Mission

di haev
(/viewuser.php?uid=178545)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** Dopo tre mesi. ***



Capitolo 1
*** I ***


A breve il testo sarà inserito anche su Wattpad.
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon
 
MissionI
 
Era quasi mezzanotte quando i piedi di Rion sbucarono fuori dalla strada desolata, infondo era pur sempre notte. In molti dicono che New York sia la città che non dorme mai, Rion non condivideva nemmeno minimamente quell’idea, o almeno in parte.
Il centro di New York, quello che fanno vedere alla tv o sui giornali non dorme mai, ma non appena ci si sposta di un bel po’ di chilometri, dove le strade si diramano dando vita a delle piccole città, lì si andava a letto molto presto.
Era uno di quei quartieri tranquilli, come se fosse una città a sé. Molti vecchietti lasciavano la grande mela per venire a concludere la propria vita lì, i giovani, al contrario, lasciavano il quartiere per andare nella città insonne.
Anche Rion non vedeva l’ora di andarsene, ma non per trovare lavoro o studiare, ma perché si sentiva fuori posto in quel quartiere. Non si sentiva a casa, era un’estranea.
Non voleva essere accettata dagli altri, era come invisibile per il resto della popolazione mondiale, voleva solo che lei si sentisse a casa e sarebbe anche andata in capo al mondo per trovarsi una dimora dove vivere in pace.
Rion molte volte si ripeteva che quelle erano solo fantasie di un’adolescente, si convinceva che tutti, a sedici, diciassette o diciotto anni si sentissero fuori luogo, era pur normale: ogni adolescente si trovava davanti un mondo pieno di misteri, nuove esperienze, è naturale che una persona si senta indecisa su dove andare e cosa fare.
La ragazza però, pensava che la sua fosse una filosofia che durasse da troppo tempo, infatti aveva quella sensazione non da quando aveva sedici anni, ma da molto prima e non riusciva a spiegarselo. L’unica cosa che poteva, e doveva fare, era quella di rimanere lì nell’oscurità.
Una brezza invernale fece sventolare i capelli neri a Rion, la quale si tirò più su il cappuccio della giacca, odiava tornare così tardi a casa, per di più senza che i suoi genitori lo sapessero, ma quella era l’unica ora della notte per fare quello che lei faceva.
Perché nonostante Rion odiasse il suo quartiere, nonostante non vedesse l’ora di andarsene, sapeva che quel quartiere di New York era la sua unica speranza.
Perché prima che lei se ne potesse andare, c’era una cosa che andava risolta, o meglio: valeva la pena di tentare.
I piedi sul selciato non facevano il minimo rumore, nella strada si sentiva solo il suo respiro. Rion sapeva che a quell’ora non c’era in giro nessuno, neanche un gatto nero che poteva attraversare la strada per portare un po’ di sfortuna, nemmeno uno stupratore posto dietro l’angolo.
Rion era a conoscenza di quel fatto, ma nonostante ciò, cercava di fare silenzio, per ascoltare i suoni della notte.
Gli alberi che frusciavano, delle macchine in lontananza, il verso di qualche animale. Erano suoni che la ragazza adorava, le donavano una pace immensa.
Era vita, quella.
Fu proprio mentre sentiva quei rumori che un suono, diverso dal solito, colse la sua attenzione.
Tese l’orecchio e riconobbe dei passi, davanti a lei. Proprio in quel momento comparve una persona da un vincolo lì vicino, portava sulle spalle una borsa e si stava dirigendo a una macchina.
Rion intravide delle valigie su di essa, evidentemente qualcuno si era appena trasferito.
A Rion fece sorpresa questo: la persona era un ragazzo giovane, avrà avuto al massimo vent’anni e nessun ventenne si era mai trasferito lì prima d’ora.
L’apparenza inganna a volte, si disse Rion e proseguì il suo tragitto.
Il ragazzo non si accorse di lei sino a che non passò accanto alla sua macchina.
Non fece niente, semplicemente disse: «Hai una sigaretta?»
Rion si bloccò e ci mise qualche secondo per capire che stava proprio parlando con lei, si voltò lentamente e fissò bruscamente il ragazzo. La luna illuminava solamente mezzo viso, ma comunque non era molto visibile per via del buio, l’unica cosa che si vedeva era un paio di occhi azzurri, ghiaccio.
Rion si sentì quasi congelare, non ne aveva mai visti di così azzurri. Nemmeno sua sorella, che aveva il mare al posto degli occhi, li aveva così chiari.
La bruschezza sul viso di Rion, fece abbassare il capo al ragazzo, che mormorò: «Per favore?»
La ragazza annuì distrattamente mentre si faceva scivolare dalle spalle lo zaino e ne tirava fuori una sigaretta.
Il ragazzo la prese e le fece un cenno d’assenso, poi chiese: «Hai da accendere?»
Rion aveva capito che non avrebbe ottenuto la parolina magica di nuovo, così, sempre in silenzio, frugò nelle tasche della giacca e passò l’accendino al ragazzo che accese la sigaretta e iniziò ad aspirare di gusto.
Rion notò che fumava perché gli piaceva, e non per farsi vedere dagli altri o per farsi grande, la sorprese. Seppur non aveva amici e nemmeno conoscenti, di persone ne aveva viste tante e tutte, fumavano senza il gusto di farlo, quel ragazzo no.
La ragazza prese l’accendino e curvando le labbra in un sorriso muto, riprese il suo cammino. Mancavano solamente pochi isolati e poi sarebbe giunta a casa.
 
La sigaretta cadde sul selciato con un rumore sordo e si sentì solo la suola della scarpa di Louis che colpiva il terreno nel bel mezzo della notte.
L’idea di andare a vivere a New York lo entusiasmava, ma quando scoprì che era uno squallido quartiere di provincia, si sentì montare dentro di sé una rabbia cieca.
I suoi genitori gli avevano mentito, ma nonostante fosse già maggiorenne, non riuscì a opporsi agli occhi inferociti del padre quando gli annunciò che erano a solo un’ora e mezza da New York.
Un’ora e mezza. Questo significava che Louis poteva benissimo sognarsi le passeggiate notturne illuminate dalle mille luci della grande mela, poteva sognarsi la borsa di Wallstreet, poteva sognarsi il Madison Square Garden, poteva sognarsi New York perché sapeva per certo che sarebbe passato tempo prima che l’avrebbe vista.
Era arrabbiato perché per il lavoro di suo padre, aveva dovuto lasciare tutti i suoi amici a Boston, non poteva più vedere Yasmine, sentire il profumo dei suoi capelli o toccare la sua pelle delicata, l’aveva lasciata e non poteva più vederla.
La rabbia vaporò piano mentre il fumo gli attraversava i polmoni, le sigarette erano uno dei suoi rimedi per andare avanti. Per cinque minuti della sua inutile vita, Louis si sentiva evaporare.
Perché per tutti quei diciannove anni si era sentito arrabbiato, nonostante la vita gli avesse donato moltissime cose, lui era incazzato.
Era sempre incazzato, brusco, secco con il mondo.
Non la odiava però, la Terra.
Louis sapeva che quando c’era una cosa negativa dall’altra parte della medaglia ce n’era una positiva e quindi valeva la pena tentare di cercare quella positiva.
Peccato che la cosa positiva se l’era sempre fatta sfuggire dalla mani, perché Louis respingeva tutte le cose belle.
Era come se avesse attaccato una calamita che attirasse i fatti negativi, allontanando quelli positivi.
Louis era a conoscenza di questo fatto ed era arrabbiato.
Molte volte non capiva con chi o cosa dovesse essere arrabbiato, se con se stesso o il mondo.
Ripensò alla ragazza che gli aveva dato la sigaretta, le era parsa distante, come venuta da un sogno e anche brusca.
Quella ragazza sapeva trasmettere i propri sentimenti attraverso il viso e Louis conosceva quel genere di persone: ti ingannavano, facendoti credere ciò che loro volevano far vedere al resto del mondo. Il ragazzo aveva capito che Rion esigeva da lui una richiesta educata e così le aveva chiesto per favore.
Louis sapeva com’erano quel tipo di persone, questo perché anche lui per una piccola parte della sua vita aveva cercato di far trasparire quello che voleva mostrare al mondo e c’era perfino riuscito, ma poi si era stancato e aveva mandato tutto a puttane.
Entrò nella casa vuota, sembrava molto più grande rispetto a quella di Boston, ma sapeva che una volta riempita con i mobili e tutto il resto, sarebbe stata molto più piccola.
«Mamma, dov’è la mia camera?» chiese entrando in casa.
«Sali le scale, sulla destra.» rispose sua madre mettendosi sulle spalle una borsa.
Louis sorrise leggermente e chiese: «Vuoi una mano, ma’?»
«No, tesoro, non preoccuparti. – Disse dirigendosi verso una stanza vicina. – Anzi, controlla se Evelyn sta dormendo, per favore. È nella stanza vicino alla tua.»
Il ragazzo fece un cenno d’assenso e salì le scale, prima di andare a controllare che sua sorella stesse dormendo, andò in bagno e si tolse i vestiti, avrebbe dormito in boxer.
La camera era buia e si sentiva solo il rumore del suo respiro, la piccola di sei anni stringeva tra le braccina il suo peluche preferito: un coniglietto. Louis sorrise dolcemente, poi scostando leggermente le coperte, si mise a letto con lei.
Evelyn cercò riparo nel petto del fratello, strofinandovi contro il naso.
Louis da parte sua, si beneficò della vicinanza della sorella per placare tutta la sua rabbia.
 
Gli occhi azzurri di Rylee si aprirono piano e lentamente, a rovinare la sua giornata era sempre quella sottospecie di cosa che suonava a ripetizione tutte le mattine.
La sveglia.
Non era una ragazza che odiava le cose o le persone, ma se c’era un qualcosa a cui si potesse attribuire un moto di odio, quella era la sveglia.
Si stiracchiò e prima di alzarsi, si infilò le calze, poi scese in cucina.
La solita scena mattiniera si presentò davanti a lei. La piccola Renae era seduta nel seggiolone, silenziosa e tranquilla come sempre, da questo punto di vista era la bambina di un anno più solare e tranquilla che Rylee avesse mai visto.
Dall’altra parte del tavolo stava Rion che si reggeva la testa con una mano, profonde occhiaie le attraversavano le guance e come ogni mattina Rylee si chiese perché mai sua sorella in quell’ultimo periodo fosse sempre così stanca.
Non era una novità che Rion fosse silenziosa, raramente sua sorella parlava, era sempre stata estranea alla vita sociale, sembrava che quasi non gliene fregasse niente, preferendo di gran lunga la musica di quei gruppi rock e punk oppure delle sigarette.
Rylee molte volte si chiedeva come facesse a vivere sua sorella, senza amici, un ragazzo o almeno qualcuno da tenere accanto che non facesse parte della famiglia, anche perché Rion in casa non parlava quasi mai, come sempre, era in silenzio.
Non aveva contatti con nessuno e molte volte Rylee si autoconvinceva che sua sorella era una persona estremamente sola.
Negli anni addietro Rylee aveva tentato di far entrare sua sorella nella compagnia di amici che si era creata, ma lei aveva sempre rifiutato e una volta giunte a casa, la ragazza le aveva detto seccamente che stava bene dov’era e non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno.
La ragazza con gli occhi azzurri non ci aveva più provato e molte volte si sentiva sofferente nei confronti della sorella, ma dopo si diceva che era solo una sua idea. Rylee si convinceva che sua sorella non stesse bene semplicemente perché lei non era abituata alla sua vita eremita. Infatti Rylee senza l’appoggio dei suoi amici, non sapeva come avrebbe fatto ad andare avanti.
Sua sorella invece, sembrava che se la cavasse molto bene.
Rylee prese un po’ di caffè dalla caraffa e si accomodò al tavolo vicino al seggiolone di Renae alla quale diede un piccolo buffetto.
La piccola eruppe con un: «Lylee!» che fece sorridere la sorella maggiore.
Rion da parte sua, sembrava assente, mescolava tranquillamente e senza fretta la tazza in cui c’era del caffè, ormai raffreddato, davanti a lei un paio di fette biscottate.
«Che lezioni hai oggi?» chiese tranquillamente Rylee, prendendo dei cereali.
Rion fece mente locale, da quando era iniziata la scuola, sua sorella le chiedeva che lezioni avesse ogni mattina di ogni settimana e lei gliele ripeteva, nella speranza che prima o poi se le sarebbe ricordate.
«Due ore d’inglese, trigonometria e due di matematica.» vedendo che la sorella non si degnava di rispondere, alzò lo sguardo.
Poste ognuna ai lati del tavolo, sembravano una lo specchio dell’altra, solo se le si osservava bene.
Rion e Rylee erano sorelle gemelle, nate nel mese caldo di luglio diciotto anni prima ed erano completamente diverse.
Fino all’età di tredici anni sembravano una la fotocopia dell’altra eccezione per gli occhi, Rylee li aveva azzurri come il mare; mentre quelli di Rion erano verdi come un prato non appena era finito di piovere.
Entrambe avevano i capelli biondi, ma ben presto Rion se li tinse di nero e quel colore ce l’aveva da quasi cinque anni, tanto che la maggior parte dei cittadini del suo quartiere non si ricordava nemmeno più di una sorella gemella di Rylee.
Il viso era ovale con un naso un po’ all’insù per entrambe, labbra sottili e fini, morbide. Le guance erano paffute per entrambe, ma nell’ultimo periodo quelle di Rion risultavano più scavate.
Il fisico era come quello di una ragazza normale, gambe magre e un filo di pancia, seno non troppo prosperoso e spalle piccole su cui si reggeva un collo bianco.
Avendo entrambe una costituzione molto simile ad altre ragazze, in pochi sapevano che Rion era la sorella di Rylee, in pochi sapevano che lei aveva avuto i capelli biondi, in pochi sapevano che le due sorelle uscivano insieme da casa, ma poi si separavano, andando ognuna per la sua strada, per poi ritrovarsi nella stessa scuola.
Scuola in cui Rion era invisibile, o meglio, si nascondeva al contrario di sua sorella, che era una delle persone più popolari. Rylee infatti era nel comitato studentesco ed era una delle più carine della scuola, lo sarebbe stata anche Rion, certo. Solo che la ragazza preferiva stare in un angolo, dietro la scuola, dove raramente passavano gli studenti e dove lei poteva fumare in santa pace o ripassare per una verifica.
A volte nemmeno Rion si spiegava tutta quella solitudine, tutti a quell’età avevano bisogno di amici, ma lei sembrava anche farne a meno. Non aveva la necessità di essere amata e questo in un certo senso la confortava, aveva letto libri e visto film in cui si diceva che l’amore facesse male, e lei non voleva certo soffrire.
«Sabato sera esco, vuoi venire?» Rylee distrasse la sorella dai suoi pensieri.
«Ho da fare.» disse tranquillamente, sorseggiando gli ultimi sorsi del caffè.
Rylee la guardò con un sopraciglio alzato e mormorò: «Il tuo da fare sarebbe quello di andare in giro di notte?» la ragazza aveva notato che da tempo sua sorella usciva di notte, ma non sapeva dove andava. Più volte Rion aveva spiegato che andava in un bar dove suonavano dal vivo, ma Rylee pensava che tornare alle tre o quattro di notte era eccessivo. Nonostante ciò, condivideva il fatto che la sorella uscisse, anche se dubitava fermamente che la ragazza si fosse fatta dei nuovi amici. Secondo la bionda, Rion andava in quel così detto bar solo per ascoltare musica.
La sorella la guardò con sufficienza mentre si alzava e andava a posare la tazza nel lavandino, «Non sono affari tuoi.» non l’aveva detto in modo brusco, ma aveva fatto capire che l’argomento era chiuso.
Rylee sospirò bruscamente passandosi una mano nei capelli biondi: sua sorella era una delle persone più difficili che avesse mai conosciuto, fortuna che dicevano che i gemelli avevano un legame speciale! Da parte sua, sentiva Rion più distante che mai.
 
Louis si sentiva mancare il fiato e per tal motivo fu costretto ad aprire gli occhi, il gomito di Evelyn era incastrato nel suo petto, togliendogli il poco fiato che gli restava dopo le migliaia di sigarette fumate da quand’era quindicenne.
Non avendo un orologio, decise di alzarsi, non sarebbe di certo arrivato in ritardo il primo giorno di scuola.
Scese le scale fredde e si sentì perso in quella casa vuota, la rabbia divampò di nuovo nel suo petto, facendogli rizzare i nervi. Dormire con la sorellina gli aveva fatto bene, lei riusciva sempre a tranquillizzarlo e forse era soprattutto grazie a lei che non andava in giro a picchiare gente, o meglio aveva smesso di farlo. Dalla nascita di Evelyn era come se il suo cuore avesse iniziato a pompare un po’ di più e lui si sentisse più vivo, grazie alla sorella, Louis era riuscito a placare la sua rabbia, ma c’erano comunque momenti in cui si sentiva più incazzato che mai.
Entrò in cucina, al tavolo c’erano già suo padre e sua madre.
Molte volte Louis si domandava perché vivessero ancora insieme, ognuno dei suoi genitori se ne fregava altamente dell’altro, l’unica cosa che avevano in comune era il lavoro e i loro figli, per il resto erano persone totalmente indifferenti. Il ragazzo si era chiesto se si fossero mai amati loro due, eppure la fede posta al dito di entrambi sembrava dare l’idea di una perfetta famiglia.
Louis si ripeteva molte volte che i suoi genitori non si lasciavano per la paura che lui e sua sorella sarebbero stati male, il ragazzo era convinto che lui sarebbe stato di gran lunga meglio se ci fosse stato un divorzio, ma non poteva dire la stessa cosa di sua sorella. Evelyn sarebbe cresciuta con l’idea che prima o poi tutto finisce, avrebbe sentito il divorzio dei suoi genitori come un peso sulle sue gracili spalle e con la paura che non sarebbe mai riuscita a trovare l’amore.
Vista da quella prospettiva, Louis sperava che non si lasciassero mai, ma non per lui, bensì per sua sorella, l’ultima cosa che voleva era che Evelyn stesse male.
Si accomodò al tavolo e disse: «Buongiorno.»
Suo padre posò il giornale sul tavolo, squadrandolo: «Sei sicuro di voler andare a scuola? Puoi benissimo aspettare un giorno, d’altronde siamo arrivati solo stanotte.»
Louis scosse la testa: «Voglio andarci e poi sono già sveglio, quindi tanto vale fare qualcosa.»
Il viso del padre divenne d’un tratto serio: «E’ una delle scuole più buone del quartiere, vedi di non farti bocciare.»
Louis aveva già il futuro assicurato: sarebbe diventato capo dell’azienda immobiliare di suo padre. Quando era venuto a sapere quello l’anno prima, si era fatto bocciare di proposito, non voleva assolutamente stare seduto a una scrivania e dirigere le costruzioni di immobili, era l’ultima cosa che voleva fare.
Louis era molto indeciso sul suo futuro, da una parte voleva seguire il suo sogno, dall’altra doveva avere un piano B.
Il suo sogno era quello di diventare un compositore per musica da film, aveva moltissimi CD con le colonne sonore dei film e aveva già composto diversi pezzi per un film di guerra. I pezzi erano racchiusi nel suo mp3, suonati con il suo pianoforte, una passione che coltivava da anni.
Il piano B invece era quello di laurearsi in psicologia. Era sempre rimasto affascinato dagli psicologi e la loro capacità di entrare nella mente degli altri e dettarne stupendi consigli, voleva diventare psicologo per aiutare gli altri, ma soprattutto per comprendere da solo il motivo di tutta quella rabbia.
«Cercherò di farmi promuovere.» disse tranquillo, non voleva litigare con suo padre riguardo il suo futuro lavoro.
«Ti accompagno a scuola io per oggi, poi ci andrai in bus.»
Il ragazzo annuì e si chiese perché non potesse fare l’esame della patente, ma gli piacevano i pullman, quindi avrebbe accettato di gran lunga. Sempre meglio andare in bus che con la compagnia di suo padre in macchina.
Suo padre si alzò e andò a prepararsi.
«Lou, tuo padre lo fa per te.» sussurrò sua madre, lei a differenza del padre, lo ascoltava. Louis la considerava una sorta di psicologa personale, ma sua madre non poteva fare niente. Suo padre aveva l’autorità su tutti in quella casa e nessuno si poteva permettere di contraddirlo.
«Vorrei solamente che mi capisse, o almeno cercasse di farlo.» mormorò sorseggiando il latte.
Finita la colazione, sorrise raggiante e diede un bacio sulla guancia alla madre, poi andò a prepararsi.
La nuova vita del ragazzo era appena iniziata.
 
Rion entrò nella camera del fratello.
Rich era nel letto, come sempre.
Come sempre, aveva una bandana in testa.
Sembrava un cadavere, come sempre.
La ragazza si avvicinò cauta e gli accarezzò una guancia, solo con lui dimostrava la sua tenerezza.
«Ehi, Rion.» mormorò con voce solare.
La sorella minore si animò sentendo la voce del fratello e lo salutò: «Rich.»
«Cosa hai fatto ieri sera?»
Rion abbassò il capo, nonostante fossero mesi che rientrava così tardi in casa, suo fratello non lo aveva mai detto ai suoi genitori, si teneva le cose per sé, accettando le risposte che la sorella gli dava.
«Sono uscita.» rispose accarezzandogli i capelli.
«Per fare cosa?» domandò e aprì finalmente gli occhi.
Rion aveva sempre amato gli occhi del fratello, uno azzurro e l’altro verde.
Erano speciali, proprio come lui.
Avere gli occhi di diverso colore era proprio una rarità e Rion considerava suo fratello una delle persone più rare che esistessero al mondo.
Era forte e felice nonostante quello che stava passando, era forte perché sapeva accettare le situazioni così com’erano, senza far domande. Era forte perché nonostante la situazione drammatica, Rich riusciva ad accettarla ed essere al tempo stesso felice.
«Per salvarti.» sussurrò Rion, ma era certa che il fratello l’avesse sentita e come sempre non aveva detto niente, così gli lasciò un bacio sulla fronte e uscì dalla camera.
La solita vita della ragazza era appena iniziata.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!
Per chi ancora non lo sapesse, sono Haev, ma il mio nome è Giada (e con tale, mi firmerò). Ri-dò un grandissimo saluto ai lettori che hanno seguito Onset e forse seguiranno ancora questa fanfiction. Li saluto enormemente e li ringrazio per aver aspettato più di due anni (se ben ricordo) per il mio ritorno. Sì, sono tornata e molto probabilmente, dopo questa storia scomparirò di nuovo anche se ho nel PC varie storie, iniziate e non, ma purtroppo mi sono scelta una scuola superiore di merda, che richiede tantissimo e passo la maggior parte del mio tempo scolastico a studiare, dormire, studiare e studiare.
Vi assicuro che per scrivere questa storia ci avrò messo bene o male un paio di mesi, un paio di mesi separati in due anni. Alcune volte mi veniva un'ispirazione assurda e scrivevo per un giorno intero, non badando ai compiti. 
L'estate scorsa ho perfino iniziato un FF su Zayn, ma a 'sto punto non so se sia il caso di finirla e pubblicarla, dato che il moro ha mollato. 
Beh, bentornati a voi e benvenuti ai nuovi lettori. 
Mi siete mancati tantissimo e ora ho il cuore che batte a mille, giuro. Non vedo l'ora di sapere che ne pensate di questa nuova FF, partorita in due anni e attesa così tanto, spero che alcuni di voi siano rimasti. 
Questa storia è vostra, voi la commentate e ne fate una storia degna, perché solo voi potete davvero definirla una storia. Un libro è un libro solo se viene letto. Ebbene, non mi reputo una scrittrice, ma questa è comunque una storia e lo sarà, spero, solo grazie a voi. 
Okay, dopo questo enorme saluto, parto con le classiche domande.
Allora, che ve ne pare come inizio? Rion? Louis? Rylee? 
Per ora sono entrati in gioco solo quattro personaggi fondamentali, ma ne arriveranno altri.
Cosa fa Rion? Cosa ne pensate del suo carattere?
E la questione delle gemelle?
Louis rincontrerà Rion? TENETEVI BENE A MENTE QUELL'INCONTRO, FANCIULLE/I.
Cosa ne pensate?
Vi assillo, lo so. 
Ultima domanda personale: pensate che vi sia un miglioramento da parte mia nello scrivere? 

Vi chiedo in tutte le lingue del mondo di lasciare anche una misera recensione. 

Ah, se non avete letto sopra: questa storia a breve sarà pubblicata su WattPad. 

Spero di rivederci presto, penso che sia tra lunedì o martedì, ma tutto dipende da voi.

Ah, ultima cosa, vorreste vedere un'immagine di Rion/Rylee?

Grazie per essere giunti sino a qui,
Giada.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


A breve il testo sarà inserito anche su Wattpad.
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon
 
II
 
Rion si chiedeva spesso per quale motivo la maggior parte degli studenti stesse fuori da scuola la mattina presto, a gelare.
Capiva chi fumava, ma chi non faceva quell’attività così rilassante, perché mai avrebbe dovuto restarsene fuori con la mani infossate nelle tasche e i denti che battevano? Il calorifero nelle classi avrebbe solamente giovato a loro favore, invece preferivano starsene lì a creare nuvolette di vapore con il fiato.
La ragazza passò davanti all’entrata come un fantasma con il viso coperto dal cappuccio della felpa e la mani che cercavano un po’ di caldo nella giacca.
Rion adorava il freddo, la faceva tenere sveglia, cosa che le serviva molto in quel periodo poiché tornava a casa tardi la sera e doveva assolutamente rimanere viva durante le ore di lezione.
Una volta passato l’ingresso della scuola e dopo aver girato nella curva che dava alla palestra, si ritrovò nel retro. Non era un posto molto grande e in pochi andavano lì per parcheggiare la macchina, c’erano solamente bidoni della spazzatura e un tanfo tremendo, ma a Rion non importava granché. Lei l’unica cosa che volesse era un posto in cui fumare da sola la mattina e la massa di studenti davanti a scuola non era di certo la solitudine che lei cercava.
Forse molte volte era proprio lei stessa che andava a cercare un po’ di solitudine, era come se fosse allergica alle persone, ma lei si ripeteva ogni giorno che stava bene così com’era, senza amici, amore o qualcosa su cui contare, ma molte volte alludeva al fatto che traeva quelle conclusioni solo perché non aveva mai avuto amici o un ragazzo.
Accese tranquillamente la Marlboro sentendo nelle sue orecchie il suono stridulo della campanella che annunciava l’ora di lezione, alzò gli occhi al cielo e iniziò ad aspirare più voracemente dalla sigaretta, di certo, non ne avrebbe sprecata una solo perché la lezione era iniziata.
 
Louis entrò nel cancello della scuola più incazzato che mai, dopo aver salutato come consuetudine la sorellina, era salito in macchina e aveva aspettato suo padre, il quale aveva tardato e quindi quando il ragazzo arrivò a scuola trovò l’ingresso deserto.
Louis si guardò intorno e sorrise vedendo gli alberi che circondavano l’edificio: erano gli stessi che c’erano nella sua vecchia scuola, alberi con le foglie a forma di stella, che in quel periodo dell’anno erano totalmente spogli, senza foglie ne germogli verdi. Sembravano quasi che volessero su di loro tutte le calamità del pianeta, come se chiamassero da tutti i loro pori la pioggia, la neve, il vento.
Come se volessero sentire il mondo, per poi fiorire di nuovo.
Lo sguardo azzurro del ragazzo corse alla scuola, trattenne un cipigio inorridito: le pareti grigie con gli infissi rosso sbiadito, le finestre sporche e le luci accese in svariate classi le davano l’aspetto di un carcere. Suo padre gli aveva detto che era una delle scuole migliori della zona, quindi era palese che assomigliasse a una prigione, ma il ragazzo si era aspettato qualcosa di meglio.
Louis, non avendo voglia di entrare subito per incontrare la preside, decise di fumarsi una sigaretta.
La tirò fuori dal pacchetto e fu felice di notare che fosse l’ultima, il ragazzo adorava cambiare marca di sigarette ogni tanto, trovando quella che gli sembrasse più buona e aveva fatto cilecca con quest’ultime, sembrava di fumare aria, tanto che in un solo giorno ne aveva fumate quasi quindici per soddisfarsi.
Il tabacco leggero gli entrò nei polmoni placando l’ira interiore e le sue gambe iniziarono a muoversi per il cortile.
Si accorse che nonostante la scuola sembrasse un carcere, il cortile era accogliente. Vi erano diversi tavoli in legno in cui, molto probabilmente, gli studenti pranzavano oppure durante la primavera ripassavano o facevano ricerche, il ragazzo notò anche un bar che però a quell’ora era chiuso.
Camminò in mezzo a quegli alberi e quelle foglie fino a giungere al retro della scuola, come prima, si inorridì. Il puzzo era acidissimo e vi erano molti bidoni della spazzatura, ma la cosa che più lo sorprese fu una ragazza appoggiata al muro lercio.
Louis si chiese perché mai andasse a fumare proprio lì, nello schifo più totale, piuttosto che andare nel davanti della scuola come tutti gli studenti.
Però, osservandola, si rese conto che fumava con trasporto, quasi quanto lui. Lei viveva di fumo, adorava il tabacco scendergli nella trachea e distruggere i polmoni, fumava per vivere.
La ragazza fece un gesto fulmineo con la testa e lo fissò con gli occhi di brace, quasi come se l’avesse interrotta in qualcosa di sacro.
Quegli occhi verdi lo inchiodarono al selciato, tanto che la sigaretta gli rimase tra le labbra.
La ragazza alzò un sopraciglio e Louis, dopo riaver afferrato la sigaretta ed essersi ripreso, disse: «Stavo facendo un giro.»
La ragazza annuì e continuò a fumare, guardandolo di sottecchi, Louis capì al volo che voleva che lui se ne andasse, ma era l’ultima cosa che voleva fare.
Prima di tutto perché non aveva la minima idea di dove andare e poi perché si ricordava di quella ragazza. Aveva gli stessi lineamenti di quella della sera prima che gli aveva offerto una sigaretta, ricordava che non aveva proferito parola e il suo volto era brusco.
«Da quanto tempo è iniziata la lezione?» chiese Louis.
«Cinque minuti.» rispose tranquilla Rion, dopo aver buttato fuori il fumo.
Louis annuì e guardò al suolo, alzando le sopraciglia. Quella ragazza non era per niente loquace, si chiese se tutte in quella fottuta città fossero così.
«Ci siamo già visti, vero?» domandò per attaccar discorso.
Rion parve agitarsi, ma fu una frazione di secondo, che Louis captò molto bene, poi il viso e il corpo della ragazza ritornarono come prima, «Non credo, o meglio, io non ti ho mai visto.»
«Mi sono trasferito qui ieri sera. – Disse. – Non mi hai offerto una sigaretta?»
«Ti sarai confuso con qualcun altro.» disse facendo un sorriso muto.
Rion spense la sigaretta e passò accanto a Louis, diretta verso la classe.
«Aspetta, mi diresti dov’è la presidenza? Questo posto è enorme.» esclamò il ragazzo allargando le braccia.
Rion ci pensò un po’ su e costatando che non aveva la minima voglia di ascoltare il prof. di inglese, ritornò indietro e aspettò che Louis finisse la sigaretta.
 
L’interno era peggio dell’esterno, tutto l’abitacolo era grigio. Non vi era nemmeno una macchia di colore, se non i vestiti che portavano i ragazzi. I cartelloni appesi alle pareti, erano bianchi e neri, Louis si sentì soffocare in quel luogo, si chiese come avrebbe fatto a passare sei mesi in quel lurido posto.
Non che fosse sporco, anzi, i pavimenti risplendevano sotto la luce al neon, ma era la troppa omogeneità che costringeva Louis a soprannominarlo come un posto lurido.
Mentre il ragazzo seguiva Rion per una scala che portava al piano superiore, si guardò in giro e si rese conto che non c’era molto da vedere. Tutto era grigio. Le porte dovevano essere bianche, ma avevano così tanti anni che si erano ingrigite, la pareti erano un grigio chiaro e alcuni tavoli sparsi negli atri erano grigio scuro.
A Louis parve di trovarsi in un manicomio, di certo quel posto non avrebbe agevolato la sua voglia di studiare, che era assai scarsa.
Le sopraciglia del ragazzo rizzarono in su quando si presentò davanti a lui una porta verde scuro, gli sembrò quasi un miracolo, le porte di un paradiso.
Sulla parete c’era una targhetta con scritto ‘presidenza’.
Rion bussò alla porta un paio di volte, poi attese tranquilla, Louis la osservò: teneva ancora il cappuccio della giacca, ma poté notare le sue gambe magre rinchiuse nei jeans neri e il fondoschiena della ragazza, annuì soddisfatto e fece un mezzo sorriso: se non fosse stata così silenziosa, ci avrebbe provato con lei.
Poi si ricordò degli occhi verdi, benché l’avesse vista solo una volta, si era sentito nudo sotto il suo sguardo. Era come se quella ragazza avesse compreso tutta la sua rabbia in un battito di ciglia e la cosa era strana per Louis, perché erano praticamente diciannove anni che cercava di trovare una cazzo di spiegazione a tutta quell’ira, e ora, quella ragazza era come se l’avesse compresa.
«Avanti.»
Rion posò le mani sulla maniglia ed entrò lentamente, senza fare il minimo rumore.
«Buongiorno, preside. – Salutò cordiale, facendo due passi all’interno della stanza. – Lui è un nuov…» Rion non fece in tempo a terminare la frase che sentì un rumore sordo dietro di sé, si voltò e vide la borsa di Louis per terra.
Il ragazzo era rimasto così tanto contagiato dai numerosi colori che c’erano nella stanza, quali il rosso delle tende, il marrone della scrivania, il verde della giacca della preside e l’azzurro del cielo fuori dalla finestra, che si lasciò sfuggire la cartella di mano, guardandosi intorno in estasi.
Si chiese come facessero i ciechi a non poter vedere niente, lui era quasi morto vedendo solamente il grigio per soli cinque minuti.
«Tutto bene?» chiese una voce pimpante e leggermente ironica.
«Sì, scusate.» mormorò il castano abbassandosi per prendere i libri.
Mentre raccoglieva la borsa e sistemava i libri, scrutò la preside.
Era una donna sulla sessantina, i capelli biondi, molto probabilmente tinti, erano raccolti in uno chignon molle, dal quale spuntavano alcuni ciuffi ribelli. Il viso, marcato da qualche ruga per la vecchiaia, era solamente coperto da uno lieve strato di fondotinta, per il resto era al naturale, niente ombretto, matita o rossetto. Indossava un cardigan nero e un vestito verde scuro, la calzamaglia le copriva le gambe magre.
Il suo atteggiamento sembrava autoritario, di una persona che esigeva rispetto, ma al contempo sembrava comprensiva e buona. Appariva una preside a favore degli studenti.
Louis sorrise pensando che almeno la scuola sembrava diretta da una persona capace.
«Non ti preoccupare, so per certa che questo grigio può dare alla testa.» rispose tranquilla la preside, sedendosi alla scrivania.
Louis proruppe in una risata nervosa e si chiese come avesse fatto a leggergli nella testa.
«Dicevi, signorina Lee?»
«E’ un nuovo studente.» rispose Rion.
Louis memorizzò il cognome, poi si mise un post-it in testa ricordandosi di chiederle il suo nome, voleva sapere qualcosa in più su quella ragazza.
«Oh, capisco. Devi essere il signorino Tomlinson, vero?»
Louis annuì sorridendo e una volta alzato, strinse la mano alla preside.
«Bene, accomodatevi, sì, rimani anche tu signorina Lee.»
Rion piuttosto di sedersi si appoggiò alla parete e incrociò le braccia al petto, la preside non oppose resistenza all’atteggiamento della ragazza, anzi recò tutta la sua attenzione al nuovo studente.
«Bene, signorino Tomlinson, io sono Dina Stuart, la preside di questa scuola. – Si presentò. – Come immagino che già sappia, è un liceo e questo è il tuo ultimo anno. – La preside prese delle carte. – Tuo padre ci ha mandato le tue ultime pagelle e ho notato che hai avuto un calo l’anno scorso, tanto che non hai preso la licenza liceale.»
«Sì, in effetti, è stato un anno duro, per questo mi hanno bocciato.»
«Capisco, voglio che tu sappia che sei hai qualche problema, puoi contare su di me e sui tuoi professori, cercheremo di aiutarti nei limiti del possibile.»
Louis pensò che non potevano fare nulla per convincere suo padre a non farlo diventare un direttore immobiliare, ma ugualmente sorrise e rispose: «Grazie mille.»
La preside ricambiò il sorriso e consegnò un foglio al ragazzo: «Questi sono i tuoi orari, ora dovresti avere inglese.»
 
Rion si rizzò sulla schiena e allungò il collo per poter vedere gli orari del ragazzo, la maggior parte coincidevano con i suoi.
L’unica materia che non avevano in comune era informatica, che Rion non faceva, ma la sostituiva con latino.
Un senso di inquietudine iniziò a entrarle dentro, quel ragazzo aveva infranto la sua quiete quotidiana. L’aveva riconosciuta, ma lei aveva divagato il discorso e lui sembrava averci creduto, sperò vivamente che non le avrebbe chiesto una seconda volta se era davvero lei la ragazza che gli aveva offerto una sigaretta.
Lui non doveva ricordarsi di lei, assolutamente. Lei doveva essere invisibile, ‘una delle tante’, non doveva lasciare nessuna traccia.
Perché se qualcuno avesse scoperto qualcosa nei suoi riguardi, lei sarebbe stata semplicemente fottuta e non avrebbe potuto aiutare la persona che amava di più in quel momento.
«Signorina Lee, mi pare di capire che hai gli stessi orari del signor Tomlinson, lo accompagneresti in classe?»
«D’accordo.»
«Sono sicura che il professore Pettifer ti sta aspettando, o sbaglio?» disse risoluta la preside.
Rion fece il solito sorriso muto e ammise: «Non sbaglia.»
«Arrivederci, ragazzi.»
«Salve.» risposero all’unisono e poi uscirono.
«Ma la preside conosce tutti i suoi alunni?» domandò Louis, aveva notato che non ci aveva impiegato molto a riconoscere Rion e in quella scuola ci saranno stati almeno mille studenti.
«E’ molto interessata agli studenti, non so se li conosca tutti, però si interessa molto di noi.»
«E come mai sembri di casa in presidenza?» chiese Louis salendo le scale e immergendosi nuovamente nel grigio.
«Ritardi, il prof. di inglese è un rompicoglioni, vedrai che scenata fa quando entriamo.» disse e giunse davanti a una porta.
Senza prendersi la decenza di bussare, Rion entrò e disse: «Buongiorno.»
«Signorina Lee, come mai così in ritardo oggi?» domandò il prof. posandosi le mani sui fianchi e guardando la studentessa con una nota di sarcasmo.
Per tutta risposta Rion si spostò di lato e fece entrare Louis, il professor Pettifer cambiò immediatamente atteggiamento.
Il viso coperto da un pizzetto ben curato si trasformò in un sorriso che rivolgeva a pochi studenti, la mani si unirono tenendo comunque stretto il gessetto e le spalle magre, coperte da un cardigan si abbassarono.
Rion ne approfittò per andarsene al posto ed evitare la ramanzina giornaliera, lanciò uno sguardo all’orologio e notò che era quasi passata un’ora tra la sigaretta e l’incontro con la preside.
Rion lanciò un’occhiata alla classe: alcuni approfittarono di rispondere ai messaggi al cellulare, per nulla interessati a quello che stava succedendo; altri ragazzi squadravano Louis per capire se era degno di entrar a far parte della compagnia o uno da prendere per il culo; le ragazze erano tutte concentrate sul viso del ragazzo, Rion, guardandolo bene, doveva ammettere che aveva un qualcosa di affascinante.
Il viso era marcato dai lineamenti accentuati, la guance erano scavate, il mento ricoperto da una leggera peluria. Il naso era piccolo, così come le labbra che erano piccole e fini, leggermente screpolate. Gli occhi erano due pozzi azzurri, sembrava che una parte dei ghiacciai fosse stata imprigionata lì dentro, quanto erano chiari. I capelli erano un casino unico e Rion pensò che esprimessero il casino che aveva in testa, perché aveva subito capito che Louis aveva qualcosa contro il mondo, forse solamente rammarico, ma poteva essere anche rabbia. Perché il fatto di fumare così voracemente, il fatto di camminare piano, di tenere lo sguardo serio e sorridere a comando, di avere quegli occhi così accesi e spenti al tempo stesso, il fatto di tenere le gambe, fasciate da un paio di jeans blu, sempre tese, come se volesse scappare e la mani nelle tasche dei pantaloni, erano tutte cose che facevano di Louis un ragazzo che avesse qualche sentimento negativo nei confronti del mondo.
«Cosa ne dici di presentarti ai tuoi compagni?»
Il ragazzo sorrise raggiante e disse: «Ciao coglioni, sono Louis.»
Rion si appoggiò alla parete sorridendo.
 
Louis si accomodò al suo banco, in seconda fila nella parte destra della classe.
A occhio e croce contò circa una ventina di studenti e tutti gli fecero buona impressione, non che fosse molto interessato a conoscerli per bene, aveva sempre odiato i compagni di classe. Non riusciva ad avere amici all’interno della propria classe poiché sapevano sempre tutto, anzi volevano sapere sempre tutto. Louis era dell’idea che non doveva essere costretto a dire qualcosa di suo, ma era lui che sceglieva a chi dirlo e soprattutto cosa dire.
Nonostante ciò, quella classe gli piaceva e benché avesse appena preso una nota per ‘un dialogo poco corretto’ sapeva di essersi dato un posto nella classe.
Era quello il difficile di cambiare scuola, dovevi farti accettare da persone che si conoscevano da anni e molte volte non era facile. Nonostante Louis fosse sempre incazzato, era capace di essere molto loquace e divertente, quindi, avrebbe sfoggiato quella parte di sé con i suoi compagni.
Diede una piccola occhiata alla classe: c’erano più ragazzi che ragazze, quest’ultime sembravano abbastanza tranquille, solo una aveva una maglietta scollata che dava alla poca immaginazione, ma non per questo doveva essere necessariamente una troia. Il resto sembrava semplice, ragazze alla mano, che studiavano tutti i giorni e il sabato sera uscivano per svagarsi un po’, tra queste vi era anche Rion.
Louis passò lo sguardo ai ragazzi, alcuni dovevano essere studenti modello, le mani prendevano quasi fuoco sul banco per cercare di prendere appunti riguardo quello che stava dicendo il professore. Altri fissavano la lavagna imperterriti, nella speranza che potesse scoppiare da un momento all’altro e uccidere il prof. Pettifer, Louis posò lo sguardo sul suo compagno di banco.
Aveva i capelli biondi con riflessi più chiari e scuri, le guance erano paffute e rosee, la bocca era inespressiva, leggermente storta all’ingiù. Gli occhi marroni fissavano il professore, captando quello che fosse importante ricordare e cosa si poteva cancellare, la fronte era corrugata nell’ascolto. Le mani erano affondate nei jeans chiari e un piede batteva un ritmo indefinito sul pavimento.
Quando Louis si era seduto il ragazzo gli aveva rivolto un cenno con il mento, al quale Louis aveva risposto con un sorriso tranquillo, menefreghista nei confronti della nota.
«Ehi, come ti chiami?»
«Maxie, tu Louis?»
Louis annuì e tirò fuori un foglio, dove vi disegnò cinque righe vicine tra di loro, Maxie si sporse e mormorò: «Suoni?»
Le sopraciglia di Louis andarono verso l’alto, non si sarebbe mai aspettato che qualcuno riconoscesse il suo scarso tentativo di fare un pentagramma, «Sì, il piano, tu?»
«La chitarra. – Rispose a bassa voce. – Cazzo, grande. Nessuno in questa classe suona qualcosa.»
«Dici sul serio?»
«Si, cristo. – E alzò gli occhi al cielo. – Ci sta che non suoni niente, ma non conoscono nemmeno un po’ di musica.»
«Mi stai dicendo che tutti ascoltano la musica che danno alla radio?» disse Louis, sconvolto.
Maxie annuì con vigore e disse: «Tutti, gli chiedi chi è Kurt Cobain o Elvis Presley e questi manco sanno di chi parli, ma dio santo.»
Louis sorrise, Maxie gli piaceva di già.
Adorava la musica quanto lui e in più suonava uno strumento, Louis non riusciva a capire chi non potesse vivere di musica, come faceva? Come faceva ad andare avanti? Poteva avere amici che ti comprendevano e ti consigliavano, ma come potevi semplicemente tirare avanti con quella musica tutta uguale che parla solo di libertà, sesso e soldi? Erano rare le canzoni popolari che ti entravano dentro.
Louis non disprezzava la musica che c’era in voga in quel momento, in fondo era il primo che la ballava quando andava in discoteca, ma riteneva quasi improbabile che David Guetta oppure Avicii potesse rallegrarti il morale o darti forza per andare avanti.
Louis viveva per la musica e molte volte si autoconvinceva che era la musica a tenerlo in vita, a dargli la forza per affrontare la giornata.
La musica era vita, amore, tristezza, comprensione. Era l’arcobaleno dopo una tempesta, il primo raggio di sole che sorge al mattino, era la cioccolata calda bevuta sul balcone d’inverno, era i dettagli di una vita troppo triste e trascurata per far sì che viva da sola.
«Tu componi?» chiese Louis, disegnando una chiave di violino, fece una smorfia quando vide il lavoro finito: aveva una grafia orribile.
«Nah, faccio schifo. Una volta ho provato e sembrava una canzone stile ‘nella vecchia fattoria ia ia oh’, una merda.»
Louis sorrise e trattenne una risata: «Cosa suoni?»
«Adoro gli Avenged Sevenfold, ma suono un po’ di tutto, specialmente il rock degli anni ’80 e ’90, dio adoro quel periodo.»
«Smells like teen spirit.» mormorò Louis.
«Oh cristo, sì!» esultò Maxie.
«LUKE!»
«Scusi, prof.» mormorò Maxie alzando una mano.
Louis sorrise e mormorò: «Luke?»
«Sì, lo so. È un cognome del cazzo, ma che ci posso fare? I genitori mica si scelgono.»
Louis non poté che essere d’accordo e visto che il professore continuava a gettare occhiate a lui e Maxie, il ragazzo iniziò a scarabocchiare qualche accordo, fissando una schiena dall’altra parte della classe.
Forse Maxie avrebbe saputo dargli delle risposte.


Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera! 
Eccomi qui, come promesso, anche se effettivamente volevo aspettare un po' a pubblicare il nuovo capitolo, perché ero in dubbio: ho avuto solamente due misere recensioni nel primo (e grazie alle due che hanno recensito, vi voglio bene). Okay, non pretendo un numero esorbitante di recensioni, ma un racconta-storie, specialmente insicuro come me, deve sapere come la pensano i suoi lettori. Questo, riguardo anche alle messe nelle preferite, seguite, etc...
Ciò mi fa pensare che la storia non vi piace, una volta ho letto che il primo capitolo deve colpire e io mi sento una merda perché ho paura di non averlo fatto nel modo corretto. 
Quindi: DATEMI UN SEGNO PER FAVORE. VI SUPPLICO. 

Tornando alla storia, ho due cose da chiedervi/dirvi (e qui vi pregherei di essere onesti).
-Come avrete notato, spero, Maxie dice molte volte 'cristo', so per certa che non è una bestemma, ma a me una bestemmia sfiorerebbe quanto un complimento, dato che sono atea, MA, magari a qualcuno/a di voi dà fastidio. Quindi, vi dà fastidio? Se sì, vi chiedo cortesemente di dirmelo, perché per vostro rispetto, cercherò di far dire qualche altra imprecazione a Maxie. 
Ah, tra l'altro, il nome di Maxie è stato preso da uno dei personaggi di Skins (serie TV che vi consiglio assolutamente di guardare), ma solo il nome e non l'aspetto, giusto appunto, ho una foto del mio Maxie ideale nel PC, volete vederla? MH? LO SO CHE VI ATTIRAA.

E ANCHE RION, LO SO.

Ohw, cosa ve ne pare della scelta dei nomi? Boh, per me sono importanti. 

Seconda questione: nell'ultima parte, ho messo un pensiero di Louis sulla musica, beh, è un mio pensiero, non che Louis William Tomlinson la pensi come me, eh. Volevo farvelo notare, e VOI COSA PENSATE DI QUELLA BENEDETTA COSA CHIAMATA MUSICA? DAI, MI PIACEREBBE SAPERLO.

Terza domanda: CHE CAFFO FA RION? Voglio sentire le vostre ipotesi. 

Bene, non avrei altro da dire. 
Non so quando aggiornerò, ma sicuramente, sarà a fine settimana.

LASCIATE UN SEGNO.
E LA FORZA SIA CON VOI. (Cit: StarWars alias amore perenne della vita di Giada)

Grazie per essere giunti sino a qui.

Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


A breve il testo sarà inserito anche su Wattpad.
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon
LEGGETE LO SPAZIO AUTORE A FINE CAPITOLO, PER FAVORE. 
SPIEGO DUE COSE IMPORTANTI.

III
 
Rylee guardò davanti a lei i sei studenti che facevano parte del comitato studentesco, quel giorno era particolarmente annoiata.
I ragazzi stavano discutendo per dare un tocco di colore alla scuola, ma non sapevano come, in quanto un’impresa di imbianchini sarebbe costata fin troppo. Rylee era dell’idea che, certo, potevano pitturare i muri, ma essi avrebbero fatto piacere agli studenti solo per un mese, poi sarebbero ritornati come prima. Ovvio, un tocco di colore metteva sempre allegria, ma con il passare del tempo sarebbe diventato monotono.
Rylee sapeva che serviva qualcosa di più, l’idea le venne così d’istinto: «E se fossimo noi a colorare i muri?»
Tutto il corpo studentesco si voltò verso di lei con un sopraciglio alzato, la ragazza non si scompose: era già successo in passato che dalla sua bocca uscissero le idee più strane, molte delle quali avevano avuto un ottimo esito, come per esempio quello di fare un presepe vivente un paio di anni prima.
«Rylee, non ci daranno mai il permesso.»
«E tu che ne sai, Kevin? – Proruppe la ragazza. – La preside è molto a favore degli studenti e se noi ci procuriamo dei teloni, la tempera e dello scotch, sono sicura che ce lo farà fare.»
«Ma non dire cazzate, Rylee. – Continuò Natasha. – Chi mai lascerebbe pitturare a degli studenti dei muri? Ci potrebbero scrivere qualsiasi cosa!»
«E’ dall’inizio del semestre che vi scervellate per dare un tono più positivo a ‘sta scuola e non avete ancora concluso niente.» disse Rylee innervosendosi, lei aveva già capito da tempo che non c’erano soluzioni per rendere più ospitabile la scuola, ogni cosa avessero pensato sarebbe costata troppo alle casse dell’edificio, l’unico rimedio era quello di risvoltarsi le maniche e mettersi al lavoro.
«Io sono d’accordo con lei.» disse Tom.
«Sul serio, Tom?» domandò Kevin.
Il ragazzo alzò le spalle e spiegò: «Rylee ha ragione, è dall’inizio dell'anno che cerchiamo un modo per rendere più bella la scuola, ma non abbiamo trovato niente a cui non serva l’uso di soldi, quindi direi che per renderla più accogliente dobbiamo fare qualcosa noi.»
Gli altri ragazzi che facevano parte del gruppo studentesco annuirono convinti, «Il papà di un mio amico fa l’imbianchino, potrei chiedergli se ci potrebbe fare uno sconto sui colori.» disse uno di loro.
Rylee si entusiasmò e sfoggiò il suo sorriso: «Grande, sì, dai!» e fece un cenno di ringraziamento al ragazzo.
«Chi lo dice alla preside?» chiese Kevin, riluttante.
«Io. – Disse Rylee convinta. – Ragazzi ora vi lascio, ho una verifica.» detto ciò uscì dalla stanza.
Non appena nella camera non ci fu più Rylee, si sentì: «E’ una stronzata immane.»
«Almeno lei si è fatta venire in mente qualcosa, Kevin.»
Per tutta risposta il ragazzo batté un pugno sul tavolo e dileguò l’assemblea.
 
Maxie posò la penna sul tavolo e attese che il resto della classe terminasse l’esercizio. Aveva sempre adorato la matematica, quasi quanto la musica.
Amava come tutti quei numeri si sommassero, dividessero o sottrassero tra di loro, dando origine a un risultato che neanche si sognava.
Sembrava l’inizio e la fine di una canzone, che sembrava terminare nello stesso modo dell’avvio, quando in realtà c'era dietro tutta la melodia e una sorta di malinconia che costringeva a sentirne un’altra e poi un’altra ancora.
Ecco, così era la matematica per Maxie: una specie di malinconia che lo costringeva a fare esercizi su esercizi per soddisfarsi. Alcune volte si dava del pazzo da solo, solo un coglione faceva dei compiti supplementari, di matematica per di più.
«Già finito?» domandò Louis con un sopraciglio alzato.
Maxie sorrise imbarazzato e annuì, il ragazzo alla sua sinistra per tutta risposta prese il foglio dal compagno e scopiazzò l’esercizio.
Maxie sorrise, gli piaceva Louis, era nata subito un’ottima intesa tra quei due. Finalmente Maxie aveva trovato qualcuno con cui parlare di musica e sperava davvero che un giorno avessero potuto suonare insieme, già si immaginava come la sua chitarra si fondesse con il piano di Louis.
Aveva sempre amato la chitarra e il piano mescolati assieme e non vedeva l’ora di provarlo sulla propria pelle.
«Presentami un po’ di gente, dai.»
«Allora, lui è Josh, il figone. – Indicò un ragazzo dai lineamenti fini e belli, occhi azzurri e capelli castani, un perfetto dongiovanni. – Poi, qui davanti abbiamo Kim e Lucy, le migliori amiche. – Indicò le due ragazze davanti a loro. – Là c’è Mad, va sullo skateboard.»
«Noto.» alluse Louis, poiché il ragazzo indossava vestiti larghi al massimo tre taglie in più, abbigliamento molto comune tra gli skater.
«Jade. – Indicò una ragazza in prima fila. – Direi che è proprio una secchiona, però ti passa i compiti ed è abbastanza figa, quindi ci sta. – Louis sorrise e ammiccò alla ragazza, il suo amico non aveva torto: bel culo, la maglietta gli fasciava la schiena e i capelli erano biondo platino. – Oh, poi lì c’è Niko, è l’unico con cui sia riuscito veramente a legarmi qui dentro.» mormorò Maxie indicando un ragazzo che aveva i capelli lunghi.
«Perché ha i capelli così lunghi?» domandò Louis.
«Vuole farsi i dread.» rispose Maxie arricciando il naso.
«Non ti piacciono?»
«Cristo, no.»
«Ti piace dire ‘cristo’ a te, vero?» disse Louis ridendo.
Maxie alzò le spalle e sorrise a sua volta. 
Non credeva in dio, aveva iniziato ad avere dubbi all'eta di quattordici anni, durante la quale si chiedeva com'era possibile che un dio, così tanto amoroso, fosse al tempo stesso scontroso e menefreghista. Se il dio cristiano fosse stato davvero un dio parsimognoso e premuroso, allora avrebbe aiutato quella merda di mondo nel quale viviamo in qualche modo. Invece, se ne stava come un dio greco ad ammirare il mondo e godersi il nostro sfracellamento. Maxie aveva smesso di credere in dio perché non aveva più fede e si sentiva leggermente rincoglionito a inginocchiarsi sul letto, congiungere le mani e dire preghiere al soffitto.
Ora stava bene con se stesso e non aveva rimpianti riguardo la sua decisione, cercava di non bestemmiare mai, soprattutto per una questione di rispetto, ma ormai la parolina 'cristo' era sulla sua bocca tutti i giorni.
«Di lei che mi dici?» disse Louis indicando la ragazza che l’aveva accompagnato dalla preside.
«Chi, Rion?» domandò Maxie.
«Non so come si chiami.»
«Rion, beh è un muro quella ragazza.»
«Un muro?» domandò Louis.
«Già, non parla mai. L’anno scorso mi hanno messo vicino a lei, è passato un mese prima che mi parlasse di sua spontanea volontà.»
«Davvero?»
«Cristo se è vero. – E ridacchiò. – E’ un peccato, perché è davvero bella.»
Louis annuì e rispose: «Ha un culo.»
«Figa, hai visto? Madonna.»
Gli occhi di Louis saettarono alla ragazza e si chiese cosa mai avesse da nascondere. Si disse che magari era il suo carattere, ma dopo un po’ avrebbe dovuto sbloccarsi, invece da quello che gli diceva Maxie era silenziosa e chiusa da sempre.
«Comunque, se ti interessa, ha una sorella.» disse Maxie.
«Una sorella?»
«Gemella, per di più, è il suo opposto. – Disse Maxie. – E’ nel comitato studentesco e parla.» ridacchiò.
«E’ uguale a lei?» chiese.
«Nah, ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. Onestamente a livello di bellezza preferisco Rion, ma Rylee è molto più loquace, ci sono uscito un paio di volte in compagnia, è simpatica.»
«Fantastico, ma non esce mai?»
«Rion? Non che io sappia, c’è una cosa strana su di loro, Louis.»
«Sarebbe?»
«E’ come se non fossero sorelle. – Maxie lo guardò negli occhi. – Io lo so perché ho fatto le elementari con loro, ma ti posso assicurare che nella classe lo sappiamo solo io, te e Niko.»
«Scusa non si nota la somiglianza?»
«Non se Rion fa finta di non esistere.»
«Ma che cosa è successo?»
«Non ne ho idea, Rylee non me ne ha mai parlato.»
«Cazzo.»
«Maxie, se hai finito di parlare con Louis, correggeresti l’esercizio?»
«Scusi, prof.» disse Maxie e iniziò la correzione.
La professoressa Finch era una delle migliori del corso, se non la più brava. Maxie e quasi tutto il resto degli studenti l’adorava, lei era in grado di farti piacere la matematica, nonostante fosse una materia disprezzata dalla maggior parte degli studenti.
Lei, una donna sulla quarantina, con i capelli scuri boccolosi, un fisico asciutto dalle giuste forme e sempre vestita in modo consono, da non procurare strane idee agli studenti, era un vero e proprio genio a spiegare. Aveva un modo tutto suo, all’inizio sembrava strano con tutti quegli esempi sulla vita quotidiana, ma dopo un po’ imparavi ad amarlo.
Maxie adorava quella prof. proprio perché era stata in grado di fargli amare la matematica più di quanto non lo facesse già.
 
Due minuti dopo il suono della campanella gli studenti sciamarono fuori dalla classe, ma Louis fu trattenuto.
«So che è il primo giorno Louis, ma spero tu ti sia trovato bene.»
Louis parve sorpreso da quell’affermazione: nessun professore si era mai interessato a come lui stesse veramente. Ogni insegnante era sempre stato occupato ad assegnare un voto al suo reddito scolastico, invece ora, quella donna con gli occhi grigi gli chiedeva qualcosa di personale.
Louis si sentì talmente coinvolto da quello sguardo premuroso che rispose: «Sì, mi sembra un’ottima classe, l’unica cosa è che questa scuola è così grigia.»
La Finch proruppe in una risata sincera: «In effetti hai ragione, ci vorrebbe proprio un tocco di colore.»
Louis sorrise e guardò il pavimento, non sapendo cosa dire.
«Ti ho portato degli esercizi da fare per casa. – Sorrise spiritosa. – Non sono obbligatori, stai tranquillo. Solo che non so cosa tu abbia fatto nella prima parte dell’anno e qui ci sono esercizi su quello che abbiamo svolto noi, c’è anche una piccola parte di spiegazione che ti può aiutare nel caso non avessi fatto qualcosa. – Gli consegnò una decina di fogli. – Ovviamente non sei costretto a farli, ci mancherebbe altro, dipende tutto da te. Nonostante ciò ti ho segnato quelli che potresti fare.»
«Grazie mille.» disse Louis.
«Buona giornata, Louis.» disse la prof. e uscì dalla classe.
«Signorina Finch.» rispose il ragazzo e sfogliò i fogli, si accorse che nessun esercizio era sottolineato, così fece rapidi passi alla porta, si affacciò ed esclamò: «Prof!» ma la signorina Finch non c’era.
Louis, scettico, mise i fogli nella borsa e si ripromise che quel pomeriggio avrebbe provato a fare qualche esercizio di matematica.
 
Dietro una porta lì vicino, la signorina Finch sorrise tra sé.
 
Greta suonò al campanello della porta blu con inciso il numero 53, passava di lì due volte alla settimana e se avesse potuto, l’avrebbe fatto tutti i giorni. Tutti gli impegni che una ragazza di vent’anni poteva avere, però, la costringevano ad andare a casa di Rich solo due volte.
La porta si aprì e la ragazza sorrise a una delle due gemelle, «Ciao, Rylee.»
«Greta, vieni, entra. – Mormorò la ragazza. – Mio fratello è in camera.»
«Grazie mille, come sta Renae?»
«Alla grande, è una bambina bravissima.» sorrise Rylee e andò in soggiorno.
Greta salì le scale sfiorando con le mani le pareti, lasciando segni invisibili e arrivò davanti alla porta. Bussò come sempre e attese una sua risposta che arrivò dopo un paio di secondi.
Entrò e come sempre le prese un colpo al cuore.
Non tanto per la flebo attaccata al suo braccio, nemmeno per la bandana che aveva in testa e nemmeno per il suo viso bianco cadaverico, ma bensì perché lo trovò bellissimo, come tutte le volte che lo vedeva.
Bellissimo nella sua forza meravigliosa che celava dietro la sua fragilità.
Bellissimo quel sorriso che le rivolse non appena entrò.
Bellissimo come una foglia che cade da un ramo, all’inizio dell’autunno.
Bellissimo perché non poteva essere suo e fondamentalmente a Greta andava bene così, perché se Rich fosse stato suo, lei non sarebbe andata avanti a vivere una volta che lui se ne fosse andato.
Bellissimo come l’amore che lei provava per lui, amore che scriveva nel suo diario come una sedicenne, che raccontava alle sue amiche, che dimostrava con baci sulla guancia e con piccoli regali, quali una bandana, un braccialetto, qualsiasi tipo di oggetto che poteva donargli.
«Ciao, Greta.»
«Ehi, Rich, come andiamo oggi?»
«Vorrei tanto una cazzo di sigaretta.» mormorò appoggiando sul comodino un foglio con una penna.
Greta sorrise e sfilò fuori dalle tasche un pacchetto di Camel gialle, le preferite del ragazzo.
Vide i suoi occhi, uno verde e l’altro azzurro, illuminarsi piano, come la luce che emanava una candela al buio più assoluto.
«Dio mio.» sussurrò e sorrise come non mai.
Greta si sentì morire davanti a quel sorriso meraviglioso e le sue membra si sciolsero costatando che fosse per lei.
Sorrise e disse: «Puoi?»
«Devo morire, no? Dai, aiutami ad alzarmi che facciamo quattro passi.»
Greta si avvicinò e prese Rich sotto le ascelle facendo leva sulle sue braccia, sembrava un bambino indifeso e benché il suo corpo fosse così decrepito, era caldo. Greta si beò di quel dolce calore e di quel profumo, che sapeva di coperte, sapone e un misto di medicinali. Quando si accorse di essere a un soffio dalle sue labbra, ebbe la tentazione di mollare la presa e afferrargli il viso e riempirlo di baci fino a che lei non fosse morta, ma si trattenne e alzò il ragazzo dal letto.
Rich camminava di rado, la maggior parte delle volte lo faceva in sua compagnia, per il resto del tempo se ne stava a letto.
Era ormai giunto al capolinea, però resisteva. Molte volte Greta si chiedeva perché mai vivesse ancora, cosa avesse da fare di nuovo in quella vita che ormai non poteva offrirgli più niente.
Uscirono dalla camera con la flebo a portata di mano e grazie all’aiuto di una sedia elettrica che gli faceva scendere le scale, arrivarono in cucina.
«Greta, alcune volte sei proprio un angelo. – Disse la madre del ragazzo. – Sei l’unica che lo fa uscire dal letto.»
«Sì, mamma, è il mio angelo custode, okay?»
Greta si sentì svenire a sentire quella parole, benché fossero sarcastiche.
«Lo immagino, Rich. Cosa fate, ragazzi?» disse prendendosi tra le mani la piccola Renae.
«Andiamo fuori a fumarci una meravigliosa e stupenda sigaretta.»
Gli occhi della madre passarono dal disaccordo, al terrore e alla comprensione, ovviamente, nessuna madre voleva perdere il proprio figlio.
Annuì e mormorò: «D’accordo, ragazzi.» e cercò di sorridere.
«Non pensi che gli stai facendo del male, Rich?» chiese Greta una volta usciti.
«So quanto possa essere difficile per lei, glielo leggo negli occhi ogni volta che mi vede.»
«Per questo te ne stai sempre in camera?»
«Esatto, so che le faccio del male, ma deve anche accettare la situazione.»
Erano parole ripetute più e più volte, Rich aveva accettato la sua malattia e dopo le svariate cure si era reso conto che nessuna aveva effetto sul suo corpo, l'aveva scoperta troppo tardi e ora doveva pagare con la morte.
Rich non la prendeva tanto in negativo, pensava che nonostante fosse giovane e aveva ventuno anni, aveva già vissuto abbastanza. La vita era stata clemente con lui.
Greta cercava di convincersi con le parole di Rich e alcune volte ci riusciva, ma immaginarsi una vita senza di lui le sembrava pressoché impossibile.
Forse si sarebbe resa conto che poteva andare avanti solamente una volta che lui non ci sarebbe stato più, ma quel pensiero la uccideva, quindi, cercava di passare più tempo con lui, vivendoselo alla giornata.
«Basta parlare di me, cosa mi dici?»
«Niente di che, davvero. – Rispose Greta sincera. – La vita è monotona, Rich.»
«Ognuno ha la sua monotonia del cazzo.»
Greta amava quelle frasi filosofiche ricche della bruschezza del ragazzo.
«Già. – Mormorò. – Sabato andiamo in discoteca con gli altri, Madison festeggia il compleanno.»
«Sì? Che figata.»
«Mi spiace che non puoi venire.»
«Le discoteche mi hanno quasi stancato, con tutte le stronzate che ci ho fatto lì dentro.»
Greta ridacchiò immersa nei ricordi, «La scritta nel cesso.»
«La bottiglia che mi sono versato addosso.»
«Quella povera ragazza che ti voleva!»
«Quella è proprio da dimenticare! Quando ho chiesto al dj di mettere musica vecchia e lui mi ha messo una cazzo di ballata.»
I due amici risero tra di loro, immersi nei ricordi.
E mentre Rich fumava, Greta si curava di lui.


Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera! 
Eccomi qui, un po' in ritardo effettivamente e a un'ora molto improponibile, sono le 2.17 ew.

Prima di passare al capitolo voglio spiegarvi due cose importanti, così che chi poi non vuole più leggere questo spazio, è libero di andarsene.

PRIMA COSA
Nelle recensioni ho notato che in molte mi hanno detto che faccio tante ripetizioni: sto cercando di impegnarmi a trovare sinonimi e altri modi di dire delle frasi, mi sto impegnando ma vi prego abbiate pazienza, perché è sempre stato un mio fottuto difetto.
Inoltre, alcune mi hanno detto che la storia può sfuggire nel banale, dicendo che anche i personaggi lo sono, non preoccupatevi.
- Rion è vero, è sociopatica, ma c'è un motivo ben preciso se è così e non solo perché è stronza di carattere, c'è un motivo, che ovviamente non vi dirò ora, ma lo scoprirete da voi sempre più avanti.
- Rylee non è la classica popolare fighetta, anzi, non parlerò quasi MAI della sua popolarità, se non quando è nel consiglio studentesco, ma tranquille.
- Louis è incazzato perso del mondo, avete ragione, ma io me lo sono immaginata così.

Gli altri personaggi non sono ancora chiari, soprattutto Rich, quindi non li commento.
Spero solo che con questo piccolo paragrafo, vi abbia fatto capire che se anche la storia può apparire banale, in fondo in fondo non lo è, o almeno spero, questo dovete dirmelo voi.

Per l'ambientazione: mi avete fatto notare che i quartieri di New York non vanno a letto presto, AVETE RAGIONE per la seconda volta, MA, non ho messo un nome al quartiere, perché non voglio dargli nè una postazione precisa nè un tempo preciso, lo voglio lasciare sospeso nel vuoto, come un'entità astratta. Ecco perché. Poi, a parere mio, conferisce un po' più di mistero, no? Mi sa proprio di no.

SECONDA COSA
Qui sotto ci sono le foto di Rion/Rylee e di Maxie.
Ora, voglio indire un concorso (a cui sicuramente nessuno parteciperà, ma voglio provare lo stesso) nel quale sarete VOI a decidere chi rappresenterà Greta e Rich.
So sicuramente che non ho dato una descrizione per Greta, la ragazza non verrà mai descritta fino alla fine della storia e solo all'ultimo capitolo scoprirete perché, ma vorrei tanto sapere come ve la immaginate.
Così come Rich, che ha degli occhi spettacolari che richiamano le due gemelle.
Vorrei sapere come ve li immaginate.
E come dovete fare? Semplice. 
Se ne avete voglia, cosa che ci spero perché davvero mi interessa, cercate una foto di un'attore/attrice, cantante o qualsiasi ragazzo/a che a parere vostro rispecchi i due personaggi e poi me la inviate qui, in Twitter (@letsgotolive) oppure mi inviate il link della foto qui in EFP e io vedrò di scegliere quale, anche a parere mio, rispecchia il personaggio. 
Chi vincerà? Beh, oltre a leggere la sua storia e lasciare una recensione, gli farò pubblicità a fine capitolo.
Spero partecipiate in tante! Vi aspetto.

Okay, ho già scritto abbastanza.
Maxie parla a Lou di Rion, che ve ne pare?
Cosa nasconde davvero Rion?
Consiglio: tenete bene a mente quello che vuole fare Rylee con le tempere e i muri della scuola, ehehe.
Ora vi chiedo solamente di recensire e dirmi che ne pensate.

Ah, qui ci sono le foto di Rion/Rylee e Maxie, che ve ne pare?



Sì, beh, questa sarebbe Rion e/o Rylee. Praticamente è stato impossibile trovare due ragazze gemelle con i requisiti che volevo io, e questo è il risultato. 
Poi, manco c'ha gli occhi verdi, ma è la prima che mi ispirava e io me la immagino così, con gli occhi verdi però, ew. 



E questo è il figangia di Maxie, boh, io lo vedo così.


A presto, 
Giada.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


A breve il testo sarà inserito anche su Wattpad.
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

IV

Jessica era felice della sua vita, fino a due anni prima.
Non sapeva nemmeno tutt’ora come faceva ad andare avanti, come riusciva a concedersi piccoli spazi della vita quotidiana solo per lei, anche solo cinque minuti, per pensare, riflettere o lasciarsi andare, per capire davvero cosa potesse fare per non cadere nel buio.
Era dell’idea che un adolescente era molto più forte di un adulto. Un ragazzo riscontra tutto per la prima volta e può sbagliare, capire come rimediare, invece un adulto riflette sempre su quello che deve e non deve fare, causandosi molti dubbi e quindi la sua forza svanisce con il tempo nell’oblio, così come le loro menti.
Un adolescente è più forte perché nonostante tutte le prime volte, riesce sempre a provarle; un adulto, ha sempre paura di sbagliare di nuovo e quindi non riesce ad andare avanti, rifugiandosi in se stesso.
Jessica molte volte avrebbe voluto ritornare giovane e vedere come avrebbe reagito a quella situazione, peccato che non poteva e doveva convivere con la paura di precipitare.
Tutto ciò che avrebbe voluto fare era volare via.
Il problema era che non possedeva delle ali e quegli arti mancanti nella vita quotidiana si chiamavano responsabilità, alle quali Jessica non poteva fuggire via.
Nel complesso era soddisfatta della sua vita. Ricordava gli anni della sua adolescenza con un sorriso, riviveva quei tormenti nei suoi figli ogni giorno.
Era proprio in quegli anni che aveva incontrato George, suo marito. Molte volte si sorprendeva nel pensare quanto lo amasse ancora nonostante tutti gli anni passati; spesso si sorprendeva di provare le stesse sensazioni ogni volta che uscivano solo loro due, ogni volta che facevano l’amore, ogni volta che baciava le sue labbra e sentiva la sua barba pizzicarle la pelle.
Si sorprendeva nel pensare a quanto fosse ancora vivo il suo desiderio per lui.
Suo marito era la sua ancora, colui che la sorreggeva, la portava avanti e le faceva svanire quella paura costante.
Essere madre era una cosa indescrivibile, la faceva sentire piena e splendente. Era soddisfatta dei suoi figli, li amava tutti e cercava sempre di non essere apprensiva con nessuno di loro, se non con la piccola Renae, che avendo solo un anno, esigeva delle attenzioni maggiori agli altri.
Anche Rich richiedeva attenzione, ma in ambito completamente diverso. Jessica si stupiva della forza che le dava suo figlio attraverso quegli occhi diversi, sdraiato nel suo letto, come se fosse un insetto.
E quel piccolo insetto stava per essere schiacciato da una scarpa mortale.
Il respiro di Jessica si bloccava ogni volta che pensava alla malattia di suo figlio. Quella malattia che glielo avrebbe portato via.
Non avrebbe potuto partecipare al suo matrimonio, piangere per lui e per la sua amata. Avrebbe detto arrivederci prima di lei, prima che lei sarebbe andata via. Non l’avrebbe potuta aiutare a mangiare quando sarebbe stata troppo vecchia oppure non avrebbe potuto appoggiarsi alla sua spalla quando suo marito fosse morto.
Non avrebbe mai potuto vederlo diventare uomo, che non sapeva nemmeno se lo poteva considerare tale, visto che lo vedeva sempre come il suo bambino.
Lui, l’unico maschio, l’amore della sua vita.
Il suo ventunenne costretto a sopportare un peso così grande, un peso che lui prendeva così alla leggera tanto che Jessica avrebbe voluto essere lei malata e non lui, avrebbe voluto sopportare tutte le chemio, tutte le terapie, tutti gli esami al suo posto.
Perché non c’era niente di peggio nel vedere il proprio figlio stare male e non fare niente, semplicemente stare lì a guardare.
Morire, quasi, con lui. L’unica differenza era che lei stava morendo dentro, soffocata dalla paura di perderlo, mentre Rich veniva soffocato dal cancro.
Un genitore non dovrebbe mai vedere suo figlio morire.
Il telefono squillò e Jessica corse a rispondere: «Pronto?»
«Ciao, Jeje.»
«Ciao, Jay, come stai?» chiese Jessica tenendo il telefono tra l’orecchio e la spalla per poter continuare a preparare la cena per la piccola Renae.
«Bene, direi. Ho un nuovo studente.»
«Davvero? Come mai è arrivato così tardi?» chiese curiosa, a che lei sapeva, il secondo quadrimestre era già iniziato.
«Da quanto ho saputo si è appena trasferito, mi piace come ragazzo.»
«Già dopo un giorno?» chiese ridacchiando mescolando la pappa.
«Sai che li inquadro subito.»
Jessica annuì alzando un sopraciglio e appoggiò in tavola il piatto, poi prese un cucchiaio e iniziò a imboccare la piccola, facendo il trenino.
Nessuno avrebbe mai immaginato che la signorina Finch, docente di superiori, e Jessica potessero diventare così amiche. Innanzitutto per la differenza d’età: avevano più di dieci anni di differenza, poi s’aggiungeva anche il fatto del carattere. Una era schietta, amante delle scienze e dedita all’insegnamento, l’altra era dolce e viveva alla giornata.
Erano così opposte che era come se un magnete avesse rifiutato la scarica dalle due calamite, facendole incontrare nella strada inversa.
Si erano conosciute a un banalissimo incontro tra genitori e docenti, Jessica era andata per sentirsi dire che Rich non era portato alla matematica, invece la signorina Finche le aveva detto che suo figlio poteva arrivare perfino a ottimi risultati, se solo ci avesse provato.
Alla fine dell’anno Rich aveva raggiunto quasi il massimo dei voti, facendo sì che Jessica si complimentasse con Jay.
Grazie a Rich, sua madre aveva incontrato la signorina Finch e da lì erano sempre state ottime amiche. Nonostante l’amicizia profonda, Jay non era un’amica di famiglia, quindi Rion e Rylee non la consideravano come tale, nonostante sapessero che si sentiva molto con la loro madre.
«E’ in classe con Rion?» domandò Jessica.
«Sì, lo sai che Rion è sempre più stanca in questo periodo?»
«L’ho notato.» mormorò la donna. La situazione di sua figlia era un altro fatto che rischiava di farla cadere nell’oblio. Nel giro di quattro mesi, Rion era cambiata radicalmente e il brutto era che Jessica non riusciva a spiegarsi in che cose fosse mutata.
Era come sempre silenziosa e non diceva mai nulla se non forzata a parlare, ma oramai quella era una caratteristica che aveva da quando era piccola e la madre non ci faceva nemmeno più caso: sapeva per certa che se Rion avesse voluto iniziare a essere più loquace non ci avrebbe impiegato molto a parlare di più. Il fatto di rimanere in silenzio, quindi, era un comportamento deciso dalla stessa Rion.
Pure il fatto di non avere amici era una cosa normale, Jessica aveva una figlia solitaria e benché all’inizio della sua adolescenza si era preoccupata di questo fatto, vedendo che Rylee si era fatta molti amici, dopo aver parlato con sua figlia, aveva capito che era un altra parte del suo carattere.
Jessica si chiedeva spesso se Rion era nata solitaria o con il tempo avesse iniziato ad amare la solitudine, per sfuggire allo schifo del mondo.
L’unica cosa che le aveva visto erano le profonde occhiaie, ma più di una volta era entrata in camera sua e l’aveva trovata a letto.
Forse era solo stress oppure un periodo no.
La donna molte volte si arrabbiava perché non riusciva a passare oltre il muro qual era la mente di sua figlia. Si chiedeva perché mai sua madre non potesse sapere ciò che le passava per la testa, ma poi si ripeteva che era giusto che avesse i suoi segreti.
«Non sei riuscita a parlarle?»
«Sai meglio di me quanto sia difficile Rion.»
«Non credi che ti possa nascondere qualcosa?»
«Cosa può mai nascondermi una persona che vive nella solitudine?»
«Magari il modo in cui passa questa solitudine.»
«Che intendi dire, Jay?»
«Non lo so, magari ha altri tipi si svaghi.»
«Droga? Fumo? Alcool?»
«Rion non si abbassa a questo livello, Jessica.»
«E’ per questo che non so cosa possa procurarle questo grande stress.»
«Magari è la situazione.»
«E’ difficile per tutti, Rion è sempre stata la più forte di tutti.»
«Sai quanto tiene a Rich.»
«E’ mio figlio, Jay.»
La signorina Finch sospirò bruscamente: «Questo non lo metto in dubbio, ma sappi che tu sei adulta e ognuno interpreta i proprio sentimenti come meglio crede.»
 
Una volta che Rion entrò in casa finita la scuola fece un salto in cucina, salutò la sorellina con un buffetto sulle guancie e sorrise alla madre.
«Tutto bene, Rion?» chiese quest’ultima.
«Sì, mamma, grazie. – Rispose e si appoggiò alla porta – Tu?»
Jessica sorrise: «Non mi lamento, ti vedo strana, tesoro.»
«Sono solo stanca.»
Rion era stanca fisicamente e mentalmente. Il fatto di dormire così poco la notte per portare a termine la sua missione, la spingeva al limite, facendo sì che oltre al suo corpo ne risentisse perfino la sua testa.
Era stanca di adattarsi a quella società di merda, rimanendo in silenzio.
Stanca di sorridere, di andare avanti, di stare muta e fare finta che tutto andava bene.
Rion era stanca di andare a scuola e portare a casa risultati che un domani non le sarebbero serviti a un cazzo.
Stanca di vivere in quel quartiere, ma al contempo era pure stanca di cercare una via di fuga.
Era stanca di fumare e rifugiarsi nei libri, che la riempivano solo di fottuti sogni.
Rion, alcune volte, era perfino stanca della musica.
«Sì, è stata una giornata pesante.» ribadì, tanto sarebbe stata sempre la stessa merda.
La ragazza dopo aver mangiato e chiacchierato del più e del meno con la madre, si rifugiò in camera sua, decisa a studiare per la verifica di inglese dell’indomani.
Prima di immergere la testa nei libri, controllò quanti soldi avesse sotto il letto e riscontrando che erano circa cinquecento dollari, una piccola fortuna, accese il computer.
Cinquecento dollari non erano per niente sufficienti a portare a termine quello che lei doveva fare prima di lasciare New York.
Doveva raggiungere almeno settecento dollari e ciò comprometteva ancora una settimana di uscite la sera, odiava quel fatto: a scuola stava avendo un calo pauroso, non tanto perché non studiasse, ma poiché era così stanca e stressata che perdeva la concentrazione facilmente e i professori iniziavano a fare domande.
Domande a cui Rion rispondeva con un’alzata di spalle e se ne sgusciava fuori dalla porta.
Nonostante la sua popolarità fosse bassa, possedeva un account Facebook, lì aveva pochi amici: compagni di scuola e Bon.
Bon era il suo Caronte personale.
Rion non sapeva come muoversi nei meandri dell’inferno e l’unica via di fuga fu quella di chiedere una mano e fortunatamente aveva trovato Bon. Lo conosceva da circa un anno e la prima volta che si incontrarono fu durante una delle sue passeggiate notturne, il ragazzo l’aveva scambiata per una prostituta, ma dopo una sguardo fulminante da parte della ragazza, iniziò a parlarle scusandosi.
Fu la prima persona che non si curò del fatto che Rion non parlava, anzi quel fatto giovava in suo favore perché Bon aveva semplicemente bisogno di una persona con cui sfogarsi e non dicesse niente. Rion quindi, era una specie di diario umano per Bon.
I primi tempi la ragazza rimase in silenzio, sentendo i tormenti del ragazzo che erano per lo più di una famiglia assente per i troppi impegni di lavoro, una ragazza non corrisposta e il suo dannato cane che scappava di casa tutte le sere per pisciare.
Dopo circa quattro di mesi, Rion arrivò subito al punto parlando della sua missione, inutile dire che fu la prima volta che Bon la sentì parlare in tutta la sua vita, e quella voce fredda, dolce e soffusa le fece così tanta tenerezza che ascoltò la sua sofferenza e apprezzò la sua solitudine.
Tra di loro c’era una tacita comprensione, sancita dal nulla.
Bon offrì un lavoro a Rion e la ragazza, avendo bisogno di soldi, acconsentì senza pensarci due volte.
Le serate erano diventate più intense negli ultimi tre mesi poiché aveva un bel giro di clienti, prima era vista come la piccola del gruppo, colei che era innocente, ma dopo svariati mesi, Rion riuscì a integrarsi perfettamente.
Così, una volta al mese, andava in posta e spediva i soldi allo stesso indirizzo in cui abitava e ogni mese sua madre e suo padre si trovavano settecento sterline in più, che non sapevano da dove spuntavano, ma le usavano comunque.
Rion, benché sapesse che fosse un lavoro sporco, era soddisfatta di se stessa.
 
– Bon, mi mancano duecento sterline. – scrisse velocemente.
– Sabato sera? – rispose subito.
– Ci sta, magari riesco a procurarmele tutte in una volta.  –
– Spero per te, come sta tuo fratello?
– L’ultimo esame non ha funzionato, come sempre. Sembra quasi che il suo corpo rifiuti le medicine.
– Magari è solo giunto al capolinea.

– Il mio capolinea è il suo, quindi, finché io non lo raggiungo, lui non potrà fare niente. – 

Il capolinea di Rich era la morte e quello di Rion era quello di far sconfiggere la morte a suo fratello. La ragazza sapeva che suo fratello si era arreso, aspettava solo il colpo di grazia, ma Rion non poteva vederlo in una tomba.
Lei al mondo non aveva nient’altro che suo fratello e tanto valeva morire se lui se ne andava. Alcune volte Rion si chiedeva cosa avrebbe fatto una volta terminata la sua missione e vedeva così tanti vuoti per il suo futuro che quasi ne aveva paura, per questo, altre volte sperava che la sua missione non si sarebbe conclusa mai.
Salutò Bon ringraziandolo e poi si mise a studiare.
 
Louis salì su uno degli ultimi autobus passanti per la sua via, aveva controllato in internet e sapeva che se avesse preso l’autobus delle 22.37 sarebbe arrivato a due vicinati prima, così avrebbe avuto anche il tempo di fumarsi una bella sigaretta.
Non sapeva di preciso dove andare e reputava che le uscite di sera non erano il massimo per scoprire un nuovo quartiere, ma non gli importava. La notte era calma, viva e placava un po’ della sua ira quotidiana, per di più non vedeva l’ora di uscire da casa perché sua sorella era stata male e suo padre si era incazzato con lui per la nota presa quello stesso giorno, quindi il centro paese lo attirava più di qualsiasi altra cosa.
Maxie gli aveva detto che l’indomani ci sarebbe stata una verifica di inglese, come al solito non aveva studiato niente, se la cavava piuttosto bene nella sua lingua, parlava spesso e sapeva usare bene le parole, in più la sua conoscenza della grammatica non era così male.
Aveva passato il pomeriggio a fare matematica e non aveva mal di testa, quella professoressa Finch lo aveva letteralmente stregato.
L’aveva sempre detestata come materia e ora si ritrovava a passare un intero pomeriggio sui numeri, sorrise al pensiero e scese dal bus.
Il centro paese consisteva in una piccola piazza, illuminata da lampioni che riflettevano la loro luce gialla su una piccola fontanella posta al centro della piazzetta, il resto andava a diramarsi nel buio più totale. Louis notò diversi negozi: un mini-market, una tabaccheria, una biblioteca e un negozio di dischi, si diresse a passo spedito verso di esso. Mentre lo raggiungeva notò che subito dietro i negozi c’erano case su case, la maggior parte erano villette a schiera con tetti marrone-rossastro e muri bianchi.
Riscontrò che non era poi così male come paese, soprattutto se c’era un negozio di dischi e avvicinandosi scoprì che vendeva anche strumenti musicali, purtroppo il suo pianoforte non era ancora arrivato per via del trasloco, quindi si beò di quella magnifica vista, mentre le mani si muovevano su tasti invisibili.
«Louis!» si voltò di scatto e riconobbe un paio di occhi marroni conosciuti quello stesso giorno.
«Maxie.» disse sorridendo.
«Cristo, Lou. – Esclamò sorridendo – Che ci fai qui?»
Louis sorrise e mettendosi le mani in tasca, disse: «Mia sorella è stata male e mio padre mi ha cazziato per la nota.»
Maxie ridacchiò e disse: «Vuoi fare un giro oppure vuoi rimanere da solo?»
Quella domanda commosse quasi Louis: nessuno si era mai preso la briga di chiedere il suo parere su qualcosa e la voce del ragazzo era così neutra che non si sentì oppresso dal desiderio di accettare o rifiutare.
«Vengo con te se vuoi.» rispose.
«Ma certo, sto andando da mio padre.» e il ragazzo iniziò a incamminarsi.
«Tuo padre?» domandò Louis con un sopraciglio alzato.
«Aha, i miei sono separati da non so quanti anni e ogni sera vado a trovare mio padre.»
«Oh.» mormorò Louis guardando per terra, non gli era mai piaciuto parlare delle situazioni famigliari.
«Tranquillo, ehi. – Lo rassicurò Maxie – E’ un tipo simpatico, non come quella schizofrenica di mia madre.»
Il ragazzo ridacchiò e disse: «Non hai diciotto anni? Non puoi scegliere tu con chi stare?»
Maxie annuì, «Sì, peccato che mio padre non abbia un letto nemmeno per lui. – Ridacchiò – Da quando i miei si sono separati, lui è andato a vivere nel retro del bar che gestiva e ha tutt’ora, e dorme su un divano.»
«Capisco, immagino sia comodo.» disse sarcasticamente il castano.
«Cristo, dei tuoi invece?»
Louis respirò forte e mormorò: «Alcune volte non capisco proprio perché stiano ancora insieme, credo che lo facciano per mia sorella.»
Maxie sembrò accigliato, «A te non ci pensi mai?»
Louis lo guardò confuso: «Mi farebbero semplicemente un favore a separarsi.»
«Sì? Ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. I pro sono che hai due case e se ogni tuo genitore ha una buona rendita avrai soldi in più, perché uno dei due è costretto a mantenerti passandoti soldi una volta al mese. Un altro pro è il fatto che potresti dedicarti singolarmente a ognuno di loro. Il contro? Non hai una famiglia, ti sei distrutto il classico ideale di famiglia felice. Certo, puoi pensare che non era la persona giusta, ma la tua idea di famiglia felice, precipita, perché hai sulle tue spalle un peso orribile da sopportare.»
Il castano rimase di stucco, non aveva mai pensato a quello. In effetti, il suo pensiero era puramente egoista, pensava solo a non sentire più le urla dei suoi, ma non aveva riflettuto sul fatto dei suoi sentimenti decisamente più importanti rispetto a un po’ di silenzio.
«Forse dico così perché non so cosa si prova.»
«Forse, eccoci.» ed entrò in un bar sulla strada.
Aveva una scritta a intermittenza sulla porta e un cartellino che diceva ‘aperto’ o ‘chiuso’ in base all’esigenza, l’interno era caldo e tutto sommato il bar non era così vuoto: persone giocavano a carte, una coppia era in un angolo, alcuni ragazzi erano circondati da libri con vicino tazze di caffè e il proprietario stava guardando la televisione al plasma mentre asciugava delle tazzine.
L’orecchio di Louis riconobbe una canzone dei Nirvana in sottofondo e sorrise tra sé, ecco da dove Maxie aveva preso tutto il suo amore per la musica.
Il padre di Maxie era un uomo magro, i capelli a spazzola e biondo scuri, un po’ brizzolati dove c’erano le basette, senza barba e con un paio di occhi marroni grandi e pimpanti, uguali a quelli del figlio.
«Ciao, pa’.»
«Ehi, Maxie!» salutò raggiante, poggiando lo strofinaccio sul bancone.
«Ti presento Louis.»
«Piacere, ragazzo.»
Louis annuì e sorrise leggermente, era contagiato dall’atmosfera del bar: sembrava che avesse fatto un viaggio nel tempo, tutto era come negli anni ottanta. La musica, il bancone, le sedie, perfino l’abbigliamento del padre di Maxie, nient’altro che un paio di jeans e una maglia, lo riportavano indietro nel tempo.
«Accomodatevi pure, vi porto una birra.»
«Grazie, pa’.» disse Maxie.
I due ragazzi si accomodarono a un tavolino, «Impressionato?»
«Questo posto è… cazzo.»
Maxie ridacchiò e mormorò: «Mio padre ama gli anni ottanta.»
«Noto.» rispose ridacchiando Louis, poi disse: «E’ lui che ti ha trasmesso l’amore per la musica?»
Maxie parve rianimarsi a sentire la parola ‘musica’ e rispose subito: «Sì, fin da quando ero piccolo. Non ho mai sentito un pezzo moderno sino a che non sono andato in discoteca un paio d’anni fa con Niko.»
Louis rispose: «Io, invece, ho sempre ascoltato quella musica… del cazzo diciamolo, poi sentii un pezzo degli AC/DC e boom, è come se una voragine si fosse aperta nel mio cuore.»
«E non si è mai richiusa.»
«Esatto.»
Alcune volte Louis si pentiva di non aver iniziato prima ad ascoltare brani vecchi, ma da quando li ascoltava non si sentiva appartenere a quel mondo. Era come se venisse da un’altra epoca e tutta quella tecnologia, quella musica, quella gente non facesse per lui, era fuori posto, sempre, costantemente.
Anche con gli amici e con la ragazza che aveva avuto a Boston, non si sentiva completamente padrone di se stesso. Non gli era mai capitato di sentirsi appartenere a qualcosa o qualcuno, e forse non gli sarebbe mai capitato, d’altronde, non apparteneva a quel tempo, o no?
«Sabato sera esco con Niko e altri, vuoi venire?»
«Se mio padre mi lascia uscire dopo la nota.» scherzò il ragazzo sorseggiando la birra.
«Ci sarà anche la sorella di Rion.»
Louis si animò sentendo il nome della ragazza, mormorò: «Allora tanto vale scappare di casa.»
Maxie gli diede una pacca sulla spalla.

Spazio autrice.

AVETE AVUTO PROBLEMI COL TESTO? NO PERCHE' EFP MI E' LEGGERMENTE IMPAZZITO NELLA PUBBLICAZIONE DI 'STO CAPITOLO.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Lo scrivo in maiuscolo così vi attiro.


STO SCRIVENDO UNA NUOVA FF DATO CHE QUESTA E' PRATICAMENTE FATTA E FINITA NEL MIO PC E ASPETTA SOLO DI ESSERE PUBBLICATA. E' UNA FF TOTALEMENTE DIVERSA DA QUESTA, VI DO' UN'IDEA: PARLA DI UN MANICOMIO. CI SONO TUTTI E CINQUE I RAGAZZI E PURE UNA SLASH, DEHEHE. 
QUINDI, DATO CHE NESSUNO DEI MIEI AMICI SA CHE SCRIVO PERCHE' BOH ME NE VERGOGNEREI E ALTRE CASTRONATE CHE NON VI STO A DIRE. CHI SI PROPONE PER UN BETA READER CHE SIA ONESTO E SINCERO? 


Prima di iniziare vi voglio ringraziare. La storia non ha molte recensioni, ma mi accontento di quelle che ricevo e ringrazio tantissimo chi le fa (vi voglio taanto bene) e spero che possiate aumentare.
Ringrazio anche chi ha aperto questa storia, l'ha letta, le visite aumentano di giorni in giorno e io piango commossa, okay. 

Bene: anche se al concorso dello scorso capitolo ha partecipato solo una ragazza (all the love, thankyou aw) è ancora aperto e vi ricordo che in twitter sono @letsgotolive 

Okaaay. 
In questo capitolo abbiamo un POV's della mamma di Rion e Rylee, vi posso garantire che NON è stato per niente facile scriverlo, perché non sono madre e non so cosa si provi ad avere un figlio malato, quindi è stato piuttosto impegnativo.
Voi cosa ne pensate, fa così schifo?

Poi, EHIEHIEHIEHIEHEEEEEEEEEEEHI: ABBIAMO INFORMAZIONI SUL LAVORO DI RION EHEHEHHE

Cosa cazzo fa quella ragazza? Voglio sentire le vostre opinioni.

Poi, come sempre, abbiamo un Maxie e un Louis che parlano di cosa? Di musica, casualmente.
Ah ma c'è anche un intermezzo sul divorzio e boh, spero di aver reso l'idea.

COSA SUCCEDERA' SABATO SERA?

FATEVI SENTIRE CHE IO VI ADORO, OKAY.

A presto,
Giada.


 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V ***


Storia su WattPad: Mission || l.t.
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

V
 
«Perché papà è così arrabbiato?» la voce soffusa di Evelyn riempì la stanza.
Louis alzò un sopraciglio a sentire la domanda di sua sorella, era venuta in camera sua una mezzoretta prima con lo scopo di passare un po’ di tempo col fratello prima che questi sarebbe uscito da casa.
«Non lo so, Eve.» rispose cercando una maglietta a maniche lunghe nera.
«Come no? Scusa, è arrabbiato con te, Lou.»
Il ragazzo si morse il labbro. Faticava ancora ad ammettere che sua sorella stesse crescendo, alcune volte la vedeva ancora come quell’esserino all’interno dell’incubatrice in ospedale, ma erano già passati sei anni e Evelyn stava diventando grande senza che lui se ne rendesse conto, presto sarebbe diventata una ragazza e lui non sarebbe stato più il suo mondo, quello da cui prendere esempio e da imitare. Non che avesse qualche capacità per essere copiato dalla sorella, ma cercava di impegnarsi per insegnarle qualcosa di decente.
Fatto sta che alcune volte la trattava come una bambina di due anni, non accorgendosi che sua sorella era sveglia.
«Papà mi odia.» mormorò infilandosi la maglietta e facendo un sorriso sarcastico alla sorella.
Evelyn lo guardò stupita: «Ma Lou, perché se ti odia ti porta a scuola, di dà i soldi e ti vuole bene? Perché ti vuole bene, vero, Lou?»
Louis trattenne una risata, non sapeva chi di più, tra lui e suo padre, odiasse l’altro.
«Certo che mi vuole bene.»
«E allora perché dici che ti odia?»
«Eve, ascoltami: il concetto di odio è molto esteso. Secondo me, ma questa non è opinione di tutti, c’è modo e modo di odiare. Hai presente quando fai un esercizio di matematica e non ti viene, e in quel momento senti di odiare più di te stessa la matematica? – La sorella annuì vigorosa – Ecco, quello è un modo di odiare, non odi per tutta la vita la matematica, ma solo in quel momento. Poi, per esempio, c’è l’odio duraturo, quello che ti dura per sempre e non puoi fare niente per fermarlo.»
La sorella lo guardò comprensiva, ma anche con un po’ di scetticismo negli occhi, alla fine domandò: «Papà non ti odia da tutta la vita, vero?»
«No, tesoro, no. – Mormorò indossando un paio di vans nere – Se mai è il contrario.»
«Tu lo odi?» domandò stupefatta.
«Credimi, Eve, arriverai anche tu a un’età in cui l’odio farà parte della tua vita quotidiana. Tutto sommato, però, non odio papà. – La rassicurò, anche se la bambina non sembrò crederci più di tanto – Ora, sono le nove e mezza, vuoi che ti accompagno a letto così puoi leggere il tuo libro?»
Evelyn scese dal letto tutta contenta, la conversazione avuta con il fratello poco prima l’aveva già abbandonata e andò saltellante in camera.
Louis la raggiunse sorridente, prendendo prima la giacca e le sigarette, una volta giunto in camera dalla sorella, le chiuse le tende e le rimboccò le coperte.
«Lou, quando torni dormi con me?» le chiese stringendo il suo coniglietto-peluche.
Louis sorrise e le accese l’abat-jour, «Certo, tesoro. Buona lettura.» e le diede un bacio sulla fronte.
«Ciao, Lou. Ti voglio bene.» sussurrò quasi.
«Anche io.» ricambiò e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Scese la scale e passò in cucina a salutare la madre, era merito suo se usciva quella sera, «Eve è in camera.»
«Grazie, Lou.» mormorò la donna accarezzandogli la guancia.
«Ciao, ma’.» disse afferrando il mazzo di chiavi.
«Non fare tardi.»
Louis sorrise tranquillo e uscì di casa, dopo aver respirato l’aria della sera, si accese una sigaretta.
 
Maxie si sistemò il cappellino di lana posato sui capelli biondo scuro e affondò le mani nelle tasche, la musica nelle sue orecchie rimbombava dando una colonna sonora alla sua passeggiata.
Adorava camminare, soffrendo di claustrofobia non prendeva mai autobus o treni, alcune volte aveva perfino timore a salire in macchina, se quest’ultima non era abbastanza spaziosa.
Per questo, aveva passato gran parte della sua vita a camminare e camminare, non a correre, era dell’idea che la vita andava presa con calma, calcolando ogni singola cosa e decidere il risultato finale. Voleva fare una divisione riducendo il suo giro d’amici? Maxie la faceva, senza problemi. Voleva fare una moltiplicazione aumentando il numero di accordi in una canzone? Nemmeno su questo il ragazzo si faceva drammi.
La vita era come una colonna sonora di un film, una sequenza di canzoni che andavano divise, moltiplicate, addizionate, sottratte tra di loro.
Il marciapiede era deserto, mentre sulla strada qualche volta passava una macchina, Maxie camminava tranquillo godendosi il primo album dei Queen. Giocherellava con i soldi in tasca e non vedeva l’ora di iniziare la serata, mettendo in pausa la sua colonna sonora personale.
Arrivò a un bivio e come tutti i sabati svoltò a destra, come tutti i sabati percorse il campo arido e come sempre giunse davanti a un condominio abbandonato.
Era grigio, ma la luna già alta nel cielo lo faceva apparire bianco con ombre nere. C’erano tantissime finestre, alcune rotte, altre aperte e altre ancora chiuse. Era un ritrovo per i senzatetto e per i drogati, eroinomani, cocainomani e alcolizzati, c’era un bel giro. Forse il migliore di tutto il quartiere.
Alcune persone erano poste sul ciglio della strada, come scheletri.
Maxie era così abituato a quella visione che non vi prestò nemmeno più attenzione, ma la gente lo guardava e lo invidiava. Lui aveva ancora una vita, non come loro che vivevano per la droga, aspettando che arrivasse la dose finale.
Erano fantasmi con un cuore funzionante e le vene imbrattate di droga, non sapevano neanche loro perché vivessero ancora, ormai la loro vita era andata sprecata.
C’era di tutto: ragazzi maggiorenni, adulti, qualche vecchio, persino alcuni ragazzini che erano entrati nel giro e non riuscivano più a uscire.
Maxie abbassò il volume della musica e si diresse dalla sua spacciatrice, era entrata nel giro da poco tempo, ma era riuscita subito a guadagnarsi la fama, infatti possedeva la roba più buona e a un prezzo uguale agli altri.
La ragazza, come tutti i sabati sera, era lì, appoggiata alla parete con il suo zainetto nero sulle spalle. Il cappuccio tirato sulla testa, nascondendole il viso. Maxie una volta aveva intravisto il mento bianco e tondo, ma nulla di più, le gambe addirittura erano nascoste nell’ombra, non permettendone la vista.
L’unica cosa che la ragazza mostrava erano la mani, bianche e candide, mani di una bambina.
La ragazza rimase impassibile fino a che Maxie si posizionò davanti a lei e sempre con le mani in tasca chiedeva: «Hai mezzo grammo di marijuana e un altro mezzo grammo di fumo?»
La ragazza allungò la mano e attese.
Maxie sorridendo pensò ‘prima i soldi’, così mise la mani in tasca e li tirò fuori.
La giovane li prese e li tenne in mano, successivamente, fece scivolare lo zaino dalle spalle e ne tirò fuori la roba, la passò a Maxie in due bustine differenti, poi  contò i soldi.
Maxie rimase lì a guardarla, alcune volte moriva dalla voglia di sapere chi ci fosse dietro quel cappuccio, ma poi si rifiutava e si diceva che se voleva rimanere nascosta un motivo c’era.
Si vide ritornare indietro cinque dollari, ma non li accettò e mormorò: «Hai un pacchetto di sigarette?»
Sempre rimanendo in silenzio, la ragazza gli diede un pacchetto di Marlboro. Il ragazzo lo afferrò e alzandolo in segno di saluto, se ne andò.
Mentre lasciava il posto sentì dei passi dietro di sé e voltandosi vide un ragazzo, grazie al riflesso della luna notò le sue pupille dilatate al massimo, Maxie capì che era in crisi d’astinenza.
Rialzò il volume della musica e iniziò a fare quella cosa che non aveva mai avuto intenzione di fare.
Iniziò a correre.
 
Rylee entrò nel bar e si avvicinò al bancone, mentre ordinava un cocktail notò da parte a sé un ragazzo, si accorse che aveva tutta l’aria di aspettare qualcuno. Si ricordò che Eric le aveva parlato di un ragazzo nuovo, le pareva si chiamasse Louis e sarebbe uscito con loro quella sera.
«Sei Louis?» domandò sorridente.
Le spalle del ragazzo si irrigidirono, ma il viso tranquillo che mostrò non faceva trasparire nemmeno un briciolo di frustrazione.
«Sì.» rispose sorridendo.
«Oh, per fortuna! Pensavo d’aver fatto una figura di merda. Piacere, sono Rylee.»
Louis allungò la mano e la strinse, la ragazza notò che le sue mani erano tiepide e la sua stretta forte e sicura, sorrise senza rendersene conto.
«Louis, piacere.» si presentò.
«Sei in classe con Maxie?» domandò.
«Sì, è lui che mi ha invitato questa sera.» e fece per aggiungere dell’altro, ma chiuse la bocca come se la cosa che dovesse chiedere fosse un argomento inappropriato.
I pensieri di Rylee andarono diretti a sua sorella, sapeva che Rion era nella stessa classe di Maxie, ma conoscendo sua sorella, sapeva per certa che non aveva destato la minima attenzione del castano. Rion era famosa per la sua capacità di rendersi invisibile e questo Rylee lo sapeva.
«Forse ha avuto qualche contrattempo nel prendere la roba.» disse la ragazza.
Entrambe le sopraciglia di Louis rizzarono verso l’alto: «La roba?»
«Oh, non lo sapevi? Si fuma, Louis. – Rylee scoppiò a ridere – Tranquillo, sei libero di non farlo, io mi concedo un tiro ogni tanto, sai, no? Quando tutto va di merda e vuoi dimenticare per un’oretta.»
«Allora mi sa che incomincerò subito da ‘sta sera.»
Per la prima volta Rylee guardò nel ghiaccio degli occhi di Louis e vi trovò così tanta rabbia che ne ebbe quasi paura.
Louis aveva la stessa espressione di suo fratello quando era costretto a sottoporsi a cure che lui non voleva fare.
Quella rabbia nei confronti del mondo, in se stesso per essere la persona che era, mangiava completamente gli occhi di Rich e ora quelli di Louis. Sembrava che la sua rabbia avesse ghiacciato i suoi occhi, rendendoli azzurri.
Louis, però, non chiedeva aiuto, era come se accettasse quell’ira, come se facesse parte di lui e forse era davvero nel suo carattere. La cosa che però fece più spavento a Rylee fu l’atteggiamento del ragazzo: loquace, tranquillo, divertente persino.
Si chiese da quanto convivesse con quel tormento, ma non voleva entrare in argomento.
Molti ritenevano Rylee una persona superficiale, perché non chiedeva mai niente di profondo, erano sempre domande di poco conto le sue. Nessuno, o pochi, sapevano che Rylee vedeva, capiva, sapeva, semplicemente se ne stava zitta perché era a conoscenza di quanto fosse faticoso parlare dei propri sentimenti in un certo periodo della proprio vita. Rylee era vista come la ragazza superficiale, questo perché lei era la prima a mostrare la sua superficialità.
Nessuno sapeva del cancro di suo fratello, o di quanto stesse male nel vedere sua sorella in costante solitudine, per il cuore spezzato che aveva nei confronti di Kevin.
Alcune volte era così contagiata dalla sua superficialità che non sentiva niente e allora faceva un tiro dalla canna di Maxie, quella droga le dava il buon senso di ritornare a fingere.
Morale della favola che era un’ottima attrice nel fingere che la sua vita fosse come un film.
«Non serve a niente sfuggire dai problemi.» mormorò al ragazzo.
«Per capire che si commette un errore, bisogna prima sbagliare.»
Stava per rispondere a Louis quando Maxie entrò nel bar tutto sudato e con il fiatone.
 
Rion riprese a respirare solamente quando Maxie iniziò a correre. Benedì quel tossico che aveva cercato di rubargli la sua roba, provocando paura nel cervello di Maxie.
Quando Rion aveva accettato quella sottospecie di lavoro, non avrebbe mai sognato di incontrare uno dei suoi compagni di classe. Indubbiamente molti della sua scuola andavano al giro per procurarsi la roba, ma mai, mai avrebbe pensato di incontrare Maxie. Ogni volta che lo vedeva, gli arti di Rion si irrigidivano e il suo respiro rimaneva bloccato, interrotto solo da piccoli sbuffi, fino a che il ragazzo non lasciava il posto.
Aveva paura di essere scoperta, di sentirsi nuda sotto lo sguardo di Maxie, quel ragazzo così particolare, dedito alla matematica e amante della musica.
Non sapeva cosa avrebbe fatto se Maxie l'avesse scoperta. L'avrebbe detto a sua sorella? Come avrebbe reagito? Nel giro era la spacciatrice più piccola, tutti gli altri erano ragazzi sui venticinque anni.
Maxie era l'unico cliente che Rion voleva evitare di avere, i suoi sentimenti diventavano burrascosi quando lo vedeva giungere alla sua postazione. Paura e timore, insieme al sollievo, perché il ragazzo era uno dei pochi che le faceva guadagnare davvero molto, gran parte del suo reddito era grazie lui.
Quella sera, per esempio, aveva comprato più roba del solito e Rion immaginò che fossero in molti, tra cui sua sorella. 
La ragazza sapeva che Rylee non fumava, ma più di una volta aveva annusato la sua giacca alla ricerca di puzzo di marijuana, ma non aveva sentito niente, comunque sia, aveva paura che sua sorella potesse iniziare e l'idea che pure a lei succedesse qualcosa, la faceva morire di paura.
Era come mettere una fine prematura alla sua missione.
Questo perché nel profondo teneva a Rylee.
Sperò vivamente che Maxie fosse uscito indenne dalla corsa con il tossico, tifava per lui ed era convinta che se ne fosse andato incolume.
Nessun drogato usciva dal giro, si limitava a giungere al bivio, poi tornava indietro, felice o immune.
Succedeva spesso che un tossico rincorreva un ragazzo, sano e giovane, per rubare della roba; ovviamente non erano droghe forti, ma quando uno è in astinenza qualsiasi cosa va bene.
Rion aveva imparato che i drogati non se la prendevano con gli spacciatori, per il semplice fatto che avevano paura di loro.
Prima di tutto uno spacciatore è di gran lunga più forte di loro, e anche una ragazza mingherlina come Rion sarebbe riuscita ad allontanarlo.
Secondo: uno spacciatore poteva rinfacciare tutti i debiti al tossico e parlando di soldi, egli sarebbe andato maggiormente in paranoia, e senza soldi e trovandosi a rota, non riusciva a capire più niente.
Quella era una delle regole che Rion imparò non appena aveva messo piede nel giro.
Un'altra era il fatto di nascondere la roba in un posto sicuro nel caso la polizia avesse fatto irruzione, come successe quella sera.
Rion vide le luci dei lampeggianti sul selciato, che si illuminò di rosso e blu, con tutta calma, uscì dal suo posto e si allontanò dal retro del condominio.
Sentì le portiere sbattere e lo scricchiolio dei sassi sul terreno, arrivò a un palo della luce e allungando la mano a un cespuglio lì vicino, prese il resto della roba, la mise nello zaino e riprese a camminare velocemente.
Il cespuglio in cui nascondeva la roba era un posto suggeritole da Bon, era strategico: fuori dal giro, ma molto vicino a esso. Molti spacciatori avevano un luogo sicuro, ma nessuno andava a prendere la roba degli altri, per il semplice fatto che si sarebbe creato il putiferio.
Nel giro di cinque minuti Rion si trovò su un marciapiede, totalmente lontana dal giro.
Vide l'insegna del bar aperto e sorridendo impercettibilmente, raggiunse il retro, bussò un paio di volte e subito sentì dei passi provenire dall'interno.
La porta si aprì e il volto radioso di Bon fece irruzione sotto la luce al neon.
Bon aveva una trentina d’anni, il viso asciutto con gli zigomi pronunciati, coperti da una barba che Rion non aveva idea da quanto non si rasasse. Le spalle erano larghe e le braccia muscolose per tutte le casse di bottiglie che era costretto a trasportare per via del bar. Il bacino, a dispetto delle braccia, era stretto e le gambe, fasciate da un paio di jeans blu scuro, erano magre.
«Guarda chi si rivede.» esclamò Bon appoggiandosi allo stipite, fissando la ragazza con un paio di occhi neri come la pece, tanto che, la pupilla era praticamente invisibile.
Rion facendo scomparire il sorriso dal volto si tolse lo zaino e ne estrasse il resto della roba, successivamente la passò al ragazzo.
«E’ successo qualcosa?»
«Polizia.» mormorò tranquilla e si accese una sigaretta.
Bon uscì dal bar e chiudendosi la porta alle spalle, ne scroccò una a Rion, fumava solo in compagnia.
«Mi chiedo sempre come riesci a scappare.» ironizzò, era stato proprio lui a insegnarle la scorciatoia dietro al condominio, la maggior parte delle cose che Rion sapeva riguardo il giro le aveva imparate grazie a Bon.
«Hai venduto poco quindi?»
Rion scosse la testa e disse: «Sono arrivata a centocinquanta.»
Bon emise un fischio, Rion doveva essere andata al ritrovo per le otto e mezza di sera ed erano solo venti alle undici, in circa due ore era riuscita a guadagnarsi un bel gruzzoletto.
Bon si occupava della finanza e la maggior parte delle volte lasciava sempre di più a Rion, ritenendo che la sua era una giusta causa. Inoltre, aveva altri spacciatori nella zona e perfino in altri quartieri di New York, ma Rion era la più brava. Nonostante fossero solo tre mesi che era nel giro, in quell’arco di tempo la ragazza aveva aumentato di gran lunga il suo stipendio in nero.
Molte volte si diceva che lei era nata per fare quel lavoro sporco, nella sua invisibilità suscitava interesse e quindi la gente andava da lei a provare la roba, costatandola buona.
«Tieniti cento.» mormorò spegnendo la sigaretta sul selciato.
Rion passò i soldi a Bon, il quale contò la sua parte e poi consegnò il resto alla ragazza.
«Senti Rion, pensi di continuare anche quando tutto sarà finito?»
Rion si innervosì, il problema era che non sapeva quando e come tutto sarebbe finito. Non voleva pensarci, erano pensieri che la portavano a una porta nera e dietro di essa c’era il nulla più totale. Suo fratello, vivo o morto? Lei, cosa avrebbe fatto della sua vita senza Rich? Si era accorta che negli ultimi tempi rifiutava le cure, alcune volte non prendeva nemmeno le pastiglie giornaliere, ma Rion aveva trovato in rete una cura che faceva proprio al caso di suo fratello e voleva che lui la provasse.
Molte volte si chiedeva se il suo era un ragionamento egoista, si chiedeva se quello che stesse facendo fosse giusto nei confronti di Rich. D’altronde suo fratello si era già arreso, ma lei lottava per entrambi, come poteva lottare quando uno dei guerrieri aveva gettato la spugna? Era come avere la vittoria in mano. Il punto era che la vittoria non consisteva in una medaglia, bensì in una vita umana.
«Non lo so, non ci penso mai.»
«E se morisse?»
«Bon, smettila, dio.» sussurrò scontrosa.
«Scusami, ma è un dato di fatto. – Mormorò – Tuo fratello non vuole ricevere cure e tu stai guadagnando soldi per niente.»
«Questi non sono cazzi tuoi, va bene? Tu mi dai la roba, io la vendo. Tu ti tieni un po’ dei soldi e il resto lo dai a me. Di quello che faccio dei soldi che mi dai non sono affari tuoi.»
«Stavo cercando di farti riflettere.»
«Lo so, ma il mio scopo è cercare una cura a mio fratello, anche se lui non la accetta.»
«Perché, Rion? Perché lottare quando si è già arrivati alla fine?»
«Perché sono disperata.» sussurrò, e senza salutare si allontanò dal bar.
 
Un isolato più in là, nel retro di un bar, sotto un palo che emanava una luce gialla e fioca, Maxie stava rollando una canna, era l’ultima.
Non gli piaceva il fumo, l’hashish gli faceva salire la depressione, invece la marijuana lo faceva andare letteralmente in estasi, si sentiva tre metri sopra al cielo.
Non avendo mai provato un acido non sapeva cosa significasse andare in trip, ma con la marijuana la sua felicità non era paragonabile a nulla.
«Hai gli occhi che sono rossissimi.» esclamò una voce sopra di sé.
Maxie ridacchiò tra sé e sé, ogni qualsiasi tipo di superlativo o comparativo gli veniva detto in quel momento, l’avrebbe fatto ridere.
«Dirò a mia madre che abbiamo fatto il bagno nel lago. – Guardò Louis – E c’era il cloro.» poi scoppiò a ridere.
Louis sorridendo, si accomodò vicino all’amico, non aveva ancora fumato e per ora non intendeva farlo, aveva provato a fare un tiro da una canna anni prima e non aveva sentito proprio niente, eccetto una sete seguita da una fame assurda.
«Louis, come fa il cloro a essere nel lago? Cioè, è impossibile.»
Il ragazzo guardò Maxie che ridacchiava, «Non lo so, Maxie. Magari lo mettono per tenere l’acqua pulita.» azzardò.
Maxie scoppiò a ridere e gli diede una leggera gomitata: «Ma che cristo vai dicendo? – Scoppiò a ridere – Tutti i pesci morirebbero. – Guardò in cielo – Oh, poveri pesciolini.» poi, quando finì di rollare la canna, si gettò a terra e guardò il cielo.
«Vorrei sempre essere in questo stato, sai?»
«Come, Maxie?»
«Invulnerabile per la troppa felicità. Perché mi sento davvero felice, se vedessi passare un treno e mi tirerebbe sotto, sono convinto che mi farebbe ridere.»
Louis lo guardò con una sorta di pena e si chiese se anche lui sarebbe arrivato al punto di fumare per provare un minimo di felicità.
«Però, sono sempre tendente a quella sorta di depressione che provi quando l’effetto è finito.»
«Nel senso che ne vorresti ancora?»
Maxie annuì e disse: «Ma so che è sbagliato, non riuscirei a fare quello che mi piace fare.»
«Sarebbe?» chiese Louis giocherellando con la canna e convincendosi sempre di più.
«Tante cose, prima di tutto suonare la chitarra. Sai che mi si intorpidiscono le mani e non riesco a fare gli accordi più semplici? Oppure fare un esercizio di matematica, i numeri vanno insieme tra di loro e io mi metto a ridere come un coglione. – Louis lo guardava sbalordito – Oppure ammirare una ragazza senza che pensi subito a scoparla, sai la canna mi dà istinti sessuali, cristo. – Ridacchiò –  Poi, che cazzo c’è? Non potrei camminare decentemente, o mangiare, o rimanere attento, o dormire. – Continuò con un elenco strano – Louis, non potrei pensare. – Concluse – La droga fa schifo, ti toglie il pensiero.»
«E perché continui a fumare allora?»
Maxie si tirò su e appoggiò i gomiti alle ginocchia, prima di rispondere allungò una mano e prese la canna dalla mano di Louis, l’accese e ne aspirò un po’.
Louis arricciò il naso a sentire quell’odore perforante.
«Perché alcune volte la mia testa urla. – Dichiarò – I demoni prendono il sopravvento e al contempo ci sono gli angeli che rompono pure loro il cazzo. E io, inizialmente provo ad ascoltarti, a dare un ordine, ma poi iniziano a parlare tutti insieme, voci cavernose che si mescolano a voci stridule. Arriva il momento in cui mi sento un pazzo e l’unica cosa che posso fare è cercare di pensare, ma non riesco. Ho il casino nella mia testa, Louis. Sono il casino. Non auguro a nessuno di essere me.»
«Non sei arrabbiato perché non riesci a fermare queste voci?» chiese Louis circospetto, si era reso conto che alcune volte gli succedeva pure a lui quel fatto di essere assalito dalle voci nella sua testa e lui si incazzava da matti con se stesso, per non riuscire a fermarle.
«Arrabbiato? Perché mai dovrei essere incazzato con una cosa che fa parte di me?» domandò Maxie aspirando la canna, stranamente non aveva ancora iniziato a ridere.
Molto probabilmente la cannabis aveva un solo aspetto positivo: non ti faceva necessariamente ridere. Maxie ne era la prova: nonostante fosse fatto, riusciva a tenere un discorso serio con Louis.
«Perché vorresti che non facessero parte di te, ecco perché.»
«Io non ho mai detto che non li voglio nella mia testa, Louis. Anzi, penso che non riuscirei a vivere senza i miei pensieri, mi accertano che sono un essere umano e posso provare dei sentimenti. Solo che alcune volte sono davvero dei rompicoglioni. – E ridacchiò – Perché, tu non li vorresti?»
«Li abolirei se potessi.» mormorò guardando per terra e vergognandosi un po’ di se stesso. Voleva davvero essere una persona senza sentimenti e senza pensieri?
«Allora saresti come una roccia nell’acqua di un fiume. Fredda, senz’aria, a mollo, in apnea, chiuso in una bolla. E nemmeno il cloro ti potrebbe uccidere, perché saresti un essere inanimato.» e con la sorpresa di Louis, scoppiò a ridere.
Il castano si chiese come sarebbe stata la sua vita non provando completamente nulla. Inizialmente si disse che sarebbe stata perfetta, ma solamente perché pensò ai sentimenti negativi. Poi considerò gli spruzzi di felicità che aveva provato nei suoi diciannove anni, rifletté alla tranquillità di quando suonava il piano, alla gioia di un nuovo spartito, al calore che provava quando si sentiva capito da sua madre.
Non avrebbe provato niente di quello.
Forse Maxie aveva ragione, forse era meglio abbandonare per un paio d’ore quei tumulti, per ricordarsi cos’era la felicità, ma non desiderare che poteva essere una sottospecie di roccia.
Si sporse in là e mormorò: «Mi fai fare un tiro?»
Maxie scosse la testa e scoppiando a ridere passò la canna a Louis.
 
Kevin fumava selvaggiamente l’ennesima sigaretta della serata, guardando i ragazzi fuori dal bar. Il suo sguardo però era rivolto solo a una persona in particolare: Rylee.
La sua ex ragazza parlava tranquillamente con un’altra persona, Kevin si ricordava di lei, la nominava spesso nelle loro uscite, era la sua migliore amica.
Kevin amava ancora Rylee e il fatto di averla vista solamente un paio di giorni prima al consiglio di istituto lo faceva innervosire, lui non doveva più amarla, lui l’aveva lasciata per divertirsi.
Solo dopo si rese conto che il divertimento puro l’aveva avuto con lei e si stava pentendo amaramente di quello che aveva fatto, non avrebbe mai dovuto lasciarla.
Era stato un coglione, ma il suo orgoglio lo bloccava nel chiederle scusa.
Si era ripromesso, ogni settimana, che avrebbe tentato di riconquistarla, ma le settimane passavano e la promessa era solo soffiata al vento.
La vita procedeva e Kevin si stava arrendendo, stancando. Non aveva più voglia di fare niente.
 
Rion arrivò a casa tranquillamente, era quasi mezzanotte.
Entrò in casa e si trovò suo padre in soggiorno, tutto d’un tratto i cento dollari che aveva in tasca le pesarono come mattoni.
Suo padre era una di quelle persone che riusciva a leggerle nella testa, dopo suo fratello. Sapeva quando mentiva e Rion, in quel periodo della sua vita, aveva una paura terribile di lui.
Che potesse scoprire qualcosa.
«Rion, vieni qui.»
«Posso andare in bagno, prima?» chiese la ragazza tranquilla.
«Certo, prendo una birra.»
I pensieri di Rion si incupirono maggiormente, il fatto di prendere una birra per suo padre significava che fino a che non l’avesse finita, avrebbe parlato con la figlia.
Rion sapeva quanto suo padre potesse essere lento a berne una.
Salì velocemente in camera e lasciò i soldi sotto il letto, facendo il minimo rumore, poi si mise anche in pigiama.
«Vorrei tanto sapere dove vai ogni sabato sera, Rion.» esordì.
«In un bar, mettono buona musica.» rispose, in parte era vero. Quando non discuteva con Bon riguardo le condizioni di suo fratello, entrava nel bar e stava lì un po’ a parlare con il ragazzo. Era un bar in cui andavano soprattutto quindicenni e sedicenni, ma che verso le undici iniziava a svuotarsi e quindi mettevano brani vecchi. Rion si sentiva a casa e le piaceva quel posto.
«E cosa fai tutta sera in un bar?» continuò suo padre.
Rion iniziò ad agitarsi, ma si impose di rimanere tranquilla, «Bevo una o due birre, parlo con un mio amico.»
Suo padre la perforò con gli occhi e Rion si sentì completamente spoglia di tutto.
Avrebbe tanto voluto confessare a suo padre quello che andava facendo, perché tutto d’un tratto aveva iniziato a uscire la sera, perché tornava così tardi, perché aveva sempre un zaino con sé.
Avrebbe veramente voluto dirlo, e Rion sapeva che si sarebbe tolta un peso.
La sua poca capacità di parlare, però e il fatto di sentirsi inutile, la bloccavano.
Sarebbe stata solamente una delusione e forse lo era già, anzi sicuramente lo era. Cosa poteva dare una figlia come lei?
«Rion, ti ricordo che io non sono tua madre, quindi, evita proprio di prendermi per il culo.»
La ragazza si sentì colta in flagrante, ma lanciando un’occhiata alla bottiglia e costatando che era già vuota per metà, si ricompose e disse: «In verità, c’è un ragazzo.»
«E’ il tuo fidanzato?» domandò suo padre sorpreso.
«No, no, siamo solo amici.»
Suo padre sorrise, Rion si rilassò.
«Come si chiama?»
Quella domanda la spiazzò, non poteva fare il nome di Bon. Era una specie di legge: mai dire chi ti forniva la roba e benché suo padre non fosse un cliente, la regola valeva per tutti.
Non seppe perché le venne in mente quel ragazzo, ma si convinse che suo padre non poteva conoscerlo e men che meno poteva immaginarsi chi fosse.
«Louis, papà.»
«E come vi siete conosciuti?» domandò.
«A scuola.» rispose Rion.
«Potresti invitarlo un giorno, tua madre ne sarebbe felicissima.»
Rion sorrise e si morse un labbro, poi mormorò: «E’ un tipo un po’ strano, non so se…»
«Perché, che tipo è?» chiese l’uomo circospetto.
«E’ simpatico, divertente perfino. Adora la musica, ma è incazzato perso del mondo o di se stesso.»
«Perché?»
Rion alzò le spalle, aveva visto Louis solo due volte e aveva interpretato solo la sua rabbia, «Non lo so, magari non si sente a suo agio da nessuna parte.» fece un’ipotesi.
«Un po’ come te, tesoro.» e posò la bottiglia per terra.
Rion si sorprese di quella considerazione, in effetti, suo padre non aveva tutti i torti. Anche lei non si sentiva a suo agio in quel piccolo quartiere di New York, ma non era incazzata con nessuno, semplicemente aspettava.
Louis, invece, era incazzato perché non si sentiva se stesso in ogni singola parte del mondo.
 
Maxie e Louis erano stravolti dalla droga, la marijuana aveva avuto effetto su tutte e due, specialmente sul secondo, che dopo aver fatto cinque tiri aveva iniziato a delirare.
Rylee li guardava sorridendo e stupendosi, Louis aveva detto più di una volta che odiava il mondo, il classico a quell’età.
Anche lei delirava, anche lei sparava cazzate, una volta aveva perfino detto qualcosa a proposito di suo fratello, ma fortunatamente nessuno aveva fatto domande.
Rylee si avvicinò a Louis e gli cinse la vita con un braccio, e disse: «Ti riporto a casa, Lou. – Propose – Dove abiti?»
Il ragazzo le rispose con lucidità, poi reggendosi a lei, iniziarono a camminare.
Il primo tratto fu in totale silenzio, i loro respiri si mescolavano tranquillamente.
«Non permettermi mai più di fumare, dio.» esclamò dopo un po’.
Rylee lo assicurò che gli avrebbe tolto la canna di bocca se avesse tentato a rifarlo.
Louis scoppiò a ridere.
«Mi piacerebbe tanto conoscere tua sorella.»
Rylee rimase di pietra.
Quella era una delle cazzate che Louis non avrebbe mai voluto dire.

Spazio autrice

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

HO MESSO LA STORIA ANCHE SU WATTPAD: Mission || l.t E METTETE TAAAANTE STELLINE, ANCHE SE E' SOLO IL PRIMO CAPITOLO E VOI L'AVETE GIA' LETTO, MI SONO RIPROMESSA DI PUBBLICARE LA STORIA UNA VOLTA OGNI DUE GIORNI (A ORARI IMPROPONIBILI) COSI' DA METTERMI AL PASSO E PUBBLICARE IN CONTEMPORANEA (ANCHE SE HO UNA MEZZA IDEA DI LASCIARE UN GIORNO DI STACCO TRA EFP E WATTPAD, VBB) SUI DUE SITI.
BENE! SEGUITEMI ANCHE LI' CHE RICAMBIO E RICORDATE: TAAAAAAAANTE BEEEEELLE STELLINE.


Ho passato la maggior parte di questo giorno a crogiolarmi sul letto con il mio pupazzo ripensando a un anno fa, al concerto dei ragazzi e mi deprimo di più perché sono cambiate tante cose e ... okay, basta.

Quindi, ero in lutto, ma ora, sempre ad un orario improponibile (1.18) eccomi qui!

Andiamo con ordine perché se no sclero.

1. Scena romantica tra Louis ed Evelyn, aaw, okay basta.
2. Maxie che va a prendere la roba ---> come vi sembra la descrizione del giro? E MAXIE CHE CORRE. RIPETO: MAXIE CHE CORRE. IMMAGINATEVELO CON I CAPELLI AL VENTO OH MY GOSH.
3. Louis incontra per la prima volta Rylee, a chi di voi è partito il fangirl? 
4. SAPPIAMO CHI E' RIOOOOOOOOOOOOOOOOOOON. VI RICORDATE IL PRIMO CAPITOLO? LOUIS INCONTRA UNA RAGAZZA CON UNO ZAINETTO NERO E UN CAPPUCCIO. CHI E'? I know you know the answer.
Nelle scorse recensioni (dio grazie mille, piano piano, aumentate sempre di più e io vi amo) mi sono divertita tantissimo a leggere le vostre ipotesi. Eh, riferita a una ragazza: non è un sicario, ahaha. 
Mi spiace se molti di voi pensano che sia un cliché, ma davvero, non ho trovato nessun altro lavoro sporco che possa far guadagnare così tanto. Rion vuole rimanere anonoma e guadagnare, e spacciare è il miglior modo.
Cosa ne pensate?

5. MOMENTO ROMANTICO (okay, no) TRA LOUIS E MAXIE. DEHEH. Per entrambi i casi: sono miei pensieri. Ho i demoni che mi uccidono. 
WHEN YOU FEEL MY HEAT, LOOK INTO MY EYES, IT'S WHERE MY DEMONS HIDE, IT'S WHERE MY DEMONS HIDE. Thank you soo much, Imagine Dragons.

6. ABBIAMO UN NUOVO PERSONAGGIO.
KEVIN.
Okay, in realtà l'avevo già citato un paio di capitoli fa quando c'era la riunione del comitato studentesco dove hanno deciso di pitturare la scuola (A PROPOSITO: HO GIA' SCRITTO QUEL CAPITOLO EH OMG, SCLERAVO ----> fangirl mode on)

7. L'incontro con il padre. RION CHE NOMINA LOUIS. RION NOMINA LOUIS. SEGNATEVELO. 
PERCHE' DICE PROPRIO LUI? DEEHEHEEHHEE.

8. Louis spara la cazzata del secolo ----> COSA ACCADRA'? 

Vi lascio il delirio a voi, carissimi. 

A presto,
Giada.

PS. REMEMBER WATTPAD

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI ***


LINK WATTPAD: Mission WattPad
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

VI
 
Solo quando vide il sangue il ragazzo iniziò a connettere davvero.
Allungò la mano verso una salvietta, ma si rese conto che il plasma fuoriuscente dal suo naso si sarebbe impregnato nella stoffa e sua madre avrebbe fatto domande, così, tappando con un dito la narice, prese svariati pezzi di carta igienica.
Si ricordò una specie di incontro riguardo la droga e il fumo avvenuto circa due anni prima nella sua scuola di Boston, avevano spiegato tutti gli effetti della droga, ciò che causava, l’indipendenza e anche cosa succedeva al corpo la prima volta, o le poche volte, che si assumeva droga.
Sonno e sangue.
Louis si ricordava solo quei due, ma sapeva per certo che ve n’erano altri, si ricordava solo il sonno e il sangue perché li stava vivendo in quel momento.
Non appena mise piede in casa fu come se l’effetto e la ridarola fossero scomparse da un momento all’altro, lasciandogli solo un sonno assurdo, la classica fame chimica e un rivolo di sangue che colava dal suo naso.
A passo pesante fece le scale e raggiunse il bagno, si spogliò dei calzoni e della maglietta, notando però che puzzavano di marijuana pensò di portarli in camera, successivamente aprì il lavandino e iniziò a soffiarsi il naso.
Il sangue non aveva la minima intenzione di fermarsi e Louis fu colto da una cieca paura, ma poi si ricordò le mani di sua madre. Una volta, quando era piccolo ed era rimasto troppo tempo sotto il sole cocente, del sangue aveva iniziato a scendergli dal naso e impaurito era corso in casa. Sua madre l’aveva condotto in bagno e tranquillamente gli aveva messo i polsi sotto l’acqua ghiacciata, bagnandogli anche dietro il collo e la fronte.
Louis rimase circa cinque minuti con i polsi sotto l’acqua, fino a che sentì le membra intorpidirsi e vide la pelle sotto le unghie pitturarsi di un blu chiaro.
Chiuse l’acqua e si soffio il naso, non uscì nulla.
Tirando un sospiro di sollievo, andò in camera e si infilò una maglietta a maniche corte, poi dopo aver divorato una fetta di torta, andò nella stanza di sua sorella.
La luce era ancora accesa e il libro appoggiato sul letto, aperto. Louis sorrise e prese il libro, lasciò un segno ripiegando la pagina e dopo aver spento la luce si mise nel letto.
Le braccia di Evelyn lasciarono il suo peluche, per andarsi ad attorcigliare al corpo di Louis, il ragazzo accolse quel calore come una medicina.
La rabbia che aveva provato poco prima nel bagno per non riuscire a fermare il sangue, scomparve d’un colpo sentendo il lieve calore che sua sorella poteva donargli.
Chiuse gli occhi, ma nonostante il sonno, non riuscì ad addormentarsi. La sua mente era dominata dalle immagini della serata.
Il discorso che aveva avuto con Maxie mentre era fatto era ancora impresso nella sua testa, si rese conto di quanto loro due potessero essere simili. Entrambi avevano i loro demoni, Louis supponeva che i demoni del suo vicino di banco fossero soprattutto dipesi dal suo passato, specialmente dal divorzio dei suoi.
Louis invece, per quanto riguardava i suoi demoni, non aveva la minima idea da dove potessero provenire, non aveva memoria di quando fossero cominciati. Sapeva solamente che il modo per placarli era un abbraccio di sua sorella oppure una sigaretta, si chiese se quei demoni non fossero l’immagine di se stesso.
Se lui stesso non fosse un demone, in fondo, era da sempre incazzato per una cosa o l’altra, cos’aveva fatto di buono per meritarsi un posto negli angeli? Assolutamente niente.
Quelle voci, si convinse, non erano nient’altro che l’ombra di se stesso, l’ombra del suo passato, del suo presente e molto probabilmente del suo futuro.
Avrebbe dovuto conviverci per il resto della sua vita, tanto ormai all’inferno ci doveva andare per forza.
I suoi pensieri lasciarono per un momento i demoni e si concentrarono su una chioma bionda e un paio di occhi azzurri.
Rylee.
Louis si immaginò il suo viso e si accorse che assomigliava lontanamente a Rion, si chiese se Maxie non gli avesse detto una cazzata; certo, le due ragazze si assomigliavano, ma avevano i lineamenti molto differenti: le guance di Rion erano scavate, quelle di Rylee paffute, una aveva gli occhi azzurri e l’altra verdi, erano una mora e una bionda. L’unica cosa che avevano in comune era l’aspetto fisico, ma era comunque un fisico che avevano molte ragazze.
Nonostante ciò Louis sapeva che tra di loro c’era una sorta di legame, qualcosa le accumunava, ma non riusciva a capire che cosa.
Forse era quel legame tra gemelli che tanto si diceva avessero.
Riguardo quel legame, però, non riuscì a trovare niente, perché pure i caratteri erano differenti. Rylee era semplice, simpatica e un po’ superficiale. Rion invece era chiusa, schietta, ombrosa, invisibile.
Si domandò come due persone così diverse potessero essere sorelle, per lo più gemelle.
Il castano si ricordò che aveva detto a Rylee che avrebbe voluto conoscere sua sorella, avrebbe dovuto sistemare anche quel fatto.
Pensò a varie scuse da rigettare alla ragazza, con la conclusione che non ce n’era nemmeno una, a parte il fatto di dire che stesse delirando e avesse sparato una cazzata.
Louis conosceva il detto ‘in vino veritas’ e sperò che non valesse anche per la marijuana, altrimenti sarebbe stato fottuto.
 
Greta si svegliò di soprassalto.
Aveva il fiato grosso e l’incavo dei suoi seni era sudato, così come la sua fronte.
Il cuore batteva all’impazzata, serrò gli occhi e grazie al nero delle sue palpebre riuscì a ritornare in sé.
Non ricordava il sogno, ma non era una novità: non ricordava mai quello che vedeva durante la fase rem del suo sonno e in cuor suo non voleva immaginare cosa sognasse, ma la risposta non era molto lontano dalla realtà.
Morte.
Aveva smesso di contare l’ultimo giorno in cui aveva sorriso davvero, da quel giorno la sua anima era come andata sotto terra, la sua vita era un circolo vizioso che non smetteva di ripetersi, come il segno dell’infinito: non sapevi né dove iniziava né dove finiva.
Greta non si definiva una ragazza depressa, semplicemente aveva smesso di vivere e non sapeva nemmeno se a vent’anni si potesse dire di aver iniziato a vivere per davvero, aveva ancora davanti una vita piena di cose da fare, scoprire e lei aveva già rinunciato a tutto.
Peccato che il suo tutto fosse su un letto con una bandana in testa per la chemio terapia.
Tirò un lungo sospiro e decise di alzarsi, tanto non sarebbe riuscita ad addormentarsi di nuovo.
Si coprì le gambe con una leggera calzamaglia color carne, poi indossò una gonna alta e un maglione, doveva essere per lo meno accettabile al suo esame.
Perché quel giorno iniziava il suo primo esame in università, era di lettere.
Sperava nel meglio, non era male a scrivere, era quasi più brava a riempire fogli di inchiostro che parlare, le vera Greta si nascondeva dietro un foglio e in pochi avevano il piacere di scoprirla davvero, perché solo pochi individui erano in grado di leggere veramente, di captare il significato di una frase all’interno di un tema, tutti sono in grado di leggere, pochi in grado di andare oltre le lettere.
Greta scese in cucina e fece un sorriso tirato a sua madre, la donna era vestita sportiva: i capelli corti erano al vento, i jeans le fasciavano le gambe magre e il maglione azzurrino sottolineava le sue forme.
«Sei agitata, Gre?»
Greta sollevò le spalle: «Neanche più di tanto, è lettere.»
«E io so quanto tu ami scrivere.»
«Esatto, mamma.» prese un biscotto e lo sgranocchiò.
«Dovresti scrivere un libro, tesoro. Ho letto alcuni dei tuoi racconti, sono davvero belli.»
Greta la guardò inespressiva, poi mormorò: «Non avrei nulla da raccontare, mi serve sempre una traccia su cui basarmi, non ho fantasia in merito, mamma. Sarebbero solo sciocchezze.»
«La vita di ciascuno di noi non è una sciocchezza, potresti raccontare la tua vita con la mente di altri personaggi.»
«Non ho intenzione di fare un’autobiografia, non sono nessuno. E poi, cosa vuoi che mi sia successo in vent’anni? Non ho nemmeno un briciolo di esperienza.»
«La vita di una persona dipende da come è cresciuto, e quando inizi a crescere secondo te? A trent’anni? No, Greta, si inizia non appena si vede la luce.»
«Fatto ‘sta che non racconterei niente di interessante.»
«Anche le cose più semplici possono essere speciali.»
«Ci sono cose che devono rimanere nel buio.»
Sua madre abbandonò la speranza di convincere Greta, quando la ragazza si impuntava in una cosa, era impossibile schiodarla da essa, per ciò sorrise e mormorò: «Quando sei pronta ti accompagno in università.»
 
Rylee era seduta sul tavolino della scuola, il freddo le faceva accapponare la pelle, ma nonostante ciò rimase lì impassibile con il libro di filosofia stretto tra le mani.
Non aveva voglia di entrare, quella mattina il bus era passato in anticipo e l’ultima cosa che voleva era inoltrarsi in una classe dove tutti erano agitati per la verifica imminente. Preferiva di gran lunga ripassare da sola, circondata dal freddo e dal puzzo di fumo che alleggiava sempre nel cortile.
La domenica prima aveva pensato costantemente alle parole che Louis aveva detto.
Sapeva che era fatto e le cazzate potevano uscire di bocca a chiunque, ma il fatto che il ragazzo fosse venuto fuori con la storia di sua sorella era improbabile che se la fosse immaginata, soprattutto perché sapeva che Maxie era a conoscenza della verità e quei due erano diventati subito amici.
Sfogliò la pagina del libro, ripassando e sentendosi indecisa se affrontare l’argomento col castano.
Quando suonò la prima campanella decise che se fosse stato Louis a intraprendere la conversazione gli sarebbe andata dietro, altrimenti avrebbe lasciato perdere.
Louis arrivò proprio nel momento in cui riponeva il libro in cartella e si stava dirigendo in classe, lo salutò con un sorriso.
«Ehi.»
«Come va?» chiese Rylee.
«Ho un po’ di mal di testa, ieri sono stato tutto il giorno con la testa in letteratura.»
Rylee rizzò le proprie sopracciglia verso l’alto, poi fece un gesto comprensivo: «Se ti rincuora, io in Freud.»
«Filosofia?» domandò il ragazzo.
«Già.» ammiccò.
«Quando mi dissero che dovevo studiare filosofia ero entusiasta per tutte le frasi che avevo visto in giro e per tutti i pensieri che avevo affrontato, pensavo perfino di trovare delle risposte ai dubbi adolescenziali, invece le domande sono aumentate e ho iniziato a odiarla.» ridacchiò gettando un’occhiata al selciato.
«Ti capisco, anche per me è stato così.» e scoppiò a ridere spontaneamente.
«Rylee, ho delirato la scorsa sera.» si era messo le mani in tasca e la guardava con fare dispiaciuto.
«Non devi scusarti, Louis, succede a tutti.» sorrise.
«Okay, ma ho detto di tua sorella e io…»
Rylee lo bloccò alzando la mano: «Non cercare di trovare scuse, so che sai che ho una sorella, per il semplice fatto che nessuno qui, eccetto in pochi, sanno che ne ho una. – Sospirò – Quindi, evita di cercare scuse, immagino che te l’abbia detto Maxie.»
«Sì, mi ha accompagnato in presidenza il primo giorno.»
Rylee lo guardò incuriosita, sua sorella che accompagnava qualcuno da qualche parte era davvero un evento da scrivere sul calendario, di solito Rion mandava a ‘fanculo la prima persona che osava avvicinarsi a lei, strano che non l’avesse fatto con Louis.
«Dalla preside?»
«Sì, devono essere molto amiche.» scherzò Louis.
Rylee ridacchiò: «Rion ama far infuriare il vostro prof. di inglese. Ma perché ti ha accompagnato?»
«Perché gliel’ho chiesto.» disse Louis scettico.
Rylee fu davvero stupita, avrebbe voluto tanto sapere cosa passasse nella mente di sua sorella quando Louis le domandò se l’avrebbe accompagnato dalla preside; la bionda pensò che il castano fosse la prima persona con cui Rion fu accondiscende.
«Wow.» riuscì a dire.
«Perché?»
«Mia sorella in circostanze normali ti avrebbe mandato a ‘fanculo.»
«Mi stai forse dicendo che io non ero in una circostanza normale?» domandò Louis, il trillo della campanella suonò, ma nessuno dei due ragazzi vi prestò attenzione. Rylee era stupita, non riusciva a spiegarsi cosa avesse attirato l’attenzione di Rion in Louis, era un ragazzo come tanti, certo era bello, ma non aveva nulla di speciale.
C’erano tanti ragazzi belli in quella scuola e Rion non li cagava minimamente.
Louis al contrario era avido di sapere.
«Non lo so, Louis. – D’un tratto divenne impacciata – Mia sorella non è il massimo della loquacità.»
«Questo l’avevo capito.»
«Lei… Come dire? Lei non è per niente un magnete, non attira nessun tipo di ferro.»
«E chi ti dice che io sia di ferro?»
«Niente, ma era un esempio. Quello che volevo dire era che mia sorella ama stare da sola.»
«Come può amare la solitudine una ragazza di diciotto anni?» domandò Louis.
«E’ la domanda che mi pongo ogni giorno.»
«Ma è sempre stata così?»
«No, c’è stato un periodo, anni fa, che aveva degli amici e giocava con noi. Scusa Louis, ma Freud mi attende. Ciao!»
Rylee corse in classe, i pensieri della verifica imminente e la nuova che aveva scoperto da Louis le lasciarono dietro una sensazione strana.
Si chiese se c’era qualche possibilità che Louis riuscisse a far schiudere il guscio di Rion.
La risposta arrivò alla fine dell’ora, evidentemente studiando filosofia Rylee era riuscita ad ampliare il suo modo di pensare.
Aveva una risposta.
Trovò Louis nel giardino, intento a fumare una sigaretta in compagnia di Maxie. Quest’ultimo, che non fumava sigarette, pestava i piedi per terra per cacciare il freddo.
«Rylee, qual buon vento!» esclamò Maxie sorpreso, in effetti la ragazza non scendeva mai nel cortile durante l’intervallo.
«Louis, ti ricordi il discorso di mia sorella?»
Maxie divenne paonazzo e prese a battere un ritmo sulle gambe, facendo finta di non ascoltare.
«Sì.»
«Tu gli interessi.»
«Cristo! Cosa? A Rion? Ma se quella ragazza è come pietra? Porca puttana, Lou!» Maxie si era agitato tutto d’un tratto.
«Non nel modo in cui pensi tu, Maxie.» spiegò Rylee e disse che qualcosa in Louis aveva attirato l’attenzione di sua sorella.
«Okay, quindi? E’ impenetrabile quella ragazza, non ho intenzione di disturbarla.»
«So che ti interessa, se no, non mi avresti detto che volevi conoscerla.»
«Ero fatto, Rylee.»
Rylee alzò gli occhi al cielo, «Non attaccarti a specchi inesistenti, Lou.»
«Okay, d’accordo. Mi interessa, va bene? E io interesso a lei, peccato che ci sia di mezzo il suo carattere del cazzo.» sbottò.
«Potresti provare a conoscerla.» optò la ragazza.
«Come? E’ un muro.»
«Pedinala.»
Entrambi si voltarono verso Maxie, aveva detto quella parola con fare sarcastico, ma Rylee si rese conto che forse era davvero l’unico modo. Se Rion si sarebbe incazzata, avrebbe dato di matto con Louis e magari il castano sarebbe riuscito a farla sbocciare.
«Non se ne parla.»
«Louis sei l’unica speranza che potrebbe salvare mia sorella dalla disperazione.»
«Cosa ti dice che sia disperata?»
«Guardala negli occhi, Louis.» questa volta fu Maxie a parlare e Rylee non poté che essere d’accordo, gli occhi di Rion a primo impatto erano un pozzo profondo che ti inchiodavano a terra, ma dopo un'attenta visione di quel verde come l’erba bagnata, potevi scoprire molte cose.
 
Louis era stupito da quella richiesta di Rylee, non sapeva come affrontare Rion.
Il ragazzo ci avrebbe provato, ma più guardava il suo viso rivolto alla lavagna nera, più gli diventava impenetrabile e privo d’ogni sentimento.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Sempre a orari improponibili, eccomi qui! 
Chiedo scusa per il ritardo (davvero minimo, dato che l'ultimo capitolo l'ho pubblicato il 30 giugno, vbb) ma ho avuto da fare. 
E' GIA' FINITO GIUGNO, LET ME CRYYYYYYYY E IO DEVO INIZIARE I COMPITI, MANNAGGIA A ZEUSS.
COMPLIMENTI A TUTTI I MATURANDI YEEEEY.

E GRAAAAAZIE a voi che piano piano fate aumentare sempre di più questa storia, vi voglio tanto bene.
Anche a voi lettrici silenziose, so che ci siete!
Con questo capitolo riusciamo a far arrivare la storia almeno a 30 recensioni? Daaaaaai, pls. 
SE VOLETE UNO SCAMBIO DI RECENSIONI, BASTA CONTATTARMI O QUI O IN TWITTER ---->
 @letsgotolive
VI RICORDO CHE SONO ANCHE SU WATTPAD ----> ovunqueilbui0 dove sto pubblicando anche Mission ((((((:

PASSANDO AL CAPITOLO.
Louis con il post droga. *CHIARIZIONE* a Louis scende il sangue del naso perché non ha schimicato, è una cosa possibile, rara, ma è possibile. Lo so, perché? Beh. Su, dai, *LEGALIZECANNABIS* ecco, avete capito e poi è un effetto normalissimo.

COSA VE NE PARE DELL'IDEA DI RYLEE? 
COSA SUCCEDERA'? DAI VOGLIO SAPERE LE VOSTRE OPINIONI DEHHEEHEHE.

CONSIGLIO: prestate MOOOOOLTA attenzione al Pov's Greta. TAAAAAANTA. 

Grazie mille, siete bellissimi!

A presto,
Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
VII
 
Rion posò la testa sul banco e si impose di non addormentarsi, era la prima volta in tre mesi che si sentiva così stanca, prima non le era mai successo. Il fatto di arrivare così tardi a casa era divenuta una specie di routine, a cui Rion aveva fatto l’abitudine, ma quel giorno le si chiudevano gli occhi.
La sera prima era andata al condominio desolato e gli acquirenti erano arrivati solamente dopo le undici e mezza di sera, orario in cui Rion doveva essere già sotto le coperte a riposare, invece era rimasta là, imperterrita a vendere qualcosa.
E qualcosa aveva venduto e Bon si era complimentato con lei per aver guadagnato una somma assai modesta per un mercoledì sera, Rion, senza nemmeno sorridere ne salutare era andata spedita a casa e si era addormentata come un piombo, ma la sveglia era suonata fin troppo presto.
La signorina Finch stava facendo esercizi in preparazione alla verifica imminente e Rion, abbastanza portata in matematica, riuscì a farli con le palpebre che si chiudevano.
La sua compagna di banco le diede una gomitata e la ragazza alzò la testa di scatto, il cuore prese a martellarle nel petto pensando che la professoressa l’avesse chiamata.
«È suonata.» disse tranquillamente.
Rion fece un cenno del capo e iniziò a preparare la borsa mentre il resto della classe scemava fuori dall’aula, notò però che Louis si era fermato con la signorina Finch.
Fece finta di niente, dicendosi che le stava chiedendo qualcosa riguardo il programma, d’altronde il ragazzo era arrivato solamente da un paio di settimane e alcuni argomenti che ci sarebbero stati nella verifica, erano di un mese prima.
Stava pensando di dormire un po’ quel pomeriggio quando la prof. la chiamò, la ragazza, riluttante, si avvicinò alla cattedra.
«Rion, Louis vorrebbe avere delle delucidazioni riguardo un argomento di trigonometria.»
La ragazza guardò la professoressa con aria scocciata e disse: «Maxie potrebbe aiutarlo, è il migliore in matematica.»
«Questo non lo metto in dubbio, ma il signorino Luke è già andato e tu sei l’unica rimasta. – La guardò sorridendo – Oggi mi sarei dovuta fermare in biblioteca per correggere delle verifiche, ma dato che la verifica è dopodomani e bisogna prenotare per andare in biblioteca, vi cedo il posto.»
Rion era sbalordita, non le veniva in mente niente da ribattere, in fondo, la signorina Finch era la sua professoressa e quando si trattava di scuola era meglio non mettersi contro gli insegnanti.
«D’accordo.» rispose respingendo uno sbadiglio.
«Avrai un più per questo, ed è pure su un argomento che ti piace abbastanza: le applicazioni di seno e coseno.»
Questo non migliorò l’umore di Rion, la ragazza non metteva in dubbio che la trigonometria fosse uno dei rami della matematica che amava di più, ma era comunque stanca e per di più doveva fare ripetizioni a Louis. Louis.
Quel ragazzo in quei giorni aveva cercato di avvicinarsi, chiedendole quali fossero i compiti oppure aveva richiesto un dollaro per la merenda, cose a cui Rion non aveva fatto caso fino a che non aveva visto sua sorella parlare con il castano nel giardino della scuola.
Da quel momento aveva iniziato a pensare che Rylee volesse usare Louis per far sì che la facesse entrare nella vita sociale, cosa di cui non aveva assolutamente bisogno. Lei stava bene da sola.
Dopo che ebbe visto Louis parlare con sua sorella, aveva evitato il ragazzo; non appena lo vedeva avvicinarsi, si rinchiudeva nel bagno, l’unico luogo della scuola in cui un ragazzo non poteva accedervi.
In bagno aveva fumato e mangiato la sua merenda, consapevole che se fosse scesa in cortile, il castano l’avrebbe seguita.
Lo evitava e adesso si ritrovava a fargli ripetizioni. Fantastico.
«Ciao, ragazzi.»
«Arrivederci, prof.»
Rion respirò stanca e sconsolata.
 
Rylee guardò fuori dal finestrino, la musica che urlava nelle sue orecchie. La canzone era sempre la stessa da circa cinque giorni, era in fissa con quella melodia.
La ragazza era così, quando si fissava con una cosa, doveva sempre averla a portata di mano, così come quella canzone.
Non era una patita della musica, ma comunque alcune canzoni le entravano dentro senza il suo permesso e lei era costretta ad accettarle.
Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato qualcosa d’altro a catturare la sua attenzione e quella canzone per lei non avrebbe significato più nulla, ma tanto valeva godersi il momento.
Mosse le labbra cantando il ritornello e sorrise. Era da tempo che non sorrideva in quel modo, aveva così tante cose per la testa in quel periodo tra la scuola, suo fratello e Kevin.
Aveva visto il suo ex ragazzo sabato sera alla luce di un lampione che fumava una sigaretta, a che sapeva, Kevin non aveva mai fumato.
Evidentemente aveva iniziato quando si erano lasciati, Rylee venne pervasa da un senso di malinconia.
Anche se non lo ammetteva, le mancava Kevin. Fino a cinque mesi prima era la sua ragione di vita e quando veniva colta da quei momenti si sentiva afflitta e inutile, grazie a Kevin aveva capito cosa significava amare davvero qualcuno, farlo felice. Aveva messo in primo piano la felicità di Kevin piuttosto che la sua e aveva sbagliato, eccome se aveva sbagliato, Rylee si era resa conto che era felice solo perché il suo amore lo era. Ma lei, senza di lui, che cos’era? Assolutamente nulla.
Rylee aveva sbagliato ad amarlo così tanto, il suo amore bastava per entrambi, ma nonostante i mille errori in quella storia d’amore, non si pentiva.
Grazie a quell’amore finito, aveva sbagliato e aveva capito.
Scoprire cosa significava soffrire per amore e al contempo andare avanti con la vita, l’aveva resa più forte. Ma c’erano cose a cui Rylee non era forte abbastanza, c’erano piccole e futili cose che la riportavano indietro e la costringevano a pensare che cosa sarebbe successo se lei e Kevin fossero stati ancora insieme.
Rylee avrebbe continuato a vivere nel suo mondo perfetto? Avrebbe mai imparato cosa significava soffrire? Si sarebbe resa conto che anche lei doveva essere felice per davvero? Non lo sapeva, alcune volte, Rylee si diceva che il sentimento dell’amore, con il tempo, sarebbe calato e avrebbe fatto sorgere quei dilemmi.
Appoggiò la testa al finestrino e ascoltò quietamente la canzone che ripartiva, strappando delle pellicine dalle dita delle mani quella sofferenza che aveva ancora nel cuore.
Infondo, il primo amore non si scorda mai.
 
Louis era stordito.
Era da giorni che cercava di fare dialogo con Rion, ma la ragazza aveva sempre risposto a monosillabi e negli ultimi giorni non l’aveva degnato di neanche uno sguardo. E ora avrebbe passato un pomeriggio con lei.
Si sentiva euforico e intimorito. Non sapeva come avrebbe fatto a farla parlare.
Un muro è impenetrabile, ma al contempo è possibile scalarlo e scavalcarlo. Il punto era scoprire quanto fosse alto questo muro e soprattutto se c’erano appigli a cui aggrapparsi.
Respirò a fondo e mettendosi le mani in tasca, disse: «Ti va di mangiare qualcosa, prima?»
La ragazza lo guardò e solamente in quel momento Louis si rese conto delle occhiaie sotto gli occhi, quegli occhi verdi che lo inchiodarono al pavimento.
«Non ho soldi.» biascicò abbassando lo sguardo.
Louis sorrise, «Io ho dieci dollari, dici che da McDonald’s riusciamo a prendere qualcosa?»
«Di sicuro, costano un cazzo le cose là.»
«Bene, lasciamo qui le cartelle?»
Rion scosse le spalle: «Meglio portarcele a dietro, non si sa mai con i bidelli che ci sono. – Ridacchiò tra sé e Louis trovò quella risatina adorabile – Prima però avvisiamo il bibliotecario, poi andiamo a mangiare.»
La ragazza scese velocemente le scale, Louis fece altrettanto, non si era ancora abituato a tutto quel grigio e l’idea di vederlo costantemente nella scuola lo angosciava, per ciò, ogni volta che metteva piede fuori dall’aula, faceva le scale velocissimo e usciva nei mille colori.
Il bibliotecario disse loro che la signorina Finch era venuta ad avvisarlo del cambio e aggiunse che la biblioteca chiudeva alle cinque.
«Non ci vorrà così tanto, ma grazie lo stesso.» disse Rion rivolta al bibliotecario.
I due ragazzi uscirono dalla scuola e si diressero al McDonald’s lì vicino, mentre camminavano Louis osservò Rion di sottecchi. La ragazza si guardava intorno con aria smarrita e persa nel paesaggio, quest’ultimo era molto secco: alberi spogli, eccetto per alcuni pini, strade vuote, dove ai lati c’erano ritagli di giornale, gli infissi delle porte erano chiusi per via del freddo dell’inverno. Era quasi terminato gennaio, uno dei mesi più freddi.
Rion si accese una sigaretta e Louis la imitò.
Entrambi i ragazzi iniziarono a fumare, ognuno perso nei suoi pensieri. Louis si accorse che la sua rabbia si era acquietata già da diverso tempo e si chiese che cosa potesse averla placata, guardò alla sua sinistra.
Le labbra di Rion, rosse e seccate per il clima freddo, erano avvolte attorno al filtro. Gli occhi verdi, come l’erba, erano chiusi. Le guance scavate, tiravano il fumo, facendolo andare nel polmoni per poi uscire da quel piccolo naso nel centro del suo viso.
Il castano si sorprese ad ammirarla e sentir nascere dentro di sé un senso di calma che non aveva mai provato. Aspirò il fumo e scosse la testa: non doveva affezionarsi a lei. Il suo compito era quello di renderla più loquace, di scavare dentro di lei e capire il motivo per cui amasse così tanto la solitudine.
 
Rion lo portò in una specie di galleria vicino al McDonald’s. I muri erano ricoperti di graffiti, ma non c’era il classico puzzo di piscio delle gallerie, lì l’aria era perfino buona e per di più, riparava dal freddo.
«Come conosci questo posto?»
Rion strinse le labbra, era la strada che faceva per andare a spacciare.
«Ci venivo in bici da piccola.» mentì e affondò i denti nel panino.
«Quindi abiti qui da sempre?»
La ragazza annuì e mormorò: «Tu, invece, perché ti sei trasferito?» e lo fissò, aveva già quasi finito il panino, evidentemente, Louis aveva fame al contrario di lei che sentiva lo stomaco chiuso.
«Per il lavoro di mio padre, fa l’agente immobiliare.»
«E che cazzo serve un’agenzia immobiliare qui? – Rion non riuscì a fermare le parole – Non c’è niente.»
«Vero? Ma l’agenzia si trova proprio sulla strada che porta a New York e per mio padre è un luogo strategico.»
Rion scosse la testa e si limitò a dire: «In effetti.»
Cadde il silenzio, ma la ragazza non si sentiva affatto in imbarazzo, forse perché il sonno era più forte di qualsiasi emozione, neanche il panino era riuscita a svegliarla. Si sporse verso Louis e disse: «Lo vuoi finire tu? Non ho granché fame.»
«Okay.»
Rion si alzò e disse: «Mi serve un caffè, vieni, andiamo a prenderlo mentre finisci di mangiare.»
La ragazza si alzò e così pure il castano, Rion porse il panino a Louis, ma al posto di trovare le mani del ragazzo, trovò il selciato.
Rion rimase sbalordita e si portò le mani alla bocca, poi alla vista della faccia sconsolata di Louis, scoppiò in un risata. Il ragazzo era rimasto a bocca aperta, con gli occhi fuori dalle orbite e guardava il panino a terra come un tesoro irraggiungibile.
Rion continuava a ridere e vide Louis diventare rosso: «Ma che fai? Arrossisci?» e gli sfiorò una guancia con un dito.
A quel tocco fu come se un uragano entrasse dentro di lei e la riportasse sulla terra.
Il riso si quietò e il sorriso svanì, le mani andarono alla ricerca di una sigaretta e il viso si tramutò nello stesso volto inespressivo.
 
Louis avrebbe voluto che quel momento non terminasse mai.
Il suo riso l’aveva fatto rinascere, si sentiva tranquillo, in pace con se stesso.
Quella risata uscita così liberamente dalle sue labbra, l’aveva fatto sentire felice, lui era riuscito a farla ridere. Si chiese da quanto tempo Rion non ridesse davvero.
E si chiese se fosse stato di nuovo in grado di strapparle un sorriso.
Quando l’aveva sfiorato, quel gesto così delicato e incapace al tempo stesso, l’aveva costretto a fissarla negli occhi.
E fissando quel verde colore dell’erba bagnata, aveva capito cosa intendeva Maxie.
Prima c’era stato un enorme pozzo che lo aveva inchiodato a terra, ma aveva resistito ed era riuscito a risalire quel pozzo, aveva visto la sofferenza, la malinconia, la paura.
La disperazione.
E in quel frangente capì quello che doveva fare, doveva essere lui a riportarla in vita.
Scoprire perché Rion fosse così sola e si ostinasse a rimanere tale.
«Il bar vende anche delle brioches se hai ancora fame.» il suo tono era neutro, piatto. Come se quello che era successo due minuti prima, non fosse accaduto.
Louis si sentì sconsolato.
«Perfetto, la dividiamo?»
«Solo se tu ti prendi la parte più grande, come ti ho già detto non ho fame.»
«Va bene.» e voglioso di sentire di nuovo quella risata, si mise a correre come un deficiente sul marciapiede, saltellando e aprendo le braccia, facendo sì che il freddo gli entrasse nei pori delle guance, nel naso e nella bocca.
La ragazza, nonostante ciò, continuò ad aspirare dalla sua sigaretta, non emettendo alcun suono, ma facendo il classico sorriso muto.
 
I fogli che aveva tra le mani, a furia di rigirarli e correggerli, si erano stropicciati.
Kevin non era ancora sicuro che quelle cinque pagine fossero sufficienti a far capire che cosa provasse lui in quel momento, anzi la sicurezza non esisteva minimamente dato che nemmeno lui, alcune volte, sapeva quello che aveva nel cuore.
Quella lettera era stata una delle imprese più difficili della sua vita, prima di tutto perché aveva sempre odiato scrivere e faticava ad esprimere i suoi sentimenti, nella sua vita non gli era mai capitato di esprimerli, quindi non aveva mai avuto il bisogno di frugare nel suo cuore e cercare di capire quali emozioni vi abitassero.
Quel pomeriggio, però, ci aveva messo l’anima e aveva ricavato ben cinque fogli di carta bianca, sulle quali aveva disegnato delle righe per scrivere dritto.
Era una lettera per Rylee, ancora non sapeva quando gliel’avrebbe data, ma soprattutto se l’avrebbe consegnata alla ragazza.
Prima di tutto doveva mettersi in testa che Rylee, una volta letta la lettera, non era detto che sarebbe tornata da lui e su questo Kevin aveva alcuni dubbi.
Immaginava il ritorno della ragazza come una scena da film, ma quello non era un film d’amore. Quella era la vita reale, e la maggior parte delle volte, questa si rivelava bastarda.
Non sapeva cosa avesse fatto se la ragazza non fosse ritornata da lui, magari avrebbe scritto altre lettere oppure avrebbe definitivamente capito che era stato un coglione a lasciarla.
Ripiegò i fogli stropicciati e li mise dentro una busta, sulla quale ci scrisse ‘per Rylee’, non aveva firmato la lettera, per il semplice fatto che immaginava che la ragazza sapesse chi fosse.
La nascose dentro uno dei libri di scuola, poi si buttò sul letto, fumando una sigaretta. Sua madre lo aveva sorpreso fumare uno di quei giorni e non ne era rimasta affatto basita: erano mesi che sentiva il puzzo di fumo sui vestiti e nella sua camera; non gli disse niente, semplicemente di non fumare in casa, regola a cui Kevin non prestava la minima attenzione.
Ripensò alle righe della lettera, scritta con due penne diverse perché una aveva smesso di scrivere, corretta con il correttore in vari punti, mentre in altri era stato più facile tracciare una riga.
Ricordava ogni singola lettera, sigla, sillaba, forse perché l’aveva riletta così tante volte da ricordarsela o magari perché era tutto il suo rimorso.
L’idea di scrivere una lettera gli era venuta d’un tratto e non ci aveva pensato un secondo di più, erano cinque mesi che rimuginava su come far capire a Rylee il suo sbaglio, ma non gli era venuta in mente nessuna idea, e così aveva aspettato, aspettato fino a quel pomeriggio.
Carta e penna lo aspettavano sulla scrivania e lui si era completamente buttato per cercare di cavarne fuori le sue emozioni e forse ci era riuscito.
Chiuse gli occhi e si disse che avrebbe lasciato la lettera a Rion, lui sapeva del loro segreto.
 
«Capito?» chiese paziente la ragazza.
Louis annuì e disse: «Sì, da come lo diceva il libro sembrava più complesso.» e sorrise, Rion era una maschera immutabile.
«Ti scrivo due esercizi e vediamo se riesci a farli.» detto ciò gli prese il foglio e iniziò a scrivere alcune applicazioni.
Louis prese il foglio dello schema fatto da Rion, la sua scrittura era minuta, non aveva nulla di particolare, ma era chiara seppur piccola. Il ragazzo aveva capito fin da subito le applicazioni di seno e coseno, ma aveva fatto finta di non comprenderle per passare più tempo con la ragazza. Non che questo giovò a suo favore, dato che Rion continuava a rimanere in silenzio, ma si sentiva così rilassato con lei che se anche non proferiva parola, la voleva avere vicino.
La ragazza gli consegnò il foglio e Louis iniziò a risolvere gli esercizi, questa volta non commise nessuno sbaglio, era la terza volta che Rion gli spiegava il procedimento e non voleva apparire così stupido, quindi optò di farli giusti.
Stava iniziando a risolvere il terzo, quando notò la ragazza appoggiare la testa sul banco e socchiudere gli occhi, scosse le spalle e continuò con il suo esercizio.
Quest’ultimo fu particolarmente complesso e per questo ci mise un po’ a risolverlo, «Rion.» mormorò e guardò verso la mora.
Le spalle si alzavano e abbassavano piano, soffuse; il respiro era pesante e gli occhi non eran più socchiusi, ma chiusi definitivamente. Il viso era rilassato, tranquillo, non vi erano emozioni, ma comunque non era lo sguardo privo di sentimenti che sfoggiava sempre. Era tranquilla.
Louis si sorprese a fissarla come ipnotizzato, scosse il capo e la toccò su una spalla.
Rion sobbalzò dalla sedia e infuocò Louis con lo sguardo, inchiodandolo, dopo le sue guance scavate si pitturarono di rosso fuoco.
«Ma che fai? Arrossisci?» e fece sprofondare un dito nella sua guancia, che scoprì non essere poi così tanto scavata.
Rion abbassò il viso e mormorò: «Scusami, non ho dormito bene questa notte.»
«In verità, è da quando vengo qui che ti vedo delle occhiaie.» disse Louis, perforandola con lo sguardo.
Vide le sue membra sussultare e gli occhi diventare paurosi, «Fammi vedere come hai fatto i due esercizi.» e gli prese il foglio, noncurante della provocazione del castano.
Louis si morse un labbro.


Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Non ho bevuto il caffè e sono abbastanza stanca, quindi chiedo scusa per eventuali errori/ripetizioni lasciate.

Rileggendo questo capitolo non mi ha entusiasmato per niente, boh.
Andiamo per gradi.
1) Rylee---> vi sembra ancora la classica popolare?
2) Sì CRISTINA CI HAI AZZECCATO. Kevin ha scritto una lettera d'amore: SPOILEEEER: l'ho già scritta e non potete capire la difficoltà, è tutta una cosa mielosa vomitosa che mi mette i brividi e per leggerla dovrete aspettare tanto, troppo tempo, tipo il 16/17 capitolo. DHEHEHE
3) LOUIS E RION FINALMENTE ASSIEMEEEEE. Cosa ve ne pare?

HO UNA NEWWWWWWWSSSSSSSSS: HO IN MENTE UNA NUOVA STORIA.
SARA' UNA SHORT-LONG, OVVERO UNA LONG CORTA. 
E PARLA DI...............-------------> HARRY STYLES VERSIONE PIRATA.
CON L'AGGIUNTA DI KURT COBAIN. 
HO GIA' TUTTA LA STORIA IN MENTE E DEVO SOLO METTERLA PER ISCRITTO.
FARO' UNA SORTA DI COLLABORAZIONE CON LEEEEI----->
 larryshvgs 
Andate sul suo profilo a dare un'occhiata e magari leggete Thalassophobia (è una slash, e io che non sono una slash-shipper adoro, quindi muovete i cuoli)

NON SO QUANDO AGGIORNERO' PERCHE' DOMANI HO IL CONCERTO DEGLI AC/DC OMG E SARO' IN COMA CATOTONICO A VITA, QUINDI BOH.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII ***


LINK WATTPAD: Mission WattPad
 
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
VIII
 
«Rion!» Louis chiamò la ragazza uscendo di corsa dall’aula, la situazione era la stessa di due giorni prima. Rion era nel suo mondo ed evitava Louis, era come se non si ricordasse la giornata che avevano passato insieme ieri, non rimembrava le loro guance sfiorate, il panino caduto a terra, nulla.
Louis non si era mai sentito così insignificante e tranquillo al tempo stesso, l’atteggiamento di Rion gli faceva provare emozioni contrastanti, passava dal sentirsi uno schifo perché non riusciva a farla parlare al sentirsi così tranquillo che quasi riusciva a provare un briciolo di felicità.
Si era quasi convinto che la ragazza esercitava uno strano potere su di lui e Louis non riusciva a comandarlo o perlomeno a respingerlo.
I capelli neri svolazzarono e il suo viso stanco lo inchiodò al posto, alzò un sopraciglio e aspettò che il moro le si avvicinasse.
«Volevo ringraziarti.» disse Louis accennando un sorriso, «Grazie alla lezione di ieri, sono riuscito a fare tutti gli esercizi nella verifica.»
Rion lo guardò e sorrise lievemente, Louis era così sbalordito che aprì un paio di volte gli occhi, la ragazza gli stava sorridendo. A lui.
«Mi fa piacere.» mormorò e tornò alla sua maschera impenetrabile.
Louis sospirò e gli venne un’idea, «Cosa posso fare per ricambiare il favore?»
«Nulla, davvero, non ce n’è bisogno.»
«No, dopo mi sento in colpa.» questa era un’emerita bugia, ma doveva conoscere la ragazza e doveva persistere.
«Non ho bisogno di nulla.» la sua voce era come una lastra di ghiaccio, fredda.
Il ragazzo fissò il pavimento grigio e tamburellò sui piedi, «Mia mamma oggi fa le lasagne. Ti piacciono le lasagne?» e alzò lo sguardo.
Notò immediatamente che la ragazza cercava di respingere un sorriso e annuì, «Sì, ma avrei da fare questo pomeriggio.»
«Sai, di solito le lasagne si mangiano a pranzo e non durante il pomeriggio.»
Rion lo guardò storto e sospirò, «Se devo proprio, okay.»
Louis si sentì tre metri sopra al cielo, non riusciva a crederci. Era riuscito ad invitarla a pranzo, a casa sua. Si sentiva così felice ed euforico che avrebbe persino potuto uscire in maniche corte da scuola e urlare al mondo la sua felicità.
Guardò Rion con un sorriso da un orecchio all’altro e senza pensarci la prese sottobraccio, iniziò a saltellare mentre si dirigeva verso la fermata dell’autobus.
«Ehm, Louis, stai bene?» chiese la ragazza circospetta.
«E me lo chiedi? Certo.» sentiva che il braccio della ragazza, vicino al suo fianco, era rigido come un pezzo di legno. Quello era solo un piccolo e misero traguardo, avrebbe dovuto lavorare sodo per conquistare la sua fiducia.
D’un tratto si rese conto che sarebbe stata una bella missione.
 
Jessica stava cercando di far addormentare la piccola, toccandole gli occhi, il naso, la bocca e le guance facendole un giochino quando suonò il telefono.
Andò in cucina con il cuore in gola, si allarmava sempre quando sentiva squillare il telefono a quell’ora: era l’orario in cui Rylee e Rion tornavano da scuola e aveva sempre paura che potesse succedere qualcosa. Stava per perdere un figlio ed era tragico, non voleva che anche al resto delle sue figlie accadesse qualcosa.
Alzò la cornetta con il cuore che le martellava in petto e disse d’un soffio: «Pronto?»
«Ciao, mamma.» si appoggiò al frigorifero, recuperando il fiato e sentendo che uno a uno gli arti, i muscoli e il cuore si calmavano.
«Rion, tutto bene?»
«Sì, tutto a posto.»
«E’ successo qualcosa?» chiese.
«No, mamma, stai bene?»
Si alzò di scatto e scosse la testa, non doveva mostrarsi vulnerabile a loro, soprattutto a Rion che era l’unica della famiglia a essere difficile da capire.
«Tutto a posto, tesoro.» e sorrise.
«E’ un problema se vado a mangiare da un mio compagno?»
Il cuore di Jessica ebbe un colpo e rimase di stucco, il suo cervello aveva smesso di funzionare e solamente quando sentì il telefono scivolarle dalla mano, recuperò l’uso della parola.
«Ma certo che no, Rion. Vai pure, divertiti e mi raccomando.»
«Okay, ciao.» e riattaccò.
Jessica depose il telefono nella sua custodia e ritornò dalla piccola, si sentiva calma e tranquilla, anche un po’ strana. Era la prima volta in diciotto anni che Rion le chiedeva se potesse andare a mangiare da un suo amico. D’un tratto si pentì di se stessa: avrebbe dovuto chiederle da chi andava, ma poi si ricompose subito. Sapeva per certo che la figlia non sarebbe mai andata da uno non raccomandabile, era una ragazza molto attenta alla gente e non si fidava di nessuno, molto probabilmente non si fidava nemmeno del ragazzo che la ospitava a pranzo.
Iniziò a respirare tranquillamente e continuò a fare il gioco con la piccola Renae sino a che non si addormentò.
Bussò piano alla porta e trattenendo il fiato vi entrò, guardò subito in alto, sapendo per certo che se non l’avesse fatto le lacrime avrebbero iniziato a scendere lungo le sue guance. Era un tormento vedere il proprio figlio sul calvario, vederlo tutti i giorni lì, su quel letto, con una bandana che gli circondava la testa e la pelle bianca come porcellana.
«Amore.» sussurrò.
Il ragazzo era appoggiato alla testiera del letto e reggeva tra le mani un libricino, da un po’ di mesi aveva iniziato a scrivere, sua madre non sapeva cosa scrivesse. Era solo a conoscenza che da quando aveva iniziato a scrivere, Rich aveva cominciato a rifiutare le cure categoricamente.
«Ehi, mamma.» disse con voce solare e chiuse il libro.
«Come va oggi?» domandò, gettando un’occhiata alla flebo vicino al letto, aveva paura che il ragazzo in un impeto d’ira si staccasse pure quella dal corpo. La flebo serviva solamente a dargli carboidrati e proteine, dato che Rich aveva iniziato a faticare perfino a mangiare.
«Meglio di ieri, ma peggio di una settimana fa.»
Jessica si impose di rimanere calma, significava che stava peggiorando a vista d’occhio e il capolinea era quasi vicino, scosse la testa, non voleva pensarci, non ora.
Era andata lì con l’intento di parlare al figlio della nuova cura che il dottore aveva loro proposto. I genitori di Rich sapevano di questa cura da un bel po’ di tempo, ma essendo nuova, costava anche molto e loro non aveva abbastanza soldi, ma da alcuni mesi, tre per l’esattezza, a fine mese si ritrovavano nella cassetta della posta cinquecento dollari.
Jessica la prima volta aveva pensato che fossero destinati alla persona sbagliata ed era perfino andata in banca per riconsegnarli, ma la banchiera era sicura che i soldi fossero per la sua famiglia.
La madre, non contenta della risposta, aveva suonato a tutte le case del quartiere, ma non aveva ottenuto risposta.
La cosa si ripeté per i due mesi successivi e sapeva per certo che sarebbe accaduto anche quel mese. Non aveva la minima idea da chi potessero arrivare quei soldi, né Jessica né suo marito avevano molti amici che si potessero permettere di lasciare loro cinquecento dollari ogni mese.
Accettava quei soldi con rimorso, ma ora avevano in mano quasi tutto denaro per provare la nuova cura.
«Mi fa piacere, Rich, c’è una cosa che devi sapere.» e si accomodò sul letto.
 
Rion era turbata, si sentiva calma, quando in circostanze normali avrebbe dovuto sentirsi agitata o per lo meno, fuori luogo.
Louis camminava tranquillamente, alcune volte saltellava e la ragazza si chiedeva cosa potesse renderlo così felice, aveva solamente accettato un suo invito, non le sembrava una cosa così strana. Era una cosa strana per il carattere di Rion, ma normalmente non era poi così assurdo.
La ragazza stava fumando quando Louis mormorò: «Ci sarà mia madre e mia sorella.»
Rion lo guardò e mormorò: «Hai una sorella?»
Il ragazzo annuì e senza rendersi conto sorrise, «Sì, si chiama Evelyn e ha sei anni.» la mora capì subito che Louis teneva più di ogni altra cosa a sua sorella e si accorse che parlando di lei, la rabbia negli occhi del ragazzo, sembrava dissolversi.
Si chiese come fosse possibile che una creatura di soli sei anni potesse procurare così tanto sollievo. Lei adorava la piccola Renae, le piaceva quando le si addormentava sul petto, ma non si sentiva così attaccata a lei.
Rion evitò di pensare a suo fratello Rich, che era l’unica persona in grado di tenerla salda sul pianeta.
«Tu hai fratelli o sorelle?»
Rion si irrigidì rendendosi conto che non sapeva cosa rispondere. Forse Louis sapeva che Rylee era sua sorella gemella oppure era semplicemente una sua amica, da quello che sapeva, Maxie usciva con Rylee.
Respirò e mormorò: «Ho due sorelle e un fratello.»
Notò il sopraciglio di Louis rizzarsi verso l’alto e sussurrò: «Siete in quattro?»
Rion annuì e chiese: «Perché?»
«Rylee mi ha detto che eravate solo in tre.»
Inutile dire che quello fu un colpo al cuore per Rion, prima di tutto perché il ragazzo aveva nominato sua sorella con spontaneità e quindi poteva immaginare che sapesse di lei e in secondo luogo fu quel ‘solo tre’. Rylee considerava Rich già morto? Perché mai? Rion sapeva che i due non avevano mai legato tanto, la malattia del fratello li aveva maggiormente distaccati, ma questo non significava nulla, Rich era pur sempre suo fratello. Faceva parte della famiglia.
Rion, distrutta, rispose deglutendo: «Questo perché mio fratello è grande e quindi non abita più con noi, forse mia sorella l’ha inteso così.»
«E’ la prima volta che parli di Rylee come tua sorella.» provocò Louis.
«Lo è.» rispose schietta Rion.
«Rion perché fai finta che Rylee non esiste?» domandò Louis.
Rion avrebbe voluto rispondergli che era perché stava bene da sola, fin da bambina, non aveva mai avuto l’esigenza di sentirsi amata oppure di avere degli amici con cui giocare; nell’ultimo periodo in più doveva per forza rendersi invisibile, se si fosse saputo che lei spacciava, sarebbe stata vista in cattiva luce e per di più, tutti avrebbero guardato male anche Rylee e la ragazza non voleva che si facesse del male alla sorella, lei che aveva bisogno di attenzioni più di chiunque altro. Rion avrebbe voluto rispondergli che andava bene così, che forse era quello che la vita le aveva riservato, non pretendeva nemmeno nulla. Avrebbe voluto dirgli che era sempre stato così, che aveva sempre evitato e respinto i contatti umani.
«Questi non sono cazzi tuoi.» rispose.
Notò che Louis non era impressionato dalla sua risposta, anzi, appariva perfino tranquillo.
Passarono cinque minuti in cui i due ragazzi camminarono tranquillamente, quando la voce del castano entrò nelle orecchie di Rion: «E’ vero, hai ragione. Forse però non hai capito che voglio conoscerti e che quindi, ho bisogno di sapere alcune cose di te.»
«E chi ti dice che io voglia conoscerti?»
«Tutti hanno bisogno di qualcuno, Rion.»
«E che ne sai se io non ho già qualcuno?»
«Non lo so, infatti, ma questa frase mi suona tanto come: ‘non ho nessuno e non voglio nessuno’.»
La ragazza rimase punta nel vivo da quella frase, Louis aveva ragione. Lei non aveva nessuno, era completamente sola, l’unica ancora che possedeva era suo fratello.
Rich.
Rich disteso sul letto.
Rich che rifiutava le cure.
Rich che fumava con Greta.
Rich che sarebbe morto.
Il suo cuore si restrinse in una morsa, si sentiva debole, stanca e incompresa. Voleva scomparire, tanto, anche se era da sola, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza.
«Louis, ti prego, basta parlare di questo.» la sua era quasi una supplica.
Il ragazzo si fermò e aspettò che la ragazza alzò gli occhi, lo fece e ci fu una scarica di adrenalina tra i due corpi. Rion si sentì meglio e smise di pensare a suo fratello in una tomba, il ragazzo sorrise e mormorò: «Pronta per le lasagne?»
Rion si tranquillizzò.
 
Non appena Rylee entrò in casa, capì che c’era qualcosa di strano.
Era troppo silenziosa, di solito, a quell’ora sua madre puliva le stoviglie o stava facendo addormentare Renae.
Tranquillamente andò in cucina, quasi sicura di trovare un biglietto di Jessica dove diceva che era uscita per qualche commissione, ma trovò la tavola ancora apparecchiata e nessun biglietto in vista.
Chiuse gli occhi e si tranquillizzò, poi acuì tutti i sensi e cercò di capire cosa c’era che non andava. Tutto sembrava a posto, ma un rumore al piano di sopra catturò la sua attenzione.
Si spostò in corridoio e poggiò una mano sul corrimano, ascoltò e sentì delle voci provenire dal piano superiore.
Senza fare rumore si incamminò sulle scale e andò alla camera di suo fratello, la cui porta era socchiusa.
Capì al volo che dentro c’erano Rich e sua madre.
«…Sapere.» era sua madre che stava parlando.
«Okay, dimmi.»
«Sono tre mesi che ci compaiono dei soldi nella cassetta della posta, circa cinquecento dollari a mese, l’ultimo mese erano per fino seicento dollari. È una grande somma.» mormorò.
Rylee rimase sorpresa, chi lasciava così tanti soldi nella cassetta della posta? Soprattutto, a quale scopo? In pochi sapevano che Rich era malato e sempre più pochi erano a conoscenza che il ragazzo aveva abbandonato le cure. La ragazza pensò che non erano poveri, ma nemmeno ricchi, riuscivano a permettersi quello che volevano, l’unica cosa che faticavano a pagare erano le spese per le cure del fratello.
Chiunque lasciasse quei soldi era per pagare le cure a Rich.
«Non avete capito chi ve li lascia?»
Rylee notò con una sorta di rimpianto che il ragazzo aveva usato quel ‘ve li lascia’ come se lui non appartenesse più a quella famiglia. Si sentì il cuore duro come pietra, non voleva che suo fratello li lasciasse, non così presto. Da un po’ di tempo la ragazza cercava di ragionare come se Rich non ci fosse più, non lo andava più a trovare e immaginava che la porta di camera sua fosse solamente un magazzino. Questo non significava che non teneva a suo fratello, anzi, alcune volte veniva sopraffatta dal dolore ed era in quelle volte che ricorreva alla marijuana.
«Sono andata in banca sicura che non fossero per noi, ma la signora che ci lavora mi ha detto che erano intestati a noi. Poi, ho anche provato a chiedere alle persone qui nel vicinato, ma nessuno ha confessato, anzi la maggior parte mi ha detto di tenermeli e farne buon uso.»
Rylee era sempre più accigliata, chi poteva essere? Le venne in mente Greta, ma la ragazza, vivendo solo con la madre, non si poteva di certo permettere di regalare cinquecento dollari al mese.
«Usali per pagare l’università a Rion e Rylee, il resto mettilo via per Renae.» disse suo fratello tranquillo, senza preamboli.
«Tesoro, i dottori hanno scoperto da un po’ una nuova cura. È già stata provata sull’uomo e ha avuto grandiosi risultati, quei soldi sono per te.»
«Mamma, io non voglio. Non avrebbe senso.»
«Perché dici così?» chiese sua madre con voce strozzata, Rylee si sentì ancora più male: odiava vedere sua madre in quello stato, odiava vederla cercare di accettare la malattia del fratello senza risultati. Odiava vederla perdere un figlio e lei non poteva fare nulla, perché sapeva benissimo che anche se c’erano lei, Rion e Renae, nessuno avrebbe potuto sostituire Rich e questo non perché il ragazzo fosse il più importante, ma perché un figlio non si può mai essere sostituito da nessuno.
«Perché anche se la cura avesse successo, io sono già morto dentro, io non ho più voglia di fare niente.»
«Rich non puoi dire così, hai solo ventun’anni.»
«E mi sento come se ne avessi novecento, mamma, il cancro ti mangia dentro. Mi sento vecchio, riesco solo ad alzarmi per andare a fumare e andare in bagno, alcune volte nemmeno quello.»
«Ma con questa cura potresti sentirti meglio, anzi, quasi sicuramente.»
«Sì, ma io non voglio sentirmi meglio. Io non voglio sentire e basta.»
«Rich, ti prego.»
Rylee sentì che sua madre stava piangendo e lei non sapeva che cosa fare, non sapeva se entrare in camera e provare a convincere suo fratello, non sapeva se andarsene e fare finta di niente.
«Non devi piangere, mamma. Sono quattro anni che combatto questa malattia, c’è chi è riuscito a sconfiggerla, c’è chi è rimasto forte e c’è chi non ce l’ha fatta. Io posso dirci di averci provato, perché c’ho provato e lo sai anche tu, avete speso tutti i soldi per cercare di curarmi, ma nessuna cura ha avuto successo.»  
«Ma questa forse…»
«Non lo metto in dubbio e so che forse ne varrebbe la pena di provare, ma non ce n’è bisogno davvero, io sono pronto. Vorrei che anche tu lo fossi.»
«Nessun genitore dovrebbe vedere il proprio figlio morire.»
«Lo so, mamma e questo mi dispiace, mi dispiace da morire, ma non riesco, non voglio che mi facciano più niente. Sono stanco di provare e provare.»
Jessica piangeva, Rylee era appoggiata alla parete, le lacrime scorrevano calde sugli occhi.
Forse suo fratello era un vigliacco o forse era troppo coraggioso perché lei lo capisse.
«Vieni, voglio abbracciarti.»
Rylee camminò piano verso il bagno, sembrava in trance, non capiva niente. Le parole di suo fratello le rimbombavano in testa. Sarebbe morto.
Rich morto.
Soffocò un gemito.
Solamente quando si guardò allo specchio e vide il mascara colato, la labbra gonfie e i capelli attaccati al viso, scoppiò in singhiozzi.
 
Louis entrò in casa e urlò: «Ciao!»
Sentì dei passi soffici e piccoli raggiungerlo correndo, un paio di braccina gli circondarono la vita.
«Ev!» salutò e si accovacciò per guardare la sorella negli occhi.
La piccola lo abbracciò e mormorò: «Lou!»
«Ho portato un’amica, spero che tu non abbia finito tutte le lasagne.»
Evelyn si spostò di lato e guardò Rion, la ragazza con sorpresa di Louis, si inginocchiò e porse una mano alla piccola, «Piacere, sono Rion.»
«Ciao, io sono Evelyn, ma tutti mi chiamano Ev o Eve. Tu non hai un soprannome?»
«Mi hanno sempre chiamata Rion, infondo è un nome corto e non credo che serva un soprannome, tu che dici?»
«Mi sa che hai ragione.» ammise la sorella.
Louis nel frattempo entrò in casa e salutò la madre con un bacio sulla guancia, poi l’aiutò a preparare la tavola.
Rion sbucò sulla porta della cucina con al fianco Evelyn, Louis notò sua madre sorriderle e pulirsi le mani nel grembiule, poi le si avvicinò e disse: «Piacere, sono Miranda.»
«Piacere, Rion.»
«Ti piacciono le lasagne, vero?»
«Certo.» Louis notò che era in imbarazzo, ma non sapeva cosa dire, anche lui, si rese conto, era leggermente agitato.
«Potrei andare al bagno?»
«Certamente! Ev, l’accompagni tu?»
La bambina scattò in piedi e prese Rion per la mano, portandola al piano superiore dove si trovava il gabinetto.
«Una nuova fiamma?» mormorò Miranda al figlio.
Louis sorrise e scosse la testa: «Solo un’amica.»
«Per ora.» esclamò la madre maliziosa.
«Mamma!»
«Che c’è? È una bella ragazza.»
«Sì, lo so, ma è impenetrabile.» ammise il castano. Si fidava di sua madre, lei lo ascoltava, al contrario di suo padre. Louis le aveva sempre raccontato tutto e la madre lo aveva ripagato con consigli saggi e sinceri, il ragazzo non avrebbe saputo chiedere per una madre migliore.
«Tutte le ragazze lo sono.»
I due si resero conto del doppio senso e guardandosi con un'occhiata obliqua, scoppiarono a ridere.
«Mamma, lei non ha amici non perché è sfigata, ma perché non li vuole avere.» disse Louis con gli angoli della bocca rivolti ancora all'insù.
Miranda rimase accigliata da quella affermazione, non se l’aspettava. Louis la guardò e comprese al volo quello che gli voleva dire sua madre: com’è possibile vivere un’adolescenza senza amici?
Il castano scosse le spalle e prese un piatto, sul quale la madre depositò una fetta di lasagna.
«Secondo me ha solo bisogno di essere ascoltata.»
«Questo non lo metto in dubbio, ma’. Peccato che lei non vuole farsi ascoltare.»
«Devi coglierla in un momento di debolezza, ricordati Lou, che alla fine tutti scoppiano.»
«Aspetterò.»
«Intanto, vedrai che farai colpo su di lei con le mie lasagne.» e la madre gli strizzò l’occhio.
Louis alzò gli occhi al cielo proprio mentre Rion e Evelyn entravano in cucina.
La piccola andò a sedersi al proprio posto, a capotavola, Louis si accomodò sul lato più lungo del tavolo e fece cenno a Rion di accomodarsi vicino a lui.
La ragazza acconsentì riluttante, Louis soffocò una risata: le piaceva il suo atteggiamento imbarazzato.
Quando assaggiò la prima forchettata, gli occhi di Rion si illuminarono e iniziarono a divorare le lasagne.
«Ti piacciono?» domandò Miranda disinvolta.
«Sono buonissime.» ammise Rion.
«Ho un’amica che è italiana, mi svela lei tutti i segreti culinari.»
«Adesso capisco.» mormorò Rion continuando a mangiare.
«Come avete fatto a conoscervi?»
«Siamo in classe assieme.» rispose Louis.
«Quindi tu sei più piccola.»
Rion alzò un sopraciglio e guardò prima Louis, poi sua madre e infine Evelyn, quest’ultima non degnava i grandi di uno sguardo, troppo concentrata sulla sua porzione.
«Ehm.» mormorò Louis e guardò Rion, i suoi occhi si riempirono di comprensione.
«Sì.»
«Sapevi che era stato bocciato?»
Rion annuì: «L’ho scoperto il primo giorno che è venuto a scuola, l’ho accompagnato in presidenza per i vari orari e per la classe e lì la preside gli ha detto che era stato bocciato.»
«Oh, primo giorno? Quindi hai assistito anche alla nota, vero?»
«Mamma.» mormorò il ragazzo a disagio.
«Sì.» il ragazzo notò un cipiglio divertito nella voce della ragazza.
Miranda guardò il figlio alzando entrambe le sopraciglia, Louis colse lo sguardo come un messaggio per affermare che aveva ragione. Rion non era di molte parole.
«Rion, tu sei mai stata New York?»
«Una volta ci hanno portato in gita.»
«Ed è davvero una città da favola?»
«Beh, oddio, non ci sono castelli ne niente. Ma sì, è davvero una città meravigliosa, è molto caotica, ma molto bella. Come la vedete in TV, la vedete anche dal vivo, è uguale, niente effetti speciali.»
Louis la guardò strabiliato: aveva fatto del sarcasmo.
«Sai dove vanno in gita i ragazzi dell’ultimo anno?» domandò Louis curioso.
Rion scosse la spalle: «Di solito i professori lasciano a noi la scelta, essendoci sette classi dell’ultimo anno, nessuna classe può scegliere posti diversi, quindi hanno deciso di fare tre gruppi. Il nostro gruppo ha optato o per la Germania oppure per l’Italia.»
«E quando si decide?»
«Nel consiglio di classe del mese di Febbraio, la nostra classe ha deciso per l’Italia. Spero che andremo lì, ma bisogna vedere cosa scelgono le altre due classi.»
«L’Italia è un posto meraviglioso, dove andreste di preciso?»
«Non lo so, ma è una gita di dieci giorni, quindi credo che gireremo un po’.»
«Però! Dieci giorni! Cavolo, a Boston il massimo che permettevano erano quattro giorni, ti direi che hai fatto bene a farti bocciare, Louis.»
Rion ridacchiò, Louis ammise: «Visto? Io non faccio niente per scontato.»
«Ecco, allora alza il culo e sparecchia, aspetta, Rion ne vuoi ancora un po’?»
«No, grazie, va benissimo così.» e si alzò a sua volta per dare una mano al castano.
«Louis, io dovrei andare.» mormorò quando furono vicini al lavandino.
«Di già?»
«Ecco, devo studiare.»
«Rimani qui, studiamo insieme.»
«Preferisco farlo da sola.»
Il castano strinse le labbra e mormorò schietto: «Hai passato tutta la vita a stare da sola, non sai cosa vuol dire studiare in due.»
Rion lo incendiò con lo sguardo, ma il castano non si fece intimidire, aveva capito che Rion non poteva fargli niente.
La guardò a lungo negli occhi, cadendo nel pozzo e poi risalendo e scoprendo tutte le emozioni annidiate lì dentro.
Solo quando ebbero finito di sparecchiare, Rion mormorò: «Ho lasciato a casa i libri.»

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Scusate, scusate, scusate.
E' una settimana precisa che non aggiorno e devo chiedervi scusa, ma è stata una giornata estenuante.
Vi devo dire il perché perché sì.

1) ATTENZIONE: se non volete vedere lo sclero, vi consiglio di passare al punto due, grazie. 
Allora. 
Giovedì sono andata a Imola al concerto degli AC/DC. 
Sono partita da casa alle 10 e sono tornata alle 6 di mattina del giorno dopo. E' stata una tortura, ma vi giuro rifarei tutto. 
Questo è stato IL concerto. RAGAZZI VI GIURO NON HO PAROLE. NO WORDS. SONO ANCORA SCONVOLTA. NON CI CREDO DI AVER VISTO DAL VIVO UNA BAND STORICA. E' STATO FANTASTICO, MICIDIALE. 
GENTE STRAFATTA OVUNQUE. OVUNQUE.
LA MUSICA. L'ADRENALINA. IL MALE AL PIEDI. 
L'ASSOLO DI ANGUS DI 6 CRISTOSANTO DI MINUTI.
E' STATO ASSURDO. ASSURDO. 
NON POTETE CAPIRE, MINCHIA. PAURA.
RIPORTATEMI INDIETROOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO

2) *fa due respiri profondi* 
Venerdì, quindi, ho dormito. Sabato sera sono uscita e domenica ho fatto la traversata del lago. 
Pensavo di pubblicare lunedì, MA, i miei amici hanno deciso di uscire tutto il giorno e allora daje!

3) Ieri sono andata al mare con la mia amica e mi sono dovuta alzare alle 5. Ho dormito tre ore. 

Quindi ero esaurita. 

E POI DICONO CHE LE VACANZE SONO RILASSANTI, TSE'.

HO DECISO: SE VI FATE SENTIRE IN TANTI IN QUESTO CAPITOLO, ANCHE VOI LETTRICI SILENZIOSE, SO CHE CI SIETE EEEEH, PUBBLICHERO' PRIMA. 
MA CIO' DIPENDE DA VOI. 


Passiamo al capitolo. 
C'è una piccola svolta.
Louis e Rion sono di nuovo insieme, ma non sembra essere cambiato molto, o no? (NEL PROSSIMO CAPITOLO CI SARA' QUALCOSINAAAA GNAO)

Ma c'è una piccola svolta per Rich e sua mamma. 
E' stato critico scriverlo, perché come vi ho già detto non è facile. Cosa ne pensate? Siate sinceri, ho bisogno di voi.

Siate sinceri, vi chiedo solo questo. 

Grazie mille a tutti!

A presto (spero),
Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX ***


Link WattPad: Mission WattPad
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
IX

La musica si fermò, Greta corrugò le sopracciglia e prese il cellulare, allibita pensando che si fosse già scaricato, ma al posto di trovare lo schermo scuro notò una chiamata in corso.
«Pronto?» disse dopo essersi tolta gli auricolari.
«Greta.» la voce di Rich suonava fredda e distante, la ragazza pensò subito che fosse successo qualcosa e iniziò a sperare che il ragazzo avesse deciso di iniziare un’altra cura.
«Rich tutto a posto?» represse un sorriso, in teoria avrebbe dovuto appoggiare il ragazzo, ma alla sola idea che Rich avesse cambiato idea, si sentiva rinvigorita.
«Assolutamente no. Come hai potuto?»
La ragazza si alzò in piedi e iniziò a camminare per la stanza, confusa domandò: «Scusami, ma non so cosa tu voglia dire.»
«Sai di che parlo.» la sua voce era fredda.
Greta iniziò a preoccuparsi e la sua mente si offuscò, cercò di capire a cosa si riferisse il ragazzo, ma non le venne in mente nulla. L’unica cosa che aveva fatto era quella di innamorarsi di lui e non riuscire a trovare qualcun altro mentre Rich stava morendo.
Era più forte di lei, non riusciva ad affezionarsi ad altri e sapeva che se l’avesse fatto, si sarebbe sentita in colpa.
Non poteva innamorarsi di un'altra persona, quando lui stava morendo, era un pensiero egoista.
«No, invece.» mormorò.
«Un mese fa mi hai detto che avevi in casa alcuni soldi e ti sarebbe piaciuto usarli per far del bene.» parlava come se la stesse accusando di qualcosa, Greta era ancora più confusa.
«Sì, è vero, ma…»
«Non fai del bene in questo modo, sappilo. Come hai potuto? Come hai fatto a essere così egoista? Mia madre aveva appena iniziato ad accettare il fatto che volessi morire e poi, poi tu arrivi con quei cazzo di soldi.»
Greta si sentì punta nel vivo da quelle parole, anche se non capiva da dove arrivavano. Era vero quello che diceva Rich, una volta aveva pensato di donarli alla sua famiglia per le cure del ragazzo, ma questo era prima che Rich rifiutasse le cure.
«Ripeto, non so di cosa stai parlando.»
«Smettila di mentire. So che sei stata tu. Sai perché?» domandò calma.
Greta sapeva che quando Rich parlava in modo così tranquillo e calmo era perché stava andando su tutte le furie, non era da lui alzare la voce.
«No.» mormorò sconfitta, doveva almeno capire e forse facendolo parlare avrebbe ottenuto delle risposte.
«Perché so che tu, oltre a mia madre, sei l’unica che non accetta che io muoia.»
Greta respirò profondamente, la cosa era difficile, un po’ per le parole del ragazzo e un po’ per la situazione in cui si era ritrovata.
«Rich, è vero. Hai ragione. Non accetto il fatto che tu ti arrenda così facilmente, non capisco come ti senta o forse non voglio nemmeno capirlo, ma non riesco a sopportare che un giorno non ci sarai più. Su questo hai ragione, ma sbagli dicendo che ho dato i miei soldi alla tua famiglia.»
Nessuna risposta venne dall’altro capo del telefono, poi sentì una specie di risata, «Mi congratulo con te.»
«Cosa?» domandò stupita, forse l’aveva convinto.
«Hai capito. Mi congratulo con te, perché non ho mai visto una persona fingere così bene, davvero. Mi portavi le sigarette e al contempo davi i soldi alla mia famiglia, davvero complimenti.»
«Rich, non capisci, io…» la voce di Greta era scomparsa.
«Fammi un ultimo favore, okay? Cancellami dalla tua vita, almeno tu che puoi provare a farlo.» e attaccò.
Greta rimase lì impalata con il telefono in mano, non riusciva nemmeno a piangere o pensare, o fare qualsiasi altra azione che non fosse il respirare.
Non comprendeva nemmeno come si sentiva, forse si sentiva vuota oppure niente.
Niente molto probabilmente, aveva perso tutto ciò che riusciva a darle un minimo di conforto.
Non solo Rich l’aveva rifiutata in amore, l’aveva rifiutata anche come amica ed era questo a far più male. Perdere un amico era molto peggiore di perdere un ragazzo, ma perderli entrambi era una devastazione.
Ora non sapeva che cosa fare.
Chiuse la telefonata e appoggiò il telefono sulla scrivana, respirando profondamente.
In quel momento la rabbia montò su di lei, non perché era stata rifiutata, ma perché non l’aveva ascoltata e soprattutto perché non le aveva creduto. Lei aveva fatto di tutto, tutto, per lui e lui come la ripagava? Dicendole di cancellarlo.
Si sentiva così arrabbiata e frustrata che pensò che se si fosse messa d’impegno sarebbe riuscita a farlo. Ovviamente non possedeva poteri magici per fare un incantesimo, si mise quasi a ridere quando le venne in mente che se fosse stata Hermione Granger in Harry Potter avrebbe saputo che incantesimo fare.
Lei, però, non era una maga, ma una semplice ventunenne.
Iniziò a partire dal principio, per fortuna non aveva foto in camera e da nessuna altra parte. Iniziò col cancellare il suo contatto dal cellulare e alcuni messaggi, si accorse che lo fece senza rimorso.
Poi, prese i soldi da sotto il letto e li appoggiò sulla scrivania, erano circa duemila dollari: decise che alcuni li avrebbe regalati a un’associazione di beneficenza mentre gli altri li avrebbe tenuti per sé.
Infine chiamò una sua amica e decise che sarebbe andata in discoteca quella sera e avrebbe bevuto fino a star male.
Fece tutto questo senza un briciolo di rimorso, si impose che non avrebbe mai più provato senso di colpa.
Lui le aveva chiesto un ultimo favore e lei decise di accontentarlo.  
 
Rion mise piede nella camera di Louis provando un misto di imbarazzo e curiosità, non appena il castano chiuse la porta, sentì un puzzo di fumo invaderle le narici misto a un profumo di fresco, l’odore di Louis.
«Fumi in camera?» domandò.
«Alcune volte.» ammise il castano e si buttò sul letto.
La ragazza si guardò in giro: c’erano alcuni scatoloni posti sotto la finestra, dalla quale entrava un po’ di luce. I muri erano bianchi con dei poster di rock band degli anni ’80, Rion si sorprese che alcune le ascoltasse lei stessa, non avrebbe mai definito Louis un tipo che sentisse quel genere di musica.
Fece scorrere lo sguardo sulle mensole dove erano disposti alcuni libri e peluche, poi l’occhio si posò sull’armadio aperto, poté notare il disordine del ragazzo. La cosa che la sorprese di più, però, furono gli spartiti sulla scrivania. Louis componeva brani e suonava il pianoforte, si guardò in giro ma non lo vide. Forse era posto in un’altra ala della casa.
«Suoni il piano?» domandò curiosa.
«Sì, ma non è ancora arrivato per via del trasloco.»
Rion annuì e d’un tratto le venne in mente quella sera in cui il ragazzo le aveva chiesto una sigaretta, mentre ritornava dal condominio abbandonato. Louis l’aveva riconosciuta il giorno seguente a scuola, ma Rion aveva finto che non sapesse di chi stesse parlando. Da quel momento Louis non aveva più fatto domande al riguardo, la cosa sorprese la ragazza dato che quel giorno l’aveva provocata con domande riguardo la sua famiglia e il suo carattere, evidentemente Louis si era dimenticato dell’accaduto. Tanto meglio.
Infine si voltò sul ragazzo disteso sul letto, teneva le braccia incrociate dietro la testa e la fissava con sguardo curioso, Rion si sentì in soggezione.
Era abituata a non essere guardata in quel modo da nessuno, ma ora che Louis la osservava oltre a sentirsi nuda sotto il suo sguardo ghiacciato si sentiva anche intimorita, lui sapeva troppe cose riguardo a lei.
Rion notò le sue labbra strette rivolte a un sorriso poco accennato, notò che il suo corpo era rilassato e non rigido come se dovesse scappare da un momento all’altro.
Si accorse che aveva tante cose da chiedergli, ma non osava perché sapeva che a domanda seguiva un’altra domanda e lei non doveva rivelare nulla di se stessa.
«Ti manca suonare?» chiese e fissò la sedia vicino alla scrivania.
«Se vuoi puoi sederti, puoi venire anche qui sul letto, non ti mordo mica.» e sorrise, Rion optò per la sedia anche se qualcosa dentro di lei le diceva di sedersi sul letto, «Comunque, sì, mi manca. Prima ero abituato a suonare quasi tutti i giorni.»
«Cosa suoni?» domandò, non sapeva perché era così incuriosita, ma scoprì che le piaceva sapere qualcosa di altri.
«Di solito rivisito i brani rock degli anni ’80, ma alcune volte suono anche musica classica.»
«Compositore preferito?»
«Debussy ed Einaudi.» rispose il ragazzo di getto, «Quante domande. Sicura di stare bene?»
Lo stomaco di Rion ebbe una contrazione e sentì che il suo viso si contorceva fino a ottenere un’espressione impenetrabile.
«Cosa dovevi fare oggi pomeriggio?» domandò tranquillo.
Rion si irrigidì, quel pomeriggio sarebbe dovuta andare da Bon per smistare la roba e infine quella sera sarebbe uscita a spacciare, era un venerdì, avrebbe guadagnato quasi come il sabato sera.
Deglutì e mormorò: «Studiare.»
Louis si alzò di scatto e disse, «Okay, c’è solo grammatica per domani e io l’ho già fatta, puoi copiarla se vuoi.»
Rion lo guardò sbalordita, non solo si aspettava che il ragazzo si portasse avanti con i compiti, ma per di più le aveva proposto di copiarli.
«Beh, se per te non è un problema.»
«Assolutamente no, ti devo un favore, giusto?»
 
Maxie guardò i due amici andare tranquillamente sugli skateboard, chiedendosi come fosse possibile che gli piacesse quella roba.
Soffiò fuori il fumo della canna tranquillamente, lasciandosi cullare dall’effetto della droga. Ogni volta che fumava i suoi demoni facevano il loro ritorno, ma c’erano alcune volte in cui riusciva a pensare lucidamente.
Si disse che stava diventando troppo dipendente dalla droga e si chiese se un giorno non gli fosse stata abbastanza, se un giorno avesse deciso di provare qualche altra sostanza stupefacente. Si ritrovò a pensare a quegli scheletri di persone che vedeva ogni qualvolta andava al giro per comprare la roba. Aveva paura di diventare come loro, di diventare così dipendente da vivere solo per quello.
Vide i suoi sogni sgretolarsi uno a uno davanti a sè e lui si sentiva così impotente che non sapeva cosa fare, aspirò di nuovo, l’erba gli bruciò nei polmoni e la espirò con rabbia.
Non riusciva a non fumare, era come se fosse diventato dipendente. L’erba gli dava sollievo e malinconia allo stesso tempo, non lo faceva pensare ad altri ma solamente a se stesso.
Peccato che riusciva a vedere se stesso come un morto ai margini della strada, la pelle bianca, alcune escoriazioni sul viso e le pupille dilatate al massimo.
«Hai gli occhi rossissimi.» mormorò Niko posando lo skateboard davanti a loro.
Maxie scoppiò a ridere e diede una pacca all’amico, ogni volta che sentiva un superlativo si metteva a ridere.
«Cazzo, se sei sotto.» esclamò il ragazzo e iniziò a togliersi le protezioni sulle braccia e sulle ginocchia.
Erano in un parco che al suo interno aveva una piccola pista per andare sia in skateboard sia in mountain bike, Maxie era proprio seduto su una delle rientranze dove passavano con gli skate, lo zaino di scuola posizionato vicino a lui.
«Cosa si fa domani sera?» domandò Niko infilando nella borsa i parastinchi.
«Qualche idea?» domandò Maxie, aspirando.
«Stesso bar e stessa canna?» propose il ragazzo.
«Tanto ormai, è sempre quello. Lo dirò a Louis.»
«Ti sta simpatico?» domandò circospetto.
«Sì, perché?»
«Non ti sembra che se la tiri un po’? Il primo giorno ci ha dato dei coglioni e non ha battuto ciglio quando Pettifer gli ha messo la nota. Poi, continua a provarci con Rion, ma chi si crede di essere?»
Maxie si sentì leggermente perplesso, non aveva mai creduto Louis un tipo egocentrico, forse perché sapeva molte più cose di lui rispetto a Niko.
«Sei geloso?»
«Di lui? Neanche un po’.»
«E allora che cazzo di problemi ti fai?»
«Non credi che ti stia usando?»
Maxie scoppiò a ridere, Niko lo guardò serio e il biondo cercò di non ridergli in faccia. Dentro di lui voleva smettere di ridere, ma l’erba lo faceva sembrare un emerito cretino.
«Non hai notato che da quando ci prova con Rion, non ti caga più di striscio?»
Maxie continuò a ridere, Niko non capiva niente.
«Non ci prova con Rion.»
«Maxie, sappiamo tutte e due che Rion ha un bel culo, ma nessuno di noi lo guarda come glielo guarda Louis.»
Maxie scoppiò a ridere e annuì, in effetti Rion aveva un bel sedere, si soffermava sul suo didietro ogni volta che veniva chiamata alla lavagna, ma sapeva che Louis non ci stava provando con lei. Rylee gli aveva chiesto di cercare di fare parlare Rion, perché la sorella era in pensiero per lei, ma questo Niko non lo sapeva e faceva pregiudizi infondati.
Nonostante questo, Maxie si ritrovò a pensare che il ragazzo avesse ragione: Louis non lo guardava più di tanto da quando aveva iniziato a prestare attenzioni alla ragazza.
Durante l’intervallo cercava sempre di farla parlare, si era fermato una volta con lei in biblioteca e oggi li aveva visti andare a casa insieme. Inoltre, ogni mattina si fermava a fumare in compagnia di Rylee.
Il sorriso gli scomparse dal volto, ma non si sentiva ugualmente usato. Sapeva per certo che era una cosa normale quando si metteva in mezzo una ragazza. In più, non conosceva così bene Louis per giudicare la situazione su due piedi, il ragazzo era appena arrivato, doveva ancora ambientarsi.
Si domandò se quelle erano tutte scuse. Si domandò se Niko non avesse ragione.
In tal caso avrebbe dovuto allontanarsi dal ragazzo e sapeva per certo che non ci avrebbe messo molto, ogni volta che Maxie decideva di abbandonare qualcuno, lo faceva definitivamente. Non si era mai domandato se avesse sofferto oppure se si fosse pentito della sua azione, era tutto calcolato. Come un’equazione.
Era come se Maxie non avesse mai avuto un cuore.
Il ragazzo scoppiò a ridere davanti e quei pensieri, «Cristo.» sussurrò e poi guardò l’amico, «Cristo, Niko. Non capisci proprio niente, tu.» e si alzò.
Si allontanò dalla pista da skateboard e una volta al cancello, si voltò e urlò rivolto all’amico: «Cristo!» e scoppiò a ridere.
Si sentiva un matto e forse lo era.
 
Rylee uscì dal bagno come se niente fosse successo, per non far capire che aveva pianto, aveva optato per farsi una doccia.
I capelli odoravano di fresco e lei si sentiva rinata, anche se aveva un peso sul cuore.
«Ciao, mamma.» salutò quando entrò in cucina.
«Tesoro.» sua madre corse ad abbracciarla, d’un tratto il muro che la ragazza aveva sollevato negli ultimi dieci minuti sembrò cedere e crollare, e sentì tutto il dolore della madre passare nei suoi arti e distruggerla.
Jessica si staccò e mormorò: «Scusami, vuoi qualcosa da mangiare?»
«Sì, grazie.» rispose con voce strozzata, «Dov’è Rion?»
La domanda fece comparire un sorriso sul volto della madre e Rylee venne pervasa da una sensazione di curiosità, in effetti era strano che sua sorella non fosse ancora rientrata in casa.
«E’ a casa di un compagno.»
«Come?» Rylee era convinta di non aver capito bene.
«E’ a casa di un suo compagno, tesoro.»
Rylee si sentì attonita e sorpresa, sapeva benissimo chi era il compagno a cui si riferiva la madre, non poteva essere nessun’altro. Louis stava facendo un vero e proprio miracolo, erano anni che Rion non metteva piede in casa d’altri.
Mangiò il pranzo tranquillamente, parlando alla mamma del progetto che avevano deciso di fare durante l’assemblea di istituto.
Le spiegò che tutti gli studenti erano stanchi del grigio della loro scuola, quindi la ragazza propose di pitturare le pareti facendo una giornata della creatività. A dire il vero, l’idea della giornata della creatività, l’aveva proposta la preside quando la ragazza era andata a parlarle per chiederle il permesso di pitturare la scuola.
Inutile dire che la preside fu entusiasta e assicurò alla ragazza che ci avrebbe pensato lei a trovare la vernice e tutto il necessario, inoltre disse che la giornata della creatività si sarebbe tenuta il prima possibile.
Rylee diede una mano alla mamma e poi andò in soggiorno, dove prese la piccola Renae sulle ginocchia iniziandola a far giocare.
La piccola era la persona a cui si sentiva più attaccata la ragazza e un po’ la invidiava, lei non capiva in che situazione si trovava la sua famiglia, si chiese se qualche volta Rich guardasse la piccola.
Alcune volte voleva tornare indietro a quando era piccola, altre a quando stava insieme a Kevin e altre volte ancora desiderava proprio non essere lì.
Sospirò e diede un bacio sulla fronte di Renae: «Spero che non ti capiti mai una situazione del genere, piccola.»  

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Eccomi qui, prima di iniziare vi invito a guardare l'avviso che ho pubblicato ieri: 
AVVISO faccio solo dei chiarimenti, potete anche non guardarlo ehehe. 

Allora! In questo capitolo non abbiamo molto, MA VI GIURO CHE DAL PROSSIMO INIZIERA' LA CATASTROFE DANDANDANDAAAAAAAAAAAN
Sì, lo so che anche nello scorso angolo autore vi avevo detto che lo stesso succedeva in questo, ma, mi ero sbagliata con i capitoli e *ride* sono scema, sì. 

Allora!

PRIMA PARTE:
Rich chiude i ponti con Greta. E Greta si trasforma. OCCHI SPALANCATI RAGASSSSUOLI. 
STAY TUNED. 

SECONDA PARTE: 
Doppia dose di miele tra Rion e Louis------> attenzione alla parte degli spartiti, okay. 

TERZA PARTE: 
MAXIE. 
Vi era mancato? EHEHEHEH. 
Cosa ve ne pare del suo monologo? E quello che Niko gli ha detto riguardo Louis? APRITE LE MENTIIIIIIII.

QUARTA PARTE: 
Jessica e Rylee, okay, nello scorso capitolo ho lasciato Rylee a metà e mi sembrava doveroso concludere. 
Cosa ve ne pare? Attenzione alla parte della giornata della creatività. 

VOGLIO RINGRAZIARE TUTTI QUELLI CHE SEGUONO LA STORIA. GRAZIE MILLE. CHI RECENSISCE, LE LETTRICI SILENZIOSE (UN VOSTRO PARERE MI FAREBBE UN IMMENSO PIACERE) E TUTTI, CHI METTE NELLE SEGUITE, PREFERITE, ETC. GRAZIE, GRAZIE DI CUORE. SIETE DAVVERO IMPORTANTI, ANCHE SE NON VE LO DICO MAI. 

LA STORIA E' VOSTRA, VOI LA FATE!

A Mercoledì prossimo!

A presto,

Giada.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X ***


Link WattPad: Mission WattPad
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
X
 
Louis allacciò la cerniera della giacca fino alla gola, faceva particolarmente freddo quel sabato sera. Era una temperatura strana, dato che tutto il giorno era stato bello, ma nonostante ciò era pur sempre fine gennaio ed era normale che facesse freddo.
Doveva trovarsi con gli altri al bar dove lavorava il padre di Maxie, ma prima avevo il compito di fare una commissione. Il suo compagno di banco non aveva soldi a sufficienza per comprare la roba, quindi, dato che tutto il gruppo esigeva fumare, aveva incaricato Louis di andarla a prendere.
Gli aveva spiegato per filo e per segno, come solo uno che adorava la matematica e quindi parlava con chiarezza e termini strani, sapeva fare. Gli disse di raggiungere la piazza e poi prendere uno sbocco che l’avrebbe portato su una delle strade dove c’erano diverse villette, successivamente doveva svoltare a destra, passare un parco e infine a sinistra, qui doveva esserci un condominio abbandonato: il giro.
Quando il castano mise piede nello spiazzo, un brivido gli passò per la schiena e si sentì irrequieto, sembrava che milioni di occhi lo spiassero nell’ombra, per poi attaccare.
Il rumore dei suoi piedi sull’asfalto gli sembrava assordante, ma non poteva fare nulla per placarlo.
Camminò piano, terrificato da quello che sarebbe potuto succedere, Maxie non l’aveva avvertito di nulla, gli aveva dato solamente le indicazioni.
Louis pensò che l’amico non gli avesse menzionato il disagio che si provava in quel posto, solamente perché sapeva che Louis non ci sarebbe andato.
Il castano si accorse che gli occhi che sentiva puntati addosso erano veri, appartenevano a persone reali. Una sensazione di disgusto montò nel suo corpo e cacciò la bile giù per la bocca, non erano persone quelle, erano morti, scheletri che camminavano. Sembrava che all’improvviso tutti i film horror e fantasy che aveva visto, si fossero tramutati in realtà. Parevano zombi, lì al ciglio della strada, che lo fissavano con occhi spenti, ma al contempo pieni di gelosia.
I drogati lo vedevano e non lo vedevano al tempo stesso, Louis si agitò, decise che non avrebbe mai più messo piede lì dentro, anche a costo di non fumare più.
Un lampione lanciava una luce fioca sul piccolo piazzale e superati i drogati, posti al ciglio della strada, vide una quindicina di spacciatori, ognuno posto sotto i lampioni, in bella vista, tranne uno.
Maxie gli aveva spiegato che la sua spacciatrice si trovava nell’ombra, in uno stretto corridoio che divideva l’abitacolo, la ragazza era sempre vestita di nero, teneva un cappuccio sulla testa, i capelli dentro di esso e per via del gioco d’ombre non si riusciva a vederle nemmeno le gambe.
Louis si guardò attorno, cercando di placare l’ansia che lo assaliva e d’un tratto vide un ragazzo che si allontanava da un luogo posto in ombra, pensò che si dovesse trovare lì.
Si avvicinò irrequieto, gli occhi degli scheletri puntati sulla sua schiena, e raggiunse la postazione della ragazza.
Il cuore gli iniziò a battere all’impazzata, non per la paura o perché fosse successo qualcosa, ma perché quella ragazza era la stessa che gli aveva offerto una sigaretta la sera che si era trasferito, la ragazza che aveva confuso con Rion.
Scrutò la ragazza con occhi attenti, non riusciva a vedere pressoché niente, a quanto pare non si voleva far riconoscere.
«Ci siamo già visti.» iniziò.
Notò le spalle di lei, nell’ombra, irrigidirsi, ma non sembrò certo del movimento per via del buio.
«Ma immagino che non ti ricordi di me, chissà quanta gente vedrai al giorno.»
Si aspettò una risposta, ma la ragazza rimase in silenzio, in attesa.
Louis si ricordò che non aveva parlato nemmeno la sera che gli aveva offerto una sigaretta.
«Okay, mezzo grammo di marijuana.»
La ragazza gli porse la mano aperta, Louis la guardò, non che non sapesse cosa dovesse fare, ma quella mano era così candida e piccola, una mano innocente. Si domandò cosa portasse la ragazza a spacciare, il motivo per cui lo facesse.
Prese i soldi dalla tasca e glieli posò sul palmo, sfiorandolo appena. Un brivido gli passò per la schiena e serrò la mascella.
La ragazza li contò e dopo averli messi in tasca, si tirò giù lo zaino dalla schiena e una volta aperta la cerniera, estrasse una bustina al cui interno vi era una specie di pallina di un verde giallognolo, secca.
La passò a Louis e nel farlo, il ragazzo si accorse di un piccolo taglio sul dito di lei.
Impallidì.
 
Greta si guardò allo specchio: un vestitino nero le aderiva al corpo, fasciandone le forme, le gambe erano coperte da delle parigine nere, che le arrivavano fino alle cosce e ai piedi aveva un paio di tacchi neri. Il trucco era pesante, i capelli sciolti e boccolosi, una poschette nella mano destra.
Salutò sua madre e salì in macchina dove la aspettava Jennifer.
L’amica, vestita con un paio di pantaloncini e una maglia larga, la guardò con un sopraciglio alzato e domandò: «Da dove sbuca quel vestito?»
Greta sorrise e ammiccò: «L’ho nell’armadio da quando avevo sedici anni, credo che sia la prima volta che lo indosso.» in effetti, le andava un po’ piccolo sui fianchi, ma mentre si preparava scoprì che non le importava più di tanto.
Quella sera voleva farsi desiderare, non voleva avere né pudore né dignità, non le importava di essere quella ragazza acqua e sapone che studiava e amava scrivere, voleva semplicemente essere ciò che non aveva mai avuto il coraggio di essere.
Si era sempre chiesta come facessero le ragazze di sedici anni a farsi ragazzi a caso in discoteca, come potessero preferire la musica assordante e il luogo ovattato a un buon libro o a una giornata passata in casa. Non si era mai sentita dentro la sua generazione, alcune volte si era perfino creduta un’aliena, il primo ragazzo l’aveva avuto a diciotto anni, poi aveva iniziato ad amare Rich e da lì, tutto era cambiato.
Non aveva più fumato, non era più andata in discoteca e aveva ridotto i suoi rapporti sociali al minimo, nonostante quella vita, si era sentita in pace con se stessa, non se ne faceva un male.
Quella sera, però, sarebbe stata la parte più brutta di sé.
«Come mai vuoi andare in discoteca?» domandò Jessica inoltrandosi nella superstrada.
Greta scosse le spalle, non si fidava abbastanza della ragazza da raccontarle cos’era successo nelle ultime ventiquattro ore e così disse: «Non lo so, è un po’ che non ci andavo.»
«Non ti sono mai piaciute, Greta.»
Il suo tono suonava come un’accusa, «Sì, lo so, ma ho bisogno di staccare un po’.»
«Berrai?»
«Sì.» e la guardò, «Non ti preoccupare di venirmi a cercare a fine serata. Se sarò alla macchina alle tre, allora mi riaccompagnerai a casa, altrimenti, non preoccuparti.»
«Come non preoccuparti? Sei pazza?»
«So quello che faccio.» disse freddamente e scese dalla macchina, la musica del locale si sentiva da fuori e un brivido di piacere scese per la schiena della ragazza, non vedeva l’ora di entrare, fremeva di fare qualcosa che non aveva mai fatto.
«Pronta?» domandò Jessica passandole un cartoncino con delle scritte alle quali Greta non prestò attenzione, evidentemente era la prevendita.
«Sì, andiamo.»
Entrarono e la musica entrò nelle loro orecchie, nella testa, nel corpo. Greta sorrise impercettibilmente e dopo aver consegnato il foglietto alla ragazza della sicurezza, entrò nella discoteca.
Constatò che il locale era migliorato rispetto all’ultima volta che ci era stata, circa cinque anni prima, i divanetti erano bianchi e lucidi, senza spaccature come un tempo. I tavolini, al posto di essere quadrati, erano rotondi e sulla maggior parte di essi, erano posati diversi bicchieri.
Alcool.
Se la sua memoria era giusta, il bar si trovava al di là della pista da ballo, quindi Greta ci si infilò e senza prestare molta attenzione alle mani che la sfioravo, passò la pista. Aveva già perso di vista Jessica, ma non si preoccupò molto. La ragazza era lì per il suo stesso motivo, quindi tanto valeva andare avanti per la sua strada.
Arrivò al bancone e il barista la guardò, la ragazza posò una banconota sul tavolo e urlò: «Un cubalibre, Vodka liscia e uno shot di Jack Daniels.»
Il barista le sorrise e iniziò a prepararle il bicchiere con la Vodka, quando glielo porse, chiese: «Tutti per te, bellezza?»
Greta sorrise smorfiosa e disse: «Naturalmente.» e iniziò a sorseggiare piano e lentamente la Vodka, le scese giù per la gola e la infiammò da capo a piedi. Tossicchiò a bocca chiusa, sentendo gli occhi divenire umidi, e represse il desiderio di appoggiare il bicchiere sul tavolo e andarsene.
Era andata lì per uno scopo.
Finì la Vodka e buttò giù di un sol sorso lo shot di Jack Daniels, successivamente, sorseggiò piano il cubalibre.
Si sentiva la testa pesante, ma il resto del corpo leggero come una piuma. Vedeva appannato, ma non gliene importava niente, la musica le rimbombava nella testa e pensò che era per quel motivo che la sua testa fosse un piombo.
Salutò il barista con un sorriso sornione e si avviò verso la pista, stranamente non barcollava.
 
Maxie era in pensiero per Louis, ci stava mettendo più del dovuto, anche se fosse partito in ritardo da casa.
Camminava avanti e indietro per il marciapiede, irrequieto, temeva che qualche drogato avesse potuto rincorrerlo e Louis, non sapendo che fare, fosse entrato nel panico.
Una figura apparve all’angolo della strada e solamente quando passò la luce di un lampione, riconobbe l’andatura del castano. Maxie aveva notato che Louis era sempre rigido, come se dovesse scappar via da un momento all’altro.
Arrivò e rivolse un sorriso tirato al gruppo.
Maxie vide il suo viso cereo e preoccupato chiese: «Tutto bene?»
«Sì, mette i brividi quel posto.»
Il biondo di tranquillizzò e sorrise, ricordandosi il senso di timore la prima volta che aveva messo piede al giro, ora, ci era quasi abituato e non ci faceva nemmeno caso. L’unica cosa a cui non si sarebbe mai abituato erano gli sguardi dei drogati, ogni volta cercava di far finta di niente, ma era difficile alcune volte.
«Lo so, vieni, andiamo.» divise il mezzo grammo in due parti, una la tenne per sé e l’altra la lasciò ad Andrew.
Maxie non voleva che suo padre lo vedesse fumare, quindi, in compagnia di Louis si allontanò dal bar e si accomodò su una panchina e mise la roba nel grinder, lo girò un paio di volte. Successivamente afferrò una cartina lunga e prese una sigaretta da Louis, leccò la cartina in modo tale da bagnarla e con un dito la tolse, ne tirò fuori metà tabacco e lo mise nel grinder. Travasò l’erba e il tabacco sul palmo della mano e li mischiò con l’indice e il pollice, riafferrò la cartina e li depositò dentro, Louis gli porse il filtro e poi iniziò a rollare.
«Hai fatto fatica a trovare il posto?» domandò, poi leccò la cartina e chiuse la canna.
«No, solo che con tutti quegli occhi che mi fissavano, mi sono cagato addosso. Non avrei mai creduto che ci fossero così tanti drogati qui.»
«Negli anni ’80 questo era uno dei quartieri in cui girava più eroina e altre sostanze in tutta New York, credo che il giro non si sia mai perso del tutto.»
«Le autorità non fanno niente.»
Maxie scosse il capo e cercò l’accendino nella giacca: «Per i drogati no, per quanto riguarda il giro, sanno che è lì dove vendono la roba e fanno anche delle irruzioni, alcune volte prendono anche qualche spacciatore. Lo sbattono in prigione per un mese e poi lo rilasciano.»
«Che menefreghismo.» esclamò sorpreso il ragazzo, Maxie lo fissò e mentre aspirava il primo fiato, pensò che a Boston, dove abitava prima lui, non ci fosse tutta quella droga.
«Secondo me, non sono in grado di controllarla. Hai visto quanti spacciatori c’erano? Di solito sono circa quindici e il quartiere è abbastanza grande da far sì che nessuno sappia chi siano.»
Maxie passò la canna a Louis, il quale aspirò e mormorò: «A proposito di spacciatori, hai idea di chi sia la tua?»
«E’ sempre nell’ombra, non si vede un cazzo.» più di una volta Maxie aveva desiderato scoprire chi ci fosse sotto quel cappuccio nero, ma ogni volta diceva che non avrebbe avuto senso: se la ragazza voleva tenersi coperta, c’era un motivo e lui non era nessuno per scoprire chi gli vendesse la roba.
«Non hai mai notato che assomiglia un po’ a Rion?» chiese Louis.
Il fumo gli finì in gola troppo velocemente, sentì un fuoco nelle corde vocali e tossicchiò, poi rise, la gola ancora in fiamme: «Rion?»
«Sì, ha una carnagione candida e la ragazza aveva una pelle bianca.»
Maxie scosse la stessa e sussurrò: «Non è che stai diventando un po’ troppo ossessionato da lei? Voglio dire, tu ti vedi Rion spacciare? Non ha amici, Louis, e non credo proprio che si procuri eroina dal buco del cesso oppure che coltivi piante di marijuana in casa. Secondo me, ti stai ossessionando troppo.»
Maxie aveva pensato all’ossessione di Louis durante il tragitto verso casa, il giorno prima, quando aveva lasciato il suo amico alla pista di skateboard.
Il biondo sapeva che Louis non lo stava usando, non ne avrebbe avuto motivo, ma si stava interessando troppo a Rion e Maxie sapeva che la ragazza intrigava con quel suo carattere chiuso e ombroso, era normale che diventasse un’ossessione. Inoltre, Maxie non voleva perdere Louis, sembrava che dopo diciotto anni, avesse trovato qualcuno di cui fidarsi, con cui si poteva fare tutto e Louis sarebbe stato lì ad ascoltarlo, appoggiarlo e consigliarlo.
Maxie sapeva che non poteva lasciarselo scappare, forse era la prima persona per cui provava davvero un minimo di affetto e ne era spaventato ed entusiasta al tempo stesso.
«No, Maxie. Te lo assicuro.» mormorò il ragazzo, passandogli la canna.
Prima di rispondere, il ragazzo si concesse due tiri, se diceva quello, doveva esserci un motivo.
«Louis, è la prima volta che vai al giro, è impossibile riconoscere una ragazza nell’ombra, dai.»
Louis sospirò e mormorò: «Devo dirti una cosa.» e passò la canna all’amico.
 
Rion era rimasta impietrita per molto tempo, aveva iniziato ad irrigidirsi quando aveva riconosciuto la sagoma di Louis nel piazzale e da quel momento, aveva sentito gli arti, uno a uno, diventare freddi, gelidi, duri come pietra.
Il cuore le batteva all’impazzata e si era ritrovata per più di una volta in apnea.
Si chiedeva com’era possibile che Louis fosse lì, perché si trovasse in quel posto. La risposta la trovò quando le disse che voleva della marijuana, Maxie fumava e immaginava che il ragazzo quella sera fosse uscito con lui.
Si sentiva anche sporca per aver venduto al ragazzo la roba, ma poi si disse che era per un bene più grande, era la fine del mese, quello stesso lunedì sarebbe andata in posta e avrebbe spedito una lettera con dentro ben ottocento dollari, era più del solito, un po’ perché Bon le lasciava più soldi e un po’ perché aveva acquistato più fama nel giro.
Solamente dopo aver venduto una dose consistente di eroina a un quarantenne, sentì i suoi muscoli rilassarsi e gli arti sciogliersi dallo stato di pietra.
Si domandò se dovesse abbandonare il lavoro di spacciatrice per la paura che Louis ritornasse lì, ma aveva visto i suoi occhi. Erano terrorizzati, irrequieti e al suo interno vi era un po’ di curiosità, era stata quella curiosità a far gelare Rion sul posto.
Si chiedeva se fosse rivolta a lei oppure al posto in cui si trovava, forse era per entrambe. Ricordava lo sguardo attento sulle sue gambe nascoste nell’ombra, sul suo viso dietro il cappuccio. La sua voce, pimpante come al solito, mentre le rivolgeva quelle due parole.
Sembrava che l’avesse riconosciuta.
Il suo sguardo attento quando aveva disteso la mano per prendere i soldi e poi, quando gli aveva dato l’erba, il suo sguardo ghiacciato si era soffermato sul taglietto sul dito.
In quel momento, Rion si era morsa il labbro a sangue. Si era fottuta con le sue stesse mani, ma un ricordo le si insediò nella sua mente.
Louis, ovviamente, l’aveva riconosciuta, ma non come Rion, bensì come la ragazza che gli aveva offerto una sigaretta la sera stessa che era arrivato in città.
Sorrise e si tranquillizzò, l’ombra la proteggeva, per questo rimaneva sempre in quel punto. La luna creava uno strano gioco di ombre in quella zona, faceva sì che la vedessero tutti, ma non perfettamente. La si poteva confondere con il palazzo stesso, inoltre non indossava mai quei vestiti a scuola e per di più, poteva immaginare che Louis fosse venuto lì per richiesta di Maxie, magari non aveva abbastanza soldi. Si ricordò che una volta aveva mandato un ragazzo del suo stesso gruppo.
Respirò e si nascose nell’ombra.
La cosa che Rion non sapeva era che quell’ombra, la nascondeva anche da se stessa.
 
Greta non sapeva dove si trovava, o almeno, poteva percepirlo dalla musica, ma dentro la sua mente poteva essere un posto qualsiasi. Non le importava niente.
Evidentemente aveva bevuto troppo e da ubriaca, era disinteressata a tutto.
Muoveva i fianchi e agitava le braccia a tempo della canzone, ricordandone vagamente le parole.
L’ultima azione concreta che era riuscita a fare fu quella di legarsi i capelli in una coda, poi aveva fatto circolare l’alcool nel corpo e non aveva più pensato.
Aveva trovato le labbra di diversi ragazzi, ma erano sempre andati via con una scusa che la ragazza non riusciva a ricordare.
Una mano le si insidiò vicino al corpo, facendola appoggiare a un petto caldo e duro. Abbassò il capo e sorrise maliziosa, poi iniziò a strusciarsi su di lui. La mano del ragazzo era appoggiata sulla sua pancia e non voleva staccarsi, era lei a dover giocare e fece fare all’alcool quello che lei, nella vita, non avrebbe mai avuto il coraggio di commettere.
Si voltò e posò le mani sulle sue spalle, a causa delle luci e della vista offuscata non riusciva a vederlo in faccia, ma non se ne preoccupò. Si gettò sulle sue labbra senza preamboli e sentì una consistenza fredda sul suo labbro: un piercing, ci iniziò a giocare, mentre con il corpo si avvicinava sempre più al ragazzo e lui muoveva le mani sul suo sedere.
Non seppe per quanto tempo rimasero così, muovendosi al tempo della musica, ma a un certo punto il ragazzo la prese e la spinse contro la parete. Greta si ritrovò a sorridere e sentì la pancia formicolare, il ragazzo premette le labbra sulle sue.
«Posso sapere come ti chiami?» chiese, non sapeva se era per effetto dei tre drink, ma le parve che la sua voce assomigliasse a quella di Rich.
Scosse la testa e avvicinandosi al suo orecchio, esclamò: «Greta.»
«Marcus.» e ritornò a baciarla, facendola aderire sempre di più al muro.
La bocca di lui scorse sul suo collo, mentre una mano scivolava pian piano su di lei, facendo sì che il vestito si alzasse più del dovuto.
La mano trovò l’intimità di lei e Greta smise totalmente di pensare. Gettò la testa all’indietro e si tolse ogni pudore.
Ricordò vagamente quello che successe dopo, il ragazzo la toccava con la sua mano esperta, facendola godere e dimenticare. Poi, ricordò una ventata di aria fresca e una consistenza morbida, e un piacere forse provocato dall’alcool o dal ragazzo.
 
Erano seduti sulla scrivania, Rion che copiava i compiti di Louis silenziosamente e lui che la guardava, impregnandosi ogni sua cosa dentro di sé. Non sapeva ancora come farla parlare, ma pensò che se fosse riuscito a carpirne la superficie, magari avrebbe avuto una possibilità.
La mascella era rilassata, le spalle curve, nessun muscolo era teso, eccetto quelli che reggevano tra le mani la penna. Notò che aveva una scrittura minuta e poco precisa, ma leggibile.
Gli occhi controllavano il compito del ragazzo e successivamente si incollavano sul foglio a righe.
I capelli erano dietro le orecchie, su cui, a scoperta del ragazzo, c’erano tre orecchini. Pensò che le davano un’aria sofisticata.
Rion posò la penna e fissò Louis, nonostante fosse uno sguardo vuoto, Louis si sentì incollato al posto e sorrise tranquillo.
«Finito?» chiese.
«Sì, grazie.» e gli porse il foglio.
Louis si affrettò ad afferrarlo, facendo sì che il dito di Rion scorresse sul margine del foglio, procurandovi un piccolo taglio che iniziò a sanguinare.
Rion se lo portò alle labbra fini e succhiò, Louis la guardò preoccupato e mormorò: «Scusami, cazzo. Vieni in bagno, ti do un cerotto per fermare il sangue.»
 
Era questo il suo demone quella sera, mentre ne parlava con Maxie.
Il ragazzo biondo lo ascoltava attento, fumando e sputando nell’aria fumo, lo ascoltava assopito e curioso, sorpreso.
«Cristo.» mormorò alla fine, gli occhi rossi.
Louis annuì e non sapeva cosa dire, l’erba aveva fatto il suo effetto e ora si sentiva leggero, si diede del cretino per non averne parlato prima a Maxie.
L’amico scoppiò a ridere e disse: «Non ci credo, cristo. Rion spaccia!» e continuò a ridere.
«Perché?» chiese con un filo di voce Louis.
Maxie scosse le spalle, «Non ne ho idea, sul serio. Forse non hanno abbastanza soldi, ma a me non pare che Rylee si faccia mancare niente.» constatò il ragazzo, «Ci deve essere sotto dell’altro. Per forza.»
«E come facciamo a scoprirlo?» domandò Louis.
«Parliamone con Rylee.» propose Maxie.
Louis scosse la testa e mormorò: «Secondo te, come reagiresti se ti dicessi che tua sorella spaccia?»
«Male, questo è ovvio, ma è anche vero che Rylee è l’unica che può darci una spiegazione decente.»
Louis si sentiva arreso e al tempo stesso era stupito che una persona come Rion potesse spacciare, ma si disse che era normale. Teneva un comportamento rigido e composto, l’unica eccezione che si concedeva era quella di arrivare in ritardo alle lezioni, per il resto, seguiva sempre le regole. Inoltre, il suo atteggiamento era chiaramente quello di una che voleva tener nascosto qualcosa. D’un tratto a Louis sembrò tutto chiaro, si vide davanti agli occhi il motivo per cui la ragazza era così ombrosa e secca, fredda, per il semplice motivo che doveva rimanere trasparente per spacciare.
«Maxie da quanto Rion è nel giro?»
«Saranno quattro mesi, ormai.» rispose, «Perché?»
«Ed è sempre stata così? Nel senso, così chiusa e ombrosa?»
«No, cioè sì. È sempre stata una tipa solitaria, ma alle elementari era un po’ più aperta, si irrigidì quando…  Oh cristo, Louis! Oddio! Suo fratello!» Maxie sembrava sconvolto.
Louis era confuso. Rion le aveva detto che aveva un fratello più grande che però non viveva più con loro. Rylee, invece, le disse che erano solamente tre sorelle.
Louis si irrigidì e se tutta quella chiusura fosse dovuta al lutto di suo fratello? Era ragionevole. Alcune persone, quando moriva una persona cara, si rintanavano in se stesse e difficilmente facevano entrare qualcuno nello loro vita. Rion era una di quelle, ma questo cosa la spingeva a spacciare?
«Cosa centra suo fratello?» chiese Louis, «Rion mi ha detto che non vive più con loro.»
Maxie lo guardò stranito, poi ridacchiò e disse: «E’ una cazzata, questa.» poi sospirò e disse: «Come ho fatto a non pensarci? Rion e Rylee hanno un fratello, Rich.»
«Okay, ma cosa centra con tutto questo?»
Maxie guardò Louis, i suoi occhi sembrano normali, non uno di chi si è appena fumato una canna, Louis iniziò ad agitarsi. Stava per scoprire uno dei segreti della ragazza che lo riusciva a calmare e si sentiva irrequieto. Sentiva che questa era una cosa troppo grande per lui.
«Louis, Rich ha il cancro.»
Tutti i tasselli andarono al loro posto. Il motivo per cui Rion fosse così chiusa e distaccata, capì al volo perché Rylee alcune volte fumava una canna, non doveva essere una situazione facile la loro.
Louis sentì di compatirle, ma c’era solo un unico tassello che non andava a posto.
«Questo spiega molte cose, Maxie. Ma non il motivo per cui Rion spacci.» e si rese conto che le soluzioni potevano essere solamente due: far parlare Rion rendendola vulnerabile oppure parlare con Rylee.
Non sapeva ancora cosa fare, ma lo attirava di più la prima opzione.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Eccomi, puntuale. 
Sono di fretta perché tra mezz'ora devo uscire e devo ancora preparmi e non posso essere in ritardo perché mi passano a prendere gnaaaaaa.

Okay!
IMPORTANTE.
Domenica parto. 
Vado in Irlanda per due settimana e sicuramente non avrò la possibilità di aggiornare, domani vedrò se posso fare qualcosa con il telefono ma non penso. 
Tornerò tra due settimane, ovvero il 16 agosto e fino a lì, dovrete aspettare. 
Mi spiace, odio farvi attendere. 
SOPRATTUTTO ORA CHE LA STORIA HA PRESO UNA SVOLTA.

LOUIS HA SCOPERTO. 
ODDIO, CHE SUCCEDERA'? Avete due settimane per far supposizioni e beh, voglio sentirle tutte!

E GRETAAAA?

Scusate, scappo. 

A presto,
Giada.
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI ***


Link WattPad: Mission WattPad
And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
XI
 
Greta aprì lentamente gli occhi, la stanza in cui si trovava era buia, non riusciva a vedere pressoché nulla a parte un luccichio in un angolo. Non riuscì a metterlo a fuoco perché nel giro di pochi secondi la testa iniziò a martellarle e un conato di vomito le salì alla gola.
Si alzò di scatto e forse per istinto trovò una porta, si fiondò fuori illuminando la stanza, traballò e si portò una mano alla bocca, si accorse che non si trovava in casa sua e nemmeno in una dimora che conoscesse. Cercando di tenere a bada i conati si guardò in giro, sempre l’istinto le indicò un lavandino, ci si fiondò.
Vomitò sino a che non le rimase altro che la bile, aprì l’acqua in modo tale che ciò che aveva buttato fuori andasse nello scarico, successivamente pulì il lavandino con del sapone da cucina.
Sentì un brivido freddo per la schiena e si accorse di essere nuda, non indossava nemmeno le mutandine.
I ricordi della sera prima le avvolsero la mente, ma si rese conto che non rimembrava praticamente nulla, solo lei che si lasciava andare e un paio di mani calde. Un altro conato la avvolse, ma non per via dell’alcool, bensì per quello che aveva fatto. In una sera aveva perso tutto il suo pudore.
Si sorprese della facilità con cui una persona potesse distruggere, in men che non si dica, la sua personalità. Greta era sempre stata una ragazza rispettabile, quelle all’antica, e ora, eccola lì: in casa di uno sconosciuto, nuda.
Vide la sua dignità di donna caderle addosso, represse le lacrime.
A quanto pare il suo piano di dimenticare Rich non aveva avuto successo, si era fatta prendere dalla rabbia e ora si sentiva sporca.
Dato che non sapeva in che zona del quartiere si trovasse, optò per dare un’occhiata alla casa.
Non era tanto grande, comprendeva una sala con un cucinino, una camera da letto e la porta chiusa doveva essere il bagno. La ragazza ipotizzò che era un ragazzo universitario, vide appeso a un porta degli abiti, un grembiule, il ragazzo con cui era andata a letto, doveva essere un cameriere o qualcosa del genere.
Si rese conto di non aver visto ancora nessuno, per ciò si diresse alla camera da letto.
Un ragazzo, nudo, era sdraiato sul letto a pancia in giù; la coperta gli copriva il fondo schiena e le gambe, ma lasciava in bella vista la schiena su cui erano tatuate due ali, con sua sorpresa Greta notò che erano chiuse, quasi come se il ragazzo volesse volare via da un momento all’altro. I capelli erano spettinati, mori, di una lunghezza media. La sua schiena si alzava e abbassava in modo regolare, la ragazza capì che era ancora nelle braccia di Morfeo.
Entrò nella camera e cercando di non fare rumore, recuperò le mutandine e il reggiseno, si chiese se dovesse rimettersi il vestito e i tacchi, ma non sapendo cosa fare, li lasciò sul pavimento. Richiuse la porta della camera per permettere al ragazzo di continuare a dormire, e frastornata da tutto quello che era successo, si diresse verso il bagno.
Forse una doccia le avrebbe schiarito le idee.
 
Kevin deglutì rigirandosi la lettera tra le mani, la sigaretta incastrata tra le labbra, il sonno ancora impresso nei suoi occhi.
Era agitato, cercava di non pensare al futuro, ma nonostante il suo continuo ‘non pensarci, non pensarci’, non poteva fare a meno di immaginarsi Rylee aprire la lettera, che ormai sapeva di fumo, leggerla e ridacchiare dei suoi futili errori cancellati con il correttore o una riga, non riusciva a non pensare a Rylee che suonava alla sua porta e gli gettava le braccia al collo, trascinandolo dentro.
Al contempo si immaginava Rylee che strappava la lettera, la bruciava e gli rideva in faccia, rinfacciandogli tutto ciò che era.
Non sapeva più niente della ragazza che amava, gli ultimi cinque mesi li aveva passati cercando di evitarla, ma al tempo stesso trovandosi dove lei si trovava quasi per caso. Solo nell’ultimo periodo l’aveva seguita di tanto in tanto, perché voleva vedere se era cambiata, oppure se era sempre la ragazza solare di sempre.
Kevin, dai suoi appostamenti lontani, non aveva notato nessun cambiamento, sembrava sempre la stessa. Sorrideva e scherzava con tutti, alcune volte gli occhi le divenivano vacui, colmi di una tristezza e di una preoccupazione strani per la ragazza, ma Kevin poteva immaginare da cosa dipendesse. Ricordava che quando si erano lasciati, suo fratello Rich stava iniziando a rifiutare le cure, non lo sorprendeva affatto se ora il ragazzo malato le avesse rifiutate categoricamente.
Kevin aveva conosciuto Rich alle medie e nonostante non fosse un suo grande amico, ricordava che il ragazzo era molto determinato durante le partite di basket, e se era determinato durante un gioco non osava immaginare durante la vita reale.
Tamburellò suoi piedi e iniziò a guardarsi intorno, era lì da quasi mezz’ora, nel cortile sul retro della scuola, con la speranza che Rion si facesse vedere.
Il ragazzo iniziava a pensare che la mora non arrivasse, quando la vide sbucare dal cancello, tirò un sospiro di sollievo, confidava in Rion, non voleva consegnare di persona la lettera.
La ragazza gli si avvicinò senza degnarlo di uno sguardo, ma Kevin sapeva per certo che l’aveva visto, Rion era così: notava tutto, ma cercava di rendersi invisibile.
«Rion.» chiamò Kevin, come sospettava, la ragazza non ebbe il minimo sussulto quando venne chiamata, rivolse uno sguardo indecifrabile al ragazzo.
Kevin era quasi sicuro di non essere tra le persone preferite di Rion, infondo aveva spezzato il cuore di sua sorella, ma non sapeva nemmeno se Rion avesse delle persone preferite.
Dato che la ragazza non dava segno di voler parlare, gli porse la lettera: «Potresti darla a Rylee?» chiese con un nodo in gola.
Rion passò lo sguardo da lui alla lettera per ben cinque volte, evidentemente non se lo aspettava, poi le comparve un sorriso smorfioso: «Avevi le palle per mollarla e ora non le hai più per darle una lettera?»
Kevin si sentì punto nel vivo, ma non demorse: «Hai ragione, sì. Potrei diventare un eunuco.»
Rion lo incendiò con lo sguardo, Kevin si pentì subito di quella battuta, ora era evidente che la ragazza non provava simpatia per lui.
«Gliela lascerò sul letto.» e se andò con la lettera.
Kevin dovette appoggiarsi al muro per riprendersi, per un momento aveva pensato che Rion rifiutasse la sua richiesta, il suo sguardo celava tutto il suo disprezzo per lui, ma ora Kevin era tranquillo, emozionato, si ritrovò a pensare a Rylee che leggeva la lettera, che si commuoveva, che tornava da… No, non doveva pensarci.
Si picchiettò gli indici sulla fronte per distogliere i suoi pensieri futuri, non doveva pensarci, ma non riusciva a nascondere l’euforia. Si precipitò in classe proprio mentre suonava la campanella.
 
Greta uscì dalla doccia, si rese conto che non era come nelle migliaia di libri che aveva letto: una doccia non ti schiariva per niente le idee. Il getto dell’acqua ti lavava via solo i problemi, ma poi ritornavano, perché i problemi non erano macchie, erano parte di te.
Durante la doccia, oltre ad aver maledetto ogni singolo libro in cui il protagonista facendosi una doccia trovava soluzione ai propri problemi, si chiese come avesse fatto a tornare a casa.
Prima di tutto avrebbe dovuto scoprire dove si trovava, il ragazzo la scorsa sera l’aveva portata lì dalla discoteca, nella sua mente offuscata dall’alcool il tragitto non era stato molto lungo, quindi doveva essere nei margini della periferia, dove vi erano principalmente ditte.
La ragazza uscì dal bagno, legandosi i capelli bagnati e andò in cucina, si ritrovò davanti il ragazzo assonnato.
«’Giorno.» mormorò con voce roca e accennò un piccolo sorriso.
Greta notò che non era uno di quei sorrisi smorfiosi che ti facevano i ragazzi, anzi, sembrava un sorriso innocente. Lo guardò meglio: i capelli mori gli ricadevano in ciocche arruffate sulla fronte, nascondendo un paio di occhi marroni cioccolato.
Aveva un’aria così innocente che Greta si chiese se davvero avessero fatto sesso.
«Scusa, volevo farmi una doccia e ho pensato di…»
«Sì, tranquilla, ho sentito che partiva la caldaia, sai è vicino alla camera da letto. Se vuoi asciugarti i capelli ho un phon.»
La ragazza rimase sorpresa dalla sua gentilezza, si chiese se il ragazzo si comportasse così perché pensava di arrivare ad altro con lei. Greta scosse la testa, era solo stata una serata diversa dal normale, aveva avuto una nuova esperienza e sicuramente non l’avrebbe ripetuta, ora come ora voleva solo andare a casa e mettersi a piangere.
«Io vorrei andare a casa.» mormorò guardandosi i piedi, iniziava ad avere freddo.
Il ragazzo la fissò per diversi secondi, immobile, la scrutò a lungo.
«Senti, non so nemmeno come ti chiami e se me l’hai detto, non me lo ricordo. Ma voglio che tu sappia che non c’è nulla, non voglio nemmeno nulla, ieri sera a momenti non sapevo nemmeno io cosa stessi facendo e mi dispiace tanto. Non so niente di te, ma si vede lontano un chilometro che stai male, forse perfino per quello che hai fatto stanotte con me, ma era uno sbaglio, no? Tutti sbagliano, è umano. Certo, quando i ragazzi si comportano così non penso ci sia molta umanità, anzi io sono pieno di ribrezzo, ma non perché tu non sia una bella ragazza, perché proprio fa schifo quest’idea di divertirsi portandosi a letto qualcuno che non conosci.»
Greta lo guardò con gli occhi strabiliati, non se lo aspettava, «Da cosa sfuggi?»
«Io? Da questa vita di merda. Davvero, non riesco a trovare niente che mi faccia stare bene, o almeno, l’ho perso. Avresti dovuto vederla, era una ragazza così bella, ma non di quelle bellezze da copertina, no, perché era pura, semplice, bella. Non era una di quelle ragazze che la giudichi bellissima, no, era quella a cui gli attribuisci l’aggettivo carina o bella, era lei. Era così semplice, buona. Adorava tutte le piccole cose, non dovevo nemmeno sbizzarrirmi, pensa che una volta come regalo le ho fatto un abbraccio. Mi disse che era il regalo migliore che avesse ricevuto. Era così solare, aveva un sorriso da illuminare tutto il mio mondo. Adorava la musica, quella lenta, che parla d’amore, ma non era molto romantica, lei. Ti dava tutto con poco, lei non ti porgeva una mano, bensì tutto il braccio. Aveva due occhi spettacolari, nascondevano tutti i sogni che aveva. Lei sognava ad occhi aperti. Mi manca da star male, non ha più un cazzo di senso la mia vita.»
Greta non sapeva cosa dire, si era commossa davanti alle parole del ragazzo, era un po’ quello che lei pensava per Rich, «Cosa le è successo?»
«Niente, credo che stia bene. Ora ha un altro, me l’hanno portata via. La cosa assurda è che io avevo preso ogni singola cosa di lei e me l’ero appiccicata addosso, ma non con una colla normale, bensì con una specie di attack e ti giuro, non riesco a scollarmi. Voglio solo andare via.»
Greta si appoggiò al divano, fece le cose a rallentatore. Avvicinò le gambe al mento, ve lo appoggiò. Circondò con le braccia le ginocchia. Venne percorsa da un brivido, poi da un­­­­­ altro.
Quando non riuscì più a trattenersi, scoppiò.
 
Rion si rigirò la lettera tra le mani, non avrebbe mai pensato che Kevin fosse giunto a tanto.
Non avrebbe mai immaginato che avrebbe scritto una lettera di scuse a sua sorella, non le pareva il tipo, ma in effetti Rion non conosceva Kevin. Tutte le volte che era venuto a casa sua per stare con sua sorella, si rinchiudevano in camera, nel loro mondo e quando uscivano per mangiare, la ragazza era così disinteressata a lui che non prestava nemmeno attenzione a ciò che diceva.
Ricordava solo che piaceva molto ai suoi genitori, fino a che non aveva spezzato il cuore a sua sorella.
Rion ricordava perfettamente quel mese e mezzo in cui Rylee quasi non mangiava, non badava alla piccola Renae, non parlava quasi mai in casa e aveva crisi di pianto continue. In quelle situazioni Rion non sapeva come comportarsi, non sapeva consolare, e aiutare sua sorella le sembrava da stupidi, dato che erano come due estranee, quindi lasciava il lavoro ai suoi genitori, specialmente suo padre.
Sembrava che il padre di tutte e due le ragazze fosse un supereroe in fatto di cuori spezzati, Rion amava il padre. Alcune volte sembrava che lui la capisse e la ragazza molto spesso si chiedeva se anche lui fosse sempre rimasto solo sino a che non aveva trovato la mamma.
Non parlavano molto, non erano di tante parole, bastava che si guardassero.
Nonostante questo, Rion ricordava che dopo quel mese e mezzo buio, Rylee sembrò rinascere, i suoi occhi alcune volte divenivano più vacui del solito, ma aveva sempre il sorriso stampato in faccia. La ragazza ricordò di essersi rilassata, almeno la sorella sembrava stare bene.
Bussò piano alla porta di camera sua e si fissò i piedi.
«Avanti.»
Entrò, sua sorella era alla scrivania, stava studiando.
«Ehi.» mormorò Rion facendo due passi.
«Ciao, tutto bene?» chiese circospetta la sorella, era strano che la mora entrasse nella camera della gemella.
«Sì, certo. Senti oggi Kevin mi ha dato questa.» e le porse la lettera.
«Cos’è?» chiese Rylee.
«Mh, non ne ho idea. Io credo che sia una lettera, sai la busta è abbastanza piena, saranno diversi fogli. Potrebbero essere soldi però, oppure pezzetti di carta.»
Rylee ridacchiò e scosse la testa, «Okay, la leggerò. La mamma mi ha detto che sei andata a casa di Louis.»
Rion si raggelò, «Sì.»
«Deve essere simpatico.»
«Lo è.»
Un turbine di emozioni la avvolse: Louis che faceva domande, Louis al giro, Louis che le accarezzava la guancia, Louis che abbracciava la piccola Evelyn. Troppe emozioni, troppe.
Il ragazzo, dopo l’incontro al giro, non le aveva più rivolto la parola e per Rion questo andava più che bene, se non per il fatto che Louis continuava a gettarle occhiate persecutorie e la incendiasse con lo sguardo. Rion aveva iniziato a temere che il castano l’avesse riconosciuta come la spacciatrice del giro, ma si tranquillizzava dicendo che non aveva nessuna prova e sperò vivamente che non ne parlasse con sua sorella.
«Gli interessi.»
«Che?» domandò Rion strabuzzando gli occhi.
«Hai capito, gli interessi.»
«No, non è possibile, non mi conosce neanche.»
«Sta cercando di conoscerti.»
«D’accordo, vedrò di fargli capire che non ne ho la minima intenzione.»
«Rion, prova ad aprirti con qualcuno, non è possibile che voglia passare tutta la vita da sola, prima o poi incontrerai qualcuno che ti stravolgerà la vita e non potrai farne a meno. Non puoi respingere tutti.»
«Quello che faccio o no, non sono affari tuoi.»
«Sì che lo sono, cazzo! Sono tua sorella!» urlò Rylee.
«Calmati, non hai nessuno motivo per arrabbiarti con me. Quante volte mi hai fatto questo discorso, Rylee? Quante? Centinaia di volte. E io cosa ti ho sempre risposto? Che non sono affari tuoi. Sto bene così, voglio rimanere da sola, ho visto fin troppa gente che stava male per via dei rapporti umani e io non voglio stare male, io non voglio niente. E se arriverà il giorno in cui io vorrò aprirmi a qualcuno, sarò libera di farlo, ma non permetterò che sia tu a decidere quando e con chi.»
«Cosa stai dicendo? Forse non l’hai ancora capito, dopo diciotto anni, ma io ti voglio bene e vederti tutti i santi giorni da sola, in un cantone a fumare la tue sigarette, senza parlare, senza dire niente, neanche sorridere, mi fa un male cane. Questo non ti fa bene, Rion.»
«Non mi farà bene, ma mi va bene. Fattene una ragione.» e uscì, lasciando la sorella sulla soglia delle lacrime.   
 
Greta era scossa dai singhiozzi, quasi non respirava.
Era circa mezz’ora che piangeva, mentre tremava, cercando di spiegare al ragazzo quello che aveva dentro, ma senza molto successo, non era una che amava esprimere i propri sentimenti a parole, lei preferiva scrivere.
«Ho sempre voluto scrivere, sai? Mi piace davvero tanto, è un mio modo per sfogarmi e far capire agli altri quello che sento. Vorrei tanto scrivere in questo momento, forse non mi farebbe nemmeno bene, in fondo, è un modo per ricordarlo, ma lui vuole che lo dimentichi e non so come fare. Non si può dimenticare una persona, solo tenere il suo ricordo.»
Il ragazzo, Greta non aveva ancora scoperto il suo nome, scomparve. Quando ritornò teneva qualcosa dietro la schiena.
Carta e penna.
«Tieni, siediti a quel tavolo e inizia a scrivere.»
«Ma io…» iniziò la ragazza.
«Niente ‘ma’, è quello che vuoi, te lo si legge negli occhi. Scrivi di te, di me, del mondo, di qualsiasi cosa, scrivi fino a che non ne hai abbastanza, fino a che non si è scaricata la penna. Trova un pretesto per sfuggire a questo mondo.» gli porse il foglio e la penna.
Greta si alzò e abbassando lo sguardo, mormorò: «Grazie.»
Aveva una storia da raccontare.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

SONO TORNATAAAAAAAAA!
E SONO DEPRESSA.
E VOGLIO TORNARE IN IRLANDA E NON POTETE CAPIRE E' STATO MERAVIGLIOSO.
TUTTO PERFETTO. 
E MI MANCA.
E POI C'ERA UN FRANCESE CHE DIO SANTO AVEVA UN CULO CHE AVE MARIA AIUTO.

Scusate per il ritardo, ma là così avevo davvero poco wi-fi. 
Fate conto che lo avevo solo in treno e sull'autobus, quindi non avevo nemmeno tempo di aggiornare e mi dispiace un sacco. 

PROMETTO A TUTTE LE STORIE CHE SEGUO DI RECUPERARE. 

Il capitolo.
Fa schifo, lo so. E' davvero orrendo. 
La storia vi sta annoiando? Non so ho questa impressione e boh. 
Ditemi, vedrò di fare qualcosa.

Bene!
Kevin! Cosa succederà tra lui e Rylee?
Greta! Cosa ve  ne pare di Greta e di quel ragazzo con le ali, mh?

Ditemi tuttoooo.

A presto,

Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
XII

Rylee girava per la scuola con in mano dei fogli con appuntato tutto ciò che c’era da sapere riguardo quella giornata. Finalmente, la preside aveva indetto la giornata della creatività, sospendendo tutte le lezioni e facendo sì che gli studenti venissero a scuola, una volta nell’arco dell’anno, entusiasti.
Effettivamente come giornata della creatività, non c’erano molte attività, difatti l’unica era quella di dipingere i muri grigi della scuola.
Rylee era entusiasta e orgogliosa di se stessa perché proprio lei aveva pensato a quel modo per dare un tocco di colore alla scuola. Tutto doveva essere svolto alla perfezione, i muri dovevano essere colorati con i colori suggeritagli dalla preside: la scuola era rispettivamente divisa in tre zone e posta su tre piani, i colori dunque si dovevano succedere in maniera periodica, al piano terra ci sarebbero stati i colori più forti per poi andare a degradare all’ultimo piano. La preside aveva proposto di usare colori tenui e non marcati, d’altronde era pur sempre un liceo e non voleva che la sua scuola divenisse una sottospecie di asilo. Così si era pensato a un rosso tenue che andava a degradare a un giallo facilmente confondibile con il bianco; un blu acceso (l’unica eccezione), seguito da un azzurro oltremare e un azzurro leggero per l’ultimo piano; infine per l’ultima ala della scuola si era pensato alle sfumature del verde.
L’unica zona dell’edificio che rimaneva intatta era il sotterraneo, in cui gli studenti non andavano quasi mai eccetto per l’aula magna ed era un luogo usato principalmente dagli insegnanti e i genitori per i vari colloqui. In più, Rylee pensava che il sotterraneo era un luogo tetro, quindi il grigio gli si addiceva.
La ragazza era estasiata, finalmente avrebbe lasciato un’impronta in quella scuola, seppure fosse l’ultimo anno che passava lì dentro, avrebbe lasciato in eredità una scuola considerata una prigione dell’esterno e anche per la preparazione che riservavano gli insegnanti, ma al tempo stesso con un tocco di vita che avrebbe solamente fatto sorridere gli studenti e lasciato un segno.
Rylee doveva tutto a quella scuola, era il luogo in cui aveva trovato le vere amicizie, avuto le più belle esperienze e vissuto, sino a quel momento, i migliori anni della sua vita. Era quasi convinta che senza il liceo non avrebbe gioito a pieno ed era fiera di ammettere che effettivamente le piaceva andare a scuola.
Incontrò due ragazzi di prima che riconoscendola come rappresentante di istituto la fermarono per chiedere indicazioni su come dovesse svolgersi la giornata.
«Allora ragazzi, per ora andate in classe, alcuni ragazzi stanno mettendo dei cellophane sui pavimenti e sulle scale per non imbrattare con la vernice, non appena avranno finito si inizierà a colorare. In classe, il vostro prof. vi dirà che zona dovrete dipingere e con chi sarete in coppia per quel tratto.»
I ragazzi la ringraziarono e salirono le scale per dirigersi in classe.
Rylee sorrise e fece per dirigersi verso due aiutanti che stavano ricoprendo una parte di corrimano, quando vide si sfuggita Kevin.
Il cuore le si strinse in una morsa e la lettera che teneva in borsa sembrò pesarle come macigni. Sua sorella era entrata in camera diversi giorni prima consegnandogliela senza preamboli e facendo una battutina sarcastica rivolta al suo ex ragazzo.
Rylee passava tutte le sere a guardarla, era ancora chiusa e non aveva ancora trovato il coraggio di aprirla. Aveva paura di quello che ci potesse essere scritto.
Inoltre era rimasta sconvolta dal gesto del ragazzo: Kevin non era mai stato un ragazzo dalle tante parole, era una persona schietta che non si dilungava troppo nei discorsi e ora, dopo mesi, si ritrovava una sua lettera.
Era scossa, un miscuglio di emozioni le avvolgeva la testa e il cuore e non sapeva come interpretarla. Da una parte c’era curiosità di sapere cosa ci fosse scritto, da quanto aveva valutato, la lettera doveva essere diversi fogli, perché la busta aveva un volume consistente. D’altra parte aveva paura di quello che ci avrebbe trovato dentro, non voleva dare una seconda possibilità a Kevin, in quei mesi aveva capito che la loro storia d’amore era stata bellissima, ma non doveva ripetersi nemmeno per sbaglio, nonostante ciò aveva timore che quella lettera potesse farle cambiare idea e avrebbe nuovamente sbagliato per poi soffrire di nuovo. Sicuramente Kevin aveva fatto un gesto molto dolce nel scriverle quella lettera e Rylee sapeva che in quel periodo lui era cambiato, così come lei, ma credeva fermamente nel fatto che “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”.
Scosse la testa, ci avrebbe pensato più tardi, ora doveva dedicarsi a quella giornata memorabile e sorrise maliziosa pensando a quanto stesse per succedere, difatti per la formazione delle coppie, Rylee ci aveva messo del suo.
 
Rion era appoggiata al muro, sonnecchiando e al tempo stesso ascoltando a scatti il prof. Pettifer che blaterava qualche sua idea riguardo il capolavoro di Orwell, “1984”.
Nonostante Rion stimasse lo scrittore perché riusciva a impostare i suoi libri non dandogli un tempo o un’età, in quanto potevano essere posizionati in qualsiasi epoca, in quel momento era totalmente disinteressata. La sera prima era andata al giro e poi era passata da Bon, con il quale era rimasta a chiacchierare più del previsto, diminuendo le sue ore di sonno.
Per di più, quella mattina ci doveva essere la giornata della creatività, ma in attesa che i ragazzi ponessero i cellophane in giro per la scuola, il professore di inglese aveva pensato bene di tenere una piccola lezione parlando, a quanto pareva, di uno dei suoi autori preferiti: il carissimo Eric Arthur Blair alias George Orwell.
Rion, socchiudendo gli occhi, notò che solamente un paio di ragazzi stavano prendendo appunti, gli altri guardavano l’insegnante cercando di assumere un cipiglio interessato, ma riuscendoci miseramente. L’occhio di Rion cadde sul castano che stava con la testa appoggiata al banco e in mano reggeva una matita, ma non stava scrivendo nulla. La ragazza si chiese cosa stesse facendo, non era da Louis prendere appunti, solitamente lo faceva nelle materie in cui era messo male, come matematica e filosofia, ma in inglese non l’aveva mai visto tenere tra le mani una penna e la cosa la sorprese.
Scosse le spalle pensando che non fossero affari suoi, anche se effettivamente le sarebbe piaciuto sapere cosa stesse scrivendo su quel pezzo di carta, per di più Maxie gli stava confabulando qualcosa.
Da quando l’aveva vista al giro, Louis le era parso più distante, un bene per Rion, se non per il fatto che alcune volte la trapassava con lo sguardo come per dire ‘so cosa fai e chi sei’.
Il castano non aveva tra le mani nulla, ma Rion era ugualmente preoccupata. Passava le serate al giro con il cuore in gola pensando che da un momento all’altro Louis potesse spuntare e smascherarla. Si sentiva vulnerabile davanti ai suoi occhi e in cuor suo non sapeva quanto fosse stata in grado di resistere ancora davanti a quei pozzi azzurri.
I suoi pensieri vennero distolti dal professore che diceva: «Bene, ragazzi. Questo è il messaggio subliminare che contiene “1984”, spero che tutti abbiate preso appunti perché sul libro è spiegato in maniera molto prolissa e alcune cose sono davvero superflue. Ora, concludiamo qui questa lezione e mentre aspettiamo uno dei rappresentanti che arrivi a darci il via libera, vi leggo le coppie.» e prese in mano un foglio.
Rion sperò vivamente di essere con Kate, era una ragazza tranquilla, che stava nel suo e non faceva domande. La mora ci andava molto d’accordo e non aveva nemmeno voglia di parlare, quella mattina era stata buttata giù dal letto da sua sorella che era entusiasta per quella giornata. Rion capiva che Rylee aveva avuto l’idea di pitturare i muri della scuola e quindi doveva essere felice, ma lei, da parte sua, non aveva la benché minima voglia di partecipare a quella giornata della creatività, tanto che aveva chiesto a sua madre se poteva rimanere a casa, così che avrebbe potuto riposarsi dopo mesi di insonnia.
Il ‘no’ categorico non era uscito dalla bocca di sua madre, bensì da quello di Rylee, dicendo che era già stato tutto programmato e lei non poteva assolutamente mancare.
Rion aveva sbuffato, ma per non avere discussioni, decise di salire in camera e prepararsi per l’uscita di quella sera.
«Dunque, Luke. – Disse il prof. squadrando Maxie che sussurrava qualcosa a Louis – Tu sarai con Kurt e farete la parte rossa al piano terra.»
I due ragazzi annuirono.
«Poi, Stonem con Kardiff, vi assegnano la parte azzurra al secondo piano.»
«Young con Lorenz, dovete fare anche voi quella rossa al piano terra.» i due ragazzi si batterono il cinque e ghignarono soddisfatti.
Il prof. proseguì con l’elenco e quando Kate fu mandata con un ragazzo, Rion emise un leggero grugnito e aspettò di sentire il suo nome.
«Lee con Tomlinson e voi dovete fare la parte verde al terzo piano.»
Rion sussultò e imprecò.
 
Louis fece saettare gli occhi sulla classe e vide la mascella di Rion indurirsi, fece un sorriso smorfioso, ora che sapeva cosa faceva, riusciva a comprendere di più quella ragazza e tutto il suo atteggiamento, specialmente nei suoi confronti, era di una che aveva paura.
Louis voleva tempestarla di domande, andare più a fondo e farla parlare, ma al tempo stesso non voleva sapere niente di lei, voleva solo guardarla e farsi persuadere da quella calma che solo quella ragazza muta sapeva donargli.
La testa di Rylee sbucò nella classe comunicando che si poteva uscire e iniziare a lavorare. I ragazzi scemarono fuori dalla classe lasciandoci le cartelle e le giacche, poi si diressero nella zona a loro assegnata.
Maxie salutò calorosamente Louis, che gli rispose con una pacca sulla spalla, poi raggiunse Rion che a sua sorpresa lo stava aspettando sulla porta, il ragazzo aveva pensato che se ne sarebbe andata per la sua strada e non gli avrebbe rivolto la parola.
Quel gesto fece scattare qualcosa nella mente di Louis che lo fece sorridere come un idiota, difatti Rion lo guardò corrugando la fronte, il ragazzo tossicchiò e disse: «Strano giorno per mettersi una maglia bianca.»
Rion lo guardò con riluttanza, poi si voltò e si incamminò per andare al terzo piano.
«Mia sorella mi ha buttata giù dal letto e ho preso le prime cose che mi capitavano.» mormorò a voce così bassa, durante la salita delle scale, che Louis dovette aprire i padiglioni auricolari al massimo per capire cosa diceva.
«Non ti piacciono questo tipo di giornate?» domandò.
«No.» rispose tranquilla e sbuffò fuori l’aria, «Vieni, l’ala che va colorata di verde è da questa parte.» e si diresse a passo spedito nell’ala destra della scuola, dove li aspettavano Kevin e Tom, con in mano dei rulli per dipingere.
«Bene, ragazzi. Avete già imbiancato, no?»
Rion sollevò un sopracciglio e senza dire nulla, afferrò il rullo dalla mano di Tom e si diresse verso il secchio con la vernice, mormorando: «Facciamola finita. – Poi, alzando la voce – Va fatto anche il soffitto?»
Tom ridacchiò per l’atteggiamento burbero della ragazza e le urlò: «No, tesoro.»
Rion lo infuocò con lo sguardo e iniziò a coprire il muro con la nuova vernice.
«Buona fortuna, amico.» sorrise Tom a Louis, porgendogli il rullo e ammiccando a Rion.
Louis chiedendosi se tra i due ci fosse stato qualcosa e sentendosi ribollire di rabbia, afferrò il pennello e ridacchiando in modo nervoso, disse: «Crepi.»
«C’è qualcosa tra voi due?» mormorò Louis dopo una buona mezzoretta che avevano pitturato ed erano stati in silenzio.
«Cosa?» chiese Rion col fiatone.
Louis la guardò e le sue budella si attorcigliarono: i capelli legati sopra la testa con una cipolla molle e alcuni ciuffi ribelli appiccicati al viso, le guance rosse per lo sforzo, il sudore che le impregnava la fronte, le braccia bianche e fragili scoperte in quanto si era tolta la felpa nera e la scollatura della maglietta che faceva intravedere un seno sudato e sodo, lì, in quella posizione così naturale e normale, Louis si sentì stringere le budella in una morsa e le parole gli morirono in bocca.
Qualcosa era scattato e guardandola in quei pozzi verdi come l’erba che si intonavano perfettamente al colore del muro, non poté fare a mano di guardarla e pensare che fosse bella.
E la voleva.
Deglutì: «Tra te e Tom.»
«Tom?» Rion si voltò e represse una risata, «Tom era con me in prima liceo, poi l’hanno segato. È stato per tutto l’anno mio vicino di banco.»
«Oh quindi, parli.» mormorò Louis ironico.
Rion lo incendiò con gli occhi, ma ormai in quello sguardo Louis riusciva a vedere solo disperazione e non si sentiva più a disagio, seppur si sentiva incollato al pavimento.
«Scusami.» ridacchiò dirigendosi verso il secchio in cui era contenuta la vernice.
Rion piombò nuovamente nel silenzio e Louis si spremette le meningi per trovare un qualcosa da chiederle, quando l’occhio gli cadde su quelle mani bianche, sporche un po’ di vernice, ma fragili. Mani da bambina.
«È guarito il taglio?» chiese fissandole le mani.
«Sì, certo. Il tuo cerotto di Hello Kitty ha fatto sì che non morissi dissanguata.»
Louis la guardò strabiliato, lo stava prendendo in giro e stava facendo del sarcasmo, la guardò con uno sguardo perplesso, poi tossicchiò e disse con tono autoritario: «Sono di mia sorella. – Rion scosse la stessa, facendo il classico sorriso muto – E tanto per la cronaca, sono dei cerotti che durano molto più degli altri e sono pure disinfettanti.»
Rion lo guardò allibita, poi quando capì che il ragazzo era serio, disse: «Stai scherzando.»
«No, spiegami altrimenti come ha fatto a guarire così in fretta.»
Rion alzò un sopraciglio e si guardò il dito, «Che ne so, io.»
«Appunto, il merito va ai cerotti di Hello Kitty. – Louis non riusciva più a rimanere serio e se da un momento all’altro Rion non avesse riso, il ragazzo le avrebbe travasato tutta la vernice addosso, pur di farla smuovere – Che tu tanto critichi.»
«Ma io non li ho affatto criticati.»
Louis si voltò e la fissò con uno sguardo che non ammetteva repliche, per di più, alzò anche un sopraciglio e dilatò maggiormente gli occhi. Rion ricambiò lo sguardo impassibile, ma trovandosi davanti la faccia di Louis, prima scosse la testa, ma siccome il ragazzo sembrava non avere la minima intenzione di cambiare atteggiamento, Rion iniziò a ridacchiare: «Sei ridicolo.»
«Tu sottovaluti dei cerotti efficacissimi
Rion iniziò a ridere, così che le guance le divennero più rosse e lo sguardo si illuminò. Louis si sentì leggero e scoppiò a ridere anche lui, le spalle scosse dagli spasmi.
Rion continuando a ridere, prese il rullo e continuò a dipingere, «Sei uno stronzo.» disse con gli occhi lucidi.
«Io? Io?! E tu che insulti i miei cerotti?»
Rion, scoppiò a ridere e si appoggiò al rullo per reggersi.
 
Rion si sentiva leggera e bene. Non aveva mai provato emozioni simili, i suoi pensieri peggiori erano scivolati in una parte del suo cervello remota e la ragazza sperò che li vi rimanessero. Non aveva mai considerato da quel punto di vista i rapporti umani. La gente tende a descrivere un rapporto sempre in modo negativo, che porta alla sofferenza e questo aveva costretto la ragazza a rifugiarsi in se stessa e alzare mille barriere intorno a sé. Invece la gente sbagliava e se ne rendeva conto solo adesso, prima di descrivere a cosa portava un rapporto, ovvero la sofferenza, bisognerebbe evidenziare cosa ha lasciato quel rapporto, quelle piccole cose che fanno sorridere e ridere, riscaldano il cuore e fanno sentire la persona un po’ più amata. La gente, invece, tende a sottolineare la tristezza, la sofferenza e la solitudine che si prova a fine rapporto, dicendo, molte volte, che non ne vale pena soffrire così tanto per una persona.
Rion, pensava, che alle persone piacesse sottolineare tutta quella sofferenza solamente per una questione puramente egoistica. Il bello portava al brutto, dicevano tutti, ma erano rari i casi in cui il brutto portava al bello.
La sofferenza è un sentimento pessimo, che l’uomo tende a evidenziare maggiormente alla felicità, per il fatto che per la persona la felicità è scontata, come se fosse posta su un piatto d’argento, invece dovrebbe essere considerata pur lei come la sofferenza. Un sentimento difficile da raggiungere, che può causare diversi stati d’animo, ma non scontata. Una persona può vivere tutta la sua vita confinando nell’apatia pensando di essere felice, ma in realtà non lo è perché la felicità, appunto, non è scontata.
La felicità veniva mano a mano, in modo continuo, mentre la sofferenza arrivava in picchiata, un altro motivo per cui l’uomo si sente sotterrato ed è costretto a descrivere i suoi effetti.
Rion, ora, che non aveva mai sperimentato un sentimento del genere, si sentiva come un uomo sofferente.
«Hai progetti per il futuro?»
Rion scosse la testa, rabbuiandosi costatando che non aveva nessun tipo di progetto, la sua vita ruotava attorno a suo fratello, che nell’ultimo periodo peggiorava, «No, però vorrei andarmene da qui.»
«Come mai?»
Scosse le spalle, e anche se dentro di lei vi era quel sentimento così tanto ricercato, il suo comportamento rimaneva uguale, ma a Louis bastò guardarla negli occhi per capire che qualcosa si era smosso, nonostante ciò, doveva agire con cautela. Doveva trattarla come una bambina che muove i suoi primi passi.
«Non lo so, sento che questo non è il posto per me.»
«Ti capisco. – Mormorò il castano – Quando mio padre mi disse che ci saremmo trasferiti, lui aveva detto ‘andiamo a vivere a New York’, tu puoi benissimo immaginare come un ragazzo possa reagire a un’affermazione del genere. Ti fai mille castelli, sogni le camminate notturne in mezzo a mille luci, gli svaghi, la città che non dorme mai cazzo, e poi, poi ti ritrovi in un quartiere desolato dove l’età media dei cittadini è sessant’anni, vi è un giro di droga abbastanza consistente del quale la polizia sembra fregarsene e la maggior parte delle ragazze non sono loquaci.» e fissò Rion, che rimase impassibile.
«Beh, se pensi che le ragazze non siano loquaci, allora non hai ben conosciuto Rylee.» mormorò la mora.
«Forse lei è un’unica eccezione.»
«Sei qui solo da tre mesi, Louis, vedrai che cambierai idea sulle ragazze.» e accennò un sorriso muto.
«Quindi per il resto, ho ragione?»
«Assolutamente sì. Gli anziani vengono qui per passare una vita tranquilla e non stare più nel caos newyorkese, viceversa i giovani se ne vanno finito il liceo. La droga è sempre stato un problema per questa città, negli anni ’80 è stato un circolo famoso questo posto, quasi quanto lo era Berlino in Europa, con il passare del tempo e le varie leggi, le cose si sono placate, ma non del tutto.»
«Come fai a saperlo?»
Rion si morse le labbra, «Sono cose che si sanno. I miei genitori sono sempre vissuti qui e loro erano nel cult della droga durante gli anni ’80, in più se ne parla, c’è un quotidiano, sai?»
«Sì, mio padre alcune volte lo legge.»
«Una volta al mese, solitamente, mettono un inserto sul giro, specificando che la polizia da quando c’è un nuovo sceriffo è totalmente disinteressata alla questione droga e si dice che il giro sia aumentato.»
Louis notò che parlava in maniera molto calma, ma non rivolgeva mai lo sguardo al castano, segno che non voleva far trapelare qualcosa.
«Io ci sono andato, è un posto lugubre. Ci sono tantissimi drogati, sembrano scheletri.»
La ragazza annuì con fare distante e poi imprecò: «Cazzo, non ci arrivo.» e Louis notò che cercava di sollevarsi sulle punte dei piedi per coprire di verde l’ultimo tratto di muro.
Il castano non ci pensò due volte, pose a terra il rullo e si chinò, afferrando Rion per le gambe e mettendosela sulle spalle, si sorprese a pensare quanto fosse leggera.
«Oddio, ma che cazzo fai?» esclamò tirando i capelli di Louis e lanciando un gridolino spaventato, Louis strinse gli occhi per il dolore alla nuca e represse un sorriso, nel sentire le gambe rigide di Rion sulle sue spalle, il calore emanato del centro delle sue gambe e il suo seno che sfiorava la sua testa.
«Ti aiuto, dài, inizia a pitturate, su.»
«No, Louis, mettimi giù.»
«Hai paura delle altezze?»
«No, ma…» biascicò.
«Beh, allora muoviti, che non sei mica una piuma.»
«Non ho più colore.» mormorò la ragazza.
Rion iniziò a pitturare il muro, facendo un’opera perfetta dato che si trovava alla stessa altezza della parete. Dal canto suo, Louis stava sudando e stringeva i denti, non voleva lasciarla, soprattutto ora che la ragazza si era rilassata a stare sulle sue spalle e in più, il contatto con lei, lo calmava.
Quando fu il momento di staccarsi, Louis si abbassò sulle ginocchia e Rion scese, ma nel farlo perse l’equilibrio e l’unico appiglio che trovò, fu il muro appena verniciato, sul quale piantò una bella manata. In seguito si staccò e perse nuovamente l’orientamento e la sua mano andò a posarsi sulla spalla di Louis, coperta da una maglia grigia.
«Oddio.» mugugnò Rion, reprimendo un sorriso.
«La mia maglia. La mia cazzo di maglia. La. Mia. Fottuta. Maglia. Tu hai sporcato la mia maglia. La mia maglia.» e mentre diceva questo, afferrò un pennello per rifinire i bordi e lo immerse nella vernice.
«No, Louis, no. Non ho fatto apposta, ti prego, no.» supplicò Rion, allontanandosi.
Il braccio di Louis scattò andando a colpire la guancia della ragazza e buona parte della maglietta.
Rion guardò la maglietta allibita e poi, fissando Louis in modo truce, ripose la mano al muro e sporcò nuovamente il ragazzo, lanciandogli uno sguardo di sfida.
«Adesso. Tu. Muori.» disse in tono assassino.
Quello che successe in seguito fu una lotta a rincorrere l’uno l’altro, cercando di nascondersi nei luoghi meno improponibili, quali dietro al secchio contenente la vernice, dietro a un calorifero, dentro al bagno delle femmine nel quale Louis non si fece molti problemi a entrare e bussare ripetutamente alla porta della ragazza per poi ritrovarsela dietro con un pennello in mano.
Stavano finendo la vernice, fortuna vuole che il muro era già stato tutto pitturato, quando Louis stava immergendo il rullo nel colore. Lo alzò, schizzando ovunque delle goccioline, e urlò: «Raaaaaaaaaaa!» e iniziò a rincorrere Rion per tutto il corridoio, giungendo nell’atrio in cui una decina di ragazzi li guardarono allibiti e spaventati.
«Ehm, salve gente.» mormorò Louis.
«Oh, ma vedo che qui qualcuno si diverte.» Rylee guardò il ragazzo e la sorella con uno sguardo malizioso.
«Beh, ha iniziato lei.» e Louis puntò il rullo addosso a Rion, imbrattandola di colore.
Ormai la maglia bianca di Rion era diventata verde, così come quella di Louis. Solo i calzoni e le scarpe di entrambi lasciavano intravedere i loro colori originari.
«Beh, Louis, permettimi di non crederti.»
Louis alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa riguardo l’alleanza tra sorelle, per di più gemelle, poi chiese: «Io ho fame. C’è del cibo?»
«Al piano terra stanno facendo un rinfresco.» il ragazzo, posò a terra il rullo e scese di corsa le scale.
«“Gli farò capire che non ho nessuna intenzione di conoscerlo e bla bla bla”, vero?» mormorò Rylee in tono divertito e ripetendo le parole della sorella.
«Oh, stai zitta, Rylee.»
«Guardati, Rion, sei raggiante.»
«Vaffanculo.» e represse un sorriso.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

MA TIPO CHE E' DALL'INIZIO DELLA STORIA CHE ASPETTAVO DI PUBBLICARE QUESTO CAPITOLO???????
Vi giuro, strano ma vero, amo questo capitolo. 
Siamo calati in un'atmosfera molto leggera, forse è già successo che due si conoscessero meglio pitturando qualcosa, ma non lo so, a parere mio questo capitolo è bello. 
E lo dico io.
IO.
Che reputo i miei scritti cacca di cane o di gatto, dato che è più puzzolente, vbb.

Come avrete notato il clima della storia è tranquillo.
Greta è andata dispersa, ma ritornerà tranquilli. 

Rion e Louis, ragazzi. RION E LOUIS. 
E' un capitolo praticamente dedicato a loro e boh.... che ve ne pare?
I loro sentimenti si stano sciogliendo dal cubetto di ghiaccio soprattutto quelli del castano. 
E Rion si sta lentamente smuovendo. 
Che ve ne pare?
E' molto soft lo so e ho sempre paura che vi annoi. 

Le recensioni stanno diminuendo, molti perché sono in vacanza, ma ho paura che la storia stia incominciando ad annoiarvi. 
Datemi un segno, anche voi lettrici silenziose, vi prego. 

Una cosa: non so se l'avete notato, ma Rion ha detto a Louis "Sei qui da soli tre mesi..." ciò significa che la storia ha avuto un piccolo sbalzo temporale, non è tanto sia chiaro, un mesetto. Volevo che lo sapevate dehhe.

Passando oltre-----> RYLEE APRIRA' LA LETTERA? E COME SI COMPORTERA'?
 
Volevo solamente ringrarvi per continuare a seguire la storia, a tutte voi. 
Davvero grazie, grazie, grazie. 
Ci conto molto e boh, grazie mille.

Ultima cosa: ho sospeso la storia su wattpad.

A presto,

Giada.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

 
ATTENZIONE: il testo contiene un brano musicale che vi invito a far partire quando Louis arriva a casa (capirete leggendo) e sarà importante per il resto della storia.
Il link è nell'angolo autore, ma ve lo riporto anche qui: 
https://www.youtube.com/watch?v=9luggu1KysQ
 
MissionXIII

Erano passati tre mesi e mezzo da quando Louis era giunto in quel piccolo quartiere di New York ed esattamente tredici giorni da quando aveva pitturato il muro verde della scuola insieme a Rion. Si stava abituando e ora era in grado di alternare il tempo con Maxie e con Rion, non che con la ragazza passasse molto tempo con lui, anzi. Dopo l’impresa “imbianchini” Rion era sempre la stessa, anche se concedeva delle piccole libertà al castano. Libertà che Louis non approfondiva, ci voleva tempo e lo sapeva.
In quel periodo si era avvicinato molto a Maxie, aveva capito che lo aveva trascurato tanto e ora che sapeva, più o meno, come prendere Rion passava più tempo con l’amico biondo.
Stava con lui un pomeriggio a settimana, la scusa che rivolgeva in casa era il classico “«Mamma, vado a studiare da Maxie.»” anche se i libri difficilmente venivano aperti, dato che il pomeriggio veniva speso tra accordi di chitarra, musica e qualche sigaretta.
Le serate erano diventate più piacevoli, Louis era entrato nella compagnia di Maxie a tutti gli effetti e aveva stretto un buon rapporto con tutti, soprattutto con Niko e Rylee.
Rylee era molto felice per sua sorella e per Louis, la ragazza li vedeva già sposati, ma Louis placava la sua voglia di vedersela come genera.
Louis chiacchierava con Rion, o meglio, lui parlava e la giovane lo ascoltava, quasi tutte le mattine. Il castano di rado faceva domande alla mora riguardo le occhiaie, la pelle bianca e il comportamento sempre assente della giovane, in quanto vedeva nei suoi occhi verdi una paura innata.
Ogni volta che il castano mormorava qualcosa riguardo la droga, Rion si irrigidiva e iniziava a tormentarsi le mani dove giorni prima si era procurata il taglietto.
Louis era cauto, ma era consapevole che tra di loro non ci fosse nulla, anche se lui, segretamente, bramava Rion.
Quel giorno il sole splendeva nelle vie del piccolo quartiere newyorkese.
Louis, fumando sul balcone della sua camera, vedeva gli alberi iniziare a germogliare, il cielo più azzurro e un vento fresco che faceva scompigliare i capelli al castano.
Stava arrivando la primavera, nonostante questo i cittadini indossavano ancora giubbotti, sui divani c’erano ancora le varie coperte e nessuno rifiutava una bella tazza di cioccolata.
«Lou…?» sua sorella irruppe nella stanza con una lentezza e un silenzio tale che Louis si spaventò, ormai Evelyn era abituata a vedere il fratello fumare, quindi il ragazzo non si degnò di spegnere la sigaretta.
«Ev, è successo qualcosa?» domandò, vedendo la faccia preoccupata della piccola.
«No… Cioè… – Si strofinò le mani con un gesto nervoso – Ecco…»
Il fratello iniziò a preoccuparsi e a pensare tutte le catastrofi che potessero succedere a una bambina di sei anni. Partì da quelle peggiori: suo padre gli aveva fatto qualcosa? La piccola iniziava a capire il rapporto inesistente tra i genitori? Era successo qualcosa a scuola? La emarginavano perché era arrivata dopo? Louis corrugò la fronte, la piccola, da quello che diceva in casa si trovava bene con i nuovi compagni di classe e le maestre erano brave. Si intimorì pensando che forse Evelyn non avesse detto nulla sino a quel momento perché magari non voleva far preoccupare nessuno. Una volta aveva visto un film che parlava di bullismo e la protagonista, che non aveva detto nulla ai genitori, aveva finito per tentare il suicidio.
Fissava la sorella con sguardo preoccupato e incuriosito: «Evelyn, che caz…  –  Tossicchiò, non doveva dire parolacce – Cosa sta succedendo?»
«Beh, Lou, vedi…»
Aveva un groppo in gola, ma poi vide un sorriso malizioso comparire sul volto paffuto della bambina.
Si rilassò e iniziò a pensare ai dilemmi di una bimba di sei anni: era finita la stagione di Peppa Pig? Louis si accigliò, sua sorella non guardava più quel cartone, fortunatamente, adesso era fissata con un qualcosa in cui i personaggi cantavano e Louis non voleva saperne. Era finita quella soap opera? Oppure voleva un gioco? Aveva rotto qualcosa?
«E’ arrivato il tuo piano!» e corse ad abbracciare il fratello.
Louis si accasciò contro il muro, un po’ per l’uragano di gioia che era nato in Evelyn e un po’ per la serenità che gli era pervasa nel corpo. Aveva davvero temuto che le fosse capitato qualcosa.
Sollevò tra le braccia la sorellina e la fece girare: «Dici sul serio?»
Era stranito, infondo era pur sempre sabato e non si aspettava che il camion dei trasporti con il suo amato pianoforte sarebbe arrivato quel giorno, che tra l’altro era qualche patrono ricorrente della città, quindi tutti erano in vacanza.
«Sì! Adesso impari a suonare le canzoni di “Violetta” e poi le cantiamo assieme!» esclamò entusiasta la bambina.
Louis fece una smorfia, ricordandosi la soap opera che vedeva Evelyn e si impietosì ancora di più rimembrando la sorella ballare e cantare a squarciagola davanti al televisore.
«Sì, tesoro, certo. – Disse senza entusiasmo, ma facendo un sorriso finto che nemmeno Rion sarebbe stata in grado di fare, Louis si stupì di quel pensiero – E ora, andiamo a vedere, piccola.»
Evelyn corse giù dalle scale, urlando: «Mamma! Mamma! Lou arriva!»
Louis prima di scendere, afferrò una cicca dalla giacca e iniziò a masticare per smascherare l’odore di fumo, sua madre sapeva che fumava anche in casa, ma non accettava ancora l’idea che suo figlio si rovinasse i polmoni, così, per suo rispetto, il castano cercava di farsi vedere il meno possibile.
Scese gli scalini e raggiunse la sala insonorizzata.
Padre e figlio non avevano mai avuto un buon rapporto, ma se c’era una cosa su cui andassero d’accordo, quella era proprio il piano. Era stato il padre di Louis, infatti, a incitarlo a suonare quando aveva solo sei anni e il giovane era riconoscente al genitore solo per quell’atto: da quello, difatti, partiva tutto il suo amore per la musica.
Fece passi pacati e vide il piano nel bel mezzo della sala, come un pezzo d’arredamento. Era un pianoforte a coda, nero, già pronto all’uso. Louis si ricordò che i primi anni aveva un piano a muro, poi Evelyn l’aveva rotto buttandoci addosso qualche suo stupido giocattolo e ora possedeva quella bellezza.
Lo sgabello, nero anch’esso, rivestito con un cuscino in pelle, lo attendeva, fremente.
Il ragazzo si sedette, sentendosi subito bene ed eccitato, erano mesi che non suonava.
Tolse il panno azzurro che ricopriva la tastiera e fu folgorato dalla vista di quegli ottantotto tasti, sorrise e poi deglutì, mentre nella sua mente si andavano a formare le più svariate sinfonie.
Stiracchiò le dita e poi, mentre abbassava il capo e le mani si posavano sui tasti, iniziando da una sinfonia di Chopin, per andare a sfumare in Bach e infine in Debussy.
Louis amava mischiare i vari testi degli autori. Era partito tutto per gioco, Louis mischiava gli autori a caso, perché quando suonava si faceva trascinare talmente tanto dalla musica che non si rendeva conto di cambiare compositore.
Un giorno suo padre lo sorprese e gli disse di ricreare delle nuove melodie, da quel momento Louis si mise a studiare ogni singolo brano con estrema precisione, trovando le note che andavano d’accordo con altre, unendole, mischiandole e dando vita a una melodia pressoché perfetta.
Faceva questo soprattutto con i grandi virtuosi del mondo musicale, non trascurando mai la melodia originale.
Per i testi di canzoni invece, li rivisitava e basta.
Amava suonare.
Quando lo faceva, non si sentiva più Louis, bensì un automa che riportava gli input della sua mente ai tasti e faceva uscire la musica. Non sentiva nulla, era completamente svuotato.
Tutti i suoi demoni se ne uscivano dal cervello, per lasciare un vuoto che Louis adorava più di qualsiasi altra cosa.
Non si sentiva nemmeno felice.
Era talmente rilassato che se avesse potuto, avrebbe suonato per il resto della sua vita.
Le dita scorrevano liete sui tasti, gli occhi chiusi, la bocca che si muoveva muta, sillabando note, bemolle e diesis, anche se non ce n’era bisogno. Il ragazzo sapeva il testo a memoria.
Liberò tutto quello che aveva tenuto in corpo per mesi, tutto quello che non era riuscito a liberare stringendo sua sorella o guardando negli occhi Rion oppure fumando con Maxie.
Sorrise tranquillo, mentre una piccola lacrima gli colava sulla guancia.
Libertà.
Fu mentre cambiava bruscamente il brano in un classico di Mozart, il “Don Giovanni”, che si ritrovò a pensare a Rion.
Voleva farle sentire mentre suonava. Voleva che lei lo sentisse, voleva farla stare bene e farle capire che lui la poteva comprendere, e per questo, aveva pronta una canzone giusta per lei.
 
Uscì di casa, componendo il numero di Rylee, inondato da un’adrenalina che probabilmente non gli sarebbe mai più venuta.
«Rylee, ciao!» disse quando la ragazza ebbe risposto.
«Louis, ehi, tutto a posto?»
Louis sorrise nel sentire un tono preoccupato da parte della bionda, in fondo, non l’aveva mai chiamata.
«Sì, certo, senti – mormorò con fare pratico – Rion è in casa?»
La gemella ci mise un attimo a rispondere e capire cosa volesse il castano, «Sì, c’è, ma Lou…»
«Bene, mi diresti dov’è che abiti, mh?»
Rylee sospirò reprimendo una risata e iniziò a spiegare al castano la strada.
 
Louis si sistemò la giacca e i calzoni, poi si passò una mano nei capelli, reprimendo l’agitazione che stava nascendo nel suo corpo.
Saltellò sui piedi e sbuffò, scaricando l’ansia. Suonò il campanello come se dovesse attivare una bomba, in seguito si staccò subito, mettendosi le mani nelle tasche posteriori dei jeans e continuando a saltellare sulle Vans nere.
Si guardava intorno, fissando la casa gialla, posta su due piani con un piccolo giardino verde disseminato da boccioli in fiore.
La porta si aprì, Louis guardò dritto davanti a sé aspettandosi di vedere Rylee oppure sua madre, invece, fu costretto ad abbassare lo sguardo e alzare le sopraciglia.
Un esserino di circa un anno lo guardava sorridente, stava in piedi a stento, tanto che quando lasciò le manine dalla porta, la piccola iniziò a vacillare.
Louis si chinò d’istinto, così come faceva con Evelyn e sollevò la bambina, tenendola in braccio. Quest’ultima si aggrappò ai capelli del castano e Louis non poté fare a meno di pensare a quando Rion glieli aveva stretti due settimane prima.
«Ma ciao! Tu chi sei?» disse guardando la piccola in viso, aveva i capelli biondi e leggermente mossi, che richiamavano Rylee, ma gli occhi erano identici a quelli di Rion, verdi come l’erba.
Louis si chiese se la ragazza da piccola fosse stata identica alla sorellina, Rylee, una sera gli aveva confessato che sua sorella si tingeva i capelli di nero, ma in realtà era bionda.
«‘Enae
«Piacere mio, Renae. – Sorrise il castano, dandole un buffetto – Io sono Louis, mi potresti andar…»
«Renae, ti ho sempre detto di non aprire agli sconosciuti, ma di aspettarmi per il citofono.» una voce calma e sicura irruppe sulla porta, Louis si trovò davanti Rylee, solamente invecchiata di qualche anno.
La madre di Rylee e la figlia erano una la fotocopia dell’altra: capelli biondi, occhi azzurri e fisico asciutto. Louis rimase a bocca aperta e si chiese se tutti in quella casa si somigliassero.
Jessica squadrò Louis da testa a piedi, poi vedendo che teneva tra le braccia Renae e non aveva nessuna intenzione di rapirla, si rasserenò: «Oh, scusami. – Sorrise – Devi essere un amico di Rylee, aspetta te la vado a chiamare.»
Louis alzò le sopraciglia e rimase stupito quando la madre diede subito per scontato che lui fosse lì per Rylee e non per Rion. La solitudine della ragazza doveva essere conosciuta anche in casa.
Louis entrò nell’abitacolo per bloccare la madre, «Ehm, signora, in realtà io sono qui per Ri… Professoressa Finch?» esclamò il castano, vedendo seduta al tavolo la sua prof. di matematica, intenta a bere una tazza di tè in tutta tranquillità.
Era anche lei di famiglia?
«Ciao, Louis.» sorrise e rivolse un’occhiata a Jessica, la quale sembrò afferrare al volo.
«Scusa, mi stavi dicendo qualcosa?»
Louis era spaesato, scosse la testa e per guadagnare tempo depose la piccola Renae sul pavimento, che iniziò a gattonare in giro per la cucina.
«Sì, ecco, vede, io non sto cercando Rylee, ma Rion.» e sorrise nervoso, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans.
«Rion?» domandò Jessica stupita con la fronte corrugata e gli occhi più aperti del normale, il ragazzo vide con la coda dell’occhio la sua insegnante soffocare una risata nella tazza.
Jessica iniziò a massaggiarsi le tempie e camminare per la cucina, Louis pensò subito di aver fatto qualcosa di male e lo stava per chiedere, quando Jessica sorrise radiosa, «Rion! Ma certo, sì come no, te la chiamo subito. Anzi, no. Vai tu, è la prima porta a sinistra, una volta salite le scale.»
Louis rimase interdetto e bloccato per un paio di secondi, ma la voce della sua prof. lo ridestò: «Ciao, Louis.»
«Arrivederci, signorina Finch. – Guardò la madre delle gemelle – Signora…»
«Jessica, chiamami Jessica.» continuava a sorridere, Louis giurò quasi di vedere delle lacrime negli occhi azzurri.
Annuì e salì le scale, una volta giunto davanti alla porta della camera di Rion, tamburellò sui piedi, in ansia, sospirò e bussò.
Non provenne nessun suono, alzò le sopraciglia e pensò che magari si trovasse in bagno. Ribussò di nuovo, ma anche questa volta nessuno rispose al suo richiamo.
Si sentiva un coglione, così decise di fare un giro nel corridoio, magari avrebbe trovato qualcuno a cui chiedere della ragazza. D’un tratto si immaginò un uomo muscoloso con in mano una mazza da baseball che lo minacciava di andarsene e di lasciare in pace sua figlia.
Scosse la testa e spiò in una camera socchiusa, fu quasi certo di vedere una flebo e un ragazzo con una bandana, quando da una porta lì vicino comparve Rylee: «Louis!» esclamò nervosa e si avvicinò, chiudendo la porta della camera misteriosa.
I pensieri di Louis riguardo su quello che ci fosse in quella stanza vacillarono, ma poi decise di lasciare perdere.
«Sto cercando Rion, ma non risponde.»
Rylee sorrise, «Starà ascoltando la musica, entra e urla.» poi come era comparsa, scomparve in una camera lì vicino.
Louis rimase scioccato: si doveva mettere ad urlare?
Mentre ritornava davanti alla porta, cercò nella sua mente un modo per captare l’attenzione della mora.
Aprì la porta ed entrò tenendo lo sguardo basso.
La camera era piccola: le pareti erano bianche con attaccati diversi poster, vi erano molte mensole, su ognuna delle quali erano disposti diversi libri in ordine di grandezza. Vari vestiti erano sparpagliati sul pavimento in parchè, il ragazzo notò in un angolo lo zaino che Rion teneva a scuola e vicino a questo, uno zaino nero che non le aveva mai visto, ma che gli risultò famigliare.
Un tappeto era disposto ai piedi del letto, sul quale era sdraiata Rion con le cuffiette e gli occhi chiusi.
Louis strabuzzò gli occhi e la gola gli si seccò subito, mentre un brivido gli percorreva la schiena.
Rion era in mutande e indossava una maglietta bianca. Louis notò che era senza reggiseno e il petto di lei era abbastanza visibile, attraverso il tessuto vide i seni aprirsi in un valle. Il ragazzo represse l’istinto di avvicinarsi, toglierle la maglia e baciare quella sua parte. Deglutì e osservò le gambe sollevate in aria come a fare dei piegamenti, i muscoli tesi. Louis fece scivolare lo sguardo sul fondoschiena della ragazza ammiccando, quando, strabuzzò di più gli occhi: quella era una brasiliana in pizzo nero?
Deglutì e portandosi una mano agli occhi, lasciando libera una fessura tra le dita affusolate, iniziò a urlare: «Rion Lee, ti prego, copriti!»
La ragazza si alzò di scatto togliendosi le cuffiette e appena focalizzò che non era nessuno dei suoi famigliari, divenne rossa in viso e cercò di coprirsi con il piumino, che puntualmente rimase dov’era, facendo sì che la giovane cadesse a peso morto sul pavimento, gridando a sua volta: «Che cazzo ci fai qui?»
Louis osservò la scena a rallentatore, godendosi le curve della ragazza e diventando rosso come un pomodoro a sua volta.
Ecchecazzo.
Rion si alzò, trasformò il suo viso scioccato nella classica faccia imperturbabile e si avvicinò a Louis, che arrancò andando a sbattere contro la porta.
Stava andando in iperventilazione.
Sentiva la bocca secca e la lingua gli si era praticamente arrotolata in mille nodi.
Aveva un caldo infernale, tanto che sentì la schiena e la fronte imperlarsi di mille goccioline di sudore.
Non poteva vedere Rion con quei vestiti, aveva pur sempre diciannove anni, cazzo.
Cercò di mantenere un contatto visivo con la giovane, ma questo venne impedito poiché questa incrociò le braccia, facendo sì che la maglia si alzasse rivelando una pancia bianca, e i seni si appoggiassero, nascondendo la valle.
Cristo santo.
Chiuse gli occhi e sentì aumentare le goccioline di sudore sulla fronte, poi qualcosa nel suo basso ventre si mosse.
No, non ora. Sei qui per uno scopo e io non ti permetterò di avere la meglio. Placati, stupido pene.
«Che. Cazzo. Ci. Fai. Qui.» ripeté Rion.
«Devi venire a casa mia.» fu tutto quello che riuscì a dire il ragazzo.
Rion chiuse gli occhi a fessura e guardò il ragazzo: «Cosa?»
«Sì, hai capito, dài. – La fissò – Copriti il culo.» strabuzzò gli occhi, non credendo davvero di aver pronunciato tali parole.
Ma che cazzo ti dice il cervello?
«Ma tu sei fuori di testa. Chi cazzo ti ha detto di entrare in camera mia e dirmi di venire da te? Vattene, Louis.» e la ragazza si voltò, Louis si tranquillizzò, poi l’occhio gli cadde sul suo fondoschiena e andò maggiormente in iperventilazione.
Devi rimanere calmo. Il maestro Jedi, il più grande di tutti, Louis, Yoda che sembra un nome così morbido, come il culo di Rion… No, Yoda di “Star Wars” diceva sempre “Che la Forza sia con te”.
Strinse le mani a pugno, ma queste erano talmente sudate che riuscì a malapena a stringerle. 
Bene, Forza del cazzo, dove sei?
Corrugò la fronte dandosi del coglione, perché era andato lì?
Solamente quando la ragazza si mise sotto le coperte, in evidente imbarazzo, Louis riuscì a calmarsi e scervellarsi per trovare delle scuse e le parole giuste da dire a Rion.
«Sei ancora qui?» domandò acida.
«Sì, scusa se sono entrato in camera tua, ma ho bussato e non hai risposto. Tua madre mi ha detto di farlo, poi Rylee mi ha detto di urlare se non mi avessi sentito. – E una è andata, respirò – Sono qui perché oggi mi è arrivato, dopo mesi, il pianoforte e ho una dannata voglia di farti ascoltare qualcosa e dato che il piano è a casa mia, sai no, – Rion lo guardava inespressiva – dovresti venire da me, ecco.» riprese a respirare.
«Esci subito di qui. – Mormorò alzandosi, Louis trattenne il respiro e fissò il soffitto incredibilmente interessato – E aspettami giù.»
Uscì senza aver capito una singola parola, ma per lo meno, il concetto gli era arrivato e sorrise smagliante passandosi una mano sulla fronte e si accorse che era lavata, se la pulì nella maglia emettendo un suono discustato.
 
«Prenditi cura di lei, Louis. Ne ha davvero bisogno, soprattutto in questo momento.» sussurrò la signorina Finch mentre il ragazzo aspettava Rion, Louis annuì.
 
Solamente quando si sedette sullo sgabello del pianoforte, si rese conto di quello che stava per fare.
Implicitamente stava dedicando una canzone a Rion.
Era agitato, aveva paura di deluderla e non voleva, desiderava, invece, farla stare bene. Cercare in qualche modo di farle provare quello che lui sentiva mentre suonava.
Libertà.
Aveva preso lo spartito, tirando fuori un raccoglitore che esplodeva per i tanti fogli che c’erano dentro.
Decise di riportare la versione originale, non voleva darsi arie, voleva solo che Rion stesse bene e che lei capisse che lui era presente.
«Ma la canti?» domandò la ragazza, vedendo lo spartito.
Per la gioia di Louis, o meglio, per il cervello del ragazzo, la giovane aveva indossato il classico paio di Jeans neri e una maglietta grigia, con il reggiseno.
Louis deglutì, «Beh, non lo so, come vuoi, decidi tu.» non aveva mai cantato in pubblico, se non davanti a sua madre, suo padre ed Evelyn.
«Se non hai una voce di merda, per me puoi anche cantarla. – Disse e si andò a sedere dietro di Louis, sul pavimento; il castano la guardò curioso – Si vede lontano un miglio che sei agitato, quindi, fai finta che io non ci sia e il meglio, per metterti a tuo agio, è non farmi vedere.»
Louis si voltò, fissò lo spartito e le note andarono tutte insieme. Chiuse gli occhi, deglutì, scrocchiò le dita e le posò sul piano, iniziando l’intermezzo musicale.
Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare, mimando le note.
Staccò le mani e le ripose, iniziando a cantare.
 
«am a man who walks alone,
And when I'm walking a dark road,
At night or strolling through the park.
»
 
Chiuse le bocca, sorridendo e respirando piano, poi proseguì, facendo uscire le note sia della bocca sia dalle mani.

 
«When the light begins to change,
I sometimes feel a little strange,
A little anxious when it's dark.
»
 
Chiuse nuovamente le labbra, desiderando con tutto il cuore vedere la ragazza dietro di lui, la sua espressione. Perché quella canzone era lei. Una ragazza che aveva paura, era ansiosa, perché tutti, tutti nascondono dei segreti e Rion ne aveva fin troppi.
Louis sperò che la ragazza non interpretasse quella canzone come un’accusa, era solamente un modo per farle capire che lui accettava la sua paura e la comprendeva se si nascondeva nel buio, perché nonostante quello che facesse, aveva uno scopo nobile.
Deglutì e passò al ritornello.
 
«Fear of the dark, fear of the dark,
I have constant fear that something's always near,
Fear of the dark, fear of the dark,
I have a phobia that someone's always there.
»
 
Chiuse gli occhi e represse un singhiozzo, la libertà lo stava avvolgendo, ma a parere suo quella canzone rispecchiava ogni singola persona. Tutti avevano paura di qualcosa e tutti temevano che quella cosa potesse spuntare da un momento all’altro.
Inoltre Louis si sentiva coinvolto a pieno perché quella canzone rispecchiava Rion: la ragazza si nascondeva nell’ombra, ma al tempo stesso anche da se stessa.
Louis prese un respiro profondo: nella versione vera e propria, Bruce Dickinson*, partiva con la classica voce caratterizzante del genere Heavy Metal britannico, ovvero una voce acuta, raschiante, che ti entrava nelle vene e faceva scorrere il sangue a mille, aggiungendo acuti di riguardo. Louis non poteva permettersi una perfomance del genere, prima di tutto non ne era in grado e secondo, la sua era una cover a piano, quindi proseguì con il suo tono acuto e melodioso.
 
«Have you run your fingers down the wall,
And have you felt your neck skin crawl,
When you're searching for the light? 
Sometimes when you're scared to take a look,
At the corner of the room,
You've sensed that something's watching you.
»
 
Come da copione, svolse l’“instrument solo”, muovendo velocemente le dita sul piano, gasandosi e cercando di darsi un contegno, ma l’automa stava avendo la meglio e lui si lasciò andare.
«Have you ever been alone at night,
Thought you heard footsteps behind,
And turned around and
no one's there? 
And as you quicken up your pace, 
You find it hard to look again,
Because you're sure there's someone there.
» 
 
Marcò a pieno con la voce e con le dita sul piano, quell “No one’s there” perché lui voleva esserci. Lui, se la ragazza glielo avesse concesso, sarebbe stato il suo “nessuno”. Lui voleva che Rion lo sentisse, per la prima volta si sentiva incredibilmente rilassato, i muscoli delle spalle erano tesi non per agitazione, ma per la velocità che richiedeva la melodia del brano. Le gambe erano totalmente disposte in avanti, distese, Louis aveva abbandonato la classica posa che lo faceva somigliare a una persona che volesse scappare da un momento all’altro.
Sarebbe rimasto lì per sempre, con Rion che lo ascoltava e gli guardava la schiena.
Saltò una strofa che a parere suo non aveva niente a che fare con la situazione, ripeté il ritornello e poi, concluse.

 
«When I'm walking a dark road,
I am a man who walks alone.»
 
Staccò le mani dal piano e guardò fisso davanti a sé, rilassato.
Rion gli comparve subito davanti, un sorriso gli illuminava il volto, Louis se lo impresse subito nella mente. Non era il classico sorriso muto che esibiva la giovane, quello era un vero sorriso. Gli occhi erano socchiusi, formando delle tenere rughe da contorno, le guance rosse. Quando la bocca si distese, il ragazzo notò che le sue iridi erano di un verde molto più chiaro e lucido. Sembrava che stesse sul punto di piangere, ma ormai Louis sapeva che Rion non sarebbe giunta a tanto.
«“Fear Of The Dark” degli Iron Maiden. – Mormorò la ragazza, fissando i tasti – Uno dei loro capolavori più spettacolari, ricordo che la copertina dell’album mi inquieta tantissimo, ancora adesso. Per non parlare di Eddie** che sembra un cazzo di albero.» sogghignò.
Louis rimase quasi confuso dalle sue parole, la continuava a guardare. Aveva un viso così sereno che non riusciva a capire nulla, era riuscito nel suo intento. Per sette minuti, aveva fatto stare bene Rion.
Si sentiva inebriato.
«Adoro questa canzone. Parla di un uomo che racconta i pericoli che si possono celare nella notte, le sue ombre, ma è tutto un controsenso perché l’uomo ha paura del buio.»
«E il buio è la paura di noi stessi.» mormorò Louis.
Rion annuì, «Suoni davvero bene, sai. – Fece una smorfia – Per quanto riguarda il cantare, beh.»
Louis ridacchiò: «Non commentare, l’ho fatto perché di questa canzone, la cosa più importante è il testo. – Sospirò – Rion, volevo dirti che io non voglio che tu abbi paura di te stessa, c’è gente che ti può accettare così come sei e non risolvi niente a stare nella solitudine, o se vuoi essere in tema, nel buio.»
«Oh, Louis. – Sussurrò la giovane – Io voglio stare nel buio.»
«Ma perché?» e posizionò un dito su un la, premendolo e facendone uscire un suono acuto.
Rion si appoggiò con il fianco al piano, «E’ diventata una sorta di abitudine, lo faccio sin da quando sono piccola. Non ho nessun tipo di interesse nei contatti sociali, non c’è un motivo ben preciso, effettivamente. Non sono una di quelle ragazze che odiano il mondo per un motivo, quale può essere il ragazzo che le ha mollate oppure perché troppo attaccate alle serie TV o per qualche discordanza con i genitori. Semplicemente io un motivo non ce l’ho.»
Louis sapeva che un motivo c’era eccome, ma non disse niente, evidentemente Rion intendeva tutta la sua vita e dato che il castano sapeva che la giovane non spacciava da sempre, interpretò le sue parole come un resoconto complessivo della sua esistenza.
A Rion piaceva la solitudine, ecco svelato il segreto. Era un tipo eremita, per indole evidentemente.
«E tu, perché sei sempre incazzato?»
Quella domanda spiazzò Louis, un po’ perché non se lo aspettava dalla ragazza e un po’ perché era una delle domande a cui non aveva trovato ancora risposta. Per questo voleva diventare psicologo, per fare un bellissimo interrogatorio ai suoi demoni e scoprire il motivo di tanta rabbia.
«Non lo so. Me lo sono sempre chiesto e non ho mai trovato una risposta. Mi calmo alcune volte: quando sto con Evelyn, quando fumo, sono totalmente rilassato quando suono e – sorrise e abbassò il capo, stava per dire “quando tu mi stai accanto”, ma oltre a trovarla una cosa troppo mielosa, non voleva dirgliela, la trovava fuori luogo – e così sì, mi sento calmo.»
«Secondo me ce l’hai con te stesso e te la pigli col mondo intero perché non riesci a trovare una risposta, quando in realtà basta che ti guardi dentro per capire. D’altronde ti calmi quando fai cose che ti piacciono, magari è proprio facendo queste cose che troverai una risposta. – Rion fece una faccia allibita, sorpresa lei stessa di quello che aveva detto – Okay, basta. Sai suonare le “Onde” di Einaudi?»
Louis rimase sorpreso dal cambiamento repentino di discorso, ma si riprese subito e sorridendo posò le dita sul piano.
Rion chiuse gli occhi.
 
«Pronto?»
«Maxie, non puoi capire.» esclamò Louis, buttandosi sul letto. Erano circa le dieci di sera e aveva chiamato l’amico.
«Hai scopato? Oddio, Louis. Ti devono regalare un premio nobel, no assurdo.» disse.
Louis se lo immaginò attento, con gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite e i capelli biondi davanti al viso.
«No, coglione. Però, so che Rion indossa le brasiliane in pizzo.»
Silenzio.
Louis alzò le sopraciglia, pensando che fosse caduta la linea decise di guardare il telefono e menomale che lo fece, perché Maxie inizio a urlare: «Cristo! Oddio, porca puttana, no ma scherzi? Cristo – si sentirono diversi suoni – Scusa, mamma, ma davvero non puoi capire, no non puoi capire. – Sospirò – Cristo, Lou. Ma, mi spieghi come cazzo fai a saperlo? No perché, oddio il suo culo.»
Louis ridacchiò, per nulla geloso, Maxie sbavava dietro al culo di Rion da anni e sicuramente, anche se il castano sarebbe riuscito a fare qualcosa con lei, l’amico non avrebbe smesso, quindi tanto valeva non arrabbiarsi.
Louis gli spiegò il pomeriggio.
«Aveva indosso una brasiliana ed era senza reggiseno, mi spieghi come cazzo hai fatto a non saltarle addosso? Cristo.»
Il ragazzo ridacchiò pensando che dopo avergli raccontato tutto il pomeriggio, Maxie aveva afferrato solo il “Poi, Maxie, davvero non puoi capire, era sdraiata lì sul letto con una maglia bianca senza reggiseno e delle brasiliane, non puoi capire”.
«Io non sono così vulnerabile.» mormorò Louis stringendosi il labbro tra i denti, evitando di ridere e ricordando l’effetto che gli aveva lasciato Rion.
Maxie scattò in una risata isterica, che fece partire le risa anche a Louis, «Sì, come no. Vaffanculo, va’. Dopo quanto sei venuto, mh?»
«Dopo mai, caro mio.»
Maxie sbuffò: «Almeno le hai fatto una foto?»
Louis rise: «Ehi, mi stava quasi per uccidere, e poi perché avrei dovuto farle una foto, scusa?»
«Cristo, quanto sei rincoglionito, dio. Ma per segarti, no? – Blaterò qualcosa che Louis non comprese – E devo pure spiegarti queste cose fondamentali per un uomo. – Sbuffò nuovamente – Comunque, scelta molto azzeccata “Fear Of The Dark”, anche se io avrei scelto qualcosa tipo Pink Floyd, sai no, per esempio “Us And Them” spiega sempre il concetto che volevi comunicarle, anche se in maniera diversa, sì. Oppure…»
«Maxie, non voglio la critica.» mormorò Louis ridacchiando.
«Bene, allora adesso mi descrivi per filo e per segno il suo culo.»
 
_______
*Bruce Dickinson: cantante degli Iron Maiden (magari non l’avevate capito, ew)
** Eddie: è la mascotte degli Iron Maiden, il suo nome completo al momento non me lo ricordo, perché praticamente viene chiamata da tutti Eddie, ew. Compare sotto varie forme, in quasi tutte le copertine, degli album. In “Fear Of The Dark”, come dice Rion alias me, è una specie di albero mischiato a uno zombie. Per farvi intendere, vi lascio il link della copertina: http://www.nuclearblast.de/static/articles/122/122327.jpg/1000x1000.jpg
 
Vi lascio anche:         “Fear Of The Dark” con la cover al piano, ascoltatela è davvero magica: https://www.youtube.com/watch?v=9luggu1KysQ
                                   “Fear Of The Dark” la vera: 
https://www.youtube.com/watch?v=qEja72NSg5Q
                                   “Onde” di Einaudi: https://www.youtube.com/watch?v=3u-IMopPBa8

Spazio autrice

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Oddio avete visto che Google ha cambiato il suo logo?! Io sono sconvolta cioè no, non è possibile. 

Va beh: SCUSATE IL RITARDO. Avrei dovuto pubblicare ieri sera, ma la notte di martedì-mercoledì ho praticamente dormito tre ore, quindi ieri ero sconvolta e in più sono uscita e non ne avevo le forze. 
Allora, questo è un altro capitolo che miracolosamente mi piace. 
Non lo so perché. 

Alloraaa, la scelta della canzone mi è partita così a cavolo e credo che la maggior parte di voi non la conosca, per questo vi invito a sentirla e concentrarvi sul testo, perché è davvero bello. Poi ragazze, andiamo, sono gli Iron Maiden cioè suuuuuu, non è mica nulla da poco! Okay che non è il genere dei ragazzi, ma vbb ASCOLTATELAAAA. 

E' DAVVERO BIELA. 
E ovviamente l'interpretazione è mia personale, a proposito: voi come l'avete intesaa? 
Sarà importante questa canzone, quindi sacrificate sette minuti della vostra vita, per me pls.

Allora questo capitolo è tutto pov's Louis e cosa ve ne pare? 
Vi è piaciuta la parte in cui il ragazzo arriva a casa di Rion? Mi sono divertita un sacco a scriverla ew, vi ho fatto sorridere? Ditemi di sì perché questa storia ha davvero bisogno di un po' di allegria. 
Poi, della canzone e ti quello che i due si dicono? 
Ditemi todos. 

Voglio ringraziare le lettrici silenziose e in particolare quella lettrice che mi ha lasciato una recensione, pur essendo silenziosa. 
Ovviamente ringrazio tutte e grazie grazie grazie, vi voglio un sacco di bene. 

AVVISO: DOMENICA PARTO PER UNA PICCOLA VACANZINA, QUINDI MERCOLEDI' NON POTRO' AGGIORNARE. 
IN PIU', DATO CHE DOPO INCOMINCIA LA SCUOLA ------> MORTE DI TUTTI, HO DECISO CHE AGGIORNERO' O SABATO O DOMENICA, PERCHE' IN SETTIMANA SO GIA' CHE NON RIUSCIRO'.

QUENDE, A SABATO. 

Grazie ancora, davvero.

A presto,
Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

 

 
MissionXIV

“Non posso dire di non averci provato. 
Ci ho provato e ho fallito, sono davvero un miserabile e non riesco a concepire questa mia situazione. Non vivo più. Sopravvivo e tu sai quanto io odi questa condizione in cui sono costretto a esistere. Mi sono sempre ripromesso che non mi sarei mai pentito dei miei errori, che se facevo una cosa, quella era e basta. Lo avevo giurato. 
E ora, puntualmente, eccomi qua a scrivere. 
Scrivere. Tra i due sei sempre stata tu quella che amava le cose romantiche, le smancerie e ora io sono qua a scrivere una lettera.
A te. 
Non ce la faccio più Rylee, davvero sono caduto in un tunnel senza fine. 
Mi sveglio, mangio, vado a scuola, torno a casa e fisso il soffitto.
Il mio soffitto è bianco. 
Bianco come la neve, formata da tutti quei fiocchi diversi che a te piaceva tanto guardare durante l’inverno. Quest’anno non ha nevicato e oserei dire “menomale” perché al sol pensare che tu avresti guardato il cielo con quegli occhi blu senza me a fianco, mi stremava.
Tu mi stremi.
Non ce la faccio più a guardarti vivere. 
Sei così bella. 
E sono davvero una merda a scrivere queste cose, ma non ci sono abituato. Fatico solo a trovare le  parole, e questa lettera sarà piena di ripetizioni, la punteggiatura sarà sbagliata e tu lo noterai, perché tu noti sempre tutto.
Tu vedi e cogli tutto. 
Tu sai osservare e non solo guardare.

Tu mi hai visto camminare per i corridoi della scuola e mi hai colto, come un fiore, oppure come un fiocco di neve che ti si posa sulla mano in pieno inverno. 
Sono quel fiocco di neve, sciolto ormai, di cui non rimane nulla se non la tua mano umida. 
Me ne sono andato e ti ho fatta soffrire. Non immagini quanto questo mi faccia male, la mia priorità era quella di renderti felice, di essere l’arcobaleno dopo la tempesta. 
La tranquillità che ti pervade dopo un esame ben riuscito. E invece sono stato tutto il contrario di queste cose. 
Sono stato la tempesta. 
La tua sofferenza. 
E la tua ansia.
Mi dispiace, non avrei mai pensato di causarti così tanto dolore, mi viene voglia di uccidermi. 
Ero la tua felicità e tu eri, sei, la mia. Lo sei. 
Dicono che l’amore vero si incontra una volta nella vita, anche se ci si può innamorare di nuovo. Io non credo a tutte queste stronzate. 
L’amore esiste, punto e basta. E l’amore è solo uno. 
Tu sei l’amore.
E io mi sono fatto sfuggire l’amore. Ho fatto tutto da solo, non so cosa mi sia preso in quel periodo. Molto probabilmente avevo paura. Eri così stanca per via della scuola e per la situazione di Rich. Ti preoccupavi ogni giorno di più per Rion, che diventava sempre più cupa. 
Ma di te non ti preoccupavi, sei sempre stata così altruista, Rylee.
Confidavi sempre che se tu ti fossi occupata degli altri, la gente si sarebbe occupata di te. 
Io mi sarei dovuto occupare di te, e invece sono scappato.
Sono fuggito da tutti i problemi, perché sappiamo tutti che è meglio fuggire piuttosto che affrontare a testa alta i dilemmi. Non avrei mai pensato che questi pensieri mi avessero seguito anche in mezzo alla discoteca, a letto con altre o dentro una bottiglia di vodka.
Tu eri sempre lì e la musica a palla non mi ha fatto dimenticare di te.
Non mi sono scordato del tuo profumo nemmeno annusando l’odorato di altre, il tuo profumo è sempre impresso nelle mie narici. Non si può minimamente decifrare, perché è Rylee il profumo. 
E mi manca terribilmente.
Neanche l’alcool è stato in grado di cancellarti, perché eri dentro ogni singola goccia di quel fluido che mi ha consumato il fegato.
Sei ovunque, Rylee.
E io non posso averti e questo fa un male cane. 
Ti voglio.
Alcune volte immagino che tu possa ritornare da me, ma so che non lo farai. In fondo, me lo merito, sai?
Me lo merito. Non sono nessuno. 

Non sono quel tipo di ragazzo per cui ne vale davvero la pena, mentre tu, eccome se ne vali. Sposterei mari e monti per te. 
Ma per me no, una montagna non si sposterebbe nemmeno di un millimetro per me, anzi, riderebbe di me. 
Perché io non sono niente, sono solo un puntino in mezzo a tante milioni di vite e come tale devo rimanere.
Tutto quello che ero eri tu.
Tu eri me.
E no, no, se pensi che arrivo alla classica frase dove ti dico che anche tu, Rylee, eri me, ti sbagli di grosso.

Perché tu sei tu, unica e insostituibile. Non hai bisogno che nessuno ti plasmi, perché sei già stata  creata per filo e per segno. Sei tu quella che merita.
Tu eri me.
E io ti ho distrutta, ma tu sei riuscita ad andare avanti, mentre io sono nulla. Nulla, perché senza di te, di te che mi costruisci, io non riesco a essere qualcosa.
Qualcosa che ne vale la pena.
Ho sempre pensato che fossi io quello forte, che ti stringeva quando piangevi, che ti accarezzava, che incuteva timore, ma in realtà ero solamente quello debole che acquisiva linfa vitale da te. 
Liquido che mi scorreva nelle vene per essere ciò che ero. 
Ero vivo.
Vivevo quando stavo con te, vivevo grazie a te. Alla tua dolcezza. 
Ai tuoi occhi che, dio, quanto amo i tuoi occhi. Due lapislazzuli presi dal tempio babilonese dedicato a Marduk. Sono così fottutamente belli, che al sol pensiero che ci sia dentro un briciolo di sofferenza per causa mia, mi fa morire. 
Vivevo di quegli occhi, del tuo sguardo, ricco d’amore.
Non volevo farti soffrire, lo giuro, e credimi. 
Non volevo lasciarti lì come una merda e non ci sono giustificazioni.
So che non mi perdonerai e mi lascerai come un reietto nella mia sofferenza, lo so e so di meritarmelo. Sei stata tutta la mia vita e mi sono prosciugato da solo per il mio amore.
Avevo paura del mio stesso sentimento e non so se questo sia possibile. Evidentemente è possibile amare qualcuno al punto da star male, io l’ho provato. 
Ti ho amata così tanto che solo guardarti mi procurava una fitta al cuore, i tuoi capelli biondi tra le mie mani erano una scossa elettrica che mi uccideva ogni volta. Il tuo sguardo nel mio mi incendiava il cuore, e ogni volta perdevo sempre più battiti.
I tuoi baci erano veleno. 
Veleno lento, che mi faceva morire piano.
E io non ho saputo sconfiggere la paura di amare troppo a fondo, ho preferito andarmene, come tutti. Perché tutti se ne vanno e ti ho lasciata lì, bella come sempre.
Sei stata la mia tortura più bella.
Mi hai spezzato il cuore mentre stavamo assieme, tutto il mio amore nei tuoi confronti mi ha spezzato il cuore. 
Si è rotto e non per il dolore, ma perché era così colmo d’amore che è scoppiato e ora ne sono rimasti solo piccoli pezzettini. 
Pezzettini che non ho intenzione di raccogliere, ma lascerò dispersi per ricordarmi chi ero.
Chi ero e chi sono senza di te.
Sarò il ricordo di me stesso.
Mi scuso per tutti questi pensieri buttati lì a caso che non hanno alcun senso, ma è come mi sento. E questi pensieri non sono niente, zero assoluto.
Ti amo.
Mi ricordo la prima volta che te l’ho detto. Nevicava e tu guardavi in alto, i tuoi occhi puntati sul cielo bianco. 
Eri così bella con quella sciarpa rossa, le guance paffute arrossate, le mani ricoperte dai guanti di lana.
Indossavi quegli stivali scamosciati che facevano schifo, ma tu dicevi che tenevano caldo. 
Guardavi in cielo. 
Ricordo di aver pensato che eri quella giusta e non mi sbagliavo minimamente.
Ero dietro di te, ti guardavo mentre osservavi quello spettacolo qual era la neve e io ammiravo il più bel capolavoro che mi fosse mai capitato.
E te lo dissi, sottovoce, ma tu capisti e mi feci un sorriso che dio, nemmeno le sette meraviglie del mondo potevano compararsi.
Mi sentii pieno, quella volta.
E il tuo corpo. 
Rabbrividisco solo a pensarci, mi manca stringerti e sentirti addosso a me. Eri così bella mentre dormivi, la bocca un po’ aperta e un braccio che mi stringeva, come se non volessi mandarmi via, ma non sai che io non me ne sarei mai andato, perché dipendo da te. Metaforicamente me ne sono andato, ma devi sapere che ti io ho dentro di me in ogni singolo momento e non riesco a staccarti.
Sei come colla.
Quella volta che facemmo l’amore. Era estate e faceva così caldo, ma il tuo corpo era talmente fresco sotto il mio tocco. 
Ricordo di essere entrato dentro di te ed essermi fermato. Eravamo uniti. Abbiamo parlato in quella posizione per molto tempo. 
Non mi muovevo, ma ti sentivo, eri mia. 
Era così bello appartenerti. 
E ho distrutto tutto. 
Ho provato a dimenticarti, non posso dire di non averlo fatto. 
Ma sei l’amore e non posso ucciderlo, perché è più forte di ogni cosa.
Non ti prego di ritornare, perché so che non lo faresti, anche se desidero tutto il contrario.
Ti chiedo di ricordarmi, perché tu mi sei impressa e lì rimarrai.
Ricordami, perché io lo farò con dolore e non riuscirò mai più ad aggiustare il mio cuore.
Sono stremato dall’amore, da te.
E così rimarrò.
Ti amo, Rylee.”  

 
Rylee alzò la testa dalla lettera, sorridendo.
Finalmente Kevin era riuscito ad ammettere cosa provasse nei suoi confronti, non fece in tempo a dire o pensare nulla, che sentì sua mamma urlare: «Rylee! Rich sta male!»
Alla ragazza salì un groppo in gola, lasciò tutto com’era e si precipitò fuori dalla camera.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Ciaaao, come va? 
Tutto a posto grazie, so che non ve ne frega niente, okay. Al mare è andato tutto bene, tre giorni di sbronze epiche lalala.
Tra poco rinizia la scuola e se gli anni scorsi una minima voglia di rincominciare l'avevo, adesso manco per un cazzo. 
SALVATEMIIIIIIII

Allora.
Passando al capitolo.
Lo so, è corto e mi dispiace. L'impostastazione è così perché il capitolo è la lettera che FINALMENTE RYLEE HA DECISO DI APRIREEEEE YEEEEEEP. 
Okay, dovrebbe essere una lettera d'amore, sì. Ma io non sono capace di scrivere cose romantiche e questa sicuramente sarà uno schifo. Perdonatemi, ma ho cercato di dare il meglio, però non sono smielata e boh. 
Ditemi voi. 
Com'è? 
E Rylee? Come reagirà Rylee?

LA PARTE FINALE?
Tell me everything you want. Pls.

So che non lo faccio mai, ma volevo ringraziare TUTTI quelli che spendono un po' della loro vita per dedicarla alla mia storia. Chi legge, chi recensisce, chi la apre. GRAZIE. 
Davvero mi risollevate il morale e io non so cosa dire per ringraziarvi. 
Grazie, grazie, grazie. 
Spero che lasciate qualche commento. 

A sabato/domenica prossimo!

A presto,
Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
XV
 
«Papà, a nessuno là fuori importa se ho preso una sufficienza o un dieci, basta che sia sufficiente!» sbraitò il ragazzo, stringendo i pugni.
«A me importa.» mormorò suo padre a denti stretti.
«Chi è che va a scuola, mh? Io o te? Io! Sono io quello che studia, non tu, quindi fatti andare bene la sufficienza!»
«Non osare rivolgerti a me con quel tono, ragazzo. Non andrai da nessuna parte così.»
«Ovvio che no. Tu hai già deciso il mio fottuto futuro!»
«Mi pare normale, non avrai mai successo con quegli spartiti del cavolo che scrivi! Ti serve un lavoro vero e non avrò un figlio petulante!»
Louis si sentì punto nel vivo, non dedicava molto tempo al pianoforte, ma quando lo faceva ci metteva l’anima. Il suo sogno era quello di diventare un compositore per film, ma come lui ben sapeva, era solo un sogno. Sapeva che difficilmente avrebbe avuto successo, non si era mai iscritto a nessun concorso per piano, non era mai andato al conservatorio, era un autodidatta, ma amava la musica e sentirsi dire da suo padre quelle cose, lo fece inferocire.
Sapeva anche che il suo sogno era reso impossibile dal genitore, il quale aveva già deciso che una volta concluso il liceo, sarebbe andato a lavorare all’agenzia immobiliare del padre. Louis aveva provato ad opporsi, ma senza risultati, l'uomo era irremovibile.
Ovviamente il signor Tomlinson aveva messo lui stesso Louis sul pianoforte, ma non si sarebbe mai sognato che il suo unico figlio volesse diventare un compositore. Benché accettasse l’idea che il ragazzo suonasse il piano, il genitore cercava di far accantonare a Louis il suo desiderio più recondito perché sapeva che non sarebbe riuscito ad andare da nessuna parte ed era bene che il ragazzo tenesse il pianoforte solo come un hobby.
Nonostante questo, aveva un altro lavoro in mente, uno più realistico: voleva diventare psicologo.
Amava pensare di immedesimarsi nella testa di persone, scoprire i loro demoni. Era dell’idea che aiutando gli altri, forse avrebbe trovato una risposta a tutti i suoi complessi, per di più, il cervello umano lo affascinava e voleva studiarlo.
«Non mi conosci nemmeno, sono tuo figlio e non sai niente, niente di me.» fissò il padre negli occhi, «E questo non puoi nemmeno immaginare quanto male faccia.» fece un cenno di saluto all’uomo che aveva di fronte e andò in camera.
Si buttò sul letto, aveva una voglia matta di fumare, ma non voleva farsi vedere dal padre perché si sarebbe lamentato ulteriormente, quindi chiuse gli occhi.
Gli venne subito in mente Rion.
Doveva farla parlare, ma non sapeva come, doveva trovare un modo.
Ormai sapeva che spacciava e probabilmente lo faceva per pagare le cure a suo fratello. Si domandò se i suoi ne fossero a conoscenza, ma Louis credeva di no, altrimenti Rylee non l’avrebbe mai gettato nelle braccia di una spacciatrice.
Per di più Rion aveva quell’atteggiamento così chiuso e ombroso che chiunque avrebbe pensato che volesse essere lasciata in pace, ma non perché avesse un’altra identità. Louis era strabiliato, sorpreso, incredulo che una ragazza come Rion potesse spacciare, ma infondo la capiva: anche lui avrebbe fatto di tutto se sua sorella si fosse trovata nei guai.
Doveva farla parlare.
Come?
Doveva trovare qualcosa di strabiliante, che la facesse scoppiare. Aveva provato a farla ridere e addolcirla con il pianoforte, ma non aveva risolto nulla. La ragazza rimaneva la classica maschera impenetrabile.
Notò un’ambulanza passare a tutta velocità dalla finestra quando prese il telefono e decise di chiamare Maxie, forse lui aveva qualche idea.
 
Jessica correva per tutta la casa cercando di rimanere calma. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui Rich avrebbe avuto una caduta, i farmaci non gli bastavano più, le sigarette avrebbero avuto effetto, suo figlio doveva essere portato in ospedale.
Aveva trovato Rich sul letto che tossiva e intanto vomitava, la bandana gli era caduta, rivelando la testa senza capelli con le vene blu e viola sporgenti.
Jessica, alla vista del figlio, si sentì gelare, corse a chiamare un’ambulanza e ora prendeva tutte le carte, i vestiti, i medicinali per portarli in ospedale.
I dottori bussarono e accadde tutto troppo velocemente per far sì che Jessica potesse aiutare in qualche modo.
Vide il ragazzo steso su una barella con un macchina dell’ossigeno attaccata al naso, il viso cereo, gli occhi chiusi, il pigiama sporco.
Jessica prese la piccola Renae in braccio, che chiese: «Ich
«Sì, piccola, Rich sta male.»
«Opedale?»
«Sì, amore.»
Prese il borsone con dentro tutto il necessario e mise la piccola nel seggiolino in macchina, dandole un leggera carezza mentre Rylee chiudeva la porta di casa e Rion saliva in macchina con la faccia bianca quasi come quella del fratello maggiore.
Jessica respirò forte, facendo respiri corti e profondi, era l’unico modo per mantenere la calma. Chiuse un attimo gli occhi ripetendosi che doveva rimanere forte per le sue figlie, che tutto sarebbe andato per il meglio, i dottori avrebbero fatto il possibile. Guardò nello specchietto retrovisore, l’occhiata di Rion la colpì in pieno. Era uno sguardo così colmo di disperazione e paura che Jessica ne rimase pervasa, non vedeva emozioni negli occhi della figlia da così tanto tempo che vederle ora la fece quasi commuovere.
Mise in moto, tenendo la radio a basso volume, nella speranza che Renae si riuscisse ad addormentare e non causasse problemi all’ospedale.
 
Maxie stava picchiettando la penna sulla scrivania quando squillò il cellulare, posò la penna e rispose con calma: «Pronto?»
«Ehi.»
La voce squillante riempì l’orecchio del ragazzo, che sorrise, «Ciao, Lou. Come va?»
Louis emise una specie di verso, Maxie afferrò al volo che il ragazzo non ne voleva parlare, ogni volta che lo vedeva, il biondo leggeva nei suoi occhi una rabbia tale da farlo rabbrividire.
«D’accordo. Hai bisogno qualcosa?»
«Devo far parlare Rion.» mormorò l’amico.
Maxie alzò le sopraciglia, non sapeva come avrebbe potuto aiutare Louis: lui a stento conosceva Rion. Giustamente conosceva alcune cose che gli altri non sapevano, ma solamente perché usciva in compagnia con Rylee e aveva fatto con le due gemelle le elementari, per il resto, poteva ritenersi un estraneo.
«Louis, non so come aiutarti.» e mentre parlava, si sentì un po’ seccato.
Maxie aveva pensato molto negli ultimi giorni e aveva notato che il castano lo cercava solo per chiedergli informazioni di Rion, cercava di convincersi dicendosi che era solo il momento, Louis era preso dalla ragazza e voleva scoprirla, ma al tempo stesso si sentiva usato.
Maxie odiava sentirsi usato.
Nonostante questo, il ragazzo biondo riconosceva che Louis si stava mettendo d’impegno per non parlare solo ed esclusivamente della mora, difatti gli aveva proposto di suonare la chitarra assieme, dato che gli era arrivato il piano. Immancabilmente, però, ogni volta che uscivano il discorso “Rion” era sempre sulla bocca di Louis.
«Ho bisogno di una persona che abbia idee geniali e tu le hai sempre, mi serve qualcosa che faccia scoppiare Rion.»
«E’ un muro, non puoi far scoppiare un muro.»
«Esplodere allora, se necessario.»
Maxie ricordò che più di una volta suo padre per farlo scoppiare, lo faceva arrabbiare.
«Falla incazzare.» propose scrollando le spalle.
«No, svierebbe il discorso.»
Il biondo si appoggiò alla sedia e si mise un dito sulle labbra, sentiva il respiro tranquillo dall’altra parte del telefono.
Louis non poteva costringere la ragazza a parlare per il semplice fatto che se ne sarebbe andata oppure non avrebbe parlato nemmeno con una pistola puntata alla testa. Louis non poteva chiedere con parole a Rion cosa avesse in mente, gli serviva qualcosa che la lasciasse di stucco, che la costringesse a parlare, che le facesse perdere tutte le speranze.
Maxie dubitava ancora che fosse Rion la stessa ragazza che gli dava l’erba il sabato sera, ma il fatto del taglietto sul dito rendeva il tutto più che veritiero.
Si sarebbe potuto scoprire da chi prendesse la roba Rion e poi incriminarlo, così che la ragazza non avesse più potuto spacciare e di conseguenza aiutare il fratello.
Maxie scosse la testa, troppo rischioso.
Lo sguardo gli cadde su un poster, era di un film degli anni ’90, vi erano diverse macchine della polizia con dietro un’esplosione.
Il ragazzo biondo sorrise, «Louis, ho un’idea.»
 
Due parole, due occhi che si chiudevano sconsolati, un sospiro triste, opaco.
Terapia intensiva.
Perfino i dottori sembravano più preoccupati del solito, le cose erano peggiorate gravemente da quando il ragazzo aveva deciso di non curarsi più e ora i medici dovevano rimediare a mesi di cure perse.
Jessica si accomodò su una poltroncina in sala d’attesa, non gli permettevano di entrare, non ancora.
D'altronde il reparto di terapia intesiva era molto particolare: bisognava indossare un camice e una cuffia per capelli per poter entrare, non si doveva essere affetti da nessun tipo di malattia, anche il minimo raffreddore ed era assolutamente necessario lavarsi mani e faccia. Anche il più piccolo batterio poteva essere dannoso per il paziente. 
Jessica era preoccupata, non avevano mai ricoverato suo figlio in quel reparto così mal visto, era sempre stato portato in oncologia, il reparto adibito ai tumori e invece, ora, si trovava lì. Tutto ciò faceva aumentare l'ansia alla madre.  
Erano solo loro, suo marito sarebbe arrivato a momenti.
Abbassò la testa, quante volte si era seduta in sale d'attesa come quella? Poteva vedersi negli anni.
Lì, che aspettava, fissando un punto vacuo nel muro. Aspettava, era l’unica cosa che poteva fare. Quanto aveva dato a suo figlio, le ore perse al lavoro, i soldi spesi per le sue cure, la sofferenza nel vederlo sul calvario. In quei momenti non si sentiva una donna, bensì una bambina incatenata a quella sedia come per punizione, ma a differenza dei bambini, lei non cercava di alzarsi, ma rimaneva lì, come arresa.
Tutta la sofferenza di quegli anni le cadde sulle spalle, non sapeva cosa fare, non poteva costringere suo figlio a curarsi perché era maggiorenne, ma non poteva nemmeno rimanere lì a guardarlo morire tra le sue braccia.
Gli sarebbe mancato così tanto, rivisse tutti gli anni passati assieme, le gioie, i dolori e il suo cuore faceva così male. Un dolore straziante, che la prosciugò.
Sentì una mano posarsi delicatamente sulla sua schiena e carezzargliela, l’unica cosa positiva era che non sarebbe stata sola, aveva una famiglia.
Cercò un punto nel muro e iniziò a fissarlo, aspettando.
 
Rion aveva le gambe incrociate, i gomiti appoggiati sulle cosce, i capelli le ricadevano sul viso, nascondendo gli occhi, il naso, la bocca. Una volta arrivata all’ospedale si era seduta nella sala d’attesa e non aveva mosso un muscolo.
Non si accorgeva nemmeno del passare del tempo, riviveva interrottamente suo fratello che veniva portato via con la barella.
Era come un disco interrotto che ritornava sempre alla stessa immagine.
Non sentiva niente, non era nemmeno preoccupata per Rich, sapeva che i dottori lo avrebbero rimesso in sesto, era quello che avevano sempre fatto.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare era lui sulla barella con la macchinetta dell’ossigeno attaccata al naso.
Era orribile non provare nulla anche nelle situazioni più gravi.
La sua mente, il suo cuore, niente di lei reagiva. Sapeva che si trovava in ospedale, che suo fratello era in terapia intensiva, ma non riusciva a provare niente.
Sua madre se ne stava seduta a fissare un punto vacuo sul muro, preoccupata. Sua sorella cercava di mostrarsi solidale e faceva giocare la piccola Renae, suo padre era seduto accanto alla madre.
Rion in macchina fu colta dal panico, ma ben presto venne oppressa da un senso di calma tale che si lasciò andare.
Non voleva pensare a niente, solamente a suo fratello sulla barella.
Il disco continuava a essere interrotto.
«Rifiuterà le cure, lo sai.»
«Lo so, tesoro, non possiamo fare niente. Dobbiamo solo accettare quello che verrà.»
«Non riesco a immaginarmi una casa senza di lui, anche se è sempre nella camera da letto, non riesco. Mi sembra così impossibile. Il mio bambino.» sua madre iniziò a singhiozzare.
Rion si irrigidì, sapeva che il fratello non accettava le cure, ma pensava che sua madre con i soldi che aveva ricevuto da parte sua, l’avesse convinto alla nuova cura.
Sicuramente Rich avrebbe accettato, tutti avevano paura di morire e Rich non era un’eccezione, Rion lo sapeva. I soldi non erano abbastanza, allora.
La ragazza doveva procurarsene altri, sicuramente con una bella sommetta avrebbe potuto far pagare le cure a Rich.
Sì, lei avrebbe portato a conclusione la sua missione, lei avrebbe guadagnato i soldi indispensabili per le sue cure, quella sera stessa.
Non avrebbe lasciato che il fratello morisse, lei aveva bisogno di lui e Rion sapeva per certo che Rich con la nuova cura sarebbe guarito.
Si alzò e passeggiò tranquillamente per il corridoio, l’immagine di suo fratello in testa.
Doveva agire quella sera stessa, altrimenti sarebbe stato troppo tardi.
 
Maxie scrisse su un foglio tutto quello che c’era da sapere, Louis era rimasto entusiasta del piano.
Niente poteva andare storto, altrimenti tutto sarebbe andato a monte.
L’idea gli era venuta guardando proprio un poster ed era una scena da film quella che si immaginava dovesse accadere quella sera al giro.
Si complimentò con se stesso per la sua mente matematica.
 
Jessica si alzò di scatto quando vide il dottore uscire della sala, quest’ultimo si avvicinò con un sorriso tranquillo e stanco.
La madre del ragazzo odiava il comportamento che assumevano i medici, specialmente il dottor Miles, il quale seguì Rich per tutta la sua malattia.
Era un bravissimo dottore e tutte le volte aveva sempre avuto ottimi consigli da dare alla famiglia e aveva una cura pronta per suo figlio, sapeva sempre cosa fare anche nei casi estremi.
Nonostante la sua bravura, Jessica detestava quando le leggeva la prassi e tutto il resto per via che usava paroloni strani quando lei voleva solo sapere come stava suo figlio.
«Come sta?» domandò con voce tremante, sentì che suo marito le appoggiò una mano sulla spalla, gli fu grata per quel gesto.
«Non bene.» ammise il dottore, «Una parte della diagnosi è ancora in corso, ma si è riscontrato che se fino a tre mesi fa la neoplasia era solo raggruppata nel pancreas, ora le metastasi si sono diffuse nel fegato, nell'intestino e stanno iniziando a infettare i polmoni. C'è poca speranza che riesca a farcela, mi dispiace signora Lee, ma suo figlio è terminale.»
Quella voce pragmatica e schietta fece infuriare Jessica che fissò truce il dottore, «Come sarebbe a dire, dottor Miles? Lei ha sempre trovato un modo per curare mio figlio.»
«Certo, ma il ragazzo ha rifiutato le cure da tempo.»
«E non è suo dovere mantenere in vita un paziente?» domandò la donna con voce tonante.
«Non se il paziente lo richiede, mi creda, signora, sua figlio ne ha abbastanza di tutto questo.»
«Non mi interessa cosa vuole mio figlio! Lei lo deve tenere in vita perché è mio figlio e non deve lasciarlo morire!»
«Da un punto di vista medico la terapia che Rich ha fatto sino a tre mesi fa, quando ha rifiutato le cure, non è più applicabile. Il corpo è abituato ai farmaci, c’è bisogno di una nuova terapia, anche se non penso che porterà riscontri.»
«La facci.»
«Non posso, mi creda, nel corso degli anni mi sono affezionato al ragazzo, ma se lui acconsente a non essere curato, io non posso mettergli le mani addosso.»
Jessica si sentì avvampare, non poteva essere vero. Rich non poteva aver firmato nulla senza averglielo detto, non era da suo figlio.
«Lui ha…» mormorò Jessica, basita, stupita, irrequieta.
Non riusciva a crederci, Rich voleva morire.
D’un tratto ebbe paura. Paura di tutto, non voleva perdere suo figlio. Lo amava più di qualunque cosa a quel mondo, avrebbe fatto di tutto per farlo stare meglio, si sarebbe messa al suo posto se avesse potuto.
Non poteva, però, era impedita nel suo corpo. Costretta ad accettare la morte di un figlio. Nessun genitore dovrebbe vedere il suo bambino morire. Il suo bambino.
Jessica cominciò a piangere, si strinse al marito.
Rich morto.
Rich in un bara.
Erano pensieri così lontani che non riusciva a crederci, non poteva accettare una vita senza di lui, le era impossibile.
Si sentì sola, confusa, vuota, morta.
Non sapeva cosa avesse fatto.
«Mi dispiace.» mormorò il dottore.
Jessica si lasciò cadere sul pavimento, piangendo tutto il suo dolore e stringendosi al petto la piccola Renae, che, premurosa, si era avvicinata alla madre.

Spazio autrice.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Eccomi qui!
La prima settimana di scuola è andata e io sto già pregando nelle vacanze di Natale. A voi com'è andata e che scuola fate? Daaaaaai, vorrei conoscervi un pochetto ew.

Allora, mancano pochi capitoli alla fine della storia e già ho il magone, ma vbb. 
Abbiamo un capovolgimento drammatico dalla situazione. 
Rich sta male e il dottore ha praticamente detto l'atroce verità. Ma Rion è fermamente convinta che lui possa salvarlo. 
Vorrei che vi soffermaste su questa ossessione quasi maniacale che Rion ha nei confronti del fratello. E' quello su cui è incentrata maggiormente la storia e non deve essere necessariamente intesa come l'amore fraterno, semplicemente un qualcosa in cui TUTTI ci possiamo ritrovare. Tutti, ne sono certa, sono affiatati a qualcosa, che sia un familiare, un evento del passato, un gioco, qualsiasi cosa e sto cercando di rendere questa FF, dal punto di vista emotivo, più reale possibile, quindi: voi come vi sentireste se la cosa a cui tenete più al mondo è in procinto di andarsene? COSA fareste? 
Il comportamento di Rion è plausibile?
Soffermatevi sul fatto che una persona è così attaccata a qualcosa che non riesce a separarsene. Rion, tutto sommato, non è sola. Ciò che ho fatto credere fin dall'inizio della storia, riguardo la solitudine di Rion, è vera fino a un certo punto, perché ci sarà sempre quella cosa che non ci lascerà da soli, sempre. E' vero che nasciamo e moriamo da soli, ma nella vita siamo noi e il mondo, oppure noi e le nostre emozioni e solamente quando scompaiono le nostre emozioni siamo soli, fino a che ciò non accade, non siamo soli. 
Vi trovate d'accordo?
Provate ad analizzare il personaggio di Rion con ciò che vi ho detto fin'ora: VI RITROVATE? 

Rispondetemi, perché davvero ci tengo. Non mi interessano 456890 recensioni. 
Mi interessa che voi vi ritroviate nei personaggi, che voi sentiate le loro emozioni, che IO vi trasmetta qualcosa. 
Non vi chiedo di recensire per fare un favore a me, ma per voi e convincervi che no, non siamo soli.

Per favore.

Okay, dopo questa cosa molto filosofica che mi ha sorpreso, ci vediamo sabato prossimo!

A presto,

Giada.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** XVI ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
XVI

La notte era scesa sul giro, il grande appartamento desolato era buio, le finestre riflettevano i raggi della luna piena.
I drogati giacevano ai margini della strada con gli occhi vacui, con le pupille dilatate, rosse, a spilli, tutti attendevano una dose che non sarebbe mai arrivata per via del costo della droga. Tutti rimpiangevano di essere finiti lì, di dover rubare, fare marchette per avere un grammo e continuare ad andare avanti.
Rion, da quanti erano, non notò che all’appello ne mancavano diversi.
Gli spacciatori, disposti ognuno al suo posto, attendevano tranquillamente i clienti. Tra questi vi era Rion, determinata, impassibile, nascosta nell’ombra, attendeva impaziente.
Nella sua testa vi era solamente l’immagine di Rich disteso sulla barella, la mente era chiusa a tutto il resto, pensava solo a guadagnare abbastanza per far sì che il fratello iniziasse le cure l’indomani.
Aveva convinto la madre a farla tornare a casa, dicendole che non riusciva a rimanere in ospedale, quel posto la nauseava; l’affermazione di Rion era vera: ogni qualvolta Rich era finito in ospedale, lei cercava sempre di dileguarsi, odiava quel puzzo di disinfettante, le infermiere vestite di verde e bianco, tutti tristi, i dottori schietti senza un senso di umanità, preferiva stare a casa e aspettare notizie del fratello.
Non aspettava altro che il suo primo cliente, il quale giunse poco dopo passate le undici di sera.
 
Louis aspettava tranquillo su una panchina, la luce del lampione illuminava la zona intorno a lui.
Aveva passato tutto il pomeriggio a discutere con Maxie il piano, il quale era straordinario, ricordava le parole dirette e schiette dell’amico, era convinto che sarebbe andato tutto bene.
Louis voleva essere convinto tanto quanto il biondo, si fidava di lui, ma al tempo stesso aveva mille dubbi.
Il piano era semplice, poche mosse per farlo avverare, ma al tempo stesso richiedeva una precisione tale che solo una persona molto forte avrebbe potuto portarlo a compimento. Il castano dubitava di essere così forte, ma vi era riuscito.
Guardò alla sua destra, cento metri più avanti si trovava il giro, tra poco avrebbe messo a compimento il piano.
 
Maxie sapeva che nel bar di suo padre andavano molti sbirri e la maggior parte di questi erano amici del genitore.
Grazie a suo padre, era riuscito a contattare due di questi, chiedendogli un favore enorme e promettendogli in cambio birra gratis per i prossimi tre mesi.
Suo padre era a conoscenza di tutto ed era rimasto entusiasta della mente meccanica del figlio, in più, il poster appeso alla parete di Maxie gliel’aveva regalato proprio lui.
Da tempo la polizia cercava di prendere i vari spacciatori della zona, ma ogni volta che questi facevano un’irruzione, gli spacciatori si dileguavano come formiche, solamente poche volte erano riusciti a prenderne un paio, ma non si sa come, questi non avevano droga addosso e non potevano essere incriminati per spaccio.
Altre volte avevano provato ad arrivare al giro con i lampeggianti spenti, ma il risultato era stato più o meno lo stesso, inoltre bisognava aggiungere che allo sceriffo non importava granché del giro, poiché era convinto che la droga ci sarebbe stata sempre e comunque, di conseguenza col tempo le irruzioni divennero davvero poche e il giro si ingrandiva.
Tempo un anno e gli spacciatori divennero una ventina, quindici al giro e altri sparsi per la zona, chi vendeva nei locali, chi nei due parchi, chi a zonzo per strada. Anche la droga era aumentata, se prima si spacciava solamente MDMA, marijuana, hashish e vari acidi, ora vi era anche l’eroina e la cocaina e diverse droghe pesanti, era come se il giro fosse ritornato alla fine degli anni ’70 e la cosa doveva essere risolta.
La polizia all’inizio era titubante del piano di un ragazzo che aveva solo diciotto anni, ma via via che Maxie parlava i poliziotti si convinsero che il piano era ben strutturato ed efficace.
Accettarono di metterlo in atto quella sera stessa e Maxie sapeva di aver preso due piccioni con una fava.
Prima di tutto il giro sarebbe diminuito, ma certamente non terminato e Maxie sapeva che in qualche modo sarebbe riuscito a procurarsi l’erba ugualmente. Secondo, Rion, finalmente, sarebbe scoppiata.
 
Rion, dalla sua postazione, notò due individui che non aveva mai visto al giro.
Entrambi indossavano dei jeans sciupati per via dei troppi lavaggi, sotto la giacca si poteva notare un maglione con una camicia.
La ragazza li catalogò subito nel gruppo dei grandi imprenditori, coloro che avevano ditte, gestivano una qualche impresa, lo stress per il lavoro era tanto e così per calmare i nervi, cercavano un po’ di droga.
Rion sapeva cosa cercavano: cocaina. Lei l’aveva, da un mese aveva iniziato a vendere droghe pesanti, inizialmente era titubante, non le piaceva l’idea, ma poi pensò al fratello e decise che avrebbe fatto di tutto.
Non voleva mettersi in mostra, era bene che i nuovi clienti scegliessero lo spacciatore e sicuramente lei, l’unica ragazza, non avrebbe attirato l’attenzione, difatti si diressero verso uno spacciatore posto in bella vista, a circa dieci metri da lei.
Nel frattempo vide una donna, indossava collant e tacchi, ed era incurante del freddo primaverile.
Rion pensò che doveva essere stressata, ma soprattutto si meravigliò della gente nuova che arrivava lì al giro, non era una cosa da tutti i giorni.
La ragazza iniziò a sospettare qualcosa di losco al quinto arrivato, ma non aveva intenzione di andarsene, doveva guadagnare soldi per Rich.
 
Ci sono tutti.

Un messaggio, tre parole. Louis sapeva quanto Maxie poteva essere coinciso, ora doveva agire lui.
Non doveva fare nient’altro che lanciare un ramoscello intriso di benzina in una finestra dell’appartamento, poi doveva aspettare Rion.
Sapeva dei cinque agenti di polizia, vestiti in borghese: due erano uomini d’affari, la donna doveva immedesimarsi in una mamma stressata e non sapere niente di droga, un altro interpretava un mezzo drogato e l’ultimo era alla ricerca di qualcosa per calmare i nervi.
Louis sapeva che i cinque stavano intrattenendo una conversazione con gli spacciatori mentre lui percorreva i cento metri, sapeva che i poliziotti avevano una pistola calibro .38 a portata di mano, si fece prendere dall’adrenalina, tanto che accelerò il passo sino a correre sotto la finestra.
Prese un ramoscello disposto precedentemente lì a terra quel pomeriggio, gli diede fuoco ed essendo cosparso di benzina, si incendiò all’istante.
Prese bene la mira, respirò a fondo e mentre faceva fuori uscire l’aria, lanciò il ramoscello nella finestra.
Louis sapeva che quella sera, all’appello dei drogati ne mancavano alcuni.
La polizia, quello stesso pomeriggio, era andata lì, aveva dato in mano ai drogati delle bottiglie di benzina e alcol vari affinché i drogati le spargessero per tutto l’appartamento diroccato.
Come ricompensa gli venne data una dose consistente di droga e fu chiesto loro di andarsene.
Agli altri, invece, che rimasero a guardare la scena con occhi impauriti e vacui, venne dato una piccola dose per tenere la bocca chiusa.
Non appena il ramoscello toccò la benzina cosparsa sul pavimento, iniziò l’incendio.
Accadde tutto in frazione di secondo.
Non appena Louis ebbe lanciato il ramoscello nella finestra, il piano superiore prese fuoco, come a effetto domino.
Tutti guardarono in alto e tutti sbarrarono gli occhi, quella segnava la fine del giro. I drogati non avrebbe avuto più una casa, gli spacciatori non avrebbero avuto scampo, perché mentre tutti guardavano verso l’alto, i cinque nuovi clienti, tirarono fuori la calibro .38 e iniziarono ad ammanettare la gente, minacciando di sparare.
Davanti a quella scena, Rion rimase stupita, era una scena da far paura, ma al contempo era bellissima come solo le cose che fanno timore possono esserlo.
Non pensava nemmeno più a suo fratello, da quanto era presa.
La sua vista si offuscò: comprese a pieno quello che stava avvenendo. La fine del giro significava la morte certa di Rich e lei non avrebbe potuto fare nulla, non era nessuno per porre fine a un incendio di quel genere, nessuno per cercare di salvare dalla galera gli altri spacciatori.
Anche se tutto lo spiazzo del giro era illuminato della fiamme che divampavano, i due muri in cui si trovava la ragazza, erano ancora nell’ombra. Gettando un’occhiata intorno capì che i clienti che non aveva mai visto, erano sbirri.
Sentì il gelo montare dentro di lei.
Quella notte sarebbe stata anche la sua fine, i poliziotti l’avrebbero presa e sarebbe stata gettata in prigione. I suoi genitori si sarebbero vergognati di lei, avrebbero avuto maggiori preoccupazioni se lei fosse andata in prigione, non si sarebbero occupati a fondo di Rich.
Rich che stava morendo.
Ed era colpa sua, sua mamma non si sarebbe preoccupata per il fratello perché lei era in prigione.
Avrebbe aumentato il dolore nella sua famiglia, sarebbe stata una delusione maggiore rispetto a quello che già era.
Il panico montò dentro di lei.
Respirava affannosamente sia per via del fumo, sia per via del panico. Non sapeva cosa fare, Rich sarebbe morto e lei non poteva fare niente.
Era tutto finito, la sua missione era rimasta inconclusa.
Era una buono annulla.
Si accasciò contro il muro e iniziò a piangere tutta la disperazione che aveva in corpo.
Era diventata la persona che era solamente per il fratello, non riusciva a mostrare i propri sentimenti alle altre persone se non a Rich. Era diventata ombrosa, chiusa e acida con il resto del mondo, perché il mondo stava bene e suo fratello aveva riscontrato il cancro.
Il mondo le avrebbe portato via suo fratello.
E lei si era messa contro il mondo, la disperazione di perdere la persona che più amava era tale da iniziare a spacciare. Per salvarlo, dargli una possibilità.
Rion non si era mai stancata della malattia del fratello, riponeva in lui una tale fiducia che non avrebbe mai pensato che Rich avesse abbandonato le cure.
Non si sarebbe mai aspettata che suo fratello volesse morire, per il semplice fatto che lei lo voleva vivo e vegeto.
Lei, che persona egoista era stata.
Chiedere aiuto a un morente per insegnarle a vivere e non permettergli mai di morire.
Il cancro aveva vinto.
La polizia aveva vinto.
E di Rion non rimase nient’altro che la disperazione.
 
Louis ammirava affascinato il condominio andare in fiamme.
Era così rilassato, non sapeva ancora come comportarsi con Rion, non sapeva nemmeno in che condizioni si sarebbe presentata.
Sperava che la sua influenza nei suoi confronti valesse qualcosa, ma non era così fiducioso. Era d’accordo sul piano sino all’incendio, sul fatto che molto spacciatori sarebbero stati presi e messi in prigione, il giro sarebbe diminuito, ma non sulla parte di Rion.
Sapeva che la ragazza aveva dentro di sé una disperazione e una forza di volontà grandissime, ma effettivamente non la conosceva a pieno, per lui era come un muro invalicabile.
Aveva paura e molta, non aveva mai avuto così tanta paura di affrontare una ragazza.
Il cuore gli palpitava nel petto mentre aspettava il suo arrivo, sapeva che sarebbe uscita da quel vicolo dietro al giro, era l’unica via di fuga che aveva per non essere presa dai poliziotti.
D’altronde si era affezionato a lei, era bella, bella come non aveva mai visto una ragazza. Ricordò il suo sorriso nuovo, quasi estraneo sul suo viso, il rossore sulle sue guance quella volta che l’aveva sfiorata, le aveva dedicato una canzone. Il suo sguardo indecifrabile, gli occhi verdi.
Si era affezionato a quella ragazza semplice, ombrosa, che preferiva fumare da sola piuttosto che in compagnia, ai suoi vestiti semplici, alle sue parole secche.
Si sentiva calmo con lei, una calma che nemmeno sua sorella Evelyn sarebbe stata in grado di dargli, una calma così, così pacifica che si sentiva sollevato da terra.
Sentiva tutto questo conoscendola così poco.
E aveva una voglia matta di prenderla, abbracciarla, sentire il suo profumo misto a sigaretta e viola e baciarla, baciare quella labbra fini e morbide, baciarle gli occhi, il naso, la bocca. Baciarla e toglierle un po’ di tristezza di dosso, farle capire che le persone se ne vanno perché è così che va la vita, che la morte non è solo riservata al morente, ma soprattutto a coloro che gli vogliono bene, perché quando una persona muore, moriamo un pochino anche noi.
Voleva dirle che tutto passa, fa male, è difficile, ma tutto passa. Tutto si può superare, tutto non si dimentica e non si può, ma il ricordo fa bene, ci fa capire che siamo esseri umani e abbiamo delle emozioni.
Anche una torre può crollare se si toglie il pezzo fondamentale, ma è possibile ricostruirla.
E lui voleva ricostruire Rion, pezzo per pezzo, voleva essere parte di lei.
Voleva essere suo.
 
Uno sparo.
Rion riuscì a destarsi dal panico e si guardò intorno.
L’incendio divampava ancora prendendo anche alcuni piani inferiori del condominio.
Aveva ancora il respiro affannoso, ma doveva fare qualcosa. I poliziotti avevano iniziato ad ammanettare altri spacciatori, uno di questi aveva cercato di darsi alla fuga, ottenendo una pallottola nella gamba, ora stava accasciato a terra.
Rion nel panico, riscontrò che nessuno sembrava badare a lei, d’altronde era in una posizione strategica, infatti i due muri ravvicinati la facevano rimanere nell’ombra.
Si alzò di scatto e senza nessun senso di colpa iniziò a correre a ridosso del muro, il respiro affannoso, i polmoni brucianti per via del fumo, sentiva sul viso il sudore e il panico nella testa.
Uscì dal condominio e iniziò a correre, le emozioni le salirono alla testa.
Iniziò a piangere, soffocata dal pianto e dal fiato pesante.
Non sapeva cosa fare, dove andare e come comportarsi, voleva solo andare via. Voleva dimenticare, fare finta che Rich non era mai esistito, che quello non era stato e non provare così tanta tristezza e amarezza.
Aveva paura per quello che sarebbe successo dopo.
C’era il buio davanti a sé, una vita senza suo fratello, il suo pilastro portante.
Singhiozzò e continuò a correre, nella sua testa il buio più totale.
 
«Rion!»
La ragazza aveva le orecchie tappate, i polmoni le bruciavano, ma il panico nel suo corpo era così alto che non poteva fare nulla, se non correre.
Louis la vide uscire dai due muri nel condominio e gli prese uno sbalzo al cuore, era così disperata. La seguì con lo sguardo sino a che lei aveva iniziato a correre all’impazzata, gli occhi pieni di lacrime. Qualcosa si era acceso nel ragazzo, tanto che iniziò a correre e chiamarla, ma la ragazza non sembrava reagire.
Louis accelerò il passo, maledicendo ogni singola sigaretta che aveva fumato in vita sua, causandogli un dolore lancinante ai polmoni. Quando era a Boston andava in palestra un paio di volte alla settimana, ma non era mai stato un buon corridore, odiava sforzare le gambe.
Vide la chioma scura della ragazza avvicinarsi sempre di più, provò a chiamarla, ma dalla sua bocca uscì solo un rantolo.
Abbassò la testa e allungò una mano, che fortunatamente si strinse intorno al braccio della ragazza.
Si fermò di botto, facendo forza sul braccio di Rion.
La ragazza si voltò e Louis fu quasi spaventato da quel che vide: abituatosi a vedere il viso di Rion come una maschera inespressiva, vedere delle emozioni sul suo viso gli fece ghiacciare il sangue nelle vene.
Il volto di Rion era la maschera del panico.
«Lasc…ami.» mormorò la ragazza con la voce affannata, gli occhi incendiati di disperazione.
«No, sei spaventata e ti capisco, non sai dove stai andando.»
Vide il viso della ragazza mutare in una faccia di puro terrore, Louis voleva immergersi nella sua testa per capire che cosa stesse pensando.
Gli occhi verdi di Rion divennero vacui, il suo respiro si fece più affannoso e il corpo era rigido. Louis stava per dire qualcosa al fine di tranquillizzarla quando la ragazza proruppe in parole senza senso.
«Rich… Bon… La roba… Morirà… Colpa mia… Devo…» il respiro era soffocato.
Louis le prese il viso tra le mani, aveva letto da qualche parte che per placare un attacco di panico si doveva cercare di tranquillizzare la persona davanti a sé, possibilmente con un sacchetto di plastica in modo tale da regolare il respiro oppure di fissarla negli occhi.
Lo fece e con voce più calma che poté, disse: «Rion, ascoltami. Andrà tutto bene, non è colpa tua. Va tutto bene, va tutto bene, fidati di me. Fidati di me.» cercava di scandire nel miglior modo possibile le parole, ma la ragazza non lo ascoltava, quegli occhi verdi che tanto amava non lo stavano realmente guardando. Guardavano un vuoto nella sua mente.
Louis iniziò a preoccuparsi, non sapeva come comportarsi, un conto era leggere la prassi su un libro, un altro metterlo davvero in pratica. Chiuse gli occhi, mentre con i pollici disegnava dei cerchi sulle guance di Rion.
«Muore… Rich… Io… Aiutarlo… Il giro… Mia mamma… Renae…» respirava sempre più forte, Louis avrebbe voluto fare qualsiasi cosa per aiutarla, anche prendere il suo cervello.
«Rion, ti prego, ascoltami. Ti prego.» fissò la ragazza.
Le continuò con i rantoli affannati, poi mormorò, ancora con gli occhi vacui e il viso sbiancato: «Lou…is»
Il ragazzo si riscosse e sebbene non sapesse il motivo per cui la ragazza avesse detto il suo nome, si sentì sollevato. Sorrise e le accarezzò la guancia, mormorando: «Sì, sono io, sono qui. Ti prego, Rion, reagisci ai tuoi demoni, tu sei più forte di loro, lo sei, lo so che lo sei.» la sua voce era disperata e in quel momento si rese conto che l’amava, sembrava strano, ma avrebbe dato qualsiasi cosa, anche se stesso per farla stare bene, avrebbe messo in gioco tutto per lei.
Sembrava strano dopo così poco tempo, eppure Louis la voleva, voleva salvarla.
Resosi conto di questo, fece quello che di solito i ragazzi fanno quando si innamorano: le afferrò il viso più saldamente e la baciò.

Spazio autrice.


Buongiorno, buon pomeriggio, buonasera!

Sarò veloce perché sto morendo di sonno.
Mi dispiace tantissimo per il ritardo, anche se è di solo un giorno. Scusatemi, spero che questo capitolo vi soddisfi. 
L'incendio non so come possa essere descritto, ma vi prego, commentate e fatemi sapere se è una cosa plausibile. 

E Louis e Rion?
Ve lo aspettavate? 

FATEMI SAPERE!

Grazie mille, davvero.
Grazie grazie, non avete la più pallida idea di quanto io vi ami. Grazie.

A presto,
Giada.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** XVII ***


And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.
I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Oliver Sykes.
 
XVII

Immagini confuse si distendevano nella sua testa.
Aveva paura, il panico la dominava e tutto ciò che rimaneva di lei era chiuso a doppia mandata in un angolo del suo cervello, dove lei non poteva né uscire né ribellarsi.
Rich, la sua morte, i suoi genitori erano un tutt’uno nella sua testa, sentiva il sangue pompare velocemente nel cuore, che batteva a mille e prosciugarle tutto il respiro.
Era sudata, si sentiva sporca, ma il dominatore stava avendo la meglio e godeva della sua paura.
Si sentiva esausta e avrebbe voluto poter mettere una conclusione a quella paura, ma le immagini erano troppo veloci nella sua mente.
D’un tratto le immagini virarono nei confronti di Louis.
Stranamente voleva lui in quel momento, che con così tanta determinazione aveva cercato di superare la sua barriera alta metri e metri, lo ammirava, era riuscito a trapassarle il cuore con un piccolo spillo.
Fu un pensiero di un minuto infatti ripresero subito le immagini, portandola all’esaurimento.
Qualcosa le bloccò il respiro, qualcosa di incredibilmente morbido, e bello, e dolce. Per respirare dovette aprire la bocca e sentì un sapore di tabacco e menta, aprì gli occhi e vide il suo viso.
Si rasserenò e respirando il suo respiro, si fece scivolare dentro di lui, stanca, vuota e disperata.
Fu un bacio forte, che al posto di far accelerare il cuore a Rion, glielo fece tranquillizzare, il respiro divenne regolare, il sudore si asciugò sulla fronte.
La lingua di Louis era così dolce e premurosa, come se si volesse prendere cura di lei, salvarla e prenderla in custodia e Rion, così disperata, glielo fece fare. Si lasciò guidare dal ragazzo, non aveva mai baciato nessuno, ma sembrava che qualcuno le suggerisse cosa fare. Circondò con le mani i fianchi del ragazzo, attirandolo a sé e baciandolo piano, inesperta.
Le mani di Louis erano così dolci sul suo viso che Rion si sentì bene, le venne quasi da piangere.
Si staccò e paurosa della sua reazione, affondò il viso nell’incavo della sua spalla e lì vi rimase, si sentiva incastrata alla perfezione.
«Dicono che per calmare un attacco di panico bisogna usare un sacchetto di carta e guardare negli occhi la persona, invece a te è bastato un bacio.»
 
Rylee, una volta uscita dall’ospedale si era diretta a casa, stremata.
Aveva fatto una doccia, cercando di non piangere e convincendosi dell’idea che il momento era arrivato. Rich era pronto ad andarsene, nonostante fossero anni che il ragazzo rimaneva chiuso in camera, la sua presenza in casa sarebbe mancata.
Tra pochi giorni avrebbe perso un pezzo fondamentale di sé.
Rich era stato uno dei punti fondamentali della sua infanzia, l’esempio da seguire e imitare.
Ora, sarebbe finito tutto, Rylee pensò che era giusto per lui. Aveva lottato così tanto per quella malattia che ora veniva ricompensato con la pace, lasciando un vuoto nella sua famiglia. Le si colmò il cuore di tristezza pensando che la piccola Renae non avrebbe avuto nemmeno il ricordo del fratello maggiore, solamente parole.
Pensò a sua madre e a suo padre, avrebbe fatto qualsiasi cosa per poter placare il loro dolore, poteva solo immaginare cosa volesse dire perdere un figlio.
La bionda prese la giacca, il cellulare e i fogli che sua sorella le aveva consegnato giorni prima e uscì di casa.
I suoi genitori erano rimasti in ospedale e Rylee non voleva rimanere a casa ad aspettare notizie di suo fratello, doveva far qualcosa, così decise di andare da Kevin, doveva risolvere la situazione.
Quella lettera l’aveva fatta dubitare molto, sorridere e piangere e ora sapeva la risposta.
La casa del ragazzo era una dimora moderna con mura bianche e tetto a spioventi con tegole rossastre, le finestre erano chiuse e solamente due erano illuminate. Rylee riconobbe la stanza del ragazzo e la luce accesa sul pian terreno era quella del salotto, evidentemente la madre del ragazzo stava guardando la televisione.
Suonò il campanello, riscontrando che era serena, sapeva che quello che stava facendo era giusto.
Ad aprirgli fu la madre, che la guardò con aria stupita: «Rylee.»
«Buonasera, scusi il disturbo, c’è Kevin?»
«Sì, te lo vado subito a chiamare, è successo qualcosa?»
«Non tra me e lui, stia tranquilla, sono qui per chiarire una cosa. Mio fratello sta morendo.» e abbassò lo sguardo, reprimendo le lacrime.
La madre di Kevin rimase in silenzio e senza dire una parola entrò in casa per chiamare il figlio, Rylee la ringraziò mentalmente per non aver detto nulla: parole di conforto non servivano a niente in quel periodo.
Kevin arrivò tranquillo dalle scale e appena la vide rimase di sasso, «Rylee.» sussurrò spaventato.
La ragazza sorrise e disse: «Ho ricevuto la tua lettera.»
Il ragazzo fece uno strano verso con la bocca, sembrava non aver parole.
Rylee capì che doveva parlare, trasse un sospiro profondo e disse: «Non avrei mai pensato che fossi stato in grado di fare un gesto così dolce e romantico, non è da te. Eppure l’ho apprezzato, la lettera mi è piaciuta molto e la conserverò sempre in ricordo del nostro amore. Kevin, tra noi è finita, i motivi sono molteplici e non succederà di nuovo. Non posso chiederti di dimenticarmi, per il semplice motivo che è impossibile, ti chiedo semplicemente di portarmi nel cuore come un ricordo. Un ricordo bello e doloroso, quello che abbiamo passato non avrà copie, sei stato tante mie prime volte e tante mie ultime e io mi sento in dovere di ringraziarti per quello che mi hai dato. È stato un onore essere innamorata di te, davvero e non me ne pento. Sei un ragazzo forte e determinato e sono sicura che riuscirai ad andare avanti. Sono anche sicura che là fuori c’è la ragazza giusta per te, che saprà amarti e tu amerai lei. Non sono io la ragazza per te, sono cambiata in questi ultimi mesi, la nostra storia mi ha insegnato molto, ho imparato che essere innamorati è bellissimo e distruttivo al tempo stesso. Senza amore non si può vivere, perché è proprio grazie all’amore che siamo umani. Questa è la mia risposta alla tua lettera e te ne prego, non disperarti, io sono felice per quello che siamo stati, prova ad esserlo anche tu e vedrai che andrà tutto bene. Alla fine andrà tutto bene.» sorrise un’ultima volta al ragazzo che aveva di fronte e, senza lasciargli il tempo di rispondere, ritornò a casa con il cuore leggero.
 
Rion sentì il cuore di lui pompare forte e veloce, il suo petto caldo, alzò lo sguardo e vide le fiamme del condominio e la realtà le crollò di nuovo addosso, ma il panico non prese le redini del suo cervello. Ebbe un brivido.
Si staccò da Louis e lo guardò: «Cosa ci fai qui?»
Louis fece un mezzo sorriso, «Sono venuto a prenderti, io e Maxie insieme alla polizia abbiamo organizzato tutto questo.»
Rion guardò con gli occhi sbarrati Louis, sino a un minuto prima aveva creduto che l’incendio fosse divulgato per caso, non per opera di qualcuno, ma d’altronde i poliziotti non potevano prevedere un incendio. Doveva essere per forza qualcosa di organizzato.
La rabbia le montò dentro a forza d’uragano, Louis aveva posto fine alla sua missione, Rich sarebbe morto per colpa di Louis.
Stava per dire qualcosa, quando il castano alzò la mano e disse: «Prima che tu mi rivolga addosso tutta la rabbia del mondo, voglio che ascolti quello che ho da dirti, poi, potrai dire quello che ti pare e fare tutto ciò che vuoi, anche prendermi a sberle, ma ti prego di ascoltarmi.» dato che la ragazza non diceva nulla, Louis si chiese come facesse a non apparire scossa, iniziò a parlare con la voce che gli tremava.
«Voglio che tu sappia che lo abbiamo fatto per te. Tutto questo casino è stato fatto principalmente per te, solamente dopo viene l’eliminazione del giro, al primo posto ci sei tu. Ammetto che quando arrivai qui e ti vidi in quell’angolo a fumare, mi sei subito interessata, ma sei così ombrosa e chiusa che parlarti è pressoché impossibile. Cercai di farlo, ma tu respingi tutto.
«Tua sorella mi diede la spinta, mi disse che ti piacevo e forse, potevo aprirti, scavare dentro di te. C’era qualcosa che nascondevi, non avevo la minima idea che fosse questo. Spacciare. Tutti hanno dei segreti, Rion, e il fatto che quella volta venni qui a prendere la roba non vuol dire assolutamente nulla, Maxie non ne aveva voglia e allora sono venuto io. A fregarti è stato un taglietto sul dito che ti eri fatta a casa mia il giorno prima.
«Maxie in seguito mi ha detto di tuo fratello e del tumore, mi ha raccontato un po’ di lui e ho capito il motivo per cui spacciavi: vuoi salvare tuo fratello. Rion voglio che tu sappia che questo è un gesto davvero nobile, ma non puoi salvare una persona che non vuole essere salvata. Sono sicuro che tuo fratello si arrabbierebbe se venisse a sapere quello che fai, perché lui ne ha abbastanza, lui è pronto. Lui sa quello che gli aspetta e so che farà male la sua perdita, tutta questa tua determinazione nel salvarlo non può convincermi di più dal pensare che lui, per te, è tutto. Tu senza di lui non riesci a vivere, è il tuo palo, o mi sbaglio? Te lo leggo negli occhi.
Ma voglio che tu sappia che tutto si può ricostruire, anche tu. Per anni non hai fatto altro che rifiutare la malattia di tuo fratello, troppo convinta che si sarebbe salvato. Adesso è giunta l’ora di accettarlo, Rion, perché così ti fai solo del male e non dico che quando Rich morirà, perché morirà Rion, non farà male, ma sarai pronta e ce la farai.
«Non avere paura del buio. Fai del buio il tuo punto di forza, sii la luce che irrompe nella tua paura. Sconfiggila. Cammina nel buio, perché sei una ragazza sola, ma portati una torcia. Sconfiggiti da sola, Rion.
«Ora c’è un’ultima cosa che voglio dirti, poi potrai anche mandarmi a ‘fanculo. Non ho cercato di conoscerti solo perché tua sorella me l’ha imposto, ma perché volevo farlo. Ho sempre creduto, nel profondo di me stesso, che eri quella ragazza col cappuccio che mi offrì una sigaretta la prima sera che giunsi qui. Non c’è voluto molto per ritrovarti, ed è strano come in mezzo a una marea di ragazze, io mi sia innamorato di quella più ombrosa, schietta, brusca e disperata di questo mondo. Io mi sono innamorato di te e voglio aiutarti a superare questo momento. Vorrei tanto essere la torcia che cammina insieme a te nel buio, se tu me lo permettessi. Ti darei qualsiasi cosa purché tu stia bene, perché io con te mi sento calmo, lievitato e bene, e ti vorrei al mio fianco e vederti crescere e sorridere e stare bene e sono innamorato di te.» e tacque.
 
«Mamma.» il ragazzo aprì gli occhi, uno blu e l’altro verde, e guardò la donna seduta davanti a lui, sembrava che migliaia di anni fossero stati impressi sul suo viso. La stanchezza, il dolore, l’avevano consumata.
Rich si dispiacque per quello che stava causando, non voleva nessuno che stesse male per lui, perché lui stava bene. Era pronto, voleva porre fine a tutto questo.
Spostò lo sguardo e vide il suo eroe: il suo papà. L’uomo che l’aveva sempre sostenuto, che gli aveva insegnato a nuotare, ad andare in bicicletta, l’uomo che l’aveva reso il ragazzo che era oggi su quel lettino.
«Papà.» e sorrise.
«Amore mio.» sussurrò sua madre, gli occhi già velati di lacrime.
«Mamma, ti prego non piangere. Io ti voglio bene, scusa se ho firmato quelle carte, scusami tanto, ma è quello che dovevo fare.»
«Non devi scusarti di nulla, Rich, assolutamente di niente. Avremmo dovuto appoggiarti sin da subito, ma nessun genitore avrebbe permesso questo, lo sai.»
«Sì, lo so. Senza la vostra forza non sarei arrivato sino a qua e devo ringraziarvi.»
«Noi dobbiamo ringraziarti per il regalo che ci hai fatto, amore mio, solo noi.»
Rich chiuse un attimo gli occhi, poi disse: «Voglio che pensiate che non morirò, ma che partirò per un lungo viaggio e alla fine ci incontreremo di nuovo. Voglio che pensiate che io sarò qui, al vostro fianco e cercherò alcune volte di dare dei segnali. Quindi, se Renae per caso si ritrova con la faccia cosparsa di cioccolato, sapete di chi è la colpa.»
I suoi genitori proruppero in una risata forzata, «Oppure se a te, papà, la birra finirà prima del dovuto è perché Cristo non mi dà abbastanza da bere.»
Suo padre rise e scosse la testa, poi, con quella mano grande, accarezzò con una delicatezza innata la fronte del figlio.
«Adesso voglio che chiamate Rylee e Rion.» cercò di sollevarsi dal lettino e una volta trovata la posizione giusta, senza che tutti i fili si annodassero o si impigliassero da qualche parte, fissò la piccola Renae che se ne stava su una sedia con in mano una bambola.
«Ehi, Renae.»
La piccola sollevò lo sguardo e guardò con quegli occhioni azzurri il fratello: «Ich?»
«Bravissima, Rich. Sentimi un po’, ti devo affidare un compito importante, va bene?» la piccola si mise in posizione d’ascolto con addosso una sorta di egocentrismo che i bambini assumono quando li si tratta da grandi.
«Ora io andrò via per un po’ di tempo, in un posto che purtroppo non so come sarà. Mamma e papà piangeranno tanto in questo periodo, per colpa mia, perché me ne vado e il tuo compito è molto importante: devi aiutarli. Devi sorridere sempre, essere sempre positiva e non piangere mai quando la mamma o il papà lo faranno, anzi devi andare là da loro e abbracciarli e dirgli “Va tutto bene, Rich sta bene, me lo ha detto lui”. Capito?»
La piccola annuì con vigore e ripeté: «Va tuuuto bene, Ich ‘ta bene, me lo ha deeto lui.»
«Bravissima, sempre così. Non scordartelo, okay?»
La bambina annuì di nuovo e sorrise, il fratello maggiore ricambiò il sorriso e mormorò: «Sarai la luce di quella casa.»
 
Rion rimase immobile, incapace di dire una parola.
Louis aveva parlato in modo così tremante e pieno d’amore che lei era stata rapita e quell’ultima frase, ‘e sono innamorato di te’ le ronzava in testa.
Lei non sapeva niente dell’amore, quasi non sapeva nemmeno nulla delle emozioni, figurarsi di una così potente come l’amore.
Guardò il castano e si rivide specchiata nelle sue iridi: i capelli sudati incollati al viso, gli occhi tristi e pieni di lacrime, le labbra secche, la carnagione bianca.
Guardò Louis e si rese conto di quanto fosse bello: il taglio marcato della mascella, la leggera barba, gli occhi azzurri severi e intimoriti allo stesso tempo. Intimoriti per lei, aveva paura per lei, voleva davvero aiutarla.
Rion non sapeva cosa fare, aveva rifiutato così tante volte il contatto umano che non sapeva come comportarsi.
Il cellulare vibrò, con mani tremanti lo prese e lesse il messaggio da parte di sua madre: “Rich è stato portato in oncologia. Sta avendo una leggera ripresa e vuole vederti, vieni in ospedale”.
Il suo cuore batté all’impazzata, sorrise senza pensarci, «Rich vuole vedermi.»
«Va bene, andiamo.» e prima che lei potesse replicare, Louis la trascinò verso l’ospedale.
 
Rylee entrò nel reparto di oncologia con il cuore in gola, vide suo padre sorseggiare un caffè con gli occhi lucidi, le fece un cenno di saluto.
Sua madre stava cullando la piccola Renae, Rylee, senza dire una parola, le si avvicinò e depose un bacio sulla fronte di entrambe, poi entrò nella stanza.
Suo fratello stava guardando fuori dalla finestra e appena Rylee entrò le sorrise.
«La mia professoressa di scienze una volta ha detto che quando si è malati terminali, prima di morire, si ha una ripresa.»
«Mi sa proprio che ha ragione.»
«Rich, io…» iniziò a dire Rylee.
«Shh, Rylee, va tutto bene, va tutto bene. Non c’è bisogno che chiedi scusa per il tuo comportamento di questi anni. Lo capisco benissimo, penso che anch’io avrei fatto finta di niente, perché facendo finta che i problemi non esistano, si vive meglio. Ti capisco e non te ne faccio una colpa, è il tuo modo di affrontare il dolore e io lo accetto. Non piangere, Rylee, non piangere. Nessun morente vorrebbe vedere la propria famiglia piangere, sai? Dovrò aver qualche ricordo bello lassù o laggiù, non pensi? Su, dài, fammi uno dei tuoi sorrisi.»
Rylee sorrise e si appoggiò al petto fragile del fratello, facendosi consolare da chi in realtà doveva essere consolato.
 
Louis e Rion entrarono in ospedale con il fiatone, il castano si limitò a seguire la mora che evidentemente conosceva l’ospedale come le sue tasche.
Durante il viaggio, Rion aveva buttato la zaino in un cestino della spazzatura e si era fermata a una fontanella per pulirsi il viso, non aveva nessuna intenzione di raccontare la sua serata ai genitori e mai l’avrebbe fatto.
Giunti nel reparto addetto, Louis si sentì partecipe di un dolore così forte e immenso che se ne sentì oppresso e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era quella di andare via. Era un estraneo e non meritava di rimanere lì.
Mentre Rion entrava nella stanza del fratello, Louis vide un uomo avvicinarsi e sedersi vicino a lui.  Deglutì e si fissò i piedi.
«Devi essere Louis. Rion mi ha parlato di te, una volta.»
Louis guardò l’uomo triste con gli occhi cerchiati a bocca aperta, Rion che parlava al padre di lui?
«Non so cosa siate voi due e in questo momento, non mi interessa saperlo.» lo fissò con sguardo truce, Louis costatò che i suoi occhi erano identici a quelli della figlia, «Rion è la più attaccata a Rich, non ha mai accettato la sua malattia, quindi, che tu sia suo amico o altro, non devi farle del male perché…»
«Ho intenzione di fare tutto il contrario con lei, mi creda.» mormorò Louis, bloccando il padre.
 
Rion entrò in camera con gli occhi umidi, respirando piano e veloce.
«Rion.» sorrise Rich.
La sorella gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla fronte.
«Sei cambiata.» mormorò il fratello.
La ragazza inarcò un sopraciglio, «Qualcuno ti ha stravolto e non parlo di me.»
Rion abbassò lo sguardo, non aveva ancora i pensieri chiari riguardo Louis.
«Chiunque sia, deve essere importante, dato che praticamente sei un muro vivente, tu. Lo so che l’hai fatto per me, anche se non dovevi. Lo so che te ne andavi via la notte e tornavi tardi per non so quale oscuro motivo e so anche che arrivavano soldi a casa nostra. I soldi iniziarono ad arrivare quando tu uscivi la sera.»
«Rich, per favore, non voglio parlare di questo.»
«Sono sul calvario, Rion, e adesso mi ascolti.» disse schietto, «Ho inizialmente attribuito la colpa a Greta, so che era innamorata di me e doveva andare avanti, questo è uno dei tanti motivi per cui ho deciso di chiudere con lei, si sarebbe prosciugata a vedermi in questo stato, l’amore uccide Rion, ricordatelo, ma al tempo stesso so anche che non avrebbe mai fatto una cosa che io non volevo. Tu sì. Non voglio sapere come hai fatto a procurarti quei soldi, ma voglio che li usi per una causa giusta e non per me. Perché ormai io sono un vegetale in questo letto e sinceramente, non vedo l’ora che sia finita.»
«L’ho fatto per salvarti.» mormorò Rion, ripetendo la stessa identica frase di ogni qualvolta Rich gli chiedeva dove fosse stata.
«Cure, medicinali, flebo e chemio hanno tentato di salvarmi, Rion, e non ci sono riusciti. Tu mi salvavi un po’ di più ogni qualvolta entravi in camera mia e mi portavi una fascia nuova e mi guardavi con quegli occhioni verdi. Era lì che mi salvavi e io stavo bene. Sei una sorella fantastica e io ti voglio un bene dell’anima, ma ora devi accertalo. Io me ne andrò e tu dovrai andare avanti, non ritornare nel passato, Rion, ti prego, fallo per me.»
La ragazza annuì, aveva capito che era stata solamente egoista in quegli ultimi mesi e ora sapeva cosa doveva fare. Aveva la certezza che qualcuno l’avrebbe aiutata ad andare avanti e lei l’avrebbe fatto, perché Rich glielo aveva chiesto. Era l’ultima cosa che poteva concedergli.
Aveva sempre pensato che la sua missione fosse salvare suo fratello, invece, ora, guardandolo, comprese che la sua missione era salvare se stessa da tutti i muri che aveva eretto intorno a lei e poteva farlo solamente abbattendo il pilastro qual era suo fratello e costruendone un altro.
«Ora vieni qui e abbracciami, dài.» sorrise Rich.
Rion scoppiò in lacrime e andò nelle braccia di suo fratello.
«E’ un maschio o una femmina?»
«Come?» domandò perplessa Rion.
«Sai, non hai mai avuto un ragazzo e alcune volte mi ritrovavo a pensare che fossi lesbica, quindi, chi ti ha stravolta è un maschio o è una femmina? Ti prego, devi dirmelo, se no, non morirò felice.»
Rion ridacchiò per la pessima battuta e mormorò: «Si chiama Louis.»
«Scusa, ma è un nome un po’ di merda.»
Rion scosse la testa e rise, suo fratello la strinse un po’ più forte, poi disse: «Ora vai da lui, te lo ordino.»
«Rich, ma io voglio stare con te.»
«E io non ti voglio, lui è più importante, muoviti. Ti voglio bene, Rion.»
«Fa’ buon viaggio, Rich.» mormorò la ragazza con voce spezzata e uscì dalla stanza.
Intercettò subito lo sguardo di Louis, che si alzò e seguì la ragazza fuori dall’ospedale, nell’aria fresca autunnale.
Lo guardò e capì che era lui.
Lui poteva costruire il nuovo pilastro per la ragazza e lei lo avrebbe aiutato perché in due si fa sempre meno fatica.
«Ti ringrazio, Louis, per quello che hai fatto stanotte. Devo ancora abituarmi a questa nuova sensazione, per me non è facile dire tutto quello che sento. Ma sono sicura che imparerò.»
«Quale sensazione, scusa? Il fatto di accettare una cosa?»
«Anche.» mormorò Rion, «Ma non è chiaro?» mormorò guardando la luna pallida.
«No, direi di no, Rion.» ma forse, il castano stava fingendo perché un sorriso gli comparve sul viso quando la ragazza si girò e lo fissò dritto negli occhi.
«Tu mi hai stravolto la vita e mille e mille grazie non basterebbero per farti capire quanto io ti sia debitrice. Stanotte non ti manderò né a ‘fanculo né ti prenderò a sberle, ti dirò soltanto grazie per essere stato così determinato e aver dato retta a Maxie e Rylee.»
«Maxie mi odierà visto che ho dato più importanza a lui che a te.»
«Magari si riprenderà quando mi vedrà uscire con voi e capirà che a questa missione ha partecipato un po’ anche lui.»
«Uscire con noi?» domandò lui strabiliato.
«Magari tra un po’ di tempo, fai passare tutto questo. Ho capito di aver sbagliato a pensare che mio fratello potesse essere curato, quando tutto ciò che Rich voleva era andarsene tranquillamente, senza lasciare rimorsi. So di aver sbagliato, ma un conto è aver capito, un conto è mettere in pratica. Sarà difficile, nessuno mi ha detto che sarà facile, ma penso di farcela.»
«E io cosa farò?»
«Tu? Non lo so cosa farai tu nel prossimo periodo, ma sarebbe anche bello che in mezzo a tutta questa disperazione, in questo momento, mentre mia madre starà badando a Renae con un vuoto nel cuore e mio padre fisserà un punto vacuo e Rylee cercherà di dormire su una sedia, sarebbe bello che tu, adesso, iniziassi ad accendere la torcia che vuoi essere per me e mi baciassi, perché probabilmente sono fottutamente innamorata di te.»
Louis la guardò con gli occhi pieni di ardore e mentre le prendeva il viso tra le mani, mormorò: «Penso che questa sia la frase più lunga che tu abbia detto in tutta la tua vita.» e la baciò.
 
Jessica teneva la mano di suo figlio, carezzandogli il dorse.
Erano passati tre giorni da quando i dottori lo avevano spostato dalla terapia intensiva al reparto di oncologia. Jessica era esausta, non si lavava da giorni, sonnecchiava di tanto in tanto, ma il suo sguardo era sempre puntato sul viso sempre più scavato del suo bambino.
Stava piangendo, suo marito accanto a lei guardava anche lui in lacrime Rich.
Il ragazzo aveva gli occhi chiusi e stava dicendo frasi di ringraziamento da circa mezz’ora. Le sue condizioni avevano preso una piega negativa nelle ultime due ore, i medici dicevano che entro l’alba sarebbe spirato.
«Mamma, papà, sono pronto.» mormorò il ragazzo, stringendo più saldamente la mano alla madre.
«Vai, tesoro, vai.» disse quest’ultima.
E spirò.
 
Spazio autrice.
 
Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!
 
Eccomi finalmente qui.
QUESTO E’ L’ULTIMO CAPITOLO.
Okay, non è vero, perché il prossimo sarà l’epilogo, ma la storia si conclude qui.
E voi vi chiederete e Rion e Louis? Rylee? Renae?
La storia d’amore tra Louis e Rion è appena cominciata e tu la termini qui? Ebbene sì.
Non vi arrabbiate, c’è una spiegazione sensata a tutto questo.
Guardate il titolo della storia.
Mission.
La storia è una missione.
La missione di Louis, di Rion e mia (che vi spiegherò la prossima volta).
Devo scusarmi con voi per non avervi detto prima che mancava così poco alla fine, ma l’ho fatto per un motivo per preciso: dovevate avere il fiato sospeso e immergervi a pieno.
A questo punto della storia, mi sembra più che lecito avvisarvi che questa è la fine (più o meno).
Devo anche scusarmi se ho deluso le vostre aspettative, so che probabilmente alcuni si sarebbero aspettati una storia d’amore a pieno e invece si trovano il libro già chiuso, ma tutto sta nel titolo e detto chiaramente, non avrebbe senso continuare.
Mi dispiace se vi ho delusi, davvero.
 
A parte questo, opinioni? Vorrei che foste sinceri al massimo con me, davvero.
 
Ci vediamo domenica prossima!

A presto,
Giada.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Dopo tre mesi. ***


Dopo tre mesi.
 
Greta si era stanziata a casa del ragazzo con le ali tatuate.
Non sapeva come si chiamava, non avevano più parlato di niente, lei scriveva tutto il tempo e lui faceva la sua vita, l’unico contatto che avevano era quando il ragazzo le consegnava nuovi fogli su cui scrivere e nuove biro, per il resto, si ritenevano estranei.
Avrebbe usato i soldi che aveva messo via per pubblicare quel libro e ne andava fiera, finalmente aveva un ricordo bellissimo del ragazzo che aveva amato e non se ne pentiva minimamente.
Guardò il ragazzo sul divano e mormorò: «Spero che un giorno quelle tue ali si schiuderanno e riuscirai a volare via. Grazie per avermi ospitato in questi mesi, mi è stato d’aiuto, molto. Ti ricorderò come il ragazzo dalle ali tatuate. Sono sicura che riuscirai a farle schiudere, perché se ho trovato un modo io per superare questa sofferenza, possono farlo tutti. – Lo guardò con un sorriso – E quando ci riuscirai, non avrai più paura.»
E pose un punto alla fine della fine.
Aveva concluso la sua missione.
 
Lascio a voi, carissimi lettori, intendere quale tipo di storia Greta abbia scritto.
 
Spazio autrice.
 
Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!
 
Sì, tranquilli, l’epilogo sono quelle quindici righe, sì lo so.
Molto probabilmente vi ho anche delusi, dato che la stragrande maggioranza si aspettava di vedere Louis e Rion insieme, Rylee e tutti gli altri.
Ebbene no.
Loro stanno bene, tranquilli, sono lì nel mio cuoricino e spero un po’ anche nel vostro. Ma come vi ho detto nell’angolo autore di due capitoli fa, la storia si chiama “mission” e tratta delle varie missioni dei protagonisti, tutto quello che sta al di fuori della missione è, per così dire, superfluo.
La missione di Rion era quella di salvare Rich vista come quella di salvare se stessa ----> portata a compimento, yeeeeeeeeeee!
La missione di Lou quella di far parlare Rion ----> conclusa anche questa, anzi l’ha fatta innamorare! APPLAAAAAAAAUSSSSIIIII.
E’ un'unica missione questa storia e ovviamente, non potevo di certo lasciare indietro Greta. Alcune di voi si sono chieste che fine abbia fatto, perché è praticamente da metà storia che è assente, beh, ora lo sapete.
Greta stava scrivendo, che libro? Lascio a voi il punto interrogativo.
Greta è un mio senal, se così vogliamo chiamarlo.
Greta è me (anche se io mi chiamo Giada). Questa storia è stata la mia missione.
Ho iniziato a scriverla circa due anni fa, poi mi sono bloccata, non stavo bene, è stato un anno brutto in cui stavo male per motivi vari che non vi sto a spiegare e dopo un po’, l’ho ripresa in mano. È stata la mia forza di continuare.
Per questo può sembrare una storia banale, in fondo sono la prima che dice che tratta di droga (cliché) ed è ambientata in una scuola (doppio clichè), ma tralasciate questo. Cercate di tralasciare la trama e sprofondare nelle emozioni che ho cercato di raccontare, scrivere e immedesimare.
Purtroppo, se Greta ha concluso la sua missione, io non lo so ancora. Sto bene, ora, ma come tutti gli adolescenti ho delle ricadute. Credo che sia normale.
E’ stata una bella missione, comunque sia.
E voi ne avete fatto parte.
So che non lo dico mai negli angoli autori, ma in questi cinque mesi che ho pubblicato, mi sono affezionata a voi ed è solo grazie a voi che la storia è arrivata fino a qui.
Davvero.
Ho sempre detto che la storia non la fa lo scrittore, ma il lettore e quindi grazie.
Grazie, grazie, grazie.
Grazie davvero di tutto.
Di aver recensito, di averla messa nelle seguite, preferite, etc…
Ma soprattutto di aver letto.
Grazie per avermi letto.
Ve ne sarò sempre grata, sul serio.

Evito di stare qui a crogiolarmi ancora per molto, ma ho in serbo un'altra storia, TOTALMENTE, differente da questa.
Quindi: stay tuned.
Probabilmente tra due/tre settimane inizio a pubblicare.
 
Grazie ancora.
 
A presto,
Giada.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3154816