CAPITOLO
5
Innocenza
Perduta.
Presente
“Tempo fa mi parlasti di
tradimento. Ne deduco che tu conoscessi Zelena
già da molto tempo. Da prima
che lei mi tenesse prigioniero. Lei sa chi sei.” Le parole di
Gold risuonarono
nella stanza. La ragazza era ancora seduta sulla sedia a dondolo.
Osservava
ormai la cenere del legno che il fuoco aveva consumato.
“Deduci bene,
Padre.” Chiuse gli occhi e tese la testa
all’indietro, rilassando i tendini del collo. Le sue narici
si allargarono
inalando quanta più aria i suoi polmoni riuscissero a
contenere. Poco dopo
drizzò la testa e gettò fuori un soffio di aria
calda. Aprì gli occhi e di
quell’azzurro, quasi argento, che li caratterizzava e li
rendeva tanto glaciali
non vi era nemmeno traccia. Un giallo più intenso di quanto
non fosse un dente
di leone ne aveva preso il posto, colorando l’iride. La
sclera era nera e delle
piccole venature rosse si intersecavano nella pupilla. Si
girò piano verso
l’uomo, senza sbattere le palpebre, e questi, alla vista di
quegli occhi cadde
in sorta di trance.
“È ora che tu
veda” Disse Leila, con una voce scura e roca
che non le apparteneva. Gli poggiò una mano sulla testa.
Gold sentì un freddo
innaturale che partiva dal punto in cui lei l’aveva toccato.
Eppure le sue mani
erano calde. Era come se gli avessero gettato addosso un secchio
d’acqua
ghiacciata. Non riusciva a muoversi da quando aveva visto quegli occhi.
Il
freddo si allargava da quel punto in modo sferico, come un onda,
percorrendo il
suo cranio fino ad arrivare al collo. Prima che Gold se ne rendesse
conto aveva
raggiunto anche la punta delle dita dei piedi. Con il freddo
un’immagine vivida
e chiara gli si allargò nella mente. Il gelo sembrava
affievolirsi e una
sensazione di tepore gli scaldò il volto. Non aveva il
controllo sul suo corpo,
se ne rese immediatamente conto. Vedeva solo un caminetto familiare
davanti a
sé, ma anche se desiderava vedere l’intera stanza
per essere sicuro di dove si
trovasse non riusciva a muovere i propri occhi distogliendo lo sguardo
dallo scoppiettio
delle fiamme. Osservava in silenzio. Sembrò andare avanti
così per ore. Poi
lentamente lo sguardo si abbassò e lui vide due piccole
manine da bambina che
tenevano un cavalluccio di legno intagliato in modo elegante. Quelle
mani non
erano sue, però appartenevano al corpo in cui lui stava.
Indossava un bel
vestitino rosso con dei ricami di pizzo bianchi. Lui lo riconobbe
immediatamente. Era il vestitino rosso che aveva dato in dono a sua
figlia
quando questa compì dieci anni. Quando se ne andò
via lo lasciò sul pavimento
di pietra della sua stanza e lui lo tenne con sé per
decenni. Conservandolo
intatto con la magia. Quello stesso vestito rosso lo teneva chiuso
nella
cassaforte del suo negozio ed ogni sera l’apriva e ne accarezzava la stoffa,
ricordando la
figlia che pensava di aver perso.
Fece alcuni passi verso il letto
quando vide la stanza
vorticargli intorno. Cadde silenziosamente e poi buio.
Quel momento di oscurità
gli sembrò durare quanto un leggero
battito di ciclia, ma era sicuro che non fosse durato così
poco. Ricordava bene
quando Leila sveniva per via della febbre troppo alta. Quando perdeva i
sensi
passavano ore prima che si risvegliasse e lui passava quelle ore sul
capezzale
del suo letto. E lì si vide. Seduto di fronte a lui
c’era la sua stessa
immagine. Ma era l’immagine del vecchio Tremotino. La pelle
dorata e gli occhi
dello stesso colore della pelle. I denti putridi
e i capelli unti. Doveva essere un’immagine
inquietante per una bambina. Eppure lei non sembrava averne mai avuto
paura.
Magari perché vi era stata abituata fin dalla nascita a
vedere quel mostro.
“Papà..”
La voce che sussurrò quella parola era così dolce
ed innocente. Gold ne ebbe nostalgia. In quel momento avrebbe voluto
avere
indietro la sua bambina.
“Sono qui. Papà
è qui. Va tutto bene adesso.” Tremotino le
accarezzò la fronte tirandole indietro i capelli.
“Papà oggi
dovevamo vedere il sole.” La voce della bambina
non era più un sussurro. Ma più chiara e limpida,
piena di speranza.
“Piccola mia, non stai
bene. Non sarebbe saggio uscire in
queste condizioni.” Gold ricordava il momento in cui disse
quelle parole. Il
momento in cui le rinnegò per l’ennesima volta il
sole. L’unica cosa che la
bambina avesse mai desiderato. L’unica cosa che lui non le
aveva mai dato. Il sole.
“Me l’avevi
promesso.” La speranza aveva lasciato il posto
alla tristezza e Gold aveva sentito un groppo salirgli in gola e le
lacrime
rigargli le guance. Sentiva che Leila provava a trattenersi ma non ci
riuscì.
Le lacrime uscirono copiose.
In quell’istante Gold
capì dove lei l’aveva portato.
Era il giorno in cui lei era andata
via. Il giorno in cui
aveva lasciato il vestito rosso per terra. Il 2 Ottobre di
Trentasei
anni prima.
Quando Tremotinò
uscì dalla stanza, gli oggetti, i loro
colori e tutto ciò di cui la bambina era circondata
iniziò a confondersi,
intersecarsi fino a che tutto intorno non rimase che una patina
semi-gelatinosa
di varie tonalità che piano piano iniziò a
sbiadirsi, finché divenne bianca.
Poi quel bianco iniziò a
diventare brillante, lucente,
rimpicciolendosi e riducendosi in un piccolo disco circondato
dall’azzurro del
cielo. I piedi nudi della ragazzina accarezzavano l’erba e il
vento fresco le scompigliava
i capelli.
Leila era in piedi, nella foresta,
lontana solo qualche
metro dal castello di Tremotino. Indossava uno straccio bianco come
maglietta e
dei pantaloni di un marrone scuro. Li aveva fatti lei stessa. Detestava
i
vestitini ma non aveva il coraggio di dirlo al padre. O almeno Gold
intuì che
se li fosse cuciti da sola. Non erano di certo suoi, erano troppo
piccoli,
fatti su misura per lei.
La bambina si sdraiò,
annusando il profumo pungente del
terriccio e dell’erba, godendosi il calore del sole sul viso.
Passò un ora, poi due. Poi
Gold perse il conto, perché per
quanto fosse concentrato a capire il perché Leila lo avesse
portato così
indietro, steso su quell’erba finì per rilassarsi.
Forse era quello che avrebbe
dovuto fare fin dall’inizio. Rilassarsi ed osservare. Magari
la soluzione era
più ovvia di quanto lui non pensasse.
La ragazzina si alzò e si
avviò verso il castello,
calpestando le foglie secche che si erano posate sul pavimento. Aveva
iniziato
a fare buio e con la notte arrivava anche il freddo. Ormai non era
più estate,
anche se faceva insolitamente caldo per quel periodo.
Qualcosa però non tornava.
Lei stava andando verso il
castello, non stava scappando. Eppure lui ricordava che quel giorno non
l’aveva
ritrovata nelle sue stanze.
D’un tratto la bambina si
fermò. In lontananza si sentivano
delle voci. Degli uomini ridevano in modo sguaiato e cantavano ad alta
voce.
Probabilmente ubriachi.
Leila girava la testa tendendo le
orecchie, cercando di
capire da dove venissero. Destra? No, no. Era da Sinistra. O forse
dietro? Sì,
dietro.
Si voltò di scatto e li
vide. Quattro uomini. Uno era grasso
e tozzo. Un altro era alto, magrolino e con la barba incolta e
unticcia, con
gli occhi piccoli e il naso adunco. Il terzo al contrario, sembrava una
montagna, ma aveva lo sguardo perso, da tonto e si trascinava appresso
le
braccia che erano spropositatamente lunghe. L’ultimo, forse
il più inquietante
dei quattro era un ragazzo abbastanza giovane. Era di statura media e
aveva il
torace villoso che si intravedeva nella camicia sudicia che portava. I
pantaloni erano strappati e lasciavano intravedere le ginocchia.
Sarebbe stato
di bell’aspetto se solo si fosse curato. I capelli erano
lunghi e gli coprivano
gli occhi e ricadevano sulle spalle. I denti giallognoli, alcuni neri.
E il
viso era coperto di terra e fango.
“Guarda guarda.”
Fece il più basso dei tre. “Sembra che il
buon Dio sia dalla nostra parte, vero signori?” A queste
parole seguì una
risata strozzata.
Leila indietreggiò e
scattò all’indietro per fuggire ma
appena si girò sbatté contro un altro uomo. Alto.
Forse più di quello che somigliava
ad una montagna.
Le prese i polsi e la
sollevò per le braccia. Gold sentì un
dolore acuto sotto le ascelle quando l’uomo
strattonò la bambina sollevandola
da terra e la gettò ai suoi quattro amici. Il Secco si
avvicinò a lei,
scoprendo la dentatura aguzza. Molti piccoli solchi gli si formarono
sulle
guance scarne. La tirò a sé per i piedi.
“Tranquilla ragazzina, non
ti faremo niente.” Disse
ansimando mentre la trascinava dal Tozzo. Fu lui che le
poggiò un piede sul
volto per girarglielo e vederne il profilo.
“Cosa ne facciamo di questa
graziosa fanciulla, Jon?” Chiese
il Tozzo.
“Sì Jon, cosa ne
facciamo?” Ripeté a pappagallo il Secco.
Gold sentiva il cuore della bambina
battergli all’impazzata
in petto. E il fiato era corto. Cercava di dimenarsi ma la Montagna
più grossa
le schiacciava entrambe le braccia con le ginocchia. Impedendole di
muoverle. E
quando aveva provato a scalciare le avevano dato un colpo sulla tibia
della
gamba destra con un ramo.
“Credo che oggi tocchi ad
Al il primo assaggio, amici.”
Quello che aveva parlato era l’uomo dai lunghi capelli. Lui
doveva essere Jon.
Volse il capo verso la Montagna più piccola e gli rivolse un
sorriso marcio.
“Ma quando
toccherà a me Jon? Sono già quattro volte che ne
troviamo una questa settimana e io sono sempre stato
l’ultimo.” Quando il Tozzo
si lamentò Jon gli assestò uno schiaffo sulla
guancia, che divenne più rosea di
quanto non fosse già per via del vino.
“Cosa cazzo fai Jon?
C’hai scartavetrato le palle, lo sai?
Ti senti il capo ma tu non sei un cazzo di nessuno in questo
gruppo.” A queste
parole l’uomo dai capelli lunghi estrasse un coltello e gli
piantò l’intera
lama nel braccio. Jon girò il coltello e poi lo estrasse,
facendo urlare
l’uomo. Il sangue schizzò sul volto della bambina.
Era veloce. Molto veloce.
Forse il più pericoloso dei Cinque.
“Se ti rivolgi di nuovo a
me così giuro che te lo taglio
Knut. Lo giuro su quanto è vero Iddio. Così non
potrai essere più neanche l’ultimo.”
Puntò il coltello tra le gambe
del Tozzo, toccandogli con la punta insanguinata il cavallo dei
pantaloni
grigi.
“Ti chiedo scusa
Jon.” Il Tozzo tremava. Leila poteva
vedergli il doppio mento che sballonzolava e il labbro inferiore era
coperto di
saliva che cadeva e schizzava da una parte all’altra a
seconda del tremolio.
“Qualcun altro ha qualcosa
da dire?” Chiese Jon. Tutti
tacquero. Gold fremeva di rabbia, ma come Leila non poteva muoversi
anche lui
era bloccato. Si chiedeva perché lei non stesse neanche
urlando ma sentiva la
paura. Una paura che l’aveva paralizzata. Non cercava neanche
più di muoversi.
“Bene.” Ripose il
coltello nella fodera e se lo agganciò di
nuovo alla corda che fungeva da cintura.
“Allora oggi tocca prima ad
Al, poi vai tu Connor.” Il Secco
mostrò di nuovo i denti in segno di contentezza.
“Poi vado io. E per ultimo
tocca a Tam.” La montagna più
grossa grugnì nell’udire il suo nome. Poi Jon si
girò verso il Tozzo. “Credo
che Knut debba rimettersi, ha una brutta ferita al braccio. Oggi
è meglio che
si riposi.” Poi guardò Leila.
“Sei
fortunata ragazzina. Non ti piacerebbe avere il suo grasso sudaticcio
su di
te.” Rise, mentre Al, la montagna più piccola, si
abbassò i pantaloni. Fu
allora che Leila trovò la forza di gridare e riprese a
dimenarsi. Ma Tam le
tappò la bocca con la mano. “Di norma vi lasciamo
urlare, è più divertente. Ma
qui vicino c’è il castello del Signore Oscuro e
non vorremmo di certo
disturbarlo.” Jon si spiegò velocemente e poi
aggiunse: “Tranquilla. Fa solo un
male cane.”
D’un tratto i colori
iniziarono a vorticare come prima, ma
stavolta la patina che circondò Gold non era bianca,
bensì nera.
Non riusciva più neanche a
pensare. Quei volti lo
ossessionavano.
Poi una nuova immagine gli si
presentò davanti. Si trovava
dentro una piccola cassa di legno. Il ventre le faceva male. Molto
male. I
pantaloni marroni erano coperti di sangue.
Gold era disgustato, non riusciva a
capacitarsi di quello
che le era stato fatto. Avrebbe vomitato se fosse stato nel suo corpo.
La bambina stringeva il piccolo
cavallo di legno tra le
mani. Mentre i quattro uomini trascinavano la sua gabbia. Arrivarono
presto in
un campo. Vi era una gabbia simile ma molto più grande, al
cui interno vi erano
dei bambini. Accanto ce n’era un’altra identica, ma
dentro si trovavano solo delle
ragazze. Tutti avevano il volto spento e gli occhi vitrei.
Quella notte iniziò a fare
freddo. Quando arrivarono
aprirono la gabbia e Al, la montagna più piccola, la prese
in braccio. Leila
non riusciva a camminare, le bambe le tremavano, sembravano fuscelli
sottili,
non riuscivano a sopportare il suo stesso peso.
La portò dentro la gabbia
più grande, dagli altri bambini
che le rivolsero quasi subito lo sguardo.
La gettò a terra e lei
provò a trascinarsi verso una delle
sbarre di legno, per poter appoggiare la schiena. Si ritrovò
vicino ad un ragazzino
dai capelli scuri che stava torturando il bordo della sua tunica. Aveva
gli
occhi color nocciola e non sembrava voler parlare.
“Tu sei un
maschio.” Leila cercò disperatamente di uscire
dalla propria pazzia aggrappandosi a qualcuno, e sperava veramente che
quel
ragazzino le desse retta. Sperava addirittura che le rispondesse male,
così
almeno non si sarebbe sentita sola. Ma quel bambino scosse leggermente
le
braccia e continuò a torturare il bordo della tunica.
“Quanti anni
hai?” Tentò di nuovo lei. Il bambino,
però,
fece finta di non aver sentito e seguì facendo
ciò che, Leila intuì, stava
facendo da ore.
“Non parla.” Un
altro ragazzo, un po’ più grande di quello
vicino a lei, le aveva parlato. Questo aveva i capelli biondi e
indossava una
maglia di lana pesante.
“Gli hanno tagliato la
lingua poco dopo aver.. be’ lo sai.”
Le si sedette accanto. “E non dovresti essere sorpresa che ci
siano anche
maschi qui. La gente paga di più per degli schiavi maschi. E
gli schiavi non
vengono usati solo per fare le faccende di casa. Ci sono molti padroni
che ne
approfittano.”
Leila avrebbe voluto scappare via,
tornare dal padre e far
finta che tutto quello non fosse mai accaduto. Scavava con le unghie
nel legno
del piccolo cavalluccio.
“Si chiama Khal.”
Indicò il bambino senza
lingua. “E
io sono Abe. Lui era il mio migliore amico.
Be’ lo è ancora, solo che adesso non abbiamo molto
di che parlare.” Ironizzò
sulla faccenda, ma i suoi occhi erano tristi.
“Ci hanno preso insieme.
Prima è toccato a lui. Mi hanno
costretto a guardare. Urlava così tanto che alla fine quel
pazzo di Jon gli ha
tagliato la lingua. Poi hanno preso me. Khal piangeva. Non riuscivo a
vederlo,
ma lo sentivo. Non potevo fare nulla. Non potevo riattacargli la
lingua. E non
potevo ridargli quello che aveva perso. Dio santo, aveva solo otto
anni. Questa
è stata la cosa che ha fatto più male di quel
giorno. Sentirmi impotente.”
Si fermò un attimo per
prendere fiato e la guardò.
“Tu come ti
chiami?” Chiese, osservando il piccolo cavallo
di legno che la bambina teneva in mano.
“Leila.” Rispose
subito lei. In quel momento Khal mosse le
mani verso Abe.
“Ha detto che hai un nome
molto bello.” Il ragazzino biondo
tradusse immediatamente i suoi movimenti. Poi rivolse di nuovo lo
sguardo verso
il cavallo di legno.
“Chi te l’ha
dato?” Chiese il ragazzino, curioso di sapere
qualcosa in più della ragazza.
Leila gli porse il cavalluccio e lui lo prese per vederne
la fattura.
“Me l’ha regalato
mio padre. Diceva che a mia madre piaceva
molto cavalcare.” Gli spiegò lei.
Il ragazzino accarezzò il
muso di legno dell’animale.
“È fatto molto
bene. Mio padre era un fabbro però intagliava
anche il legno.” Disse. Come per coinvolgerla un
po’ nella sua vita. Sapeva
com’era sentirsi soli e subire quello che aveva subito lei.
Voleva solo che si
sentisse voluta bene in un posto in cui avrebbe conosciuto solo
sofferenza. La
bambina fece una smorfia di dolore e si toccò il ventre.
“Fa tanto male,
vero?” Chiese con delicatezza. Leila annuì.
Aveva gli occhi chiusi e la bocca serrata. Gold sentiva il suo dolore e
la sua
vergogna.
Non voleva più vedere, non
sopportava quelle sensazioni. Non
voleva sapere, era troppo, anche per lui.
Cercava di tornare indietro. A
Storybrooke. Ci provava. Con
tutte le sue forze, ma era inutile.
Non voleva quei ricordi.
Presente
La Sala d’attesa era
silenziosa. Fin troppo silenziosa. Si
sentivano i respiri pesanti delle altre persone che attendevano notizie
dei
propri cari. Si sentivano i loro singhiozzi. Il loro strofinare dei
fazzoletti
contro il naso. Il loro mangiarsi le unghie. Henry lo trovava
insopportabile.
Stava masticando una gomma da più di un’ora. Da
quando lei era entrata in sala
operatoria.
Muoveva la gamba in modo compulsivo e
rifiutava qualunque
tentativo dei nonni di consolarlo e tranquillizzarlo.
Ci sarebbero volute altre due ore,
forse di più. Non sapeva
se sarebbe riuscito a resistere altri due minuti li dentro, figuriamoci
due
ore.
La gente che si grattava. I medici
che tornavano e
informavano una famiglia della riuscita di un intervento. La gioia di
queste
persone. E poi i medici che invece ne informavano un’altra
dell’esito negativo.
Le loro lacrime.
Gli sembrava di impazzire
lì dentro. Tra la felicità e i
dolori degli altri. Avrebbe voluto sapere come stava andando. Avrebbe
voluto
stringere la mano di sua madre durante l’intervento.
Nessuno si era presentato da loro.
Nessuno gli aveva detto
se l’intervento stava procedendo bene o se c’erano
state delle complicazioni.
Quel silenzio era assordante.
“Io esco.” Disse,
scattando in piedi e andando verso la
porta senza neanche rivolgere lo sguardo agli altri che erano
lì con lui.
Uscì e si sedette sulla
panchina appena fuori dall’ospedale.
Respirò profondamente inalando tutta l’aria che
poté dal naso. Mentre la
gettava fuori iniziò a piangere. I singhiozzi lo scuotevano violentemente
quando sentì due
mani calde appoggiarsi sulle sue spalle. Poi qualcuno lo
abbracciò da dietro.
Vide dei capelli biondi ricadergli
sul volto e capì di chi
si trattava. Sì abbandonò completamente tra le
braccia della madre e i due si
ritrovarono accovacciati a terra.
Lei gli accarezzò piano la
schiena e sussurrò: “Lo so Henry,
lo so.”
Capiva benissimo ciò che
il figlio stava provando. Non c’era
neanche stato bisogno che lui dicesse qualcosa. Sapeva che era
orgoglioso
quanto Regina e che era uscito solo per nascondere ciò che
provava. Non sapeva
com’era perdere un genitore ma sapeva com’era
sentirsi soli.
Henry si girò per
guardarla negli occhi e lei gli posò due
dita sul mento e avvicinò la sua fronte a quella del
ragazzo. Proprio come
faceva Regina.
“Ti voglio bene,
Henry.” Fu allora che il ragazzo la
abbracciò. Non accennava a lasciarla andare via.
“Ti prego, tu rimani. Non
andartene mai.” La supplicò.
“Henry, neanche lei se
n’è andata. Non ancora. Vedrai che
uscirà da lì più forte e
insopportabile di prima. Ti torturerà ancora per tanto
tempo. Andiamo dentro adesso.” Gli strinse le spalle e lo
tenne sotto braccio
per evitare che sentisse freddo.
La neve aveva iniziato a cadere.
Intanto nella sala operatoria il
dottor Whale stava tentando
di rimuovere l’ematoma, mentre Regina, sotto
l’effetto degli anestetici,
continuava a sognare.
Quel sogno assumeva sempre di
più una connotazione strana.
Regina scese insieme ad Henry e Daniel nella sala dei ricevimenti dove
vi
attendeva il re. Leopold, quel grasso ubriacone. Regina lo aveva sempre
detestato. O meglio, aveva iniziato a detestarlo quella notte in cui fu
costretta
a concedersi a lui.
Un brivido le percorse la schiena
ripensando a quella notte.
Si sedette sul lato opposto del lungo tavolo di mogano. Era determinata
a
tenere le distanze il più possibile.
“Figlio mio!”
Leopold esclamò queste parole andando ad
abbracciare Daniel, il quale era rimasto accanto alla madre.
Quest’ultimo
ricambiò l’abbraccio anche se poco
entusiasticamente. Il re non se ne accorse.
Forse perché non era mai stato abituato a molte
dimostrazioni d’affetto da
parte del ragazzo, ma Regina capì immediatamente che tra i
due non c’era un
buon rapporto. Daniel era per lei un libro aperto. Assumeva le sue
stesse
espressioni, faceva gli stessi movimenti che faceva lei quando era
seccata o
non si trovava a suo agio. Erano fin troppo simili. Tranne che per gli
occhi.
Ogni volta che lo guardava ricordava l’uomo che aveva amato.
L’infimo stalliere
che le aveva regalato l’anello di una sella come fede. Lo
stalliere che lei
aveva amato e desiderato più di ogni altra cosa al mondo.
Mentre il ragazzo provava a
scrollarsi di dosso il padre le
porte della sala si spalancarono. Nella stanza entrò una
donna bellissima che
indossava un meraviglioso vestito azzurro. Era tanto semplice quanto
quello di
Regina era complesso. Portava dei guanti bianchi che le arrivavano al
gomito. I
capelli biondi erano sciolti sulle spalle.
“Emma..”
Sussurrò Regina mentre la bellissima donna andava ad
abbracciare suo figlio. Neal dietro di lei.
“Vostra
maestà.” Disse l’uomo, avvicinandosi
alla regina per
baciarle il dorso della mano. “Sei
ancora
vivo?” Pensò lei.
Tutto quello non poteva essere reale.
Neal ancora in vita.
Suo figlio. Leopold. Non potevano essere reali.
D’un tratto alte grida si
levarono fuori dalle mura del
castello.
Un’esplosione fece tremare
la terra.
Tutti coloro che si trovavano in
quella sala faticarono a
rimanere in piedi.
Un consigliere del re
entrò correndo. Scivolò a terra prima
di riuscire a raggiungere il tavolo al centro della stanza.
“Sire, l’armata
dell’ovest ha invaso la città. Le truppe
stanno avanzando verso il castello!” Disse il giovane,
ansimando mentre si
rimetteva in piedi.
“Zelena!”
Esclamò Leopold. “Perché Zelena
dovrebbe attaccarci?”
Chiese prontamente Neal.
Daniel sguainò la spada.
Lo sguardo fiero fisso sulla
finestra. Il fumo della città che bruciava rendeva il cielo
nero.
Aveva le narici dilatate e i muscoli
tesi.
“Non è Zelena.
È Robin Hood.” Dichiarò. Uscendo di
buona
lena dalla stanza. Regina urlò il suo nome ma il ragazzo non
si girò e andò
dritto verso le porte del castello.
Henry estrasse una spada dalla fodera
che il re teneva
legata alla cintura e lo seguì senza ascoltare le suppliche
della madre.
Regina ed Emma corsero dietro ai
propri figli ma quando
giunsero all’ingresso del castello i due si erano confusi in
mezzo alla massa
di soldati che si era radunata lì per difendere la famiglia
reale. L’esercito
nemico stava tentando di sfondare la porta e presto questa avrebbe
ceduto. Emma
prese due spade dalle statue situate vicino alla scalinata principale.
Una la
diede a Regina, mentre con lo sguardo entrambe cercavano i rispettivi
figli. La
porta cedette e cadde con un tonfo assordante. Gli uomini
dell’ovest posarono
immediatamente l’ariete ed estrassero le proprie armi. Archi,
balestre, lame.
La battaglia ebbe inizio.
D’un tratto Regina lo vide.
Robin, splendente nella sua
armatura, entrò brandendo una spada e tenendo
l’arco a tracolla. Intorno a lui
altri dieci soldati lo difendevano dai colpi, mentre egli si avvicinava a Daniel.
Uno degli uomini dell’ovest
attaccò il ragazzo ma questo fu
pronto ad ucciderlo squarciando il suo ventre con un colpo secco. Robin
gli si
parò davanti, con la lama tesa. I due si guardarono per un
istante, poi Daniel
tentò di finire l’uomo con un fendente veloce, ma
questo lo parò fin troppo
facilmente.
Il duello tra i due non
durò molto. Regina tentò di
avvicinarsi il più possibile.
Quando riuscì a farsi
strada per giungere davanti a loro, Robin
aveva appena trapassato il corpo del ragazzo. La lama della spada
fuoriusciva
dalla schiena, ricoperta di sangue denso. Questo cadeva ritmicamente
dalla
punta d’acciaio e formava una macabra pozzanghera rossa sotto
i talloni di Daniel
che era ancora in piedi.
Robin rivolse lo sguardo verso Regina
e poi estrasse la
spada. Daniel guardò sua madre sconvolta e impietrita, poi
tossì e un grumo
rosso scuro gli colò sul mento. Aveva gli occhi spalancati e
lasciò cadere la
sua arma. “Mamma.” Disse. Pronunciando queste
parole cadde a terra con la
faccia in avanti. Ebbe un leggero spasmo e poi morì.
Regina non urlò. Non
pianse. Non si mosse.
La battaglia infuriava intorno a lei,
avrebbero potuto
ucciderla ma non le importava.
Sentiva il suo respiro mancare.
Guardava l’uomo che aveva
appena massacrato suo figlio. Non lo riconobbe. Quello non era Robin.
Non era
la persona che lei conosceva. Quello che non avrebbe mai fatto del male
a
nessuno, soprattutto non ad un ragazzo così giovane.
“Prendetela viva. Voglio
che veda tutti coloro che ha perso.”
Ordinò ad uno dei suoi cavalieri, mentre con una mano puliva
dal sangue la lama
della propria spada e lo schizzò a terra con un movimento
deciso.
Mentre due cavalieri
dell’ovest le immobilizzarono le
braccia e iniziarono a trascinarla altrove, Regina vide Emma piangere
sul corpo
di un ragazzino, piegata in due e scossa dai singulti. La donna,
malgrado non
avesse visto il volto di quella vittima, capì subito che si
trattava di Henry.
Sentì una fitta trapassarle il cuore ma quel dolore accrebbe
quando vide un
uomo impalare Emma con una lancia. La donna rimase immobile su corpo
del figlio
con l’asta di legno perpendicolare alla schiena.
Le tre persone che amava di
più al mondo erano lì a terra.
Le aveva viste morire.
Un’infermiera
uscì correndo dalla sala operatoria, entrò in
sala d’attesa e chiese alla donna alla Reception di chiamare
un medico di nome “Evans”
immediatamente.
“Digli di venire nella
camera C-18. Abbiamo un codice rosso.”
Ansimava mentre lo diceva.
“Il dottor Evans sta
operando un altro paziente momento.” L’altra
infiermiera le gridò queste parole mentre la donna si era
appena girata per
tornare in sala operatoria.
“Non me ne frega un cazzo
se sta operando. Se l’altro
paziente non è grave può pensarci il dottor
Lewis. Abbiamo bisogno di lui.
Digli di muoversi.”
“C-18”
Sussurrò Emma. Teneva ancora il braccio sulla spalla
di Henry.
“C-18 è la sua
sala.” Guardò il figlio preoccupata, poi si
alzò per andare incontro all’infermiera. Questa
però non volle fermarsi così fu
costretta a gridarle dietro.
“COS’HA
REGINA?” Le afferrò una spalla e la costrinse ad
ascoltarla, a risponderle.
“La stiamo
perdendo.”
Il mondo di Emma crollò.
Come avrebbe fatto a tornare
indietro e dire ad Henry che sua madre stava morendo? Come avrebbe
fatto a dirglielo
guardandolo negli occhi?
Non era sicura neanche di riuscire a
sopportarlo lei stessa.
L’infermiera era
già andata via, mentre Emma rimase lì
immobile.
Rivide gli occhi di Regina che si
spalancavano. Rivide il
palo contro cui finirono. Il maggiolino distrutto.
La rivide accanto a sé in
quella macchina.
Non poteva andarsene. Non
così.
Regina fu trascinata dai cavalieri
dell’ovest verso la sala
dei ricevimenti. Superarono il corpo di Neal steso a terra in una pozza
di
sangue con la testa attaccata al collo solo da un sottile lembo di
carne.
Leopold era appeso sul muro con un
chiodo piantato nei polsi
sovrapposti. Le gambe non le aveva più.
Robin entrò nella stanza
con un candelabro acceso stretto
nella mano.
“Vostra
maestà.” La salutò con un cenno della
testa prima di
gettare il candelabro addosso al re. Quest’ultimo prese fuoco.
“Perché fai
questo?” Regina era in lacrime, piegata in
ginocchio. Lo guardava dal basso.
“Oh sono tanti i motivi per
i quali voglio farlo. Il
principale è che mi va.” Le sorrideva
malignamente. Non c’era pietà nei suoi
occhi. Avrebbe dato tutto per riavere l’uomo che amava. La
persona onesta e
gentile che conosceva non aveva quello sguardo, né tantomeno
quel sorriso.
“Sai
cosa odio più
della tua insulsa famigliola? Le persone che prima di ucciderne altre
fanno dei
lunghi discorsi sui loro piani malvagi e su come siano lieti che per i
loro
avversari sia arrivato il momento di morire. Queste persone non vincono
mai.
Sono patetiche.” Si avvicinò a lei con la spada
tesa.
“Uccidimi allora. Cosa
aspetti?” Chiese lei. Avrebbe
preferito morire piuttosto che convivere con tutto quel dolore. Non le
importava se tutto quello fosse reale o no. Voleva solo che finisse.
Robin buttò via la propria
spada, prese l’arco, incoccò una
freccia e tendendo la corda la puntò in mezzo agli occhi
della donna.
“Addio.” Disse.
Poi la scoccò.
Prima che la punta della freccia
toccasse la sua pelle questa
sparì. Così come Robin e i suoi cavalieri. Neal e
il re. Poi l’intero castello.
Infine tutto intorno a lei.
Regina aprì gli occhi.
Il rumore del cardiofrequenzimetro le
dava fastidio. Le
faceva male la testa. Aveva un tubo che le fuoriusciva dalla gola.
Faticava a
mettere a fuoco la stanza.
Un’infermiera le si
avvicinò e poi prese il cercapersone.
Avrebbe voluto chiedere cosa fosse
successo, così si
avvicinò una mano alla bocca per poter togliere il tubo che
non le permetteva
di parlare ma l’altra donna glielo impedì
immediatamente afferrandole la mano
con gentilezza.
“Aspettiamo
il dottor Whale così
lui potrà dirci se è il caso di togliere il tubo.
L’operazione è andata bene.
C’è
stata una complicazione ma il dottor Evans è riuscito a
salvarla. È stata
fortunata. Se lui non fosse stato in servizio oggi lei non sarebbe
qui.” In
quel momento Victor Whale entrò. Si avvicinò al
letto e le sussurrò: “Ben
tornata, Regina.”
Mi scuso di nuovo per il ritardo
nella pubblicazione,
evidentemente non riesco proprio a rispettare i tempi di consegna.. ma
almeno
ho fatto ritardo solo di un giorno, sto migliorando lol (Dovrei
pubblicarlo
ogni due settimane il sabato, mas o menos)
Procrastinare è la mia
vera arte. Anyway, questo capitolo è
leggermente più cruento degli altri, forse lo avrete notato
(?)
Sparsi per la fanfiction troverete
molti riferimenti ad
altre serie tv/film/libri e sì la cosa è voluta.
Come nello scorso capitolo c’era
un riferimento a Derek Shepherd in questo ne troverete alcuni di Harry
Potter e
del Trono di Spade. E bho a me sta piacendo un casino scrivere questa
storia,
spero che a voi piaccia leggerla, nonostante i vari cambiamenti di
stile.
Come sempre gradisco leggere le
vostre opinioni, che siano critiche
o complimenti non importa, ma possono sempre aiutarmi a migliorare, so
di non
essere granché come scrittrice quindi se avete tempo da
perdere per fare una
recensione in cui esprimete i vostri pareri a me fa sempre piacere
leggerle.
E sì, Gold ha fatto
l’Ice Bucket Challenge ma non ha donato
i soldi. Lui può, è il Dark one.
Gracias a todos
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