era deciso ad ignorare la sua presenza e sperò che lei non lo notasse, mentre rallentava per deviare la sua traiettoria e lasciarsele alle spalle, ma non fece in tempo ad arrivare neanche alle strisce pedonali che dovette fermarsi di botto. La ragazza in dolce attesa era ferma in mezzo alla strada e non si muoveva. Non capì perché si fossero fermate finchè non la sentì urlare, lasciandosi cadere sulle ginocchia: c’era chiaramente qualcosa che non andava.
Sentì la voce di Marina urlare, mentre posava un piede a terra per fermarsi definitivamente.
  • Jody! Jody, cosa succede?
La vide accovacciarsi accanto all’amica. Non sapeva cosa fare.
  • Aiuto!
In un lampo, Marina scattò in piedi e si guardò intorno. Quando incontrò i suoi occhi verdi spaventati, non potè fare a meno di lasciar cadere la bicicletta a terra e andarle incontro. Come se lo conoscesse da sempre, si avvicinò a lui, mandando il suo cervello ancora più in confusione. Ed aveva le mani di Marina poggiate sui suoi avambracci e il suo viso contratto a poca distanza dal suo petto.
  • Calmati. – riuscì soltanto a dire. Non poteva negarle il suo aiuto.
  • Dobbiamo chiamare l’ambulanza! – fece lei, quasi senza fiato.
Senza pensarci due volte, prese il suo cellulare dalla tasca e compose il numero del Pronto Soccorso. Sentiva il cuore diventare tachicardico, mentre lei tornava dalla sua amica.
  • Sono Edward Sheeran e mi trovo in Privet Drive, c’è una donna incinta che sta male. No, non so cos’abbia, non riesce a parlare. – Marina lo guardò, terrorizzata e pallida.
Quando la centralinista chiuse la chiamata, si passò una mano tra i capelli rossi e si guardò intorno.
  • Marina – la chiamò per nome, come se fosse naturale. Lei si girò, forse non ci fece troppo caso. – Portiamola su quella panchina, non potete stare in mezzo alla strada.
Si avvicinò, mentre lei già prendeva l’amica sotto braccio. Sentì la sua voce incoraggiarla, dicendole che i soccorsi arrivavano, doveva resistere solo un po’.
Quando si fu accovacciato anche lui, prese il braccio della donna senza troppo timore e cercò di sollevarla. Fu inevitabile per lui toccare Marina, sentire lo spessore del suo braccio contro il proprio, ma non era certo il momento di pensarci.
La ragazza non riusciva a camminare, dovettero quasi trascinarla fino alla panchina e cercarono di farvela sedere piano. Respirava pesantemente quando la lasciò per andare a recuperare la bicicletta, prima che qualche auto la schiacciasse, poi tornò subito da lei, non sentendosela di andarsene e lasciarla sola con una donna in travaglio.
  • Resisti, Jody, i soccorsi arriveranno a momenti.
Qualche passante si fermò attorno a loro, chi per aiutare, chi solo per curiosità. Era pietrificato da quella situazione, dal suo sguardo così pungente mentre lo guardava alla ricerca di consolazione.
  • Tu… - disse, rivolta a lui. – Ti chiami Edward?
Riuscì perlomeno ad annuire, sentendo il suo nome uscire dalle sue labbra.
  • Scusa se ti disturbo ancora, potresti farmi fare una telefonata?
Non riuscì a far uscire la voce dalla gola, fu soltanto in grado di riprendere il cellulare dalla tasca, impigliandosi troppo spesso nel suo stesso cappotto blu e glielo porse. Lei compose il numero così velocemente che gli sembrò impossibile che lo avesse digitato correttamente, ma pochi secondi dopo parlava al telefono con una signora. Forse era la madre di quella Jody.
  • Grazie, io… - la vide portarsi una mano ai capelli e la sua gola si seccò nel notare le sue gote rosse. - …scusa, per tutto.
  • No, non- - tentò – non ti preoccupare. – fece, agitandosi.
Quando si sentirono le sirene in lontananza, si voltò con una scusa buona e alzò le braccia per farsi notare dal conducente. Guardò Marina e si spostò verso di lei, per non intralciare gli infermieri. La barella uscì dall’ambulanza e la giovane ragazza vi fu caricata sopra, ancora in preda al dolore.
  • Vengo con voi! – disse Marina all’infermiere.
  • È una parente?
No, non lo era, infatti la lasciarono fuori dal veicolo e andarono via.
  • Oddio.
La sua voce era rotta ed ora era più in imbarazzo di prima. Voleva dire qualcosa per tranquillizzarla, ma era come se la sua gola fosse stretta in una morsa, quasi non riusciva a muoversi, infatti fu lei ad anticipare qualsiasi sua mossa, voltandosi verso di lui e poggiando la fronte sulla sua spalla. Scoppiò a piangere, con le braccia raccolte al petto.
Ed allargò istintivamente le braccia, spaventato da quel contatto così improvviso. Si sforzò di poggiarle una mano sulla spalla, ma non sapeva se sarebbe servito a qualcosa.
  • Lei è una gravidanza a rischio. – lo informò. – Potrebbe perdere il bambino.
Oh, beh. Non era certo una bella informazione con cui convivere, in effetti, ma non poteva fare niente per lei se non restare fermo e assecondarla per un po’.
Ancora non capiva come si era ritrovato in quella situazione. Quella benedetta ragazza era ovunque, sempre ed ora piangeva sulla sua spalla. Era piccola e bassina, le sue braccia riuscivano appena a circondargli il collo, ora. Come riuscisse a comportarsi così, non lo sapeva, l’unica cosa di cui era sicuro era che si sentiva troppo agitato, davvero troppo.
Sentì il suo profumo salirgli alle narici, sapeva di lavanda e rose. Quell’insieme di lacrime e singhiozzi cominciò a svanire gradualmente, finchè non sentì il suo respiro tornare regolare.
Era chiaro che non potesse andare in ospedale e lui non poteva certo accompagnarla in bici fin lì. Tra loro e Jody ormai c’erano una ventina di chilometri.
  • Scusa. – disse, alzando il viso.
Lasciò cadere la mano dalla sua spalla e cercò qualcosa da dire.
  • Ma no…non fa niente. – rispose, in quell’imbarazzante posizione in cui lui era inerme e lei aggrappata alle sue spalle.
  • Se vuoi puoi andare, non voglio trattenerti oltre. – fece lei, cogliendo il suo imbarazzo.
Lo disse mentre si asciugava un’altra lacrima e tirava su col naso. In effetti, avrebbe potuto andarsene, ma ora che lei non cercava il suo sguardo, ora che lei lo stava congedando, qualcosa gli sembrò fuori posto. Era fastidioso. Quella sensazione di nostalgia lo colpì come un fulmine a ciel sereno: lui stava davvero cercando la complicità nei suoi occhi arrossati? Non si accorse di essere rimasto a fissarla finchè lei non si voltò e rise, guardandolo. Doveva avere una faccia davvero buffa, con i suoi capelli rossi, il labbro rotto e l’aria spaesata, perché quel sorriso sembrava spontaneo. Niente di calcolato. Magari…
  • Vuoi…
Se lei voleva…
  • Possiamo…
Ma sì, cosa c’era di male.
  • Ti va un caffè?!
Il tono con cui aveva posto la domanda, suonava strano anche alle sue orecchie, come se fosse chiaramente sorpreso, come se avesse appena visto qualcosa di straordinario. Strizzò gli occhi, mentre pronunciava quelle parole e contemporaneamente rifletteva sul suo insolito comportamento.
Lei lo fissò senza vergogna, senza cercare di nascondere il suo stato di shock nel sentire quelle parole. Si sentì uno stupido in piena regola e abbassò lo sguardo mentre faceva un passo indietro. Povero illuso, cosa aveva cercato di fare? Forse lei non era diversa dalle altre, diversa da tutti.
  • Va bene. – la voce era un sibilo.
Rialzò lo sguardo su di lei così velocemente che quasi gli girò la testa, cercando di decifrare lo stato d’animo che lo invadeva. Cos’era? Paura? Felicità? Confusione? O magari tutto insieme?
Con i suoi capelli spettinati e gli occhi dilatati, chiuse la bocca e in silenzio, prese la bici.
Cominciarono a camminare lungo quella strada e quasi non osava guardarla. Aveva una tale vergogna di quella sua goffaggine: l’aveva invitata a prendere un caffè a quell’ora e mentre la sua amica correva all’ospedale. Si tormentava le mani, ancora agitata.
  • Tieni. – le porse il suo cellulare, di nuovo. – Chiama in ospedale.
Lei lo guardò per un secondo e ben presto ebbe il dispositivo all’orecchio. Non riuscì a non guardarla mentre chiedeva di Jody Sparks al centralinista. L’ansia la stava uccidendo, ma quello stato era condiviso.
Aveva una paura fottuta ad ogni passo che faceva. Cosa gli era passato per la testa?
Alzò gli occhi al cielo e chiese mentalmente a sua madre se quella fosse per lui la cosa giusta.
 
Era davvero una cosa fuori dall’ordinario, per lui, invitare qualcuno a prendere un caffè. Non aveva contatti con qualcuno che non fosse sua nonna dal giorno dell’incidente di sua madre e lei era la prima ad avere l’onore di sentire la sua voce e di ricevere un suo invito.
Erano seduti in quel vecchio bar da pochi secondi, nell’angolino più remoto e riservato, come se avesse paura di essere visto. Aveva una logica, in un certo senso, dato che Jeffry aveva fatto allontanare i suoi amici in un batter d’occhio, quindi forse il suo inconscio stava solo attivando un meccanismo di difesa. Qualcuno potrebbe dire che questo suo benedetto inconscio dovrebbe farsi un po’ i fatti suoi, ma non c’era da lamentarsi, perché il solo fatto che fosse seduto su quel minuscolo divanetto accanto a lei, era un grande esercizio di coscienza. In realtà, nel profondo, avrebbe voluto scappare il più lontano possibile. Gli esseri umani non facevano per lui.
  • Ha avuto un distacco della placenta. – disse Marina, guardando ancora lo schermo. – Ma sembra che siano intervenuti in tempo.
Prese il cellulare che gli porgeva, senza staccare gli occhi dal suo naso arrossato per il pianto.
  • Meno male. – disse, coraggiosamente.
Lei aprì la bocca per parlare, ma il cameriere la interruppe, chiedendo cosa desiderassero ordinare.
  • Per la signorina un the, per me un caffè. Grazie.
Era così abituato alle ordinazioni – e in generale agli ordini – che anche darli, gli veniva naturale. Lei sospirò, abbassando lo sguardo. Era davvero…piccola. E i suoi capelli erano davvero lunghi. Cominciò ad analizzarla, immersa nel suo cappotto verde: esternamente era una persona davvero semplice, con un semplice jeans e un semplice maglione rosso, ma dentro gli sembrava un labirinto e ancora doveva conoscerla. Lo sorprese ad osservarla, ma lo tolse dall’imbarazzo aprendo un discorso di sua spontanea volontà.
  • Pare che ci incontriamo spesso. – disse lei.
  • Già. – rispose annuendo, come se fossero le uniche parole da dire.
  • Allora, piacere. – la sua mano era tesa nel poco spazio che li divideva.
  • P-Piacere. – rispose, ricambiando la stretta. Anche le sue mani erano piccole.
  • Quindi, il tuo nome è Edward. Come sai il mio?
  • Sabato…l’altra cameriera ti ha chiamato per nome. Ed anche Kathy. – spiegò lui, rivivendo quel momento nella sua mente.
  • Caspita, hai una buona memoria. – disse lei, quasi di proposito.
In quel momento voleva dare un bacio al cameriere che poggiava le tazze sul tavolo, tirandolo fuori dall’imbarazzo in cui altrimenti sarebbe annegato. Tuttavia, non riuscì ad evitare di arrossire.
  • Ho capito che sei timido, scusa se sono così invadente. È il mio carattere. – lo disse mentre immergeva la bustina di the nell’acqua.
  • L’avevo capito. – rispose. Quel giorno si sentiva proprio un eroe, riuscendo a rispondere normalmente a qualcuno. A lei.
Si portò il caffè alle labbra, scottandosi un po’ la lingua. Erano troppo vicini su quel divanetto, non avevano due sgabelli? Le loro spalle si urtavano.
  • Allora, Edward, si può sapere chi sei? – lui la guardò, confuso. – Un giorno mi sembra di darti fastidio e un altro ci prendiamo un caffè. – cercò di spiegare lei.
  • Oh. Beh…diciamo che “è il mio carattere”.
  • Non ti fidi molto delle persone.
  • No. Per niente. – disse lui, quasi seccamente.
Lo leggeva nei suoi occhi che si stava chiedendo perché mai l’avesse portata al bar, ma sperò che non trasformasse quel punto interrogativo in parole.
  • Quanti lavori hai? – fece, sorseggiando il the. Il profumo di vaniglia lo distraeva.
  • Lavoro in biblioteca, arrangio qualcosa suonando e faccio il cameriere. – fece una pausa prima di aggiungere – Ma tanto lo sai.
Lei, forse per quella risposta, si fece andare un po’ d’acqua calda di traverso e prese a tossire, chiaramente spiazzata dall’ultima osservazione.
  • Tu… - cominciò, perdendo quel barlume di sarcasmo. - …cosa fai?
  • Io insegno in una scuola dell’infanzia, con Jody.
Capì immediatamente che si trattava di quella stessa scuola che era alle loro spalle mentre attraversavano.
  • E cosa vieni a fare in biblioteca? – mamma mia, due domande in meno di un minuto. Era un record.
  • Sto preparando la tesi per la specializzazione e non ho tutti i libri che mi servono.
  • Oh, capisco.
Calò un improvviso silenzio, come se avessero consumato tutte le energie per concludere quella breve conversazione. Ed infilò il naso nella tazza, concentrandosi sul caffè caldo che lo stava aiutando a scaldarsi. La sentì muoversi. Si stava sfilando il cappotto. Solo in quel momento si fece del tutto cosciente del fatto che fosse al bar con una ragazza e ancora non ci credeva. Si sentiva come se la sua mente fosse obnubilata.
  • Tu…sei solo? – chiese, senza guardarlo.
  • Cosa intendi?
  • Se sei solo, qui o hai una famiglia, una…fidanzata.
  • I-io vivo col mio patrigno e il mio fratellastro. – si affrettò a dire, per cancellare la parola fidanzata dalla sua testa. – E poi c’è mia nonna.
  • Tua madre e tuo padre? – chiese, guardandolo di nuovo, simulando naturalezza.
  • È morta 5 anni fa in un incidente, dopo che mio padre l'aveva lasciata. – la vide sbiancare, pronta a scusarsi per la domanda, ma la fermò. – Non preoccuparti. T-tu, invece?
  • Io – rispose, ancora in imbarazzo. – vivo sola. I miei sono a Londra, io mi sono trasferita qui da un paio d’anni, perché ho trovato lavoro in quella scuola.
  • E perché lavori all’Hawking? – chiese, inaspettatamente curioso.
  • Ho conosciuto Pit, il proprietario, una sera che sono uscita con Jody e mi disse che cercava una cameriera. A me serviva un lavoro part-time per arrotondare e così…A proposito, sei bravo con la chitarra. – sorrise. – Sabato suonerai ancora?
  • Grazie, io… - quel complimento lo fece andare in tilt, facendogli passare una mano tra i capelli. - …sì, il proprietario mi ha chiesto di tornare.
  • Cerca di non evitarmi stavolta. – rise lei, col naso nella tazza.
Era così pieno di vergogna che nemmeno riuscì a rispondere, limitandosi ad abbassare gli occhi e a prendere un sorso di caffè. Sembrava una ragazza a posto, forse era solo lui il problema, lui e la sua paura delle relazioni umane. Stavano soltanto chiacchierando e il suo cuore batteva come se stesse correndo. Il caldo di quel posto o forse l’agitazione, lo fecero accaldare e dopo attenta riflessione, si sfilò il cappotto anche lui. Sentì immediatamente i suoi occhi correre su di lui, facendolo sentire nudo e leggibile, ma dovette mettere da parte quella sensazione quando lei prese a studiare il suo labbro rotto. Quando la guardò, gli sembrò che i suoi occhi lo penetrassero. Era una sensazione strana eppure così netta: come se lei stesse scrutando il suo animo attraverso una porta che stava aprendo lui. Lesse in lei il turbinio di domande che voleva fargli ed ebbe paura. Non avrebbe avuto una risposta da darle.
Per un po’ stettero in silenzio, finchè lei non prese a parlare di nuovo, chiedendogli quando avesse cominciato a suonare. Lo stava invitando a nozze.
  • Quando avevo 5 anni, mio padre mi comprò una chitarra per bambini e da allora non l’ho più mollata. Ho imparato a suonare anche altri strumenti, come il violoncello, il basso, la batteria, ma nessuno mi identifica come la chitarra.
Lei rispondeva con un interesse vivo negli occhi, come se volesse sapere davvero chi fosse il tizio rosso della biblioteca. Le sue labbra rosse, incurvate, erano un invitante incentivo a continuare. Non parlava con una tale naturalezza da anni, ma mentre lei lo ascoltava attentamente, si sentì consolato. La remota sensazione di sentirsi a casa faceva capolino nel suo petto, scombussolando totalmente la sua visione delle cose.
Quando il suo cellulare squillò, si accorse che erano le 21:07 e Ben lo avrebbe ammazzato. Per fortuna lei convenne che fosse il caso di rientrare. Fecero un tratto di strada insieme e poi all’incrocio si salutarono.
  • Scusami ancora, Edward. E grazie per il the.
  • Ho solo ricambiato il favore. – disse, l’anima che vibrava ancora.
  • Ci vediamo domani, in biblioteca. Ciao.
Lui alzò la mano, mentre lei si voltava per andare via. Per qualche secondo restò a guardarla, ancora imbambolato e confuso dall’aroma del caffè. Salì in sella prima di poterla vedere voltarsi indietro e pedalò verso casa pregando per la sua vita.







Angolo autrice:

Ciao gentaglia, torniamo a guardare il mondo dagli occhi di Ed. Pian piano la storia comincia a farsi più interessante e proprio da qui comincerete a vedere i primi sviluppi. :)
Spero che intanto non vi stia annoiando, ma purtroppo - contrariamente alla mia iniziale volontà - ho preso questa storia alla lunga e mantenere un reale filo logico nei suoi avvenimenti, mi richiede anche diverse ricerche. Abbiate pazienza, il meglio sta arrivando!
Vi ringrazio infinitamente per le visite e le recensioni, soprattutto un grazie a GinevraMollyArkanian, che puntualmente recensisce la storia. Ciaone :D
Fatemi sapere cosa pensate della storia e del capitolo e se vi fa piacere aggiungete la storia alle seguite, ricordate o preferite.
Approfitto di questo spazio per ringraziarvi ancora del numero stratosferico di visite che ha accumulato Afire Love, ormai nelle preferite di 10 lettori. Per me un grande risultato. ^-^
Non vi annoio oltre.
Alla prossima! :)

S.

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Capitolo 7
*** VII ***




 
VII


 
 
  • Cosa cazzo stavi facendo?
Ben era incazzato nero. Quando arrivava in ritardo succedeva sempre così e qualche volta finiva male, se aveva bevuto qualche cicchetto. Chiuse la porta e lo vide avvicinarsi, già con le spalle al muro e gli occhi chiusi per ricevere il primo colpo della serata, ma la voce di Jeffry arrivò nitida dalla cima delle scale.
  • Papà, mi serve.
Ben si voltò verso suo figlio con uno sguardo di rimprovero, come se lo avesse privato del suo divertimento quotidiano. Abbassò le braccia che aveva eretto come protezione e si ricordò del piccolo favore che doveva fare a suo “fratello”. Guardò il ragazzo smilzo in cima alle scale e lesse nei suoi occhi il nulla più totale: lo stava difendendo solo perché gli serviva e per nessun’altra ragione. Come se fosse stato un oggetto. Non romperlo, mi è ancora utile.
Ben tornò a guardarlo dalla sua altezza, dritto negli occhi.
  • Ho fame.
Pur di non sentire il suo alito sul viso avrebbe cucinato anche per un esercito, quindi scivolò lontano da lui per dirigersi nella vecchia cucina con i mobili bianchi, ma prima di sparirvi guardò Jef, che lo fissava di passo in passo. Cosa voleva, una statua?
Si scrollò il cappotto di dosso e per un attimo risentì il profumo di Marina. Rimase interdetto e si fermò al centro della cucina, credendo di avere le allucinazioni. Si annusò il maglione, il cappotto, ma non c’era più traccia di quel profumo. Posò una mano sul tavolo, stanco e con l’altra si massaggiò gli occhi. Gli sembrava di aver perso di nuovo la rotta, di aver scommesso senza aver guardato le carte, ma ormai c’era dentro, gli restava solo da scoprire se avesse vinto.
Il brontolio del suo stomaco lo risvegliò e lo portò dritto ai fornelli. Per quella sera, c’erano hamburger e patatine, con tanto di anelli di cipolla precotti: una classica cena all’inglese.
Mangiò la sua porzione mentre il resto del cibo finiva di cuocere, di modo da avere il tempo della loro cena per riposare. Quando Ben e Jef si sedettero a tavola, si dileguò di sopra prima che potessero ordinargli altro e saltò sulle scale percorrendole a due a due. Quando si chiuse la porta alle spalle, continuò a non sentirsi al sicuro.
Si sedette sul materasso e osservò il disordine della sua stanza buia: la scrivania accanto alla porta era sommersa di vestiti da lavare, il letto disfatto, l’accappatoio abbandonato a terra, vicino al finestrone che dava sul viale. Si avvicinò per prenderlo, sospirando nell’alzarsi ancora e quando fu davanti alla finestra, vide un’auto rallentare. Per un attimo era tornato a guardare l’accappatoio, ma tornò subito a scrutare fuori quando sentì il sibilo dei freni.
Un’auto nera si era fermata fuori al suo cancello, senza spegnere il motore. Era troppo buio per riuscire a vedere chi vi fosse all’interno, riuscì soltanto a distinguere la luce di una sigaretta accesa. Istintivamente si scostò dal finestrone, osservando quella macchina dalla penombra delle pareti e cercando di distinguere la targa. Era troppo lontano.
Credette che a momenti qualcuno sarebbe sceso o che Jef sarebbe uscito dalla porta, ma non accadde nulla di tutto ciò e la macchina ripartì.
In quel momento aveva una tale agitazione in corpo che persino il suo respiro gli sembrò troppo rumoroso, mentre si poggiava con la schiena al muro. Guardò il soffitto ed ebbe paura per se stesso al pensiero che quella notte sarebbe andato in quella bettola al posto di Jef.
Con l’inquietudine che gli faceva martellare il cuore, guardò l’orologio: aveva giusto il tempo di lavare i piatti e poi sarebbe dovuto uscire. Sperò soltanto che non nevicasse.
Quando mezz’ora dopo la cucina fu in ordine, risalì le scale per riprendere il cappotto e proprio sul culmine, Jef lo fermò.
  • Mi raccomando, idiota. Prendi tutto, dagli i soldi e torna qui. È tutto chiaro?
I suoi occhi freddi e calcolatori brillavano persino nel buio del corridoio, mentre si sistemava le collane al collo. Non attese nemmeno che rispondesse.
  • Se ti azzardi a tornare a casa senza la mia roba, sai cosa ti aspetta.
Lo guardò dritto negli occhi, con disprezzo. Era facile per lui, minacciare, suo padre non gli aveva mai messo una mano addosso, non sapeva cosa significasse essere picchiato da un ex lottatore. Con la gola secca e l’espressione immobile, riuscì a superarlo e a tornare nella sua stanza. Prese l’ultimo maglione pulito e lo infilò al di sopra di quello che già indossava, spettinandosi tutti i capelli nell’infilarci la testa. Ultimamente era così stanco che non resisteva neanche al freddo.
Prese dei soldi dal cassetto, dal suo posto segreto e prima di chiuderlo vide di nuovo la collanina dorata. L’aveva proprio dimenticata. La prese, sentendola fredda tra le dita e la guardò. Magari era davvero di Marina o magari no, ma quella ‘M’ gli piaceva. Era davvero infantile da parte sua cercare di illudersi che quella lettera gli piacesse soltanto per l’aspetto e non per il significato che la sua mente gli attribuiva. Se la infilò al collo e la nascose sotto il maglione e si sentì meglio. Come se a quell’appuntamento non ci stesse andando da solo.
Senza guanti e senza cappello, riprese la bici dal portico e si avviò fuori. Il cielo era limpido, si vedeva persino qualche stella, ma faceva un freddo boia. Ad ogni pedalata si lasciava alle spalle scie di vapore e sentiva già la pelle delle mani frantumarsi. Si tirò giù le maniche del maglione, provando un leggero sollievo, ma aveva ancora molta strada da fare, senza contare che avrebbe dovuto tornare indietro.
Guardò le strade illuminate dalla luce gialla dei lampioni, non c’era nessuno in giro, i locali erano tutti chiusi in quella notte senza luna. Capì molto presto che le sue scarpe non bastavano a proteggerlo e che l’olio della catena stava per congelarsi, ma non poteva permettersi imprevisti. Forzò la marcia per i successivi chilometri, addentrandosi nella periferia dai vicoli stretti e sporchi, le case degradate e arrangiate con qualsiasi tipo di materiale avevano un aspetto spettrale e gli mettevano addosso una strana ansia.
Da quando era bambino, la sua più grande paura era quella di perdersi e quando ci pensava, gli affioravano alla mente immagini di città grandi e sconosciute, quasi sempre coperte dal buio della notte. Esattamente come in quel momento. Spaesato.
In lontananza vide una vecchia lampada gialla, che illuminava una scritta. Rallentò e lesse “The Lanthern”: già, che nome originale, ma era proprio il posto che cercava ed era già molto che fosse riuscito a trovarlo così in fretta.
Sentì delle grosse voci provenire dall’interno, che già davano l’idea dell’ubriachezza che assoggettava chiunque stesse parlando. Posò la bici accanto al muro, sperando di ritrovarla quando sarebbe uscito e spinse la porta d’ingresso, troppo infreddolito per pensare al motivo della sua visita. Immediatamente, lo presero tre sensazioni: la prima fu quella del calore che bruciava sulle sue guancie gelate; la seconda fu quella di essere del tutto fuori luogo, come una principessa in mezzo ad un branco di ladroni; la terza fu il calore al petto che sentì ripensando al ciondolo che portava al collo. Quel buco puzzolente, cadeva a pezzi: il bancone era mezzo distrutto, il soffitto gocciolava, ogni cosa era marcia e putrida. I due uomini che aveva sentito dall’esterno stavano ancora discutendo e non erano una bella vista, sembravano due vecchi pirati. Deglutì, un po’ per trattenere il rigurgito che sentiva risalirgli alla gola, un po’ per la ritrovata agitazione, nel ricordare le parole di Jeffry. Fece il primo passo verso il barista, un uomo di mezza età che dimostrava il doppio dei suoi anni, sperando che le sue sensazioni non fossero leggibili sul suo viso. Con le mani in tasca, ostentò sicurezza e chiese di un certo Tyler. L’uomo prima lo guardò, probabilmente chiedendosi chi fosse quel tipino così pulito, poi indicò l’unico tavolo occupato, da una sola persona.
Un uomo fumava, osservando il fondo del suo bicchiere vuoto. Quando raggiunse il tavolo, quello alzò lo sguardo, ma la sua non fu un’espressione felice. Il vecchio cappello che indossava e il colletto alzato, gli impedivano di tracciarne un quadro generale.
  • Tu non sei Jef. – la sua voce era fioca, ma non c’era insicurezza nel suo tono.
  • Sono venuto al suo posto.
  • Che codardo. – e senza guardarlo negli occhi, prese uno scatolino dalla tasca e glielo mostrò. – Per questo sono 300 sterline.
Quanto?!
Non potette esternare il suo disappunto e si concentrò per non variare di una virgola la sua espressione fredda. Prese i soldi dalla tasca e glieli mostrò, ma il cuore stava per bucargli il petto. Jef aveva scelto la persona sbagliata per quel lavoro.
Ovviamente, non si fidava di quell’uomo e mise i soldi sul tavolo soltanto quando sentì lo scatolino ruvido sfiorargli le dita. Quando lo prese, l’uomo intascò i soldi e si alzò, facendolo vacillare per un attimo.
  • Dì a Jeffry che può mandare chi vuole al suo posto, le cose non cambiano.
Prese un tiro dalla sigaretta ed uscì dal locale nel giro di pochi secondi. Non desiderava restare lì dentro un minuto di più, così prese a camminare verso l’uscita, ma la voce del barista tuonò alle sue spalle.
  • Qualunque cosa tu abbia in tasca, nascondila. – si voltò a guardarlo, senza capire. – Qui, di notte, gira la polizia.
Stirò l’espressione, improvvisamente grato che quell’uomo l’avesse fermato. Alzò la mano per ringraziarlo e tornò nel gelo e nel buio.
Dove avrebbe potuto nascondere quell’affare? Il solo pensiero che lì dentro potesse esserci della droga, gli faceva rivoltare lo stomaco. Quando guardò la bici ebbe un’idea: si abbassò all’altezza della ruota anteriore e smontò il coperchio della vecchia dinamo ormai rotta, mettendo al posto della lampadina il pacchettino di Jef. Richiuse il fanale e rimontò in sella, ripercorrendo la stessa strada a ritroso.
Il buio lo avvolse nuovamente e il suo pensiero andò a Marina, che poche ore prima era stata in grado di fargli dimenticare ogni cosa.
Quando nel pieno della notte diede a Jeffry la sua consegna e riferì il messaggio di Tyler, per fortuna Ben stava dormendo e lui potè chiudersi la porta alle spalle più sereno, ma chiedendosi come avrebbero fatto quel mese, con 300 sterline in meno.
Si era addormentato con i vestiti addosso, senza neanche accorgersene e zittì la sveglia più nervoso del solito. Tre ore di riposo non sarebbero state abbastanza per nessuno, ma era già molto se quella notte non aveva avuto qualche colpo di troppo.
La sua meccanica routine, gli permetteva di non guardarsi nemmeno allo specchio, evitandogli così di vedere quanto fossero profonde le sue occhiaie o quanto fossero ancora visibili i segni sul suo viso.
Cosa poteva fare per svegliarsi? Il freddo sembrava non bastare e non poteva permettersi di prendere un caffè, voleva soltanto dormire.
Gli studenti invasero la biblioteca, senza badare troppo alla sua stessa presenza, ma la fila al banco dei prestiti gli sembrava comunque troppo lunga.
Il rombo dei tuoni gli ricordò improvvisamente che mancavano poco più di 10 giorni a Natale e ciò significava meno lavoro e meno soldi: si portò una mano sugli occhi, senza riuscire a contenere la sua angoscia.
Quello era uno di quei giorni in cui avrebbe voluto mollare tutto e scappare, senza pensare all’eredità o alla casa, ma poi il pensiero di sua nonna, sola, lo faceva impietrire. Non poteva lasciarla sola, suo nonno lo avrebbe odiato per sempre. Avrebbe voluto credere almeno in Dio, per chiedere un miracolo, anche uno piccolo piccolo.
Doveva cominciare a cercare un lavoro part-time in qualche bar del centro.
Stava ricercando un libro di architettura in una delle zone più buie della biblioteca, quando all’improvviso qualcuno gli rivolse la parola.
  • Scusa, - era uno dei ragazzi assidui – dov’è la sezione narrativa?
  • In fondo alla sala, dall’altra parte. – e gli indicò la direzione con un dito, cercando di concentrarsi.
  • Ok. Senti – riprese quello – dopo pranzo, cerca di aprire in orario, noi abbiamo da fare.
Forse era la sua immaginazione, forse si era addormentato sullo scaffale. Aggrottò lo sguardo, riflettendo seriamente sulle parole che aveva udito, poi lo guardò e si rese conto di essere sveglissimo. Lo sguardo beffardo di quel belloccio aveva proprio l’aria reale. Probabilmente avrebbe optato per il silenzio e l’indifferenza, ma sentì i suoi pensieri materializzarsi attraverso la voce di Marina, accompagnata da un profumo di caffè davvero invitante.
  • Philip, perché non torni col culo sulla sedia e cerchi di dare un senso alla tua esistenza?
Il signor spalle larghe probabilmente era furbo quanto suo fratello, perché sembrò interpretare quelle parole come un complimento.
  • Oh, Mar! Stavo solo-
  • Non mi interessa. – fece lei, col viso privo di qualsiasi maschera.
Quello, come se lei lo avesse appena elogiato, si voltò per andar via, lasciandole un buffetto sulla guancia e uno sguardo carico di egocentrismo.
Ed era rimasto incantato ad osservare quella scena, avendo cura di restare in piedi e sveglio per godersi lo spettacolo fino alla fine. In realtà non gli interessava il fatto che quel tipo avesse voluto fare il gradasso con lui, era più colpito da quella Marina - scaricatrice di porto. Una creatura così piccola eppure così sveglia.
  • Lascialo perdere, – e tornò alla realtà. – è solo un idiota.
Nella penombra, guardò il suo sorriso e si chiese se fosse cambiato qualcosa in lei. La vedeva diversa: forse erano i capelli mossi o la luce soffusa, ma gli era chiaro che Marina avesse qualcosa nella pelle di più luminoso. Più sicuro. Non si era accorto di non averle ancora risposto.
  • Parlerai o hai intenzione di ignorarmi? – disse, ironizzando sul suo stato di trance.
  • Oh! – rinvenne. – Non fa niente.
  • Ti ho portato un caffè.
Non appena disse quella parola, il profumo della bevanda tornò chiaro alle sue narici e lo portò a guardare la tazza stretta tra le sue mani.
  • Non dovevi disturbarti. – disse, prendendola.
  • Mi eri sembrato stanco. – osservò lei, mentre guardava le sue occhiaie.
  • Già.
Abbassò gli occhi, tornando a pensare ai suoi problemi. Il vapore risplendeva sotto il fascio di luce che illuminò momentaneamente entrambi. Quando rialzò lo sguardo su di lei, gli sembrò più vicina di quanto avesse creduto.
  • Come sta la tua amica? – chiese, per cortesia e per distrarsi dal fatto di sentirsi come un ubriaco.
  • Per fortuna sta bene, è tenuta sotto controllo, ma è fuori pericolo. – sorrise. – Grazie ancora per il tuo aiuto.
  • Figurati. Grazie a te per il caffè. – ed alzò la tazza verso di lei.
  • È a questo che servono gli amici, no?
Il suo sorriso radioso in quel momento illuminava un pensiero poco chiaro.
Amici? Era palese che lei leggesse qualcosa di anomalo sul suo volto, ma non sapeva che per lui quella parola aveva lo stesso peso di uno dei cazzotti di Ben. Amici. Significava avere uno stretto legame con qualcuno, una persona che ti aiuta e ti sostiene, che ti conosce abbastanza bene da sapere che ti piace l’Earl Grey e non il the verde.
Era confuso come un bambino quando scopre che Babbo Natale non esiste.
Ed non sapeva se volesse essere suo amico, ma gli sembrò che lei invece volesse aiutarlo, mentre lo guardava senza lasciarsi turbare da quel suo sguardo perso. Non aveva paura della sua “inesperienza”? Cosa aveva da guadagnarci? Lui, non aveva niente da offrire in cambio.
  • Edward.
Battè le palpebre istintivamente, prendendo coscienza del fatto che lei fosse ancora lì e questo lo turbava più della solitudine, a cui ormai era abituato.
  • A cosa stai pensando? – chiese, guardandolo negli occhi.
  • Uhm… - si guardò i piedi, stringendo la tazza calda tra le mani. – N-noi siamo amici?
Sembrò sorpresa da quella domanda. In effetti, lei non lo conosceva affatto, non aveva idea di quanti nodi ci fossero da sciogliere nella sua testa.
  • Beh…se ti va. – disse poi, con naturalezza.
  • Scusa, io – non voleva sembrarle scortese, non aveva niente contro di lei.  – sono strano, lo so-
  • Non fa niente.
D’improvviso il suo maglione divenne una serra, facendogli salire il sangue alle guance come sale il mercurio in un termometro, quando hai la febbre a 40°C. Sentì un lieve sorriso fuggirgli dalle labbra e poi nascondersi di nuovo sul suo viso troppo serio.
Lei ricambiò quel suo sforzo e tese una mano verso di lui: eccolo, quel terrore del contatto, della vicinanza di qualcuno che poteva sparire da un momento all’altro. Fremette nel vedere la sua mano avvicinarsi al suo viso, ma lei ignorò la sua agitazione, volontariamente. Continuava a guardarlo negli occhi come se volesse tranquillizzarlo. Si limitò a poggiare i polpastrelli sul suo zigomo ancora dolorante. Il dolore provocato da quel contatto aveva un duplice significato: rendeva reale la sua paura dei sentimenti e la paura della realtà stessa.
Si allontanò quasi subito.
  • Forse è presto per chiedertelo. Se hai bisogno di parlare, io ci sono.
Il suo viso era serio, ma presto le sue labbra si incurvarono, arrossandole le gote, senza che lui ne capisse il motivo. In piedi nella sua camicia a quadroni e nel suo maglione, sentì il corpo pesante mentre lei lo salutava con un cenno e tornava al banco.
Si portò una mano al viso, sentendo la barba sotto le dita. Si rendeva conto che avere paura della felicità era assurdo, ma la vita lo aveva addestrato ad aspettasi il male dalle cose più belle.
Per questo, Marina, era diventata una sfida.
Era entrata nella sua vita.
 
Quel pomeriggio, quando andò a trovare sua nonna, non poté fare a meno di aprirgli il suo cuore e confidarle il suo stato d’animo.
  • Nonna, lei è così gentile, ma ho paura che questa cosa dell’amicizia finisca male.
  • Edward, non essere fifone. Tuo nonno ha affrontato una guerra ed è tornato a casa sano e salvo e tu hai paura di una ragazza?
Quasi lo prendeva in giro, ma era benevola. Evangeline lo guardava con la saggezza di chi ha visto già tutto nella vita e vedeva negli occhi di suo nipote lo sguardo di suo marito, negli anni in cui era ancora un giovane soldato: spaventato dalla guerra, ma pronto a combatterla. Non vedeva quella scintilla da quando sua madre era morta. Lui stava davvero pensando di correre un tale rischio e ciò le dava la speranza di vedere suo nipote rinascere e vivere finalmente la sua vita.
  • Perché non le dai una possibilità? Da quello che mi dici, sembra una brava persona.
Si distese sulla sedia accanto al camino, lasciando cadere la testa all’indietro, riflettendo sulla seria possibilità di tornare a fare l’umano come tutti. Lui era Ed, si conosceva, sentiva che gli sarebbe costato un grande sforzo.
  • Io credo che lo sia.
  • Sei disposto a rischiare?
Sbuffò pesantemente a quelle parole e si portò le mani al viso, come un bambino capriccioso.
  • Sei un uomo grande e grosso e prima che io muoia, voglio conoscere la tua fidanzata, quindi vedi di darti una mossa! E comunque cosa avresti intenzione di fare, di ignorarla di punto in bianco? Ormai ci sei dentro, tanto vale tentare.
Sua nonna gesticolava animatamente, facendo voltare tutti i presenti nella stanza azzurra.
  • Ma nonna-
  • Scegli.
Lo interruppe e lui la fissò.
  • Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?






Angolo autrice:

Salve gente! Ecco un altro capitolo.
Ho scritto abbastanza per poter pubblicare almeno una volta la settimana, quindi sarò puntuale negli aggiornamenti. :)
Non c'è molto da dire su questo capitolo, piuttosto, fatemi sapere cosa ne pensate e cosa credete che accadrà. Grazie per l'alto numero di visite!
A presto!

S.

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Capitolo 8
*** VIII ***










 
VIII
 


Quando quella mattina Marina non si era presentata in biblioteca, una metà del suo essere era sollevata, l’altra metà invece era delusa.
Il discorso di sua nonna gli rimbombava nella testa, convincendolo sempre di più che lei avesse ragione, che per una volta poteva darsi una possibilità. Non si era esercitato allo specchio per salutarla, aveva deciso che si sarebbe comportato d’istinto, magari cercando di non farsi prendere troppo dall’agitazione, ma lei non era venuta.
Aveva messo in conto di non vederla affatto per quella giornata piena di neve, così si diresse al caffè di fronte per pranzare da solo. Quando entrò facendo suonare il campanello, il proprietario baffuto lo salutò, già pronto per prendere la solita ordinazione, ma prima che lui parlasse, l’uomo alzò nuovamente la mano. Si voltò d’istinto per guardare chi ci fosse dietro di lui, quale dei tanti assidui del posto ed invece la figura infagottata di Marina si presentò ai suoi occhi. Era così piccola che quasi spariva negli abbondanti strati di tessuto che la avvolgevano, ma la sorpresa sul suo volto e poi il suo sorriso gliela fecero sembrare di nuovo una donna. Il suo cuore perse un battito.
  • Ehi, Edward! – fece lei, avvicinandosi. – Sei in pausa?
  • Marina!
Aveva una strana voglia di sorriderle e di parlare con lei, di qualunque cosa. Per una volta, si sarebbe assecondato e continuò a parlare.
  • Sì, sono venuto a pranzare. E tu?
  • Oggi la scuola è chiusa per la neve ed ho approfittato per andare a trovare Jody, stamattina, però adesso mi tocca studiare e quindi…
  • Quindi, pranzi qui? – chiese, senza pensare alle conseguenze.
  • Ti siedi con me?
Era così naturale, per lei. Non aveva avuto nessuna difficoltà a chiedergli di pranzare insieme, come farebbero due normali “amici”.
  • Oh…va bene.
Erano anni che pranzava da solo o cenava da solo o faceva qualsiasi cosa da solo. Quando era stato lui ad invitarla al bar, non era stata la stessa cosa, forse perché era troppo confuso dalle emozioni contrastanti che provava, ora invece era soltanto ammirato dalla sua gentilezza.
Lei si avviò ad un tavolo qualsiasi, senza pensare al fatto che lui avesse il suo posto personale, ma gli sembrò scortese chiederle di cambiare postazione, quindi la seguì in silenzio. Si accomodò, impacciato, di fronte a lei e si sfilò il cappotto, scoprendo interamente la sua figura debilitata. Quella volta, Ben aveva evitato di colpirgli il viso, concentrandosi invece sulle coste e sulle gambe, quindi il suo danno non le era visibile. Almeno, guardandolo, non avrebbe dovuto vedere le solite macchie violacee. Prese un silenzioso respiro, costatando che il tavolo era il più esposto della sala e che in pratica lo avrebbero visto tutti e avrebbero di certo notato che era in compagnia. Sperò che questo non nuocesse alla sua reputazione.
Marina tirò via il cappello bianco che le copriva la testa e lo posò insieme al cappotto sulla parte libera del divanetto in pelle. Indossava un maglione spesso quanto tre dei suoi messi insieme.
  • Che giornata, eh? – e guardò fuori, portandolo a fare la stessa cosa.
  • Spero – cominciò, impacciato. – che non nevichi ancora.
  • Già, altrimenti non so come farò a tornare a casa.
  • Abiti molto lontano? – in effetti, la neve era molto alta.
  • Più o meno a 3,5 km da qui. Anche tu, suppongo, dato che vieni in bici.
  • Sì, abito verso il centro.
Il pensiero della sua casa lo turbò, ma fu distratto ben presto dal cameriere che portava le loro ordinazioni.
Marina guardava la sua porzione di lasagna con sguardo famelico.
  • Anche a te piacciono le lasagne? – chiese lui.
  • A chi non piacciono? Uhm, l’argomento cibo fa al caso nostro, allora!
Sorrise, imbarazzato da quella sua volontà di conoscerlo. Anche lui stava diventando curioso.
  • Vediamo, qual è il tuo piatto preferito?
  • Fish and chips. – disse, indicando il suo piatto.
  • Avrei dovuto immaginarlo.
Nel giro di mezz’ora fu in grado di provare la più grande varietà di sensazioni che avesse mai sperimentato: era questo che si provava a parlare con un’amica?
Lentamente, la sua mente si abituava all’idea di rispondere a domande e a commentare spontaneamente qualcuna delle sue osservazioni, e quel pranzo risultò per lui più piacevole di quanto credesse.
  • Bene, Edward, adesso mi sembra di conoscerti un po’ meglio. Sei sicuro che non ti dispiaccia pranzare con me?
  • Ma no! No, scusami-
  • E di cosa? Smettila di scusarti sempre. – disse lei, senza smontare il suo sorriso.
  • Io non sono uno molto loquace, ma non mi dispiaci. Cioè, sei gentile.
Ripensò a sua nonna e avrebbe voluto che lei potesse leggergli nel pensiero per togliersi dall’imbarazzo.
  • Non so come spiegarmi, è solo che è da tanto che non…parlo con qualcuno.
  • L’avevo capito, Edward. Non dimenticare che sono un’insegnante, certe cose non mi sfuggono. – sorrise. – Non preoccuparti, non penserò mai che tu voglia offendermi, non ti ci vedo proprio.
Per la prima volta da quando si era seduto di fronte a lei, sentì il suo sorriso allargarsi in modo spropositato. Si portò una mano nei capelli rossi, come per aggiustarli e poi tornò a guardarla.
Per un attimo lei ricambiò il suo sguardo, poi, come se avesse avuto un’illuminazione, guardò l’orologio.
  • Edward! – e lui si allarmò. – Devi aprire la biblioteca!
  • Merda!
Si alzò di scatto dal divanetto quando vide gli studenti in attesa fuori dalla porta, già con gli occhi sugli orologi. Marina si alzò, afferrando il suo cappotto e fiondandosi dietro di lui in mezzo alla neve. Lo vide letteralmente correre dall’altra parte della strada col cappotto che svolazzava intorno ai suoi fianchi e fu incerta se seguirlo, ma poi lui si voltò e con la mano le fece segno di stargli dietro. Allungando il passo, riuscì ad affiancarlo e a vedere il suo volto spaventato, ma lei non sapeva che stava rischiando il licenziamento.
Non la guardava più, il suo sguardo azzurro era concentrato sulle chiavi tintinnanti. Percorsero il muro ovest dell’edificio, tutto scrostato, pieno zeppo di neve fresca alla base e raggiunsero il retro. Non aveva mai visto quel posto prima, ma riconobbe subito la sua bici azzurra appoggiata accanto ad un piccolo magazzino, col sellino pieno di neve. In un lampo, Ed aprì la porta e si precipitò dentro ad aprire ai ragazzi, senza proferire una parola. Sparì nel buio di uno stanzino.
Marina entrò, titubante, chiudendosi la porta alle spalle e cercò di orientarsi. Seguì la luce proveniente dalla porta e durante il tragitto vide lo spazzolone e il secchio con cui quella testa rossa stava cantando giorni prima e le venne da ridere al pensiero che un uomo grande e grosso cantasse di nascosto in una biblioteca. Stava per oltrepassare l’uscio ed entrare nella grande sala, ma il viso pallido di Edward le andò incontro, riportandola dentro, al buio.
Non capiva cosa stesse succedendo, sentiva solo le sue mani sulle spalle e il suo respiro troppo vicino.
  • Ascolta bene, - parlava a bassa voce mentre la spingeva in un angolo. – sta arrivando il responsabile, nasconditi qui dietro – ed appese il suo cappotto ad un vecchio gancio – e non fiatare.
Lui alzò un lembo del cappotto blu e ve la infilò di forza dietro.
Marina si zittì quando sentì una voce chiamare il rosso e fare il suo ingresso nello stanzino. Non vedeva niente, ma immaginava la scena.
  • Sheeran, cosa stai facendo?
  • Uh, signore, stavo…cercando una nuova risma di fogli. – lo sentì dire, abbastanza calmo da non farsi scoprire.
  • Cerca di sbrigarti, c’è fila al bancone. – un attimo di silenzio. – Sei solo?
  • Certo, signore. Come sempre.
Sentì i passi dell’uomo avvicinarsi verso di loro e temette di essere scoperta. Trattenne il respiro, sperando che se ne andasse il prima possibile, ma sembrava che non ne volesse sapere. Ed, per coprirla, si mise davanti al cappotto e rimase immobile. Vide le sue Vans consumate accanto ai suoi stivali, sentì il suo calore e immaginò le sue spalle muoversi col suo respiro.
  • Cerca di dare una pulita, più tardi. – disse quello, con tono scortese.
  • Sì, signore.
Riprese fiato non appena sentì i passi allontanarsi, ma attese ancora finchè lui non le picchiettò un dito sul corpo, per farla uscire. Quando la fioca luce arrivò ai suoi occhi, vide la sua figura vicina e visibilmente agitata davanti a lei. I suoi occhi azzurri risplendevano anche lì, dietro quella parete e lo immaginò attraversare quella stanza tutti i giorni di tutto l’anno, col freddo o col caldo, con i suoi lividi e i suoi pensieri. Sentì le guance andarle in fiamme quando lui si voltò definitivamente verso di lei e le mise una mano sulla spalla. Si stava cacciando in un bel guaio.
  • Stai bene? – chiese lui. – Scusa, se ti avesse visto, mi avrebbe licenziato in tronco.
  • No, io- scusa tu, non dovevo seguirti. – cercò di spiegare.
  • No, ti ho detto io di farlo. La prossima volta presterò più attenzione.
La prossima volta.
Aveva davvero detto così, lui, con quella faccia e quel carattere e quelle ansie. E l’aveva portata nel retro, dove non era ammesso nessuno se non lui e aveva rischiato il licenziamento.
Distolse lo sguardo da lei e fece un passo indietro, permettendole di allontanarsi dal muro.
Prima che potesse dire qualsiasi altra cosa, le fece capire che era il momento di uscire, avvicinandosi all’uscio. Marina uscì dallo stanzino quando lui le fece segno di farlo e andò dritta ad uno dei banchi, come se avesse appena fatto la fila al banco dei prestiti. Quando si sedette sulla vecchia sedia di legno, lo vide aiutare qualcuno a compilare il modulo del prestito, per poi allontanarsi alla ricerca del libro richiesto. Era stato piacevole pranzare con lui, ma non doveva farsi prendere dalle fantasie, anche mentre lo guardava attraversare la sala con la mascella contratta e il passo morbido. Aveva un aspetto così…così…
Non sapeva definirlo, ma c’era qualcosa in lui che l’attraeva, anche se sapeva bene che un interesse diverso da quello che diceva di avere per lui, sarebbe stato soltanto dannoso. E poi ancora non lo conosceva bene, magari avrebbe scoperto il suo vero carattere e non le sarebbe piaciuto poi così tanto. Quando sparì dietro gli scaffali, lasciò cadere la testa sul banco, cercando di convincersi a studiare e a finire quella benedetta tesi.
 
Durante l’intero pomeriggio, non era riuscito a parlare di nuovo con Marina o a incontrare i suoi occhi, ma non riusciva a smettere di guardarla o di pensare a quel pranzo.
Non si stava innamorando di lei, non era uno dall’amore facile, era semplicemente sorpreso da se stesso. Non sapeva di poterlo fare, pranzare con qualcuno, conoscerlo meglio, aveva dimenticato cosa significasse, ma ora si era accorto che ne aveva disperatamente bisogno. Non che tutta la paura fosse sparita nel giro di un’ora, ma aveva finalmente eliminato dalla lunga lista il taboo sui contatti umani: gli facevano bene.
Con Marina era come se non avesse più bisogno di ignorare gli sguardi altrui, non gli importava più di notare che gli altri lo giudicassero, in un certo senso si sentiva libero, perché lei era disposta a conoscerlo. E lui voleva farsi conoscere, eliminare il falso mito sul ragazzo della biblioteca. Non mangiava bambini di notte e non succhiava sangue dai colli delle vergini, era soltanto un ragazzo.
Ora sapeva che il colore preferito di Marina era il blu, che le piacevano i pancakes e la Nutella, che era nata esattamente il 31 Dicembre del suo stesso anno e che non aveva una macchina con cui tornare a casa, più tardi. Magari avrebbe potuto allungare un po’ la strada verso casa e darle uno strappo in bici. O forse no. Magari era troppo avventato.
Per fortuna il suo responsabile non l’aveva vista, ma per arrivare ad entrare nello stanzino qualcuno doveva aver fatto la spia, perché quell’uomo odiava quel posto. Non ci entrava mai.
Ogni tanto si guardava intorno, cercando di sorprendere qualcuno ad osservarlo, ma puntualmente vedeva i presenti ignorarlo, come sempre.
Nell’ora che gli restava prima della chiusura della biblioteca, sistemò i libri restituiti dell’intera giornata e quell’attività lo tenne parecchio impegnato e parecchio lontano da dove voleva essere. Mentre sistemava i libri, si sentiva meno solo e addirittura prese a fischiettare. Non vedeva l’ora di raccontarlo a sua nonna e magari un giorno gliel’avrebbe presentata. Poi magari potevano pranzare insieme il giorno dopo e andare insieme all’Hawking, quel sabato. Calmati, Ed. Una cosa alla volta. Devi ancora scoprire che genere di musica le piace, quindi è un po’ presto per fare progetti.
Quando posò l’ultimo libro ed uscì dal labirinto di scaffali, erano rimaste soltanto tre persone, di cui una stava andando via, un’altra si alzava per infilarsi il cappotto e l’ultima era Marina, in piedi al banco dei prestiti.
Le si avvicinò, credendo che lo stesse aspettando e quando fu lì, lei prese subito a parlare.
  • Ti aspetto per andare via, tanto non ho niente da fare. – il suo viso era sereno, mentre lo guardava negli occhi. I suoi capelli castani erano una cornice per i suoi occhi verdi.
  • Oh. – fece una pausa. – Va bene!
Lei tornò a sedersi, nell’attesa che quei minuti scorressero e rimanessero soli. Ed spense il computer, tolse le scartoffie dal bancone, svuotò i cestini, rimise a posto le sedie e chiuse la porta d’ingresso a chiave. Mentre sentiva la serratura cigolare, percepì il suo petto appesantirsi. Socializza – si ripeteva – puoi farcela.
Sii naturale.
  • Io ho finito. – disse, mentre tornava al bancone, diretto nello stanzino.
Sentì i suoi passi raggiungerlo nell’oscurità e si infilò il cappotto. Lei rimase in silenzio, mentre Ed stringeva la sciarpa al collo e cercava le chiavi nella tasca.
Quando aprì la porta, la neve entrò prorompente all’interno: nevicava anche troppo per i suoi gusti. Guardò Marina, che storceva le labbra e aggrottava lo sguardo.
Come avrebbe fatto a tornare a casa?
Uscirono fuori in silenzio, cercando di abituarsi al freddo pungente e di non restare intrappolati nella neve alta. Quando fu certo che la porta fosse chiusa, andò a prendere la bicicletta e la scrollò per far cadere la neve dal sellino. Si incamminò verso di lei, che prese a seguirlo verso la strada, con la sciarpa che le copriva anche il naso. Quando furono sul marciapiede, prese la parola spontaneamente.
  • Prendi il pullman?
  • Ehm… - guardò verso la fermata, leggendo qualcosa sul display luminoso. – A quanto pare no. Corse sospese.
Si portò le mani alla testa, in segno di disperazione. Ed guardò la fermata vuota, poi le strade innevate, poi lei. Non poteva lasciarle percorrere 3,5 km nella neve alta.
  • Vieni, ti do uno strappo a casa.
Lei lo guardò con gli occhi spalancati.
  • Davvero? – quasi le sembrava di arrecargli disturbo.
  • Se vuoi. – disse, facendo spallucce. Forse aveva osato troppo.
Pulì il sellino con le mani nude e vi montò. Per fortuna la sua bici era vecchia ed aveva ancora la barra principale alta. Lei sembrò non capire cosa dovesse fare.
  • Devi sederti davanti a me, sul ferro. Lo so, non è comodo.
Fece un passo verso di lui e quando fu convinta, si girò e cercò di sedersi. Lì per lì le sembrò di cadere e dovette aggrapparsi a lui per non capitombolare, ma riuscì a trovare un certo equilibrio quando Ed mise entrambe le mani sul manubrio. Con la borsa in grembo, si sentì circondata. Quasi al sicuro.
  • Tieniti.
Riavvolse la catena e spinse col piede sul pedale per partire.
  • Dove devo andare?
  • Oh, già! – disse, distraendosi dal pensare a quella situazione. – Abito dov’è la chiesa di Santa Maria del Popolo, a Grimace Street.
  • Va bene. – fece lui, guardando soltanto la strada vuota. – Tutto bene, lì?
Incastrata com’era tra lui e la bici, non poteva dire di stare comodissima, ma le sue spalle la proteggevano dal vento e le sue braccia la reggevano quando perdeva l’equilibrio.
  • Benissimo. – disse, guardandolo. – Grazie, Edward. Mi stai salvando.
  • Di niente.
Sorrise e abbassò per un attimo lo sguardo su di lei, trovando i suoi occhi verdi. Dimenticò le sue mani congelate sul manubrio. Stava riaccompagnando la sua amica a casa.
Il tragitto fu silenzioso, il freddo non invitava alla conversazione e quando furono in Grimace Street, Marina gli disse di rallentare, facendolo fermare all’ingresso di un vecchio palazzo sgangherato.
  • Bello spettacolo, vero? – disse, scendendo dalla bici e voltandosi verso di lui.
  • Ho visto di peggio.
Lo guardò, non sapendo cosa dire. Una folata di vento e neve li scosse entrambi.
  • Vai, Edward e grazie, non so come avrei fatto senza di te.
Marina posò una mano sulla sua spalla, per ringraziarlo e aspettò che lui la salutasse, ma Ed era quasi incerto se andarsene o meno. Non sapeva nemmeno cosa significasse quell’indecisione, sapeva solo che stava arrivando la vera tormenta e doveva correre a casa.
  • D-di niente, Marina. – gli piaceva il suo nome.
È a questo che servono gli amici, si disse. Lei gli sistemò il cappuccio e prima di andare via, gli disse:
  • Stai attento!
Poi corse verso il portone salutandolo con la mano.
Prima che qualcos’altro lo fermasse, riprese a pedalare, senza sapere se il giorno dopo l’avrebbe rivista.
Senza di lei sulla bici, riuscì ad aumentare il passo e ad arrivare a casa giusto in tempo. Era riuscito a stento ad aprire il cancello e ad arrivare alla veranda. Quando entrò in casa, il silenzio lo avvolse. Non c’era Jef sulle scale, né Ben in salotto. Dove diavolo erano finiti?
Si diresse in cucina per prendere un bicchiere d’acqua, ma la presenza di un foglio sul tavolo lo fermò dalla sua avanzata verso il frigo. Lo prese tra le mani, chiedendosi come mai Ben avesse lasciato qualcosa in cucina, il suo regno. Lesse l’intestazione e le prime righe di quello che sembrava un documento:
“Si attesta, col supporto dell’Avv. Foster, che il signor Benjamin Storm non è in possesso del documento richiesto dalla controparte per la verifica dell’effettiva sussistenza del testo originale, pertanto, in assenza di altri duplicati, viene richiesta la perizia pubblica dei beni e l’attestazione della proprietà…”
Il rumore della porta che si apriva gli fece gelare il sangue. Ripose immediatamente il foglio, lasciando che le parole che aveva letto si depositassero nella sua memoria mentre si dirigeva al frigorifero, per simulare indifferenza. Prese la bottiglia d’acqua e ne versò un po’ nel primo bicchiere che riuscì a prendere e se lo portò alla bocca.
Sentiva dietro le sue spalle la presenza di qualcuno e infatti la voce di Ben rimbombò nella casa vuota.
  • Fuori di qui, ragazzino.
Si voltò verso di lui e lo vide entrare nella stanza, diretto verso il tavolo. Non se lo fece ripetere due volte e sgattaiolò fuori dalla stanza, facendo finta che quel foglio non fosse mai stato lì. Si scontrò con Jeffry all’inizio delle scale e vide il suo fratellastro chiaramente infastidito. Se avesse potuto, gli avrebbe chiesto immediatamente dove fossero stati, ma meno si accorgevano del suo interesse, meglio era per lui.
Jef lo trattò in malo modo, ma lo ignorò e corse in camera sua.
Ben stava davvero cercando di combinare qualcosa, ormai ne aveva la certezza: il suo intuito non aveva sbagliato. Cosa poteva fare? Come poteva scoprire le sue intenzioni?
Come avrebbe potuto impedirgli di fare qualunque cosa stesse per fare?
Perché di una cosa - e solo di quella - era assolutamente certo: non si trattava di nulla di buono.




Angolo autrice:

Salve belli!
Innanzitutto grazie per le visite e le recensioni, siete la mia gioia.
Non vedevo l'ora di aggiornare per dare finalmente una svolta alla storia, perchè mi rendo conto che è ancora praticamente tutta sul pc e voi non avete letto praticamente niente.
Sto ancora scrivendo, sarà una cosa lunga, ma ormai ci sono dentro, spero solo che continuerete a leggere, altrimenti sarà tutto vano.
Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo e se vi va aggiungete la storia alle preferite, seguite o quello che volete. :)
Vi lascio un disegno fatto da me di Ed e Marina in questo capitolo (so che l'avevo già allegato ad un capitolo precedente e vi ho rovinato la sorpresa, ma la mia testa doveva essere fusa, perdonatemi) e spero di leggere le vostre recensioni.
Alla prossima! :)

S.



 

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Capitolo 9
*** IX ***








 
IX




 
Non sapeva se fosse contento che la biblioteca fosse chiusa, perché ok, non doveva andare al lavoro, ma erano già due ore che spalava la neve dal vialetto. Quella notte la tormenta aveva fatto tremare i vetri senza sosta ed ora c’era più di un metro di bianco su tutta la città.
Gli facevano male le mani, l’aria fredda nei polmoni lo faceva sentire malato ancora prima di prendere la febbre e come se non bastasse, doveva cercare un supermercato aperto per andare a comprare del sale, altrimenti tutta quella fatica non sarebbe servita a niente.
Aveva abbandonato l’idea di prendere la bici quando un ciclista era caduto proprio davanti al suo cancello, quindi si sarebbe avventurato a piedi. Sperava solo che qualcuno fosse aperto.
Camminò piano sullo strato di ghiaccio e posò la pala in garage, scorgendo di nuovo la macchia rossa che aveva lasciato l’ultima volta che ci era entrato e poi richiuse la serranda.
Sospirò, ripensando a quel foglio sul tavolo. Ora che aveva la certezza – la scusa – per approfondire quel discorso, non sapeva da dove cominciare, né a chi chiedere consiglio e doveva ancora trovarsi un lavoro per quelle vacanze di Natale.
Si avviò a piedi sul marciapiede pieno di neve, trovandosi spesso costretto a camminare in strada, ma tanto non c’era nessuno.
Qualche altro ragazzo come lui, girovagava alla ricerca di qualcosa, stringendosi nei cappotti e nei cappelli con la speranza di scaldarsi, ma quell’inverno era davvero spietato. Gli alberi spogli che fiancheggiavano la carreggiata erano come un presagio di morte, magri come scheletri.
Si tirò giù il suo vecchio cappello, lo aveva trovato per caso in un cassetto che non apriva mai e strinse i lacci del cappuccio, per proteggersi il viso come poteva.
Un paio di volte aveva rischiato di scivolare, ma ebbe i riflessi abbastanza pronti da riuscire ad arrivare intero al primo supermercato. Chiuso.
Quando nevicava in quel modo, la gente faceva le scorte e si richiudeva in casa, ma lui non era la casalinga perfetta e non poteva certo prevedere una cosa del genere, tuttavia, se non avesse risolto il problema del vialetto e non avesse portato a casa qualcosa da mangiare, Ben gli avrebbe spezzato il collo. Ancora una volta, si chiese dove fosse andato la sera prima, ma non riusciva a pensare ad altro che allo studio di un avvocato.
Fece dietro-front, dirigendosi verso la sua seconda tappa, accelerando il passo, altrimenti ci avrebbe messo un’eternità.
Si allontanava dal centro, dirigendosi nella zona in cui si trovava il rifugio, dove più tardi avrebbe dovuto fare un salto per riempire le ciotole vuote, ma una voce ed un tonfo lo fecero girare verso il marciapiede opposto. Riconobbe subito la figura di Marina che si portava una mano alle natiche, massaggiandosi.
Mise da parte la sorpresa di vederla lì, così lontano da casa sua ed andò a darle una mano.
Cosa ci faceva da quelle parti?
  • Marina! – la chiamò, sentendo i suoi occhi scivolare su di lui.
  • Oh, Edward!
Le tese la mano e lei non si fece ripetere due volte di afferrarla e rialzarsi. Tirò su il suo corpicino in un secondo, era leggera come un fuscello.
  • Ti sei fatta male? – chiese, lasciandole la mano.
  • Niente di grave. – disse, pulendosi dalla neve con le mani avvolte nei guanti.
  • Cosa ci fai qui?
Lei sembrò non afferrare subito la domanda, mentre lo guardava.
  • Io…
Sembrava incantata e si sentì in imbarazzo, non capendo perché mai lo stesse fissando in quel modo, ma non disse nulla, limitandosi a mordersi il labbro superiore.
Non si rendeva conto di quanto il riflesso bianco della neve illuminasse i suoi occhi, ma Marina se ne era accorta eccome.
  • …sto cercando un supermercato.
  • Ah. – disse lui, tirando un sospiro di sollievo.
  • Tutti quelli intorno a casa mia sono chiusi. – fece lei, gesticolando verso la strada che aveva appena percorso. – Tu cosa ci fai per strada?
  • Quello che fai tu. Vuoi…? - ma lei lo interruppe subito.
  • Va bene. Dove si va?
Il fatto che lei sorridesse per il semplice fatto che avrebbero cercato un supermercato insieme, lo fece sentire più sollevato: c’era qualcuno che a 23 anni era più bambino di lui.
  • Vieni.
Fece il primo passo sulla neve e aspettò che lo affiancasse, guardandola con la coda dell'occhio.
Durante quella passeggiata, continuò a guardarla di sottecchi, cercando di decifrare i suoi pensieri. Ovviamente, lei lo colse sul fatto e si rimproverò, dandosi dell’idiota mentre cercava di controllare il rossore sugli zigomi, ma lei sorrideva di quel suo imbarazzo e quel silenzio non gli pesò. Il freddo gli pizzicava gli occhi.
  • Oggi niente lavoro nemmeno per te?
  • Già. – e la guardò.
  • Cosa fai quando non lavori? Hai qualche hobby?
  • Di solito cerco un altro lavoro. – disse, rispondendo con serietà a quella domanda.
  • Quindi lavorerai anche durante le vacanze?
  • Devo. – rispose, quasi sospirando. – Tu…tu cosa farai? - chiese, un po' per curiosità, un po' per distrarla da quella sua risposta.
  • Cercherò di studiare, dato che da lunedì Jody entra in maternità e io avrò il doppio turno a scuola.
Svoltarono l’angolo e il fatto che il secondo supermercato fosse chiuso, non lo disturbava quanto il fatto che non avrebbe visto Marina in biblioteca.
  • Magari qualche volta puoi venire a scuola a suonare per i bambini. – disse lei, entusiasta di quell’idea. – Sempre se ti va, ovvio.
  • Oh…beh, mi farebbe piacere.
In realtà non sapeva se avrebbe avuto il tempo, ma dalla settimana successiva la biblioteca faceva mezza giornata e se lui non avesse ancora trovato un lavoro…forse sarebbe riuscito a fare un salto.
  • Tu…hai qualche passatempo? – chiese.
  • Beh, sì, ma prometti di non ridere.
  • Va bene. – disse, ancora più curioso, mentre faceva spallucce.
  • Io scrivo. – nei suoi occhi si accese una scintilla.
  • E cosa c’è da ridere? – non riusciva a capire.
  • Di solito la gente ride, quando lo dico. – osservò, guardando la strada.
  • A m-me sembra una bella cosa. – non riusciva più a guardarla. – Cosa scrivi?
  • Uhm, non c’è un genere di scrittura che prediligo. Se mi va di scrivere un romanzo o una poesia, fa lo stesso. – spiegò.
E così, Marina era una scrittrice. Non riusciva ad immaginare i suoi testi, non la conosceva ancora abbastanza, ma quella mattina sembrava che stesse scavando più a fondo in quella persona.
  • Anche tu scrivi, vero? Ho ascoltato le tue canzoni, sabato, sono belle.
  • Oh, non sono davvero un granché. Non riscuotono mai troppo successo.
Mentre lei faceva uno sproloquio su quanto la gente sottovalutasse certe cose prima che diventassero celebri, lui notava che – per fortuna o per sfortuna – il terzo supermercato era aperto. Entrarono all’interno senza smettere di chiacchierare di cose come il prezzo del tonno o le previsioni per il giorno dopo e presero a riempire i loro cestini con i beni di prima necessità. Girarono per i corridoi e Ed ebbe quasi la sensazione di essere tra gli scaffali della biblioteca quando la vide arrampicarsi per raggiungere la pasta che desiderava. Non disse nulla, mentre si avvicinava a lei per prenderle lo scatolo. Marina doveva aver ricordato quel primo incontro, perché sorrideva imbarazzata a quel suo gesto.
Spesso allungarono le mani sulle stesse cose, ma cercarono di restare distesi, allontanando le tensioni. Anche se, parliamoci chiaro, erano nervosi per motivi diversi: il disagiato aveva paura di toccare chiunque, la scapestrata era solo attratta dal suo profumo maschile.
Quando furono fuori, lui prese subito la parola, vedendola procedere verso una direzione diversa dalla sua. I suoi capelli si mossero, in contrasto con l’ambiente bianco che la circondava.
  • Io vado di qua, ho una commissione da fare.
  • Oh. – fece una pausa. – P-per caso…
Lo guardava quasi terrorizzata, lunatica come poche. Cos’aveva da tremare, così all’improvviso? Pensò di aver fatto qualcosa di sbagliato.
  • …cioè, dove vai?
  • Al rifugio per animali. Devo riempire le ciotole. – spiegò brevemente, stringendo i pugni intorno alle buste anche più del dovuto.
Sembrò che Marina stesse riflettendo su qualcosa, ma non riusciva più a decifrare il suo comportamento. Cominciò ad elaborare una commedia nella sua testa, ripercorrendo mentalmente gli ultimi minuti e analizzando le sue stesse parole, alla ricerca della sua mossa sbagliata, ma non riuscì a capire. Eppure si stava sforzando.
  • A-ah! – disse, istericamente.
  • V-vuoi venire? – azzardò, giocando la sua ultima carta.
Per una volta, aveva vinto il piatto: il sorriso di Marina si fece così largo che persino lui si sentì contento. Non riuscì a non sorridere di rimando, mentre lei annuiva. Le sue labbra erano rosse come le ciliegie, per un po’ non riuscì a smettere di guardarle.
Le loro orme, nella neve, li seguivano silenziose.
 
La vecchia serratura cigolò e immediatamente i cani presero ad abbaiare.
Non aveva mai portato nessuno lì, ma sembrava che Marina fosse destinata a quel posto.
All’inizio i suoi occhi vagavano nella stanza, analizzando ogni metro quadro come se stesse cercando qualcosa, poi avanzò e lo superò.
Ed posò le borse della spesa sul tavolo all’ingresso, senza smettere di osservare i suoi comportamenti: sembrava che fosse a suo agio in mezzo agli animali, tant’è che stava già affondando le mani nel pelo di uno degli ultimi arrivati. Si era tolta il cappello e i guanti.
Paw interruppe i suoi pensieri, spaventandolo a morte, dato che non l’aveva sentito arrivare e si accovacciò accanto a lui per accarezzarlo.
  • E lui chi è? – Marina non fu da meno, intervenendo così d’improvviso.
  • Un vecchio amico.
Il cuore martellava ancora quando lei tese una mano sulla testa del gatto, quasi indifferente al fatto che ci fosse già la sua. Gli mancò il respiro e sentì lo stomaco aggrovigliarsi sentendo la sua pelle fredda e non riuscì a trattenere la tensione, lasciando andare le dita ad un leggero tic. Alzò gli occhi e lesse sul suo viso una finta indifferenza, avrebbe giurato che si fosse accorta della sua sorpresa e che la stesse intenzionalmente ignorando. Stava…osando?
Quando Marina alzò lo sguardo e gli sorrise, ebbe la netta sensazione che lei lo conoscesse già meglio di quanto volesse ammettere.
Quando il gatto fu stanco delle loro carezze e li lasciò soli, Ed si alzò e Marina prese esempio.
  • Cosa si fa? – chiese.
  • Riempiamo le ciotole e facciamo un po’ di pulizia.
Afferrò il sacco dei croccantini appoggiato alla parete e si avviò alla prima cuccia. Come se fosse stata una cosa naturale, Marina lo seguì con l’acqua e uno alla volta, fecero visita a tutti i cani, lasciando qualche carezza di troppo.
La vocina sottile di Marina gorgogliava nella stanza e qualche volta non riuscì ad evitare un sorriso.
  • Sicura che non ti annoi?
No, non si annoiava, altrimenti non sarebbe rimasta a giocare con la cucciolata di gattini per il successivo quarto d’ora, dando libero sfogo alle vocine più stridule e ai “ciccino” e “carino” di ogni genere.
Si soffermò a giocare con Paw, mentre lei si godeva le fusa e lo osservava. In un certo senso, era felice che lei fosse lì, poiché adesso rientrava tra le sue amicizie e quella era la sua tana, il suo rifugio, una specie di casa sull’albero che conosceva solo lui. Lei aveva il permesso di entrarci. Si chiedeva lui cosa fosse, agli occhi di Marina, una ragazza così semplice e gentile, ma in quel momento era grato che fosse nella sua vita, poiché stava riscoprendo la gioia della condivisione e non sapeva se avrebbe potuto farne a meno di nuovo. Non si accorse del fatto che fosse in piedi accanto a lui, ma non si spaventò di nuovo quando lei gli sfiorò le dita, per attirare la sua attenzione.
  • Ci tieni molto a questo posto. Perché?
La guardò, leggendo qualcosa nei suoi occhi. Voleva che anche lei leggesse nei suoi.
  • Dopo la morte di mia madre, è diventato il mio rifugio.
Lei annuì e tornò a guardare il gatto.
  • Sai, - riprese lui – Paw è un po’ come un fratello. Mi ha aiutato tanto.
  • Si vede che andate molto d’accordo. – sorrise lei, carezzando il gatto. – Grazie, Paw.
  • Hehe. – non riuscì ad evitare quella risata. - Anche lui ti ringrazia.
Marina lo urtò col gomito per rimproverarlo di qualcosa e rise, sorridendo di rimando.
Il silenzio fu rotto dal suo cellulare che squillava. Un po’ impacciato, lo prese dalla tasca e rispose, sotto gli occhi di lei.
  • Salve, signore, mi dica. Certo. Sì, stia tranquillo. – un attimo di silenzio. – A domani.
Ripose il cellulare in tasca e si ritrovò ad essere scrutato, la curiosità di Marina si leggeva chiara sulle pieghe del suo viso.
  • Era l’Hawking Pub. – spiegò, allora. - Domani suono.
  • Davvero?!
Stava letteralmente esultando.
  • Sì, mi aspettano alle 19.
  • Anche io monto per quell’ora.
Si guardarono e si fecero due conti: l’Hawking Pub era 1 chilometro dopo casa di Marina.
  • S-se vuoi, posso passare a prenderti. – disse, sentendosi in ansia già da quel momento al pensiero di riaverla sulla bici. Il solo gesto di farle quel favore, lo rendeva isterico.
  • Se ti va.
Uscirono dal rifugio ed aveva ricominciato a fioccare. Sembrava che l’avrebbe vista più spesso di quanto si aspettasse, ma non riusciva più a dispiacersene e non riusciva a smettere di avere le labbra incurvate. Ultimamente si stava riscoprendo, non sapeva più cosa aspettarsi da se stesso, soprattutto quando era con lei. Magari, avrebbe avuto davvero un’amica, qualcuno con cui avere un legame stretto, sentirsi sostenuto e condividere con lei qualcuna delle sue preoccupazioni. Magari, col tempo, avrebbe trovato in lei un po’ di serenità.
La sentiva già così presente nella sua vita, nei suoi pensieri, nell'iniziale che aveva al collo, che magari avrebbero potuto tornare a casa insieme la sera dopo il lavoro, o scambiarsi i numeri di cellulare, alla vecchia maniera. Avrebbero pranzato insieme.
  • Allora, ti aspetto domani fuori casa. – disse lei, congedandosi all’incrocio che li separava.
  • S-sì, sarò puntuale.
  • Beh, grazie per l’aiuto. – disse, guardando prima i suoi occhi, poi la sua bocca.
  • No, grazie a te. – ed era sincero, mentre lo diceva.
  • A domani.
Lo salutò, tendendo una mano al suo braccio, scatenando in lui la voglia di guardare nei suoi occhi ancora un po’, ma era il momento di tornare a casa.
Si trovò in imbarazzo quando si accorse di non sapere come ricambiare quel gesto e rimase per un attimo impacciato. Quando il suo cervello si riaccese, l’unica soluzione che aveva sfornato fu carezzarle la testa. Oddio, Marina non era mica un cane.
La sua risata, però, sembrò spezzare anche il gelo, rincuorandolo.
  • A domani. – rispose, allora.
Si voltarono insieme e presto sparirono in due direzioni diverse.
Sembrò così breve la strada fino a casa, tanto sognava ad occhi aperti, spesso senza badare a dove mettesse i piedi, rischiando di cadere.
Doveva lavorare ancora a fondo sul suo atteggiamento e sui suoi gesti, ma il fatto che Marina fosse così accondiscendente alla sua stranezza era un punto a suo favore: si sentiva un po’ più se stesso, anziché la sua maschera.
Quando varcò il cancello, pensò di guadagnare un po’ di tempo prendendo subito il sale dalla busta e cominciando a spargerlo su tutto il vialetto.
Congelato e coperto di neve, entrò in casa con la scatola vuota fra le mani e sorprese Ben a parlare con qualcuno nell’ingresso.
  • …è un reato.
Quelle furono le uniche parole che riuscì a distinguere, prima che l’uomo in giacca e cravatta si zittisse sotto lo sguardo gelido di Ben.
  • Buongiorno. – disse, per spezzare la tensione.
  • Buongiorno. – ricambiò quello, guardandolo con un certo interesse da dietro i suoi occhiali rotondi.
  • Va in camera tua.
Ben gli lanciò un’occhiata abbastanza tagliente da convincerlo a non trattenersi sull’uscio per un secondo di più. Salì le scale lentamente, ma quelli non ripresero a parlare finchè la serratura della sua porta scattò: da lì non poteva sentire niente.
Si fermò a riflettere sull’eventuale collegamento che quelle parole potevano avere con il documento che aveva trovato in cucina. Forse avrebbe fatto meglio a scoprire chi fosse l’avvocato Foster. Una volta seduto sul suo letto, prese la sua agenda dal cassetto e vi annotò dentro tutto ciò che aveva scoperto fino a quel momento, per paura di dimenticare.
Quando quel pomeriggio sarebbe uscito a cercare un lavoro per quelle vacanze, avrebbe potuto fare un salto all’internet point per fare qualche ricerca, sempre che Ben non gli avesse trovato qualche nuova mansione o incarico da fargli svolgere.
Bum. Bum. Bum.
  • Ehi! – era Jef che cercava di sfondare la sua porta. – Io ho fame! Papà ha detto che devi preparare il pranzo.
  • Arrivo.
Lo sentì borbottare mentre andava via, facendo cigolare le tegole del pavimento.
Sospirò e si alzò dal letto, nascondendo di nuovo l’agenda nel cassetto.
Dopo essersi passato una mano sul viso, per lavare via i pensieri, uscì dalla sua stanza e scese di fretta le scale per andare in cucina.
I suoi pensieri si confondevano nella testa senza dargli tregua: Ben, la casa, Marina, il testamento, la nonna, i soldi, l’avvocato, il lavoro, il dolore. Ogni cosa si confondeva nel vapore della minestra che sobbolliva sul fuoco. Ci guardava dentro come se a breve vi sarebbe emersa la risposta a tutte le sue domande, ma l’unica cosa che riuscì a distinguere in mezzo a tutto quel disordine, fu il nome di Marina che si stendeva a chiare lettere nella sua mente.
Oramai, lei era la sua speranza.






Angolo autrice:

Hola! Non lo so, mi andava di aggiornare stamattina, non chiedetemi perchè.
Anyway, credo che siate impazziti: la storia ha un numero di visite pari a quello di Afire Love. Stiamo scherzando? Sul serio?
Le recensioni sono relative, ragazzi - ovviamente sono contentissima di leggervi, ci mancherebbe altro - e vedere un numero di visite praticamente uguali per ogni capitolo, significa che nessuno di voi ha mollato la storia e siete tantissimi! Mi fate felice! :)
A parte il momentaneo delirio, cosa ne pensate del capitolo? Non accade alcunchè di eclatante, ma era estremamente necessario.
Fatemi sapere cosa ne pensate. :)
Vi lascio con un paio di foto che ho trovato poco dopo aver scritto il capitolo, credendo che qualcuno mi stesse leggendo nel pensiero.
A presto! :D

S.



    

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Capitolo 10
*** X ***






 
X





Per tutto il pomeriggio non aveva fatto altro che programmare le lezioni per i giorni che restavano fino a Natale e per quanto amasse il suo lavoro, non ne poteva più. Sarebbe stata dura fare tutto da sola fino a Natale, senza contare che Jody avrebbe potuto partorire entro la fine dell’anno e procurarle altro da fare, ma era inutile pensarci ancora, in qualche modo ce l’avrebbe fatta.
Il giorno prima aveva fatto un dolce, un veloce presto-fatto, ma il fatto che si fosse messa a fare torte non era un buon segno, tutt’altro: tutte le volte che lo faceva era perchè si sentiva stressata per qualcosa e l’unica cosa che ci guadagnava era del grasso in più. Tagliò una fetta e se la portò alla bocca, seduta al suo piccolo tavolino accanto alla finestra con un the bollente davanti. Ultimamente aveva sempre la testa tra le nuvole, ma non riusciva a rimproverarsi, sapeva di essere fatta così, amava le fantasticherie e i sogni ad occhi aperti.
Quando la fetta di torta finì del tutto nel suo stomaco, chiuse il suo registro e si alzò dalla sedia per andare dritta nella sua camera da letto e indossare la divisa dell’Hawking, piegata nell’ultimo cassetto del settemino: la maglietta nera a mezze maniche stonava terribilmente con il freddo che permeava la casa.
Le ciabatte strusciavano a terra facendo eco nel suo piccolo appartamento, ma la rassicurava il fatto che qualcosa facesse rumore, fuori sembrava tutto così silenzioso che le faceva dubitare di essere sveglia. Di solito ascoltava della musica prima di uscire, ma a breve avrebbe ascoltato brani per oltre sei ore, quindi ne faceva volentieri a meno. Le dita fredde che sfilavano gli abiti la facevano rabbrividire, la sensazione del gelo sulla pelle la portò a vestirsi più in fretta del solito, non riusciva a sopportare i brividi e il solo pensiero di dover uscire fuori, le provocava malessere. Sperò che Ed non la facesse aspettare in mezzo alla neve.
Ci aveva messo delle ore per convincersi del fatto che il ragazzo della biblioteca sarebbe andata a prenderla a casa per andare al lavoro insieme, poi era passata dall’incredulità all’ansia e dall’ansia alla calma piatta. Aveva metabolizzato la cosa. Erano solo amici e in quel guaio ci si era cacciata da sola, quindi niente lamentele. Era solo un ragazzo ed era davvero un tipo sopra le righe, niente a che vedere col ragazzo ideale. Soltanto un potenziale amico. In un certo senso, sapeva che le stava simpatico perché condividevano la solitudine.
Si guardò allo specchio alla luce gialla della sua vecchia plafoniera, scorgendo l’immagine di una Marina uguale a quella di tutti gli altri giorni. Non c’era niente che non andasse, si stava soltanto facendo trasportare dalla fantasia, magari il giorno dopo avrebbe rigettato tutto quell’accumulo di sogni su un foglio bianco e se ne sarebbe dimenticata.
Nel piccolo bagno dalle mattonelle blu, si spazzolava i denti evitando di pensare a quanto fossero scure le sue occhiaie, concentrandosi sui bordi ossidati dello specchio. Coprì la stanchezza come potè, mettendo correttore su correttore e disegnandosi una linea nera sugli occhi. Andava decisamente meglio, ma non era esattamente uno schianto, come avrebbe voluto.
Lasciò perdere il suo aspetto, altrimenti non sarebbe più uscita di casa, e terminò di vestirsi. Probabilmente Edward avrebbe notato lo stesso le occhiaie violacee, ma infondo sapeva che non gli sarebbe importato, probabilmente sapeva cosa si provasse ad avere qualche macchia scura sul volto. Con il cappotto ben chiuso e la borsa in spalla, chiuse la porta a chiave, facendo quattro mandate. Il pianerottolo buio e vecchio le preannunciava il freddo che l’attendeva fuori. Sentì la tensione salire mentre scendeva i soliti due piani a piedi, ricordando la figuraccia che aveva fatto il giorno prima fuori al supermercato: si era incantata come un’idiota. Non sarebbe successo di nuovo, avrebbe saputo darsi un contegno davanti ai suoi occhi. Prima di uscire, infilò i guanti di lana e il cappello bianco, poi mise la mano sulla maniglia e tirò il vecchio portone di ferro. Il buio e il gelo le tagliarono gli occhi e il viso. I fiocchi di neve volteggiavano sotto le luci dei lampioni gialli e le persone camminavano veloci per la strada. Era incredibile come il sabato la città riprendesse vita, come se fossero stati tutti delle formiche nascoste nel formicaio.
Guardò l’orologio della chiesa ed erano le 18:40, le campane cominciarono a suonare come tutti i giorni a quell’ora, annunciando la fine dell’ultima messa. Qualche vecchia signora usciva dalla chiesa, il pullman si fermava di fronte per far scendere i passeggeri e il suo fiato usciva dalla sua gola del tutto condensato, spesso incrociando quello di qualche passante che le sfrecciava davanti. Con le mani strette nelle tasche e le spalle contratte, guardò verso la direzione dalla quale lui sarebbe dovuto arrivare, ma il bel pensiero del rosso fu oscurato da un volto familiare. Un ragazzo avanzava sul marciapiede a passo deciso, avvolto in un cappotto nero, ignorando chiunque e aggrottando lo sguardo. Se non ricordava male, era lo stesso ragazzo con cui Edward discuteva in biblioteca, ma ne fu del tutto sicura soltanto quando incontrò i suoi occhi scuri e lui diede segno di averla riconosciuta. Aveva alzato un sopracciglio e lei aveva distolto gli occhi, ferma nella sua volontà di ignorarlo, ma non potè fare a meno di sentirsi studiata. Guardò verso la chiesa, fingendo di guardare le persone uscirne, e sentì i passi pesanti di quel tizio passarle alle spalle. Non era una che pregiudicava, ma doveva ammettere che quel ragazzo non le ispirava fiducia e il fatto che il rosso ci avesse discusso la faceva insospettire ancora di più. Quando fu lontano dal suo spazio personale, lasciò andare quel pensiero, sentendo il suono di un campanello.
Si voltò e Edward si stava accostando al marciapiede imbiancato, frenando con prudenza. Il sorriso che si era dipinto sul suo viso e che le faceva sentire le guance calde, svanì quasi immediatamente alla vista del livido che aveva sullo zigomo e del taglio che aveva sul sopracciglio. Lui, in sella alla sua bici azzurra, non riusciva neanche a guardarla negli occhi. Sentì il suo disagio così profondamente, che non riusciva ad accettarlo, era evidente che lui si vergognasse. Non sapeva cosa avrebbe voluto fare, o dire, ma sentiva una rabbia nel petto che raramente aveva provato. Avrebbe voluto picchiare chiunque lo riducesse in quel modo: non se lo meritava, era un bravo ragazzo. Le aveva offerto il caffè, l’aveva accompagnata a casa sotto la tormenta ed ora era lì fuori, di nuovo.
Si avvicinò a lui forse troppo velocemente, perché sembrò allarmarsi a quel suo movimento così fulmineo, ma sentiva tutti i muscoli contratti e il fiato sospeso, non avrebbe mai potuto muoversi in modo disinvolto o aggraziato. Posò una mano sul suo viso, per spostare il pellicciotto del capotto e guardarlo meglio.
  • Marina.
Sentì la sua voce chiaramente, quasi fredda, distaccata, ma non riusciva a distogliere gli occhi da quel taglio.
  • Marina. Mi fai male. – disse, come se stesse rimproverando qualcuno che lo conoscesse abbastanza da sapere di star facendo qualcosa che lo infastidisce.
Come se si fosse scottata, tirò via le dita e sentì di nuovo il peso della borsa sulla spalla e la terra sotto i piedi e alla fine lo guardò negli occhi.
  • Scusa. – disse, senza pensare.
  • Non fa niente.
Dovette sforzarsi di non sommergerlo di domande, poiché aveva paura di essere troppo invadente per due che si conoscono da così poco, ma era evidente che lui leggesse l’agitazione sul suo viso. Non sapeva cosa fare o cosa dire e lui tornava ad abbassare lo sguardo, ricadendo in quel barato dal quale le sembrava che stesse uscendo. I capelli rossi che spuntavano dal cappello gli davano un’aria tenera, così in contrasto col resto del suo viso. Ancora una volta, guardando le lentiggini sul suo naso dritto, si chiese cosa mai dovesse sopportare quel ragazzo. Voleva fare qualcosa per lui, fargli sentire la sua presenza.
  • Ti fa male? – chiese allora. Lui sembrò sorpreso da quel suo interessamento.
  • Uhm, no, va tutto bene. – I suoi occhi chiari vagavano sul suo viso alla ricerca di un punto in cui guardare.
  • Non puoi presentarti così al pub. – osservò, mentre lui lasciava il manubrio e si tirava giù il cappello grigio.
D’un tratto si ricordò delle sue occhiaie e riprese il controllo dei muscoli del suo viso, annullando qualsiasi espressione lo dominasse. Per un momento pensò che non si sarebbe mai più lamentata del loro colore, poi individuò mentalmente il suo fondotinta e il correttore chiusi del suo beautycase, nel bagno.
  • Ok, se sei disposto a collaborare, ho una soluzione. – la guardò come se non credesse ne esistesse una. – Abbiamo ancora tempo, seguimi.
Si avviò al portone voltandogli le spalle, per far trasparire la sua determinazione e ben presto sentì la bici avanzare dietro di lei. Tirò fuori le chiavi dalla borsa, sentendo il cuore martellarle nel petto come una batteria, forse perché quel momento somigliava tanto ai suoi sogni ad occhi aperti o forse perché stava portando Edward a casa sua e lei era un’umana peccatrice. In realtà non sapeva cosa stesse facendo, non l’aveva mai saputo.
Con una bella spinta, fu dentro e si voltò per controllare che la seguisse, ma lui era ancora fuori, in piedi, senza capire cosa stesse succedendo. Sventolò la mano per invitarlo ad entrare e riprese ad avanzare, salendo le scale. Lo avrebbe conciato a dovere. Soltanto quando fu fuori la porta, lo sentì alle sue spalle. Quando fu di nuovo in casa sua, al caldo, si sentì sollevata, ma non appena Edward fece il suo ingresso col suo sguardo spaesato e ferito, sentì il sangue sciogliersi definitivamente nelle vene. Sbattè le palpebre e chiuse la bocca.
Senza dire niente, andò nel bagno e recuperò il necessario, evitando ancora di guardarsi allo specchio e tornò da lui, sentendo il pavimento fare più attrito del solito sotto le scarpe. Si stava guardando intorno come un bambino perso in un labirinto, i suoi lineamenti spiccavano alla luce dell’ingresso.
  • Vieni – disse allora – siediti in cucina.
Lo superò a testa bassa, l’adrenalina era ancora troppa per permetterle di razionalizzare le sue azioni e tentare di fermarsi. Edward si sedette sulla stessa sedia che l’aveva ospitata quel pomeriggio e lo guardò di nuovo negli occhi. Quel ragazzo era perso.
  • Questo – disse, cercando di sdrammatizzare – è il nostro amico fondotinta. – e glielo mostrò. – Ricorda, lui non ti abbandonerà mai nel momento del bisogno.
Vide i suoi occhi azzurri correre alle sue mani che aprivano il cofanetto e poi ancora al suo contenuto e alla spugnetta che lo raccoglieva. Allungò la mano al suo viso e con delicatezza vi poggiò il prodotto. Lui strizzò gli occhi ed emise un lieve lamento, un “Ahi” appena percettibile che non la fermò dal procedere. Se c’era qualcosa di peggio del dolore che in quel momento stava provando, probabilmente era perdere il lavoro all’Hawking e infatti lui sopportò in silenzio, lasciandola fare. Sentiva la sua pelle calda sotto le dita, quando stendeva il fondotinta senza la spugnetta e desiderò anche troppo fermarsi a fargli una carezza. Soltanto una carezza su quel viso martoriato. Aveva dei lineamenti davvero dolci. Forse era ferma da troppo tempo, perché Edward aprì un occhio e la guardò in attesa di qualcosa. Si scosse dalla sua contemplazione e richiuse il cofanetto con uno scatto, ammirando il risultato: la commessa aveva detto la verità quando le aveva assicurato che quella pastocchia fosse bella coprente, giusta per le sue occhiaie. E a quanto pareva anche per i lividi. Lui si alzò e sembrò titubante, alternando lo sguardo tra lei e il pavimento. Dondolando sul posto, evidentemente indeciso su qualcosa, era comunque più carismatico di lei che ora se ne stava zitta e immobile davanti a lui.
  • Grazie. – disse lui, poi.
  • D-di niente. Andiamo?
Con un movimento, si allontanò da lui, improvvisamente troppo in imbarazzo e si diresse direttamente alla porta. Lo lasciò uscire senza guardarlo e lo seguì per le scale dopo aver chiuso la porta. Le sue vecchie Vans scure correvano veloci sugli scalini di marmo ingiallito e la precedettero all’uscita. Quando mise di nuovo il naso fuori, lui era già in sella che guardava l’orologio.
  • Sbrigati. – la incitò.
Lo vide togliere una mano dal manubrio per farle posto e si avvicinò a lui per sedersi sull’alta sbarra di ferro della bici. Dopo un paio di tentativi, riuscì ad aggrapparsi al suo collo e a salire, lasciando le gambe semi distese per permettergli di pedalare. Allungò un braccio sopra le sue spalle e lasciò che partisse. Sentì la bici esitare alle prime pedalate, ma poi lui riuscì a stabilizzarsi e proseguirono spediti tra la neve. Sperò almeno di infondergli un po’ di calore con la sua vicinanza. La sua guancia veniva solleticata dai capelli rossi che fuoriuscivano dal cappello, ma quella sensazione la faceva sorridere. Stare vicino a lui, su quella bici, la faceva sorridere. Sentire la sua presenza era piacevole. Per qualche motivo, era convinta che Edward sarebbe stato un ottimo amico, percepiva chiaramente che erano sulla stessa lunghezza d’onda.
Ad un paio di curve dovette aggrapparsi al suo cappotto blu, ma lui non disse niente, limitandosi a pedalare. Soltanto quando furono fuori all’ingresso dell’Hawking disse:
  • Vedrai che ti abituerai alla bici.
 
Il brivido che aveva provato prima di entrare nella grande sala con le panche di legno, le correva ancora su e giù per la schiena, insistendo a farle ripensare alle parole di Edward. Era fin troppo contenta che avesse detto quella frase, troppo per i suoi gusti ed era troppo accaldata mentre preparava i tavoli e accoglieva i primi clienti. Tirò su i capelli in una coda, altrimenti avrebbe continuato a sentire caldo e a tormentarsi le lunghe ciocche con le dita. Da quando erano entrati, la musica si rifrangeva sulle vecchie mura e circolava in tutta la sala: la settimana scorsa sarebbe stata una buona compagna per quella serata di lavoro, ma la voce che cantava quelle cover di successo stava diventando troppo familiare. Si concentrò, tirando fuori il blocchetto delle ordinazioni dalla tasca del suo grembiule e ascoltò pazientemente l’ordine di un indeciso gruppo di adolescenti, troppo presi dalle loro cotte per pensare davvero al menù. Invidiò la loro spensieratezza quanto il turbinio di emozioni che si prova a quell’età, che ti fa sentire abbastanza grande da credere di aver provato tutto nella vita, poi si congedò per dirigersi alla cucina e consegnare il quinto ordine della serata, pensando che ad un certo punto sarebbe dovuta passare davanti alla pedana di legno e avrebbe incontrato i suoi occhi.
Nel giro di mezz’ora, il locale era già pieno e la voce di Edward le faceva vibrare i timpani, così vicino e così lontano allo stesso tempo. Desiderò che la gente sparisse e di essere a casa, avvolta nel suo pigiama a parlare di qualsiasi cosa con lui, vivere un momento di serenità con qualcuno che ne avesse altrettanto bisogno, ma erano intrappolati in quel posto, entrambi stanchi e occupati. Col vassoio sulla mano e un piatto nell’altra, si diresse per la prima volta dall’altro lato del locale, dando il cambio ad un’altra ragazza e si fermò ad un tavolo remoto, nascosto in un angolo, posando l’ordinazione. Si morse il labbro, cercando di terminare il suo compito prima di alzare lo sguardo e non appena l’ultima portata fu fuori dal vassoio, si drizzò e si diresse direttamente verso di lui. Ovviamente stava solo allungando la strada verso la cucina, ma voleva vedere cosa stesse facendo, constatare che stesse bene, che i lividi non fossero visibili. In piedi su quella pedana, con la sua t-shirt nera a mezze maniche, scoprì che non solo aveva delle spalle più larghe di quanto sembrasse, ma aveva anche un braccio tatuato. Non riuscì a distinguere i disegni o le scritte, ma era tutto piuttosto colorato. Quando tornò al suo viso, prima di svoltare l’angolo, vide l’azzurro dei suoi occhi incontrare il verde dei suoi.
Perse un fottutissimo battito e sorrise.
Ora, non è che il fatto di essersi cacciata in un grosso guaio bastasse, perché lui stava sorridendo di rimando e questo non era un buon segno per Marina, perché se c’era qualcosa di cui era certa, era che Edward in lei non vedesse nient’altro che una conoscente. Lo si capiva dal suo comportamento. Tuttavia, sentire le sue guance riempirsi in quel modo, era una sensazione che la faceva stare bene. Non appena fu al banco, prese la sua birra di riguardo dal frigo e la stappò, prendendosi i suoi 10 minuti di pausa dopo le prime tre ore e mezza di lavoro. Si sedette accanto al barista e senza fiatare, lo osservò lavorare, rimuginando sulla complessità della sua mente. La voce di Edward continuava a riempire il locale, impedendole di rendere efficace quel sermone che si stava propinando da sola. Il proprietario del posto la risvegliò dai suoi sogni.
  • Marina! – urlò, per farsi sentire. – Porta una birra al ragazzo, fin’ora non ha bevuto neanche un goccio d’acqua.
  • Sì, signore.
Rispose automaticamente mentre quello si dirigeva verso le cucine, lasciandola sola. Eh, certo, doveva portare lei la birra ad Edward quando due secondi prima si stava dicendo di non guardarlo più. A chi vuoi darla a bere, Marina.
Se Jody fosse stata lì, probabilmente l’avrebbe riempita di discorsi strani e sensati, ma in quel momento non c’era, così prese la birra fredda tra le dita e si diresse di nuovo verso di lui. Non appena fu nel suo campo visivo, sentì i suoi occhi incollati su di lei, ma continuò ad avanzare simulando indifferenza. Quando fu ai piedi della pedana, gli tese la birra e lo osservò prenderla.
  • Grazie, Marina. – sospirò lui.
  • Figurati.  – rispose, incurvando le labbra spontaneamente. – Stai andando forte, resisti ancora un po’.
  • Ci provo!
Lo vide passarsi una mano tra i capelli mentre continuava a guardarla, ma dovette forzarsi a tornare a lavoro. Come se fosse naturale, riprese a girare tra i tavoli e a portare birre e panini a grosse tavolate di gente brilla. Per le successive tre ore non fece altro che odiarsi per la complicità che trovava nel suo sguardo ogni volta che passava davanti a lui. Quando cantava era come se si trasformasse, una specie di bipolarità: spariva ogni traccia di timidezza, lasciando il posto ad un Edward estroverso e deciso. Quell’aspetto di lui la rendeva tesa come una delle corde della sua chitarra, per non parlare del fatto che qualcuno continuava ad offrirgli della birra e non riusciva a capire di chi si trattasse, scatenando la sua mania del controllo.
Era molto tardi quando l’ultimo cliente fu fuori e potè sedersi su uno degli sgabelli al bancone, sciogliendosi finalmente i capelli e lasciando dondolare i piedi stanchi. Per fortuna il capo aveva un cuore e li lasciava sempre riposare per un quarto d’ora quando il servizio finiva, di modo che potessero riprendere fiato e riordinare più velocemente, ma quella sera sembrava che non avesse alcuna fretta di andare a casa.
Con le maniche della camicia arrotolate, l’uomo si fece largo dietro al bancone, si versò un qualche genere di liquore in un bicchierino e andò ad accomodarsi su uno sgabello dopo il suo. Le sorrise e poi chiamò Edward, la cui voce poteva finalmente riposare.
  • Sì, signore? – spuntò alle sue spalle senza preavviso, ma era troppo stanca per fare qualsiasi movimento.
  • Vieni, ragazzo, riposati.
Gli offrì un cicchetto e lui si accomodò sullo sgabello vuoto che la separava dall’uomo baffuto. Era evidente che fosse in imbarazzo e che fosse stanco, ma lei stessa era curiosa di sapere cosa volesse il capo da lui, peccato che dovesse alzarsi e mettersi a pulire.
Ogni volta che passava di lì, vedeva il bicchiere di Edward sempre pieno e per un po’ le sembrò di sentire le sue risa mischiarsi alla grassa risata del capo, ma non fu certa che fosse così. Non l’aveva mai sentito ridere davvero.
Quando anche l’ultimo tavolo fu lucido e disinfettato, ripose detersivo e straccio nello stanzino nel retro del locale e si diresse di nuovo al bancone, ritrovandosi davanti una scena esilarante: Edward era palesemente ubriaco, il capo altrettanto, e si raccontavano barzellette ridendo di gusto del loro senso dell’umorismo. Spalancò la bocca, incredula e sorpresa e si avvicinò a loro, cercando di capire il senso del loro ridere.
  • Marina! – urlò Edward, inaspettatamente.
  • Stai bene? – ridacchiò lei, ancora interdetta da quella situazione. Lui aveva un sorriso sincero sul volto.
  • Oh, benissimo! – disse, battendo una mano sulla sua spalla. – Il capo mi ha offerto un goccio.
Davvero non sapeva se ridere o preoccuparsi. Casa sua non era dietro l’angolo.
  • Edward, io andrei a casa.
  • È la tua fidanzata, ragazzo? – si intromise l’uomo.
  • Cosa? – fece lui, probabilmente ignorando la sua espressione sconvolta. – No, lei è…
La guardò con gli occhi lucidi per l’alcool, cercando seriamente di definire quella cosa che erano e lei attese trepidante la risposta veritiera dalla bocca dell’ubriaco.
  • …un’amica.
  • Diciamo tutti così! – fece l’uomo e scoppiarono di nuovo a ridere.
Rimase immobile, quasi mortificata da quella risata, ancora trafitta dalla friendzone precoce dalla quale era stata colpita, ma poi Edward si alzò e annunciò al capo che sarebbe andato via anche lui. Le sue mani stanche strinsero quelle dell’uomo, ringraziandolo del drink, dopodiché – come se fosse impazzito – ebbe il coraggio di posarle una mano sulla schiena e accompagnarla a prendere il cappotto.
Sentiva le sue dita bruciare la maglia nera a mezze maniche. Fece finta di niente, assecondando quel suo comportamento e ben presto furono fuori dal locale. La strada deserta e innevata era agghiacciante a quell’ora di notte e lei già pensava al tragitto da percorrere fino a casa.
  • Vieni, ti accompagno.
Lo vide tentare di salire in sella alla bici, ma non riusciva a nemmeno a rimanere in piedi, rischiando di cadere assieme al vecchio ferro. Lo aiutò a tenersi fermo.
  • Edward, sei ubriaco.
  • Non sono ubriaco. – fece lui, con tono capriccioso.
  • Sì che lo sei. Dovrei essere io ad accompagnare te.
Lui rinunciò momentaneamente a salire sulla bici e la guardò negli occhi, cercando di argomentare la sua difesa.
  • Non sono ubriaco, sono solo un po’ brillo. Dai andiamo.
Dopo aver tirato giù il cappello, prese la bici e cominciò a camminare verso casa sua. Avrebbe voluto fermarlo e farlo andare a casa, invece di allungare ulteriormente il tragitto, ma non volle sentire ragioni. Lei era soltanto preoccupata che svenisse o che si addormentasse su qualche panchina, in quel caso sarebbe morto assiderato: da quelle parti era un pericolo concreto.
  • Non hai intenzione di darmi ascolto, vero?
  • No, non ti lascio andare da sola a quest’ora.
  • Guarda che lo faccio tutti i sabati.
  • Beh, adesso ci sono io e non ti lascio andare da sola.
  • Ma chi sei tu e cosa ne hai fatto di Edward?
  • Oh, dai, è per via dell’alcool. – disse, come se lei non gradisse quel suo atteggiamento.
  • Stavo scherzando. Questo Edward mi va bene lo stesso.
Si voltò a guardarla, ma lei insistette a guardare la strada, scorgendo da lontano il suo portone. Proseguirono fin lì in silenzio e si fermarono sotto la luce del lampione.
  • Grazie per avermi accompagnata. Stai attento, mi raccomando.
  • Sta tranquilla. – fece lui, con un sorriso troppo evidente sul volto. Era davvero inquietante vederlo senza il suo sguardo scuro.
Si avviò verso il portone, pensando solo che prima andava via, prima sarebbe riuscito a tornare a casa, ma prima ancora che infilasse le chiavi nella toppa, il chiaro rumore di un tonfo la fece voltare e la figura di Edward a terra le fece alzare gli occhi al cielo. Corse verso di lui e lo aiutò a rialzarsi e a rimettere in piedi la bici, ma ben presto il mezzo cadde di nuovo, fuori dal controllo di entrambi. Il rosso barcollava, accusando i colpi degli ultimi bicchierini del capo, e dovette letteralmente reggerlo in piedi, cingendogli il torace con un braccio.
  • Edward, Cristo! – imprecò, sentendolo sempre più pesante.
  • Scusa, io-
  • Cerca di stare in piedi o cadiamo entrambi.
Quando si furono stabilizzati, sentì nuovamente le sue scuse aleggiare nell’aria circostante.
  • Non posso lasciarti andare in questo stato, moriresti ibernato.
Era la verità, per coscienza non poteva lasciarlo andare, ma non poteva nascondere a se stessa il fatto che il suo inconscio stesse già fantasticando.
  • Vieni, resti da me stanotte.
Non seppe come, riuscirono a prendere la bici e a farla entrare nel vecchio portone, chiudendoselo poi alle spalle. Lui, appoggiato quasi del tutto a lei, non riusciva a parlare, troppo impegnato a riflettere sul controsenso che stava diventando: aveva accettato 4 birre da sconosciuti, chi sa quanti cicchetti dal suo capo, era ubriaco, aveva riso di gusto ed ora stava salendo a casa di Marina per dormire lì. Era più sconvolto di quanto sembrasse, ma il solo pensiero di un letto su cui riposare, gli fece dimenticare tutto il resto.
Marina infilò le chiavi nella toppa e rifece le quattro mandate, aprendo il varco di casa sua. Vi trascinò dentro il ragazzo della biblioteca, cominciando ad avere qualche rimorso dato che stava invitando uno sconosciuto a dormire da lei, ma non poteva lasciarlo per strada. Lo portò direttamente sul vecchio divano in cucina e lo lasciò cadere lì. Riprese fiato dopo i due lunghi piani a piedi e posò la borsa sul tavolo.
  • Come ti senti? – chiese.
  • Marina, scusa-
  • Senti, lo so, è strano – cominciò, dando sfogo alla sua tensione. – ma non posso lasciarti per strada, quindi stai tranquillo.
  • Grazie.
Si portò una mano al viso, sentendo gli occhi pesanti, mentre lui cercava di sfilarsi il cappotto.
  • Vado a prenderti una coperta e un cuscino. Se hai bisogno del bagno, fa pure.
Lo lasciò solo, dirigendosi all’armadio e cercando in esso il buonsenso che aveva perduto. Ovviamente, non lo aveva trovato e richiuse le ante sconfitta. Lo trovò con la testa poggiata alla spalliera, ma gli occhi erano ancora aperti.
  • Grazie. – disse lui, prendendo gli oggetti dalle sue mani.
  • Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. – lo rassicurò. – Se non dovessi sentirti bene o se non trovi un bicchiere…
Edward annuì, permettendo a quella situazione di renderla un’estranea in casa sua.
Quando gli diede la buonanotte e scappò dalla vista dei suoi occhi e dei suoi capelli, capì che quel ragazzo era già diventato padrone della sua casa, perché lei non era più padrona di se stessa. Lui sapeva ciò che voleva e non corrispondeva ai suoi desideri: lei era quella fuori luogo. Presa coscienza dell’assurdità della sua agitazione, fece un profondo respiro e si chiuse nella camera da letto, raggiungendo il materasso nel minor tempo possibile.
Quando spense la luce, sentì il respiro del rosso provenire dalla cucina e si lasciò andare anche lei alla stanchezza.





Angolo autrice:

Salve bella gente, lo so, non è domenica e nemmeno sabato, ma è il giorno in cui ho deciso che fosse l'ora di accellerare.
E poi, sono stressatissima per un esame e questa storia è il mio momento di evasione dalla più totale disperazione, quindi beccatevi sto capitolo.
Inoltre, dato che Tumblr è una inesauribile fonte di qualsiasi cosa, eccovi un paio di cosette trovate prima di pubblicare, mai più adatte al capitolo:



Adoro la sua faccia quando vede il sedere della tipa. XD
Vi aspetto nel weekend per il prossimo capitolo e intanto...alla salute!


 

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Capitolo 11
*** XI ***







 
XI







Si svegliò alle prime luci dell’alba che filtravano dalla finestra della stanza in cui si trovava, ma non riusciva a ricordare dove fosse. Sbattè le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco ciò che lo circondava ed una vecchia cucina in legno laccato bianco prese forma intorno a lui. La coperta che lo copriva aveva un odore che non gli apparteneva e in un attimo realizzò che la chiesa che vedeva dalla finestra era Santa Maria del Popolo e lui era a casa di Marina. Il sapore del whisky della sera prima si ripresentò al suo palato, facendo pulsare la sua testa e si ricordò di aver bevuto più del necessario. L’immagine di Ben si presentò alla sua mente e gli fece rivoltare lo stomaco, così si alzò dal divano dalla copertura gialla e si diresse al lavandino per prendere un bicchiere d’acqua. Con le mani poggiate sul marmo freddo e i piedi scalzi, assaporò la dolcezza dell’acqua del rubinetto che gli scendeva in gola. Si guardò in giro, sentendosi a disagio in quella casa, sapendo che Marina stava dormendo da qualche parte. L’orologio sul suo polso ticchettava e puntava le lancette sulle 7:03, suggerendogli di andare via il prima possibile per preparare la colazione a Ben, che probabilmente lo avrebbe conciato per le feste se non avesse fatto in tempo. Già il fatto di aver dormito fuori non era a suo favore, non poteva permettersi altri errori. Tornò al divano per infilarsi le scarpe e intanto individuare la sua chitarra, poggiata al muro e chiusa nel fodero. Si alzò e per un attimo non seppe cosa fare: andare via in silenzio o svegliare Marina? Se non l’avesse svegliata avrebbe potuto pensare che fosse un ingrato e la sensazione di essere uno di quegl’uomini che lasciano un biglietto sul cuscino gli risultò spiacevole, ma non sapeva con quale coraggio si sarebbe avvicinato al suo letto per svegliarla. Prese un profondo respiro e si avviò verso l’unica stanza oltre il bagno. La porta era chiusa e non si sentiva alcun rumore provenire dall’interno, aveva quasi paura di violare quella pace. Quando il ticchettio dell’orologio giunse di nuovo alle sue orecchie, si fece coraggio ed aprì piano la porta, sentendo il cuore salirgli in gola quando la vide dormire beatamente, sotto il piumone. Si avvicinò silenziosamente al materasso e si accovacciò accanto a lei: aveva il viso sereno e struccato, come quello di una bambina, il piumone si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro. La voce non voleva uscire dalla sua gola.
  • M-Marina? – quasi non riusciva ad ascoltarsi nonostante il silenzio. – Marina?
Non dava segno di averlo sentito e quando riprovò a chiamarla la cosa non cambiò. Deglutì, tendendo la mano verso di lei, ma doveva proprio andare. Scosse lievemente la sua spalla coperta dal piumone, pronunciando ancora il suo nome.
  • Marina?
Quando vide i suoi occhi aprirsi, il suo stato di agitazione si trasformò in terrore perché lei schizzò dal letto urlando. Si tirò indietro, senza riuscire a spiegarsi, ma lei si ammutolì improvvisamente.
  • Edward! – distese il viso. – Oddio.
Tirò un sospiro di sollievo vedendola tranquillizzarsi.
  • Mi ero dimenticata che fossi qui, scusa!
Gli era preso un infarto e aveva pensato che lei lo considerasse un maniaco, ma lentamente il suo cuore stava riducendo la tachicardia e regolarizzando il respiro. Abbassò le mani che aveva alzato istintivamente per indicarle di stare calma, rendendosi conto che non ce ne fosse bisogno.
  • Cosa c’è? – lo risvegliò dai suoi pensieri.
  • Uh, io devo andare. Ti ringrazio per avermi ospitato, ti assicuro che non succederà più.
  • Figurati. – rispose, uscendo fuori dalle coperte e scendendo dal letto. – Non farti problemi se vuoi restare ancora, è presto.
  • Lo so, ma devo andare a casa.
  • Già, saranno preoccupati.
Il fatto che lei fosse all’oscuro di ogni cosa gli trapassò la mente come un fulmine, ma non era il momento di perdersi in chiacchiere. Magari, se ci fosse riuscito, un giorno le avrebbe raccontato la verità. Era stata fin troppo gentile a non fargli domande scomode e ad aiutarlo senza giudicarlo. Il suo pigiama bianco con gli orsetti le stava grande, finendole sotto i talloni.
  • Scusami ancora per il disturbo.
  • Ti ripeto di non preoccuparti.
Il silenzio che calò su di loro era davvero inopportuno, gli sarebbe bastato voltarsi e andare a prendere la sua roba, ma non riusciva a muoversi. Per fortuna lei era un po’ più scaltra di lui e prese la parola.
  • Vieni, ti accompagno alla porta.
Tirandosi giù le maniche del maglione, la seguì di nuovo in cucina e si infilò velocemente cappotto e cappello. Con la chitarra in spalla, la raggiunse all’uscio.
  • C-ci vediamo. – disse, emozionato dalle sue stesse parole. – Grazie ancora.
  • Forse ci vediamo dopo all’ospedale, se ci vai. – lo vide annuire, con le guance lievemente arrossate. – Sta attento per strada, sarà pieno di ghiaccio.
Lo guardava con una calma disarmante e avrebbe tanto voluto essere disinvolto come lei, sereno e a proprio agio nel salutare qualcuno. La scena del loro saluto all’incrocio si ripresentò alla sua mente.
  • Sì. – e guardò a terra, poi di nuovo lei. – Allora, a dopo.
  • Ciao Edward.
Marina gli propinò un lieve sorriso e un buffetto sul braccio e – di nuovo – desiderò guardarla più a lungo. Ricambiò il suo gesto, spettinandole i capelli come quella volta.
  • Ciao, Marina. – disse, toccandola come se ancora gli facesse impressione.
Immediatamente, uscì dalla porta e prese le scale, senza voltarsi. Recuperò la bici dal sottoscala ed uscì fuori: i primi colori dell’alba rischiaravano il cielo limpido di quella giornata, illuminando il suo cammino fino a casa. Ancora non riusciva a credere di essere appena uscito da casa di Marina, aver dormito sul suo divano ed essere ancora emotivamente stabile. Non era certo da lui. La sensazione di riposo e relativa tranquillità che aveva provato entrando in casa sua erano sorprendenti, bruciavano nel petto come un incendio e non accennavano a sparire. Il pensiero di essersi sentito protetto, tra le mura di quella casa, lo fece riflettere sul fatto che Marina fosse diventata davvero sua amica, a prescindere dalla sua reale volontà di provare semplicemente a parlarle. Non si conoscevano, non sapevano nulla l’uno dell’altra, ma quel rapporto di solidarietà ed empatia che era nato tra loro, bastava ad accorciare i tempi e a fargli accettare quella serie di sentimenti del tutto contrastanti col suo essere. Andava bene così, adesso. Non voleva più provare timore, soltanto prendersi ciò che Marina gli dava e goderselo fino in fondo. C’era qualcosa, una specie di familiarità che li legava oltre la semplice conoscenza. Era soltanto una supposizione, una teoria alimentata dall’euforia di aver passato la notte fuori a 23 anni suonati, ma di qualunque cosa si trattasse, avrebbe cercato di ricambiare come poteva.
Quando richiuse la porta, i primi passi di Ben che si alzava dal letto fecero scricchiolare le assi di legno del piano superiore, quindi scappò in cucina, mettendo immediatamente l’acqua sul fuoco, per il the.
Quando l’uomo fece il suo ingresso nella fredda stanza, gli si gelò il sangue, cancellando l’immagine degli occhi verdi di Marina che la sera prima continuava ad incontrare.
  • Dove cazzo sei stato tutta la notte? Jef aveva bisogno di te.
  • Ero a lavoro. – disse, registrando il suo progressivo avanzamento verso di lui.
  • Non ci credo. Cosa stavi facendo? – la sua voce scura tuonava nella stanza.
  • Guarda! – tirò fuori i soldi dalla tasca del cappotto che ancora indossava per provargli che stesse dicendo la verità, anche se non era del tutto corretta. – Questa è la paga!
Ben guardò le banconote strette nella sua mano per qualche secondo, poi come un lampo lo afferrò per il collo del maglione.
  • Fai in modo di essere utile a mio figlio.
Non disse niente, ma non avrebbe potuto comunque parlare, perché il pugno di Ben era già ben affondato nel suo stomaco, togliendogli il fiato. Non riuscì ad inspirare finchè lui non mollò la presa e si allontanò, uscendo dalla stanza.
Tossì, ignorando il fischio della teiera sul fornello e si piegò su se stesso. La catenina con la ‘M’ pendeva dal suo collo, ormai fuori dal maglione. La strinse nel suo pugno, cercando invano di ignorare il dolore, rifugiandosi nel pensiero del suo sereno risveglio sul divano di Marina.
 
  • Devi fare una cosa per me.
La voce di Jef lo fermò sotto l’uscio: non aveva fatto in tempo. Il crampo allo stomaco gli fece contrarre la mascella, mentre si voltava verso di lui, in trappola.
  • Devi tornare in quel posto e dare questa busta a Tyler.
La busta bianca si abbinava perfettamente alla pelle cadaverica che lo contraddistingueva e la prese dalle sue dita magre e fredde.
  • Stanotte a mezzanotte. – lo guardò truce – Non tardare per nessun motivo.
Si chiuse la porta alle spalle e infilò la busta nello zaino, già sicuro del fatto che a casa non ci sarebbe affatto tornato. Il pranzo era già pronto, le faccende erano state sbrigate e lui doveva andare a cercarsi un lavoro pomeridiano per quelle vacanze, ma non nutriva troppe speranze.
Ignorando la nuova fitta all’addome, montò in sella e si diresse all’ospedale. Il pensiero di vedere Marina per qualche assurdo motivo gli faceva pizzicare gli occhi, ma non poteva piangere, non doveva permettere alla paura di sopraffarlo, altrimenti sarebbe stata la fine.  Ben non lo aveva picchiato oltre soltanto perché Jef lo aveva assunto come corriere di chi sa quale droga e non poteva permettere che suo figlio finisse nei guai. Doveva ancora andare all’internet point per fare qualche ricerca sull’avvocato Foster.
Lasciò che il vento portasse via i suoi tormenti, non poteva sembrare triste davanti ai bambini, quindi cominciò a plasmare l’espressione sul suo viso da quel momento, cosicché non avrebbe dovuto sforzarsi troppo una volta travestito.
Entrò nella sala d’aspetto bianca, salutò Stephany e imboccò le scale.
Quando varcò la soglia del reparto di oncologia infantile, guardò la porta di Kathy, chiusa. Si chiese se Marina fosse già lì e ripensò al cambiamento che in una settimana aveva apportato alla sua vita: per qualcun altro poteva sembrare poco, ma per lui, Ed, con i suoi capelli rossi e le sue stranezze, era un passo da gigante, una vera e propria sfida alla vita.
Nello stanzino, cominciò a spalmarsi il cerone sul viso, coprendo di nuovo i lividi scuri tornati alla luce dopo la sua doccia e quando uscì da lì, gli sembrò che il tempo avesse preso a scorrere al rallentatore. Ad ogni porta che apriva, faceva partire un conto alla rovescia che finiva con Marina, Marina, Marina. Cosa gli aveva fatto quella ragazza?
Con dispiacere, notò che due dei bambini che erano in cura da più tempo, non c’erano più. Non seppe con che coraggio entrò nelle porte successive, raccontando la sua nuova avventura e cantando le sue nuove canzoni, ma il sorriso che ognuna di quelle anime gli lasciava, pesava nel suo petto quanto un battito del suo cuore.
Un paio di volte si era fermato a chiedere ai genitori come andassero le cose, ma era più una forma di cortesia: preferiva non conoscere quelle storie troppo a fondo, altrimenti ne sarebbe rimasto schiacciato.
L’ultima porta bianca, alla fine del corridoio, era finalmente davanti a lui, doveva solo aprirla ed entrare, come tutte le domeniche. Poggiò la mano sulla maniglia, preoccupandosi più di respirare che di contrarre i muscoli. Dopo aver preso un profondo respiro, strinse di più la chitarra nella mano ed entrò. Kathy alzò le braccia al cielo, salutandolo, sua madre era accanto a lei e non c’era nessun altro. Marina non era lì.
Rimase interdetto nel non vederla seduta, avvolta nel suo parka, come si aspettava e si chiese ripetutamente dove fosse finita. Dovette ritrovare una certa lucidità, perché Kathy sembrava in attesa di godere della sua compagnia e non voleva farla aspettare per assaporare quei 10 minuti di spensieratezza.
  • Questa settimana, ho incontrato di nuovo la principessa dai lunghi capelli – cominciò -  e mi ha portato nel suo castello!
  • Wow, davvero? E cosa avete fatto? – I suoi occhi azzurri luccicavano.
  • Mi ha fatto visitare il suo regno incantato, pieno di fiori e di alberi.
I trucchetti di magia che aveva imparato erano fondamentali in quei momenti, erano la parte migliore dello spettacolo: i bambini sorridevano in un modo inimitabile.
Il fatto che da quando aveva incontrato Marina la sua vita era più interessante, lo aiutava a trovare spunti per le sue storie, peccato che lei non fosse lì ad ascoltare la metafora del sabato appena trascorso.
Riprendendosi il cappello dalla testa di Kathy, si congedò e – come sempre – assicurò alla piccola che sarebbe tornato la settimana successiva. Il suo ruolo di pagliaccio, anche per quel giorno, era finito.
 
Prima di lasciare il reparto si guardò di nuovo intorno alla ricerca della sua figura familiare, ma ben presto fu fuori, in sella alla sua bici.
Continuava a cercarla lungo la strada, ignorando il gelo e il ghiaccio sull’asfalto e scoprì di essere preoccupato. Non sapeva bene per cosa, ma quell’ansia che lo prese al petto, proprio dove Ben gli aveva lasciato un livido, era terribilmente familiare. L’ultima volta che l’aveva percepita, non era successo niente di buono.
Il ricordo dei giorni in cui Jef fece in modo che i suoi amici non gli parlassero più, bruciava ancora tra le sue sinapsi, come se fosse un’ustione recente.
Marina non poteva uscire dalla sua vita. Doveva trovarla.
Magari era solo stanca o magari aveva un impegno di cui si era dimenticata o ancora, poteva essere solo in ritardo perché aveva sonno e voleva dormire. Cosa poteva mai saperne, lui. Quella sua bipolarità gli permetteva di volerla cercare e di volersi prendere a schiaffi nello stesso tempo, ma stavolta non rise di se stesso, le sue labbra non si incurvarono mentre girava l’angolo, intenzionalmente diretto verso casa sua. Il cappotto chiuso non bastò a sopprimere il brivido che gli nacque sulla nuca al pensiero di vederla, ma lo ignorò, procedendo verso Santa Maria del Popolo a velocità sostenuta.
I suoi occhi chiari scandagliavano la strada, al di sopra dei lividi gialli che aveva sul viso, cercando un segno. Quando raggiunse il suo portone e si fermò, il peso dello zaino tornò a gravare sulle sue spalle.
Alzò lo sguardo alla sua finestra bianca, portandosi una mano a spostarsi i capelli dagli occhi, ma non riusciva a vedere niente a causa del riflesso della luce.
Dove poteva mai essere? Magari voleva solo evitarlo, dopo la figuraccia di quella notte. Abbassò il capo, riflettendo sulle mille ipotesi che aveva elaborato durante gli ultimi chilometri. Quando la campana suonò le 11:00 di quella domenica, riavvolse la catena e spinse sul pedale, forzandosi ad andarsene, ma dovette praticare una manovra azzardata per non cadere sul ghiaccio quando sentì la voce di Marina urlare il suo nome a gran voce.
  • Edward!
Fermò il ferrovecchio come potè e si voltò immediatamente, sentendo la sua espressione estendersi in una smorfia sorpresa. Marina era affacciata alla finestra di casa sua, con una coperta sulle spalle.
Fece inversione e tornò sotto la sua finestra, col cuore ancora a mille, cercando di non cadere e fare una figuraccia.
  • Scusa, mi è venuta la febbre e non sapevo come avvertirti. – spiegò lei, dalla finestra.
Rimase a bocca aperta, guardando in alto, mentre le sue parole fluivano al cervello e mettevano per iscritto il fatto che lei non volesse evitarlo. Cercò di riscuotersi e di riprendere coscienza. Deglutì, prima di rispondere.
  • Oh, mi dispiace. Come ti senti?
  • Non sono esattamente in forma, ma me la cavo.
La guardava, i capelli sciolti e spettinati, ancora in pigiama. Per un attimo credette di aver sentito il suo profumo da lì.
Il silenzio cominciava a farsi imbarazzante, ma non sapeva che dirle, riusciva solo a pensare che era sotto casa sua e lei chi sa cosa stava pensando. Non voleva darle una cattiva impressione.
  • Cosa ci fai da queste parti? – chiese lei, vedendo la sua espressione pietrificata – Vuoi salire? Sto preparando il the.
The? Voleva salire? Voleva? I suoi occhi dovevano essere spalancati, lo capiva dalla risata che lei cercò di trattenere mentre lo guardava. Strinse più forte la mano sul manubrio, per scaricare la tensione in un punto che non fosse la sua faccia e cercò di ignorare il calore che sentiva sulle guance.
  • D-davvero? – disse, per un motivo poco preciso.
  • Certo! Dai, ti apro.
Marina sparì oltre la finestra e lui si ritrovò solo, sul ciglio della strada in mezzo alla neve, terrorizzato all’idea di entrare in casa sua per la terza volta nel giro di 18 ore, ma dovette riscuotersi quando sentì il portone scattare al comando del pulsante del citofono. Prese un lungo respiro e scese dalla bici, sistemandosi chitarra e zaino sulle spalle.
Attraversò la strada troppo distrattamente, rischiando di farsi ammazzare da un paio di auto, ma ignorò chiunque gli urlasse contro ed entrò nel portone.
L’odore di cucinato invadeva il palazzo, mentre posava la bici sotto le scale. Due piani. Ogni scalino corrispondeva ad uno “sta calmo” o un “rilassati”, fino a che non vide Marina attenderlo sotto la porta. Non riuscì a non sorridere, vedendola col naso rosso e il pigiama con gli orsetti e per un attimo sembrò che tutta l’agitazione fosse sparita.
  • Ciao Marina! – disse spontaneamente, avvicinandosi a lei.
Nel pronunciare il suo nome sentì la collanina dorata che aveva al collo più pesante, ma si concentrò su di lei che ricambiava il saluto, lasciandolo entrare. La casa era tiepida e la teiera bolliva sul fornello. Guardò il divano con la copertura gialla su cui aveva dormito, poi lei invase il suo campo visivo.
  • Come stai? Ieri ti sei preso una bella sbronza. – rise, mentre si avviava a preparare il the.
  • Già, mi dispiace. – disse, cercando di non balbettare.
  • Com’è andata, all’ospedale? – chiese, mantenendo alta la conversazione come lui non riusciva a fare.
  • Purtroppo due bambini non ci sono più – si ricordò – ma è andata bene.
Un attimo di silenzio li avvolse, mentre lei cambiava espressione, pensando a chi sa cosa.
  • Pensavo di trovarti da Kathy.
  • Già, scusa. – disse, riprendendosi dall’attimo di vuoto che l’aveva presa. – Mi sono resa conto di avere la febbre poco prima di uscire e ho dovuto fermarmi. Sai, il lavoro.
In effetti si era sorpresa del fatto di essersi addormentata così in fretta, pur avendolo sul divano. Probabilmente, se non avesse avuto la febbre, sarebbe rimasta sveglia tutta la notte. Non era da tutti avere a casa il ragazzo della biblioteca.
Se ne stava ancora lì, immobile, gli occhi luminosi e confusi, circondati dalle occhiaie. Le sue spalle stanche si nascondevano nel cappotto.
  • Accomodati, Edward. Non fare il timido.
Incontrò i suoi occhi, senza timore e gli servì il the al tavolino accanto alla finestra.
  • Devi lasciarmi il tuo numero, così in questi casi posso avvertirti.
Parlava tenendo il naso immerso nel vapore che usciva dalla tazza e lo guardava, cercando di trascinarlo nella conversazione, ma lui sembrava imbambolato.
  • Domani vai in biblioteca? – disse, allora.
  • S-sì, ma fino all’anno nuovo farò mezza giornata. – rispose, agitando le mani intorno alla tazza calda. – Più tardi andrò a cercarmi un lavoro part time per queste due settimane.
  • Potresti chiedere a Pit.
Di solito, durante le vacanze di Natale la nipote di Pit tornava dai genitori, in un’altra città ed era sempre alla ricerca di qualcuno che potesse sostituirla. Spiegando la cosa ad Edward, vide un certo sollievo sul suo viso, come se gli avesse dato la soluzione ad un gravoso problema.
  • Edward, posso farti una domanda? – chiese, ancora incerta.
  • C-certo. – fece lui, stringendo la tazza.
  • Come mai hai bisogno di tanti lavori?
Lui sbiancò. Lasciò che il suo sguardo si perdesse nel suo, senza sapere da dove cominciare. Marina non sapeva ancora niente di lui, non sapeva la verità. Da dove avrebbe cominciato?
  • Se ti disturba, non rispondere. Non voglio forzarti.
  • O-oh no, non è questo. È una lunga storia. – non riusciva più a sostenere il suo sguardo.
  • Scusa se te lo chiedo, ma a volte mi fai preoccupare.
Marina guardava altrove, mentre confessava quel piccolo dettaglio.
  • Vedi… - cominciò, quasi per inerzia. - …mia madre è morta quando avevo 18 anni e con me è rimasta solo mia nonna.
  • Oh. – da quando aveva cominciato a parlare, le sue orecchie erano tese come quelle di un segugio. Finalmente avrebbe saputo la verità su Edward.
  • Mia nonna è in un ospizio e la sua pensione non basta e poi…ci sono Ben e Jef. – rifletteva su quei nomi, guardando nella tazza.
  • Tuo padre e tuo fratello? – azzardò lei.
  • No! – alzò di poco la voce e si portò la mano ai capelli, per scaricare l’ansia. – Il mio patrigno e il mio fratellastro. Mia madre si è risposata dopo che mio padre l’ha lasciata.
Mentre tirava fuori quelle informazioni, una ad una, sentiva di essere più leggero. Non riusciva più a guardare Marina negli occhi, ma sentiva che lo stava ascoltando.
  • E tu sei l’unico che lavora? – continuò lei.
  • Già. – rispose, prendendo un sorso dalla tazza.
  • Perché loro non lavorano?
  • Beh…gli fa comodo che lo faccia io.
Nel petto di Marina stava cominciando a montare una rabbia che non le apparteneva, ad ogni risposta di Edward le sembrava tutto più confuso, più insensato.
  • E non ti sei ribellato? – chiese d’impulso, troppo presa da quel sentimento sgradevole.
Quando l’ultima parola uscì dalla sua bocca e risuonò nella stanza, gli occhi del rosso si alzarono dritti nei suoi, freddi come non li aveva mai visti. Il silenzio era agghiacciante mentre quell’espressione di solito morbida, si pietrificava quasi in una smorfia. Come se stesse cadendo dalle nuvole, Marina riprese coscienza della sciocchezza che aveva detto quando vide il livido sullo zigomo e il labbro ancora malridotto. Aprì la bocca, cercando di dire qualcosa, ma seppe solo boccheggiare, mortificata.
Edward sentiva che la stanza cominciava a girare, il sangue aveva preso a circolare troppo velocemente mentre liberava il petto dal peso della sua storia, ma era tutto ancora così confuso, così lontano dal sollievo e così lontano dal dolore. Marina lo avrebbe fatto impazzire.
  • Non posso andarmene da quella casa, perché è l’eredità di mio nonno e non voglio lasciargliela, ma il testamento è sparito ed io non so da dove cominciare.
Prese a guadare fuori dalla finestra, puntando gli occhi sulla strada innevata. La gente camminava spensierata sul marciapiede e lui avrebbe voluto essere una persona qualsiasi con i problemi che ha una persona qualsiasi.
Marina restava in silenzio, ancora assorbita dal gelo che sentiva sulla pelle dopo quelle rivelazioni. Finalmente aveva scoperto chi fosse a ridurre così il ragazzo della biblioteca, ma il suo sguardo affilato le graffiava ancora l’anima, soffocandola.
  • Mi dispiace, io… - lui tornò a guardarla, perso nel vapore del the. - …non volevo essere inopportuna. Non sono affari miei.
  • I-in realtà volevo dirtelo, m-ma non sapevo cosa avresti pensato di me. – rivelò lui. Ormai si era lasciato andare e non c’era bisogno che si imponesse altri limiti.
  • Se vuoi possiamo chiamare Pit e chiedergli del lavoro.
Gli occhi di Marina, circondati dalle lunghe ciocche castane scombinate, gli chiedevano silenziosamente perdono, ma non era arrabbiato con lei, solo che quando parlava di quella storia aveva sempre una brutta sensazione che non sapeva gestire.
  • Mi faresti un grande favore. – rispose allora, come un normale essere umano.
Lei si alzò per prendere il telefono e lo lasciò solo. Ancora scossa dalla verità, compose il numero del suo capo e portò l’aggeggio all’orecchio, ripensando a quanto Edward dovesse sopportare.
Gli rimediò un appuntamento per quel pomeriggio e tornò da lui, che finalmente si era tolto il cappotto e beveva il the dalla tazza con un’aria più rilassata.
Seduta di nuovo davanti a lui gli comunicò che il capo lo aspettava nel pomeriggio per parlare del lavoro e lui la ringraziò sommessamente, facendo poi calare il silenzio.
Con la coda dell’occhio la vedeva tormentarsi le mani e comprese che forse aveva esagerato, guardandola in quel modo, non era sua intenzione farla sentire in colpa.
Scostò il busto dallo schienale della sedia e si sporse verso di lei, tendendo la mano verso la sua. Le sue dita tremavano mentre si poggiavano sulle sue, ma era così che si faceva, no? Le sue mani erano fredde e lisce sotto i suoi polpastrelli da chitarrista.
  • Scusa, non volevo metterti a disagio. – disse, così flebilmente da riuscire appena ad ascoltare la propria voce.
  • No, Edward – rispose lei, fissando la sua mano sulla propria e sentendone chiaramente il tremore.  – è colpa mia, sono stata sciocca. Perdonami.
Le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso mentre si allontanava e tornava a prendere la tazza.  La campana della chiesa suonò le 12:00.
  • Vuoi pranzare con me?
 
Marina aveva delle manine d’oro o forse era stata solo fortunata. Il pranzo era il momento che preferiva della giornata e quando lo trascorreva con lei, era ancora meglio. Il gelo che era calato su di loro era svanito del tutto alla prima forchettata di spaghetti e al primo aneddoto d’infanzia che lei gli aveva raccontato. Aveva lavato i piatti al suo posto, per non farle prendere altro freddo, tanto ci era abituato. Quando si voltò di nuovo verso di lei, la vide aprire un vecchio portatile nero pieno di graffi ed inserire la password del suo account. Immediatamente si ricordò di dover andare all’internet point, ma era domenica.
  • M-marina, ti dispiacerebbe se dopo facessi una ricerca col tuo portatile? – indicò spontaneamente l’apparecchio con l’indice, quasi cercando di evitare l’uso della parola. Era ancora scombussolato dalla sua confessione. Ancora troppo incredulo.
  • Certo che no. – rispose lei, serenamente. – Cosa devi cercare? – chiese, aprendo la pagina di Google.
  • Delle informazioni su un avvocato. Foster.
Marina digitò subito il nome dell’uomo e quello della città, chiedendosi se quella ricerca centrasse qualcosa con quello che le aveva appena raccontato. Google aveva trovato i risultati in 0,45 secondi e lui si piegò dietro di lei, per riuscire a leggere sullo schermo. Fremeva al punto di non riuscire a distinguere le lettere.
Fece scorrere gli occhi sui primi tre risultati, curandosi di notare che le fonti fossero certificate e che i siti internet appartenessero ad un avvocato, niente di inerente  a Yahoo Answers o simili.
Sentiva chiaramente il suo respiro urtare sulla spalla di Marina, troppo intenta a scacciare dalla mente alcuni pensieri.
Il secondo risultato recitava “Studio Legale Foster&Martins – Londra” e senza pensarci, troppo preso dalla voglia di sapere, allungò la mano sul touch e guidò il puntatore sul link del sito. Nemmeno sentì la mano di Marina scattare al suo sfuggente tocco.
La pagina completò il download dei dati ed una schermata elegante si presentò ai suoi occhi.
Il silenzio più totale avvolse la stanza mentre acquisiva tutte le informazioni possibili, ma non riusciva a trovare alcuna connessione tra quel documento misterioso e gli intramezzi inseriti nel sito.
  • Trovato qualcosa? – chiese lei, per spezzare la tensione che percepiva.
Stava per rispondere di no, ma poi uno slogan gli saltò agli occhi e fu certo che quello fosse proprio l’avvocato che cercava: “Hai perso i tuoi beni? Qualcuno vi ha privati della vostra eredità? Lo studio Foster&Martins è esperto in cause di appropriazione indebita!”.
Se ricordava bene cosa ci fosse scritto su quel foglio, allora Ben si era rivolto all’avvocato Foster per ottenere la casa di suo nonno come bene privato. Sentì il sangue sciogliersi nelle vene, non perché non ci fosse nulla da fare, ma perché non sapeva assolutamente dove avrebbe trovato le prove per dimostrare che Ben fosse un furfante. Cosa doveva fare? Non era nemmeno certo che fosse proprio quello il motivo o che fosse proprio lui, l’avvocato in questione, ma…cosa avrebbe fatto se fosse stato davvero così? La gola secca lo fece deglutire, facendo alzare lo sguardo di Marina, la quale gli chiese qualcosa che neanche riuscì a comprendere.
  • Edward? – riprese lei – Stai bene?
La sua mano sottile sull’avambraccio lo riscosse dal suo stato e mosse la testa in segno d’assenso, anche se bene non stava di certo. Doveva farsi venire un’idea, intanto avrebbe segnato numero e indirizzo dell’avvocato, sperando in un’illuminazione.
Chiese a Marina carta e penna e lasciò che lo osservasse mentre scriveva, probabilmente confusa dal suo atteggiamento.
  • Edward. – disse, richiamando la sua attenzione. Quando incontrò i suoi occhi, riprese a parlare. – Se dovessi avere bisogno di una mano, chiedi pure.
  • Oh. – i suoi occhi azzurri vagarono sul suo viso, studiando la sua espressione statica, un po’ come la Monna Lisa. – Non vorrei disturbarti.
  • Non mi disturbi. – sorrise. – Chiaro?
Espirò, rilassando l’addome, mentre la vedeva digitare qualcosa. Uno strano calore gli salì al petto realizzando quanto Marina fosse gentile, ma aveva paura a coinvolgerla. Al pensiero che Jef potesse allontanarla da lui, il sorriso che si stava dipingendo sul suo volto svanì, lasciando posto alla solita ombra che gli oscurava lo sguardo.
Marina fingeva serenità, mentre digitava qualche parola della sua tesi, ma il pensiero che Edward fosse solo e vivesse l’inferno in terra, la turbava in modo inaspettato. Cercava di osservarlo di sottecchi, ma più lo faceva, più veniva coinvolta dalla sua presenza. Lo vedeva lì, in piedi, che guardava fuori dalla finestra e non sapeva cosa dire. Si chiese come mai avesse deciso di confidarsi con lei: fino al giorno prima avrebbe giurato che non le avrebbe mai raccontato nulla spontaneamente, poi le spiattellava la cruda verità nel giro di cinque minuti. Sospirò, pensando che il ragazzo della biblioteca fosse – nonostante tutto – ancora un mistero. Il ticchettio dell’orologio le ricordava che alle 15:30 Ed avesse un appuntamento con Pit, avrebbe voluto accompagnarlo, ma non poteva rischiare di far salire di nuovo la febbre.
  • Mi dispiace non poterti accompagnare. – disse.
  • Dove? – sembrò risvegliarsi.
  • Da Pit, per il lavoro. – spiegò, senza smettere di guardare lo schermo.
  • Hai già fatto abbastanza, pensa a rimetterti.
Il suo tono era piatto e grave, insolito persino per lui, ma non ebbe il coraggio di fare ulteriori osservazioni. Due ore dopo, trascorse in silenzio, lo accompagnò alla porta. Sembrava ancora turbato e stanco.
  • Scusa se ti ho disturbato. – disse, passandosi una mano tra i capelli.
  • Edward…
  • Grazie, Marina. Ah- - e si interruppe. Lo sguardo interrogativo di lei gli fece salire il sangue alla testa, - T-ti va di scambiarci i numeri?
Un’improvvisa morsa le prese il petto mentre udiva quelle parole, dovette sforzarsi di ignorare quelle sue guance rosse e l’aria da bambino, altrimenti avrebbe totalmente perso il controllo di sé. Marina non si era mai sentita così in tutta la sua vita.
 
Inspiegabile. Ogni cosa. Il modo in cui le aveva raccontato di sua madre e di Ben, la disinvoltura con cui aveva pranzato in casa sua e poi chiederle il numero di telefono. Si sentì uno sciocco mentre percorreva la strada verso l’Hawking e sperava di aver digitato correttamente tutti i numeri sul suo vecchio cellulare. Quando fu fuori al pub, notò per la prima volta che da quando aveva cominciato a lavorare lì, la sua paura degli esseri viventi si stava affievolendo. Per non parlare del fatto che si era ubriacato col capo, al solo pensiero di un liquore gli si rivoltava lo stomaco e il pensiero di Ben gli offuscava la mente. Si decise a salire i gradini d’ingresso, portandosi dietro il peso dei suoi pensieri. Non appena il campanello suonò, entrando, Pit ondeggiò verso di lui con in mano il suo solito bicchierino e indosso le sue bretelle. Il calore della stanza e del sorriso di quell’uomo, sciolsero i muscoli del suo viso e gli permisero di sorridere lievemente.
  • Vedo che i lividi stanno andando via. Bene!
Si pietrificò nel sentire quell’affermazione, ma dovette riprendere lucidità ad una pacca sulla spalla. Ridacchiò sommessamente e lo seguì inerme ad un tavolo. Seduto sulla panca, si sentiva spaccato a metà: un piede nella fossa scavata da Ben e l’altro nella favola scritta da Marina e dalla fortuna che gli stava portando. Per la prima volta, si sentì del tutto fuori dal suo corpo, incapace di far prevalere un’emozione o di prendere qualsiasi decisione. Sospettò che il capo avesse notato la sua distrazione.
  • Fino alla fine dell’anno. Ti sta bene?
  • S-sì, certo signore. – rinvenne.
  • Il turno è dalle 19:00 a mezzanotte dal martedì al venerdì, il sabato e la domenica dovrai suonare. Solito orario.
Strinse la mano tesa del capo e cominciò ad organizzare mentalmente le due prossime settimane. Sarebbero state un vero e proprio inferno, ma almeno aveva un lavoro.
Con i piedi pesanti, uscì dall’Hawking e riprese la strada verso il centro. Cercò l’indirizzo dello studio Foster&Martins, ma sembrava non corrispondere a quello che aveva trovato sul sito. Probabilmente avevano cambiato sede e non avevano aggiornato la pagina. Perfetto. Gli toccava fare ulteriori ricerche. Una chiesa in lontananza batteva le 16:30 e si decise per tornare a casa. Magari avrebbe scoperto altre informazioni.
Riprese a pedalare sulla via principale della città, semideserta, lasciando che i negozi e i bar chiusi gli sfrecciassero di fianco. Scivolò aldilà della porta di casa più silenziosamente che poteva ed entrò in cucina per fare del the. Sentì il respiro pesante di Ben provenire dal piano superiore e si tranquillizzò. Il calore del fornello gli scaldava le mani, mentre costatava che in cucina non ci fossero altri documenti. Una scintilla gli accese lo sguardo, mentre si allontanava dal fuoco per andare nel salotto in cui Ben aveva ricevuto le sue visite. Il respiro si appesantì e la tensione gli prese lo stomaco, la porta cigolò e l’aria fredda della stanza gli entrò nei polmoni. Ad un primo sguardo, sembrò che non ci fosse nulla, poi la sua attenzione cadde su una vecchia teca piena di vecchie scartoffie: come nascondere un ago in un pagliaio. Si voltò verso la porta per assicurarsi che non ci fosse nessuno e andò a controllare, ma quando cercò di aprire l’anta di vetro, la scoprì chiusa a chiave. Quella teca era di sua nonna e una chiave non l’aveva mai avuta. Subito osservò la serratura ed una nuova e brillante sostituiva quella di vecchia data che ricordava. Tirò giù le maniche del suo maglione nero, in un gesto di riflessione. Mentre cercava di connettere le informazioni che aveva ai suoi ricordi, la teiera fischiò facendolo sobbalzare. Se nessuno l’avesse fermata Ben si sarebbe svegliato e si sarebbe insospettito, così scattò verso la porta per uscire il prima possibile da quella stanza, ma non appena varcò la soglia, andò a sbattere contro Jef.
  • Che cazzo fai?! – urlò quello, spingendolo via.
  • Jef- - sentì i suoi occhi chiari rimpicciolirsi per la sorpresa. Avrebbe scommesso di avere i capelli rossi ritti in testa.
  • Perché diavolo correvi, idiota? – la sua espressione corrucciata si abbinava perfettamente al suo sguardo sospettoso. – Eri in salotto? Cosa cercavi?
Le sue collane oscillarono quasi contemporaneamente quando fece un passo verso di lui, per interrogarlo. Ed cercò di simulare indifferenza, ma in quel momento gli sembrò quasi impossibile, tanta era la preoccupazione che Ben si svegliasse.
  • I-io… - l’espressione di Jef non prometteva nulla di buono, lasciando trasparire tutti i suoi dubbi. - …cercavo i miei guanti. – Che lampo di genio. – Non li trovo più.
L’espressione di Jef tornò quella di sempre come se qualcuno stesse riavvolgendo un nastro e immediatamente Ed si tranquillizzò, ma non osò muoversi.
  • Ce li ho io, idiota. – disse, schifato.
  • A-ah! Va bene.
Chiuso il discorso, riprese la marcia verso la teiera. Il rumore assordante dei suoi pensieri era più fastidioso della voce di Jef che gli ricordava che quella sera sarebbe dovuto tornare al Lanthern.
Alle 23.57 entrò di nuovo in quel tugurio, col cuore in gola. Lungo la strada, la neve aveva cominciato a coprire ogni cosa e sperò di riuscire a tornare a casa. Si diresse allo stesso tavolo della volta precedente e – stretto come non mai nel suo cappotto blu – attese che Tyler parlasse.
  • Di nuovo tu. – si limitò ad annuire. – Allora non sono stato chiaro. Hai riferito il mio messaggio? – annuì di nuovo, anche se non poteva vedere i suoi occhi, nascosti dal vecchio cappello. – Cosa mi hai portato?
Infilò la mano nella tasca interna del suo cappotto e ne estrasse la busta che Jef gli aveva affidato quella mattina. Finalmente, Tyler alzò gli occhi e alla vista della busta cambiò espressione. Ed strinse più forte il pacco, teso, ignorante sul contenuto di quell’involucro. Sentì l’adrenalina scorrergli nelle vene mentre quello infilava una mano in tasca e ne tirava fuori una nuova scatolina, identica a quella per cui aveva già fatto da corriere.
  • Dì a Jef che la prossima volta lo voglio qui, il conto non è ancora saldato.
Posò la scatolina sul vecchio tavolo e tese la mano per avere la busta. Ed non riusciva ancora a capire cosa stesse combinando il suo fratellastro e quanto lui stesse rischiando di essere coinvolto ma, probabilmente, meno ne sapeva e meglio era. Gli cedette il pacco ed afferrò la scatola, per poi alzare la mano in segno di saluto e voltarsi per andare via. Per qualche strano motivo, sentiva che quel Tyler si fidava di lui, come se sapesse che Jef fosse un idiota e lui un povero coinvolto. In ogni caso, non c’era da fidarsi. Il barista gli fece l’occhiolino, serio e discreto, ricordandogli di nascondere la roba – qualunque cosa fosse.
Sotto la neve, riaprì il fanale. Accovacciato sulla bici, guardò la piccola scatola avvolta nello scotch da pacchi e l’annusò: non sentì niente. Il rumore di uno scooter in lontananza lo fece sobbalzare, così sistemò la merce e rimontò in sella.
Dopo la prima curva, col vento a favore, pensò di potersi tranquillizzare, lasciando che la stanchezza lo prendesse lungo la strada, così appoggiò tutto il peso sul manubrio e non si voltò indietro.
La strada davanti a lui era deserta e buia – Meglio – pensò, ma quel suo inusuale ottimismo si annullò quando una volante della polizia gli tagliò la strada, attivando la sirena.
  • Fermo! Polizia!
L’uomo in divisa gridò da dietro lo sportello aperto, tenendo in mano una pistola. Frenò così bruscamente che cadde, scivolando sulla neve. Il cuore prese a martellargli nel petto, la paura a bloccare i suoi muscoli, il respiro era incontrollabile – lo avrebbero scoperto immediatamente, soltanto guardandolo in faccia. Non aveva mai fatto uso di droghe, fino a quel momento, era pulito e la roba era nel fanale. L’asfalto ghiacciato sotto le dita e la voce dell’agente, lo aiutarono a mettere in moto il cervello più velocemente.
  • Alzati in piedi e alza le mani.
Che lo avessero visto? Eseguì l’ordine cercando di mantenere il controllo, doveva fare la mossa giusta. Sentì uno sportello chiudersi e dei passi raggiungerlo, la voce di un secondo poliziotto gli parlava.
  • Voltati!
Non voleva finire in galera. Doveva fare qualcosa. Prima che quello fosse troppo vicino, prese un profondo respiro e fece del suo meglio per distendere il viso pietrificato.
  • Voltati! – e lo fece.
La luce dei fari dell’auto gli illuminò il viso, ma non avrebbe mai saputo dire quale fosse la sua espressione, sentiva solo le dita addormentarsi a causa delle braccia alzate. Il poliziotto lo perquisì velocemente, accertandosi che non fosse armato.
  • Disarmato. – e abbassarono le pistole. – Documenti, ragazzo.
Con la pressione più bassa, allungò la mano in tasca e ne tirò fuori i documenti. Il poliziotto li esaminò e sembrò essere tranquillo, ma la sua speranza di essersela cavata svanì nuovamente quando un cane scese dall’auto abbaiando. Unità cinofila.
L’altro agente lo seguì correndo e giunsero immediatamente al fanale della bici. Ogni latrato era come una scossa. L’agente puntò la torcia sulla dinamo, pietrificandolo. Credette di essere spacciato, mentre l’altro agente gli restituiva i documenti. Il cane continuava ad abbaiare e lui voleva sotterrarsi. Doveva essere bianco come un lenzuolo, si sentiva finito, ma come se qualcuno stesse ascoltando le sue preghiere, la radio della volante si attivò e attirò l’attenzione degli agenti.
  • C’è stata una sparatoria a due chilometri da qui. Rinforzi.
Nel giro di pochi secondi sgommarono via, lasciandolo solo, confuso e stremato.
Edward era ancora in piedi accanto alla sua bici, cercando di riprendere a respirare normalmente, le dita formicolanti passavano nervosamente tra i suoi capelli, cercando di riprendere il controllo. Respirò a pieni polmoni l’aria gelida e dopo diversi minuti, riuscì a calare la testa all’indietro e a chiudere gli occhi azzurri, ritenendosi salvo. Quella giornata sembrava non finire mai. Guardò la bici e si convinse a riprendere la strada verso casa, stringendo il manubrio così forte da non sentire neanche il freddo e la neve che gli gelavano le nocche.






Angolo autrice:

Eh si, capitolo moooolto più lungo del solito, ma ho pensato che dividendolo il due si sarebbe perso un po' il senso della cosa e che io stessa mi sarei scocciata di aspettare la seconda parte, quindi...doppio capitolo - in uno.
Finalmente Ed svela qualche verità, dunque, può avere inizio il travaglio! Da questo capitolo in poi, cominceremo a divertirci sul serio.
Non vedo l'ora di pubblicare il prossimo capitolo, muhahahaha!
Ok, sono in uno stato confusionale, quindi perdonatemi.
Fatemi sapere cosa ne pensate e cosa vi aspettate che accada da qui in poi. :)
Buona domenica!

S.



Bonus: Ed versione pagliaccio. (Volevo inserire i suoi vari travestimenti, ma avrei dovuto creare un album fotografico. U_U)

 

 

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Capitolo 12
*** XII ***




XII




Le era sembrato che Ed fosse stranamente assente, quasi come se si fosse perso in un mondo al quale poteva accedere solo lui. Era sempre stato timido e schivo, lo sguardo perso, ma quando lo aveva visto alzare gli occhi dal portatile, aveva avuto come l’impressione che qualcosa in lui si fosse rotto.
Quella notte il sonno l’aveva abbandonata, ma non era colpa dell’influenza, quella era già passata – e avrebbe giurato che fosse merito della presenza di Edward – ciò che la teneva sveglia era invece un presentimento. Aveva una certa paura annidata nel petto, del tutto insensata per lei, e non sapeva come scacciarla via. Non sapeva più se fosse preoccupata per Edward, per se stessa o per entrambi.
Era giunta alla conclusione che lo avrebbe aiutato come poteva, da buona amica, ma sapeva che calarsi in quella situazione significasse mettere in gioco il suo cuore – davvero. Era sulla buona strada per innamorarsi di Edward definitivamente e non sapeva spiegarsi come o perché.
 
Mancavano pochi giorni a Natale e i suoi alunni fremevano sulle sedie, impazienti di mostrare alle proprie famiglie le opere d’arte prodotte durante l’anno. La mostra organizzata dalla scuola si sarebbe tenuta di lì a pochi giorni e si dovevano ultimare i preparativi, ma avrebbe dovuto farlo da sola. Jody sarebbe stata dimessa dall’ospedale quel pomeriggio e non appena terminato il lavoro, sarebbe andata a trovarla, anche se questo significava non vedere Edward. La biblioteca non era più contemplata nei luoghi da frequentare a causa dei suoi doppi turni, ma aveva la certezza che quel sabato lo avrebbe rivisto.
Controllava in modo ossessivo il suo cellulare, sperando in un sms o in una chiamata persa, ma il display era sempre vuoto. Sperava che se Edward avesse avuto un problema, l’avrebbe contattata.
  • Maestra, cosa fai a Natale?
  • Oh, lo trascorrerò con la mia famiglia. Tu cosa farai, Jack?
  • Io resterò a casa con mio fratello, sai, ha la varicella e non può uscire. – il bambino si guardava i piedi, in imbarazzo. – Non voglio che resti solo.
Era per questo che amava i bambini: sono l’amore in potenza.
Distolse per un attimo lo sguardo, cercando di non far notare la sua commozione, poi gli diede una carezza e gli disse di essere fiera di lui. Quando quello si voltò, tornò al suo posto col sorriso sul volto. Sua madre la aspettava impaziente a Londra, come ogni anno e lei non poteva certo mancare. Sorrise al pensiero di rivederla.
Dopo la fatica dell’ora di pranzo e delle lezioni del pomeriggio, salutò i suoi alunni e si lasciò andare sulla sedia con un tonfo. Sospirò, sciogliendosi i capelli e sfilandosi il camice sporco, pensando a quanto fosse ancora lunga la giornata: erano solo le 16:00 e doveva ancora fare la spesa, andare a trovare Jody e studiare. Guardò l’aula ordinata, ma pensò che ci fosse qualcosa di sbagliato in quel silenzio, così – senza permettere al malumore di conquistarla del tutto – si alzò per andare via.
Con i capelli nel cappotto, uscì al freddo chiudendosi la porta alle spalle, e si avviò immediatamente al supermercato. Lungo la strada, distratta com’era, non si accorse di essere stata affiancata da una figura, così, quando rivolse lo sguardo dall’altra parte, lo spavento la fece sobbalzare. Spalancò gli occhi e fece un passo indietro, realizzando che la persona che le era di fianco non era certo qualcuno che volesse incontrare.
  • Ciao. – la sua voce simulava innocenza.
  • Uhm… - fece, storcendo il naso. Era proprio lui.
  • Mi chiamo Jef.
Non strinse la mano tesa del ragazzo, i suoi occhi sembravano studiarla senza sosta e quel suo sguardo la infastidiva. Piuttosto, era curiosa di sapere cosa volesse da lei.
  • Va bene. – e ritirò la mano. – Non volevo spaventarti. Ti chiami Marina, vero?
  • Come sai il mio nome? – chiese, senza cercare di essere cortese.
  • Edward mi ha detto un gran bene di te. Siete amici, no?
Per un secondo credette di aver affrettato il suo giudizio, ma non riusciva a ricredersi: lo sguardo che aveva Edward quando discuteva con lui, non le piaceva.
  • Sì, siamo amici. – tagliò corto e riprese a camminare, ma lui la seguì.
  • Ti avevo notata in biblioteca, sei molto carina. – Lui continuava ad affiancarla con le mani in tasca, ma senza mai smettere di guardarla.
  • Io non ti avevo notato.
  • Mi chiedevo se…tu e Edward foste fidanzati.
Il rossore che si dipinse sulle sue guance la tradì senza via di scampo.
  • N-no, solo amici. – rispose, stringendo i pugni nelle tasche.
  • Bene, allora posso invitarti a prendere un the?
La sua voce era cristallina, ma era falsa e recitata peggio di una soap opera spagnola. Tenne lo sguardo fisso dinanzi a sé e declinò l’offerta.
  • No, scusami. Devo andare.
Avanzò il passo e svoltò sulla strada principale, dritta verso casa di Jody, al diavolo la spesa.
  • Non mi arrendo così!
Furono le ultime parole che udì prima di entrare nel portone del condominio della sua migliore amica.
 
  • Marina! Che bello vederti!
La abbracciò, felice come non mai di rivederla serena e in forma. Si accomodò accanto a lei sul divano e si servì da sola del the.
Carezzando il pancione di Jody, apprese da lei stessa che avrebbe partorito entro i primi giorni dell’anno nuovo e avrebbe chiamato suo figlio Christopher.
  • Come suo padre. – sorrise, ricordando il marito di Jody.
  • Lui ne sarebbe felice. – rispose quella, pacata.
Christopher era un pompiere ed era morto diversi mesi prima per salvare un neonato da un incendio. Una vita per una vita, ma Jody era così in sintonia col marito, che affermava sempre di sapere cosa esattamente lui stesse pensando quando entrò nell’edificio in fiamme e per quel pensiero, quell’ideale, lei si sarebbe presa cura di suo figlio anche per lui. Marina gli voleva bene e dopo la sua morte aveva chiesto a Jody di essere la madrina del bambino. Era il meglio che poteva offrire.
Guardò il vapore uscire dalla tazza e si chiese come avrebbe fatto senza di lei durante la mostra e durante la visita al museo, ma il pensiero che la sua amica fosse in una fase così delicata, fece sparire ogni traccia di egoismo.
  • E come va col bel tenebroso?
Era da parecchio che non ne parlavano, dato che non voleva farla preoccupare, ma ormai doveva confessare o lei avrebbe insistito ad oltranza.
  • Beh, sai, adesso lavora all’Hawking sia come cameriere che come cantante. Sabato si è ubriacato e ha dormito da me e-
  • Cosa?! – La mora sgranò gli occhi, sporgendosi verso di lei.
  • Non potevo certo rischiare di farlo morire assiderato! – tentò di giustificarsi.
  • Certo che no, ma-
  • Tranquilla, ha dormito sul divano. – disse, pregando che non insistesse su quel punto. – Ieri ha pranzato da me per puro caso e mi ha raccontato la sua storia.
  • Ho-ho! Allora, qual è la vera storia del belloccio?
Quando Jody sentiva odore di pettegolezzi le si illuminavano gli occhi. Raccontò per grandi linee ciò che Edward le aveva confidato, ma la reazione della sua amica la stupì.
  • Foster&Martins? Conosco questo studio. – disse, aggrottando lo sguardo. – Mio zio lavorava per il signor Foster come segretario.
  • Davvero? – sperò di poter ricavare qualche informazione utile per Edward.
  • Certo, era lì che andavo anni fa dopo la scuola. Davo una mano a zio Fred che aveva il colpo della strega. – spiegò Jody.
Tuttavia, Marina si rese conto di non sapere cosa chiedere alla sua amica per aiutare Edward. Doveva parlare con lui, solo allora avrebbe potuto essergli utile.
  • Jody, hai ancora contatti con tuo zio?
  • Certo, se hai bisogno di qualcosa…
  • Te lo farò sapere.
  • Piuttosto, cosa c’è tra voi due? – il tono della domanda era tipico delle vecchie bigotte che spettegolano in chiesa la domenica mattina.
  • Assolutamente niente! – rispose, sventolando le mani in segno di diniego.
  • Vallo a raccontare a un’altra, io ti conosco come le mie tasche. Tu sei cotta, bella!
Desiderò sprofondare quando Jody partì col suo sproloquio riguardo quanto rosse diventassero le sue guance quando parlava di lui o di quanto fosse distratta da quando lo aveva conosciuto. Lei stessa doveva riconoscere che il suo stato d’animo era diventato estremamente variabile. Per quanto Jody la buttasse sullo scherzo, dietro le sue parole la sua amica nascondeva sempre una profonda sincerità ed aveva ragione quando le diceva di dover essere sincera con se stessa e con lui.
  • Ma Jody, lui non mi vede così, siamo solo amici.
  • Ma se ti ha chiesto il numero!
  • Non è come credi, lui è così timido e spaventato, non è come gli altri. Ha bisogno di tempo anche per considerarsi davvero mio amico, figurati cosa potrebbe accadere se gli confessassi che ho una cotta per lui. Non voglio rovinare questo rapporto.
  • Se ti innamori di lui, sorella, sei fritta.
 
Lo splendido “incoraggiamento” di Jody non era servito a risollevarle il morale, ma mentre si arrampicava sullo scaffale per prendere i cereali, era felice di avere un aggancio per quella testa rossa. Un vero colpo di fortuna. Si aspettava da un momento all’altro di vederlo comparire dal nulla per aiutarla a prendere quella scatola, ma dovette cavarsela da sola.
Si chiese dove fosse, se avesse qualche nuovo livido o se fosse in qualche bar a lavorare, per quell’ora. Il display era ancora vuoto e lei moriva dalla voglia di raccontargli dello zio di Jody, ma non osava scrivere per prima, dimostrandosi ancora una volta un’adolescente in piena crisi. A 23 anni non riusciva a scrivere ad un ragazzo per trasmettergli una semplice informazione, ma era QUEL ragazzo, era Edward.
Ah, Marina, quando capirai la differenza tra l’infatuazione e l’amore? Ci avrebbe pensato mentre faceva la fila alla cassa.
Quasi trascinò le buste fino a casa, ma riuscì a varcare la soglia giusto prima che si scatenasse la tempesta. Cenò sul divano, da perfetta zitella, col pigiama infilato nei calzini e la vestaglia abbottonata fino al collo, cercando di andare avanti con la tesi.
Come un lampo, le tornò alla mente quel tipo viscido che l’aveva seguita quel pomeriggio. Se aveva capito bene, quello doveva essere il fratellastro di Edward, l’aiutante cattivo della vicenda. Per quale motivo si era avvicinato a lei, pur sapendola amica del rosso? Non si fidava di lui, anche se all’apparenza poteva sembrare un tipo – diciamo – apposto. Un po’ lugubre, ma chi era lei per giudicare.
Il rumore dei vetri che vibravano al vento forte, le metteva sempre una tremenda angoscia e il buio copriva anche la luce dei lampioni, quella notte. Ormai non riusciva più a studiare, tantomeno a scrivere la tesi, data la burrasca e la stanchezza, così richiuse il portatile e si decise per andare a letto. Impostò la sveglia, intrecciò i capelli e si infilò sotto al piumone, patendo la solitudine che un letto vuoto regala ogni notte. Con la lampada ancora accesa, lasciò che i pensieri fluissero dove capitava, da Edward a Jody, da Jody alla scuola, dalla scuola a Edward. Edward e i suoi occhi. Edward e i suoi capelli. Edward e le sue spalle. Prima ancora che l’orologio segnasse la mezzanotte, si assopì, sperando che l’indomani la bufera fosse passata.
 
STUD, STUD, STUD.
L’aria le sibilò in gola per lo spavento, facendola scattare come una molla.
STUD, STUD, STUD.
Non lo aveva sognato. Cercò di accendere la lampada, ma scoprì di essere senza elettricità, probabilmente a causa della tempesta.
STUD, STUD, STUD.
Le si sciolse il sangue nelle vene. Chi diavolo era a quell’ora? Era paralizzata al centro del letto e non riusciva in alcun modo a muoversi.
STUD, STUD, STUD.
I ladri? Un maniaco? Un barbone? Non avrebbe scommesso nulla su nessuno dei tre, ma quando ripresero a bussare alla porta, dovette prendere un profondo respiro ed allungare la mano al cassetto del comodino per recuperare la torcia. Dopo un paio di tentativi, riuscì ad illuminare la stanza. La sveglia sul comò segnava le 2:00 e chiunque ci fosse là fuori, continuava a bussare.
Ormai terrorizzata, stava per chiamare la polizia. Prese il cellulare tra le mani e quando lo sbloccò, trovò una lunga serie di chiamate perse da parte di Edward. Sbiancò. Doveva essere successo qualcosa. Ricompose il numero, incurante dello sconosciuto che insisteva a bussare alla sua porta. Doveva essere un incubo, ancora un po’ e si sarebbe svegliata.
Uno squillo, due e poi rispose.
  • Edward! – disse allarmata, ma un colpo di tosse la interruppe. – Edward, stai male? – Quasi piangeva.
  • Apri! – un altro colpo di tosse. – Sono qui fuori!
Immediatamente abbandonò il cellulare sul letto e si diresse alla porta, facendosi luce con la torcia. La strada fino all’ingresso le sembrò infinita, quasi scivolò sul tappeto e ancora un dubbio la prese prima di aprire. Quando sentì la tosse di lui aldilà della blindata, non ebbe più il controllo di sé ed aprì.
Cadde davanti a lei, sul tappeto dell’ingresso.
  • Edward! – le mancava il respiro. – Cosa-?
Tossiva e aveva le mani sporche di sangue. Si inginocchiò accanto a lui e spostandogli i capelli dal viso, capì che fosse ferito.
  • Cristo! – e cominciò ad afferrarlo. – Entra! Riscaldati!
Quando prese le sue mani, credette che sarebbe morto congelato da un momento all’altro. Non riusciva a spiegarsi cosa fosse accaduto.
L’assenza di elettricità non l’aiutava, ma riuscì a trascinarlo al divano. Diffuse la luce grazie ad una bottiglia di vetro, così fu in grado di accendere due candele in breve tempo e di portarle accanto a lui.
  • Cosa ti è successo? – chiese, mentre gli sfilava il cappotto pieno di neve, scoprendolo ancora in divisa da lavoro. – Parla, Edward.
  • Mi- - e tossì ancora. – Mi hanno investito. – disse d’un fiato.
  • Merda!
Corse a prendere bende e disinfettante in bagno, lasciandolo solo per meno di 5 secondi. Quando fu di nuovo accanto a lui, prese a tamponare il taglio che aveva sulla fronte, perdeva troppo sangue. I vetri continuavano a tremare quando, venti minuti dopo, l’emorragia si era fermata e Marina poté procedere a medicarlo e a pulirlo. Alternava tosse e mugolii, stringendo il pugno sulla stoffa del divano per sopportare il dolore. Le tremavano le mani mentre gli fasciava la testa come poteva, ancora scossa, ancora convita che si sarebbe svegliata a momenti. Con gli occhi spalancati e le mani ancora sporche di sangue sul suo viso, si rese conto che lui fosse reale.
  • Sei ferito in qualche altro punto?
  • Non è niente. – disse flebilmente.
  • Dove? – insistette lei.
Le mostrò la mano destra, gonfia e livida. Trattenendosi dal piangere o dal fare domande, Marina medicò anche quella.
Soltanto alle 3:15 i suoi battiti decelerarono e preparò del the per aiutarlo a scaldarsi. Edward riposava sul divano, ma senza chiudere gli occhi. Era pallido come chi ha visto la morte in faccia.
  • Vuoi dirmi cosa è successo? – chiese, cercando di sembrare, come dire…dolce.
  • Ero al lavoro, al bar. Quello dove mi hai visto quella volta, ricordi? – l’immagine di lui in divisa le attraversò la mente. – Il capo ci ha lasciati andare troppo tardi, il cancello di casa mia era bloccato dalla neve e così avevo pensato di andare al rifugio. – Tossì ancora, alla luce della candela. – Poi, un’auto ha perso il controllo e mi ha preso in pieno.
Lo vide portarsi la mano fasciata alla fronte, espirando lentamente.
  • Non si è fermato ad aiutarti. – costatò.
  • Avrà pensato che fossi morto.
Il solo pensiero la turbava.
Versò il the e glielo porse, sedendosi accanto a lui.
  • Marina-
  • Zitto. – lo rimproverò. – Non dire niente.
Si sentì trafitta dai suoi occhi ed evitò il suo sguardo.
  • Grazie. – sibilò lui, guardando dall’altra parte.
  • Mi basta che tu sia vivo.
La sua voce incrinata sorprese persino lei. Era una dalla lacrima facile, ma non credeva di essere sull’orlo del pianto. Si passò una mano sugli occhi per farsi passare il magone, poi il calore della sua mano le si posò sulla schiena. Si voltò d’istinto e lo guardò, vedendo sul suo viso un sorriso sincero, per la seconda volta da quando lo conosceva.
Forse quell’affermazione contava per lui più di quanto lei potesse credere. Quello era il suo vero, silenzioso ringraziamento.
Non disse una parola e si accoccolò accanto a lui, lasciando che il resto del suo braccio scivolasse sulle sue spalle. Senza malizia, certo, ma sentì i suoi occhi trapassarle l’anima. Finì per poggiarle la mano sulla spalla, continuando a bere il the.
La sua tosse rompeva il silenzio e quando non la sentì più, seppe che si era addormentato. Sfilò la tazza ancora calda dalle sue mani e andò a recuperare il vecchio maglione del suo ex. Non aveva altro da dargli e di certo non poteva restare in camicia e gilet.
  • Edward… - lo scosse. – Ti aiuto a mettere qualcosa di comodo.
Lui aprì gli occhi a stento, ma la assecondò senza pensarci troppo, data la stanchezza. Lasciò che lei gli sbottonasse il gilet e così la camicia ormai sporca, dimenticando che in quel modo lei avrebbe potuto vedere i lividi che gli coprivano ancora il torace. La vide portarsi una mano alla bocca e lei, d’altro canto, non riuscì a trattenersi dal compiere quel gesto. Il livido viola che gli copriva lo sterno si vedeva anche attraverso la canotta bianca che indossava e spiccava in modo orribile sulla sua pelle chiara. Lo vide voltare il viso per non guardarla, vergognandosi e ancora una volta Marina provò rabbia. Sdegno. Quale essere umano poteva essere capace di una cosa del genere?
Una lacrima le pizzicò gli occhi quando trovò il coraggio di sfiorargli il viso per guardarlo ancora in faccia, sentendo chiaramente la sua barba sotto i polpastrelli. Lasciò sostare il palmo sulla sua guancia.
Edward chiuse gli occhi, strofinando il viso sulle sue dita, senza alcuna insicurezza. Un gesto che probabilmente non avrebbe più avuto il coraggio di fare, ma le circostanze gli permettevano di desiderare di più di una semplice sosta. La carezza di Marina era la cura.
Non nacque alcun sorriso sui loro volti e lei, con la treccia poggiata sulla spalla, arrossì e ritirò la mano soltanto molto tempo dopo. Il buio la aiutò a nascondere l’imbarazzo, mentre lo aiutava ad indossare quel maglione. Gli ridiede il cuscino e la coperta e lasciò la candela accesa sul tavolo, nella tinozza con l’acqua. Quando si voltò di nuovo verso di lui, stava già dormendo.
Sfiorandogli la fronte costatò che non avesse la febbre, ma il suo sonno era inquieto. Accovacciata di nuovo accanto a lui, desiderò avere una lampada magica per regalargli i suoi tre desideri. Ora che lo aveva al sicuro, sul suo divano, al caldo, non poteva resistere dal guardarlo e sperare che ogni cosa andasse per il meglio. Il suono del suo respiro cominciava a risultarle familiare, eppure sarebbe rimasta lì ad ascoltarlo per ore.
Ancora non sapeva spiegarsi da quale incantesimo fosse stata colpita, ma la sua presenza le infondeva serenità, il saperlo al sicuro le placava l’animo. Voleva proteggerlo da tutto e da tutti.
Sospirò e prima di andare via, gli lasciò un bacio sulla pelle calda.
Fuori la tempesta continuava ad infuriare.









Angolo autrice:

Ciao bella gente!
Ho adorato scrivere questo capitolo, non so perchè. Spero sia piaciuto anche a voi e che la storia in generale sia di vostro gradimento.
In ogni caso, fatemelo sapere in una recensione!
Ringrazio i miei abituali recensori - siete bellissimi - e i lettori silenziosi.
Ci vediamo prossimamente con un nuovo aggiornamento.
A presto!

S.




Jody:


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Capitolo 13
*** XIII ***











 
XIII




Aveva avuto un incubo quella notte, ma non lo ricordava più. Il suono delle campane arrivava flebile alle sue orecchie, mentre apriva gli occhi e lasciava che la luce lo aiutasse a riprendere coscienza. La prima sensazione che riuscì a distinguere, fu la serenità che gli appianava il petto. Respirava e non se ne accorgeva, cominciando a distinguere il contorno della finestra della cucina di Marina. A giudicare dal numero di rintocchi, doveva essere tardi e lui non si era presentato al lavoro.
C’era il sole fuori.
Si ricordò che non era la prima volta che dormiva su quel divano e che solo lì riusciva a svegliarsi riposato. I muscoli cominciavano a sciogliersi mentre cercava di tirarsi su, controllando lo stordimento provocato dalla ferita. Un flash dell’incidente gli ricordò di essere vivo per miracolo. Aveva ruzzolato per parecchi metri, fino a sbattere al muro di un palazzo. Quel bastardo aveva sgommato e l’aveva lasciato lì.
Si portò la mano buona alla testa, percependo il bendaggio di Marina intrufolarsi tra i suoi capelli: doveva avere un aspetto orribile. Si alzò e guardò l’orario sul campanile: erano le 12:30 del martedì prima di Natale e le strade erano completamente innevate.
Quando si voltò, chiamandola, vide un biglietto sul tavolo. Riconobbe immediatamente la sua scrittura.
 
“Buongiorno Edward!
Se vuoi fare colazione, c’è il latte in frigo e the e cereali nel mobiletto sopra il lavello.
Ho chiamato all’ufficio comunale e li ho informati del tuo incidente, ti hanno dato due giorni di riposo.
Io torno nel pomeriggio, intanto fa come a casa tua. Riposati.
 
Marina”
 
Due giorni di riposo. Sperò che fossero pagati.
Quando entrò nel bagno e vide il suo riflesso allo specchio, lo sguardo turbato di Marina gli tornò alla mente. Si portò una mano al petto, alla ricerca del suo livido, ma sentì solo la lana pettinata di quel vecchio maglione verde.
Che vergogna – si disse, mentre spettinava ulteriormente i ciuffi rossi che fuoriuscivano dalle bende. Ancora si chiedeva come non fosse scoppiato a piangere mentre lei gli carezzava il viso. Il ricordo nebuloso delle sue dita gli strinse la gola.
Rimase sorpreso di se stesso, mentre analizzava quel sentore di emozione, ma il gorgoglìo del suo stomaco prese il sopravvento sulla sua improvvisa tachicardia, così – senza fare troppi complimenti – andò a fare colazione.
Un eroe non può combattere a stomaco vuoto, giusto?
La sua doppia porzione di cereali lo aveva del tutto svegliato. Come d’abitudine, rimise in ordine e lavò le tazze sporche e poi si ritrovò senza niente da fare.
Il pensiero di Ben e del suo inevitabile ritorno a casa, cominciava a preoccuparlo. L’unica cosa che poteva fare per salvarsi la pelle, era avvertirlo e girare la frittata a suo favore. Digitò il numero di casa sua sul suo vecchio cellulare e attese una risposta. Lo squillo gli rimbombava nell’orecchio in modo insopportabile.
  • Ben. – disse, udendo risposta.
  • Dove cazzo sei?
  • I-ieri nella bufera – deglutì – m-mi hanno investito. Tranquillo, oggi lavoro.
  • Meglio per te, Ed. Se non torni a casa con la paga, resti fuori. Chiaro?
  • Lo so. – disse, cercando di controllarsi.
  • Vedi di sbrigarti a tornare, Jef deve parlarti.
Riattaccò di botto, ma la sua ultima frase lo aveva riportato ad un nuovo problema. Doveva parlare con Jef: non aveva più intenzione di fare da corriere dopo il rischio che aveva corso. Non voleva guai con la legge, non voleva guai e basta. Ne aveva già troppi. Se aveva dei conti da regolare, avrebbe dovuto vedersela da solo, non voleva certo finire pestato o ucciso da qualcun altro. E poi, Tyler era stato chiaro: voleva Jef, non lui. Sarebbe stato difficile uscire fuori da quella storia, lo sapeva, ma in quel caso non aveva niente per cui lottare. Faceva tre lavori e si prendeva botte per non perdere la casa di suo nonno e per mantenere la nonna, ma della droga non gliene fregava niente.
Sua nonna quel pomeriggio aspettava la sua visita intorno alle 18, forse avrebbe potuto chiederle qualche informazione sulla teca, su Foster e sul testamento di suo nonno.
Chiedendo il cambio turno con il suo collega del bar – passando dal venerdì al lunedì –, poteva gestire i tre lavori e cercare di mettere da parte qualcosa per la sua bici, che ora giaceva sotto la neve, semidistrutta. Si infilò il cappotto e il cappello, prese le chiavi della porta dal tavolino all’ingresso e scese in strada. Il riflesso della neve gli illuminava il viso ancora pallido, mentre scavava con la mano buona.
Ben presto, quel vecchio ferro riemerse e ad una prima occhiata sembrava riparabile, ma non sarebbe costato poco. Se ricordava bene, su quella strada c’era un meccanico.
 
Ritornato in casa, più leggero di troppe sterline, si lasciò andare sul divano. Era stanco, ma non riusciva a smettere di fremere. Aveva del tempo libero e non riusciva a sfruttarlo al meglio. Il portatile di Marina era poggiato sul tavolo, ma non conosceva la password d’accesso e non si sentiva di scriverle al lavoro solo per quello, anche se – ci avrebbe scommesso – lei sarebbe stata gentile come sempre. Quella notte ne era stata la dimostrazione.
Si passò una mano sul viso, chiudendo gli occhi, senza sapere più gestire i suoi pensieri. In un certo senso, tra le sue preoccupazioni, ora rientrava anche Marina, anche se non sapeva spiegarsi ancora perché. Quando pensava a lei, entrava in un immotivato stato d’agitazione.
L’ozio che aveva tanto desiderato, il riposo che tanto agognava, lo stava catturando lentamente, di minuto in minuto. Si addormentò seduto sul divano, annullando del tutto il mondo circostante. Andava bene così. Dopo la botta che aveva preso alla testa, aveva bisogno di riposo, infatti Marina non lo svegliò una volta rientrata. Lo trovò immobile sul divano giallo, col capo poggiato sullo schienale e il petto che si gonfiava al suo respiro lento. Gli mise una coperta addosso e attese che fossero le 17:00 per svegliarlo.
Aprì gli occhi e se la trovò davanti.
  • Ho preparato il the. – disse lei, sussurrando.
Sbattè le palpebre, cercando di mettere a fuoco i suoi dettagli. Il suo profumo di lavanda doveva essere impregnato nel maglione rosso che indossava, perché lo sentiva distintamente nella stanza.
  • Non c’era bisogno che lavassi i piatti. Hai riposato? Ho visto che hai recuperato la bici.
Sentiva un che di nervoso nella sua voce, come se fosse agitata.
  • Ho riposato. – disse soltanto, stropicciandosi gli occhi.
Prese la tazza di the dalle sue mani ancora fredde e le fece posto, vedendola sedersi accanto a lui.
  • Senti Ed – fece lei, prendendo fiato – è da ieri che volevo dirtelo.
  • Uhm? – non avrebbe mai indovinato.
  • Ho un’informazione che può esserti utile. – e cominciò a tormentarsi i capelli.
Ed si chiese cosa mai avesse da dire di tanto importante. Le aveva raccontato qualcosa, ma non conosceva certo il vero problema. Rimase in silenzio, ma lei capì di dover continuare.
  • Lo zio di Jody era il segretario dell’avvocato Foster ed ha ancora contatti con lui.
Questo cominciava a cambiare le cose. Aveva un aggancio. Sicuramente avrebbe scoperto quale fosse la sede dello studio e che tipo di lavoro svolgeva quell’avvocato.
  • Davvero?! – disse, avendo cura di non lasciarsi trasportare troppo.
  • Jody ha detto che può metterti in contatto con lui, se dovessi averne bisogno.
  • Sarebbe fantastico.
Marina sorrideva davanti a lui, ma leggeva ancora impazienza nei suoi occhi.
  • Edward…
  • C-cosa? – disse, improvvisamente in imbarazzo.
  • Potrei esserti d’aiuto se mi raccontassi il motivo per cui cerchi l’avvocato Foster.
Oh. Marina voleva sapere la verità, il motivo della sua ricerca. Dirglielo non gli sarebbe costato nulla, ma…aveva ancora paura di coinvolgerla. Le avrebbe portato via del tempo, energie. E se le fosse successo qualcosa?
  • Marina, i-io non vorrei coinvolgerti. – cominciò, con l’espressione tesa in una smorfia di imbarazzo e preoccupazione. Si rigirò la tazza tra le mani.
  • Non sarebbe un problema. – rispose lei. – E poi, ormai, sono coinvolta comunque.
Non la guardò in viso e rimase in silenzio, senza sapere come comportarsi davanti a tutta quella premura. Sentì le guance diventare del colore dei suoi capelli.
  • Scusa se sono insistente, è solo che vorrei aiutarti. – concluse allora lei, guardando il fondo della tazza.
Il resto dell’aria che aveva nel petto, svanì con un rapido sospiro. Edward, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, sentì il peso di quella catenina tirargli il collo. Marina si stava aggrappando a lui come se fosse una scalata semplice, ma – umano com’era – non riusciva né ad aiutarla a salire, né a convincerla a scendere. La verità era che la sua presenza gli faceva bene – ed eccola di nuovo, la sensazione della sua carezza – ma aveva paura. Esattamente come cinque anni prima.
  • Ben… - e lei si voltò, forse non aspettandosi che parlasse. - …credo che stia cercando di appropriarsi della casa.
  • Come?! – sussurrò quasi a se stessa.
  • Mio nonno, prima di morire, lasciò un testamento. – fece mente locale. – nel quale dichiarava che i suoi beni appartenevano soltanto ai suoi parenti diretti. – e la guardò. – Io sono il suo primo parente diretto, dopo mia madre. Non aveva mai sopportato Ben o Jef.
  • Ma come-?
  • Come siamo arrivati a questo? – disse, senza evitare i suoi occhi. – Due mesi dopo la morte di mio nonno, mia madre ebbe l’incidente e morì. Il giorno dopo, il testamento di mio nonno era sparito nel nulla.
  • Non era stato ancora letto? – chiese, esprimendo i suoi dubbi.
  • No. Il notaio che lo aveva controfirmato si era ammalato e nessuno sapeva dove fosse conservato se non lui. Quando si è rimesso e gli abbiamo chiesto il testamento, ha detto che non era più al suo posto.
  • L’avete cercato?
  • Certo. Io, con le mie mani, ho aiutato il notaio ad aprire ogni fascicolo e a svuotare ogni cassetto. Ho cercato in casa, tra i documenti, sotto le mattonelle. Non ho trovato nulla.
Marina cominciava a mettere insieme i pezzi.
  • Da allora, Ben smise di lavorare e ho cominciato a mantenere io la famiglia.
  • Perché?
  • Te l’ho detto. – rifletté lui. – Se non portavo i soldi a casa, mi lasciava fuori e mia nonna sarebbe stata abbandonata a se stessa, se io avessi dovuto pagare un affitto. Così, invece, resto in casa mia, i soldi dell’affitto li uso per mia nonna, mi occupo io di qualsiasi problema, senza dover chiamare alcun idraulico o elettricista. Così, riesco a mantenermi, ma…
  • Ma Ben…
  • Beve.
Marina rabbrividì all’idea di lasciarlo tornare in quella casa.
Edward rifletteva sulle altre cose che Marina non sapeva: Jef, la droga. Quello non gliel’avrebbe mai confessato.
  • Ma se te ne vai, sfuggiresti almeno a lui.
  • No. Una volta me ne sono andato, ma lui è venuto a cercarmi. Gli faceva ancora comodo che fossi in casa, altrimenti avrebbe dovuto fare tutto lui.
Marina, ancora sconvolta, beveva il suo the.
  • Ti va di conoscere mia nonna?
 
La donna che aveva davanti, elegante come poche, le aveva baciato la guancia con le lacrime agli occhi, dopo aver visto suo nipote conciato in quel modo. L’aveva ringraziata mille volte di averlo aiutato, ma leggeva nei suoi occhi una gratitudine diversa e lei l’aveva capita al volo. Annuì, quando lei le sorrise.
Evangeline mostrava a suo nipote i risultati delle analisi, ma Ed non fu molto felice. I valori alterati da lungo tempo, cominciavano a precipitare. Sua nonna non era più in forma. La guardò, cercando di simulare, ma Marina riusciva a scorgere nei suoi movimenti una preoccupazione quasi paterna.
  • Nonna – cominciò a parlare. – devo parlarti di una cosa.
  • Chi devo abbattere? – fece quella, col bastone tra le mani.
Ma Edward non rise e raccontò a sua nonna degli ultimi eventi. Marina venne a conoscenza del documento che Ed aveva trovato sul tavolo della cucina e cominciò a pensare davvero che Ben volesse appropriarsi della casa. Non c’era altra spiegazione.
  • Quel maledetto figlio di buona donna. Lo avevo detto a tua madre che non mi piaceva. – disse, guardando altrove. – E così, si è rivolto a Foster&Martins. È uno studio legale antico. Anche tuo nonno se ne servì, in passato.
  • Hai presente la tua teca dei documenti, in salotto? – quella annuì. – Ben ha cambiato la serratura ed ora è chiusa a chiave. Credo che dentro ci siano i documenti di tutti gli avvocati che ha ricevuto in questi giorni.
  • Hai provato a forzarla? – chiese Marina.
  • Non posso. Se cominciassero a sospettare di me…finirebbe male. Perderei l’occasione.
  • Tuo nonno aveva un passepartout che usava quando andava al lavoro. Cercalo in cantina, tra i suoi attrezzi.
Ad Edward brillarono gli occhi, ricordando esattamente l’aspetto della valigetta di suo nonno.
  • E nonna – Evangeline annuì. – So che te l’ho chiesto mille volte, ma non ricordi se il nonno avesse conservato una copia del testamento?
Prima ancora che la vecchia rispondesse, Marina intervenne.
  • Il notaio, per legge, deve avere più di una copia dell’originale. Non possono essere sparite tutte.
  • Infatti è sparito l’intero fascicolo. – rispose lui.
  • Ma deve esserci una copia burocratica. Un magazzino.
Edward sospirò.
 
Quando furono fuori dall’ospizio, era buio e fioccava. Ogni tanto Ed tossiva e spezzava il silenzio che permeava l’aria durante il ritorno a casa di Marina. Dopo averla riaccompagnata, si sarebbe diretto all’Hawking pub per la sua prima sera di lavoro da cameriere. Avrebbe nascosto la mano livida sotto la manica del maglione. Il cerotto che aveva in fronte era passabile, Pit lo avrebbe perdonato.
  • Edward, se dopo il lavoro vuoi venire a dormire da me, non farti problemi. Sei senza bici e casa tua è lontana.
Arrossì, vedendola così in imbarazzo mentre parlava. In effetti, non aveva ben riflettuto su quanto la cosa potesse essere imbarazzante oltre che strana, per lui. Aveva superato la fase di accettazione quel sabato, stava lavorando alla sua trasformazione, ma solo ora cominciava ad aprire gli occhi. Il fatto era che Marina lo faceva sentire a suo agio abbastanza da poter accelerare i tempi. Magari con qualcun altro si comporterebbe ancora come un disagiato, ma ciò non gli dava la libertà di eliminare alcuni fattori: Marina era una ragazza, una donna. E lui era un uomo. E lei era bella e gentile. E lui non poteva dormire sempre sul suo divano.
  • N-non ti preoccupare. Vado a casa.
Lei annuì silenziosamente, troppo in imbarazzo per la semplice proposta, non avrebbe mai potuto insistere. Avrebbe dovuto sopportare la preoccupazione.
  • Allora buon lavoro. – disse lei, sul gradino del suo portone.
  • Grazie di tutto. – rispose lui, avendola alla propria altezza. – Davvero.
Marina sorrise e lui non riuscì più ad aggiungere altro. Distolsero lo sguardo e dondolarono sul posto, senza riuscire a salutarsi del tutto. Marina si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e fece vagare gli occhi verdi su di lui. Le faceva tenerezza, ma quel comportamento era già un grande progresso.
Edward, vedendola così piccola e gentile, si fece di nuovo prendere dalla preoccupazione, ma non riuscì a negare a se stesso il fatto che ormai lei fosse sua amica. Le voleva bene. Voleva il suo sostegno.
Come si saluta un’amica?
  • C-ci vediamo domani. – cominciò a dire. – Buonanotte.
  • Se hai bisogno, chiamami. – disse lei. – Salutami Pit.
  • Lo farò.
Sembrò che lei volesse dire qualcosa, ma si frenò. Quella sera non gli carezzava il braccio per salutarlo?
  • A domani. – aggiunse lui.
Col coraggio tra le mani, fece un passo verso di lei e con le labbra strette in una morsa, le fece una carezza.
Marina rivide in lui un bambino. Sorrise e lo abbracciò di slancio, tenendolo stretto non troppo a lungo. Prima di andar via, piena di vergogna, gli diede un fugace bacio sulla guancia, poi scappò nel portone.
Ed, imbambolato sul posto, cercava di gestire in silenzio il battito del suo cuore.





Angolo autrice:

Salve bella gente!
Mentre pubblico questo capitolo, sto scrivendo l'ultima parte della storia e comincio a sentirmi poco soddisfatta. Sarà che questo esame mi ha fatto perdere un po' il filo del discorso, ma sapete com'è - prima il dovere e poi il piacere.
Spero di non pentirmi di ciò che sto scrivendo.
Anyway, vi ringrazio per le recensioni e perdonatemi se non ho risposto, ma la mia testa era altrove!
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo e della storia, mi raccomando. :)
A presto,

S.


 

! - Un piccolo schizzo che ho realizzato oggi, spero vi piaccia! :)




 

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Capitolo 14
*** XIV ***








 
XIV




La luce penetrò all’interno della vecchia cantina ed illuminò i mulinelli di polvere che si avviluppavano in aria. La vecchia porta di ferro cigolò ancora una volta quando la bloccò al muro. L’odore di quel luogo era inconfondibile per lui: profumo d’infanzia. Si ricordava ancora di se stesso che intagliava il legno con la schiena curva e i capelli rossi scompigliati.
Anni dopo, rientrava in quel posto da adulto, nelle sue Vans rotte, il doppio dell’altezza, un carattere diverso, ma alcune cose non erano cambiate. Ad esempio, i suoi occhi erano luminosi proprio come allora, mentre ricordava.
Ben credeva che stesse cercando degli attrezzi per riparare l’anta di un armadio, per questo lo aveva lasciato in pace. Quando lo aveva visto col cerotto e la mano bendata, non aveva – ovviamente – avuto il minimo riguardo per lui, chiedendogli immediatamente di preparare la colazione e rendersi utile. Quella mattina sembrava stesse aspettando qualcuno, ma per quanto volesse restare lì per scoprire di chi si trattasse, lui o Jef lo avrebbero mandato via e più tardi Ben lo avrebbe conciato per le feste. Negli ultimi giorni sembrava che non si curasse più di tanto di prenderlo a botte, ma questo non era un buon segno come si poteva credere. Stava soltanto accumulando.
Dunque, eccolo lì che cercava di approfittare del momento e trovare il passepartout di suo nonno. Nella vecchia cantina polverosa, erano conservati vecchi fiaschi di vino, una volta pieni, la sua vecchia bici con i nastri rossi, la sua prima chitarra. Sapendo di non avere tempo da perdere, si diresse in fondo alla stanza, alla ricerca della cassetta degli attrezzi. Nei vecchi mobili che suo nonno raccattava e usava per conservare le sue cose, sembrava non esserci. Ogni volta che spostava qualcosa non faceva altro che riempirsi di polvere e starnutire, facendo pulsare la ferita ancora dolorante sulla testa. Cercava di non usare la mano malridotta, ma evidentemente il ritrovamento della cassetta aveva un prezzo, poiché riuscì a trovarla soltanto spostando una pesante botte e per farlo, necessitava di entrambe le mani. Si morse il labbro per dirottare il dolore, mentre tirava fuori la vecchia valigetta da una vecchia nicchia scavata nel muro. Tossì e l’aprì, scacciando via la polvere.
Il frastuono degli attrezzi risuonò nei suoi timpani facendogli strizzare gli occhi: tra i cacciaviti e le pinze da lavoro, il passepartout di suo nonno gli si presentò proprio davanti agli occhi. Era di vecchia data e sospettò che sarebbe stato inutile per la sua impresa, ma legato ad esso c’era un set da fabbro per aprire le porte.
Grazie nonno – pensò, richiudendo la cassetta e riponendola dove l’aveva trovata, come se suo nonno potesse ancora rimproverarlo di non rimettere le cose al loro posto. Quando fu fuori, richiuse la porta di ferro e nascose la chiave in un vecchio vaso. Nemmeno Ben sapeva dove fosse, non se n’era mai interessato e quel dettaglio qualche volta gli era stato utile: spesso, quando lo lasciava fuori di casa, riusciva a trovare la chiave nel buio e a passare la notte lì dentro.
Percorse il giardino per tornare sul fronte della casa e fece per rientrare, quando qualcuno lo chiamò dal cancello. D’istinto, nascose gli oggetti in tasca e si diresse verso l’uomo con la 24h che aspettava al cancello. Ci aveva visto bene.
  • Salve ragazzo, è questa casa Sheeran? – aveva un tono di voce simpatico. Gli occhiali rotondi e i baffi grigi, gli davano l’aria di un vero inglese.
  • Sì, signore. – disse, raggiungendolo. Si stava congelando senza cappotto.
  • Cerco il Signor Benjamin Storm.
  • Prego, entri. – sua madre gli aveva insegnato le buone maniere, quindi lo lasciò entrare, anche se quel cappotto elegante, il cappello e la valigetta, gli ricordavano tanto il documento che aveva trovato sul tavolo. Per quanto ne sapeva quel signore poteva essere l’avvocato Foster.
  • Grazie, ragazzo.
Quando oltrepassò il cancello, disse il suo nome.
  • Io sono James Bingley, perito del comune.
Perito.
Fece finta di niente e lo guidò in casa, passando sul vialetto che aveva appena spalato. L’uomo si guardava intorno, con sguardo analitico e attento.
Non appena aprì la porta, Ben vide l’uomo dietro di lui e cancellò la sua smorfia demoniaca, lasciando posto ad un largo sorriso.
Diede il benvenuto all’uomo col fare di una persona gentile ed umile. Se solo Bingley avesse saputo cosa stesse succedendo, forse l’avrebbe guardato in modo diverso. Si accomodarono in salotto e lui fu spedito a preparare il the.
Prima di tornare al cospetto di Ben, corse in camera sua a nascondere il passepartout nel suo armadio e quando tornò sulle scale, diretto in cucina, incontrò Jef.
  • Stasera devi tornare al Lantern. – disse, freddo come il ghiaccio.
La sua espressione doveva essere radicalmente mutata, perché il suo fratellastro alzò un sopracciglio in segno di confusione.
  • No, Jef. Tyler vuole te. – disse per l’ennesima volta.
  • Non mi interessa cosa abbia detto Tyler, stanotte devi tornare lì.
  • L’altra sera stavano per scoprirmi, non ho intenzione di andare in galera. – disse, più coraggioso del solito.
  • Invece ci andrai, idiota, che tu lo voglia o no. – fece per avviarsi al piano di sopra, superandolo, ma Ed lo fermò, trattenendolo per un braccio.
  • No. – disse ancora – Io lì non ci torno. Non sono il tuo cor-
Furono bruscamente interrotti dal rumore della porta del salotto che si apriva e dal chiacchiericcio di Ben e Bingley.
  • Vede, questa è la sala da pranzo…
Si avviarono nella stanza e Ben non si risparmiò di guardare entrambi in modo truce.
  • Ne parliamo più tardi, idiota, ma mettiti in testa che tu ci andrai.
Jef gli voltò le spalle ed andò via.
Lo guardò fino a perderlo di vista, poi si diresse in cucina a versare il the. Quando si diresse in salotto, i due non c’erano. Poggiò il vassoio sul tavolino antico e abbassandosi potè scorgere alcuni fogli spuntare dalla borsa aperta del signor Bingley.
“Ordine di perizia causa intervento legale…” e il buio nascondeva il resto delle parole.
Posò definitivamente il vassoio e dopo aver guardato alla porta, infilò la mano nella valigetta e prese il documento. I capelli gli davano fastidio mentre cercava di leggere in fretta e il respiro si era quasi interrotto.
“Ordine di perizia causa intervento legale da parte del Sign. Benjamin Storm, col sostegno dell’avvocato Foster di Foster&Martins.
 
Il suddetto Benjamin Storm, residente al civico 7 di Backtown Street, richiede l’intervento della pubblica amministrazione nella perizia e valutazione dell’immobile che occupa, causa dispersione di testamento.
La perizia sarà effettuata dal pubblico perito James Bingley, neutra parte del caso, eletto da un consiglio pubblico ed estraneo alla vicenda, su richiesta dell’avvocato Foster.
…”
 
Saltò la parte centrale, troppo lunga da leggere e spostò gli occhi alla conclusione del testo.
 
“La perizia verrà effettuata al fine di stabilire l’approssimativo valore dell’immobile e delle sue singole parti, per eventuale vendita al comune od appropriazione debita secondo la Legge 137bis/art.4”
 
 I passi pesanti di Ben arrivarono alle sue orecchie giusto in tempo, posò il foglio nella valigia e – non seppe come – riprese il vassoio tra le mani, facendo finta di essere appena arrivato nella stanza.
  • Vede, James, mia moglie è morta in un tragico incidente ormai cinque anni fa e siamo rimasti soli, io e mio figlio, così… - Ben stava parlando di sua madre? Figlio?
  • E lui chi è, di grazia? – fece il perito, indicandolo platealmente. Ben sbiancò. Evidentemente era così assorto dalla sua messa in scena da non essersi accorto della sua presenza.
  • L-lui, James, è il mio figliastro. – disse, probabilmente sperando che Bingley non venisse affatto a conoscenza della sua identità.
  • Piacere, Edward Sheeran. – disse di proposito, facendo scattare una scintilla negli occhi dell’uomo, il quale strizzò gli occhi da dietro gli occhiali rotondi.
Sotto lo sguardo minaccioso di Ben, lasciò la stanza e corse in camera sua a segnare quelle nuove informazioni sulla sua agenda. Si passò una mano tra i capelli, nervoso. Doveva parlare con Jef e doveva trovare il modo di recuperare tutte le prove che incontrava lungo il percorso, così segnò il nome del perito sull’agenda, nel caso avesse voluto recuperare quel documento.
Si lasciò cadere sul letto, in attesa che Bingley andasse via e si mise a giocherellare con la catenina dorata che continuava a portare, nascosta sotto i maglioni. Avrebbe potuto ottimizzare i tempi mettendo ordine in quella stanza, ma lasciò che il pensiero volasse a Marina, che a quell’ora doveva essere al lavoro, a scuola. Quando sentì la voce di Ben salutare al cancello, andò a cercare Jef, bussando alla sua camera per la seconda volta da quando lo conosceva.
Quello aprì la porta scocciato, ma fu evidente che non si aspettava di vederlo.
  • Io al Lantern non ci vado. – disse, avendo intuito di averlo trovato impreparato.
  • Non costringermi a chiamare mio padre. – minacciò, sentendosi alle strette.
  • Se finisco in galera al posto tuo, dovrete farmi uscire per andare al lavoro e non credo che tuo padre voglia spendere soldi per me.
Quel ragionamento filava perfettamente e Jef cominciò a pensare. Non voleva andare da Tyler, ma se avessero beccato Edward, suo padre gli avrebbe tagliato i viveri e non avrebbe più avuto la sua dose a poco prezzo. La cauzione, in quel paese, era cara come l’oro. Il pensiero dell’astinenza lo fece rabbrividire, rendendo il suo volto ancora più pallido. Cosa doveva fare?
  • Tyler mi ha fatto capire che se mi fossi presentato ancora io, non mi avrebbe dato nulla.
Capì di aver giocato la carta giusta quando Jef lo guardò dritto negli occhi, senza nascondere la paura che provava. Davvero era ridotto a quel punto? Dopo lunghi attimi di silenzio, si limitò ad annuire e poi chiuse la porta, facendo tintinnare le sue collane.
Non poteva crederci. Era riuscito a svincolarsi da quel vampiro. Fece per voltarsi, ma non ebbe neanche il tempo di pensare che Ben lo aveva afferrato per il collo del maglione. Picchiò la testa contro il muro.
  • Come ti permetti di minacciare mio figlio? – i pugni gli stringevano la gola e non riusciva a respirare. – Non spenderei una sterlina per te, ma mi fai ancora comodo, ragazzino.
Lo lasciò andare e tossì.
  • Tuttavia… - riprese, avvicinandosi. - …non osare mai più provare a mettermi i bastoni tra le ruote con chiunque entri in casa mia.
Il colpo partì veloce come una freccia e lo colpì prima al viso e poi alle coste, facendolo piegare in due. La botta alla testa aveva annullato i suoi riflessi, così non riuscì a reggersi in piedi. Un calcio. Due. Tre. Era così ogni volta. Quando per qualche giorno lo lasciava in pace, finiva per sfogare tutta la sua rabbia in una sola volta. Mentre lo picchiava, gli chiese se fosse necessario presentarsi con nome e cognome.
Lo rialzò in piedi, senza alcun senso di umanità, e lo colpì alla ferita dell’incidente. Come se non bastasse, notando la mano fasciata, gliela schiacciò col piede quando cadde nuovamente a terra.
Non aveva bevuto, quindi si voltò e andò via. Quando invece era ubriaco, continuava fino a che non si stancava. Tossì, portandosi una mano alla testa e si rialzò soltanto diversi minuti dopo. Nel bagno della sua stanza si medicò come poteva, cercando di sgonfiare la mano e il viso con l’asciugamano zuppa di acqua fredda. Soltanto ad ora di pranzo riuscì a rendersi presentabile. Preparò il pranzo, ma non mangiò. Uscì nel freddo, cercando di ignorare il dolore e gli sguardi della gente.
 
Aveva recuperato la bici ed era passato sotto casa di Marina. Per quanto desiderasse vederla, non osò nemmeno accostarsi al suo portone conciato in quel modo. Avrebbe rivisto di nuovo quella sua espressione turbata e non voleva che la sua presenza la abbattesse. Lei era l’unica spalla forte che gli era rimasta. Sua nonna – lo sapeva – stava per abbandonarlo. Si sentì insieme egoista e vigliacco, uno scarto di se stesso, ma per quella giornata avrebbe tollerato il suo malumore.
Avendo ancora qualche ora a sua disposizione, si diresse all’internet point per fare qualche ricerca. La presenza di un perito in casa sua l’aveva allarmato, aprendogli gli occhi sulla gravità della situazione. Anche domani poteva essere troppo tardi.
Frenò all’esterno di una semplice saletta quadrata, il cui muro frontale, quello che dava sulla strada, era coreograficamente trasparente. Di vetro. Chiunque passasse di lì, poteva vedere le persone all’interno e in quel momento sembrava affollato, ma non doveva tirarsi indietro, quella era l’ultima mattinata libera che aveva.
Lasciò la bici appoggiata al muro ed entrò. Si scrollò la neve di dosso, cercando di simulare indifferenza agli sguardi dell’intera stanza, poi si sfilò il cappotto e si diresse all’unica postazione libera. Si passò una mano nei capelli e tirò fuori gli occhiali dal tascone della sua felpa. Il suo maglione si era sporcato di sangue.
Quello sgabello lo portava ad assumere una postura non solo scorretta, ma che gli acuiva il dolore al torace. Ma bando alle ciance, doveva sbrigarsi e approfittare.
Con un click aprì la pagina di ricerca e digitò immediatamente il numero della legge citata nel documento di Bingley.
“137bis/art.4”
I risultati erano innumerevoli, ma potè capire subito – facendo scorrere gli occhi sullo schermo – che si trattava di una legge che gli interessava. Per leggerne la dicitura, entrò nel sito ufficiale del governo e lesse:
“[…] I beni del soggetto verranno trasmessi secondo le volontà citate nel testamento entro i tempi e nelle modalità previsti dalla legge (art.5). In assenza di testamento, la trasmissione dei beni avverrà secondo la legge patrimoniale L. 122. In caso di smarrimento del documento testamentale ufficiale, il bene mobile o immobile, appartiene per la legge precedentemente citata ai diretti parenti di sangue. In caso di morte o di rinuncia di uno di essi, la parte acquisita ha diritto di ricevere in eredità parte del bene, in vece della persona deceduta o rinunciataria.”
Quella era la conferma che Ben stava cercando di appropriarsi della casa di suo nonno. Tutto tornava: sua madre era morta ed il testamento era scomparso, questo lo rendeva di diritto ereditario della casa. Di parte della casa.
Guardò sulla sua agenda le informazioni che aveva riportato sul documento di perizia e si rese conto che esaurito un dubbio, se ne presentavano altri: secondo quelle informazioni, Ben aveva chiesto la perizia per conoscere il valore della casa per venderla e/o per essere risarcito dal comune di tale somma. In entrambi i casi, lui avrebbe perso parte della proprietà e non avrebbe potuto più recuperarla. Non con le sue finanze. Tuttavia, si chiese a quel punto, cosa avesse da nascondere Ben. Non aveva alcun motivo di nascondergli la cosa, tanto sapeva che non poteva fare niente e che il testamento era sparito. E perché mai, tra tutte le sue conoscenze, non aveva scelto un perito di parte?
Il groviglio che aveva nel cervello cominciò ad infittirsi, ma almeno aveva chiaro cosa stesse accadendo. Per il momento, l’unica vera possibilità che aveva era ritrovare il testamento di suo nonno, data la mancanza di prove. Passò all’articolo 5, informandosi sui suoi diritti di erede prescelto: in effetti, secondo quella legge, se il testamento fosse spuntato fuori, Ben non avrebbe potuto fare niente, la casa sarebbe diventata di sua esclusiva proprietà e lui avrebbe potuto cacciarlo fuori senza problemi.
Si alzò gli occhiali sul naso e notò che il ragazzo accanto a lui lo osservava. Quando incrociò i suoi occhi, quello distolse lo sguardo e tornò ai suoi affari. Era abituato a quell’evenienza.
Si portò una mano alla bocca e si resse il viso, leggendo le ultime righe e ricordandosi di cose che in effetti già sapeva. Riportò quelle informazioni su un foglio pulito e osservando il quadro completo, prese a giocare con la catenina. Marina e Jody potevano aiutarlo, ma con che scusa avrebbero ottenuto l’aiuto di questo zio?
Se solo avesse trovato quel testamento…
Avviò una nuova ricerca e digitò le parole “testamento”, “copie” e “burocrazia”. Non bastò leggere tutte le informazioni contenute nei primi due risultati. A quanto pareva – e lì sospirò pesantemente – del testamento non esistevano solo due copie – un’originale e la prima copia -, ma da qualche parte dovevano essere conservate altre copie di semplice archivio. Ma dove?
Passò l’intera ora successiva a digitare forsennatamente diverse chiavi di ricerca, ad ogni tentativo sembrava essere più vicino alla soluzione. Quando terminò le ricerche, concluse che non aveva altra scelta che rivolgersi al notaio di suo nonno: solo lui poteva sapere in quale magazzino fossero quelle copie. Doveva saperlo per forza, fascicolo perso o no. Doveva informarsi prima su quel dettaglio, magari a quell’ora non avrebbe un dolore lancinante che gli bloccava il respiro con la frequenza di due volte al minuto.
Guardò l’orologio, poi l’agenda ricolma di informazioni confuse. Aveva bisogno di una mano o meglio, di tre mani: un segretario, un notaio e un avvocato. Prima metteva ordine a quel groviglio, prima avrebbe messo una fine a quel supplizio e quella notte avrebbe cercato di procurarsi qualche prova.
 
Bip bip.
Il cellulare di Marina squillò e con le mani fredde schiacciò il tasto per visualizzare il messaggio. Mittente: Edward.
| Ciao Marina, come stai? Ho bisogno di chiederti un favore. |
Wow. Edward le aveva scritto. Si sedette sul bordo del letto analizzando il testo. Era forse successo qualcosa?
| Ciao Edward, io me la cavo e tu come stai? Spero che ti senta meglio dopo l’incidente. Dimmi pure. |
Attese trepidante la risposta e intanto riprese a vestirsi per andare a trovare Jody, visto che aveva smesso di nevicare ed era riuscita a studiare un bel po’. Quella giornata era passata lentamente ed ora che sentiva la campana rintoccare le 18:00, si chiese quanto a lungo avrebbe resistito. La nottataccia passata a medicare il suo amico, manifestava ancora le sue conseguenze. Ora che lui le aveva scritto, il suo viso e la sua espressione cupa le tornarono nitide alla mente. La sensazione della sua barba sulla mano sembrava reale. Il colore del suo livido la faceva ancora rabbrividire.
Bip bip.
| Avrei bisogno di parlare con lo zio di Jody, per la questione del testamento. |
Certo, era ovvio. Sorrise, pensando all’ardore che metteva in quella ricerca. All’inizio non lo avrebbe detto, ma Edward si stava rivelando qualcuno dal cuore grande e lei cominciava a sciogliersi alla sua luce.
| Le chiederò di rimediarti un appuntamento e te lo comunicherò, sta tranquillo. |
Infilò il cappotto, avvolse la sciarpa intorno al collo e mise il cappello in testa, per poi chiudersi la porta alle spalle ed uscire in strada.
Camminava e fissava il telefono, come se lui le stesse scrivendo una poesia e invece le aveva solo chiesto un favore. Su questo aspetto di sé aveva sempre dovuto rimproverarsi, era troppo debole, troppo soggetta al fascino, così ripose il cellulare in tasca e riprese a camminare a testa alta.
Da qualche parte, Edward le stava rispondendo. Infatti, appoggiato al muro di un palazzo, Ed stava fissando lo schermo, ancora indeciso su come rispondere. Era già molto che le avesse scritto un sms, ma era per chiederle un favore, quindi poteva farlo senza imbarazzo – o almeno era di questo che voleva convincersi. Lei gli aveva tempestivamente risposto e gli aveva dato subito la sua disponibilità.
Perché mai Marina tenesse a lui – o almeno così credeva – ancora doveva capirlo, e a lui sembrava sempre di non riuscire a ricambiare allo stesso modo. Lei era gentile e affabile e lui, fino a quel momento, le aveva detto un paio di grazie e le aveva dato una vaga carezza la sera prima. Arrossì, ripensando alla carezza che le aveva rubato e al bacio che lei gli aveva dato. Sospirò, cercando di convincersi a rispondere in modo carino, ma spontaneo. Infondo lei non lo avrebbe visto in faccia.
| Grazie, Marina. Non solo per questo. J |
Fu tutto quello che riuscì a scriverle e si sentì comunque in imbarazzo. Guardò il cielo buio e infilò quel vecchio affare in tasca. Con la bocca distorta in una smorfia e il viso rosso, si scostò dal muro per dirigersi all’Hawking, ma andò a sbattere contro qualcuno.
  • Ahia! – disse la persona davanti a lui.
Protese le mani per scusarsi, ma realizzò ben presto che Marina lo stava fissando. Aveva il cellulare in mano col suo messaggio appena ricevuto: desiderò sprofondare. Il suo rossore triplicò, ne era sicuro e non riuscì a dire nulla, ritirando le braccia.
  • E-edward! – disse lei, con voce tremula.
Le sue gote altrettanto rosse, gli suggerivano che non era l’unica ad aver ricordato gli ultimi eventi. Tuttavia, ad attirare la sua attenzione fu il segno che aveva sul viso. Vi puntò gli occhi e notò immediatamente il suo disagio. Decise di non dire nulla, aveva capito che lo infastidiva.
  • Cosa ci fai qui? – chiese, cercando di distrarlo.
  • I-io sto andando all’Hawking. – disse. – Al lavoro. – aggiunse, indicando la strada.
  • Sei in anticipo. – osservò lei, infilando il cellulare in tasca.
  • Già, ma non fa niente. – si passò una mano tra i capelli. – Tu, invece, dove stai andando?
Non riusciva ancora a guardarla negli occhi, faceva vagare lo sguardo altrove, mentre lei sembrava riuscire a guardarlo nonostante l’imbarazzo.
  • Vado da Jody. Così le chiedo anche di suo zio. – fece lei, riguadagnando la sua attenzione.
  • Oh, già. Grazie, Marina.
  • Hai scoperto qualcosa? – chiese lei, per dirottare il discorso verso fronti che non implicassero il farla morire di vergogna.
  • In effetti sì, ma è una storia lunga.
  • A-allora me la racconterai domani. – disse lei, cercando contro la sua reale volontà di congedarsi.
  • Certo, mi farebbe piacere.
Entrambi si guardarono i piedi, ma Marina si disse mentalmente che oramai non aveva più motivo di essere in imbarazzo. Avrebbe solo portato Edward a sentirsi altrettanto in tensione, quando invece era la sola ad avere motivo per esserlo, la sola ad essersi presa una cotta.
  • Non essere imbarazzato, Edward. – fece, per rassicurarlo. – Non c’è nulla di cui avere vergogna.
  • L-lo so, è che… - cercò di dire, senza successo. – Lo sai. – sospirò, alla fine.
  • Sì. – sorrise davanti alla sua ingenuità. – Sta tranquillo.
Si sentì il cuore in fiamme mentre lui si tormentava i capelli, consapevole che lui desse a quei gesti un diverso significato, dunque il suo imbarazzo era di altra natura. E poi lui era Edward, sapeva come viveva certe situazioni.
  • Stai bene? – aggiunse soltanto, con sguardo eloquente.
Lui sembrò riprendere il controllo di sé udendo quella domanda e il suo viso tornò serio. Marina avrebbe voluto chiedere cosa fosse successo, ma si trattenne anche dal cambiare espressione.
  • Sì, non preoccuparti. – fece, toccandosi lo zigomo, ormai rassegnato al fatto che lei alla fine lo avesse visto di nuovo livido. – Non è niente.
  • Se hai bisogno di qualcosa, più tardi mi trovi a casa. – sorrise lei.
Mentre lo guardava, si accorse che portava una catenina al collo, lasciato scoperto dalla sciarpa. Per un attimo pensò di riconoscerne la trama, ma la risposta affermativa di lui la distrasse. Tornò a guardarlo negli occhi, senza evitare di essere scossa da quel suo sguardo. Quei suoi occhi, quella sera, sembravano essere più blu e più profondi. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo. Forse lui era davvero in imbarazzo per quel bacio e avrebbe addirittura detto che forse un po’ lei gli piacesse, ma non ci avrebbe scommesso nemmeno una sterlina.
  • Devo andare. – disse lui, sentendo il rintocco della campana. – Grazie ancora.
  • Ci sentiamo più tardi. – sorrise lei, ma si trovò nel panico non sapendo come salutarlo.
Nella mente di Edward si formavano mille possibilità. Un tocchetto sulla testa, una carezza, un abbraccio o addirittura un bacio, all’europea. Era certo solo del fatto che salutarla con la prima opzione, dopo che lei lo aveva baciato sulla guancia,  era davvero fuori luogo e scortese. Avrebbe potuto fraintendere, scambiare la sua timidezza per fastidio. La carezza gli sembrava davvero un gesto carino, ma la sera prima aveva notato che l’aveva messa molto in imbarazzo. Non avrebbe mai avuto il coraggio di darle un bacio, così si decise per l’abbraccio. Facile soltanto a dirsi.
Fece un passo verso di lei ed aprì vagamente un braccio, più rigido di un pezzo di legno. Lei sembrò capire e lo guardò sorpresa, riuscendo poi a riscuotersi per non peggiorare ulteriormente quella situazione già imbarazzante. Marina si accostò a lui abbastanza da permettergli di circondarle le spalle e di sentire che lei stava facendo lo stesso. Si stavano abbracciando.
La strinse di più e sentendola così vicina i suoi muscoli si sciolsero, riuscendo a coprirla anche con l’altro braccio. Le loro teste si sfioravano e riuscì a percepire il calore dei suoi capelli sullo zigomo. Non dissero una parola e per un attimo gli sembrò che fosse calato il silenzio anche intorno a loro. Sentì il suo profumo di lavanda e le sue labbra poggiate sul suo cappotto.
Espirò, senza sapere perché. Stava abbracciando Marina e lei stava abbracciando lui – per molto più tempo rispetto alla sera precedente – e per un attimo riuscì ad ignorare il dolore provocato dalla sua stretta, sentendosi bene.
Per fortuna – o per sfortuna, lei lentamente si allontanò, perché lui non riusciva a muoversi. Con le guance rosse, Marina sorrise e gli augurò buon lavoro. Lui fece altrettanto e la salutò di nuovo, senza aggiungere altro.
Quando lei riprese la sua strada a testa bassa e lui montò in bici proseguendo verso il pub, fu libero di sciogliere i muscoli, lasciare andare i pensieri e concentrarsi su quella sensazione. Era calda e piacevole. Era quello che si provava abbracciando un’amica?
Qualunque cosa un abbraccio potesse scatenare in lui, sentiva che in qualche modo quello di Marina aveva qualcosa di speciale.
Qualsiasi nome avesse quel sentimento, gli piaceva.






Angolo autrice:

Salve bella gente!
Credo che con questo capitolo si cominci a capire cosa stia accadendo a Ed, finalmente.
Vi ringrazio immensamente per le recensioni e le visite, spero di non deludere le aspettative!
A proposito, cosa vi aspettate? Cosa pensate del capitolo? Fatemelo sapere. :)
Un consiglio: non perdetevi il prossimo capitolo. Aggiornerò domenica.
Beh, non so che altro dire, torno a perdermi nel finale della storia, ancora troppo lontano da quello che vorrei.
A presto! :)

S.


Bonus: Ed con gli occhiali. Adoratelo.


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Capitolo 15
*** XV ***







XV




Il silenzio quasi lo assordava.
Il buio della stanza era rischiarato dalle luci dei lampioni sulla strada. Il salotto dava sul giardino, al piano di sotto, quindi era sgattaiolato cercando di non fare alcun rumore.
Era terrorizzato. Se Ben lo avesse scoperto lì, sarebbe stata la sua fine. Aveva paura anche del suo stesso respiro, mentre tirava fuori il passepartout dalla tasca. Gli bastò un’occhiata per capire che fosse inutile anche provare, era troppo vecchio, fu quindi costretto a prendere i ferri del mestiere, solo che quelli facevano rumore.
Fissò la porta, cercando di auto convincersi che non ci fosse nessuno. Più guardava l’ingresso buio, più si faceva paranoie. Non sapeva assolutamente da dove cominciare. Prese il primo arnese tra le dita, ma non entrò nella serratura. Il secondo, più piccolo, sembrò andare bene, ma non riuscì a far scattare il meccanismo. Il terzo doveva essere quello buono. Cercando di non fare alcun rumore, infilò il ferretto nella fessura e cominciò a lavorare. Sentiva di esserci quasi, ma doveva fare un movimento preciso. Guardò verso la porta per mezzo secondo e poi tornò a concentrarsi: con un movimento lento del polso, la serratura scattò. Girò il ferro per sganciare la sicura e la teca fu di nuovo aperta.
Dietro quei vetri c’erano centinaia di documenti. Ben era furbo, aveva nascosto l’ago nel pagliaio, ma oramai era fatta e prima dell’alba avrebbe dovuto riportare tutto indietro. Infilò le buste gialle e bianche sotto la maglia del suo pigiama e socchiuse la teca, sfilando il ferretto. Dovette ripercorrere l’intero cammino come se stesse camminando sulle uova, con una lentezza tale da permettergli di scorgere le prime luci dell’alba. Doveva sbrigarsi, aveva troppo poco tempo.
In camera sua fece una prima selezione di ciò che avrebbe dovuto esaminare e cosa no, scartando quelli che per certo erano documenti di sua nonna o di sua madre. Li aveva guardati così tante volte che li riconosceva a prima vista. Tutto il resto fu infilato nel suo zaino e messo in spalla.
Col cappello in testa, aprì la finestra della sua camera chiusa a chiave e calò una vecchia scala di corda che aveva recuperato dalla cantina. Il legno della casa scricchiolava mentre scendeva, mettendogli ansia, ma ben preso fu a terra. Una volta fuori dal cancello, montò in sella alla bici e si diresse dritto in biblioteca.
 
Aveva pedalato più veloce che poteva ed aveva aperto la porta sul retro in tempo record, ora maneggiava la fotocopiatrice come se fosse stata la sua chitarra. Doveva sbrigarsi. Presto. Nemmeno guardava ciò che stampava, avrebbe perso troppo tempo.
Col fiato corto e il sudore sulla fronte, cercava di controllare il tremito delle mani e di rimettere ogni cosa al proprio posto, altrimenti Ben lo avrebbe scoperto di certo.
In realtà, a quell’ora non poteva accedere nessuno, nemmeno lui, ma le telecamere erano rotte da Agosto, quando un fulmine aveva colpito la centralina e aveva fatto diversi danni. Di foglio in foglio, sentì il tempo sfuggirgli dalle mani e quando il suo orologio gli segnalò con un bip che fossero le sei del mattino, cominciò la sua corsa contro il tempo.
Non si era nemmeno chiuso il cappotto che ora svolazzava durante la pedalata, era senza fiato e frenò bruscamente fuori dal cancello.
Sistemò di nuovo la bici sotto la veranda e tornò alla scala. Le 6:15.
Era di nuovo in camera sua e si rimetteva il pigiama. Radunò i documenti e si diresse in salotto, assicurandosi di avere i ferri. Le 6:20.
Riaprì la teca che la stanza era semi illuminata e l’ingresso era ben visibile, ciò significava che anche lui poteva essere visto con più facilità.
Ripose una alla volta le buste nella teca, cercando di disporle così come le aveva trovate. Le 6:25.
Riprese il ferro e lo infilò di nuovo nella serratura. Aveva quattro minuti, dopodiché la sua sveglia avrebbe suonato.
Sudava freddo, i capelli rossi si erano attaccati alla fronte, ma la luce gli permise di lavorare abbastanza in fretta. Mise in atto quel lavoro di polso e chiuse la teca. Con un ultimo sguardo, si assicurò che ogni cosa fosse al suo posto, niente tracce o segni, poi uscì dal salotto e tornò in camera sua.
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, la sua sveglia suonò. Fece attenzione a non spegnerla subito, simulando il suo risveglio. Zittito quell’affare, tirò dentro la scala di corda e la nascose sotto al letto.
Si sedette sul materasso e fece mente locale su dove avesse nascosto i documenti, in biblioteca.
Alle 6:35 guardò l’orologio e sospirò, portandosi le mani al viso e poggiandosi sulle ginocchia, scaricando la tensione.
Ce l’aveva fatta.
 
Zzzzz zzzzz.
| Hai appuntamento con lo zio Fred domani alle 16:30 davanti alla stazione. |
Marina era incredibile, non riusciva a pensare altro. Cioè, al loro abbraccio ci pensava eccome – anche se non riusciva a darsi una buona motivazione – ma l’adrenalina di quella mattina lo aveva scombussolato.
Non aveva chiuso occhio per quasi tutta la notte, al massimo aveva dormito un paio d’ore e alle 8 precise aveva aperto la porta della biblioteca.
Marina era al lavoro e lui non aveva alcun motivo per restare sveglio. Non poteva nemmeno tirare fuori le sue fotocopie, data la fila al bancone. La curiosità lo torturava, ma avrebbe dovuto pazientare.
  • Pel di carota – alzò lo sguardo dal modulo che stava per sistemare. – ho bisogno di un libro.
Era quel ragazzo, quello che Marina aveva zittito. Lo guardò dritto in faccia e non seppe cosa pensare di lui. Poteva davvero essere così stupido? Quello continuava a fissare il suo livido e la cosa lo infastidiva parecchio, ma dovette forzarsi e rispondere senza apparire scortese.
  • Dimmi pure.
Mister Figlio di papà si risvegliò dal suo stato di trance e gli comunicò il titolo.
“Lo scarabeo stercorario: l’antenato dei viventi”. Questo gli mancava.
Si avviò a cercare il volume e passando davanti ad un tavolo più affollato, vide i ragazzi voltarsi al suo passaggio. La stanchezza gli permise di limitarsi a fare il suo lavoro senza spendere ulteriori energie per ricambiare l’occhiata, così tornò indietro e diede il libro al bellimbusto, per poi tornare a compilare i moduli. Ringraziò il cielo che il dolore alla ferita fosse sempre meno intenso e che la biblioteca facesse mezza giornata.
Alle 12:30, quando tutti furono fuori, prese le sue fotocopie e le infilò nello zaino e si avviò al caffè. Sembrava una giornata come tante, ma quando entrò nella caffetteria per pranzare, si accorse che Marina non si sarebbe accomodata con lui. Ordinò il solito ed andò a sedersi. Chinò la testa sulle braccia, desiderando dormire, così chiuse gli occhi. Ascoltava il chiacchiericcio della gente, ma non poteva accorgersi della persona davanti a lui.
Una mano picchiettò sulla sua spalla e lo fece ridestare. Scattò, credendo che fosse il cameriere, ma la figura familiare di Marina prese forma davanti a lui.
  • Scusa. – disse lei, sorridendo.
Non riusciva a spiegarsi la sua presenza lì, ma era felice di vederla.
  • Marina. Cosa…?
Lei, senza troppi complimenti, si accomodò sul divanetto accanto a lui e si sfilò il cappotto.
  • Speravo davvero di trovarti qui. Ho bisogno di un libro, così mi sono fatta sostituire e sono venuta. – spiegò placidamente, mentre si sistemava i capelli lunghi.
Ed vide i suoi occhi verdi studiarlo con discrezione, ma la lasciò fare. Oramai ci stava prendendo l’abitudine ed un po’ gli piaceva che lei si preoccupasse. Lo faceva sentire bene.
  • Puoi farmi questo favore? – chiese alla fine.
  • Ma certo.
Le sembrava particolarmente assonnato e stanco, ma il pranzo che il cameriere ora gli porgeva lo avrebbe rifocillato. Buon appetito – e cominciarono a mangiare. Di boccone in boccone, Marina sentiva le forze rinvigorire, dopo quella mattinata. Fare tutto da sola era a dir poco stressante, soprattutto con la mostra e la gita da programmare. In realtà, il libro era solo una scusa. Le serviva davvero, ma non era indispensabile averlo per quel pomeriggio, tuttavia aveva voluto assecondarsi per quella volta.
  • Grazie per avermi rimediato quell’appuntamento. – fece lui, una volta giunto a metà porzione di fish and chips.
  • Figurati. – fece lei.
  • Mi accompagni?
Sorrise ed annuì, quasi sorpresa da quella richiesta, ma non troppo. Quella notte aveva riflettuto sul fatto che quel loro imbarazzo era assurdo, sembrava quasi che stessero tornando indietro, quando invece avevano stretto un rapporto di amicizia anche abbastanza confidenziale. Così, aveva deciso che almeno lei avrebbe dovuto controllare meglio le sue emozioni e non travisare le sue parole, e doveva farlo per il bene di entrambi. Quindi, quella richiesta era da considerarsi normalissima.
Piuttosto, era curiosa di sapere cosa avesse scoperto.
  • Allora, Edward, si può sapere cosa hai scoperto?
Lui per un attimo la guardò spaesato, poi si ricordò dei documenti che aveva nello zaino. Boccheggiò, senza sapere da dove cominciare, ma poi decise di riprendere esattamente da dove era rimasta, cioè dall’avvocato Foster. Le raccontò di Bingley, della sua visita a casa e del modo in cui si era presentato. Tralasciò i dettagli del suo amichevole dialogo con Ben, ma lei aveva già capito e per un attimo abbassò gli occhi verdi, evitando i suoi. Se ne dispiacque, ma continuò cercando di non far trasparire quel sentimento. Le mostrò i suoi appunti e le spiegò della legge 137.
  • Cavolo. Anche se non capisco una cosa. – fece lei, aggrottando lo sguardo – Perché mai Ben sta facendo tutto questo? Cioè, se il testamento è già sparito, parte della casa va comunque a lui. Perché assumere un avvocato?
  • È quello che mi chiedo anch’io. – rispose, facendole capire che era proprio quel punto che lo preoccupava. – Se si sta affannando, c’è sicuramente qualcos’altro sotto. In ogni caso – continuò a spiegare – ho intenzione di rintracciare il vecchio notaio di mio nonno, perché a quanto pare la legge prevede che alcune copie del testamento debbano essere conservate in archivi permanenti, quindi…
  • C’è ancora una speranza!
Marina sorrise sinceramente, quasi impaziente di mettersi alla ricerca di quella copia. In effetti, era l’unica possibilità che restava ad Edward per sbarazzarsi di Ben e Jef, lo aveva capito.
  • Cosa chiederai allo zio Fred?
  • Voglio sapere di che tipo di cause si occupa lo studio Foster&Martins.
Marina annuì e lui, ancora una volta, ebbe l’impressione che lei volesse dire qualcosa, ma poi la vide annuire sommessamente. Prendendo un altro boccone, si sentì più leggero e attribuì quella sensazione al fatto di aver condiviso le sue informazioni con Marina, ma ancora doveva raccontarle la cosa più importante.
  • Ho… - cominciò – ho recuperato alcuni documenti dalla teca.
Lei alzò lo sguardo quasi shockata, senza pronunciare parola.
  • Stanotte – spiegò a bassa voce – ho usato dei vecchi attrezzi di mio nonno e sono riuscito ad aprirla, poi ho fotocopiato tutto. Sono nel mio zaino.
Lei puntò lo sguardo sull’oggetto in questione.
  • Non li ho ancora guardati.
Lì dentro, potevano esserci degli ottimi indizi per capire cosa stesse combinando Ben. Marina avrebbe voluto aiutarlo subito, ma poco dopo sarebbe dovuta tornare al lavoro.
  • Io devo tornare a scuola, tra un po’, ma se vuoi…puoi raggiungermi lì e possiamo studiarli insieme.
Edward vide le sue guance arrossarsi e non potè fare a meno di sentirsi in imbarazzo anche lui. Voleva davvero il suo aiuto, per capire, così accettò senza troppi complimenti.
Terminarono il pranzo in silenzio e salutarono il proprietario baffuto prima di uscire.
  • Che libro ti serve? – disse lui, facendola rinsavire.
  • Ah! Un libro di didattica che avevo già preso in prestito. Sei sicuro che non ci siano problemi?
In realtà non poteva entrare nessuno dopo la chiusura, ma dopo tutto quello che Marina aveva fatto per aiutarlo, dopo la sua carezza così rincuorante, prenderle un libro era il minimo che potesse fare. E poi il suo capo era al comune, non sarebbe spuntato fuori dopo la chiusura.
  • Nessun problema.  – disse.
Si avviò verso la biblioteca, attraversando la strada, ma si fermò quando non la vide accanto a lui. Quando si voltò, Marina era ferma fuori al caffè in attesa. Vieni – la chiamò – Non preoccuparti – e lei, dopo qualche tentennamento, lo seguì nel retro, ricordando quel giorno in cui il suo capo stava per scoprirli. Tuttavia, ebbe fiducia in lui e stette in silenzio. Quando lui aprì la porta, si guardò intorno prima di entrare, poi lo seguì nella stanzetta buia e si richiuse la porta alle spalle. Dopo qualche secondo al buio, lui accese la luce e si diresse nella sala grande.
  • Titolo? – chiese, preparando un modulo.
  • Didattica Generale e Progettazione Scolastica.
Osservò la sua calligrafia e notò che aveva alterato l’orario del prestito. Lo seguì, su sua richiesta e si inoltrarono tra gli scaffali. Non ci volle molto e la sua altezza rese più facile l’operazione.
  • Ecco a te. – sorrise lui.
  • Grazie, Edward. – rispose, prendendo il libro dalle sue mani e infilandolo in borsa.
  • Figurati.
Vide chiaramente che il suo amico evitava il suo sguardo e guardava altrove, preso dall’imbarazzo. Cosa stava succedendo? Eppure, non aveva fatto niente.
Solo dopo diversi secondi lui tornò a guardarla e si diresse nuovamente verso il bancone in ciliegio. Facendo tintinnare le chiavi, la invitò con un gesto a rientrare nello stanzino e quando lei fu dentro, chiuse la porta che dava sulla sala. Vederlo compiere quell’azione così abitudinaria, la fece incantare per qualche istante, riuscendo per la prima volta a dargli un’identità definita. Forse era la naturalezza con cui compiva quel gesto che le dava quell’impressione. Quando lui si voltò, distolse lo sguardo, ma fu quasi certa che si fosse accorto del suo comportamento. Infatti, lui si immobilizzò e abbassò lo sguardo, chiedendosi cosa stesse pensando Marina e perché mai si sentisse così agitato. Ed per qualche secondo non riuscì a muoversi o a parlare, troppo preso dall’improvviso silenzio. Era terribilmente confuso, forse aveva fatto qualcosa di sbagliato? Aveva detto qualcosa che l’aveva turbata? Forse non doveva raccontarle tutte quelle cose, magari lei si sentiva in dovere di aiutarlo, quando invece doveva studiare per la sua tesi.
  • S-scusa. – disse.
Senza attendere risposta, si avviò alla porta, sicuro che lei lo avrebbe seguito all’esterno. Marina, confusa da quella sua affermazione, rimase muta e intanto lo seguì verso l’angolo della stanza. Quando furono davanti alla piccola porta, si decise a parlare, ma nello stesso istante lui spense la luce.
  • Edward – e il buio li avvolse.
Sentì il tintinnio delle chiavi dissolversi in silenzio, senza poter distinguere l’espressione di lui, in piedi davanti a lei.
  • Per cosa… - riprese – per cosa ti sei scusato?
Silenzio. Nell’angolo del piccolo stanzino, le mancava l’aria. Lui sembrava immobile, non percepiva alcun cenno da parte sua. Il cuore prese a batterle più velocemente, improvvisamente tesa. Quel lungo tacere, la agitava.
Sentì un suo sospiro e poi la sua voce.
  • Per averti coinvolto. – Marina continuava a non capire. – S-se non fosse per me, avresti molto più tempo di riposare e studiare.
Aprì la bocca, mortificata da quel suo pensiero.
  • M-ma no! – cercò di spiegare – Non pensarlo affatto! Io ti aiuto con piacere. – fece una pausa. – Ci tengo.
Sperò di averlo rassicurato. Doveva aspettarselo, quella testa rossa non poteva certo mutare carattere nel giro di così poco tempo. Ancora una volta, le fece tenerezza.
  • Davvero? – la sua risposta era quasi un sussurro.
  • Certo. – rispose dolcemente, per metterlo a suo agio, anche se quel buio non aiutava certo a comunicare.
Un istante dopo, credette si aver distinto il suo sorriso nell’oscurità e nel suo petto il cuore fece una capriola. L’angolo in cui erano immobili sembrava privarla dell’aria, ma due secondi dopo si ritrovò a trattenere il respiro: i suoi occhi, abituatisi al buio, distinsero il suo profilo estremamente vicino. Sentì il suo respiro caldo sfiorarle il naso. Forse si stava solo impressionando, ma cominciava a credere che Edward si stesse avvicinando a lei.
Mentre Marina cercava di capire se quella fosse solo la sua immaginazione, Ed cercava di capire cosa stesse succedendo, ma la sua mente sembrava essersi incantata. Sentiva il profumo di Marina invadergli le narici. In quel momento, era grato di averla conosciuta: da quando l’aveva incontrata, gli aveva fatto solo del bene e ancora non sapeva come l’avrebbe ripagata. Sentiva che un forte sentimento – quello dell’abbraccio – cominciava a legarlo a lei e la voglia di risentirlo nel petto quasi superava la volontà di manifestare la sua gratitudine.
Eppure, in quel momento non riusciva a fare niente. Lei era immobile, nel buio e nel silenzio. Voleva dirle qualcosa.
  • Marina…
Si avvicinò a lei, accorgendosi che le distanze tra loro erano già abbastanza ridotte. Involontariamente, le sfiorò la mano e il cuore gli balzò in gola. Deglutì, senza capire cosa stesse accadendo al suo corpo, cercando di concentrarsi su ciò che aveva da dire, ma ormai sentiva di aver perso il controllo. Era così dannatamente vicina e il suo profumo era così buono. Sentì di nuovo la sua mano e da quel momento, abbandonò qualsiasi speranza di compiere un’azione logica.
Marina quasi scattò quando sentì la mano di Edward avvolgere la sua. Sentiva che nessuno dei due stava più respirando e giunse ad una conclusione più che assurda. Nella sua fantasia, Ed stava per baciarla, ma sapeva che non lo avrebbe fatto, nonostante lei lo volesse più di ogni altra cosa. Per un attimo aveva pensato che, data la breve distanza tra i loro volti, potesse farlo lei, ma prima ancora che potesse dissuadersi, sentì il suo naso sfiorare il proprio.
Credette che il suo cuore si fosse fermato.
La mano di Ed stringeva la sua sempre di più e lei tese la mano libera al suo viso, percependo chiaramente la sua barba. Stava per succedere davvero. Sentiva il suo respiro sulla bocca.
Sono impazzito – pensò lui, privo della sua lucidità. Aveva dimenticato cosa stesse facendo ed anche in quel momento, non avrebbe saputo spiegarlo. Sapeva solo che Marina aveva poggiato di nuovo la mano sul suo viso e che lui le stava stringendo la mano. Sentiva un istinto sconosciuto risvegliarsi in lui, qualcosa che non sapeva riconoscere, eppure era chiaro ed insistente più della fame e della sete. Il cuore gli martellava nel petto, il dolore che sentiva non era più dovuto alle sue ferite. Chiuse gli occhi e – senza nemmeno rendersi conto dei suoi movimenti – le sfiorò le labbra.
Stava per baciare Marina, ma il forte rombo di un tuono fece spaventare entrambi.
Trasalirono, aprendo gli occhi. L’aria sibilò nelle loro gole, interrompendo definitivamente quel momento e lasciando il posto a qualcosa di decisamente più imbarazzante.
Marina era terrorizzata: lui stava per baciarla, aveva sentito le sue labbra. Come avrebbe fatto a guardarlo in faccia? Si accorse di aver afferrato la sua spalla, forse per lo spavento, così tirò subito via la mano, riportando la sua attenzione su di lei. Pochi secondi dopo, Ed stava aprendo la porta con una fretta inusuale e lo vide uscire fuori. La luce la confuse.
Edward stava davvero per baciarla.
 
Un altro tuono squarciò il silenzio.
Si fermò in mezzo alla neve e cercò di respirare, guardando il cielo nuvoloso. Stava per nevicare.
Si passò una mano sul viso, provando a capire cosa fosse successo, ma non giunse ad alcuna conclusione logica. Cosa diamine stava facendo? Era forse impazzito? Marina era solo un’amica!
Continuò a rimproverarsi, chiedendosi come lei l’avesse presa e come avrebbe fatto, d’ora in poi, a guardarla negli occhi. Si sentiva sconvolto. Sentì i suoi passi avanzare nella neve dietro di lui. La cosa migliore che poteva fare il quel momento era non perdere la calma. Si voltò, sapendo di essere rosso come un pomodoro, e la vide. Guardava altrove, altrettanto imbarazzata. Non potendo guardarla troppo a lungo, con fare nervoso si diresse a chiudere la porta del retro, infilando poi le chiavi in tasca. Non sapeva cosa dire.
  • A-allora – scattò, sentendo la sua voce. – C-ci vediamo a scuola?
La sua voce tremante ricevette come risposta un Sì talmente fioco che pensò non lo avesse sentito. Lei si tormentava le mani e non lo guardava.
  • Ti aspetto lì. – disse, dopodiché la vide voltarsi e andare via.
La osservò avanzare nella neve con la sua solita andatura, senza mostrare alcun tipo di tensione. Quando non la vide più, Ed si ridestò dal suo stato di confusione e avrebbe voluto prendersi a schiaffi.
 
Aveva rigato dritto verso la scuola senza fermarsi nemmeno una volta, altrimenti sarebbe corsa indietro da lui e avrebbe fatto una sciocchezza. Edward – maledetto ragazzo – a volte non riusciva a capirlo, ma sapeva che si trovasse in una posizione particolare: era così ingenuo che, probabilmente, si era lasciato trasportare dal momento, senza pensare davvero a cosa stesse facendo. Proprio come un bambino. Non aveva esperienza ed era chiaro anche alle mosche che non sapesse distinguere bene le relazioni sociali, figuriamoci i sentimenti. Non fece altro che sospirare lungo la strada, pregando che la tempesta andasse a scatenarsi altrove.
I tuoni continuavano a farla sobbalzare, suscitando poi la risata di qualcuno.
  • Hai paura dei tuoni?
Si voltò e il pallido fratellastro di Edward le sorrideva dal suo cappotto nero.
  • Te l’avevo detto che non mi sarei arreso. Sei troppo carina.
Le occhiaie che aveva intorno agli occhi e il viso scavato, la distrassero dal rispondere, ma prima o poi avrebbe dovuto aprir bocca.
  • Cosa vuoi? – disse soltanto.
  • Uscire con te.
  • Non se ne parla. – rispose senza bisogno di pensarci.
  • Guarda che sono un bravo ragazzo, perché mi rifiuti?
  • Non mi interessi.
  • Capirai che non posso farmi scappare un bocconcino come te, quindi dovrò insistere.
Ad ogni frase sembrava avvicinarsi e lei non aveva più spazio per scappare, era quasi spalle al muro. Aveva ancora il cuore a mille per quell’attimo in biblioteca con Edward e quel tizio era l’ultima cosa che le serviva.
  • Senti, non sono un bocconcino e non voglio uscire con te. – disse seccamente.
  • E dai! – quello sfilò la mano dalla tasca e le prese un braccio, avvicinandola.
  • Lasciami! – lo strattonò Marina, definitivamente infastidita.
Non smetteva di camminare, ma quello continuava a seguirla. Cominciava ad essere preoccupata.
  • Oh, scusa! – alzò le mani lui. – Ma la prossima volta riuscirò a rubarti un bacio.
Marina si avviava al cancello della scuola, oltre il quale lui non poteva passare senza il permesso del personale, ma si fermò di colpo udendo i freni di una bici fischiare alle sue spalle. Edward aveva accostato accanto a loro e guardava Jef col volto scuro.
  • Che ci fai qui, idiota? – fece Jef, senza più curarsi della presenza di Marina.
  • Ti sta dando fastidio? – chiese direttamente a lei.
Sembrava che a momenti sarebbe sceso dalla bici per saltare addosso al viscido e non poteva certo lasciare che si azzuffassero fuori alla sua scuola, dunque fece di no con la testa, nonostante fosse una tremenda bugia. Non poteva rischiare il licenziamento.
  • Certo che no – disse Jef – io e Marina siamo amici, vero? – continuò, guardandola.
  • Vattene. – insistette Ed e dal suo sguardo, il fratellastro doveva aver capito che per Marina si sarebbe preso anche più di qualche botta, quindi sorrise viscidamente alla ragazza e poi si dileguò.
Soli, i loro occhi si incontrarono e la tensione si trasformò in imbarazzo, di nuovo. Oltrepassarono il cancello in silenzio e solo allora Marina notò che Ed aveva portato la chitarra.







Angolo autrice:

Salve bella gente, scusate se non ho aggiornato nel weekend come avevo detto, ma sono stata a Milano ed ero totalmente catturata dai preparativi. Tuttavia, credo che con questo capitolo mi sia fatta un po' perdonare. :)
Cosa ne pensate? Quella che leggerete più avanti è la mia parte preferita della storia, quindi vi prego fatemi sapere cosa ne pensate.
Beh, che altro dire...ci vediamo presto con il prossimo capitolo, io intanto vado al cinema a vedere Jumpers for Goalposts - non vedo l'ora - lo vedrete anche voi?
Ringrazio ancora per le tantissime visite, è sempre bello vedere che la storia viene seguita!
Ciao! :)

S.

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Capitolo 16
*** XVI ***






XVI


 


Vedere Jef parlare con Marina lo aveva turbato in modo indicibile. Si sentiva anche più violato di quanto si aspettasse, forse perché le voleva bene e per questo aveva avuto il coraggio di cacciarlo via, senza pensare alle conseguenze. Ma per lei si sarebbe preso anche più di un cazzotto.
Tuttavia, sentiva che ormai Marina era completamente coinvolta in quella faccenda, non poteva più decidere di lasciarla fuori ora che Jef sapeva che si conoscessero. Pregò che quell’idiota non la tormentasse.
Entrò con lei nei corridoi colorati della scuola, senza che nessuno dei due parlasse o si guardasse ancora, troppo confusi dall’ultima mezz’ora. A Ed, andava più che bene, era già tanto che fosse nella stessa stanza con lei.
La sua classe di bambini strepitò al loro ingresso e si fiondarono su di lei. Vide immediatamente un sorriso farsi largo sul suo volto.
  • Bene bambini, oggi abbiamo un ospite. Salutate Edward. – disse loro, posando borsa e cappotto e infilandosi il camice sporco di pittura.
  • Buongiorno Edward! – urlarono tutti insieme.
  • Oggi Edward suonerà qualcosa per noi, così cerchiamo di conoscerlo meglio e magari la prossima volta ci aiuterà ad organizzare qualche bella attività.
Li aveva osservati uno ad uno e nei loro occhi aveva scorto serenità, la stessa che sentiva quando si svegliava a casa di Marina. Salutò i bambini, cercando di comportarsi come il suo alterego dal naso rosso e cominciò a rispondere alle domande dei piccoli.
  • Che cos’hai sulla schiena?
  • Questa, bambini, è una chitarra. Uno strumento magico!
Lasciò le sue cose e si sedette in mezzo a loro, sentendosi quasi a casa con le gambe incrociate e la sua felpa preferita. Marina, dietro di lui, non riusciva a smettere di sorridere e di trattenersi dal piangere. Edward era stato sfortunato nella vita, ma riusciva comunque a donare se stesso agli altri senza remore. Non aveva niente e dava tutto. Sentì ancora il fremito provocato dalle loro labbra che si sfioravano e quando lui si voltò a guardarla, come se stesse pensando alla stessa cosa, pensò davvero di essersi innamorata di lui.
 
Proprio come all’ospedale, aveva dato il meglio di sé e lasciò che ogni bambino provasse a suonare la sua chitarra prima di andare via. Marina lo aveva lasciato fare, senza interferire, se non per appianare qualche litigio ed era contento del fatto che si fidasse a tal punto di lui. Inoltre, la sua storia sulla magica chitarra aveva riscosso successo.
  • Ci sai fare con i bambini. – disse lei, quando anche l’ultimo fu fuori.
Un tuono riempì il silenzio.
  • Mi piacciono. – rispose, poco prima che i ricordi tornassero a tormentarlo.
Evitò di guardarla e andò alle pareti a guardare i disegni ed uno in particolare lo colpì, poiché gli sembrava di averlo già visto da qualche parte. Era il disegno di un pagliaccio e di una principessa. Quando lesse la firma dell’alunno che l’aveva prodotto, capì perché Marina quella domenica fosse nella stanza di Kathy.
Se la trovò di fianco e riconobbe una certa tristezza sul suo viso.
  • Il pensiero di quella piccola in quel letto d’ospedale – disse lei – mi rende difficile dormire.
Marina era la sua insegnante.
Deglutì, sentendola troppo vicina e cercò di scacciare il pensiero triste della bambina dalla mente. Quella domenica sarebbe andato a trovarla.
Lei si allontanò dal muro e andò a sedersi alla sua scrivania, guardando alla finestra i fiocchi che si posavano a terra.
Era così confuso.
Non riusciva a capacitarsi di aver provato a baciarla, non sapeva dare una spiegazione logica a quel comportamento ed ora si era rovinato con le sue mani. Aveva faticato per costruire quel rapporto con lei e lo aveva distrutto in un attimo.
Era ovvio che non riuscissero a guadarsi in faccia, lui per primo. Probabilmente, la settimana precedente sarebbe fuggito a gambe levate per il troppo disagio, ma ora sapeva bene di non poterlo fare. Ormai aveva un debito con Marina: non solo lei lo aveva aiutato, ma era anche sua amica e lui sapeva che in questi casi, scappare non era una buona soluzione. Qualcosa dei rapporti sociali – dopotutto – la ricordava ancora, anche se gli costava ancora troppo mettere in pratica quelle semplici azioni. Non credeva davvero nel significato di quel gesto – restare, ancora troppo impacciato per essere coerente. Si stava obbligando.
  • Se vuoi, possiamo guardare quei documenti. – disse lei, placidamente.
In silenzio, Ed si avvicinò e prese i fogli, mettendoli sul tavolo davanti a lei, poi prese una sedia e si accomodò dal lato opposto della scrivania. Quando cominciò a sfogliare il malloppo, lei si voltò e furono costretti a guardarsi, ma fu per poco. I loro occhi si concentrarono sui titoli dei documenti, cominciando a scartare quelli che non riguardavano la casa o che comunque non erano di loro interesse.
Mentre procedevano alla selezione, più volte cercò di capire cosa lei stesse pensando, senza sapere di essere osservato a sua volta. L’aveva vista arrossire un paio di volte, così evitava di guardarla per qualche minuto, ma poi non resisteva e tornava con gli occhi su di lei. Quando anche l’ultimo documento fu selezionato, Marina alzò lo sguardo e notò qualcosa che aveva del tutto dimenticato. Al collo di Edward c’era quella catenina dorata. Strizzò gli occhi ed era sempre più convinta di quello che pensava.
  • Edward. – disse in modo deciso, ricevendo subito la sua attenzione. Sembrava un pulcino spaventato con quei capelli arruffati. – Cos’hai al collo?
Subito lui si portò una mano al petto, ricordandosi di avere la catenina.
  • Questa? – la vide annuire e la tirò fuori.
Non appena il ciondolo fu in vista, lei sgranò gli occhi e tese le mani per prenderla dalle sue dita. Lui gliela cedette senza timore, dando conferma al dubbio che aveva espresso tempo fa: quella catenina doveva essere davvero sua.
  • Oddio, dove l’hai presa? – lei continuava ad avere quell’espressione sorpresa.
  • L’ho trovata…a terra…fuori al bar in centro. – lei alzò lo sguardo. – Quella volta che mi hai visto.
  • È mia! – disse, tornando a guardarla. – Me l’ha regalata mia nonna prima di morire, sette anni fa.
  • Prendila. – rispose lui, senza aggiungere altro. Guardava la ‘M’ d’oro dondolare e si sentì scoperto, privato del suo amuleto.
  • Grazie, Edward. Devo averla persa proprio quel giorno, se non ci fossi stato tu… - sorrise.
La infilò al collo e la tenne in bella mostra sul soffice maglione bianco, senza sapersi spiegare per quale motivo lui avesse quella faccia triste. Non ricambiò nemmeno il suo ringraziamento e questo la fece sprofondare ancora nell’imbarazzo. Come se non avessero mai aperto quel discorso, Ed prese uno dei fogli che avevano impilato e cominciò a leggere, Marina prese a fare lo stesso, ma sentiva gli occhi di lui puntarla in continuazione.
Calò il silenzio e di foglio in foglio, sembravano non trovare niente, finchè entrambi esordirono, richiamando l’attenzione dell’altro.
  • Prima tu. – disse lui.
  • Ho trovato l’atto di proprietà della casa. – rispose. – E tu?
  • Io ho trovato il documento che era sul tavolo della cucina. – e tornò a leggerlo. -  “Si attesta, col supporto dell’Avv. Foster, che il signor Benjamin Storm non è in possesso del documento richiesto dalla controparte per la verifica dell’effettiva sussistenza del testo originale, pertanto, in assenza di altri duplicati, viene richiesta la perizia pubblica dei beni e l’attestazione della proprietà in via ufficiale a coloro che ne sono eredi per legge. Secondo la legge patrimoniale 137bis/art.4, il signor Benjamin Storm riceverà in eredità diretta l’immobile e la proprietà terrena, in termini di superficie o di somma di denaro, dopo l’eventuale vendita.”. Ben deve aver dichiarato che non esiste più alcuna copia del testamento per avere la casa. – poi continuò a leggere. – “La controparte d’ufficio pubblico provvederà alla nomina di un perito neutrale, secondo la richiesta dell’avvocato Foster, al fine di stimare il valore della proprietà. Si attesta, inoltre, che terminata la perizia, il richiedente dovrà comunicare al comune le sue decisioni in merito all’eventuale vendita dell’immobile entro un mese.”
Edward continuava a guardare il foglio, cercando di capire cosa stesse combinando Ben, ma Marina prese la parola.
  • In poche parole, tra un mese la casa apparterrà anche a Ben o al comune. – rifletté ad alta voce. – Ma deve pur esserci un modo per impedirlo. Magari hai voce in capitolo.
  • Se anche ce l’avessi, non ho i soldi per pagare un avvocato. – la informò, freddamente.
  • Uhm. – fece lei, sentendosi una sciocca. – Beh, dobbiamo fermarlo. Guarda – riprese – qui c’è un documento dello studio Foster&Martins.
Lui si alzò e la affiancò, non avendo la pazienza di aspettare che lei terminasse di leggere. Come un avvoltoio, si mise dietro di lei, avvicinandosi per vedere meglio e dopo le prime righe, capì subito che quello era il documento con cui Ben aveva avviato la causa e risaliva esattamente a cinque anni prima. Sbiancò, continuando a leggere, rendendosi conto che il suo patrigno aveva intenzione di appropriarsi della casa fin dall’inizio e lui non se ne era accorto. Scorrendo sul resto del testo, scoprì che Ben non aveva denunciato la scomparsa del testamento, lo aveva direttamente dichiarato all’avvocato e il signor Foster, a quanto pareva, non gli aveva richiesto alcun documento della denuncia. Non era sicuro che quello fosse consentito dalla legge.
Sembrava che le sorprese fossero terminate, ma la notizia peggiore era nascosta tra le ultime righe. Marina, che evidentemente aveva terminato di leggere prima di lui, alzò il viso per osservare la sua reazione e lei stessa non aveva un’aria felice.
  • Ben… - farfugliò poi, guardandola. - …ha dichiarato che io rinuncio all’eredità.
Quel bastardo aveva dichiarato che lui non voleva la sua parte della casa!
Prese il documento dalle mani di Marina, facendola spaventare, e lesse meglio: non si era sbagliato.
“Il documento allegato al fascicolo testimonia l’avvenuta rinuncia.”
Doveva essere per forza lì in mezzo. Ridiede il foglio a Marina e col fiato corto si mise a cercare tra gli altri fogli. Li sparse sulla scrivania, le sue mani vagavano sui documenti, spostando mucchi di carta in continuazione. Marina non capì subito cosa stesse facendo finché non rilesse il documento, dopodiché lo aiutò a cercare.
Sembravano due pazzi, ma riusciva a sentire il cuore di Ed spezzarsi anche in mezzo a quel frastuono e il suo viso pallido la spaventava. Se Ed avesse perso quella casa, avrebbe perso ogni cosa. Ogni giorno di lavoro, ogni sacrificio, ogni botta, sarebbe stato tutto vano.
Quando trovò ciò che gli interessava, Marina corse accanto a lui e vide la foto di un Ed più piccolo della sua età e la data in cui l’attestato era stato compilato e se aveva fatto bene i conti, Ed in quella foto aveva da poco compiuto 17 anni. Non era ancora maggiorenne e quella firma doveva essere di certo falsa. Lo guardò osservare la sua firma, incredulo e sconvolto.
  • Che gioco sporco. – disse lei, voltandosi.
Lui abbassò le mani e poggiò le nocche sulla scrivania, abbassando la testa. Quando Marina si voltò di nuovo a guardarlo, esasperata, lo trovò immobile con una mano sugli occhi.
Le venne da piangere, scorgendo il suo tremito e si portò una mano alle labbra, per non farle tremare. Non le importava più dell’imbarazzo: andò ad abbracciarlo.
Quando lui sentì il suo contatto e scostò le dita dagli occhi, sperò che lei non vedesse i suoi occhi lucidi, ma quel dettaglio non ebbe più importanza, perché Marina lo stava abbracciando e lui non poté resistere dal lasciarsi andare tra le sue braccia.
 
Marina aveva provato a lenire quella nuova ferita, ma mentre uscivano dalla scuola e superavano il cancello, non poteva fare altro che chiedersi come avrebbe fatto a dimostrare che non fosse stato lui ad aver firmato quel documento. Si sentiva sconfitto e gli sembrava che tutte le sue ferite gli facessero terribilmente male.
  • Quel maledetto. – Continuava a ripetere Marina. – Ma vedrai che troveremo un modo, ci rivolgeremo a qualcuno.
Lui la ascoltava e non rispondeva, pur sapendo che lei stava cercando di incoraggiarlo e che lo osservava, ma non riusciva davvero a dire nulla. Voleva solo un altro abbraccio. Erano rimasti lì dentro per parecchio tempo e non avevano trovato nient’altro di utile: era evidente che il resto dei documenti li avesse l’avvocato. Avrebbe dovuto trovarli, anche se sembrava davvero impossibile. Intanto, avrebbe parlato con lo zio Fred e avrebbe ricontattato il notaio di suo nonno. Una cosa alla volta, Ed.
Una cosa alla volta.
Intanto, si avviavano verso casa di Marina, dopodiché sarebbe andato al lavoro.
Procedettero in silenzio, immersi in quella cupa atmosfera. Ed trascinava la bici e non si curava di togliersi la neve dai capelli, così ci pensò Marina quando furono arrivati al suo portone. Spettinandolo, lo vide strizzare gli occhi, ma il suo abbattimento si percepiva comunque. Lo guardò negli occhi, dimentica di tutto l’imbarazzo che avevano provato fino a poche ore prima, e ancora una volta gli disse che sarebbe andato tutto bene, ma lui abbassò lo sguardo, senza rispondere.
Voleva fare qualcosa per fargli capire che gli era vicino e l’unica idea che le venne in mente fu quella di regalargli la sua catenina, quella che fino a poco prima aveva portato al collo senza sapere che fosse sua.
  • Tieni. – e se la sfilò dal collo. Lui la guardò confuso, riconoscendo l’oggetto. – Voglio che la tenga tu.
  • Marina, no, era di tua nonna-
  • Sarà il tuo porta fortuna. – fece un passo avanti per mettergliela al collo, ma lui la fermò, prendendola per il braccio.
  • Davvero, non devi. – disse, guardandola in faccia. – Non voglio privartene.
  • No, Edward. – ed evitò la sua presa per infilarla definitivamente al suo collo. – Ormai è tua.  – e lui la guardò negli occhi con quello sguardo da cane bastonato. – Così saprai sempre che ti sono vicina.
Lui prese il ciondolo tra le dita, lo guardò e poi lo infilò nel cappotto, sotto la felpa. Il suo collo sentì di nuovo quel piacevole peso, il suo petto sembrò riprendere calore. Era stupido, ma quel ciondolo era diventato come la fede: vi si aggrappava alla ricerca di una speranza, di una compagnia. Guardò Marina consapevole che da quel momento il valore di quella collana fosse reale, in quel caso era stata lei a scegliere di essere sempre con lui e questo lo consolava. Quando lei sorrise, percependo un vago sollievo sul volto del rosso, Ed sentì il desiderio di toccarla, di avere un contatto con lei. Di nuovo. Non riuscì a nascondere una smorfia di imbarazzo, segno evidente dei suoi pensieri, e sapeva che Marina stesse leggendo nei suoi occhi azzurri, mentre si tormentava le ciocche lunghe.
  • Grazie. – le disse soltanto.
Lei avanzò di un passo, ma poi non fece più nulla se non continuare a fissarlo.
Nella testa di Ed, accanto ai suoi mille pensieri, la voglia di abbracciarla divenne troppo impellente. Bastò guardare gli occhi lucidi di lei per non pensare più a niente. Lasciò andare la bicicletta e la tirò a sé, in un lampo.
Fu un attimo.
Il respiro di Marina gli scaldava il collo e il suo profumo di lavanda sembrava ancora più intenso. Sentì il suo corpo tra le braccia, più reale che mai e desiderò piangere, ma non lo fece. Preferì godersi la sua mano tra i capelli e quella bella sensazione che aveva desiderato provare di nuovo, stringendola morbosamente. Non riusciva a capire cosa davvero gli stesse succedendo, per il momento si sarebbe accontentato della scusa della sua tristezza.
Quando la chiesa battè le 18:30 e già troppi passanti avevano rischiato di cadere sulla sua bici, tornarono alla realtà. Marina sfilò la mano dai suoi capelli rossi, sciolse le braccia, lo guardò e gli carezzò il viso, salvandolo per l’ennesima volta dal cadere nel precipizio. I suoi occhi gli ricordavano la dolcezza di una madre.
  • Andrà tutto bene.
Quella ragazza era diventata la sua migliore amica.
 
Aveva accettato un cicchettino dal capo per affogare le sue disgrazie nell’alcool, ma subito dopo aver inghiottito il liquido amaro, si sentì uno schifo.
Ogni giorno che passava sembrava che nella sua testa ci fossero sempre più pensieri, sempre più preoccupazioni, ma la batosta che aveva ricevuto quel pomeriggio era stata fatale. Non poteva ancora credere che Ben stesse architettando ogni cosa da così tanto tempo e che avesse addirittura falsificato dei documenti. Diciamo che aveva ben altri modi per incoraggiarlo a rinunciare alla casa, quindi perché mai fare tutto quello? Perché non denunciare la scomparsa del testamento? Per il momento aveva chiarito solo un dubbio, aveva capito perché stesse facendo ogni cosa tenendolo all’oscuro – aveva falsificato la sua firma. Tuttavia, proprio per questo, proprio perché Ben non lo voleva assolutamente tra i piedi, Ed non doveva farsi scoprire o sarebbe stata davvero la sua fine. Quella notte aveva rischiato grosso, ma per una volta la fortuna era stata dalla sua parte.
Ad ogni modo, sospirò pensando che la cosa si facesse sempre più complicata. In pratica, da quel pomeriggio non aveva più una casa. Probabilmente i clienti, quando lo guardavano, vedevano una faccia da funerale – peggio del solito, ma ogni tanto si ricordava di Marina.
Il sentore del suo profumo che si era attaccato alla sua felpa gli teneva compagnia, ma ben presto scoprì che anche quel pensiero aveva una doppia faccia.
Ogni volta che lo sentiva, ricordava un’esatta sequenza di eventi: l’incidente, il bacio, il quasi vero bacio e gli abbracci. Dire che si sentiva accaldato era riduttivo, ma almeno riusciva a distrarsi dal disastro che era la sua vita e ad ignorare il dolore che insisteva a tormentargli il torace dopo l’ultimo incontro con Ben. I lividi sul viso erano ancora doloranti, ma sembravano andar meglio.
  • Ed? – lo chiamò qualcuno.
  • Sì? – si voltò e trovò davanti a sé uno dei ragazzi del locale, aveva cominciato a lavorare lì poco prima di lui.
  • Potresti darmi una mano a portare le casse di birra dal retro?
Annuì e lo seguì, facendosi sostituire da una ragazza di cui non ricordava il nome.
Quel ragazzo, poco più alto di lui, quando camminava era davvero buffo: il suo ciuffolone castano ondeggiava e faceva dondolare le braccia in un modo forse troppo evidente. Quello aprì la porta di ferro che dava sul retro ed il freddo gli pizzicò il viso.
  • Comunque piacere, Nathan.
  • Ed. – disse, anche se lui sembrava già conoscere il suo nome. Si abbassarono a prendere le prime due casse e cominciarono a fare avanti e indietro dal bancone.
  • Cosa fai nella vita? – chiese Nathan – Solo il cameriere?
  • N-no. – rispose, colto di sorpresa dalla sua domanda. – S-sono impiegato alla biblioteca comunale, mi occupo dei prestiti. – In realtà si occupava di tutto, anche se il suo contratto prevedeva soltanto quella mansione.
  • Oh! Sembra un lavoro noioso. – costatò l’altro.
  • Beh, lo è. – rispose, senza sapere cos’altro dire.
Rimase piuttosto incuriosito dal modo di fare di quel ragazzo, gli sorrideva come se lo conoscesse da una vita. Non era infastidito, solo che – sapete – non gli capitava mai.
  • E tu? – chiese, più per cortesia.
  • Io lavoricchio qua e là, ma cerco un posto fisso da qualche parte. Ormai ho 25 anni, vorrei cominciare a sistemarmi. – sorrise ironico.
Continuarono il loro lavoro in silenzio, dopodiché Ed richiuse la porta, fermandosi prima ad osservare la neve cadere lenta sull’asfalto.
Per tutta la sera, Nathan sembrò stargli addosso o forse era lui che non l’aveva mai notato. Se lo ritrovava ovunque e lui non era dell’umore di chiacchierare, nonostante l’altro sembrasse voler fare amicizia. Rispondeva alle sue curiosità come un automa, qualche volta ricambiando la domanda e scoprendo che viveva da solo in un tugurio in periferia e che aveva studiato al college fino all’anno prima, ma non aveva trovato subito un lavoro. I suoi genitori erano morti quando era piccolo.
  • Ok, vivi con il tuo patrigno e il tuo fratellastro. E hai una fidanzata?
  • C-cosa? – rimase di stucco, nonostante la domanda fosse lecita. – P-perché me lo chiedi?
  • Sei arrossito. – disse quello, prendendolo in giro. – Solo una domanda di circostanza. Mi sembrava che tu e Marina andaste molto d’accordo.
  • I-io e M-marina siamo s-solo amici. – rispose, cercando di controllare la balbuzie e avviandosi verso un tavolo con l’ordinazione ancora fumante.
Sospirò pesantemente e poi tornò indietro.
  • Scusa, forse sto esagerando. – riprese Nathan. – Solo, volevo conoscerti meglio, sembri simpatico.
Sembrava simpatico? La sua espressione stranita parlava da sé, ma dovette darsi un tono, infondo quel poveretto cercava solo di conversare, da normale essere umano.
  • Non ti preoccupare, Nathan, è solo una serata storta. – disse e quello annuì.
Un paio di volte lo aveva anche fatto ridere, ma era arrivato il momento di andare via. Salutò in fretta il capo e chi fosse ancora lì, ricambiò la pacca sulla spalla di Nathan ed uscì fuori, mettendosi zaino e chitarra in spalla.
Il pensiero di tornare a casa gli risultava piacevole e sgradito allo stesso tempo, ma aveva bisogno di riposare. Scese i gradini, pronto per montare il sella, ma la mano di qualcuno lo afferrò e lo trascinò pochi metri dopo, lontano dalla luce.
  • Ma chi-? – cominciò a dire, ma la voce cupa di Tyler lo raggelò.
  • Ascoltami bene, coso, dì a Jef che non serve a nulla non presentarsi.
Tyler lo teneva spalle al muro, continuando a fargli segno di tacere ed ascoltare e lui non potè fare altro che obbedire. Il coltello che gli puntava al collo era davvero convincente, freddo come la morte. Trattenne il respiro, il suo fiato condensato non usciva più dalla sua bocca, mentre cercava di controllare la paura. Sapeva che non lo avrebbe ferito proprio lì, fuori ad un pub in centro, ma preferiva non rischiare.
  • Se la prossima volta manda te o riprova a non presentarsi, il capo lo andrà a cercare personalmente.
Annuì, pregando che smettesse presto di parlare.
  • E rivoglio ciò che mi appartiene o il capo farà fuori sia me che lui. – disse più piano. – Sono stato chiaro? Se non fai come ti dico, giuro che tormenterò chiunque ti stia a cuore. – respirava pesantemente. – Collabora o tu e la tua ragazza farete una brutta fine.
In quel momento il mondo gli crollò addosso: sapeva di Marina. Lo aveva seguito. Annuì di nuovo e lo guardò negli occhi. Pensava di aver smesso di fare da corriere della droga ed ora doveva calarsi nel ruolo del messaggero. Era ricaduto in trappola.
Tyler lo strattonò, gli puntò il dito contro e poi sparì oltre l’angolo della strada, in un vicolo buio.
Non riusciva ancora a muoversi, sentiva il cuore palpitargli nel petto come se volesse uscirne e dopo qualche secondo finalmente riprese fiato. La nuvoletta di vapore che gli uscì dalla bocca fu illuminata dalla luce lontana di un lampione.
Sapeva di Marina.
Merda.
Si scostò dal muro e si portò la mano ghiacciata al collo, cercando di scacciare la sensazione lasciata dalla lama fredda, ma non ci riusciva. Deglutì e si guardò intorno, prima di avviarsi alla bici. Ripartì alla svelta, dritto a casa. Non si era mai sentito così in pericolo, nemmeno con Ben. Non aveva mai pensato che Marina potesse venire coinvolta in quella situazione. Non aveva mai pensato di poter avere così paura. Forse era stato lo sguardo disperato di Tyler, lo sguardo di un uomo arrivato al limite, a convincerlo che le sue parole fossero veritiere. Avrebbe potuto davvero farle del male, tutta quella storia poteva finire nella più totale merda.
E non era melodrammatico, non sarebbe stata la prima volta che la notizia di un giovane ammazzato per droga uscisse sul giornale.
Non appena rientrò a casa, si diresse da Jef e bussò alla porta con mano tremante. Quello si affacciò, chiedendogli cosa volesse a quell’ora.
Non appena pronunciò il nome di Tyler, il ragazzo sbiancò e quando terminò di ascoltarlo, gli chiuse la porta in faccia.
Ed abbassò il capo, sospirando e pensando che aveva cantato vittoria troppo presto quando aveva pensato di essere uscito da quel giro ed ora si ritrovava così, col terrore che Marina potesse trovarsi in pericolo. Cosa diavolo aveva Jef che appartenesse a Tyler? Avrebbe voluto saperlo, recuperare l’oggetto, qualsiasi cosa fosse e restituirglielo, mettendo fine a quella storia.
Quando si voltò, il pugno di Ben lo prese dritto in viso, scaraventandolo a terra. Non lo aveva sentito arrivare.
  • Maledetto idiota, hai minacciato di nuovo mio figlio?
Era completamente ubriaco e barcollava. Ed, col sangue che gli usciva dal naso, raccolse l’ultimo barlume di coraggio e si alzò, ormai così provato da quella giornata che il pugno di Ben poteva essere considerato il male minore. Solo dopo un altro paio di colpi riuscì a schivarlo e a scappare in camera sua.
Ciò che lo feriva davvero, mentre era steso sul suo letto, distrutto e sanguinante, era il fatto che non aveva saputo proteggere Marina – né da se stesso né da altri. Non riusciva ad accettare il pensiero che qualcuno le facesse del male. Lei era la cosa più preziosa che aveva.
E poi, oramai, non gli era rimasta più nemmeno la casa.
Quella non era più casa sua.



Angolo autrice:

Ave Cesari! Nuovo capitolo, nuove scoperte...piuttosto importanti. Ve lo aspettavate? A questo punto siamo più o meno a metà della storia e le cose si fanno davvero complicate, spero che la narrazione sia abbastanza chiara, dato che a volte persino io dimentico delle cose, quindi se trovate che ci sia qualcosa di poco chiaro fatemelo sapere!
Anyway, spero che la storia in generale vi piaccia e sono felice del gran numero di visite, siete fantastici!
Confesso che devo ancora terminare di scrivere il finale, ho paura di qualcosa che non so, ma credo che prima o poi verrà fuori.
Intanto, se vi va, lasciatemi un commento, magari riuscite ad accendermi quella lampadina mezza fulminata che ho in testa, come è già successo.
Buona domenica, buona abbuffata e a presto! :)

S.



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Capitolo 17
*** XVII ***







XVII



Marina, chiusa nella sua piccola casa, seduta sul letto, aveva riversato le sue angosce su un foglio bianco e per tutta la notte non aveva potuto smettere di pensare ad Edward e alle sue labbra perennemente rosa. Riusciva a sentire il suo tocco senza il minimo sforzo e aveva rivissuto quel momento all’infinito, come quando ascolti una canzone a ripetizione senza stancartene mai.
E così si trovava a scuola, con gli occhi a pezzi e il sonno che la divorava e doveva ancora ultimare i preparativi prima della gita del giorno dopo. Nonostante Jody non ci fosse, non si sentiva di deludere i suoi bambini, attendevano con ansia la gita al Museo Scientifico e se l’erano meritata.
Quel pomeriggio avrebbe dovuto accompagnare Edward all’appuntamento con lo zio Fred, quindi doveva sbrigarsi dato che non poteva trattenersi a scuola. Il solo pensiero di rivederlo, dopo tutto quello che era successo il giorno prima, la impauriva, eppure non vedeva l’ora di incontrare di nuovo i suoi occhi azzurri e vedere le sue lentiggini. Non voleva soffrire, ma quel sentimento stava diventando più grande di lei. E sapeva benissimo di non potergli impedire di crescere ancora.
Probabilmente a quell’ora lui era al lavoro e sperò che la sua catenina gli stesse portando un po’ di conforto, tra la polvere dei libri e il disordine dei suoi pensieri. Non riusciva davvero a immaginare cosa provasse, quanto fosse profondo il dolore che portava dentro, lei non aveva mai vissuto nessuna di quelle tragedie in vita sua e l’empatia che provava nei suoi confronti non solo era egoistica, dettata da un attaccamento precoce, ma – in ogni caso, ne era sicura – non sarebbe stata mai abbastanza. Tuttavia, era felice di essere nella sua vita e di poterlo sostenere in qualche modo.
Mentre i piccoli facevano merenda, il suo cellulare squillò. Pensò che fosse lui, così corse a controllare.
| Sei davvero uno schianto con quei pantaloni neri. |
Quel numero non registrato in rubrica la lasciò interdetta, ma ciò che la allarmò maggiormente fu il fatto che quella mattina indossasse proprio dei pantaloni neri. Si guardò le gambe e si rese conto di essere davanti alla finestra. Si voltò immediatamente per guardare fuori, ma non vide nessuno, il che la inquietava maggiormente. Qualcuno la spiava?
Si chiese se non fosse il suo ex, ma era da escludere dato che si era trasferito a Londra subito dopo essersi mollati. E non era certo tipo da fare quel genere di complimenti. Si spostò dalla finestra, restandovi lontana per il resto della giornata.
Era quasi preoccupata per quell’sms. Inquietante. Ma magari era solo una cosa passeggera, o forse voleva solo cercare di convincersi di quello. Si chiese se fosse il caso di parlarne con Ed, ma subito cambiò idea, di certo non aveva bisogno di altre preoccupazioni. Il pensiero delle sue labbra e le mille fantasie sulla sua possibile gelosia le fecero scendere un brivido lungo la schiena. Doveva smettere di pensarci. Quello non era il momento giusto per lui, in ogni caso.
Scattò quando, più tardi, sentì il suo cellulare squillare nuovamente, mentre i bambini andavano via. Ebbe paura a controllare, ma doveva farlo.
| Passo a prenderti? |
Oh, Edward – pensò – non mi libererò mai più di te. Sorrise, scrivendo la sua risposta.
| Ne sarei felice. |
 
Fuori il cielo era del tutto coperto, ma la neve sembrava aver dato tregua a quella città almeno per quella giornata e Ed aspettava Marina al cancello.
In realtà era lì fuori da più di due ore, avendo concluso tutte le sue mansioni: quella mattina si era medicato, aveva fatto una doccia, era andato al lavoro, poi al rifugio. Aveva anche fatto la spesa, tornando di malavoglia a casa, ma se non avesse provveduto probabilmente quella sera avrebbe cenato con i cazzotti del suo patrigno, mentre lui aveva voglia di riposo con contorno di solitudine.
Per tutta la mattina, non aveva fatto altro che giocare con la catenina di Marina, trovandosi spesso a sorridere come un ebete mentre pensava a lei, per poi passare alla più totale confusione quando gli tornava in mente il loro – chiamiamolo così – bacio. Non baciava una ragazza da quando era al penultimo anno di liceo e questo la diceva lunga sulla sua agitazione al riguardo. Doveva essere quella la causa di tutta quella situazione, ma forse sarebbe stato meglio chiedere un consiglio ad Evangeline. Era decisamente più esperta di lui.
Ci aveva messo un’ora a decidere se scriverle o meno, ma alla fine aveva ceduto ed in quel momento, leggendo la sua risposta, desiderò essere un ragazzo normale. Per l’ennesima volta.
Riconobbe un paio dei suoi alunni uscire dalla cancellata e guardando l’orologio si disse che sarebbe uscita a momenti.
  • Ciao.
Scattò per lo spavento, ma poi incontrò i suoi occhi verdi. Era radiosa. Sorrise a sua volta prima di vedere la sua espressione mutare radicalmente in uno sguardo carico di preoccupazione. Le sue mani arrivarono al suo occhio quasi nero nel giro di pochi nanosecondi, facendoglielo strizzare. Non disse niente e lei fece altrettanto. Si lasciò esaminare.
  • Più tardi passa da me, ho una buona pomata. – disse. – Ti farà bene.
Gli lasciò una lieve carezza prima di allontanare del tutto le dita dal suo viso e lui chiuse per un attimo gli occhi, cercando di allontanare la valanga di ricordi e di lacrime che sentiva scorrergli dentro come un fiume in piena. Le voleva maledettamente bene, era l’unica cosa che riusciva a pensare.
Quando montò in sella, lei si sedette al suo solito posto con una certa dimestichezza, il che lo fece sorridere ancora e quando poi si fu aggrappata a lui, con la mano libera gli sistemò il bavero del cappotto per coprirlo meglio. Sentiva il suo respiro vicino e leggeva nei suoi occhi un certo languore, ma dovette forzarsi a partire.
  • Tieniti a me.
 
Jody le aveva descritto l’aspetto di questo zio Fred, così, non appena furono alla stazione, fu in grado di riconoscerlo: un uomo sulla sessantina, alto, col naso un po’ aquilino e i capelli brizzolati, stava in piedi davanti all’ingresso ben composto nel suo cappotto grigio.
Le costò un certo sforzo scendere dalla bici senza compiere qualche sciocchezza, ma sentiva la sua agitazione dal ritmo del suo respiro. Si diressero immediatamente dall’uomo e si fecero riconoscere.
  • Piacere mio, ragazzi. Mia nipote ha insistito tanto che io venissi, deduco che debba trattarsi di qualcosa di importante.
Li trascinò in un bar, per proteggersi dal freddo e ordinarono un the caldo per parlare a quattr’occhi “con lo spirito sereno”, così disse zio Fred.
  • In cosa posso esservi utile? – chiese quello, guardando l’occhio pesto di Ed e lasciandolo per un attimo a tentennare.
  • V-vede, Jody ci ha detto che lavorava come segretario per lo studio Foster&Martins fino a poco tempo fa. – cominciò Marina, seduta accanto ad Ed.
  • Esatto. – convenne l’uomo.
  • Ecco, saremmo interessati a conoscere il modus operandi dell’avvocato Foster.
Fred, con la mano sul mento, rifletteva su quella stramba richiesta. Infondo erano solo due giovani.
  • Come mai vi interessa saperlo? – la sua voce ricordava a Ed quella di un attore famoso, altalenante e grave, tipica dei doppiatori.
Marina guardò Edward, lasciando a lui la parola. Avrebbe saputo spiegare i fatti meglio di lei, non aveva dubbi.
  • Deve sapere che il mio patrigno ha avviato una causa con quello studio.
Raccontò per sommi capi la sua storia, curandosi però di specificare le ultime scoperte. Infondo erano quelle che motivavano la richiesta di aiuto.
  • Sei certo di tutto questo, Ed? – fece quello, quasi turbato da quel racconto.
  • Più che certo, signore. Per questo vorrei sapere dove si trova lo studio, dove si trovano gli archivi e che tipo di cause tende ad accettare il signor Foster. – la sua voce era insolitamente stabile, mentre parlava. – Non ho intenzione di arrendermi.
Non appena terminò di parlare, sentì la mano di Marina poggiarsi sulla sua gamba e i suoi occhi puntati addosso. Senza più badare alla presenza dello zio Fred, puntò gli occhi nei suoi, senza riuscire a chiudere del tutto la bocca, poi portò la mano sulla sua e la strinse, inspirando più aria possibile. Sapeva che Marina leggesse insicurezza sul suo volto, insieme all’ingenuità di qualcuno che non sa davvero cosa sta facendo, ma non ebbe paura.
Marina pensò di aver capito perché le ragazze si innamorassero dei principi delle fiabe: quei fantomatici eroi andavano incontro alle loro amate portando con sé non rose e cioccolatini, ma dei valori. Edward, nonostante le asperità che la vita gli riservava, lottava contro il suo nemico mantenendo alto il suo onore, senza mai rinunciare ai suoi ideali. Nonostante tutto, nonostante tutti. Affrontando la paura. Era raro incontrare qualcuno così, qualcuno che combatte fino alla fine, senza dubitare un attimo del valore delle cose che vuole proteggere. Forse quello era ciò che aveva letto nei suoi occhi il giorno in cui l’aveva visto per la prima volta ed ora lo ritrovava scritto sul fondo della sua anima, mentre lo guardava.
  • Bene. – riprese a parlare Fred. – Lo studio si trova attualmente sulla via principale al numero 58. È uno dei nuovi grattacieli, di quelli a specchio, lo riconoscerai subito: è quello più alto. Diciannovesimo piano. Per il momento sono senza segretario, ma a quanto ho capito, non hanno intenzione di assumerne un altro, mi hanno sostituito con un paio di computer di ultima generazione. Poi, poi, vediamo…
Prese una pausa, durante la quale il viso di Ed rimase teso e serio, nonostante lui e Marina si tenessero la mano sotto il tavolo, come due ragazzini.
  • I magazzini si trovano nei sotterranei. Non è semplice arrivarci, ma posso darvi un vantaggio.
  • Quale? – chiese subito Marina.
  • Le chiavi.
 
Lo zio Fred aveva appena terminato il suo resoconto sul tipo di lavoro svolto da Foster, come avvocato, ma non avevano ottenuto alcuna informazione utile: a quanto pareva, lo studio era rinomato per la correttezza e la condotta morale, per questo era il più richiesto nei dintorni, ma sembrava che allo zio Fred l’avvocato non avesse mai ispirato fiducia. In ogni caso, non c’era mai stato uno scandalo, una voce, un dubbio su quello studio e quindi il modus operandi di Foster non era una carta da prendere in considerazione.
  • Vi farò avere quella chiave tramite Jody. – concluse, alzandosi.
  • Non so come ringraziarla, Fred. – cominciò a dire Ed, mentre si alzava anche lui e gli tendeva la mano, senza lasciare quella di Marina.
  • Dammi del tu, mi fai sentire vecchio. – rise quello. – E figurati, gli amici di mia nipote sono miei amici e la tua causa mi sembra più che giusta. Ti auguro di risolvere la questione il prima possibile. Ah! Mi raccomando… - disse sottovoce, avvicinandosi. - …noi non ci siamo mai visti.
Andò via, dopo aver pagato il conto. Quell’uomo stava rischiando, ma lui avrebbe fatto in modo che non venisse in alcun modo coinvolto, lo stava promettendo a se stesso. Era il minimo che potesse fare.
Non appena rimasero soli, sentì le guance andare a fuoco percependo la stretta di Marina, ma non disse niente. La condusse fuori, simulando un’indifferenza del tutto impossibile da parte sua e lei sembrava essersi accorta della sua reale tensione. Erano le 18:30 e lui doveva avviarsi al lavoro.
  • Prima di andare – cominciò lei, senza più guardarlo. – passa da me. Per la pomata.
Soltanto quando furono alla bici accennarono a sciogliere le dita, muovendosi così rigidamente da sembrare burattini. Marina si aggrappò a lui e si avviarono verso casa.
Quando furono accolti dal tepore dell’ingresso, tirarono un sospiro di sollievo. Pochi minuti dopo, Marina era seduta sul divano accanto ad Ed con la medicina tra le mani.
  • Allora, chiudi l’occhio e non muoverti, altrimenti ti faccio solo più male.
Lui obbedì senza aggiungere altro e lei prese a stendergli quella crema con la punta dell’indice. Aprì l’altro occhio dopo un po’, curioso quanto un gatto di vedere la faccia che aveva mentre lo curava per l’ennesima volta. Era concentrata, lo sguardo quasi aggrottato, ma era carina. I capelli lunghi ricadevano morbidi sul maglione beige e gli occhi verdi vi si accostavano perfettamente.
  • Ecco fatto, tra qualche ora dovrebbe andare meglio. – e tornò a guardarlo. – Ti fa male da qualche altra parte?
  • No. – disse seccamente.
  • Non mentire. – lo rimproverò come se fosse uno dei suoi alunni.
  • Ma…
  • Edward… - aveva il viso di chi sapeva benissimo che stesse mentendo.
Sospirò, evitando per un attimo i suoi occhi.
  • Beh…qui. – indicò il lato sinistro del torace, dove Ben lo aveva colpito già un po’ di tempo fa, ma il dolore non accennava a sparire.
  • Fa vedere. – ordinò.
  • M-ma devo spogliarmi. – arrossì, agitando le mani in un eccesso di espressione.
  • Come se non ti avessi già visto senza maglietta. – rispose lei, cercando di nascondere il suo reale imbarazzo. Era abbastanza brava a fingere superiorità.
In realtà era terrorizzata al pensiero di vederlo di nuovo senza camicia, ma si era accorta che fosse ridotto peggio del solito. Ed lentamente si sfilò il maglioncino nero, poggiandolo sul braccio del divano per poi prendere a sbottonarsi la camicia scozzese. Marina desiderò sprofondare. Poco dopo, le spalle larghe del rosso furono di nuovo alla portata dei suoi occhi, ma – purtroppo – la sua attenzione fu attratta prima dal livido sullo sterno, ormai giallastro, poi da una nuova macchia violacea che ricopriva quasi l’intera metà del torace, sulle coste. Faceva impressione. Ed aveva la pelle d’oca un po’ per il freddo, un po’ per quegli occhi.
Le dita di Marina sfiorarono la lividura particolarmente grave e la sentirono terribilmente calda. Si alzò immediatamente a prendere del ghiaccio, lo avvolse in un panno e tornò da lui. Gli posò una mano sulla spalla e poi il ghiaccio sulla ferita. Lui strizzò gli occhi e strinse i denti, trattenendo un lamento. Per tutto il tempo guardò dall’altra parte, fino a che Marina non rimosse il pacco gelido e riprese la pomata tra le mani.
  • Metti il braccio intorno alle mie spalle.
Obbedì, riluttante, eccessivamente intimidito dal fatto che lui fosse mezzo nudo e che la stesse praticamente abbracciando, ma la lasciò fare. Dopo aver steso uno spesso strato di pomata, prese delle garze e delle bende e cominciò a fasciarlo. Mentre girava la benda intorno al suo corpo, la sentì troppe volte troppo vicina al proprio viso e quando terminò il lavoro, lei si posò le mani sulle gambe e rimase ferma. Col braccio ancora intorno alle sue spalle, tornò a guardarla e la ringraziò con voce flebile. Nessun problema – rispose lei e gli scompigliò i capelli, facendolo quasi sorridere. Si accorse che Marina stava fissando la sua iniziale posata sul suo petto ed il suo cuore cominciò ad accelerare i battiti, i muscoli tesi non gli permettevano di compiere alcun movimento. Lei si accorse subito del suo improvviso disagio ed arrossì. Erano davvero due idioti: stavano pensando alla stessa cosa.
Tuttavia, Ed diede ascolto alla voce della sua coscienza, ricordandosi che Marina era la sua migliore amica e che quell’imbarazzo, probabilmente, era provocato solo dalla sua inesperienza. Finiva sempre per metterla a disagio.
Ritirò il braccio e lei si alzò. Quando fu di nuovo dentro i suoi vestiti, riprese il cappotto e si avviò alla porta, quasi in ritardo per il lavoro.
  • Grazie. – disse.
  • Di niente. – ripetè lei.
  • Anche per oggi, con Fred.
Lei sorrise e poggiò una mano sul suo petto, nel punto in cui la medaglietta giaceva, nascosta dalla stoffa.
  • Ed… - disse, cercando di rimproverarlo silenziosamente per la sua troppa gratitudine.
Lo abbracciò, quasi normalmente e lui affondò il viso nei suoi capelli e avvolse le braccia intorno alle sue spalle.
  • Sei la migliore amica che abbia mai avuto.
In quel momento il cuore di lei si spezzò, ma prima di lasciarsi andare, gli sorrise e lo salutò. Quando richiuse la porta e non sentì più i suoi passi, fece fatica a trattenere una lacrima.
  • Che stupida. – si disse.
Pochi minuti dopo si dirigeva a casa di Jody, in cerca di consiglio dalla sua amica.
Bip bip.
| Dove vai tutta sola? |
Si guardò intorno, spaventata, ma non si fermò. Percorse tutte le strade principali, evitando i vicoli e quando finalmente entrò in casa della sua amica, si chiese come avrebbe avuto il coraggio di tornare a casa da sola, più tardi.
 
  • Mi ha detto che sono la migliore amica che abbia mai avuto.
Non le era mai sembrata così giù da quando la conosceva. Marina era una che affrontava i problemi di petto e da quando aveva incontrato Ed non la riconosceva più. Sapeva benissimo che in cuor suo lei avesse già tutte le risposte, ma se era arrivata fino a casa sua con quel freddo, doveva essere davvero in crisi.
  • Ma tu sei la sua migliore amica, Marina.
Lei la guardò con gli occhi lucidi e Jody non potè fare a meno di sospirare pesantemente, rassegnata al fatto che quella testa dura l’avrebbe ascoltata, ma poi avrebbe fatto di testa sua.
  • Lo so che è un momento difficile per lui, ma…che ci posso fare? – lagnò lei.
  • Che ci puoi fare?! Puoi cominciare a non forzarlo. Se tu stessa sai già che non è pronto ad altro, allora non insistere. Non cercare situazioni, non analizzare le parole o i gesti, ti farai solo del male e finirai per farne a lui.
Non ci aveva mai pensato fino a quel momento, ma doveva riconoscerlo: aveva cercato di abbordarlo, anche se indirettamente, fin dall’inizio e cercava nelle sue parole l’indizio che le rivelasse il suo interesse.
  • Hai ragione. – rispose – Lo so che ha problemi con le relazioni.
  • Questo era chiaro a tutti. – sdrammatizzò Jody. – Mar, lascia che ti dica una cosa: - parlava dolcemente – da quando lo hai conosciuto, quella volta che sono finita in ospedale, non ti riconosco più, sei cambiata. Cioè, ti comporti come se fossi un’altra persona, non sei più te stessa.
Si guardarono negli occhi e Marina non riusciva a capacitarsi di ciò che la sua amica le stesse dicendo. Era davvero così che si stava comportando?
  • Tutta questa storia ti ha annebbiato il cervello e hai cominciato a comportarti come una pappamolle e sai benissimo di non esserlo. Torna te stessa, non essere sdolcinata o depressa senza motivo e se davvero ci tieni a lui – e lì si fece particolarmente seria – allora impegnati a costruire un rapporto serio. Qualunque cosa siate, sii sincera, sii te stessa. Se continui così non farai altro che mantenere ogni cosa nel dubbio e prima o poi uno dei due si stancherà, perché non vi sarete mai conosciuti davvero.
  • Ma lui mi conosce-
  • No, non ti conosce e tu non conosci lui. Cosa sa di te? Sa come ti comporti quando sei arrabbiata o quando sei felice?
La risposta Marina la sapeva già ed era ‘No’. Fino a quel momento, nonostante un paio di volte fosse davvero stata felice, non aveva assunto il suo solito atteggiamento. Era tipico di lei saltellare sul posto o far leggere uno dei suoi testi per farsi conoscere, eppure con lui non lo aveva fatto.
  • Come potrebbe amarti se non sa chi sei? – disse Jody, ripensando a suo marito. – Non dico che di punto in bianco tu debba cambiare quando sei con lui, è ovvio che continuerai a mandargli segnali, ma devi essere cosciente del fatto che non esiste solo lui. Se vuoi davvero concentrarti su Edward, deve essere una scelta fra tante, non una cotta a prescindere. E poi…
  • Cosa? – era ansiosa di ascoltare la conclusione.
  • …solo così potrai farlo innamorare di te.
Gli occhi di Marina si riempirono di lacrime. Vedeva il volto di Christopher riflesso negli occhi di Jody che si carezzava il pancione. La sua amica aveva ragione, la saggezza che aveva acquisito con le sue esperienze, era fondata. Si accoccolò di nuovo a lei e le diede un bacio, dicendole un grazie.
  • Sei una persona speciale e non ho dubbi che lo farai cadere ai tuoi piedi, ma se vuoi che sia un sentimento vero, allora non fingere.
 
Cenò con lei e chiacchierarono della gita del giorno dopo, perdendo la cognizione del tempo. L’orologio della cucina segnava le 22:45 e lei era a piedi. Aveva pensato che chiunque l’avesse spiata o seguita, non poteva essere rimasto tutto quel tempo lì fuori ad aspettarla, ma l’idea che qualcuno potesse comunque esserci le metteva una cerca paura. Jody le aveva assolutamente proibito di andare via da sola, invitandola poi a dormire lì, ma in quel caso il giorno dopo avrebbe di certo fatto tardi. Doveva tornare a casa.
  • In questo caso, cosa farebbe la vera Marina? – chiese Jody, provocandola.
  • I-io… - cominciò, guardandola - …chiederei ad Edward di venirmi a prendere, ma sarà stanco.
  • E la vera te, glielo chiederebbe lo stesso?
  • Immagino di sì… - sospirò, prendendo il suo cellulare dalle mani di Jody, che lo aveva già recuperato dalla borsa.
  • Non avere paura. Renditi conto che non c’è nulla di male, stai solo chiedendo al tuo amico di accompagnarti a casa perché c’è un maniaco che ti segue.
Sbloccò la schermata ed aprì la loro conversazione, ritrovandovi gli ultimi sms.
Cominciò a digitare.
| Ciao Edward, come va? Scusa se ti disturbo durante il lavoro, ma volevo chiederti se potessi venire a prendermi a casa di Jody. Ho paura a tornare a casa da sola. |
Inviò il testo e si sentì patetica, rendendosi conto che se non fosse stata cotta di lui, quella richiesta le sarebbe sembrata normalissima, da amici. Dovette attendere che le lancette toccassero la mezzanotte per avere una risposta e lei e Jody corsero al cellulare come due ragazze liceali nel pieno di un intrigo.
| Non ti lascerei mai sola per strada. Dammi l’indirizzo. |
Sorrise come un’ebete, ricordandosi di quella volta che la accompagnò a casa da ubriaco, insistendo a non lasciarla andare da sola a quell’ora. Si beccò un lieve scappellotto dalla sua amica. Inviò l’indirizzo e subito dopo ricevette la risposta.
| Alle 2:30 sarò lì. |
 
Pedalava veloce come un matto, per riscaldarsi. Quella notte era gelida.
Al lavoro aveva vagamente chiacchierato con Nathan e il tipo cominciava a stargli simpatico, aveva un certo senso dello humour. Per di più, gli aveva detto di averlo già sentito suonare in un altro locale e di essergli piaciuto. Forse stava prendendo l’abitudine di trovarsi nuovi amici, ma anche in quel caso ci sarebbe andato con i piedi di piombo, soprattutto con tutte le preoccupazioni che aveva. Tra queste, Marina. Marina che gli scriveva quell’sms così strano, non solo per la richiesta, ma anche per il modo in cui aveva posto la cosa. Gli sembrava diversa, più…non trovava una parola adatta, sentiva solo che quello non era il suo solito tono dolce e premuroso.
Frenò accanto al marciapiede e le scrisse di uscire. Intanto provò a scaldarsi le mani, soffiandoci dentro e facendo sì che il suo fiato condensato filtrasse tra le fessure delle dita. Guardò l’unica finestra con la luce accesa e pensò che fossero proprio loro. Quando la luce si spense, Marina uscì fuori dal portone, avvolta nel suo parka.
  • Ciao! – gli disse – Scusa, ma…
  • Non ti preoccupare. – rispose, vedendola fermarsi davanti a lui con una certa disinvoltura. Era sorridente.
  • Ricambierò il favore. – gli assicurò.
  • Non…non ce n’è bisogno. – sorrise, ma lo fece per coprire il suo disappunto.
Marina si avvicinò spontaneamente e si sistemò senza badare troppo alla loro vicinanza e questo forse lo turbò più dell’imbarazzo che provavano di solito. Non riusciva a capire cosa le fosse successo. Tre chilometri di strade deserte dopo, erano sotto casa sua.
  • Ti va un the caldo? – gli chiese, disinibita.
  • A quest’ora? – constatò lui, ancora incredulo.
  • Siamo inglesi, il the va bene a qualsiasi orario. – rise lei.
  • Marina, stai bene?
Doveva avere un’espressione davvero accigliata, perché lei rise, ma ciò non lo aiutava a comprendere cosa ci fosse di tanto diverso in lei. Finì per salire a casa sua, cominciando ad ipotizzare che fosse ubriaca, ma camminava perfettamente.
Si accomodò sul divano e lei lo raggiunse poco dopo. Gli raccontò della serata trascorsa con Jody e della sua gita al Museo, entusiasta all’idea di far felici i suoi alunni. Lui, preso dal discorso, le raccontò di Nathan e di quanto lo incuriosisse quel ragazzo. Per la prima volta, parlarono di cose a caso, senza intenzioni particolari, senza filtri. Da amici.
  • Sai, mi ha fatto bene parlare con Jody. – disse, bevendo l’ultimo sorso di the. – Mi sento molto meglio. – sorrise.
  • Lo vedo. – rispose, ma dopo un secondo di esitazione. – Sembri diversa.
  • Davvero? Allora aveva ragione.
  • Su cosa?
Insistette sul fatto che fossero discorsi da donne e che lui, maschietto quale era, non poteva saperlo. Quella fu forse la prima volta che Marina si sentì davvero amica di Edward, in modo sincero. Aveva voglia di parlare con lui e di conoscerlo meglio. I suoi sentimenti non si stavano raffreddando, si stavano soltanto approfondendo. La divertiva leggere quell’espressione genuinamente confusa sul suo viso.
Alle 3:30 del mattino, convennero che fosse il momento di riposare. Non gli aveva parlato di quegli sms e non avevano provato imbarazzo, quella sera, ed era stato davvero piacevole.
  • Grazie ancora, Edward. – disse, accompagnandolo alla porta.
  • No, grazie a te per la pomata e per il the. – rispose, incurvando le labbra. – Sono contento c-che abbiamo chiacchierato.
  • Già, anche io sono stata bene.
  • Magari, uno d-di questi giorni possiamo pranzare insieme. – era quasi assurdo tutto quello, ma nessuno dei due si sorprese di quella proposta.
Aveva capito da subito che gli piaceva pranzare, così sorrise ed accettò e il sorriso che gli lesse sul viso le sembrò – nonostante tutto – più luminoso del solito.
  • Che strano, stasera mi sembri… - cominciò lui, senza abbandonare quei pensieri.
  • Uhm?
  • …felice. – silenzio. – Mi piace.
Risero entrambi, senza motivo. Si abbracciarono, Ed sentì il profumo di lavanda e scoprì che quello e la mano di Marina tra i capelli, avevano il potere di far svanire tutta quella disinvoltura in un istante. Sperò di non essere arrossito.
Si diedero la buonanotte e Marina chiuse la porta.
Ripensava al discorso di Jody e al modo in cui lei e Ed avevano trascorso quella breve ora, scoprendo che stare con lui, in quel modo, le piaceva ancora di più. Si sentiva libera da un peso.
Intanto Ed pedalava verso casa, pensando che dopo tanti anni, quella sera, con Marina, aveva riscoperto un se stesso che pensava fosse morto.


Angolo autrice:

Ciao bella gente! Come promesso ecco il nuovo capitolo, scusate per l'ora ma sono da poco rientrata dall'università ed avevo estrema necessità di nutrirmi.
Anyway, so che questo capitolo potrebbe essere lontano dalle aspettative di molti, ma per la storia è DAVVERO fondamentale. Non so se sia riuscita a trasmettere tutto ciò che volevo, ma mi auguro che questo grande passo che il personaggio di Ed - come di Marina - compie sia almeno percepibile.
Fatemi sapere cosa ne pensate e cosa vi aspettate che accada, sono davvero curiosa di sapere cosa vi frulla nella testa.
Approfitto per ringraziarvi tutti per le numerosissime visite e le recensioni, nonchè per il sostegno di Molly, Cecy e Lunastorta, siete fantastiche!
Beh, che altro...ci vediamo domenica per il prossimo capitolo che - A ME - piace da morire, non vedo ASSOLUTAMENTE L'ORA CHE LO LEGGIATE PERCHE' SI, CI HO MESSO TUTTA LA MIA SCIENZA PER RENDERLO BENE - ma non montiamoci troppo, non è la parte migliore della storia, ma vale la pena leggerlo.
Ok, bene. Credo di aver detto tutto. :)
Ci vediamo domenica! :D

S.


Bonus: Ed che si toglie la camicia. Sono sicura che ognuno di voi si sia sciolto quando ha visto questa immagine.

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Capitolo 18
*** XVIII ***






 
XVIII
 


Si svegliò con una certa allegria nel petto, inaspettatamente serena. Non che gli altri giorni fosse stata triste, ma per la prima volta da quando conosceva Ed, si era alzata con l’entusiasmo di un’adolescente, piena di voglia di mettersi in gioco.
Aveva dormito per sole tre ore, ma quella sera avrebbe rivisto Edward e avrebbero parlato ancora e lui avrebbe sorriso e lei non si sarebbe più sentita in trappola, dietro la sua maschera.
Si preparò per portare i bambini al Museo Scientifico, per poi dichiarare chiusa la prima fase dell’anno scolastico e sentirsi libera di fare i suoi progetti per le vacanze di Natale. Probabilmente avrebbe lavorato, ma poco importava.
Guardò il cellulare per puro scrupolo e inaspettatamente vi trovò un sms. Era quasi certa che fosse Edward, ma…
| Peccato che fossi in compagnia, stasera. La prossima volta non mi scappi. |
Chi diavolo era quel pazzo che le scriveva di continuo? Non avrebbe mai creduto che fosse rimasto ad aspettarla fino a tardi e l’orario del messaggio coincideva col momento in cui lei e Edward erano entrati in casa. Deglutì, mandando giù una mai più nefasta consapevolezza: aveva uno stalker.
Decise che se le avesse scritto di nuovo, ne avrebbe parlato con lui e lo avrebbe segnalato alle autorità. Non era certo la tipa che sopportava certe cose.
Tornando alle sue faccende, si assicurò di avere tutto e alle 8:00 in punto, uscì di casa. Quella giornata prometteva neve, ma le previsioni non avevano annunciato tormente o temporali, quindi si sentì tranquilla, aspettandosi una giornata come altre. Stava per scivolare sul marciapiede ghiacciato un paio di volte, ma riuscì ad arrivare intera all’ingresso della scuola. Salutò l’autista del pullman e cominciò ad accogliere i primi arrivati.
 
Quella notte aveva avuto qualche difficoltà ad addormentarsi, nonostante la stanchezza, ma cosa ci poteva fare se Marina gli era sembrata impazzita?
Di solito era così mansueta e pacata, quasi troppo imbarazzata quando era con lui e si era abituato a quel modo di fare, ci aveva trovato una stabilità. In effetti, se lo ricordava che lei non fosse stata sempre così, quando l’aveva conosciuta – in effetti poco tempo prima – era diversa. Aveva subìto una sorta di trasformazione nel corso del tempo, ma forse non ci aveva fatto caso perché aveva cominciato a comportarsi esattamente come lui. Poi, tutto d’un tratto, se l’era ritrovata ancora più esuberante di quel giorno in cui aveva scaricato Philip in biblioteca, il figlio di papà che aveva provato a fare il gradasso con lui. Per un attimo si sentì ridicolo ricordando quell’episodio, poiché in quel caso si era lasciato difendere da una donna, ma poco importava, ormai. Insomma, non riusciva a capire cosa avesse mai potuto dirle Jody per farla rinascere in quel modo. C’era forse qualche problema che la rattristava e lui non lo sapeva? O forse era proprio a causa sua che aveva cominciato a comportarsi in quel modo? Era sicuro che non avrebbe mai avuto una risposta a quelle domande, poteva solo sperare di non aver fatto nulla che l’avesse ferita in qualche modo.
Quella mattina, mentre lei era al Museo, avrebbe provato a rintracciare il notaio di suo nonno, alla ricerca del testamento. Si sentiva quasi ottimista, ma non voleva illudersi. Le ore in biblioteca trascorsero lente fino all’ora di pranzo, mangiò qualcosa al volo e si diresse all’internet point per rintracciare indirizzo e numero di telefono del signor Carter. Segnò i dati sulla sua agenda e si diresse direttamente lì, nella parte antica della città, dove le strade erano in pietra e le case rifinite col legno. Ricordava che quando era bambino, una sua amica abitava proprio in una di quelle casette e andavano al parco insieme, nei pomeriggi d’estate. Quelle giornate erano state felici per lui e sorrise al ricordo di quel sentimento.
Quando si fermò fuori ad un portone in legno scuro, cominciò a nevicare. Lasciò la bici appoggiata al muro e lesse il cartello: “Mr. Johan Carter – Notaio”. Doveva essere proprio lui, ricordava la maniglia di ottone della porta. Bussò al campanello e dovette attendere qualche secondo, dondolandosi sul posto, in ansia. Si sistemò i capelli e tentò di dimenticarsi dei lividi prima che un uomo aprisse la porta.
  • Salve – disse – cosa posso fare per lei? – era un uomo sulla quarantina ed era sicuro che non si trattasse del signor Carter, che era molto più vecchio.
  • È questo lo studio del signor Carter? – l’altro annuì, indicando la targa dorata che aveva letto poco prima. – Ecco, avrei bisogno di parlare con lui.
  • Oh… - sospirò l’uomo, portandosi una mano al viso sbarbato. – Mi dispiace, ma Johan è venuto a mancare l’anno scorso. Io sono suo figlio, Alex.
Si era immobilizzato, ma dovette sforzarsi di stringerli la mano. Doveva ancora metabolizzare la notizia, non aveva preventivato una cosa del genere. Si lasciò sfuggire un sospiro troppo evidente e Alex lo guardò, con un viso che era praticamente un libro aperto e si stava chiaramente chiedendo cosa mai un ragazzo dai capelli rossi volesse da suo padre.
  • Posso darti una mano? – chiese allora.
  • Ecco, spero di sì. – cominciò a dire.  – Sto cercando il testamento di mio nonno.
Lo invitò ad entrare. Il corridoio che portava allo studio era tutto arredato in legno massello, scuro e lucido, la moquette rossa dava risalto alle pareti chiare e una miriade di quadri percorreva l’intera lunghezza del muro. Lo studio non era cambiato e ricordava esattamente i giorni in cui stava lì e cercava in ogni anfratto, su ogni mensola. Una foto del signor Carter era poggiata su un mobile antico.
Si accomodò davanti alla scrivania, su una poltrona vecchio stile e si guardò intorno. Quel posto era pieno di scartoffie.
  • Allora, spiegami.
Alex si rilassò sulla sedia in pelle e non distolse i suoi occhi scuri dal viso del ragazzo che aveva davanti. In realtà aveva un vago ricordo di lui, risalente ai giorni in cui i suoi capelli erano totalmente castani, per questo lo aveva fatto entrare.
Ed raccontò del testamento e delle sue ricerche.
  • Mio nonno e suo padre erano amici – spiegò – e quando mio nonno morì, suo padre fu ricoverato in ospedale. Quando fu dimesso e venni a prendere il testamento, non c’era più.
  • Ma questo è impossibile. – intervenne Alex.
  • Lo so, per questo sono tornato qui.
  • Ricordo che mio padre cercasse un testamento, ma credevo che alla fine lo avesse trovato.
  • Lo abbiamo cercato ovunque, qui e non è saltato fuori.
Procedette a raccontare all’uomo del motivo per cui doveva assolutamente ritrovarne una copia e quello comprese.
  • Possiamo controllare nel nuovo magazzino, i fascicoli sono tutti conservati lì dalla morte di mio padre.
Si alzò, senza aggiungere altro e si diresse verso lo scantinato, facendogli segno di seguirlo. Si sentì fortunato, data la disponibilità dell’uomo, qualcun altro probabilmente lo avrebbe mandato via. Attraversarono un’enorme stanza vuota e superarono un’altra porta, oltre la quale la più vasta distesa di scaffali che avesse mai visto si presentò ai suoi occhi. Ci avrebbe messo millenni.
  • C’è parecchio lavoro da fare. – disse Alex.
  • Ti ringrazio per la tua disponibilità, non saprò mai come ripagarti.
  • Figurati. Probabilmente mio padre avrà combinato qualche pasticcio ed ora il minimo che possa fare è aiutarti a risolverlo.
Alex, in pantalone e camicia, cominciò a selezionare dei fascicoli nella prima fila di scaffali e li posò a terra.
  • Mi dispiace, ma dovrai portarli nello studio, non posso lasciarti qui da solo e potrebbe arrivare qualche cliente. – disse – E non devi assolutamente perdere niente, ogni cosa deve tornare al suo posto.
  • Grazie, Alex, ti assicuro che non combinerò guai.
 
Due ore dopo, aveva terminato di controllare le prime tre file di scaffali e non aveva trovato ancora niente, ma c’era ancora molta strada da fare. Stava risalendo dallo scantinato quando sentì il suo cellulare squillare dalla tasca del suo cappotto. Accelerò il passo ed entrò nello studio in cui Alex lavorava in silenzio, prese il telefono e vide sullo schermo il nome di Marina. Che cosa curiosa, una telefonata da parte sua proprio non se l’aspettava. Schiacciò la cornetta verde e si portò il cellulare all’orecchio.
  • Marina?
  • EDWARD!
Si pietrificò sul posto, udendo le urla dei bambini.
  • EDWARD, RISPONDI!
  • Marina, cosa succede?
La sua voce era rotta dal pianto e la sentiva lontana.
  • Abbiamo avuto un incidente – pianse lei dall’altra parte – Ti prego, aiutaci!
Gli girò la testa mentre Marina parlava. Sentiva le forze abbandonarlo.
  • Dove sei? Stai bene?
  • S-siamo sulla strada del ritorno, quella che aggira la collina. Ti prego…fa presto.
La voce rotta di Marina continuava a rimbombargli nella mente e sentì di avere paura. Non riusciva a muoversi, il petto era stretto in una morsa micidiale e quasi non riusciva a respirare.
  • Mi dispiace, devo andare. – disse ad Alex, il quale lo guardò confuso. – Marina, cioè, la mia amica ha avuto un incidente, devo raggiungerla.
Quello si alzò mentre Ed si vestiva più veloce che poteva, realizzando che finchè non avesse visto Marina e si fosse accertato che fosse sana e salva con i suoi alunni, poteva auto-considerarsi un uomo morto. Di infarto.
Sentiva quasi le lacrime salirgli agli occhi e non riuscì a chiudersi il cappotto perché tremava troppo. Non appena fu fuori e l’aria fredda lo colpì in viso, sbarrò gli occhi, cercando di respirare e riprendere il controllo. Camminava avanti e indietro cercando di fare mente locale sulla strada più breve da percorrere e si rese conto che non fosse affatto breve. Prese il cellulare e provò a richiamarla, ma non ebbe nessuna risposta, fu allora che cadde nel panico.
  • Ed, fermati. Hanno chiamato i soccorsi? – Alex lo teneva fermo, con una mano sulla spalla.
I soccorsi. Prese il telefono e compose il numero della polizia e spiegò i fatti cercando di non parlare troppo in fretta. Quando gli fu detto che stavano arrivando sul luogo, montò in sella e scappò via, lasciando Alex sulla porta.
 
Quando cominciò la salita sulla collina era completamente sudato e praticamente non respirava più, ma il pensiero che lei fosse in pericolo era peggio di una tortura e ogni volta cercava di pedalare più veloce. La strada era lontana dalla città e percorreva i margini della collina, lasciando da un lato solo il vuoto e la foresta e dall’altro la parete della montagna. Lungo la strada continuava a chiedersi cosa fosse successo e quando li avrebbe trovati, finché non cominciò a sentire le urla dei bambini. Due curve dopo, si rese immediatamente conto che l’incidente di cui parlava Marina, fosse un incidente d’auto. Il pullman giallo della scuola era praticamente appeso al guardrail con le ruote posteriori, sospeso nel vuoto. Trattenne il fiato pensando che potesse precipitare nel dirupo da un momento all’altro.
  • Marina! – urlò con tutta la voce che aveva in petto, disperato.
Scese dalla bici a pochi metri da loro e la lasciò cadere nella neve.
Fa che sia viva, fa che sia viva.
La sua prima preghiera fu esaudita quando sentì la sua voce rispondergli, mentre attraversava la neve alta fino alle ruote del pullman.
  • Edward! Edward! – la sua voce era stridula.
  • Marina!
Quando giunse al pullman, si accorse che era praticamente a testa in giù. Si arrampicò al guardrail, cercando di non urtare in alcun modo il mezzo e si affacciò attraverso i vetri rotti. Ciò che vide gli spezzò il fiato.
  • Edward!
Marina piangeva silenziosamente, aggrappata al suo sedile, con le gambe penzoloni nel vuoto. I bambini erano disperatamente aggrappati alle loro cinture di sicurezza e l’autista era svenuto, accasciato sul volante.
  • Sono qui! – le urlò, cercando di capire cosa fare.
Faceva un freddo boia ed era stanco, ma doveva intervenire prima che fosse troppo tardi. Gli occhi di Marina lo imploravano di salvarli.
Studiò la situazione cercando di non dare di matto e la prima cosa che credette di dover fare fu assicurare il pullman al guardrail. In tutti i mezzi di trasporto c’era una cassetta con attrezzi e oggetti di varia utilità, doveva recuperarla.
  • Allora, bambini! – urlò – Bambini! Vi ricordate di me? – doveva distrarli e qualcuno rispose di sì. – Bene, sono venuto ad aiutarvi, ma dovete darmi una mano: dovete rimanere immobili. Vi ricordate della storia che vi ho raccontato? Se farete come vi dico – continuò, cominciando ad afferrare le maniglie delle porte posteriori. – sarete proprio come il valoroso principe.
  • Bambini – parlò Marina – state tranquilli, tra poco torneremo tutti a casa.
Ed sentì lo sfinimento nel respiro di lei, mentre continuava a tenersi stretta allo schienale.
Riuscì ad aprire le porte dopo vari tentativi, ma fu in grado di sbloccarle provocando un forte rumore. I bambini continuavano a piangere, così cercò la valigetta e la vide legata all’ultimo sedile. Dovette sporgersi e reggersi con le gambe al guardrail per non cadere anche lui, ma alla fine la prese. Tirandosi indietro, ricadde sulla neve ed aprì la cassetta, trovandovi della fune e con quella assicurò il pullman, facendo passare le estremità attraverso i finestrini posteriori rotti e intorno al ferro a cui il pulmino continuava ad essere attaccato. Tirò più forte che poteva stringendo il nodo, lasciando che qualche verso gli sfuggisse per lo sforzo. Quando tornò ad affacciarsi, chiamò Marina.
  • Marina, come stai? – disse, col fiatone.
  • Pensa ai bambini. Tirali fuori!
Il fiato della ragazza usciva dalla sua bocca condensandosi per il troppo freddo ed Ed si accorse che fosse senza cappotto e che i vetri le avevano graffiato il viso e le mani. Perdeva sangue da una ferita sul collo.
Doveva pensare in fretta. Aveva ancora diversi metri di corda. Guardò i bambini e il modo in cui erano disposti, cercando di riprendere fiato, poi legò la fune al guardrail e la assicurò a se stesso. Si arrampicò al mezzo, pronto a calarvisi dentro. Quando poggiò il piede all’interno, sullo schienale di un sediolino, il pullman si mosse bruscamente facendo urlare tutti, lui compreso. Doveva stare attento o sarebbero precipitati tutti. Con un nodo in gola e il respiro corto, continuò a scendere fino all’altezza dei primi due bambini, arrampicandosi agli schienali e ai braccioli.
  • Allora, adesso… - respirò, cercando di essere rassicurante - …datemi la mano e aggrappatevi a me. – i piccoli non riuscivano a muoversi, ma afferrarono la sua mano. – Adesso vi slaccio la cintura e voi vi appoggerete al sediolino di fronte, d’accordo?
Piangevano, ma lo avevano sentito. Senza allentare la presa su di loro, fece scattare i ganci e quelli urlarono, atterrando sugli schienali.
  • Tranquilli, va tutto bene, vi tengo! – era terrorizzato all’idea che qualcuno di loro cadesse. – Adesso aggrappatevi a me, così vi porto fuori.
Lo strinsero come se fosse l’unica salvezza e restarono attaccati a lui, mentre ripercorreva la salita. Quando fu di nuovo al guardrail, li fece scendere e gli ordinò di restare fermi lì. Aveva tirato fuori due bambini su 20 e nonostante la paura del vuoto, tornò nel pullman. Ripeté le stesse manovre per ogni coppia di bambini, trovando a volte qualche intoppo con le cinture. Un bambino stava per scivolare giù, ma era riuscito a prenderlo. Qualcuno di loro, particolarmente spaventato, non riusciva nemmeno a tenersi a lui, così dovette portarli uno alla volta.
Mancavano gli ultimi due bambini e Marina non aveva smesso per un secondo di parlare e di osservarlo, urlando quando scivolava o quando il pullman si muoveva.
  • Forza bambini – disse lei – Adesso la maestra vi raggiunge.
Ed sganciò le ultime due cinture, prese in braccio i due piccoli e riprese a scalare. Ormai era senza fiato e i muscoli gli facevano male ed era sempre più preoccupato per Marina, le sue mani stavano diventando blu e tremava. I capelli erano coperti di brina e il sangue continuava a colarle addosso. A quella visione, strinse i denti e prese più aria nei polmoni, portando fuori gli ultimi due bambini.
  • Marina, arrivo!
  • Prendi prima Alfred! – disse lei, indicando l’autista con lo sguardo.
  • No, prendo prima te! – rispose, non ammettendo un no.
  • No, Edward, ti prego, io posso ancora resistere! Prendi Alfred, finchè ce la fai, a me basta tirarmi su, poi salirò da sola.
Ed, arrivato ormai alla sua altezza, non si fermò. Non seppe come ci fosse riuscito, ma più discutevano, più il tempo passava, più Marina restava lì. Scese fino al posto del conducente, usando il cambio e la plancia come appoggio, ma non doveva perdere l’equilibrio altrimenti sarebbe caduto. Scosse l’uomo sperando di svegliarlo, ma aveva perso i sensi, così cominciò a tirargli fuori le gambe. Dovette sforzarsi data la posizione dell’uomo, ma poi riuscì ad afferrarlo per il torace e a portarselo in spalla. Accidenti se era pesante, non sapeva se ce l’avrebbe fatta a risalire. Fece il primo passo e cominciò ad arrampicarsi, ma ad ogni avanzamento doveva sforzarsi di più. Si incastrarono a metà strada e dovette usare tutta la forza che aveva per riuscire ad afferrare il sediolino più in alto, lasciandosi sfuggire qualche grugnito dovuto allo sforzo. Il suo respiro riecheggiava nell’abitacolo, segno della sua stanchezza. Appoggiò Alfred all’orlo del pullman e dovette uscire fuori per tirarlo sulla terra ferma. Lo spostò lontano dal mezzo, trascinandolo nella neve. Non appena lo ebbe mollato, corse di nuovo al pullman e vi rientrò il più velocemente possibile. Il pensiero di recuperare Marina gli faceva entrare in circolo una grande dose di adrenalina.
  • Eccomi! Arrivo! – disse, urlando. – Resisti!
  • Sì – disse lei, ma tremava.
Per la troppa fretta, Ed scivolò, mentre il pullman faceva un altro movimento intorno a lui. Guardò giù e un capogiro lo colse alla sprovvista, mentre Marina cercava di non mollare la presa. Afferrò il bracciolo di un sedile e riprese il controllo, stabilizzandosi. Quando arrivò da lei, era pallida e congelata.
  • Aggrappati a me! – disse, nella voce un tremito inaspettato nell’averla finalmente a portata di mano.
Le tese una mano, ma lei era praticamente sospesa nel vuoto, i vetri rotti sotto di lei erano poco rassicuranti. Non aveva un appoggio per i piedi. Si abbassò ancora, facendo in modo che i loro volti fossero quasi alla stessa altezza. Inclinandosi, senza mollare la presa sul suo appiglio, riuscì a circondarle la vita con un braccio.
  • Ti tengo, ti tengo! – respirava affannosamente mentre lei stringeva i denti. – Adesso devi mollare e aggrapparti a me.
Marina era esausta, non riusciva a fare più niente e gli occhi le si riempirono di lacrime.
  • Dobbiamo fare presto – disse lui sentendo il pullman scricchiolare. – Fidati di me, aggrappati!
Cercò i suoi occhi e li trovò, leggendovi dentro il terrore.
  • Ti prego, molla la presa! – cominciò ad alzare il tono. – Marina, il pullman sta cadendo!
Sentendo il rumore del ferro che cedeva, sibilando, Marina lasciò andare lo schienale e lasciò che Ed la tenesse, cercando di aggrapparsi a lui.
  • Ti ho presa, tranquilla. Tranquilla. – disse, cercando di tirarla più su.
Lei si aggrappò al suo cappotto e tirò fino ad arrivare alle sue spalle. Circondò il suo collo con le braccia e il suo bacino con le gambe, non avendo modo di poggiare i piedi in un posto sicuro. Ed non smise di stringerla.
  • Adesso ti porto fuori da qui.
Respirò il suo profumo e sentì il suo tremito confondendolo col proprio. Marina era aggrappata a lui, ora doveva solo uscire di lì. Fece la prima mossa e il pullman oscillò. Quando si fermò, riprese la marcia e quello scattò di nuovo. Ad ogni passo il pullman cedeva e Ed cominciava a pensare che sarebbero morti entrambi. Marina urlava ogni volta che l’abitacolo tremava, stringendolo di più e terrorizzandolo ulteriormente. Quando furono più vicini all’uscita, videro le funi consumate: ancora un po’ e si sarebbero spezzate. I bambini si erano avvicinati al guardrail, chiamando la loro insegnante e lei piangeva, sentendo Ed sempre più stanco e vedendo il suo sguardo sempre più sconfitto.
  • Marina, siamo arrivati all’ultimo sedile. – disse, annaspando. – Devi scendere e poggiare i piedi sull’ultimo schienale.
Lei guardò il sedile e cercò di aggrapparvisi. Non aveva appigli e dovette trascinarsi per salire, lasciando Ed poco più giù. Quando fu del tutto sopra, gli tese la mano per aiutarlo a salire. Si alzarono in piedi e guardarono il guardrail sempre più lontano. Ed poggiò il piede sull’orlo del pullman, ma non appena provò a muoversi, la fune si spezzò! Come se ogni cosa fosse calcolata, afferrò Marina in un istante, impedendole di cadere. Precipitarono nel vuoto per diversi metri per poi fermarsi, trattenuti dalla fune. Videro il pullman precipitare tra gli alberi, decine di metri più in basso, facendo un rumore insopportabile. Le urla dei bambini e di Marina riecheggiavano nel vuoto.
Era appeso alla sua fune, dondolante sulla parete di un dirupo, con Marina attaccata al suo braccio.
  • Marina! Reggiti!
Cercò di tirarla su e lei cercò in tutti i modi di arrampicarsi a lui. Grazie alla fune, Ed aveva entrambe le braccia libere e lentamente riuscì a riportarla a sé, facendola aggrappare al suo collo. La fune gli stringeva il torace proprio dove aveva il livido ed urlò quando il peso raddoppiò col sopraggiungere di Marina.
  • Edward! Stai bene?!
  • Sbrighiamoci a salire, mi sto facendo male!
Si aggrappò alla roccia, cercando sollievo, ma la salita era ripida e lunga. Marina era attaccata alle sue spalle, non potendo muoversi in alcun modo, ma riusciva a dargli una mano tirando la fune con le mani e tirando lui con le gambe, aiutandolo ad avanzare. Il gioco di squadra gli permise di velocizzare l’andamento, ma ormai erano così stanchi che Ed quasi non ci vedeva più e ad ogni passo, un po’ di roccia si sgretolava sotto i suoi piedi. Aveva le mani del tutto graffiate dalla roccia e ormai il suo corpo cedeva. Era sudato, nonostante il freddo e sentiva lo sguardo di Marina e la sua paura penetrargli l’anima. Scivolò a pochi metri dalla meta, urlando, ma durante la discesa riuscì ad aggrapparsi ad una radice. Le scarpe consumate facevano poco attrito sulla roccia e sul terreno.
  • Ce la possiamo fare – disse lei, udendo le voci dei bambini sempre più vicine e capendo che lui avesse bisogno di incoraggiamento. – Giuro che se ci salviamo, non ti lascio più andare Edward Sheeran.
  • Hehe… – rise lui, istericamente, mentre tornava ad aggrapparsi alla roccia. – Allora…è meglio…che mi sbrighi. – rispose ansimando.
Gli sembrò di morire quando finalmente si aggrappò allo spigolo del precipizio, affondando la mano nella neve. Marina continuò a tirare, quasi urlando per lo sforzo, finchè entrambi non caddero sulla neve, ancora l’uno sopra l’altro. Ed respirava cercando di ignorare il dolore, ma pochi secondi dopo si alzò e prese Marina per le mani, facendola alzare. Scavalcarono il guardrail e caddero in ginocchio. Lui sciolse la fune dalla sua vita e si sfilò immediatamente il cappotto: glielo posò sulle spalle, circondandola con le braccia, sperando di aiutarla a riscaldarsi. I bambini li circondarono in pochi secondi, ma Marina ebbe bisogno di stare abbracciata ad Edward per qualche minuto, scoppiando in lacrime. Lui la strinse ancora più forte, liberando quella paura che aveva tenuto stretta nel petto per tutto il tempo e lasciando il posto ad un sollievo che non aveva mai provato. Marina era al sicuro tra le sue braccia, pensò guardando il cielo e sospirando. Si chiese cosa avrebbe fatto se l’avesse persa, mentre tornava ad affondare il viso tra i suoi capelli. Riusciva a trovarla bella anche sporca di sangue e terra e percepì il suo respiro sul collo come la più bella cosa che avesse mai sentito sulla pelle. Lei era viva e stringeva il suo maglione grigio, senza dare cenno di mollare la presa. Non voleva più lasciarla andare e senza riuscire più a frenarsi, la strinse ancora e pianse anche lui, facendo vibrare il suo petto. Divenne improvvisamente consapevole del fatto che senza di lei non sarebbe stato lo stesso, che senza Marina nulla avrebbe avuto più senso. E non c’era una vera ragione, ma sentiva chiaramente che la paura che aveva provato era autentica. Si rese conto di volerle troppo bene. Sentì le lacrime gelarsi sulle guance e i muscoli del viso contrarsi. Non piangeva da quando era morta sua madre ed ora, dopo cinque anni, lo faceva per lei. Si strinsero di più, seduti nella neve.
I bambini si gettarono tra loro e Marina aprì il cappotto per abbracciarli, staccandosi da lui. Si guardarono e lei sperò che lui potesse leggerle negli occhi tutta la sua infinita riconoscenza. Quando pensi di morire, ti sembra che ogni cosa acquisti all’improvviso il giusto valore e il ragazzo della biblioteca era la cosa più preziosa che avesse nella vita, con i suoi occhi azzurri e le sue lacrime. In quel momento avrebbe voluto baciarlo, troppo grata di essere ancora viva, sicura che lui avrebbe ricambiato, glielo leggeva negli occhi. Tuttavia, si frenò. In lontananza, sentirono le sirene della polizia e dell’ambulanza. Se avessero dovuto aspettare le autorità, lei e i suoi alunni sarebbero morti.
Invece Edward li aveva salvati uno ad uno, rischiando la propria vita, mettendo il bene degli altri – il suo bene – davanti al proprio.
Edward era un eroe.






Angolo autrice:

Vi avevo avvertito di non aspettarvi nessuna cosa stratosferica, ma che volete, a me sto capitolo piace. Credo che dia maggior senso alla storia, al titolo, al personaggio.
Anyway, cosa ne pensate? Io questi due li adoro.
Aggiorno con un giorno di anticipo perchè sono felice, perchè avete recensito e perchè finalmente ho ripreso a scrivere il finale, anche se mi sento incasinata.
Quindi beccatevi il capitolo, io aspetto trepidante i vostri commenti.
Ci vediamo prossimamente.
Intanto, buon weekend! :)

S.

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Capitolo 19
*** XIX ***




XIX




La neve aveva ricominciato a cadere.
Li avevano portati tutti all’ospedale con l’ambulanza e le auto della polizia e li avevano visitati. Qualche bambino era stato subito dimesso, qualcun altro era stato trattenuto per qualche contusione o qualche ferita superficiale. Alfred si era svegliato e dopo la visita di routine lo avevano dimesso, stava bene. Lui era stato visitato e le sue ferite disinfettate. Quando l’infermiera vide tutti i suoi lividi, credette che fossero dovuti alla sua operazione di salvataggio, quindi per quella volta se la cavò bene. Nessuno gli aveva fatto domande. Gli diedero qualcosa per la febbre che gli stava salendo a causa della sudata e del freddo e lo lasciarono andare. Marina era stata ricoverata: aveva la febbre anche lei, una lunga serie di ferite superficiali, una lieve contusione e una ferita più profonda al collo.
Era riuscito a raggiungerla solo dopo diverse ore, dopo che la polizia lo aveva fermato. Gli avevano fatto le domande di routine, “Chi ti ha avvertito?”, “Cosa hai fatto?”, per poi ringraziarlo a nome dell’intero corpo di polizia e dargli una pacca sulla spalla.
  • Sei stato un eroe, ragazzo.
Non si considerava un eroe, lui era corso lì per aiutare Marina, nient’altro.
Scoprì, ascoltando uno dei poliziotti, che una delle catene montate sulle ruote del pullman si era spezzata, facendo sbandare il mezzo proprio su un tratto di strada ghiacciato e l’autista aveva perso il controllo.
Così chiamò Pit e gli disse che avrebbero saltato il lavoro data la situazione e quello – buono com’era – gli disse che non doveva assolutamente preoccuparsi e che doveva dare un bacio a Marina da parte sua. Quando chiamò Ben, per avvertirlo che non sarebbe tornato, quello non fu molto felice, promettendogli di fargliela pagare per quel mancato giorno di lavoro. Ma ormai era abituato a quelle parole, non lo toccarono quanto invece lo smosse la vista di Marina stesa a letto, con la flebo attaccata al braccio. L’aveva cercata ovunque e alla fine Stephany lo aveva portato la dei.
La stanza bianca era occupata da un’altra paziente, in compagnia di una parente, che lo vide restare imbambolato sotto la porta. Strinse le mani fasciate in due pugni e inspirò, prima di entrare: Marina aveva il collo fasciato e così la testa e le mani. Era ridotta male, ma era viva e quella era l’unica cosa che riteneva importante. Si sedette accanto a lei, ricordando quei momenti ancora troppo recenti. Per un attimo rivide il vuoto e la neve e rabbrividì. Scosse la testa, scacciando via i pensieri, concentrandosi poi su di lei e sulle sue labbra pallide.
Infilò la mano nella sua, senza ricevere risposta, ma la strinse comunque, pur sentendosi osservato dalle altre persone presenti nella stanza.
Era ancora sporco e stanco, ma passò comunque la notte lì, col capo poggiato sul bordo del letto e la mano che stringeva quella di Marina.
 
Grazie a Stephany non lo avevano cacciato, ma quando il sole di una nuova domenica sorse, un’infermiera lo svegliò e gli disse che doveva lasciare la stanza. Guardò quella donna giovane e trovò sul suo viso un po’ di comprensione. Alzò il capo di malavoglia, assicurandole che entro due minuti sarebbe andato via, poi lei lo lasciò solo.
C’era silenzio nell’ospedale e Marina dormiva ancora. Gli sembrò che il suo viso fosse più sereno e che le labbra stessero tornando al solito color ciliegia. Prima di lasciare la sua mano ed andare via, ascoltò di nuovo il suo respiro. La regolarità di quel suono dava pace alla sua anima stanca. Sorrise, realizzando che quella era la seconda volta che la vedeva dormire e in entrambi i casi il suo aspetto gli aveva ricordato quello di una bambina, anche se preferiva il pigiama con gli orsetti al camice dell’ospedale. Quando l’infermiera bussò alla porta per richiamarlo, si chinò su di lei e – senza alcun tipo di timore, con naturalezza – le diede un bacio sulla fronte, carezzandole la testa. Fu un gesto così inaspettatamente spontaneo da parte sua, ma la paura che aveva provato il giorno prima lo aveva segnato. La salutò mentalmente ed uscì dalla stanza.
Non appena entrò in casa, andò in cucina a preparare la colazione, sentendo già i passi di Ben sopraggiungere dal piano di sopra. Si aspettava il peggio mentre versava l’acqua nella teiera e quando Ben entrò, non mostrò alcuna emozione, continuando a rivolgergli le spalle. Sembrava che si divertisse di più quando capiva che fosse spaventato, quindi stava imparando a controllare le sue espressioni, anche se non era facile. Continuò ciò che stava facendo, accendendo il fornello e prendendo le tazze dal colapiatti, ma prima o poi dovette girarsi. Il viso scuro di Ben era contratto in un’espressione di rabbia. Con due veloci falcate, avanzò verso di lui e gli mollò un ceffone. Il colpo fu così forte da fargli voltare il viso a destra, facendolo sbandare, ma non seguirono altri colpi.
  • Salta un’altra giornata di lavoro e non ti risparmierò nemmeno un cazzotto.
Non sentiva più il viso e per un attimo pensò di andarsene, ma se lo avesse fatto Ben lo avrebbe rincorso – come era già successo. La gente non capiva quanto lui fosse in trappola, non sapeva che qualunque mossa facesse, finiva per perdere. Qualcuno lo aveva chiamato eroe, ma era l’appellativo più sbagliato che potessero mai dargli, poiché due secondi dopo il ceffone, tornò a preparare la colazione, come un cane con la coda tra le gambe.
Cercò di mangiare qualcosa, ma era ancora disgustato dall’idea di se stesso. Aveva approfittato per riordinare sommariamente la sua stanza, fare il bucato, rifare i letti, fare le pulizie. Quando stava per entrare in camera di Ben, lui lo fermò e gli ordinò di non entrare più. Ok, una camera in meno, ma perché? Lì dentro dovevano esserci i documenti che stava cercando, ne era quasi certo dato che non erano nella teca. Ben era stato furbo e aveva anticipato la sua mossa, anche se non credeva che sospettasse qualcosa, dato il suo comportamento. Tre ore dopo si passò le mani fasciate tra i capelli e sul viso, avendo terminato le pulizie, ma non poteva fermarsi. Andò a prendere il vestito da pagliaccio dalla sua stanza e si diresse di nuovo all’ospedale. Quella notte aveva nevicato parecchio e faceva ancora più freddo, così fu costretto ad indossare il cappello e a stringere i lacci del cappuccio, ma sopportò abbastanza bene il tragitto, perché aveva intenzione di fare una sorpresa a Marina.
  • Di nuovo qui? – chiese Stephany, quando lo vide di nuovo entrare.
  • Sì, non posso deludere i bambini proprio prima di Natale. – rispose, sentendosi a suo agio con lei.
  • Sei proprio incorreggibile: solo ieri hai salvato la vita a 22 persone, finendo in ospedale ed oggi torni di nuovo qui per fare il naso rosso. – rise quella, davvero sorpresa che quella testa rossa fosse una tale eccezione in quella società.
  • Stephany, se tu fossi stata una bambina avresti voluto vedermi e lo sai. – quella annuì, sorridendo. – E poi, devo andare a trovare una persona.
  • Quella ragazza? – chiese maliziosa, guardandolo negli occhi.
  • Marina. – disse soltanto. – Adesso vado, ci vediamo più tardi.
Salutò e si diresse al reparto oncologia infantile. Nel suo stanzino, si truccò nascondendo tutti i segni e infilò vestito e parrucca, aggiungendo al suo outfit un cappello da Babbo Natale, come faceva ogni anno. Quando uscì fuori, le infermiere risero e lo salutarono e lui ricambiò, sorprendendo qualcuna di loro.
Stava cambiando, lo vedeva attraverso gli occhi degli altri.
Quando entrò nella prima stanza, si immedesimò nel suo ruolo e raccontò di come avesse dato una mano a Babbo Natale a salvare le sue renne e del suo cappello ricevuto in dono. Qualcuno di loro strepitò, credendo davvero alla sua storia e battendo le mani al suono di Jingle Bell, ma quando arrivò da Kathy il suo sorriso si spense.
La piccola non ebbe neanche la forza di alzare le braccia per salutarlo, come faceva sempre. Per un momento non seppe cosa fare, ma i suoi occhi pieni di aspettativa lo portarono a comportarsi esattamente come avrebbe dovuto. Riuscì a farla sorridere e quello fu il suo personale regalo di Natale.
 
Aveva promesso alla piccola che sarebbe tornato da lei con un regalo speciale la prossima domenica e lei gli diede un bacio sul cerone bianco. Continuò a sentire il petto pesante quando uscì dalla stanza, più rammaricato di tutte le altre volte che aveva visto qualcuno così vicino alla morte. Non era pessimista, era solo realista: di bambini in quello stato ne aveva visti anche troppi.
Il pensiero di Marina lo riportò alla realtà e lo fece smuovere. Stava per rientrare nello stanzino per cambiarsi, ma cambiò idea: sarebbe andato a trovarla vestito in quel modo. Magari le avrebbe strappato un sorriso, dopo l’incidente.
Per la prima volta, uscì dal reparto di oncologia con ancora indosso il costume e lungo la strada verso il quarto piano, medici, infermiere e pazienti, si voltarono a guardarlo. Era imbarazzante, anche se non era raro vedere pagliacci in ospedale, solo che lui si stava dirigendo nel reparto adulti. Smise di sorridere, sentendosi osservato, ma quando fu di nuovo fuori la porta di Marina e sentì la sua voce, le sue guance si riempirono di nuovo. Ascoltò da dietro la porta una voce familiare, forse aveva visite. Che fosse Jody? Per un momento pensò che fosse il caso di andarsi a cambiare altrimenti si sarebbe sentito troppo in imbarazzo, ma voleva davvero rinunciare al suo sorriso?
“Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?”
Scelse la felicità, per la seconda volta.
Incurante di chi potesse esserci nella stanza, spinse la porta ed entrò.
Vide Marina e Jody parlare per poi interrompersi e fissarlo.
  • Ciao! – disse, quasi ridendo. – Sono il magico pagliaccio!
Marina era sconvolta, ma il sorriso stava cominciando a formarsi sul suo viso martoriato.
  • Vuoi ascoltare una canzone? – chiese, pizzicando le corde.
La ragazza sull’altro letto si voltò a guardarlo e sorrise, capendo che la sua coinquilina non aveva fatto altro che parlare di lui per tutto il tempo. Quello era l’eroe.
  • Ciao Edward! – disse, senza smettere di sorridere.
  • Ciao Ed. – disse anche Jody.
Ricambiò il loro saluto con un inchino, esattamente come faceva con i bambini, dopodiché prese a suonare Jingle Bell.
  • Jingle bell, jingle bell, jingle on the way…
Marina si sistemò meglio sul letto, godendosi la sua esibizione. Le avevano detto che lui fosse rimasto lì per tutta la notte, ma non si aspettava di vederlo rispuntare poche ore dopo vestito da pagliaccio. Si sentì in imbarazzo per tutta quella premura, era davvero felice. Non smise di guardarlo e di sorridere, pensando che quel ragazzo aveva salvato la vita a lei e ai suoi alunni ed ora era tornato lì a salvare quella di altri bambini. Più guardava il suo sorriso, più capiva che fosse proprio quell’aspetto di lui a catturarla. Battè le mani quando terminò di cantare.
  • Mi racconterai una storia? – chiese, mentre lui si avvicinava e si sedeva sul materasso.
  • Credo che tu la conosca già. – sorrise lui, lanciandole uno sguardo che mai aveva visto. I suoi occhi si strinsero leggermente nell’osservarla.
  • Ed – intervenne Jody – ti devo ringraziare, davvero. Li hai salvati.
  • Non potevo certo lasciarli lì. – disse lui. – Era il minimo che potessi fare.
Dirottarono la conversazione sullo stato di salute di Marina e dei suoi alunni. Scoprì con piacere che nessuno di loro aveva riportato seri danni e che lei stessa quel pomeriggio sarebbe stata dimessa. Magari avrebbe potuto accompagnarla a casa, qualsiasi cosa per quelle labbra rosse.
  • Adesso devo andare – disse Jody – altrimenti perdo il pullman. La lascio nelle tue mani. – disse a Ed.
Salutò Marina e il suo amico pagliaccio e andò via. Rimasero “soli”. La ragazza del letto di fianco e sua madre continuavano ad osservarli e sembrò ad entrambi che stessero spettegolando, ma ci fecero poco caso.
  • Non puoi certo tornare a casa a piedi. – disse lui.
  • Infatti volevo chiederti se…
  • Certo. – rispose subito, strappandole un altro sorriso.
Tra loro si era creata un atmosfera diversa dal solito.
  • Edward, non saprò mai come ringraziarti. – cominciò lei. – Se non fosse stato per te-
  • Marina, davvero, lo farei di nuovo. – ammise anche a se stesso. – Perderti non rientra nei miei piani. Sei la mia migliore amica.
Lei sorrise e gli prese la mano, stringendola più di quanto lui si aspettasse.
  • Ti voglio bene. – rispose lei, spiazzandolo. Ed lesse nei suoi occhi un’infinità di sentimenti: turbamento, felicità, tristezza, preoccupazione, ma dopo qualche secondo le rispose.
  • Anch’io. – e ricambiò la sua stretta.
Marina passò l’altra mano sul suo viso e poi cercò di spezzare quel momento, sentendosi osservata da quelle due. Chiacchierarono delle dimissioni e decisero di chiedere al medico di anticiparle di qualche ora di modo da poter tornare a casa e pranzare, ma prima Ed tornò ad essere il ragazzo della biblioteca, rivelando nuovamente i segni che aveva sul viso. Avvolto nella sua felpa blu, tornò da lei e insieme ottennero il permesso del medico di tornare a casa.
Aiutò Marina ad alzarsi e la accompagnò al bagno, lasciandola poi sola ad indossare il ricambio portatole da Jody, ma poco dopo lei si affacciò dalla porta.
  • Edward – sussurrò e lui si voltò. – Ho un piccolo problema.
Lui capì subito che a breve sarebbe arrossito perché lei era già color pomodoro.
  • Dimmi pure. – disse, ansioso di capire.
  • Non…non riesco ad abbottonare i jeans. – continuò a sussurrare. – Mi fanno male le dita.
  • Ah… - riuscì solo a dire.
Lei guardò altrove, per qualche motivo che non sapeva spiegarsi, finchè non lo vide avanzare verso di lei. Si scostò dalla porta e lo lasciò entrare nel bagno, vedendolo poi socchiuderla nuovamente. Senza guardarla negli occhi, Ed allungò le mani verso la sua vita, scorgendo il ricamo delle mutandine bianche. Cercò di controllarsi per non fare figuracce, ma sapeva benissimo che Marina leggeva il suo viso come se fosse un libro aperto. Fece un altro passo verso di lei e con le mani fasciate prese le estremità della chiusura. Mentre le chiudeva i jeans, la sentì vicina in un modo diverso dal solito e il cuore gli martellava nel petto. Probabilmente era diventato del colore del suoi capelli.
  • Ecco fatto – disse, terminata l’operazione, poi si allontanò.
  • Grazie. – fece lei, simulando indifferenza.
Marina si sentì terribilmente stupida mentre prendeva le sue cose ed usciva con lui dal bagno: poteva chiedere tranquillamente ad un’infermiera di aiutarla e invece doveva essere diventata scema.
Quando firmò le dimissioni e uscì dall’ospedale, ringraziò che facesse così freddo, così forse le sue guance si sarebbero spente.
Montò sulla bici di un Edward ancora vagamente in imbarazzo, ma si aggrappò a lui come tutte le altre volte.
Cercò di mantenere una conversazione normale fino a casa, riuscendo ad appianare le cose. Non consentì ad Ed di rifiutare il suo invito a pranzo e insieme prepararono qualcosa di veloce e caldo.
  • A proposito, Pit ti manda un bacio. – riferì Ed, con la bocca piena.
  • Oh, grazie. Magari stasera vado a trovarlo.
  • Io stasera devo suonare. Spero che le mani non mi facciano male. – disse, guardandole.
  • Quando ieri ti ho chiamato, cosa stavi facendo?
Rimase sorpreso dalla domanda e si ricordò di aver lasciato Alex sotto la porta. Raccontò a Marina del suo incontro col notaio e delle sue ricerche, ribadendo a se stesso di doversi andare a scusare con lui.
  • Quindi tornerai lì a cercare?
  • Sì. Domani tornerò allo studio e mi scuserò per essermi dileguato in quel modo e gli chiederò di nuovo di entrare nel magazzino.
  • Se vuoi, da lunedì sono libera. La preside ha voluto rimandare la mostra, a causa dell’incidente, quindi…
  • Non devi studiare?
  • Sì, ma…non riuscirei comunque a concentrarmi per così tante ore di fila.
Quel pomeriggio lo trascorsero sul divano a raccontarsi storie e aneddoti, cercando di conoscersi meglio. Edward le raccontò di quando suo padre se ne andò di casa e di come sua madre avesse conosciuto Ben, una sera in un bar. Marina cominciò a comprendere meglio l’inferno che Ed stava attraversando, ma aveva capito che nella sua vita aveva sempre avuto una spalla forte ed era quella di suo nonno.
  • Mio nonno mi ha insegnato tutto: a pescare, ad andare in bici, a suonare. Era un uomo con dei forti ideali, per lui la famiglia era tutto e avrebbe fatto qualsiasi cosa per noi. Mi ha insegnato a pensare con la mia testa.
  • Adesso capisco. – disse lei, ricevendo in risposta uno sguardo confuso. – Ho capito perché sei così.
  • Così come?
  • Un uomo con dei forti valori. Faresti di tutto per non perdere quella casa ed è solo grazie agli ideali che ti ha lasciato tuo nonno.
  • Già. – lui sorrise amaramente al ricordo del suo vecchio. – Sai, credo che la nonna non sia molto in forma.
Le analisi di Evangeline non erano perfette da ormai molto tempo e lui era preoccupato. Marina, a quel punto, gli raccontò di come sua nonna l’avesse cresciuta mentre sua madre era impegnata al lavoro e di quanto avesse sofferto quando l’aveva persa. Era stata lei ad avviarla all’insegnamento, a farle capire il valore di un bambino. Era per lei che insegnava.
Terminata l’infanzia, passarono all’adolescenza. Ed descriveva quel periodo della sua vita come inaspettatamente normale, a differenza degli ultimi cinque anni. Aveva ricordi felici, come tutti gli adolescenti. Aveva avuto amici, divertimento, viaggi. Quando Marina gli chiese che fine avessero fatto quelle persone, la sua risposta fu un nome: Jef. Ma lei cambiò discorso, volendo evitare di raccontargli di averlo incontrato anche prima che lui li vedesse.
  • Fidanzate? – chiese, con voce intenzionalmente maliziosa. Lui divenne rosso, ma poi le rispose.
  • Beh, sì, ho avuto qualche ragazza, ma non è andata bene.
Ricordando quel periodo, si ricordò di nuovo che non baciava qualcuno da cinque anni e che l’altra mattina stava per baciare lei. Entrambi arrossirono, ma lei sembrò voler subito sdrammatizzare, raccontandole del suo ex e di quanto fosse idiota. Sentì un pizzico di gelosia quando lei gli raccontò con molta tranquillità di quando lo aveva baciato per la prima volta: sentiva una certa malinconia nella sua voce e si sentì infastidito.
  • Ti va se ti faccio leggere qualcosa di mio? – disse poi.
  • Davvero? – era molto curioso di scoprire di cosa fosse capace.
  • Certo. Tu hai suonato per me, ora è il mio turno.
Si alzò per andare a prendere un quaderno e quando tornò al divano si accomodò accanto a lui, portandosi il suo braccio dietro le spalle. Quella Marina, pensò Ed, doveva essere quella autentica: aveva compiuto quel gesto con una tale naturalezza che quasi non gli pesò. La avvolse nel suo abbraccio, lasciandole posare la testa sulla sua spalla mentre si rannicchiava accanto a lui, poi prese tra le mani il quaderno aperto e cominciò a leggere un testo che lei gli indicava.
 
 Penso all'amore continuamente e poi, di punto in bianco, non so più spiegarlo.
L'amore in cucina, in treno, in ascensore, sotto la doccia e all'esame.
L'amore ovunque e poi non mi esce più.
Vivo delle parole dell'amore, ma come posso continuare se le ho dimenticate?
Vivo delle parole di te e le ho lasciate andare.
Vorrei scrivere giorno e notte, trovare le giuste forme, vorrei dire che siamo belli come un fiore e dolci come la panna, ma non ci riesco più.

Eppure, ho davvero bisogno di queste parole?

Ne esistono abbastanza per descriverti?

Esiste una parola grande quanto l'amore?
Quel giorno avrei voluto scattare una foto ai tuoi occhi, così da non dimenticare ciò che vi aleggiava, non dimenticare quanto amore c'era.
Non dimenticare che c'era.
Vorrei poter ricordare ogni giorno che c'era amore nel tuo sguardo e che quella che guardavi ero io.
Vorrei poter ricordare che mi ami e lo so solo io.
Cos'hanno visto quel giorno i tuoi occhi nei miei?

A volte non riesco a credere che quell'amore ci fosse davvero, l'ho atteso così tanto, l'ho desiderato così ardentemente, che vederlo, finalmente, mi fa credere di aver sognato.

E' sapere che quell'amore c'è che ancora mi fa sognate di te, parlare di te, pensare a te.

E continuo a credere che non ci sia gioia più immensa del desiderarti.

Perchè so che mi vuoi. Ogni tanto me ne ricordo.

E continuo ad amarti.
Vorrei guardare i nostri baci da lontano per osservare i movimenti delle tue labbra, ricordare quali parti del mio corpo hai sfiorato e risentire il tuo calore suo mio collo, per coglierne il significato.
E sentirti ancora, come si sente l'afa d'estate, il freddo del mare, il fruscio del vento. Ogni giorno.
Voglio ancora le tue mani nei capelli e le tue labbra umide, le voglio con ogni pensiero.
Vorrei godere da lontano della luce che sprigioniamo.
E amarti anche da lì.
"Ma poi lo dimenticherai, vero?"
"Certo."
Certo. Lo dimenticherò.
Sembra un delirare assurdo in punto di morte.
Dimenticarlo, che sciocchezza. 
Come si fa a dimenticare qualcuno che non si fa altro che ricordare?

Chi ha mai dimenticato il primo amore?

Se lo avete conosciuto, presentatemelo e chiudetemi in una stanza con lui, perchè io non so come si fa a dimenticare.
Non ne sono capace.

Sono così morbosamente attaccata al passato che, qualche volta, ho paura di accumularne troppo.

Ho così paura di dimenticare. Forse lascerei indietro anche me.

Se dovessi provare a dimenticarti, dovrei cominciare col dar fuoco alla mia stanza e a tutti i pezzi di carta e le foto che ci sono dentro.

E poi, cosa mi resterebbe?

Solo un vuoto nella mente, il dolore di non averti nel cuore.
 
Terminò di leggere il testo e non seppe cosa dire. Restò a fissare il foglio, turbato.
Sentì, solo per un attimo, di essere entrato nell’anima della ragazza che stava abbracciando e non sapeva più come uscirne. Quel sentimento che sentiva nel petto, così prorompente, gli faceva paura.
  • L’ho scritto molto tempo fa, ma credo che sia quello che mi rappresenti meglio. – disse lei, con le labbra incurvate.
  • È… - deglutì – è davvero bello. Sei brava.
In realtà stava ancora assorbendo l’urto che aveva subito il suo animo. Lei posò il quaderno al suo fianco e tornò ad appoggiarsi a lui, con le gambe piegate sul divano. Si sentì terribilmente scoperto quando lei tese la mano fasciata al suo petto e prese la catenina tra le mani. Ebbe quasi paura che lei potesse sentire il suo cuore palpitare troppo forte. Cosa gli stava succedendo? Da quando era andato a prenderla a casa di Jody sentiva che qualcosa nel loro rapporto fosse profondamente cambiato: come se fino a quel momento non si fossero mai conosciuti davvero ed ora che la stava scoprendo, quella Marina più solare, più se stessa, gli piaceva da impazzire. Di nuovo, il ricordo di quel momento nello stanzino della biblioteca lo fece rabbrividire.
Era pietrificato. Non sapeva cosa fare, come comportarsi, c’era dentro di lui qualcosa che voleva spingerlo ad avvicinarsi a lei, ma aveva paura di rovinare ogni cosa. Bastava un gesto.
Marina poggiò il capo sul suo petto, sentendosi al sicuro. Il tepore del suo corpo la scaldava. Sentì il battito del suo cuore e le sembrò che battesse veloce quanto il suo. Chiuse gli occhi ed ascoltò meglio, poggiando la mano sul suo petto: Edward era emozionato. Si chiese a cosa stesse pensando. Alzò il capo incontrando il suo sguardo: i suoi capelli si accostavano meravigliosamente ai suoi occhi chiari, nei quali scorgeva una luce tutta nuova. Si chiese che sapore avessero le sue labbra.
Ed inspirò, stringendola a sé e pensò di essere impazzito quando si avvicinò a lei e le diede un bacio sulla guancia. Fu un momento lento e quasi sofferto: sentì il contatto col suo viso quasi fosse un piacevole dolore. La sensazione della sua pelle calda mandò in tilt il suo cervello come un vecchio flipper, ma desiderò continuare a baciarla. La sua gola si strinse al pensiero che le sue labbra fossero così vicine.
Era come se stessero sparando dei fuochi d’artificio che partivano dal suo petto per poi andare ad esplodere nella sua mente. Aveva del tutto perso il controllo razionale della sua volontà, non era più padrone dei suoi sentimenti o del suo corpo.
Baciare Marina, nonostante l’ingenua innocenza del suo gesto, gli faceva perdere la ragione.
Agli occhi di altri, quello sarebbe stato un innocente bacio tra due amici, ma Ed prese a fissarla come un bambino che aspetta di vedere cosa succede, perché davvero non sapeva cosa stesse accadendo.
Marina lo guardò a sua volta, non sapendo cosa pensare. Forse lui era ubriaco o forse era solo confuso. Si raddrizzò, scostandosi leggermente da lui, cercando di capire cosa fare. Il cuore le faceva quasi male e istintivamente si portò una mano lì dove lui l’aveva sfiorata.
  • Scusa-
  • No! No, no…va bene.
Lui sembrò accennare un sorriso e lei stava per sciogliersi. Si avvicinò a lui, aggrappandosi al suo collo e lo baciò lentamente accanto all’angolo della bocca. Chiuse gli occhi e sentì Edward lasciare andare tutta l’aria che aveva nel petto. Per un secondò fu tentata anche troppo di raggiungere le sue labbra, ma non era ancora pronta a rischiare di perderlo per sempre.
Quando lui tornò a guardarla, con lo stesso sguardo di quella mattina, fu certa di tre cose:
  1. Il sentire le labbra di Edward sulla pelle, le dava un’emozione che non aveva mai provato prima. Con nessuno. In nessun caso.
  2. Lui aveva provato qualcosa mentre lei lo baciava e nonostante ciò Edward insisteva a non baciarla sulle labbra. Era ovvio che avesse bisogno di riflettere su quel sentimento, come se vi si dovesse immergere, ma ciò significava che stesse cominciando a provarlo.
  3. Quando incontrò di nuovo i suoi occhi, comprese di essersi completamente innamorata di lui.
 
Avendo avuto il permesso, quella sera andò all’Hawking intorno alle 20:30, quando il locale era già mezzo pieno e quando lui e Marina entrarono, furono accolti da urla e applausi.
Ed si guardò intorno, ascoltando il chiasso dei clienti che lo guardavano, poi il braccio di Pit arrivò a circondargli le spalle.
  • Complimenti ragazzo, sei stato bravo.
Capì che si stessero riferendo tutti all’incidente solo quando Nathan gli andò incontro sorridente e gli mostrò la prima pagina del giornale: “Bibliotecario salva scolaresca da incidente mortale: il nuovo eroe del Suffolk”.
Lui e Marina sgranarono gli occhi leggendo il titolo, ma mentre lei sorrideva compiaciuta del suo successo, lui continuava a restare esterrefatto. Praticamente, tutta la città sapeva cosa fosse successo.
  • Sei stato grande, Ed. – disse Nathan, battendogli una mano sulla spalla. – Vieni, ti aiuto.
Cercò di seguirlo fino alla pedana, ma durante il breve tratto che lo separava dalla sua postazione, fu continuamente fermato dai clienti per strette di mano e complimenti. Fino al giorno prima ognuna di quelle persone lo ignorava, probabilmente giudicandolo per il suo aspetto, ma da quando i suoi lividi erano diventati il segno della sua eroicità, sembrava che fosse simpatico a tutti.
Era lusingato da quell’affetto, ma…non riusciva ad apprezzarlo davvero.
Si voltò a guardare Marina, circondata da Pit e da una decina di persone che continuavano a farle domande. Si guardarono per un attimo e lei gli fece spallucce.
Si sfilò il cappotto e finalmente riuscì ad arrivare da Nathan, che aveva già acceso l’impianto e sistemato la loop station.
  • Credo di aver capito il motivo per cui tante ragazze siano venute qui, stasera. – disse Nathan. – Hai riscosso successo, fratello. Ti invidio.
  • Non credo sia per questo. – rispose lui, ridendo.
  • Oh, invece sì. – rispose, puntando il dito verso la sala gremita. – Non sai quante donzelle mi hanno già chiesto quando saresti arrivato.
Quello scosse la testa, mentre attaccava l’ultimo jack.
  • Nathan, stai esagerando. – concluse Ed, cercando di nuovo Marina con gli occhi, ma non la vide.
Quando salì sulla pedana, salutò il suo nuovo amico e si sistemò. Si sfilò la felpa, restando in t-shirt, e con la chitarra in spalla, cominciò a suonare una melodia, testando il suono. Sentiva tutti gli occhi puntati su di lui, ma ci era abituato.
Cominciò a suonare “Hit me baby one more time” di Britney Spears e la gente prese ad accompagnarlo con le mani.
Non aveva mai avuto tanta attenzione da un pubblico, ma ciò che lo sorprese di più fu il fatto che ben presto i tre quarti dei presenti cominciarono a cantare con lui.
  • …so give me a sign. Hit me baby…
  • …one more time! – terminò il pubblico per lui.
Con una certa carica, continuò a suonare nonostante le dita gli facessero male, ma non si era mai divertito tanto durante un’esibizione.
Persino quando cantava le sue canzoni, qualcuno ricordava il motivetto e fu proprio in quei momenti che incontrò gli occhi di Marina, che continuava a raccontare i fatti dell’incidente con la birra in mano, circondata da uomini e donne. Ok, forse erano più uomini, ma intanto i loro occhi si incatenarono e lei sembrava non badare più a nessuno. Il suo sguardo era brillante e intenso mentre gli sorrideva, quasi ammiccando. La trovava ancora più bella mentre cantava “Chasing Cars” e muoveva le labbra insieme a lui, come se avessero davvero voluto stendersi e dimenticare il mondo.
 
  • Anche stasera ti hanno offerto birra, vero ragazzo? – chiese Pit vedendolo quasi barcollare.
  • Già, evidentemente piaccio a qualcuno. – disse, poggiandosi al bancone tra lui e Marina.
  • Io so chi è. – si intromise Nathan. – Un tizio robusto, capelli corti, si siede sempre a quel tavolo. – disse indicando un posto per due poco lontano dalla pedana.
Ed fece spallucce, troppo stanco per porsi qualsiasi quesito. Marina gli posò una mano sulla schiena e gli disse di essere stato bravo, quella sera. Anche lei aveva notato la maggiore partecipazione della gente e il capo lo ringraziò per aver fatto riempire il locale anche più del solito. Ma era tardi, era stanco e voleva riposare.
  • Coraggio, andiamo. – gli disse Marina, tirandolo per un braccio per convincerlo ad alzarsi.
Andò di sua spontanea volontà a salutare Nathan, dopodiché si diresse fuori con Marina. Montò in bici con lei e la accompagnò a casa.
Fuori al suo portone, lei lo invitò a salire, ma declinò dolcemente l’offerta e lei capì.
  • Scusa, non è per te.
  • Lo so – sorrise, scendendo dalla bici. – Sta tranquillo.
Lui non si trattenne dal mostrarle i denti, ma abbassò il capo in imbarazzo.
  • Senti… - rispese Marina. – cosa fai a Natale?
  • A Natale? Beh… - non festeggiava il Natale da quando sua madre era morta. – Niente, in realtà.
  • Mi chiedevo se… - si tormentava le mani. - …se ti va di passarlo con me. A Londra.
Rimase spiazzato. Non si aspettava certo quella proposta. Spalancò la bocca, cercando di pronunciare anche una sola parola, ma riuscì solo a balbettare.
  • Ovviamente, portiamo anche tua nonna. – continuò lei, cercando di nascondere il suo imbarazzo.
  • M-ma s-sei sicura? – rispose, ancora confuso. – I-io non vorrei essere di troppo-
  • Edward, smettila, ti ho invitato io: come potresti essere di troppo? – disse, spostandosi un ciuffetto di capelli dal viso graffiato. – Voglio sdebitarmi per quello che hai fatto e invitarti per Natale è il minimo che possa fare.
  • Ma non devi s-sentirti in debito.
  • Invece sì e poi… - continuò con gli occhi bassi. – …mi farebbe piacere averti a casa per Natale. – la sua voce diventava più flebile ad ogni parola.
Lui non riuscì a rispondere oltre, perché la verità era che gli sarebbe piaciuto da matti trascorrere il Natale con lei, magari per una volta non sarebbe risultato un evento triste. Scese dalla bici, lasciandola sul cavalletto ed infilò le mani in tasca.
  • Sei sicura che possa venire anche mia nonna?
  • Certo, andiamo in treno. – rispose lei, tornando a guardarlo. – I miei verranno a prenderci alla stazione.
Espirò, riflettendo ancora sull’eventualità di accettare. Marina era in attesa, riusciva a leggere l’aspettativa nei suoi occhi, come se lui potesse davvero rifiutare.
Sorrise, non riuscendo in alcun modo a pensare di deluderla, così scosse la testa in segno d’assenso e ridacchiò nel silenzio della notte.
  • Davvero? – disse lei, con la bocca spalancata per l’emozione, il cuore alleviato dalla sua risata.
Con uno slancio, lei lo abbracciò e lui non riuscì a smettere di ridere, ricambiando. Sentì la sua stretta intorno al collo, forte e delicata allo stesso tempo. Marina era la prima persona, da quando sua madre era morta, che era capace di smuoverlo nel profondo, di fargli fare cose che non aveva mai fatto, di incoraggiarlo a dare spazio ai sentimenti. Era l’unica che gli avesse dato una possibilità, che credesse che lui valesse qualcosa. Sentiva tutte quelle cose nel modo in cui lei lo stringeva.
Respirò il suo profumo di lavanda e le diede un altro bacio, lasciando sgonfiare il suo petto inebriato. Forse si era trattenuto più nel necessario sulla sua pelle, lasciando che la punta del suo naso la carezzasse.
Aveva appena infranto tutti i suoi record personali.
Lei ricambiò, senza smettere di sorridere.
 
Marina era l’unica che gli facesse pensare che ne valesse la pena.
Era l’unica con cui si sentisse felice.




Angolo autrice:

Ebbene, eccoci di nuovo. Un capitolo bello lungo, come vedete e pieno di emozioni per Edward e Marina.
Voi cosa ne pensate?
Vi ringrazio moltissimo per le visite ricevute per lo scorso capitolo, non me le aspettavo di certo! :)
Anyway, non so cosa aggiungere. Spero che vi sia piaciuto e che leggiate il prossimo capitolo, ci sono molte cose che dovete scoprire!
Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate, perchè ora sì che la storia comincia a farsi complicata. ;)
Beh, mi abbandono alla stanchezza e alla scrittura - si spera - del finale. (Non so quante volte l'ho già detto, ma vabè...)
A presto! :)

S.

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Capitolo 20
*** XX ***








XX




Qualcuno lo guardava con indifferenza, altri con ammirazione, alcuni si erano avvicinati per complimentarsi con lui, altri ancora gli avevano sorriso per fargli intendere di aver improvvisamente cambiato idea sul suo conto.
La storia dell’incidente faceva passare inosservato il livido che aveva sul collo, facendolo passare per un segno dell’accaduto: solo Marina lo aveva guardato terrorizzata, quando si era avvicinata al banco dei prestiti per salutarlo. Restando indifferente alle chiacchiere di chi diceva che tra loro stesse per nascere un amore da soap opera, lei manifestò una seria preoccupazione, avendo subito capito che Ben avesse cercato di strozzarlo.
Aveva bevuto anche più del solito dopo aver letto il giornale con la faccia di Ed in prima pagina ed aveva ritenuto che fosse un affronto da parte sua mettersi in mostra in quel modo. La verità era che a Ben non stesse bene il fatto che tutta la città sapesse della sua esistenza. Per non parlare del fatto che per lui la vita stesse diventando più semplice del solito, ma il suo patrigno aveva dovuto operare una scelta tra il riempirlo di botte perché voleva la casa o occuparsi della burocrazia perché voleva la casa: all’inizio aveva cercato di mediare, ma poi si era ritrovato a doversi occupare di tutte quelle scartoffie e il fatto che il figliastro fosse a lavoro, gli faceva comodo.
Tuttavia, Marina era una buona consolazione. Lo aveva esaminato ripetutamente, sfiorandogli il collo, per poi mettersi a studiare al suo solito posto. Gli parve che fosse molto distratta, aveva sempre il cellulare tra le mani.
 
| Le tue labbra mi fanno impazzire. |
Rabbrividì, chiedendosi chi fosse la persona che le scriveva ormai di continuo e come avesse fatto ad avere il suo numero. Per fortuna Edward la stava accompagnando a casa praticamente sempre, altrimenti si sarebbe barricata dentro e non avrebbe più avuto il coraggio di uscire. Come se non bastasse, quella mattina aveva anche incontrato Jef, quell’essere viscido e irritante. Aveva insistito nuovamente affinchè lei accettasse il suo invito, ma aveva ricevuto l’ennesimo rifiuto poco prima che lei oltrepassasse il portone di ingresso. Per fortuna non l’aveva seguita, non voleva far preoccupare Edward.
Tuttavia, quella seconda persona la inquietava.
Sentiva gli occhi chiari del ragazzo dei prestiti che spesso e volentieri la monitoravano, costringendola a lavorare sulle sue espressioni, ma era chiaro che lui avesse notato il suo atteggiamento. Ripensando al giorno prima, non riusciva ancora a credere che quei due sul divano fossero loro, che alla fine lo avesse davvero invitato a casa sua, con la sua famiglia. Inoltre, era stato così dolce e spensierato, le aveva persino dato più di un bacio sulla guancia – e quella era la cosa che più l’aveva sconvolta, ma sentiva nel profondo che quello fosse il suo vero carattere, quello del ragazzo ancora integro, senza ferite, senza perdite o delusioni.
Sapeva quali fossero i motivi che stavano dietro alla sua attrazione per lui, ma non erano sufficienti a spiegare quel sentimento. L’amore era una medaglia a due facce, per lei: una faccia razionale amava di lui le cose concrete, i suoi gesti, il suo aspetto, il suo carattere, e una faccia irrazionale amava di lui il suo spirito, i suoi valori, la sua complessa persona. Insomma, Edward.
Oramai sapeva che le volesse bene, ma lei desiderava le sue labbra, il suo collo e le sue spalle, troppo catturata da lui per non farlo.
Beep beep.
| Mi fai eccitare quando hai quello sguardo. |
Il suo stomaco si contorse. Spense il cellulare ed attese che Ed chiudesse la biblioteca.
 
Marina era come la luna: una parte di lei era sempre nascosta. Lo vedeva mentre uscivano dal caffè dopo aver pranzato, con quell’espressione turbata, quasi preoccupata e continuava a tormentarsi i capelli, arrotolandoli intorno alle dita. Gli aveva fatto un interrogatorio su cosa fosse successo con Ben, dato il livido sul collo, ma sapeva che non si trattasse di quello, anche se alla fine non le aveva raccontato niente. Era certo che qualcosa la preoccupasse, ma non sapeva come chiederglielo, pensò che potesse ritenere invadenti le sue domande e che se lei avesse voluto, probabilmente gliene avrebbe parlato.
  • Marina – disse.
  • Sì? – lei si voltò di scatto.
  • Io sono il tuo migliore amico, no? – quella annuì, senza neanche rifletterci. – Allora, b-beh, se hai bisogno di parlare di qualcosa, io ci sono.
Non si guardarono negli occhi e non aggiunsero altro a quella conversazione, finchè Ed le fece una proposta che non avrebbe mai creduto potesse farle.
  • Ti va di venire a trovare mia madre?
Era chiaro che fosse rimasta interdetta da quella domanda e per non lasciare spazio a fraintendimenti, lei cercò di rispondere nel minor tempo possibile, in modo affermativo. Lui sorrise vagamente, riflettendo ad alta voce sul fatto che non ci andasse da parecchio, dopodiché mise le mani ancora graffiate sul manubrio e la invitò a montare in bici. Marina strinse la mano sul suo cappotto e durante il tragitto cercò di studiare la sua espressione: sembrava che di metro in metro il suo voltò si scurisse sempre di più e si chiese perché mai volesse che ci andasse anche lei. Le faceva piacere che lui si fosse aperto in tal modo, al punto di chiederle una certa compagnia, ma aveva visto nella sua anima una ferita ancora aperta e sanguinante. Lei non avrebbe voluto nessuno, in una circostanza del genere e invece lui…
Il rumore della frenata la risvegliò e si ritrovò a guardare dritto negli occhi di lui, che si era voltato spontaneamente a guardarla. Sentì le guance andare a fuoco, così scese dalla bici e lo seguì silenziosamente nel cimitero.
I sentieri di selciato scricchiolante erano l’unica fonte di rumore in quella quiete, i fiori ravvivavano il pallore dei marmi e i lumini sembravano fari in quella giornata un po’ buia. Poche persone erano presenti, qualcuna di loro immersa in una preghiera. Edward percorse la strada a memoria, svoltando agli angoli giusti in quel labirinto di tombe e nicchie. Ormai riconosceva anche i nomi dei defunti. Dopo diversi minuti di cammino, durante i quali fu felice che Marina non avesse parlato, si fermò davanti alla tomba di sua madre, ricoperta di neve.
Si abbassò e la ripulì in fretta, facendo riemergere l’incisione e la sua fotografia. La guardò e gli sembrò di guardarsi in uno specchio.
  • Vi somigliate molto. – disse lei, essendosi abituata alla circostanza.
Annuì e tornò in piedi, accanto a lei.
  • Ti presento mia madre. – sospirò. – Credo che le saresti piaciuta.
  • Dici? – chiese, senza guardarlo.
  • Non le piacevano mai le mie amiche, ma penso che tu invece le saresti andata a genio. – riflettè.
Marina sorrise imbarazzata, continuando a guardare la foto.
  • I-io ci tenevo a fartela conoscere.
Gli occhi di Marina si riempirono di lacrime udendo la sua voce quasi spezzata. Non poteva credere che Ed stesse piangendo accanto a lei, ma d’altro canto si chiese come lei stessa avesse resistito fino a quel momento. Sentiva che nell’aria c’era una tensione quasi elettrica, da quando avevano varcato il cancello. Edward doveva essere molto legato a sua madre.
  • Sono contenta di averla conosciuta.
Si avvicinò a lui e si aggrappò con un braccio al suo torace, come per abbracciarlo, ma finì col lasciarsi circondare da lui, riscoprendo quella sensazione di protezione che provava quando erano vicini. Non mollò comunque la presa.
Edward sentiva di aver fatto la cosa giusta portando Marina. Non ci aveva mai portato nessuno. Eppure, sentiva che riuscire a mettere in atto quel gesto così denudante, così confidenziale, significava che Marina meritasse di essere lì con lui. Un po’ si vergognava ad emozionarsi in quel modo, ma – proprio come il primo giorno che l’aveva incontrata – non si sentì giudicato, ma compreso. Col braccio intorno alle sue spalle, gli sembrò di poter finalmente cominciare ad accettare la perdita di sua madre.
  • Lei è sempre stata una sorta di angelo. Era sempre nel posto giusto al momento giusto e non si è mai arresa con me. – sospirò ancora. – Per questo non voglio mollare. Per lei.
  • È davvero una bella cosa, Edward. Ti fa onore.
Sentì la stretta del suo braccio farsi più forte, ma restarono in silenzio per il resto del tempo. Comunicarono solo attraverso pochi sguardi e fecero una breve preghiera prima di andare via. Quando furono accanto alla bici, Ed alzò lo sguardo e la scoprì triste, le labbra incurvate verso il basso. Il fatto che lei si rattristasse in quel modo per lui, lo face sentire amato come poche volte nella vita.
La prese per una spalla e la tirò a sè, lasciando che quell’abbraccio così spontaneo prendesse forma dall’intreccio delle loro braccia.
Il calore che sentiva mentre abbracciava Marina, non era dovuto soltanto al suo respiro caldo che gli carezzava il collo: quel tepore gli saliva direttamente dal petto.
 
  • Mi chiedevo che fine avessi fatto.
  • Alex, ti chiedo scusa, sono stato davvero scortese.
Il figlio di Carter era sotto la porta e lo guardava con una certa confusione, vedendolo in compagnia di una ragazza.
  • È lei la ragazza dell’incidente? – chiese, indicandola.
Ed annuì e Marina gli strinse la mano, pronunciando il suo nome. Alex, con i capelli ben ordinati e la camicia appuntata fino all’ultimo bottone, si spostò dall’uscio e li lasciò entrare, guidandoli nello studio. Vide Marina guardarsi intorno con una certa curiosità e pensò che quell’accoppiata fosse davvero bizzarra, lui così introverso e lei così spigliata anche nello sguardo.
Quando si furono accomodati nello studio, lasciò che il ragazzo si scusasse con lui.
  • Mi dispiace per l’altro giorno, ma Marina era davvero in pericolo.
  • Signor Carter, Edward mi ha salvato la vita quel giorno.
  • Lo so. – sorrise poi lui, poggiando il mento sulle mani intrecciate.
Accanto a lui giaceva il giornale della domenica con Edward in prima pagina.
  • Date le circostanze ti permetto di cercare ancora nell’archivio. – e vide i ragazzi sorridere. – Ma mi raccomando… - puntò il dito verso l’alto.
  • Non perderò nulla e metterò ogni cosa al proprio posto. Grazie Alex.
Marina ringraziò quell’uomo così perbene, lasciò il cappotto nell’ingresso insieme a quello di Ed e poi lo seguì nel magazzino sotterraneo. Quando lui aprì la porta ed entrò nella stanza, una miriade di scaffali stracolmi la fece impallidire: avrebbero dovuto guardare ogni singolo foglio?
  • Edward… - cominciò – dobbiamo cercare in ogni fascicolo? – la sua voce lasciava trasparire un’ironica preoccupazione.
  • Già. – rispose, cominciando a prendere i documenti dal punto in cui si era fermato la volta precedente. – Prendi un paio di fascicoli e torniamo da Alex.
Le tese due fascicolatori grigi, contrassegnati dalla scritta ‘2009’, poi si diresse di nuovo nello studio.
  • Hai detto che avevi già cercato in questo studio, perché mai rifarlo da capo? – chiese Marina.
  • Alex mi ha detto che ha integrato i documenti di tutti i magazzini di suo padre, quindi…
  • Capisco.
Si accomodarono sulla seconda scrivania dello studio di Alex, il quale continuava a lavorare, scrivendo velocemente. Il rumore del suo scribacchiare si confondeva con il rumore dei fogli che Ed e Marina presero a sfogliare, in silenzio. Di tanto in tanto si studiavano, per poi cadere nell’imbarazzo quando alzavano gli occhi l’uno sull’altra contemporaneamente.
Bip bip.
Marina prese il cellulare dalla borsa, ancora concentrata sul fascicolo che stava spiluccando e quando aprì il messaggio arrivatole, non vide Ed puntare gli occhi sullo schermo.
| Quando esci da lì dentro? Potrei sbatterti per ore. |
  • Chi è? – chiese Ed senza sapersi trattenere, quasi facendole venire un infarto.
  • E-ehm, no nessuno – tentò – un messaggio promozionale.
  • Ah…
Marina rigettò il cellulare nella borsa, notando che lui avesse cambiato espressione. Non poteva aver letto, era troppo lontano, quindi perché mai quella faccia?
Ed, dal canto suo, non era riuscito a distinguere una parola, ma non solo non sapeva spiegarsi il motivo per il quale fosse così curioso, non seppe neanche spiegarsi perché l’ipotesi che fosse un ragazzo lo infastidisse. Lei era solo un’amica: voleva convincersi che si stesse preoccupando solo per l’espressione cupa che lei aveva assunto dopo aver letto l’sms. Si alzò sospirando, raccolse i fascicoli appena controllati ed andò a prenderne degli altri. Ad ogni fascicolo controllato corrispondeva un buco nell’acqua e quel tempo gli sembrò infinito, poi Marina lo chiamò dal seminterrato a gran voce. Si sistemò il maglione mentre andava da lei e quando la vide gli sembrò piuttosto perplessa. Si avvicinò, guardandola dalla sua altezza e attese che parlasse.
  • Hai già controllato il fascicolo di tuo nonno? – chiese.
  • Sì, per ben due volte. – rispose lui, chiedendosi dove volesse arrivare.
  • Bene, perché qui ce n’è un altro. – lei alzò la mano e puntò il dito all’ultimo scaffale.
Alzò lo sguardo per guardare e in effetti un fascicolo impolverato contrassegnato come “Sheeran/2” si nascondeva tra gli altri. Strizzò gli occhi, quasi incredulo: possibile che non lo avesse mai visto?
Provò ad allungarsi, ma non ci arrivava, era troppo spostato verso l’interno per poterlo prendere senza una scala.
  • Se mi prendi sulle spalle, ci arriviamo. – suggerì Marina, parlando con le mani sui fianchi.
Ed si strofinò la nuca con indecisione, finchè la curiosità non lo convinse a darle retta. Si abbassò davanti a lei dandole le spalle, poi sentì le gambe di Marina circondargli il collo. Dovette sforzarsi per alzarsi, non credeva che fosse così pesante. Quando si avvicinò allo scaffale, Marina si sporse e tese un braccio tra i fascicoli pieni di polvere. Mentre lei spostava gli ammassi di documenti, si rese conto di avere le mani sulle sue cosce. Realizzando quanto fosse in imbarazzo, non riuscì a non pensare a quanto fosse morbida e il suo pollice non potè non carezzarla, sopra la stoffa dei jeans. Sentì di essere arrossito e un’inaspettata sensazione al basso ventre gli chiuse lo stomaco. Per fortuna lei terminò e la fece scendere, permettendogli di distrarsi pensando a quel fascicolo. Tornarono di sopra a passo svelto, ansiosi di scoprire cosa ci fosse in quel vecchio fascicolo.
Lo poggiarono sulla scrivania e senza sedersi, lo aprirono. Una serie di scartoffie era impilata ordinatamente, così presero ad esaminare ogni foglio, mettendolo poi da parte poiché non gli sarebbe servito a niente. Quando lo aveva aperto, Ed aveva pensato per un attimo che finalmente avrebbe trovato il testamento, ma rimase deluso quando Marina controllò l’ultimo documento e lo mise tra quelli scartati, cioè tutti. Tuttavia, quella cartella riservava una sorpresa. Gli occhi di Ed, infatti, furono attirati dalla presenza di un angolino di carta bianca che spuntava da una tasca nascosta del fascicolo. Tirò l’angolino con le mani e ne venne fuori una busta chiusa, sulla quale era scritto a mano: To Edward.
Marina quasi gliela strappò di mano per accertarsi di aver letto bene, poi lo guardò esterrefatta, capendo che nemmeno lui sapesse dell’esistenza di quella lettera.
Lui la riprese dalle sue mani, pallido e improvvisamente agitato, poi si accomodò su una sedia e cominciò ad aprirla. Marina si collocò al suo fianco, tenendo una mano sulla sua spalla, quasi a fargli coraggio. Il rumore della carta spessa sembrava un tremendo frastuono nel silenzio della stanza e finalmente ebbe il contenuto tra le mani, una sola pagina sulla quale si stendeva una grafia elegante.
 
Caro Edward,
se stai leggendo questa lettera vuol dire che sono morto. So che è un momento difficile per te, ma non darti per vinto, sei uno Sheeran esattamente come me.
Per quanto io voglia cercare di consolarti, so che le mie parole sarebbero solo superflue, per questo ci tengo a dirti soltanto che io non sono affatto andato via.
Sono qui, mentre leggi questa lettera: vivo in te.
Quindi non lasciarti scoraggiare dalla mia assenza fisica, credi fermamente a quanto ho potuto lasciarti ed io non morirò mai.
Ti prego di prenderti cura della mamma e della nonna anche per me, avranno bisogno di te per lungo tempo, non abbandonarle, ma so già che non lo avresti fatto comunque. Sei troppo buono per questo mondo, nipote mio, per questo devo farti un’ultima richiesta: gira il mondo, fa che le persone ti conoscano.
Tu e quella benedetta chitarra non mi avete fatto riposare per interi pomeriggi e vorrei che ne fosse valsa la pena. Sono sicuro che là fuori ci sia qualcuno che sappia apprezzarti come meriti.
Metto fine alle smancerie, altrimenti dimentico il reale intento di questa lettera.
Sai bene che non mi sono mai fidato di Benjamin e che non avrei mai lasciato la casa nelle sue mani, per questo ho scritto un testamento di cui tu sei già a conoscenza.
Ecco, questa lettera serve a farti sapere che, nel caso in cui ti servisse, la copia originale non ce l’ha Johan Carter, bensì è nascosta.

 
Marina fece sibilare l’aria in gola, portandosi una mano alla bocca e stringendo più forte la sua spalla: erano arrivati allo stesso punto della lettera.
Edward sentiva che l’aria non riusciva ad entrare nei polmoni, ma continuò a leggere.
 
Non scriverò esplicitamente il luogo in cui si trova, nel caso in cui questa lettera dovesse finire nelle mani sbagliate, ma posso aiutarti dicendoti che La strada è buia, irta e stretta, ma sul lago brilla la luna. Se guardi al cielo pieno di stelle, potrai contarle una ad una. Sotto le fronde della quercia imponente, sta una speranza sempre brillante. Segui l’intaglio un po’ deludente e troverai un tesoro eclatante.
Perdonami questa filastrocca un po’ bizzarra, ma se saprai ben ricordare, troverai ciò che ti serve.
Ti auguro che la vita ti doni tutto ciò di cui un uomo ha bisogno: una casa, una donna e la convinzione che ogni giorno possa essere il più bello della tua vita.
Ti voglio bene.
 
Tuo nonno

 
Capì che anche Marina avesse terminato di leggere quando si allontanò da lui, asciugandosi gli occhi e sperando che non se ne accorgesse. La data della lettera risaliva ad un mese prima della morte di suo nonno, giusto prima che il suo Alzheimer si aggravasse e cominciasse a dimenticare il suo volto. Com’era possibile che fosse rimasta lì per tutti quegli anni? Alex lo aveva avvertito che probabilmente suo padre avesse fatto qualche pasticcio, ma…che Dio lo abbia in gloria, gli aveva fatto passare degli anni orribili.
Risentire la voce di suo nonno nella sua mente gli aveva fatto venire la pelle d’oca, ma non riusciva a capire a cosa si riferisse con quella specie di filastrocca. Quell’uomo era sempre stato una frana con le parole e quell’indovinello gli ricordava tanto Harry Potter quando lesse sul boccino d’oro, lasciatogli da Silente, “Mi apro alla chiusura”. In effetti, era praticamente la stessa cosa: aveva ritrovato quella lettera proprio quando stava per giungere la sua grande battaglia contro Ben.
Rilesse la lettera altre due volte, cercando di capire, ma non riusciva a comprendere a cosa suo nonno stesse pensando quando aveva scritto quella pagina.
  • Hai trovato qualcosa, Ed? – Alex lo risvegliò dalla sua contemplazione.
  • Una lettera di mio nonno. – rispose, guardandolo di sfuggita, per poi controllare lo stato emotivo di Marina. Sembrava essersi ripresa.
  • Quindi, la tua ricerca è finita? – chiese quello.
  • Io…credo di sì. – disse, tornando a guardare il foglio.
Suo nonno doveva aver scritto quella pagina prevedendo che quel figlio di buona donna di Ben gli avrebbe dato filo da torcere e che le copie esistenti del suo testamento potevano non bastare. Gli fu chiaro che non ne avrebbe trovate, in quello studio. Mezz’ora dopo, ringraziò Alex per l’aiuto che gli aveva dato e lo lasciò al suo lavoro.
Lui e Marina rimontarono in bici, in silenzio, e Ed non riusciva a capacitarsi di non aver subito colto il messaggio di suo nonno. E quello non era un buon segno.
 
Aveva insistito per andare al lavoro con lui nel bar del centro in cui l’aveva visto lavorare quella volta. Il giorno in cui aveva perso la catenina che ora lui portava al collo. Tornò a guardare sullo schermo del suo portatile, bevendo un sorso di the dalla tazza di porcellana bianca che lui stesso le aveva servito nella sua divisa. La divisa che indossava la settimana prima, quando era stato investito e lo aveva aiutato a cambiarsi.
E poi il quasi bacio, l’incidente, il cimitero, la lettera. Stavano succedendo mille cose e non riusciva più a riordinare la mente, soprattutto se si ricordava che là fuori ci fosse qualcuno che la seguiva. Aveva ricevuto altri due sms da quando avevano lasciato lo studio Carter ed aveva cercato di distrarsi lavorando alla sua tesi, ma puntualmente veniva catturata dal suo passaggio. Aveva ancora il passo morbido che aveva notato in biblioteca, ma quella sera in particolare, ciò che la catturava erano i suoi occhi: aveva lo sguardo perso, sicuramente era pensieroso, forse un po’ risollevato e ciò che ne risultava era una nuova serenità pienamente percepibile dal colore chiaro delle sue iridi. Pensò che lui non si fosse reso subito conto di ciò che fosse successo, ma di ora in ora sembrava prenderne sempre più coscienza. Quando incontrava il suo sguardo, gli sorrideva sperando di tranquillizzarlo, poi tornava a scrivere quel testo che le era balzato in mente proprio nel momento in cui l’aveva affiancata per servirle il the e si era avvicinato abbastanza da permetterle di perdersi nei suoi occhi per qualche secondo.
Magari glielo avrebbe mostrato a Natale.
Fuori, intanto, aveva cominciato a nevicare.
 
Quella giornata era cominciata in modo strano quando era entrato in biblioteca e le persone avevano preso a fissarlo, poi era continuata in modo altrettanto bizzarro col fatto del cimitero e della lettera di suo nonno.
Confuso – non sapeva definirsi in altro modo. Continuava a pensare alla filastrocca, avendola ormai imparata a memoria, ma alcun ricordo gli tornava alla mente, ripetendola. Tuttavia, avere un indizio era già una buona cosa, aveva una speranza concreta, ora sapeva che un testamento c’era e non poteva che sentirsi un po’ sollevato. Marina lo incoraggiava continuamente e il suo sorriso era l’unica luce che illuminava il bar, mentre serviva ai tavoli. Guardandola, sentiva il peso della catenina al collo e si rendeva conto che quella ragazza gli stava cambiando la vita. Si chiese cosa stesse scrivendo, così concentrata, ma non avrebbe potuto fermarsi per chiederglielo.
  • Sheeran, quella è la tua ragazza? – chiese una delle ragazze che lavoravano con lui.
  • No, Mary, è la mia migliore amica. – disse, quasi orgoglioso, mentre prendeva le tazze e le metteva sul vassoio.
  • È davvero carina, hai buon gusto. – continuò quella, incurante della sua indifferenza.
  • Smettila, Mary. – disse soltanto, non avendo un rapporto confidenziale con quella ragazza.
In effetti, Marina lo osservava. Lo aveva notato, ma aveva cercato di convincersi che volesse solo studiarlo, in un certo senso. Era consapevole di essere un tipo un po’ fuori dalle righe, quindi la sua teoria era più che plausibile, ma non si sentì di ignorare quel fatto dopo le parole di Mary. Tuttavia, non era il momento di pensare a quelle cose, aveva ben altro per la testa e lei era solo un’amica.
Quando il bar chiuse, lei era ancora lì ad aspettarlo. Aveva continuato a scrivere al pc, avanzandosi il lavoro delle giornate a venire, durante le quali non avrebbe studiato. Le aveva chiesto di aspettarlo fuori dalla porta principale, così la raggiunse non appena ebbe recuperato la bici dal retro.
Era l’una del mattino del lunedì prima di Natale e accompagnava Marina a casa.
I loro respiri si condensavano nell’aria, dissolvendosi, mentre cercavano di scaldarsi nell’aria gelida della notte. Lei nascondeva il viso nella sciarpa, stringendosi a lui. Ben presto, frenò davanti casa sua.
  • Domani vado a trovare nonna per dirle del tuo invito. Vuoi venire? – chiese, mentre si sistemava il cappotto, col viso privo di imbarazzo.
  • Va bene. – disse lei, altrettanto tranquilla.
  • Passo a prenderti verso le 9:30. – sorrise.
Dopodiché, lei si avvicinò e – davvero, senza tremore e senza esitazioni – gli carezzò il viso, lasciandogli un lieve bacio sulla guancia. Anche se lei era stata così naturale, comportandosi come una qualunque amica, aveva sentito identica a quel pomeriggio una sensazione destabilizzante. Cercò di ricambiare allo stesso modo, senza malizia e senza tensione, poi si salutarono con la mano e attese che entrasse nel portone. Ripartì e col gelo che gli sfiorava le guance, cercò di svuotare la mente, desiderando non pensare a nulla, né a quelle sensazioni, né alla lettera di suo nonno. Aveva bisogno di non sentire niente, il suo cuore era stanco.
Quando scese dalla bici per aprire il cancello di casa sua, però, il rumore di alcuni passi nella neve lo fecero voltare. Un uomo avvolto in un cappotto nero avanzava verso di lui e non fece in tempo a formulare un pensiero, che se lo trovò addosso.
Cercò di urlare, ma quello gli coprì la bocca, immobilizzandolo contro il cancello.
  • Sono io, ragazzo. – la voce di Tyler. – Ascoltami bene: dì a Jef che se domani sera non si presenta al Lantern sarà peggio per tutti voi. Il capo si è stancato di aspettare e sa bene dove abita quella Marina.
Sgranò gli occhi, cercando di divincolarsi e grazie al suo allenamento con Ben, riuscì ad allontanarlo. Lo spinse via con tutte le forse che aveva, ma quello tirò fuori dalla tasca una pistola. Si immobilizzò e trattenne il respiro, fissando l’arma. Alzò le mani spontaneamente, arrendendosi.
  • Bravo, fa silenzio. – riprese Tyler, tenendo l’arma puntata su di lui. – Se Jef non restituisce ciò che ha, la sua amichetta passerà dei brutti momenti.
Non riusciva a capire.
  • Riferisci e fa in modo che venga.
Tyler abbassò la pistola e corse via, scomparendo dietro l’angolo. Abbassò le mani lentamente, ancora pietrificato e più confuso di prima, cercando di recuperare il respiro.
Cosa c’entrava Jef con Marina? Non l’aveva usata per ricattare lui, l’ultima volta?
Jef? Marina? Non riusciva a chiudere la bocca per quanto era shockato.
Prima che divenisse un pezzo di ghiaccio, si ritirò in casa e si diresse direttamente da Jef, tenendo le mani strette in due pugni per l’agitazione. Stava per bussare alla porta, ma poi si ricordò di come fosse finita l’ultima  volta, così andò in camera sua e scrisse su un foglio ciò che doveva dirgli, per poi lasciarlo sotto la sua porta. Era così teso e nervoso che stava cominciando a sudare ed ansimare, senza riuscire a calmarsi.
Se ne tornò al sicuro nonostante le mille domande che si ponevano nella sua testa, ma per fargliele aveva bisogno di restare vivo e di non avere Ben ubriaco per casa.
Se poi Jef pensava di sfuggirgli, si sbagliava di grosso.
Era determinato a capire cosa c’entrasse la sua migliore amica con lui, oltre ad essere un mezzo di ricatto per se stesso.
No, non gli avrebbe permesso di portargliela via.
Marina doveva uscire fuori da quella storia.
Doveva restare al sicuro.





Angolo autrice:

Aaaaaallora, sto cercando di aggiornare più in fretta perchè la storia letta così suddivisa potrebbe creare noia, lo so. Quindi, leggete e recensite in fretta, così ben presto potrete leggere il prossimo capitolo e presto arriveremo al giorno di Natale. Uno splendido periodo dell'anno. :3
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, se trovate che la storia stia procedendo troppo lentamente o se mi sono persa qualcosa per strada - sono terrorizzata da questa cosa.
Lentamente procedo col finale, ma davvero non so cosa ne uscirà perchè - confesso - sono molto distratta e non sono coinvolta come all'inizio, ma la porterò a termine. Promesso.
Cosa pensate di nonno Sheeran? Il personaggio è ispirato a mio nonno, che io adoro ed è un personaggio degno di nota. :)
Cavolo, non vedo l'ora che leggiate il resto della storia, non ne posso più di farvi restare nel dubbio. Quindi, fatemi sapere cosa ne pensate, io faccio del mio meglio per aggiornare il prima possibile.
Ringrazio le mie belle lettrici imcecy, Lunastorta_Weasley e Huntress of Artemis, siete ragazze caritatevoli. :')
Ci vediamo presto col prossimo capitolo, probabilmente sabato o domenica.
Buona giornata. :)

S.

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Capitolo 21
*** XXI ***








XXI



 
  • Dimmelo, Jef!
Non aveva quasi chiuso occhio quella notte.
  • Dimmi cosa c’entra Marina in questa storia!
E non sarebbe riuscito a dormire fino a quando quel bastardo non avrebbe confessato.
  • Dimmelo! Cazzo, dimmelo!
Stava davvero urlando troppo, mentre lo teneva inchiodato in un angolo. Probabilmente a breve Ben sarebbe apparso, ma non gli importava più. Intanto, Jef insisteva a non parlare, mantenendo quel suo viso pallido e impassibile, del tutto fuori luogo dinanzi alla sua foga e alla sua rabbia.
  • Non sono cazzi tuoi, idiota.
  • Lo sono, brutto- - si interruppe bruscamente – Lei deve restare fuori da questa storia!
  • È solo una puttanella, possono anche prendersela! – urlò quello, cercando di scansarlo.
Ed ormai aveva il sangue alla testa, aveva perso del tutto le staffe, ormai sull’orlo di un crollo nervoso. Lo prese per il collo del maglione e gli diede l’ultimo avvertimento.
  • Se stasera non ti presenti al Lantern, Jef, giuro che vado a cercare Tyler e a quel punto sarai tu ad essere preso.
La sua voce era quasi un ringhio, irriconoscibile alle sue stesse orecchie.
  • Che c’è, idiota, ti sei innamorato di quella troia?
Rimase shockato dalle sue parole e dalla totale assenza di un’anima dentro a quel corpo. Risentì le sue parole nella mente come un’eco e divenne definitivamente cieco dalla rabbia. Tirò indietro il braccio e gli sferrò un pugno. Lo aveva colpito con tutta la forza che aveva, lasciando poi che si accasciasse a terra. Quella sottospecie di uomo gemeva per il dolore, ma per la prima volta non gli suscitò alcuna pietà.
  • Non so cosa tu abbia a che fare con Marina, ma lasciala in pace.
Jef lo guardò con uno sguardo carico di rancore, mentre un rivolino di sangue gli scendeva dal naso.
Soltanto quando sentì i passi di Ben salire le scale si voltò e corse in camera sua, sbattendo la porta. Non si riconosceva. Non era mai stato così. Eppure, sferrando quel pugno a Jef si era sentito vivo come non succedeva da anni e non si pentiva di aver ceduto alla tentazione della violenza. Ormai nulla era più importante, non finchè lei fosse stata in pericolo.
Rinvenne dai suoi pensieri quando Ben cominciò ad urlare dietro la sua porta, ma sentiva ben poco di ciò che diceva. Sarebbe uscito dalla finestra e avrebbe raggiunto Marina.
Sapeva che avrebbe dovuto far ritorno prima o poi, ma doveva prima parlare con lei. Voleva delle spiegazioni. Non che lei gli dovesse qualcosa, ma il fatto che non gli avesse raccontato di un qualche incontro con Jef, lo preoccupava ulteriormente. Dopo essersi visto minacciare con un coltello ed una pistola, non riusciva più a farsi tanti scrupoli: sarebbe andato da lei e glielo avrebbe chiesto.
Il cuore aveva continuato a battergli a mille mentre scendeva la scala di corda, calandosi dalla finestra, mentre correva fuori dal cancello, mentre si dirigeva da lei. Il dolore alle nocche che gli aveva provocato quel pugno gli faceva tenere a mente la rabbia, la preoccupazione, l’angoscia.
La paura.
Arrivò sotto casa sua trafelato, tremante per lo sforzo e attese pazientemente il suo arrivo. Scese dalla bici e prese a camminare avanti e indietro, sperando di scaricare la tensione e sembrò funzionare per i primi minuti, ma quando lei uscì dal portone tutti i suoi sforzi divennero vani. Marina cambiò espressione leggendo il turbamento sul suo volto: lei non ne comprendeva il motivo, data l’assenza di nuovi lividi. Si avvicinò a lui, salutandolo flebilmente, ma Ed la interruppe immediatamente. Sentiva di essere arrabbiato con lei, anche se ancora non l’aveva ascoltata. Sentiva che Tyler non aveva detto sciocchezze.
  • Cosa c’entri con Jef? – chiese, col volto cupo e contratto.
Marina spalancò la bocca e sbiancò. Restò immobile dov’era, senza riuscire a capire come lui potesse aver scoperto qualcosa. Provò la netta sensazione di averlo pugnalato alle spalle ed era terrorizzata dalla rabbia che il suo atteggiamento le suggeriva.
  • E-edward, io-
  • Vi conoscete? – parlava troppo velocemente.
  • Aspetta, posso spiegarti! – rispose, tendendo le mani verso di lui.
  • Cosa? – non si scansò dalle sue mani, nonostante lei avrebbe sentito il suo tremore.
  • I-io l’ho incontrato un giorno per strada e mi ha detto c-che tu gli avevi parlato bene di me e mi ha invitata a uscire con lui-
  • Cosa?!
Allargò le braccia, quasi deluso. Lei sembrava spaventata.
  • Non ho accettato, ma poi ha cominciato a spuntare fuori ovunque! – cercò di giustificarsi.
In un momento capì: se era vero che Tyler o qualcun altro li seguisse, allora Jef era stato visto in compagnia di Marina. Peccato che a lui di lei non importasse nulla.
Alzò le braccia e si portò le mani alla testa, voltandosi. Espirò tutta l’aria che aveva nei polmoni, preso dal panico. Marina non poteva più essere tirata fuori perché Jef non avrebbe fatto nulla per aiutarla e lei era ancora un ottimo mezzo per minacciare Ed. Tyler aveva il coltello dalla parte del manico.
  • E-edward… - cercò di chiamarlo, ma lui non si voltò. Ormai aveva le lacrime agli occhi, confusa da quella scenata. – Ti prego…cosa è successo?
  • Perché non me lo hai detto? – chiese in tono più pacato, voltandosi. Il suo sguardo deluso la trafisse.
  • Non volevo farti preoccupare. – disse guardandolo negli occhi, poggiando una mano sul suo braccio. – Non volevo darti altri pensieri oltre a quelli che hai già.
Riprese aria e cercò di calmarsi definitivamente. Il suo tocco lo rendeva mansueto e le sue spiegazioni erano più che accettabili.
  • Va bene, scusa. – disse. – Ma la prossima volta che lo incontri, dimmelo. Ok?
  • Ok. – rispose subito lei, annuendo. – Scusami tu, ho finito per farti allarmare, ma si può sapere cosa è successo?
  • Niente, sta tranquilla. Tu non fidarti mai di Jef e non camminare da sola per strada, da oggi ti accompagno io.
Nonostante avesse riacquisito la calma, quelle sue parole la confusero ancora di più. Ok, aveva sbagliato a non dirglielo, ma lui non era da meno.
  • Non vuoi dirmi cosa succede? – chiese.
  • No, vedi… - disse, evitando i suoi occhi. Non le avrebbe mai detto della droga. Meno sapeva, meglio era. - …solo una discussione. Mi ha provocato.
  • Oh…
Abbassò gli occhi, ma sentì il suo profondo sospiro. Ben presto, lui si avvicinò e la abbracciò. Continuava a non capire, interdetta da quel suo comportamento. Non aveva mai visto il suo viso così cupo, non lo aveva mai visto arrabbiato, quasi geloso e un po’ spaventato. Era ovvio che qualcosa lo tenesse in pensiero, ma cosa c’entrava lei? In ogni caso, avrebbe fatto come diceva, infondo aveva solo da guadagnarci. Magari quell’essere le sarebbe stato lontano e lei avrebbe potuto abbracciarlo ogni sera.
Edward, Edward, lo avrebbe mai capito? Erano passati dall’essere due sconosciuti all’essere due amici, dal the ai pranzi, dalle carezze agli abbracci e persino ai baci, ma ancora si sorprendeva di quel suo cambiamento. Il suo abbraccio era ancora un evento fuori dal comune. Si dispiacque di averlo fatto preoccupare a quel modo, ma sentiva che quel momento stava scemando.
Quando la chiesa battè le 9:30, montarono in bici e si diressero all’ospizio, anche se Marina continuava a vedere sul volto di Ed l’ombra della paura.
 
  • Benedetta ragazza – disse Evangeline. – mio nipote ti tratta bene?
  • Nonna!
  • Quando vi sposate?
Marina rise dinanzi al rossore di Edward, rincuorata dalla spensieratezza della vecchia.
  • Signora, volevo invitarla a casa mia per Natale. Lei e Edward sarete ospiti della mia famiglia a Londra.
Gli occhi di Evangeline si illuminarono ed accettò immediatamente l’invito, ignorando il suo cupo nipote che dondolava per la stanza, dopodiché abbracciò la giovane amica di Ed, sentendosi rincuorata dalla sua presenza a tempo indeterminato.
  • Nonna, ho trovato questa. – le porse la lettera. – Me l’ha lasciata il nonno.
  • Davvero? – la prese e inforcò gli occhiali, cominciando a leggere. Quando terminò, dovette deludere le aspettative dei due. – Mi dispiace, non so cosa significhi.
Aveva le lacrime agli occhi, ma fece finta di nulla, accettando il sospiro di Ed come unica risposta. Il suo cervello non smetteva di far girare gli ingranaggi e desiderò staccare la spina. Marina lo sfiorò, tentando di consolarlo, ma servì a poco.
  • Conoscendo tuo nonno, probabilmente quella filastrocca è riferita a qualcosa che avete fatto insieme. – disse poi. – Se non erro, quando eri piccolo ti portava a pescare al lago.
Sì, era una possibilità, ma era davvero così semplice? Gli sembrava che il tempo gli scorresse tra le mani portandosi via tutte le risposte, tutte le sue forze, senza che potesse farci niente. Ogni secondo che passava, era un secondo di insofferenza. Stava diventando insopportabile. Intanto Marina ed Evangeline parlavano del giorno dopo, dei suoi genitori, della sua casa. Lasciò che chiacchierassero, finchè l’infermiera non li cacciò, dato che erano rimasti anche oltre l’orario di visita.
Ed abbracciò sua nonna, dopo essersi accordato con lei e con l’infermiera per il giorno dopo, dopodiché lui e Marina uscirono fuori.
Doveva andare a fare la spesa e cucinare per Ben e Jef per il loro pranzo di Natale e – come se non bastasse – doveva inventarsi una scusa. Probabilmente avrebbe detto che doveva lavorare.
  • Cosa facciamo adesso? – chiese Marina.
  • Io devo fare la spesa.
  • Ti accompagno.
Il supermercato era stracolmo. Tutti coloro che non avevano ancora acquistato le cibarie per il giorno successivo, ora affollavano i supermercati, così si ritrovarono a scalciare per avere un po’ di pane. Non parlavano molto, nessuno dei due sapeva cosa dire, la confusione affollava la mente di entrambi: Ed pensava a Jef e alla filastrocca di suo nonno, sforzandosi di farsi venire un’idea, e Marina pensava a Edward. Sembrava che fossero in un circolo vizioso nel quale dalle stalle arrivavano alle stelle e dalle stelle tornavano alle stalle. Era sempre così. Magari il giorno dopo sarebbe stata una giornata stellare, ma chi poteva saperlo. Intanto, tra la gente, le loro mani si sfioravano e rabbrividivano, evitando di guardarsi.
La fila alla cassa fu lunga e destabilizzante per i loro nervi, ulteriormente urtati da quel lungo silenzio. La figura di Ed si stagliava accanto a quella di Marina.
Che ci era andata a fare se nemmeno stavano parlando?
Quando uscirono fuori dal supermercato, furono costretti a guardarsi e a parlarsi, facendo tornare quel senso di disagio tra loro che sembrava essere scomparso. Ed sentiva ancora quel miscuglio di paura, rabbia e delusione che gli attanagliava il petto, nonostante tentasse di scacciarlo. L’aveva perdonata, ma il suo animo non era ancora pronto a provare quelle emozioni, così un piccolo graffio stava finendo per lasciare una brutta cicatrice.
  • Vieni, ti accompagno. – disse lui, con le buste in mano.
  • No, non ti preoccupare, devo fare delle commissioni in centro. – era quasi fredda.
  • Non mi va che resti sola.  – ribadì lui.
  • Ho 23 anni, posso anche camminare per strada da sola, in pieno giorno. – rispose, seccata. - Sta tranquillo.
Non ebbe modo di ribattere, così la lasciò andare. Il loro saluto non era mai stato così freddo.
 
Non aveva molti soldi, ma grazie alla buona paga di Pit aveva potuto scegliere un bel fermaglio per sua nonna. Ora, il problema era Marina. Cosa diavolo doveva regalarle? Era amareggiato e non riusciva a pensare con lucidità, ma se non si fosse sbrigato i negozi sarebbero stati del tutto svaligiati e soprattutto non poteva presentarsi a casa sua a mani vuote.
Per i suoi genitori avrebbe recuperato una bottiglia di vino dalla cantina, ma per lei? Sbuffò pesantemente, davanti alla vetrina della gioielleria, con le buste della spesa ancora in mano. Si sentì ulteriormente demoralizzato quando contò le ultime banconote che aveva in tasca. Si incurvò, senza saper resistere alla forza di gravità e prese a camminare sul corso, alla ricerca di un’idea.
Come per magia, un negozio di oggettistica lo attrasse come una calamita. Vi si soffermò per diverso tempo, ma dal primo momento aveva individuato il giusto oggetto. In vetrina, era esposto il regalo di Marina.
Quando tornò a casa, la prima cosa che vide fu il cazzotto di Ben. Era ovvio che succedesse e la sua rabbia ricominciò a montare, ma il pensiero che il giorno successivo lo avrebbe trascorso in buona compagnia, gli dava la forza di sopportare.
Marina avrebbe coperto il suo nuovo livido col fondotinta, pensò mentre preparava la cena per quella sera e il pranzo per l’indomani. Doveva lasciare tutto pronto se voleva riuscire ad andarsene. Avrebbe avvertito Ben del suo “lavoro” direttamente la mattina seguente.
Mentre loro cenavano, andò in camera sua per assicurarsi di avere abiti puliti e per incartare i regali.
Si stava avviando al bagno per farsi una doccia bollente, quando la presenza di un’auto nera attrasse la sua attenzione. Era la stessa di quella volta, la riconosceva, ed era ferma proprio fuori casa sua. Gli fu subito chiaro che Jef non fosse andato al Lantern, così rimase a guardare dalla finestra. Per i primi minuti non accadde nulla, poi Jef apparve ed entrò nell’auto. Si chiese cosa diavolo stesse accadendo e sperò che quella testa di cazzo stesse facendo ciò che gli aveva detto, anche se aveva seri dubbi. Poteva solo aspettare e vedere cosa accadesse, ma poi Jef uscì dalla macchina, con l’aria impaurita. Ma cosa…?
Il suo fratellastro continuava a parlare, rivolgendosi a qualcuno all’interno del veicolo, per poi tornare in casa.
Lo sentì salire le scale velocemente, così corse in corridoio per fermarlo: doveva sapere.
  • Jef – lo afferrò per una spalla – cosa ti ha detto Tyler?
  • Non era Tyler, cazzone. – il sorrisino che aveva in volto non prometteva nulla di buono. – Volevano che gli dessi una certa cosa, ma gli ho detto che se la rivolevano indietro dovevano darmi tutto gratis. Si sono rifiutati. – rise, in modo quasi malato.
Lo lasciò andare, interdetto da un pensiero: la macchina che era andata via poteva essersi diretta a casa di Marina.
Corse a prendere il cellulare per chiamarla. Uno squillo, due, segreteria. E di nuovo, uno, due squilli, segreteria. Di nuovo, ancora, non rispondeva. Sentì una brutta sensazione corrergli lungo la schiena, così prese il cappotto ed uscì, dirigendosi a tutta velocità verso casa sua. Più pedalava veloce, più doveva respirare, ma l’aria gelida gli rendeva difficile riprendere fiato. Cadde, scivolando sul ghiaccio, ma non sentì alcun dolore, invaso dall’adrenalina. Quando arrivò sotto il suo portone, l’auto nera era ferma sull’altro marciapiede e un uomo ne uscì, dirigendosi direttamente verso di lui. Non sapeva cosa fare.
  • Tu sei il messaggero. – era completamente coperto dal cappotto nero col colletto alzato e da un cappello altrettanto scuro, ma la sua voce bastava a farlo tremare, grave e roca come quella di un mostro. – Sei venuto per la ragazza?
  • Lei non c’entra niente. – disse, cercando di non mostrare incertezza. Teneva il viso pietrificato come quello di una statua. – Prendetevela con Jef.
  • Jef è un bastardo di prima categoria. – ribadì quello.
  • A lui non importa della ragazza.
  • Ma importa a te. – disse eloquentemente, sapendo di toccare un nervo scoperto. – O sbaglio, messaggero?
Si ammutolì, cercando di vedere il suo viso oscurato dal cappello e dalla sciarpa. Non osava parlare ancora, per paura che le sue parole gli si ritorcessero contro, ma sembrava essere troppo tardi.
  • Se non vuoi che succeda qualcosa di brutto alla ragazza, rivoglio i miei documenti. – il suo tono era chiaramente quello di una minaccia. – Non mi interessa come li dovrò ottenere.
Rimase in silenzio, non sapendo cosa dire per non mettere ulteriormente in pericolo Marina. Se non fosse arrivato in tempo, a quell’ora gli scagnozzi di quell’individuo sarebbero già fuori la sua porta e il pensiero gli fece rivoltare lo stomaco.
  • Se vuoi salvare la tua amichetta, riportami ciò che mi appartiene e tu e lei sarete lasciati in pace. Quanto a Jef, ci penserò io.
  • Ma io non so dove siano, non sapevo nemmeno che esistessero! – cercò di fargli comprendere di essere completamente all’oscuro di tutto.
  • Allora trovali. – e quella voce, nonostante fosse un sussurro, arrivò alle orecchie del rosso come il rombo di un tuono.
Riflettè sulle possibilità che aveva di trovare davvero ciò che Jef aveva rubato e conoscendolo, probabilmente non li aveva nemmeno nascosti, ma…
  • E se non li trovo? – chiese a voce troppo bassa, ma guardandolo in faccia.
  • In quel caso, potete considerarvi morti.
Deglutì, ma continuò a mantenere il contatto con lui. Sentì la rabbia e l’impotenza farsi strada nel suo petto: cosa poteva mai fare? Dove avrebbe trovato questi documenti? Mille ‘se’ si formavano contemporaneamente nella sua mente, ma quel tipo non gli aveva lasciato molti margini di scelta: o li trovava o era finita.
Era la vigilia di Natale e quel tipo così losco gli tese la mano. La guardò come se stringendola firmasse un contratto e l’unico inchiostro a disposizione fosse il sangue che gli scorreva nelle vene. Stringendogli la mano, avrebbe stretto un patto col diavolo, non stringendogliela, avrebbe firmato la sua certificazione di morte.
Così, ormai spalle al muro, unì la mano alla sua e strinse più forte che potè. L’uomo non lo degnò di un altro sguardo e si voltò per andare via. Il rumore dell’auto che partiva era l’unico suono udibile quella notte e lui rimase lì a contemplarlo, sentendosi ancora più in trappola di prima. Se non avesse trovato quei documenti, avrebbero fatto del male a Marina e quella gente non scherzava, l’aveva capito.
Guardò la finestra illuminata di lei, vedendo la sua sagoma muoversi dietro la tendina.
Doveva fare qualcosa.
 
Driiin. Driiin. Driiin.
Marina doveva aver trovato le sue chiamate perse. Esitò a rispondere, ma l’ormai continuo terrore che le capitasse qualcosa gli fece schiacciare in modo deciso il tasto di risposta.
  • Edward? È successo qualcosa? – l’aveva fatta preoccupare.
  • N-no, niente…io, ehm…
  • Dimmi pure.
  • V-volevo solo…ecco… - non riusciva ad elaborare una scusa e stava facendo la figura dell’idiota. - …sapere se andava tutto bene.
  • Ma sì, certo. Cos’hai ultimamente? Sei strano.
  • Scusa, sono solo un po’ paranoico da quando…da quando… - doveva usare le parole giuste. - …da quando Jef ha cominciato a darti fastidio. – un po’ era vero.
  • Cos’è, sei geloso? – rise di gusto lei, ignara di ogni cosa, ignara del fatto che anche quello fosse vero. Era geloso.
  • M-m-ma che dici, Marina, non è affatto così! – rispose, riuscendo d’un tratto a pensare solo al batticuore che lo aveva assalito e all’assurda reazione che stava avendo. Gesticolava da solo nella sua stanza.
  • Stavo scherzando, tranquillo! – si giustificò lei. – Beh, adesso vado a dormire, domani dobbiamo alzarci presto.
  • Già, hai ragione. Scusa se ti ho chiamato così tardi.
  • Non fa niente, puoi chiamare quando vuoi. Allora, buonanotte Edward. A domani.
  • Buonanotte Marina, a domani. – chiuse la chiamata e si fece sfuggire un sorriso.
La serenità che gli infondeva la sua voce sparì immediatamente, pensando alla stretta di mano che si era scambiato con quel tipo.
Di nuovo, non sapeva da dove cominciare e l’indomani non avrebbe potuto cercare, dato che sarebbe stato a casa di Marina. Doveva trovare un buon momento per entrare nella stanza di Jef e frugare in giro, magari avrebbe trovato quei documenti più in fretta di quanto pensasse e avrebbe messo fine a quella storia definitivamente.
Era Natale già da un paio d’ore e pregò con tutto se stesso che quell’inferno in terra avesse fine.







Angolo autrice:

So che aspettate con ansia il prossimo capitolo, ma intanto...cosa pensate di questa vigilia di Natale? Piuttosto turbolenta, eh? Eppure, è questo il clima che si respira a casa Sheeran da 5 anni. Speriamo che Marina migliori la situazione.
Cosa pensate di Ed? In questo capitolo, si rivela in modo particolare.
Sbrigatevi a leggere e recensire, perchè non vedo l'ora di pubblicare il resto!
In realtà, fosse per me pubblicherei tutta la storia insieme, ma poi che fine fa la suspance?
Grazie mille per le visite e le recensioni, sono il meglio che un'autrice possa chiedere. :)
A presto.

S.

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Capitolo 22
*** XXII ***








XXII




| Sono qui fuori, vi aspetto in taxi. |
Quella notte aveva stilato una lista delle cose che doveva fare.
• Trovare i documenti che Jef nascondeva e mettere al sicuro Marina – ormai la sua priorità.
• Capire a cosa si riferisse suo nonno con quella filastrocca e trovare il testamento.
• Riprendersi la sua casa e cancellare Ben e Jef dalla sua vita.
• Sopravvivere.
Sapeva che nessuna di quelle cose era facile, ma quel giorno era Natale e sua nonna si stava facendo bella nella sua stanza. L’infermiera quella mattina gli aveva chiaramente detto che sua nonna cominciava ad appassire e che i suoi acciacchi la tiravano sempre più giù, quindi quel giorno doveva essere dedicato a lei. Poteva essere l’ultimo Natale che trascorrevano insieme.
Uscì dalla sua stanza con il suo vestito buono – blu, intonato ai suoi occhi – e con un paio di buste attaccate al bastone. La abbracciò, rimproverandola in anticipo per il regalo che sapeva gli aveva fatto, poi raggiunsero Marina.
Sua nonna non usciva da lì dentro da troppo tempo e quella piccola gita doveva essere il massimo per lei, lo si vedeva dal luccichio che aveva negli occhi mentre salutava Marina e le augurava Buon Natale.
  • Buon Natale anche a lei, signora. – disse, avvicinandosi e baciandola sulla guancia rugosa e incipriata. – Anche a te, Edward.
Impacciati più del solito, tentarono malamente di darsi un veloce bacio di auguri, rischiando una dolorosa collisione delle loro teste. Evangeline sorrise sotto i baffi mentre suo nipote chiudeva gli occhi al bacio di lei, per poi lanciarle un’occhiataccia. Ma tanto lo sapeva che suo nipote aveva perso la testa, lui era l’unico a non averlo ancora capito.
  • Andiamo, ci aspettano. – fece Marina, per togliersi dall’imbarazzo.
Caricarono Evangeline in auto e si diressero alla stazione.
Presero tre biglietti dal distributore automatico e salirono con qualche difficoltà sul primo treno per Londra. Una volta fatta accomodare la nonna accanto al finestrino, Ed sistemò le svariate buste che ognuno di loro aveva portato con sé, per poi accomodarsi di fronte a sua nonna e Marina accanto a lui. Si guardarono, sorridendo della contentezza di Evangeline, ma quel loro contatto visivo durò troppo a lungo.
Cos’è, sei geloso?
Diamine – pensò, guardando i suoi occhi verdi, più truccati del solito – sì. Era geloso. Le sue labbra rosse erano come una calamita per i suoi occhi, ma dovette smettere di guardarle, quando sua nonna aprì un discorso.
Marina, dal canto suo, quella mattina aveva deciso che sarebbe stata tranquilla – ricordando il discorso di Jody – ma gli occhi di Edward non glielo permettevano. Si era pettinato i capelli, aveva messo il cappotto buono e le scarpe più nuove che aveva, era un figurino e i suoi occhi erano sempre splendenti, pur essendo velati da quella paura che continuava a turbargli il viso. I suoi lividi erano ben visibili, ma oramai riusciva ad amare anche quelli, nonostante non vi si sarebbe mai abituata.
Cercò di concentrarsi sulla descrizione del pranzo preparato da sua madre e lui prese a guardare fuori, scosso ogni tanto dal tremore del treno. Non si cercarono, non si sfiorarono, ma percepiva la tensione della sua mano accanto alla propria come se fosse percorsa da una scarica elettrica.
  • Ed, hai preso la bottiglia di vino per i genitori di Marina, vero?
  • Certo, nonna. – rispose, voltandosi verso di lei.
Sentiva gli occhi di Marina cuciti addosso, gli sembrò che quel viaggio non finisse mai e quella sensazione non faceva che amplificare ogni sua sensazione, positiva o negativa, ma finalmente il treno fece il suo ingresso nella stazione di Londra.
Presero armi e bagagli e scesero dal convoglio, finalmente distratti dalla tensione che aveva permeato l’atmosfera.
Marina sventolò una mano nella direzione dell’uscita e un uomo ricambiò il suo gesto.
  • Quello è mio padre! – disse, entusiasta nel vederlo. – Venite.
La vide quasi sgambettare verso di lui, mentre lui e sua nonna procedevano lentamente, poi furono loro a tornare indietro.
Il padre di Marina, un uomo di media altezza con i capelli un po’ radi sulla testa, prese a fissare il suo viso, di certo osservando il suo livido scuro e si sentì a disagio, come ad un colloquio di lavoro.
Quando si fermò davanti a lui, l’uomo sorrise e tese la mano.
  • Piacere, io sono Daniel, il padre di Marina. Benvenuti. – strinse la mano ad Evangeline. – È un piacere, signora. E tu…
  • Piacere – disse, tendendo la mano e stringendo quella dell’uomo. – Edward.
  • L’uomo che ha salvato mia figlia. – disse, accennando un sorriso. – Ti ringrazio, anche da parte di mia moglie.
Il contatto con gli occhi dell’uomo fu intenso, si stavano studiando a vicenda. Marina disinnescò la bomba del loro incontro e incitò suo padre a condurli alla macchina. Aveva percepito il disagio di Ed e ancora di più quello di suo padre. Non aveva mai invitato un ragazzo a casa a Natale e suo padre era ancora convinto che lei fosse vergine e pura, quindi immaginava cosa frullasse nella sua testa.
Ben presto, furono alla macchina e la vista di Londra si impresse nella mente di Ed, riportando alla luce i suoi sogni. Tutti i suoi progetti gli tornarono alla mente come se non li avesse mai sepolti.
  • Edward, sali. – lo incitò Marina.
Entrò in macchina e si sedette accanto a lei, cercando di prestare attenzione al discorso che Daniel ed Evangeline avevano intavolato, ma la città che scorreva dal finestrino lo distraeva anche più dello sguardo di Marina.
 
  • Marina, tesoro!
  • Mamma!
La casa di Marina era una tipica abitazione inglese, situata in uno dei quartieri a nord della città. La porta rossa attirava la sua attenzione, spiccando contro il bianco delle mura. Due finestre di legno scuro la fiancheggiavano.
Marina e sua madre erano due gocce d’acqua e quasi le confuse mentre si abbracciavano. Aiutò sua nonna a scendere dall’auto, mentre Daniel recuperava le buste dal bagagliaio.
  • Benvenuti! Prego – li incitò poi la signora – venite in casa!
Andavano incontro ad una donna di mezza età con i capelli scuri e lunghi e gli occhi di Marina.
Sua nonna e la signora si salutarono come si conviene, poi fu il suo turno.
  • Tu devi essere Edward! – disse entusiasta – Marina mi ha parlato di te.
  • Piacere, signora. – rispose, sentendosi un po’ fuori luogo.
  • Oh, chiamami Lily. – disse scherzosamente quella. – Su, su, entriamo in casa, si muore dal freddo.
Poco dopo, la signora chiuse la porta di casa, su cui era inciso il cognome di Marina: Bennett.
Il tepore lo avvolse, mentre Lily prendeva i loro cappotti e Daniel sistemava le buste sotto l’albero di Natale. Il piccolo salotto in legno scuro era pieno di addobbi e luci, un piccolo albero di Natale si illuminava a tratti accanto al camino.
La tavola era imbandita e fecero accomodare sua nonna su una sedia accanto al fuoco.
Marina sorrise nel rivedere casa sua, ma sorrise ancora di più nel vederci Edward dentro. Mentre sua nonna dava la bottiglia di cortesia ai padroni di casa, decise che fosse il momento giusto per parlargli.
  • Sono contenta che tu sia qui. – disse, affiancandolo.
  • Anche io. – disse, vedendola senza cappotto per la prima volta. Indossava un abitino rosa e i capelli sciolti si posavano sulle sue spalle. – Hai una bella casa. – disse, per distrarsi dal suo aspetto.
  • Grazie. – sorrise. – Meglio del bilocale a Grimace Street.
Rise, riportando alla mente i momenti trascorsi con lei sul divano e per un po’ il suo cuore si beò del tepore della sua presenza e dei ricordi. Ricambiando il suo sorriso, Marina si aggrappò al suo braccio e posò il capo sulla sua spalla, intenerita. Era ancora incredula che lui fosse lì, ma non riusciva a non esserne felice, anche se quel suo gesto ora lo rendeva rigido come un pezzo di legno ed era arrossito. Si guardarono e lei lasciò scendere la mano verso la sua. La sensazione del palmo tiepido contro il suo era quasi eccitante e lo divenne ancora di più quando lui aggiustò la presa. Stavano per intrecciare le dita, quando suo padre li interruppe.
  • Spero tu abbia fame, ragazzo – e si staccarono immediatamente – perché mia moglie ha cucinato per un esercito. – rise quello.
  • Certo, signore. – rispose troppo seriamente, ancora interdetto dallo sguardo di Daniel.
  • Daniel, non mettere in imbarazzo Ed! – li raggiunse Lily. – Posso chiamarti così, vero? – il suo viso era radioso, mentre li osservava.
  • Sì, signor- cioè, Lily. – si portò una mano alla testa, cercando di abituarsi a quella situazione.
  • Bravo! – gli disse, ridacchiando. – L’unico che non mi fa sentire vecchia.
Pochi minuti dopo, presero posto al tavolo: Daniel capo-tavola, Lily e Marina ai suoi lati, sua nonna accanto alla padrona di casa e lui accanto a Marina, su insistenza di sua madre. Sua nonna era terribilmente felice, mentre chiacchierava e augurava Buon Natale, inaugurando il pranzo.
Daniel stappò la loro bottiglia per il brindisi e versò il vino per tutti.
  • Che questo Natale ci porti serenità. – disse, alzando il calice.
  • E un fidanzamento! – si intromise sua nonna, scatenando le risa di Lily. Ma solo di Lily.
Ed e Marina si guardarono, chiedendosi cosa l’altro pensasse, ma il rossore sulle loro guance parlava da sé. Per fortuna Daniel li interruppe, urtando i loro bicchieri per il brindisi. Lui stesso, geloso di sua figlia, distolse l’attenzione dalle parole di Evangeline e augurò buon appetito.
Come era prevedibile, i genitori di Marina durante il pranzo gli fecero un interrogatorio e lui cercò di rispondere alle loro domande senza balbettare, mentre Marina continuava a specificare che no, non erano fidanzati, solo amici.
Per caso – fu la risposta alla domanda “Come vi siete conosciuti?”. Non voleva certo ricordare il suo comportamento da stalker e sicuramente non voleva rendere partecipi i suoi genitori.
Ogni tanto Evangeline tirava fuori qualche aneddoto sull’infanzia di Ed e gli dava tregua dal terzo grado di Daniel. Marina gli chiese silenziosamente scusa, ma poteva capire: era pur sempre a casa sua ed era un ragazzo. Quella fase era d’obbligo.
In ogni caso, fu piacevole: durante quelle tre ore, non aveva pensato a nulla se non al sorriso di Marina e ai loro continui sguardi d’intesa. Era rilassato e sazio.
  • Che ne dite di aprire i regali?
Lily si dirigeva già all’albero, invitandoli ad accomodarsi sul divano. Una miriade di pacchetti erano distribuiti sotto l’abete e la signora cominciò a prenderne alcuni a caso.
  • Quello è di Marina! – disse Daniel. – Da parte mia, tesoro.
Marina prese il pacco dalle mani di sua madre per poi accomodarsi accanto a Ed, sul divano. Come una bambina, cominciò a strappare la carta, tirandone fuori un braccialetto. Ringraziò suo padre, mandandogli un bacio. Immediatamente, capì dal suo sguardo di doverglielo appuntare. Lo prese dalle sue mani e glielo mise al polso, desiderando che anche il suo regalo fosse così bello.
  • Questo è di mia nonna! – disse, scorgendo il pacchetto che aveva preparato.
  • Oh, tesoro, non dovevi.
Doveva, perché quando sua nonna vide il suo nuovo fermaglio, si accinse subito a sostituirlo, chiedendo se le donasse. Il suo sorriso era impagabile.
  • Questo è di papà. – disse Marina e suo padre tirò fuori dall’incarto un nuovo cellulare.
  • Questo è della mamma, da parte mia e di Marina. – e Lily scartò un profumo, il suo preferito.
  • Edward, caro, questo è tuo.
Evangeline gli porse personalmente il suo regalo e lui le diede un bacio, prendendo la scatola dalle sue mani. La scartò e tirò fuori un album fotografico, attirando anche l’attenzione di Marina. Quando lo aprì, una foto sua e di sua madre era attaccata sulla prima pagina. Immediatamente, Marina gli circondò le spalle, percependo la sua improvvisa tristezza. Sulla seconda pagina, una foto di tutta la famiglia, sulla terza una di lui e suo nonno. Guardò sua nonna, leggendo la commozione nei suoi occhi.
Era il regalo più bello che potesse ricevere. La abbracciò, lasciandosi carezzare da lei. Quella gli stampò un bacio sulla fronte e tirò su col naso, lasciandolo andare.
  • Che bel bambino! – disse Marina, ma dolcemente.
Lui rise, dandole una leggera gomitata.
  • E questi? – chiese Lily.
  • Oh, questo è di Edward. – disse Marina.
  • E quello è tuo. – disse Ed.
Marina portò entrambe le buste al divano, dando a Ed il suo regalo.
  • Prima il tuo. – disse lui, mettendo da parte l’album.
Daniel guardò gli occhi di sua figlia che osservavano quel ragazzo. La vide strappare la carta con meno foga del solito, quasi volesse godersi a fondo quel momento e pensò di non averla mai vista così con nessuno. Lui, poi, la guardava come se fosse la cosa più preziosa che aveva e questo lo rincuorò. Che Marina si fosse innamorata? L’idea che quel ragazzo gliela portasse via era fastidiosa, ma il modo in cui si tormentava le mani mentre lei scartava il suo regalo, gli fece ricordare se stesso quando trascorse il primo Natale con Lily. Capì che quell’Edward era innamorato della sua bambina.
Intanto, Marina ignorava suo padre e il suo sguardo, troppo concentrata a stracciare la carta sotto gli occhi di Ed. Quasi le tremavano le mai, sorpresa ed emozionata che lui le avesse fatto un regalo – era a conoscenza della sua situazione economica. Quando la carta fu eliminata, rimase una scatola bianca. Lo guardò, incontrando il suo sorriso ansioso, poi prese i bordi del coperchio ed aprì.
Nessuno le aveva mai regalato una cosa del genere, nessuno l’aveva mai incoraggiata a coltivare la sua passione e poi arrivava Edward e gli regalava una macchina da scrivere. Respirò, facendo sibilare l’aria in gola e poggiando il coperchio della scatola accanto ai suoi piedi, poi si portò una mano alla bocca senza smettere di guardarla.
  • Ti piace? – chiese lui, col tono di un curioso.
  • Edwrad, io…non so che dire. – disse, voltandosi verso di lui. – È bellissima, grazie!
Ed accolse il suo abbraccio inaspettato, stringendola prima troppo flebilmente, poi più del dovuto. Vedere il suo viso sorpreso era stato emozionante, appagante, ma il suo abbraccio era il più bel ringraziamento. Lasciò che le sue mani la sfiorassero, nonostante sua nonna, Daniel e Lily li guardassero e calò il capo nell’incavo del suo collo, godendosi la sensazione.
Evangeline ruppe il silenzio facendo un altro commento sul pranzo di Lily, facendo sì che non si creasse alcun imbarazzo. Quando Marina lo lasciò andare, fu soltanto perché non vedeva l’ora di vedere la sua reazione al suo regalo. Infatti, lo prese di nuovo, agitata e lo incitò ad aprire.
Ed prese la scatola infiocchettata tra le mani e slacciò il nastro, ancora sorridente. Guardandola di tanto in tanto, tolse il coperchio e vide un paio di guanti, una sciarpa e un cappello.
Non poteva esprimere a Marina la sua gratitudine, era troppa. Poteva sembrare un regalo banale, ma lei sapeva – ogni cosa. Sapeva che non aveva un paio di guanti, che la sua sciarpa non era abbastanza calda e il suo cappello troppo piccolo. Sapeva che soffriva il freddo ed aveva voluto ancora una volta proteggerlo. Quegli oggetti significavano più di quanto si potesse credere, un regalo più immateriale che materiale. Affetto.
  • Grazie, Marina. – la sua voce era calda e la sua espressione grata.
Stava per sporgersi per abbracciarla, ma lei lo fermò.
  • Controlla bene. – disse soltanto.
La guardò senza capire, aggrottando la fronte, ma fece come gli aveva detto. Tornò con le mani nella scatola e sfilò prima i guanti, poi il cappello, poi la sciarpa e proprio sotto quest’ultima era nascosto un sacchetto ed un foglio. Prese il sacchetto, guardandola, ma lei non fece altro che ridere ed incitarlo ad aprirlo. Infilò le dita nel velluto e ne tirò fuori una chiave.
  • Cosa…? – cominciò, tornando al suo viso.
  • È la chiave del magazzino. – disse lei, con naturalezza.
  • Vuoi dire….?
Realizzò, quando lei annuì, che Marina gli stava dando la chiave degli archivi dello studio Foster&Martins. Spalancò la bocca, non aspettandosi nulla del genere, ma poi sentì il petto riempirsi di qualcosa di troppo simile al sollievo. Non attese che lei lo fermasse o che dicesse altro, l’abbracciò, circondandola completamente con la chiave ancora in mano.
Lei rideva di gusto, presa alla sprovvista e sentiva sua madre fare altrettanto. Ricambiò l’abbraccio, infilando le mani nei suoi capelli.
  • Edward, c’è ancora una cosa. – disse, la voce soffocata dalle sue spalle.
  • Oh, hai ragione. – e si distaccò, lasciando che le sue gote si colorissero.
Prese l’ultimo oggetto nella scatola. Un foglio piegato in tre parti.
Senza posare la chiave, lo aprì e la scrittura di Marina gli balzò agli occhi.
Cominciando a leggere, si rese conto che era uno dei suoi testi.

 
25/12/2014

We are surrounded by all of these lies
And people who talk too much.
You've got that kind of look in your eyes
As if no one knows anything but us.
 
And should this be the last thing I see,
I want you to know it's enough for me,
'Cause all that you are is all that I'll ever need.
 
I'm so in love,
so in love.
 
You look so beautiful in this light,
Your silhouette over me.
The way it brings out the blue in your eyes
Is the Tenerife sea.
And all of the voices surrounding us here,
They just fade out when you take a breath.
Just say the word and I will disappear
Into the wilderness.
 
And should this be the last thing I see,
I want you to know it's enough for me,
'Cause all that you are is all that I'll ever need.
 
I'm so in love.
 
 
With love,

Marina.
 

Un nodo gli stringeva la gola.
Le dita fremevano e la testa gli girava.
Qualcosa, nel suo animo, si era definitivamente ricomposto.
Un nuovo sentimento si impadronì di lui e sembrava battere al ritmo del suo cuore, mentre leggeva le parole ‘I’m so in love’.
Anche io – pensò.
Non riusciva a parlare o a pensare lucidamente. Era arrossito e imbarazzato e felice, in qualche modo. Era davvero ciò che voleva dirgli Marina?
Si voltò a guardarla, lentamente, trovandola con gli occhi fissi su di lui e un lieve sorriso dipinto sulle labbra rosse. Il rosa delle sue guance gli comunicava mille emozioni.
  • So che non è un gran che… - cominciò lei, non vedendolo parlare, con le mani nelle mani.
  • È bellissimo. – disse, dopo aver deglutito ed ebbe voglia di rimanere da solo con lei, in quella stanza.
Lei sospirò in un sorriso, come se stesse recuperando il fiato tenuto in sospeso e per un attimo evitò i suoi occhi. Il resto dei presenti sembrava essere sparito mentre la guardava. Il suo cuore non accennava a smettere di battere troppo veloce e non era come al solito, non era una tachicardia nella norma, era come se Marina gli avesse detto un “Ti amo” e lui provasse lo stesso.
Sapeva benissimo che erano solo amici e che lei era una ragazza libera, ma la sola ipotesi che quel testo corrispondesse ai suoi reali sentimenti, gli mozzava il fiato.
E non si capiva, non riusciva a riprendere il controllo.
Sorrise davanti al suo imbarazzo, mentre lei cercava di guardarsi intorno per evitare i suoi occhi, ma la fece immobilizzare quando si sporse verso di lei e le diede un bacio sulla guancia.
Marina aveva sentito le sue labbra sottili imprimerle un marchio sulla pelle e i suoi capelli e la barba solleticarle il viso. Durante quegli attimi avevano stabilito una sorta di connessione, un canale aperto attraverso il quale potevano dirsi che sì, lei aveva parlato e lui aveva capito. Ma era solo nella sua fantasia.
Per il momento si concentrò sul suo bacio, ignorando tutto il resto.
Fece scivolare di nuovo la mano nella sua e si alzò. Lui, sorpreso, la guardò interdetto, lasciando le cose sul divano.
  • Vuoi vedere la mia stanza?
Non attese nemmeno una risposta e si avviò al piano di sopra. Lo trascinò fin sopra le scale sotto gli occhi dei suoi, assumendo un’aria normale, ma in realtà sentiva l’urgenza di restare sola con lui.
E sembrò che lui desiderasse lo stesso quando – lontano dagli occhi di Daniel – Ed intrecciò finalmente le loro dita, fermandola. Erano in piedi, nella penombra del corridoio e si guardarono. Il viso di lui era serio, Marina non capiva cosa stesse pensando con la mano stretta nella sua. Ed, dal canto suo, non sapeva cosa fare: si sentiva strano, insolitamente scosso ed agitato, ma non sapeva come comunicarglielo. Non riusciva a parlare.
Marina sembrava leggergli nell’anima.
Fece un altro passo verso di lui, facendo ondeggiare il vestito rosa antico, ma Ed non accennava a muoversi. Non interruppe il contatto visivo con lui, perché sentiva quel loro legame trasparire così piacevolmente dal loro guardarsi. Ed strinse di più la sua mano e con l’altra le carezzò il viso. Si avvicinò a lei, poggiando la fronte sulla sua, la gola si strinse per la breve distanza che li separava. Marina trattenne il fiato, ma Ed, chiudendo gli occhi, non la baciò. Entrambi rischiarono di avere un infarto.
  • Ti voglio bene. – disse Ed, quasi sussurrando.
Aveva una tremenda confusione in testa. Quell’istinto di baciarla lo stava tentando terribilmente, quasi non riusciva a trattenersi dall’avvicinarsi sempre di più a lei, ma doveva fermarsi. Doveva accontentarsi del suo respiro sulle labbra e della sua mano calda. Un brivido gli percorse la schiena quando lei annuì, non riuscendo a parlare. Voleva baciarla, ma che senso avrebbe avuto se non sapeva cosa provasse per lei? Gli dispiacque riaprire gli occhi e tornare alla realtà, ma non le lasciò la mano, seguendola nella sua stanza. Si chiese cosa frullasse nella testa di Marina, dato quel comportamento così insolito per lui.
Era una bella sensazione entrare lì dentro con lui che continuava a stringerle la mano. Sentire il suo pollice che le carezzava la pelle rendeva i ricordi di quel luogo ancora più dolci. I suoi vecchi pupazzi la guardavano dalle mensole, un po’ impolverati. La sua libreria era ancora piena zeppa dei libri del liceo e dell’università e la luce fioca del pomeriggio che entrava dalla finestra, illuminava le pareti lilla e il suo letto in ferro battuto al centro della stanza. Sull’armadio bianco, vecchi poster dei Backstreet Boys.
  • Anche a me piacevano. – disse Ed, cercando di smorzare il silenzio.
Lei continuò a guardarsi intorno, scorgendo alcuni particolari che aveva dimenticato, come le foto e i biglietti del cinema che collezionava.
Ed si avvicinò per osservare quella Marina di circa 5 anni più giovane, con la tunica del diploma e un mazzo di fiori in mano.
  • Che bella bambina. – scherzò e lei finalmente rise, facendolo sentire sollevato.
  • Lo so, non ero niente male. – disse lei, osservando le foto con le sue amiche.
  • Quanti ragazzi hai portato qui dentro? – disse lui, contando col dito l’abbondante numero di maschi racchiusi nei vecchi scatti.
  • In realtà, solo uno. – rispose lei, non cogliendo l’ironia della domanda. – Il mio ragazzo del liceo.
Lui ascoltò, cercando di celare la natura dei suoi pensieri, ma lei infierì.
  • Beh, era il mio primo amore, la mia prima volta. – spiegò. – Ma in realtà non era un granché.
La stretta delle loro mani non si allentò comunque, nonostante Ed stesse prendendo coscienza del fatto che Marina avesse un passato, fatto anche di uomini, di baci e di sesso. E quel dettaglio lo faceva sentire inadeguato, come se lui non fosse capace di offrirle tutto quello. Non si sentiva abbastanza.
Mentre lei continuava a guardare la parete, la guardò e scorse il segno del recente incidente sul suo collo. Aveva rischiato la vita per lei e non se ne pentiva, aveva stretto la mano a quel tipo la notte prima, per proteggerla, ma aveva paura di non poter fare di più, di non essere abbastanza uomo per lei.
Che poi, ancora doveva capire perché mai si stesse ponendo quelle domande.
Gli mostrò alcuni vecchi diari, qualche testo di quando era ragazzina e qualche foto di quando era bambina. Erano seduti sul letto a ridere del suo costume di carnevale quando sua madre si affacciò alla porta e gli chiese di scendere di sotto per il dolce ed il the. Li precedette al piano di sotto e prima di uscire dalla stanza, Marina lo fermò e lo guardò ancora, facendolo avvicinare a lei.
  • Anche io ti voglio bene. – gli disse.
Lo aveva guardato dritto negli occhi, convinta che se lui non avesse ancora mollato la presa sulla sua mano, doveva esserci un motivo. Sentiva che era il momento di cominciare a giocare le sue carte, dando inizio ad una nuova mano.
Edward aveva pescato la sua carta, ora doveva solo aspettare la sua mossa.
 
Sua nonna aveva abbracciato Marina come se fosse stata sua figlia, ma non si era risparmiata di riportare un certo imbarazzo, dicendo che erano proprio una bella coppia e che un bisnipote non le sarebbe dispiaciuto. Forse aveva bevuto troppo di quel vino, quindi riuscì a perdonarla.
Rimasero soli, a piedi.
  • Ti accompagno.
  • Ma ci metterai una vita a tornare indietro.
  • Fa lo stesso, non è così tardi.
Con le mani in tasca, prese a camminare, guardandosi intorno alla ricerca di un qualsiasi segno, ma non vide nulla di strano: forse anche per i criminali era Natale.
Marina era silenziosa da quando avevano lasciato casa sua, ma ogni tanto sorrideva ancora guardando le buste che si portava dietro, il che gli faceva ricordare lo splendido testo che gli aveva scritto.
So in love.
Avrebbe voluto che ogni cosa divenisse chiara in un istante, ma temeva che ci sarebbe voluto del tempo per capire cosa diamine gli stesse accadendo.
Era amore?
No, credeva che l’amore fosse qualcosa di diverso da ciò che erano loro, ma allora cos’era quella forte emozione che sentiva quando per caso la sfiorava? Cos’era quel nodo alla gola che aveva quando era tentato di baciarla?
Perché voleva baciare Marina?
Le piaceva, certo, era una splendida persona, ma considerò la possibilità che quel desiderio fosse solo il frutto della sua vicinanza dopo anni di solitudine.
Infondo era molto tempo che non stava con una donna, in tutti i sensi e lei era carina e gentile. Poteva semplicemente star illudendo se stesso – e lei. Non avrebbe corso il rischio di perderla per quella sciocchezza.
Perso in quei pensieri, non si era accorto del suo osservarlo e giunsero sotto casa sua nel più totale silenzio.
  • Vuoi salire? – chiese lei, simulando naturalezza.
Non gli andava di lasciarla sola, tantomeno di tornare a casa, ma per la prima volta esitò ad accettare. Lei notò il ritardo della sua risposta, ma non disse o fece nulla per influenzarlo: lasciarlo completamente libero di scegliere, era l’unico modo per capire se lui potesse provare lo stesso sentimento che sentiva lei.
Ed guardò l’orologio della chiesa, segnava le 20:55. Beh, era pur sempre la sera di Natale.
  • Va bene. – le disse e la seguì, facendo finta di non aver notato il suo tic.
Poco dopo, era seduto sul divano di Marina con una tazza di the tra le mani e lei al suo fianco, intenta a sistemare la macchina da scrivere che le aveva regalato.
Le diede una mano a sistemare il foglio, incontrando più volte le sue mani ancora fredde. Ogni volta, gli tornava in mente quel pomeriggio e si chiese nuovamente cosa ne pensasse, lei, di quel gesto. Di quel “Ti voglio bene” così carico di ‘se’ e di ‘ma’.
Gli sembrò che stesse per scrivere qualcosa, con la macchina sulle gambe, ma non mosse le mani sospese.
Marina non riusciva a muovere un muscolo con gli occhi di Ed puntati su di lei, si sentiva terribilmente osservata. Sembrò passata già un’eternità quando si voltò a guardarlo e trovò i suoi occhi chiari: il suo viso era teso e sereno insieme. Ridacchiò istericamente.
  • Se mi osservi, non riesco a fare nulla. – ammise.
Lui non rispose, si limitò a distogliere lo sguardo e a riflettere sulle sue parole.
Marina era confusa, ma le parole di Jody erano come un mantra: non faceva che ripetersi di essere se stessa, niente imbarazzo superfluo, ma cosa poteva farci se lui era così strano, ultimamente?
  • Stai bene? – gli chiese.
  • Sì, sto bene. – disse lui. – E tu?
  • Beh…sì, certo.
Lui sospirò, rilassando la schiena sul divano, lasciandola con mille dubbi.
Ed, stanco di tormentarsi, allargò un braccio, invitandola a stare accanto a lui e lei si sistemò di fianco al suo torace, come era già capitato.
In un certo senso, si sentì consolata da quel gesto, ma non poteva fare a meno di pensare che Edward stesse cambiando e che nei suoi occhi stava comparendo qualcosa che prima non c’era.
Lo vide ancora, quando lui la guardò, cercando di sorridere.
Rimasero in silenzio per molto tempo e Ed poggiò le labbra sulla sua tempia.
Entrambi, stavano riflettendo su quello strano e intenso Natale, convinti di non aver scartato il regalo più importante.






Angolo autrice:

Sorpresa!
Aggiorno in anticipo perchè vedo che il numero di visualizzazioni dell'ultimo capitolo è identico al numero di visualizzazioni di quello precedente, ciò significa che chi sta seguendo la storia ha terminato la lettura ed attende il prossimo. Quindi, eccolo.
So che al 10000000% il capitolo non è ciò che vi aspettavate, ma perdonatemi, questa storia a volte non la capisco nemmeno io. Spero solo che alla fine non vi deluda del tutto.
Credo che mi resti da scrivere l'ultimo capitolo e mezzo e proprio ora sono all'opera, quindi fatemi sapere cosa ne pensate, la vostra opinione è fondamentale.
Anyway, grazie a tutti per la lettura e le recensioni, siete beddi beddi. :)
Nel prossimo capitolo ci sarà un avvenimento importante, quindi sbrigatevi a leggere!
A presto! :)

S.



Bonus:


    

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Capitolo 23
*** XXIII ***







 
XXIII




Aveva lasciato Marina con una certa preoccupazione, la sera prima, così il suo primo pensiero – non appena ebbe aperto gli occhi – fu ritrovare i documenti rubati da Jef.
Era ancora in vacanza, quel giorno, niente biblioteca, niente Hawking, eppure vacanza era una parola grossa, data la mole di faccende da sbrigare.
Quando era rientrato dalla finestra, aveva sentito la tv di Jef ancora accesa e infatti stava ancora dormendo, quindi non aveva di meglio da fare che cominciare a pulire, partendo dalla cucina lasciata in disordine dal giorno prima.
Mentre puliva il bagno e lavava i pavimenti, si sentiva una brava massaia, poi passava al ruolo di idraulico per aggiustare lo scarico del lavello e a quello di elettricista per sistemare le lampadine del salotto, proprio sotto gli occhi di Ben.
Quello stava guardando la partita di un qualche sport che in realtà non gli interessava e pensò, osservandolo, che fosse pensieroso. Dovette evitare di fare il minimo rumore, altrimenti sarebbero stati guai e fortunatamente i passi di Jef, che si era alzato e scendeva a fare colazione, lo resero una persona molto silenziosa.
Si avvicinava la sua occasione: doveva pulire la sua stanza.
Non c’era neanche bisogno di chiedere il permesso, per quello, perché era sempre stato così: Jef si svegliava e lui terminava le pulizie occupandosi della sua stanza. Il problema sarebbe sorto se non se ne fosse occupato.
Scese dallo scaletto subito dopo aver avvitato l’ultima lampadina e lo ripose nel ripostiglio per poi avviarsi alle scale. Si guardò mille volte alle spalle prima di entrare nella stanza del verme, poi accese l’aspirapolvere ed approfittò del rumore per spostare un po’ di cose.
La stanza di Jef era un tugurio poco comune per il suo stato di disordine, nonostante la sistemasse almeno una volta la settimana. Quel casino non gli rendeva il lavoro più facile. Cominciò a spostare cartacce dalla scrivania, senza sapere bene cosa stesse cercando, ma si sforzò di osservare ogni foglio accartocciato. Niente - e li gettò nel cestino.
Sotto il letto e l’armadio, altrettanto, e dovette spegnere l’aspirapolvere.
Lo straccio e il detergente erano altre buone scuse per frugare in giro, sulle mensole, nei cassetti, nelle ante, niente.
Controllò nelle tasche di tutti i vestiti e i cappotti che risistemò e non vi trovò che qualche sigaretta, qualche moneta e lo scontrino di un bar.
Cominciò a preoccuparsi che Jef li avesse nascosti. Dove? Dove poteva cercare?
Si guardò intorno nella stanza, cercando qualche anfratto che non avesse ancora esplorato e l’unica opzione fu quella di guardare nei dvd, ma niente comunque.
Diamine. Non se lo aspettava.
E pensare che quella era stata la sua stanza.
  • Cosa stai facendo?
La voce di Jef lo fece trasalire, mentre si rialzava dall’altezza del porta dvd.
  • Sto pulendo. – disse, regolando il tono.
  • Spostati, devo cambiarmi.
Lo cacciò letteralmente fuori, dandogli giusto il tempo di recuperare il detersivo, ma aveva ancora un’occasione: doveva cambiare le lenzuola.
Non appena Jef uscì dalla stanza, notò che fosse vestito e incappottato, pronto ad uscire.
Perfetto – pensò. Sperò che non notasse il luccichio nei suoi occhi.
Andò via ignorandolo.
Lo osservò scendere le scale e non appena sentì la porta chiudersi, strinse le mani e prese un lungo respiro. Rientrò e si diresse direttamente al letto: tirò via il piumone, poi il lenzuolo e il cuscino. Niente. Lanciò il cuscino contro il muro, con rabbia, maledicendo Jef e il suo comportamento malato.
Dove, dove? Continuò a guardarsi intorno, spostando tappeti e quadri, ma niente.
Tornò al letto col le lenzuola pulite: spostò il materasso per facilitarsi il lavoro ed eccoli. Due fogli spuntavano da sotto l’angolo interno del materasso, stropicciati. Li afferrò subito, leggendo il testo: sembrava che quei criminali c’entrassero qualcosa con l’ultimo scandalo riportato dai giornali, di cui non si era interessato poi molto. Quei fogli dovevano essere davvero compromettenti, altrimenti non li avrebbero perseguitati per riaverli. Sentendo i passi di Ben risalire le scale, guardò verso la porta e infilò i fogli sotto la felpa, fingendo indifferenza al suo passaggio. Terminò di sistemare e tornò a richiudersi in camera sua, a chiave.
Sfilò il suo tesoro da sotto la felpa. Erano solo due fogli: pagina 1 di 3, pagina 2 di 3.
Merda, dov’era il terzo foglio?
Con Ben che andava avanti e indietro dalla sua stanza, non poteva rientrare in quella di Jef senza motivo, lo avrebbe ammazzato. Guardò dalla serratura e confermò a se stesso l’impossibilità di tornare lì.
Diede un pugno allo stipite, rialzandosi, il suo viso corrucciato in un’espressione di rabbia. Credeva di esserci riuscito e invece Jef era stato previdente, contro ogni sua aspettativa. Riconobbe di essersi esposto troppo con lui, magari provocando quell’insolito eccesso di prudenza. Doveva recuperare il terzo foglio prima che Jef si accorgesse dell’assenza dei primi due, ma non aveva scelta se non aspettare che Ben tornasse definitivamente al piano di sotto.
Si sedette sul letto e riprese l’album regalatogli da sua nonna. Il ricordo del giorno precedente bruciava ancora nella sua mente, in ogni dettaglio. Lo aprì e cominciò a sfogliare le pagine, in attesa che la fortuna tornasse dalla sua parte e che la rabbia defluisse nei ricordi.
 
Che Ed fosse particolare, lo sapeva benissimo, ma lei non era da meno. Cominciava a diventare insofferente a quella situazione, come quando ti dicono di dover aspettare solo pochi minuti e poi ti ritrovi ad attendere per ore.
Avrebbe voluto leggere nella sua mente per capire cosa pensasse veramente, ma doveva limitarsi ad interpretare i suoi gesti, pur sapendo di non essere obiettiva. Ad esempio, quel suo modo di fare – il giorno prima, nel corridoio – le aveva fatto credere per un attimo che anche lui fosse innamorato di lei, per poi smontare le sue teorie con un “Ti voglio bene” incerto e insicuro.
Ma, come diceva Jody, non tutto il male viene per nuocere e cercò di fare le sue commissioni nel modo più sereno possibile.
Passeggiava per il centro alla ricerca di un posto dove vendessero articoli da ufficio.
Aveva anche incontrato un paio di conoscenti, fermandosi a fare due chiacchiere, ma l’inaspettata serenità che aveva conquistato durante la prima ora, si macchiò di inquietudine quando Jef, nel suo cappotto nero, la accostò.
  • Allora, bellezza, cosa fai da sola?
In un universo parallelo, quel suo modo di fare avrebbe potuto risultare affascinante e romantico, ma i suoi occhi continuavano a ricordarle la viscidità di un serpente. Non gli rispose.
  • Eddai, rispondimi. – insistette lui, riducendo le distanze. – Tanto lo so che vuoi uscire con me.
  • No, non voglio. – disse, ma non lo guardò neanche, fissando le vetrine.
  • Marina, Marina, sei proprio provocante quando sei arrabbiata.
Jef tese la mano al suo mento e la fece voltare forzatamente verso di lui. Marina scacciò via la sua mano, nel modo più rozzo che conoscesse, infastidita dal contatto. La sua espressione arrabbiata non lo fermò.
  • Non fare la preziosa.
Jef le infilò la mano dietro al collo, attirandola a sé nonostante lei facesse resistenza contro il suo petto.
  • Lasciami stare! – quasi urlò.
I passanti cominciarono ad osservarli.
  • Solo un bacio, che ti costa.
  • Ho detto, lasciami stare! – il suo tono diveniva sempre più acuto, mentre si sforzava di allontanarsi.
Non servì a nulla premere con le mani contro le sue spalle e contro il suo viso, era abbastanza forte da riuscire ad avvicinarsi a lei senza essere fermato. Gli si rivoltò lo stomaco, leggendo una certa perversione nei suoi occhi. Stava per chiedere aiuto, ma per fortuna il proprietario del negozio davanti al quale si erano fermati, uscì fuori con un bastone in mano.
  • Lasciala stare! – urlò l’uomo dai capelli bianchi, facendo voltare i passanti.
Jef sobbalzò, mollando finalmente la presa sul suo collo, ma non sul suo braccio.
Marina riprese fiato e cercò di divincolarsi, guardando l’uomo con gratitudine.
  • Guarda che chiamo la polizia! – minacciò.
Solo allora, Jef distese l’espressione beffarda che aveva assunto e la lasciò andare, spingendola contro il muro.
  • Tanto ci rivediamo. – disse gelidamente a Marina, fissando gli occhi sul suo viso e sul suo corpo, poi andò via.
Marina lo guardò strisciare lungo il marciapiede, non curandosi di evitare chi gli stava davanti, che fossero adulti o bambini.
  • Stai bene?
L’uomo del negozio le parlava muovendo i suoi baffi bianchi, leggendo ancora sul suo viso il disgusto e la paura. Jef l’aveva appena molestata.
Non si era accorta del tremito che aveva preso a scuoterla, così come del fatto che non riuscisse a parlare, impaurita. Così, l’uomo la prese per un braccio e la portò dentro, offrendole qualcosa di caldo.
Non si curò del fatto che fosse in un negozio di cravatte, riuscì solo a sedersi su uno sgabello di legno e a guardare un punto fisso sul muro.
Per la prima volta si rese conto di quanto fosse grave la situazione e comprese la paura di Edward. Jef era pericoloso e inquietante, ora ne aveva la prova.
Il vapore del the che l’uomo le porgeva attirò la sua attenzione, facendola uscire dalla bolla in cui si era rinchiusa. Deglutì, sentendo ancora un nodo allo stomaco e prese la tazza. Messo da parte il disgusto, la paura la portò a pensare a Ed.
  • Quel tipo ti da fastidio?
Doveva chiamare Edward – pensò, con le lacrime agli occhi, ricordando la scenata dell’altra mattina.
  • S-scusi, mi dispiace.
  • Non preoccuparti, ragazza, ci mancherebbe altro.
Driiiiiiin. Driiiiiiiin.
La suoneria del suo cellulare la fece scattare. Sullo schermo, il dome di Ed era come una visione.
  • Edward… - rispose, con voce rotta, ma lui sembrava non essersene accorto.
  • Marina – disse trafelato – dove sei?
  • S-sono sul corso, perché? – chiese, confusa.
  • So dov’è il testamento, Marina! – rise – So dov’è!
Sentì la felicità trasparire dalla sua voce come esplode un fuoco di artificio.
  • Vengo a prenderti! – disse entusiasta – Dove sei?
  • Uhm… - si guardò intorno per la prima volta – In un negozio di cravatte. Bones. – riferì, leggendo una targhetta.
  • Arrivo!
Chiuse la chiamata senza attendere che lei rispondesse e Marina rimase senza parole. Era normale che lui non si fosse accorto di niente, anche a lei stava per scoppiare il petto quando aveva sentito del testamento, ma subito dopo la paura riprese a tormentarla.
Pochi minuti dopo, giusto il tempo di riprendersi, ringraziò l’uomo per il suo aiuto e raggiunse Ed fuori. Il suo viso era raggiante, il sorriso largo e gli occhi brillanti. Non le chiese cosa ci facesse in un negozio di cravatte, la invitò semplicemente a salire in bici il più in fretta possibile.
 
  • …così ho aperto l’album e ho trovato quella foto! – nonostante stesse pedalando in salita e fosse senza fiato, continuava a raccontare a Marina di come avesse capito ogni cosa. – La nonna aveva ragione, mio nonno mi portava sempre a pescare al lago e a volte, d’estate, restavamo per la notte.
Ovviamente aveva accuratamente evitato di raccontare a Marina del piccolo dettaglio riguardante i documenti ritrovati in camera di Jef. Le aveva semplicemente detto che aveva terminato di fare le pulizie e che aveva avuto modo di riposare in camera sua.
Ora, scalavano la collina senza che lei sapesse bene dove fossero diretti.
  • C’era uno spiazzo tra gli alberi dove montavamo le tende. Deve essere di certo quel posto!
Era ancora entusiasta, pienamente dominato dalla contentezza: non aveva notato il viso di Marina, il suo pallore o il suo sconforto. E lei non aveva il coraggio di interrompere quel suo momento.
  • Quindi, dovremmo trovare il testamento. – disse soltanto, reggendosi a lui.
  • Già, lo spero! – sorrise.
Ed non sentiva nemmeno la fatica, troppo concentrato sulle sue parole e sul percorso che si costruiva pian piano nella sua mente.
Gli alberi spogli sfilavano al loro fianco, ricoperti di neve, mentre il cielo si annuvolava e il vento cominciava a soffiare più forte. Marina alzò gli occhi al cielo e si rese conto che presto avrebbe cominciato a nevicare. Il tuono che ruppe il loro silenzio, non smosse Ed dalla sua concentrazione.
Inaspettatamente, svoltarono su un sentiero non asfaltato, lasciando una striscia continua nella neve immacolata. Un bosco di pini e abeti li accolse, rendendo l’aria ancora più scura e fredda. Il sudore di Ed gli si ghiacciava sulla fronte, ma cosa importava. Stava per ritrovare il testamento.
Si fermarono in prossimità di una salita e lui la invitò a scendere.
Gli stivali di Marina affondarono nella neve, facendole percepire ulteriormente il freddo e Ed appoggiò la bici ad un albero, per poi avviarsi lungo la salita.
  • Qui c’era un sentiero, una volta. – disse senza fiato, non curandosi di assicurarsi che Marina lo seguisse, ma lei lo fece comunque. – Deve essere coperto dalla neve.
  • Sei sicuro che sia di qua? – chiese, mentre un altro tuono squarciava l’aria e il vento smuoveva le chiome.
  • Sta tranquilla.
Facile a dirsi. La sensazione delle mani di Jef la turbava ancora. Avrebbe voluto parlargliene subito, ma…
Scivolò sul fango, ritrovandosi faccia a terra.
  • Ti sei fatta male?
Probabilmente era la prima volta che la guardava davvero in viso, da quando l’aveva incontrata e Marina si chiese se avesse notato qualcosa in lei. Se si fosse accorto del suo turbamento. Invece, Ed le diede la mano per aiutarla ad alzarsi, poi riprese a camminare.
Cominciava a sentire la fatica, ma per fortuna giunsero in cima. Quando si fu assicurata di essere ben salda sui piedi, alzò gli occhi e vide il lago ghiacciato. Non era mai stata lì, ma Ed proseguiva lungo la riva come se conoscesse quel posto meglio di casa sua. Le pietre lisce facevano rumore ad ogni loro passo, mentre costeggiavano il lago circondato dal bosco. Un piccolo molo deserto svettava davanti a loro. Quando lo raggiunsero, Ed rientrò nel bosco.
Il vento soffiava sempre più forte.
  • Edward, sta per arrivare una tempesta. – gli disse, quasi sicura che lui non avesse notato nemmeno quello.
  • Ci siamo quasi. – disse, con voce allegra, come se lei gli avesse fatto notare la presenza di un arcobaleno.
Cominciò ad essere infastidita, ma prima trovavano quel testamento, prima sarebbero scesi dalla collina.
Si guardò indietro prima di seguirlo nel bosco.
La strada è buia, irta e stretta, ma sul lago brilla la luna.
Ed aveva bene in mente il percorso da seguire e riuscì ad orientarsi nonostante il sentiero fosse coperto di neve. Ancora non poteva credere di aver capito, sapeva esattamente dove cercare, dopo cinque anni. Finalmente avrebbe potuto liberarsi di quei due parassiti, era ad un passo dalla vittoria, ad un passo dalla serenità.
Il vento gelido non lo toccava, grazie al regalo di Marina e la fatica era nulla, grazie a tutta quell’adrenalina.
Non appena aveva capito dove andare, aveva chiamato Marina per condividere quel momento con lei. Voleva condividere la sua felicità, altrimenti non avrebbe avuto senso. Sapeva che lei fosse contenta per lui.
Poco dopo, sbucarono nella piccola radura dove lui e suo nonno montavano le tende ed accendevano il fuoco, guardando le stelle prima di dormire.
Se guardi al cielo pieno di stelle, potrai contarle una ad una.
Si fermò al centro, cominciando a guardarsi intorno, alla ricerca di un albero preciso: la quercia che aveva piantato suo nonno da ragazzo.
Sotto le fronde della quercia imponente, sta una speranza sempre brillante.
Completato il giro, la vide, leggermente nascosta da due pini, ma nettamente più chiara e spoglia. Scattò in quella direzione e quando vi giunse, la guardò ricordando la fresca ombra che lo aveva coccolato durante le estati della sua infanzia. Vi poggiò le mani, cercando l’inizio dell’intaglio che ci aveva fatto da bambino.
Marina lo guardava senza capire, vedendo solo un vecchio albero spoglio, ma le mani di Ed presero a seguire una traccia che lei non riusciva a distinguere.
Era solo la pallida imitazione di un’incisione, ormai consumata dal tempo, ma la sentiva sotto le dita e prese a girare intorno all’albero, fino a fermarsi dietro di esso.
Segui l’intaglio un po’ deludente e troverai un tesoro eclatante.
Marina si abbassò accanto a lui, vedendolo scavare tra la neve e poi nella terra, dopo aver tolo i guanti.
Il suo respiro caldo si condensava nell’aria per poi essere immediatamente cancellato dal vento. Il suo sguardo era fisso sulla buca sempre più profonda, quasi incantato. Con sempre più foga, affondò le mani nella terra e poco alla volta vide spuntare una vecchia scatola di ferro. Suo nonno doveva essere impazzito, pensò tirando la scatola rossa fuori dalla buca, ma ci aveva visto lungo.
Si pulì le mani sul cappotto blu, dimenticando che Marina fosse lì. Col cuore in gola, la aprì e una vecchia busta ingiallita era l’unica cosa che c’era al suo interno.
I primi fiocchi di neve presero a scendere, trasportati da vento.
Gli tremavano le mani.
Aprì la busta e il testamento di suo nonno fu finalmente tra le sue mani.
  • Sì! – urlò, dando un pugno all’aria, in un gesto di euforia.
Marina, nonostante tutto, non potè fare a meno di sorridere.
Ed si alzò in piedi, senza smettere di fissare il foglio contrassegnato dalla firma di suo nonno.
Abbracciò Marina e puntò gli occhi al cielo.
Era libero.
Avrebbe riavuto la sua casa.
 
Non voleva guastargli i piani, ma doveva proprio ricordargli che secondo la legge, lui aveva ufficialmente rinunciato all’eredità.
Era riuscita a dirglielo durante la discesa dalla collina e la sua unica risposta fu – In qualche modo farò. Non smetteva di sorridere, nonostante il vento forte e la tempesta in atto. Marina si rifugiò nel suo collo, sconfitta da quella giornata, pregando di arrivare presto a casa di Jody per riscaldarsi e riflettere sulla sua delusione.
La sua amica le aveva chiesto di farle compagnia per quella notte, poiché non si sentiva molto bene. Per fortuna aveva portato con sé materiale sufficiente per studiare.
Anche se, già lo sapeva, non ci sarebbe riuscita. Avrebbe continuato a pensare a quanto ci fosse rimasta male che Ed non avesse percepito il suo malessere, eppure lei non era riuscita a parlargliene, non riusciva ad aprire quel discorso in nessun modo. Lui non faceva che ripetere quanto fosse felicemente ottimista e lei non era nessuno per rovinare il suo primo momento di felicità degli ultimi cinque anni.
Avrebbe voluto che lui se ne accorgesse da solo. Avrebbe voluto che se ne accorgesse e basta.
Quello stato di insofferenza che cominciava a pesarle, diventata sempre più acuto e penetrante. Non riusciva più ad aspettarlo.
  • Ora dobbiamo trovare quel fascicolo. – riprese lui.
  • Beh, abbiamo la chiave. – costatò lei. – Mentre io lo distraggo, tu entri nel magazzino, sperando che non sia troppo sorvegliato.
  • Fred ha detto che non avevano ancora installato l’impianto di video-sorveglianza. – rispose. – Che ne dici di andare domani?
Marina annuì e poi attese in silenzio di arrivare a destinazione.
Quando furono sotto casa di Jody, scese di fretta dalla bici e fece per salutarlo con la mano, ma lui – senza smettere di sorridere come un ebete – avvolse la sua testa con un braccio e le diede un bacio su un punto indistinto del suo viso.
  • Grazie. – disse, lasciandola andare.
  • Di niente.
Si sforzò di sorridere e non ricambiò il suo gesto, per poi lasciarlo lì e correre in casa.
Ed la vide andare via, ancora incantato. Infilò la mano in tasca per sentire di nuovo la consistenza del foglio.
Se non fosse stato per la tormenta, le avrebbe proposto di festeggiare, ma si decise per rimandare al giorno dopo. Dopo l’ennesima folata di vento, si diresse a casa.
 
  • Marina, lo devi denunciare!
  • Lo so, ma…
  • Ok, devi parlarne prima con lui, ho capito, ma non potevi dirglielo subito?
Jody era incazzata nera e lei la guardava stancamente, arresa alla sua debolezza.
  • Mar, da quando lo hai incontrato, non fai che essere triste ed ora anche questo! Non è l’unico uomo al mondo!
  • Lo so, Jody, ma io credo che lui cominci a provare qualcosa.
  • Beh, deve dimostrartelo. – incrociò le braccia. – Oggi ha perso parecchi punti, il ragazzo.
Sospirò pesantemente, avvolta dal pigiama, senza riuscire a trovare un senso a tutto quello. A Edward. Non poteva negare di essere un po’ delusa e sapeva che Jody aveva detto bene affermando che il suo perdono era dovuto solo al suo innamoramento. In una coppia non funziona così, in una coppia ci si viene incontro, in qualsiasi situazione e così non poteva funzionare.
Tuttavia, era un momento così delicato per lui.
  • Cosa ti ha scritto John?
Il suo ex le aveva mandato un sms poche ore prima, chiedendole di rivedersi da amici, per fare due chiacchiere, dato che era in città.
  • Beh, perché non accetti?
In realtà si sentiva vincolata dal suo sentimento, come se potesse tradire Ed senza che fossero alcunché.
  • Uscire con lui non ti farà male, anzi, potrebbe aprirti gli occhi su molte cose!
Jody era convinta che uscendo con John, Marina si sarebbe resa conto di come si comporta un uomo che ti corteggia, avrebbe riportato la mente al passato rendendosi conto di cosa fosse un rapporto che andava oltre l’amicizia. Voleva solo il bene della sua amica e desiderava che vedesse la situazione per quella che era: Edward fino a quel momento aveva solo sollevato mille dubbi, per chiarire i quali Marina sembrava non essere disposta ad aspettare oltre e allora tanto vale guardarsi intorno e non precludersi alcuna possibilità.
  • Sai che John non mi piace. – disse Marina, ricordando come fosse finita la loro storia.
  • Nessuno ha detto che devi tornarci insieme. Avanti, sai già cosa intendo e uscire con lui non ti costa nulla. Potrebbe essere un buon modo per svagarsi.
Un’ora di discussione dopo, Marina rispose a John, accettando il suo invito per la sera successiva. Probabilmente l’avrebbe portata a cena in qualche ristorante.
Si stava forzando, ma fino a quel momento la sua amica non aveva sbagliato un colpo e sapeva – in fondo – che lei avesse ragione. Nel suo animo, anche lei pensava le stesse cose, ma quel vortice di sentimenti le impediva di navigare serenamente e scorgere la terra ferma. Era in una tempesta, in mezzo al mare e Jody era il suo giubbotto di salvataggio.
  • Pensi che lui non provi niente per me?
  • Sicuramente ti vuole bene, ma amarti…credo che non lo sappia nemmeno lui, da quanto mi dici, e finchè non si chiarirà le idee, tu sei una donna libera e non dipendi da nessuno.
  • Però ha cercato di baciarmi.
  • Marina, lo sai…!
  • Sì. – espirò. – Sì, lo so.
Per la prima volta prese in considerazione l’ipotesi che tutto quel romanticismo, tutto quell’imbarazzo, tutto quel sentimento, lo vedesse solo lei.
Semplicemente una proiezione dei suoi desideri.





Angolo autrice:

Scusate il ritardo, ma ero senza connessione! Avrei voluto aggiornare già ieri, ma niente da fare, quindi...
Vi ringrazio tantissimo per le visualizzazioni che ha ricevuto il XXII capitolo in così poco tempo e continuano ad aumentare, non so davvero cosa dire! GRAZIE!
Tornando al capitolo, finalmente ci siamo, questo benedetto testamento è rispuntato, ma cosa ne pensate di tutta questa faccenda? Sono pronta a leggere i vostri insulti.
A breve pubblicherò anche il prossimo capitolo: volevo integrarli e crearne uno solo, ma avrei perso il senso delle giornate e sarebbe risultato troppo lungo, quindi pazientate, leggete e presto arriverà il momento.
Devo davvero ringraziare le mie piccole lettrici imcecy, Huntress of Artemis  e Lunastorta_Weasley, che trovano sempre il tempo di lasciarmi qualche parola - qualche bellissima parola - grazie ragazze, vi voglio bene!
Che altro...credo che il mio cervello si sia resettato oggi, dopo 9 ore di corsi, quindi non aggiungo altro.
Siete bellissimi.


S.

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Capitolo 24
*** XXIV ***








XXIV




Ogni cosa, da quando aveva ritrovato il testamento, sembrava andare meglio.
Aveva dormito per 8 ore di fila, aveva riempito di più le ciotole al rifugio ed era arrivato in biblioteca più puntuale di un orologio svizzero.
Ogni cosa sarebbe andata per il meglio e sarebbe tornato a vivere. Con Marina.
La precedente prospettiva di una vita libera, ma in solitudine, non gli dispiaceva poi così tanto, ma con lei la felicità quadruplicava. Una vita con un’amica come Marina.
Ancora doveva arrivare in biblioteca, ma era fiducioso che presto sarebbe spuntata dall’ingresso, infagottata nel suo parka.
Continuò a sorridere beatamente, mentre la fila al banco dei prestiti si infoltiva di ora in ora. Quel giorno, nemmeno il lavoro gli pesava e la sua mente era ben predisposta a rimettere a posto la sua vita, proprio come sistemava i libri negli scaffali.
Cominciò ad essere preoccupato quando, ad ora di pranzo, Marina non era arrivata.
| Dove sei? Oggi dobbiamo andare da Foster. |
Le aveva scritto non appena aveva chiuso la porta della biblioteca, per poi dirigersi a casa per preparare il pranzo.
Non appena rientrò, andò a controllare che il testamento fosse ancora nel suo nascondiglio. Staccò un pezzo del battiscopa dal muro ed eccolo lì, esattamente dove l’aveva lasciato. Marina continuava a non farsi viva.
Non sapeva che fosse a casa sua, raffreddata e assonnata, in cerca della voglia di fare qualcosa. Non sapeva che quella sera sarebbe uscita con John, anche se non ne aveva voglia e voleva solo chiudersi in casa e restare sola.
Nonostante ciò, rispose all’sms di Ed, assicurandogli che l’avrebbe accompagnato.
Aveva programmato tutto: sarebbe andata da Foster, avrebbe aiutato il suo amico a commettere un reato, sarebbe tornata a casa per avviare un restauro del suo viso e poi sarebbe uscita con quel deficiente del suo ex. Una giornata perfetta.
E intanto lui continuava a non accorgersi di niente. Che la considerasse di così poco conto? Non riusciva a crederlo, ma era l’evidenza dei fatti.
Anche il solo dubitare di lui le dava fastidio, ma quella era la realtà e le possibilità che aveva di uscirne illesa erano pari a 0.
Niente lieto fine.
L’aspirina finalmente cominciava a fare effetto, così si fece forza e coraggio ed uscì di casa, controvoglia. Aveva detto a Ed di essere per strada e che quindi lo avrebbe raggiunto direttamente allo studio, perché non si sentiva di sedersi sulla sua bici e venire di nuovo ignorata. Aveva imparato a notare delle differenze, come ad esempio il fatto che all’inizio Ed la osservasse di continuo ed ora invece sembrava essersi…abituato alla sua presenza. Da quando aveva trovato la lettera di suo nonno, aveva cominciato a sentirsi come se la sua presenza fosse inutile, come se non ci fosse più bisogno del suo appoggio, anche se Ed continuava a coinvolgerla in quella vicenda.
La verità era che si sentiva trascurata: dai suoi sguardi, dalle sue mani, dai suoi baci. Voleva qualcosa che lui non poteva darle e, una volta giunta al grattacielo, lo salutò prendendo quella consapevolezza come il nuovo mantra a cui aggrapparsi.
  • Come stai? – chiese Ed, col sorriso sul volto.
  • Un po’ raffreddata. – rispose, con un’inaspettata pacatezza. – E tu?
  • Oh, mi dispiace! Io sto bene.
Certo, quel nuovo Edward non le dispiaceva, anzi, forse le piaceva più di prima: riusciva a contemplare in una sola personalità una miriade di volti e sfaccettature.
  • Come hai intenzione di muoverti? – chiese lei.
  • Fred mi ha spiegato bene tutto il percorso, quindi ho solo bisogno che tu tenga buono Foster per un po’. – osservò lui, ripercorrendo le istruzioni di Fred nella mente. Notò che Marina fosse davvero stanca.
  • Va bene. – disse, cominciando ad agitarsi un po’. – Ma aspetta che io ti dia il segnale. Un sms, va bene?
  • Va bene, aspetto qui fuori. – prese già il cellulare dalla tasca.
Marina forzò un sorriso e si avviò nel grattacielo, entrando poi in ascensore.
Ed la vide sparire oltre le porte di vetro automatiche, per poi perderla di vista a causa del riflesso della luce. Era vagamente agitato, ma era niente in confronto a certe ansie che aveva provato in precedenza. Una di quelle era, ad esempio, quella di non ritrovare il terzo foglio dei documenti da restituire a Tyler per togliere Marina da ogni pericolo. Una cosa alla volta.
Quando l’aveva vista, il pallore del suo volto l’aveva colpito. Persino le sue labbra erano un po’ spente, ma dato il raffreddore di cui gli aveva parlato…doveva essere normale. Era un po’ strana, ma doveva essere solo un po’ stanca.
Intanto i minuti trascorrevano lenti e di Marina nessun segno. Che avesse avuto qualche problema?
Alzò gli occhi al grattacielo, contando i pieni fino al diciannovesimo, chiedendosi se lei fosse lì.
Beep beep.
Sbloccò immediatamente lo schermo e lesse il messaggio.
| Foster non può ricevermi, ti aspetto all’ascensore al piano terra. |
Cavolo, non aveva previsto una cosa del genere. Guardò verso l’ingresso e mentre le porte si chiudevano, vide Marina giungere all’ascensore, guardandosi intorno.
La raggiunse all’interno, cercando di non sembrare più strano di quanto già fosse agli occhi della gente, poi Marina gli parlò tra i denti, sorridendo.
  • Foster è in una riunione importante, non riceverà fino a lunedì! – disse, con un’espressione totalmente opposta al suo tono di voce.
  • Cavolo. – disse.
  • Però sembra che tutti siano impegnati a sistemare i nuovi uffici ai piani alti, quindi…
  • Andiamo.
Schiacciò il pulsante dell’ascensore e attesero che arrivasse lì dal trentaduesimo piano e Marina prese a dondolare nervosamente, sotto il suo sguardo. Sapeva che la stava osservando, ma cosa importava: stavano per compiere un reato e se fossero stati scoperti lei avrebbe perso tutto. Ora che ci pensava, doveva essere impazzita.
Il campanello dell’ascensore suonò e ne uscirono diversi uomini in giacca e cravatta, lasciando l’abitacolo vuoto. Entrarono e Ed schiacciò il pulsante ‘-3’ con una disinvoltura che la fece rabbrividire. Immaginò che avesse pensato e ripensato ad ogni mossa da fare per tutta la notte, altrimenti non sarebbe stato così sereno. Le porte fecero sparire lentamente ciò che vedevano e cominciarono a scendere.
Contò i secondi necessari per arrivare al terzo piano sotterraneo e capì che l’ascensore fosse abbastanza veloce da poterla usare per fuggire…nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.
Si fermarono in un luogo asettico e freddo, quasi il fiato si condensava nell’aria. Avanzarono in un lungo corridoio illuminato a neon, le pareti e il soffitto dipinti di un grigio spento. I loro passi echeggiavano e il silenzio permeava ogni cosa.
Bene – pensarono entrambi, camminando l’uno di fianco all’altra.
Ed figurò nella sua mente l’intero percorso e svoltò in altri corridoi, per più volte, senza esitazioni, alla ricerca del magazzino 37.
Marina si sarebbe persa se per caso lei e Ed si fossero dovuti separare, quindi gli stette il più vicino possibile, guardandosi alle spalle di continuo, nonostante il silenzio. Era poco credibile che quel posto non fosse sorvegliato da nessuno, eppure non c’erano telecamere o guardiani, nulla. Beh, tanto meglio, ma anche l’assenza di pericolo era da considerare un rischio, a volte.
Ed guardava i numeri segnati sulle porte, capendo che a breve sarebbero arrivati e infatti, svoltato l’ultimo angolo il magazzino 37 era in bella vista infondo al corridoio. Camminò ancora più velocemente, senza badare a Marina. Guardò bene la porta, sentendo il respiro improvvisamente pesante e la trepidazione tendergli i nervi. Prese la chiave dalla tasca dei jeans e sotto gli occhi di Marina, la infilò nella serratura, sentendo il meccanismo scorrere bene sotto la dentellatura. Fin lì tutto bene.
Si guardò furtivamente indietro, per sicurezza, poi cercò di aprire la porta.
Il movimento del suo polso venne bruscamente interrotto nemmeno a metà del giro. Spalancò gli occhi, incredulo. Era sicuro che la porta fosse quella giusta.
Tentò di nuovo, ma la chiave si bloccò ancora. Provò a scuotere la maniglia, a cambiare la posizione della chiave, a tirare, a spingere.
Niente.
Sentì il sangue defluire dalle sue labbra, mentre Marina si portava una mano alla testa, cercando di capire. Guardò la chiave, cercando qualche difetto, ma era perfetta, nemmeno un graffio.
  • Merda. – sussurrò, tentando l’ultima volta.
Fred lo aveva avvertito di non rimanere per troppo tempo in vista e avevano già oltrepassato il limite. Non poteva scardinare la porta, tantomeno sfondarla.
  • Edward. – sussurrò Marina.
  • Aspetta, sto pensando.
  • No, Edward. Dobbiamo andare.
Lo prese per un braccio e lo fece allontanare da lì, di modo che anche lui potè sentire il rumore di qualcuno che sopraggiungeva. Gli mancò un battito e trattenne il respiro, seguendola in un altro corridoio. Strisciarono lungo il muro, sentendo l’ansia paralizzare i loro muscoli e le loro menti. Due uomini – o così credevano – si avvicinavano, parlando tra loro. Riuscivano a distinguere la distanza grazie all’eco e man manojbmn che diveniva minore, si spostavano oltre un altro angolo, pregano che non fossero diretti lì.
Immobili, ascoltarono le due voci avvicinarsi. Per un attimo sembrò che volessero dirigersi verso di loro, ma poi passarono oltre, permettendo a Marina di tornare a respirare. Era terrorizzata e cominciava a sentire irragionevolmente caldo lì sotto, tanta era l’agitazione.
Ed scattò inavvertitamente dal suo posto, lasciandola lì, ma lei aveva paura, così lo seguì senza capire cosa volesse fare.
Lo chiamò, cercando di farsi sentire solo da lui, ma Ed sembrava non volerla ascoltare. Marina si stava spazientendo. Gli corse dietro, prima di perderlo di vista e lo vide dirigersi di nuovo alla porta. Senza che si guardasse nemmeno le spalle, provò ad infilare di nuovo la chiave, facendo più rumore di quanto lei si aspettasse.
  • Shhhh!
Se avesse fatto di nuovo quel chiasso, li avrebbero sentiti. Ora sapevano di non essere soli, non dovevano fare passi falsi, ma guardando il viso di Ed riuscì a scorgere solo rabbia, così in contrasto con l’espressione che aveva poco prima. Per quanto provasse a girare la chiave o a fare altro, la porta non si sarebbe aperta, Marina l’aveva capito.
  • Cazzo! – disse alla fine, fin troppo forte, sfilando la chiave.
  • Edward, taci! – disse severa lei. – Andiamo via!
Lo tirò di forza per un braccio e lui ci mise qualche secondo a decidere di seguirla, continuando a guardare la porta con la rabbia negli occhi, incredulo.
Alla fine, il rumore dei due uomini che tornavano indietro lo convinse a cedere alla presa di Marina. Riprese il passo e la prese per mano, cominciando a correre. Dovette sforzarsi di concentrarsi per non sbagliare strada, quei corridoi erano tutti uguali e gli angoli erano stretti, così qualche volta aveva dovuto rallentare per non far male a Marina andandole addosso, ma alla fine arrivarono all’ascensore.
Rallentarono e schiacciarono subito il bottone ripetutamente, entrambi, cercando di riprendere fiato. Marina continuava a girarsi indietro, sentendo i passi dei due uomini sempre più vicini, riusciva quasi a distinguere le loro parole.
Ed continuava a schiacciare il bottone, sudando freddo. Quando finalmente il campanello suonò, si fiondarono all’interno chiamando il piano terra. Troppo lentamente, le porte cominciarono a chiudersi.
Le ombre dei due uomini cominciavano a vedersi sulla parete, le loro voci nitide rimbombavano fin dentro l’ascensore.
Presto – pregarono – presto!
Si strinsero le mani come se quel gesto velocizzasse la chiusura.
Riuscirono a vederli svoltare l’angolo attraverso l’ultimo centimetro rimasto tra le porte, poi si lasciarono andare contro la parete metallica ed espirarono.
Ed guardava il soffitto, chiedendosi perché. Cosa aveva sbagliato?
Aveva trovato la porta, aveva la chiave…cos’era andato storto? Che avessero cambiato la serratura?
Chiuse gli occhi, senza lasciare la mano di Marina. Stava rischiando grosso lì con lui, se ne rendeva conto solo ora che stavano per essere scoperti e lui stava per commettere una sciocchezza insistendo con quella porta. Cercò di riprendere a respirare normalmente e ben presto le porte si aprirono.
Uscirono dal grattacielo simulando la più totale indifferenza e normalità, senza lasciarsi la mano. Percorsero i successivi 200 metri senza guardare da nessun’altra parte se non dritto dinanzi a loro, poi si fermarono accanto ad una panchina.
Marina si lasciò andare sul ferro freddo e si portò la testa tra le mani.
  • Eri per caso impazzito? – lo rimproverò poi, guardandolo.
Rimase interdetto dal suo tono, ma non osò ribattere, sapendo che avesse ragione su tutti i fronti. Si accomodò accanto a lei, dando voce ai suoi dubbi.
  • Mi chiedo perché non abbia funzionato.
  • Non lo so. – sospirò lei.
Beh – pensò Ed – non poteva fare molto.  Probabilmente non avrebbe mai avuto quel fascicolo, chiave o no. Avrebbe fatto meglio a mettersi l’anima in pace e a dimenticare la rabbia. Guardò i sassolini sul marciapiede, cercando di rilassarsi e dopo diverso tempo, la guardò. Era ancora col viso tra le mani, visibilmente stanca e quel suo atteggiamento gli ricordò se stesso prima di conoscerla. Dal giorno in cui avevano parlato per la prima volta erano cambiate mille cose: cominciava a sorridere sempre di più, a godere di più della vita e dei suoi piaceri. Aveva ritrovato il testamento grazie a lei, che aveva visto quel fascicolo così nascosto. Si sentiva ancora di ringraziarla e festeggiare. Con un ultimo respiro cacciò fuori dal petto tutta la rabbia e parlò.
  • Cosa fai, torni a casa? – chiese, modulando la voce.
  • Credo sia ora. – disse guardando l’orologio pubblico più vicino.
  • Hai da fare? – sondò il terreno, prima di gettarsi a capofitto.
  • Già. – disse lei, deludendo le sue aspettative. – Ho un appuntamento.
Marina di alzò dalla panchina, pronta ad andar via, ma il viso pallido di Ed la colse di sorpresa.
Edward Christopher Sheeran si sentiva come un perfetto idiota, perché non sapeva dire quale parte del suo animo fosse andata in frantumi, ascoltando quella parola: appuntamento.
A p p u n t a m e n t o.
Con chi? Perché?
Continuava a guadarla sconvolto, col respiro sospeso e la bocca aperta.
  • A-appuntamento? – disse, più a se stesso che a lei.
  • Sì – riprese lei, osservando la sua reazione. – col mio ex.
Crack.
Lo aveva sentito chiaro come la voce degli angeli: il rumore del suo cuore che si spezzava. Era totalmente senza parole, rendendosi conto di non aver mai davvero considerato Marina una donna libera di uscire ancora con altri uomini, diversi da lui. Non l’aveva considerato, o forse non aveva voluto considerarlo.
Lei continuava a guardarlo come se avesse fatto una costatazione sul tempo, ma lo faceva di proposito.
Gli ingranaggi del cervello di Ed ripresero lentamente a girare: Marina quella sera usciva con un uomo. Marina andava ad un appuntamento.
Sentì come una improvvisa tristezza appesantirgli il petto, ma non era una tristezza comune. Strinse gli occhi, studiando quell’emozione così tagliente: era come se lo avessero privato di qualcosa di vitale. Come se non potesse più sopravvivere, da quel momento in poi. Strinse le mani, sentendole sudate.
  • Perché? – disse lei alla fine, fingendo di non aver notato il suo atteggiamento.
  • U-uhm… - si passò una mano tra i capelli. - …in realtà, v-volevo festeggiare…p-per il testamento.
Ecco cosa provava: si sentiva inadeguato. Poco. Minimo. Infimo.
Vuoto.
  • Oh, mi dispiace! – fece Marina, comunque sorpresa da quella sua proposta. Infondo poteva essere una specie di appuntamento, ma… - Purtroppo ho preso già l’impegno e credo che lui abbia prenotato al ristorante.
Ristorante.
Ecco, ora si sentiva completamente sconfitto. Come se ogni parola fosse un affondo di spada che lo avvicinava sempre più al baratro.
  • N-non fa niente. – disse, distogliendo gli occhi dai suoi.
Marina lo guardò sentendosi nuovamente una traditrice, ma la sua nuova doppia personalità riusciva ad alternane quel sentore con l’istinto di conservazione, che le urlava: esci con John. Fa ciò che è giusto, sii te stessa. E lei, a mente sveglia, avrebbe deciso di metterlo alla prova dandogli buca. Esattamente ciò che stava facendo. Aveva capito di aver smosso qualcosa in lui, ma non sapeva di aver dato il via ad una catastrofe psicologica.
  • Non insisto. – terminò, poi, a voce bassa.
Quei suoi occhi da bambino le fecero tremare il cuore e dovette farsi forza. Non capiva perché lui si comportasse in quel modo. Era geloso? Era deluso? Voleva invitarla ad uscire o voleva solo festeggiare con lei da amici? Perché sembrava così ferito, ma non insisteva?
In realtà, Marina non capiva perché i rapporti umani in genere fossero così complicati, perché fosse necessario attraversare certe fasi e provare determinati sentimenti. Edward, poi, era l’ultima persona in grado di darle una risposta.
  • Mi dispiace, davvero. – disse, cercando quasi di consolarlo. – Devo andare. Ciao.
Tese la mano alla sua spalla, la carezzò e lui alzò per un secondo gli occhi, mostrandole un falso sorriso che la fece gelare. Quando subito dopo lui tornò a fissare il vuoto, tentennò, tentata di ripensarci, ma poi – nonostante il muso lungo – andò via.
Ed rimase solo sulla panchina, cercando di stabilire se ciò che sentisse fosse rabbia, risentimento, collera, invidia, tristezza, paura o cos’altro.
Cosa significava? Non avrebbe dovuto sentire nel petto una cosa così spiacevole mentre Marina lo informava della sua uscita. Era una bella ragazza, gentile, intelligente, era ovvio che uscisse con qualcuno. Quindi, qual era il suo problema?
Era forse…deluso? Aveva forse paura?
 
Il fatto che Ben non fosse in casa, quando rientrò, lo preoccupò non poco. Poteva essere da Foster! Avevano rischiato di far finire quella bravata in una tragedia.
Continuò a pensare al suo stato d’animo, cercando di decifrare il proprio carattere, mentre saliva le scale per andare a cambiarsi, ma la sua attenzione fu attirata dalla porta aperta della camera di Jef e dal rumore della doccia provenire dal bagno.
Riuscì a mettere da parte i suoi dolori, capendo di dover approfittare di quel momento. Quel giorno si sentiva tanto Tom Cruise in Mission Impossible.
Varcò l’uscio e prese a cercare frettolosamente, provando a non fare alcun rumore.
Avanzando, finì per inciampare in un libro: un oggetto inusuale in quella stanza. Jef non leggeva, aveva preso a stento il diploma e aveva dichiarato più di una volta che la lettura per lui fosse solo una perdita di tempo.
Si abbassò a prenderlo, curioso di leggerne il titolo: Cristoforo Colombo e il viaggio nelle Indie – La scoperta dell’America, 1492.
Beh, era decisamente strano. Continuando a sentire lo scrosciare dell’acqua, lo aprì, facendo girare le pagine velocemente e quasi alla fine del libro, ecco un foglio.
Se quello era il documento che stava cercando, voleva dire che la sua dose di fortuna di quella giornata era destinata a consumarsi in quel momento.
Lo aprì, portando gli occhi a piè di pagina e – Dio ti ringrazio – era la pagina ‘3 di 3’.
Rimise il libro a terra ed uscì da lì dentro più veloce della luce, facendo attenzione a non far scricchiolare il legno del pavimento.
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, recuperò gli altri due fogli e ne controllò la consequenzialità: erano perfetti, coincidevano.
Il pensiero che Marina potesse essere finalmente lasciata in pace, da tutti, lo sollevava.
Infilò la felpa pulita e nascose quei fogli insieme al testamento, per poi andare al lavoro all’Hawking, di nuovo felice, di nuovo sereno. Era riuscito a dimenticare per un po’ l’appuntamento di Marina, convinto che quella storia si sarebbe chiusa lì.
Tuttavia, Ed non sapeva che il cellulare della sua amica continuava a ricevere insistenti sms.
 
Quella sera, quando tornò a casa, non vide l’ora che arrivasse il giorno dopo per andare al Lantern a consegnare i documenti a Tyler.
Intanto, Nathan e le sue mille domande sui suoi rapporti con Marina, gli avevano fatto pensare a lei per tutta la sera.
Dove sarà? Cosa starà facendo? Che il suo ex le piacesse ancora?
Confermò a se stesso di sentirsi deluso, immaginandola seduta al tavolo di un bel locale mentre sorrideva a un altro uomo. Un uomo che non era lui.
La scintilla di un dubbio gli sfiorò il cuore, facendolo sobbalzare: che gli piacesse Marina? A lui?
Durante il lavoro, non aveva fatto altro che desiderare che lei fosse a casa o con lui, che il suo ex sparisse e tornasse nel passato da cui era venuto. Voleva forse prendere il suo posto?
Non ne era così sicuro, ma cominciava a credere che quei nodi alla gola – ancora sentiva la sensazione – fossero dovuti a qualcosa di più di un’amicizia.
In realtà era ovvio anche per lui, ma la paura di rovinare ogni cosa, di illudere se stesso con falsi sentimenti e vane speranze, gli faceva sempre preferire la stabilità di un’amicizia sincera. Poi arrivava quel bellimbusto e gli provocava un tale shock.
Seduto sul letto, si portò le mani alla testa, sentendola scoppiare.
Gli piaceva Marina?
Chiuse gli occhi e si chiese sinceramente se desiderasse baciarla: sì.
Il pensiero delle sue labbra gli faceva sentire le farfalle allo stomaco.
Se le avesse mai chiesto di uscire: stava per farlo quel pomeriggio, come un ingenuo.
Se il suo pensiero lo facesse sentire bene: decisamente. Nonostante tutto.
Quando riaprì gli occhi, il luccichio della ‘M’ che aveva appesa al collo lo fulminò.
Forse doveva cominciare a fare i conti con se stesso, ma non era pronto ad ammettere alcunché, troppo impreparato a quello tsunami di sentimenti. Sì sentì ulteriormente agitato da quel mare di pensieri, confuso dalle sue stesse idee.
Prese la sua agenda e, steso a pancia in giù, cominciò a scrivere la prima strofa di una nuova canzone.
Quello era un modo di liberarsi, di riordinare le idee, ma dovette concedere a Marina un altro punto: erano cinque anni che non scriveva e ancora una volta lei lo aveva fatto rinascere.





Angolo autrice:

Non so voi, ma io sono appena tornata dall'università dopo un'intensa settimana di corsi e il mio unico desiderio era dormire, ma per caso ho trovato un link per ascoltare il cd del Wembley Stadium e una volta clickato sul tasto play non sono più riuscita a fermarmi. Mi sto letteramente sciogliendo.
English Rose è decisamente la best song ever of my life verso l'infinito ed oltre e se non la conoscete, vi prego, leggete il testo.
Tornando a noi, GRAZIE a tutti, davvero, per il numero di visite che aumenta di giorno in giorno e per ogni capitolo, sempre più velocemente. Ora siamo nel pieno della storia, la parte più complessa. Cosa ne pensate?
Ci vediamo presto con il prossimo capitolo, bella gente.

S.

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Capitolo 25
*** XXV ***







XXV




John.
Che idiota.
Sembrava essere partito col piede giusto, presentandosi puntuale sotto casa sua in auto. L’aveva persino aspettata fuori, ma l’abito non fa il monaco…giusto?
A quanto le aveva detto, stava lavorando per un grosso imprenditore a Londra e guadagnava bei soldi, abbastanza da potersi permettere il miglior ristorante della città. Non che ciò l’avesse impressionata in particolar modo, ma non le era dispiaciuto.
Il modo in cui l’aveva guardata per l’intera serata l’aveva fatta sentire abbastanza – abbastanza per un uomo, ma quando passarono dinanzi all’Hawking, sul tardi, capì che non era con lui che voleva essere.
Era nel posto sbagliato, con la persona sbagliata.
Le aveva fatto piacere rivederlo, parlarci, ma non era il tipo per lei e questo già lo sapeva. Avrebbe voluto dire a Jody che l’unica che aveva capito qualcosa grazie a quell’uscita, era lei. Non desiderava nessun altro se non Edward.
Il pensiero dei suoi occhi vuoti l’aveva tormentata per tutta la serata, scavando nella sua anima come un chiodo arrugginito che non vuole entrare nel muro.
Continuo, incessante – un’onda del mare contro uno scoglio e proprio come la roccia, i suoi dubbi cominciavano a levigarsi e ad assumere forme diverse.
Sapeva che non doveva farlo, ma aveva passato metà della mattina successiva ad analizzare la reazione di lui quando gli aveva comunicato di avere un appuntamento. Aveva letto qualcosa nei suoi occhi e l’aveva fotografato istantaneamente, come se sapesse già che in quello sguardo ci fosse qualcosa di importante. Ma come avrebbe potuto trarre delle conclusioni? Non aveva altri elementi, se non il fatto che lui volesse invitarla a festeggiare, ma per quanto ne sapeva, si trattava di una semplice uscita da amici. In caso contrario, lui non sarebbe mai riuscito a chiederglielo così tranquillamente. Immaginava già la scena.
Riprese il suo quaderno degli appunti e cercò di leggere, ma puntualmente ricominciava a fissare il cellulare poggiato sul tavolo, in attesa di qualcosa che non arrivava mai.
Lo prendeva e lo riposava di continuo, finchè finalmente il suono di un messaggio riempì la stanza. Si drizzò, sbloccando lo schermo. Era agitata e speranzosa, ma il messaggio non era da parte di Edward. Era di nuovo quella persona.
| Ieri sera eri davvero sexy con quel vestito, te lo avrei strappato di dosso. |
Un’improvvisa rabbia la prese, facendole sbattere il cellulare sul tavolo. Le lacrime le riempirono gli occhi, ripensando a tutta quella storia. Prima Jef, poi quello, poi di nuovo Jef. Si sentiva perseguitata, ma ciò che ulteriormente la urtava era il fatto che Ed non si fosse accorto di niente e lei era troppo arrabbiata per dirglielo spontaneamente. L’orgoglio era un cattivo consigliere, lo sapeva, ma…si sentiva ferita.
Si passò una mano sugli occhi, scacciando via le lacrime, per poi guardare fuori dalla finestra. Le persone passeggiavano sui marciapiedi come tutti i giorni, non c’era nulla che non andasse, nessuno di sospetto.
Sospirò, guardando ancora il telefono. Avrebbe voluto essere meno cocciuta e avere il coraggio di fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma riusciva solo a pensare a Edward.
Lo sentiva distante ed aveva paura.
Non doveva essere strano per lei vivere una giornata del genere: studiare, pranzare da sola a casa. Erano attività che svolgeva regolarmente da due anni, poi la sua stupida tesi necessitava di uno stupido libro ed era finita in quel guaio.
Eppure lei e lui non erano poi così legati, non si conoscevano ancora bene, non sapevano ogni cosa l’uno dell’altra, non conoscevano fino in fondo il loro passato, non avevano condiviso le cose più importanti della vita, quindi perché…perché le mancava così tanto?
E lui, provava lo stesso?
 
La mattinata in biblioteca era trascorsa tranquillamente, ma solo per coloro che non si chiamassero Edward Christopher Sheeran, perché lui aveva trascorso una notte insonne e gli occhi gli facevano quasi male a furia di guardare la porta d’ingresso, sperando di vederla. Ovviamente, Marina non si era presentata e non sapeva se essere preoccupato o meno. Jef era in giro a bighellonare e non la vedeva dal pomeriggio del giorno prima. Né l’aveva sentita.
Non aveva il coraggio di scriverle, troppo intimidito dai suoi stessi sentimenti, troppo impaurito di fare un passo falso e capire definitivamente che si era preso una cotta per lei. Era meglio aspettare che fosse lei a farsi viva.
Si sentiva un vigliacco e uno stupido, ma tutto quello era troppo per lui, non riusciva a sopportarlo. Ci avrebbe riflettuto.
Quella notte aveva scritto una canzone ed era anche riuscito a comporne la musica, non vedeva l’ora di provarla, ma non l’avrebbe mai fatta ascoltare a lei. Sarebbe potuto morire per l’imbarazzo. Non perché avesse vergogna di suonare in pubblico – anzi, il sogno che Londra gli aveva riportato alla mente prevedeva proprio quello – era solo che quella canzone conteneva una verità che non era ancora riuscito ad ammettere a se stesso fino in fondo.
Chiacchiere a parte, sembrava che qualcuno dei ragazzi della biblioteca avesse meno paura di lui, ultimamente. Quando si avvicinavano a chiedere il prestito dicevano persino “Buongiorno” e “Per favore”, lasciandolo a bocca aperta: non credeva che qualcuno che fino a pochi giorni prima aveva chiaramente disgusto dei suoi lividi, potesse diventare così gentile di punto in bianco. Eppure, stava succedendo e lui doveva rispondere da persona beneducata qual era. Anche mentre chiudeva la porta, alla chiusura, una ragazza lo guardò in viso e gli disse:
  • Ciao, grazie! – sorridendogli.
Sospirò, cercando di capire se quelle persone fossero sincere, ma qualunque fosse la verità, sapeva che Marina era stata l’unica – l’unica – a trattarlo normalmente prima di quell’articolo sul giornale. E le era ancora grato per quello, come per le mille altre cose che erano venute dopo.
Si avviò a casa in bici, pensando che quella sera l’avrebbe incontrata.
Posata la bici in veranda, entrò in casa e trovò Ben seduto in salotto, con un bicchiere pieno tra le mani. Pregò che non si alzasse, mentre andava in cucina a preparare il pranzo e per fortuna non si mosse, impegnato a leggere qualcosa.
Il pensiero del documento falso tornò ad essere un grattacapo in breve tempo: non sapeva come avrebbe fatto a dimostrare che Ben fosse un imbroglione, nonostante il testamento.
Non appena si fu rifocillato, lasciò le porzioni di Ben e Jef sul tavolo e filò in camera sua. Controllò che il testamento fosse al suo posto, insieme a tutto il resto.
Non vedeva l’ora di andare al Lantern e togliersi quel pensiero, ma avrebbe dovuto aspettare che la notte coprisse il suo cammino. L’ultima volta che ci era andato aveva rischiato grosso, ma quella sarebbe stata l’ultima.
Sospirò, rialzandosi da terra dopo aver risistemato il battiscopa e si stese sul letto, cercando di riposare. Il soffitto chiaro della stanza era l’unica sua compagnia, in quel letto, da troppo tempo. Quante volte aveva sentito il petto alzarsi e abbassarsi, facendogli tristemente notare che fosse ancora vivo, mentre lo fissava, ma ora che lo riguardava in pieno giorno, non vi trovava alcun conforto.
Continuava a sentirsi esattamente come si sentiva quella mattina, la sera precedente e il pomeriggio e quel sentimento non aveva un nome, perché non sapeva ancora cosa fosse. Sapeva solo che c’entrava Marina.
Si addormentò come un sasso, sognando quel pomeriggio nel retro della biblioteca, quando le sue labbra sfiorarono quelle di lei.
Almeno in sogno, riuscì a baciarla.
 
Era troppo tardi per chiamarlo e chiedergli di passarla a prendere e lui non si era presentato. Erano già dieci minuti che attendeva invano sotto casa sua, ma di lui nessuna traccia. Stava solo perdendo tempo e nel giro di 5 minuti doveva essere all’Hawking Pub. Con le mani strette in tasca, si guardò intorno per l’ultima volta, poi fece il primo passo per mischiarsi tra la gente sul marciapiede. Guardava dritto dinanzi a sé, ma non perdeva mai d’occhio la carreggiata, pregando che lui spuntasse all’improvviso.
Il fatto che non fosse andato a prenderla, era destabilizzante. Era come se si fosse ufficialmente rotto qualcosa, come se d’un tratto non esistesse più nulla. Come se si fosse dimenticato di lei.
Sentì le sue labbra incurvarsi verso il basso e il viso deformarsi in una triste smorfia. Non fece altro che sospirare finchè non arrivò al locale. Da lontano vide la sua bici azzurra e per un secondo sentì l’agitazione prenderle il petto, persistendo poi in un lieve ma continuo sentore.
Deglutì, salendo le scale. Con la mano sulla maniglia, non si decideva ad entrare ed era già in ritardo. Quando tirò la porta, qualcuno dall’altra parte spinse contemporaneamente, facendola esitare sui piedi.
  • Marina! – era Pit. Le aveva quasi sbattuto la porta in faccia.
  • Ciao Pit. – disse, spostandosi dall’ingresso per fargli spazio.
  • Oh, no no, non devo uscire, stavo solo venendo a controllare se stessi arrivando, ero preoccupato. – e le fece spazio per entrare, sistemandosi le bretelle.
Marina entrò, sentendo il forte caldo riscaldarle il viso. Immediatamente, i suoi occhi scandagliarono la stanza, ma non lo videro, forse perché era già sulla pedana.
Non aveva ancora cominciato a suonare.
  • Non sei mai in ritardo, è successo qualcosa? – continuò Pit, serio.
  • Oh, no…niente. – disse, ripensando alla vera motivazione.
Gli diede le spalle, sfilandosi il cappotto, per poi dirigersi allo stanzino del personale per posare le sue cose. Salutò i suoi colleghi e il personale della cucina con confidenza, notando il particolare sguardo di Nathan mentre la salutava. Edward aveva ragione, quel ragazzo era strano.
Si mise il blocchetto delle ordinazioni in tasca e la penna dietro l’orecchio, pronta ad iniziare. Guardò i clienti entrare e fece un profondo respiro, andandogli incontro.
  • Prego, da questa parte.
I suoi occhi, che lo volesse o no, continuarono a cercare di sbirciare nell’altra ala del locale, ma non ci riuscì, poi l’angoscia provocata dal non vederlo fu alleviata dalla sua voce che cominciava a cantare. Tutta l’aria che aveva nel petto uscì fuori dai polmoni, facendole percepire più chiaramente quella sorta di piacere che sentiva quando lui cantava. E così, quella sera aveva cominciato con un suo pezzo, non lo aveva mai fatto. Sentì la sua voce più profonda e calda.
L’uomo che si era appena accomodato al tavolo con gli amici dovette richiamarla, dato che si era incantata ad ascoltarlo come una babbea. Scrisse meccanicamente il loro ordine e si dileguò, imbarazzata.
I primi applausi risuonarono nelle sue orecchie, mentre cercava di ascoltare l’ordine dei prossimi clienti.
  • Marina!
Si voltò di scatto, continuando a scrivere sul foglio.
  • Dammi una mano – era Louisa, l’altra cameriera – sono troppe birre per me.
Stava armeggiando con un vassoio stracolmo, così chiese ai signori se fosse tutto, per poi correre al bancone ad aiutarla. Ne prese la metà su un altro vassoio e la seguì, rendendosi conto di stare andando proprio nella sala dove Edward suonava. Aprì la bocca per dire qualcosa, improvvisamente restia all’idea di vederlo, ma era troppo tardi. Con l’espressione contratta e il cuore in gola, varcò l’arco in muratura e lo vide.
Indossava una t-shirt bianca e cantava ad occhi chiusi: le venne quasi da piangere. Voleva solo andare lì ed abbracciarlo.
Dovette tornare con gli occhi sul vassoio per servire il tavolo di Louisa, altrimenti avrebbe fatto un pasticcio. Tremava all’idea che lui si fosse accorto della sua presenza, ma quando tornò a guardarlo, era ancora concentrato sulla canzone. Prima di andare via, riuscì a scorgere una nuova traccia del passaggio di Ben: aveva di nuovo il labbro spaccato, ma sembrava essersi medicato a dovere.
Neanche il tempo di formulare un altro pensiero, che dovette tornare a badare ai clienti.
  • Scusi, signorina – fece una donna – avevo chiesto una Leffe rossa, non bionda.
  • Gliela cambio subito, signora.
Riprese la birra dal tavolo apparecchiato e tornò al bancone, ripensando al viso di Ed.
  • Jack, una Leffe rossa alla spina, media. – il ragazzo biondo addetto alle birre alzò un pollice, per poi sbrigare il suo ordine.
Lo smilzo gliela mise direttamente sul vassoio e lei ripartì verso il tavolo, cercando di moderare il respiro e di assumere un’aria normale. Quando rimise piede nella sala, non guardò direttamente a lui, abbassando gli occhi sul vassoio.
Terminò di cantare e fu sicura che lui la stesse guardando.
  • Prego. – disse alla signora, poi, lentamente, si voltò.
Stava bevendo la sua birra di riguardo, scambiando una parola con una ragazza e si sentì come se le avessero dato un pugno nello stomaco. Sentì la bocca aprirsi, notando la sua disinvoltura e la sua parlantina. Con lei non era mai stato così.
Quando si accorse di lei, smise di parlare, puntando gli occhi nei suoi. L’intero locale sparì e furono solo loro per qualche secondo. Si sentiva risollevata, mentre vedeva quell’azzurro e stava per sorridergli, ma lui voltò il viso verso la ragazza che continuava a parlargli, senza cambiare espressione. Eccolo, il secondo pugno.
L’aveva ignorata.
 
Quella ragazza gli stava chiedendo come si usasse la loop station dato che anche lei era una musicista e le interessava imparare, ma poi aveva visto Marina.
Era tutta la sera che aspettava di vederla e finalmente eccola lì. Vide i suoi occhi correre sul suo labbro e notò che fosse particolarmente…distante.
Doveva parlarle.
Tornò per un attimo alla ragazza, per chiudere il discorso e andare da lei, ma quando tornò a cercarla, non c’era più. Si alzò, con l’intento di andarla a cercare, ma un ragazzo si alzò per chiedergli di cantare una canzone in particolare e dovette tornare col culo sulla pedana.
Smise di chiudere gli occhi quando cantava, per non perdersi l’occasione di vederla, ma lei non tornò. Chiese a Nathan dove fosse finita, tra una canzone e l’altra, ma l’unica risposta che ebbe fu – Sta servendo ai tavoli.
  • Adesso ci penso io. – fece Nathan, dopo che Ed gli ebbe posto la stessa domanda per la quinta volta, poi si dileguò.
Confidò in lui, avendo ormai instaurato un buon rapporto. Ci volle – infatti – la sua mano magica per far apparire di nuovo Marina nella stanza. Continuò a cantare, ma non smise di guardarla, aspettando che lei si voltasse, ma non lo fece ed andò via. Si chiese per l’ennesima volta cosa fosse accaduto tra loro, cosa si fosse rotto. Nathan gli chiese silenziosamente se l’operazione fosse andata a buon fine e lui fece spallucce. Il suo amico rispose portandosi una mano alla fronte e dirigendosi verso il bancone più determinato di prima. Poco dopo lo vide tornare in sala, rivolgendosi ad un signore: doveva essere il tipo che secondo lui gli offriva la birra tutti i sabati, un tipo tarchiato, capelli brizzolati e corti, spalle grosse. Sembravano confabulare e l’uomo sorrise a Nathan con disinvoltura, per poi tornare a mangiare.
Non capì cosa stesse architettando.
Sospirò, in attesa che la sua fata tornasse da lui, non potendo fare altro. Cominciava ad essere preoccupato, il timore di perderla definitivamente si faceva strada in lui senza che riuscisse ad opporre resistenza, perché lo sentiva che lei lo stava evitando. Prima, quando lei passava di lì, i loro occhi si incatenavano e non si mollavano finchè lei non spariva. Ricordò il giorno in cui lei si avvicinò alla pedana con la sua birra di riguardo, cercando di avviare una conversazione. Rivide il suo sorriso come se fosse accaduto il giorno prima ed ora eccolo lì, che non vedeva l’ora che lei si avvicinasse di nuovo. Adesso la voleva, desiderava la sua compagnia, anche se silenziosa.
Quando meno se lo aspettava, lei riapparve, lasciandolo col fiato sospeso mentre terminava la canzone. Pregò che restasse abbastanza. L’amico di Nathan la chiamò alzando una mano e lei gli andò incontro, piegandosi alla sua altezza per sentire. Quello si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole qualcosa, poi lei aggrottò le sopracciglia e sparì nuovamente.
L’uomo lo guardò, sorrise ed alzò un pollice in su. Ed alzò le sopracciglia per la sorpresa e cercò di abbozzare un sorriso, ma continuava a non capire. Ogni cosa fu chiara quando Marina tornò in sala, rigida come una tavola da stiro e con la sua birra preferita tra le mani. Si dirigeva direttamente verso di lui, fingendo di prestare attenzione alla situazione dei tavoli. Ed strimpellò l’ultimo accordo e smise di cantare, deglutendo subito dopo per scacciare il groppo che lo aveva preso alla gola. Sfilò la chitarra e scese dallo sgabello, passandosi una mano tra i capelli. Eccola, era lì. Soltanto quando lui scese dalla pedana, accanto a lei, Marina alzò lo sguardo. Gli si strinse il cuore notando che i suoi occhi fossero tristi.
  • Ciao. – le disse, ma lei non rispose, limitandosi a tendergli la birra.
Lui la guardò e la prese, ma quando rialzò lo sguardo Marina stava per andarsene. D’istinto, allungò la mano e l’afferrò, facendo in modo che tornasse a guardarlo in faccia. Non capiva. Leggeva un forte disagio nei suoi occhi, una voglia di andarsene che si rifletteva anche sui suoi movimenti. Non si era voltata del tutto verso di lui, era ancora girata verso la porta. Cosa stava succedendo?
  • Cos’hai? – il suo tono non era quello di chi cadeva dalle nuvole, era più simile a quello di qualcuno molto preoccupato.
  • Ah, e così te lo stavi chiedendo? – fredda come il ghiaccio.
  • Certo che me lo stavo chiedendo – non mollò la presa su di lei, avvicinandosi. – sembra che tu voglia scappare.
  • Mi sembri abbastanza impegnato. – rispose lei, guardando verso il tavolo della ragazza bionda con cui stava parlando prima. Ed ci mise almeno dieci secondi a capire.
  • Non stavo facendo niente di male. – disse lui, innocentemente. – Poi tu te ne sei andata!
  • Certo. – Marina distolse lo sguardo dal suo.
Non riusciva a decifrarla, era barricata come una fortezza, ma l’averla così vicina lo faceva stare bene. Studiò le sue labbra e i suoi occhi e sentì il cuore accelerare.
Espirò, giungendo alla conclusione che fosse arrabbiata con lui, anche se non sapeva per cosa, ma almeno adesso sapeva cosa stava succedendo.
Si intenerì nel vedere il suo broncio.
  • Dopo ti accompagno a casa? – chiese, sorridendo a labbra chiuse in un modo troppo dolce per lei.
  • N- - si interruppe per riprendere il controllo – Non ce n’è bisogno.
Quella frase rimbombò nella sua testa, lasciandolo interdetto abbastanza da permetterle di sfuggire alla sua presa e andare via. Rimase solo con la sua birra, senza capire. Cos’aveva fatto per farla arrabbiare in quel modo?
Continuò a chiederselo per il resto della serata, durante la quale i loro occhi non tornarono ad incontrarsi.
Quando finalmente l’ultimo cliente fu fuori, i ragazzi avevano già pulito metà del locale. Lasciò tutto lì ed andò a cercarla, ma Pit lo informò che era già andata via.
Da sola.
Un cattivo presentimento lo fece sbiancare.
  • Ed, tutto bene? – Nathan chiese.
Non badò a lui e cercando di respirare, tornò a riprendere la sua roba, cercando di muoversi il più velocemente possibile. Non salutò nessuno, non prese la sua paga ed uscì.
Il gelò quasi gli fece venire un colpo dato che era ancora accaldato, ma non aveva tempo per badare alla temperatura. Montò in bici e cominciò a cercarla.
Il primo e il secondo tratto di strada erano deserti e cominciò ad avere paura. Pensava già a Tyler e alla sua pistola, poi la vide e il sollievo che provò fu tale da farlo riflettere. Si sentiva morire, prima di vederla, come se da quella visione dipendesse la sua stessa vita.
Stava cercando le chiavi nella borsa, ma prima che potesse raggiungerla, lei aveva già varcato la soglia del portone. Frenò ansimante sotto la sua finestra ed attese che accendesse la luce della cucina. Scorse la sua sagoma e si sentì più tranquillo.
Non poteva continuare così, ogni volta che non erano insieme aveva il timore che le facessero del male, ma quella notte avrebbe messo fine ad ogni cosa e l’indomani sarebbe riuscito a parlarle.
Una cosa alla volta.
 
La lanterna del Lantern gli sembrò ancora più spettrale del solito, ma a dispetto delle altre volte, entrò nel locale come se fosse di casa. Il barista nemmeno lo notò.
C’erano un paio di anime in più quella notte, ma ciò non lo distolse dal raggiungere Tyler al suo solito tavolo, che fumava la sua solita sigaretta. Il suo cappello ormai gli era familiare.
Quello doveva aver sentito i suoi passi, perché alzò gli occhi su di lui, ma senza scomporsi.
  • Ce li ho. – disse a bassa voce, ancora trafelato.
  • Siediti. – rispose, con la sua voce roca.
Obbedì, tirando rumorosamente la sedia di legno.
  • Fa vedere.
L’odore del fumo gli portò alla mente un preciso ricordo del suo liceo, ma lo mise da parte tirando fuori dalla tasca i documenti. Tyler allungò la mano, trepidante, ma lui si tirò indietro.
  • Voglio che questo sia il nostro ultimo incontro. Il tuo capo mi ha promesso che ci avrebbe lasciato in pace. – non aveva paura, ricordando quella stretta di mano.
  • Sei diventato spavaldo, eh ragazzino? – sostenne il suo sguardo. – Se i documenti sono quelli giusti, questa sarà l’ultima volta che ci vediamo.
Glieli porse e attese che li leggesse. Dal suo sguardo capì che fosse tutto apposto.
  • Tu e la ragazza potete stare tranquilli.
  • Bene. – rispose soltanto.
Tyler infilò i fogli sotto il cappotto e si alzarono entrambi. Quando furono fuori, Ed montò in bici e stava per andarsene, quando Tyler lo fermò prendendo la parola.
  • Non fidarti di Jef. – disse e Ed lo guardò, elaborando le sue parole.
  • Non mi sono mai fidato.
Quando Tyler si voltò per andarsene, riavvolse la catena e partì nella direzione opposta, lontano dall’inquietante periferia.
Quando la strada si allargò e fu lontano dal sobborgo, sentì l’aria fluire più facilmente nei polmoni.
Marina era al sicuro.
Era finita.








Angolo autrice:

Ciao, bella gente!
Gli eventi degli ultimi giorni hanno di certo abbattuto il morale di tutti noi, tant'è che m'era passata la voglia di aggiornare, ma eccomi qui.
Mi sembrava ingiusto lasciarvi così, quindi ecco il capitolo, spero vi piaccia.
Mi auguro, come sempre, che la storia non sia noiosa e se avete consigli da darmi, sono tutta orecchie!
Vi consiglio ardentemente di non perdere i prossimi capitoli. Chiaro?
NON AGGIUNGO ALTRO.
Ho parlato anche troppo.
Vi ringrazio tantissimo per le visite, siete tantissimi. :)
A presto! :)


S.




Bonus: ---> Andate fino in fondo se volete morire.
 


 

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Capitolo 26
*** XXVI ***








XXVI




Si era un po’ pentita di averlo trattato così male.
Doveva ammetterlo, stava facendo i capricci. Non era davvero così arrabbiata con lui, si sera solo incaponita e poi, il modo in cui lui cercava il suo sguardo, il modo in cui si fosse preoccupato di chiederle cosa avesse. Voleva accompagnarla a casa.
Invece lei se ne era andata e aveva anche avuto una fifa blu mentre camminava da sola per la strada deserta, nonostante lo avesse fatto mille volte.
Come se non bastasse, dovette anche rimproverarsi di aver fatto davvero una sciocchezza: lo stalker che ormai la perseguitava poteva essere dietro l’angolo e lei se n’era andata come cappuccetto rosso nel bosco, la peggiore ingenua del mondo delle favole. E la realtà era ben peggiore.
Quella mattina John l’aveva chiamata per invitarla a pranzo e lei non aveva saputo rifiutarsi, dato che poi lui sarebbe partito per l’Europa e probabilmente non si sarebbero rivisti mai più.
Così, dopo aver fatto colazione, si costrinse a vestirsi e a truccarsi, del tutto controvoglia, quando avrebbe preferito restare a letto. E poi, già lo sapeva, non avrebbe fatto altro che pensare ad un modo per scusarsi con Ed, anche se l’orgoglio la pizzicava ancora, dispettoso. Non si sarebbe comportata come una bambina, solo perché lui non si era accorto dalla sua espressione che le fosse accaduto qualcosa e per quello aveva anche infranto una promessa: non gli aveva raccontato di Jef, nonostante sapesse che lui fosse preoccupato riguardo al fratellastro.
In qualche modo avrebbe risolto, tutto ciò che poteva fare era pregare che la situazione non si invertisse quando lui avrebbe saputo e il rischio era concreto, data la sua imprevedibilità.
Sospirò, indossando un paio di calze, sicura che anche quella volta sarebbero stati in un posto elegante. Si infilò un abitino scuro, cosa importava che non fosse sera, poi cercò di stuccarsi il viso col fondotinta, date le occhiaie che lo divoravano.
Sembrava un’altra persona quando ebbe terminato l’opera, magari fosse stata così tutti i giorni, la sua autostima sarebbe salita a mille e magari Edward l’avrebbe guardata diversamente. Ripensò a lui, al suo modo di fare e alla percezione che aveva del suo animo: per qualche motivo fu certa che a lui andasse bene anche la solita Marina.
Un clacson interruppe la sua contemplazione di se stessa nello specchio. Corse alla finestra e vide l’auto di John. Infilò le scarpe e il cappotto bianco nel minor tempo possibile e corse di sotto, ritrovandoselo davanti.
  • Eccoti!
John era un bel ragazzo: alto, biondo, occhi color miele, un fisico da non sottovalutare. Lo guardò dall’alto in basso, ricambiando il suo sorriso, e pensò…nah.
Ormai rideva di se stessa mentre fingeva di trovarlo più bello di lui.
  • Aspetti da molto? – chiese, avviandosi all’auto.
  • No, tranquilla.
Le aprì la portiera e la fece accomodare. L’abitacolo era riscaldato e profumato, come l’aveva trovato quel venerdì e il ricordo di quel pomeriggio e di quelli precedenti, non sembrò più così spaventoso. Era preoccupata per il suo rapporto con Ed, ma il pensare a lui le portava conforto. Sentiva che sarebbe andato tutto bene. Doveva solo trovare il coraggio di essere sincera con lui.
  • Spero tu abbia fame. – rise John, cercando di attirare la sua attenzione.
Ma Marina, ormai, gli era scivolata dalle mani.
 
Quando entrò nella stanza di Kathy e per l’ennesima volta non ci trovò Marina, dovette sforzarsi più delle altre volte di sorridere. La sedia vuota quasi lo fissava.
Sperava di poterle finalmente parlare e spuntare un’altra casella dalla lista delle “Cose da fare riguardo Marina”. La sera prima aveva spuntato la voce “Metterla fuori pericolo”, ora contava di “Fare pace con lei” e magari sarebbe potuto passare al “Capire i suoi sentimenti per lei”, ma a quanto pareva era rimasto bloccato alla prima tappa. Cavolo, non riusciva a contenere più l’ansia.
Ci pensò la piccola Kathy, sempre più debole, sempre più pallida, a distrarlo dai suoi pensieri. Quella settimana raccontava la storia di come lui e la principessa avessero trovato un prezioso tesoro e lo avessero portato al castello.
Kathy stentava a ridere, ma riuscì a vedere per un attimo la felicità nei suoi occhi quando le diede il regalo che le aveva promesso prima di Natale. Non lo aveva dimenticato, come avrebbe potuto?
Prese dallo zaino una corona di palloncini e gliela porse, sedendosi col vestito colorato accanto a lei.
  • Ti piace? – chiese, con la sua voce buffa.
  • Sì, è davvero bella. – sussurrò la piccola, mettendola poi sulla testa coperta da un cappello. La aiutò a sistemarla.
  • Questa, Kathy, è la corona delle regine e l’ho portata dal mio pianeta solo per te.
La bambina gli mostrò i denti, facendo commuovere la madre. Fece finta di niente nel sentirla trattenere i singhiozzi, c’era abituato, e continuò a parlare con lei ancora un po’, prima di andare via.
Soltanto quando il medico giunse per la visita mattutina, lasciò la stanza facendole promettere che si sarebbero visti la settimana successiva e lei aveva scosso la testa in segno di assenso, elegante proprio come una regina.
Sospirò quando fu fuori, pensando che forse era meglio che Marina non fosse lì, altrimenti le si sarebbe spezzato il cuore. Lui stesso, per un attimo, stava per cedere alla tristezza. Rientrando in silenzio nello stanzino, si sfilò la parrucca e tornò con i piedi per terra.
Quando fu sulla strada di casa, passò a Grimace Street, sperando di vederla attraverso la finestra, ma la tenda era tirata. Non c’era nessuno.
Si fermò per un attimo, realizzando di non dover più essere preoccupato che le fosse accaduto qualcosa, ma la curiosità di sapere dove fosse e con chi, gli faceva arrovellare il cervello.
Guardando l’orologio della chiesa, decise che non fosse il caso di trattenersi oltre e si diresse a casa.
Fuori era una bella giornata, il sole di tanto in tanto faceva capolino, ma dentro – dentro era un inferno. Quando richiuse la porta, sentì Ben e Jef litigare furiosamente. Era la prima volta che li sentiva urlare entrambi.
  • Dove cazzo hai messo i miei soldi, Jef? – urlò Ben, facendo cadere qualcosa a terra.
  • Vaffanculo, papà!
  • Se non tiri fuori quei soldi saranno guai!
Il rumore di una bottiglia che andava in frantumi gli fece strizzare gli occhi, desiderando di sparire, ma non fece in tempo.
Jef uscì dal salotto con lo sguardo furioso e non appena lo vide, il suo viso si illuminò. Rimase pietrificato a guardare la sua bocca storcersi in un ghigno inquietante. Stava per fare qualcosa che lo avrebbe messo nei guai.
  • Chiedili a Ed, i tuoi soldi! – urlò, per poi risalire le scale, lasciandolo solo.
Non appena sentì Ben muovere il primo passo, smise di respirare, immaginando cosa lo aspettasse. In un lampo, giunse nell’ingresso, accompagnato dalla sua bottiglia.
Non si fermò nemmeno per un secondo e lo raggiunse in pochi passi, prendendolo per il collo. Portò le mani sulle sue, cercando di respirare, ma l’aria non arrivava nemmeno alla gola. Sentì le sue stesse pulsazioni nella testa.
  • Piccolo bastardo, ridammi i miei soldi! – ringhiò – Dove li hai nascosti?
Era come un toro nell’arena: aveva del tutto perso la ragione!
Nei suoi occhi era svanita ogni traccia di lucidità ed ebbe paura. Tentò di tirare via le mani dal collo, ma fu inutile e cominciava a soffocare. Ben continuava a guardarlo dritto negli occhi.
  • Ridammeli! – Urlò, ancora più forte.
Schiacciato contro la porta d’ingresso, cominciava a non vedere più e il suo istinto di sopravvivenza lo fece scattare e gli diede un calcio nelle parti basse.
Quando Ben si piegò su se stesso e potè riprendere fiato, si portò istintivamente le mani alla gola, ignorando i cocci di vetro della bottiglia che Ben aveva fatto cadere.
Ma non poteva restare lì. Quello era il momento di correre. Afferrò la sua chitarra e cominciò a correre lungo le scale, cercando di aggrapparsi al corrimano, ma uno come Ben non era facile da abbattere. Lo sapeva.
  • Bastardo!
Scivolò sulle scale, data l’ubriachezza, ma riuscì comunque ad afferrarlo per i jeans, facendolo finire a faccia a terra.
Gemette a causa della botta e si portò una mano alla testa, scoprendo di essersi ferito.
  • Cosa ne hai fatto dei miei soldi?
Ben riuscì a salire alla sua altezza, lo fece voltare e cominciò a sferrare cazzotti, ripetendo sempre la stessa domanda.
Quando succedeva così, arrivava un momento in cui non sentiva più niente e sveniva.
 
La fioca luce del pomeriggio gli ferì gli occhi e acuì momentaneamente il dolore che sentiva alla testa. Il primo pensiero che gli venne in mente, risvegliandosi dall’incoscienza, fu Marina. Voleva Marina, appoggiare la testa dolente sulle sue gambe e piangere.
Strinse i pugni, sentendo le lacrime salirgli agli occhi per il dolore e lentamente, cercò di alzarsi. Era ancora sulle scale e gli faceva male ogni cosa.
Quella volta, Ben avrebbe potuto ucciderlo.
Se ne rese conto dalla quantità di sangue che aveva perso e dalla ancora netta sensazione che l’aria che riempiva la stanza non gli bastasse.
Quando finalmente la vista si stabilizzò, vide il sangue scorrere per le scale e la bottiglia rotta nell’ingresso. Il silenzio era riempito dal russare di Ben, che evidentemente si era accasciato da qualche parte in salotto. Il vecchio orologio a pendolo segnava le 17:30. Era svenuto per ore.
Una fitta alla testa gli fece chiudere gli occhi e si rese conto di doversi medicare il prima possibile. Ci volle parecchio per riuscire ad alzarsi, ma lentamente arrivò in camera sua, con la chitarra in spalla. Lo spettacolo che gli si parò davanti, fu la botta finale: Ben aveva messo a soqquadro la sua stanza, alla ricerca di qualcosa che lui non aveva. Evidentemente Jef aveva rubato tutti i soldi del padre per comprare la droga da qualcun altro, a prezzo pieno.
I cassetti erano fuori dai mobili, i vestiti sparsi a terra, le ante spalancate, il materasso fuori dal letto.
Avrebbe dovuto risistemare tutto.
Sentì le stelle quando si disinfettò la ferita alla testa, ma strinse i denti per non fare rumore. Per il suo viso, riempì il lavandino di acqua fredda e ve lo immerse dentro.
Il pensiero delle mani di Marina che lo curavano era rassicurante e desiderò andare da lei immediatamente, ma doveva risistemare la casa e andare al lavoro. Quella sera gli sarebbe mancata più degli altri giorni. Era l’unica persona che avrebbe voluto vedere, in quel momento, era stata il suo ultimo pensiero prima di svenire e il primo quando si era svegliato. Si rese conto, mentre si asciugava il viso livido, che se avesse potuto, l’avrebbe abbracciata e non l’avrebbe lasciata più andare.
Mentre riordinava la sua stanza e controllava che il testamento fosse al suo posto, canticchiava la canzone che aveva scritto pensando a lei, cercando di ignorare il dolore.
Do I love you?
Do I hate you?
I can’t make up my mind,
so let’s freefall
and see where we land.
 
  • Ed, sei in anticipo. – Nathan lo era altrettanto, ma sembrò essere una cosa normale. Quando si soffermò di nuovo sul suo viso, riprese a parlare. – Cosa cazzo è successo?
  • Uhm, - esitò, forse troppo – ho avuto un incidente con la bici.
  • Quando!?
  • Un paio d’ore fa. – Nathan lo guardò, come se non fosse convinto delle sue parole, concentrandosi sul livido che aveva sul collo, ben lontano dall’essere dovuto ad un incidente.
  • Cavolo – riprese poi – mi dispiace. Ti hanno portato all’ospedale?
Spiegò al suo amico che chiunque fosse stato era scappato e che si era dovuto arrangiare da solo, poi – dati i suoi 45 minuti di anticipo – prese la chitarra e cominciò a strimpellare la sua nova canzone, godendosi il tepore della stanza e il suo the offerto dalla casa.
  • Cosa stai aspettando? – chiese Nathan, ma Ed non capì a cosa si riferisse.
  • Uhm…
  • Quando hai intenzione di fargliela ascoltare?
Si accomodò accanto a lui, poggiando un gomito sul bancone e guardandolo con aria da malandrino. Nathan aveva capito benissimo che tra lui e Marina stesse accadendo qualcosa ed aveva anche tentato di convincerlo di essersi innamorato di lei. Soltanto da quel pomeriggio aveva cominciato a rifletterci seriamente, ma ancora doveva darsi una risposta – d’altronde non poteva darsela se non si poneva seriamente una domanda – e quella sua espressione canzonatoria non lo avrebbe abbindolato.
  • Mai. – rispose, netto.
  • Ma è una bella canzone.
  • Ho detto di no – rise, dinanzi a quella presa di posizione. – Mi vergogno.
  • Scommetto 10 sterline che stasera gliela farai ascoltare.
  • Ma lei stasera non è di turno.
  • E invece sì – intervenne Pit con la sua voce grassa – deve sostituire Jessica.
Entrambi – Nathan e Pit – lo guardarono e dinanzi al suo sguardo confuso, scoppiarono a ridere. Lui, intanto, cercava di gestire l’emozione che il pensiero di vederla gli provocava.
Poco dopo, quando i primi clienti varcarono la soglia del locale, andò a sistemarsi sulla pedana, spostando lo sgabello in modo tale da vederla arrivare.
Non scollò gli occhi dalla porta – suscitando le risa di Nathan – finchè non lei non varcò la soglia della stanza.
 
Entrò nel locale con indosso gli abiti di quella mattina, dato che Pit l’aveva chiamata praticamente cinque minuti prima dell’inizio del turno e aveva dovuto chiedere a John di lasciarla direttamente lì all’Hawking.
Quando il capo le aveva chiesto se fosse libera, aveva pensato a Ed e aveva accettato senza pensarci per più di un secondo, quindi eccola lì, vestita come una maid di un caffè giapponese per fare la cameriera, ma con un proposito per cui valesse la pena affrontare una serata di lavoro con quelle scarpe ai piedi. Richiuse la porta, cercando di ignorare gli sguardi dei curiosi e si fece avvolgere dalla voce di Ed che cantava di nuovo Chasing Cars.
Alzò gli occhi verso la sala da cui proveniva la sua voce e – inaspettatamente – incontrò i suoi occhi. La stava guardando, senza distogliere gli occhi dai suoi nemmeno per un secondo. Il cuore perse il secondo battito quando vide il cerotto che aveva sulla fronte e i lividi sul viso.
Non si trattenne e si portò una mano al viso, provocando in lui un moto di vergogna che lo fece per un attimo tentennare, ma quella volta era ridotto davvero male.
Fece il primo passo verso di lui, senza interrompere il contatto visivo e senza controllare più la sua espressione, troppo turbata per badare a tutti i problemi e le sciocchezze, troppo preoccupata per potersi fermare dall’andare a constatare le sue condizioni, ma qualcuno impedì la sua avanzata prendendola per un braccio.
  • Marina, grazie a Dio sei venuta! – Pit la guardava con gratitudine, trascinandola verso le cucine.
  • U-uhm, di niente Pit, ma potresti-
  • Stasera il locale è ancora più pieno di ieri e Jessica si è ammalata. – continuò, ignorando le sue parole. – Mi stai salvando.
  • Non ti preoccupare, ma-
  • Presto, sbrigati – e la aiutò a sfilarsi il cappotto. – ci sono tre tavoli che aspettano di ordinare.
Le diede un grembiule, un blocchetto e una penna, e la spinse verso i tavoli in questione, facendola barcollare sulle sue francesine. Lo guardò stranita, vedendolo agitato quella sera. Fece spallucce a se stessa e si avvicinò ai clienti, ma il suo pensiero continuava a dirigersi nella sala accanto, al viso di Ed. Mentre scriveva l’ordine riusciva ad immaginare il momento in cui gli avevano inferto il cazzotto che gli aveva fatto spuntare il livido sulla mascella. Rabbrividì alla cruda immagine che si formò nella sua mente e cercò di scacciarla via, o non sarebbe riuscita a lavorare per il resto della serata.
Quando si avviò alla cucina, cominciò a fare il conto alla rovescia fino al momento in cui avrebbe potuto parlargli, ma sembrava che qualcuno avesse sempre voglia di una seconda birra o di una porzione di patatine più grande, così – esasperata – andò da Nathan e gli chiese di fare cambio sala con lei.
  • Ti dispiace? – chiese.
  • Certo che no, Marina, so che voi piccioncini avete bisogno di vedervi, ultimamente.
  • N-non capisco. – Che Ed avesse parlato degli ultimi avvenimenti a Nathan?
  • Non ti preoccupare, non mi ha spifferato nulla. – disse, passandosi una mano nel ciuffo troppo lungo. – Ma mi sono accorto di come sta. Ieri è corso via non appena ha saputo che eri andata via prima di lui, senza nemmeno prendersi la paga. – sorrise sornione, leggendo il suo viso sorpreso.
  • Davvero? – portò gli occhi verso l’arcata che li divideva.
  • Va pure. – concluse lui, battendo una mano sulla sua spalla, per poi lasciarla sola.
Oh, si era preoccupato che fosse da sola. Che stupida che era: per tutto quel tempo era stata arrabbiata con lui perché si era sentita trascurata e invece. Invece Edward era preoccupato per lei, sempre.
Senza più esitazioni, si diresse a passo deciso nell’altra stanza, seguendo il suono della sua voce. La sua figura si formò lentamente davanti a lei e quando lo vide, sembrò che lui avesse percepito immediatamente la sua presenza, perché tutto d’un tratto aprì gli occhi e puntò lo sguardo direttamente su di lei.
Non seppe fare altro che sorridere e vedere che lui facesse lo stesso, le provocò un moto nell’animo che difficilmente avrebbe dimenticato.
La chiamarono da un tavolo e dovette allontanarsi forzatamente, ma mentre gli dava le spalle lo sentì parlare al microfono.
Non lo faceva mai, così tese le orecchie.
  • Questa canzone è nuova e…beh, spero che il messaggio venga colto.
Uhm? Ed aveva scritto una canzone?
Aggrottò lo sguardo e mentre scriveva l’ordinazione cercò di ascoltarne le parole.
  • Treat me beneath this clear night sky and I will lie with you.
Terminò l’appunto e si voltò a guardarlo.
  • I start to feel those butterflies when I’m next to you.
La guardava. C’era qualcosa nei suoi occhi chiari, che la fece bloccare.
  • Tell me your secrets. Give me a friend. Let all the good times flood in.
Le sorrise di nuovo, come se sì – aveva capito bene – stava parlando proprio con lei. Istintivamente, fece un passo avanti.
  • Do I love you? Do I hate you? I can’t make up my mind…
Non era possibile che stesse facendo una cosa del genere, ma sentiva nel suo stomaco che il filo che li legava si stava annodando definitivamente. Stava cercando davvero di dirle cosa provasse. Ed le stava confessando i suoi sentimenti attraverso una canzone.
  • So let’s freefall and see where we land.
Ed abbassò lo sguardo e rise sommessamente. Marina, col cuore in gola, si portò una mano alle labbra per trattenere una risata isterica, ma la gente cominciò a guardarla quando lui tornò a fissare gli occhi nei suoi, ricominciando a cantare.
  • It’s been this way since we were “young”: we fight and then make up. I breathe your air into my lungs when I feel your touch.
Ed scosse la testa, cantando in versi il ricordo del loro incontro ravvicinato in biblioteca, come se stesse cercando di sdrammatizzare per il troppo imbarazzo. Il nodo che Marina aveva alla gola e allo stomaco si fece più intenso.
  • Tell me your secrets. Give me a friend. Let all the good times flood in. – le sue mani carezzavano la chitarra come se volessero far prendere vita a quelle parole. – Do I love you? Do I hate you? I can’t make up my mind…so let’s freefall and see where we land. Da-da-da-da, da-da-da-da, da-da-da-da…Tell me your secrets. Give me a friend. Let all the good times flood in…
E quello fu il momento in cui le parole presero ad uscirgli dagli occhi, il momento in cui lui non stava più soltanto cantando. Edward le stava parlando col cuore in mano.
  • Do I love you? Do I hate you? I can’t make up my mind…so let’s freefall and see where we land.
La dolce melodia della canzone aleggiò nell’aria per qualche altro secondo, per poi farli ricadere nella realtà.
La clientela applaudì la canzone, ma ancora di più applaudì loro. Chiunque, lì dentro, si era fermato a guardarli, ma loro sembravano non essersene accorti, come se fossero invisibili. Continuarono a fissarsi finchè Nathan non portò a Ed la sua birra e lo costrinse a lasciarla andare.
Marina sbattè ripetutamente le palpebre, ricordandosi di dover consegnare un ordine alla cucina. Si allontanò, seguita dagli sguardi della clientela, ricantando le parole di Edward nella sua testa, ininterrottamente.
Sentiva l’anima in subbuglio.
 
Aveva capito che con Marina, o rischiava o perdeva. E allora tanto valeva rischiare.
Quando l’aveva vista entrare in sala, aveva sentito il cuore fermarsi e mai come in quel momento, aveva percepito l’impellente bisogno di comunicare con lei. Di svuotarsi l’animo e dirle ogni cosa. Sembrava che l’insana idea di cantarle quella canzone fosse stata di grande aiuto, perché lei sembrava leggergli nel pensiero, mentre cantava. E poi, il luccichio dei suoi occhi…
  • Mi devi 10 sterline. – Nathan rise di lui, passandogli la sua birra.
  • Aaaah, smettila. – rispose, ridendo altrettanto.
  • Prevedo notti focose, vero Ed? – rise di gusto, allontanandosi.
Cercò di spegnere l’incendio che divenne il suo viso bevendo la sua birra fredda, ma servì a poco. La sola vista di Marina con indosso quell’abitino lo aveva fatto distrarre, ci mancava solo che Nathan gli mettesse strani pensieri in testa.
Tuttavia, se da un lato il suo cuore desiderava averla, dall’altro continuava a temere che i suoi sentimenti, che quella cosa che lui e lei erano insieme, fosse soltanto una bugia.
Sentiva il cuore battere, le farfalle nello stomaco, ma non riusciva a smettere di avere paura della felicità.
Più tardi, Marina tornò nella stanza per servire i tavoli e non mancò di cercare i suoi occhi, incontrandoli immancabilmente ogni volta. Qualche volta era passata davanti a lui, facendo ondeggiare la gonna del vestito e ad ogni passaggio si sentiva provocato dal suo sorriso, seppure non malizioso. Era come se di lei desiderasse solo la felicità, quella che sembrava provare quando si guardavano.
Quando terminò la sua birra, la vide avvicinarsi all’uomo solitario del giorno prima e poco dopo, Marina si avvicinava a lui, luminosa, con l’ennesima birra che quell’uomo gli offriva, ma dimenticò quel dettaglio non appena lei salì sulla pedana, con la penna infilata nei capelli. Non mollò i suoi occhi per un attimo.
  • Ehi. – disse lei, sorridendo e portandosi i capelli dietro l’orecchio.
  • Ciao. – si alzò in piedi, ricambiando.
  • V-volevo, cioè, era bella la canzone. – si morse il labbro.
  • Sono contento che…ti sia piaciuta. – lo disse serenamente, non pentendosi di quel gesto. Avrebbe voluto che fossero più vicini, ma…
  • Volevo chiederti scusa – cominciò, passandogli la birra. – per come mi sono comportata.
  • Anche io volevo scusarmi. – incalzò lui, cogliendo l’occasione.
  • No, non devi – sembrava tormentata. – perché è stata solo colpa mia e poi… - abbassò gli occhi. - …dovrei parlarti. – Lo sguardo interrogativo di Ed le pesava sulla testa – Ci sono delle cose che non ti ho detto.
Ed cominciò a preoccuparsi, portando il pensiero al suo fratellastro.
  • Si tratta di Jef? – chiese immediatamente.
  • Sì, ma possiamo parlarne dopo, con calma? – lo pregò.
  • Certo… - sospirò, sperando che non fosse nulla di troppo grave. Già stava pensando di mollare tutto e di andare a cercarlo, ma dovette trattenersi quando Pit spuntò da dietro l’angolo e lo guardò, indicando l’orologio. La sua pausa era finita.
  • Allora… - riprese lei. - …Pace?
  • Sì, – sorrise lui, troppo rasserenato dal piacevole risvolto che aveva preso il loro silenzioso litigio. – ma dopo parliamo.
Marina annuì, portando una mano al suo viso, carezzando i suoi lividi. Chiuse gli occhi per un attimo, sorridendo mentre portava la mano sulla sua.
Sentiva il cuore galoppare nel petto.
Soppresse il desiderio di spegnere le luci e baciarla, era ora di tornare a suonare.
Marina scese dalla pedana, lasciando il suo profumo aleggiare intorno a lui.
 
Pit offrì da bere a tutto il personale, non appena le pulizie furono terminate, perché dopo quella sera si sarebbero ritrovati direttamente all’anno nuovo e voleva festeggiare in anticipo con tutta la sua squadra. Ed era seduto al bancone a lasciarsi prendere il giro da Nathan riguardo il suo avvicinamento a Marina e gli raccontò della sua richiesta di fare cambio sala. Sentì una strana ansia nel petto, pensando a quel suo gesto e più la sentiva, più voleva provarla.
Era già il quarto cicchetto che beveva dopo le sue cinque birre e finalmente Marina riemerse dal bagno, andandosi a sedere accanto a lui. Nathan si alzò senza preavviso, lasciandoli soli, ma gli occhi vigili di tutti i presenti continuarono a studiarli: ormai erano la nuova attrazione dell’Hawking.
Prima che cominciassero a parlare, ascoltarono la grassa risata di Pit che rideva delle sue stesse battute, poi – finalmente – riuscirono a chiudersi nella loro bolla.
  • Cosa ha fatto Jef? – chiese subito, non riuscendo più a contenere la voglia di sapere se doveva ammazzarlo o meno.
  • Ecco – cominciò lei, rigirandosi il bicchierino tra le mani, nervosa come non mai. – il giorno…il giorno in cui hai ritrovato il testamento, l’ho incontrato e… - cercò sicurezza nei suoi occhi e continuò. - …mi…mi ha molestata.
Ed sbiancò, sentendo il sangue defluire dal suo viso. Quel maledetto. Se lo avesse avuto tra le mani…
  • Cosa ha fatto? – disse, la voce più cupa di quanto lui stesso credesse.
  • Ha cercato di baciarmi. – disse, tutto d’un fiato, per poi bere il suo amaro.
La mano di Ed corse alla sua spalla, spaventandola per la forte stretta. Era allarmato.
  • Ti ha fatto del male?
  • Mi ha preso per un braccio, ma un negoziante mi ha aiutata.
  • Perché non me lo hai detto? – chiese, alzando un po’ troppo la voce, manifestando la sua angoscia.
  • N-non volevo rovinarti la giornata, proprio quando avevi ritrovato il testamento.
  • Marina…
Il suo tono, a quelle parole, divenne tiepido e un secondo dopo l’abbracciò.
Avevano desiderato entrambi di risentire quel calore e finalmente ardeva di nuovo. Edward la strinse forte come non aveva mai fatto.
  • Scusa se non te l’ho detto, te l’avevo promesso. – la sua voce si incrinò.
  • Sciocca, non dovevi farti tutti questi problemi. – disse, intenerito dal suo essersi preoccupata di non intaccare la sua felicità, ma ora finalmente aveva capito perché fosse arrabbiata. – Scusami tu, se non me ne sono accorto.
Marina annuì, strusciando la guancia sulla sua spalla forte.
  • Piuttosto – disse, allontanandosi da lui e prendendo dal bancone il nuovo cicchetto che Jack serviva ad entrambi. – cosa è successo? – e gli carezzò il viso.
  • In realtà non lo so nemmeno io… - disse, dopo aver trangugiato il liquido ambrato. – Voleva che gli restituissi dei soldi che non ho preso, poi sono svenuto.
  • Dopo passa da me, ti presto quella pomata. – disse, analizzando ancora i suoi segni. – Edward… - continuò poi, ripensando alla sua canzone. - …t-tra me e John non c’è niente. Lui non mi piace.
  • D-davvero? – i suoi occhi si illuminarono.
Marina annuì, quasi sorridendo, dando finalmente un valido motivo al suo comportamento di venerdì: Edward era soltanto spaventato, proprio come si era spaventata lei quando la sera prima l’aveva visto parlare con un’altra ragazza, ma ora era tutto a posto. Entrambi guardarono i propri bicchieri, imbarazzati, per poi venire interrotti da Pit e dalle sue battute.
Un’ora dopo, avevano terminato dieci bottiglie di alcolici in 13 persone, Pit compreso, ed ora non facevano altro che ridere senza freni. Tuttavia, bastò che uno di loro andasse via per innescare la catena. Uno alla volta, comiciarono a lasciare il locale.
Marina rideva di gusto, seduta accanto a lui, altrettanto ubriaco e felice. Le circondava la vita con un braccio, mentre cercavano di riprendere fiato, ma l’orologio segnava ormai le 3:00 ed era ora di andare.
  • Marina, barcolli!
  • Non è vero! – rise, reggendosi a lui.
Uscirono al freddo, sotto la luce dei lampioni e si avviarono verso casa di lei, trascinando la bici a piedi. Per l’intero tragitto non fecero altro che ridere di Pit e Nathan che litigavano per l’ultimo bicchiere di brandy, facendo a braccio di ferro per ottenerlo.
Ogni volta che sbandavano, si aggrappavano l’uno all’altra e finivano per ritrovarsi troppo vicini. Il respiro di Marina si condensava, mischiandosi col suo.
Per miracolo, riuscirono a trovare le chiavi e ad arrivare fino al secondo piano.
  • Smettila di ridere o non riesco ad aprire la porta. – rise lei.
  • Non ci riesco, sei troppo buffa!
Il rumore delle chiavi faceva eco nel silenzio del palazzo. La aiutò a trovare il buco della serratura e spalancarono la porta, quasi cadendo all’interno. La aiutò a raddrizzarsi e a richiudere l’ingresso.
Quella Marina ubriaca era estremamente divertente e affascinante. Quando la loro risata scemò in silenzio, si guardarono negli occhi, immobili al centro della stanza.
Ed aveva i capelli spettinati e una macchia viola sul viso, ma continuava a sembrarle attraente. Era felice di aver chiarito ogni cosa con lui, che tutto fosse andato per il verso giusto.
  • Sai, Edward – cominciò, senza sapere cosa stesse facendo. – sei davvero attraente. – lui rise.
  • Davvero? – e si indicò il viso, in un attimo di lucidità. - Penso che tra noi, quella bella sia tu ed io ho davvero buon gusto, credimi. – tornò poi a delirare, ridendo.
  • Davvero? – chiese lei, maliziosa, spingendolo scherzosamente.
  • Assolutamente! – rispose lui, provocandola.
Si avvicinò a lei, carezzandole un braccio, ma Marina non riusciva a smettere di ridere e lo allontanò, andando poi verso il bagno.
Ed rimase solo e si diresse in cucina, togliendosi il cappotto. Quando Marina tornò, era scalza e portava con sé la crema medicinale.
Continuava a barcollare.
  • Sei proprio una frana. – le disse, mentre lei cercava l’appoggio del muro per reggersi in piedi, scoppiando di nuovo a ridere.
  • Edward, smettila – cercò di riprendere fiato. – Piuttosto dammi una mano.
  • No, devi farcela da sola. – la punzecchiò, aprendo le mani per invitarla ad avanzare.
Lei non se lo fece ripetere due volte e un passo alla volta lo raggiunse, afferrando le sue mani bollenti. Forse si era avvicinata troppo, perché riusciva a distinguere tutte le sue lentiggini e il suo profumo la stordiva. Le sue labbra sembravano disegnate, così definite e imporporite.
  • Cosa stai guardando? – la fece riscuotere.
  • La tua bocca. – disse, incurante di tutto. – Mi piace.
  • Anche a me piace la tua bocca. – rispose, ma aveva smesso di ridere. – Marina, io dicevo davvero… - ripensò alla sua nuova canzone.
  • Cosa?
  • Io non so… - ma non terminò. – Niente.
Non riusciva ancora a chiarire con se stesso la natura del sentimento che provava quando stava con lei, quando – come in quel momento – aveva voglia di baciarla.
Forse Marina era troppo ubriaca per chiedergli di continuare, perché gli sorrise e lo tirò per il maglione fino al tavolino accanto alla finestra, facendovelo appoggiare.
Svitò il tappo della pomata e cominciò a stendergliela sul viso, sorridendo per la miriade di emozioni che sentiva stando così vicino a lui. Il suo viso era alla sua stessa altezza e sentiva i suoi occhi incollati su di lei, mentre gli sfiorava la pelle con le dita. Le sue mani erano attaccate al tavolino, ma le nocche erano bianche per la stretta che esercitava. Capì che si stesse trattenendo dal fare qualcosa, così lo guardò negli occhi, cercando di capire.
Ed aveva il respiro corto, mentre la osservava così da vicino. Marina era così bella, con quello sguardo perso e rilassato, con quell’allegria nella voce. Ma era troppo vicina. Barcollava ancora, sbandando troppe volte verso di lui e arrivò il momento di aiutarla a non cadere. Allungò la mano sulla sua vita e lei si aggrappò di nuovo alla sua spalla, per l’ennesima volta, quella sera. Non poté fermarsi dal tirarla a sé. I suoi occhi verdi erano completamente fusi coi propri, oramai, e la bocca ad un passo dalla sua. La desiderava.
Marina lasciò cadere la crema e portò le mani ai suoi capelli, immergendovele. Le loro palpebre calarono e lui posò anche l’altra mano sulla sua vita, stringendola di più, avvicinandola ancora, fino a farla aderire a sé. Era un contatto quasi morboso.
Sentiva il corpo di Marina più vicino di quanto gli fosse mai capitato fino a quel momento ed espirò, sentendo le sue mani vagare sulla sua nuca e sul suo collo.
Lui e Marina stavano per baciarsi. Lo sentiva, non riusciva a frenare il battito del suo cuore, ma riusciva a distinguere la sete che aveva di lei.
Erano ubriachi e quello non era giusto, ma quando lesse il desiderio nei suoi occhi, sentì il petto bruciare e tese il viso fino al suo. La baciò. Bastò un millesimo di secondo per sentire il suo calore sulla bocca.
Una scarica elettrica lo attraversò dalla testa ai piedi e smise letteralmente di respirare. Aveva le labbra su quelle di Marina e riuscì a sentirne il sapore. Sentendola aggrapparsi a lui, con le mani che stringevano il suo maglione e i suoi capelli, non riuscì a mantenere il controllo di sé e si lanciò sulla sua bocca con più foga. Aveva fame di lei, sentiva il suo corpo sotto le dita come un tizzone ardente.
Ormai perso sulla sua bocca morbida, lasciò che il suo istinto lo guidasse e si scostò dal tavolo, spingendola di peso fino al muro, ma senza lasciarla mai. Quando la sentì appoggiarsi alla parete, portò una mano al suo viso, alzandolo verso il proprio, per sentire meglio quel bacio. La testa gli girava e il sangue circolava più veloce nel suo corpo. Marina, aggrappata alle sue spalle, lo attirava a sé e senza freni, si spinse al di là delle sue labbra, trasformando quel bacio in una tentazione. Sentiva il respiro di Edward accelerare e le sue mani cominciare a cercare le sue gambe con sempre più foga, giocando con il suo vestito e lei era pronta a qualsiasi cosa stesse per accadere. In ogni caso, era del tutto assente, non sarebbe stata capace di reagire a nulla, troppo incredula, troppo risucchiata dall’emozione che sentiva scoppiarle nel petto. L’uomo che desiderava con tutta se stessa, quell’Edward, proprio lui, la stava baciando e a lei mancava il respiro.
La lingua di Marina incontrava la sua senza sosta e ormai era attaccato a lei. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai: se fosse morto in quell’istante, baciandola, sarebbe morto felice. Sentire quelle labbra tra le sue era l’esperienza più emozionante che avesse mai fatto fino a quel momento, ma cominciava a sentir crescere un fuoco ancora più ardente. Ormai stringeva la sua coscia in una mano, portandola all’altezza del proprio bacino, approfondendo ulteriormente quel bacio. I loro movimenti erano sempre più veloci, sempre più decisi, ogni bacio più infuocato. Gli mancò l’aria quando Marina si staccò dalle sue labbra e cominciò a baciargli il collo. Gemette nel suo orecchio, col capo chino su di lei e la mano che tornava sulla sua vita. Le mani di lei presero a sfilargli il maglione, ma mentre sentiva le sue labbra arrivare all’incavo del collo, ebbe la sensazione che qualcosa fosse sbagliato.
Se il suo cervello non si fosse risvegliato dalla trance in cui era caduto, a quell’ora l’avrebbe già spogliata e poi chissà, ma la voce della sua coscienza gli suggeriva che così non andava bene. I mille dubbi che sembravano essere spariti, si erano presi solo una breve vacanza ed ora tornavano a tormentalo.
Cosa provava per Marina? Il cuore gli scoppiava, ma…l’amava? Sì…?
Stavano per finire a letto e lui non sapeva cosa provasse davvero per lei.
L’avrebbe ferita, l’avrebbe fatta soffrire. No, non doveva succedere. Era ancora in tempo per fermarsi, ma non ci riusciva. Sentì di nuovo le sue labbra cercarlo e la baciò di nuovo, studiando ancora quel sentimento così intenso e destabilizzante.
L’amava?
Purtroppo, la vita gli aveva insegnato che dalle cose più belle doveva aspettarsi il peggio. Non voleva soffrire e non voleva far soffrire lei. Non meritava questo, lui non era abbastanza. Non era nemmeno capace di dire se quello fosse amore.
Si allontanò dalle sue labbra, sentendo lo schiocco che producevano separandosi. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarla.
Non riusciva a zittire le voci nella sua testa, non riusciva a fermare l’angoscia che gli stava montando dentro o a ignorare la paura di rovinare tutto.
Cosa doveva dire?
Cosa doveva fare?
Senza più controllare la rabbia che aveva contro se stesso, diede un pugno al muro, e la sentì sussultare sotto di lui, spaventata.
Marina rimase pietrificata sotto la sua ombra.
Ed strinse i pugni: non poteva farle questo, non poteva approfittare dei suoi sentimenti.
  • Mi dispiace. – disse, poi si allontanò dal suo corpo.
Senza che Marina avesse il tempo di capire cosa stesse facendo o di dire qualcosa per fermarlo, Edward afferrò il suo cappotto e la chitarra ed uscì fuori da casa sua, sbattendo la porta.
Rimase pietrificata, addossata al muro. Sentì chiaramente il cuore frantumarsi nel petto.
Si sentì nuda e spaesata. Edward l’aveva finalmente baciata ed ora…era andato via.
Così.
Era sconvolta, ma si affacciò alla finestra e lo vide seduto sulle scale, con la testa tra le mani. Senza nemmeno mettersi le scarpe, corse alla porta e poi per le scale, ma quando aprì il portone lui non c’era più.
Guardando la strada deserta, si convinse del fatto che ci fosse un’unica motivazione per la quale Ed poteva comportarsi così: lei non era abbastanza.
Eppure, l’aveva sentito quel contatto, aveva sentito quella magia. Allora, perché scappare?
Non aveva immaginato quanto l’avrebbe ferita, fuggendo in quel modo?
Perché, perché, perché?
Sentì le lacrime salirle agli occhi e come una bambina, si piegò in due sulle ginocchia e pianse. Si era soltanto illusa e lui era scappato come un ladro dopo aver preso il bottino, non riusciva ancora a crederci. Si sentiva tradita. Presa in giro.
Ma se Edward davvero non l’amava, allora avrebbe dovuto dirglielo, dopodiché ogni cosa sarebbe tornata come prima, come quando non si erano ancora incontrati, ma doveva affrontarla faccia a faccia, perché quella cicatrice l’avrebbe portata in eterno.
 
Intanto, Ed ascoltava i suoi singhiozzi dal vicolo accanto al portone, pietrificato.
Era riuscito solo a ferirla.
Si detestava per essersi comportato in quel modo, per non aver pensato prima di agire, ma si odiava ancora di più per non riuscire ad ammettere di aver perso la testa per lei.
Quella notte, dovette porsi nuovamente il quesito che gli aveva posto sua nonna: meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?
Non lo sapeva più.





Angolo autrice:

Sono terrorizzata, ho paura di premere il tasto "Aggiungi capitolo", ma eccoci qui e non so cosa dire.
Fate voi, davvero. Sono pronta ad essere linciata.
Grazie per le visite e le recensioni, siete fantastici. Questa storia sopravvive grazie a voi.
Sono in trepidante attesa di sapere cosa ne pensiate, dato che questo capitolo era attesissimo ed ora ho l'ansia da prestazione.
Che ve lo dico a fare? Non perdetevi i prossimi capitoli.
Grazie. :)
A presto.


S.

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Capitolo 27
*** XXVII ***








XXVII




A chiunque glielo avesse chiesto, Ed avrebbe risposto che sì, era uno stupido idiota.
Come aveva potuto scappare via in quel modo, non lo sapeva ed ora si ritrovava all’alba, il sole ancora nascosto dietro la collina, davanti alla tomba di sua madre.
Si asciugò la lacrima che segnava un gelido sentiero sul suo viso e tirò su col naso.
Immaginava cosa gli avrebbe detto sua madre, come gli avrebbe poggiato la mano sulla testa e lo avrebbe consolato, riusciva quasi a sentire le sue parole.
Non avere paura. Vivi.
Probabilmente gli avrebbe detto questo.
Lentamente, la luce rosa dell’alba cominciò ad illuminare il suo fiato condensato.
Ricordava ancora la sensazione delle labbra di Marina e nello stesso momento voleva correre da lei, ma perché, perché non riusciva ad ammetterlo?
Forse, la paura di perdere le persone a lui care era così radicata nel suo cuore che il pensiero di amare Marina non era altro che un funesto presagio. Doveva essersi convinto di questo. Amava talmente sua madre e poi – di punto in bianco – se n’era andata: se donasse il suo cuore a Marina, cosa accadrebbe? Come farebbe ad andare avanti se le cose andassero storte? Ne uscirebbe schiacciato.
E poi, cosa ne sapeva lui di cosa fosse l’amore? Come poteva dire che quel batticuore lo fosse? E se fosse stato solo momentaneo?
Ok, forse non era momentaneo, ma…era proprio l’indefinito a fargli paura. Il rischio. La felicità.
Passò una mano sul marmo scuro per pulirlo dalla neve e il contrasto tra il bianco e il nero quasi gli faceva male agli occhi.
Alice Kirsten Collins (1963 – 2009), cosa avrebbe fatto? Una donna così giovane aveva perso la vita quando meno se lo aspettava e chi sa quante cose non aveva fatto, non aveva detto. Si era sempre chiesto se sua madre avesse qualche rimpianto o qualche rimorso, ma non avrebbe mai avuto la possibilità di saperlo, così come lei non avrebbe mai avuto la possibilità di rimediare. Tuttavia, di una cosa era certo: sua madre, prima di morire, voleva rimediare al grande errore di aver accolto Ben in casa sua e cercare di nuovo suo padre. Alice voleva dalla vita una seconda possibilità per essere felice, ma l’aveva chiesta troppo tardi.
E lui? Cosa voleva da quella vita? Avrebbe chiesto una seconda occasione? E se non l’avesse chiesta e se ne fosse pentito, avrebbe avuto la possibilità di rimediare?
Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?
Vivi.
Chiuse gli occhi, cercando di ascoltare il suo cuore, di guardare aldilà della paura: non vide altri che Marina e il suo sorriso.
Sentì il cuore fermarsi, come se lei fosse ancora lì tra le sue dita.
Probabilmente – disse a se stesso – avrebbe potuto rimandare quella scelta per altri mille anni, ma non sarebbe riuscito a trovare qualcosa nella sua vita che fosse anche solo paragonabile a lei, alla pienezza che sentiva in sua presenza, alla persona che era da quando era entrata nella sua vita: avrebbe sempre e comunque scelto Marina.
I guanti che gli coprivano le mani, la catenina che portava al collo, il profumo intrappolato sul suo maglione, i sorrisi e le emozioni, ogni cosa riconduceva a lei. Anche quel luogo.
Ne valeva la pena?
Valeva la pena abbattere tutti i muri e le certezze che aveva costruito in cinque anni?
La risposta risuonò scontata nella sua mente – perché come si faceva a non desiderare altro miele, dopo il primo cucchiaino? – ma non era comunque facile per lui.
Non era facile concedersi il lusso di amare e – probabilmente – lasciarsi amare.
Non sapeva cosa pensasse Marina, cosa lei provasse nei suoi confronti, ma avrebbe potuto avere una piacevole sorpresa se si fosse messo in gioco. Il ricordo del suo bacio lo mandava ancora a fuoco, nonostante il freddo. Anche se lei quasi sicuramente era furiosa con lui, avrebbe provato a parlarle, sperando che potesse perdonarlo.
Giurò a se stesso che non l’avrebbe fatta soffrire, che le avrebbe dato tutto ciò che fosse in grado di donarle.
Doveva solo concederselo.
Doveva solo considerarsi abbastanza.
 
Le decine di fogli che aveva riempito non erano bastati ad asciugarle le lacrime o a farla dormire. I fiumi di pensieri erano scivolati fuori dalla sua mente come cascate durante una piena, ma il defluire verso altri luoghi non era servito a cancellare la confusione e la rabbia ribolliva nel punto in cui l’acqua cadeva.
Non meritava questo, non meritava quella pugnalata. Per quanto si fosse sforzata, non aveva capito assolutamente nulla, a partire dal motivo per cui l’avesse baciata.
Ma forse su quello poteva sorvolare, aveva una buona teoria in mente, ma la serie di eventi che la seguivano erano assolutamente discordanti ed assurdi.
Non c’era alcun motivo di andarsene, non in quel modo. Avrebbe voluto strangolarlo, perché per quanto strano potesse essere, per quanto traumatizzato fosse dal suo passato, Edward non aveva scuse per comportarsi così. Non era un pazzo o un disadattato, aveva un cervello perfettamente funzionante col quale pensare e non doveva fare questo, non a lei, non dopo averla baciata.
Era crollata all’alba, ormai distrutta dalle lacrime, ma quando si era svegliata a metà mattina si sentiva esattamente come poche ore prima. E come se non bastasse, il suo caro stalker le aveva lasciato ben 3 messaggi, quella notte. Giurò a se stessa che dopo il suo compleanno sarebbe andata alla polizia, quella situazione stava diventando insostenibile.
Trangugiava il latte ed i cereali guardando il muro sul quale l’aveva trascinata, rovinandosi l’appetito a causa delle fitte che sentiva, rivivendo quei momenti così recenti.
Non l’avrebbe passata liscia e se aveva intenzione di sparire, non ci sarebbe riuscito. Quella stessa mattina sarebbe andata a cercarlo, tanto sapeva benissimo dove trovarlo e lui non poteva scappare. Se mai si fosse tirato indietro, allora Edward non era la persona che credeva. Pregò che non fosse così.
Con tutta l’intenzione, risistemò il disordine e fece una lunga doccia calda, con la musica a tutto volume, al diavolo i vicini. Poi, armata di tutta la sua frustrazione e della sua determinazione, infilò il cappotto ed uscì. Il sole rischiarava il cielo, ma era proprio la giornata sbagliata per quell’azzurro così brillante.
Avrebbe percorso i 3,5 km e lo avrebbe aspettato sul retro della biblioteca, mettendolo da subito spalle al muro.
L’aria fredda fu un toccasana per il suo viso, sentì la pelle stanca distendersi gradatamente, spegnendo del tutto l’ombra della stanchezza. Le piaceva quel clima, la faceva sentire viva.
Svoltò sulla strada della biblioteca senza rallentare ed intravide il portone attraverso la fila di alberi spogli che costeggiava il marciapiede. Qualcuno cominciava già ad uscirne ed infatti il suo orologio segnava le 13:15 del 30 Dicembre.
Si fermò a diversi metri dal caffè, monitorando la situazione: non poteva rischiare che qualcuno la vedesse, non voleva farlo finire nei guai – in ogni caso. Quando le sembrò che nessuno la guardasse, attraversò la strada e tagliò direttamente fino al retro, camminando sulla neve. Di passo in passo, l’agitazione la rendeva sempre più elettrica. Quando finalmente fu dietro alla biblioteca, vide la sua bici azzurra poggiata al magazzino e le venne un brivido. Una miriade di ricordi le attraversarono la mente senza che lei potesse fermarli.
Alle 13:30, preciso come al solito, Edward aprì la porta del retro e sbiancò.
Marina lo guardò dritto negli occhi, ma arrossì, cercando di controllare la tachicardia.
Edward 1, Marina 0.
Prese fiato, prima che lui potesse fare o dire qualsiasi cosa, cercando di fare l’espressione più arrabbiata di cui fosse capace, e parlò.
  • Credo di meritare delle spiegazioni.
  • Lo so! – alzò subito le mani, riscuotendosi. – Lo so, hai ragione! Mi dispiace!
Edward 2, Marina 0.
Si avvicinò lentamente a lei, alzando le mani in segno di resa, per poi portarsele alla testa e alla nuca.
  • Scusa, io non so cosa sia successo, cioè- - sembrò poi cambiare idea. – so cosa è successo, ma non volevo ferirti! Uhm, è complicato… - la voce si incrinava continuamente, rendendo evidente la sua agitazione.
Marina rimase ammutolita, non si aspettava un tale exploit. Cercò di elaborare le sue parole, ma si accorse che si stava già distraendo dal suo intento.
  • Te ne sei andato come se fossi un ladro! – lo accusò. – Dopo…dopo avermi baciata!
  • Marina… - cercò di riprendere, diventando rosso.
  • No, Edward, hai idea di come ci sia rimasta? – allargò le braccia. – Cos’hai che non va?
  • Io, è solo che-
  • Se dovevo essere il tuo passatempo, potevi risparmiartelo! – quasi urlava.
Edward 2, Marina1.
Edward fece un passo indietro, quasi intimorito dal suo tono di voce: l’aveva combinata grossa e lei doveva farglielo capire. Doveva rendere chiaro che non era disposta a giocare a quel gioco.
  • Non sei un passatempo! – rispose lui, tornando verso di lei. La voce decisa, come non l’aveva mai sentita.
Edward 3, Marina 1.
  • Allora perché non riesco a capire cosa…cosa provi? – Marina sentì di nuovo quel dolore al cuore, mentre gli poneva quella domanda.
Ed era in piedi davanti a lei, pallido e spaventato da quella discussione, ma fino a quel momento non si era tirato indietro. Era felice di questo, anche se continuava a non capire cosa si insinuasse nel suo cuore.
  • Ti chiedo scusa – disse lui, abbassando il tono. – è solo colpa mia. Non… - e distolse lo sguardo da lei. - …non riuscivo a chiarire delle cose con me stesso e non volevo, ecco…fare qualcosa di sbagliato. Cioè- - disse subito, allarmato dallo sguardo di Marina – non fraintendermi, io…AH!
Si voltò dall’altra parte, esasperato. Non aveva mai fatto un discorso del genere e si sentiva più imbarazzato di un adolescente al suo primo appuntamento. Espirò, passandosi le mani nei capelli e continuò a parlare, ma senza guardarla.
  • Io volevo…baciarti, ma…non sapevo ancora cosa provavo per te.
Edward 4, Marina 1.
Il silenzio riempì l’aria per interminabili secondi, durante i quali il cervello di Marina lavorava senza sosta. Edward era sincero, ma fu sorprendente: mai e poi mai si sarebbe aspettata di poter sentire certe parole uscire dalla sua bocca. Cosa gli era capitato quella notte? Intanto, il suo cuore sembrava scaricare nel suo stomaco il peso che aveva sostenuto fino a pochi minuti prima, ma non era certo finita.
  • E adesso lo sai? – chiese, in tono estremamente serio, quasi rimproverandolo.
  • I-io credo di sì. – e si girò di nuovo, senza smettere di tormentarsi le mani.
  • E cosa provi, Edward? – si avvicinò a lui, senza smontare la sua espressione dura, terrorizzata dalla risposta.
Edward inspirò e si sentì mancare. Cosa? Doveva dirglielo in quel preciso momento?
La voce si bloccò in gola in modo istantaneo, mandandolo nel panico. Strabuzzò gli occhi ed aprì la bocca, cercando di contenere il rossore sulle sue guancie. Era andato del tutto in tilt, ma lei continuava a guardarlo con quegli occhi di ghiaccio.
Bastarono pochi secondi per farla stancare: era proprio quello il problema tra loro, non riuscivano a dirsi le cose importanti e se Edward non avesse avuto il coraggio di dirle cosa provasse o quantomeno di capirlo, allora quella storia non poteva funzionare.
Una volta aveva letto un libro in cui il protagonista diceva ad una ragazza che quando ci chiediamo se amiamo qualcuno, abbiamo già la risposta (L’ombra del vento – Carlos Ruiz Zafòn) e se Edward non sapeva rispondere allora, evidentemente, non l’amava.
Sentì le prime lacrime pizzicarle gli occhi, mentre si perdeva nel suo fare vago. Non riuscì a sopportare un secondo di più e si voltò, andandosene senza preavviso.
Strizzò gli occhi cercando di non piangere.
Ed sussultò a quel suo movimento e quando lei gli voltò le spalle, il cuore gli scese fino allo stomaco per la paura e tese una mano verso di lei, ma senza riuscire a pronunciare alcuna parola. Cazzo, Marina se ne stava andando!
Doveva fare qualcosa, doveva dire qualcosa. Non poteva mandare tutto all’aria a causa della sua goffaggine, non avrebbe avuto il coraggio di fare di nuovo quel discorso.
Lei era sempre più lontana.
Cercando di sciogliersi la lingua, cominciò a correrle dietro.
  • Marina! – la chiamò, ma invano. – Marina!
Sembrava non volerlo ascoltare, ma non poteva andarsene senza averglielo chiesto.
  • Ti prego, fermati! – provò ancora, ma lei continuò a camminare. – Oh, insomma… - disse, fermandosi in mezzo alla neve. - …vuoi uscire con me?
Lo aveva urlato con tutto il fiato che aveva nei polmoni e lei finalmente si fermò, rimanendo ferma e di spalle.
Non poteva credere di aver avuto il coraggio di chiederle di uscire, infondo lei era la sua migliore amica…giusto? Fremette, attendendo una reazione. Strinse i pugni in modo convulso.
Lentamente, lei si girò.
  • Davvero? – disse, genuinamente incredula.
Ecco, i suoi occhi lo fecero bloccare di nuovo, ma annuì ripetutamente, stringendo le labbra. Il rossore cominciò a coprirle le guancie e riuscì a notarlo maggiormente grazie alla neve che la circondava.
D’un tratto, Marina prese a camminare verso di lui, sfilando le mani dalle tasche, il viso ancora sconvolto. Si fermò a pochi centimetri da lui, guardandolo negli occhi.
  • Sul serio? – chiese ancora.
  • S-sul serio. – riuscì infine a dire.
  • Quando? – sembrava impaziente.
  • B-beh, io domani non devo lavorare, così…
  • Va bene. – annuì lei, ma senza cambiare espressione.
Ed la guardò negli occhi, tentando di capire a cosa stesse pensando, ma le sue azioni lo rendevano solo più confuso e preoccupato. Sentendo il silenzio troppo pregnante, si mosse sulle gambe, cercando la cosa giusta da fare, le parole giuste da dire per far capire a Marina che voleva impegnarsi, ma senza correre. Era ancora spaventato a morte, ma per lei…lo avrebbe fatto. Con calma.
In realtà Marina il giorno dopo avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno e il capodanno con i suoi genitori, ma non si sarebbe persa quella serata per nulla al mondo. Edward l’aveva appena invitata ad un appuntamento. Sognava quel momento da quando l’aveva conosciuto ed ora non riusciva nemmeno a sorridere.
  • S-stai bene? – chiese lui, cercando di nascondere il suo rossore.
  • Sì, scusa… - rispose lei, cercando di liberare definitivamente quell’emozione.
  • D-domani è il tuo compleanno, ma…non credo di poterti portare in un ristorante, quindi…
Il cuore di Marina si sciolse in un mare di miele leggendo nei suoi occhi il sincero dispiacere nel non poterle offrire una cena. Fu allora che le sue labbra si incurvarono.
  • Non fa niente, mi va bene anche così. – gli disse, posando una mano sul suo braccio. Lui la guardò per qualche secondo prima di parlare.
  • Mi sto impegnando. – rispose poi, prendendole la mano. Si perse nei suoi occhi verdi, di nuovo luminosi e lei annuì.
Le loro mani erano coperte dai guanti, ma il tocco di Edward era delicato proprio come quando poteva sentire il calore della sua pelle. Avrebbe voluto dirgli che un po’ era dispiaciuta, ma non lo fece: lui aveva bisogno anche di quello, di trovare il coraggio di affrontare i problemi. Non era pentita della sua sfuriata, perché grazie a quella ora sapeva che nel suo animo era in atto una rivoluzione. Per lei.
Non poteva desiderare regalo migliore per il suo compleanno: vedere Edward che tornava a vivere.
 
Quando l’aveva lasciata sotto casa, dovette rifiutare il suo invito a pranzo. In realtà avrebbe voluto restare con lei e godersi quelle labbra che alla fine non aveva più sfiorato, ma doveva organizzare ogni cosa per il giorno successivo.
Il suo primo pensiero fu quello di fare la spesa, avendo in mente di fare proprio come a Natale: avrebbe lasciato tutto pronto e avrebbe detto di dover andare al lavoro. Camminò per il supermercato col sorriso sul volto, nonostante il dolore che sentiva alla mascella e alla tempia, ma era troppo elettrizzato dalla piega che stavano prendendo le cose. In un certo senso era fiero di se stesso, aveva segnato un traguardo a cui non si aspettava di giungere e aveva spuntato altre due voci dalla sua lista riguardante Marina. Lasciato il supermercato, gli restava solo da attuare la sua idea e chiedere a Pit di aiutarlo.
Quando lo chiamò e gli chiese di usare il locale per capodanno, lui rifiutò, ma quando gli disse che fosse per Marina, quello rise – come sapeva fare lui – e lo rimproverò di non averglielo detto prima. Sapeva di poter contare su di lui, gli erano tutti affezionati e lui non era da meno: l’Hawking era diventata una sorta di casa.
Sembrò andare tutto bene anche quando passò all’internet point per cercare il nome di qualche avvocato a cui rivolgersi per salvare la sua casa dalle grinfie di Ben, ma quando tornò a casa si rese conto che non poteva essere tutto così bello. Quella giornata stava andando nel verso giusto da troppe ore.
  • Trecentomila sterline?!
  • Sì, signor Storm, trecentomila. Non di più.
  • Beh, mi sembra più che sufficiente signor Bingley.
Si sentì mancare e sperò di aver capito male, ma era inutile cercare di fuggire dalla realtà.
  • Se desidera avviare la vendita deve compilare questo modulo e consegnarlo personalmente al comune, insieme al suo avv-
  • SCUSI signor Bingley, mi sembra di aver sentito la porta.
Sobbalzò, capendo che Ben l’avesse sentito, così dissimulò e disse un ‘Sono tornato’ un po’ troppo marcato e si fece avanti. Quando potè guardare nel salotto, Ben era già in piedi e Bingley lo fissava. Alternò lo sguardo tra Ben e il tavolo, finchè Ben non lo guardò in modo così truce da fargli mancare l’aria.
  • C-con permesso. – disse con un filo di voce.
  • Figurati, ragazzo. – disse il signore con un tono piuttosto eloquente.
Lo guardò negli occhi per un secondo ancora e poi andò via, lasciando che Ben chiudesse la porta, isolandolo dalla verità.
Ma tanto aveva capito cosa stesse accadendo: Ben stava per vendere la casa.
Entrò in cucina e posò le buste sul tavolo, cercando di riprendersi, ma il pensiero che ogni suo sforzo stesse per diventare vano, gli bloccava i pensieri e il respiro.
La casa per cui suo nonno aveva lavorato una vita intera stava per cadere nelle mani di quel pazzo. Con le mani sul tavolo e il cappotto ancora addosso, cercò nella sua testa di trovare un ordine agli eventi e cercare una soluzione, un modo che gli permettesse di rallentarlo, ma a causa di quel maledetto documento falso non poteva fare niente. Forse poteva parlare col signor Bingley? Forse lui avrebbe potuto aiutarlo…e se non gli avesse creduto? E se lo avesse detto a Ben?
No, non poteva correre quel rischio, se Ben avesse saputo sarebbe stata la fine di tutto, poteva anche considerarsi spacciato.
Calma, Ed. Pensa.
Senza riuscire a star fermo, prese il telefono e scrisse un sms a Marina.
| Ben sta per vendere la casa! |
Lo gettò sul tavolo, cominciando a sistemare la spesa, riportando la mente ai numeri di telefono che aveva segnato sull’agenda poco prima e ai soldi presenti sul conto in banca. Non ce l’avrebbe mai fatta a pagare un avvocato, ma come avrebbe fatto da solo?
Esagitato, si poggiò sul bordo del lavello, cercando si calmarsi. Doveva chiedere un prestito?
Bip bip.
Corse al cellulare.
| Come? Ha già ufficializzato la cosa? |
| Credo che stia firmando adesso i moduli, poi dovrà consegnarli al comune con Foster! |
Terminò di sistemare il cibo, poi salì in camera sua, senza pranzare. Gli si era chiuso lo stomaco. Non appena fu in camera, controllò che il testamento fosse ancora nel suo nascondiglio, poi si accomodò sul letto, stanco dopo la notte insonne.
Bip bip.
| Allora abbiamo ancora tempo. Gli uffici comunali sono aperti solo di mattina e domani e dopodomani saranno fuori uso. Edward, devi rivolgerti ad un avvocato. |
| Lo so, spero solo che vada tutto bene. |
Evitò di menzionare i soldi o lo sconforto più totale, non voleva risultare pesante, ma poi lei rispose e sembrò che ogni cosa fosse già più facile.
| Io sono qui. :) |
Sorrise e si coprì gli occhi, ricordando di avere un appuntamento con lei l’indomani e non vedeva l’ora di andare a trovare sua nonna per raccontarglielo, era sicuro che ne sarebbe stata felice.
E a proposito di Marina, sentì i passi di Jef dirigersi verso il bagno e poi il rumore della porta che si chiudeva. Non si era dimenticato di quel bastardo e di quello che aveva fatto. Dimenticò di rispondere a Marina e si alzò, vedendo ogni cosa sempre più nera intorno a lui.
Aprì la porta ed uscì dalla sua stanza, cercando di non fare alcun rumore, poi strisciò fino a quella di Jef e ci entrò. Lo attese in piedi, cercando di trovare un modo di contenere i danni, per non farlo fiatare, poi lui entrò.
  • Cosa cazzo ci fai qui? – sbottò quello, spalancando le braccia.
  • Se dici un’altra parola, Jef, giuro che scendo giù e dico a tuo padre che fine hanno fatto i suoi soldi.
Jef sbiancò e Ed sentì un certo potere tra le mani, che non faceva altro che rendere la sua rabbia più facile da provare. Lui e suo padre gli avevano rovinato gli anni più belli della sua vita e non avrebbe permesso che facessero lo stesso con Marina. Quindi, con lo sguardo scuro, quasi troppo lontano dalla ragionevolezza, si avvicinò a lui e gli afferrò il collo della felpa nera con tutta calma, guardandolo negli occhi.
  • Prova a toccare di nuovo Marina e sei un uomo morto. – quasi sussurrò, ma dentro di sé ringhiava.
  • Cosa cazzo ti importa di quella troia, Sheeran? Vuoi scopartela per primo?
  • Allora non hai capito. – disse, strattonandolo. – Tocca Marina e sei morto.
  • E cosa vorresti fare, sentiamo? – gli rise in faccia, ma era chiaro che fosse nervoso. – Quella è solo una puttana, farai meglio a scordartela!
Non ci vide più e gli mollò un cazzotto con tutta la forza che aveva, facendolo finire contro il muro. Jef gemette, ma tornò a ridere poco dopo con l’aria di un pazzo.
  • Prova ancora a ridere, Jef – quasi urlava, ormai – e mi darai il piacere di ripresentarti l’uomo che ti fornisce la roba! – Jef si ammutolì, non credendo che Ed conoscesse il capo dei capi. – Ho avuto modo di conoscerlo il giorno che non gli hai restituito i suoi documenti e andarlo a cercare sarà un piacere, credimi.
La sua minaccia stava sortendo l’effetto desiderato, lo aveva spaventato abbastanza da farlo sobbalzare ad ogni movimento delle sue mani.
  • Te lo dico per l’ultima volta: lascia stare Marina. – gli soffiò sul viso.
Attese che lui recepisse il messaggio, poi andò via, richiudendosi la porta alle spalle.
Gettò fuori tutta l’aria che stava trattenendo, ringraziando chiunque lo proteggesse che Jef non avesse trovato alcun modo di ribattere alle sue minacce.
Poco dopo stava immergendo la mano nell’acqua gelida per far passare il dolore causato dal pugno che gli aveva sferrato e ripensò a tutte le cose che doveva fare. Il giorno dopo avrebbe festeggiato con Marina, il primo dell’anno sperava di trascorrerlo con lei, anche se doveva ancora chiederglielo e poi, finalmente, il 2 Gennaio sarebbe andato da un avvocato e poi in banca, a chiedere un prestito. Era l’unico modo che aveva per riavere la casa.
Pochi minuti dopo, si preparava per andare al lavoro al bar, ma non riuscì a smettere di pensare che dinanzi a lui si prospettava un periodo difficile.
Quando avrebbe fatto causa a Ben, avrebbe vissuto nella stessa casa con l’uomo che l’avrebbe voluto definitivamente morto.




Angolo autrice:

Ebbene sì, un momento delicato, vero?
Vi ringrazio per le visite e le recensioni, siete bellissimi, tutti.
Per quanto riguarda questo capitolo, spero vi sia piaciuto e che gli avvenimenti non siano scontati. Soprattutto, spero si percepisca quanto coraggio debba trovare Ed per parlare con Marina e quanto sia cambiato dal primo capitolo. Fatemi sapere cosa ne pensate. :)
Il prossimo capitolo è molto importante, secondo me, per la storia - sia da un punto di vista narrativo che psicologico. Non perdetevelo! :)
Grazie, grazie e grazie ancora. :)
A presto!

S.


Bonus: Edward, visto dagli occhi di Marina, nella sua contorta personalità, le due visioni che ha di lui: il lato complesso e attraente e quello semplice e limpido.


   

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Capitolo 28
*** XXVIII ***








XXVIII





Non si era accorto che Jef fosse uscito, la sera prima, e tantomeno si era accorto che non fosse rientrato. Era convinto che stesse ancora dormendo e invece eccolo lì, nell’ingresso, completamente storpiato.
Non capiva cosa gli fosse accaduto, poi quando il suo fratellastro lo guardò con sguardo truce, comprese: Jef era stato con Tyler e il suo capo, ne era sicuro.
Non riusciva a dire niente, mentre osservava il suo viso gonfio e gli occhi pesti, la pelle pallida in netto contrasto con il cappotto e i capelli neri e si chiese se fosse così che la gente lo vedeva.
Si riscosse dalla sua contemplazione quando Ben riemerse dal salotto. Oh no. Quella situazione non prometteva niente di buono.
  • Cristo, Jef, cosa hai combinato? – chiese Ben a suo figlio, squadrandolo.
  • Indovina, papà.
Ed osservava la scena come se fosse un mero spettatore al cinema, del tutto estraneo alla vicenda, ma ben presto fu coinvolto. Anche più di quanto si aspettasse.
  • La colpa è sua! – Jef lo indicò, alzando la voce. – Si è immischiato nei miei affari e ha fatto un casino!
Ecco fatto. Era morto.
Ben puntò gli occhi su di lui e già riusciva a vederli diventare rossi, mentre Jef scaricava la colpa su di lui. Lo guardò in faccia, senza espressione e trovò sul suo viso tutta l’intenzione di fare ciò che stava facendo, di vendicarsi per tutta quella storia e sicuramente per la minaccia che gli aveva fatto il giorno prima. Maledetto.
  • Io ti ammazzo! – ringhiò Ben, prendendo la rincorsa.
Il suo istinto di sopravvivenza si attivò, ma la paura cominciava ad impossessarsi di lui, limitando i suoi movimenti. Cominciò a correre su per le scale, unica via di fuga, riuscendo ad arrivare in cima.
Era inutile cercare di parlare, soprattutto perché stavolta aveva davvero a che fare con quella storia. Se avesse aperto bocca, avrebbe soltanto peggiorato le cose, così dovette mordersi la lingua e cercare di svoltare verso la sua camera senza scivolare sul legno, ma scivolò sul tappeto.
Perse il controllo e cadde a terra e voltandosi indietro vide subito Ben fiondarsi su di lui. Sappiamo tutti benissimo cosa accadde dopo e come se non bastasse, Ben aveva bevuto e questo significava che non avrebbe smesso di colpirlo fino a che non gli fosse passata la voglia.
Quando si fu stancato di stare cavalcioni su di lui, lo tirò su, alzandolo del tutto da terra e lo gettò contrò il muro del corridoio – mossa degna di un lottatore. Da quel momento, ogni cosa divenne buia e Ed perse conoscenza.
 
Non si pentiva affatto di quello che aveva fatto, nemmeno svegliandosi completamente distrutto. Aveva messo al sicuro Marina ed era quello che contava: lo avrebbe fatto di nuovo e lo avrebbe fatto anche prima.
Tuttavia, quella avrebbe dovuto essere la sua giornata. Aveva un appuntamento con lei e voleva che quella fosse una mattinata serena, invece era accasciato per terra, completamente sporco di sangue e privo di qualsiasi motivazione per vivere ancora quella vita. Certo, Marina era un’ottima motivazione, ma…di quel passo, Ben lo avrebbe ucciso e lui non avrebbe avuto alcuna seconda chance di vivere quella vita, troppo impegnato a sopravvivere.
Cercò di alzarsi, ma il dolore alla testa era così forte che quasi non riusciva a stare seduto. Respirò a fondo, cercando di moderare il battito e far sparire i capogiri. Quando riuscì a distinguere i numeri sul suo orologio, erano le 17:30 ed era in forte ritardo. Si avvicinò alla ringhiera strisciando, ripromettendosi di far sparire quel tappeto, poi si aggrappò e si tirò su. Il silenzio che dominava la casa lo assicurò del fatto che Ben e Jef fossero usciti. Dio ti ringrazio.
Più sereno, si diresse in camera sua, dritto al bagno. Quando aprì la porta, lo specchio gli restituì un’immagine orribile. Era così che lo avrebbe visto Marina al loro appuntamento? Il labbro gonfio e il sangue che gli macchiava il viso e il collo, si abbinavano perfettamente al suo viso multicolor. Provò vergogna per se stesso.
Con che coraggio avrebbe passeggiato per strada con lei? L’avrebbe messa in imbarazzo e si sarebbe sentita a disagio a girare con lui. Non poteva portarla a cena, non aveva un’auto, né soldi, né altro, tutto ciò che poteva offrirle era riflesso in quello specchio e non sarebbe mai stato abbastanza.
Sentì un groppo formarsi alla gola e gli occhi inumidirsi, mentre si guardava e si chiedeva cos’era quella cosa che vedeva. Un tizio con i capelli rossi, gli occhi piccoli, niente di che rispetto alla piazza e per di più, pieno di lividi. Cosa avrebbe mai potuto amare Marina in lui? Si era ridotto ad una bestia.
Una lacrima gli segnò il viso.
Si spogliò e sperò che l’acqua lavasse via ogni traccia, ma più la sentiva scorrere addosso, più sembrava scavare nelle sue cicatrici. Le lacrime si confusero con le altre gocce, nel vapore del bagno.
Con l’accappatoio addosso, andò a recuperare il suo cellulare per avvertire Nathan che avrebbe fatto tardi al loro appuntamento, ma quando sbloccò il cellulare, i messaggi e le chiamate di Marina affollarono la schermata.
| A che ora passi a prendermi? |
| Edward, tutto bene? |
| Sto cominciando a preoccuparmi, dove sei? |
| Ti prego, appena leggi gli sms richiamami, sono in pensiero. |
| Edward, ti prego, rispondi. |
Era davvero così preoccupata? Era davvero così…affezionata?
Cominciò a digitare la sua risposta, riflettendo su quanto profondo fosse il sentimento che lo legava a lei, abbastanza da farlo intenerire come un bambino leggendo quei messaggi. Gli era sempre sembrato che lei volesse proteggerlo da ogni cosa, fin dall’inizio ed anche ora riusciva ad immaginare la sua espressione tesa.
I suoi occhi divennero nuovamente lucidi e si portò una mano al viso: cosa aveva fatto per meritarla?
| Scusami, non avevo il cellulare con me. Passo a prenderti alle 21.00. Ti chiedo scusa da subito se sarò conciato male. Perdonami. |
Lasciò il cellulare sul letto e si dette una mossa. Cercò di fare del suo meglio per migliorare la situazione, tra ghiaccio e medicinali, ma di certo non uscì di casa con l’aspetto di un gentiluomo. Aveva indossato qualcosa di più nuovo, aveva cambiato scarpe e cappotto, ma indossò sempre la stessa maschera e la portò con disinvoltura per le vie della città, nascondendo un grande sconforto dietro di essa. Quello scontro con Ben lo aveva psicologicamente distrutto.
Pedalò fino all’Hawking, dove Nathan lo aspettava seduto sotto la veranda. Suonò il campanello della bici e lo fece voltare. Il suo ciuffo troppo lungo si mosse con lui e sorrise quando lo vide.
  • Vedo che sei sempre in forma. – cercò immediatamente di sdrammatizzare, leggendo sul volto di Ed un’ombra più scura del solito. – Ma chi ti concia così? Vai a fare i combattimenti clandestini?
  • No, Nathan, sono campione del mondo di box, non lo sapevi? – accennò un mezzo sorriso e prese le chiavi dalle sue mani.
Nathan lo guardò, troppo serio tutto d’un tratto. Non riuscì a sostenere il suo sguardo, perché il suo amico aveva capito cosa stesse succedendo e – proprio come Marina – non poteva accettarlo.
  • Sai, dovresti mettere fine a questa storia. – gli disse. – Andartene da qui.
  • Se avessi potuto farlo, sarei già andato via da parecchio. – disse, con tono deciso. Si era sentito dire troppe volte quella cosa sul fuggire e ogni volta avrebbe voluto dire che si sbagliavano, che non era quella la cosa giusta da fare.
  • Va bene, non insisto. Allora… - riprese a guadarlo col suo sguardo da malandrino, facendolo arrossire. – Un appuntamento con Marina, eh? Furbacchione! – e scoppiò a ridere.
  • E-eh già. – disse, sprofondando nell’imbarazzo, nonostante la confidenza che aveva acquisito con lui.
  • Mentre noi ci chiedevamo quando sareste finiti insieme, voi stavate già operando alle nostre spalle…non vale! – gli puntò il dito contro, scherzando. – Avevamo aperto un banco scommesse!
Ed rise, sentendosi frastornato: tutti si erano accorti di lui e Marina ancora prima che lo capissero loro stessi. La gente era strana, lo sapeva, ma Nathan batteva tutti.
  • Mi raccomando, chiudi bene quando uscite e non fate niente sui tavoli! – continuò a prenderlo in giro, poi gli diede una manata sulla spalla, facendolo esitare un attimo per il dolore, e lo salutò. – Usate le precauzioni e augura buon anno a Marina da parte mia.
  • Nathan!! – lo rimproverò, arrossendo.
  • Oh, avanti, non fai altro che mangiartela con gli occhi! – si avviò lungo la strada. – Buon anno, Ed e buona fortuna!
  • Anche a te, Nathan. – rispose, ricambiando il saluto con la mano.
Quel ragazzo lo aveva sempre lasciato perplesso, ma gli piaceva la sua compagnia. Gli ricordava molto il suo migliore amico alle elementari, Josh, aveva lo stesso modo di fare. Prese un sospiro, entrando nel locale, e ringraziò mentalmente Nathan per averlo aiutato a distrarsi dallo stato depressivo in cui si era presentato. Il locale buio era a sua completa disposizione. Era ora di mettersi all’opera.
 
  • Ciao, nonna! – disse, cercando di sorridere.
  • Mio Dio, Edward…cosa ti è capitato?
Beh, sai nonna, ultimamente Ben ha deciso di riprendere gli allenamenti.
Si dispiacque di essersi presentato così, ma Evangeline ci sarebbe rimasta male se non fosse passato a salutarla. Notò che fosse molto stanca.
  • Sta tranquilla, nonna. – disse, sedendosi accanto a lei. – Sto cercando di mettere fine alla cosa.
  • Tesoro, come posso stare tranquilla? Ah! – sospirò lei, carezzandolo.
In quella carezza risentì quella di sua madre e chiuse gli occhi, beandosi dell’amore di sua nonna.
Le raccontò delle ultime novità, ma solo perché lei insisteva e perché quella era anche casa sua. Non la prese molto bene, ma riuscì a distrarla con qualcosa di meglio.
  • Ho un appuntamento con Marina. – disse, abbassando lo sguardo.
  • Davvero? – quasi esultò la vecchia. – Sapevo che ti piaceva, eri l’unico a non averlo capito! E poi lei è completamente cotta, non vede che te. – il suo tono era malizioso e divertito.
  • Nonna, non esagerare. – la rimproverò.
  • Ma è vero! A Natale non ha fatto altro che mangiarti con gli occhi. – disse soddisfatta.
Non le raccontò del piccolo dettaglio del loro bacio, altrimenti lo avrebbe ucciso, e poi era troppo timido per arrivare a tanto. Lasciò che si divertisse a ipotizzare la loro futura vita matrimoniale, scelse anche il nome del loro primo figlio, Henry. Come suo nonno. Restò con lei fino alla fine, per poi darle un bacio e salutarla.
  • Mi raccomando, Edward – cominciò. – Sta tranquillo, sei un ragazzo in gamba e sii te stesso. Credo proprio che sia di questo che Marina si sia innamorata.
  • Nonna…
  • Oh, lo è, fidati. Lasciati andare, tesoro…goditi questa piccola gioia che ti ha dato la vita. – sorrise, cercando di dissimulare la sua commozione. – Sei un bravo ragazzo e te lo meriti.
La abbracciò ancora, sentendo la sua stretta più forte delle altre volte.
  • Ti voglio bene, nonna. – chiuse gli occhi.
  • Anche io, tesoro. Sei la mia grande fortuna. – lo carezzò. – Ma adesso va o farai tardi.
Prima di uscire dalla stanza, la guardò ancora e ricambiò il suo sorriso. Quella donna era la sua famiglia.
 
A qualche chilometro da lì, Marina era assolutamente disperata. Ovviamente, non sapeva quale dei suoi abitini scegliere. In realtà, sapeva benissimo che non sarebbero andati in un ristorante e che Ed non avrebbe di certo messo uno smoking, quindi aveva tenuto in considerazione una tenuta piuttosto informale, ma diamine…quello era il loro primo appuntamento! Ed oltre a quello, era capodanno ed era il suo compleanno.
Aveva avvertito sua madre quella mattina che sarebbe mancata alla tradizionale cena di famiglia e lei, chissà come, aveva capito immediatamente che dovesse uscire con qualcuno, ma la pregò di non dire niente a Daniel o avrebbe passato la serata col muso lungo.
Per fortuna sua madre era sempre stata una buona amica, ma non le avrebbe mai raccontato i dettagli della sua uscita, come lei invece desiderava. In ogni caso, Jody aveva dato di matto alla notizia: era felice e nervosa allo stesso tempo perché “lui è lunatico, potrebbe cambiare idea, però diavolo, ti ha invitato! Vai, sorella!”.
Fissò i vestiti sparsi sul letto, cercando di non mangiarsi le unghie appena laccate, poi il campanile la fece sobbalzare. Erano le 20:45 e Edward stava arrivando. Il nervosismo la avvolse completamente e finì per optare per l’abito più semplice che aveva, grigio, a maglia. Perlomeno le stava bene e non dava troppo nell’occhio.
Si fiondò nel bagno, cercando di darsi un tono, ma non si vedeva mai abbastanza carina per lui. La sua altezza la faceva sentire una ragazzina più che una donna.
Riordinò la stanza alla buona, il necessario per…cioè, sapete, poteva capitare qualsiasi cosa e non appena terminò di infilare gli abiti nell’armadio, sentì il campanello di Edward trillare dalla strada. Prese il suo cappotto bianco e si fiondò fuori, cominciando a ripetersi di stare calma. Era il loro primo appuntamento e non era mai stata così agitata nemmeno da adolescente. Le tremavano le gambe mentre scendeva le scale e con la mano sulla maniglia del portone, prese un lungo respiro: andrà tutto bene. Tirò ed eccolo lì, in piedi, con le mani in tasca, ma si immobilizzò: l’aveva avvertita, ma non era mai pronta a quello spettacolo. Di quel passo, Ben lo avrebbe ucciso.
Non riuscì a fingere un sorriso, anzi, le sue labbra erano pendenti e tremolanti. Si avvicinò a lui e lo abbracciò, senza dire niente. Lo strinse forte come non aveva mai fatto.
  • Ciao. – disse lui, cercando di rompere il ghiaccio, ma in realtà avrebbe voluto fermare il tempo.
Marina tirò su col naso, mentre sprofondava nel suo petto e non riusciva ad aprir bocca. Non ne poteva più di vederlo in quello stato.
  • Buon compleanno. – Ed le carezzò la testa, senza allentare la stretta.
Quando finalmente Marina ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi, non si curò di cancellare le lacrime o di ignorare quella tristezza che sentiva, nonostante la contentezza che avrebbe dovuto provare.
  • Grazie. – disse, poi gli sfiorò il viso e lui non si allontanò.
  • Scusa. – disse lui, più rassegnato degli altri giorni.
  • Non ci voglio pensare. – rispose, scostandosi un po’ da lui.
  • Nemmeno io. Andiamo?
Scosse la testa in segno di assenso, seguendolo verso la bici. Lasciò che montasse, per poi raggiungerlo, accostandosi a lui con una certa dimestichezza. Col viso così vicino al suo, potè osservare meglio le sue lividure e desiderò ardentemente prendersi cura di lui. Le sue labbra richiedevano i suoi baci e dovette sforzarsi per non cedere alla tentazione. Aggrappata al suo cappotto, cercò di capire dove fossero diretti e con sua grande sorpresa si fermarono fuori all’Hawking Pub, chiuso e buio in quel giorno di festa. Le strade erano deserte, probabilmente erano tutti riuniti nelle case e nei ristoranti a cenare.
Era proprio vero, Edward stava accostando fuori al loro posto di lavoro e la stava invitando a scendere dalla bici. Lo guardò confusa, in attesa di una spiegazione che non arrivò: lui prese la sua mano e la guidò su per le scale, fino all’ingresso. Tirò fuori una chiave dalla tasca – Ed stava diventando l’uomo delle chiavi – ed aprì la porta. La trascinò dentro, senza dire una parola. Si comportava in modo strano. La lasciò lì, sola, allontanandosi verso l’interno e lei a stento riusciva a distinguere la sua figura nel buio, ma poi la luce di un accendino rischiarò la stanza e lo vide accendere due candele su un tavolo apparecchiato.
Spalancò la bocca, prima di avvicinarsi a lui ad un suo gesto. Lui si sfilò il cappotto, per poi aiutarla a togliere il suo. Marina fissava ancora il tavolo, alternando lo sguardo tra lui e le candele. Anche nel buio riuscì a vedere le sue gote rosse e si sciolse, immaginandolo intento a preparare quella sorpresa. Aveva fatto tutto quello per lei.
  • Allora, vuole accomodarsi? – disse lui, quasi ridendo dinanzi alla sua reazione.
  • Hai fatto tutto tu? – lui annuì, invitandola di nuovo a sedersi.
  • Aspetta qui. – disse e poi si allontanò.
Chi era quello e cosa ne aveva fatto del suo Edward? Una volta rimasta sola, si portò le mani a viso, sentendolo in fiamme. Doveva essere tremendamente arrossita e la sua espressione doveva essere molto buffa per farlo addirittura ridere. Oddio, oddio, tutta l’ansia stava tornando a farla agitare. Si era fatto prestare il locale da Pit ed ora era probabilmente in cucina. Marina si guardò intorno, seduta sul divanetto, vedendo quella sala da un punto di vista diverso per la prima volta. Si sentì fortunata, avvolta nel suo vestito e illuminata da due candele. Stava ancora metabolizzando il presente quando Ed tornò con due grandi piatti. Li posò sul tavolo con la grazia di un cameriere professionista, per poi sedersi accanto a lei. Per un attimo rimase fermo, probabilmente litigando col suo cervello per decidere cosa fare, poi finalmente prese la birra e gliela versò nel bicchiere. Erano così vicini che a stento riusciva a mantenere il controllo.
  • Buon ventiquattresimo compleanno. – disse, alzando il suo bicchiere.
  • Mi fai sentire vecchia. – rispose, sdrammatizzando.
  • Ma tu sei più vecchia di me, di un mese e mezzo. – e urtò il suo bicchiere.
  • Lo sai che non si dicono queste cose ad una signora? – lo rimproverò benevolmente, prendendo un sorso di birra.
Cominciarono a mangiare con più naturalezza, dato che era qualcosa che facevano spesso insieme, ma quell’elettricità dovuta alla parola “appuntamento” non svanì mai dall’aria. Edward aveva preparato il piatto migliore della casa e l’aveva messo in caldo e per fortuna le verdure non si erano scotte. La osservò attentamente, notando quanto fosse diversa dagli altri giorni. Che si fosse agghindata per lui? Davvero?
  • Sai, Edward, ti sta molto bene questo maglione. – tentò lei, cercando di avviare una conversazione.
  • O-oh grazie, a-anche tu stai molto bene. – rispose, ma guardando dritto nel suo piatto.
Sii te stesso.
  • Cioè – aggiunse, cercando di calmare la balbuzie – sei molto bella.
Beh, era sincero ed era sicuro che a lei facesse piacere sentirlo, infatti quando la guardò, il suo viso era decorato di un dolce sorriso.
  • Grazie, sei…molto gentile. – la sua voce era quasi un soffio, ma era ammaliante come quella di una sirena. – Mi hai fatto una bellissima sorpresa.
  • È il tuo compleanno, no? Era il minimo che potessi fare.
  • Credo – disse, guardandolo negli occhi. – che forse sia anche troppo, Edward. Non dovevi disturbarti fino a questo punto.
  • No, io…l’ho fatto perché mi andava. – ammise.
Quella sera Marina aveva una luce diversa negli occhi, forse erano i capelli, forse il vestito, forse il trucco, ma era così bello farsi illuminare dal suo sguardo. Non lo guardava con pietà, né con giudizio, sentiva che Marina lo guardava senza filtri e riusciva a vedere oltre la sua maschera, dritto nella sua anima.
  • La nonna era contenta che…ti avessi invitato. Ha deciso che nostro figlio debba chiamarsi Henry. – rise, suscitando la sua attenzione e il suo sorriso.
  • Tua nonna è il mio mito, a Natale ha rischiato di far venire un infarto a mio padre.
Ogni parte del loro discorso li ricondusse ad un ricordo specifico, in cui erano protagonisti entrambi. Era la prima volta che parlavano del loro passato insieme in quel modo, vedendo le cose da un nuovo punto di vista, ma quella sera stavano attuando un’ulteriore trasformazione. Le loro mani continuarono a sfiorarsi, troppo vicini per evitare il contatto, ma di quel passo i loro cuori sarebbero scoppiati. C’era stato un momento in cui Ed si era incantato a guardarla, mentre assaggiava il dolce: le sue labbra premevano sul cucchiaino e si ricordò di quanto fossero morbide.
Marina, sentendo i suoi occhi cuciti addosso, non potè fare a meno di ricordare quella domenica. Eppure, ciò che distinse di più quella giornata dalle altre, fu il loro modo di parlarsi: c’era una nuova disinvoltura nel raccontarsi qualcosa o nel semplice chiacchierare, che faceva uscire fuori un lato di Edward che non aveva mai visto. Era simpatico e sciocco, curioso e schivo, i suoi occhi erano penetranti e poi spensierati. Si convinse che quello, proprio quello, fosse il vero Edward, quello nascosto dietro il muro scheggiato che si era costruito per difendersi.
  • Sei diverso, oggi. – gli disse, sinceramente.
  • In realtà, sono molto in imbarazzo. – confessò, passandosi una mano tra i capelli.
  • No, è che… - strinse gli occhi, cercando le parole giuste per spiegarsi. - …non lo so, mi sembri proprio…tu. Non so se sono riuscita a spiegarmi.
  • Credo che sia merito tuo. – sorrise, evitando per un attimo i suoi occhi.
Marina non rispose, cercando di capire quale fosse il suo merito, ma finì per trovarlo tutto nei suoi occhi, illuminati dalla candela e splendenti come sempre. Non seppe cosa dire e si trovò intrappolata nel suo stesso silenzio, ma il braccio di Edward che si poggiava intorno alle sue spalle la salvò dall’imbarazzo. Lo guardò e lesse sul suo viso paura e serenità insieme, esattamente ciò che provava anche lei, eppure non poteva non accostarsi a lui sentendo il suo corpo, il tuo tocco, il suo calore. C’era qualcosa, in quell’abbraccio, che le altre volte non aveva sentito. C’era qualcosa nel suo sorriso che rendeva tutto più facile, più vero. Più voluto.
  • Pensavo di andare al ponte a vedere i fuochi, a mezzanotte. – le disse. – Ti va?
  • Se ci sei anche tu, sì. – disse, lasciandosi andare.
Lui rise e la strinse di più.
  • Sai, quando ci siamo incontrati la prima volta, non sapevo cosa pensare di te, credevo volessi abbordarmi. – rise ancora, a quel ricordo.
  • Già, devo esserti sembrata una pazza. – si vergognò lei.
  • Una stalker. – la corresse, ma Marina sentì un brivido a quella parola. – Eri ovunque ed io ero terrorizzato, ma sono contento che tu lo abbia fatto. – Marina lo guardò.
  • Anche io ne sono felice. – sorrise. – Pensavo che tu mi odiassi e invece ho scoperto che sei solo un orso.
Edward rise, ricordando ogni cosa come se fosse avvenuta il giorno prima. Non aveva mai accumulato tanti ricordi felici in così poco tempo, prima di allora ed era tutto grazie a Marina.
 
Una cosa che stupiva entrambi, era la naturalezza con cui si prendevano la mani, si guardavano, ridevano. Per la prima volta, Edward sentì che non si stava sforzando, che quel suo atteggiamento era sincero e spontaneo, lontano da qualsiasi logicità e calcolo. Non ebbe più bisogno di farsi un interrogatorio quando le prese la mano per arrivare semplicemente fino alla bici. Non dovette esitare nel lasciargliela per montare in sella. Non dovette preoccuparsi di guardarla o meno lungo il tragitto verso il centro. Ogni cosa che faceva, voleva semplicemente farla.
Certo, il dolore alla testa era fastidioso, ma non si era mai sentito a suo agio fino a quel punto.
Di tanto in tanto Marina arrossiva e le parole di Evangeline gli tornavano alla mente, ma non voleva dare nulla per scontato, né i suoi né i propri sentimenti.
La strada lentamente cominciava ad essere meno deserta, qualcuno era uscito a passeggiare, proprio come loro e pregò che Marina non si sentisse in imbarazzo, con lui. Non aveva dimenticato il suo aspetto.
Frenò nei pressi del fiume, lasciando la bici in un posto che conosceva bene, ma d’altronde nessuno gliel’avrebbe rubata, vecchia com’era. Non appena si voltò verso Marina, la vide con le mani nelle mani, in attesa che lui la raggiungesse. Era bella e non capiva come non se ne fosse accorto prima. Il suo sorriso gli permise di tendere la mano alla sua, sciogliendo il nodo delle sue dita, per crearne un altro con le proprie. Era una sensazione estremamente piacevole sentire le loro mani intrecciarsi. Si avviarono sul lungofiume, osservando la città illuminata che si riempiva sempre più di gente.
Marina guardava le altre coppie lungo la passeggiata e si chiese se anche loro provassero ciò che provava lei, come se quel sentimento fosse troppo grande per poter essere vero e non un semplice fuoco d’artificio che prima risplende e poi si spegne. Eppure, non riusciva a crederlo. Ciò che provava camminando mano nella mano con lui, non poteva essere passeggero. Come diceva Shakespeare?

Se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto,
e nessuno ha mai amato.

Ora che erano soli ed erano ad un appuntamento, Ed riusciva a vedere le cose con occhi diversi. Tutto d’un tratto ogni cosa era possibile, ogni ipotesi era realizzabile e si sentiva amato e ricambiato, mentre lei si accostava ancora un po’ a lui. Qualcuno li guardava, osservandoli dall’alto in basso, ma la risata di Marina faceva svanire ogni sguardo truce, ogni pregiudizio.
  • Sai, mi sono abituata alla bici. – sorrise, continuando a guardare il fiume scorrere.
  • Te l’avevo detto, no? – osservò lui.
  • Già, ma…non avrei mai detto che sarebbe successo così velocemente. – con quelle parole, e Edward lo capì, Marina non si stava riferendo solo alla scomoda posizione della bicicletta. Entrambi arrossirono, ma lui riuscì solo a sorridere, ancora incredulo, ancora convinto che quello fosse un sogno.
  • Marina… - e lei finalmente si voltò a guardarlo. - …sarò sincero: mi dispiace che tu debba camminare con me, quando sono in queste condizioni. Vorrei essere un uomo migliore.
  • Tu sei l’uomo migliore che conosca, Edward. E io non mi vergogno affatto di te. – gli strinse di più la mano.
  • Ma non sono certo un esemplare di bellezza, sai…potresti puntare a qualcosa di meglio. – rispose, inaspettatamente. – Quindi, se non ti andasse più di…ecco…
  • Edward, smettila. – rise, chiedendosi se fosse serio o se facesse finta di non accorgersi che moriva per lui.
Quella sera stavano parlando di mille cose e il petto di Marina diveniva più leggero ad ogni parola: voleva che lui sapesse, se avesse potuto gli avrebbe scritto nero su bianco ciò che sentiva in quel momento. Intravidero qualche conoscente tra la gente e Ed le indicò i suoi ex amici con una tale pacatezza d’animo, che la fece riflettere su quanto avesse dovuto lavorare sull’accettazione di quelle “perdite”. Non doveva essere stato facile e non lo era stato, infatti Edward qualche volta ci pensava ancora ai suoi amici, ma ora c’era Marina e andava tutto bene.
Raggiunsero un ponte secondario.
  • Perché non andiamo su quello principale? - chiese.
  • Perché da qui si vedono anche i fuochi più bassi, vedi?
Si appoggiarono alla ringhiera di legno e attesero, guardando l’acqua scorrere. La luna era spuntata fuori giusto in tempo, rischiarando quella notte fredda. Il fiato usciva dalle labbra di Marina formando qualche nuvoletta e qualche volta si incrociò col suo. Quando si accorse che stava tremando, la circondò e le sorrise, godendosi la sua dolcezza. Guardò l’orologio e vide che mancavano sette minuti a mezzanotte e che quindi il loro appuntamento stava volgendo al termine.
  • Che propositi hai per l’anno nuovo? – chiese lei.
  • Beh, innanzitutto mettere fine alla storia di Ben, quello è il proposito principale, anche se lo è da cinque anni. – rise, sdrammatizzando. – Dopo quello, vorrei solo vivere tranquillo.
  • Non hai sogni da realizzare?
  • Uno sì, ma ormai sembra impossibile. – Marina lo guardò, parlando con gli occhi. – Il mio sogno è sempre stato quello di diventare un musicista affermato, sai, far ascoltare la mia musica al mondo…ma chi vorrebbe sentire le mie canzoni d’amore? Sono tutte troppo personali, troppo strane.
  • Io vorrei ascoltarle.
  • Tu sei di parte. – rise, scatenando anche le sue risa.
Prima che se ne rendessero conto, la mezzanotte scattò, tutti i campanili cominciarono a suonare e il primo fuoco d’artificio gli fece alzare gli occhi al cielo.
  • Buon anno, Edward. – si drizzò e lo abbracciò. – Sono sicura che andrà tutto bene.
  • Buon anno, Marina.
Non avrebbe mai dimenticato quella serata, né le emozioni che stava provando, comunque fosse andata.
  • E quali sono i tuoi propositi? – chiese, quando tornarono a guardarsi.
Marina sembrò sorpresa da quella domanda o forse era sorpresa soltanto dalla risposta che si era data.
  • V-vuoi proprio saperlo? – chiese, dandosi già della pazza.
  • Beh, certo. – sorrise lui, sereno.
  • Il mio proposito… - era quasi incantata, fissando i suoi occhi.
Non riusciva più ad evitare il suo sguardo e il suo silenzio cominciava ad incuriosirlo. Non sapeva se stesse per fare la cosa giusta, ma sentiva quelle parole premere per uscire dalle sue labbra. Stava rischiando di perdere Edward a causa di tutta quella fretta, ma…voleva dirglielo. Era un dovere che aveva verso il suo cuore.
  • Marina? Tutto bene? – chiese lui, cominciando a preoccuparsi.
  • sei tu. – disse alla fine. – Il mio proposito sei tu.
Silenzio.
Il cuore di Edward ebbe una fitta, come se una freccia lo avesse appena trafitto, privandolo di qualsiasi facoltà: aveva smesso di pensare, aveva smesso di respirare.
Marina continuava a guardarlo e lui continuava a guardare lei e giurò di non aver mai visto un’anima più bella e più pura della sua. Perché fino a quel momento aveva pensato che amare significasse desiderare l’altro, ma Marina gli aveva appena insegnato che amare significa mettere il bene dell’altro davanti al proprio. E lui non aveva mai creduto di poter essere amato così profondamente, ma soprattutto non aveva mai pensato di poter amare altrettanto. Ora che Marina era davanti a lui, riusciva ad inquadrare la sua vita in una direzione ben precisa e alla fine di quella strada c’era lei. La sua anima si era del tutto ricomposta grazie ad una sua parola.
Non aveva le parole per risponderle, la sua voce era spenta, ma il suo cuore bruciava, mentre la guardava negli occhi e senza aspettare un secondo di più, le prese il viso tra le mani e la baciò. Senza alcun preavviso.
Finalmente quelle labbra erano di nuovo sulle sue, ma stavolta sapeva benissimo cosa stesse provando: si era perdutamente innamorato di lei.
Marina, presa di sorpresa, quasi sobbalzò sentendo le sue mani sul viso, ma non appena percepì le labbra sottili di Edward, sentì il cuore collassare. Respirò a fondo ed infilò le dita nei suoi capelli, ricambiando quel bacio. Era diverso dalla prima volta. Sentì tutta l’imponenza di quel sentimento infrangersi contro la sua anima e pregò Dio, davvero, che lui non la lasciasse mai. Lo amava, lo amava più di se stessa, nonostante i lividi, nonostante i guai. Lo amava come se fosse l’unica vera ragione per vivere e le venne da piangere.
Col cuore in gola, lasciò che qualche lacrima lasciasse i suoi occhi. Non era mai stata così felice in tutta la sua vita.
Edward la sentì quasi singhiozzare, ma non si fermò. Per un attimo giurò che stesse per cedere anche lui al pianto, ma non lo fece. Piuttosto, si lasciò andare alle sue labbra color ciliegia e alle sue mani che lo carezzavano senza sosta. La tirò più vicino a sé e la sollevò da terra, portandola alla sua altezza. Era convinto che in tutta la sua vita non avrebbe mai provato di nuovo qualcosa di così intenso, così la strinse di più e la baciò di più e la amò di più.
I fuochi d’artificio continuavano ad illuminare il cielo, ma in tutto l’universo – ci avrebbero giurato – non c’era niente  che brillasse quanto loro, quella notte.
Lentamente, la fece scivolare fino a toccare di nuovo terra. Calarono in ritmo, sfiorandosi con più delicatezza. Ed le carezzò la gota, spostandole i capelli sciolti, e quando anche lei se la sentì, fecero schioccare le labbra e riaprirono gli occhi.
Con i nasi ancora in contatto, si guardarono negli occhi e Marina gli carezzò la nuca. Bastò un attimo per tornare a sorridere, ma c’era una nuova allegria nelle loro fioche risa.
  • Scusa. – disse Marina asciugandosi una lacrima e lui scosse la testa, perdonandola istantaneamente.
Le diede un altro piccolo bacio e sorrise nel modo più sincero che sapeva, abbracciandola ancora. Il suo profumo di lavanda lo mandò ulteriormente in confusione. Per qualche secondo, rimasero in silenzio, cercando di riprendere il controllo, ma il telefono di Marina prese a squillare. Lei aggrottò lo sguardo, chiedendosi chi potesse essere, poi il nome di Jody le saltò agli occhi.
  • Ehi Jody, auguri! – disse senza aspettare, ma la voce che sentì aldilà del telefono non era quella della sua amica.
Ed capì immediatamente che qualcosa non andava ed attese che lei parlasse, ma Marina continuava ad ascoltare e a guardarlo, col viso sempre più pallido.
  • Va bene, arrivo subito. – e chiuse la telefonata.
  • Va tutto bene? – le chiese, poggiando una mano sul suo braccio.
  • Jody…ha partorito! - Ed spalancò la bocca. – Dobbiamo andare all’ospedale!
Senza aspettare un solo minuto in più, Ed le prese la mano e la guidò di nuovo fino alla bici. Trafelati, montarono in sella e si diressero direttamente all’ospedale.
  • Mi dispiace, Edward. – cominciò a dire. – Non era previsto.
  • Non ci pensare. – rispose, senza fiato per la pedalata. – Piuttosto, non sei felice?
  • Certo, sono solo frastornata, non me lo aspettavo.
Diversi chilometri più tardi, giunsero all’ospedale lei congelata e lui accaldato, ma non attesero nemmeno un secondo ed oltrepassarono la porta a vetri. Edward, con la mano di Marina nella sua, si rivolse direttamente a Stephany.
  • Stephany, cerchiamo Jody Sparks, ha appena partorito.
  • Vediamo, vediamo… - disse quella, alternando gli occhi tra il rosso e il computer, riconoscendo Marina. – Terzo piano, stanza 58.
  • Grazie Stephany, buon anno! – la salutò con la mano ed andò via, portando Marina con sé.
Si infilarono in ascensore insieme ad altre due signore, che lo guardarono con curiosità, ma non ci fece caso, preoccupato per il pallore di Marina. Cercò di rassicurarla, stringendole la mano e abbracciandola, ma soltanto quando giunsero alla stanza di Jody gli sembrò che avesse ripreso a respirare. Trafelata, lei bussò alla porta ed aprì. Jody aprì gli occhi e le sorrise.
  • Jody! – corse ad abbracciarla. – Mio Dio, che spavento.
Rimase sotto la porta ad osservarle, poi la stessa Jody gli sorrise e lo invitò ad entrare. Era in imbarazzo, ma Marina lo incoraggiò ad affiancarla.
  • Sono riuscita a chiamare l’ambulanza appena in tempo, è stato tutto così improvviso. – spiegò quella. – Per fortuna è andato tutto bene.
  • Quando mi ha chiamato l’infermiera ho temuto il peggio. – stringeva la mano dell’amica con un tale affetto che lo fece sorridere.
  • Grazie – cominciò Jody, rivolta a lui. – per averla portata fin qui. Sei sempre gentile.
Arrossì, assicurandole che non c’era alcun problema. Cominciarono a parlare del nuovo nascituro e scoprì quale fosse il suo nome: Christopher.
  • Davvero? – chiese, sorridendo. – è il mio secondo nome.
Marina si voltò verso di lui, particolarmente sorpresa e Jody fece altrettanto.
  • Sul serio? – chiese lei e lui annuì, cercando una spiegazione a quella reazione. – Era il nome del marito di Jody, per questo ha scelto questo nome.
Entrambe sorrisero, Jody con una certa commozione negli occhi.
  • Deve essere un segno del destino. – disse quella.
Non sapeva cosa fosse successo al marito di Jody e smise di pensarci quando l’infermiera entrò nella stanza col piccolo Christopher.
  • Eccolo qua! – disse quella. – Se le può interessare, il piccolo è nato a mezzanotte, una cosa abbastanza rara!
Scuro come sua madre, tutto infagottato e spelacchiato, fu portato dritto tra le braccia della mamma. Gli occhi di Marina risplendevano a quella vista e non potè fare a meno di sorridere, guardandola.
Fu colto di sorpresa dallo squillo del suo cellulare. Lo prese dalla tasca frettolosamente e lo zittì subito, chiedendo permesso per andare a rispondere fuori.
Uscì in corridoio e rispose a quel numero che non conosceva.
  • Pronto?
Marina, vedendolo uscire, si preoccupò. Non sentiva più la sua voce e le sembrò strano, così si alzò e si affacciò alla porta, ma lui era di spalle, immobile.
  • Ho capito. – la sua voce era tremula. – Grazie.
Lo vide chiudere la telefonata, ma non si mosse. Un brutto presentimento si impossessò di lei. Uscì definitivamente dalla stanza e cercò di capire, finchè lui non si riprese a muoversi, andandosi a sedere sulle sedie del corridoio.
  • Edward? – lo chiamò, ma lui nascose il viso tra le mani e non rispose. Lo raggiunse e si sedette accanto a lui, agitata. – Edward, cosa è successo?
Quando lui alzò il capo, vide che stava piangendo e le si fermò il cuore.
  • Edward – disse di nuovo. – che succede?
Non cercò di controllare la voce spezzata, perché ormai aveva capito, ma non voleva crederci. Gli posò una mano sulla spalla, mentre lui si asciugava una lacrima, lasciando che altre prendessero il suo posto. Con la voce rotta e il viso contratto, confermò i suoi sospetti.
  • Mia nonna…è morta.
Marina si portò una mano alla bocca, ma non potè fermare le lacrime. Scoppiò in un pianto e lo abbracciò. Edward si lasciò andare, col viso nascosto nel suo collo. Pianse sulla spalla di Marina tutte le lacrime che non aveva versato fino a quel giorno.
Evangeline era morta per un arresto cardiaco durante il sonno, quindi non aveva sofferto.
Non avrebbe mai dimenticato la mezzanotte che dava inizio al 2015. In un solo minuto, la vita gli aveva dato e tolto troppe cose.
A mezzanotte aveva baciato Marina.
A mezzanotte era nato Christopher.
A mezzanotte aveva perso definitivamente la sua famiglia.






Angolo autrice:

Sto povero ragazzo non ha mai tregua, a volte mi sento in colpa!
Tuttavia, cari miei, siamo in dirittura d'arrivo, ancora qualche capitolo e sarà la fine. Cosa vi aspettate?
Intanto vi ringrazio nuovamente per le visite e le recensioni, non potete immaginare quanto vedere quei numeretti crescere mi renda felice.
L'ultimo capitolo ha avuto un numero di letture davvero al di fuori delle mie aspettative ed in così poco tempo, quindi non posso fare altro che dirvi grazie, davvero, senza di voi io e le mie pippe mentali non saremmo nulla.
Anyway, aspetto trepidante di sapere cosa ne pensate e non vedo l'ora di pubblicare i prossimi capitoli!
A presto, bella gente. :)

S.




Bonus: Una frase di 'Thinking out loud', nella scrittura di Ed. Credo sia adatta agli avvenimenti. :)


 

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Capitolo 29
*** XXIX ***




XXIX




Il cielo era del tutto coperto.
Il freddo era più pungente degli altri giorni.
Sembrava che tutti fossero silenziosi, quel giorno.
O forse, era solo lui.
Era il 1° Gennaio 2015 e stava organizzando i funerali di sua nonna.
Era stato uno strazio parlare col tizio delle pompe funebri, ma per fortuna Marina era con lui. Aveva parlato lei per quasi tutti il tempo, lasciandogli la parola soltanto quando non sapeva cosa rispondere.
Non aveva smesso di stringerle la mano da quando era andato a prenderla quella mattina e gliela stringeva ancora mentre l’infermiera li guidava nella stanza di sua nonna. Non aveva il coraggio di entrare e guardarla. Non voleva rivivere il giorno della morte di sua madre. Non voleva che quella visione fosse reale.
  • Quando vuoi, puoi entrare. – disse l’infermiera, lasciandoli poi soli.
Marina, con gli occhi lucidi, lo guardò e si strinse al suo braccio. Cercò i suoi occhi, ma aveva una maschera così scura e spessa in volto, che non sarebbe riuscita comunque a vederlo.
  • Se non vuoi, non entriamo. – gli disse dolcemente.
  • No, voglio…voglio entrare. – rispose alla fine.
Se non l’avesse salutata lui, chi altro lo avrebbe fatto? Ben e Jef erano rimasti impassibili alla notizia, come se fosse morto il cane del vicino e lui non aveva avuto nemmeno la forza di provare rabbia.
Quando fece il primo passo, Marina lo seguì nella stanza col viso rigato dalle lacrime. Evangeline aveva il volto sereno, sembrava quasi che dormisse.
Si accostarono al letto e Marina sentì la stretta di Ed farsi più forte, mentre tendeva la mano a quella di sua nonna. Non appena fece quel gesto, Ed decise di non voler restare un secondo di più e tornarono fuori.
Richiuse la porta e si aggrappò disperatamente a lei, abbracciandola. Non poteva credere che non ci fosse più, ma si sentì meno solo quando Marina gli baciò la guancia ripetutamente, stringendolo più forte. Sentiva che anche lei stava piangendo, accollandosi una parte del suo dolore. Quella notte lo aveva invitato a restare a casa sua, ma aveva rifiutato, desiderando restare solo, ma ora che la solitudine era l’unica cosa che gli restava, la sua presenza era fondamentale.
Dovette parlare con le infermiere per informarle dell’agenzia di pompe funebri che sarebbe arrivata l’indomani, dopodiché dovette avere a che fare col direttore dell’ospizio per interrompere il contratto.
Ogni azione, ogni parola, odiava qualsiasi cosa. Odiava sentire le lacrime presentarsi di continuo ai suoi occhi, odiava vedere Marina altrettanto triste, odiava l’assenza di sua nonna.
Per anni, era stata tutto ciò che significa ‘famiglia’ ed ora doveva lasciarla andare.
Quando il giorno dopo, nel pomeriggio, si recò in chiesa per la celebrazione della messa, trovò Marina e i suoi genitori in prima fila ad aspettarlo. Lily lo abbracciò e Daniel gli posò una mano sulla spalla, con sguardo eloquente e carico di comprensione.
Lentamente, la chiesa cominciava a riempirsi. Pit, Nathan, Jessica, Louisa, Matt, Mary, tutta la squadra dell’Hawking Pub lo raggiunse per dargli un abbraccio e dirgli una parola di conforto. L’abbraccio di Nathan e le sue parole di comprensione gli strinsero il cuore. Non avrebbe ringraziato mai abbastanza il suo amico. Quando il sacerdote chiese se qualcuno volesse dire qualcosa per ricordare Evangeline, Marina si alzò in piedi, lasciandolo di stucco. Avanzò lentamente verso l’altare, sfiorando la bara ricoperta di fuori bianchi e andò a posizionarsi dietro al microfono.
  • Ho avuto la fortuna di conoscere Evangeline poco tempo fa e chi di voi la conoscesse, sa bene di cosa parlo quando dico che era un’eccezione. – si schiarì la voce. – Non parlo di quanto fosse simpatica o di quanto fosse educata, mi riferisco alla sua voglia di vivere. Quando l’ho guardata negli occhi per la prima volta, mi sono detta che da vecchia avrei voluto essere come lei: avere negli occhi una tale luce e nella voce una tale gioia, da non desiderare mai di morire. L’ho guardata e mi sono riconosciuta in lei come non mi era capitato mai con nessuno. Sapere che non è più in vita mi ha spezzato il cuore, ma lei – per me – non morirà mai. Ha saputo donarmi così tanto in così poco tempo, che una parte di lei resterà sempre viva in me. In tutti noi. In chiunque abbia avuto la fortuna di imparare la gentilezza e l’amore da lei. – guardò Edward, rivedendo in lui lo sguardo di sua nonna. – Credo…che il meglio che possiamo fare, adesso, sia sfruttare al massimo i suoi insegnamenti ed essere delle persone migliori. La vita ci da e ci toglie qualcosa di continuo, ma alcune cose restano in eterno. E io le sarò sempre grata per questo.
Quando terminò di parlare, non seppe più trattenersi e pianse. L’intera chiesa applaudì le sue parole, ma lei riusciva a sentire soltanto il battito del suo cuore, mentre tornava da Edward. Lui la abbracciò e non ci fu bisogno che dicesse niente. Le sue mani che la stringevano e il suo respiro irregolare, significavano più di qualsiasi discorso lei potesse fare.
Lui non si aspettava che lei dicesse qualcosa, ma le era grato, con tutto il cuore. Sapere che sua nonna aveva un’altra anima – oltre la sua – in cui vivere per sempre, era il più bel regalo che Marina potesse fargli.
Al termine della funzione, accompagnò sua nonna fino al cimitero vicino, seguito da una lunga fila di persone. Molti degli amici di suo nonno e in generale della sua famiglia, mostrarono molto rammarico per la sua perdita e negli occhi di qualcuno aveva visto la sua stessa tristezza. Quando la bara fu calata nella terra, accanto a quella di suo nonno, pensò che quelle fossero le persone migliori che avesse incontrato in tutta la sua vita. E giurò – ripensando alle parole di Marina – che avrebbe fatto del suo meglio.
Avrebbe fatto in modo che il segno lasciato da Henry ed Evangeline non svanisse mai dalla sua anima.
 
  • Edward, caro – gli disse Lily, una volta terminata la funzione. – se dovessi avere bisogno di qualcosa, non esitare a chiedere.
Annuì, ringraziando sommessamente la madre di Marina, per poi salutarla. Il loro treno sarebbe partito a breve ed erano già in forte ritardo, ma li ringraziò ripetutamente per essere venuti fin lì.
Lui e Marina rimasero soli, appena fuori dal cimitero.
  • Ti va un the? – chiese lei, delicatamente.
Ci pensò su, ma non sapeva cosa fare. Non aveva voglia di niente, voleva solo restare in silenzio con lei.
  • Ehi – Marina gli carezzò il viso, costringendolo a guardarla – se non ti va di tornare a casa, puoi stare da me.
La guardò, sentendo quella sua proposta così allettante, ma non voleva invadere i suoi spazi.
  • Non preoccuparti di niente – continuò lei. – non mi va che resti solo.
Finì per sospirare, annuendo. Si arrese volentieri ai suoi occhi languidi, già più sereno al pensiero di non dover avere a che fare con Ben e Jef. Tuttavia, doveva tornare a casa per avvertire Ben e per prendere almeno il suo spazzolino e un ricambio. Era una pazzia andare a stare da Marina, ma – come avrebbe detto sua nonna – meglio il rischio della felicità, che un’eterna solitudine. Se a lei andava bene, era lo stesso anche per lui.
  • Devo passare prima da casa. – le disse, continuando a guardarla.
  • Va bene. – annuì. – Vieni pure quando vuoi.
Lei gli diede un bacio sulla guancia, senza preoccuparsi del fatto che lui non ricambiasse e gli disse nuovamente che lo aspettava a casa, andando via.
Ormai solo, infilò le mani in tasca e si avviò a passo lento verso Backtown Street.
Quando rientrò a casa, prese il suo zaino e la sua chitarra, raccattando tutto il necessario per un paio di notti fuori, recuperò il testamento e i documenti pensando che non fosse il caso di lasciarli lì e tornò al piano di sotto.
  • Dormo fuori. – disse, atono – Devo lavorare.
  • Come sarebbe a dire? – disse Ben, alzandosi dalla poltrona del salotto. – Chi prepara la cena? – Era spietato. La peggiore specie di uomo che conoscesse.
  • Se non vado al lavoro, non l’avremo una cena.
A quelle parole, il suo patrigno non osò aggiungere una parola. Non gli aveva mai parlato in quel modo ed era strano che non lo avesse già messo spalle al muro. Ma chi se ne fregava di Ben, che facesse e dicesse ciò che voleva e se non aveva altro da obiettare, sarebbe andato via.
  • Porta la paga o ti sbatto fuori.
Gli voltò le spalle ed uscì, prendendo a pedalare verso casa di Marina. Più si allontanava da lì, più si sentiva meglio.
 
Marina decise di tagliare per la scorciatoia che faceva quando andava di fretta. Desiderava fare una doccia veloce prima che Edward arrivasse a casa, ma un sms la distolse dal suo intento.
| Sto arrivando. Sei a casa? |
| Non ancora, ma sto tagliando per quella scorciatoia di cui ti ho parlato, quindi dovremmo arrivare nello stesso momento.|
Avrebbe dovuto farcela giusto in tempo. Era stato piuttosto veloce, non se lo aspettava. Si inoltrò nel vicolo, affrettando il passo, ma qualcosa la fermò. Non riuscì ad andare oltre e bastò un secondo per capire che qualcuno la stesse trattenendo per un braccio. Scattò, voltandosi indietro e il viso pallido di Jef era già troppo vicino. Aveva le guancie cave per la magrezza e delle profonde occhiaie scure intorno agli occhi. Le pupille erano dilatate. Inalò tutta l’aria che potè, spaventata.
  • Ciao, Marina. – biascicò. – Dove vai tutta sola?
Senza pensarci due volte, cercò di separarsi da lui con uno strattone, ma non servì a niente e rimase agganciata a lui.
  • Lasciami! – disse immediatamente.
  • Non essere capricciosa, altrimenti diventi ancora più eccitante.
Jef rideva in maniera insana, avvicinandosi ancora. Strinse i denti, cercando di ritrarsi, ma si sentiva già con l’acqua alla gola, col piede nella fossa.
  • Dove hai lasciato il mio fratellino, eh? Era così agitato…voleva scoparti per primo.
Cercò di indietreggiare, ma più provava a divincolarsi, più Jef si avvicinava. Il respiro cominciò a farsi pesante, non potendo più gestire la paura. Quella volta era terrorizzata, non riusciva più neanche a pensare.
  • Lasciami stare! – urlò.
  • Dammi un bacio.
Allungò l’altra mano sul suo polso, tirandola a sé. Marina scostò il viso, disgustata e impaurita. Era più alto di lei e molto più forte, non riusciva nemmeno a ritirare le braccia. Si guardò intorno, sperando che ci fosse qualcuno, ma non c’era anima viva lì dietro.
  • Aiuto! – urlò con la voce ormai rotta, ma non ebbe risposta.
  • Shhh…
La presa di Jef si faceva stretta come una trappola e ormai lo aveva addosso. I suoi occhi vuoti la guardavano con un perverso desiderio, come se la stesse già violando. Quando il terrore la fece del tutto sragionare, si mise ad urlare, strizzando gli occhi.
  • Sta zitta! – urlò Jef, strattonandola.
  • Aiuto! – urlò ancora.
  • Taci, puttana!
Jef le torse un braccio, facendola ammutolire, ma riuscì ad approfittare della sua posizione per sferrargli un colpo ben assestato alle parti basse. Sentì l’aria entrare di nuovo nei suoi polmoni quando lui mollò la presa e si piegò su se stesso per il dolore. Si mise subito a correre, sentendo il cuore in gola e le lacrime riempirle gli occhi. Credette di essere riuscita a metterlo ko, ma due secondi dopo fu smentita.
  • No!
Jef l’aveva raggiunta in un istante ed ora la immobilizzava, stringendola con le braccia e sollevandola. Scalciò, urlò con tutto il fiato che aveva, ma non arrivava nessuno. La visione del vicolo vuoto fu al pari di una pugnalata.
  • Ferma!
La lasciò soltanto quando furono abbastanza vicini al muro da intrappolarla nuovamente. Con tutte le forze che aveva, cercò di spingerlo via, ma era come se gli facesse il solletico.
  • Ho detto ferma! – urlò, bloccandole le mani sopra la testa e il corpo con il suo.
Non la guardò nemmeno, pensando soltanto a lanciarsi sul suo collo e a sbottonarle il cappotto con la mano libera. Le venne da vomitare.
Jef infilò la mano sotto i suoi vestiti, sapendo bene di averla incastrata, ma lei non smise di divincolarsi. Le morse il collo troppo forte, facendola urlare ancora.
  • Ti prego, lasciami… - lo pregò, scoppiando a piangere.
  • Te l’avevo detto che con questi pantaloni neri sei troppo sexy.
Non appena Jef terminò di parlare, Marina si bloccò. Era lui. Era sempre stato lui a mandarle quei messaggi. Jef era lo stalker di cui aveva paura. Spalancò la bocca, ancora inorridita, quasi assente, ma bastò che Jef le sbottonasse i pantaloni per rinvenire.
  • No! NO! – cercò di fermarlo. – Lasciami stare!
Riuscì ad aprire anche la zip e Marina non riusciva più e respirare. Era stata del tutto annullata dalla mano di Jef, gelida, che giocava col bordo delle sue mutandine.
Era sicura, sentendo le lacrime ghiacciarsi sul viso, che fosse spacciata, che nessuno sarebbe mai passato di lì, ma un tonfo la fece sobbalzare e così anche Jef. Ringraziò il cielo, credendo che fosse un passante, poi il rumore di alcuni passi in corsa e la voce di Edward, rimbombarono nel vicolo.
  • Jef! – lo spinse via da lei – Maledetto stronzo!
Marina si lasciò cadere a terra, allontanandosi di peso dal muro. Si alzò, portandosi le mani alla bocca guardando la scena che aveva davanti.
  • Bastardo!
La sua voce era così forte da far tremare anche lei, ma ciò che più la turbò fu il modo in cui si avventò su di lui.
Ed prese Jef per il cappotto e lo spinse contro il muro, sferrandogli un pugno in pieno viso. Jef cadde a terra, troppo indebolito dalla merda che si era fatto per reagire contro di lui, lasciando al rosso la piena libertà di prenderlo a calci.
Ed non ci vedeva più dalla rabbia. Aveva perso ogni facoltà di autocontrollo e non sentiva altro che la voglia di ucciderlo con le sue mani, lì, in quell’istante. Gli diede un calcio, due, tre, ma gli sembrò che non bastassero mai, voleva con tutto se stesso farlo soffrire di più.
  • Edward! – la voce di Marina che urlava, era quasi un sussurro in confronto alla confusione che sentiva. – Edward, così lo ammazzi!
Piangeva, ma non riusciva a fermarsi.
  • No, fermati!
Jef aveva cominciato a sputare sangue e Marina non riusciva più ad assistere a quello spettacolo. Il viso di Edward era del tutto trasformato, non aveva più niente della persona che conosceva, ma la sua paura era che se non si fosse fermato in tempo, lo avrebbe ammazzato davvero. Nonostante fosse spaventata dalla rabbia con cui urlava, corse lì e lo tirò per un braccio, facendo fatica anche a farsi sentire.
  • Edward, fermati! Basta! – lo strattonò. – Lo uccidi! – urlò più forte.
Tutto d’un tratto, si fermò. Come se avesse staccato la spina, Edward si allontanò da Jef, respirando affannosamente. Probabilmente negli ultimi due minuti aveva sfogato tutto il rancore che aveva accumulato negli ultimi anni e non riusciva in alcun modo a pentirsene. Quando la sua mente non fu più offuscata, si voltò immediatamente verso Marina e la prese tra le braccia.
Aveva ancora fresca nella mente l’immagine che aveva visto girando l’angolo e il pensiero che sarebbe potuto arrivare troppo tardi, gli fece rivoltare lo stomaco.
Sentì Jef alzarsi e lo guardò, ma quello zoppicò via, tornando indietro e sparendo in una traversa secondaria.
Un secondo dopo, Marina scoppiò in lacrime.
 
Entrambi volevano dimenticare quella giornata.
Seduti sul divano, finalmente a casa, avevano trascorso l’ora successiva in silenzio, soltanto i singhiozzi di Marina riempivano la stanza. L’aveva tenuta in braccio senza mai smettere di stringerla, ma non era riuscito a dirle niente, la voce ancora bloccata per la paura e la rabbia che lui stesso aveva provato.
Jef stava per violentare la sua Marina.
Al solo pensiero sentiva ancora l’impulso omicida che lo aveva impossessato prima nel vicolo. Non sapeva cosa sarebbe successo se Marina non lo avesse invitato a stare da lei e se avesse percorso la strada principale invece della scorciatoia. Non ci volle pensare, carezzandole i capelli.
  • Edward – finalmente parlò – Jef…Jef nelle ultime settimane mi ha mandato degli sms un po’, ecco…spinti.
  • Come…?! – disse, allarmandosi ulteriormente, chiedendosi perché lei glielo avesse taciuto.
  • Non sapevo che fosse lui, l’ho capito prima.
  • Cioè, qualcuno ti scriveva sms strani e non me lo hai detto?
Lei si sentì mortificata, ma lui non ebbe il coraggio di rimproverarla oltre dopo tutto ciò che era accaduto ultimamente e dopo lo shock che aveva subito poco prima, ma lei continuò a parlare.
  • Io volevo andare alla polizia, ma poi non avevo mai il tempo o rimandavo. – lo guardò. – Però adesso voglio denunciarlo.
Ed scattò, dilatando gli occhi. No, non poteva chiamare la polizia, non prima che avesse riavuto la casa. Se avessero scoperto che avesse fatto il corriere per Jef, la sua situazione sarebbe stata compromessa e ogni cosa sarebbe stata vana. No, doveva impedirglielo.
  • No! – disse, troppo agitato. – Non puoi!
  • Cosa? – lei lo guardò quasi sconvolta. – Come puoi dire questo?
  • N-no, cioè, aspetta – tentennò. Non sapeva cosa fare. Non aveva scuse valide, ma aveva paura di dirle la verità. – Marina, c’è qualcosa che non ti ho detto.
Lei lo guardò, scostandosi ulteriormente dal suo petto per guardarlo meglio, col viso accigliato e l’espressione confusa. Ed deglutì, guardandola negli occhi.
  • Vedi, quando ci siamo conosciuti, ecco…Jef mi ha costretto a fare da corriere per lui.
  • Per cosa?
  • P-per la droga.
Marina spalancò la bocca, perdendo colorito.
  • Cosa? Perché…? – chiese, la delusione nel suo tono.
  • Io non volevo farlo, ma…
Le raccontò per filo e per segno tutto ciò che era successo: di Tyler, della polizia, delle minacce e delle conseguenze che la sua denuncia poteva avere per lui. Marina non disse una parola per l’intero racconto, limitandosi a guardarlo con aria quasi assente. Lui restò immobile, attendendo che lei facesse qualcosa, terrorizzato che a momenti lo sbattesse fuori di casa – e avrebbe avuto ragione.
  • Perché non me lo hai detto? – chiese, flebilmente.
  • Non volevo metterti ulteriormente in pericolo. – le spiegò, semplicemente.
Lei non disse niente sulla casa o sulla polizia, l’unica domanda che gli porse fu quella, dopodiché si richiuse in se stessa, rannicchiandosi di nuovo sulla sua spalla.
Le promise, mentre il buio calava definitivamente, che quando sarebbe tutto finito sarebbero andati alla polizia insieme e lei annuì in silenzio.
Marina, persa del tutto nei suoi pensieri, fu richiamata dal brontolio dello stomaco di Ed dopo un tempo indefinito, ma molto lungo, infatti quando guardò l’orologio erano le 22: 25 e loro erano senza cena.
Come un automa, si alzò e preparò qualcosa per entrambi. Seduta accanto a lui, non riusciva a smettere di pensare a quante cose fossero accadute nel giro di 48 ore, per non parlare del fatto che un organizzazione criminale l’aveva seguita e spiata senza che lei si accorgesse di niente. Avrebbe parlato meglio con Ed di quel dettaglio quando fosse stata più lucida, ora tutto ciò che voleva era sentire il suo calore e dimenticare le mani gelide di Jef che le carezzavano il ventre.
  • Ti va se ti suono qualcosa? – chiese lui, molto più rilassato di prima.
Lasciò che prendesse la chitarra e cominciasse a suonare accanto a lei.
Ed aveva capito che Marina fosse un pochetto arrabbiata per la questione della polizia, ma riuscì a convincersi che lo avesse perdonato. La guardava negli occhi, cantandole la sua canzone. Non si aspettava di riuscire a strapparle un sorriso, ma eccolo lì che le decorava il volto. Lui stesso si sorprese di essere così tranquillo, ma sapeva che era merito di Marina, della sua casa e della sua presenza. Suonare, lo aiutò a distendere ulteriormente i nervi.
  • Quando l’hai cantata all’Hawking avrei voluto fartela cantare a ripetizione. – gli confessò, guardandolo in viso, i lividi ancora scuri. Lui sorrise, ripensando alle sue labbra. – Ora sai cosa provi?
Lui abbassò lo sguardo, ricacciando fuori tutta l’aria in una lieve risata, per poi tornare a lei.
  • Sì, lo so.
Marina sorrise e si sporse verso la sua guancia, per posarvi un bacio. Lui non smise di suonare per un po’, fin quando non decise che dovesse essere lei a provare.
Riuscì a distrarla, giocando col lei sul divano, finchè – stremati – si addormentarono con la lampada accesa.
Nel pieno della notte, Ed si svegliò, sentendosi confuso come se il tempo fosse scivolato via troppo in fretta, come se le cose fossero successe ad alta velocità. Il peso della testa di Marina gravava sulla sua spalla. La guardò e si chiese come si sarebbero svegliati l’indomani, con quali intenzioni. Aveva paura che lei, ragionando più lucidamente, si sarebbe infuriata.
Respirava con la bocca leggermente aperta, ma il suo viso era sereno. Delicatamente infilò una mano nei suoi capelli, le resse la testa e cercò di spostarsi e quando riuscì a mettere il braccio dietro al suo collo e l’altro sotto le sue gambe, la prese in braccio. Era stanco morto, ma riuscì comunque ad alzarsi. Si diresse direttamente alla camera da letto, spingendo la porta con un piede e una volta al letto, si abbassò per posarvela. Cercò di essere delicato, ma lei si svegliò. Si mosse, ancora tra le sue braccia e i suoi occhi si aprirono lentamente. La fioca luce che proveniva dall'altra stanza le bastò a riconoscere il suo viso.
La lasciò definitivamente sul materasso, cominciando ad alzarsi.
  • Scusa. – le sussurrò. – Dormi pure.
Stava per lasciarla sola, convinto che sarebbe crollata entro pochi secondi, ma la sua voce roca e assonnata lo fermò.
  • No, Edward. Resta qui.
La guardò indicare il posto vuoto accanto a lei e si sentì andare in fiamme. Dormire nel suo letto?
  • Ti prego. – disse, rialzandosi dal cuscino per cercare il suo pigiama.
  • Sei sicura? – le disse, incerto.
  • Non mi va di restare sola. – disse lei, ma senza alcun imbarazzo.
Cercò il suo sguardo e non vi trovò insicurezza. Fece il primo passo verso il letto e lo aggirò, andandosi a sedere sull’altra sponda. Si sfilò le scarpe, senza riuscire a mettere un punto ai suoi pensieri, ma che poteva farci? Era un uomo.
Marina sparì oltre la porta, così approfittò per andare a recuperare la sua tuta e cambiarsi. Lei tornò nella stanza con indosso un pigiama, ma non era quello con gli orsetti, uno più standard. Più da adulta, diciamo così. Le diede il cambio al bagno per lavarsi i denti e si guardò allo specchio. Istintivamente si sistemò i capelli e si diede da solo dello sciocco: non si era mai preoccupato del loro ordine ed ora voleva sistemarli.
Quando tornò nella stanza, lei aveva tirato via le coperte e guardandola finalmente notò una certa rigidità nei movimenti. Allora non era il solo ad essere nervoso. Tuttavia, la seguì sotto quel manto, sentendo le lenzuola fredde congelargli i piedi. Marina si era voltata verso di lui e avendo i suoi occhi incollati addosso, non potè voltarsi dall’altra parte per sfuggire all’imbarazzo. Era assurdo: era a letto con Marina e la fissava. Probabilmente stava sognando e si sarebbe svegliato l’indomani con la vaga sensazione di aver dormito male, ma un movimento di Marina lo fece agitare a tal punto che il cuore prese a battere in modo tachicardico. Lei, struccata e con gli occhi assonnati, si spostò i capelli arruffati dal viso e si sporse verso di lui, cercando le sue labbra. Bastò un attimo per accettare il suo invito, sentendo un improvviso ardore nel petto. Le andò incontro, rosso come i suoi capelli e la baciò, chiudendo gli occhi. La sensazione delle lenzuola pulite e quella delle sue labbra calde erano la perfetta combinazione per la felicità. Le carezzò il viso, ormai rassegnato al fatto di essersi innamorato e di essere contento di trovarsi in quel letto. Mentre Marina gli dava un bacio sul naso e gli carezzava la barba, non esisteva un’altra cosa al mondo che importasse di più.
Spensero la luce e l’ultima cosa che percepì, fu la vita di Marina sotto il suo palmo.






Angolo autruce:

Ok. Trucidatemi. Sono pronta.
Scusate, non aggiungo altro perchè sto per crollare sul pc, ma volevo comunque aggiornare dato che domani ho da fare e siete tantissimi, non voglio farvi aspettare oltre.
Vi aspettavate un capitolo del genere? Personalmente, non è tra i miei preferiti, ma è comunque importante. Fatemi sapere cosa ne pensate!

NON PERDETEVI IL PROSSIMO CAPITOLO (che sarà pubblicato tra mercoledì e giovedì) !

Grazie a tutti. :)

S.



Bonus: Ed e un'ipotetica piccola Kathy (foto trovata su tumblr - proveniente da instagram) e Ed che dorme. :)

 

   

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Capitolo 30
*** XXX ***









XXX




3 Gennaio 2015.
La luce del terzo giorno del nuovo anno filtrava attraverso i fori delle tapparelle, illuminando vagamente la stanza.
Non avevano impostato alcuna sveglia, infatti quando Ed aprì gli occhi vide il piccolo orologio poggiato sul comodino di Marina puntare sulle 11:10.
Respirò profondamente, sentendo il suo profumo e si guardò intorno. Erano completamente aggrovigliati nelle coperte, stesi in una posizione assurda, il viso di Marina che premeva sul suo petto e le sue braccia intorno al torace. Aveva ancora le mani su di lei.
Il sentore delle lenzuola ormai calde sul viso era piacevole e la sensazione di riposo lo invadeva del tutto, mentre cercava di muoversi senza svegliarla. Sfilò lentamente il braccio da sotto al cuscino e si allontanò. Si alzò per andare al bagno e la coprì meglio con la coperta prima di andare. Era così piccola in quel letto così grande. Non riuscì a trattenere un sorriso e il calore che lo avvolgeva e rise di se stesso. Lo specchio del bagno gli mostrò i suoi lividi, finalmente più chiari e guardandosi riuscì a vedere in sé un uomo migliore del giorno prima. Non aveva fatto niente, ma trascorrere una notte accanto a Marina lo aveva quasi purificato. Si sentiva quasi felice.
Cercando di non fare rumore, si avviò in cucina e cominciò a preparare il caffè con i piedi scalzi e la felpa troppo grande anche per lui.
Dio, era assurdo come si sentisse a casa. Era quasi inspiegabile. Anche l’aria che respirava sembrava essere più buona, mentre il sole entrava dalla finestra. Lentamente il profumo del caffè riempì la stanza e se ne servì una bella dose in una tazza a caso. Dopo il primo sorso, ne versò anche per lei e portò la tazza in camera da letto. Quando spinse la porta la vide ancora lì, appallottolata nelle coperte, così poggiò le tazze sul comodino e si sedette accanto a lei. Le spostò i capelli dal viso e cominciò a carezzarla, sussurrando il suo nome. Il flashback della prima notte che aveva passato lì lo fulminò.
  • Marina. – disse, passandole un dito sulla guancia.
Lei sembrò percepire il suo tocco, ma ancora non apriva gli occhi. La chiamò ancora e lentamente si svegliò, voltandosi subito verso di lui. Sorrise, quando lei incurvò le labbra. Stava per allontanare la mano dal suo viso, ma lei lo trattenne con la sua, ancora calda.
  • Buongiorno. – le disse, con una tranquillità innaturale.
  • Buongiorno. – ricambiò lei, con un filo di voce.
  • Ho preparato il caffè.
A quelle parole, il profumo le arrivò direttamente al naso e spostò gli occhi dal suo viso al comodino, scorgendo le tazze.
Anche se non voleva, abbandonò il calore delle sue mani e si mise a sedere, prendendo la tazza che le porgeva.
  • Ma che bravo. – lo prese in giro.
Lui sembrò cogliere l’ironia, ma abbassò comunque lo sguardo mentre sorrideva.
Il fatto che lui fosse stato la prima cosa che vedeva, quel giorno, la rese sicura che sarebbe stata una splendida giornata e che non avrebbe mai più dimenticato quell’esatto momento in cui lui la guardava e lei sentiva di amarlo. Impresse i suoi occhi azzurri nella mente.
Prese un sorso dalla tazza e lui fece lo stesso, poi ricordò il bacio che gli aveva dato quella notte e si sporse di nuovo verso di lui. Posò le labbra sulla sua barba incolta e chiuse gli occhi, sentendolo respirare.
Ed aveva desiderato quel bacio da quando aveva aperto gli occhi, ma era ancora troppo poco. La guardò bere il caffè, ma la sua testa cominciò a farfugliare cose strane e la realtà cominciò a pesargli nel petto: aveva dormito con Marina. L’aveva baciata al loro appuntamento.
Posò la tazza vuota sul comodino ed attese che lei facesse lo stesso. Non sapeva cosa dire e lei non parlava, si limitarono a guardarsi, seduti sul letto. Le sue labbra rosse non erano più sorridenti e il suo stesso viso si era disteso, perso nella sua contemplazione. Guardò i suoi capelli un po’ spettinati, il suo collo chiaro, i suoi zigomi coloriti e desiderò baciarla. Prese un impercettibile respiro e alzò la mano al suo viso. Non smise di guardarla mentre si avvicinava a lei, tentennando, ma Marina non mostrò cenni di incertezza ed attese che lui colmasse la distanza.
Ed chiuse gli occhi ad un passo da lei e prese le sue labbra tra le proprie, provando una sensazione forte abbastanza da fargli girare la testa. Sentì subito le mani di Marina correre al suo viso e ai suoi capelli, ma non lo sfiorarono con disinvoltura. Sentì anche su di lei lo stesso fremito incontrollabile che sentiva salire sempre più.
Non ci pensò due volte e le schiuse le labbra per sentirla meglio. Oh, era così devastante quella sensazione, riusciva ad annullare tutto il resto. Esisteva soltanto lei e le sue mani sul petto. Non riusciva nemmeno a capire se stesse ancora respirando. Lasciò che le mani corressero sulla schiena di lei, avvicinandola e si chiese quale misteriosa forza lo stesse facendo agire in quel modo. Sapeva solo di non poterla controllare, soprattutto se lei continuava a stringerlo e a mordergli il labbro.
Marina si lasciò avvicinare senza pensarci due volte e non si preoccupò di fermarlo mentre Edward infilava la mano sotto il suo pigiama. Sapeva di caffè e di eccitazione, quella bocca. L’intera stanza era satura della loro voglia di aversi e non avrebbe impedito che accadesse. Quella volta lui non sarebbe scappato, lo capiva dalla forza con cui le stringeva i fianchi, sempre più vicino.
Quando Marina inarcò la schiena e gli tirò la felpa per avvicinarlo ancora, Ed perse la ragione e si sporse su di lei, quasi sovrastandola. Le loro labbra non si erano ancora separate. Infilò una mano sotto la maglia e sentì la schiena liscia sotto le dita, mentre cominciava a salire meglio sul letto. Non poteva credere che stesse accadendo davvero. Si sistemò davanti a lei, inginocchiato sul materasso e la trascinò su di sé. Si godette la sensazione dei loro corpi che aderivano. Non sapeva più dove mettere le mani, un po’ impaurito, ma quella passione lo travolgeva a tal punto da fargli dimenticare anche la paura. Quando Marina si staccò da lui, la sentì posare le labbra sul suo collo. Dio, cos’era quella donna?
Portò una mano al suo bacino e dichiarò a se stesso di essere fottuto, incastrato tra le sue gambe, completamente andato. Sospirò pesantemente mentre lei gli sfilava la felpa, scoprendo il suo petto devastato, ma lei non si fermò, anzi. Quando le sue labbra arrivarono alle spalle, la sua carezza gli percorse il petto e la schiena senza sosta. Non poteva più fermarsi o trattenersi e cercò le sue labbra ancora, le stringeva le cosce, facendo scivolare troppe volte la mano fino al suo bacino.
La stava toccando. La sua migliore amica gli aveva appena sfilato la felpa ed ora era attaccata a lui. Non era possibile che stesse accadendo, ma il suo corpo che si muoveva su di lui era assolutamente reale e la sua biancheria intima ormai lo sapeva bene. Era sicuro che lei se ne fosse accorta, eppure non si fermava. D’un tratto, lei si distaccò dalle sue labbra facendogli aprire gli occhi e lo guardò. Era avvolta dalla penombra e respirava affannosamente sulla sua bocca. Senza che lui dicesse niente, si sfilò anche lei la maglia e la gettò in un punto indefinito della stanza. Ed abbassò gli occhi sul suo corpo e poi tornò a lei, che aveva la bocca chiusa e cominciava a sembrare agitata. Stava a lei decidere, nonostante lui stesso fosse spaventato. Gli occhi di lei finirono sulle sue mani. Gliele prese e se le portò al viso, per poi farle scivolare sulle spalle e sul seno.
Ed si inumidì le labbra con la lingua, sentendo il cuore uscirgli dal petto. Non sfiorava una donna da troppo e il timore di non essere abbastanza lo catturò, sostituendo temporaneamente quell’eccitazione, ma poi Marina – come sempre – gli aprì gli occhi in un istante. Si avvicinò al suo viso lentamente, tremando, e lo baciò ancora, più forte di prima, più di prima e allora scattò in lui la molla che lo lanciava a tutta velocità verso quel momento. Non poteva in alcun modo resistere.
La prese per le gambe e si alzò, finendo poi steso su di lei. Strinse il suo seno tra le mani e cercò di liberarla del reggiseno: ci riuscì più velocemente di quanto i film per adolescenti gli avevano fatto credere e glielo sfilò definitivamente. Scese con la bocca sul suo corpo e Marina inarcò la schiena. Lei sentiva le sue labbra sottili giocare sul suo collo e la sua tensione premerle tra le gambe, ogni suo tocco bruciava. Sotto il suo peso, sovrastata dalle sue spalle nude, si sentì più donna di quanto il suo specchio le avesse mai suggerito e lo desiderava tanto da credere di non poter più resistere. I loro respiri si intrecciarono ripetutamente mentre i pantaloni scivolavano via.
  • M-marina – disse, cercando di articolare bene le parole, troppo impegnato a cercare di respirare tra i suoi baci e le sue mani – sei sicura?
Lei non rispose a parole, ma le sue mani che scendevano sempre più giù furono un’ottima risposta. Gemette troppo rumorosamente al suo tocco, facendo rimbombare la voce nella stanza. La voleva, immediatamente. Bastò ben poco per privarsi della biancheria. Con la bocca sulla sua, gli occhi chiusi, la mano sulla sua coscia e l’intero corpo in subbuglio, la fece sua.
Ed era convinto che il suo posto, su quella terra, fosse sulla sua bocca e tra le sue gambe. Mentre Marina stringeva le gambe intorno al suo bacino e chiamava il suo nome, sentì il respiro corto, ma non soltanto per il piacere: era definitivamente felice.
 
Sconvolti, ecco cos’erano.
La passione era montata troppo velocemente, lasciandoli poi stremati, ancora accasciati l’uno sull’altro, Marina che stringeva ancora le sue spalle e i suoi capelli, devastata dal momento.
Cercava ancora di riprendere fiato, sentendo la fronte umida di Edward poggiarsi sul petto. Dio, era stato…assurdo. Aveva creduto che sarebbe stato molto più timido e impacciato e invece sembrava che facesse sesso come se fosse il suo sport preferito.
Restarono immobili a lungo, lasciando che gli avvenimenti prendessero sempre più forma nelle loro menti, ma nessuno dei due riusciva più a recuperare la lucidità che avevano mantenuto fino alla sera prima. Come se da quel momento tutto fosse cambiato. Certo, l’imbarazzo che Ed provò rialzandosi per lasciar andare Marina in bagno era quadruplicato rispetto al solito, lasciandolo preoccupato mentre lei spariva con la sua felpa addosso. Marina l’aveva stregato e vederla immersa nei suoi vestiti lo faceva accendere di nuovo. Si ricompose e la attese lì, riflettendo intensamente sulle sensazioni che aveva provato: si sentiva come se fosse appena sceso dalle montagne russe, ma voleva rifarlo. Anche subito.
Soltanto quando lei rientrò nella stanza rinvenne dai suoi pensieri, poiché lei risalì sul letto e si accoccolò accanto a lui senza dire niente. La guardò e le circondò le spalle, lasciandole un bacio sulla fronte mentre lei giocava con la catenina che gli aveva regalato.
  • Hai fame? – chiese lei. – Io sì.
La accompagnò in cucina e la aiutò a ripreparare quegli spaghetti che gli erano tanto piaciuti quella volta, ma non riuscì a scollarle gli occhi di dosso, mangiandosela ogni volta che lei lo guardava e spesso e volentieri si accostava a lei, abbracciandola mentre sminuzzava qualcosa. Infilava il naso tra i suoi capelli, cercando il suo collo, ma poi doveva lasciarla andare.
Pranzarono in silenzio, ma stavolta si sedettero vicini. Di tanto in tanto si scambiavano un bacio e lui cominciava a chiedersi cosa fossero. Se non erano migliori amici – e da quel giorno avevano smesso definitivamente di esserlo – cos’erano? Beh, di certo erano qualcosa e lui non poteva fare a meno di notare che stava tornando ad essere la persona che era prima della morte di sua madre. Cominciava a ricordarsi di quel ragazzo allegro che suonava la chitarra con gli amici.
Quando più tardi Marina gli chiese se volesse del the, mentre poggiava le labbra sulle sue, il tempo stava cominciando a scorrere di nuovo a velocità normale. Coccolarla lo faceva distrarre, ma ora ricordava cosa dovesse fare quel giorno: andare al rifugio, in banca e dall’avvocato.
  • Ti va di venire con me dall’avvocato?
  • Davvero? – chiese, voltandosi.
  • Sì, ho trovato qualcuno su internet. Dovrò pur cominciare da qualche parte.
  • Va bene, Edward. – disse, mentre lo raggiungeva con la tazza fumante al tavolino accanto alla finestra.
Continuarono a studiarsi mentre si preparavano entrambi per uscire. Marina sentiva ancora la testa girare, riuscendo a stento a convincersi di aver appena fatto l’amore con lui. In quel modo così…forse non c’erano parole, ma aveva sentito qualcosa di forte tra loro. Infondo, sapeva che lui ricambiasse, ma riusciva solo adesso a percepire quel sentimento nella sua piena potenza. Era stato come poter toccare l’amore.
Quando scesero in strada e montarono in bici, la città sembrava diversa, ma non era il mondo ad essere cambiato, erano loro. Che si scambiavano veloci baci mentre i pedoni passavano sulle strisce. Che ridevano strofinandosi i nasi.
Tutto era surreale, lontano da qualsiasi cosa fossero prima di quel giorno.
 
Stringendole la mano, entrò in un piccolo portone di una via non esattamente principale e salirono due piani a piedi di una vecchia palazzina un po’ trascurata. La porta dello studio dell’avvocato Kadmon era aperta, così entrarono senza bussare e si accomodarono nella sala d’attesa. Una vecchia signora, forse la segretaria, si risparmiò di salutarli continuando a riempire il suo cruciverba. La stanza quadrata aveva le pareti bianche, ma il muro era scrostato e avevano cercato di coprirlo con i quadri, ma non era servito a molto. Si guardarono, seduti sulle vecchie sedie rosse e probabilmente stavano pensando entrambi di essere finiti nello studio sbagliato, ma la targhetta sulla porta diceva proprio “Avv. Kadmon”. Ed constatò che il testamento fosse al suo posto insieme a qualche altro documento e sospirò, sperando che più tardi in banca gli arebbero concesso un prestito.
Marina lo richiamò carezzandogli il dorso della mano col pollice, ma ebbe giusto il tempo di incontrare il suo sguardo che la porta di un’altra stanza si aprì e si voltarono entrambi. Ne uscì un uomo anziano che sussurrò un “arrivederci” per poi sparire oltre la porta d’ingresso.
  • Prego, entrate pure.
La voce che li aveva richiamati apparteneva a un uomo di mezza età, capelli più lunghi della norma e occhi scuri. Nella sua giacca, li incitò ad entrare nel suo ufficio e Ed non se lo fece ripetere due volte. Si alzò senza lasciare Marina e le strinse la mano, superandolo. Era abbastanza vuoto per essere l’ufficio di un avvocato, sulla parete la laurea e un paio di mensole, una foto e una targhetta sulla scrivania, la finestra alle spalle della poltrona di pelle nera.
  • Voi siete? – chiese quello, sedendosi al suo posto.
  • Edward Sheeran e lei è Marina Bennet. – disse Ed, sedendosi insieme a Marina dall’altra parte della scrivania. La stanza era un po’ buia.
  • Adam Kadmon, piacere mio. In cosa posso esservi utile?
  • Ecco, è una storia lunga. Si tratta della mia casa…
Con l’aiuto occasionale di Marina, Ed raccontò la storia per filo e per segno, lasciando l’uomo di stucco quando gli aveva detto di essere entrato negli archivi di Foster&Martins.
  • Non fatelo mai più! – quasi li sgridò, indicandoli.
  • Ecco, questa è la situazione. – terminò Ed. – Vorrei chiederle alcune cose e sapere se può aiutarmi.
  • Finchè abbiamo qualcosa tra le mani, puoi stare tranquillo. – disse Kadmon, analizzando la situazione nella sua mente, mentre scriveva qualche appunto su un foglio. Ed vide la sua scrittura disordinata riempire il foglio, ma non ci capiva niente.
  • Perché il mio patrigno non ha denunciato la scomparsa del testamento?
  • Forse per non dare troppo nell’occhio e per evitare ricerche approfondite da parte delle istituzioni. Se vuole avere la casa, come dici tu-
  • È così, mi creda.
  • Come fai a dirlo? Hai delle prove?
Ed tirò fuori dallo zaino il testamento e i documenti che aveva raccolto. Scorse il documento di rinuncia con molta attenzione.
  • Io non ho mai firmato quel foglio. – gli disse.
  • Vediamo… - e cercò qualcosa di preciso sul foglio. – Non ricordi dove ti trovavi il 17 Febbraio del 2009?
Ed scattò, sentendo la data del suo compleanno e Marina fece lo stesso, guardandolo. Scavò nella sua mente ricordando perfettamente quei mesi. Sua madre era morta da poco e al suo compleanno sua nonna lo spedì…da suo padre. Alzò lo sguardo sull’avvocato e gli rispose.
  • Ero con mio padre. A Londra. – disse, quasi sorpreso da se stesso.
Si passò una mano tra i capelli rossi, osservandolo annuire e studiare il resto delle scartoffie che gli aveva dato.
  • C’è qualcos’altro che devi dirmi? – lo guardò, passando dai suoi lividi ai suoi occhi con sguardo eloquente, ma lui non rispose. – Non essere timido, il fatto che quest’uomo usi violenza è solo a tuo vantaggio. Una denuncia può farci solo bene, signor Sheeran. Posso di certo darle una mano, ma deve fare come le dico.
Parlava in modo professionale, senza scomporsi, ma Ed non riusciva a pensare di denunciare Ben e poi tornare in quella casa. Come avrebbe fatto? Non poteva barricarsi in camera e non uscire più. Gli occhi scuri di Kadmon studiarono l’espressione di Marina, pallida per i troppi pensieri, ma non le chiese niente, non essendo sua cliente.
  • Crede che sia proprio necessario? – chiese alla fine, ricevendo un ‘sì’ muto in risposta. – Per me significa non poter più mettere piede in quella casa.
  • Se la rivuoi, devi farlo: più elementi abbiamo, meglio è e questa non è certo una cosa da trascurare.
Marina guardò Edward, ripensando alla questione di Jef.
  • Diglielo Edward. – e quello si girò verso di lei, sorpreso. La guardò negli occhi, capendo immediatamente cosa intendesse dirgli. – Digli di Ben…e anche di Jef.
La guardò perplesso e spaventato, poi tornò agli occhi dell’uomo in giacca e cravatta dietro la scrivania, che lo fissava con le mani giunte sul foglio scarabocchiato.
  • C’è qualcosa di importante? Se c’è qualcosa che potrebbe andare a tuo sfavore devi dirmelo. – il suo sguardo era severo di fronte alla sua incertezza. – Altrimenti potrebbero usarla contro di te. Non mi importa se si tratta di qualcosa di sbagliato, il mio lavoro è aiutarti a riavere la casa.
Ed sospirò, quasi immobilizzato: aveva troppa vergogna di confessare, ma non aveva intenzione di rinunciare alla casa.
  • Facciamo così, ragazzo: io comincio a svolgere le mie indagini e a preparare una strategia, ma entro domani devi dirmi se sei disposto a collaborare o no.
  • Certo che lo è! – disse Marina al suo posto. – Edward, smettila di pensarci – lo strattonò, riscuotendolo. – o non sarà servito a niente.
Aveva il viso contratto in un’espressione di rabbia e sapeva perfettamente che avesse ragione.
  • Forza. – disse ancora lei.
Sospirò ancora e senza guardare esplicitamente nessuno dei due, aprì la bocca.
  • Il mio patrigno mi picchia da quando mia madre è venuta a mancare e mi ha costretto a lavorare da solo da allora. – tremava nel pronunciare quelle parole. – Un paio di volte ha praticamente tentato di uccidermi. È sempre ubriaco. – continuò, guardando Marina, i cui occhi divenivano sempre più languidi. – E il mio fratellastro mi ha costretto a fargli da corriere per la droga, mettendo in pericolo me e Marina. Le persone da cui si riforniva ci hanno minacciato ripetutamente e hanno smesso soltanto dopo che gli ho restituito certi documenti che Jef gli aveva preso. Inoltre, ha molestato Marina – e lì la sua presa si fece d’acciaio e il suo sguardo di fuoco, guardando l’avvocato negli occhi. – e ieri ha tentato di violentarla.
L’avvocato guardò quasi sconvolto prima lui e poi Marina, che ora guardava altrove col viso scuro.
L’uomo si passò una mano tra i capelli.
  • Perché non sei mai scappato?
  • Perché venivano a riprendermi e dovevo prendermi cura di mia nonna, che è venuta a mancare la notte di capodanno.
  • Mi dispiace, le mie condoglianze.
Aveva la bocca secca per la velocità e la rabbia con cui aveva detto ogni cosa, ma ora che quell’uomo sapeva, in qualche modo si sentiva libero. La vergogna si stava lentamente dissolvendo.
  • Allora – ricominciò Kadmon. – posso aiutarti, ma ho bisogno di una settimana per avviare le denunce e la causa. Dovrai essere reperibile e preparati a chiamare tuo padre, ci serve.
  • Per cosa?
  • Dovrà testimoniare. – gli disse, mostrandogli il documento falsificato.
Si accordarono per le spese e si scambiarono e-mail e numero di cellulare, dopodiché si strinsero la mano e sperò di essersi messo nelle mani giuste, ma proprio mentre lo pensava, Kadmon aggiunse qualcosa sull’uscio della porta.
  • Possiamo farcela.
Mentre loro tornavano in strada, dall’altra parte della città Ben pensava di avergliela fatta a quell’idiota di Ed, avendo consegnato i documenti quella mattina al comune insieme al suo avvocato, ma qualcosa prese a preoccuparlo.
Entrando in camera del suo figliastro, scorse un foglio spuntare da sotto al letto. Lo stemma del comune attirò la sua attenzione e lo prese. Lo riconobbe immediatamente e fu certo del fatto che il rosso avesse scoperto qualcosa. Forse anche troppo.
 
Marina aveva continuato a dirgli di aver fatto la cosa giusta e che se fosse stato necessario si sarebbe trasferito da lei, non importava per quanto tempo, le bastava che Ben non gli facesse del male. Sapeva di essere avventata, ma ne andava della vita di Edward e non le importava di nient’altro.
La banca aveva accettato la sua richiesta di un prestito, che avrebbe dovuto restituire in cinque anni, non di più, poi passarono al rifugio a riempire le ciotole.
Edward rimase per diversi minuti in silenzio accanto a Paw, sospirando di continuo.
Marina faceva finta di niente mentre carezzava i piccoli nell’angolo opposto della stanza e si chiese a cosa stesse pensando. Sapeva che sarebbero stati tempi duri per lui, dato che avrebbe scoperto tutte le carte, ma era necessario che lo facesse. Anche lei aveva paura, il solo pensiero di Jef o di Ben – l’uomo che aveva imparato a temere senza nemmeno averlo mai incontrato – le facevano gelare il sangue nelle vene. Avrebbe convinto Ed a trasferirsi da lei e lo avrebbe aiutato in tutti i modi possibili.
Le sue mani scivolavano sulla testa di Paw in modo meccanico e sorrise vedendo il gatto arancione chiudere gli occhi a quel tocco. Lo raggiunse, sedendosi accanto a lui e trovando ben presto i suoi occhi.
  • A cosa stai pensando?
  • A troppe cose.
  • Sono sicura che Kadmon se la saprà cavare, mi sembrava un tipo competente.
  • Anche a me, ma non è questo che mi preoccupa. – distolse lo sguardo da lei e grattò il gatto sulla pancia. – Ho paura che quando tutto sarà finito Ben mi tormenterà e prenderà di mira anche te.
  • Faremo in modo che non accada. – disse lei, portando un braccio sulle sue spalle.
Lo avrebbe incoraggiato fino alla fine.
Gli stampò un bacio sulla guancia, facendolo vagamente sorridere e lo invitò a tornare a casa. Durante il tragitto cominciò a parlargli della sua idea, spiegandogli anche cosa avrebbe dovuto portare via subito da casa.
  • Ovviamente prenderai prima i vestiti e le cose di valore, tutto il resto potrà aspettare.
  • Non lo so, Marina…
  • Lo so io, Edward. Non esiste che resti in quella casa dopo la denuncia. Fosse per me, ti spedirei a recuperare le tue cose immediatamente.
Rientrarono nel tepore della casa ad ora di cena, più stanchi di quanto si aspettassero. Cenarono davanti alla tv, guardando distrattamente un film.
Con le mani libere Ed potè abbracciarla senza problemi, facendo quel gesto con una nuova naturalezza, di cui anche Marina si sorprese, ma lui si sentiva bene quando lo faceva. Si voltò verso di lei, immaginando come sarebbe stato vivere con lei per un po’, forse molto meglio di quanto immaginasse. Le sfiorò il naso con il proprio, illuminati solo dalla tv, e la baciò. I ricordi ancora freschi e confusi di quella mattina annebbiavano la mente di entrambi: avevano superato quel limite con una leggerezza del tutto assurda rispetto a tutto ciò che c’era stato prima. Per arrivare al bacio avevano dovuto lottare tra loro e con se stessi, avevano dovuto accettare che l’altro varcasse definitivamente i cancelli della propria anima ed ora sembrava tutto più facile. Persino Edward era riuscito a lasciarsi andare e quella sua disinvoltura nell’accettare il momento e tutto ciò che fare l’amore con Marina significava, voleva dire che era stato totalmente inghiottito da lei. Accettare di amarla significava amare un po’ anche se stesso. Non c’era più bisogno nemmeno del coraggio: Marina gli dava una forza che non credeva di poter avere.
Così, il divano che li aveva visti conoscersi a poco a poco, adesso accoglieva i loro baci, ma era diventato così naturale far incontrare le loro labbra, come se fossero fatte per stare insieme. Eccolo il ragazzo normale, quello che sapeva ridere e che non aveva più paura degli esseri umani. Quello che non aveva paura di Marina. Non aveva più dubbi ed aveva ritrovato se stesso, percepiva di nuovo la sua anima e il suo peso, sapeva chi era. Edward era tornato a vivere, sulle sue labbra. Aveva scaricato per sempre quella maschera che aveva portato per troppo tempo ed ora era felice di mostrarsi a lei per ciò che era e sentirsi amato comunque.
Sentiva il suo profumo di lavanda, ma adesso riusciva a distinguere anche quello della sua pelle. Sentì le sue labbra divenire più impazienti e le sue mani posarsi sul suo petto. Bastò quello.
Marina salì su di lui, sfilandosi immediatamente il maglione e Ed non esitò un istante, aiutandola a sfilare la sua felpa e a sbottonare i jeans. Amava il modo in cui i suoi fianchi si allargassero a partire dall’altezza dell’ombelico e gli piacevano le sue gambe che gli stringevano i fianchi.
Si muoveva su di lui facendogli perdere del tutto il controllo e la lasciò guidare quel gioco, con le mani sulla sua schiena.
Marina passava dal suoi capelli alle sue spalle larghe, per poi spingersi oltre. Il modo in cui il calore lasciava il corpo di Edward la fece accendere ulteriormente. Le sue labbra erano di fuoco, sul suo collo ed era così bello sentire la sua presa priva di incertezze.
Finirono a fare l’amore sul divano, ma probabilmente avrebbero sperimentato ogni angolo della casa o, perlomeno, quella era l’idea di Edward mentre si portava sopra di lei.
Dio, l’amava. La amava ad ogni spinta e ad ogni bacio.
La amava ad ogni sospiro. L’amava quasi per istinto.
La amò ancora di più quando lei gli prese il viso tra le mani e disse:
  • Ti amo. Te lo giuro.
E lui rispose:
  • Non posso crederci, ma ti amo anch’io.







Angolo autrice:

Ecco, spero che le aspettative che avevo creato non siano state deluse.
Questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere: sentendo quasi distintamente lo stato d'animo dei personaggi, ero quasi troppo emozionata, quindi spero di non aver combinato un disastro.
Inoltre, devo ringraziare Huntress of Artemis, perchè è stata lei a darmi l'idea di Adam Kadmon come avvocato. Grazie Molly, questo personaggio l'hai creato tu! :)
Dunque, non so cos'altro dire, lascio a voi i commenti.
Posso solo ringraziarvi per le visite e le recensioni - grazie imcecy, grazie Lunastorta_Weasley - e sperare che la storia non vi stia deludendo.
Sappiate solo che non è finita qui.
Grazie a tutti voi e a presto!

S.



Bonus: Adam Kadmon, il volto e lo spirito del nostro avvocato e Ed in versione casalinga (quella tenera e quella sexy).



 

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Capitolo 31
*** XXXI ***








 
XXXI






Tra le lenzuola erano intrappolate le sue paure e le sue speranze, mischiate tra loro nelle pieghe delle coperte, tra i capelli di Marina che dormiva accanto a lui. Era indescrivibile la sensazione che sentiva guardandola alle prime luci dell’alba, ma i suoi due giorni di lutto erano finiti e nonostante fosse sabato, doveva fare la sua mezza giornata in biblioteca. Sarebbe stato facile se non avesse dovuto fare una capatina a casa.
Nella stanza ancora buia, cercava i suoi vestiti e le sue scarpe, ancora intontito dal piacevole sonno dal quale aveva dovuto ridestarsi e il pensiero di tornare a casa sua era fastidioso, ma doveva andare. Lì c’era la sua copia delle chiavi della biblioteca e i suoi vestiti puliti.
Sospirò voltandosi verso Marina: era troppo bella per lui, ma non avrebbe rinunciato ai suoi baci e al suo amore per nulla al mondo. Forse nemmeno per la sua casa, ma quella era meglio tenerla. Così, si fece coraggio e tese le mani fino a lei.
  • Marina? – sussurrò nel buio. – Devo andare.
Lei mugugnò, aggrappandosi alle sue braccia e tirandolo a sé.
  • Ti prego, non fare così. – quasi rise lui. – Vorrei restare, ma devo andare al lavoro.
  • Uhm. – continuò lei. – Ti lascio andare solo se stasera torni qui.
  • Ne parliamo più tardi, va bene?
Guardò i suoi occhi aprirsi lentamente, abbinandosi alla sua pelle liscia, e si intenerì. Sentiva i suoi stessi occhi stringersi per il sorriso troppo largo, godendosi la sensazione del suo calore. Quando poi lei annuì, si diede un pizzico sulla pancia e si alzò per andare. Recuperò le sue cose sparse per la casa ed uscì.
La prima sensazione che sentì montando in bici e cominciando a pedalare verso casa, fu la voglia irrefrenabile di tornare a letto da lei e poi fermare il tempo.
Ma non poteva. Quello era il primo giorno di guerra e doveva farsi forza.
 
Probabilmente Ben e Jef non lo avrebbero nemmeno sentito arrivare o andare via, ma dovette preparare comunque la colazione perché se al contrario uno dei due avesse capito che era stato lì, sarebbe finito nei guai. E l’ultima cosa che voleva era una dose di cazzotti.
Quando oltrepassò la porta, l’odore familiare della casa gli fece ricordare troppe cose, il profumo di sua madre, il viso di sua nonna. Per un attimo sentì il cuore incrinarsi mentre si sistemava i capelli scompigliati dal cappello tirato via.
Era davvero inspiegabile come il suo cuore riuscisse a reggere tutte quelle emozioni diverse tra loro: era ferito dalla perdita dei suoi cari, ma l’amore di Marina curava le sue cicatrici e gli donava una gioia che non aveva mai provato, fino a renderlo felice nonostante tutto, poi c’era la paura di perdere la casa e lo sdegno che provava verso Ben e verso se stesso. Ancora non capiva come non fosse impazzito.
Dopo aver messo la teiera sul fuoco, corse in camera sua per recuperare vestiti puliti e chiavi, ma ebbe una brutta sensazione quando giunse alla sua porta e la trovò aperta.
Era sicuro di averla chiusa prima di andare via l’ultima volta. Si fermò un attimo a contemplare l’immagine complessiva della sua stanza, cercando qualcosa fuori posto, ma sembrava tutto in ordine, esattamente come l’aveva lasciata.
Eppure, qualcosa non tornava: era quasi certo che qualcuno ci fosse entrato. Varcò definitivamente la soglia e si guardò di nuovo intorno. Niente, sembrava tutto normale.
Il fischio della teiera lo riscosse, ricordandogli che entro mezz’ora doveva essere al lavoro, così raccolse le sue cose – compreso il malloppo di documenti che aveva nascosto – e ridiscese le scale di corsa.
Al piano di sotto non c’era ancora nessuno, ma sentiva ancora il petto appesantito per la preoccupazione mentre poggiava la chitarra in un angolo e metteva il the in infusione. Non sapeva perché, ma aveva un cattivo presentimento. Continuò a guardarsi intorno con circospezione, alla ricerca di un dettaglio fuori posto, di un foglio dimenticato in giro, di qualsiasi cosa.
Pensò a Marina mentre mangiava qualche biscotto e ricordò il suo viso, il suo corpo, riuscendo finalmente a tranquillizzarsi. Sarebbe andato tutto bene – pensò, giocando con la collanina dorata e quando sentì Ben alzarsi, decise che fosse ora di dileguarsi. Lasciò la colazione sul tavolo e prese un bicchiere d’acqua dal frigo, poi infilò il cappotto e sgattaiolò all’esterno.
Non appena fu fuori, si sentì come risollevato, come se stando in quella casa si sentisse oppresso, vittima di un giogo di sentimenti negativi che lo schiacciavano. Guardò la facciata della casa, la vernice gialla che cominciava a scrostarsi e prese un profondo sospiro. La sua vita era un casino e lo aspettavano tempi duri, ma quella sera sarebbe tornato da Marina e avrebbe avuto il coraggio di affrontare ogni cosa.
Montò in sella alla bici e sfrecciò al lavoro con una certezza: avrebbe combattuto fino alla fine.
Per Henry.
Per Evangeline.
Per sua madre.
Per Marina.
Per se stesso.
 
Il rientro in biblioteca se lo aspettava diverso ed invece era come tutti gli altri giorni. Per qualche motivo aveva creduto che qualcuno lo aspettasse ed invece era stato ignorato da tutti: la sua popolarità di eroe era già terminata, proprio come aveva previsto. Poi la gente si chiedeva perché fosse così diffidente. Beh, ecco il motivo.
Aveva già risistemato il gran casino che il suo sostituto gli aveva gentilmente lasciato dietro al bancone, poi aveva ripreso le sue solite attività. La polvere dei libri non gli era mancata affatto, ma niente lo disturbava come la fila per i prestiti e quel giorno sembrava essere decisamente lunga. Ma cosa avevano tutti da studiare?
Di tanto in tanto sentiva qualcuno lamentarsi per l’attesa, disturbando il suo precario equilibrio psichico. Non si sentiva davvero in forma, quella mattina, nonostante avesse dormito come un sasso per due notti di fila e per più di 5 ore.
  • Scrivi il tuo nome e la data di oggi. – indicò ad una ragazza che evidentemente non aveva mai preso un libro in prestito.
Mentre osservava la mano della persona che aveva davanti, dovette per un attimo poggiarsi sul bancone, sentendo il sangue defluire dalle sue guance. Strizzò gli occhi e si concentrò su quell’improvviso capogiro, cercando di respirare regolarmente.
  • Adesso scrivo il titolo del libro? – chiese la ragazza.
  • U-uhm – riaprì gli occhi. – Sì.
Guardando sul modulo si rese conto che non riusciva a distinguere le lettere. Eppure aveva fatto colazione. Strinse i denti e prese il modulo completo – o almeno credeva – e si allontanò alla ricerca del libro, anche se non riusciva a distinguerne bene il titolo. Durante il suo giro tra gli scaffali si chiese se il riscaldamento non fosse troppo alto quel giorno, perché cominciava a sentire davvero caldo.
Quando tornò indietro e si ritrovò davanti la persona successiva, si sfilò il maglione, senza pensarci due volte.
Era davvero confuso. Sentiva di perdere sempre di più il contatto con la realtà, ma dovette sforzarsi di controllarsi, ritrovandosi davanti il bellimbusto figlio di papà.
  • Ciao, pel di carota. – Non aveva la forza nemmeno di guardarlo male. – Se aspettavo te per riempire il modulo facevamo notte.
Quello, con tutto il disprezzo di cui fosse capace, gli tese il foglio già compilato, guardandolo dall’alto in basso, ma lui non se ne accorse. A stento distingueva il contorno del suo viso.
Sentendo il cuore accelerare i battiti, si portò una mano al petto e alla gola. Dio, aveva sete. E gli mancava l’aria. E stava sudando nonostante fosse rimasto in t-shirt.
  • Ti vuoi muovere? – insistette Philip, dall’altra parte del bancone.
Alzò lo sguardo verso di lui, sicuro che il resto della biblioteca si fosse voltato a guardarli. Le immagini che vedeva cominciarono a vorticare, annullando qualsiasi sentimento e percezione e fu certo che qualcosa non andava. Senza pensare ad altro, cercò di allontanarsi dal bancone, reggendosi a tutto ciò che gli capitava a tiro.
  • Dove stai andando? – urlò Philip.
Doveva cercare dell’acqua, sedersi. Era sicuro che stesse per svenire.
Sentiva le gambe molli di passo in passo e il cuore salirgli in gola.
Quando fu sotto l’uscio dello stanzino, si aggrappò allo stipite, poggiandovi la testa. Non riusciva più a muoversi, ogni cosa girava come una trottola e quasi non sentiva più il vociare della gente, che invece si faceva sempre più intenso.
Mentre Ed perdeva la cognizione di se stesso, i presenti lo videro scivolare a terra sotto la porta e qualcuno si alzò per soccorrerlo.
  • Si sente male! – disse una ragazza, raggiungendolo oltre il bancone.
Quando giunse fino a lui, lo prese per le spalle, cercando di reggergli la testa ormai abbandonata. Era eccessivamente pallido e sudato, gli occhi socchiusi facevano impressione.
Ed percepì quella presenza, ma non fu sicuro che fosse reale, troppo distratto dalla nausea e dalla mancanza d’aria. Non capiva più nulla. Era fuori di sé. Non sentiva più il suo corpo, non sapeva nemmeno se fosse ancora cosciente.
Intorno a lui, le persone si radunarono in cerchio per guardare, come se fosse un fenomeno da baraccone e intanto solo una persona era stata abbastanza coraggiosa da andare ad aiutarlo e chiamare l’ambulanza.
Poco prima che perdesse i sensi, si ricordò di Marina. Doveva avvertire Marina che c’era qualcosa che non andava, ma non fece in tempo a formulare un altro pensiero che svenne tra le braccia di quella sconosciuta.
 
L’aria entrava ed usciva dai suoi polmoni quasi graffiandole la gola, mentre correva verso l’ospedale. La paura le schiacciava il petto mentre risentiva la voce della segretaria che conosceva Edward rimbombarle nelle orecchie.
Ed è al pronto soccorso, ha perso i sensi.
Il terrore era tale da farla piangere, mentre oltrepassava le porte automatiche e incontrava immediatamente gli occhi di Stephany.
La donna, sapendo che lui non avesse nessuno, aveva recuperato il suo numero di cellulare dalla sua cartella clinica e l’aveva chiamata non appena lui aveva fatto il suo ingresso in barella.
Marina, con gli occhi spalancati e la gola stretta in una morsa, non riuscì a dire una sola parola quando Stephany le andò incontro.
  • Calmati. – disse immediatamente quella, leggendo sul suo viso il panico. – Se ti presenti così non ti faranno entrare.
  • Cosa… - ma dovette fermarsi per cercare di respirare. – Cosa è successo?
  • Credono che si tratti di un’intossicazione. Ora è ricoverato al terzo piano, ma se fai così non ti lasceranno entrare!
Marina, incapace di fermare le lacrime, si portò una mano alla bocca, cercando di fermare i singhiozzi. Stephany non aveva idea di come si sentisse in quel momento, di come si fosse sentita quando l’aveva chiamata: era come se un enorme macigno le fosse caduto addosso e non ci fosse alcun modo di toglierlo. Tremava.
  • Intossicazione? – realizzò, alla fine.
  • Non so dirti di più, mi dispiace.
  • Devo andare da lui. – sussurrò.
Stephany la accompagnò fino all’ascensore, dopodiché dovette tornare alla sua postazione. Anche per lei vedere Ed su una barella era stato traumatico. Il ragazzo-pagliaccio era cresciuto di domenica in domenica davanti ai suoi occhi e avrebbe dato volentieri un rene per lui. Se ne vedevano poche di persone così e quella ragazza avrebbe fatto meglio a tenerselo stretto.
Marina contava i secondi che l’ascensore impiegava a salire e cercò di respirare profondamente. Il neon bianco della cabina era lugubre e freddo sul suo viso pallido, ma le permise di non notare troppo il suo riflesso nello specchio. Quando l’ascensore si fermò al terzo piano, si fece largo tra la gente che doveva entrare e si guardò intorno, alla ricerca della direzione giusta. Tra i medici e le infermiere, individuò l’ingresso del reparto illuminato dalla luce del giorno e vi si inoltrò. Il rumore dei suoi passi veloci faceva eco oltre il chiacchiericcio sommesso di alcuni pazienti che sostavano in corridoio e che probabilmente sapevano perché fosse così di fretta.
35, 36, 37, 38…39.
Eccola, la stanza. Si passò una mano sotto agli occhi per cancellare le lacrime e senza più indugiare, entrò.
Non appena vide la sua figura, il suo cuore riprese a battere, come se fino a quel momento lo avesse creduto morto ed invece era lì e il suo petto si gonfiava e si sgonfiava sotto le lenzuola candide. Dormiva.
Per fortuna era solo in quella stanza, così potè entrare e accomodarsi accanto a lui.
In un attimo, i ricordi dell’incidente di poche settimane prima riportarono a galla la sensazione che si prova quando si sta in un letto d’ospedale e si sentì ancora peggio di prima al pensiero che non fosse con lui quando aveva perso i sensi. Invece, Edward era sempre lì quando aveva bisogno.
I suoi lividi spiccavano sulla pelle bianca, sbucavano da sotto i capelli ormai un po’ troppo lunghi e violavano il suo viso disteso. Gli prese la mano e la sentì piacevolmente calda.
Sentire la sua pelle sotto le dita e sentire il suo respiro, furono l’antidoto. Lentamente, i suoi battiti tornarono nella norma, il nodo allo stomaco si sciolse, perché lui era vivo, davanti a lei. Tuttavia, il suo calore non cancellò la paura. Non riusciva a capire cosa fosse successo, di che tipo di intossicazione si trattasse e come fosse possibile che fosse accaduto tutto nel giro di poche ore. Erano solo le 12.30 ed erano bastate sei ore per far precipitare la situazione.
Ripercorse mentalmente i loro pranzi e le loro cene ed era certa che non avessero mangiato nulla di avariato o simili. D’altronde, avrebbe dovuto star male anche lei, in quel caso, ma non era così. L’unico ad essere svenuto, era lui.
Voleva ringraziare chiunque l’avesse soccorso, ma prima di tutto voleva parlare con un medico.
Non riuscì a distaccarsi da lui per troppo tempo, troppo sollevata dal carezzargli la mano. Il suo Edward era in ospedale e lei non riusciva a smettere di desiderare di essere al suo posto.
Quando finalmente si decise, lasciò la stanza alla ricerca del medico indicato sulla sua cartella, posta ai piedi del letto. Vagò per troppi minuti senza risultati, così chiese ad un’infermiera di poterla aiutare.
  • Cerco il dottor Rosenthal, sa dirmi dove posso trovarlo?
L’infermiera doveva essere abituata a vedere un viso segnato come il suo, di fatti non diede alcun segno di aver notato il suo trucco sciolto o il suo viso pallido, si limitò a sorriderle e a guidarla per il lungo corridoio bianco. Quella mattina il sole era piacevolmente tiepido sulla pelle, ma gli occhi di Marina quasi non lo vedevano, troppo concentrati sulla schiena della donna che la precedeva, avvolta nella divisa bianca.
Si fermarono alla prima porta del reparto e attese poco distante.
  • Dottore, c’è una ragazza che vorrebbe parlarle. – disse quella, sporgendosi all’interno di quello che doveva essere l’ufficio del medico.
  • Arrivo subito. – disse una voce atona, fuoricampo.
L’infermiera le fece un cenno col capo e si allontanò, lasciandola sola. Era agitata, aveva paura di ciò che quell’uomo le avrebbe detto. Mentre si tormentava l’orlo del maglione, l’uomo uscì: il classico medico in camice, con stetoscopio al collo e penna nel taschino. Era molto alto e aveva i capelli brizzolati.
  • Salve, sono il dottor Rosenthal. – le tese la mano con disinvoltura.
  • S-salve, Marina Bennett. – rispose lei, porgendogli la mano ancora fredda per lo shock.
  • Come posso esserle utile? – fece quello, cercando qualcosa nelle tasche.
  • I-il mio amico è stato ricoverato poche ore fa e vorrei sapere cosa gli sia successo.
  • Nome?
  • Edward Sheeran, è nella stanza 39.
  • Ah, il ragazzo avvelenato.
I pensieri di Marina si ghiacciarono per un secondo, aveva del tutto smesso di funzionare. Quando il flusso riprese e assorbì meglio il significato di quella parola, mostrò tutto il suo disappunto.
  • Come sarebbe a dire? – il suo viso era palesemente in preda alla confusione.
  • Mi segua. – e quello si avviò verso la stanza, per poi riprendere a parlare. – Vede, quando il suo amico è arrivato con l’ambulanza era quasi morto. – Marina sobbalzò, credendo che sarebbe morta prima di arrivare da Ed. – Non aveva quasi più polso, la pressione era minima e le funzioni vitali erano quasi del tutto sparite. Ovviamente i paramedici hanno pensato ad un semplice mancamento, ma le flebo e la routine farmaceutica per le perdite di coscienza non sono serviti. È stato mantenuto in vita col respiratore e il defibrillatore mentre il laboratorio faceva le analisi ed abbiamo riscontrato un alto tasso di triossido arsenioso nel sangue.
Il medico la guardò con sguardo eloquente, ma Marina continuava a non capire. Aveva solo capito che Edward era arrivato lì quasi morto e che era un miracolo che fossero riusciti a tenerlo in vita. Ondeggiando lungo il corridoio, l’uomo di mezza età sospirò, comprendendo la sua confusione, così continuò.
  • In poche parole, arsenico. Uno dei veleni più famosi e letali al mondo. È insapore, inodore e incolore. – spiegò, come se stesse ripetendo un paragrafo da dire all’esame. – Si tratta di qualcosa che è molto difficile da assumere per sbaglio. Molto probabilmente ha bevuto qualcosa di contaminato. In ogni caso – ed allora la guardò dritto negli occhi – la quantità di veleno presente nel sangue era davvero eccessiva e piuttosto…inusuale. Chi l’ha usata non deve essere molto esperto.
  • C-cioè…lei crede davvero che sia stato avvelenato volontariamente? – lo sguardo gelido di Jef si presentò nella sua mente con una prepotenza inaudita e accanto a lui, l’idea di Ben.
  • Diciamo che il mio lavoro non mi permette di fare una tale valutazione, ma…è bene che sappia che io ho questa impressione.
Non attese che lei rispondesse oltre ed entrò nella stanza, dirigendosi direttamente verso il suo paziente, ancora pallido e addormentato. Si armò di stetoscopio e gli aprì la camicia ospedaliera, rivelando il suo torace livido e auscultò il suo battito.
  • Vede, signorina Bennett, al suo amico è stato somministrato immediatamente l’antidoto, ma se l’è vista brutta dato che la dose di veleno che aveva ingerito era particolarmente concentrata e l’antidoto stesso può diventare un potente veleno se assunto in quantità superiori alla norma consentita. È un miracolo che sia vivo. – ammise.
  • Quindi, si riprenderà? – disse, fissando le mani immobili di Edward, poggiate sui lati del letto. Il pensiero che quelle dita avrebbero potuto non sfiorare mai più una chitarra era pesante, quasi inaccettabile. Insostenibile.
  • Ci vorrà tempo e avrà bisogno di assistenza. Per il resto – disse, togliendo lo stetoscopio dalle orecchie e tornando a guardarla. – sta bene. È stato molto fortunato.
  • La ringrazio, dottor Rosenthal.
Si rese conto solo in quel momento che la sua voce fosse ancora tremula e spezzata, ma si perdonò, salutando il medico e tornando ad essere sola nella stanza. Non aveva mai avuto tanta paura e più lo guardava, più sentiva quella spiacevole sensazione crescerle nel petto. Aveva rischiato di perderlo.
Quando si accomodò di nuovo accanto a lui e gli prese la mano, cercò di trovare un senso logico alle parole del dottore.
Avvelenato volontariamente.
Ben.
La casa.
Era l’unica spiegazione possibile, ma quell’uomo era davvero arrivato a tanto?
Di una sola cosa era certa: Edward non poteva più tornare a casa.
 
Quando le infermiere la cacciarono per sistemare le sue flebo e le apparecchiature, si preoccupò di organizzare il tutto, per lui. Informò Pit della loro assenza di quella sera, scusandosi mille volte per la frequenza con cui stava capitando e ricevendo in risposta solo parole di consolazione. Aveva parlato al telefono con Nathan, che per qualche motivo era già al locale, aveva avvertito Jody e il comune, per il lavoro di Edward. Aveva già fatto la spesa quella mattina e cominciò a pensare di dover chiamare una supplente per la ripresa delle lezioni, ma forse era un po’ presto per quello.
Continuò a rimuginare sulle parole del dottore e ancora non riusciva a credere che tutto quello non fosse casuale, ma se quell’uomo si era curato di fargli notare quel dettaglio ben più di una volta, probabilmente non doveva sottovalutare che quell’ipotesi fosse verificabile e che Ben avesse tentato di uccidere il suo figliastro.
Con la testa poggiata nel palmo di lui, stretto tra le sue mani, sospirò pesantemente, indecisa sul da farsi. Probabilmente avrebbe dovuto chiamare Kadmon, ma non poteva farlo senza il suo consenso, quindi attese.
Dopo interminabili ore di silenzio e di preghiera, Edward diede segno di essersi svegliato. Mugugnava, probabilmente per la luce troppo forte e lentamente Marina vide i suoi occhi aprirsi. Immediatamente si sporse verso di lui, sorridendo.
  • Sono qui. – lo rassicurò immediatamente, poggiando la mano sul suo viso.
Lui la guardò, estremamente confuso. Si chiese quanto fosse consapevole degli ultimi eventi, ma sembrava non ricordare nulla dato che si guardava intorno con sorpresa. Marina si morse le labbra, in attesa della sua domanda.
  • Perché sono qui? – disse flebilmente Ed, senza scostarsi dalla sua carezza. Vedere i suoi occhi era piuttosto rassicurante.
  • Ti sei sentito poco bene. – cominciò a dire, ma lo sguardo di lui attendeva il resto della spiegazione.
Marina, col cuore in gola, gli raccontò ciò che il medico le aveva detto, senza però avere il coraggio di pronunciare il nome del suo patrigno o il nome del veleno che gli avevano trovato nel sangue. Ad ogni parola, lui sembrava ridestarsi, probabilmente ricordando qualcuna delle sue azioni. Quando lei terminò di parlare, lasciò cadere la testa sul cuscino e cercò di mettere insieme i pezzi.
  • Che ben abbia cercato di uccidermi, non è tanto strano. Mi odia.
E dopo quella constatazione calò il silenzio. Non seppe per quanto tempo erano rimasti a guardarsi, le mani di Marina gli carezzarono la fronte a lungo, ma l’atmosfera di silenzio e riflessione fu interrotta da qualcuno che bussava alla porta. Entrambi portarono lo sguardo sull’uscio e si scoprirono sorpresi nel vedere entrare due poliziotti.
  • Edward Christopher Sheeran? – disse un agente dallo sguardo distaccato.
  • Sono io. – disse Ed, con un terribile presentimento. La stessa Marina cominciava a razionalizzare la paura e a capire perché potessero essere lì.
  • Dovremmo farle qualche domanda. – continuò.
Entrarono ed entrambi si guardarono pallidi. Marina credette che quello fosse un incubo e che a momenti si sarebbe svegliata.
  • Ha mai fatto uso di droghe?
In un momento, Marina capì che doveva chiamare immediatamente Kadmon.
 
Non appena era riuscita a recuperare il cellulare del rosso dal bagno, dove era stato conservato insieme al resto delle sue cose, aveva contattato Kadmon e lo aveva avvertito di ogni cosa. Non c’era tempo di parlare o di far ragionare il rosso, doveva farlo e così l’avvocato li stava raggiungendo all’ospedale. Intanto, Edward veniva messo sotto torchio dalla polizia e a giudicare dalle loro domande, dovevano aver saputo qualcosa su quella questione del corriere.
  • Dove si trovava la notte tra il 15 e il 16 Dicembre?
  • Perché ha cercato un lavoro all’Hawking Pub?
  • Chi l’ha conciata in questo modo?
  • Ha mai avuto problemi con la legge?
  • È mai stato coinvolto in una rissa?
Erano tutte domande che presupponevano dei sospetti.
Marina rientrò nella stanza, cercando di simulare normalità, ma uno dei due poliziotti la squadrò, cercando sul suo viso il segno della paura e dell’incertezza. Così, non seppe come, sorrise e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e tornò accanto ad Edward come se nulla fosse. Come se fosse normale ricevere la visita della polizia in ospedale. In realtà tremava e Edward lo sentiva mentre le stringeva a sua volta la mano. Era terribilmente agitato, ma la sua condizione di ricoverato faceva apparire il suo pallore come normale, niente a che fare con l’agitazione.
Il suo cuore palpitava all’impazzata e non sapeva più cosa dire.
  • Cosa succede? – il dottor Rosenthal si precipitò nella stanza. – Siamo in un ospedale, non in caserma.
  • Stiamo facendo solo qualche domanda.
  • Non mi interessa, il mio paziente ha rischiato la vita poche ore fa e non deve subire alcun tipo di stress. – disse, severo quanto loro. – Vi prego di accomodarvi fuori.
  • La signorina viene con noi. – disse inaspettatamente lo stesso poliziotto che fino a quel momento aveva parlato. Il suo tono continuava ad essere gelido.
Marina scattò, sapendo che il dottore per lei non poteva fare niente.
Gli uomini in divisa attesero che lei si alzasse per seguirli. Guardò Edward negli occhi, impaurita e lui potè soltanto stringerle di più la mano, mortificato per averla messa di nuovo nei guai. Tuttavia, Marina accolse quella sua silenziosa stretta e portò via con sé tutta l’energia che le aveva trasmesso.
Non guardò il dottore, che invece la seguiva con lo sguardo, e lasciò la stanza, accomodandosi sulle sedie del corridoio. Non sapeva cosa avrebbe detto.
  • Che rapporti ha col signor Sheeran?
  • Uhm, siamo buoni amici. – disse soltanto.
  • Da quanto tempo vi conoscete?
  • A questa domanda – una voce che non era la sua si intromise nel discorso, risollevandola. – risponderà solo in mia presenza.
Adam Kadmon giungeva a loro senza fiato per la corsa e si affiancava a lei, stringendo la mano ai due agenti. I lunghi capelli scuri erano spettinati e i suoi occhi neri non lasciavano trasparire nulla.
  • La signorina Bennett e il signor Sheeran sono miei clienti e risponderanno alle domande solo tramite me. – dichiarò in modo del tutto professionale. Lei continuava a guardarlo troppo confusa. – Di cosa si tratta?
  • Riteniamo che i suoi clienti siano coinvolti nello spaccio di droga che interessa la città. – Marina rabbrividì, dato che le sue paure si stavano realizzando.
  • Quali sono le motivazioni che muovono le accuse? – chiese, tirando fuori la sua agenda dalla valigetta di pelle nera.
  • Una denuncia anonima. – disse il poliziotto, avendo capito che l’avvocato gli aveva chiuso tutte le porte con una sola domanda.
  • Molto bene. I miei clienti depositeranno in modo volontario non appena il signor Sheeran sarà dimesso, credo che sia il minimo che possiate concedere agli accusati. Infondo si tratta di una banale denuncia anonima. Dico bene? – chiese ai poliziotti, senza spezzare la lastra di ghiaccio che lo separava dalle autorità.
  • Dice bene, avvocato. – una terza voce si aggiunse al coro e Marina la conosceva bene. – Sono Josh Tramp, agente sotto copertura.
Quello che avanzava a passo deciso verso di loro, mostrando il distintivo, era qualcuno di cui nessuno avrebbe mai sospettato, qualcuno che la stessa Marina non si sarebbe mai aspettata di vedere lì, in quella veste. Il poliziotto in borghese che stava prendendo le sue parti era Nathan.
  • Seguo personalmente il caso da un mese, quindi non preoccupatevi. – disse ai suoi colleghi. – Potete andare.
Gli agenti furono costretti a dileguarsi e Nathan la guardò, comprendendo la sua sorpresa.
  • Scusa. – le disse. – Ma ti ho salvato. – sorrise poi.
  • Nathan… - cercò di dire.
  • Josh. – la corresse, passandosi le mani nel suo ciuffo di copertura.
Marina non riuscì ad aggiungere un'altra parola. Né lei e tantomeno Ed avevano mai sospettato nulla ed ora scopriva che un poliziotto li seguiva da chi sa quanto.
  • Lei è stato incaricato di sorvegliare il mio cliente? – intervenne Kadmon.
  • Sì e so già che è innocente, non si preoccupi. – Annuì, puntando gli occhi su di lei e poi di nuovo su Kadmon, come per rassicurare entrambi. – Ora scusate, vado a vedere come sta Ed.
Non appena rimasero soli, Kadmon sembrò cambiare personalità. Guardò Marina con i suoi occhi profondi e caldi e parlò.
  • Cosa diavolo succede?
  • Non lo so. – Marina, nonostante le parole di “Josh” sull’innocenza di Edward, non poteva fare a meno di sentirsi presa in giro.
Tuttavia, era il momento di mettere insieme i pezzi, difatti Kadmon si accomodò accanto a lei e la pregò di raccontargli ogni cosa. Marina, ancora spiazzata, non sapeva da dove cominciare, ma credette che partire da quella mattina fosse la cosa più facile.
Kadmon la ascoltò senza interromperla per un solo istante, rendendosi conto che le possibilità di avanzare un’accusa di tentato omicidio fossero concrete, dovevano solo recuperare la prova. Non aveva idea di cosa avesse potuto bere Ed, ma per quello sarebbe bastato parlare con lui. Per la questione della droga, avevano il coltello dalla parte del manico, perché il suo cliente non aveva mai fatto uso di droghe. Mai. Il suo fratellastro, invece, probabilmente ne aveva anche nelle scarpe.
Cercò di tranquillizzare la ragazza, più innocente di un bambino in quella situazione e le assicurò che l’avrebbe tirata fuori da quella storia, sarebbe stato un gioco da ragazzi. E poi, avevano dalla loro parte un agente che già da solo poteva provare l’innocenza di Edward. Senza attendere oltre, raggiunse Ed e il poliziotto in borghese nella stanza, par far quadrare quella situazione assurda.
Quando Edward lo vide, si sentì ancora più confuso: lui era l’unico a non sapere ancora cosa fosse accaduto. In tre, si sedettero attorno a lui e lasciarono che Marina raccontasse di nuovo ogni cosa, rendendo finalmente Ed consapevole di tutto.
  • Arsenico? – chiese infatti, cominciando a capire. I suoi capelli rossi si rizzarono.
  • Cos’hai bevuto oggi? – chiese Kadmon.
  • Solo dell’acqua. – disse, aggrottando lo sguardo.
  • Dove? – chiese l’avvocato, spostando lo sguardo su Josh, i cui occhi erano già abbastanza eloquenti da non dover aggiungere alcuna parola.
  • A casa. – disse Ed, guardandosi i piedi, parlando più a se stesso che a loro.
Il primo punto era chiaro: Ben aveva tentato di ucciderlo e la prova era nel suo frigorifero. Josh si prese l’incarico di recuperare personalmente la bottiglia.
  • Perché tu? – chiese, ancora all’oscuro di tutto.
  • Perché io sono un poliziotto. – disse, senza tanti giri di parole. – E mi chiamo Josh, non Nathan.
Edward, che si aspettava tutto tranne questa rivelazione, rimase pietrificato.
  • So tutto, Ed. Di Ben, di Jef, della casa. Sono mesi che ti seguo. – ma il suo amico continuava a guardarlo come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente credeva di essere ancora addormentato.
  • In tal caso, signor Tramp, le chiedo da subito di intervenire a nostro favore. – lo interruppe Kadmon.
  • Certo. – disse Josh e poi tornò a guardare il suo amico e sorrise dinanzi al suo viso sconvolto.
Marina li guardò e sperò che il loro rapporto non si rompesse. Era un miracolo che Edward si fosse fatto un amico ed ora scopriva che era un poliziotto in borghese. Non doveva essere facile.
Ci vollero ore per giungere al punto della situazione ed organizzare prove e documenti, ma alla fine Kadmon assicurò a Ed che quella sera stessa avrebbe dato inizio alla causa e interrotto la compravendita tra Ben e il comune.
Dopo ore di conversazione e rimproveri del medico, Ed crollò e dormì profondamente. Quella notte Marina a stento chiuse occhio, piegata sul suo materasso, e pregò che ogni cosa andasse al suo posto. La confusione che avevano vissuto in quei giorni le annebbiava ancora la mente e non le permetteva di capire bene cosa stesse provando.
Sperò che l’indomani ogni cosa fosse più chiara e che Kadmon fosse l’uomo giusto.
Era l’ultima carta che gli era rimasta.






Angolo autrice:

Aiuto, sono ad un passo dalla ghigliottina.
Lo so, ormai non si capisce più nulla, è tutto confusionario, ma vi chiedo perdono in ginocchio.
Ditemi dove ho sbagliato, sono tutta orecchie!
Che ne pensate di Josh? Ho paura di aver osato troppo.
Anyway, crisi a parte, vi ringrazio tantissimo per le visite, scusate se non ho risposto alle recensioni - sono stata praticamente fuori casa 24h continuate - sappiate che siete bellissimi e vi amo. Non credevo certo di essere seguita da così tante persone e so di non meritarlo, quindi grazie davvero.
La storia è agli sgoccioli, mancano pochi capitoli e poi sarà finita. Quindi, prima di pentirvene, ditemi cosa ne pensate: sono ancora in tempo a rivederla!
Niente bonus, oggi, non ho trovato quello giusto. Se doveste averlo trovato voi, fatemelo sapere. :)
Intanto usate la vostra immaginazione.
A presto, Marinediani. :)



S.

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Capitolo 32
*** XXXII ***








XXXII





Aveva dormito a lungo, ma continuava a sentire il corpo pesante come un sasso. Non avrebbe scommesso un centesimo se qualcuno gli avesse detto che un giorno sarebbe stato avvelenato, eppure eccolo lì. In effetti non era bravo con le scommesse, non ci aveva preso nemmeno con Marina e alla fine le aveva detto che l’amava e aveva fatto l’amore con lei. Un brivido gli percorse la schiena al ricordo di quelle sensazioni e vederla dormire accanto a lui, ricurva sulle lenzuola bianche, gli faceva un certo effetto.
Erano insieme.
Lei era lì, con una coperta sulle spalle e il viso provato, ma non si era mossa di lì per un solo secondo da quando aveva ripreso conoscenza il giorno prima.
La guardò a lungo, beandosi della breve pace che gli donava il suo respiro, poiché ben presto gli eventi del giorno prima tornarono a colpirlo, precipitando nella sua mente con un rumore assordante.
Ben, il suo patrigno, l’uomo che sua madre aveva accolto in casa sua, aveva tentato di ucciderlo. Deglutì. Non che ne fosse sorpreso, ma non era mai stato così vicino alla morte, per mano sua. Ora che era successo, aveva davvero paura, ma per un solo motivo: perdere la sua ragione valida per alzarsi ogni mattina ed affrontare la giornata, quella cosa per cui non desiderare più di sparire e quella ragione aveva le labbra rosse e si chiamava Marina. Quella era la sua seconda occasione e non poteva permettersi di morire.
Non sapeva come Kadmon avrebbe fatto a dimostrare ogni cosa, a salvarlo da quell’asurdo vortice di sotterfugi e inganni, ma non aveva altra scelta che affidarsi a lui.
Il secondo macigno che lo colpì in pieno, era Nathan. Cioè, quello che credeva essere Nathan. Quel Josh, l’agente in borghese, il suo amico. Non sapeva ancora se sentirsi tradito o aiutato, ma il modo in cui lo aveva guardato, il giorno prima, gli era sembrato quello di sempre ed in quel momento quel ragazzo non aveva motivo di fingere: era sempre stato autentico. Doveva confessare a se stesso che non riusciva a non fidarsi di lui, una parte di sé era già del tutto convinta che Nathan – cioè Josh, diamine – fosse in buona fede e che gli volesse bene. Aveva solo cambiato nome.
Avrebbe fatto i conti con la paura quando tutta quella storia sarebbe terminata.
Terzo macigno, il più pesante: la porta aperta. Aveva trovato la porta aperta!
Aveva dimenticato di dirlo a Kadmon il giorno prima ed era stato uno sciocco, perché il fatto che fosse lì, in quel letto d’ospedale, significava che Ben fosse entrato davvero in camera sua e che avesse scoperto qualcosa. Probabilmente uno dei documenti fotocopiati era sfuggito al suo controllo o roba del genere.
Sbuffò pesantemente, rimproverandosi mentalmente e spostò finalmente gli occhi su qualcosa che non fosse Marina. Avrebbe voluto parlare con lei, raccontarle ciò che ricordava ed esprimere i suoi dubbi, ma non aveva il coraggio di svegliarla. Fece aleggiare lo sguardo nella stanza in attesa di qualcosa che non tardò ad arrivare: qualcuno bussava lievemente alla porta. Josh entrò senza attendere risposta.
  • Ciao Ed. – disse, serenamente, come se non gli avesse mai celato la sua identità, come se non lo avesse mai pedinato.
  • C-ciao uhm…Josh. – rispose, guardandolo negli occhi con vago sospetto.
  • Come stai, oggi? – chiese. – Il dottor Rosenthal ha detto che sarai dimesso entro sera.
  • A-ah, non ne sapevo niente. – E il suo pensiero volò al letto comodo di Marina e al the caldo che gli avrebbe preparato. Intanto Nathan sembrava ignorare la presenza di lei.
  • Sono stato a casa tua ed ho recuperato la bottiglia. È già al laboratorio. – continuò, infilando le mani nelle tasche dei jeans con disinvoltura. – Sono entrato dall’ingresso sul retro, ho trovato la chiave sotto lo zerbino.
  • Ah. – era quasi interdetto dalla naturalezza con cui gli raccontava quei dettagli. Sapeva che la sua espressione contratta era perfettamente leggibile e Josh sembrò coglierla.
  • Dopo vi accompagno a casa, non potete certo tornare col pullman. – sorrise, accomodandosi sullo sgabello dal lato opposto del letto.
  • Ti ringrazio. – disse soltanto, sentendo nel suo tono un cenno di sollievo che non aveva intenzione di esprimere.
  • Sta tranquillo, il tuo patrigno non ha via di scampo, ci sono tutte le prove per incriminarlo e tu riavrai la tua casa.
Gli diede una pacca sulla spalla, quasi ridendo per la contentezza, ma lui continuava ad osservarlo cercando di cogliere il momento in cui recitava, ma non ci riuscì. Alla fine prese un sospiro e si rassegnò: non vedeva niente di finto in lui, così continuò a parlare, cercando di comportarsi come sempre, come quando era ancora Nathan.
  • Lo spero.
La loro conversazione si spostò sull’argomento Marina, nonostante lei fosse lì.
  • Allora, alla fine l’hai conquistata. – Josh la indicò con un gesto palese.
  • Beh – la guardò – credo che sia stata lei a conquistare me. – sentì il cuore accelerare.
  • Malandrino. Quanto ti invidio! – disse, autocommiserandosi. – Ed è brava a letto?
  • Nathan! Cioè – scosse la testa, rimproverandosi ancora. – Josh!
  • E va bene! – agitò le mani quello, ridendo di gusto. – Non oserò mai più metterlo in dubbio!
Alla fine, ci riuscì: lo fece ridere, facendogli riempire i polmoni di un’aria che sembrava più buona. Quello doveva essere il piacere di stare con un amico.
Quando Josh andò via, lasciandolo solo, Marina si svegliò e immediatamente gli fece un check-up mattutino. I suoi occhi verdi erano stanchi e i capelli spettinati, il trucco colato, ma non riusciva a vedere un solo dettaglio sbagliato nella sua figura. La sua voce roca per il sonno era musica.
Per fortuna il dottor Rosenthal, passando per la visita di routine, le assicurò che fosse tutto in ordine e che quello stesso pomeriggio potevano lasciare l’ospedale.
Il modo in cui lei lo guardava, mentre il medico lo visitava, lo faceva quasi arrossire e d’un tratto non vide l’ora di restare solo con lei e rubarle un bacio. Riusciva a leggere nei suoi occhi, tra le sue ciglia, ogni fibra dei suoi sentimenti. Facile come contare le lentiggini che aveva sul naso.
Purtroppo – o per fortuna, non appena Rosenthal uscì dalla stanza insieme alle infermiere, Kadmon entrò, sempre avvolto nel suo cappotto nero.
  • Signor Kadmon! – disse Marina. – Non l’aspettavamo.
  • Scusate se non mi sono annunciato, ma – e si accostò al materasso e a Marina – il mio cellulare si è scaricato e non avevo modo di comunicare con voi, così sono venuto.
  • Signor Kadmon – disse subito Ed, senza dargli il tempo di aggiungere altro. – credo che Ben abbia scoperto qualcosa. – e immediatamente l’avvocato lo guardò con interesse. – Ieri, quando sono tornato a casa, ho trovato la porta della mia camera aperta.
Sia Marina che Adam lo guardarono senza capire: non aveva raccontato quel dettaglio a nessuno dato l’accaduto ed ora si sentiva osservato dall’alto, quasi sotto pressione. Si infilò una mano tra i capelli, improvvisamente in agitazione, quasi fosse in preda dell’ansia da prestazione.
  • Sono sicuro di averla lasciata chiusa quando ci sono stato l’ultima volta ed ho avuto l’impressione che qualcuno ci fosse entrato. Ho paura che Ben abbia trovato qualcosa, qualche documento che ho dimenticato.
  • Oh. – disse Kadmon, cercando di definire nella sua testa quanto fosse importante quel dettaglio.
In effetti, Ed non lo sapeva, ma aveva appena dato a Kadmon la chiave per far scattare la causa in modo immediato: quell’episodio era il nesso tra la semplice violenza domestica e la questione di interesse del patrigno, la prova che l’avvelenamento era dovuto alla paura di perdere definitivamente la casa. Quella porta aperta era il passo falso, il passo di troppo oltre la linea gialla: prima di allora Ben non aveva un motivo per ucciderlo, agli occhi di un giudice, ora il movente era svelato.
  • Bene, ragazzo. – disse allora Kadmon, con un sorrisino eloquente sul volto. – Ci siamo. – e guardò Marina e poi di nuovo lui. – Se me lo consenti, avvierò immediatamente la causa giudiziaria.
  • Certo! – disse Ed, cominciando a vedere la fine di quel tunnel.
  • Ma… - alzò l’indice. – Devi denunciare.
Marina vide il viso di Ed perdere il colorito dovuto all’esagitazione e i suoi occhi perdersi per un attimo nel vuoto. Capì subito che si era bloccato di nuovo, qualcosa ancora lo tratteneva. Riusciva a percepire la sua paura come se fosse qualcosa di materiale, ma non poteva più permettersi di provarla.
  • Perderai la casa. – disse allora, severa. – Se non lo fai, perderai la casa. Tutto. Ha cercato di ucciderti, Edward.
Lui la guardò negli occhi, ancora pietrificato. Sapeva, stringendosi le mani, che quell’assurda paura era del tutto errata e fuori luogo e inutile, ma la sentiva comunque placcarlo, come quando qualcuno ti sta col fiato sul collo. Riusciva a sentirne il freddo respiro. Kadmon guardava altrove, ma Marina continuava a guardare dritto su di lui.
  • U-uhm. – cominciò – lo so, ma…
Non sapeva nemmeno lui cosa stesse aspettando. Non sarebbe tornato in quella casa comunque, sapeva che Marina non glielo avrebbe permesso.
  • Denunciarlo andrebbe a nostro favore, soprattutto adesso. – disse Kadmon, continuando a guardare la finestra, fingendo indifferenza mentre si aggiustava la giacca.
  • Edward… - Marina lo guardò, quasi supplicandolo. – Devi farlo.
Sapeva di essere irragionevole e avrebbe voluto spiegare a Marina di voler superare quell’ostacolo, ma da solo non ci riusciva. Prese aria per parlare, quando lei si voltò portandosi una mano al viso. Le sue labbra cadenti erano il segno di una sconfitta, il modo in cui la mano copriva i suoi occhi mentre lui se ne stava immobile a letto, lo fece scattare. Era come se Marina si fosse del tutto arresa, con lui, la stava deludendo e si trovò costretto ad ammettere che in quel caso lui non era abbastanza. Ma per sua scelta.
Lei lo aveva incoraggiato e sostenuto strenuamente, sempre, non poteva gettare al vento ogni suo sforzo. Voleva meritarla, essere l’uomo che Marina voleva al suo fianco, l’uomo che forse non era mai stato. Era difficile, lo sentiva, ma farlo per lei era un sacrificio che non avrebbe evitato di fare.
Realizzando quanto quel gesto fosse fondamentale per se stesso e per lei, parlò.
  • Va bene. – disse.
Marina e Adam, puntarono immediatamente gli occhi su di lui ed attesero col fiato sospeso. Edward guardò la donna che amava negli occhi e sperò che affrontare quella paura sarebbe servito ad offrirle qualcosa di meglio dell’uomo che era in quel momento. Gli batteva il cuore.
Mentre le labbra di Marina si schiudevano, sorprese, si gettò a capofitto nella più totale incertezza.
  • Lo farò.
 
Si era seduto sul bordo del letto, perché era convinto di riuscire a scaricare meglio la tensione tenendo i piedi a terra. Nel momento in cui la polizia entrava per la seconda volta dalla porta della stanza immacolata, aveva chiesto a Marina di uscire: non voleva che sentisse nulla di ciò che avrebbe raccontato. Era troppo lo strazio che avrebbe dovuto sopportare e nel caso in cui avesse pianto, non voleva mostrarle le sue lacrime. Era nervoso come prima di uno spettacolo, intrecciando le dita e stringendo la presa sulle sue stesse mani, ma andava bene così e lasciò che Marina lo lasciasse solo.
Kadmon rimase con lui, assistendolo ad ogni domanda e ad ogni risposta, ma non lo interruppe mai. Cercò di guardare lui mentre raccontava e spesso scorse la sua espressione seria contrarsi, quando gli agenti gli chiedevano di specificare le violenze subite e lui non risparmiava i dettagli.
Ed parlava a bassa voce, per paura che altri ascoltassero, che altri finissero per avere di lui la considerazione che aveva di se stesso.
Quando poi terminò di raccontare, calò il silenzio per un attimo e distolse lo sguardo da tutti, fissandosi i piedi.
Gli sembrò di aver parlato per giorni, ma stavolta non si sentiva risollevato: la sua rabbia e la sua umiliazione gli bruciavano nel petto. Kadmon lo salvò, intervenendo e informando le autorità che avrebbe avviato il ricorso giudiziario, dopodiché si congedarono e lo lasciarono solo.
  • Ben fatto. – gli disse l’avvocato, prima di andare. Lui si limitò ad annuire, evitando i suoi occhi.
Probabilmente avrebbe dovuto raccontare quelle cose davanti a diverse e più persone, quindi avrebbe fatto meglio a prenderci la mano, ma in quel momento non avrebbe potuto aggiungere una parola in più.
La miriade di ricordi che gli aleggiavano negli occhi fu immediatamente cancellata, come nuvole al vento, quando Marina rientrò e si affiancò a lui.
  • Com’è andata? – gli chiese, seduta accanto a lui.
  • Bene. – fece spallucce, sfiorandola. – Vorrei solo che finisse in fretta.
  • Lo so.
La mano di Marina si poggiò sulla sua e sentì il suo tocco in modo intenso, come una foto sovraesposta: era carico di qualcosa che non sapeva definire, ma era ok. Le prese la mano, sorprendendosi della naturalezza con cui ormai riusciva a farlo. Lei si accostò meglio a lui e poggiò la testa sulla sua spalla.
  • Salve. – sobbalzarono enrambi. – Sono il medico legale. – entrambi sembrarono capire. – Dobbiamo effettuare una serie di accertamenti, mi segua.
Si guardarono e lei annuì, incoraggiandolo ancora, passandogli una mano sulla schiena. Prima di sparire oltre la porta, Ed la guardò, seduta sul materasso, e desiderò ancora essere di più. Essere meglio del relitto di se stesso.
 
  • Signorina Bennett.
Marina aprì gli occhi, scoprendo di essersi addormentata e prese un lungo respiro. Probabilmente stava dormendo molto profondamente, dato che non ricordava nemmeno il momento in cui aveva chiuso gli occhi. Capì immediatamente che non era più giorno, perché la luce era artificiale e infatti, mettendo a fuoco, vide l’orologio puntale oltre le 18.
  • Marina.
Due voci, due persone, ma chi? Si sollevò dal materasso, ricordando ogni cosa e chiedendosi dove fosse il suo Edward. Era passato molto tempo, ormai.
  • Scusi se l’ho svegliata. – La voce di Kadmon la riscosse.
  • Oh – cercò di dire, la voce incrinata. – N-non si preoccupi.
  • Sono venuto a prendervi. – La voce di Nathan/Josh la aiutò a riprendersi completamente.
Lo guardò senza capire.
  • Il nostro amico vi accompagnerà a casa con l’auto. – le spiegò Adam, con fare frettoloso. – Tornando a noi: ho bisogno che faccia una cosa per me.
  • Cosa? – cercò di capire, passandosi una mano tra i capelli scompigliati, cercando di ignorare la lentezza con cui il suo corpo riprendeva a funzionare.
  • Deve andare a casa del signor Sheeran e recuperare dei documenti.
A casa di Edward?
  • Come, scusi? – chiese, credendo di aver capito male. Il solo pensiero di entrare in quella casa le metteva i brividi.
  • Manca l’attestato di proprietà della casa, il signor Sheeran crede che sia rimasto nella sua stanza.
  • Ti accompagno io. – disse Josh. – Se potessi andrei da solo, ma mi scoprirebbero.
Marina guardò entrambi, ancora confusa. Dicevano sul serio? Doveva introdursi in casa di qualcuno che non conosceva come una ladra?
  • Cioè, devo entrare di soppiatto?
  • Diciamo che devi entrare con discrezione. – quasi scherzava Josh, sicuramente più abituato di lei a certe cose. – E no, non può andare la polizia, Ben avrebbe tutto il tempo necessario per distruggere ogni cosa.
Soltanto dopo che Josh le ebbe raccontato della chiave sotto allo zerbino della porta sul retro, riuscì a farsi un’idea di cosa avrebbero dovuto fare e si annotò mentalmente di chiedere a Edward indicazioni più precise su dove si trovasse il resto dei documenti. Per fortuna Kadmon aveva già il testamento e i documenti più importanti. Inoltre, avrebbe approfittato di quell’invasione di campo per recuperare le cose di Edward o perlomeno le cose di valore e qualche vestito.
Con impegno ufficiale, Josh le diede appuntamento per il giorno successivo e la sua agitazione cominciava già a farsi sentire.
Mentre l’avvocato continuava a spiegare come e quando avrebbe cercato di ottenere un processo, Edward entrò nella stanza, il viso cadaverico e confuso. Il suo cuore si sciolse nel vederlo così provato, sentendo chiaro quell’istinto di protezione che aveva sempre serbato nei suoi confronti. Si morse le labbra, alzandosi per raggiungerlo. Kadmon non gli diede nemmeno un attimo di tregua, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’infermiera.
  • Edward, ho bisogno che tu faccia un’ultima cosa.
Mentre Marina lo aiutava a sostenersi, infilando il braccio sottile intorno al suo torace, Ed lo guardò col viso di chi aveva avuto una giornata troppo lunga, ma non disse nulla e ascoltò la sua richiesta.
  • Dobbiamo contattare tuo padre e chiedergli di testimoniare.
Come se lo avesse attraversato una scarica, il sonno sparì improvvisamente e spalancò gli occhi, avendo dimenticato quel dettaglio. Sentiva tutti gli sguardi puntati su di lui, ma in realtà i suoi occhi non vedevano: ogni parte della sua mente era impegnata a proiettare l’immagine di suo padre e del momento in cui avrebbero dovuro rivedersi. Sempre che accettasse il suo invito. Non ne era sicuro. Non era mai stato molto amorevole.
Non poteva nemmeno liquidare la faccenda a Kadmon, perché probabilmente suo padre avrebbe rifiutato in tronco, se invece lo avesse chiamato lui poteva avere una chance. Strinse la mano sulla spalla di Marina.
  • Sì. Domani lo chiamo.
L’avvocato annuì e si dileguò, contando sul fatto che Marina gli avrebbe spiegato ogni cosa. Quando Josh li lasciò soli, Marina andò a recuperare i suoi vestiti, desiderando essere già a casa.
  • Dai, ti aiuto. – gli disse dolcemente, nonostante a lui sembrasse che fossero passati secoli dall’ultima volta che le aveva dato un bacio.
  • Grazie. – rispose allora, cercando i suoi occhi e trovandoli subito.
  • Stai bene? – un lieve sorriso le decorò il viso stanco, mentre gli aggiustava teneramente i capelli.
  • Sì – rispose, percependo di nuovo quell’intimità che si creava quando erano insieme. Posò le mani sui suoi fianchi e accostò la fronte alla sua. – E tu?
  • Beh, ti preferirei senza il camice da ospedale, ma – rise lei, chiudendo gli occhi al contatto. – posso resistere.
Edward, ritrovando la sua stella in quel buio così penetrante, sorrise e l’abbracciò, respirando nei suoi capelli. Poco dopo lei lo stava aiutando a cambiarsi e in poco tempo furono fuori con Josh, che lo prese sotto braccio e lo portò alla macchina.
  • Grazie per il passaggio. – gli disse, dopo aver salutato una preoccupata Stephany all’ingresso.
  • A cosa servono gli amici? – fece quello col sorriso sul volto.
Quando le porte automatiche si aprirono e il freddo gli si posò sul viso, la notte era già calata e gli sembrò di essersi appena svegliato da un lungo incubo, come se avesse ripreso coscienza solo in quel momento. Respirò a fondo l’aria secca e si avviò con loro fino alla macchina, in silenzio. Quando imboccarono la strada, si voltò a guardare le finestre del reparto di oncologia e pensò che quella era la prima domenica che il magico pagliaccio non si era presentato. Sperò di non aver deluso i suoi bambini. Sentiva una stretta al cuore, pensandoci.
Si fermarono alla biblioteca per recuperare la sua bici, che Marina portò nel freddo fino a casa sua, dopodiché Josh li lasciò e rimasero soli all’ingresso del palazzo di lei.
Il tintinnio delle chiavi era familiare e quasi non voleva entrare. Era una notte così bella.
Tuttavia, Marina lo incitò a raggiungerla e insieme varcarono la soglia di casa.
Il profumo di lei invadeva l’ambiente e si sentì a casa.
Due minuti dopo, gli stava preparando quel the che aveva desiderato e vide in quella scena una piacevole familiarità che gli scaldò il cuore.
Il modo in cui si sentiva amato, gli faceva credere che tutto fosse possibile.
Quella notte, quando andarono a letto, aveva perso il sonno, troppo preso dalla paura e dai pensieri. Avrebbe dovuto chiamare suo padre e affrontare tutto ciò che sarebbe venuto dopo, ma l’abbraccio di Marina era così confortante…
I suoi occhi brillavano alla luce della vecchia lampada e il suo viso era più sereno, ora che erano a casa. Si accoccolò a lui e sorrise.
Prima di lasciarle chiudere gli occhi, però, cercò il suo viso, sfiorando il suo naso col proprio e quando alzò gli occhi a lui, in perfetta corrispondenza con le sue labbra, la baciò.
Il calore che ricevette dalla sua bocca, avrebbe potuto scaldare ognuna delle notti che avrebbe vissuto da quel momento in poi.
 
Non era nemmeno sicuro di avere ancora il suo numero in rubrica, ma lo trovò al primo colpo. La scritta “Ian” non aveva cambiato forma in tutti quegl’anni e probabilmente non era cambiato nemmeno suo padre.
Seduto sul divano, la tazza di the accanto, si chiese cosa quell’uomo gli avrebbe risposto, quando gli avrebbe chiesto di testimoniare. Aveva paura di un suo rifiuto, ma doveva tentare: suo padre era la sua carta buona, la prova che il documento di Ben era falso. Gli tremavano le dita, ma pigiò con decisione il tasto di chiamata e si portò il telefono all’orecchio.
Mentre squillava, si posò una mano sugli occhi e rimase immobile.
  • Pronto? – gli venne un colpo al cuore. L’ultima volta che lo aveva visto o sentito era proprio il giorno del suo compleanno nel 2009. – Chi è?
  • U-uhm – cercò di riprendere fiato. – S-sono io, papà. – Dio, era così strano chiamarlo in quel modo. Era così strano parlare con lui.
  • Edward? – era chiaro il suo disappunto. – Mio figlio? – riusciva ad immaginare i suoi baffi ondeggiare alle sue parole.
  • S-sì, sono io. – non riusciva a capire cosa stesse provando in quel momento. – Come stai?
  • Oh, io sto bene. E tu?
  • B-bene, bene… - disse, ovviamente per circostanza, ma conoscendo suo padre era sicuro che gli avesse creduto senza problemi.
  • Come mai questa telefonata? – dritto al punto, come sempre. Proprio in quel momento, Marina riemergeva dal bagno e lo raggiungeva sul divano.
  • In realtà, dovrei chiederti un favore. – silenzio. Marina era seduta accando a lui, pronta per uscire. – Ho avviato una…causa contro Ben. Per riavere la casa del nonno. – ancora silenzio. – Ho bisogno che testimoni per me.
  • Cosa? – evidentemente suo padre era sempre stato lento nella comprensione.
  • V-vedi, ha presentato un documento falso secondo il quale io rinuncio all’eredità, ma il giorno della firma corrisponde al mio compleanno, nel 2009.
  • E cosa c’entro io? – chiese, evidentemente alla ricerca di un motivo per sganciarsi da lui.
  • Ero con te, quel giorno. A Londra. – le immagini e la tristezza di quella giornata erano ancora pungenti. – L-la mamma era morta da poco…
  • Sì, mi ricordo.
Un lungo silenzio interruppe la conversazione. Ed cercò la mano di Marina e se la strinse al petto, cercando di respirare regolarmente.
  • Credi che sia davvero necessaria la mia presenza? – chiese Ian, titubante.
  • Mi salveresti, papà. – chiuse gli occhi e pregò. – Ti scongiuro.
  • Beh…è un processo?
  • Sì, ma dovrai solo depositare alla prima udienza, poi sarai libero. – gli assicurò.
  • Uhm. – sembrò ancora pensarci.
Erano quasi sei anni che non si parlavano, per nessuna ragione in particolare, ed ora lui lo chiamava per chiedergli una cosa così importante. Capiva che fosse confuso, ma si appellò al suo istinto di padre.
Ian non sapeva cosa avesse passato durante gli anni di convivenza con Ben e Jef, né aveva intenzione di dirglielo, probabilmente lo avrebbe scoperto il giorno del processo. Quel silenzio straziante stava per farlo impazzire, poi suo padre parlò.
  • Va bene. – disse, in un soffio. – Se queste sono le condizioni, va bene. È pur sempre casa mia.
  • Oh! – sospirò attraverso il telefono, come se avesse trattenuto il fiato per troppo tempo. – Grazie, papà.
La stretta sulla mano di Marina si rafforzò, anziché allentarsi.
  • Fammi sapere quando devo presentarmi.
  • C-certo, non appena avrò notizie dall’avvocato.
  • A presto, Ed.
  • Ciao, papà.
Lentamente, staccò il telefono dall’orecchio e lo fissò, chiudendo la chiamata.
  • Eri davvero preoccupato che non accettasse? – chiese Marina.
  • Non conosci mio padre.
Infilò il telefono in tasca e si sporse verso di lei, alla ricerca delle sue labbra rosse.
Quando la baciò, sentì ancora il sapore del dentifricio e le morse il labbro per sentirlo meglio.
  • Devo andare. – bofonchiò lei, spezzando a malincuore qualsiasi cosa stesse per accadere. – Josh mi aspetta.
Nessuno dei due credeva possibile che fosse così difficile distaccarsi dalle labbra dell’altro. Erano freschi innamorati, quindi era normale – cercavano di convincersi – ma al diavolo, Ed sarebbe rimasto attaccato a lei per sempre, se avesse potuto.
Essere vivo accanto a lei, sentire il cuore palpitare, gli faceva venire voglia di vivere.
  • Mi raccomando, ricordati che se ne hai bisogno, c’è la scala di corda sotto al letto. – le ricordò. – E se hai bisogno di qualcosa, chiamami.
Lei annuì per la millesima volta, dopo averlo convinto a restare a casa. Il medico gli aveva proibito di fare qualsiasi tipo di sforzo per almeno una settimana e lei sapeva che sarebbe stato difficile tenerlo a freno, ma Josh lo aveva rassicurato, promettendogli che non sarebbe successo nulla di grave.
Quando la accompagnò alla porta, la guardò negli occhi e le diede un altro bacio.
Per qualche motivo, era difficile lasciarla andare.
 
Intanto, a casa Sheeran, Benjamin Storm aveva ricevuto la posta e insieme ad essa, l’avvocato Foster di Foster&Martins.
Una volta accomodatosi in casa, quello gli aveva spiegato che sì, il suo figliastro aveva scoperto tutto, era evidente, perché la prima busta che Ben si ritrovò tra le mani era dello studio dell’avvocato Kadmon, che citava in giudizio il signor Benjamin Storm per violenza domestica, truffa allo stato, tentato omicidio premeditato, appropriazione indebita, sfruttamento, sostegno dello spaccio illegale e mille altre cose.
In poche parole, era rovinato.
Jef, seduto accanto a lui, era rovinato.
Foster, che guardava entrambi senza sapere bene cosa dire, era rovinato.
Si erano lasciati alle spalle troppe tracce, troppi indizi e quasi sicuramente – ammise l’avvocato – avrebbero perso. Troppe prove. Troppi fatti.
Ma Ben, rosso di rabbia, assicurò a Foster che non aveva speso quasi tutti i suoi soldi per poi ritrovarsi in prigione.
Dopo avergli detto che avrebbe fatto meglio a trovare una soluzione, lo cacciò fuori e si allontanò verso il salotto alla ricerca della sua bottiglia.
Quando cominciò a sbraitare contro suo figlio, data l’assenza del diretto interessato, Jef ebbe la conferma che suo padre fosse impazzito.
Cominciò a prendere i documenti dalla teca e a stracciarli, poi passò agli album di foto, poi alla tv, finchè non si diresse al piano di sopra, urlandogli di preparare le valigie.
 
  • Dovrai essere molto silenziosa e veloce.
  • Chiaro.
  • Non lasciare mai il telefono e prendi prima i documenti, poi tutto il resto.
  • Chiaro.
  • Entrerò per primo, tu aspetta sempre il mio segnale per avanzare.
  • Chiaro.
  • E Marina… - lei si fermò di colpo sulla strada, guardandolo con gli occhi spalancati e il fiato corto. – Sta tranquilla.
Il fatto che Josh avesse una pistola nei pantaloni doveva rassicurarla e invece non fareva altro che agitarla. Il suo ragazzo – cioè, Edward e qualunque cosa lui fosse – era a casa, convalescente e lei stava andando a casa dell’uomo che aveva cercato di ucciderlo e del ragazzo che aveva cercato di stuprarla, con un poliziotto in borghese che aveva detto di chiamarsi in un altro modo per tutto quel tempo.
Tranquilla un corno.
Josh le diede una pacca sulla spalla, per poi voltarsi di nuovo e riprendere a camminare.
Lo seguì cercando di tenere a mente ogni cosa e di ignorare il fatto che stessero facendo quella cosa in pieno giorno, cammianando per strada tra la gente come se nulla fosse. In ogni caso, lei non aveva mai visto casa di Edward e non sapeva di trovarsi sulla strada che era alle sue spalle. Infatti, quando Josh si fermò davanti ad un muro di cinta, si morse la lingua per non fare domande superflue.
Lui attese che le poche persone che erano in quella piccola strada secondaria se ne andassero o si voltassero per guardare altrove, dopodiché saltò verso il muro e si appese al bordo, issandosi. Ma sapeva quanto era alta lei? Era facile per lui che era uno spilungone.
Le tese una mano e Marina prese una leggera rincorsa, aggrappandosi ai mattoni più sporgenti: in un attimo, furono dentro. Atterrarono in un giardino poco curato, erano proprio alle spalle della casa verniciata di un giallo scolorito, ma Josh non le diede il tempo di guardarsi intorno e capì perché quando le indicò delle finestre. Se la fece addosso al pensiero che qualcuno potesse vederli, così lo seguì gattonando tra le erbaccie, lungo il muro, fino ad arrivare sul fianco destro della casa. Una sola finestra: la camera di Edward.
  • Come facciamo ad entrare da qui?
  • Tu sta ferma e non ti muovere, io entro per primo. Ti lancio la scala e sali.
  • V-va bene.
Josh se ne andò, mantenendosi basso e poi strisciando lungo il muro della casa. Quando sparì dietro l’angolo, Marina ebbe paura. Non sapeva cosa stava facendo. Tutta quella faccenda era una follia.
Per distrarsi dall’agitazione cominciò a cantare nella testa Chasing Cars, pensando alla voce di Edward e chiedendosi ad ogni minuto se Josh non fosse stato scoperto. Cominciava a sentire freddo tra quei cespugli.
  • Psss!
Quasi urlò per lo spavento, ma si trattenne, mostrando poi a Josh il suo viso spaventato. Le fece segno di avvicinarsi.
Si assicurò che non ci fosse nessuno e terrorizzata corse verso il muro, salendo immediatamente sulla corda, spaventata più dall’idea di Ben che dall’effrazione in sé. Rischiò di cadere e il ricordo dell’incidente sulla collina le fece salire un brivido lungo la schiena, ma Josh la afferrò non appena fu abbastanza vicina, tirandola dentro, attraverso la finestra.
Per un attimo riprese fiato, poggiandosi sulle ginocchia, poi alzò lo sguardo e si guardò intorno: quella era la stanza di Edward. Le mura bianche erano arredate dal minimo indispensabile: un letto matrimoniale, un armadio, un comodino e una scrivania. Probabilmente quella non era la sua stanza, ma quella di sua madre. Guardò le foto appese al muro e le mancò il respiro nel vedere le immagini di lui e sua madre, del matrimonio dei suoi, dei suoi nonni. Quelle quattro mura spoglie avevano visto ogni cosa di lui. Per anni lo avevano visto dormire, disperarsi, sognare, suonare ed ora era lì. Era nella sua vita. La sensazione di appartenere a quel posto le strinse il petto in modo indescrivibile.
  • Cerca i documenti. – La svegliò Josh. – Io vado a fare un’altra cosa. Quando hai finito, riscendi e torna al muro. Ti raggiungo lì.
  • Cosa? – doveva restare sola?
  • Non preoccuparti, né Ben né Jef arriveranno qui.
  • Ma-
Senza ascoltarla oltre, aprì la porta della stanza ed uscì. L’aria le si bloccò in gola, chiedendosi cosa avrebbe fatto se le cose non fossero andate come credevano, ma prima trovava quei documenti, prima se la sarebbe svignata.
Cercando di mantenere il controllo, si abbassò sul pavimento alla ricerca del battiscopa scollato, sotto la finestra. Tirò un paio di pezzi con la punta delle dita, finchè il terzo non venne via, facendo più rumore di quanto credesse, ma ci badò poco vedendo il buco nel muro di cui Ed le aveva parlato. Senza pensarci due volte, ci infilò la mano dentro, ma le sue dita non tastarono niente. Si abbassò di più, sfiorando il pavimento con il viso, ma non trovò niente. Si rialzò, restando in ginocchio: e ora? Guardò a terra, sotto al letto, ma sembrava non esserci!
Senza perdersi d’animo, si alzò e cominciò a prendere lo zaino che sapeva essere nell’armadio, infilandoci dentro i vestiti che aveva a portata di mano. Nel cassetto del settemino prese la biancheria e dal bagno il suo spazzolino. Intanto, continuava a cercare quel maledetto foglio.
Quando aprì il cassetto del comodino per cercare i soldi e l’agenda, sentì un rumore e si immobilizzò.
Dall’altra parte della porta, Jef l’aveva vista dal buco della serratura, attirato dai rumori.
Marina non sapeva se fosse meglio andare a controllare o restare immobile, ma aveva paura che qualcuno stesse per entrare. Eppure si sbagliava di grosso: Jef non stava entrando, l’aveva chiusa dentro.
Al piano di sotto, Josh era spalle al muro. Ben lo aveva trovato ed era immediatamente scattato lo scontro, data la sua ubriachezza, ma anche lui era all’oscuro di un dettaglio fondamentale: Ben era un lottatore.
Gli bastò poco per mettere il ragazzo ko e lasciarlo sul pavimento del corridoio, come era capitato centinaia di volte al suo amico.
Fuori di sé, Ben sparse il resto del rum per tutta la lunghezza del corridoio, chiamando Jef e ordinandogli di portare fuori le valigie.
Corse di nuovo in salotto e prese tutti i liquori che aveva in vetrina, spargendoli per tutta la casa. Quando Jef fu fuori, Ben recuperò il vecchio zippo di nonno Henry e si fermò nell’ingresso.
Rideva con una lucidità che faceva ribrezzo.
Se non avesse ottenuto quella casa, non l’avrebbe avuta nessuno.
Con lo sguardo annebbiato dalla rabbia e dall’alcool, fece scattare la rotella e lasciò cadere l’accendino a terra ed immediatamente il legno del pavimento prese fuoco.
Jef, vedendo le fiamme cominciare a divampare, chiamò suo padre e corse verso di lui per tirarlo fuori.
Quando riuscì a trascinarlo fino alle valigie, lo condusse oltre il cancello e non appena furono fuori, una forte esplosione lo fece pietrificare, spaventandolo a morte. Per un attimo ogni cosa si annullò e le orecchie cominciarono a fischiargli.
Quando riportò gli occhi alla casa, una grossa nuvola di fumo nero usciva dalle finestre della cucina e le fiamme avvolgevano tutto il pian terreno.
Josh e Marina erano ancora dentro.







Angolo autrice:

Perdono!
Lo so, sono in ritardissimo, ma sono davvero sommersa ultimamente.
Allora, veniamo al capitolo: so che volete uccidermi, lo sento nell'aria e presto dovrò fuggire in un posto lontano, ma...cosa ne pensate?
E' stato davvero difficile decidere come doveva andare a finire questa storia e spero di non deludervi, perchè le vostre recensioni sono davvero troppo belle e il numero delle visite è davvero troppo alto.
Vi scriverò un ringraziamento con i fiocchi, lo prometto. :)
Cosa mi dite di Ben? E di Jef? In questo capitolo esce fuori una parte della loro personalità che fin'ora era rimasta nascosta. Tuttavia, devo confessare che i personaggi secondari - tutti - non sono stati approfonditi e rivelati come volevo, ma ho dovuto scegiere di limitarmi per il bene della storia. Se avessi voluto scrivere davvero bene questa storia, ne sarebbe uscito un romanzo in tre parti, non una fanfiction. Quindi vi chiedo se nonostante la scelta, il loro ruolo e la loro psiche siano abbastanza percepibili ai fini del racconto. Fatemelo sapere.
Che altro dire, lascio a voi la parola.
Ci vediamo nel weekend per il prossimo capitolo.
A presto, Marinediani. :)


S.



-> Bonus: solo per imcecy, un bonus tutto speciale. :)


  

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Capitolo 33
*** XXXIII ***




XXXIII





Forse era perché era appena stato avvelenato, forse era semplicemente scosso dagli ultimi eventi, forse era solo che gli mancava Marina.
Qualunque cosa fosse, era irrequieto.
Da quando era uscita dalla porta, Ed non riusciva a smettere di tormentarsi le mani. Josh gli aveva promesso che l’avrebbe protetta a qualunque costo, che sarebbe tornata salva, ma non riusciva a stare calmo in alcun modo. Era preoccupato. Ben era diventato pericoloso come sperava non sarebbe mai diventato. E poi Jef. Il solo pensiero che lei fosse nella stessa casa in cui gironzolava quell’essere, gli faceva salire il sangue alla testa. Poteva succedere qualsiasi cosa e per di più, l’idea stessa di chiederle di fare quella cosa era assurda. Non avevano un poliziotto, un mandato?
Gli sembrava di essere preso in giro dalla vita, come se qualcuno si stesse divertendo a punzecchiarlo con un bastone.
Aveva finito il the da parecchio tempo e non aveva niente da fare se non giocherellare un po’ con la chitarra, ma non aveva voglia di cantare. Si limitava a pizzicare le corde e a guardare la macchina da scrivere che le aveva regalato stare immobile sul tavolino sotto la finestra.
Il ticchettio dell’orologio era più forte dei suoi pensieri. Non riusciva a coprirlo in alcun modo.
Lei era fuori e lui era dentro: nulla poteva nascondere quella verità. E il telefono era silenzioso da parecchio.
Era un’ora che era via ed era già troppo, non riusciva a far finta di niente. La sua donna era in casa sua, il posto in cui non avrebbe mai voluto farla entrare.
La tachicardia che gli attanagliava il cuore prese il sopravvento quando le campane rintoccarono mezzogiorno e lei ancora doveva tornare.
Senza più sopportare l’ansia, scattò dal divano sentendo quasi il respiro spezzarsi. Passandosi una mano tra i capelli, fissava il pavimento mentre decideva cosa fare, ma tanto la risposta la sapeva già: non sarebbe stato tranquillo finchè non fosse stata accanto a lui, al sicuro. Non gli importava di Ben o di Jef, Marina doveva uscire da quella casa. Subito.
Recuperò in fretta cappotto e cappello e con le chiavi in tasca, scese in strada.
Gli sembrò di non pedalare da un’eternità, ma l’ansia non gli permise di godersi la sensazione, riusciva a pensare soltanto a quanto mancasse fino a casa sua.
Continuava a ripetersi che era tutto ok, che si stava preoccupando per nulla, che forse girato l’angolo l’avrebbe vista insieme a Josh, sana e salva.
La neve bianca non si scioglieva al sole, nonostante la bella mattinata, ma almeno non c’era ghiaccio sull’asfalto e poteva accelerare anche in curva.
La gente camminava serenamente per strada e più guardava i loro volti, più si rendeva conto di quanto per lui quel lunedì fosse fuori da ogni schema. Desiderò essere in biblioteca, in attesa dell’arrivo di Marina, con una vita migliore di quella che stava vivendo. Probabilmente l’avrebbe invitata ad uscire e ogni cosa sarebbe stata perfetta, ma quando girò l’angolo in Backtown Street quei sogni rosa si distrussero come castelli di sabbia.
Bastò un attimo per sentire le lacrime presentarsi ai suoi occhi, mentre vedeva la colonna di fumo ergersi da casa Sheeran. Pregò fino alla fine che si fosse sbagliato, che la casa in fiamme fosse un’altra, ma quando arrivò fuori al suo cancello, frenando bruscamente, il suo cuore si fermò.
Non sentiva le voci della gente intorno, né loro vedevano il suo viso pallido. Le sue guance avevano perso ogni ombra di colore, ma i suoi occhi erano rossi delle fiamme che vedeva.
Mentre il fuoco avvolgeva l’intera casa e il giardino, riusciva a sentire il suo stesso corpo bruciare e la vita abbandonarlo lentamente, come se ogni cosa fosse finita.
Stava per vomitare.
Neanche si accorse che stesse tremando mentre portava la mano alla tasca, alla ricerca del cellulare. Senza guardare lo schermo compose il numero di Marina e ogni squillo a vuoto era una pugnalata.
Il cellulare di Josh era spento.
  • Chiamate i vigili del fuoco!
Come un pugno nello stomaco, la voce che pronunciava quelle parole gli fece comprendere che non c’era più tempo, che ogni minuto una trave precipitava, proprio come in quel momento, davanti ai suoi occhi.
Marina.
Marina era dentro.
Nonostante l’aria non entrasse nei suoi polmoni e il fumo gli facesse lacrimare gli occhi, fece il primo passo verso il cancello, ignorando chiunque. Doveva salvare Marina.
  • Ma dove va?
  • Fermatelo!
Quando stava per mettere piede nel suo giardino, qualcuno lo afferrò, trattenendolo per il cappotto e in un istante riprese coscienza di sé.
  • Fermo! Dove vai?
L’uomo che lo tratteneva lo guardava dritto negli occhi, ma non ascoltò una sola parola di quello che disse, perché la paura gli faceva fischiare le orecchie. Il suo corpo era fuori dal suo controllo. Si divincolò, ma un’altra persona sopraggiunse.
  • Fermati!
Loro non capivano.
  • Questa è casa mia. – quasi sussurrò.
  • Finirai per ammazzarti!
  • Non andare!
Lasciatemi – urlò nella sua testa, il pensiero a Marina.
  • Ci penseranno i vigili del fuoco.
  • No. – disse. – Lasciatemi! – cercò ancora di divincolarsi.
Ma loro continuavano a trattenerlo, ignari di ogni cosa.
  • Là dentro c’è la mia ragazza! – sbottò, ma nessuno sembrava ascoltarlo.
Il panico cominciava ad impossessarsi di lui, sentendo che ogni secondo poteva essere fatale, ad ogni secono Marina poteva morire.
Senza pensarci due volte, si sfilò dal cappotto, scatenando le urla delle persone e finalmente fu libero. Come una molla carica, scattò verso il giardino e cominciò a correre a perdifiato verso la casa. Più si avvicinava, più si rendeva conto che quella storia poteva finire male, ma a costo della sua vita sarebbe entrato e li avrebbe trovati.
Senza Marina, quella vita perdeva il suo senso.
Con gli occhi stretti per il fumo, si concentrò sul calore che emanava la casa. La luce quasi lo accecava. La porta e la veranda ormai non esistevano più, completamente avvolte dal fuoco e si guardò intorno alla disperata ricerca di un modo per entrare, finchè non si ricordò della scala. Corse alla sua finestra, aperta, ma della scala non restava altro che cenere. Corse al retro, col sole negli occhi e vedere la porta ancora intera fu una visione. Senza pensarci due volte, entrò.
Il fumo nero che aleggiava tra il soffitto e il pavimento era soffocante, così alzò la sciarpa di lana che aveva ancora al collo sulla bocca ed avanzò a tentoni.
  • Josh! – chiamò, senza ricevere risposta – Marina!
Il rumore del legno che si consumava e delle fiamme che divampavano era spettrale.
Cominciò a tossire ancora prima di arrivare in cucina. Il salotto e l’ingresso erano del tutto in fiamme, non potè nemmeno avvicinarsi, così imboccò la scalinata per andare al piano di sopra, scansando le fiamme che rodevano le scale, ma quando posò il piede sull’ultimo gradino dovette frenarsi, perché il pavimento crollò proprio davanti a lui, lasciando integra solo la ringhiera di ferro.
Tossì ancora.
  • Marina!
Provò a toccare la ringhiera ma era bollente, quasi urlò sfiorandola. Il fumo nascondeva l’intero corridoio, ma doveva passare. Tornò indietro lungo le scale, fino al ripostiglio che, per fortuna, non era ancora stato raggiunto dal fuoco. Quando aprì la porta alla ricerca di qualcosa, la scala di alluminio di suo nonno sembrò essere la risposta. La afferrò e una volta tornato in cima alle scale, la utilizzò come ponte sull’area in cui il pavimento non esisteva più. Con un tonfo la lasciò andare e cominciò a camminare sui suoi gradini, pregando di non cadere di sotto, ma la voglia di raggiungere Marina era tale che si ritrovò dall’altra parte senza nemmeno accorgersene. Sperò che il pavimento resistesse ancora.
Avanzando nel corridoio fumoso, inciampò rovinosamente, finendo faccia a terra e quando si voltò vide Josh accasciato sul pavimento, incosciente.
  • Josh! – urlò, alzandosi e cercando di sollevarlo. – Josh, svegliati!
Lo scosse ripetutamente, ma quasi non sentiva la sua stessa voce. Lo issò, cercando di trascinarlo con sé. Se c’era Josh, c’era anche Marina.
  • Marinaaa!
Continuò ad avanzare, giungendo fino alla sua stanza, sicuro che lei fosse lì, ma quando cercò di aprire la porta, non ci riuscì, rimanendo spiazzato per un secondo. Che si fosse chiusa dentro?
  • Marina! Apri!
Continuò a spingere, ma il peso del suo amico era eccessivo e a lui cominciava a girare la testa. Per quanto ci provasse, non bastava una semplice spinta. Gli serviva una chiave. Lasciò Josh accanto alla porta, correndo verso la camera di Jef, trovandola quasi del tutto avvolta dalle fiamme. Afferrò la maniglia e cercò la chiave dall’altra parte, ma la sua mano afferrò soltanto fumo. Merda.
Restava la porta di Ben e per fortuma, la chiave era ancora lì. La prese e tornò indietro, ma ad ogni passo sentiva sempre più rumori, vedeva sempre più fumo, non ce la faceva più. A stento riuscì ad infilarla nella serratura e quando quella scattò, si precipitò dentro.
  • Marina!
La trovò appoggiata al davanzale della finestra, seduta e incosciente.
Corse immediatamente verso di lei e la prese per le spalle.
  • Marina, svegliati! – respirava ancora. – Marina!
Se nessuno dei due avesse ripreso conoscenza, non sapeva cosa avrebbe fatto, ma il suo cuore era già privo di un peso sapendola viva.
  • Ti prego, rispondi!
Passandole una mano sul viso, per spostare i capelli lunghi, lei sembrò dare un cenno di vita.
  • Marina, svegliati! – e lei aprì gli occhi di scatto, cercando di respirare l’aria che non c’era. Tossì.
  • Edward!
  • Dobbiamo andare! – la incitò. La casa stava crollando.
  • Josh! – gli disse.
  • È qui fuori, ma è svenuto. – la informò, raccogliendola nel suo abbraccio, ma non c’era tempo da perdere.
La fece alzare a fatica e insieme lo trascinarono nella stanza, ormai l’unica parte della casa non avvolta dalle fiamme, ma Ed non aveva idea di come sarebbero usciti di lì. Marina chiuse la porta per impedire al fumo di entrare.
Ed si guardò intorno, quasi al limite delle sue forze, quasi al limite dell’ossigeno.
  • La scala si è bruciata! – disse Marina. – Cosa facciamo? – il terrore nei suoi occhi verdi.
  • Io… - disse, continuando a cercare una soluzione. – Non lo so.
Poi, quando vide l’armadio aperto, ebbe un’idea. Si affacciò alla finestra per constatare che il fianco della casa non fosse in fiamme e la fortuna fu dalla sua parte, le erbacce erano servite a placare il fuoco, producendo solo fumo. Così corse verso le ante aperte e cominciò a tirare fuori qualcosa.
  • Le lenzuola, presto! – urlò a Marina, che lo raggiunse immediatamente.
Annodarono tutte le lenzuola disponibili, creando una corda di fortuna e la fissarono al pesante letto di legno, per poi gettarla fuori. Toccava quasi il suolo.
  • Come facciamo con Josh? – chiese lei, vedendo il loro amico ancora senza sensi.
  • Aiutami. – le disse, sfilando le lenzuola del letto. – Devi fissarlo alla mia schiena. – ma Marina tossiva. Non appena terminarono di sfilare la stoffa, si tolse la sciarpa dalla bocca e gliela cedette, senza darle il tempo di protestare.
Quando prese Josh in spalla, cominciò a dubitare che ce l’avrebbe fatta, era davvero pesante. Quando finalmente lo prese in groppa, Marina lo fasciò – letteralmente – a lui, annodando le estremità del lenzuolo più strette che poteva, pregando che avrebbero retto. Guardò Edward negli occhi, con la tentazione di scoppiare in lacrime, ma lui parlò.
  • Prima tu, sbrigati! – lei lo guardò come per ribattere, ma lui non sentì ragioni. Quella volta si sarebbe salvata prima lei. Intanto le fiamme cominciavano ad entrare nella stanza. – VAI!
E lei andò, scavalcando il davanzale. Con le gambe che le tremavano per la paura, afferrò il lenzuolo e cominciò a lasciarsi andare, sentendo il suo stesso peso come quello di una montagna. Scivolando lungo il muro, si chiese come avrebbe fatto Edward e cominciò ad avere davvero paura.
Lui, dal primo piano, la vide toccare terra e dentro di lui era già finita, ora che Marina era al sicuro. Lei restò a guardarlo, mentre cercava di uscire dalla finestra. Guardò la sua stanza probabilmente per l’ultima volta, gettando lo sguardo alle foto di sua madre, poi afferrò il lenzuolo e con grande sforzo cercò di calarsi, ma Josh era davvero pesante. O era lui ad essere troppo debole. Quando fece il primo passo verso il basso, con i piedi sul fianco della casa, gli sembrò che ogni cosa fosse precaria, le lenzuola, il muro, la loro vita. Ansimante, con i muscoli a pezzi e il sudore che gli andava negli occhi, continuò la discesa. A metà strada le sue scarpe persero aderenza e si ritrovò piedi all’aria.
  • Edward! – urlò Marina, assistendo alla scena.
Rosso per lo sforzo, si trattenne alla corda come meglio poteva, senza sapere come continuare, a breve avrebbe ceduto!
Guardò giù e non ebbe altra scelta che scivolare sulle lenzuola, ma il bruciore che sentì alle mani fu quasi insopportabile e senza riuscire a resistere, urlò. Cadde a terra con un tonofo e istintivamente si portò le mani al petto, senza più badare al peso di Josh o alla presenza di Marina, voleva solo mettere le mani nel ghiaccio.
  • Dobbiamo andare! – cercò di dirgli Marina, tirandolo per la felpa annerita. – Andiamo!
Si alzò e con le ultime forze che gli restavano corse con lei, che cercava di aiutarlo a sostenere il peso che portava. La gente al di là del cancello strepitava, chiamandoli.
Quando finalmente giunsero alla cancellata, evitando le parti del giardino che erano in fiamme, le persone li accolsero in massa, ma Ed non ebbe il tempo di riprendere fiato o di posare Josh a terra. Non appena vide Marina accanto a lui, fuori da quella casa, al sicuro, si lasciò andare alla forza di gravità, cadendo in ginocchio.
  • Edward!
Prese un ultimo disperato respiro, poi, svenne.
 


Ed non vide la casa crollare del tutto, ma Marina sì. E si sentì morire.
Edward era crollato e la casa insieme a lui. Mentre cercava di reggerlo e di respirare, la sua mente era completamente invasa dal tremendo frastuono che la circondava: il fuoco che bruciava, la gente che urlava, le sirene che ululavano senza sosta. Le sembrò di essere finita all’inferno.
Guardando la montagna di fiamme che sormontava il giardino, si chiese che fine avessero fatto Ben e Jef, se fossero rimasti dentro o se fossero fuggiti. In ogni caso, lei era viva solo grazie ad Edward, che per qualche assurdo motivo era arrivato a salvarli. Di nuovo.
Aveva di nuovo rischiato la vita per lei ed ora la sua casa, la casa per cui stava lottando, per cui aveva sacrificato ogni cosa, stava bruciando senza che nessuno potesse salvarla. Il suo intero lavoro, i suoi sacrifici, andavano letteralmente in fumo.
E le venne da piangere, reggendogli la testa, capendo che l’uomo che amava aveva un cuore così grande, ma una vita così ingiusta. Non riuscì più a trattenersi quando le persone recuperarono Josh dalla sua schiena, lasciandolo così tra le sue braccia.
Singhiozzò, inginocchiata sull’asfalto, con la sua testa rossa sulla spalla.
Pianse come se le avessero strappato via una parte dell’anima. Pianse per il dolore che lui avrebbe provato una volta riaperti gli occhi. Avrebbe voluto accogliere tutta la sua angoscia, tutta la stachezza, per alleggerirlo del carico pesante che la vita gli affidava ancora. Pianse, pensando che nonostante tutto ciò, Edward aveva rischiato ancora la vita per lei. Non importava cosa avrebbe dovuto fare, l’avrebbe aiutato in qualsiasi modo possibile. Sempre.
  • Signorina, deve lasciarlo. – un paramedico le posò una mano sulla spalla. – Dobbiamo somministrare ad entrambi dell’ossigeno.
Lo lasciò andare, cercando di sentire l’aria nei polmoni e si lasciò aiutare ad alzarsi e ad andare verso l’ambulanza. Guardandosi intorno, notò che Josh veniva già trasportato in ospedale e poco dopo, vi furono portati anche loro.
Prima che le porte del mezzo venissero chiuse, riuscì a vedere i vigili del fuoco cominciare a spegnere l’incendio.
Durante l’intero tragitto, non lasciò la mano di Edward: sentire il calore della sua mano la aiutava a respirare. Tutta quella storia era assurda. Non credeva possibile che esistessero persone così crudeli, non credeva umana una cosa del genere: torturare un ragazzo per anni solo per il proprio tornaconto. Se c’era giustizia in quel mondo, Ben e Jef l’avrebbero pagata.
Quando giunsero in ospedale, seguì la barella finchè potè, ma Stephany dovette trattenerla e portarla al pronto soccorso, nella zona per i codici gialli. Vedere Edward allontanarsi le faceva provare una certa sensazione di panico, non riuscì a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere ancora. Lacrime silenziose accompagnarono il suo mutismo, mentre si faceva visitare e rifletteva sull’accaduto: quando aveva sentito quel rumore – l’aveva capito – qualcuno l’aveva chiusa dentro e non era stato Josh. Quando aveva cominciato a sentire la puzza di fumo, aveva provato ad aprire la porta in ogni modo, ma ogni sforzo era stato vano e poi il buio.
Ricordava soltanto gli occhi spaventati di Edward emergere dalla sciarpa e da lì, la fuga. Tuttavia, quell’incendio non aveva senso. Possibile che fosse frutto di un incidente? In quel caso, Ben e Jef erano scappati?
E se fosse stato doloso?
Non sapeva chi le avrebbe dato quelle risposte, finchè non vide Adam Kadmon farsi largo tra i medici presenti nella stanza.
  • Ho saputo. – disse – Sono sicuro che l’incendio sia doloso, non c’è altra spiegazione.
  • Ben e Jef… - fu interrotta.
  • Sono appena stati presi alla stazione con tanto di valigie. – posò la valigetta a terra e si sfilò il cappotto, per poi spostarsi i capelli lunghi dal viso. – Abbiamo la vittoria in pugno, piccola.
Continuò a respirare dalla mascherina, sentendo il petto pesante e la testa ancora altrove, ma cercò di sforzarsi e di ascoltare le parole di Kadmon.
  • Ho già richiesto un’udienza al giudice ed entro il pomeriggio gli consegnerò il referto dei vigili del fuoco e le vostre cartelle cliniche, dimostreremo che Benjamin Storm ha bruciato la casa perché ha capito di essere stato scoperto e che è un pazzo.
Parlava a raffica e gesticolava animatamente nello spiegarle i passaggi del processo, ma era così stanca…
Quando l’avvocato terminò di spiegarle le sue intenzioni, lei approvò le sue decisioni e lo lasciò dileguersi a fare il suo lavoro. Pregò, guardando il suo cappotto scuro che oscillava al suo passo svelto, che quell’uomo fosse bravo come sembrava.
Ormai non avevano altri che lui.
Accettando con poca difficoltà il fatto che Ben avesse tentato di ucciderli, senza alcuno scrupolo, finì per mollare la mascherina e recuperare il cellulare dalla tasca. Trovò le chiamate perse di Ed e compose il numero di Jody per avvertirla dell’accaduto e per chiederle di chiamare la scuola per conto suo, per richiedere una supplente per qualche giorno. Quella, spaventata dal suo stato e dalla sua voce roca per il fumo, le assicurò che ci avrebbe pensato lei e che quella sera sarebbe passata a trovarla.
Dopo di lei, chiamò il comune – per l’ennesiva volta – per avvertirli dell’assenza di Edward e contattò Pit, per avvertirlo che sia lei, che Ed, che Josh, si sarebbero assentati per un po’.
  • Lo so, piccola. – sospirò quello. – La polizia mi ha avvertito.
  • Allora lei lo sapeva. – disse Marina, dandosi della sciocca.
  • Certo, ma avevo già capito che quella testa rossa fosse innocente. È troppo buono.
Più tardi, quando Stefany la portò da Edward, lo trovò sveglio, seduto di nuovo al centro di un letto d’ospedale. Quando incontrò i suoi occhi, le lacrime si presentarono ancora e il nodo alla gola non le permetteva di pensare lucidamente, ma lui, col viso cadaverico e lo sguardo vuoto, non le diede il tempo di pronunciare una sola parola.
  • Ho perso tutto, vero? – disse atono.
Il freddo che traspariva dalla sua voce e dal suo viso, la colpì come uno schiaffo e si portò una mano alla bocca tremula, cercando di nascondersi. Ma Ed capì subito che quello fosse un sì. Marina, ormai priva di forze, lo raggiunse e lo abbracciò. Non appena Ed posò il viso sulla sua spalla, pianse.
Il suo lamento era carico di tutta la sua disperazione.
 
Non era riuscito a salvare la sua casa e non era riuscito a salvare il suo onore. Aveva fallito. Non ce l’aveva con Ben o con Jef, ce l’aveva solo con se stesso, per non essere riuscito a fare qualcosa. L’unica cosa di cui era felice, era di essere riuscito a salvare lei.
Jody e Marina parlavano sul divano, a tarda sera, mentre lui ripensava alle parole di Kadmon, accarezzando il piccolo Christopher.
Quando suo padre aveva capito che entro due giorni si sarebbe svolto il processo, non aveva immaginato che la casa che volevano salvare ormai non esistesse più. Il suo silenzio e la sua voce incrinata rimbombavano ancora nella sua testa. Gli parve che la doccia non avesse lavato la puzza del fumo che sembrava essersi impregnata su di loro, come se stessero ancora bruciando, intrappolati in quela casa. Dei fantasmi rimasti fermi per sempre al momento della loro morte.
Era così che si sentiva e probabilmente così avrebbe affrontato il processo: con una voragine nel petto. Era sconfitto. Illuso. Vano. Ogni cosa, ogni suo sforzo, non aveva alcun significato e davanti a sé non vedeva altro che buio.
La luce che emanavano gli occhi del bambino che aveva in braccio, lo accecava, ma sembrava non essere abbastanza da nascondere ai suoi occhi il fatto di essere un nullatenente, senza tetto e probabilmente senza lavoro. Non sapeva come avrebbe fatto a pagare il prestito, tantomento sapeva come avrebbe fatto a sopravvivere.
Marina, ovviamente, gli aveva detto che sarebbe rimasto lì, che lo volesse o no, Josh gli aveva già inviato tramite un agente alcuni suoi vestiti e beni di prima necessità. Non sapeva come avrebbe fatto a ripagare quelle persone.
Guardò il viso di Marina dal tavolino sotto la finestra, i capelli scompigliati e il pigiama: ormai lei era la sua famiglia.
La amava.
Avrebbe sacrificato mille vite per lei.
Ma non voleva essere di peso.
Era punto e a capo, come se avesse riavvolto il nastro fino al 2009, solo che quella volta non aveva la forza di ricominciare.
Quella notte lui e Marina non chiusero occhio.
Il rumore dei loro pensieri aleggiava nell’aria, tagliente e ispido.
Era il suono della tristezza.
Era il suono della paura.






Angolo autrice:

Non so se potesse esserci giornata più adatta per pubblicare questo capitolo: Ed ha ufficialmente lasciato le scene fino al prossimo autunno e proprio in questo capitolo si parla di una perdita davvero grave per Edward. Qualcosa lascia definitivamente la storia e non ci tornerà più, il passato del ragazzo della biblioteca, proprio come i passati 5 anni di X vengono conclusi e messi da parte per un nuovo inizio.
In ogni caso, va bene così, credo che tutti noi attenderemo il suo ritorno con pazienza. Se lo merita, non credete?
Per quanto riguarda il capitolo, beh, credo che qui venga fuori il vero protagonista, la vera essenza di Edward e del suo personaggio, è qui che si rivela in tutto il suo essere. Questo è il ragazzo di cui volevo raccontarvi. Qualcuno che lotta fino alla fine, strenuamente. Per amore - di lei e della sua famiglia.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Manca davvero poco alla fine e spero di non deludervi.
Non so davvero quando aggiornerò, questa settimana sarà davvero dura tra tesi ed esami, quindi stay tuned.
A presto Marinediani.


S.


! Bonus: Si tratta della bellissima cover di una ragazza, che ho trovato per caso su YouTube. Vi consiglio di non perdervela, è davvero fantastica.
La canzone - come sempre - è adattissima.

We'll wait for him to come home.

https://www.youtube.com/watch?v=7OxzMje8Ne0&index=4&list=LLs1FCs8ClIJthN39AExJidQ


 

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Capitolo 34
*** XXXIV ***







XXXIV




Erano due giorni che non usciva di casa. Erano due giorni che non dormiva. Erano due giorni che non mangiava.
Erano due giorni che Marina non lo riconosceva.
Lei era riuscita a farsi rimpiazzare a scuola e l’avvocato aveva pensato a tutte le scartoffie da consegnare al comune per sospendere per qualche giorno il suo lavoro in biblioteca. Avrebbe dovuto sentirsi amato e coccolato, ma si sentiva soltanto vuoto.
Per quanto Marina lo accudisse, per quanta tenerezza gli donasse, non riusciva ad uscire da quel tunnel e quella mattina era La mattina.
Londra era uggiosa e tetra ai suoi occhi, lontana dall’immagine della città che doveva realizzare i suoi sogni. Entrarono nel tribunale in silenzio, l’immenso edificio di marmo bianco risplendeva e faceva contrasto col suo umore.
Voleva dimenticare quella giornata da subito, ma quando vide suo padre attendere in piedi in un corridoio luminoso, per un secondo dimenticò tutto.
Spalancò gli occhi, stando improvvisamente sull’attenti. Erano anni che non lo vedeva e ancora gli importava di non apparire debole davanti a lui: il figlio che credeva avesse sempre desiderato, forte e sicuro di sé.
Quando Ian si voltò verso di lui, sembrò spaventarsi: guardare negli occhi vuoti di suo figlio, era come guardare in un buco nero. Ogni parte del suo corpo comunicava lo strazio che aveva dovuto sopportare e lui, da padre, sentì i muscoli irrigidirsi a quella percezione, ma – si disse – continuava ad avere quel passo morbido che lo aveva sempre caratterizzato.
Edward avanzava verso di lui lasciando svolazzare il cappotto blu intorno alle sue gambe, con Marina e Kadmon ai suoi fianchi, ma non percepiva niente.
Di tanto in tanto sentiva il profumo del maglione di Josh, quello che gli aveva prestato dato che era un nullatenente, ma quando fu a pochi metri da suo padre, svanì anche quello.
  • Buongiorno, signor Sheeran, la ringrazio per essere venuto. – disse Kadmon, tendendogli la mano.
Ian si forzò a distaccare lo sguardo da suo figlio e a stringere la mano a quello che doveva essere l’avvocato. La stretta di quell’uomo era decisa e lui si fidava di chi stringeva la mano in un certo modo.
  • Grazie a lei signor…? – cominciò.
  • Kadmon. Avvocato Kadmon. – Adam riuscì a scorgere il senso di colpa negli occhi di Ian, come un fulmine a ciel sereno.
Ed non smise di fissarlo per un solo istante, quasi preoccupato che potesse sparire ancora, proprio come in passato. Non riusciva a dire niente.
  • Piacere signor Sheeran. – intervenne Marina, non potendo sopportare il silenzio.
  • Uhm, t-tu sei la fidanzata di Edward? – chiese lui, quasi incredulo.
Marina per un secondo dubitò della sua risposta, ma non era quello il momento di far sorgere altri problemi.
  • Sì, signore.
  • Piacere mio, allora.
Beh, era rimasto solo lui. Padre e figlio si guardarono senza aprire bocca e Marina capì da chi Edward avesse ereditato quel carattere.
Ed, grazie al suo turbamento, riuscì a mantenere l’espressione impassibile e scrutò negli occhi grigi di suo padre alla ricerca di una sicurezza che lui non aveva.
Non aveva il coraggio nemmeno di dirgli ciao, non dopo aver perso ogni cosa, non dopo aver fallito in modo definitivo. Si sentiva una delusione per lui e l’unica cosa che riusciva a fare, così preso dalla negatività, era restare inerme.
  • Ciao, Ed.
Dovette respirare profondamente e sbattere le palpebre per assorbire il colpo.
  • C-ciao, papà.
Ian fuggì dagli occhi feriti di suo figlio, non potendo sopportare la realtà che contenevano e lasciò che calasse ancora il silenzio.
I corridoi brulicavano di persone, avvocati, giudici, amministratori, il brusio era costante, ma nei due metri quadrati che occupavano, era sceso il gelo.
Kadmon, animato dalla sua professionalità, guardò l’orologio e poi prese la parola.
  • Signor Sheeran, mi segua. Le spiegherò ogni cosa.
Ed entrambi si allontanarono.
Marina guardò Edward seguire la schiena di suo padre, come se stesse rivivendo un passato troppo doloroso. Così lo prese per mano, riconquistando il suo sguardo e strinse di più la presa. La cosa che desiderava di più in quel momento, era che su quel viso potesse nascere ancora un sorriso.
 
Knock. Knock.
  • Dichiaro aperta la seduta.
Il giudice dichiarò con pacatezza, per poi posare il martelletto sul bancone di legno.
Quando aveva visto Ben e Jef si era sentito come investito da un treno, lo stomaco si era aggrovigliato su se stesso e il viso si era pietrificato. Suo padre non li aveva degnati nemmeno di uno sguardo, ma lui aveva voluto guardarli negli occhi e capire se in quelle anime esistesse qualcosa di buono.
Il pentimento era l’ultimo sentimento che avrebbe potuto scorgere nei loro sguardi.
La stanza calda e piccola era il palcoscenico di quell’ultima scena che credeva non avrebbe mai messo in atto.
Quando Kadmon terminò di esporre il caso e il signor Foster, di Foster&Martins, concluse la sua arringa, fu il loro turno. Uno alla volta si alzarono e giurarono con la mano sulla Bibbia di dire solo la verità e nient’altro che la verità.
A 23 anni era seduto davanti ad un giudice a raccontare tutti gli orrori che aveva subìto e gli sembrò che le parole defluissero dalla sua bocca in modo troppo naturale. Persino quando Foster lo interrogò riuscì a mantenere la calma. Non balbettò nemmeno una volta.
Forse era la tristezza o la depressione, ma si sentiva come anestetizzato: fuori dalla realtà, privo di ogni percezione razionale. Lui, quel giorno, non era lì.
Riuscì vagamente a sentire la voce di Marina e quella di suo padre, a stento si accorse della testimonianza di Josh e di Pit, di cui non aveva notato nemmeno la presenza.
Soltanto diverse ore dopo, quando il giudice si alzò in piedi, sembrò ridestarsi.
  • Date le prove e le testimonianze fornite dall’avvocato Kadmon, dichiaro ai sensi della legge Benjamin e Jeffrey Storm colpevoli. Secondo il verdetto della giuria, saranno condannati ad una pena di 35 anni di reclusione per truffa, spaccio, tentato omicidio, omicidio premeditato, violenza domestica, sfruttamento e tentato stupro. – una piccola pausa. – La seduta è tolta.
Knock.
Marina scoppiò in lacrime e lo abbracciò: aveva vinto, era finita. Non avrebbe più dovuto sopportare, era libero.
I suoi occhi chiari continuavano a fissare il vuoto, come se quella consapevolezza l’avesse investito con troppa violenza.
Mentre Marina affondava il viso nel suo petto, Josh lo affiancava e batteva una mano sulla sua spalla. Lo guardò negli occhi, cercando di non dimenticarsi di respirare, e sospirò, finalmente.
  • Ce l’hai fatta. – disse quello, stringendogli la spalla.
Lo tsunami di sentimenti che fino a quel momento aveva trattenuto, si infranse contro il suo cuore e in un solo istante, mille percezioni lo investirono: il profumo di Marina, la presa di Josh, la voce di Pit, la gratitudine.
Scosse la testa per scacciare la confusione e senza pensarci due volte, prese il suo amico in un abbraccio.
  • Grazie. – gli disse, cercando di non piangere.
Josh lasciò il posto a Pit e a Kadmon. Quelle persone avevano cambiato la sua vita.
  • Ragazzo, sabato si suona e non voglio sentire scuse! – disse il suo capo, lasciandolo.
  • Sì, signore. – quasi rise.
Ian avanzò verso di lui, risvegliandolo del tutto. Suo padre era lì per lui. Quando aveva sentito che non avessero più una casa, che ogni cosa fosse perduta, non aveva battuto ciglio ed era rimasto.
  • Sono contento per te, figliolo. – disse, posando la sua mano grande sulla spalla di suo figlio, più basso di lui, ma più uomo di quanto avesse creduto.
Non importava da quanto tempo non si parlassero, non importava più cosa avessero fatto, suo padre era lì e non sapeva spiegare il sentimento che provava, sentendolo pronunciare quelle parole.
Lo guardò per pochi secondi, senza sapere cosa fare, poi lo abbracciò.
  • Grazie, papà.
Nel momento in cui Ian lo strinse a sé, come quando aveva 6 anni, Ed sentì di non essere più l’ultimo rimasto: la sua famiglia era ancora viva, stretta in quell’abbraccio.
Il padre che gli era sempre mancato, stava abbracciando ancora il suo bambino.
Marina li guardò, con gli occhi ancora lucidi e non osò interromperli. Riusciva a sentire il cuore di Edward battere semplicemente guardando la sua nuca scoperta.
Quando quell’abbraccio si sciolse, lui si voltò subito verso di lei e le andò incontro.
Stava per parlargli, ma Ed non le permise di aprire bocca: la baciò, con le mani sul suo viso e gli occhi chiusi.
  • La mia fidanzata, eh? – la prese in giro, quando poi l’abbracciò. Il pensiero volò ad Evangeline.
  • Non mi sembra che ti dispiaccia. – sorrise lei, con gli occhi chiusi, poggiata sulla sua spalla.
  • Grazie. – sussurrò.
Quando uscirono da lì e rimasero soli, Edward aveva ancora mille preoccupazioni, ma non riusciva più a sentirsi infelice. Non aveva niente, ma si sentiva amato.
Era libero.
 
 

 
 
Era difficile per lui spiegare cosa fosse la sua vita, a quel punto.
Non sapeva da dove cominciare per rimettere insieme i suoi pezzi, le parti che lo avevano sempre definito non esistevano più ed ora si ritrovava spaesato, perso nella casa di Marina senza sapere se sentirsi bene o male.
Aveva ricominciato a lavorare e Marina era tornata a scuola, ma continuava a sentirsi fuori posto. Kadmon, dopo il processo, aveva voluto la metà dei soldi che gli doveva, dicendogli che praticamente aveva fatto tutto lui e aveva litigato furiosamente con Marina, perché non voleva dipendere da lei, per vivere. Alla fine, lo aveva costretto a restare con lei, promettendogli che quando avrebbe ritrovato la stabilità, avrebbe potuto fare ciò che voleva.
Quando si svegliava la mattina, accanto a lei, si rendeva conto di non aver sognato: lei esisteva davvero e la sua casa non c’era più.
Quel sabato, Pit gli propose di lavorare come cameriere per tutta la settimana, dato che Josh si era “licenziato” per tornare a fare il poliziotto a tempo pieno. Accettò, sperando di riuscire a restituire i soldi alla banca nel minor tempo possibile, ma era una speranza fragile.
Le settimane presero a scorrere con una lentezza indicibile, scandite dallo stesso ritmo giornaliero lavoro – casa – lavoro, in cui lui e Marina si vedevano solo la sera, a cena e poi crollavano stanchi sul letto, spesso senza nemmeno parlare.
Era difficile per entrambi sforzarsi in quel modo: lei aveva consegnato la tesi e si preparava a discuterla, lavorava a scuola e all’Hawking e cercava in tutti i modi di evitare che lui cadesse in depressione; dal suo canto, Ed viveva in un limbo buio, fatto di ansia e paura, gli unici demoni che continuavano a tormentarlo.
Tuttavia, guardare nei suoi occhi al mattino, gli dava il coraggio di vivere il nuovo giorno.
I giorni in cui si era sentito davvero felice sembravano lontani, ma una sera Marina trovò la sua agendina, quella su cui abbozzava i testi delle sue canzoni. Trovò il testo che gli aveva dato a Natale e scoprì che lo aveva trasformato in una canzone.
“Tenerife Sea” non parlava più soltanto di lui e si commosse, percependo la profondità del loro legame. Da quella sera, quando lui tornava a casa, lavoravano a qualche testo, ritrovando in quei momenti la loro serenità. Si accorse che quando Edward suonava, era meno triste.
  • Secondo me, un giorno avrai successo. – gli disse, sapendo di risvegliare in lui qualcosa che si era spento.
Febbraio era arrivato già da un po’ e ben presto Marina festeggiò la sua specializzazione, insieme a lui e ai suoi genitori, a Londra. Era il giorno del compleanno di Edward.
Avevano organizzato una piccola festicciola per entrambi e sua madre aveva insistito per invitare anche Ian a pranzo. Probabilmente quello fu il giorno in cui Edward aveva ricominciato a sperare. Seduti intorno al tavolo, si sentì a casa, in famiglia. Spegnere le candeline sulla torta, scattare delle foto, ridere, era qualcosa che non faceva da tempo. Gli amici e le amiche di Marina erano entusiasti di conoscerlo, di conoscere l’uomo che l’aveva rapita e non gliel’aveva più restituita.
Mangiando il dolce, Jody raccontava divertita aneddoti sulla loro storia e Josh raccoglieva materiale per prenderli in giro.
Più tardi, seduti nella sua vecchia stanza, Marina gli porse il suo regalo.
  • Marina, non dovevi. – disse, prendendo la piccola scatola dalle sue mani. – Io non ho niente per te.
  • Tu mi hai già dato tutto. – rispose lei.
Quando aprì la scatola, rimase senza fiato.
Paw miagolava e lo fissava, cercando le sue coccole. Senza fiato, guardò la sua fidanzata senza riuscire a parlare.
  • L’ho adottato. – gli confermò lei.
Edward prese il gatto dalla scatola e col braccio libero, avvolse lei. Con la fronte sulla sua, cercò di respirare. Non riuscì a dire niente.
Sapeva solo che la amava.
 
Entro Marzo, Edward recuperò il sorriso e cominciò a versare soldi alla banca. Una piccola luce lo attendeva infondo al tunnel.
Suonando all’Hawking, sotto gli occhi di Marina che lavorava, riusciva a sperare che un giorno avrebbe potuto offrirle una vera casa, una vera vita, ma la strada era ancora così lunga da far paura. A volte temeva che lei si sarebbe stancata di lui, della sua tristezza. Se avesse perso lei, la sua vita sarebbe valsa a nulla.
Quella sera, però, qualcuno doveva aver ascoltato le sue preghiere, perché quando il locale si fu svuotato, il misterioso signore che gli offriva da bere gli si avvicinò per la prima volta dopo mesi e gli rivolse la parola.
  • Mi chiamo Stuart Camp. – disse quello, tendendogli la mano tozza.
  • Edward Sheeran, piacere mio. – lo guardò senza mostrare emozioni, ma stava morendo dalla curosità di sapere cosa volesse da lui un uomo sulla quaratina, grosso e tarchiato. Cercò di leggere nei suoi occhi.
  • So che hai avuto un po’ di problemi ultimamente. – disse, con una certa confidenza.
  • Già. – disse, aggrottando lo sguardo e lasciando le sue mille domande senza risposta.
  • Pensi che ora siano finiti?
  • Ne dubito, signore. – disse soltanto, senza capire il punto.
  • Di cosa hai bisogno? – gli chiese, come se potesse davvero dargli una casa e dei soldi.
  • N-non credo che lei possa aiutarmi. – gli disse. – A meno che non sia un miliardario che può regalarmi una casa e dei soldi. – sorrise a se stesso, chiedendosi dove volesse arrivare qello Stuart.
  • No, di certo non posso. – sorrise quello – Ma se sei disposto a lavorare seriamente, posso aiutarti.
Si fermò, tenendo sospeso il cavo acustico che stava avvolgento intorno al braccio e si fermò a riflettere. Il signor Camp doveva aver capito di non essersi spiegato abbastanza.
  • Se vuoi, posso aiutarti a trovare un’etichetta discografica.
  • C-cosa?! – quasi urlò.
  • Dovrai lavorare parecchio, è bene che tu lo sappia, ma credo che tu abbia talento. – disse, puntando il dito verso di lui e parlando con una certa enfasi.
  • Mi sta prendendo in giro? – chiese, con gli occhi fuori dalle orbite.
  • Certo che no. – rise quello. – Vieni con me a Londra e vedrò di inserirti nel giro. Non guadagnerai subito, non avrai una casa, ma abbi fiducia – continuò – e presto qualcuno ti chiederà di incidere un album.
In quel momento Marina si avvicinò, avendo ascoltato l’ultima parte del discorso. Il viso di Edward era ceruleo e il suo stesso cuore aveva sospeso i battiti.
Ed guardava quell’uomo negli occhi come per capire se fosse un sogno, ma quel tipo era reale. Erano mesi che era lì dentro quasi tutte le sere.
Cominciarono a formicolargli le mani capendo che aveva avuto un manager davanti per tutto il tempo.
  • Lei è un manager. – disse, manifestando i suoi pensieri ad alta voce. Marina lo affiancò.
  • Cosa ne pensi? Sei disposto a farlo?
  • Io… - guardò Marina.
Non riusciva a decifrare i suoi pensieri dalla sua espressione, ma anche il suo viso aveva perso il colorito. La sua testa prese a viaggiare, simulando le mille possibilità che aveva davanti.
  • P-posso pensarci? – disse alla fine, senza smettere di guardarla.
  • Certo, prenditi il tempo che ti serve. – disse Camp. – Mi troverai qui.
L’uomo alzò la mano in segno di saluto, poi voltò le spalle e lasciò il locale.
 
Il cassetto che aveva chiuso a chiave, era stato riaperto. Probabilmente, se non fosse stato in quella situazione avrebbe accettato sul momento, ma ora le variabili in gioco erano più importanti di una possibile carriera.
Aveva un debito in banca, un lavoro, Marina. Avrebbe dovuto restituire tutti i soldi, licenziarsi e allontanarsi da lei. E se Marina non volesse? E se l’avesse persa?
Se si trovasse un altro uomo, durante la sua assenza?
  • Puoi andare. – disse Marina, seduta sul divano accanto a lui.
  • Come?
  • Vai. – ripetè.
Lo guardò negli occhi, cercando di nascondere una preoccupazione che lui scorse comunque.
  • Questa è la tua grande occasione, Edward.
  • Sai cosa significa. – le disse.
  • Sì, lo so. Ma ce la possiamo fare. Io ci credo.
Ed sospirò pesantemente, voltando il viso dall’altra parte. Avrebbe voluto portarla con lui o che Stuart Camp non gli avesse mai fatto quella proposta. La sola idea di andarsene per tentare la fortuna lo repelleva, ma allo stesso tempo sentiva che non gli sarebbe capitato mai più.
  • Ehi. – Marina posò la mano sul suo viso per farlo voltare verso di lei. I suoi occhi brillavano. – Hai dimenticato cosa ha detto tuo nonno?
Ed sembrò ricordare quelle parole come se le avesse lette poco prima e in un secondo cambiò espressione.
  • Fai in modo che la gente ti conosca. – disse Marina, seria.
Ed sospirò ancora, gonfiando il petto più che poteva. Carezzò i capelli di Marina, valutando seriamente la possibilità di andarsene.
  • Non voglio perderti. – le disse, motivando la sua indecisione.
  • Non succederà. – disse lei, scuotendo la testa e sorridendo. – Io ti aspetto.
Marina diceva la verità: quella era la sua grande occasione ed aveva fiducia in lui. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Sapeva che sarebbe tornato da lei. L’uomo di cui si era innamorata, il combattente, aveva la possibilità di rinascere ed essere felice.
  • Non sarai gelosa delle mie fan? – finalmente sorrise anche lui, strofinando il naso contro il suo.
  • Tantissimo. – dichiarò con enfasi.
  • La maggior parte delle ragazze vogliono coccolarmi, non portarmi a letto. – fece, vicino alle sue labbra.
  • Oh, credimi. – fece lei – Si innamoreranno tutte di te.
Edward rise, ritenendo che quell’affermazione rasentasse la follia.
Forse, poteva partire.
Forse, poteva realizzare il suo sogno.
La baciò, sentendo l’amarezza della distanza già posarsi sulle loro labbra.
  • Davvero, Edward. – riprese lei, guardandolo negli occhi. – Puoi andare. Provaci.
Ancora una volta non rispose. Il suo cervello era in preda alla confusione, ma più ci pensava, più voleva partire. Rimettersi in gioco.
  • L’hai fatto con me, puoi farlo anche stavolta.
Aveva scritto una valanga di canzoni nelle ultime settimane, aveva recuperato qualche soldo, ma era comunque difficile rinunciare a tre lavori e gettarsi nel vuoto.
Si chiese cosa avrebbe detto sua nonna, in quel caso.

Meglio un’eterna solitudine o il rischio della felicità?

Probabilmente avrebbe fallito e sarebbe tornato da Marina più povero e inutile di prima. E se invece ce l’avesse fatta?
I suoi occhi verdi accendevano una speranza così brillante in lui che annullava tutti i fiochi dubbi che illuminavano il suo tortuoso cammino.
Prima di Marina, realizzare quel sogno era un’esigenza egoistica, ora invece voleva partire solo per lei.
Voleva essere l’uomo che meritava, darle ciò che poteva renderla felice, costruire una famiglia. Era un sentimento quasi primitivo, un istinto naturale: essere migliore per lei.
  • Promettimi che non smetterai di amarmi. – le disse.
Marina carezzò il suo viso e poi i suoi capelli, nascondendo la paura che provava.
  • Te lo prometto. – rispose. – Tu promettimi di non cambiare.
Edward annuì, giurando in silenzio che non avrebbe mai più disprezzato la vita, finchè avrebbe avuto Marina.
Stringendo di più la sua mano, pregò che il gioco d’azzardo di cui era la pedina giocasse la carta giusta.
Prendendo quella decisione, stava mettendo in gioco tutto ciò che aveva, tutto ciò per cui viveva, ma…se rischiare significava davvero essere felice, allora sarebbe andato in caduta libera e avrebbe visto dove sarebbe atterrato.
 

Il giorno dopo, quando il locale si svuotò, si avvicinò a Stuart Camp tendendogli la mano.
  • Ci sto.







Angolo autrice:

Eccomi, di nuovo in ritardo, ma ci sono.
Non so nemmeno io cosa dire di questo capitolo, solo che avrei voluto e dovuto approfondire la situazione molto di più, ma purtroppo l'università mi ha inghiottito.
Vi prometto che la prossima storia sarà migliore.
Anyway, cosa ne pensate?
Questo, cari Marined, è il penultimo capitolo e sono già in depressione perchè la storia è finita e vorrei ricominciare tutto da capo.
Come sempre, spero di non avervi deluso e di non deludervi.
Devo davvero ringraziare Lunastorta_Weasley e imcecy per le splendide recensioni dello scorso capitolo, avete fatto la differenza nelle mie giornate e non so davvero come dirvi grazie.
Ci vediamo nel weekend per l'ultimo capitolo.
A presto,

S.




Bonus: Ed sul divano di Marina e in compagnia di un grassissimo Paw.


  


 

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Capitolo 35
*** XXXV ***







 
XXXV



 
“But to look beyond the glory is the hardest part,
[Ma guardare oltre la gloria è la parte più difficile,]
for a hero's strength is measured by his heart.
[perché la forza di un eroe si misura dal suo cuore.]
Like a shooting star, I will go the distance.
[Come una stella cadente, io andrò lontano.]
I will search the world, I will face its harms.
[ Cercherò nel mondo, affronterò i suoi pericoli.]
I don't care how far, I can go the distance
[Non mi importa quanto, io andrò lontano]
Till I find my hero's welcome, waiting in your arms.
[finchè non troverò il mio benvenuto da eroe, che mi aspetta tra le tue braccia.]

 
[Go the Distance – Michael Bolton]
 


 
Due anni dopo.
 
  • No, qui non mi piace. Che ne dici dell’altra parete?
La voce di Marina rimbombava nel salone, l’odore di vernicie ancora permeava l’aria.
Aveva deciso che la sua casa avrebbe avuto le pareti bianche, così da poterle decorare come preferivano.
  • Prova sul caminetto.
Parlava dal divano, continuando a scrivere sulla sua agenda, sempre la stessa.
Da quando era partito con Stuart Camp, per tentare la fortuna, sembrava passata un’eternità, ma ne era valsa la pena: aveva suonato nei peggiori locali di Londra, era stato rifiutato da tutte le etichette a cui si erano rivolti, ma nel giro di un anno era riuscito a riempire il Madison Square Garden e da lì era stato tutto in discesa.
Era stato notato da un discografico ed aveva inciso il suo primo album. Le canzoni che conteneva erano tutte ispirate a Marina.
Alcune le avevano scritte insieme, altre le aveva scritte da solo, ma le migliori le stava conservando per un eventuale secondo album che, secondo Stuart, sarebbe arrivato presto. Per questo, mentre Marina tirava fuori le loro cose dagli scatoli, era costretto a lavorare.
Grazie al successo di ‘+’ era riuscito a restituire tutti i soldi alla banca e a ricostruire la sua casa. Certo, ci era voluta un’eternità e Marina aveva dovuto seguire i lavori per conto suo, ma ora il fuoco scoppiettava nel camino e lei si aggirava per la casa come se quello fosse il suo posto nel mondo.
  • Ci hai azzeccato, è perfetto.
Marina lo guardò, ma trovò soltanto la sua testa rossa piegata sull’agenda.
Sapeva che ce l’avrebbe fatta, ma non credeva che il successo sarebbe stato così repentino. Quando tornava a casa non potevano quasi mai uscire, troppi fan, troppe foto.
Però – e sorrise, al pensiero – era cresciuto e non era cambiato. Era sempre il suo Edward, il suo eroe. Ce l’aveva fatta. Aveva mantenuto la promessa.
Aveva superato le sue paure, aveva scommesso tutto fino alla fine ed ora guardalo, così bello senza lividi sul viso, gli occhi più luminosi di sempre.
I suoi premi erano in mostra sulle mensole.
Edward era il suo punto di riferimento, la dimostrazione che ognuno scrive il proprio destino.
Quando lui finalmente alzò gli occhi, con l’aria distratta, trovò il suo sorriso.
  • Perché sorridi? – chiese, con innocenza.
Marina si avvicinò a lui, prese l’agenda dalle sue mani e la mise via, per poi sedersi sulle sue gambe.
  • Perché sono felice. – rispose.
Edward sorrise, riportando la mente al passato, al giorno in cui l’aveva conosciuta: non avrebbe mai scommesso che a qualche anno di distanza lei avrebbe portato un anello di fidanzamento al dito e avrebbero ricostruito la sua casa, il suo lavoro, la sua vita.
Quando Marina era entrata nella sua vita, pensava di aver conosciuto la felicità, di averne colto il significato, ma ora si rendeva conto che si era sbagliato.
Suo nonno aveva ragione, tutto ciò di cui aveva bisogno era una casa, una donna e la convinzione che ogni giorno possa essere il più bello della tua vita. Era questa la felicità: vivere per lei.
E Marina lo sapeva. Nei due anni che erano trascorsi, aveva pensato di non riuscire a sopportare la sua assenza, ma quando lui tornava a casa e vedeva la stanchezza e la preoccupazione sul suo viso, capiva che Edward era un eroe.
Per tutta la sua vita aveva lottato e non si era mai arreso. Né Ben, né Jef, né l’assenza di una famiglia, di una casa, di un lavoro, l’avevano abbattuto. Aveva combattuto e lo aveva fatto anche per lei.
Era riuscito ad affrontare se stesso, ad affrontare le sue debolezze, ma senza mai dimenticare di essere umano.
Le aveva salvato la vita due volte, aveva messo su una casa per loro, voleva costruire una famiglia con lei, nonostante le mille cose a cui doveva pensare, nonostante il suo lavoro e la lontananza.
Henry, Evangeline, Alice, sarebbero stati orgogliosi di lui, perché aveva fatto il meglio che poteva, sempre. Non aveva mai dimenticato da dove veniva e cosa gli fosse stato insegnato, aveva tenuto viva la loro memoria nelle sue azioni.
Gli ideali che lo rendevano un uomo, erano ancora quelli di cui si era innamorata.
Come direbbe suo nonno, “Il valore di un uomo non si misura dalla forza che possiede, ma dalla forza del suo cuore”. E Edward, dopo tutto ciò che aveva dovuto affrontare, dopo tutto il coraggio e la forza che aveva dimostrato, era un eroe.
Era un eroe per aver affrontato Ben.
Era un eroe per aver sconfitto i suoi demoni.
Era un eroe per aver affrontato se stesso.
Era un eroe per aver corso il rischio.
Era un eroe per aver ricostruito la sua casa con le sue forze.
Era un eroe per aver avuto il coraggio di amare ancora e scommettere ancora su di lei, su di loro.
Paw saltò sul tavolo, esplorando il nuovo ambiente e, ridendo del suo comportamento, si resero conto di essere a casa. La loro casa.
Edward rise, stringendola, pensando a quanto desiderasse sospendere tutto per un po’ e godersi la sua fidanzata e la sua casa, ma non poteva fermarsi.
Anche quella volta avrebbero fatto l’amore fin quando avrebbero potuto e poi sarebbe andato via, in un qualche paese che non aveva mai visto.
Ma era sicuro che ce l’avrebbero fatta e un giorno sarebbe tornato da lei definitivamente.
Insieme a Marina era padrone della sua vita.
Si sentiva in grado di fare qualsiasi cosa.
E se la vita avesse voluto giocare ancora con lui, sarebbe stato pronto.
Non avrebbe avuto paura di rischiare, se Marina fosse stata al suo fianco e avrebbe fatto qualsiasi cosa per averla per sempre.
Marina era la persona che tutti aspettano per tutta la vita, quella che ti insegna a vivere, ad amare e lui aveva avuto la fortuna di trovarla sulla sua strada.
Non si era mai arresa con lui e non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza.
Baciandola sul divano che avevano scelto insieme, sapeva che la vita valeva la pena di essere vissuta.
Sapeva che qualunque cosa fosse accaduta, da quel momento in poi, Marina lo avrebbe sempre considerato il suo eroe.
 
Aveva sempre sognato di avere un posto in cui potesse sentirsi il benvenuto, dove qualcuno lo aspettasse, il suo posto nell’universo…ed aveva trovato lei.
Sapeva che ogni ostacolo superato era stato e sarebbe sempre stato un passo in più nella sua direzione, una prova che doveva superare per essere migliore.
Sapeva che ogni dolore ed ogni sofferenza potevano essere affrontati, per arrivare a lei.
Così, quando aveva intrapreso la strada per Londra, buia e sconosciuta, non sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, ma confidava che alla fine del percorso avrebbe trovato Marina. Allora avrebbe potuto metterci tutta la vita, ma sarebbe arrivato fino in fondo.
Aveva giurato che non avrebbe più guardato indietro, che non si sarebbe mai arreso, che non avrebbe mai perso la speranza, finchè il suo viaggio non fosse terminato ed era stato così.
Aveva continuato a camminare verso il futuro – verso di lei – finchè non aveva avuto il suo benvenuto da eroe.
 
E lo aveva trovato tra le braccia di Marina
.





 
“Contava solo la loro volontà di amarsi e di accompagnarsi ogni giorno, consapevoli del fatto che la strada non era facile, ma ne valeva la pena.
Aveva imparato che l’unica cosa che conta, nella vita, è l’amore che puoi dare.
La felicità stava tutta lì - in quella di lei.”
 
[Afire Love – Beyond]





Angolo autrice:

E così, è finita.
L'emozione che provo è la stessa che ho sentito pubblicando l'ultimo capitolo di Afire Love ed esattamente come allora, non so come ringraziarvi.
Innanzitutto, è grazie a voi che questa storia è nata, il vostro incoraggiamento è stato il mio carburante e la mia ispirazione, quindi il merito di tutto questo va a voi.
Devo necessariamente ringraziare tutti i lettori, dal primo all'ultimo, per aver seguito la storia fino alla fine e un grazie davvero speciale va a chi ha perso due minuti del suo tempo per lasciarmi un piccolo commento.
imcecy, Huntress of Artemis, Lunastorta_Weasley, Bohnana, NVbc25 e Faithboss, un grazie di cuore a voi, per ogni parola che mi avete lasciato.

Devo, a questo punto, dare i giusti crediti ad una particolare espressione usata nella storia. La frase "Il valore di un uomo non si misura dalla forza che possiede, ma dalla forza del suo cuore" è tratta dal film Disney 'Hercules', dunque non è di mia invenzione, ma è stato il punto di partenza per la scrittura dell'intera storia.
Infatti, la canzone citata all'inizio del capitolo fa parte della colonna sonora del medesimo film.

Tornando a noi, credo che questa sarà l'ultima storia per un po': quest'anno avrò ben altro da scrivere, anche se so che avrò una voglia matta di aprire un nuovo file e cominciare una nuova avventura. Spero, quando il mio lavoro universitario sarà concluso, di poter riprendere la penna in mano e scrivere qualcosa di molto più serio di una fanfiction e non vedo l'ora di poter condividere di nuovo con voi il nuovo e complesso intrigo che se ne sta in un angolo della mia mente, in attesa di venire fuori.

Detto questo, non so cos'altro aggiungere, se non un ultimo e immenso grazie!

Vi lascio con l'augurio che queste feste e il nuovo anno - come tutti gli altri a venire - possano essere pieni di tutto ciò che desiderate e che la speranza non vi abbandoni mai.

Vi auguro che alla fine del vostro viaggio, qualunque sia la vostra meta, riusciate ad apprezzare la bellezza del percorso e possiate conquistare lo stesso sorriso che il ragazzo della biblioteca ha trovato tra le braccia della sua Marina.

Buon Natale e un felice, felice anno nuovo.

Con tutto il mio affetto,

S.



 

 

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