EQUESTRIA RIM: Storia del Giorno Zero

di Alvin Miller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 0.1: L'Eremita ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 0.2: Il Messaggero ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 0.3: Il Sentiero ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 0.4: La Tana ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 0.5: L'intrusione ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 0.1: L'Eremita ***


*NOTA INTRODUTTIVA*


“Scrivere qualcosa di così grande come FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim, significa tornare continuamente sulle proprie orme per modificare ciò che si è fatto in precedenza, a beneficio dell’esperienza che sarà raccontata in futuro.

A un certo punto della stesura - erano le ultime pagine dell’ATTO.1 - ACCETTAZIONE - gemmò in me l’ispirazione per una nuova sottotrama che avrebbe potuto fare da collante per tutti gli avvenimenti che racconterò dall’ATTO.2 in poi. L’unico problema, giunti a questo punto, fu che non c’era abbastanza spazio per introdurla nel modo dovuto. Dovevo raccontare del IV Attacco, capitolo di per sé saturo di accadimenti, e la circostanza mi aveva convinto a limitare questa nuova sottotrama a una semplice citazione, celata (neanche poi sottilmente) in due semplici righe di dialogo; vi sfido a trovarle, se siete abbastanza caparbi (si trova nella parte seconda de “Il Quarto Attacco”).

Avevo bisogno di un ripiego dunque, qualcosa che mi permettesse d’introdurre la sottotrama senza scompigliare l’intricatissimo piano iniziale. Ed è stato allora che è arrivato “Storie dall’anno zero”. Questo fumetto, rilasciato poco dopo l’uscita di Pacific Rim al cinema, narra gli antefatti che precedono il film, riassumento per sommi capi i passaggi fondamentali che hanno portato all’evoluzione degli eventi, così come li conosciamo noi.

Era PERFETTA come ispirazione! E così, ecco “Storia del Giorno Zero”. Breve Atto extra che vi racconterà gli avvenimenti subitamente attigui al Prologo di FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim.


È a tutti gli effetti un inizio alternativo della stessa storia, che può essere letto come supplemento del Prologo originale, da parte dei lettori che già conoscono e seguono ER, così come dai nuovi lettori, che si avvicinano per la prima volta al libro.


Giunti a questo punto, non mi resta che augurarvi una piacevole lettura, sperando la troviate all’altezza dell’opera originale, o che magari - se siete tra quelli che sentono parlare di ER per la prima volta - si convincano a proseguire l’avventura una volta completate queste pagine.


Un caloroso grazie da parte mia, e vi lascio liberi di cominciare!”


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Cover created by Alvin Miller


CAPITOLO 0.1: L’Eremita


In principio fu il caos. Esplosioni, morte e distruzione. Un senso d’impotenza che si tradusse in un’inevitabile verità: non sarebbe sopravvissuto. Poi il buio si prese ogni cosa.


Spalancò gli occhi, e un senso di vuoto lo travolse. Non c’erano fonti di luce ma barlumi sottili che filtravano attraverso muri lineari, permettendogli d’intuire quanto fosse ampia la scatola che lo rinchiudeva. Forse chi lo aveva messo lì non voleva che vedesse cosa c’era dall’altra parte.

Era sospeso a mezz’aria, sostenuto da qualcosa in un clima torrido e caldo.

Si sentivano suoni uterini provenire dai bordi, come di liquidi gorgoglianti che serpeggiavano lungo le superfici, attraverso tubi che non riusciva a vedere. E c’erano voci nella sua testa, che gridavano di disastri e sventure provenienti dal passato. Cercava di ascoltarle, senza però essere in grado di dare a ognuna una propria identità. Era come se migliaia di ricordi, ognuno diverso dall’altro, si scavalcassero a vicenda per cercare di predominare sulla sua ragione. Esistenze che credeva di aver vissuto, ma di cui non poteva avere traccia, perché lui non era ancora nato.

Aveva paura, si sentiva a disagio, come se capisse di essere in una forma diversa da quella che avrebbe dovuto. Erano davvero suoi quegli arti che sentiva così pesanti sulle spalle, si chiese. E poi quel corpo, perché gli appariva così diverso rispetto a come se lo ricordava (ma cosa “ricordava”?)?

Dubbi, interrogativi, rimembranze… talvolta allucinazioni. Troppe cose per qualcuno che non si era ancora presentato al cospetto della vita, e sebbene ciò, si stava già confrontando con i suoi tormenti.

Non fu in grado di prendere nota di quanto tempo era trascorso da quando quella forma di coscienza individuale si era risvegliata dentro di lui. Le tenebre che lo ingabbiavano lo serbavano in uno stato di sconfortante confusione, dal quale evadeva solamente quando concedeva a quelle voci (quelle grida) nella testa di attirarlo verso di loro; si dimenticava di tutto, e lasciava che i loro pianti lo circondassero, quindi tutto diveniva sfumato. Smetteva di avere senso. Ma quando tornava lucido, conscio della situazione e dello stato d’inutilità che la sua esistenza aveva preso, opponendosi a forze che non comprendeva nemmeno, allora poteva captare sulla propria pelle il graffiante passaggio di ogni singolo istante che gli scivolava addosso.

Più grave di ogni altra cosa, più opprimente della prigionia stessa, era proprio la compagnia di quelle voci. Lo mettevano in malessere, perforandogli i timpani con litanie miserevoli, verso le quali era completamente alla mercé.

“Smettetela, non voglio più sentire nessuno! Voglio che mi lasciate solo!” Così sarebbe stato il suo pensiero, se avesse potuto comporre delle parole in una lingua comprensibile.

Compiva azioni, come portarsi le grandi zampe alla fronte, che nella sua immaginazione sarebbero servite a scacciare quei gemiti infelici, ma che produssero soltanto risultati opposti, spingendo le entità a gridare ancora più forte, in una ruota della sofferenza che si autoalimentava da sé con i tormenti dell’una e delle altre parti.

Poi un giorno, quando stava quasi per abbandonarsi al flagello della sua effimera esistenza, qualcuno mise a tacere quelle voci, così come un rigido capobranco avrebbe rimesso in riga la sua famelica torma di fiere.

Assaporò per la prima volta il gusto del silenzio, e decise che quello sarebbe stato il suo modello di benessere assoluto, da quel momento in poi.

In seguito, la voce che aveva ammutolito le altre iniziò a rivolgersi a lui. Gli parlò da dentro il suo cervello, in un modo che lui (non sapeva come) era in grado di comprendere; non turbò il suo animo, questa intromissione, dato che gli si rivolse in modo solenne ma affettuoso, impartendogli istruzioni chiare e alla portata del suo acume. Di più, sembrava comprendere il suo stato emotivo meglio di se stesso, riuscendo ad anticipare, e quindi variare la cadenza, non appena la conversazione iniziava a irritarlo. E quindi la voce si abbassava, e se poco prima era stata alta e impostata, subito dopo diveniva un sussurro dolce e accogliente.

Gli disse che doveva muoversi, che doveva raggiungere un posto, e quando questi manifestò disagio, al pensiero di dover affrontare qualcosa di nuovo (di ignoto e terribile), la Voce lo tranquillizzò spiegandogli come fare. Si promise, inoltre, che lo avrebbe accompagnato nel suo cammino, che non lo avrebbe abbandonato ai misteri che lo attendevano.

Invece di trovare conforto, lui s’infervorò ancora di più, facendo capire che non era quella la condizione alla quale ambiva: la solitudine era tutto ciò che desiderava, senza voci nella testa che lo costringessero ad agire per coercizione.

Preso atto di ciò, la Voce del Capobranco gli promise che da quel momento sarebbe stata in silenzio. Si sarebbe adagiata sulla sua spalla, e sarebbe intervenuta solo per dargli consigli, quando lui ne avesse manifestato il bisogno.

Ci furono degli stridori metallici, e avvertì che i legami che lo stavano trattenendo ora si distaccavano da lui, adagiandolo con cura a un pavimento solido e umido. Era finalmente libero di muoversi.


Il primo approcciarsi al senso della “vista” fu per lui un altro motivo di disagio, che si poté aggiungere all’elenco delle esperienze negative che aveva accumulato.

Fu accecato da una luce intensa che divampò nello spazio, aprendo uno scorcio intorno al quale danzarono lingue di fuoco arancioni. Di primo acchito pensò di allontanarsi da essa, tenendo fede all’antico proverbio secondo cui bisogna tenersi alla larga dalle fiamme. La voce del capobranco, però, mandò un ordine contrapposto, affermando che se voleva davvero andarsene da lì, c’era solo un sentiero che poteva imboccare. La via della luce.

Reticente di fronte a quella prospettiva, voleva però credere che la sua guida fosse sincera, pertanto doveva fare lo sforzo di lasciarsi guidare, almeno fino a quel punto.

Con passi lenti, e la sensazione sempre costante di avere un corpo molto più ingombrante di quanto non ricordasse (se ricordava), sfidò il primordiale istinto di sopravvivenza e compì un ultimo passo verso la breccia.

Si ritrovò in un posto totalmente diverso, che soltanto a una prima analisi poteva assomigliare al vuoto dal quale era appena sfuggito.

La Voce del Capobranco gli sussurrò di nuovo, (continuava a parlargli, nonostante la promessa che si sarebbe intromessa il meno possibile) spiegandogli che adesso doveva avanzare, che nuovi sentieri attendevano che lui li battezzasse.

Più calmo di quanto non fosse un istante prima, si concesse una tregua per studiare quanto gli stava intorno: la luce che proveniva dalla Breccia illuminava un antro le cui pareti erano di un materiale solido e diseguale (roccia), con un alto soffitto da cui scendevano goccioline di condensa, che lui a malapena riusciva a sentire quando cadevano, e che represse per un po’ la sensazione di essere troppo ingombrante in quella nuova realtà.

Alle sue spalle il varco infiammato non era scomparso, e anzi continuava a risplendere dando colore e consistenza alla grotta buia e immensa, ma già da adesso, lui sapeva che non avrebbe mai più varcato quella soglia.

Scorse una cavità più piccola lungo la compattezza della parete, e seppe per istinto – non per l’influenza della Voce – che era da lì che il suo cammino avrebbe dovuto proseguire.


Marciò a lungo attraverso il condotto che la natura aveva scavato per lui, aiutandosi un po’ con le zampe e un po’ con la vista per superare le asperità che si frapponevano fra lui e la tappa successiva.

C’era umidità là dentro, e molti odori diversi, che con le sue grandi narici s’intrattené a scoprire: erano le essenze della pietra e dell’argilla, che talvolta erano più intense, e altre volte si lasciavano sostituire da quelle più particolari del bitume. Si fermò a fiutare una grande stalattite che scendeva dal basso soffitto (lo era per lui), riempiendo le sue cavità nasali d’inconfondibili odori calcarei.

Realizzò che questi afrori, a modo loro, lo portavano in uno stato di pace che non aveva mai provato nel vuoto, e che se doveva immaginarsi un luogo in cui trascorrere la sua vita futura, voleva che fossero quelle caverne.

Ma la Voce del Capobranco aveva altri piani per lui, e voleva che proseguisse il suo cammino verso l’imboccatura successiva. Gli disse che, dove lo stava conducendo, c’erano altre sensazioni da scoprire, e che per assaporare il vero aroma della libertà, non poteva ridursi al poco che aveva vissuto.

Camminò ancora e senza tenere conto del tempo che scorreva, lasciando che la sua mente si seducesse in quel nirvana di piacevolezze. Quando c’era da arrampicarsi lungo un dislivello, allungava le zampe anteriori e si aggrappava alle irregolarità del terreno. Quando invece doveva accucciarsi per superare un budello più stretto degli altri, piegava le ginocchia e strisciava con attenzione. Per poco il suo corpo non rimase incastrato dentro un anfratto, e la Voce del Capobranco lo rimproverò di fare maggiore attenzione in futuro.


Raggiunse la riva di un lago sotterraneo, e qui sentì alcune delle nuove sensazioni che gli erano state promesse. Captò la salinità dell’acqua, e poi più indistinti, esalazioni di materia organica distanti, che potevano provenire dall’acqua, così come da sotto la camera sotterranea, per quanto ne sapeva.

La superficie del lago era statica e trasparente, smossa soltanto dalle increspature provocate dai suoi passi. Sotto la profondità intravide uno sprazzo di luce naturale blu marino, che lasciava a intendere che oltre quella pozza si stagliasse un altro universo, nuovo e ignoto.

Così come prima, la prospettiva di varcare quel nuovo valico, riempì il suo cuore di timori primordiali, che il Capobranco dovette sopprimere per convincerlo a non fermarsi. La pazienza indefessa, con la quale affrontava ogni suo capriccio, erodeva senza alcuna difficoltà le difese che volta per volta la sua coscienza erigeva.

Il suo primo contatto con l’acqua gli suscitò un bizzarro sbalordimento, quando gli sembrò che l’umidità della grotta e del vuoto, di cui si era già abituato, lo ricoprisse penetrando in ogni suo piccolo poro, gonfiando ogni grinza di pelle. Si rese conto di sapere esattamente come avrebbe dovuto comportarsi una volta tuffatosi, come se lo avesse già fatto innumerevoli volte. Non fu il Capobranco a suggerirgli come adattarsi al nuovo ambiente, bensì quei ricordi, che facevano parte del suo bagaglio, sebbene non li sentisse come propri.

Poi giunsero, come lampi nel cielo, nuove scoperte sulle sue attitudini anfibie: scoprì di poter trattenere il fiato a lungo, nonostante la sua mole suggerisse il contrario, e constatò che quelle due lunghe appendici che pendevano dal suo dorso erano in realtà due pinne indipendenti che poteva sfruttare per tagliare l’acqua e slittarvi attraverso, oppure per direzionarsi. L’ampiezza delle sue zampe le trasformavano in efficientissimi remi, con cui poteva darsi la spinta per muoversi in avanti.

Non gli ci volle molto per uscire dal condotto sottomarino, e una volta evaso, gli si aprì un’immensa distesa di blu, nella quale tante creature abissali (minuscole alcune, tant’è che difficilmente riuscì a intravederle) guizzarono via non appena la sua massa imponente fece capolino dalle viscere della terra.

Avrebbe voluto fermarsi per esaminare il passaggio degli animali nuotatori, non fosse che la sua riserva d’aria stava via via andando a esaurirsi.

Con grande fretta, rincorrendo l’emergenza di respirare, seguì il fondale sabbioso laddove realizzò che si sollevava rispetto al livello del mare. Gattonò su di esso intorbidendo l’acqua al suo passaggio, con nubi di materia che s’innalzava da dietro formando una scia.

Arrivò, infine, a un livello tale che gli permise di poggiare le zampe sul fondo marino, tenendo per metà il corpo fuori dalla superficie. Emerse, e senza avere il tempo di riprendere fiato e scrollarsi l’acqua di dosso, il suo senso della “vista” dovette arroccarsi contro una nuova aggressione, dettata dalla luce solare che lo circondò in un istante.

Era intensa oltre ogni misura, e gli bucava le pallide retine finora abituate solo all’oscurità, come frecce arroventate. Usò le zampe anteriori per coprirsi, grugnendo e rantolando. Poi ci fu dell’altro, una seconda sensazione, come di qualcosa di velenoso nell’aria, che gli divorava la pelle.

Non era doloroso, come l’azione di un acido, ma piuttosto come nuotare nella sabbia arroventata, e sentire le proprie cellule epiteliali morte desquamarsi dal corpo. Una sensazione più sgradevole che altro, che però gli fece domandare quanto a lungo potesse resistervi prima che fosse tardi.

Ora gli occhi erano diventati un poco più condiscendenti verso i raggi del sole, e osò scoprirli per esaminare il territorio, sebbene avesse già la nostalgia delle sue grotte.


Davanti a sé: una distesa uni-cromatica di azzurro, con una sola divisione tra il sopra e il sotto, lungo la linea dell’orizzonte, che divideva il cielo dall’oceano. La volta sovrastante era sgombra da qualsiasi cosa, salvo piccoli ammassamenti bianchi (nuvole), che la sua memoria (memorie?) percepì come familiari, e allo stesso tempo sconosciuti.

Si voltò verso sinistra e per qualche grado non scorse alcuna differenza, salvo le onde che il suo lento oscillare sollevava sull’acqua. Quindi ecco una novità, e fu qualcosa che la sua coscienza non seppe come approcciare in un primo momento: Terra. Una distesa sconfinata di verde, con diverse irregolarità da una parte (montagne) e grandi pianure che si estendevano più lontano di quanto il suo campo visivo gli permettesse di vedere, intervallate da colline e rilievi di ogni sorta.

Riconobbe in quelle punte qualcosa delle caverne nelle quali voleva tornare – le stalattiti che gli avevano inebriato l’olfatto – e decise che ne aveva abbastanza di quel sole tanto impetuoso e di quell’aria così caustica.

Stava quasi per tuffarsi di nuovo, convinto che nessuno questa volta glielo avrebbe impedito, quando la Voce del Capobranco, stentorea e severa, tornò a ripetergli che il suo cammino non si poteva arrestare.

“Non mi piace tutto questo, voglio tornare da dove sono venuto! Qui non mi sento al sicuro!” Si lamentò di rimando, e ancora una volta, rimpianse di non poter esprimere a suoni queste parole, che pure sentiva così nitidamente dentro la sua testa. Dalle sue fauci emersero solo gracchianti singhiozzi.

“Non c’è niente di cui avere paura”, fu la contro-risposta della Voce del Capobranco, “anzi” gli disse, era il mondo che ora aveva qualcosa da cui nascondersi; lui era la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle terre, era il Signore di quel lontano pianeta!

Non capì quell’affermazione, neanche ripensando alle sue proporzioni rispetto all’ambiente circostante. Credette semplicemente di non essere riuscito a interpretare le sue parole.

Ora però, questo gli disse di continuare a girare; gli rammentò che c’era ancora qualcosa che non aveva visto, alla sua sinistra, e per capire cosa, doveva completare quel cerchio.

Come un servo ubbidiente, ormai completamente assoggettato alla Voce del Capobranco, seguì le istruzioni, e stavolta vide ciò a cui essa si stava riferendo: un’isola circondata dall’acqua.

Le sue geometrie e la sua composizione erano diverse da quello che aveva osservato fino a un istante prima, come facessero parte di un piano materiale a sé stante, cadute in quel mondo da una discrepanza dimensionale, come era successo a lui: punte longilinee grigie e levigate, come stalagmiti scolpite da una mano demiurgica, atta a generare strutture regolari nello spazio (grattacieli), si estendevano sulla superficie emersa occupandone ogni ombra di terreno. Una sottile strada, come un prolungamento orizzontale sopra il mare, collegava l’isola grigia al resto della terra verde alla sua destra (un ponte).

Da essa, i suoi sensi captarono suoni mai uditi e sgradevoli odori di composizioni acre e pungenti, che gli fecero arricciare il muso.

“Vai”, gli disse la voce, anche se lui avrebbe preferito non farlo. “Vai da loro, e scoprirai il perché della tua ragione su questo mondo. Vai da loro e conquistali!”

Ma chi erano questi “loro” a cui la voce del capobranco si riferiva, e perché li doveva conquistare? A queste domande non ottenne risposta.


*(Questa parte di capitolo è stata scritta sulle note di questa colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=nOvZD7lp4SM. Ascoltatela mentre leggete per godere al massimo dell’esperienza di coinvolgimento)*


Marciò a passo lento verso l’isola grigia. Le sue zampe che perforavano l’acqua, generavano onde anomale che si rovesciavano lunga la costa, affondando piccole cose e strutture edificate. Vide ora alcuni di questi “loro” nominati dal suo padrone. Erano creature minuscole, che spaziavano in un’ampia scala di colori sgargianti e variopinti. La loro reazione al suo arrivo, come aveva predetto la voce, fu di un terrore animalesco, una paura viscerale che s’inerpicò su per le loro schiene e destituì la loro capacità di ragionare.

Non comprese perché quelle creature si comportassero così, fino a quando non emerse dai flutti, e non si accorse di averne calpestate alcune per sbaglio.

Ascoltare quei piccoli corpicini scoppiettare sotto la pianta della zampa, fu per lui come risvegliare una parte assopita della sua personalità, che aveva oziato fino a quel momento: l’istinto della caccia verso un animale da preda, ed era lui quel predatore. Un superpredatore mandato in quel mondo per cancellare ogni cosa, e nessuno avrebbe potuto fare nulla per impedirgli di procedere. Lui era il più potente di quel mondo, ed era il più grande di tutti. Lui era…


“… la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle terre”.


Piegò la testa da un lato, guardando la facciata di una di quelle grandi strutture grigie dai riflessi lucidi. Al suo interno altre di quelle piccole creature si accalcavano lungo i bordi d’insolite barriere trasparenti, studiandolo a loro volta con movimenti guardinghi. Erano animaletti curiosi, pensò, insignificanti e apparentemente inadatti al dominio, eppure erano stati capaci di conquistare parte del cielo con quei loro alveari (o erano nidi?) dall’architettura sublime.

Alcune delle costruzioni erano alte e terminavano con punte o insolite figure sui tetti, che sembravano davvero voler toccare il firmamento, e più si addentrava nell’isola grigia, maggiori erano le stazze che potevano raggiungere quei rifugi stretti e dai colori freddi.

Non sarebbe mai riuscito ad arrivare fino alla cima di alcuni di essi, per scoprire quali altri segreti si nascondessero al di sopra, ma poteva guardare in basso e contemplare il fiume di creaturine che scemavano per strada o si chiudevano ai lati pur continuando a fissarlo.

Era forse questo il suo scopo? Si chiese allora. Mondare la Terra dalla loro presenza, per fare spazio a una razza più meritevole di esistere?

Compì qualche passo e alcune cose esplosero (vetri, idranti, alcuni mezzi a traino), e fu di un sadico divertimento vedere come le scosse facevano incespicare e addirittura cadere alcuni degli esserini.

Grugnì con un verso roboante, e di risposta alcuni di loro gridarono, più frenetici di quanto già non lo fossero. Ogni suo movimento all’interno dell’isola grigia era accompagnato da reazioni simili a quelle appena descritte.

Un fischio acuto e dalla lunga gittata sfrecciò nell’aria (un allarme cittadino), e si disperse nello spazio aprendosi da più punti, rendendogli impossibile individuarne l’origine. Si davano il turno toni acuti e toni più bassi, e questo gli restituì parte dell’inquietudine che credeva di essersi lasciato alle spalle. Non gli piacque per niente, era un’invasione al suo senso dell’ “udito”.

Si agitò, come se qualcosa lo stesse aggredendo nelle cavità auricolari. Una zampa fuori controllo incise uno dei nidi degli animaletti colorati, aprendovi tre squarci profondi lungo la facciata perpendicolare. Lui fissò a lungo il segno degli artigli lasciatovi sopra, e rimase stranito nel constatare quanto fossero fragili e delicate quelle strutture: avrebbe potuto buttarle giù in pochi colpi, se soltanto l’avesse voluto…

Invece avanzò lungo il sentiero, scegliendo d’ignorare quell’idea. Qualcosa si smosse dentro di lui.

Si accorse solo adesso che alcune delle creaturine avevano delle protuberanze sulla fronte, lì dove ad altre mancavano invece del tutto. E alcune erano munite persino di gracili alette, con le quali schizzavano via prima che lui le raggiungesse. Le altre purtroppo, che non avevano modo di fuggire, finirono sotto le sue zampe.

In tutto questo tumulto la Voce del Capobranco era rimasta silenziosa e assente.

La strada si faceva più stretta man mano che avanzava, come se l’isola grigia avesse deciso di stringersi tutto intorno, intrappolandolo in una morsa fatale. Ruggì, capendo che la situazione si era ribaltata a suo sfavore.

Provò a retrocedere, ottenendo come risultato d’ingamberarsi su se stesso, affondando la sua zampa dentro un grande agglomerato di costruzioni triangolari (un complesso industriale).

Estraendola dalle macerie – ignorando quanta desolazione avesse provocato quella semplice azione – capì che il solo modo per uscirne era di farsi strada con la forza attraverso i nidi, proseguendo lungo la via.

Passo dopo passo, calpestando l’esistenza di quelle piccole creature, cancellando la loro storia in maniera arbitraria e insolente, ora che la marcia si era fatta difficoltosa e si sentiva mancare il fiato mentre cercava di attraversare l’isola, gli era tornato tutto il disagio della sua coscienza repressa… di “tutte” le sue coscienze represse, che bussavano da dietro la calotta cranica e lo supplicavano di ragionare. Aveva ricominciato a sentire le voci del suo risveglio, che gridavano e piangevano, soffrendo per il male cui le stava costringendo ad assistere.

A esse si aggiunsero il fischio onnipresente dell’isola grigia, come un pianto echeggiante, e le grida di dolore dei suoi variopinti abitanti.

L’istinto dell’animale da preda allentò la sua morsa, e gli tornò il desiderio di ridiscendere nelle sue grotte.

Completò altri due passi, attraversando l’intrico di alte costruzioni e raggiungendo una zona dove lo spazio si era fatto più ampio, e dove finalmente poteva farsi un’idea di quanto gli mancasse prima di uscire.

Si appoggiò a una struttura, senza immaginare che questo gesto sgraziato avrebbe fatto crollare i soffitti interni dei vari piani che lo componevano, uccidendo sul posto alcuni degli ignari occupanti.

Esserini volanti, con strane pelli blu e motivi a saetta tracciati sui loro petti (Wonderbolts) piroettavano sotto le sue spalle, mentre altri, non meno agguerriti ma privi di ali (e corazzati), lo pizzicavano con insoliti attacchi a distanza, provenienti dai loro corni. Sollevò una zampa e la ribassò con un urto violento, schiacciandone alcuni e sbalzandone via altri. Fu sorpreso da quell’approccio offensivo, non si sarebbe mai detto che gli animaletti dell’isola grigia fossero capaci di reazioni di difesa, oltre che scappare.

Imparò una dura lezione sulle regole di quel mondo: che forse non era poi così invincibile come la Voce del Capobranco gli aveva spacciato. Se pochi di quegli animaletti sgargianti potevano pungerlo e costringerlo a rallentare, un gruppo meglio in arnese (magari come quelli che aveva visto fluire per strada) avrebbe potuto e negargli ogni via di fuga, e a quel punto sarebbe potuto succedere di tutto.

Ciò gli diede ancora più urgenza di allontanarsi dall’isola.

Gli animali volanti che aveva intravisto in precedenza, gli ruotarono dietro e quindi lo colpirono con attacchi fisici provenienti dai loro stessi, incalliti corpicini.

Non avrebbe dovuto sentirli, a giudicare dalla robustezza della sua scorza, ma il veleno invisibile che permeava l’aria aveva assottigliato i suoi strati cutanei rendendogli ipersensibile l’epidermide di sotto. Più che dolore in senso lato, questo si poteva esprimere come un fastidio, una turba al suo senso del “tatto”.

La Voce del Capobranco soppresse i lamenti interiori, e tornò a sedersi sul suo trono imperiale.

“Devi difenderti!” Scandì in maniera chiara e sintetica, senza possibilità di fraintendimento. Il braccio di ferro con la sua coscienza individuale vide la disfatta di questa. Ruotò bruscamente il tronco, e le pinne dorsali frustarono l’aria scacciando via le bestioline alate, per poi scoperchiare il tetto di un nido.

Non vide il piccolo edificio rosso che aveva sotto di sé (una tavola calda) e finì con l’inciampare su di esso, strappando un pannello di legno (l’insegna) dal tetto, che finì sotto le sue zampe quando lui cadde in avanti.

Si aggrappò su un altro nido, evitando così di crollare del tutto.

“Che cosa sto facendo?” Avrebbe voluto chiedere mentre si rialzava. “Devo smettere di fare così, tutto ciò è sbagliato!”

«Invece è proprio così che deve andare. È questo il tuo scopo!» Gli rispose qualcuno, che a dispetto delle apparenze, non era il Capobranco. Era una voce piena e marcata, come di qualcuno che gli stava sussurrando da dentro l’orecchio, non solo dalle larvate profondità del suo cervello.

“Cosa? Io non capisco… ” Latrò la sua parte cosciente.

«Ti abbiamo creato noi per questo! Esisti per assolvere al nostro scopo!»

“Uccidere per voi? Devo fare del male a queste creature solo perché siete voi a ordinarmelo?”

«Devi ucciderli, così che noi potremmo prosperare e continuare a vivere» la voce prese del tempo, così che lui potesse meditare su quelle parole, quindi ripeté «è questo il tuo scopo!»

Un ricordo dal passato gli fece sbarrare gli occhi cerei, flash d’immagini gli suggerirono quale fosse la sua vita precedente. La loro vita. Sua e di tutte quelle voci che gemevano nella sua testa.

“No! Ora ricordo… lo sterminio… quello che ci avete fatto… volete replicarlo su questo mondo! Volete costringerci a ripetere per mano nostra quello che è successo a noi!”

«La vita che ricordate non significa più nulla ormai.» La voce martellò nei suoi timpani, causandogli dolore. «Siete parte del nostro esercito ora, e lavorerete per noi e per la prosperità della nostra razza!»

Serrò gli occhi e fece come per strapparsi di dosso qualcosa dalla faccia.

“Scordatevelo, non esiste, non lo faremo più!”

“Staremo a vedere.” La voce tacque, come se avessero interrotto un qualche collegamento a distanza.

Rimase immobile sul posto, circondato dai “palazzi” ( che ora ricordava come chiamare), fermo e senza muovere un muscolo, col timore che facendolo avrebbe scaricato una nuova ondata di distruzione sulla “città”, e su quelle piccole e innocenti creature.

Poi qualcos’altro dentro di lui cambiò, come un pulsante di spegnimento che viene pigiato da un operatore senza volto. La sua coscienza lo abbandonò di nuovo, e con essa anche i ricordi delle vite che gli erano state portate via. Restò dentro di lui solo la paura, quel senso di smarrimento di chi si era appena risvegliato in una terra aliena.

Si guardò intorno, non capendo dove si trovasse. Le cose che lo circondavano apparivano come monumenti monolitici che serravano i ranghi con l’intento di inghiottirlo. Oltretutto, c’erano rumori che lo assordavano, e cose cattive che convergevano da tutte le direzioni per fargli del male. L’aria poi era tossica e asfissiante, lo bruciava da dentro e da fuori.

Tutto ciò fu troppo per lui, creatura triste e abbandonata che si sentiva come se qualcuno l’avesse appena privata dei suoi ricordi più preziosi.

Scattò con una corsa animalesca verso la limpidezza del mare, ignorando le cose vive o inanimate che buttava giù o che finivano sotto le sue zampe.

Si tuffò per nuotare e raggiunse così la riva della grande distesa terrosa, dove subito, prima che fosse tardi, iniziò la sua disperata ricerca di un rifugio. Voleva un luogo oscuro e solitario, dove potesse trascorrere per sempre la sua misera esistenza da eremita senza memorie.

Poco prima di svanire dalla vista delle creature natie di quel luogo, gli sembrò di sentire una voce nella testa, che gli suggerì qualcosa da fare. Lui la ignorò, troppo spaventato per fermarsi ad ascoltarla.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 0.2: Il Messaggero ***


CAPITOLO 0.2: Il Messaggero

 

Twilight Sparkle era una Principessa.

Soltanto tre mesi prima non avrebbe mai immaginato di pensare a se stessa con queste parole. Quel giorno era uscita di casa accolta dal canto degli uccellini, in una mattinata che si professava assolutamente ordinaria e felice, e con in testa solo il grande desiderio di esternare il suo buon umore verso tutti. Molti pony erano già in zoccoli da un pezzo, e ognuno era dedito alla propria attività, con una maschera d’indifferenza stampata sul proprio volto.

Poi arrivò lei, cantando il suo entusiasmo, e travolse come una cascata di petali ogni stallone e ogni giumenta che le si erano trovati intorno. Improvvisamente, smettevano di pensare a se stessi e si univano a lei, contagiati dalla sua euforia; accompagnavano le sue mosse di danza in una ballata dell’amicizia che avrebbe scatenato l’invidia di Pinkie Pie, se soltanto si fosse trovata nei paraggi. Ma il fato aveva in serbo altri piani per lei.

L’incantesimo incompiuto di Starswirl il Barbuto, che Twilight aveva ricevuto la sera prima e che solo per curiosità aveva recitato ad alta voce, giusto per scoprire che cosa ne sarebbe scaturito, aveva minacciato di stravolgere quell’idillio magico, spingendo lei e le sue amiche in una nuova spirale di caos, e con loro tutta Ponyville.

L’anarchia prese zoccolo nel villaggio: tempeste di neve da una parte e pioggia a catinelle dall’altra, con in mezzo un sole così intenso e radiante da appiccar fuoco alle pietre. I pony che a malapena si sfioravano, in men che non si dica iniziavano ad azzuffarsi fra loro senza che ci fosse una ragione.

Twilight osservava tutto questo crucciandosi per il rimorso. Non se lo immaginava che sarebbe bastato così poco per trasformare Ponyville in un incubo a occhi spalancati “a la Discord”. Non per niente, questo evidenziava quanto gli Elementi dell’Armonia fossero importanti per il regno di Equestria.

Per grazia di Celestia, alla fine la tenacia della giovane unicorno viola ebbe ragione sull’incidente, e prima che la giornata fosse giunta al suo termine, aveva sul dorso un bel paio di ali robuste, e un titolo nobiliare il quale non sapeva come avrebbe fatto a indossare.

Iniziò a comprendere molti aspetti della sua vita che fino ad allora aveva candidamente ignorato. Capiva perché il suo Elemento, ai tempi, si fosse incarnato in una corona, e anche perché Princess Celestia aveva deciso di accoglierla sotto la sua ala protettrice quando era ancora una puledra. Capì molte cose, ma non fu mai in grado di capacitarsene.

Era strano come gli atteggiamenti degli altri fossero mutati subito dopo la cerimonia d’incoronazione. Pony che una settimana prima ricambiavano i suoi saluti come delle persone di pari rango, ora non potevano esimersi dall’omaggiarla con un inchino servile ogni qualvolta la incrociavano per strada.

Questo fu forse l’aspetto più scomodo col quale dovette misurarsi la nuova Principessa d’Equestria. La etichettavano come la Principessa dell’Armonia, perché aveva saputo lenire gli animi e ridare stabilità alla sua gente. Ma in cuor suo non si sentiva più speciale degli altri, neppure dopo le prove che si era dimostrata in grado di superare.

Tanto per cominciare, non sapeva come usare le sue nuove ali. Le era successo una sola volta di riuscire a spiccar il volo: a Canterlot, dopo le ovazioni del popolo, in cui l’emozione del momento le aveva concesso di completare una prima trasvolata nei cieli della capitale. Ma da quel giorno, dopo essere atterrata, si era resa conto di non sapere più come ripetere la performance. I muscoli delle ali, semplicemente, si rifiutavano di funzionare. Saltellava nell’aria, sbattendole compulsivamente, ma invece di restare sospesa, ricadeva a terra con tonfi goffi e sgraziati. Talune volte dimenticava perfino quale fosse il corretto funzionamento di ciascuno degli arti, e le capitava di dimenare le zampe anteriori quando invece doveva frullare le ali, e altre volte, addirittura, perfino di galoppare con le ali!

In tempi più recenti, si era slogata uno zoccolo dopo uno schianto più duro del solito, e il nodello della zampa anteriore sinistra aveva finito con l’infiammarsi facendole un male del tartaro per giorni, nonostante fosse stato prontamente trattato con opportuni incantesimi di guarigione. Allora aveva capito che non avrebbe potuto andare avanti da sola, se davvero voleva imparare a volare, le occorreva lo zoccolo di qualcuno. E si dà il caso che conoscesse la pony che faceva al caso suo.


Quel giorno si trovavano tutte al campo d’addestramento per reclute dell’Esercito Reale di Canterlot. Un ampio spazio di prato di duecento metri d’ampiezza, circondato da una pista per la corsa, che a sua volta era cinta dalle alte mura d’avorio messe a guardia delle capitale. A giudicarlo con scarsa attenzione, poteva assomigliare a un ippodromo.

C’erano cadetti Wonderbolts impegnati in esercitazioni aeree sopra le loro teste, e metri più in giù, future Guardie Reali unicorno che marciavano intorno alla pista, attraverso un percorso composto da travi, staccionate, reticolati e ostacoli di ogni forma; indossavano tutti non armature, bensì uniformi grigie, atte allo scopo di essere insozzate dalle reclute più imprudenti, mentre veterani istruttori in corazza accompagnavano le loro azioni lungo il tragitto, svilendoli con improperi impronunciabili ed epiteti di pessimo gusto, sia che commettessero degli errori, sia che fossero i migliori del loro plotone.

Nessuno di loro aveva il permesso di distrarsi, in caso contrario tutti gli sguardi si sarebbero concentrati su qualcos’altro: due pony in particolare, che proprio in quel momento stavano spartendo con loro lo stesso terreno e il medesimo spazio di cielo.

«Ora segui solo il mio ritmo, va bene Twilight?» Disse Rainbow Dash, che la teneva per zoccolo accompagnandola nella sessione di volo. «Limitati a starmi dietro, lascia che la corrente ti porti con sé, e non tentare uno dei tuoi soliti esperimenti azzardati!»

«V-vaa bene, però tu cerca di a-andare più piano, sei troppo veloce!» Balbettò lei, con l’aria spaesata e chiedendosi chi glielo stesse facendo fare.

«Ma se sono praticamente in retromarcia! Il problema sei tu, che la fai molto più dura di quanto non sia!»

La pegaso sentì tirare la sua zampa, e si accorse che l’amica era stata sbilanciata da una leggera brezza di vento, che era passata di lì per sbaglio. Seccata, la strattonò, aiutandola a riconquistare il baricentro.

«Ok, no, senti! Fermiamoci un momento!»

Si arrestarono di colpo. Twilight andò a urtarle contro e dovette essere afferrata all’ultimo secondo per evitare di cadere. Entrambe levitarono sul posto, sospese a dieci metri da terra. Ai tempi della scuola di volo, Dash aveva imparato che il saper restare in posizione semi-eretta mentre si stava per aria, era la prima tecnica pratica che qualunque giovane pegaso doveva padroneggiare prima di cimentarsi in qualsiasi altro esercizio. Nel caso dell’alicorno fucsia, era riuscita a superare quella tappa solo dopo aver messo in pratica alcuni preziosi consigli dettategli dalla pegaso della Lealtà. Sfortunatamente per lei, però, era anche l’unica cosa che era riuscita a conseguire arrivata a quel punto.

«Non riesco a capire» bofonchiò la neo-Principessa a bassa voce «ho letto tutti i libri e i manuali che avevo sull’argomento. So come determinare la forza gradiente del vento in base alla pressione atmosferica, e come l’Effetto Coriolis influenza i moti nel nostro emisfero. So tutto sull’argomento, ma non riesco a capire come eseguirli dal vivo!»

La smorfia sul volto di Rainbow Dash espresse meglio delle parole cosa le stesse passando per la testa in quel momento. «Effetto Cori-che?!» Si tirò il mento con uno zoccolo. «Cacchio Twilight, sei proprio una testa d’uovo! Devi smetterla di riempirti il cervello con quella roba! Prima o poi ti cascherà il corno a furia di studiare!»

Come ammonizione, aveva ottenuto il suo effetto: lei la guardò desolata.

Rainbow Dash addolcì le parole. «Ascolta. È molto più facile di quanto non sembra. Uhm, vediamo se riesco a spiegartelo.» Pescò nella memoria un esempio che potesse essere di facile comprensione. «Ecco, ho trovato! È come salire le scale!» Rovesciò lo zoccolo, e con l’altra zampa fece il gesto di qualcuno che sale dei gradini. «Si tratta di cercare dei flussi di aria che ti permettono di salire al piano successivo. Una volta che li hai trovati, non devi fare altro che spiegare le ali e planarci attraverso, lasciare che siano loro a sostenerti!»

Gli occhi di Twilight s’illuminarono quando realizzò di avere compreso cosa l’amica stava cercando di spiegarle. «La pressione dell’aria, ma certo! L’aria che passa sopra e sotto le ali crea una differenza di pressione che ci consente di sostenere il nostro peso!»

La pegaso arcobaleno girò gli occhi e scosse la testa, in modo appena percettibile. «Ehm, sì. È esattamente quello… che intendevo. E una volta fatto questo… devi soltanto mantenere la quota e poi puoi fare quello che ti pare!»

Lunghe colonne cilindriche, formate da nuvolette compatte delineavano un percorso in linea retta di dieci metri, utile per gli esercizi di slalom. Rainbow Dash si mise a completarlo zigzagando con grazia e disinvoltura. «Visto? Facile come bere un milkshake all’avena!»

Twilight l’aveva osservata dall’inizio alla fine, cercando di memorizzare le sue azioni. La posizione delle zampe, il raggio di estensione delle ali, le parabole che compiva quando s’inclinava a destra o sinistra. I suoi gesti erano stati rapidi e precisi, stimati con precisione matematica, centrando gli spazi tra un ostacolo e l’altro, sebbene per tutto il tempo non l’avesse vista rallentare nemmeno una volta. Quindi, forse, era veramente così facile come lei lo aveva dato a vedere.

“Devi solo provarci Twily, hai affrontato di peggio, che sarà mai?”

C’era un particolare, però, che la giovane neo-Principessa aveva scordato di considerare, e la sua testa, tanto assorta in altri ragionamenti, non le galoppò certo in aiuto.

«Ti vuoi muovere o aspetti che siano loro a girarti intorno?» Rainbow Dash era a destra della prima colonna. Aveva raccolto, mentre l’altra discuteva con se stessa, una piccola nube cotonata e l’aveva plasmata in modo da conferirle la forma di una poltrona. Ora vi sedeva sopra, con le zampe anteriori conserte, in attesa di una mossa dell’amica.

Twilight inspirò una boccata d’aria. Erano nel pieno dell’estate, e gocce copiose di sudore fresco le scendevano dalla fronte e sugli occhi, costringendola a strizzarli più volte per disperderle. Si passò la zampa sul viso, quindi concentrò l’attenzione sul primo ostacolo: sarebbe partita da sinistra.

Ricordandosi di quanto le era stato mostrato, cercò di sentire i moti dell’aria sopra e sotto di lei. Trovò una precaria stabilità, che sperò di poter aggiustare non appena avrebbe cominciato a spostarsi.

“Coraggio, puoi farcela” si ripeté ancora “sono solo pochi metri da qui alla fine!”

Si tufò in avanti e sbatté le ali una volta per darsi la spinta. Cercò di sentire la corrente passarle attraverso le piume remiganti, e seguì il “binario” che le stava suggerendo il vento. Si fece coraggio, osando di curvare un poco, e irrigidì i muscoli per entrare nella corrente accanto.

Compiere quei gesti le fece ricordare di quando aveva provato a pattinare sul ghiaccio durante la sua prima Chiusura dell’Inverno a Ponyville. Le sensazioni che aveva provato erano praticamente le stesse di adesso: il presentimento di stare sbagliando approccio; sapeva bene che per riuscire nel suo intento, avrebbe dovuto prima di tutto rilassarsi, consentendo al suo corpo di essere reattivo ai possibili sbalzi dell’aria, che da lì a poco avrebbe potuto incontrare. Ma temeva, sua malgrado, che così facendo avrebbe dovuto rinunciare alla sola stabilità che aveva conquistato con tanta tribolazione.

Dash la studiò con occhi severi ed esperti. Chiuse le palpebre e fece di “no” con la testa. In quel momento l’alicorno ebbe conferma che non stava volando nel modo indicato.

Strinse i denti, mordicchiandosi le labbra. In qualche maniera doveva farcela, a costo di fratturarsi l’altra zampa in un tentativo fallace.

Mancava ancora poco al raggiungimento della prima asta. Le sembrò che una piccola folla di spettatori, dal basso ma anche ad alta quota, si erano arrestati dalle loro attività per scrutare curiosi sull’esito della sua prova.

Uno strano pensiero le attraversò la testa da un capo all’altro, costringendola a riflettere. “Sono i miei sudditi ora. Contano su di me, non li posso deludere così…” per quanto le apparisse sbagliato considerarli in questa maniera, si aggrappò a questo pensiero per trasfondersi un’ulteriore spinta al buon esito del test.

Curvò ancora di più, preparandosi a schivare l’ostacolo. L’azione le riuscì in modo goffo, ma fu abbastanza per permetterle di evitarlo, quindi spinse tutto il suo peso nella direzione opposta, preparandosi al successivo slancio, e alla forza d’inerzia che avrebbe fatto il resto.

Ma commise un errore, e la sua inesperienza la punì nel peggiore dei modi, facendole calcolare il momento di curvatura un istante di troppo a dispetto del necessario. Finì per impattare contro la seconda colonna, piombando a peso morto nel vuoto.

Ora, se solo Twilight avesse dato meno retta alle sue ansie, lasciando al suo cervello di processare correttamente, si sarebbe ricordata che quel tipo di pilastri non erano solo semplici formazioni di vapore, modellate in forma cilindrica, ma celavano al loro interno una chimica ben più complessa: un materiale poroso, simile nell’aspetto a del ghiaccio al cui interno vi erano intrappolate bollicine d’aria, che ne costituiva lo scheletro, intorno al quale andavano compattate autentiche nuvole, in modo da conferirgli un’aria rassicurante ma di falsa innocuità. Tale composto era stato brevettato a Cloudsdale da esperti ingegneri chimici esclusivamente per i reparti militari della Nazione, ricavandolo dal materiale di scarto delle lavorazioni sul cemento speciale cui i pegasi notoriamente si servono per fabbricare le loro case, in grado di galleggiare nell’aria come se fosse praticamente senza peso. Era però un materiale durissimo, che si poteva rimuovere solo denaturandolo con preparati appositi, e l’Aviazione se ne serviva per ricordare alle loro reclute di eseguire le loro manovre correttamente. Un solo sbaglio, e avrebbero fatto la fine che ora era a toccata a Twilight Sparkle.

Dopo l’impatto, tutto il poco che la neo-Principessa aveva imparato fino a quel momento aveva cessato di significato. Twilight, che pure aveva dimostrato in altre occasioni di saper mantenere il sangue freddo dinanzi alle difficoltà, cadde al suolo incapace di ristabilire un contatto con l’elemento aereo. La parte destra del corpo le bruciava per l’impatto, e le ali perdevano parti di piumaggio a causa della velocità di caduta. Tentò di sbatterle un paio di volte, ma il risultato fu di farle cozzare l’un l’altra, riducendo ulteriormente la sua percezione della realtà. Non fu in grado neppure di ricordarsi quale fosse la formula del teletrasporto, che in tal caso l’avrebbe levata dall’impiccio.

Nel cadere, la parte superiore del busto si piegò verso il basso, permettendole di vedere il prato del campo d’addestramento che si faceva sempre più vicino, sempre più in fretta.

Nei secondi precedenti allo schianto, solo un pensiero riuscì a materializzarsi coerentemente nella sua testa: questa volta non se la sarebbe cavata  con solo una zampa rotta. No, si sarebbe conclusa in modo molto più grave.

Chiuse gli occhi invocando la benevolenza di Celestia, chiedendole che le facesse almeno perdesse i sensi, onde evitare così di dover subire il trauma delle sue ossa che si sbriciolavano. Più in là, sulle mura della città, le parve di udire le grida delle sue amiche, che invocavano il suo nome travolte dal panico.

La sua caduta si arrestò tutto d’un tratto. Spalancò un solo occhio, mentre serrava ancora con forza il secondo. Era atterrata su qualcosa di soffice, che aveva dissipato tutta l’energia accumulata nella caduta. Capì di essersi fermata su una nuvola, la stessa che Rainbow Dash aveva sagacemente tenuto pronta, e sulla quale si era seduta poc'anzi. La neo-Principessa poteva considerarsi fortunata di essere stata dotata della stessa prerogativa dei pegasi di trottare sulle nubi, o l’intervento della Custode della Lealtà sarebbe stato del tutto vano.

La pegaso arcobaleno fluttuava sopra di lei con l’aria di chi la sapeva lunga. Le porse il suo zoccolo per aiutarla a scendere, un gesto di derisione, dato che l’altezza della nuvola dal suolo era di sì e no mezzo metro, e Twilight avrebbe tranquillamente potuto scendervi da sola.

Le altre Custodi degli Elementi accorsero sul campo uscendo da uno degli accessi dei dormitori nelle mura.

«Twilight, tesoro! Stai bene, vero?! Dimmi che non ti sei fatta niente!» Domandò Rarity, che era sopraggiunta alla testa del gruppo.

«Ci hai fatte spaventare tantissimo!» Aggiunse Fluttershy subito dopo, più bassa di voce, ma non meno in apprensione.

Con loro c’erano anche Applejack e Pinkie Pie. Quest’ultima sorrideva alla vita, bellamente dissociata da ciò che era appena successo.

«È tutto ok, credo» rispose l’alicorno, facendosi uno screening visivo delle sue condizioni, appurando che era ancora tutta intatta «devo ringraziare Rainbow Dash per questo. Mi hai salvato la vita!» Le rivolse un caloroso sorriso.

La pegaso si mise per aria, accogliendo i plausi che le venivano elargiti. «L’Elemento della Lealtà al vostro servizio! Sette giorni su sette, soddisfatti o rimborsati!» Si glorificò.

Applejack si fece avanti tenendo in bocca un cestino di vimini ricolmo di mele, offrendone una a Twilight. Era una cerimonia, questa, che avevano ripetuto già in diversi momenti durante la giornata. Twilight, ogni volta, ne aveva addentata una durante le pause, e l’aveva trangugiata rapidamente con avida fame, per poi accumulare i torsoli su un cumulo in un angolino, che oramai aveva raggiunto un’altezza importante.

«Sai, cara… non per interferire in faccende che non mi competono. Ma forse dovresti smetterla di ingozzarti in questa maniera. Stai mettendo a dura prova la tua linea, e poi è comprensibile che tu non riesca a sostenerti in volo… »

Applejack, che aveva ascoltato la predica di Rarity, rivolse a questa uno sguardo torvo. “Le mie mele non fanno ingrassare!!” Avrebbe voluto ribattere, ma non era il momento d’inoltrarsi in futili battibecchi frutticoli.

«Non posso farne a meno!» Piagnucolò la neo-Principessa. «Io ci provo a seguire le istruzioni di Rainbow, ma poi il mio corpo fa tutto il contrario!» Abbassò il capo e fece come per piangere.

«Perché invece di pensare a cosa fare, tu ti carichi sulla groppa diecimila motivi per cui non funzionerà! Non capisco come faccia la tua testa a non prendere fuoco!»

«In realtà è già successo.» Bisbigliò Pinkie Pie alle orecchie di Rainbow Dash, per poi tornarsene sullo sfondo.

«Sono senza speranze, eh?». Pigolò Twilight.

Applejack le si strinse vicino, facendole forza con un abbraccio. «Su, non ti devi abbattere così, zuccherino. Ricorda che per imparare a far bene qualcosa è necessario, prima di tutto, tempo e dedizione. Sei stata tu stessa a insegnarcelo!»

L’alicorno alzò il collo per guardarla.

«Quando per errore ci scambiasti i nostri cutie mark, è stato solo grazie al tuo impegno se siamo riuscite a rimettere le cose a posto.» Concludendo, Applejack le pose lo zoccolo sul viso e le tolse una lacrima che si era formata sull’occhio.

«Già, hai ragione.» Ridacchiò sommessamente. «Grazie per tutto il sostegno che mi state dando. Siete le migliori amiche che una pony possa volere.»

«Ai vostri servigi, Principessa.» Cantilenò la Custode della Generosità, e tutte si strinsero intorno a lei in un abbraccio di gruppo, che rinvigorì gli animi e diede nuova grinta per gli allenamenti successivi.

Poi qualcosa di nuovo interruppe il momento idilliaco. Un fischio in lontananza attirò la loro attenzione al cielo: qualcuno stava attraversando la volta della capitale a una velocità quasi equivalente a quella necessaria per generare un arcoboom sonico.

Rainbow Dash si separò dall’abbraccio e puntò gli occhi in quella direzione. Quello che vide fu una freccia argentata che tagliava l’azzurro dell’estate, e che si dirigeva a velocità costante verso il promontorio del castello. Il pegaso che la produceva era solo un puntino nel grande firmamento del cielo, ma anche così, bastarono quei pochi indizi per spingere la giumenta a spalancare le palpebre, ed esprimere un’ampia esclamazione con la bocca aperta: «OH… CACCHIO!»

«Dash?» La interpellò Twilight, chiedendole spiegazioni.

Le sei giumente non erano le sole a essere state attirate da quel nuovo arrivato. Intorno a loro gli altri presenti sul campo d’addestramento si erano fermati a loro volta per ammirare quel prodigio dell’aria.

Il Sergente Istruttore dei Wonderbolts, un grosso stallone nero con piccole chiazze bianche sul muso e criniera color latte, si rivolse con acredine alle reclute, che nel frattempo si erano distratte a fare commenti d’ammirazione. «Beh, che state aspettando voialtri sfaticati, tornate a sgobbare, pegasi!»

Rainbow Dash schizzò per aria, andando a parlare proprio con il graduato.

«È davvero chi penso che sia?! Voglio dire, è proprio lui lui?»

Il Sergente sollevò un sopracciglio con fare di stizza, manifestando la sua insofferenza verso la Custode arcobaleno.

«E chi altri se no?! Hai visto la sua scia?»

«Ma non ha senso. Che ci fai “Lui” qui?!» Incalzò lei.

«E io come faccio a saperlo? Sei veloce come lui, perché non glielo vai a chiedere di persona?!»


Qualche mese prima, Rainbow Dash si era finalmente iscritta all’Accademia dei Wonderbolts, compiendo un passo importante verso la realizzazione del suo sogno d’infanzia. Si era distinta per meriti accademici in appena una settimana (dove questi concernevano attività fisiche e prove di abilità; sul fronte delle lezioni teoriche, qualcuno avrebbe detto, “Non svegliate il pegaso che dorme”), e dopo alcune difficoltà durante l’esordio, in cui aveva trovato il tempo di stringere rivalità-amicizia con un'altra pegaso di talento, aveva conquistato l’ammirazione del Capitano Spitfire, dalla quale era anche stata nominata, a pieno titolo, Caposquadra della truppa. Purtroppo, impegni fuori casa l’avevano costretta, poco dopo, a rinunciare alla fortuna di poter frequentare l’Accademia. Come Coordinatrice Generale del meteo a Ponyville, era richiesta la sua costante presenza al villaggio, e le era stato concesso di continuare il corso, a patto di dedicarvisi giorno e notte durante il suo tempo libero, continuando a studiare la storia dello squadrone ogni volta che le veniva recapitato il nuovo piano di studi (su questo, contava di ricevere futura assistenza da Twilight, come ricompensa per le sue lezioni di volo).

Mai fino ad allora era stato concesso a una recluta di beneficiare di questi privilegi. Ma il retaggio di Rainbow Dash come Custode della Lealtà, unitariamente alle sue doti di aviatrice conclamata, le avevano garantito una corsia preferenziale sugli altri cadetti.

E questo spiegava il perché la sua presenza causasse sempre esclamazioni di ammirazione nei giovani aviatori, e istigava antipatia nelle alte sfere, che la reputavano una giovane prepotente e viziata.  


“Young Dart” pensò tra sé, quando sentì pronunciare il suo nome dalle altre Custodi rimaste a terra. Si voltò quindi verso il Sergente, che era rimasto in attesa di una sua reazione, rivolgendogli un cenno di assenso. «Grazie, Signore. Potete tornare al vostro addestramento.» Era un congedo che non aveva nessun’allusione satirica, ma così doveva aver pensato il superiore, che le rispose sgarbatamente. «Oh, di quale onore mi omaggi. Lo apprezzo!» Chiudendo con un nitrito.

Non badando all’atteggiamento dispotico del graduato (ci aveva fatto il callo agli zoccoli, ormai), la pegaso scese di quota ricongiungendosi alle sue amiche.

«Lo conosci?» Chiese Fluttershy per prima. Anche lei aveva la sensazione che quel pegaso dalla scia argentea dovesse essere qualcuno d’importante, ma la sua lontananza da Cloudsdale faceva sì che spesso fosse l’ultima a essere informata sui fatti d’interesse della sua razza.

Rainbow Dash si limitò ad annuire, ben conscia che solo chi faceva parte dell’Accademia dei Wonderbolts aveva il dovere morale di sapere i dettagli su quello stallone. «Non l’ho mai incontrato di persona.» Ammise iniziando a spiegare. «Tra i cadetti all’Accademia è una specie di leggenda. È praticamente il modello cui tutti vorrebbero aspirare per diventare tosti… beh, come noi.» Ghignò, e qualcuna le rivolse un cenno di disappunto. « Si chiama Silver Sprint.  È di stanza a Manehattan. Un tempo era conosciuto da tutti come il pegaso più veloce di Equestria, prima che… »

«Fammi indovinare» volle provare Applejack «prima che lo diventassi tu.»

«Eheh, già.»

Occhi ruotarono all’interno delle cavità, e qualcuna nitrì.

«Comunque la sua presenza qui è insolita. Come vi ho detto è di stanza a Manehattan. È insolito che uno come lui venga mandato così lontano senza uno squadrone ad accompagnarlo.»

«Lo abbiamo visto dirigersi verso il castello, forse è qui per incontrare le Principesse, o per una missione di qualche tipo.» Ipotizzò Twilight.

«Sì, è quello che pensavo. Sai se Princess Celestia aveva qualcosa sull’ordine del giorno?»

Scosse la testa. «Non che io sappia, no. Al massimo mi ha chiesto se dopo gli allenamenti potevo aiutarla a sistemare degli archivi in biblioteca, ma non credo centri molto con l’arrivo di Silver Sprint.»

Rainbow Dash si passò lo zoccolo sul mento, riflessiva. «Uhm, molto sospetto. La faccenda mi puzza forte… »

Rarity avvicinò furtivamente il muso al manto di Applejack, per poi ritrarsi disgustata dal miasma di sudore e stalle che emanava la cowgirl. Odore che, a dire la verità, non turbò minimamente la Custode dell’Onestà.

«Non credo intendesse quello.» Le fece notare Twilight.

«Dobbiamo sospendere gli allenamenti per oggi.» Decise la pegaso arcobaleno spalancando le ali. «Voglio vederci chiaro in questa faccenda.»

«Non sarà mica che fremi invece dalla voglia d’incontrare un idolo della tua infanzia?» Chiese Applejack, sospettosa.

«Anche, sì.» Le rispose con scioltezza, e un furbesco sorriso malamente celato sulle labbra.


Il grande portone si spalancò sulla sala del trono di Canterlot.

Ad accompagnare le sei Custodi c’erano due Guardie Reali (un pegaso dal manto bianco e un unicorno dal manto nero) che trottavano ai due lati del gruppo stringendo ben salde nelle zampe anteriori delle lunghe lance dorate.

«Vostra altezza, La Principessa Twilight Sparkle e le Custodi degli Elementi desiderano avere udienza con voi.» Annunciò il pegaso alla loro sinistra.

Allungando l’attenzione verso il trono, superate le due fila di Guardie Reali in posa alle due estremità del tappeto rosso (canoniche durante il ricevimento di personalità di spicco), la Principessa dell’Armonia scorse che oltre alla presenza delle due regnanti, Celestia e Luna, vi era anche Silver Sprint, fermo in un angolo ai piedi degli scalini, e con lui, un altro soldato unicorno. Quest’ultimo era di fronte alle due alicorno. Aveva voltato leggermente la testa verso il portone per scrutare chi era appena arrivato, quindi era tornato subito diritto.

Princess Celestia squadrò prima il loro gruppo, quindi rivolse la sua attenzione alla Guardia Reale. «Vai e avvisa gli altri che non è più necessario. Dì loro che sono già arrivate.»

Il soldato annuì e rispose con fermezza. «Ai vostri ordini!»

Attraversò la sala muovendosi all’esterno della fila dei commilitoni di destra. Giunto vicino a Twilight, s’inchinò al suo cospetto, accogliendola con un «Maestà» che la fece irrigidire, quindi uscì, accompagnato dagli stalloni venuti insieme alle Custodi.

Twilight dovette venire a patti con l’angolino di lei che ancora non si capacitava di ciò che era diventata. Fece segno alle sue compagne di muoversi, e insieme avanzarono verso il trono.

L’atmosfera che si era venuta a creare fu molto strana. Celestia aveva dato loro le spalle mentre si stavano avvicinando, e ora leggeva una pergamena che manteneva sospesa con la levitazione, dentro un alone giallognolo.

Il poco del suo viso che era visibile, era contratto in una smorfia di pena, con gli occhi spalancati fin oltre la loro massima estensione, che si soffermavano in apparenza su ogni singolo carattere del messaggio, come per assimilarne a pieno i significati.

Colonne di sole filtravano dalle vetrate in modo debole e cauto, rispecchiando, come in un’allegoria, lo stato mentale della regnante.

Le Custodi degli Elementi s’inchinarono al cospetto del trono, omaggiando le due sorelle alicorno, ma Princess Twilight galoppò subito al punto.

«Princess Celestia… è successo qualcosa?» Era una domanda di circostanza, che racchiudeva in sé tutta l’ovvietà del momento. Era chiaro che qualcosa di terribile stava estendendo le sue ombre sul morale della sala, altrimenti non si potevano spiegare le sue reazioni.

Princess Luna rivolse loro solo una cupa affermazione, e un ciuffo dei crini fluenti finì per volarle sul viso. L’alicorno dal manto blu non fece nulla per scostarlo, l’angoscia che stava provando doveva essere così forte da renderle ogni altra distrazione facilmente archiviabile. E non era la sola a manifestare quello stato di turbamento: le stesse Guardie Reali, congelate nelle loro pose marziali, contenevano a stento i tic di nervosismo sui loro visi. Era la prima volta che a Twilight capitava di vedere i valenti guerrieri dell’esercito della capitale palpitare in quella maniera.

Celestia si girò verso le giumente, e come a volersi accertare che fossero tutte presenti, squadrò le loro posizioni una per una, rinforzando quell’atmosfera carica di tensione, che si sarebbe potuta tagliare con un coltello da burro.

«Vi ringrazio per essere accorse così rapidamente.» Cominciò, per poi fermarsi, pensando a quale fosse il modo più immediato per comunicare la notizia. «Proprio in queste ore la nostra Equestria si trova sotto attacco da parte di una forza sconosciuta. Qualcosa che fino a questo momento non si era mai vista nei nostri libri di storia.»

Twilight sentì come uno schianto provenire dalla sua testa, come se la bilancia che regolava il suo stesso cosmo si fosse appena rovesciata.

«P-Principessa… » masticò le parole «c-che cosa è successo? Diccelo, per favore!»

Celestia sospirò pesantemente. Malgrado cercasse di preservale la sua solenne autorità, l’impressione che diede era di qualcuno che da un momento all’altro potesse cedere alle emozioni, perdendo così il suo comune autocontrollo, tramutando le parole in gemini, i sospiri in vagiti.

«Lasciate che vi presenti una persona.» Dunque sollevò una zampa e la puntò verso il pegaso. «Ragazze, lui è il Luogotenente Silver Sprint, dell’Aviazione dei Wonderbolts di Manehattan. Forse qualcuna di voi ne ha già sentito parlare. Sarà lui, se siete d’accordo, a illustrarvi gli accaduti.» In questo modo, pensò, avrebbe evitato di denudare quella parte di lei che in quel momento stava mordendo il freno, in balia del panico. E non per alterigia: se si fosse esposta, come avrebbero fatto tutti gli altri a mantenere il sangue freddo una volta appresa la notizia?

Rainbow Dash, che in un primo momento era stata ansiosa di fare la conoscenza di Silver Sprint, dovette restare al suo posto, fiutando la delicatezza del momento.

Celestia gli fece un cenno di capo, il segnale che ora toccava a lui parlare.

«Grazie, Maestà.» Fece un passo in avanti, si cimentò quindi nel rituale dell’inchino. «Lieto di fare la vostra conoscenza, Princess Twilight. E anche di tutte voi, Custodi.»

Le giumente ricambiarono con sorrisi a fior di labbra e brevi gesti. Persino Pinkie Pie aveva avuto sentore che non era il momento di comportarsi da “se stessa”, e si fermò a una delicata risata.

«Addolorato che sia successo in una circostanza così tragica.»

«Parla pure, Sprint.» Lo incitò Twilight. «Spiegaci.»

Mentre attendeva, ebbe tempo di studiare più da vicino le caratteristiche del pegaso: indossava un’uniforme da Wonderbolt che gli copriva tutto il corpo eccetto la testa, esponendo le spalline del suo grado, insieme ai caratteristici simboli della squadra. La sua criniera era dello stesso colore argenteo lucente del suo manto, solo di una tonalità più scura, pettinata all’indietro in tre punte decrescenti, simili per aspetto alla cresta di un drago. Mentre la coda, se possibile, era ancora più caratteristica; lunga e orgogliosa, con un ciuffo nella parte inferiore, che si estendeva per conto suo come un’appendice secondaria. Osservandola, a Twilight venne in mente la tipica pinna dello squalo volpe, e anzi, era proprio così che l’avrebbe descritta a posteriori.

Sui fianchi, sopra la tuta, esibiva un simbolo che aveva tutta l’aria di essere il suo cutie mark (un facsimile del suo cutie mark), era formato da due piume d’argento, una più corta dell’altra, che s’incontravano alla radice abbozzando una “V”. Non era comune per un membro dei Wonderbolts esibire il proprio simbolo sopra gli indumenti, ma alcuni individui speciali, se lo desideravano, potevano farne richiesta. Questo denotava una forte individualità, un pony sicuro di sé, conscio di quale fosse la sua posizione all’interno della squadra.

Le giumente degli Elementi si posizionarono a ferro di cavallo intorno allo stallone, quindi Sprint si mise a parlare.

«Si tratta di Manehattan. Oggi, poco dopo l’ora di pranzo, la città ha subito un pesante attacco da parte di un’ignota creatura gigante. Non sappiamo precisamente che cosa sia, ma è stato un disastro.»

Twilight sentì come se le avessero appena tirato uno schiaffo. Una creatura? Che genere di creatura?! La metropoli era in pericolo?!

Le sue amiche non furono da meno. Le ascoltò gemere, mentre si ponevano tra di loro le sue stesse domande.

«Q-quanto è grave?» Balbettò lei, ottenendo dal Luogotenente dei Wonderbolts una scrollata di spalle.

«Difficile a dirsi, almeno fino a quando non avremmo un rapporto completo dalle squadre di soccorso. Dalle prime testimonianze, dicono che sia apparso dal mare del nord. Ha attraversato la città, buttando giù tutto quello che trovava sul suo percorso. Edifici, mezzi, qualsiasi cosa… chi l’ha visto dice che era alto fino a trenta metri, una cosa incredibile. E… ci sono state delle vittime.»

Nessuna commentò, tutte si fecero attonite.

“Oh no… no!” La neo-Principessa sentì le zampe farsi pesanti come di piombo, e cercò conferme negli sguardi altrui, in qualcuno che magari le potesse dire che in realtà aveva capito male (Celestia ad esempio, che in qualunque circostanza aveva sempre una soluzione da proporre). Ma nessuno aveva avanzato del sollievo per lei (nemmeno l’alicorno del sole), e perciò dovette proseguire con la sua sola forza di spirito. Era come trovarsi al netto confine tra illusione e realtà: un passo indietro e ogni cosa sarebbe tornata al suo posto, ordinaria come sempre. Solo che non c’era un comando per fare marcia indietro; avanzare era la sola opzione, oltrepassare il fumo, schiarirsi gli occhi, e accettare che era tutto reale.

Silver Sprint esitò per un momento, poi si mise a esporre un particolare, assente del contenuto della lettera, che secondo lui meritava una menzione. «Columbine Circle è stata l’area che ha subito la maggior parte dei danni. Il mostro si è arrestato lì, non so dirvi perché. È rimasto per diversi minuti fermo a… »

«Columbine Circle, hai detto?!» Esclamò Rarity. «Ma è dove si trovano i tuoi Zii, Applejack!»

Si voltarono tutte insieme a guardare la giumenta. «Sì, la famiglia di Babs. Sulla 20ª strada.» Annuì la cowgirl, dandosi un tono di contegno. In verità avrebbe desiderato sbrigliarsi, prendere la prima cosa che le capitava sotto zampa e scalciare fino a ridurla in polvere gridando, ma non era il suo modo di fare.

«Poi che è successo?» Domandò Twilight, spronandolo a continuare.

Sprint si passò uno zoccolo sulla cresta, come per cercare di saldare un concetto non del tutto fermo nella sua testa. «Si agitava sul posto. Colpiva e buttava giù i palazzi senza un’apparente motivo. L’esercito aveva mandato dei contingenti a cercare di gestire la situazione, ma è stato tutto inutile… sono morti anche loro.»

Tra le fila delle Guardie Reali, qualcuno si lasciò scappare un nitrito. Apprendere della dipartita dei loro compagni d’armi non era una notizia facile, nemmeno per dei combattenti addestrati come loro. Non nell’Equestria che conoscevano.

Il Wonderbolt concluse il resoconto spiegando come il mostro fosse poi schizzato in avanti e avesse cominciato a correre fino a raggiungere la costa sud-occidentale dell’isola, dove poi si era inabissato svanendo. A quel punto avevano incaricato lui di diramare la notizia. Con la sua velocità, disse, era riuscito a recapitare la pergamena in un quinto del tempo che avrebbe richiesto una carrozza volante.

«E nessuno sa che cosa fosse la creatura?» Chiese Fluttershy, che tra tutte era la più interessata a fare chiarezza sull’attacco.

«Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si sia trattato di un drago marino. Ma non vedo perché un drago dovrebbe fare ciò che è accaduto lì.» Rispose Sprint, e la pony giallo canarino si trovò ad accordare con lui.

«Un drago non si comporterebbe mai così… » mormorò lei abbassando lo sguardo.

Princess Celestia disse qualcosa a sua sorella Luna, che le rispose con un cenno di testa, quindi si mosse verso di loro. «È una fortuna che siate qui oggi. Mayor Sue, il sindaco di Manehattan, ha richiesto la presenza delle Principesse in città.» Si focalizzò sulla neo-eletta Twilight. «Andremo io e te, mentre mia sorella si occuperà delle questioni a palazzo. Mi spiace, ma temo che dovremmo rimandare il nostro appuntamento in biblioteca.»

«Non fa niente.» Rispose l’alicorno viola, anche se non immaginava quale contributo poteva apportare con la sua presenza.

«E vorrei che veniste anche voi, ragazze.» Interpellò ora le Custodi. «Benché non sappiamo con che cosa abbiamo a che fare, gli Elementi dell’Armonia potrebbero ugualmente tornarci utili.»

Twilight si morse un labbro e s’impennò agitata. «N-non li ho portati con me, Principessa… sono rimasti a Ponyville!»

A quel punto si sarebbe aspettata che Celestia ne venisse turbata, ma al contrario delle aspettative, lei le distese un sorriso.

«Ho già previsto quest’eventualità. In cortile c’è una carrozza che è pronta per te. Silver Sprint si è offerto volontario per accompagnarti.»

«Quando volete, Princess Twilight. Le mie ali sono al vostro servizio.» Disse lui, inchinandosi di nuovo dopo aver divaricato ala sinistra e ala destra.

Mentre stava per annuire, la neo-Principessa fu fiancheggiata da Rainbow Dash. L’amica arcobaleno era immota in un’espressione arcigna. «Chi sarà il secondo cocchiere?» Chiese a Celestia.

Malgrado la perplessità della domanda, lei le rispose. «Un pegaso che ho selezionato personalmente in caserma. Le garantirà di andare e dirigersi a Manehattan prima che cali la sera. Voi invece, verrete con me sul mio trasporto privato.»

«Veramente, se il Luogotenente Silver Sprint me lo permetterà, vorrei essere io a fiancheggiarlo.»

«Dash!» Ricevette una replica da parte di Twilght.

«Non per mettere in discussione la vostra decisione, Princess Celestia» continuò imberbe, non risparmiando, questa volta, un’occhiata superba verso il Wonderbolt «ma credo di essere la più adatta per questo incarico. Sono l’unica in grado di stare dietro a Silver. Gli altri finirebbero soltanto per rallentarlo. E non mi sembra che siamo nella condizione di potercela tirare tanto per le lunghe.» L’ultima parte risuonò come una frecciata all’alicorno viola, ma malgrado la puntura nell’orgoglio, Twilight non poté che riconoscere le argomentazioni dell’amica.

Silver Sprint si disse più che favorevole ad accoglierla in squadra. Era a sua volta curioso di testare sul campo le capacità di quella pegaso di cui tanto si chiacchierava. E poi, come giustamente aveva accentato lei, la città non ammetteva ritardi quel giorno.

Questo bastò a Celestia perché si convincesse ad assecondarla.

«Andate pure allora. Noi ci rivedremo più tardi.» Disse alla sua ex-allieva, poco prima di congedarsi.

Twilight annuì con un debole «sì», guardando per un’ultima volta le sue amiche. Era come se sentisse che da quel giorno in poi le loro vite non sarebbero più state le stesse, qualunque cosa avessero trovato a Manehattan.

D’improvviso una Guardia Reale unicorno richiese la loro attenzione. Aveva rotto la fila di sinistra con un balzo in avanti, e guardava verso di loro mentre le labbra gli tremavano vistosamente. Tra i denti, una richiesta che agognava di poter esprimere.

«Che cosa c’è?» Gli domandò Celestia, in modo sobrio e attento.

«I-io… » fece per ritrarsi, ma poi deglutì tutto il suo terrore, e parlò deciso. «Mia Signora, invoco umilmente il permesso di poter venire con voi. I… i miei genitori sono di Manehattan! Devo sapere se stanno bene!» Mantenne gli occhi stretti su quelli della sua sovrana. Non gl’importò delle condanne che i suoi superiori gli avrebbero impartito più tardi, né dei biasimi dei commilitoni per il suo oltraggio alla reggia. In quel frangente di tempo, per lui, contava solo sapere se la sua famiglia era perita nell’incidente, o no.

Celestia ritrasse debolmente il collo, perché quello non era l’atteggiamento che tipicamente si aspettava da un membro del Corpo di Guardia, ma era una richiesta che lei ampiamente condivideva.

Non ebbe bisogno di spendere del tempo per soppesare una decisione. «Sia. Parla con il tuo Capitano, e avvisalo che ti ho autorizzato personalmente a unirti a noi. Dopo di che, presentati in cortile. Sii svelto.»

Una lacrima aurea tracciò un sentiero sul zigomo del soldato. Fu una scena straziante. «G-grazie, mia Principessa! Grazie!»

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 0.3: Il Sentiero ***


CAPITOLO 0.3: Il Sentiero


Non esistevano parole eleganti per descrivere ciò che stavano vedendo dal momento del loro arrivo. Era esattamente quello che sembrava: come se qualcosa di gigantesco avesse attraversato la città scavando una ferita profonda e infetta lungo le sue strade. Ed era incredibile pensando che tutto era stato opera di una sola creatura.

Anche a distanze di molte ore dall’attacco c’erano ancora cose che crollavano e fiamme che lambivano i quartieri sollevando nere volute di fumo attraverso gli isolati, e l’aria aveva l’odore del bruciato e delle polveri che si levavano per unirsi nella danza asfissiante.

Poi c’erano enormi crateri con contorni di artigli, erano le impronte lasciate dal mostro, larghe otto metri e così profonde che se qualcuno non vi avesse prestato le dovute attenzione, sarebbe potuto cadervi dentro facilmente.

Quando le quattro Custodi scesero dalla carrozza, atterrando in un parcheggio della lunga Breedway, la loro prima reazione era stata di bloccarsi sul posto e gemere. Manehattan, seconda città per importanza nel regno e orgoglio della modernità equestre, patria della rivoluzione industriale che stavano attraversando in quegli anni, sanguinava ora da uno squarcio largo decine di chilometri, mentre mezzi di soccorso della protezione civile facevano lo slalom tra le impronte per dirigersi ovunque vi era bisogno del loro intervento. E ovunque era il termine esatto. C’erano carrozze-cisterne rosse dei pompieri che trovavano sosta dovunque era possibile, e intanto le carrozze-ambulanze andavano e venivano a sirene accese, portando i superstiti della tragedia nel più vicino centro ospedaliero. Gli stalloni alle briglie che li conducevano avevano lingue che scivolavano fuori dalle labbra, grondando salive dense che lasciavano scie lungo l’asfalto.

C’erano anche pony in divisa e Guardie cittadine, ai quali si erano aggiunti coraggiosi volontari di tutte e tre le razze, che collaboravano insieme per disseppellire i superstiti dalle rovine dei palazzi. Alcune volte qualcuno veniva estratto vivo, forse tutto intero, oppure con qualche frattura (quelle alla spina dorsale o alla colonna cervicale erano le più difficili da trattare), con il rischio della sindrome da schiacciamento, o con organi lesi ed emorragie interne, ma con i dovuti trattamenti e la complicità di qualche incantesimo, si sarebbero ripresi e avrebbero continuano la loro vita di un tempo. Ma quando le macerie restituivano corpi la cui anima era già spirata da un pezzo, allora il clima si faceva più teso. La morte era un tabù profondo nell’Equestria contemporanea, i progressi nel campo delle magie bianche e le tecniche erboristiche ereditate dalla cultura delle zebre garantivano anche ai più moribondi di ristabilirsi da mali giudicati incurabili un’epoca prima, e persino nell’anzianità un pony poteva assicurarsi una vita lunga e prosperosa grazie a un’aspettativa di vita che saliva sempre di più anno dopo anno, e che ormai garantiva a tutti di superare con abbondanza il secolo di età. Gli incidenti erano cosa rara e saltuaria, e quando avvenivano quasi a nessuno capitava di lasciarci la pelle per davvero. Pertanto, l’idea di un disastro che strappasse dall’affetto dei loro cari così tante esistenze era qualcosa cui nessuno, al lato pratico, era preparato mentalmente. Lenzuoli, sacchi o qualsiasi altra cosa potesse fungere da coperta venivano distesi sui corpi freddi, dove sarebbero rimasti fino a quando qualcuno non avesse impartito il comando di rimuoverli. Talvolta questi mancavano del tutto, e così i cadaveri venivano lasciati esposti, di fronte agli sguardi candidi e fino a quel momento innocenti di chi, attraversando la strada in quel punto, avrebbe potuto vederli. A nessuno passava per la testa di censirli, o anche solo di trovare una collocazione più rispettosa, perché nessuno aveva idea di come comportarsi davanti a loro.

Questo era solo una porzione del reale cataclisma che aveva travolto la città. Un solo chilometro quadrato, contro un intero Sentiero che tagliava a metà la metropoli equestre. Proprio in quel momento, uno squadrone di Wonderbolts passò sopra le teste delle Custodi dirigendosi verso nord. Loro non lo sapevano, ma quei pegasi stavano cercando di redigere un resoconto sull’incidente di quel giorno.


Applejack, che a Canterlot era stata la prima ad avere avuto dei motivi per temere dell’attacco, aveva tirato un leggero sospiro quando, in volo sul trasporto, aveva calcolato che il Sentiero aveva evitato per un soffio il quartiere abitato degli Apple metropolitani. Certo, questo non assicurava che Babs o la sua famiglia fossero sfuggiti alla catastrofe, ma di certo ne elevava di molto la probabilità, e a dispetto di altri, almeno loro avevano una casa a cui fare ritorno.

Il suo sollievo, però, venne meno quando si rese conto di quanti altri stavano soffrendo al loro posto. Silver Sprint aveva lamentato delle vittime, ma neppure nel più pessimistico dei suoi pensieri, la cowgirl poteva immaginare che la verità sarebbe stata così oscura.

Proprio in quel momento un’enorme insegna pubblicitaria si staccò da un grattacelo mentre tre pegasi cercavano di assicurarla ai sostegni con corde e soluzioni di fortuna. Cadendo, rischiò di atterrare proprio vicino a degli stalloni infermieri, che cercavano di portare via qualcuno su una lettiga. Sarebbe successa una catastrofe – l’ennesima di quel giorno – se Celestia non avesse prestato attenzione alla scena e non fosse intervenuta per tempo, fermandolo in volo, evitando così il peggio.

Rarity, intanto, stava affogando nel fiume delle sue lacrime, che in parte erano di dolore, e in larga percentuale di nostalgia; quante volte aveva attraversato quelle stesse strade durante un viaggio d’affari o per presenziare a qualche sfilata di moda? Bridleway, per giunta, era sede di molti teatri di prestigio e via di culto per il turismo equestre, con i suoi negozietti pieni di souvenir ma anche – soprattutto – di boutique d’abbigliamento.

Adorava fermarsi di fronte alle vetrine per ammirare i vestiti in esposizione. Da essi spesso aveva tratto spunto per nuove linee, che poi si erano rivelati uno sfavillante successo, e una spinta per la sua carriera da stilista. Ora quelle stesse vetrine erano a pezzi, con schegge di vetro tagliente che circondavano come denti acuminati le grandi bocche dei negozi. Un abito rosso rubino dall’elegante foggia (assomigliava in modo preoccupante a uno che lei stessa aveva disegnato in primavera) pendeva tutto scarmigliato da un lato di quelle zanne, come una lingua di seta grinzosa.

Vide anche delle gocce di un liquido rosso acceso, che tracciavano rigagnoli scuri sul vetro infranto e che si allargavano in una macchia sul marciazoccoli, ampia come una zampa di pony: era sangue.

La stilista si voltò bruscamente dall’altra parte e strinse i denti mentre cercava di non impazzire. “Non è successo davvero, non è successo davvero, non è successo davvero… ” ripeteva a se stessa, mentre le viscere le si ribaltavano dentro.


Pinkie Pie non poteva credere che tanta sofferenza poteva essere concentrata in un’area così ristretta.

Dovunque posava lo sguardo vedeva solo dolore. La sua visione della realtà era stata sostituita da un paesaggio grigio e privo di calore. Vi erano cumuli di detriti ammassati per strada, alcuni spostati dai volontari al lavoro, che si presentavano “ordinati”, come strutturati in una forma ben precisa, quasi avessero una propria logica armoniosa, mentre altri erano la più banale conseguenza del passaggio della grande creatura. In ogni caso però, entrambi i tipi un tempo erano stati qualcosa di bello e allegro, che oramai non esisteva più.

Tese l’orecchio, captando un suono che le provocò una reazione familiare: un pianto di puledrino. E mentre le altre non la guardavano, si allontanò per seguirne la direzione.

A un lato della strada scorse una carrozza-ambulanza, con uno stallone in divisa da infermiere e una unicorno adulta dal manto prugna, che dal retro del mezzo tenevano compagnia a una coppia di piccoli puledrini. Dietro di loro il Rivergrant Building, progettato cinquant’anni prima dall’omonimo architetto, esponeva il proprio scheletro metallico, come una carcassa sviscerata.

I piccoli sedevano su una lettiga messa a disposizione per loro. Il maschietto, che poteva avere sì e no sette od otto anni, era un pony di terra e aveva il manto verde con una voglia bianca sulla spalla destra, e stava in un angolo, mogio e silenzioso, mentre dall’altra parte c’era invece una dolce bambina dal manto rosa e dalle lunghe treccine gialle, tenute ferme da alcuni nastrini rossi; singhiozzava invocando la sua mamma e il suo papà.

Pinkie sentì un brivido lungo il garrese a vederli così angustiati, quasi che il suo Elemento la stesse incitando ad agire.

Il puledrino maschio teneva la testa chinata in basso, con lo sguardo perso nel vuoto, ignorando le parole con le quali i due adulti stavano tentando di rassicurarlo. Questo fino a quando non vide comparire da sotto le sue zampe un animaletto blu di gomma, che si rivolse a lui con fare curioso. Era un cagnolino di palloncini gonfiato dalla Custode dell’Allegria, che prese a muovere con gli zoccoli, tanto abilmente da farlo sembrare quasi vivo.

I pony intorno presero le distanze, ma solo per ammirare, con occhi strabiliati, il momento in cui il cucciolo rientrava dal suo stato catatonico per sbattere lentamente le palpebre e schiudere un leggero sorriso all’animaletto di palloncini. La sua zampetta si posò titubante e poi più convinta sulla testa di lattice, la quale – ci si poteva giocare la propria criniera – prima scodinzolò dall’estremità opposta e in seguito scandì un verso che fu proprio come il guaito di un cagnolino in carne e ossa.

Pinkie, però, non si limitò a fare solo a questo. La puledrina accanto aveva infatti smesso di piangere, solo per rivolgere a entrambi una smorfia d’invidia, la Custode allora compì un altro dei suoi prodigi facendo comparire, non si sa come, non si sa da dove, un orsacchiotto – vecchio e incartapecorito –  da un luogo nascosto della sua criniera.

«Mr. Tickle!!» Esclamò la bambina, agguantandolo. Era un peluche in tutto e per tutto identico a quello che aveva lei nella sua cameretta. Anzi, era proprio lo stesso, compresi i segni dei morsi sull’orecchio destro, che gli aveva procurato quando era ancora più piccola.

La tristezza si era tramutata in allegria, e ora i due cuccioli giocavano con i doni della Custode, completamente estraniati dall’ambiente circostante.

La giumenta adulta si avvicinò a Pinkie Pie, ottenendo la sua attenzione. «Non so come ci sei riuscita, ma è stato davvero un ben gesto. Grazie.» Disse, poggiando uno zoccolo all’altezza del proprio cuore.

Pinkie Pie, guardandola ora più da vicino, si accorse che la sua chioma grigia era raccolta in uno chignon, e che dall’aspetto in generale era una pony abbastanza in avanti con l’età.

«Non potevo sopportare di vedere questi musini così tristi.» Rispose accarezzando una guancia del maschietto. «Ma che vi è successo esattamente?»

La giumenta di mezz’età rivolse torva uno sguardo alla Custode, chiedendosi se veramente non fosse informata dei fatti avvenuti. Ma capì in un secondo momento quale fosse il senso della domanda. Triste e avvilita, indicò qualcosa che la pony in rosa, concentrata com’era sul fare felici i cuccioli, prima non aveva notato: in mezzo alla strada giaceva la carcassa di una carrozza-autobus, abbandona al margine di un’impronta lasciata dal mostro. La parte frontale del mezzo era accartocciata e  compressa da tonnellate e tonnellate di peso della creatura che aveva attraversato la città.

Pinkie aguzzò la vista, e vide una chiazza tra le lamiere con qualcosa che era stato coperto in maniera precipitosa da una cerata bianca. La puledra gioiosa che c’era in lei avrebbe voluto evitarlo, ma aveva già visto qualcosa del genere nonappena aveva poggiato gli zoccoli a terra, e capì subito di cosa poteva trattarsi. Come Rarity, venne colta da spasmi che le ribaltarono gli organi interni. Il cuore le accelerò, il fiato le si mozzò come se qualcuno le avesse posto un tappo all’imboccatura della trachea, e la sua criniera fu sul punto d’ammosciarsi, come era solito succederle quando la sua ragione perdeva colpi. Paura e angoscia si presero gioco del suo Elemento.


Lì sotto c’era un corpo. Probabilmente, il cadavere del conducente. O dei conducenti, se erano in due…


«Cos’è successo?» Ripeté per la seconda volta. Un tic all’occhio, seguito da alcune contrazioni, allarmarono l’altra giumenta.

«Siamo di fuori città.» Spiegò questa, che a quel punto era chiaro che doveva essere l’insegnante che aveva accompagnato la scolaresca. «Stavamo facendo una visita con tutta la classe quando quella creatura è arrivata. Siamo stati fortunati che non ci sia successo niente, a parte… » fece per indicare la carrozza.

Pinkie Pie dovette respirare a fondo, la puledra gioiosa che viveva dentro di lei era sul punto di mettersi a gridare, farsi travolgere dalla crudeltà di quel giorno, ma lei era lì in veste di Custode, e doveva trasmettere un messaggio di speranza, almeno fin quando aveva gli occhi di tutti puntati su di lei.

«D-dove sono gli altri puledri… ?» Chiese a singulti, augurandosi che la risposta non si celasse tra le lamiere del mezzo. Il suo cuore non lo avrebbe sopportato.

«Sono tornati a casa. I loro genitori sono venuti a prenderli appena gli infermieri avevano accertato che stavano tutti bene. Sono rimasti solo loro due.» Indicò i piccoli con un cenno «La loro famiglia vive in campagna. Temo che non abbiano ancora avuto notizie di cosa sia successo… »

Pinkie annuì.

In effetti, quello delle comunicazioni a grandi distanze era un problema molto importante nell’Equestria contemporanea. Senza il servizio offerto dagli incantesimi del Fuoco Magico, con i quali era possibile trasmettere praticamente ogni tipo di messaggi (se la fiamma era abbastanza grande da avvolgerli) dovunque vi fosse qualcuno pronto a riceverli, i pony non avevano altra scelta che affidarsi agli zoccoli di corrieri erranti, di terra o pegasi, che portassero di persona le lettere da un capo all’altro del regno.

Solo di recente poche aziende avveniristiche avevano cominciato a studiare strumenti elettronici capaci di inviare e trasmettere comunicazioni tramite onde radio a grandi distanze, ma erano tecnologie sperimentali, ancora imprecise e colme di misteriose lacune, poco diffuse perché si potesse sperare di farne un uso sul campo.

Questo significava che i due cuccioli sarebbero rimasti su quella lettiga ancora per chissà quanto, costretti a osservare con i loro occhietti ricolmi di lacrime, soli e spaventati, la morte che serpeggiava per strada. E con solo il sostegno di un’anziana (a sua volta frastornata) insegnante a far loro da compagnia.

Pinkie Pie, purtroppo, aveva degli affari che la attendevano in un’altra sede, e il pensiero di lasciarli nel ventre del caos le caricò l’animo di rimorsi, ma prima di andarsene, promise loro che sarebbe tornata se si fossero trovati ancora lì quando avrebbe concluso, e non se ne sarebbe più andata fin quando i loro genitori non sarebbero venuti a prenderli.


Contemporaneamente, in fondo alla strada e all’inizio dell’isolato successivo, Applejack vide un gruppo di stalloni dirigersi a galoppo spedito verso un edificio in rovina. Erano sia unicorni, che pegasi e pony di terra ben piantati di muscolatura, vigili del fuoco, Guardie e volontari della protezione civile, e sembravano impazienti di arrivare sul posto il prima possibile.

Stava succedendo qualcosa, e data la sua costituzione, si sentì chiamata in causa.

«Andiamo a vedere di che si tratta!» Disse a Rarity, scattando prima che questa avesse tempo di obbiettare. La stilista scambiò un cenno con Princess Celestia lì accanto, e decise di seguire l’amica, con in testa ancora il pensiero di ciò che aveva fatto Pinkie Pie. Se c’era tra loro una che aveva dato il buon esempio più di tutte, da quando erano arrivate, quella era stata senz’altro lei, che da subito aveva messo da parte le proprie emozioni per dare il suo contributo in città. La Custode della Generosità non voleva essere da meno, o non si sarebbe più sentita degna di portare su di sé il simbolo del suo Elemento. Si asciugò le lacrime e sigillò il dolore in uno scompartimento segreto del suo cuore, lanciandosi all’ombra della cowgirl.

L’edificio in cui tutti si erano raggruppati era un negozio di suppellettili e articoli orientali. Chincaglierie di ogni genere e confezioni di cibi con etichette scritte con ideogrammi incomprensibili riversavano a terra cadute da scaffali in legno che erano stati ricoperti da strati su strati di macerie piovute dall’alto. Il soffitto, infatti, e con esso gran parte del piano superiore, erano scesi a piombo al piano terra, e sembrava che tutto fosse pronto a crollare di nuovo non appena qualcuno avesse appoggiato la zampa sul punto sbagliato.

Applejack entrò mentre un unicorno pompiere finiva d’impiegare un incantesimo in mezzo ai resti della merce. Era la “Chiaroveggenza”, uno dei pochi di cui potevano avvalersi per ritrovare i dispersi sotto le macerie, ma che di contro, presentava un difetto che ne limitava l’utilizzo: era fondamentale avere almeno qualche informazione sul soggetto che si stava cercando; nome di battesimo, una fotografia che ne raffigurasse l’aspetto, oppure una descrizione quanto più vicina possibile alla realtà. In casi come questi erano gli stessi parenti (o talvolta amici e vicini) a fornire i dati necessari ai soccorritori, che altrimenti dovevano affidarsi al caso e sperare che le rovine sotto cui scavavano rivelassero qualcuno che aveva bisogno di loro.

Il pompiere all’opera in quel momento nel negozio si arrestò di colpo e puntò lo zoccolo di fronte a una massa informe, costituita da travi, pezzi di cemento, mercanzia e un grande lastrone di soffitto che si accavallava sopra tutto il resto.

«Lì!» Esclamò, e subito la squadra si mise a scavare.

Applejack s’infilò ancora più dentro il negozio, quando fece per avvicinarsi e offrire aiuto con i suoi zoccoli, ma qualcuno le bloccò la strada – una Guardia Cittadina – invitandola con tono professionale ad allontanarsi dall’ambiente. «È pericoloso stare qui. La prego di allontanarsi.»

La squadra, nel frattempo, scavava con dedizione e impegno, completamente estraniatasi da quanto succedeva intorno. A uno sguardo più attento, però, emerse subito che al gruppo mancava una figura di comando. Qualcuno che coordinasse gli scavi e decidesse come proseguire. Ognuno diceva la sua su quali blocchi rimuovere, lasciando che fosse la fretta a parlare per loro.

Nessuno si rese conto della sciocchezza che stavano per commettere.

«Per tutti i torsoli di mele, fermatevi subito!»

L’urlo della cowgirl prese in controzoccolo sia loro che chi cercava di fermarla. Alcuni si voltarono per guardarla. Altri invece continuarono imperterriti, troppo presi dal loro compito per far caso alla sua voce. Un unicorno usava la magia per farsi largo nella nicchia tra i detriti, dove il pony di terra che tentavano di soccorrere giaceva prono con la testa affondata nella merce riversa sul pavimento. Nel frattempo, due pegasi raccoglievano grandi blocchi di cemento e li allontanavano di qualche metro. Tentavano di estrarre una colonna che, una volta rimossa, avrebbe consentito loro di insinuarsi nello spazio per recuperare la vittima.

La Custode dell’Onestà sorpassò il pony all’entrata e s’infilò nel gruppo, spingendo via gli operatori incalliti e frapponendosi fra loro e l’ammasso.

«Basta! Non vi siete accorti che questa colonna è portante?!» Disse, allungando lo zoccolo nel punto indicato. «Avete idea di che cosa succederebbe se la rimuoveste?» Solo allora gli stalloni si misero a ragionare e si resero conto della follia che stavano per commettere, e la loro fretta di portare a termine il compito subì una battuta d’arresto. La colonna in questione sosteneva l’enorme porzione del pavimento-soffitto, che ricopriva il resto del materiale inerte come un tetto pericolante. Rimuoverla avrebbe significato privare la massa dell’unico sostegno che le impediva di crollare su se stessa, seppellendo così il povero pony che stava lì sotto.

I soccorritori si osservarono fra di loro, muti e imbarazzati per la grave inadempienza. I vigili del fuoco, in particolare, avrebbero dovuto prevederlo, dato il loro addestramento nell’intervenire in situazioni d’emergenza, ma la verità era che neppure loro sapevano esattamente come muoversi in quelle rovine. Mai, nella carriera di ognuno di loro, era capitato di vivere una giornata come quella, dove le vite di tanti pony erano in bilico negli zoccoli di pochi operatori inesperti. A Manehattan, in particolare, non era quasi mai successo (eccezion fatta per un caso in particolare…) che una calamità costringesse così tanti organismi della sicurezza pubblica a mobilitarsi per strada. Il corpo dei vigili del fuoco, al massimo, interveniva unicamente quando qualche buontempone dava fuoco ai cassonetti della spazzatura, o quando qualche puledrino pegaso, per vincere una scommessa con gli amichetti, volava fin sulle fronde di un albero, restandovi bloccato, incapace di scendere.

Applejack, resasi conto di essere l’unica in quel momento a sapere cosa fare, fece due passi all’indietro esaminando nell’insieme la massa. Aveva abbastanza esperienza in fatto di costruzioni (con tutte le volte che il suo fienile era stato distrutto e quindi ricostruito) da sapere che per proseguire dovevano individuare un altro punta d’accesso.

Si spostò sulla sinistra, scavalcando una pila di cartoni contenenti del cibo in scatola. «Qui può andare! Forza, datemi una zampa!» Ordinò al gruppo e cominciò a calciare la massa in punti apparentemente casuali.

Volontari, Guardie e pompieri la studiarono dubbiosi, interrogandosi su come dovessero comportarsi.

La Custode colpì un blocco di cemento con una nerboruta zoccolata, ampia non meno di un metro, e incredibilmente riuscì ad aprirvi una rete di crepe che si allargarono fino a portarlo alla completa scissione dei pezzi. Applejack balzò all’indietro per evitare che questi le cadessero sulle zampe, quindi tornò subito alla sua opera.

Un unicorno le andò vicino, rispondendo al suo appello, sollevando con la telecinesi e con grande sforzo il primo blocco di edificio, allontanandolo con un gemito di sforzo.

«Allora, vi volete muovere, o lasciate che siano le signore a fare il lavoro sporco?» Rarity, che era rimasta in disparte fino a quel momento, non aveva certo la prestanza fisica né i relativi attributi magici per sostenere per lunghi periodi lo sforzo dello scavo, ma di certo non avrebbe esitato di fronte alla necessità di aiutare chi ne aveva bisogno.

Sotto la guida delle due nuove arrivate, i soccorritori si riorganizzarono e collaborarono insieme per portare a termine il disseppellimento. S’incitavano a vicenda e si dividevano i compiti come in una catena di montaggio, adempiendo ognuno a un incarico specifico. La stilista, per esempio, che per quanto volenterosa non poteva sostenere come gli altri il ritmo, sfruttava le proprie abilità magiche per sgomberare i passaggi dal pulviscolo e dai detriti più piccoli, che malgrado tutto, potevano rallentare l’avanzata del gruppo; ed era anche l’addetta alla sicurezza, che quando scorgeva un ammasso in caduta, aveva l’incarico di bloccarlo per aria prima che qualcun altro si facesse del male, o di allarmarli qualora il volume fosse stato oltre la sua portata per fermarlo.

Applejack, invece, non aveva alcun tipo di magia, di conseguenza non potevano contare su di lei per la rimozione dei blocchi, aveva però delle zampe d’acciaio, ed era sempre la prima a sferrare un doppio calcio quando c’era da rimuovere una porzione più spessa e compatta.

La principale difficoltà, anche ora che tutto prese una piega più fluida, era l’enorme soffitto che pesava sopra tutto il resto: schiacciava le macerie, che a loro volta tenevano intrappolato il malcapitato, impedendo ai soccorritori di riportarlo alla luce del sole.

Un infermiere venuto sul posto tastò il suo battito cardiaco non appena furono in grado di raggiungerlo, e avvisò la squadra che era ancora in vita, ma privo di sensi. La metà inferiore del corpo ancora incastonata sotto quintali di cemento.

Discussero a lungo su quale fosse l’approccio da adottare, se per esempio era il caso di provare ad estrarlo – ma senza aver verificato prima quale fosse il suo reale stato, era un rischio troppo alto da correre – o scavare ancora di più, fin dove fosse stato possibile, mentre il soffitto incombeva su di loro.

La soluzione si presentò d’improvviso con l’arrivo di Princess Celestia.

«Lasciate fare a me» Disse risoluta, e a quel punto tutti si misero in disparte.

Un’unità della Guardia Cittadina, e insieme a lui un pegaso volontario, si distesero all’ingresso della nicchia, pronti ad allungare le zampe anteriori per afferrare il moribondo. Celestia accese il suo corno, che circondò di magia il soffitto, e lo sollevò con delicatezza, smuovendo pezzi di materiale più piccoli mentre il grande lastrone, gradualmente veniva innalzato.

Si fecero avanti anche altri tre stalloni, che allontanarono i frantumi che ancora restarono, e a quel punto i due pony distesi si diedero il via a vicenda per ghermire il ferito e portarlo fuori.

Quando il corpo fu rimosso, Celestia sibilò tra i denti: «Mettetevi a riparo… » lasciando precipitare il soffitto. La lastra cadde pesantemente sulle rovine sottostanti, e si scompose in parti più piccole, che rotolarono giù sollevando una nube di polvere. L’aria divenne pesante e sporca.

Il moribondo, ricoperto da una patina grigia su tutto il manto, venne adagiato su una barella e poi portato fuori dal negozio. Non sembrava aver subito traumi rilevanti, a parte un lungo taglio sulla fronte che doveva essere stato inferto da un oggetto contundente, quando l’edificio gli era crollato addosso. Osservandolo meglio, si notarono subito i piccoli occhietti a mandorla, e il viso rotondo con una fronte ampia e spaziosa, tipici tratti distintivi dei pony provenienti dall’oriente, da città come Neighgasaki o Tokyoats. Sotto lo strato di polverio che lo ricopriva, aveva un manto color terracotta e una corta criniera nera.

«Pensate che si riprenderà?» Domandò Applejack in trepidante attesa.

I medici lo sottoposero a una visita preliminare, tastandogli il corpo alla ricerca di lesioni interne.

«Difficile a dirsi finché non lo portiamo in un centro d’assistenza. Ehi, signore, riesce a sentirmi?» Mosse lo zoccolo davanti al suo viso e quando mancò una risposta, lo tastò delicatamente un paio di volte.

«Niente, questo qui è fuori combattimento.» Confutò infine.

«Vi spiace se provo io?» Si offrì Celestia, accendendo di nuovo il suo corno.

I due infermieri si spostarono immediatamente per lasciare spazio alla loro regnante. Lei poggiò la punta sul petto del ferito e si servì di un incanto facilmente distinguibile per farlo rinvenire, una magia di guarigione.

Si vide il taglio sulla fronte rattopparsi da sé, lasciandosi dietro solo una crosta, e le ferite più piccole scomparirono del tutto. Anche il manto sembrò riprendere visibilmente colore, che ora divenne di una leggera sfumatura cremisi brillante.

Videro gli occhi scuotersi, le labbra tremolare e incurvarsi in una smorfia.

«AAAAAHHH!!» Sì svegliò di soprassalto, agitandosi sulla barella, tanto che dovettero tenerlo bloccato per evitare che traumi interni non ancora rilevati potessero aggravarsi. Poi cominciò a gridare parole in una lingua incomprensibile. Per i presenti erano vocaboli privi di forma, ma non per Celestia, che durante le sue visite in oriente, aveva imparato il loro linguaggio per facilitare le relazioni diplomatiche con i rappresentanti di quella regione.

«Sono qui… sono qui… sono arrivati… sono tra noi… » ripeteva a intervalli irregolari, senza alcuno schema ordinato.

Gli infermieri lo trattennero scongiurandogli di calmarsi, fino a quando non ebbe più le forza per ribellarsi. A quel punto fu obbligato dalla circostanza a fermarsi per riprendere fiato.

«Lasciatelo.» Ordinò Celestia. Il pony era appena uscito da un incubo, e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di risvegliarsi su una barella mentre gente sconosciuta lo tratteneva contro la sua volontà. Aveva bisogno di concentrarsi su di lei, perché ora la Principessa doveva rivolgergli una domanda.

Fece partire un debole fuoco fatuo dalla punta del suo corno, e lo indirizzò di fronte al muso dell’orientale supino, che ne fu attratto come una falena dalla luce del lampione. I suoi occhi spiritati iniziarono a seguire la fiammella mentre questa si muoveva a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Il suo fiato riprese regolarità e ora aveva assunto un aspetto più rilassato.

Celestia fece un passo in avanti e s’inginocchiò di fianco alla barella, piegando il collo in modo che i loro sguardi potessero congiungersi l’uno con l’altra.

«Signore, lei sa che cosa è successo, vero? Mi dica cosa ha visto.» Gli chiese, parlando nella sua lingua.

L’orientale a quel punto smise di seguire la fiamma, riconoscendo nelle parole dell’alicorno del sole qualcosa di familiare, di affine alla sua cultura.

«Kaiju… » disse una volta, poi lo ripeté «Kaiju…» e ancora una volta «Kaiju… » lentamente, come se fosse perfino spaventato dalla sua stessa voce.

Le pupille di Celestia si fecero piccole e increduli, quindi annuì, estinguendo l’incantesimo che teneva in vita il fuoco fatuo.

Le Custodi degli Elementi, nel frattempo, si consultarono con gli altri per scoprire se qualcuno ci stesse capendo qualcosa.

Celestia, ora, riprese a parlare con il ferito, in tono caldo e rassicurante. «Questi pony ti porteranno a medicare adesso, non avere più timore.»

«Tornerà… » gracchiò lui «tornerà… non c’è niente che possiamo fare.»

Celestia chiuse gli occhi annuendo, quindi si rimise dritta sulle zampe. «Portatelo al ricovero… » e aggiunse anche «per favore… trattatelo con riguardo.»

Presa nota dell’indicazione, gli infermieri lo condussero verso la carrozza-ambulanza parcheggiata sul margine della via, e la squadra di volontari e vigili del fuoco si disperse per andare in cerca di qualcun altro da aiutare.

«Andiamo. Non è conveniente far aspettare il sindaco.» Partì spedita, costringendo le due Custodi a trottarle dietro.

«Principessa, sentite… che cos’era quella parola che ha pronunciato… Kaiju?» Le domandò Rarity, affiancandosi alla sua sinistra.

L’alicorno emise un profondo sospiro e si fermò, contemplando velocemente la devastazione in città. «È un termine che viene usato per rimandare a un antico folclore orientale. Sta per “Strana Bestia”, anche se le leggende popolari lo associano a un’altra definizione: “Mostri Giganti”. Secondo questi racconti, i Kaiju erano enormi creature marine che emergevano dagli abissi per portare il Caos nelle terre di quella regione. Erano temuti dalle popolazioni come delle vere calamità naturali, praticamente invincibili e dotati di una forza oltre ogni immaginazione. I pony fuggivano terrorizzati quando uno dei loro regni veniva assaltato da questi mostri, e si rifugiavano in grotte o cavità sotterranee fino a quando la creatura, placata la sua furia, non si fosse allontanata… » mentre spiegava, si domandò tra sé e sé se era mai possibile che le fosse sfuggito qualcosa, perché era assurdo pensare che quelle credenze si fossero concretizzate. Subito dopo, infatti, aggiunse: «… ma in tutti i secoli che ho regnato, non ho mai avuto motivo di pensare che quei racconti fossero veri. Si è sempre trattato di leggende. Miti infondati che nel tempo hanno assunto connotazioni epiche… »

«Ma tutte le leggende hanno un fondo di verità, no?» Disse Applejack, che non voleva abiurare così alla leggera quell’ipotesi. Sapeva bene che tra le credenze popolari che circolano tra i pony di ceto sociale più basso, spesso si nascondono verità che nessun testo storico avrebbe l’ardire di rivelare. «Non è detto che lo sia, ok. Ma se questa creatura lo è veramente, uno di questi Kaiju… cosa dobbiamo fare per affrontarla?»

Celestia evitò di parlare per alcuni secondi. Non voleva darle quella risposta.

Poco dopo Applejack la vide scuotere la testa e mostrarsi scoraggiata. «Forse è meglio augurarsi che non lo sia, mia cara. Perché se il Mito fosse vero, non potremmo fare proprio nulla… vedi, secondo la leggenda: solo un Kaiju potrebbe sconfiggere un altro Kaiju… »


Fluttershy si era isolata dal gruppo quando erano atterrate a Manehattan. La Guardia Reale che le aveva seguite da Canterlot era schizzata via non appena avevano toccato suolo, per cercare notizie sulla propria famiglia. Lei a quel punto, come tutte le altre, era rimasta attanagliata dall’orrore che si presentava nella forma del Sentiero.

Aveva vagato ai bordi della strada per interi isolati, avanti e indietro, allucinata da quanto era costretta a vedere, con gli occhi che per neppure un momento avevano smesso di lacrimare. Quel giorno erano morti centinaia, se non migliaia di pony innocenti, eppure c’era qualcosa in tutto quello che stava vedendo, che non combaciava con le informazioni che le erano state riferite quando si trovava ancora a castello.

Le avevano detto che un mostro aveva attaccato la metropoli, demolendo i palazzi in preda a una furia distruttiva, e uccidendo chiunque si fosse intromesso sulla sua strada. Ma quello che aveva di fronte era uno scenario totalmente differente da quello che si sarebbe aspettata.

C’erano segni di artigli e danni strutturali rilevanti sulla maggior parte dei palazzi del Sentiero, ma il modo in cui si presentavano rivelava molte più informazioni di quante non le dessero le parole dei testimoni. Le vetrate e i bordi degli edifici, per esempio, erano abrasi, sì, ma non sfondati, come sarebbero dovuti apparire pensando a un predatore in cerca di cibo. Il titano in questo caso non aveva tentato di assalire le strutture, bensì di passare lungo uno stretto condotto, troppo stretto rispetto alla sua taglia per evitare di buttare giù qualcosa.

Solo le strutture più basse apparivano divelte, e quando così, erano sempre accompagnate da qualche impronta nelle immediate vicinanze. In quei casi, il mostro doveva averle urtate accidentalmente, nella stessa modalità in cui si sarebbe urtato un ceppo mentre si galoppava nel bosco.

Fluttershy fece grande fatica ad accettarlo, mentre ascoltava le sirene dei mezzi coprire ogni altro suono, e osservare il dolore dei pony in lacrime mentre cercavano di avere notizie sulla sorte dei loro cari, come la Guardia Reale. Il fatto era che conosceva a sufficienza il comportamento animale da capire, in base a quali tracce lasciavano, quali fossero le sensazioni che avevano provato in quei lassi di tempo.

Il mostro di Manehattan non era un loro nemico, ma uno sventurato vagabondo che era approdato sulla costa per sbaglio, e che aveva vagato in un ecosistema sconosciuto fino a quando non aveva trovato il modo di evadervi. Chi poteva sapere quanta paura avesse provato, quanto la confusione lo avesse travolto, mentre tutto intorno i palazzi cadevano e delle piccole creature che forse non aveva neppure mai incontrato, lo attaccavano per qualcosa che alla fin fine si era trattato unicamente di un equivoco.

Più ci pensava, e più i pensieri contrastavano a vicenda, quando rimuginava sulla sofferenza che il mostro aveva seminato, ma  allo stesso tempo che aveva patito a sua volta. Per lei fu come essere testimone nel momento dell’attacco, e assistere con gli stessi occhi ai fatti avvenuti. Era l’influenza del suo cutie mark, l’affinità naturale che aveva con gli animali, che la legava in una maniera indissolubile a loro.

Si stava domandando quanto di ciò che aveva dedotto avrebbe dovuto raccontare alle sue amiche, e se ne sarebbe valsa la pena di farlo. E proprio in quel momento qualcuno le arrivò alle spalle, facendola impennare dallo spavento, ma si distese subito quando vide che si trattava della sua amica cowgirl.

«Applejack? S-scusami… » mormorò arrossendo, imbarazzata per la reazione.

La cowgirl le venne vicino e la cinse in un abbraccio calmante. Ne avevano bisogno entrambe per prendere di petto la giornata.

«Come ti senti, zuccherino mio? »

«I-io… sto solo cercando di trovare un senso a quello che è successo qui. Non è… come… »

«Lo so. Ti capisco bene.» La interruppe con tatto «Nessuno dovrebbe soffrire come sta succedendo ai pony di questa città, oggi.»

Non era esattamente ciò che la Custode della Gentilezza aveva intenzione di dire, ma mentre aspettava di decidere come comportarsi, appoggiò il ragionamento della giumenta arancione.

«Comunque volevo solo avvisarti che Celestia sta per incontrarsi con il sindaco al Municipio. Tra poco ci avviserà di raggiungerla.»

Fluttershy annuì. «Arrivo subito… s-se non ci sono problemi. Vorrei solo prendermi cinque minuti… ecco, per pensare.»

La pony dell’Onestà si sistemò il cappello sorridendole mestamente. «D’accordo, ti aspettiamo lì allora. Non metterci troppo però.» E se ne andò, lasciandola da sola con i suoi pensieri.

“Che cos’è successo realmente qui? Chi è quell’essere?” I dilemmi erano pesanti come macigni e le imponevano di compiere una scelta delicata. “Da quale parte devo schierarmi?”. Era orribile doverci riflettere. La facevano sentire come una traditrice della sua stessa gente, ma allo stesso tempo, scegliere di ignorarli avrebbe significato perpetrare un’ingiustizia nei confronti di quella stessa Madre Natura che da quando aveva scoperto la sua virtù, aveva promesso di salvaguardare come una cara amica. Forse non c’era una risposta corretta, o forse doveva semplicemente schierarsi dalla parte della sua specie. Ma prima d’indirizzarsi verso l’opinione comune, c’era ancora una risorsa su cui poteva fare appello. Doveva solo aspettare l’occasione giusta per metterla in atto.


Il municipio di Manehattan era sopravvissuto al passaggio del mostro, mantenendosi intatto e maestoso, benché non si potesse dire lo stesso dell’ampio parco antistante. Dove un tempo crescevano con fierezza robusti cedri ed altri alberi che dividevano lo spazio con arbusti e aiuole curate, ora c’era solo un campo minato disseminato di enormi zolle di terreno, scavate dalle impronte del mostro. Alcuni lampioni dell’illuminazione stradale erano stati abbattuti – facendo fuggire le lucciole contenute al loro interno – e qualcuno li aveva raccolti e accatastati a lato delle ringhiere che separavano l’erba dal viale asfaltato, lasciando così il passaggio libero per la grande folla di giornalisti e di semplici curiosi che si stava accalcando di fronte alle scalinate del palazzo.

Una reporter, presentatasi come Breaking News, del Foal Free Press, tentò di superare il cordone di Guardie Cittadine per rivolgere delle domande a Princess Celestia, ma era solo una dei tanti che erano accorsi fin lì per intervistare le personalità di spicco presenti all’entrata. Fu spinta via da una coppia di unicorni in armatura e quindi trascinata all’indietro dai colleghi rivali, che occuparono subito il suo posto in prima fila.

Poco dopo gli stessi soldati fecero aprire un varco per permettere a Fluttershy di raggiungere le sue amiche. Sì posizionò accanto ad Applejack, che parve felice di vederla tornare così presto; a quel punto il gruppo delle Custodi – tolte Rainbow Dash e Twilight – era da considerarsi al completo.

Princess Celestia si trovava poco più avanti di loro, e discuteva animatamente con il sindaco Mayor Sue. Questa indossava una gonna e una camicia nera eleganti con un papillon bianco, a coprire un manto rosso acceso contrastato dal nocciola della criniera (corta e pettinata) e della coda. Indossava occhiali dalla montatura rettangolare, che le donavano un aspetto maturo e attento, in netta contrapposizione con il suo fare altezzoso e aspro. «… insomma, qui si sta parlando di milioni di monete di danni! Il quartiere finanziario è andato distrutto, e la Banca Centrale… con tutte le spese che abbiamo avuto nell’ultimo biennio è un miracolo che non siamo ancora con il conto in rosso! Come dovremmo intervenire se non disponiamo più di liquidità?!»

Celestia rispose cercando di preservare la propria compostezza, anche se farlo le risultava difficile, considerati i modi non proprio accomodanti della prima cittadina. «Canterlot vi aiuterà. È nostra intenzione stanziare dei fondi per assistere gli sfollati in città. Ma al momento anche piccole azioni, come mettere a disposizione ricoveri di fortuna, o trovare alberghi disposti a ospitarli, sarebbe già da considerarsi come un atto di carità per molti di loro.»

Fluttershy, che non aveva seguito la discussione fin dal principio, aveva però intuito che il tema cardine dovesse essere il denaro, e questo la fece rabbrividire, come si poteva anche dedurre dagli sguardi nauseati della sue amiche: era davvero questa la preoccupazione principale del sindaco?

«Interverremo con tutte le nostre risorse» continuò a risponderle Celestia, cercando comprensione negli sguardi delle Custodi «faremo di tutto per aiutare le famiglie e le imprese che sono state danneggiate dal disastro. Non dovete preoccuparvi per questo.»

«Lo spero bene, perché con i soldi che ci inviate di solito è già tanto se riusciamo a stipendiare quegli incompetenti perditempo della nostra milizia! Senza contare l’assenza di Princess Twilight, che si è fatta assentare proprio in un momento del genere!»

«Arriverà presto… » fu la sola cosa che riuscì a ribattere la regnante di Canterlot.

«Bah!» Pestò gli zoccoli l’altra. «Stiamo solamente perdendo tempo qui!»

Scese di qualche gradino attirando l’attenzione della stampa. Qualcuno stava già tenendo sollevati i taccuini, e i fotografi riempivano l’aria con i flash dei loro apparecchi, ma ad attenderli c’era solo un’amara delusione. Disse loro che più tardi avrebbero indetto una conferenza stampa, nella quale avrebbero risposto a tutte le domande che volevano porle. Il tono che utilizzò questa volta fu più delicato, forse per non inimicarsi potenziali appoggi alle prossime elezioni, ma anche così, gli inviati che erano in attesa di accaparrarsi la loro fetta di cronaca, si lanciarono in mormorii scontenti e addirittura a lunghi fischi di protesta.

Mayor Sue li ignorò come poteva, chiamando a sé una pony che era presente all’entrata insieme alle altre. «Forza, entriamo. Vieni Time Lapse!»

Time Lapse era la sua assistente, o comunque doveva adempiere quel ruolo, dato che la seguiva ovunque lei andasse. Fluttershy si era accorta di lei solo in un secondo momento, sebbene… non fosse il tipo di puledra che passasse facilmente inosservata. Questa, malgrado avesse l’aspetto di una unicorno normale non troppo in carne, con un manto grigio, tendente al viola, e una folta chioma nera di capelli mossi con un visino dolce e adorabile, era sorprendentemente “alta” per essere una pony qualunque. Non che fosse sproporzionata o di costituzione robusta, semplicemente era più “grande” delle sue simili, come se una lente d’ingrandimento si fosse frapposta tra lei e l’altrui campo visivo restituendo di lei un riflesso zoomato.

«S-sì… » gemette in modo timido e svampito quando fu chiamata, fissando per un momento la Principessa e le ragazze, come per compatirle, prima di trotterellale al seguito di Mayor Sue.

Immediatamente si dimenticarono di lei, e la prima cittadina tornò ad essere il centro dei loro pensieri.

«Ma si è mangiata una mela bacata quella, chi accidenti crede di essere?!» Sbraitò la cowpony, in riferimento alla sua condotta.

«Già, è come se in pasticceria le avessero venduto dei bignè salati!» Si aggiunse Pinkie.

Incredibilmente, l’alicorno prese invece le sue difese. «Siate clementi con lei.» Disse in tono sobrio. «Mi rendo conto che a una prima impressione possa riflettere un’immagine sbagliata di sé. Ma la conosco da molti anni, e posso garantire personalmente per la sua competenza.»

«Beh, è un bel peperino però. Questo non lo potete negare!» Commentò Rarity, dandole il beneficio del dubbio.

«È per colpa della situazione che stiamo vivendo oggi. Ognuno di noi affronta i traumi a modo proprio, questo è semplicemente il suo modo di farlo.»

«Capisco, ma… » fece per aggiungere Applejack, se non che si rese conto che la Principessa aveva ragione. Forse non era il modo giusto di fare, ma come biasimarla ora che sarebbe toccato a lei ricucire le ferite del Sentiero, senza considerare le infinite morti che reclamavano una sepoltura. Essere in apprensione per le casse della città era forse il minimo che ci si poteva aspettare da un sindaco. Almeno questo era il modo di vederla di Princess Celestia.

Con un gesto del capo, mise in allerta il cordone di Guardie, comunicando poi alle Custodi che era il momento di entrare. La schiera di giornalisti eruppe alla notizia, cominciando a spintonare nel verso opposto nel tentativo di abbattere il rango dei militari. Chi tra di loro era dotato di ali, tentò la sorte sollevandosi per aria, cercando si scavalcare i colleghi-rivali, ma incontrò la resistenza dei Wonderbolts appostanti sui balconi proprio per prevenire incursioni del genere, gli unicorni invece non avevano magia sufficiente per opporsi alla resistenza della milizia, sebbene tentassero comunque di teletrasportarsi oltre la fila.

Quello era forse il giorno più importante della storia di Equestria, e nessuno avrebbe rinunciato tanto facilmente ad un boccone di cronaca.


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La sala delle riunioni in cui si ritrovarono era un grande stanzone spoglio e austero con un lungo tavolo a forma di ferro di cavallo disposto al centro, un’asta con esposto lo stendardo di Menehattan, e solo un vaso di Ficus Microcarpa a dargli un tocco di colore.

Un grande telo appeso alla parete, con accanto un vecchio proiettore per le diapositive, attendeva il giorno in cui sarebbe potuto essere d’aiuto a qualcuno.

I suoni della metropoli in fermento attraversavano le grandi finestre diffondendo un tema che suonava di soggezione e senso d’impotenza alle orecchie delle presenti.

Mayor Sue, seduta in uno dei posti centrali, a sinistra di Princess Celestia, usò il proprio corno per sistemare una pila di documenti nella sua valigetta personale, quindi alzò un bicchiere ricolmo d’acqua, tracannando con ingordigia.

«Quanto ci vorrà ancora?» Domandò a Celestia, mentre le Custodi, ai due lati, restavano in silenzio.

«Arriverà a momenti. La prego solo di avere ancora un po’ di pazienza.»

Questa fece una smorfia biliosa e tornò alle sue faccende.

Poco dopo, com’era stato promesso, la porta si aprì.

Twilight Sparkle e Rainbow Dash entrarono accompagnate dall’assistente chiamata Time Lapse. In quella cornice formale non ci furono gridolini o aperte manifestazioni di gioia, ma solo calmi sorrisi e saluti d’accoglimento.

Furono invitate a sedersi nelle loro rispettive sedie. Dash prese posto nel ramo sinistro del tavolo, accanto a Fluttershy e Pinkie, mentre per Twilight avevano riservato uno spazio al centro, accanto alla sua ex-Mentore.

Discussero un po’ tra loro, scambiandosi pareri su quanto avevano visto di fuori.

Applejack, dall’altra estremità, pose delle domande alla pegaso arcobaleno, notando nei suoi occhi tracce lucenti di lacrime, come del resto era capitato a tutte loro.

Dash la liquidò con un nitrito e pochi giri di parole, facendole capire che non aveva intenzione di esprimersi. In un altro momento sarebbe stata entusiasta di raccontare le emozioni e la gloria di avere volato a fianco di una leggenda come Silver Sprint. Avrebbe occupato tutto la giornata vaneggiano su quanto fosse stata brava a reggere il suo ritmo, ripetendo i complimenti che aveva ricevuto mentre conducevano Twilight a Ponyville e da lì fino a Manehattan; avrebbe anche voluto proporgli una sfida di velocità al campo d’allenamento dell’Accademia a Cloudsdale, che era sicura di vincere senza alcun impegno. Ma quando si rese conto in quale stato vessava la metropoli… quando allungò lo sguardo sul Sentiero del mostro, che attraversava la città in tutta la sua lunghezza, il suo entusiasmo e il suo spirito combattivo… furono obliterati come pensieri transitori, e la sua sicurezza costretta a rannicchiarsi in un angolino, tremante. Non riusciva a credere che Silver Sprint affrontasse la situazione con tanto distacco.

Erano atterrati nel piazzale del municipio, aiutati dalle Guardie a superare la muraglia di giornalisti in attesa. L’insistente Breaking News tentò nuovamente la sorte, bloccando Princess Twilight sulle scale.

«Cosa farete ora? Intendete utilizzare gli Elementi?» Fu una domanda rapida e strappata con la forza, l’unica che le scaturì in quel frangente, e la Principessa fu sul punto di risponderle, cadendo così nella sua imboscata. In fondo sembrava una domanda così innocente, e rispecchiava appieno la realtà dei fatti.

Twilight fu afferrata appena in tempo dal Luogotenente e portata con vigore oltre il cordone di militari.

Prima che potesse fare lei delle domande, le fu spiegato che se avesse concesso a un solo reporter l’intervista, tutti i restanti le si sarebbero avventati contro come avvoltoi affamanti, per avere ciascuno un proprio assaggio della Principessa dell’Armonia. Era un errore da principiante, che Twilight doveva promettersi di non commettere più.

Silver Sprint a quel punto fu chiamato da parte da un grosso unicorno in uniforme da Capitano. Ci fu una breve discussione, durante la quale il Luogotenente ascoltò e fece dei cenni di assenso, quindi tornò dalle Custodi.

«Per il momento temo di dovervi salutare, Vostra Altezza. Altri incarichi richiedono la mia presenza.» S’inchinò a Twilight, quindi spostò lo sguardo verso Rainbow. «Cadetta Dash, volare con te è stato un vero piacere. Mi assicurerò di farne parola al più presto con i tuoi istruttori.»

Lei arrossì, accogliendo con una certa soggezione i complimenti, in fondo lui non era come gli altri stalloni da cui aveva ricevuto lusinghe. «Dove te ne vai?» Fu la domanda che gli rivolse per distogliere l’attenzione da quei pensieri.

«Mi vogliono fuori città con lo squadrone scelto per andare alla ricerca del mostro. Il piano è di seguire le sue orme per scoprire se porteranno da qualche parte»

«Vai a stanarlo, eh?»

«È l’unico modo. Se non lo rintracciamo prima che cali la notte, rischiamo di perderlo di vista. E altre città potrebbero fare la stessa fine di Manehattan. A proposito» porse a Twilight un portablocco con dentro infilati dei fogli, che gli era stato consegnato dal Capitano delle Guardie poco prima.

«Date questo al sindaco una volta che sarete entrate. È importante.»

Le ragazze si presero del tempo per guardare veloce, e quando alzarono la testa, Silver Sprint non c’era già più. Lo videro volare nel cielo della metropoli, in viaggio per la sua nuova destinazione.


Time Lapse si avvicinò a Mayor Sue e le porse il portablocco. Se ne era fatta carico mentre accompagnava le due Custodi alla sala delle riunioni. «E questo qui che cos’è?» Le domandò il sindaco, come se le fosse appena stata presentata una palla compatta di fango.

Timidamente le risposte: «Uh… è il primo rapporto completo del Capitano delle Guardie sulla situazione in città, pensavo che… sì, che lo volesse esporre alla sala.»

Sentito ciò, in silenzio, le fece segno con la zampa di provvedere da sé.

«I-io?!» Esclamò l’assistenze arrossendo. Vista così, quella pony sembrava persino più timida e goffa di Fluttershy.

Mayor Sue non le concesse ulteriori repliche.

Time Lapse, allora, andò verso il telo per le proiezioni, che era avvolto dentro un cilindro di plastica, con un gancio di metallo che scendeva da sotto. Appoggiò il portablocco sull’angolo del tavolo e fece per tirare giù il telo, per agganciarlo così a un anello inchiodato alla parete, più in basso. Ma poco prima di farcela, perse come la presa con il corno, e il telo scattò in su con uno schiocco, riavvolgendosi tutto d’un colpo. Time Lapse balzò all’indietro per lo spavento, e per poco non combinò un secondo disastro, urtando con il sedere il proiettore delle diapositive.

S’irrigidì sul posto, chiuse gli occhi con forza mordendosi le labbra.

Twilight provò una pena infinita per quella unicorno grigio-violetta dalla taglia superiore. Si sarebbe detto che qualcuno di quella stazza potesse affrontare a testa alta qualunque situazione, ma a quanto pareva non era il suo caso.

E il sindaco, nel frattempo, aspettava impassibile che la puledra finisse, come se fosse già abituata a quel tipo di performance della sua assistente.

L’alicorno viola fece per alzarsi e darle uno zoccolo, quando qualcosa la fece arrestare. Time Lapse aprì gli occhi di colpo, il rossore dalle sue guance era sparito d’improvviso, e le zampe avevano smesso di tremare. Ora studiava il cilindro come se sapesse esattamente come comportarsi, e così fu. Tutto fu sistemato con precisione professionale.

«Ci hai impiegato meno del solito Lapse, brava.» La schernì Mayor Sue, mentre si controllava con uno specchietto il trucco e si rassettava il papillon.

La puledra grigia sfogliò le pagine del rapporto, cercando di orientarsi su come introdurre il discorso. Di nuovo, diede l’impressione di stare andando nel pallone più totale, e di nuovo dopo essersi paralizzata per alcuni secondi, tornò in sé carica come se avesse provato il discorso per mille volte allo specchio.

Era forse questa la sua specialità? Concentrarsi su un compito fino al punto di sapere esattamente come applicarsi? Twilight sbirciò il suo cutie mark, ma rimase delusa quando scoprì che il suo fianco rappresentava un simbolo dal significato del tutto criptico: un puntino nero al centro, e due frecce che puntavano in due direzioni diverse. Cosa  poteva mai significare?

Time Lapse puntò verso il telo un incanto molto semplice chiamato Incanto Riflessione, che era in grado rappresentare su una superficie piana un’immagine di ciò che la unicorno stava immaginando.

Apparve la mappa geografica dell’isola di Manehattan, da cui Lapse prese a esporre ciò che era indicato nel rapporto.

«Dunque, secondo quanto dice la Guardia Costiera, il primo contatto con il mostro è avvenuto qui» indicò il punto sul telone, aggiungendovi un cerchietto rosso «è approdato da Port Horace, arrivando dal Mare del Nord, sulla rotta per Griffonstone. Poi, una volta in città, possiamo immaginare una linea che parte da… ecco, la 27ª strada. Fino a… Columbine Circle. È stato lì che ha cominciato a mostrare i primi segni di comportamento anomalo.»

«Ne siamo informate.» Disse Celestia. «Comunque se siete tutte d’accordo, suggerisco di rivolgerci a esso con l’appellativo “Kaiju” da questo momento in poi, almeno fino a quando non sapremo esattamente con che tipo di nemico abbiamo a che fare.»

Fluttershy sentì scorrerle un brivido lungo il garrese quando udì la parola “nemico”. Twilight, invece, guardò la sua ex-Mentore confusa. L’alicorno del sole le restituì un’occhiata che suonava come “più tardi ti spiegherò”.

Time Lapse riprese il discorso. «Ok… dicevamo. Da qui il Kaiju ha cominciato a… oh!» S’interruppe e guardò con attenzione il rapporto, girandosi poi di scatto verso il sindaco. «S-signora, il rapporto dice che anche la Reborn ha subito ingenti danni, forse dovrebbe… »

«Vai avanti Lapse, non annoiare le Principesse con questi futili dettagli.» Le restituì di risposta, non accorgendosi dell’improvviso movimento di occhi di Princess Celestia. Questa però decise di non interrompere ulteriormente il resoconto.

«Oh… è che pensavo… ok, non importa.» Respirò a fondo Lapse. «Allora, il Kaiju a quel punto ha cominciato a correre sulla Bridleway… c’è una nota del Capitano che ipotizza che lo abbia fatto per sfuggire alle offensive che gli venivano rivolte… il Capitano ipotizza anche che lo ha fatto per via della lunghezza di quel tratta di strada, che gli ha consentito di procedere senza incontrare altri ostacoli. Infatti possiamo dire che da quelle parti i danni principali si sono concentrati principalmente sulla carreggiata… »

«Da dove è uscito dalla città, Lapse?» La interruppe spazientita Sue.

La povera puledra alta si bloccò, meditò per un momento, quindi rispose. «Dynamo Plaza, nella baia di Greensville.»

«Non prima di aver fatto terra spianata del nostro povero parco, però!» Aggiunse l’altra con fare tracotante. «Ci credereste che ero affacciata alla finestra del mio ufficio quando quel maledetto animale mi si è palesato qua davanti? Ci è mancato poco che mi rovesciassi addosso tutto il caffè!»

Di tutto il gruppo, solo Rarity provò un minimo di effetto per quell’affermazione.

Time Lapse girò la pagina nel portablocco, e lesse con rapidità le ultime righe del testo. «Sì, ehm… ed è da qui che hanno perso le sue tracce. Poi il rapporto continua con delle note sui feriti e i dispersi e… ah, ci sono i dettagli della missione di ricerca e i nomi di chi vi ha preso parte… »

«Quello è un compito per le squadre dei Wonderbolts.» Liquidò di fretta il sindaco. «Ma parliamo di questo adesso. Voi dite di avere portato gli Elementi dell’Armonia.» Si mise dritta sulla sedia, puntandole tutte.  «Ma esattamente che cosa ci dobbiamo aspettare? Insomma, la domanda che mi preme farvi è: che effetto avranno sul Kaiju, una volta che lo avrete trovato?»

Fu Princess Celestia a dare una risposta alla domanda. «Tecnicamente, è sbagliato pensare agli Elementi come a una specie di arma. Non lo sono, non in senso lato almeno. Essi sono degli strumenti che assolvono al compito di purificare tutti quei fattori che sono causa di uno stravolgimento dell’Armonia stessa, e lo fanno attraverso un’emissione di energia allo stato puro che risana le discrepanze createsi in essa. Di conseguenza, questo fa sì che i loro effetti varino da fattore a fattore. Quando mia sorella fu liberata dall’influsso di Nightmare Moon, il loro impiego era servito per espellere l’oscurità che albergava dentro di lei. In un’altra situazione, invece, quando sono stati utilizzati per combattere Discord, dato che lui è una sorgente viva di puro Caos, gli Elementi lo hanno rinchiuso dentro un bozzolo di pietra, affinché non potesse arrecare ulteriori squilibri nell’Armonia… »

«Questo è davvero molto interessante, ma il punto è: funzioneranno? Insomma, potete garantire che il loro utilizzo avrà chance di successo al centodieci per cento?»

«In passato ci sono state situazioni in cui non hanno funzionato, è vero. Ma la colpa in quei casi è stata… »

«Quindi ho ragione? Non potete garantirci che funzioneranno per forza?!»

La bocca della Principessa del Sole si strinse. L’atteggiamento di Mayor Sue stava diventando indigesto un po’ a tutta la sala, malgrado in un certo senso avesse ragione a dubitare degli Elementi. Persino Celestia in persona non poteva anticipare quali effetti avrebbero sortito al loro nuovo nemico.

Prima che trovasse la frase per continuare, fu Rainbow Dash a prendere le sue difese.

«Oh, ma la vogliamo piantare! Volete sapere se funzioneranno, certo che funzioneranno, che domande!»

Twilight fu sul punto di richiamarla, ma si ritrovò all’ultimo momento a essere d’accordo con lei. «Uhm. Come rappresentante dell’Elemento della Magia, so che il loro utilizzo potrà fare la differenza. Il vero problema sarà riuscire a trovare il mostro, e poi avvicinarci abbastanza per attivare l’emissione su di lui.» Disse alla sala.

«Questo non mi spaventa! Silver Sprint e il suo squadrone lo staneranno, e poi» si alzò su due zampe «andremo lì e lo prenderemo a calci! Quell’essere schifoso rimpiangerà di essersi messo contro di noi! Forza Fluttershy, diglielo anche tu!»

«A dire la verità… » iniziò flemmatica la pegaso della Gentilezza «non sono sicura che attaccarlo sia la soluzione migliore. Credo invece che dovremmo calmarci tutti e cercare un’altra strada.»

Nella sala divampò una risposta unanime di sgomento e sorpresa, a parte Mayor Sue, che unì gli zoccoli alla bocca, ascoltando curiosa.

Per Fluttershy era il momento di esporsi. Sentiva di doverlo fare, anche se ciò avrebbe significato nuotare contro corrente. «Insomma, non fate che dire che questa creatura sia un pericolo per tutti e che deve essere fermata. Ma cosa sappiamo esattamente di lui? Per esempio, siamo davvero sicuri che il suo intento sia davvero quello di farci del male?»

Fu di nuovo la pegaso arcobaleno a ribattere. «Ma… ma come ti salta in testa di dire una cosa del genere, Shy?! Quel coso ha raso al suolo un’intera città, mi sembra evidente quali sono le sue intenzioni!»

«No, ti sbagli! Non è andata così... » obbiettò tesa «o meglio… pensateci, guardate il suo percorso in città: per tutto il tempo non ha fatto che cercare una via di fuga per uscire dall’isola… ha distrutto i palazzi che si sono frapposti sulla sua strada, e quando qualcuno ha tentato di attaccato, lui ha solo lottato per la sua vita. Quando poi è riuscito ad uscire, se n’è andato, e non abbiamo più avuto sue notizie da allora!» Si fermò per valutare le opinioni dei presenti in sala, anche se fino a quel momento nessuno aveva provato a interromperla o a mettere in discussione la sua tesi. Così decise di continuare: «A questo punto, se lo avesse voluto, non pensate che il Kaiju avrebbe già potuto attaccare Fillydelphia o qualche altra città nelle vicinanze? Invece… i danni a Manehattan sarebbero stati ben più gravi se le sue intenzioni fossero state veramente quelle di distruggerla!»

«Capisco quello che dici, Fluttershy. Anch’io avevo avuto la stessa impressione venendo qui.» Disse Twilight annuendo. Sapeva che in fatto di creature selvatiche, grandi o piccole che fossero, la sua amica era una spanna sopra a tutti gli altri, quindi la sua parola doveva essere trattata con i giusti riguardi, tuttavia: «Questo però non spiega perché abbia attraversato il mare e si sia dato tanto da fare, quando poteva semplicemente evitarlo fin da subito.»

«È quello che vorrei scoprire anch’io infatti. Forse ci troviamo di fronte a un essere unico e speciale, che deve essere scoperto e poi compreso. Non è giusto essere ostili per forza, solo perché diamo per scontato che lo sia stato lui con noi.» Guardò quindi verso la Custode della Lealtà, che le stava restituendo una faccia grezza e contrariata. «Rifletti Dash. Se tu corressi in un prato, e pestassi per sbaglio un formicaio mandando in rovina il frutto del lavoro di un’intera colonia, non sarebbe forse lo stesso per loro? La differenza è che nessuno accuserebbe te di essere una pony cattiva in quel caso.»

L’amica azzurra scosse la testa con fare grave. «No… n-non sarebbe la stessa cosa.» Ma la sua capacità di obbiettare era già stata infranta dalla solidità dell’argomento.

«Invece lo è. Solo che stavolta le formiche siamo noi.»

«Quindi che suggerisci, ragazza?» Intervenne Mayor Sue, calando le braccia sul tavolo. «Lo dobbiamo lasciar scorrazzare in pace per il nostro regno come se nulla fosse?»

«No! No… cioè, non ho detto questo… ma forse potremmo provare a comunicarci. Io potrei tentare d’instaurare un contatto con lui, e chiedergli per quale motivo ha invaso la città!»

«Tu faresti cosa?!» Il sindaco volse lo sguardo verso le Principesse, come a chiedere loro se la pegaso non avesse completamente perso la ragione, ma a giudicare la gravità dei loro visi, dovette ricredersi.

Celestia fece un respiro profondo, rispondendo alla Custode. «Capisco quello che vuoi fare. Tu quindi intendi usare lo Sguardo per costringerlo ad arrestarsi?»

«Oh, no! Assolutamente no! N-non se posso evitarlo, cioè. Vorrei… sì, ecco… vorrei solamente provare a parlarci. Convincerlo a fare ammenda per ciò che ci ha fatto, e quindi assicurarmi che in altre città non accada lo stesso che è avvenuto qui.»

«Sì, e soprattutto che ad altre scolaresche non succeda nulla di brutto!» S’intromise Pinkie Pie, schizzando dalla sedia senza un motivo logico.

Mayor Sue si distese sul proprio posto, rinunciando a capirci qualcosa. «Sappiamo che sei in grado di farlo, zuccherino.» Riprese Applejack. «Ti abbiamo visto piegare Draghi giganti e tenere testa ad ogni genere di creatura, ma adesso… »

«Sarà lo stesso anche stavolta, ve lo prometto!» Disse lei, intuendo il punto. «Fidatevi di me, non chiedo altro!»

Nel frattempo Twilight aveva stabilito che dovevano saperne di più, e c’era un solo luogo in cui era certa di poter trovare tutte le informazioni che abbisognavano. «Magari nell’attesa potremmo fare qualche ricerca negli archivi storici della biblioteca. Cercare degli indizi per scoprire se ci sono stati casi di eventi analoghi in passato. Potrei darti uno zoccolo mentre aspettiamo notizie dallo squadrone di Silver, che ne dici?» Mentre lo proponeva, nei suoi occhi brillava una scintilla di velato entusiasmo.  

«Potrebbe essere un’idea…oh, ahm… sempre se a Mrs. Sue non crea disturbo, naturalmente… »

Mayor Sue sbuffò, rimettendosi composta. «Pff, beh di libri lì non ne mancano di certo. Fate ciò che credete giusto.» Fu la risposta.

«E se poi l’idea di Fluttershy non dovesse dare i suoi frutti, vorrà dire che ci serviremo degli Elementi dell’Armonia per fare quello che deve essere fatto.» S’inserì anche Rarity.

«Invece funzionerà, funzionerà sicuramente!» Ci tenne a ribadire lei. Vederla così determinata era atipico per il suo gruppo, ma allo stesso tempo le caricava di un foga cui non avrebbero mai pensato di poter fare affidamento per la missione che le attendeva.

«Vedo che vi siete fatte un piano. Allora mettetelo in pratica.» Concluse infine il sindaco, sciogliendo la riunione.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 0.4: La Tana ***



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Artwork by Alvin Miller


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4 – La Tana


Silver Sprint cominciava a sentire l’urgenza farsi strada attraverso di lui.

Stavano volando sulle tracce del mostro da più di un’ora, viaggiando in formazione attraverso gli altopiani di Hollow Shades, spediti tanto quanto il suo squadrone riusciva a stargli appresso. Si erano ricollegati al Sentiero grazie alle impronte che il mostro aveva lasciato nel terreno una volta approdato sulla costa (profonde fosse, quanto quelle che solcavano le strade in città), risparmiandosi così il gravoso compito di capire da quale parte si fosse diretto. Ma anche così, nonostante la sua mole stesse chiaramente giocando a loro favore, l’assenza di una reazione tempestiva da parte dell’aviazione gli aveva dato ormai tempo di allontanarsi dalla zona.

A quel punto poteva trovarsi dovunque nel regno, forse perfino in procinto di assaltare una nuova città. Fillydelphia, per esempio, era poco più a sud rispetto alla direzione che stavano intraprendendo, ma se anche la creatura avesse seguito la via, attraversando la catena montuosa e superando le Neighara Falls, la tappa successiva erano direttamente le Crystal Mountains, che celavano l’Impero di Cristallo e tutti i suoi antichi segreti. Per non parlare dei tanti piccoli paeselli (Hollow Shades stessa, per esempio) che sorgevano tra quelle alture e che in ogni momento correvano il rischio di essere incrociate dal titano.

«Forza, ricordatevi che cosa siamo venuti a fare!» Spronava il Luogotenente incitando gli altri a dare il massimo, bruciando i secondi di distacco, ma sapeva bene che nessun altro pegaso (a eccezione forse di Bullseye e di quella Custode degli Elementi, Rainbow Dash) aveva la stamina per stare dietro ai suoi poderosi muscoli alari, così dovette limitarsi a un ritmo che per lui era poco più che una blanda svolazzata.

La verità era che dentro di lui si agitava un grande tumulto, che non accennava a diminuire. Davanti alla gente il suo retaggio gli imponeva di dare di sé un’immagine fiera e perentoria, con la testa ben piantata sulle spalle e gli occhi sempre puntati alla prossima meta, ma la verità era leggermente diversa: lontano dalla folla, libero dal travestimento che era costretto a esibire in situazioni formali, anche lui era un pony facilmente soggetto alle emozioni equine, laddove erano coinvolte persone a lui care. In particolare in quel momento non era la missione a preoccuparlo (non completamente, almeno), bensì le sorti di sua figlia, che in quelle ore era distesa a letto in balia di una forte influenza.

La piccola Lil’ Wing era sempre ammalata, questo bisognava dirlo. Era sfuggita miracolosamente alla distruzione perpetrata dal mostro, dal momento che la loro casa si trovava al di fuori dal raggio d’azione del Sentiero. Così com’era successo alla sua Foalsitter, che fortuna voleva che proprio quel giorno dovesse badare a lei. Questa era una studentessa della MHU, l’università locale, i cui dormitori erano annoverati nell’elenco dei palazzi rasi al suolo dalla creatura. Ogni tanto teneva la piccola per sbarcare il lunario e pagarsi gli studi, e Silver Sprint era sempre lieto di poterle dare uno zoccolo.

Quel giorno doveva prepararsi per un importante esame, e non aveva accettato di buona volontà di stare accanto alla bambina, ma il Wonderbolt aveva insistito; da quando sua moglie era perita in un disgraziato incidente un anno prima, investita da una carrozza trainata da un folle, si era sempre rivolto a lei quando doveva lasciarla alle cure di un paio di zampe fidate, in particolare, quando Lil’ Wing era costretta a letto per qualche malanno. Così la ragazza aveva finito per accettare l’incarico, e di questo ne sarebbe rimasta grata fino alla sua vita successiva. Si poteva quasi affermare che la malattia della puledrina l’aveva salvata da morte sicura!

Solo che adesso toccava al padre fare la sua parte in quella giornata. Doveva guidare i suoi aviatori alla ricerca del mostro, e impedire con ogni mezzo che ad altre città toccasse la stessa sorte di Manehattan.

Si sentì urtare il fianco da una gomitata. Non era un colpo violento, anzi avrebbe riconosciuto quel particolare tocco fosse stato anche bendato e in mezzo a una folla: era Bullseye, il suo migliore amico e l’unico che non si lasciava influenzare dalla particolare aura di mito che aleggiava intorno al Luogotenente. Era di un manto bianco, candido e brillante, con una criniera rosso lampone sulla quale dominava sporgente un generoso ciuffo a banana, il suo cutie mark rappresentava un bersaglio per il gioco delle freccette.

«Tutto ok Young Dart? Hai bisogno di parlare?»

Silver lo guardò accigliandosi. «Perché me lo chiedi?»

«Beh, tanto per dirne una, qui dietro lo si nota che non sei particolarmente su di giri.» Gli fece notare in tono scanzonato, quello che si dedica solo agli amici di lunga data.

Il pegaso dalla criniera d’argento diede uno scorcio ai due Wonderbolts che li seguivano sotto pesante sforzo. Suoi loro volti, oltre alla fatica, era tangibile l’angustia per gli avvenimenti recenti. Chissà che aspetto doveva avere lui, si domandò.

«Sono preoccupato» Disse a voce più bassa, abbastanza per non essere udito dagli altri.

«Per la missione o per… » sospese la frase.

Con un cenno del capo, Silver confermò la seconda. «Non riesce a riprendersi, e sono ormai quattro giorni che è bloccata a letto. Non so proprio come comportarmi quando fa così.»

Il timore per la salute di sua figlia era presto spiegato anche a causa della scomparsa della moglie. Ai tempi l’impatto della notizia lo aveva sconvolto fin nel profondo, e più volte si era trovato a pensare che se fosse stato uno stallone con uno spirito combattivo più debole del suo, sarebbe crollato dinanzi agli eventi senza alcuna possibilità di risalire.

Da quel giorno divenne più arduo mostrarsi composto in pubblico, e questo Bullseye lo sapeva bene.

«Te lo dico da sempre: secondo me dovresti solo lasciare che la malattia faccia il suo corso. Sono bambini, ogni giorno sono a contatto con non so nemmeno quanti milioni di germi diversi, è normale che si ammalino. È il sistema immunitario che deve farsi i muscoli per quando cresceranno, o qualcosa del genere.»

Sì, era quello che ai tempi aveva riferito il pediatra a Silver, e che lui a sua volta aveva raccontato a Bullseye, ed ora Bullseye glielo stava restituendo.

Il Luogotenente annuì, continuando ad aprirsi. «Poi questa storia dell’attacco non ha certo migliorato le cose. A noi è andata di lusso, ma gli altri? Quelli che sono stati presi in pieno?»

Senza accorgersene stavano rallentando, e nel frattempo udivano i battiti delle ali dei due pegasi dietro farsi sempre più vicini. A quella distanza lo avevano quasi certamente sentito, nonostante il fischio dell’aria stesse ammantando la sua voce.

«È un casino sì. Ho dei cugini che stanno dalle parti di Columbine Circle.» Confessò Bullseye.

Silver Sprint sgranò gli occhi per lo stupore.

«Stanno bene, ho chiesto un po’ in giro prima di partire.» Lo rassicurò, e a quel punto la velocità di entrambi riprese il s scatto regolare. «Quello che è successo in città non lo augurerei a nessuno. Ma lo sai? Voglio essere ottimista! Quella bestia è stata pure così gentile da lasciarci una pista da seguire… » infatti non c'rano solo delle impronte a testimoniare il suo passaggio: talvolta allo squadrone capitava d’imbattersi in interi boschetti sventrati, oppure in enormi frane che erano crollate dal fianco di una montagna. «Dobbiamo solo trovarlo, e a quel punto ci penseranno le Principesse a toglierlo di mezzo!»

“E le Custodi” pensò Silver tra sé e sé, ricordandosi di quella Rainbow Dash e del suo Elemento della Lealtà.

«Senti amico, te la ricordi quella serata al Warm Flank?» Uno strano sorriso si tracciò sulla bocca di Bullseye.

«Aha… » rispose l’altro in tono ambiguo.


Eccome se la ricordava, quella serata! Si trattava di un Club notturno nel quale avevano festeggiato l’addio al celibato di un loro sotto-ufficiale, quasi due anni prima (data antecedente di qualche mese al terribile lutto che si sarebbe abbattuto sulla sua famiglia). Avevano brindato con sidri di ottima qualità, intrattenendosi poi (alcuni dei partecipanti) con belle e bendisposte giumente. Poi, dopo aver calato il bicchiere della staffa, lui e l’amico erano usciti nel cuore della notte, ubriachi ed euforici, sfidandosi (non ricordavano da chi fosse partita l'idea) a una gara di velocità. Bullseye era svelto, un aviere molto capace ed esperto, che tuttavia non era mai riuscito a superare il livello di Silver Sprint.

Il Luogotenente era solito prenderlo in giro, affibiandogli la colpa della disparità al suo ciuffo, che a sua detta era “poco aerodinamico”.


«Bene, vedi quel rilievo laggiù?» Indicò la collina che si frapponeva fra loro e il Sentiero. Il pegaso argentato temette per ciò che sarebbe successo da lì a poco, ma decise ugualmente di dare un po’ di spago all’amico.

«Prova a starmi dietro!» Lo provocò, schizzando nella direzione indicata.

“Non ci credo, vuole farlo sul serio?”. Si girò verso gli altri due Wonderbolts. «Voi due non perdete di vista le impronte.» Disse severamente.

Gli aviatori si scossero, spalancando le bocche, provando quasi a obbiettare, ma a quel punto Silver aveva già coperto metà della strada che lo distaccava da Bullseye.

In realtà sapevano entrambi che ci poteva essere un solo e unico vincitore in quelle competizioni, ma non erano questi i reali intenti del pegaso dalla criniera lampone.

Bullseye, sentendolo arrivare espose un ghigno di trionfo. Era ciò di cui l’amico aveva bisogno, qualcosa che lo separasse dalle sue preoccupazioni. Pochi secondi e Silver lo aveva già superato con un guizzo fulmineo, e la gara continuò a posizioni invertite. Bullseye non dovette neppure fingere d’impegnarsi, il suo amico era veramente il più veloce di tutti.


I due si conobbero ai tempi dell’Accademia. Stesso plotone ma caratteri contrapposti. Silver Sprint dai primi giorni era stato un cadetto modello, sempre attento e ligio agli ordini del Sergente Istruttore, tanto che ben presto i suoi superiori cominciarono ad attribuirgli il nomignolo di “Young Dart”, poiché era ciò che sembrava quando lo vedevano librarsi tra gli ostacoli del campo d’addestramento.

Bullseye era invece uno dei massimi esperti in una disciplina molto in voga in un’ampia fetta di pegasi: la pigrizia. Quando si trattava di volare era un vero asso, un talento di natura, forse persino migliore del pony dai capelli argentei. Ma questo lo rendeva esuberante e spavaldo, troppo sicuro di sé, e di conseguenza, posto sotto una cattiva luce agli occhi dei Wonderbolts più anziani. I due finirono per entrare in competizione praticamente dal loro primo giorno di camerata, in uno scontro di tecnica e talenti che ben presto si tramutò in una guerra in campo aperto, al punto che da rivali, i due divennero acerrimi nemici.

La faida proseguì in una lotta senza quartiere per due lunghissimi anni, mietendo vittime sia da una che dall’altra ala. Silver Sprint, per essere al passo con le abilità della nemesi, decise di sacrificare parte del proprio programma di studi sviluppando tecniche di volo uniche e audaci, mirate al solo fine di superare di livello il suo avversario. D’altra parte, Bullseye cominciò a pagare lo scotto per la sua condotta poco responsabile. Ancora valente come aviatore, era però incapace di contrastare la forza di volontà e l’impegno dell’altro.

Così accadde che quando non vi fu più spazio per le competizioni, passarono al vilipendio e alle azioni di sabotaggio reciproco. Furono richiamati innumerevoli volte e talvolta sospesi dall’addestramento, fino ad arrivare persino a causare un grave incidente quando Bullseye manomise il macchinario per la creazione delle tempeste artificiali, scatenando un nubifragio che per poco non rase al suolo gli edifici dell’Accademia.

Quel giorno Silver Sprint e Bullseye furono costretti a mettere ordine al disastro che avevano combinato, il tutto mentre il Capitano, dal suo  sconquassato ufficio, decideva per il loro futuro.

Erano all’aperto, tenuti sotto rigida osservazione da un ufficiale incaricato a supervisionare la pulizia, che proibiva loro qualsiasi forma di contatto o interazione, perfino visiva (non voleva rischiare che sfociassero in ulteriori conflitti). Meglio così, aveva pensato Silver, perché non era nell’umore di discutere col compagno.

Per passare il tempo, cominciò a rimuginare con intensità su quanto era avvenuto, e solo allora si rese conto di quanto stupidamente si stava scavando la fossa da solo, dopo aver toccato il fondo già da un sacco di tempo. Essere in competizione con un altro pegaso, anche solo odiandolo con tutto il cuore, non valeva il suo futuro come Wonderbolt in Accademia, tanto più se quell’odio rischiava di mettere in pericolo la sicurezza degli altri pony, sprecando i proprio sogni e macchiando la propria reputazione in nome di una rivalità infantile che non portava da nessuna parte.

Promise a se stesso che non ci sarebbe più ricascato, così decise di fare qualcosa che avrebbe dovuto pensare già da tempo. Fu una decisione importante, che se avesse raccolto prima, avrebbe evitato molto di ciò che era successo nei mesi precedenti.

Arrivò il momento della pausa pranzo. Ogni pegaso sa che per volare in forma deve nutrirsi bene e bilanciare attentamente la propria dieta, e a nessuno, per quanto rinnegato che fosse, dovrebbe essere negato il proprio diritto a volare, pertanto il cibo era sempre garantito, anche al più insubordinato dei cadetti. Ai due era stato però proibito di avvicinarsi alla mensa, pertanto si dovettero organizzare all’aperto, seduti per terra e distanti l’uno dall’altro. L’ordine era di consumare il loro rancio di fretta per poi rimettersi immediatamente al lavoro, ma per una negligenza del loro sovrintendente, che aveva anticipato l’ora del cambio-turno, si erano ritrovati per alcuni minuti da soli.

Silver Sprint mangiò velocemente il proprio, quindi si alzò e si mosse con fare prudente verso lo storico nemico.

Il Pegaso dalla criniera lampone se ne accorse, mettendosi subito sulla difensiva. La sua espressione divenne un quadro truce e minaccioso, ringhiando come fosse un lupo del legno. «Che vuoi?! Vattene o mi metto a fare casino, lo giuro su Celestia!»

Erano entrambi tesi, vedendoli da fuori qualcuno avrebbero pensato che stessero per venire agli zoccoli di nuovo.

«Ho pensato a quello che è successo ieri. A quello che hai fatto… » disse Silver, ma poi si arrestò «a quello che IO ti ho costretto a fare.» Aggiustò il tiro. Se erano arrivati a quel punto, infatti, la colpa era stata anche sua.

Bullseye lo ispezionò scettico, chiedendosi cosa stesse tramando, ma dopo un po’ che erano rimasti entrambi in sospeso, qualcosa cominciò a smuoversi. Anche lui, dopo averci riflettuto a lungo, aveva intuito che erano arrivati sul bordo del precipizio, e se fossero caduti insieme, non ci sarebbero state ali capaci di risollevarli.

«Già, ho un po’ esagerato stavolta.» Ammise calando lo sguardo.

Silver fece una smorfia, interrogandosi se fosse sufficiente definirlo “esagerato”, ma non glielo disse.

«No, sai… » continuò «avevo girato quella manopola credendo di metterla su “Uragano”. Ma si vede che è si è fermata su “Maelström”, o qualcosa del genere.»

Era una battuta. Il pegaso argenteo provò l’impulso di ridire, ma di nuovo non si sentì pronto a condividere con lui una simile apertura.

L’altro notò la sua mancanza di reazioni, e gli chiese: «Volevi dirmi altro?» Ora il tono era sorprendentemente cordiale e rilassato.

«Credo di sì. Credo che sia arrivato il momento di finirla. All’inizio era divertente avere qualcuno con cui confrontarsi, con cui mettersi alla prova. Ma sai, questa cosa ci è sfuggita di zoccolo ormai! Quello che è successo ne è la prova.»

«Già, infatti… »

«Voglio solo diventare un bravo Wonderbolt un giorno, qualcuno che la gente guardi con rispetto! Non voglio buttare al vento una grande occasione solo per colpa di una rivalità che non ho neppure iniziato io!»

Bullseye lo guardò storto. «Fermo, stai forse insinuando che la colpa è mia?!»

Silver si morse il labbro, punendosi per la sua audacia. «No… senti, chi se ne frega, ok?! Voglio solo voltare pagina e fare in modo che non si ripeta! Ho sbagliato a rispondere al fuoco, lo so, e mi prenderò le mie responsabilità. Ma se avrò ancora un’occasione di restare qui, in questa Accademia… non ho intenzione di sprecarla facendoti la guerra in ogni sacrosanto momento!»

«No, infatti. Neanch’io lo voglio se è per questo… » farfugliò l’altro, grattando un po’ di terra con la punta dello zoccolo.

«E allora perché non ci fermiamo? Invece di sbarrarci il passo a vicenda, perché, che ne so… non diventiamo amici?»

Con quella frase aveva fatto centro, anche se non se ne rendeva ancora conto. In quel momento i muscoli facciali di Bullseye si distesero, formando nuove espressioni. «Tu ed io? Cioè, vuoi dire… TU ed IO?»

«E’ così difficile da immaginare? Tu sei bravo di natura, io sono uno che si impegna molto. Potremmo continuare a metterci alla prova insieme, senza però ostacolarci l’un l’altro!»

«E continuare lo stesso a frequentare l’Accademia… » rifletté Bullseye ad alta voce, la proposta in effetti gli suonava invitante.

«Beh, questo dipenderà da cosa deciderà il Capitano… »

Proprio in quel momento, come se fosse rimasto in ascolto, un ufficiale Wonderbolt corse verso di loro sbraitando a tutto volume.

«… a proposito, guarda chi arriva.»

Era il Sergente Istruttore del loro plotone, che aveva visto sul nascere e poi evolversi fino a degenerare la loro rivalità. Non sembrava contento di vederli intavolare una conversazione così ravvicinata.

Bullseye nel frattempo si era alzato e aveva colpito Silver con una gomitata. Lui fece per protestare, ma fu stoppato da un’esclamazione entusiasta del compagno di punizione.

«Sì!» Disse Bullseye, esibendo un sorriso raggiante.

«Uh?» Silver lo guardò, ma non era sicuro di capire a che cosa alludesse.

«Voglio essere tuo amico, Young Dart!» Gli confermò lui, e a quel punto si trovarono davanti il faccione incollerito del loro superiore.

Fu così che cominciò tutto.

In seguito si rivelò non poco difficile convincere il Capitano (e con lui tutto l’istituto) dell’improvviso cambiamento avvenuto nei due pegasi. Nessuno reputava plausibile il voler diventare amico di qualcuno che per tanto tempo si era solamente cercato di distruggere. Ma loro dimostrarono a tutti in contrario, salvando il proprio banco in Accademia e la loro nascente carriera. I Wonderbolts, tra le altre cose, avevano bisogno di elementi talentuosi come loro per portare avanti l’orgoglio del corpo militare, pertanto un’espulsione dal corso era da ritenersi fuori questione.

Per tutti gli scettici, il tempo diede presto ragione ai due, e tra Silver Sprint e Bullseye nacque una profonda fratellanza, che avrebbe continuato anche dopo il loro periodo di formazione, e che niente al mondo avrebbe potuto infrangere.

Fu Bullseye a fargli conoscere la giumenta che un giorno sarebbe divenuta sua moglie, e aveva di buon grado accettato di essere il padrino di Lil’ Wing, quando questa era venuta al mondo. In seguito, quando Silver divenne vedovo in quello sfortunato incidente, fu grazie al suo supporto che riuscì a resistere, trovando la forza per andare avanti.

Essere un modello per le nuove leve, un mito per le masse, e allo stesso tempo un padre amorevole e attento. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza il sostegno del pegaso dalla chioma lampone, e dal cutie mark a forma di bersaglio…

 

Quel giorno avevano un compito da rispettare, dovevano trovare la creatura e fare rapporto in città, affinché chi di dovere sapesse dove andare e cosa aspettarsi una volta arrivato. Ma quella puledresca gara che stavano ingaggiando nel cielo era allo stesso modo importante, tanto quanto lo erano gli ordini dei superiori. C’era qualcosa di speciale nell’atto di competere che chi non conosceva i loro trascorsi in Accademia non avrebbe mai potuto immaginare.

Bullseye cercò di stare al volo di Silver Sprint, svuotando progressivamente le proprie riserve d’energia. In cuor suo s’illudeva di riuscire ancora a vincerlo in una gara, anche se ne erano trascorse di lune da quando competevano quasi a pari livello.

Cercò di trarre una stima di quanto distacco lo divideva dal Luogotenente, e per un momento gli sembrò di avere quasi guadagnato terreno, quando… anzi no! Non era un’impressione! Silver Sprint stava perdendo velocità, e ora la sua sagoma distante s’ingrandiva, occupando sempre di più il suo campo visivo. Mancava ancora poco al raggiungimento del rilievo che Bullseye aveva segnato come punto d’arrivo, e forse ce la poteva ancora fare se solo si fosse focalizzato sul superamento dei suoi limiti!

Il pegaso dalla criniera argentata si fermò tutto d’un tratto, senza completare la tratta. L’altro per poco non gli finì addosso, evitandolo per un soffio con una virata secca verso sinistra.

“Che gli è preso?” Si domandò Bullseye, ma non gli diede troppa importanza. Lo aveva superato finalmente! Ora aveva l’occasione di portare a casa una vittoria, e di potergli sbattere in faccia che era riuscito a…

Poi la vide, la stessa cosa che aveva visto l’amico, e anche lui si fermò, dimenticandosi completamente della gara.

Oltre alla collina, tra le punte della catena montuosa di Hollow Shades, le impronte del mostro proseguivano giù per un avvallamento dove anemici ciuffi di verde tentavano di crescere su di un terreno sterile e pietroso, e nel punto in cui s’innalzava un ampio e sovrano crinale, il Sentiero incontrava il suo  termine in un enorme cunicolo, scavato dentro roccia. La grotta, alta decine di metri, era occultata sul lato sinistro da un'alta dorsale, la quale proiettava la propria ombra sulla soglia del varco. Sembrava che il mostro l’avesse scavato da poco, forse partendo da un cunicolo più piccolo che era già aperto in precedenza. Cumuli di terra e roccia alti come una casa ostruivano in parte il passaggio, che comunque era sufficientemente ampio da lasciare un varco per qualunque creatura avesse avuto la sfrontata idea di volerla esplorare.

«Che Celestia mi colpisca… » commentò Bullseye, che si era riunito col proprio gruppo. Tutti e quattro insieme erano poi atterrati a breve distanza, in un punto rialzato dal quale poterono contemplare il varco in tutta la sua interezza, e con lo stupore nelle pupille e sulla bocca.

«Ok, o c’è un’Ursa Major che si dedica all’edilizia, oppure abbiamo trovato la tana del mostro. Cosa facciamo, Signore?» Davanti agli altri aviatori, Bullseye si rivolgeva a lui con l’attributo formale, così come gli veniva imposto dalla differenza dei gradi.

Silver Sprint era rimasto con gli occhi sbarrati come tutti gli altri, sprofondando con la mente nell’oscurità che emergeva dall’antro. «Proviamo a entrare.» Disse. «Vediamo fino a che punto si è addentrato, in caso poi decideremo il da farsi.»

Al pegaso dalla criniera lampone, però, l’idea non piacque per niente, e non mancò di farlo notare. «Signore, non lo so. È sicuro che sia una buona idea?»

«Preferirei di no, ma non abbiamo scelta.» Ammise strenuamente. «Dobbiamo essere certi che sia davvero là dentro, che non si sia addentrato nelle viscere della terra. Consideriamo anche il fatto che potrebbe essere emerso da qualche altra parte. Non possiamo fare rapporto senza prima avere la certezza che si trovi realmente laggiù.» Si girò verso gli altri avieri. «Ascoltate pony, non so che cosa troveremo una volta entrati, ma qualsiasi cosa sia dobbiamo essere pronti e affrontarla insieme. Io non intendo lasciarvi, sappiatelo. Ma prima di procedere devo essere sicuro che voi tutti sarete altrettanto fedeli a me. Lo sarete, Wonderbolts?» I pegasi, anche se provati dal ritmo di volo, annuirono energicamente. Silver quindi guardò di traverso e con un solo occhio l’amico. «E tu, Bulls?» Chiese aspettando.

Le labbra di Bullseye si strinsero, mentre lottava contro il disagio. «Uhm, ho idea che ci cacceremo nella gola del drago… beh, non posso certo disertare, Signore… » concluse.


La caverna era tanto buia quanto immensa. Sembrava quasi che la luce ne venisse divorata non appena tentasse di penetrarvi.

I quattro avanzarono a zoccoli, marciando in gruppo senza fare alcun rumore.

Silver Sprint, intanto, studiava l’ambiente per quanto la visibilità glielo permetteva: le pareti erano solcate da segni di artigli riconducibili alla creatura, simili a quelli riscontrati su alcuni palazzi in città, e terra e roccia sulle superfici irregolari erano schiacciate verso i bordi e compresse da una forza spaventosa. Una nebbiolina sottile e invadente, che in realtà era polverio, aleggiava nell’aria impregnandola dell’odore del limo. Tutti segni inconfondibili che qualcuno vi aveva scavato da poco tempo.

Qualcosa si staccò dal soffitto, e i quattro si allarmarono quando udirono l’acuto tuono della roccia che cadeva da qualche parte più in là. Man mano che avanzavano, diventava così buio che oramai a fatica riuscivano a distinguere i contorni del condotto.

«Mi raccomando, occhi bene aperti! E fate attenzione a cosa vi circonda!» Bisbigliò Silver.

«Sì, e soprattutto se vedete il mostro, NON mettetevi a gridare!» Aggiunse Bullseye. Era un buon consiglio, articolato dalla paura, ma corretto. Il Luogotenente non obbiettò.

Continuarono così ancora per un po’, fino a quando il budello non si allargò in una camera più grande e meglio illuminata, che al contrario di quanto avevano percorso fino ad allora, era di origine naturale. Equestria era piena di luoghi come quelli, scavati dagli elementi nel corso dei millenni. Rifugi ideali per creature giganti, come quella che stavano cercando.

Un bagliore azzurrino si propagava da una fonte sconosciuta, merito dei cristalli di luce molto comuni in posti come quello, che riflettevano i loro sfavilli da una parte all’altra della grotta.

«Che meraviglia! Se non fosse che me la sto facendo sotto, sarei quasi tentato d’incantarmi!»

«Sshh! Non adesso Bullseye, fai silenzio!» Lo richiamò Silver.

L’eco delle loro voci si accompagnò a quello delle gocce di condensa che precipitavano dal soffitto, contribuendo a generare un’atmosfera d’isolamento e d’immensità, come se i quattro pegasi si fossero estromessi dal proprio posto nell’universo per essere risucchiati in un differente piano fisico, nel quale erano i primi a occuparne virtualmente lo spazio.

Ma non era realmente così, c’era anche qualcos’altro con loro; suoni e odori estranei, che non ci dovevano essere in un posto come quello, e qualcosa che rantolava costantemente nell’ombra, squotendo l’aria nella caverna.

Lui era lì, e i Wonderbolts lo capirono subito, anche se non riuscivano ancora a vederlo. Si congelarono sul posto guardandosi attorno, cercando disperatamente, prima che fosse Lui a trovare loro…


Un lasso di tempo indefinito era trascorso da quando era sfuggito all’isola grigia e si era ritrovato a vagare per la terraferma, alla ricerca di un posto che gli ricordasse da dove era venuto. Delle scene precedenti all’Amnesia ricordava solo pochi frammenti, schegge di suoni e colori, che talvolta prendevano la forma d’immagini in movimento.

Era venuto al mondo all’interno di un utero, per questo sapeva di essere giovane. Ma dove fosse sua madre e perché si fosse risvegliato nel bel mezzo di uno scenario da caos, questo gli mancava.

La grotta in cui si era rintanato era la cosa più simile al grembo materno in cui cercava di tornare, ma anche lì, a parte il confortevole buio e l’umidità che lo teneva idratato, c’era qualcosa di venefico che continuava a bruciargli la pelle.

Mentre cercava di dormire, le Voci che fino a poco prima gli gridavano da dentro la testa, man mano che scorreva il tempo, decrebbero della loro insistenza, fino a ridursi a dei sussurri velati. Per poi dileguarsi. A un certo punto cominciò addirittura a convincersi di non averle mai udite, come se fossero solo frutto della sua immaginazione, mischiate alla paranoia e alla frustrazione di trovarsi in un pianeta alieno.

Una cosa però la ricordava con assoluta certezza: le piccole creature colorate che aveva conosciuto sull’isola grigia, gli abitanti nativi di quel mondo inesplorato. E anche una proiezione di loro che lo attaccavano, sebbene gli sfuggisse la ragione di una tale condotta ostile. Forse la risposta era celata nei ricordi che l’Amnesia gli aveva sottratto, anche se non c’era modo di estrapolare quelle date informazioni dal suo subconscio frammentato.

Di queste creature, quattro erano appena entrate nella sua grotta, e i suoi sensi le avevano captate ancora quando non avevano varcato la soglia del suo rifugio. Le sue narici ipersensibili al più piccolo degli odori, e le sue orecchie acute e infallibili, sentivano meglio di quanto non vedessero i suoi soli occhi cerei.

Nel buio stretto e avvolgente della grotta, aveva sperato che le piccole creature se ne andassero prima di arrivare a Lui, desistendo così dalla loro ricerca. Ma ora che erano dentro, non sapeva come agire, sentendosi intrappolato in un corpo enorme, inquieto e goffo.

Avvertì l’impulso di attaccarle, per salvaguardare così la propria incolumità, ma soppresse il desiderio, temendo per le conseguenze delle sue azioni. Dopotutto non sapeva niente di quelle creature.

Poi uno strano lampo nel suo cervello gli mise in luce un nuovo pezzo del mosaico: Lui che attraversava la loro città, e le piccole creature che fuggivano indifese e spaventate, così impotenti dinanzi alla sua forza.

Quindi era Lui l’essere malvagio? Il demone che sfuggiva alle sue stesse vittime?

Ma allora perché non stava provando lo stesso desiderio ADESSO? Quel ricordo non aveva nulla a che spartire con le sue attuali intenzioni, eppure a giudicare dalla nitidezza di quelle scene, doveva essere avvenuto per davvero. Non un altro figlio della fantasia, quindi, ma una testimonianza dei fatti attendibile.

Se tutto ciò facesse parte di un disegno più complesso, c’era ancora troppa confusione dentro di Lui perché potesse vederne i reali contorni.

La sola cosa che desiderava adesso era di poter restare in quella grotta ed esser lasciato in pace. E per farlo doveva scacciare quelle quattro piccole creature, in un modo o nell’altro.


Mosse in alto una zampa, come per dar loro un avvertimento…


… e nel farlo urtò il soffitto già incrinato dal suo primo passaggio, facendo vibrare la grotta in un boato che si tradusse a sua volta in un ruggito bestiale. Poi tutto cominciò a implodere in una cascata di rocce e pietrisco, che minacciò di seppellire i pegasi all’interno.

Silver Sprint fece giusto in tempo a ordinare agli altri di disperdersi e cercare un riparo, che la situazione nella caverna diventò sconnessa e frenetica. Riconobbe la sagoma del mostro che si spostava nella penombra, e gli sembrò incredibile che proprio quella silhouette più chiara, che in precedenza gli era parsa solo una parete di roccia giallastra, fosse in realtà il fianco di destra dell’animale gigante. Vederlo così immenso, così rumoroso, gli fece perdere per un attimo la speranza di riuscire a cancellarlo da Equestria. Poi si ricordò che il soffitto gli stava letteralmente crollando sulla testa, e sì unì agli altri nella disperata ricerca di un riparo, evitando blocchi di pietra grandi come bisonti, che si sfracellavano a terra rimbombando per tutta la sala.

Pochi secondi, quanto durò la frana, poi il mostro emise un altro dei suoi lamenti grotteschi e si accosciò a ridosso della parete. Il tempo parve ritornare al silenzio.

Silver Sprint si era salvato rannicchiandosi in un angusto spazio tra due rocce, che lo avevano protetto dai detriti più corpulenti, ma non da un pezzo più piccolo, il quale cadendogli su una spalla gli aveva provocato un’abrasione sotto lo strato di peli.

«Ehi, gente… *coff, coff*… State tutti bene? Dove siete?» Tossì e si alzò, scrollandosi di dosso la polvere, tentando di muoversi trascinando la zampa.

«Signore, sono qui!» Ricevette subito una risposta da uno dei pony dello squadrone, che emerse da dietro un cumulo di materiale, ora occupante gran parte della sala. Questi immediatamente corse a offrire il suo aiuto al superiore.

«E l’altro pegaso? E Bullseye?» Chiese il Luogotenente preoccupato, ma la risposta del Wonderbolt fu sconfortante: non li aveva visti.

Insieme guardarono lo spazio oltre il quale si estendeva il resto della grotta. Il mostro era lì, immobile e silenzioso, come fosse caduto in una sorta di letargo.

«Ehi, quaggiù! Volate, presto! Ci serve assistenza!» Il richiamo arrivò imprevisto dalla voce del quarto aviatore.

Non persero tempo ad interrogarsi. Silver si scostò educatamente dalla spalla che gli aveva offerto il pegaso, quindi si mossero con urgenza nella direzione del richiamo.

Trovarono lo stallone, che usciva ferito e con la divisa a stracci da una parete di detriti: era in quel punto che si era verificato il crollo più grave. Il Luogotenente e il suo assistente lo aiutarono a rimettersi sugli zoccoli, poi procedettero subito alla confutazione del suo stato.

«Qualcosa di rotto, ragazzo? Le tue ali sono a posto?»

«Sì, Signore. È tutto ok.» Rispose mentre tutto il suo corpo fremeva per lo shock. «Io sto bene. Ma Bullseye è rimasto intrappolato lì dentro!» Indicò proprio la massa da cui lo avevano appena estratto.

«Cosa?!» Sbraitò Silver, e al grido si unì anche un lamento del mostro, che era stato infastidito dall’eco. Quando capirono che non vi era pericolo che si muovesse di nuovo, tornarono alla discussione.

«Sì… si è intromesso per salvarmi la vita, mi ha spinto via mentre il soffitto ci cadeva addosso. Io… non sono riuscito a muovermi, Signore… »

«Capisco… » inclinò la testa con amarezza. Era tipico di Bullseye, quello che conosceva. Sempre generoso e altruista, anche se da sempre avventato e incosciente.

«È tutto ok, ma adesso aiutatemi a tirarlo fuori da lì, per favore!»

Si accucciarono davanti all’ammassamento, irregolare e alto diversi metri, cercando di scoprire se vi era un punto nel quale era possibile penetrare un po’. Silver Sprint nel frattempo chiamò l’amico a gran voce per cercare di localizzarne la posizione. «Bullseye, riesci a sentirmi? Ci sei lì dentro?!» Ma non ricevette risposta, e allora la sua ansia salì. «Bulls’!» Fece più forte.

Stette per mollare, abbandonandosi alla realizzazione di avere appena perso uno degli elementi più importanti della sua vita (un altro), quando le sue orecchie captarono un suono che gli restituì il sorriso.

«Silver, per Celestia riesci a sentirmi?!»

Finalmente era lui!

«Sia ringraziata lei! Come sei messo là sotto, riesci a muoverti?!» Dovette gridare, dato che era l’unico modo per comunicarci, anche se ciò rischiava di far innervosire ulteriormente il titano.

Nel frattempo cominciò a scavare.

«Mi è andata di lusso, beh più o meno... le rocce hanno formato una specie di sacca d’aria, e quindi starò a posto per un po’, ma qualcosa mi sta bloccando le zampe!»

«Ti tireremo fuori in un attimo, non ti preoccupare! Nel frattempo tu risparmia l’ossigeno e cerca di resistere quanto più riesci!» Scavava e scavava, e anche gli altri pegasi si erano uniti nel compito, spostando blocco per blocco la massa inerte che lo ricopriva.

«Nossignore, non farlo! Fermati!»

Silver per un momento si convinse di avere capito male, e continuò. Sollevò con le proprie zampe anteriori un altro pesante blocco, accusando la contusione alla spalla, quindi digrignò i denti e lo issò flettendo le ginocchia, lanciandolo dietro di sé, provocando un altro acuto eco nella caverna.

«Sil’, mi hai sentito? Non farlo ti ho detto, fermati subito!» Insistette con maggiore impellenza il pony sepolto.

A quel punto ne era certo. «Cosa c’è Bulls’, qual’è il problema?!»

«Ricordati la missione» gli disse «non è per questo che siamo venuti fin qui! Devi ritornare a Manehattan e avvisare le Principesse!»

«Vorrai scherzare?! Io non ho intenzione di lasciarti lì dentro a soffocare!»

«Dovrai farlo invece! Per piacere Sil’, devi comunicare a tutti che lo abbiamo trovato! Se non lo fai poi quello se ne va, e tutta questa storia ricomincerà da capo!»

Aveva ragione purtroppo, Silver lo dovette riconoscere, anche se farlo gli provocò una fitta di dolore al cuore che gli intorbidì i pensieri.

«E con te che facciamo? Non posso certo pensare alla missione sapendoti là sotto!»

«Io me la caverò, va bene?! Per un po’ dovrei farcela. Se voi mi diseppelliste sarebbe comunque inutile, perché senza qualcuno che ci aiuti con la magia, io da qui non esco!»

Il pegaso dalla criniera argentata si rimise sugli zoccoli elaborando in silenzio. Doveva trovare una soluzione per entrambi i problemi, sia per il Titano che per Bullseye.

«Sei ancora lì, Sil’?» Domandò di nuovo il pegaso dalla criniera lampone.

«Sì, amico. Sì!»

«Beh, allora facciamo che se la prossima volta che te lo domando tu non mi sarai ancora partito, allora m’incazzerò di brutto! Muoviti adesso, non perdere altro tempo!»

Silver prese la sua decisione, anche se qualcosa dentro lui si rifiutava di accettarlo. Smise di scavare, rialzandosi da terra, e ragionò su quanto ci sarebbe voluto per andare e tornare da Manehattan, considerando anche il tempo necessario ad avvisare le Principesse e condurre a destinazione i rinforzi. «Bullseye… sei sicuro di ciò che mi chiedi? Posso lasciarti qui sapendo di ritrovarti al mio ritorno?» Pose ad alta voce.

La risposta non tardò ad arrivare. «Affermativo, Signore! O se preferisci: sì Young Dart!»

Allora era deciso.

Respirando affannosamente, si rivolse agli altri pegasi con le frasi contratte, nello sforzo di impartire un ordine al quale avrebbe volentieri disubbidito per primo: «Voi restate con lui… evitate di farlo parlare per ora. Non fategli consumare la poca riserva d’aria che gli rimane, ma  ogni tanto assicuratevi che sia almeno cosciente.» Lanciò un’ultima occhiata verso la creatura semi-dormiente. «Io farò più in fretta che posso, ma se quello dovesse svegliarsi, o peggio… se mai dovesse decidere di uscire, uno di voi è incaricato di seguirlo fino a quando non si sarà fermato di nuovo. L’altro dovrà invece restare qui a fare compagnia a Bullseye. Non lasciatelo da solo, mi raccomando!» I due pegasi assentirono ai suoi ordini, quindi si misero d’accordo a gesti di capo su chi dovesse fare che cosa. «Presto porterò i rinforzi, e allora potremmo finalmente dare un taglio a questa faccenda, ve lo prometto!» Terminò in fretta il Luogotenente.

A quel punto volò fuori dalla grotta, più velocemente di quanto non avesse mai volato nella sua lunga carriera, toccando davvero per poco l’accelerazione necessaria al completamento del leggendario Arcoboom Sonico.

Non ci era mai riuscito, meditò durante la traversata. Per anni aveva creduto che fosse solamente una menzogna, una favola raccontata dai papà per incantare gli occhi dei loro piccoli futuri campioni, proprio come faceva lui stesso con piccola Lil’ Wing, malata d’influenza. Ma poi Rainbow Dash aveva cambiato tutto, dimostrando che a volte il confine tra sogno e avverazione è più sottile di quanto uno non si aspetti.

Anche lui ci avrebbe provato, un giorno, ad avverare quel sogno. E per allora Bullseye avrebbe avuto un altro motivo per desiderare la sua sconfitta. Doveva soltanto completare la loro missione, salvando così Equestria, e con essa il suo migliore amico.


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La luce del tramonto che filtrava dalle grandi vetrate ogivali illuminava il tavolo da lettura davanti alla quale era seduta, con grazia e compostezza, la Custode della Gentilezza.  

La Biblioteca di Manehattan era un luogo dove la cultura e la sete di conoscenza si amalgamavano con l’eleganza e l’architettura in una sinfonia di emozioni che andavano al dì là del mero atto della lettura di un tomo. All’entrata, di fronte alla facciata in marmo, si restava sbalorditi dalle due imponenti statue di manticore messe a guardia dell’edificio, e una volta dentro, ci si perdeva con la vista davanti alle sconfinate file di ripiani in legni pregiati che straripavano di volumi contenenti l’intera storia di Equestria. Per quanto ben fornita, neanche la Biblioteca Reale di Canterlot poteva vantare il grande assortimento di documenti contenuti in quelle stanze. Le numerose sale di lettura poi, ampie e spaziose, potevano ospitare centinaia e centinaia di visitatori che all’occorrenza, se volevano avvalersene, potevano usufruire di diversi terminali elettronici contenenti l’archivio completo del materiale della biblioteca. Un tocco di modernità targato Reborn Technologies, che forse stonava un po’ con lo stile anacronistico dell’edificio, ma che salvava la giornata a tutti coloro che, trovandosi in difficoltà ad orientarsi tra le alte librerie e i numerosi ripiani spesso raggiungibili solo con le scale, si risparmiavano così le conseguenti grane della ricerca. Ai bibliotecari questo non dispiaceva: invece di scovare personalmente i vari volumi cercati, sostituivano la propria mansione di un tempo col dover istruire gli ancora ignari visitatori su come interagire con i monitor touch screen e l’archivio virtuale contenuto nella memoria centrale.

A Twilight però tutto ciò non piaceva. Era cresciuta con l’usanza nostalgica di scovare personalmente i libri di cui era alla ricerca, imbattendosi poi spesso in testi di cui ignorava l’esistenza. Non era raro che, partendo col proposito di prenderne uno solo, si ritrovasse tutto d’un tratto a trasportare con sé intere torri pericolanti di libri sorretti magicamente dal corno. Com’era accaduto quel giorno.

Dopo aver completato il giro nella sezione dedicata ai misteri e alle leggende del regno, era tornata da Fluttershy con un carrello stracarico di volumi, fermandosi accanto a lei con un’euforia tale da non lasciare spazio all’interpretazione. «Ho trovato anche questi, li ho già visionati da me, ma se vuoi darci un’occhiata pure tu… può darsi che mi sia sfuggito qualcosa.» Disse dopo essersi parcheggiata e aver fatto caderne alcuni rovinosamente a terra.

Benché la biblioteca fosse solitamente gremita di studiosi o anche semplici curiosi in visita turistica, in quel momento appariva vuota e desolata, immersa in un silenzio pesante. Tutt’intorno tomi e pergamene erano sparpagliati per terra, abbandonati dai visitatori quando il Kaiju aveva assaltato la città.

La pegaso canarino guardò la documentazione portatale dall’amica. Si trovò a pensare che era tipico di lei, e sorrise dolcemente di rimando.

«Grazie Twi. Apprezzo davvero molto l’aiuto che mi stai dando.»

«Non è necessario, fidati. E poi è sempre un piacere per me quando si tratta di visitare posti del genere.» Fece una giravolta, ammirando i libri che ricoprivano ogni singolo spazio nelle pareti, dovunque si posasse il suo sguardo. «Lo sai, certe volte desidero soltanto chiudermi in posti come questo, e spendere tutta la mia vita a leggere quello che vi è contenuto. Non sarebbe fantastico? La polvere che si posa sulle rilegature, l’odore della carta antica e dell’inchiostro sbiadito… »

«Sì, sono certa che ci siano tante  belle cose da scoprire… » Rispose lei facendola ricomporre. Twilight capì immediatamente l’antifona e si affrettò a troncare. Ridacchiarono insieme, approfittando del fatto che in quel momento l’intero salone era completamente deserto.

«A proposito, hai scoperto qualcosa che ci può aiutare?» Riafferrò il discorso la pegaso.

«A dire la verità non molto.» Sospirò affranta l’alicorno. «Non ci sono molti libri che parlano dei Kaiju in modo approfondito. E anche se li citano, dubito che ci sia qualcosa di veritiero in queste pagine.» Passò in rassegna il materiale che aveva raccolto. «Secondo alcune teorie sono esseri spaziali, scesi sul nostro mondo con strane navi volanti o mandati da qualche civiltà nemica nel tentativo di conquistarci. Per altri sono invece agenti di Madre Natura, che agiscono contro i pony per punirli della loro mala condotta… » mentre parlava, si passava i libri tra sé e sé con la telecinesi.

«Di quale condotta parli? Perché mai Madre Natura dovrebbe voler punire i pony?» Fluttershy era perplessa, e trasmise lo stesso cupo pensiero a Twilight, che si mise a fissare il libro.

«Qualche sorta di guerra che avevano provocato in passato, non saprei. Comunque hai ragione, è stupida come cosa.» Gettò via il tomo con poca eleganza, prima e unica volta che avrebbe deliberatamente compiuto un’onta del genere.

«Ce n’è una che mi ha interessato particolarmente, però.» Disse riprendendo la sua cernita. «Si tratta di una romanzo. Narra di una lontana isola abitata da una coppia di Breezie, le quali hanno il potere di evocare una gigantesca falena benevola per proteggere il mondo quando qualcosa minaccia di distruggerlo. Ecco, in questo caso credo che il Kaiju assolva al ruolo di salvatore dei pony, combattendo al loro fianco contro altre creature malvagie.»

«Aww. Questa la vorrei tanto conoscere!»

«Anch’io… ma purtroppo sono storie di fantasia. Non esiste niente del genere al mondo.» Si appuntò il titolo del libro (“Mosura”, scritto in lingua orientale) e lo ripose con gli altri. Lo avrebbe cercato con più attenzione una volta ritornata a Ponyville. «Non siamo neanche sicure che il termine “Kaiju” sia azzeccato nel nostro caso. Forse si tratta di un altro tipo di creatura, e noi siamo qui a leggere di antichi miti e storie di fantasia.»

«Secondo me sei troppo pessimista, Twilight. E poi sei stata tu a voler fare delle ricerche a riguardo. Hai cambiato idea adesso?»

«No, lo so… sto solo cercando di analizzare i fatti. Stiamo cercando libri su delle vecchie leggende, mentre il pericolo lì fuori è reale e odierno, e non sappiamo nemmeno quando tornerà a colpire, né dove!» Da quando avevano cominciato, a stento era riuscita a contenere dentro di sé un dubbio. «Senti, te lo devo proprio chiedere. Sei sicura di poter comunicare col Kaiju? Voglio dire, sicura, sicura?»

Fluttershy piegò la testa sul libro che stava visionando. Un piccolo aracnide dal corpo marrone castagno e l’addome irsuto stava zampettando sulla pagina di sinistra. «Sai, Twilight. Ogni animale richiede un approccio diverso per comunicare con esso. Certe volte basta un semplice sguardo per capirsi… » lei e il piccolo essere a otto zampe si osservarono per un momento. Poco dopo questo abbandonò la propria posizione, calandosi giù dal tavolo appeso a un filo. «… e non parlo dello Sguardo, quello che intendereste voi. A volte ci vuole davvero molto poco per entrare in sintonia con le creature di Equestria… »

«Ma non sempre è così… » andò dietro al suo discorso l’alicorno.

«No, infatti. Certe volte devo adottare un approccio diverso, a seconda del tipo di creatura con cui mi trovo a che fare. Quelle più piccole sono fragili e spaventate, con loro occorre pazienza e una voce calma e garbata, non devono sentirsi in pericolo mentre ti rivolgi a loro. Altre volte, invece, mi trovo davanti ad animali più grandi e prepotenti. Con loro devo dimostrare di non avere paura, di sapergli tenere testa senza esitare. I predatori, per esempio, vedono l’esitazione come un segno di debolezza della preda, e attaccano di conseguenza.» Il ragnetto di poco prima stava formando una nuova tela sul ripiano basso di una delle librerie. Anche lui era un predatore, e avrebbe pasteggiato con il prossimo ingenuo insetto non appena qualcosa si sarebbe impigliato nella sua trappola. «Poi ci sono delle eccezioni alla regola. Alcuni animali sono veramente grossi, e potrebbero non sentire la mia voce quando mi rivolgo a loro, ma questo non toglie che potrebbero spaventarsi a morte a sentirmi gridare. Perciò devo stare attenta in quei casi, misurare l’intonazione in modo da non sembrare minacciosa.»

A Twilight fece sorridere che qualche animale potesse trovare “minacciosa” la sua amica. «Non sembra così difficile a sentirti parlare in effetti, al più ci vorrebbe un po’ di pratica per imparare.»

«Sì, perché io col tempo ho affinato questa dote e ora riesco a modularmi al volo in base alle necessità. È per questo che sono così sicura di poter comunicare col Kaiju. Credo… anzi no! Sono certa che si sia trattato soltanto di uno sgradevole equivoco, e quindi mi basterà parlarci per chiarire tutto.»

«Spero proprio che tu abbia ragione, amica mia» si struggé «lo spero con tutto il cuore. Perché altrimenti non so proprio che cosa inventarmi a parte gli Elementi dell’Armonia.»

«Te lo garantisco, Twilight. Ci riuscirò!»

Tanta sicurezza restituì un po’ di fiducia all’alicorno fucsia. Non era comune vedere Fluttershy così decisa nei riguardi di un incarico sensibile, ma del resto si trattava del suo campo d’esperienza. Se c’era qualcuno che poteva riuscire in un’impresa del genere, quella era senz’altro lei.

«Continuerò a cercare qui in giro, magari nell’archivio storico troverò qualcosa che a Celestia è sfuggito.» Disse Twilight, incamminandosi per il corridoio. «Mi troverai lì se avrai bisogno di me.»

Ricevette un cenno di risposta dalla pegaso, e allora si avviò verso la direzione iniziata. Fluttershy intanto prese a consultare alcuni dei libri che le aveva portato.

La giumenta dell’Armonia si avvicinò a una piantina delle sale che era appesa al muro. Sopra vi lesse le indicazioni per trovare la strada dell’archivio (conosceva bene le biblioteche di Canterlot e dell’Impero di Cristallo, ma quella era ancora tutta da scoprire), in effetti non era lontana dall’ala dedicata ai miti che aveva esplorato poco prima. Fece per procedere, quando proprio in quel momento una saetta color arcobaleno le volò incontro colpendola sul muso, scaraventandola per aria. Il manto della pegaso era imperlato di sudore e gli occhi, spalancati, danzavano da un estremo all’altro del viso. «Dash, ma che…» Fece per domandarle, ma fu troppo lenta.

«Presto venite! Dobbiamo muoverci! Silver Sprint è tornato! Lo hanno trovato!»

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 0.5: L'intrusione ***



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CAPITOLO 0.5: L’intrusione


La partenza fu repentina, grazie anche all’organizzazione preventiva delle carrozze messa in atto da Princess Celestia e Major Sue. Il sole ormai stava calando lungo la linea dell’orizzonte, e presto sarebbe toccato a Princess Luna prendere il posto della sorella maggiore. Prima di allora, il Kaiju doveva essere raggiunto.

Furono messi a disposizione tre mezzi di trasporto: un primo carro doveva contenere un piccolo contingente della protezione civile - Silver aveva avvisato i suoi superiori del crollo, per cui era stata data la massima priorità all’ingaggio di una squadra di scavo specializzata (stavolta che sapesse il fatto suo) - al seguito di cui, c’era una carrozza-ambulanza con dei paramedici scelti tra quelli che avevano già assistito numerosi feriti in città, e che quindi erano preparati a ciò che li aspettava all’arrivo. La terza era invece una carrozza volante che caricava su di sé le cinque Custodi degli Elementi, con indosso i loro gioielli, insieme alla Principessa dell’Armonia. Twilight era la figura regale di riferimento che era stata assegnata per guardare alle operazioni, in questo modo Princess Celestia poteva restare a Manehattan per aiutare a trovare una sistemazione agli sfollati del disastro.

Silver Sprint guidava il contingente a terra, indicando la via del Sentiero lungo il passo montano. Non c’era tempo da perdere, perché la vita di Bullseye dipendeva tutta dalla scelta dei percorsi che avrebbero intrapreso durante quel viaggio.

Mentre aspettavano di arrivare, Fluttershy ripassava mentalmente tutto ciò che sapeva riguardo all’interazione con gli animali giganti. Aveva paura e tremava dalla testa agli zoccoli, come una foglia appassita nel vento autunnale. Le sue amiche questo lo vedevano, e per rincuorarla si stringevano intorno a lei mormolandole frasi d’incitamento. Il loro calore e l’affetto che tramettevano i loro visi le fecero carpire tutta la fiducia che nutrivano in lei.

Non poteva deluderle.


Si arrestarono dinanzi alla caverna, novanta minuti dopo essere partiti dalla metropoli. Un risultato eccezionale secondo le stime di Silver Sprint, considerati anche il numero di mezzi e i rallentamenti più o meno prolungati che avevano incontrato durante il tragitto.

Il Wonderbolt scese al suolo passando di fronte alle Custodi, che lo interrogarono con gli occhi per capire il da farsi. Lui le guardò a sua volta, facendo però cenno di aspettare. Per prima cosa doveva parlare con i paramedici per sbrigare i preparativi dell’operazione. Ordinò loro di fare in fretta con la lettiga che stavano estraendo dalla carrozza-ambulanza. Nel momento in cui lui e il resto della squadra sarebbero entrati, questi dovevano restargli incollati come delle ombre.

Ora invece si diresse dagli unicorni scavatori, e si assicurò che tutte le unità assegnategli fossero concentrate e pronte a darsi da fare per liberare il suo amico.

Il tutto fu predisposto in fretta e con molta perizia, senza che vi fosse la necessità di coinvolgere l’alicorno viola. Mentre lui coordinava, Twilight e le ragazze finivano di discutere con la Custode della Gentilezza.

«Ti staremo accanto fino alla fine. Andrà tutto bene, vedrai.»

Ma la risposta arrivò secca lasciando tutte quante di sasso. «No. Andrò avanti da sola. Se il Kaiju è spaventato come penso che sia, vedere troppi pony tutti insieme lo farà solamente infuriare, proprio com’è accaduto allo squadrone di Silver Sprint.»

Twilight sbatté gli occhi perplessa, provando l’impulso di controbattere. «Ok… ma non chiederci di lasciarti andare da sola! Ti staremo comunque dietro, anche se a debita distanza!»

«Lo so che lo farete. Vi ringrazio.» Si comportava da coraggiosa, ma non riusciva a nascondere la paura che la stava attanagliando dal momento della partenza.

Il Luogotenente dei Wonderbolts tornò da loro con tutto il contingente al suo seguito. «Noi siamo pronti Principessa, vogliamo andare?»

Un ultimo scambio di cenni e quindi si addentrarono nella caverna.


Fluttershy era in testa alla fila, seguendo Twilight e l’ufficiale pegaso attraverso il condotto che li avrebbe portati alla caverna del Kaiju. Un secondo unicorno in divisa accompagnava la sua amica facendo luce al cammino insieme a lei, avvalendosi della propria magia.

Sì udì un’imprecazione alle sue spalle, e subito dopo un clangore metallico, come di qualcosa che cadeva.

«Cercate di non inciampare nelle impronte del mostro!» Ammonì il Luogotenente senza arrestare la sua marcia. La Custode della Gentilezza, che si era voltata per controllare, guardò Applejack e Rainbow Dash dare uno zoccolo agli infermieri a risistemarsi sui dorsi la lettiga appena caduta; poco più a destra, c’era un ampio fossato che sprofondava nel terreno per più di un metro, come tanti altri uguali lungo il tracciato del Sentiero. Erano le impronte del Kaiju.

Questo fece ricordare alla pegaso canarino che cosa l’aspettava una volta che sarebbero giunti al capolinea. Era vero che in passato aveva già trattato con animali dalle dimensioni gigantesche, ma i fatti di quel giorno avevano connotazioni diverse.

Un messaggio sussurrato dal Luogotenente le avvisò che mancava ormai poco all’arrivo, se volevano separarsi, come di comune accordo, questo era il momento per farlo. Dal fondo del tunnel era intravedibile una debole luce soffusa, che accarezzava la superficie dei loro grandi occhi equini.

«Da qui andrò avanti da sola, ragazze.» Disse Fluttershy, inspirando a pieni polmoni.

I loro visi si addolorarono, quasi la supplicassero di ripensarci.

«Sei sicura? Ma proprio sicura, sicura? Avrai paurissima ad andare la dentro da sola!» Chiese e commentò Pinkie Pie.

Fluttershy toccò con zoccolo il suo Elemento appeso al collo e lo portò per un momento a sé.

«Ne ho tantissima, infatti. Ma purtroppo non ho scelta. Non voglio rischiare che qualcuna di voi si faccia male nel caso io non dovessi farcela. Manderò qualcuno a chiamarvi se ci dovessero essere dei problemi.»

“Non ce ne devono essere! Sai bene che cosa hai visto su quei palazzi! Abbi fede nelle tue capacità” Era ciò che si disse per ritrovare un po’ di coraggio.

Twilight si mosse in avanti di un passo. «Io verrò con te, nel caso avessi bisogno di assistenza.»

«Twi, no… » tentò di contestare lei.

«Rifletti! Silver e gli altri saranno occupati con gli scavi, e non potranno aiutarti se le cose dovessero precipitare! Hai bisogno che una di noi stia con te!»

«Ha ragione.» Intervenne il pegaso argenteo. «A questo proposito, Principessa. Perdonate la mia impudenza, ma vi chiedo di tagliare corto.» Aggiunse poi in tono urgente.

«Giusto» tornò sulla pegaso gialla «allora Shy, vogliamo andare?»

Trovandosi nella condizione di non potersi opporre, Fluttershy si diede per vinta, sospirando. «Va bene. Facci strada, Silver.»


La caverna dava l’idea di essere molto spaziosa, o perlomeno lo era prima che la frana ne ostruisse in parte la viabilità.

Terminava in un vicolo cieco i cui contorni risaltavano grazie alla luce azzurrina dei cristalli di luce. Erano anche ben visibili i segni del passaggio del Kaiju, che si potevano ricostruire seguendo con gli occhi le impronte da lui lasciate. Vide gli stessi segni di artiglio sui muri, e poi anche sul soffitto crollato.

Il titano era invece rannicchiato in un angolo in fondo, con la testa nascosta tra le zampe anteriori, che impedivano alla pegaso di guardarne i lineamenti.

«Di qua, presto. Seguitemi!» Silver Sprint li condusse al punto nel quale era sepolto Bullseye. Si ritrovò con i Wonderbolts che aveva lasciato di guardia.

«Per fortuna siete qui, Signore. C’è qualcosa che non va!» Disse uno dei due, che appariva in uno stato di agitazione terribile.

«Che vuoi dire?! È accaduto qualcosa in mia assenza?!?»

«È questo il problema, non lo sappiamo! Da quando lei è partito è rimasto completamente in silenzio. Non una parola, non un rumore, nessun lamento!»

«Com’è possibile? Avete provato a chiamarlo?!»

«Affermativo Signore, ma non abbiamo ricevuto risposta!»

Intervenne anche l’altro. «Abbiamo provato a gridare il suo nome più forte, ma niente. Abbiamo provato a insistere a intervalli… »

«E non c’è stato verso di parlarci… » concluse il primo.

«È lì dentro da più di un’ora! Forse è rimasto senz’aria ed è svenuto!» Ipotizzò Silver tuffandosi poi tra le scorie, avvicinandosi il più possibile con il muso al muro di macerie. «BULLS, SONO IO, MI SENTI?! SONO TORNATO, HO CON ME I RINFORZI, BULLS!!?» Gridò più forte, al punto che gli altri Wonderbolts temettero che questo potesse risvegliare il colosso dormiente, ma come anticipato da loro, dal suo amico non arrivò risposta.

“No, non va bene. Non va bene per niente…”  si rialzò, cercando di riprendere il controllo della situazione. «Ok, pony. Trovate un punto d’accesso e cominciate a scavare. Lo voglio fuori da qui prima di subito!» Ordinò riacquistando un po’ di calma. Così il gruppo si mise all’opera, ognuno con i propri rispettivi compiti, con gli scavatori che dovevano sollevare con la magia i blocchi più pesanti, mentre i paramedici estraevano dalle proprie borse i kit di pronto soccorso e tutto l’occorrente per soccorrere Bullseye una volta estratto.

«Principessa, fate quello che dovete fare. Quella bestia è tutta vostra.» Disse alle giumente arcigno.

«Sì.» Annuì lei concisamente, toccando poi la spalla all’amica. «Fluttershy, vai. Tocca a te ora.»

La pegaso canarino deglutì e senza dire niente si incamminò verso l’enorme creatura. Twilight la seguì da dietro, standole a debita distanza per lasciarle lo spazio per lavorare.

Il mostro non aveva avuto reazioni per tutto il tempo, e anzi, man mano che si avvicinavano, potevano ascoltare un particolare suono raspante, che assomigliava in tutti i sensi a un russare lento e prolungato, che si combinava con gli altri echi nella caverna e con i suoni degli scavi dalla parte opposta alla loro.

Ora che lo vedeva un po’ più da vicino, Fluttershy poteva confermare con accurata certezza che non si trattava di un drago. Per lo meno, non del tipo che era abituata a conoscere lei.

Aveva un corpo tarchiato e del colore della sabbia, su strati di pelle in eccesso priva di squame, che formavano grinze in vari punti sotto le ascelle e tra il busto e il corto collo taurino.

Del dorso erano visibili due enormi appendici simili a delle pinne, e sulla nuca delle propaggini che si muovevano indipendentemente l’una rispetto all’altra, come piccoli tentacoli che lambivano l’aria.

Le grandi zampe anteriori che nascondevano il volto erano munite di quattro dita ciascuna, una delle quali era un pollice, legate insieme da una membrana natatoria. Ma non erano artigliate, come in origine aveva scommesso la Custode della Gentilezza. Erano invece spesse, andando a restringersi sui polpastrelli appuntiti e rigidi, con piccole desquamazioni di cute morta sulle estremità.

L’aria intorno a lui, per un raggio di una ventina di metri, era permeata da un acre odore di marcio, che fece arricciare di disgusto il muso della pony.

Trottò di qualche altro passo. Il Kaiju era così grande da ricoprire tutto il suo campo visivo, costringendola a spostare continuamente l’inquadratura da un punto all’altro per esaminarne i dettagli.

«Ehm… c-chiedo scusa? Salve?» Pasticciò lei per un primo approccio. Era il momento di scoprire se le sue intuizioni si erano rivelate esatte.

Questi emise un lamento profondo, che sembrava venire direttamente dal suo stomaco, come un rigurgito.

Fluttershy guardò verso l’amica dietro di sé, e Twilight le restituì un’arcata sopraccigliare confusa. Quindi decise di riprovarci.

«Io s-sono Fluttershy… posso parlare con lei per un secondo?» Gli diede del “lei”, come prevedeva il protocollo quando le creature erano così massicce e imponenti. Rispetto per l’interlocutore, prima di tutto.

Quando non le arrivò nessuna reazione di risposta, la pegaso si ripeté con un’intonazione più alta. «POSSO PARLARE CON LEI PER UN SECONDO?» E attese che succedesse qualcosa.

Così doveva bastare, pensò, era partita con la zampa giusta. Uno zoccolo per volta e forse quella giornata si sarebbe conclusa con una magra conquista.

La squadra di scavo nel frattempo era quasi arrivata al punto in cui era sepolto Bullseye.


Qualcosa lo ridestò dal suo stato di torpore. Qualcosa di nettamente diverso dal tipico disturbo che provava nei confronti delle creaturine colorate.

Spalancò gli occhi, trovandosi di fronte a un altro esemplare della razza dotata di ali, e ce n’era un’altra che oltre a esserlo a sua volta, condivideva dei tratti in comune con gli animaletti cornuti.

Fu però l’esemplare giallo ad attirare il suo interesse. Con la sua vocetta delicata si era insinuata all’interno della sua scatola mentale, e gli aveva infuso una serenità bizzarra che non si sarebbe mai aspettato in una circostanza come quella.

Chi era questa creatura, che con una semplice frase era riuscita a tendere in tal misura i suoi fili emozionali?


Le zampe anteriori del Kaiju si protesero in avanti mentre questo emetteva un muggito, rivelando finalmente l’aspetto in tutta la sua interezza.

Il muso era di un animale che poteva essere allo stesso tempo sia di mammifero che di rettile, con denti corti e appuntiti, non particolarmente sviluppati a dispetto della sua mole (Fluttershy si chiese quale potesse essere la sua dieta). Gli occhi erano due piccole sfere lucenti, pallide e prive di pupilla, e anche solo di qualcosa che assomigliasse vagamente al disco dell’iride; erano chiazzati da macchie ramate disposte apparentemente a caso sulla superficie dei bulbi. Assomigliavano e delle enormi perle introdotte a forza nelle fessure orbitali dell’animale, che rimiravano le pegaso dall’alto, mantenendo una certa distanza prudente.

Fluttershy deglutì a denti stretti, continuando la presentazione, mentre tutto intorno a lei taceva. Anche gli scavatori si erano fermati temporaneamente per osservare la scena.  «Salve a lei di nuovo. Riesce a sentirmi se parlo in questo modo? Il mio nome è Fluttershy, e sono una pony del regno di Equestria… è il nome del posto in cui si trova… » utilizzò una formula molto simile a quella cui si era avvalsa in altre circostanze delicate, aiutandosi con l’eco che diffondeva le sue parole per tutta la sala. Non aveva la certezza che il Kaiju la stesse capendo. Lui taceva, continuando ad ascoltarla con le mascelle digrignate, a esporre leggermente le zanne.

Decise di continuare per la direzione intrapresa. «Sono umilmente dispiaciuta dell’averla dovuta svegliare, il fatto è che c’è una cosa davvero molto, molto importante che ci tengo a chiederle, Signor, ehm… » qui si bloccò. Come lo doveva chiamare? «“Gigante delle Caverne”?»

La reazione del Kaiju, all’udire di quell’appellativo, fu di chinarsi in avanti, portando il proprio naso a un tiro di schioppo dalla pegaso canarino. Prima la annusò, così come avrebbe fatto un cane di fronte a una nuova scoperta, allora le alitò contro uno sbuffo del suo fiato, saturando l’aria di un odore misto di carne in putrefazione e laboratorio chimico, quest’ultimo molto strano.

«Allontanati da lì, Fluttershy!» Tentò di avvisarla Twilight, tappandosi il naso con entrambe le zampe, ma fu taciuta da un cenno deciso della pegaso. La Custode della Gentilezza sapeva cosa stava facendo.

Trattenne un conato di nausea dovuto all’alitata, non ce l’avrebbe mai fatta se solo non fosse stata abituata ad avere a che fare con le più eterogenee classi di animali (parlare con dei predatori, trovandosi a pochi passi dalle carogne delle loro vittime, spesso la metteva in situazioni altrettanto pesanti).

Alcuni indizi ravvisati sulla pelle e sul muso del Kaiju l’avevano messa in allarme, destandole non poche preoccupazioni: si vedevano delle macchie nerastre, con del pus gelatinoso che fuoriusciva dalle lesioni insieme a del fluido scuro, sintomi di una grave infezione batterica, o forse di un qualche tipo di malattia ignota. Distolse lo sguardo risistemandosi il ciuffo di crini rosa, che era stato smosso dalla ventata pestilenziale.

Rimuginò su quanto aveva appena scoperto: l’animale era in pessime condizioni di salute, quindi era lecito presumere che si fosse rintanato in quella grotta per riposare in convalescenza, o per morire. Lei si augurò la prima.

Rifletté su quali potevano essere le cause. Le Guardie Cittadine erano forse riuscite a danneggiarlo colpendolo con la magia? In alcune parti del corpo, come sulla spalla destra, le chiazze raggiungevano diversi metri di diametro, ed erano neri come di cancrena. Ma in altre la pelle era anche vistosamente irritata, come se il fautore di tutto ciò fosse invece un microrganismo che stava intaccando tutta la superficie della cute.

Forse era questa la ragione dell’attacco in città? Il Kaiju, colto dalla disperazione, aveva abbandonato il proprio habitat naturale per andare alla ricerca di una cura contro la sua malattia, finendo suo malgrado nel bel mezzo del centro abitato dei pony, che invece di soccorrerlo, lo avevano perseguitato alla stregua di un invasore del loro regno.

Con in testa questa nuova teoria, Fluttershy riprese a parlargli in tono amorevole e solidale, raccontandogli di com’era venuta a conoscenza dell’incidente di Manehattan. Poi continuò, parlandogli anche dell’incidente stesso, e di tutta la sofferenza che aveva causato al suo passaggio. Sperava così fargli capire la gravità della situazione, assicurandosi che la prossima volta non si ripetesse lo stesso.

Gli chiese della sua malattia, cercando di scoprire come l’aveva contratta. Gli disse che si sarebbero presi cura di lui, se solo lui lo avesse desiderato, e mentre lo faceva, Twilight obbediva alla prescrizione di non intervenire per nessuna ragione al mondo, anche se i suoi zoccoli scalpitavano sulla roccia per quanto era agitata.

Durante il monologo, il Kaiju fissava la pegaso canarino ruotando solo occasionalmente il collo per controllare i movimenti degli altri pony nella caverna. Respirava affannosamente, rilasciando a ogni sospiro una nuova ventata di fiato maleodorante, carico di esalazioni corrotte. E non reagiva, almeno, non con dei suoni che potessero assomigliare a una risposta…


… dentro di Lui, forze contrastanti gli dicevano di assecondare le parole della creaturina, e allo stesso tempo lo mettevano in guardia dal fidarsi ciecamente.

Non dimenticava le aggressioni subite nell’isola grigia, anche se probabilmente si era trattato solamente di un atto di difesa dalla reale minaccia, rappresentata da Lui. Ma se era efettivamente Lui il nemico, allora perché quella piccola creatura alata si mostrava così espansiva nei suoi confronti?


I modi di Fluttershy si fecero più spigliati, e anche il Kaiju le sembrò sereno e rilassato, mentre la seguiva con lo sguardo, interessato alle sue movenze. Lei trottava avanti e indietro, talvolta alzandosi da terra per poi scendere giù.

Quel silenzio la convinse di stare facendo la cosa giusta, di comunicare le esatte parole necessarie a mantenere la connessione col mostro. Credeva di aver raggiunto un punto d’intesa, a che ora avrebbero potuto instaurare un dialogo, se solo avesse fatto leva sui pulsanti giusti…


Al capo opposto della grotta, dove la squadra di scavo stava completando il disseppellimento del malcapitato, finalmente si era arrivati a un punto di svolta.

Si aprirono i primi spiragli di quella che fu la sacca d’aria descritta da Bullseye. Fu rimossa un’altra pietra, rivelando un accesso di mezzo metro in mezzo alla montagna di detriti e fango. Silver Sprint chiese all’unicorno di fronte a lui di farsi da parte, quindi provò a infilare la testa nell’angusto passaggio, ignorando che la sua spalla stesse bruciando per la ferita ottenuta nel crollo. L’umidità presente impregnò il suo mento di sabbia e particelle.

Dentro non si vide nulla, ma quando provò a chiamarlo per nome, si aspettò come minimo di sentire il suo migliore amico emettere un rantolo di sollievo. Il mutismo che invece gli tornò dietro gli fece germogliare il seme del dubbio. Che avessero forse sbagliato il punto dove scavare? L’unicorno della protezione civile che aveva impiegato la Chiaroveggenza giurava che il suo incantesimo era stato ineccepibile. Ma allora perché Bullseye continuava a non rispondere malgrado tutti quei richiami?

L’ipotesi della perdita di coscienza, a quel punto, aveva assunto una consistenza più tangibile.

Tirata fuori la testa, Silver chiese allo scavatore d’illuminare l’accesso, ma questi invece di ubbidire, lo fissò imbambolato con una maschera d’orrore cucitagli sulla faccia.

«C’è qualcosa che non va?» Gli domandò di fretta.

«S-Signore… » lo chiamò uno dei suoi Wonderbolts, anche lui manifestando la stessa aria di disagio, come tutti gli altri «è… è sporco di sangue… »

Un formicolio attraversò il dorso del Luogotenente.

“Sangue?!”

Si tolse gli occhiali da aviatore e guardò il riflesso sulle lente, scoprendo così che il colletto della sua divisa era macchiato di rosso – una tinta cremisi scuro mischiata alla sporcizia – che correva in su, fino ad allungarsi sotto la mandibola; quella che all’inizio aveva pensato fosse semplice condensa.

«Illumina là dentro, SUBITO!!» Berciò all’unicorno, il quale inciampò tra i cumuli di pietrame mentre s’apprestava ad eseguire.

Si affacciarono entrambi attraverso il passaggio, seguendo con lo sguardo il fascio di luce magica che rischiarava i contorni della pietra per due o tre metri all’interno. Dentro si profilò per loro una visione orribile, fatta di sangue che formava piccole pozzette in alcuni punti e scintille di riflessi scarlatti. Un corpo era fermo esanime nel mezzo della cornice, compresso dalla vita in giù da un enorme macigno.


La caverna si riempì di un urlo straziante, che aveva per voce quella di Silver Sprint e come suono il nome dell’amico che erano venuti a salvare. Twilight lo capì senza che vi fosse la necessità di tornare indietro a vedere. Dal tono struggente, assunse che non c’era più nulla che si potesse fare per cambiare le cose.

Si trovava nel mezzo di due differenti scenari, i quali procedevano senza aver bisogno del suo intervento, facendola sentire di troppo proprio quando la situazione si stava facendo più tesa.

Fluttershy, invece, spaventata da quell’urlo, si girò di colpo raggelata dal lamento del Luogotenente. Quell’azione, così ingenua in apparenza, si rivelò essere il più fatale degli errori…


Lui scosse la testa, come a voler scacciare qualcosa da addosso di sé.

Se fino a pochi istanti prima era confuso, traviato dalla voce carezzevole della creaturina gialla, adesso capiva con grande nitidezza cosa stavano cercando di comunicargli le strane pulsazioni che gli parlavano dall’interno: manipolazione. L’esserina era riuscita in qualche modo a superare le sue barriere mentali, interagendo con la parte più recondita di Lui, più fragile e suscettibile agli attacchi…


… cessò quindi di essere quella placida massa di carne che stava genuflessa ad ascoltare Fluttershy, mulinando per aria le zampe, che urtarono contro il soffitto facendo cadere altri blocchi di pietra sulle teste dei pony.

Capito l’errore, la Custode provò in tutte le maniere a recuperare la sua attenzione, rinunciando persino alla formalità . «No, non ti agitare! Continua a guardare me, guardami!». Ma il Kaiju non aveva alcuna intenzione di cederle altre attenzioni. In tutta risposta emise un verso profondo, simile a uno sfogo, che s’abbatté come un vento d’uragano sulle orecchie della pegaso.

Si buttò a terra, inginocchiata, premendosi gli zoccoli sulle orecchie. Una forte pressione le schiacciò il cervello, facendole traboccare lacrime dagli occhi.

«Fluttershy, che ti succede?!» Twilight stava osservando qualcosa che per lei era inconcepibile. Non capiva il linguaggio degli animali, né poteva stabilire quel particolare legame che era invece caratteristico della sua amica. Per lei fu solo un grido di rabbia, ma la Custode della Gentilezza patì un dolore lancinante, come se la bestia l’avesse presa tra le sue fauci e la stesse masticando molto lentamente.

«No… ti prego, ascoltami… » allungò la zampa verso di lui cercando di placarlo, ma un secondo gridò la affogò sotto una cascata di decibel. Il mostro a quel punto si erse sulle zampe posteriori, rivelando ancora di più le sue immani dimensioni, e le fratture del soffitto, dal quale piovve una nuova fiumana di detriti, riempirono il vuoto all’interno della caverna.

Twilight gemette atterrita. I pony della squadra di scavo cominciarono ad allontanarsi uno per uno. Tutti meno che Silver Sprint, inginocchiato e insensibile nel mezzo della massa. Che cosa stava facendo? La Principessa era troppo distante per riuscire a leggerne le emozioni sul viso. I suoi Wonderbolts lo incitarono a seguirli, ma lui non diede loro alcuna retta.

«Fluttershy! Fermati! Basta così! Non puoi comunicare con lui, lascia perdere!» Le andò vicino.

Il Kaiju emise un altro verso simile ai precedenti. La Custode della Gentilezza provò a rimettersi sugli zoccoli, stringendo i denti per lo sforzo. Tentava di decifrare i suoni che rilasciava, sfruttando le sue conoscenze di decrittazione linguistica degli animali. «Io… n-non riesco a capire… che cosa dice… è… è troppo… »

«Non ha più importanza ora, vieni con me! Torniamo dalle altre!» La prese per una zampa.

«No! Twilight, non capisci?! Non è di questa terra… non è di Equestria!»

La Principessa aggrottò le sopracciglia e rimase per un momento attonita, pensando all’asserzione dell’amica. «Ne parliamo dopo, ok? Adesso ti porto fuori da qui!»

Proprio in quel momento, il Kaiju smise semplicemente di stare eretto e avanzò lentamente verso di loro…


Improvvisamente, era come se fosse di nuovo in trappola.

Era così che si sentiva, come quando aveva invaso la città delle piccole creature e aveva temuto che i palazzi gli si stessero stringendo intorno. Aveva la medesima impressione, fomentata dalla vicinanza della piccola creatura gialla e della sua simile cornuta.

Aveva invaso i loro spazi uccidendone alcuni esemplari, e loro adesso erano venute per vendicarsi. Avevano cercato di plagiarlo, illudendolo delle loro buone intenzioni, e chissà a quale fato sarebbe incorso se solo non fosse riuscito a sfuggire appena in tempo.

Si domandò cosa mai gli avrebbero detto le sue Voci nella testa, se solo avesse potuto sentirle mormorare ancora una volta, ma attualmente tutto ciò che udiva, al di là dei suoi versi, era il rumore del suo ex-nido che crollava su se stesso.

Quel posto non era più sicuro per Lui, in tutti i sensi…


Come una montagna che d’improvviso si anima, e decide che la prima cosa da fare è saggiare l’esperienza di correre su due zampe, il Kaiju scattò verso l’uscita senza curarsi minimamente dei pony sotto di lui che rischiava di calpestare.

Twilight, con grande tempestività dei sensi, isolò se stessa e Fluttershy all’interno di una bolla di protezione magica, quando la pianta dell’enorme zampa calò su entrambe. Furono colpite di striscio da un dito del piede del mostro, e scalzate via con tutta la cupola al seguito.

Malgrado la difesa, la Principessa dell’Armonia si sentì come se un bufalo l’avesse travolta in pieno. Tossì violentemente, e nel farlo provò una fitta indicibile al costato. Le fece male la schiena, le zampe faticarono a sorreggerla mentre si rialzava, e un rivolo di sangue fresco prese a gocciolarle dal labbro inferiore.

«Oh santo cielo, Twilight!» si agitò Fluttershy vedendola.

«Sto bene. Dammi solo un minuto.» Sottopose sé stessa a un incantesimo di cura, che la rimise doverosamente in sesto. Non era ancora abbastanza brava con quel tipo di magie, che aveva appena cominciato a esercitare. Si sarebbe fatta visitare non appena tornate in città, ma l’effetto analgesico che si diffuse per tutto il corpo le diede da subito la lucidità per pensare.

«Qui sta crollando tutto, sbrighiamoci prima di rimanere chiuse qui dentro!»

«Il Kaiju… » altre lacrime cominciarono a solcare il viso di Fluttershy.

«Sì… sì lo so. Non ti preoccupare, adesso ce ne occuperemo insieme.» La rassicurò asciugandogliele.

Galopparono verso l’uscita. Pezzi di soffitto piovevano per terra aggiungendosi alle pile già presenti, o creandone di nuove.

Le due giumente si fermarono nei pressi dello scavo della squadra di soccorso, dove il Luogotenente Silver Sprint fissava qualcosa mentre se ne stava inginocchiato con un’aria spettrale addosso.

«Silver, dobbiamo andare!» Lo chiamò l’alicorno.

Lui sollevò lo sguardo da terra, puntando con un fare di rimpianto la direzione dove solo poco prima dominava il titano. Socchiuse gli occhi sospirando. «Vi raggiungo tra poco, Principessa. Voi andate.»

Dichiarato ciò, sembro dimenticarsi della loro presenza. Persino quando Twilight provò a convincerlo della pericolosità di quella decisione, il Wonderbolt s’isolò semplicemente dalla realtà, rifiutando ogni interazione.

Fu la Custode della Gentilezza, questa volta, a far leva affinché lasciassero il posto e si ricongiungessero alle loro amiche. La afferrò per una zampa e la tirò con sé.

Mentre correvano via, si guardarono indietro, mentre il Luogotenente diventava una macchia argentata che si restringeva progressivamente nel loro campo visivo.


Le ragazze erano poco più in là dell’accesso che portava alla tana. Apparentemente stavano tutte bene, ma Fluttershy e Twilight si riunirono a loro che erano shockate e in preda all’agitazione. Pinkie Pie aveva una smorfia di terrore che non si addiceva al suo atteggiamento tipico, e Rarity dava fondo al suo repertorio teatrale esibendosi in un pianto senza freni. Applejack e Rainbow Dash controllavano meglio le proprie emozioni, ma non per questo potevano dirsi meno irrequiete. Entrambe, rispettivamente trottando per terra e volteggiando per aria, continuavano a muoversi per scaricare l’enorme tensione che sussultava attraverso i loro muscoli tesi.

Le due giumente furono accolte con un caloroso abbraccio, quando le altre le videro tornare sane e salve (Twilight non completamente in forze, ma questo non lo ammise, per non gravare sulla già difficile situazione del gruppo).

«È stato terribile!» Disse Applejack in modo funereo. «Prima quelle urla, poi i tremori, e quel bestione correva verso di noi come se ci volesse caricare!»

«Le cose non sono andate come speravamo. Avete visto passare gli altri per caso?»

«Eccome, puoi giurarcelo!! Se la sono data alla fuga gridando “Via, presto! Scappate!!”» Strillò Rarity imitandone l’intonazione.

«Non sapevamo cosa fare! Se dovevamo farlo pure noi… » disse invece Pinkie «oppure se dovevamo invece cominciare prima a correre, e poi a gridare! Insomma, eravamo confuse!»

«Hai detto che le cose non sono andate come previsto. Che vuoi dire?» Domandò la cowgirl avendo colto l’affermazione dissoltasi nella confusione del momento.

«Aspetta! Dov’è Silver Sprint?!» S’inserì Rainbow Dash.

«Una cosa alla volta ragazze. Allora: hanno trovato l’amico del Luogotenente che era rimasto sotto le macerie… »

«Sta bene ovviamente, no?» Interruppe la pegaso arcobaleno.

«No Dash.» Scosse addolorata la testa, dopo aver esitato per un momento. «Non ho ben capito cosa sia successo, ma pare che non ce l’abbia fatta…

«Oh cacchio!»

«… mentre stavamo uscendo, il Luogotenente ci ha detto che ci avrebbe seguito a breve. Ma è ancora lì dentro, a quanto pare… »

«Allora forse avrà bisogno d’aiuto! Scusate, ma io vado da lui!»

«Ferma lì, non è una buona idea! Penso voglia prendersi un momento per stare da solo. E poi là dentro il soffitto è troppo instabile per avventurarcisi in volo!»

Si bloccò, rendendosi conto che doveva recuperare le redini del discorso, si era lasciata fuorviare dalle sue amiche, dimenticandosi che un mostro assassino era ancora a piede libero.

«Sentite, Fluttershy ha provato a stabilire un dialogo col Kaiju. Per un po’ sembrava anche funzionare. Ma poi è successo qualcosa… non lo so, è cominciato ad andare in escandescenza tutto d’un tratto, e poi è scappato!»

Esclamarono un «Ooh!» tutte insieme, e spostarono l’attenzione sulla pegaso canarino. «Fluttershy, accidenti a te e alle tue manie naturaliste! Si può sapere cosa gli hai detto?!»

Lei si accovacciò a terra sentendosi colpevolizzata, tremando di paura.

«Fluttershy non c’entra niente, Dash!» La difese Twilight. «Ve l’ho detto, ha cominciato ad agitarsi senza alcun motivo, come quando ha attaccato la città! Non si tratta di un semplice animale che caccia, non ne sono ancora sicura, ma sembra che… »

Non finì per tempo la frase, che sopra le loro teste una freccia dal colore argentato fendette l’aria nel tunnel, tracciando una linea affusolata in direzione dell’uscita.

«Era Silver Sprint quello?» Era schizzato troppo velocemente perché Applejack (o chiunque tra loro) riuscisse a distinguerlo. L’eco del fischio che produsse al passaggio accompagnò la sua uscita di scena per diversi secondi, anche dopo che era sparito dalla loro vista.

Princess Twilight ripensò a quello che le aveva detto la Custode della Gentilezza nella caverna. Si rivolse all’amica cercando di infondere quanto più tatto poteva. «Fluttershy… lo sai, vero, che arrivate a questo punto non abbiamo altra scelta che attivare gli Elementi?»

«Sì… » rispose lei affranta «anche se mi sarebbe tanto piaciuto evitarlo… »

La cinse per il collo condividendo con lei la tristezza di quell’istante. Quando la magia cura le ferite del corpo, un abbraccio spesso mitiga le pene del cuore.

«Pinkie, gli Elementi sono con te, vero?»

«Acciderbolina se sì! Li ho con me da quando mi hai chiesto di tenerli nascosti senza anticipare niente a nessuno!» E li fece comparire tutti e sei dall’interno della sua capiente criniera.

Twilight indossò il suo senza dare troppo peso a ciò che aveva detto la pony in rosa. Pinkie ultimamente era ossessionata dall’idea di essere il personaggio di una specie di epopea letteraria, e andava in giro vantandosi di essere entusiasta di far parte dei protagonisti della storia. Un’altra delle sue innumerevoli stranezze.

«Preparatevi a galoppare, ragazze. Abbiamo un bel po’ di strada da fare prima dell’uscita.» Disse Applejack, intanto che indossava l’Elemento dell’Onestà.

«Un momento.» Sospese tutte quante Rarity. «Perché non provi a usare il teletrasporto, Twi? Lo hai fatto altre volte, no?» Gli sguardi di tutte puntarono verso l’alicorno.

Twilight si scosse, e quindi evitò i loro occhi fiduciosi, vergognandosi per la risposta che stava per dare. «Mi dispiace, ma non credo di riuscire a teletrasportarvi tutte quante di fuori. Non così distante almeno… »

«Ma ormai sei una Principessa! Dovresti avere magia a sufficienza per farcela, almeno per accorciarci un po’ la strada!»

Ancora una volta il suo titolo prendeva dei meriti che lei non si sarebbe mai attribuita. Ma forse questa volta era diverso. Diventare alicorno le aveva effettivamente infuso capacità magiche che non si sarebbe mai sognata di avere, quindi forse…

«Beh, posso provare immagino… » sibilò tra i denti, per nulla convinta ma decisa a fare almeno un tentativo.

Per cominciare aveva bisogno di ridurre quanto più era possibile il raggio intorno al quale avrebbe agito l’incantesimo, quindi chiese a tutte di stringersi intorno a lei. Chiuse gli occhi, cercando di sommuovere le sue riserve di energia eterea. Realizzare quel tipo di sortilegio implica prima di tutto avere la consapevolezza del luogo in cui si è intenzionati ad andare, s’interviene quindi sulla stabilità dell’Armonia nello spazio tridimensionale occupato dal soggetto che si vuole trasferire, creando una “scansione” dello stesso. A quel punto ci si “immagina” con intensità che il soggetto venga trasferito dal punto “A” al punto “B”, e il paradosso, formulato ai suoi tempi da Starswirl il Barbuto, secondo cui un determinato individuo appartenente a un singolo piano temporale non può trovarsi contemporaneamente in due posti differenti, fa sì che questo venga disintegrato e ricomposto praticamente all’istante, a destinazione, senza nessun tipo di stravolgimento sul piano mentale e fisiologico.

Compierlo da sé era un gioco da puledri, per lo meno per gli standard di chi rumina magia per colazione, come Twilight Sparkle (riteneva che il volo era una pratica ben più astrusa), ma spostare così tanti individui per quasi mezzo chilometro dentro un tunnel scuro come quello era un esercizio che implicava ogni genere di rischio. Un piccolo errore nelle “scansioni”, o nell’impiego dalla quantità di magia occorrente per la riuscita, e le conseguenze sarebbero potute essere letali per ognuna di loro. Oltretutto, le condizioni non ideali in cui la Principessa vessava, non le garantivano il massimo della forma.

Ma scelse di non pensarci. Ora come ora non poteva concedersi divagazioni.

Pensò invece a concentrarsi sull’incanto, scansionandole tutte e imprimendo nella sua mente il luogo esatto in cui voleva trasferirle. Scelse l’entrata del tunnel, l’unica area della vallata che avevano toccato con gli zoccoli quando erano atterrate, e quindi l’unica di cui avesse una percezione completa in tutti e cinque i sensi. Si augurò solo che una volta arrivate alla meta non finissero schiacciate sotto le zampe dell’orrido titano.

Il suo corno entrò in funzione ricoprendole di essenza magica. Ognuna teneva gli occhi delicatamente serrati, fiduciose della buona riuscita dell’incantesimo. La loro amica non avrebbe sbagliato quell’incanto. Il vero problema era ciò che avrebbero affrontato una volta riapparse.


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Poco prima, nella tana del Kaiju.

Silver Sprint stava avvertendo una sensazione familiare, di déjà vu, come quando quell’agente, un anno prima, si era presentato alla porta di casa sua per comunicargli l’incidente di sua moglie, e la tragica notizia che era appena diventato vedovo. Era rincasato da poco, dopo la fine del suo turno di servizio, e la piccola Lil’ Wing era nel soggiorno a divertirsi con un libro da colorare.

Non aveva neppure afferrato, all’inizio, la portata di quell’avvento, rapportandosi ad esso come con qualcosa di semplicemente troppo irrealistico per potervi credere. Sua moglie era morta? Impossibile. E gli servì un bel po’ prima di superare lo straniamento iniziale e accettare che quel fatto era autentico, e che dal quel momento le cose sarebbero state diverse – più vuote – sia per lui che per sua figlia.

E ora la stessa cosa si stava ripetendo in un differente scenario.


La verità è che Bullseye era già morto ancor prima che il suo amico ripiegasse in città per trasmettere la notizia. Anche se questo Silver Sprint non poteva saperlo.

Aveva subito uno schiacciamento degli organi interni, danneggiando le funzionalità fisiologiche e aprendo numerose emorragie in tutto il corpo, sia all’interno che all’esterno. L’arteria femorale nella zampa posteriore sinistra perdeva sangue a fiotti, e ogni volta che inspirava la sua gola si riempiva di altro liquido che prontamente sputava fuori addensandosi in una chiazza rossa a terra. A causa di questo, ogni fiato gli causava un male che se avesse conosciuto prima, probabilmente il timore lo avrebbe accompagnato come un tormento per il resto della sua vita. Inoltre, un bruciore intenso e indefinibile all’altezza dello stomaco gli faceva temere che anche il suo sistema digerente fosse stato compromesso.

Poi sentì la voce di Silver che cercava di chiamarlo da fuori dell’agglomerato di detriti, e al panico per la fine imminente che stava sopraggiungendo, si aggiunse quello del vedere il volto del suo migliore amico mentre lo guardava spirare, straziato dal dolore… non voleva andarsene con quell’immagine di pena riflessa negli occhi.

Il grande masso sotto il quale giaceva rallentava di poco la circolazione sanguigna, impedendogli così di dissanguarsi troppo alla svelta. Questo gli diede qualche minuto per improvvisare una menzogna. Gli disse di portare dei rinforzi, fingendo, in uno stato di assuefazione dal dolore, che per il momento sarebbe stato bene, mentre invece i suoi polmoni stavano esalando gli ultimi sospiri. Dovette insistere, ma alla fine fu abbastanza ostinato da convincerlo ad andare. E ora non gli rimaneva che aspettare in silenzio che la morte lo prendesse sul serio. Nessuna squadra lo avrebbe liberato, neppure se si fossero messi a scavare seduta stante, unendo le proprio forze. Era troppo debole per resistere, privato del suo sangue e dell’ossigeno che circolava a bolle sempre più modeste con il ticchettare delle lancette, ferito dovunque supponesse di avere qualcosa d’importante. Troppe cose contribuirono ad accelerare la sua fine, compresa la poca aria residua che ancora rimaneva nella cavità stretta.

Mentre moriva, si scaldò focalizzandosi sui ricordi dei trascorsi con Silver Sprint, lasciandosi confortare dalle risate che si facevano ai bei tempi trascorsi, da quei nitriti acuti che scaturivano ad ogni loro incontro.

Era un buon modo per andarsene. Soprattutto, contribuì a farlo sentire meno solo, mentre le sue palpebre si abbassavano con dolcezza, e il dolore tramutava in un lontano formicolio.


Lui e Bullseye ne aveva passate veramente tante insieme. Si erano cacciati continuamente nei guai, anche dopo che la loro amicizia fu definitivamente consolidata da quella conversazione al campo d’addestramento. Il pegaso dalla criniera lampone era il massimo esperto di scherzi ai tempi dell’Accademia, e si divertiva a coinvolgere il compagno diligente in trovate sempre più folli e rischiose, dalle quali era spesso troppo tardi per tirarsi indietro, prima che la ruota cominciasse a girare.

Un giorno trovò il modo di comunicare al loro Sergente Istruttore (il suo bersaglio per eccellenza) che il Capitano lo voleva incaricato come Alzabandiera per la mattinata seguente, e questi, malgrado il scetticismo del momento, dovette ubbidire, timoroso di sfidare l’autorità del più alto in grado.

Sorse la mattina, e tutti si adunarono per la cerimonia. Suonarono le trombe e il vessillo di Equestria era pronto per issarsi. I primi sogghigni cominciarono a formarsi quando il Sergente era stato notato avvicinarsi al pennone, insieme agli altri cadetti fermi nel saluto militare.

Fu solo quando lo stesso Capitano gli andò incontro perplesso, che il pegaso mangiò la foglia realizzando l’incredibile inganno in cui era caduto vittima.

L’Accademia precipitò in una crisi di risate chiassose, malgrado la formalità del momento, e anche Silver, che non era incline a prendere parte a quei giochi alla leggera, non poté esimersi dal ridere assieme al suo migliore amico, che gli lanciava gomitate sul fianco.

Erano una bella coppia di scapestrati, che purtroppo il destino aveva scelto di separare proprio nel periodo di massima debolezza per il pegaso dalla criniera argentata.

Silver Sprint ora era solo, senza più nessuno che gli sollevasse il morale quando le giornate assumevano tratti pietosi.


Riflettendoci attentamente, forse tutto ciò poteva essere evitato. Bullseye temeva di entrare in quella caverna, perché sentiva che alle fine qualcosa sarebbe andato storto. Era come se in un qualche modo, fuori dalla concezione di Silver Sprint, avesse predetto la sua morte e avesse cercato di impedirla con ogni mezzo a disposizione, ma invano.

Così non c’era più. Il suo migliore amico e compagno di tante disavventure, rivali un tempo, poi uniti da un legame che si pensava sarebbe stato indissolubile. Era spirato, e la responsabilità di tutto cadeva su di lui.

Silver Sprint si sentì a pezzi, distrutto dai sensi di colpa. Avrebbe voluto tornare indietro per impedirsi di dare quell’ordine. Supplicava che qualcuno – chiunque lo stesse ascoltando – gli permettesse di rimediare a quello sbaglio. Fiumi di lacrime, ora che era solo e poteva levarsi di dosso il carico, rivelarono tutta la debolezza che si celava dietro l’apparenza.

Ogni cosa sarebbe andata diversamente da quel momento in poi. Non più il sostegno di Bullseye mentre comandava uno squadrone in volo. Nessuno che condividesse con lui quella parte del suo essere che soltanto l’altro conosceva. Le bevute in casa la sera, il grande sogno di avviare un’attività commerciale insieme dopo il congedo dall’esercito, le mille esperienze che avrebbero potuto condividere. Tutto ciò svaniva sotto l’insistenza di una frase che già adesso cominciava a risuonargli forte nella testa.


“Non avresti mai dovuto dare quell’ordine”


“No!” Un altro pensiero balzò fuori dal coro, e per qualche ragione aveva il tono della voce di Bullseye: “Non darti grane per quello che è successo!”

Come sarebbe? Non era sua la colpa? E di chi altri poteva esserlo, altrimenti?

“Ma del Kaiju naturalmente!” Realizzò dopo. Quell’orrido essere si era mosso per primo. La vita a Equestria seguiva ritmi pacifici prima che la creatura invadesse le loro terre, scandita solo occasionalmente da qualche difficoltà di quando in quando. Ora invece centinaia di pony (forse più) lasciavano schiere di orfani a un futuro senza genitori, e altrettanti se ne andavano abbandonando i propri affetti ai ricordi e alle lacrime.

Silver Sprint era sia padre che amico, vittima e superstite di un destino infausto che più volte lo aveva eletto come bersaglio. Ma lui era anche qualcos’altro. Young Dart, monumento vivente dell’aviazione dei Wonderbolts. Un eroe per la sua gente e per tutti quei puledri che anche ora, senza più un padre o una madre a cui rivolgersi, avrebbe continuato a seguire le sue gesta con ammirazione e rispetto.

Per loro doveva combattere, e per loro, se esisteva anche solo una possibilità che il suo aiuto contribuisse a fermare la crisi che stavano vivendo, avrebbe dato il tutto per tutto.

E non solo per loro, ma anche per sua moglie, che aveva bisogno di qualcuno che portasse la sua memoria con serenità.

E non solo per lei, ma anche per Bullseye, che aveva lasciato quella valle di lacrime, fiducioso che il suo migliore amico se la sarebbe cavata ugualmente.

E non solo per lui, ma anche per Lil’ Wing, malata d’influenza. Lei che più di tutti aveva bisogno di un padre che fosse più deciso che mai.

Conscio dell’imponenza che avrebbero rappresentato le sue prossime mosse, salutò Bullseye per l’ultima volta: «Grazie, amico. Grazie per tutto quello che hai fatto per me… e per quanto vale ora… perdonami.» Quindi schizzò fuori dalla caverna.

Lungo il tunnel, avvistò le Custodi, intente a discutere a lato del corridoio, ma si trattenne dal fermarsi da loro. Ognuno stava dando il tutto per tutto in quella giornata, e non aveva dubbi che anche loro avrebbero fatto la loro parte. Non si poteva fermare.

Poi, alla soglia dell’uscita, riuscì a scorgere anche i Wonderbolts e gli altri pony che lo avevano seguito da Manehattan, quando la luce del tramonto lo abbagliò per pochi istanti. Loro non potevano fare molto, a differenza delle giumente, e questo non gli dispiacque. Dovevano sopravvivere. Il Tristo Mietitore quel giorno aveva già depennato dalla sua lista troppi nomi.

Il Kaiju era poco più avanti, intento a risalire la valle. Aveva cessato la sua corsa, e a giudicare dal modo in cui il suo bacino oscillava pesantemente ad ogni passo che compiva, doveva essere allo stremo delle sue forze, completamente prosciugato dalle energie, oltre che segnato su tutta l’estensione della pelle da chiazze nere, umide e purulente.

Era il primo vero colpo di fortuna che il pegaso ebbe in tutta la giornata, l’occasione per far guadagnare del tempo alle Custodi, in attesa del loro arrivo.

Partì alla carica, al massimo della sua velocità, le zampe strette sui fianchi per favorire il trapasso dell’aria, la testa rigida come la punta di una freccia.

Non tutti i pegasi sono consci di questo fatto, ma dove gli unicorni padroneggiano la magia, e i pony di terra godono di una straordinaria resistenza fisica agli sforzi estremi, i pony con le ali hanno l’abilità innata di trasformare i propri corpi in autentiche palle da cannone, per usare se stessi come armi d’artiglieria. La loro particolare conformazione fisica, unita all’Armonia che permea la loro aura, concentra l’atmosfera smossa di fronte a loro in un’ogiva che può assolvere simultaneamente da strumento di distruzione e cuscinetto d’aria per il successivo impatto. E fu proprio quello che fece Silver Sprint, quando collise contro il titano poco sotto l’altezza delle grandi pinne dorsali, con impeto tale da inarcare in avanti il ventre dell’avversario…


… un impatto violento che gli fece mancare il fiato per diversi secondi. Cos’era stato? Si chiese Lui. Cosa mai poteva scaricare così tanta energia da sbalzarlo in avanti con tanta veemenza?

Si girò, e quando vide che il colpevole era proprio una delle creaturine colorate della tipologia dotata d’ali (non la gialla, bensì parte del gruppo che lo aveva stanato all’inizio), si rese conto che tutte le sue impressioni sulla pericolosità di quegli strani esserini si erano rivelate esatte.

Questo gli ronzava intorno, compiendo delle agili manovre aeree che Lui faticò a seguire a causa della sua mole. Se avesse provato a fuggire, pensò, dandogli nuovamente le spalle, era certo che l’animaletto non si sarebbe fatto scappare l’occasione per assalirlo di nuovo. Non aveva altra scelta che tentare di scacciarlo.

Saettò un braccio per cercare di placarlo al volo, ma l’esserino argentato e blu lo evitò senza il minimo sforzo, e anzi approfittando della sua goffaggine per fiondarsi sul suo fianco scoperto, impattando nuovamente nella carne.

Una fitta corse lungo i nervi di Lui, esplodendo in una vampata di dolore.


Le sei giumente ricomparvero alla soglia del tunnel, precedute dalle faville dell’incantesimo di teletrasporto che poco dopo si spensero.

Le zampe anteriori di Twilight cedettero per lo sforzo, costringendo le sue amiche ad afferrarla prima che capitolasse al suolo.

«Hoo-wee! Grandissima, Zuccherino! Ce l’hai fatta, siamo fuori!»

«Già… *anf*… ma il difficile arriva adesso.»

Tutte insieme assistettero alla sbilanciata battaglia che stava avendo luogo tra il Luogotenente dei Wonderbolts e il Kaiju della caverna, con il contendente più voluminoso che mulinava le zampe nel difficile tentativo di fermare le virate secche dell’altro.

Rainbow Dash, con gli occhi completamente spalancati dinanzi allo spettacolo, era la più agitata del gruppo. «È impazzito per caso?! Sta cercando di sconfiggere quel bestione da solo?!?»

«No, Dash.» Scosse la testa Twilight, drizzando la schiena. «Ci sta facendo guadagnare tempo.»

Le altre si misero in fila dietro di lei, i volti che ardevano di determinazione.

«Dobbiamo usare gli Elementi ragazze, è l’unico modo per vincere. Fluttershy… »

«Lo so. È necessario farlo, ora lo capisco.» Disse risentita, ma senza esitare. Sentire la sua risposta alimentò l’ardore dei loro spiriti. Ora più che mai, niente avrebbe impedito loro di procedere col rituale.

Un paramedico inopportuno propose a Twilight di visitarla velocemente. Aveva notato sia il suo cedimento all’arrivo, che la macchia di sangue al lato della bocca, ed era preoccupato per le sue condizioni. Lei, con molto garbo, disse che se ne sarebbero occupati più tardi.


Dalla sua bocca scaturì un urlo che riecheggio per tutta la catena montuosa.

Era frustrato e confuso, incapace di bloccare le cariche dell’esserino volante.

Voleva che ci fosse un modo per eliminarlo, per evitare che questi continuasse ad accanirsi. Per giunta, l’aria tossica non faceva che allargare le profonde ferite sulla pelle, facendo gorgogliare spruzzi di sangue nero dalle piaghe.

Si era ricordato della Voce del Capobranco che lo avevano guidato nei suoi primi passi, la stessa che aveva deliberatamente ignorato fino a quando non aveva deciso di abbandonarlo, lasciandolo alla mercé dell’elemento alieno. Ora avrebbe dato qualsiasi cosa perché ritornasse a parlargli, a dirgli cosa fare. Ma adesso era da solo, giovane e inesperto. Doveva cavarsela con le sue sole forze e stabilire se aveva o meno le la stoffa per meritarsi la sopravvivenza.

La creaturina volante scese in picchiata su di Lui, mirando sta volta allo squarcio profondo che si stava allargando sul ventre.

Un bruciore come di un incendio che divampa nei muscoli, lo fece piegare in avanti. Si tamponò la ferita con una delle grandi zampe palmate. Poi si risollevò ruggendo.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Giurò a se stesso che non avrebbe più permesso all’esserino di farsi beffe di Lui. Alla prossima carica lo avrebbe contrattaccato…


Silver Sprint, nel frattempo, colse l’occasione per allontanarsi e recuperare un po’ di energie. Il suo respiro era pesante e correva dai polmoni alla gola in modo aritmico.

Il Kaiju invece se ne stava eretto con il collo teso in avanti, reggendosi il ventre mentre provava a bloccare la fuoriuscita del liquido scuro (che probabilmente era il suo sangue).

Il Luogotenente si domandò se tutte quelle picchiate erano servite in qualche modo a rallentare il nemico, poiché i soli segni di una qualche ferita erano attribuibili a quelle strane piaghe che gli maculavano la pelle, e che non erano sicuramente opera sua.

Mentre riposava, i ricordi ebbero tempo di ripresentarsi alla soglia, comprimendogli il cuore. Gli sembrava ancora strano concepire la sua vita futura senza la compagnia del suo migliore amico… scacciò quei pensieri con una scrollata del capo, promettendosi che vi avrebbe dedicato del tempo solo dopo aver terminato la missione.

Con la coda dell’occhio avvistò le Custodi, che correvano verso la loro posizione. Erano pronte a usare i loro Elementi. Ottima notizia quindi, perché voleva dire che presto sarebbero ritornati a casa.

Ma le contrazioni muscolari che attraversarono gli arti del Kaiju poco dopo lo misero subito in allerta. Si stava infuriando, e stavolta per davvero.

Il titano gli ruggì contro divaricando le lunghe zampe anteriori sui fianchi, come per lanciargli una sfida. “Fatti sotto” sembrava intimargli con i gesti.

Silver Sprint capì di essere finito in una situazione scomoda. Non sarebbe mai stato così stupido da tuffarsi a testa bassa in uno scontro così impari, ma d’altro canto se non ci avesse pensato lui, l’animale se la sarebbe presa con le Custodi.

L’esito degli istanti seguenti si sarebbe decretato sulla base della sua intraprendenza. Ma come doveva muoversi?

“Tu cosa faresti, Bulls?”

“Mi getterei proprio a testa bassa e gli farei vedere chi è il padrone del ring!”

Sorrise mestamente a quella sua fantasia. Sì, quello sarebbe stato proprio da Bulls. Lui si lanciava nelle cose, e non gl’importava delle conseguenze delle sue azioni, tanto ogni cosa si sarebbe sistemata a tempo debito. Così come quando manomise il macchinario per le tempeste, plasmando gli eventi che li avrebbero portati ad avvicinarsi.

Non pensava mai a ciò che faceva, tranne quando aveva sospettato che entrare nella caverna sarebbe risultato un errore, e aveva avuto ragione in quel caso.

Ripensarci gli fece ancora male, ma ora doveva convertire quel dolore in un’azione di coraggio, e pensare che in gioco c’era anche il futuro di sua figlia, che non poteva crescere in un mondo minacciato da un animale come quello.

Partì come una freccia nel vento attraversando le correnti d’aria, nuotandovi sopra mentre il suo avversario era più che mai pronto a riceverlo. Fintanto che avrebbe mantenuto la sua completa attenzione, le Custodi potevano avvicinarsi in tutta sicurezza.

Silver capì subito che qualcosa era cambiato quando dovette schivare all’ultimo istante un fendente che arrivò trasversalmente, dall’alto verso il basso. Il mostro non si era fatto solo più agguerrito, ma ragionava attentamente sui tempi e sulle direzioni delle mosse.

La successiva arrivò in orizzontale, costringendo il pegaso a compiere una volata verso l’alto. Allungò un calcio con la zampa posteriore dandosi velocità con le ali, ma l’animale lo costrinse a rivedere di nuovo i suoi piani. Solo la velocità di riflessi impedì al Wonderbolt di cadere sotto i colpi imperterriti del titano.

“Così non va!” Decise di ripiegare per elaborare una nuova strategia. Era troppo sperare di poter sorprendere il Kaiju con la sola agilità. Se soltanto avesse saputo dove trovare i suoi centri nervosi… avrebbe potuto facilmente paralizzarlo conquistando secondi preziosi. Ma sotto quegli strati di carne e senza una vaga idea della sua fisiologia, poteva solamente andare alla cieca.

L’animale protestò energicamente per la sua rocambolesca fuga, emettendo un ruggito. Non voleva lasciarselo scappare proprio ora che aveva trovato la grinta per attaccarlo.

Silver stava per voltarsi a guardare, per verificare se aveva coperto un po’ di distanza. Non si era accorto che il titano aveva allungato il passo verso di lui azzerandola del tutto. La sua visuale divenne all’improvviso scura, con qualcosa che copriva i pochi raggi del sole mentre si abbatteva contro di lui.

Si sentì uno schiocco e poi un potente suono detonante che attraversava il suo corpo.

Una zampata lo aveva infine raggiunto, e lui si ritrovò a volare contro la parete di roccia sul fianco della montagna…


«L’HA COLPITO! RAGAZZE, L’HA COLPITO, DOBBIAMO ANDARE DA LUI!!» I nervi della pegaso arcobaleno disertarono al loro compito, e la spinsero nella direzione dove era caduto il suo eroe.

«Dash, non puoi mollarci adesso! Ci serve l’Elemento della Lealtà!» Vociò Twilight, spaventata all’idea di vedersi rovinare tutto per colpa della pegaso.

Anche Rainbow Dash era spaventata, e questo le impedì di essere obbiettiva. Non solo le sue amiche, ma tutta Equestria dipendeva da lei e dalla scelta di abbandonare o meno il gruppo.

Tornò subito da loro, vergognandosi per essere stata così impulsiva.

Il Kaiju ruggì come una bestia del Tartaro, dirigendosi verso le Custodi. Esse smisero di galoppare, al contrario dei loro impulsi naturali, che  suggerirono invece di voltarsi e scappare, ma nessun rischio poteva essere equiparato a quello di lasciar vincere il mostro.

I suoi passi fecero vibrare la terra, salendo a ogni avanzamento d’intensità, come un promemoria che doveva ricordar loro che cosa sarebbe successo se non si fossero mosse.

«Che facciamo, Twilight?! Come ci dobbiamo comportare?!?» Rarity e le Custodi continuavano a riporre fiducia nella leadership della loro amica, ma neppure Twilight aveva una risposta a quell’immane massa di carne e odio, che procedeva come un uragano verso di loro.

Non era in grado di afferrare i suoi pensieri, che saettavano di qua e di là come moscerini minuscoli, e se anche avesse dato ascolto all’istinto, la sola cosa che le avrebbe proposto sarebbe stata “Fuggi!”.

Poi però successe qualcosa, che coinvolse tutte loro simultaneamente. Ma nessuna, in seguito, avrebbe saputo spiegarsi il perché fosse successo, e neppure trarre delle conclusioni su quale fosse l’origine del fenomeno.

I loro Elementi si attivarono in automatico, senza che vi fosse stata la volontà da parte del gruppo di procedere nel rituale. Un nastro di Armonia legò i collier alla corona di Twilight, e la magia del gruppo si concentrò intorno alla pietra che rappresentava il suo cutie mark.

Le giumente a quel punto avrebbero dovuto essere in trance, sollevate per aria e immobili in uno stato di atarassia, invece rimasero coscienti e s’interrogarono tra loro, lanciandosi espressioni smarrite, addirittura porgendosi domande reciprocamente. Non era il tipico rituale a cui erano abituate, e ulteriore conferma di ciò arrivò poco dopo, quando dal centro della corona, l’Armonia concentrata sprigionò un’immensa ondata di pura energia che si abbatté come un’eruzione contro il Kaiju in corsa, fermandone l’avanzata.

Improvvisamente Twilight capì che cosa stava succedendo, anche se non seppe darsene una giustificazione. «Ci stanno proteggendo! Gli Elementi vogliono aiutarci a completare l’incantesimo!» Era la sola ipotesi che rientrasse nel suo piano razionale. Questo, oppure il merito andava attribuito al profondo legame che avevano stabilito negli anni, e che si stava manifestando in quel momento in tutta la sua potenza. «Ragazze, su forza! Siamo abbastanza vicine ora, concentratevi!»

Il raggio si esaurì e il Kaiju ne uscì barcollante e svigorito, ma non ci fu tempo per lui di riprendere la carica. In pochi secondi le Custodi degli Elementi erano già in posizione e in procinto di completare il rituale, stavolta secondo il procedimento corretto.

Mentre i loro zoccoli non toccavano praticamente il suolo, raggi multicolore andavano a congiungersi nella forma dell’Arcobaleno dell’Armonia, che immediatamente andò ad avviluppare il gigante sconfitto.

Il Kaiju guardava con sincera curiosità quelle fasce di colore che lo rivestivano come bende dalla testa ai piedi, ma il momento di assoluta meraviglia andò a spegnersi molto presto…


La sua carne cominciò a sfrigolare, come se ad avvolgerlo fosse una smisurata lingua di fuoco. Non era neppure comparabile al raggio contro il quale si era confrontato poco prima. La “cosa nell’aria”, contro la quale era vulnerabile e inerte, era concentrata ora all’interno di quei nastri colorati, e lo divorava senza che ci fosse modo di sfuggirvi.

Provò uno strazio infinito, mentre i suoi arti sembrarono paralizzati da legacci invisibili (o forse era proprio il nastro) e i suoi muscoli erano attraversati da spasmi violenti che gli precludevano ogni possibilità di ribellarsi o difendersi. Il suo incubo più recondito si era appena realizzato, la paura di essere serrato da un agente di quel mondo alieno.

Poi qualcosa superò il fracasso dei suoi lamenti e vibrò all’interno della sua cavità auricolare.

«Reazione estrema all’elemento sconosciuto. La “Proteina” sta decadendo in fretta, riteniamo che questo possa aver dato il via a una reazione incontrollata… »

Pur sembrando strano udirla in quel momento, avrebbe riconosciuto quella voce tra mille altre simili. Era la stessa che aveva innescato l’Amnesia.

«Collaudo del “Mietitore” fallito, le analisi preliminari indicano la specie come inadeguata all’inoculazione. Si richiede trasferimento del lotto completo alla “Digestione”. » Parlava senza emozioni, disinteressata alla sofferenza di Lui, concentrata anzi in un compito più importante.

Proteina. Mietitori. Digestione. Queste tre parole si allinearono criptiche nella testa di Lui, in attesa di una soluzione.

“Non capisco” usò i suoi pensieri per comunicare con la Voce “di cosa state parlando? Che cosa succede?” Era forse sciocco desiderare spiegazioni in un momento come quello, ma in un certo senso, sentiva di avere bisogno di sapere.

La Voce tornò a rivolgersi a Lui, ed era di nuovo dura e malvagia, con un timbro ricolmo di acredine. «Ti abbiamo messo a questo mondo perché ottemperassi al nostro compito, ma hai fallito. Ora abbiamo un nuovo incarico per te: Morire!»

Da quel momento non la sentì più, non sentì più niente in verità. Solo il tintinnio dell’arcobaleno mortale, che ricopriva i suoi ultimi grugniti.

Il nastro multicolore generò un cono che vorticò su se stesso come una tromba d’aria, quindi si ritirò a cominciare dall’imboccatura in cima…


Quando gli Elementi dell’Armonia ebbero esaurito il loro effetto, il rituale si concluse con un flash luminoso, che tolse alle Custodi la loro visibilità per un momento.

Riaprirono gli occhi sbattendo le palpebre. Ora la priorità era scoprire in quale modo il rituale aveva agito.

Si udì un tonfo pesante che sembrò quasi l’avvisaglia di un terremoto, e una nube di pulviscolo si sollevò da terra proprio in quel momento nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il Kaiju.

Attesero che la polvere si depositasse, e in seguito che il loro cervello elaborasse l’immagine che le loro pupille avevano captato. Gli Elementi dell’Armonia dovevano essere una soluzione drastica al problema del Kaiju, ma nessuna era pronta a immaginare che sarebbero stati così efficaci: il titano era morto, il suo cadavere era stato bruciato e ridotto a una carcassa annerita, con uno strato di pelle carbonizzata e fumante che ricopriva il loro nemico, e fosse profonde nella carne che lasciavano esposti gli organi interni.

«Ma che accidenti… »

«No, non è possibile!» Esclamarono Applejack e Twilight, quasi in simultanea.

Ma la reazione peggiore scaturì dalla gola di Fluttershy. La Custode della Gentilezza fu colta da un attacco d’isteria, che le fece perdere il controllo, facendola gridare come un’invasata. «AAAAAHH!! NO, NO, NO!!! Che cosa gli avete fatto?!? CHE COSA GLI AVETE FATTOOO!?!?» Strillò così forte da costringere le sue amiche a tapparsi le orecchie.

«Fluttershy, calmati ti prego! Non era previsto che finisse così!»

«Ma non doveva morire, questo non è giusto!! Non dovevamo ucciderlo… OH CELESTIA, IO NON DOVEVO UCCIDERLO!!!» Prese a battersi la testa ripetutamente, così forte da produrre dei tonfi udibili nell’aria.

Rarity, nel frattempo, che in diverse occasioni si era dimostrata di stomaco forte ed era riuscita a trattenere suo malgrado lo stimolo, benché il corpo la supplicasse di lasciarsi andare, si mise in disparte e vomitò una smisurata quantità di materiale sul terreno roccioso, che fu il suo pranzo, insieme ai resti della colazione  e della cena precedenti.

Intanto la ragione di Fluttershy andava sempre più a spezzarsi. Cominciò a correre verso la carcassa.

«Fluttershy, ferma!» Applejack e il gruppo le balzarono addosso per cercare di trattenerla, ma l’impresa si rivelò più ardua del previsto. Quando la pegaso era in preda ad emozioni forti, soprattutto dinanzi ad animali feriti – o peggio -  nessuno era mai abbastanza forte da riuscire a tenerla.

«LASCIATEMI! DEVO ANDARE DA LUI, DEVO VEDERE SE STA BENE!!»

«Cerca di controllarti zuccherino, è andato, ok?! Fattene una ragione!»

«NO! NO! NON È VERO, STAI MENTENDO!!»

Ora stava cominciando ad avvolgersi la criniera intorno agli zoccoli, nel chiaro tentativo di strapparsela a ciuffi.

«Per mille maiali grugnenti, Twilight, fai qualcosa prima che si faccia lo scalpo da sola!!»

Si misero in due a cercare di bloccarle le zampe anteriori, Rainbow Dash e Pinkie Pie.

«Tenetela ferma, ho un’idea!» Twilight lasciò la propria presa e si pose davanti alla pegaso canarino. Dal suo corno scaturì un incantesimo che illuminò di una luce violetta il volto della pony.

«Perdonami amica mia, ma non ho altre soluzioni… »

I loro occhi si toccarono per un ultimo istante, tra biasimi e rancori, e Fluttershy a quel punto s’accasciò a terra. I suoi muscoli si rilassarono e le sue palpebre si fecero pesanti in un attimo. Poco dopo sprofondò nel sonno più profondo.

Le altre Custodi attesero un po’ prima di fidarsi a lasciarla.

«È andata, ragazze. Dormirà per un po’ ora.» Avvisò, e mentre lo faceva, si asciugò una lacrima dall’angolo di un occhio.

«Era un Colpo Narcotizzante quello, vero?» Fu la domanda di Rainbow Dash, alla quale Twilight rispose brevemente, sibilando un «Sì… »

Non andava fiera di ciò che aveva appena fatto, e quando Fluttershy si sarebbe svegliata, avrebbe dovuto trovare un modo per fare ammenda con lei. Ma al momento, era stata la decisione più saggia.

Si girarono a guardare la carcassa abbattuta. Ora che nel gruppo era tornata un po’ di serenità, potevano valutare con più dovizia di particolari i fatti appena accaduti.

Qualcosa era andato storto, l’alicorno ne era sempre più convinta. Gli Elementi avrebbero dovuto epurare il Kaiju dal male, privarlo delle forze quel tanto che bastava a renderlo inoffensivo ai pony, o al peggio, la giumenta avrebbe accettato che lo riducessero a una statua di pietra, un’enorme statua di pietra, così come era capitato a Discord. Ma quello no… ucciderlo era stato troppo, e il fatto che fosse successo in quel modo, accresceva ancora di più la gravità della circostanza.

«Io… forse sono sciocca a dirlo, ma questo non è affatto divertente.» Commentò la Custode della Gioia, che incredibilmente stava dimostrando una grande forza di carattere.

«No, hai ragione, Pinkie. Non lo è per niente. Non immaginavo che saremmo arrivate a questo. È come se gli Elementi avessero agito più di quanto avessero dovuto. Non so, forse dovevamo fermarci prima, e magari gli esiti a questo punto sarebbero stati diversi… »

«Sentite, io comunque vado a vedere come sta Silver.» Intervenne Rainbow Dash, che ricordò loro la priorità in scaletta.

«Veniamo anche noi Dash, aspettaci.» Chiamò con un cenno la squadra di stalloni rimasta indietro. I quali avevano seguito silenziosamente tutta la scena.

Applejack intanto stava esaminando i resti del Kaiju, da una distanza che le consentiva di vederne tutto il corpo per intero. Non era stata una curiosità morbosa la sua, aveva visto che qualcosa si stava verificando all’animale, e quindi si affrettò ad avvisare le sue compagne. «Ahm, Twilight… mi sa che questa la dovete vedere.» Non la sentirono subito, dovette chiamarle di nuovo e a voce più alta, ma quando si girarono, videro tutte che cosa stava cercando di comunicare la cowgirl: lunghe strisce di un fumo denso e molto nero si alzavano dalla carne e dai tessuti molli del Kaiju, ma non erano dovuti alle ustioni provocategli. La prova giunse quando videro che cosa stava succedendo al suo corpo, ossa comprese: le costole, ora visibili attraverso la pelle strappata, si ripiegarono su se stesse, e le articolazioni delle braccia uscirono dalle proprie sedi, abbandonando gli arti a terra, privati della tensione muscolare. Poi organi interni e fluidi corporei si mischiarono insieme in una corrente poltigliosa dal colore dell’inchiostro, che emanava un tanfo micidiale, avvertibile anche da lontano, e che si roversò in tanti piccoli ruscelli nella valle circostante.

«È come se il suo corpo stesse… marcendo. Ma in pochi minuti… » Commentò inquieta la cowgirl. La visione era davvero troppo terribile per i candidi occhi di un pony.

«Andiamocene via ragazze, vi prego. Non credo di resistere un solo minuto di più a vedere quella cosa. Abbiamo concluso qua, no? Allora davvero, andiamocene!» Rarity lottò per tenere dentro di sé quel poco di cibo che non aveva rigettato.

Si riunirono alla squadra di soccorso. Gli Elementi dell’Armonia a quel punto erano tornati tra le fronde della criniera di Pinkie Pie, quasi le stesse Custodi avessero paura di continuare a indossarli.

Insieme andarono alla ricerca di Silver Sprint, mentre ciò che rimaneva del colossale predatore si disperdeva tra le pieghe della valle montuosa.


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EPILOGO ZERO


Era strano tornare a Manehattan dopo quello che avevano passato. Avevano sconfitto il mostro, in modo drastico e definitivo, ma prima che la città si riprendesse del tutto dagli eventi di quel giorno (e anche loro), sarebbero dovuti trascorrere molti mesi, forse addirittura degli anni.

La sera era scesa sulla metropoli. Gli sfollati venivano distribuiti nelle varie tende comuni, dove avrebbero diviso un piccolo spazio in attesa di tornare alle proprie abitazioni (i più fortunati).

Le Custodi intanto si erano divise per strada, ed ognuna cercava a modo suo di trascorrere le ultime ore prima di fare rientro a Ponyville.

Pinkie Pie aveva una promessa da mantenere, ed era tornare dai due piccoli che attendevano ancora di essere recuperati dai propri genitori. Trascorse il resto della serata con loro, cimentandosi in svariati giochi di prestigio, che la aiutarono a distrarsi dei pensieri più tetri.

Twilight non aveva idea di dove fosse il resto delle sue amiche. Supponeva che stessero dando uno zoccolo a qualche squadra di recupero dispersi, oppure che avessero trovato un posto dove ricaricare le proprie batterie. Andava bene così, meritavano un po’ di riposo.

Nel frattempo si era fatta visitare da un pony infermiere per accertarsi delle sue condizioni, e l’esito, dopo che le aveva auscultato il petto e il cuore, e l’aveva esaminata con un incantesimo specifico per le radiografie, indicava che la Principessa era perfettamente in salute e che nulla di pericoloso stava tramando nel suo organismo.

E il sangue che le era uscito dalla bocca? Aveva domandato in un eccesso di zelo e di diffidenza. Presto spiegato: si era morsa inavvertitamente quando il Kaiju aveva urtato la sua barriera magica. Si era fatta curare per i dolori muscolari e alle ossa, e aveva ringraziato l’infermiere per poi congedarsi da lui.

Poco dopo era con Celestia, a riassumerle quanto era successo nella valle. Doveva informarla del bizzarro comportamento che avevano avuto gli Elementi dell’Armonia.

«Bruciato?!» Aveva domandato la Principessa del Sole, sgomenta per la notizia, dopo che Twilight aveva terminato di esporle il riassunto.

«Completamente! Non capiamo come sia potuto succedere! Abbiamo seguito il rituale alla lettera, così come abbiamo fatto in altre occasioni! Solo che poi, quando ci siamo fermate… il Kaiju era morto, e… » si ricordò di quell’altro dettaglio, che non andava trascurato «poi ha cominciato a degradarsi, come se si stesse decomponendo! Ma è successo tutto in pochi minuti, non è possibile che sia stato provocato per cause naturali!»

Princess Celestia aveva riflettuto a lungo sul resoconto della sua ex-studentessa. Lei, come precedente portatrice e Custode degli Elementi, era al corrente di tutte le sfaccettature di cui erano capaci quegli strumenti. Ma neppure lei, nella sua ancestrale saggezza, seppe dare una spiegazione al misterioso comportamento che avevano manifestato in quell’occasione. «Gli Elementi agiscono come bilanciatori dell’Armonia» cominciò a spiegare «pertanto sono loro a scegliere, a seconda del contesto, quale approccio adottare contro le diverse avversità di Equestria. In questo caso, devono aver stabilito che evidentemente non c’era altra garanzia per il nostro mondo, se non di portare alla morte quell’animale.» Quest’ipotesi, per quanto drammatica che fosse, era quella che più si avvicinava a una soluzione esaustiva dell’accaduto. «Mi dispiace solo che voi siate state costrette ad assistere a quello spettacolo.»

«Fluttershy non l’ha presa bene… »

«Lo so, mi hanno informato di quello che vi è accaduto. Sei stata costretta ad addormentarla.»

«Già, e ora non so neanche se avrò il coraggio di guardarla di nuovo negli occhi. Lei ci teneva così tanto a risolvere la crisi in modo pacifico… » Abbassò il capo per la vergogna di mostrare il suo volto arrossito e le lacrime che cercavano di uscirle. Ma Celestia le pose uno zoccolo sotto il mento e la risollevò gentilmente.

«Hai agito per il meglio, mia cara Twilight. Fosse capitato a me… non credo che avrei dimostrato la tua stessa prontezza di spirito.»

Questo la aiutò a tirarsi un po’ su. Se non altro la sua ex-mentore non disapprovava la sua condotta, e non aveva commesso errori durante il compimento di uno dei suoi primi incarichi ufficiali da Principessa, quindi forse non era così fuori posto ad indossare quei panni.

«Sarà meglio che tu ora vada da lei, però. Immagino che vorrà vedere dei volti familiari quando si sarà ripresa.»

«Già, e poi ho delle scuse da farle.» Si strinsero in un tenero abbraccio e poi ognuna prese una direzione distinta.


Twilight marciò lentamente verso la tenda in cui sapeva che Fluttershy era stata sistemata. Era nell’accampamento adibito ai corpi militari. Più piccolo rispetto a quelli della gente di Manehattan, ma anche meno gremito, più sorvegliato e tranquillo. C’era sufficiente spazio per camminare godendosi il proprio spazio personale.

Gli infermieri potevano prestare cure ai soldati e muoversi lungo i percorsi senza temere di fare lo slalom nella calca generale. E ogni paziente era collocato in una branda isolata dalle altre da un tendaggio bianco, che ne garantiva la privacy per se stesso e per i proprio visitatori. Per questo un settore era anche stato destinato alle personalità più importanti in città. A ricchi rimasti feriti nei crolli, alle celebrità dello spettacolo e ai politici troppo boriosi per accettare di dividere il proprio spazio con dei pony di ceto inferiore.

Twilight non avrebbe mai gradito che dei privilegi simili le fossero riservati se si fosse trovata nella stessa situazione, e meno che mai Fluttershy, che non ricopriva di certo alcuna carica di rilievo. Per sua fortuna, si trattava solo di una sistemazione temporanea, che sarebbe scaduta al momento del suo risveglio.

Mentre la Principessa scorreva tra le file di letti, qualcuno ogni tanto si fermava e le offriva un inchino, comprensibilmente onorati di vederla così da vicino, e ogni volta lei doveva insistere perché non si facesse caso al suo passaggio, che c’erano sicuramente pony più importanti a cui prestare attenzioni (i pazienti, per esempio).

Sì udì distintamente l’urlo di una puledrina alcuni metri più in là, Twilight quindi si fermò a guardare la scena.


Lil’ Wing, manto lavanda e criniera riccia, era sfuggita al controllo della sua foal-sitter e della Guardia Cittadina che le aveva condotte entrambe nella tenda.

Se di principio trottava indecisa, spinta nella calca del gran numero di pony in movimento, desiderando solo di scappare via da tutto quel trambusto, d’improvviso si era sentita rinvigorire delle proprie energie non appena aveva riconosciuto la sagoma del padre che veniva trasportata da una lettiga lungo la corsia.

«Papaaaaà!!» Aveva gridato scattando poi per raggiungerlo, andando contro alle proteste dei due pony adulti che erano entrati con lei.

La foal-sitter tentò di lanciarsi in un breve inseguimento, quando per poco non andò a sbattere contro una dottoressa di passaggio, realizzando così che era una pessima idea.

In questo modo la piccola poté raggiungere il suo unico genitore senza che nessuno tentasse di fermarla. Persino gli stalloni che trasportavano la lettiga esitarono a muoversi quando la vocina della piccola pegaso raggiunse le loro orecchie.

Per tutto quel tempo Silver Sprint era rimasto cosciente, e infatti aveva fatto loro cenno di fermarsi per dedicare un minuto a sua figlia.

Lil’ Wing si sollevò in volo facendo ronzare le sue alette.

«Papà, papà! Cos’hai?! Stai bene?! Che cosa ti è successo?!?» Lo tempestò con queste e altre domande. Gli occhietti saettarono tra le bende che avvolgevano il corpo del padre, e inorridì quando vide il binario di sangue che saliva lungo il suo mento (appartenente al defunto Bullseye, ma lei questo non lo sapeva ancora).

«Va tutto bene, piccola. Ho solo fatto a botte con il mostro.» Disse lui accarezzandole una guancia con il dorso dello zoccolo.

«Non voglio che ti succeda come con la mamma, ti prego papà, non te ne andare!» Le lacrime stavano già riempiendo il suo visino dolce e indifeso, e la puledrina cominciò a singhiozzare.

Uno dei pony della lettiga decise d’intervenire al suo posto. «Non succederà niente al tuo papà, stai tranquilla piccola. Dobbiamo solo farlo riposare un po’, e poi potrete tornare a casa».

Lil’ Wing lo aveva guardato negli occhi con fare sospetto, ma poi fu lo stesso Silver a confermare le sue parole con un cenno del collo. Questo, insieme alla zampa anteriore destra, erano le sole due parti del corpo ad essere libere dai bendaggi in cui era avvolto.

Le Custodi degli Elementi lo avevano ritrovato in stato d’incoscienza con un numero imprecisato di fratture allo scheletro, le quali anche ora, in attesa degli esami, era difficile affermare quante fossero di preciso. Ma la cosa più importante, il grande sollievo per Rainbow Dash, sua figlia, e così di tutti quelli che lo conoscevano, era stato scoprire che era sopravvissuto al confronto con l’animale.

La ferita più grande ed insanabile era però nascosta alle lenti dei medici e alle loro magie. Una ferita che si era aperta nel suo cuore e che riguardava Bullseye, l’amico che ora non c’era più. Quello non era però il momento dì esibire la sua pena, doveva mostrarsi forte per sua figlia, che aveva già di suo il ricordo di un terribile lutto, della mamma che oramai non c’era più da un anno.

«È vero? Mi prometti che torniamo a casa?» Chiese lei con gli occhi rossi e quella vocina acuta che gli suscitava sempre una tenerezza incredibile, dove la malattia che l’aveva colpita non riusciva a discostarla dal profondo affetto che nutriva per il papà.

Silver Sprint, con il corpo attraversato dai dolori nonostante gli incantesimi anestetici, cedette al bisogno di commuoversi, rinunciando per una volta all’immagine manifesto che doveva dare di fronte a tutti.

«Sarò presto a casa, piccola. Te lo prometto.» Fece una pausa e sorrise, conferendo così una meravigliosa sospensione alla risposta. «E quando mi sarò ripreso, ti farò vedere come si fa un Arcoboom Sonico!»

La notizia, che impiegò un po’ a essere elaborata, colmò d’orgoglio gli occhietti della figlia, che sostituirono la sua profonda paura di rimanere orfana una seconda volta, con un acceso e rinnovato entusiasmo. Si tuffò su di lui cingendolo con le zampette, e lui la lasciò fare, nonostante le ferite su tutto il corpo. La strinse a sua volta con il solo braccio libero, mentre lei piangeva, questa volta di gioia.

La foal-sitter, rispettosamente in disparte, sorrise a sua volta all’annuncio di Silver Sprint.


Più in là di due file di letti, sbirciando nello spazio tra due tendine, anche Twilight fu sollevata del lieto fine della loro famiglia, ma questo le ricordò anche che doveva ancora trovare Fluttershy. Si rivolse a qualcuno per chiedere informazioni su dove trovarla, quindi rispettò alla lettera le indicazioni fornitele.


La tenda era spalancata e concedeva uno spazio di due metri percorribili intorno al letto, Twilight vi trovò dentro una giumenta dal manto rosa e la criniera arancione in camice bianco, che levò il disturbo non appena lei entrò.

La sua amica era ancora addormentata, avvolta da una sottile coperta che si adeguava perfettamente al clima caldo di quella stagione. Gli occhi si agitavano sotto le palpebre, indice che stava sognando, e che la scena non doveva esserle particolarmente gradita, almeno a giudicare dalla smorfia che le contraeva il volto.

Chiuse il tendaggio, si sedette su uno scomodo sgabello adagiato vicino al comodino, e rimase in attesa che succedesse qualcosa. Fuori era udibile il via vai generale, ma il fracasso, in qualche modo, era escluso dalla tenda. Qualcuno gridò di farsi portare una flebo con un medicinale il cui nome si disperse facilmente nel baccano generale, ma anche questo svanì rapidamente dall’attenzione dell’alicorno. In quei minuti che Twilight trascorse contemplando la sua amica, ci fu spazio solo per loro due.

La Principessa fremeva per l’attesa, impaziente di scoprire quale sarebbe stata la reazione di Fluttershy al momento del risveglio.

Prese quasi sonno, e le sue palpebre erano in lotta contro la stanchezza, quando un movimento sotto la coperta la fece ridestare. Era forse stata un’impressione? Un inganno mentale dovuto all’impazienza e al desiderio di rivederla in zoccoli?

No, la zampa anteriore sinistra si spostò scivolando dal bordo del letto, quindi fu riportata al petto, stringendo a sé la coperta. Fluttershy aprì gli occhi fissando il pallido cono della tenda. Era confusa, ma ancora troppo assonnata per mettere in chiaro le informazioni che riceveva.

Twilight si avvicinò di fretta al suo capezzale, prima che cominciasse ad agitarsi.

«Ehi Fluttershy.» La salutò con un approccio prudente e leggero.

«Twilight? D-dove mi trovo?» Chiese con la voce impasticciata e strizzando le palpebre.

«Ti abbiamo portata qui dopo che il Kaiju è stato sconfitto» Evitò cautamente di usare il termine “ucciso”. «Stiamo tutte bene. Le altre hanno deciso di separarsi per un po’ mentre aspettavamo che tu ti riprendessi.»

«Capisco.» La pegaso gialla si strofinò gli occhi. «Che ore sono adesso?»

«Le dieci, di sera… no, scusa… le dieci e mezza.» Si corresse dopo aver verificato sulla modesta sveglia posta sul mobiletto. Ammesso e non concesso che l’orario segnato fosse quello esatto.

Fluttershy chiuse ancora gli occhi come per riflettere sulla risposta. «Ho dormito per cinque ore quindi.»

«È colpa mia.» Spiegò con imbarazzo guardandosi in giro. «Sai, in genere l’effetto non dura per più di sessanta minuti, se a farlo è un mago di  medio livello. Ma evidentemente questa regola non si applica a me… devo imparare a dosare le mie capacità la prossima volta… »

Malgrado gli sforzi per evitarli, sentiva che gli occhi dell’amica erano come schegge roventi che le penetravano la mente. Si conficcavano a fondo nella sua coscienza e per quanto ci provasse, non riusciva a fare nulla per rimuoverle.

«Fluttershy… »

«Sì, adesso mi ricordo tutto. Ricordo che siamo state costrette ad affrontare il Kaiju con gli Elementi dell’Armonia… e che poi lo abbiamo ammazzato… »

Oh, quanto fu tagliente la scelta di parole che aveva adottato.

«Fluttershy, davvero, io… »

«Non serve, Twilight. Capisco perché sei stata costretta a farlo. Capisco che non è colpa vostra (o mia) se è andata a finire in quel modo. Ho sbagliato a reagire in quel modo… ero… » cominciò a piangere, le parole le uscivano a singulti tra un gemito e l’altro «ero così… convinta… che… che si potesse fare qualcosa… per salvarlo… »

«Oh amica mia… cara amica mia… » le andò vicino e la abbracciò «piangi se devi, ok? Ma per favore, fatti forza… lo abbiamo fatto per il bene di Equestria. Con questo gesto abbiamo salvato la vita a migliaia di pony, forse a milioni… » Si tennero forti e strette, e insieme condivisero le lacrime.

«Lo so, lo so… è solo che… devo farmene una ragione ecco… »

Piansero fino a quando l’ondata d’emozioni confluì fuori dai loro cuori. Quando poi Twilight terminò le sue e non udì più i singhiozzi da parte dell’amica, decise di lasciarla.

In un cassetto del comodino c’erano dei fazzoletti di carta inscatolati. Ne prese uno per sé e con la levitazione e ne passò un altro a lei, aspettando che si risistemasse.

«Dovremmo andare dalle altre… immagino che siano stanche morte e vogliano tornare a casa» Disse la pegaso ora che aveva recuperato un po’ di serenità.

«Ahm, Fluttershy… c’è una cosa che ti vorrei chiedere… »

«Aha, dimmi?» La guardò con curiosità.

«Ecco… forse non è il momento adatto per chiedertelo… » ripensò a quel pomeriggio, e a come si era svolta tutta la scena «oggi, nella caverna… quando il Kaiju si è infuriato e ha cominciato ad agitarsi… mi stavi dicendo qualcosa… hai detto che “non è di questa terra”… che intendevi dire?»

La domanda intristì nuovamente la pegaso, Twilight se ne pentì immediatamente. La fretta è cattiva consigliera, ma oramai la frittata era fatta.

«Non saprei… come ti dicevo, quando parlo con gli animali entro totalmente in sintonia con loro, ma oggi è stato diverso… non è che non ci riuscivo… ma era come se qualcosa mi escludesse… »

«Come “ti escludesse”?» Corrugò la fronte.

«È difficile da spiegarsi… non mi è mai capitato di provare qualcosa di simile prima d’ora… ogni animale possiede un proprio linguaggio, ed io ero convinta di avere scoperto quale fosse il suo, nei momenti in cui grugniva o ringhiava. Ero certa di riuscire a comunicarci, e ci stavo anche riuscendo, credimi!»

«Lo so, Fluttershy, l’ho visto con i miei occhi.»

«Eppure quando lo facevo si metteva di mezzo questo “fattore”, che mi cacciava fuori ogni volta che ci riprovavo. Il Kaiju protestava, e quando lo faceva la mia testa mi faceva male da impazzire, non riuscivo neanche a stare sulle zampe, da quanto mi faceva male!» Si fermò per riprendere fiato. Non era Pinkie Pie, non era abituata a fare discorsi lunghi e prolissi. «E poi c’era dell’altro. Pena, dolore, tristezza, un senso di abbandono infinito e d’impotenza… nessuna creatura che abbia mai incontrato a Equestria mi aveva fatto sentire delle emozioni così nere. Da dovunque fosse arrivato, casa sua non doveva essere un luogo felice in cui vivere… »

Twilight era rimasta ad ascoltare senza avere frasi da renderle. Se questo era veramente quello che l’amica aveva avvertito da quel tentativo di dialogo, ora comprendeva meglio la sua ostinazione nel volerlo salvare a tutti i costi.

L’arrivo di quella creatura aveva portato morte e paura su tutto il regno, ma se n’era andata lasciandosi dietro molti misteri, che forse non avrebbero mai avuto una risposta.

Provò a deglutire ma si rese conto che la sua bocca era secca e arida, allora si avviò verso la tenda scostandola lentamente. Come lo fece, i rumori dell’accampamento si fecero più intensi, e la realtà della crisi al di fuori penetrò nel loro spazio intimo prendendosi la loro attenzione.

«Vado ad avvisare i dottori che ti sei svegliata, tu distenditi ancora un po’ finché non sarò tornata… » le disse in tono mesto.

«Va bene… ahm, Twilight…»

«Sì?»

«Pensi che sia tutto finito, non è vero? Insomma… torneremo alla nostra vita di sempre?»

La domanda era di quelle importanti, ed era difficile dare una risposta considerate le poche informazioni che avevano raccolto. La città stava affrontando una calamità senza precedenti, e molti di quei danni sarebbero rimasti come una ferita indelebile, nelle strade e nei loro cuori. Ma c’erano anche degli aspetti positivi in tutto ciò, come il fatto che alla fine il Kaiju Eremita era stato sconfitto, e tra un po’ di lui ne sarebbe rimasto solo uno spiacevole ricordo.

Sì, in fondo una speranza c’era. E il cuore dei pony era forte e coraggioso, abbastanza per affrontare le difficoltà che li attendevano.

Con questo pensiero in testa, presa tra gli zoccoli la zampa della sua amica e commossa le disse: «Sì, amica mia. È tutto finito… »



CONTINUA IN “Fall of The Kingdom: EQUESTRIA RIM”

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