EQUESTRIA RIM: Storia del Giorno Zero di Alvin Miller (/viewuser.php?uid=112400)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 0.1: L'Eremita ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 0.2: Il Messaggero ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 0.3: Il Sentiero ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 0.4: La Tana ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 0.5: L'intrusione ***
Capitolo 1 *** CAPITOLO 0.1: L'Eremita ***
*NOTA
INTRODUTTIVA*
“Scrivere
qualcosa di così grande come FALL
OF THE KINGDOM - Equestria Rim, significa
tornare continuamente sulle proprie orme per modificare ciò
che si è fatto in precedenza, a beneficio
dell’esperienza che sarà raccontata in futuro.
A
un certo punto della stesura - erano le ultime pagine
dell’ATTO.1 - ACCETTAZIONE - gemmò in me
l’ispirazione per una nuova sottotrama che avrebbe potuto
fare da collante per tutti gli avvenimenti che racconterò
dall’ATTO.2 in poi. L’unico problema, giunti a
questo punto, fu che non c’era abbastanza spazio per
introdurla nel modo dovuto. Dovevo raccontare del IV Attacco, capitolo
di per sé saturo di accadimenti, e la circostanza mi aveva
convinto a limitare questa nuova sottotrama a una semplice citazione,
celata (neanche poi sottilmente) in due semplici righe di dialogo; vi
sfido a trovarle, se siete abbastanza caparbi (si trova nella parte
seconda de “Il Quarto Attacco”).
Avevo
bisogno di un ripiego dunque, qualcosa che mi permettesse
d’introdurre la sottotrama senza scompigliare
l’intricatissimo piano iniziale. Ed è stato allora
che è arrivato “Storie
dall’anno zero”. Questo
fumetto, rilasciato poco dopo l’uscita di Pacific
Rim al
cinema, narra gli antefatti che precedono il film, riassumento per
sommi capi i passaggi fondamentali che hanno portato
all’evoluzione degli eventi, così come li
conosciamo noi.
Era
PERFETTA come ispirazione! E così, ecco “Storia
del Giorno Zero”. Breve
Atto extra che vi racconterà gli avvenimenti subitamente
attigui al Prologo di FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim.
È
a tutti gli effetti un inizio alternativo della stessa storia, che
può essere letto come supplemento del Prologo originale, da
parte dei lettori che già conoscono e seguono ER,
così come dai nuovi lettori, che si avvicinano per la prima
volta al libro.
Giunti
a questo punto, non mi resta che augurarvi una piacevole lettura,
sperando la troviate all’altezza dell’opera
originale, o che magari - se siete tra quelli che sentono parlare di ER
per la prima volta - si convincano a proseguire l’avventura
una volta completate queste pagine.
Un
caloroso grazie da parte mia, e vi lascio liberi di
cominciare!”
Cover
created by Alvin
Miller
CAPITOLO
0.1: L’Eremita
In
principio fu il caos. Esplosioni, morte e distruzione. Un senso
d’impotenza che si tradusse in un’inevitabile
verità: non sarebbe sopravvissuto. Poi il buio si prese ogni
cosa.
Spalancò
gli occhi, e un senso di vuoto lo travolse. Non c’erano fonti
di luce ma barlumi sottili che filtravano attraverso muri lineari,
permettendogli d’intuire quanto fosse ampia la scatola che lo
rinchiudeva. Forse chi lo aveva messo lì non voleva che
vedesse cosa c’era dall’altra parte.
Era
sospeso a mezz’aria, sostenuto da qualcosa in un clima
torrido e caldo.
Si
sentivano suoni uterini provenire dai bordi, come di liquidi
gorgoglianti che serpeggiavano lungo le superfici, attraverso tubi che
non riusciva a vedere. E c’erano voci nella sua testa, che
gridavano di disastri e sventure provenienti dal passato. Cercava di
ascoltarle, senza però essere in grado di dare a ognuna una
propria identità. Era come se migliaia di ricordi, ognuno
diverso dall’altro, si scavalcassero a vicenda per cercare di
predominare sulla sua ragione. Esistenze che credeva di aver vissuto,
ma di cui non poteva avere traccia, perché lui non
era ancora nato.
Aveva
paura, si sentiva a disagio, come se capisse di essere in una forma
diversa da quella che avrebbe dovuto. Erano davvero suoi quegli arti
che sentiva così pesanti sulle spalle, si chiese. E poi quel
corpo, perché gli appariva così diverso rispetto
a come se lo ricordava (ma cosa “ricordava”?)?
Dubbi,
interrogativi, rimembranze… talvolta allucinazioni. Troppe
cose per qualcuno che non si era ancora presentato al cospetto della
vita, e sebbene ciò, si stava già confrontando
con i suoi tormenti.
Non
fu in grado di prendere nota di quanto tempo era trascorso da quando
quella forma di coscienza individuale si era risvegliata dentro di lui.
Le tenebre che lo ingabbiavano lo serbavano in uno stato di
sconfortante confusione, dal quale evadeva solamente quando concedeva a
quelle voci (quelle grida) nella testa di attirarlo verso di loro; si
dimenticava di tutto, e lasciava che i loro pianti lo circondassero,
quindi tutto diveniva sfumato. Smetteva di avere senso. Ma quando
tornava lucido, conscio della situazione e dello stato
d’inutilità che la sua esistenza aveva preso,
opponendosi a forze che non comprendeva nemmeno, allora poteva captare
sulla propria pelle il graffiante passaggio di ogni singolo istante che
gli scivolava addosso.
Più
grave di ogni altra cosa, più opprimente della prigionia
stessa, era proprio la compagnia di quelle voci. Lo mettevano in
malessere, perforandogli i timpani con litanie miserevoli, verso le
quali era completamente alla mercé.
“Smettetela,
non voglio più sentire nessuno! Voglio che mi lasciate
solo!” Così
sarebbe stato il suo pensiero, se avesse potuto comporre delle parole
in una lingua comprensibile.
Compiva
azioni, come portarsi le grandi zampe alla fronte, che nella sua
immaginazione sarebbero servite a scacciare quei gemiti infelici, ma
che produssero soltanto risultati opposti, spingendo le
entità a gridare ancora più forte, in una ruota
della sofferenza che si autoalimentava da sé con i tormenti
dell’una e delle altre parti.
Poi
un giorno, quando stava quasi per abbandonarsi al flagello della sua
effimera esistenza, qualcuno mise a tacere quelle voci, così
come un rigido capobranco avrebbe rimesso in riga la sua famelica torma
di fiere.
Assaporò
per la prima volta il gusto del silenzio, e decise che quello sarebbe
stato il suo modello di benessere assoluto, da quel momento in poi.
In
seguito, la voce che aveva ammutolito le altre iniziò a
rivolgersi a lui. Gli parlò da dentro il suo cervello, in un
modo che lui (non sapeva come) era in grado di comprendere; non
turbò il suo animo, questa intromissione, dato che gli si
rivolse in modo solenne ma affettuoso, impartendogli istruzioni chiare
e alla portata del suo acume. Di più, sembrava comprendere
il suo stato emotivo meglio di se stesso, riuscendo ad anticipare, e
quindi variare la cadenza, non appena la conversazione iniziava a
irritarlo. E quindi la voce si abbassava, e se poco prima era stata
alta e impostata, subito dopo diveniva un sussurro dolce e accogliente.
Gli
disse che doveva muoversi, che doveva raggiungere un posto, e quando
questi manifestò disagio, al pensiero di dover affrontare
qualcosa di nuovo (di ignoto e terribile), la Voce lo
tranquillizzò spiegandogli come fare. Si promise, inoltre,
che lo avrebbe accompagnato nel suo cammino, che non lo avrebbe
abbandonato ai misteri che lo attendevano.
Invece
di trovare conforto, lui s’infervorò ancora di
più, facendo capire che non era quella la condizione alla
quale ambiva: la solitudine era tutto ciò che desiderava,
senza voci nella testa che lo costringessero ad agire per coercizione.
Preso
atto di ciò, la Voce del Capobranco gli promise che da quel
momento sarebbe stata in silenzio. Si sarebbe adagiata sulla sua
spalla, e sarebbe intervenuta solo per dargli consigli, quando lui ne
avesse manifestato il bisogno.
Ci
furono degli stridori metallici, e avvertì che i legami che
lo stavano trattenendo ora si distaccavano da lui, adagiandolo con cura
a un pavimento solido e umido. Era finalmente libero di muoversi.
Il
primo approcciarsi al senso della “vista” fu per
lui un altro motivo di disagio, che si poté aggiungere
all’elenco delle esperienze negative che aveva accumulato.
Fu
accecato da una luce intensa che divampò nello spazio,
aprendo uno scorcio intorno al quale danzarono lingue di fuoco
arancioni. Di primo acchito pensò di allontanarsi da essa,
tenendo fede all’antico proverbio secondo cui bisogna tenersi
alla larga dalle fiamme. La voce del capobranco, però,
mandò un ordine contrapposto, affermando che se voleva
davvero andarsene da lì, c’era solo un sentiero
che poteva imboccare. La via della luce.
Reticente
di fronte a quella prospettiva, voleva però credere che la
sua guida fosse sincera, pertanto doveva fare lo sforzo di lasciarsi
guidare, almeno fino a quel punto.
Con
passi lenti, e la sensazione sempre costante di avere un corpo molto
più ingombrante di quanto non ricordasse (se ricordava),
sfidò il primordiale istinto di sopravvivenza e
compì un ultimo passo verso la breccia.
Si
ritrovò in un posto totalmente diverso, che soltanto a una
prima analisi poteva assomigliare al vuoto dal quale era appena
sfuggito.
La
Voce del Capobranco gli sussurrò di nuovo, (continuava a
parlargli, nonostante la promessa che si sarebbe intromessa il meno
possibile) spiegandogli che adesso doveva avanzare, che nuovi sentieri
attendevano che lui li battezzasse.
Più
calmo di quanto non fosse un istante prima, si concesse una tregua per
studiare quanto gli stava intorno: la luce che proveniva dalla Breccia
illuminava un antro le cui pareti erano di un materiale solido e
diseguale (roccia), con un alto soffitto da cui scendevano goccioline
di condensa, che lui a malapena riusciva a sentire quando cadevano, e
che represse per un po’ la sensazione di essere troppo
ingombrante in quella nuova realtà.
Alle
sue spalle il varco infiammato non era scomparso, e anzi continuava a
risplendere dando colore e consistenza alla grotta buia e immensa, ma
già da adesso, lui sapeva che non avrebbe mai più
varcato quella soglia.
Scorse
una cavità più piccola lungo la compattezza della
parete, e seppe per istinto – non per l’influenza
della Voce – che era da lì che il suo cammino
avrebbe dovuto proseguire.
Marciò
a lungo attraverso il condotto che la natura aveva scavato per lui,
aiutandosi un po’ con le zampe e un po’ con la
vista per superare le asperità che si frapponevano fra lui e
la tappa successiva.
C’era
umidità là dentro, e molti odori diversi, che con
le sue grandi narici s’intrattené a scoprire:
erano le essenze della pietra e dell’argilla, che talvolta
erano più intense, e altre volte si lasciavano sostituire da
quelle più particolari del bitume. Si fermò a
fiutare una grande stalattite che scendeva dal basso soffitto (lo era
per lui), riempiendo le sue cavità nasali
d’inconfondibili odori calcarei.
Realizzò
che questi afrori, a modo loro, lo portavano in uno stato di pace che
non aveva mai provato nel vuoto, e che se doveva immaginarsi un luogo
in cui trascorrere la sua vita futura, voleva che fossero quelle
caverne.
Ma
la Voce del Capobranco aveva altri piani per lui, e voleva che
proseguisse il suo cammino verso l’imboccatura successiva.
Gli disse che, dove lo stava conducendo, c’erano altre
sensazioni da scoprire, e che per assaporare il vero aroma della
libertà, non poteva ridursi al poco che aveva vissuto.
Camminò
ancora e senza tenere conto del tempo che scorreva, lasciando che la
sua mente si seducesse in quel nirvana di piacevolezze. Quando
c’era da arrampicarsi lungo un dislivello, allungava le zampe
anteriori e si aggrappava alle irregolarità del terreno.
Quando invece doveva accucciarsi per superare un budello più
stretto degli altri, piegava le ginocchia e strisciava con attenzione.
Per poco il suo corpo non rimase incastrato dentro un anfratto, e la
Voce del Capobranco lo rimproverò di fare maggiore
attenzione in futuro.
Raggiunse
la riva di un lago sotterraneo, e qui sentì alcune delle
nuove sensazioni che gli erano state promesse. Captò la
salinità dell’acqua, e poi più
indistinti, esalazioni di materia organica distanti, che potevano
provenire dall’acqua, così come da sotto la camera
sotterranea, per quanto ne sapeva.
La
superficie del lago era statica e trasparente, smossa soltanto dalle
increspature provocate dai suoi passi. Sotto la profondità
intravide uno sprazzo di luce naturale blu marino, che lasciava a
intendere che oltre quella pozza si stagliasse un altro universo, nuovo
e ignoto.
Così
come prima, la prospettiva di varcare quel nuovo valico,
riempì il suo cuore di timori primordiali, che il Capobranco
dovette sopprimere per convincerlo a non fermarsi. La pazienza
indefessa, con la quale affrontava ogni suo capriccio, erodeva senza
alcuna difficoltà le difese che volta per volta la sua
coscienza erigeva.
Il
suo primo contatto con l’acqua gli suscitò un
bizzarro sbalordimento, quando gli sembrò che
l’umidità della grotta e del vuoto, di cui si era
già abituato, lo ricoprisse penetrando in ogni suo piccolo
poro, gonfiando ogni grinza di pelle. Si rese conto di sapere
esattamente come avrebbe dovuto comportarsi una volta tuffatosi, come
se lo avesse già fatto innumerevoli volte. Non fu il
Capobranco a suggerirgli come adattarsi al nuovo ambiente,
bensì quei ricordi, che facevano parte del suo bagaglio,
sebbene non li sentisse come propri.
Poi
giunsero, come lampi nel cielo, nuove scoperte sulle sue attitudini
anfibie: scoprì di poter trattenere il fiato a lungo,
nonostante la sua mole suggerisse il contrario, e constatò
che quelle due lunghe appendici che pendevano dal suo dorso erano in
realtà due pinne indipendenti che poteva sfruttare per
tagliare l’acqua e slittarvi attraverso, oppure per
direzionarsi. L’ampiezza delle sue zampe le trasformavano in
efficientissimi remi, con cui poteva darsi la spinta per muoversi in
avanti.
Non
gli ci volle molto per uscire dal condotto sottomarino, e una volta
evaso, gli si aprì un’immensa distesa di blu,
nella quale tante creature abissali (minuscole alcune,
tant’è che difficilmente riuscì a
intravederle) guizzarono via non appena la sua massa imponente fece
capolino dalle viscere della terra.
Avrebbe
voluto fermarsi per esaminare il passaggio degli animali nuotatori, non
fosse che la sua riserva d’aria stava via via andando a
esaurirsi.
Con
grande fretta, rincorrendo l’emergenza di respirare,
seguì il fondale sabbioso laddove realizzò che si
sollevava rispetto al livello del mare. Gattonò su di esso
intorbidendo l’acqua al suo passaggio, con nubi di materia
che s’innalzava da dietro formando una scia.
Arrivò,
infine, a un livello tale che gli permise di poggiare le zampe sul
fondo marino, tenendo per metà il corpo fuori dalla
superficie. Emerse, e senza avere il tempo di riprendere fiato e
scrollarsi l’acqua di dosso, il suo senso della
“vista” dovette arroccarsi contro una nuova
aggressione, dettata dalla luce solare che lo circondò in un
istante.
Era
intensa oltre ogni misura, e gli bucava le pallide retine finora
abituate solo all’oscurità, come frecce
arroventate. Usò le zampe anteriori per coprirsi, grugnendo
e rantolando. Poi ci fu dell’altro, una seconda sensazione,
come di qualcosa di velenoso nell’aria, che gli divorava la
pelle.
Non
era doloroso, come l’azione di un acido, ma piuttosto come
nuotare nella sabbia arroventata, e sentire le proprie cellule
epiteliali morte desquamarsi dal corpo. Una sensazione più
sgradevole che altro, che però gli fece domandare quanto a
lungo potesse resistervi prima che fosse tardi.
Ora
gli occhi erano diventati un poco più condiscendenti verso i
raggi del sole, e osò scoprirli per esaminare il territorio,
sebbene avesse già la nostalgia delle sue grotte.
Davanti
a sé: una distesa uni-cromatica di azzurro, con una sola
divisione tra il sopra e il sotto, lungo la linea
dell’orizzonte, che divideva il cielo dall’oceano.
La volta sovrastante era sgombra da qualsiasi cosa, salvo piccoli
ammassamenti bianchi (nuvole), che la sua memoria (memorie?)
percepì come familiari, e allo stesso tempo sconosciuti.
Si
voltò verso sinistra e per qualche grado non scorse alcuna
differenza, salvo le onde che il suo lento oscillare sollevava
sull’acqua. Quindi ecco una novità, e fu qualcosa
che la sua coscienza non seppe come approcciare in un primo momento:
Terra. Una distesa sconfinata di verde, con diverse
irregolarità da una parte (montagne) e grandi pianure che si
estendevano più lontano di quanto il suo campo visivo gli
permettesse di vedere, intervallate da colline e rilievi di ogni sorta.
Riconobbe
in quelle punte qualcosa delle caverne nelle quali voleva tornare
– le stalattiti che gli avevano inebriato l’olfatto
– e decise che ne aveva abbastanza di quel sole tanto
impetuoso e di quell’aria così caustica.
Stava
quasi per tuffarsi di nuovo, convinto che nessuno questa volta glielo
avrebbe impedito, quando la Voce del Capobranco, stentorea e severa,
tornò a ripetergli che il suo cammino non si poteva
arrestare.
“Non
mi piace tutto questo, voglio tornare da dove sono venuto! Qui non mi
sento al sicuro!” Si
lamentò di rimando, e ancora una volta, rimpianse di non
poter esprimere a suoni queste parole, che pure sentiva così
nitidamente dentro la sua testa. Dalle sue fauci emersero solo
gracchianti singhiozzi.
“Non
c’è niente di cui avere paura”,
fu la contro-risposta della Voce del Capobranco,
“anzi”
gli disse, era il mondo che ora aveva qualcosa da cui nascondersi; lui
era la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle
terre, era il Signore di quel lontano pianeta!
Non
capì quell’affermazione, neanche ripensando alle
sue proporzioni rispetto all’ambiente circostante. Credette
semplicemente di non essere riuscito a interpretare le sue parole.
Ora
però, questo gli disse di continuare a girare; gli
rammentò che c’era ancora qualcosa
che
non aveva visto, alla sua sinistra, e per capire cosa,
doveva
completare quel cerchio.
Come
un servo ubbidiente, ormai completamente assoggettato alla Voce del
Capobranco, seguì le istruzioni, e stavolta vide
ciò a cui essa si stava riferendo: un’isola
circondata dall’acqua.
Le
sue geometrie e la sua composizione erano diverse da quello che aveva
osservato fino a un istante prima, come facessero parte di un piano
materiale a sé stante, cadute in quel mondo da una
discrepanza dimensionale, come era successo a lui: punte longilinee
grigie e levigate, come stalagmiti scolpite da una mano demiurgica,
atta a generare strutture regolari nello spazio (grattacieli), si
estendevano sulla superficie emersa occupandone ogni ombra di terreno.
Una sottile strada, come un prolungamento orizzontale sopra il mare,
collegava l’isola grigia al resto della terra verde alla sua
destra (un ponte).
Da
essa, i suoi sensi captarono suoni mai uditi e sgradevoli odori di
composizioni acre e pungenti, che gli fecero arricciare il muso.
“Vai”,
gli
disse la voce, anche se lui avrebbe preferito non farlo. “Vai
da loro, e scoprirai il perché della tua ragione su questo
mondo. Vai da loro e conquistali!”
Ma
chi erano questi “loro” a cui la voce del
capobranco si riferiva, e perché li doveva conquistare? A
queste domande non ottenne risposta.
*(Questa
parte di capitolo è stata scritta sulle note di questa
colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=nOvZD7lp4SM.
Ascoltatela mentre leggete per godere al massimo
dell’esperienza di coinvolgimento)*
Marciò
a passo lento verso l’isola grigia. Le sue zampe che
perforavano l’acqua, generavano onde anomale che si
rovesciavano lunga la costa, affondando piccole cose e strutture
edificate. Vide ora alcuni di questi “loro”
nominati dal suo padrone. Erano creature minuscole, che spaziavano in
un’ampia scala di colori sgargianti e variopinti. La loro
reazione al suo arrivo, come aveva predetto la voce, fu di un terrore
animalesco, una paura viscerale che s’inerpicò su
per le loro schiene e destituì la loro capacità
di ragionare.
Non
comprese perché quelle creature si comportassero
così, fino a quando non emerse dai flutti, e non si accorse
di averne calpestate alcune per sbaglio.
Ascoltare
quei piccoli corpicini scoppiettare sotto la pianta della zampa, fu per
lui come risvegliare una parte assopita della sua
personalità, che aveva oziato fino a quel momento:
l’istinto della caccia verso un animale da preda, ed era lui
quel predatore. Un superpredatore mandato in quel mondo per cancellare
ogni cosa, e nessuno avrebbe potuto fare nulla per impedirgli di
procedere. Lui era il più potente di quel mondo, ed era il
più grande di tutti. Lui era…
“…
la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle
terre”.
Piegò
la testa da un lato, guardando la facciata di una di quelle grandi
strutture grigie dai riflessi lucidi. Al suo interno altre di quelle
piccole creature si accalcavano lungo i bordi d’insolite
barriere trasparenti, studiandolo a loro volta con movimenti
guardinghi. Erano animaletti curiosi, pensò, insignificanti
e apparentemente inadatti al dominio, eppure erano stati capaci di
conquistare parte del cielo con quei loro alveari (o erano nidi?)
dall’architettura sublime.
Alcune
delle costruzioni erano alte e terminavano con punte o insolite figure
sui tetti, che sembravano davvero voler toccare il firmamento, e
più si addentrava nell’isola grigia, maggiori
erano le stazze che potevano raggiungere quei rifugi stretti e dai
colori freddi.
Non
sarebbe mai riuscito ad arrivare fino alla cima di alcuni di essi, per
scoprire quali altri segreti si nascondessero al di sopra, ma poteva
guardare in basso e contemplare il fiume di creaturine che scemavano
per strada o si chiudevano ai lati pur continuando a fissarlo.
Era
forse questo il suo scopo? Si chiese allora. Mondare la Terra dalla
loro presenza, per fare spazio a una razza più meritevole di
esistere?
Compì
qualche passo e alcune cose esplosero (vetri, idranti, alcuni mezzi a
traino), e fu di un sadico divertimento vedere come le scosse facevano
incespicare e addirittura cadere alcuni degli esserini.
Grugnì
con un verso roboante, e di risposta alcuni di loro gridarono,
più frenetici di quanto già non lo fossero. Ogni
suo movimento all’interno dell’isola grigia era
accompagnato da reazioni simili a quelle appena descritte.
Un
fischio acuto e dalla lunga gittata sfrecciò
nell’aria (un allarme cittadino), e si disperse nello spazio
aprendosi da più punti, rendendogli impossibile individuarne
l’origine. Si davano il turno toni acuti e toni
più bassi, e questo gli restituì parte
dell’inquietudine che credeva di essersi lasciato alle
spalle. Non gli piacque per niente, era un’invasione al suo
senso dell’ “udito”.
Si
agitò, come se qualcosa lo stesse aggredendo nelle
cavità auricolari. Una zampa fuori controllo incise uno dei
nidi degli animaletti colorati, aprendovi tre squarci profondi lungo la
facciata perpendicolare. Lui fissò a lungo il segno degli
artigli lasciatovi sopra, e rimase stranito nel constatare quanto
fossero fragili e delicate quelle strutture: avrebbe potuto buttarle
giù in pochi colpi, se soltanto l’avesse
voluto…
Invece
avanzò lungo il sentiero, scegliendo d’ignorare
quell’idea. Qualcosa si smosse dentro di lui.
Si
accorse solo adesso che alcune delle creaturine avevano delle
protuberanze sulla fronte, lì dove ad altre mancavano invece
del tutto. E alcune erano munite persino di gracili alette, con le
quali schizzavano via prima che lui le raggiungesse. Le altre
purtroppo, che non avevano modo di fuggire, finirono sotto le sue zampe.
In
tutto questo tumulto la Voce del Capobranco era rimasta silenziosa e
assente.
La
strada si faceva più stretta man mano che avanzava, come se
l’isola grigia avesse deciso di stringersi tutto intorno,
intrappolandolo in una morsa fatale. Ruggì, capendo che la
situazione si era ribaltata a suo sfavore.
Provò
a retrocedere, ottenendo come risultato d’ingamberarsi su se
stesso, affondando la sua zampa dentro un grande agglomerato di
costruzioni triangolari (un complesso industriale).
Estraendola
dalle macerie – ignorando quanta desolazione avesse provocato
quella semplice azione – capì che il solo modo per
uscirne era di farsi strada con la forza attraverso i nidi, proseguendo
lungo la via.
Passo
dopo passo, calpestando l’esistenza di quelle piccole
creature, cancellando la loro storia in maniera arbitraria e insolente,
ora che la marcia si era fatta difficoltosa e si sentiva mancare il
fiato mentre cercava di attraversare l’isola, gli era tornato
tutto il disagio della sua coscienza repressa… di “tutte”
le
sue coscienze represse, che bussavano da dietro la calotta cranica e lo
supplicavano di ragionare. Aveva ricominciato a sentire le voci del suo
risveglio, che gridavano e piangevano, soffrendo per il male cui le
stava costringendo ad assistere.
A
esse si aggiunsero il fischio onnipresente dell’isola grigia,
come un pianto echeggiante, e le grida di dolore dei suoi variopinti
abitanti.
L’istinto
dell’animale da preda allentò la sua morsa, e gli
tornò il desiderio di ridiscendere nelle sue grotte.
Completò
altri due passi, attraversando l’intrico di alte costruzioni
e raggiungendo una zona dove lo spazio si era fatto più
ampio, e dove finalmente poteva farsi un’idea di quanto gli
mancasse prima di uscire.
Si
appoggiò a una struttura, senza immaginare che questo gesto
sgraziato avrebbe fatto crollare i soffitti interni dei vari piani che
lo componevano, uccidendo sul posto alcuni degli ignari occupanti.
Esserini
volanti, con strane pelli blu e motivi a saetta tracciati sui loro
petti (Wonderbolts) piroettavano sotto le sue spalle, mentre altri, non
meno agguerriti ma privi di ali (e corazzati), lo pizzicavano con
insoliti attacchi a distanza, provenienti dai loro corni.
Sollevò una zampa e la ribassò con un urto
violento, schiacciandone alcuni e sbalzandone via altri. Fu sorpreso da
quell’approccio offensivo, non si sarebbe mai detto che gli
animaletti dell’isola grigia fossero capaci di reazioni di
difesa, oltre che scappare.
Imparò
una dura lezione sulle regole di quel mondo: che forse non era poi
così invincibile come la Voce del Capobranco gli aveva
spacciato. Se pochi di quegli animaletti sgargianti potevano pungerlo e
costringerlo a rallentare, un gruppo meglio in arnese (magari come
quelli che aveva visto fluire per strada) avrebbe potuto e negargli
ogni via di fuga, e a quel punto sarebbe potuto succedere di tutto.
Ciò
gli diede ancora più urgenza di allontanarsi
dall’isola.
Gli
animali volanti che aveva intravisto in precedenza, gli ruotarono
dietro e quindi lo colpirono con attacchi fisici provenienti dai loro
stessi, incalliti corpicini.
Non
avrebbe dovuto sentirli, a giudicare dalla robustezza della sua scorza,
ma il veleno invisibile che permeava l’aria aveva
assottigliato i suoi strati cutanei rendendogli ipersensibile
l’epidermide di sotto. Più che dolore in senso
lato, questo si poteva esprimere come un fastidio, una turba al suo
senso del “tatto”.
La
Voce del Capobranco soppresse i lamenti interiori, e tornò a
sedersi sul suo trono imperiale.
“Devi
difenderti!” Scandì
in maniera chiara e sintetica, senza possibilità di
fraintendimento. Il braccio di ferro con la sua coscienza individuale
vide la disfatta di questa. Ruotò bruscamente il tronco, e
le pinne dorsali frustarono l’aria scacciando via le
bestioline alate, per poi scoperchiare il tetto di un nido.
Non
vide il piccolo edificio rosso che aveva sotto di sé (una
tavola calda) e finì con l’inciampare su di esso,
strappando un pannello di legno (l’insegna) dal tetto, che
finì sotto le sue zampe quando lui cadde in avanti.
Si
aggrappò su un altro nido, evitando così di
crollare del tutto.
“Che
cosa sto facendo?” Avrebbe
voluto chiedere mentre si rialzava. “Devo
smettere di fare così, tutto ciò è
sbagliato!”
«Invece
è proprio così che deve andare. È
questo il tuo scopo!»
Gli
rispose qualcuno, che a dispetto delle apparenze, non era il
Capobranco. Era una voce piena e marcata, come di qualcuno che gli
stava sussurrando da dentro l’orecchio, non solo dalle
larvate profondità del suo cervello.
“Cosa?
Io non capisco… ” Latrò
la sua parte cosciente.
«Ti
abbiamo creato noi per questo! Esisti per assolvere al nostro scopo!»
“Uccidere
per voi? Devo fare del male a queste creature solo perché
siete voi a ordinarmelo?”
«Devi
ucciderli, così che noi potremmo prosperare e continuare a
vivere»
la
voce prese del tempo, così che lui potesse meditare su
quelle parole, quindi ripeté «è
questo il tuo scopo!»
Un
ricordo dal passato gli fece sbarrare gli occhi cerei, flash
d’immagini gli suggerirono quale fosse la sua vita
precedente. La loro vita. Sua e di tutte quelle voci che gemevano nella
sua testa.
“No!
Ora ricordo… lo sterminio… quello che ci avete
fatto… volete replicarlo su questo mondo! Volete
costringerci a ripetere per mano nostra quello che è
successo a noi!”
«La
vita che ricordate non significa più nulla ormai.»
La
voce martellò nei suoi timpani, causandogli dolore.
«Siete
parte del nostro esercito ora, e lavorerete per noi e per la
prosperità della nostra razza!»
Serrò
gli occhi e fece come per strapparsi di dosso qualcosa dalla faccia.
“Scordatevelo,
non esiste, non lo faremo più!”
“Staremo
a vedere.” La
voce tacque, come se avessero interrotto un qualche collegamento a
distanza.
Rimase
immobile sul posto, circondato dai “palazzi” ( che
ora ricordava come chiamare), fermo e senza muovere un muscolo, col
timore che facendolo avrebbe scaricato una nuova ondata di distruzione
sulla “città”, e su quelle piccole e
innocenti creature.
Poi
qualcos’altro dentro di lui cambiò, come un
pulsante di spegnimento che viene pigiato da un operatore senza volto.
La sua coscienza lo abbandonò di nuovo, e con essa anche i
ricordi delle vite che gli erano state portate via. Restò
dentro di lui solo la paura, quel senso di smarrimento di chi si era
appena risvegliato in una terra aliena.
Si
guardò intorno, non capendo dove si trovasse. Le cose che lo
circondavano apparivano come monumenti monolitici che serravano i
ranghi con l’intento di inghiottirlo. Oltretutto,
c’erano rumori che lo assordavano, e cose cattive che
convergevano da tutte le direzioni per fargli del male.
L’aria poi era tossica e asfissiante, lo bruciava da dentro e
da fuori.
Tutto
ciò fu troppo per lui, creatura triste e abbandonata che si
sentiva come se qualcuno l’avesse appena privata dei suoi
ricordi più preziosi.
Scattò
con una corsa animalesca verso la limpidezza del mare, ignorando le
cose vive o inanimate che buttava giù o che finivano sotto
le sue zampe.
Si
tuffò per nuotare e raggiunse così la riva della
grande distesa terrosa, dove subito, prima che fosse tardi,
iniziò la sua disperata ricerca di un rifugio. Voleva un
luogo oscuro e solitario, dove potesse trascorrere per sempre la sua
misera esistenza da eremita senza memorie.
Poco
prima di svanire dalla vista delle creature natie di quel luogo, gli
sembrò di sentire una voce nella testa, che gli
suggerì qualcosa da fare. Lui la ignorò, troppo
spaventato per fermarsi ad ascoltarla.
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Capitolo 2 *** CAPITOLO 0.2: Il Messaggero ***
CAPITOLO
0.2: Il Messaggero
Twilight
Sparkle era una Principessa.
Soltanto
tre mesi prima non avrebbe mai immaginato di pensare a se stessa con
queste parole. Quel giorno era uscita di casa accolta dal canto degli
uccellini, in una mattinata che si professava assolutamente ordinaria e
felice, e con in testa solo il grande desiderio di esternare il suo
buon umore verso tutti. Molti pony erano già in zoccoli da
un pezzo, e ognuno era dedito alla propria attività, con una
maschera d’indifferenza stampata sul proprio volto.
Poi
arrivò lei, cantando il suo entusiasmo, e travolse come una
cascata di petali ogni stallone e ogni giumenta che le si erano trovati
intorno. Improvvisamente, smettevano di pensare a se stessi e si
univano a lei, contagiati dalla sua euforia; accompagnavano le sue
mosse di danza in una ballata dell’amicizia che avrebbe
scatenato l’invidia di Pinkie Pie, se soltanto si fosse
trovata nei paraggi. Ma il fato aveva in serbo altri piani per lei.
L’incantesimo
incompiuto di Starswirl il Barbuto, che Twilight aveva ricevuto la sera
prima e che solo per curiosità aveva recitato ad alta voce,
giusto per scoprire che cosa ne sarebbe scaturito, aveva minacciato di
stravolgere quell’idillio magico, spingendo lei e le sue
amiche in una nuova spirale di caos, e con loro tutta Ponyville.
L’anarchia
prese zoccolo nel villaggio: tempeste di neve da una parte e pioggia a
catinelle dall’altra, con in mezzo un sole così
intenso e radiante da appiccar fuoco alle pietre. I pony che a malapena
si sfioravano, in men che non si dica iniziavano ad azzuffarsi fra loro
senza che ci fosse una ragione.
Twilight
osservava tutto questo crucciandosi per il rimorso. Non se lo
immaginava che sarebbe bastato così poco per trasformare
Ponyville in un incubo a occhi spalancati “a la
Discord”. Non per niente, questo evidenziava quanto gli
Elementi dell’Armonia fossero importanti per il regno di
Equestria.
Per
grazia di Celestia, alla fine la tenacia della giovane unicorno viola
ebbe ragione sull’incidente, e prima che la giornata fosse
giunta al suo termine, aveva sul dorso un bel paio di ali robuste, e un
titolo nobiliare il quale non sapeva come avrebbe fatto a indossare.
Iniziò
a comprendere molti aspetti della sua vita che fino ad allora aveva
candidamente ignorato. Capiva perché il suo Elemento, ai
tempi, si fosse incarnato in una corona, e anche perché
Princess Celestia aveva deciso di accoglierla sotto la sua ala
protettrice quando era ancora una puledra. Capì molte cose,
ma non fu mai in grado di capacitarsene.
Era
strano come gli atteggiamenti degli altri fossero mutati subito dopo la
cerimonia d’incoronazione. Pony che una settimana prima
ricambiavano i suoi saluti come delle persone di pari rango, ora non
potevano esimersi dall’omaggiarla con un inchino servile ogni
qualvolta la incrociavano per strada.
Questo
fu forse l’aspetto più scomodo col quale dovette
misurarsi la nuova Principessa d’Equestria. La etichettavano
come la Principessa
dell’Armonia, perché
aveva saputo lenire gli animi e ridare stabilità alla sua
gente. Ma in cuor suo non si sentiva più speciale degli
altri, neppure dopo le prove che si era dimostrata in grado di superare.
Tanto
per cominciare, non sapeva come usare le sue nuove ali. Le era successo
una sola volta di riuscire a spiccar il volo: a Canterlot, dopo le
ovazioni del popolo, in cui l’emozione del momento le aveva
concesso di completare una prima trasvolata nei cieli della capitale.
Ma da quel giorno, dopo essere atterrata, si era resa conto di non
sapere più come ripetere la performance. I muscoli delle
ali, semplicemente, si rifiutavano di funzionare. Saltellava
nell’aria, sbattendole compulsivamente, ma invece di restare
sospesa, ricadeva a terra con tonfi goffi e sgraziati. Talune volte
dimenticava perfino quale fosse il corretto funzionamento di ciascuno
degli arti, e le capitava di dimenare le zampe anteriori quando invece
doveva frullare le ali, e altre volte, addirittura, perfino di
galoppare con le ali!
In
tempi più recenti, si era slogata uno zoccolo dopo uno
schianto più duro del solito, e il nodello della zampa
anteriore sinistra aveva finito con l’infiammarsi facendole
un male del tartaro per giorni, nonostante fosse stato prontamente
trattato con opportuni incantesimi di guarigione. Allora aveva capito
che non avrebbe potuto andare avanti da sola, se davvero voleva
imparare a volare, le occorreva lo zoccolo di qualcuno. E si
dà il caso che conoscesse la pony che faceva al caso suo.
Quel
giorno si trovavano tutte al campo d’addestramento per
reclute dell’Esercito Reale di Canterlot. Un ampio spazio di
prato di duecento metri d’ampiezza, circondato da una pista
per la corsa, che a sua volta era cinta dalle alte mura
d’avorio messe a guardia delle capitale. A giudicarlo con
scarsa attenzione, poteva assomigliare a un ippodromo.
C’erano
cadetti Wonderbolts impegnati in esercitazioni aeree sopra le loro
teste, e metri più in giù, future Guardie Reali
unicorno che marciavano intorno alla pista, attraverso un percorso
composto da travi, staccionate, reticolati e ostacoli di ogni forma;
indossavano tutti non armature, bensì uniformi grigie, atte
allo scopo di essere insozzate dalle reclute più imprudenti,
mentre veterani istruttori in corazza accompagnavano le loro azioni
lungo il tragitto, svilendoli con improperi impronunciabili ed epiteti
di pessimo gusto, sia che commettessero degli errori, sia che fossero i
migliori del loro plotone.
Nessuno
di loro aveva il permesso di distrarsi, in caso contrario tutti gli
sguardi si sarebbero concentrati su qualcos’altro: due pony
in particolare, che proprio in quel momento stavano spartendo con loro
lo stesso terreno e il medesimo spazio di cielo.
«Ora
segui solo il mio ritmo, va bene Twilight?» Disse Rainbow
Dash, che la teneva per zoccolo accompagnandola nella sessione di volo.
«Limitati a starmi dietro, lascia che la corrente ti porti
con sé, e non tentare uno dei tuoi soliti esperimenti
azzardati!»
«V-vaa
bene, però tu cerca di a-andare più piano, sei
troppo veloce!» Balbettò lei, con l’aria
spaesata e chiedendosi chi glielo stesse facendo fare.
«Ma
se sono praticamente in retromarcia! Il problema sei tu, che la fai
molto più dura di quanto non sia!»
La
pegaso sentì tirare la sua zampa, e si accorse che
l’amica era stata sbilanciata da una leggera brezza di vento,
che era passata di lì per sbaglio. Seccata, la
strattonò, aiutandola a riconquistare il baricentro.
«Ok,
no, senti! Fermiamoci un momento!»
Si
arrestarono di colpo. Twilight andò a urtarle contro e
dovette essere afferrata all’ultimo secondo per evitare di
cadere. Entrambe levitarono sul posto, sospese a dieci metri da terra.
Ai tempi della scuola di volo, Dash aveva imparato che il saper restare
in posizione semi-eretta mentre si stava per aria, era la prima tecnica
pratica che qualunque giovane pegaso doveva padroneggiare prima di
cimentarsi in qualsiasi altro esercizio. Nel caso
dell’alicorno fucsia, era riuscita a superare quella tappa
solo dopo aver messo in pratica alcuni preziosi consigli dettategli
dalla pegaso della Lealtà. Sfortunatamente per lei,
però, era anche l’unica cosa che era riuscita a
conseguire arrivata a quel punto.
«Non
riesco a capire» bofonchiò la neo-Principessa a
bassa voce «ho letto tutti i libri e i manuali che avevo
sull’argomento. So come determinare la forza gradiente del
vento in base alla pressione atmosferica, e come l’Effetto
Coriolis influenza i moti nel nostro emisfero. So tutto
sull’argomento, ma non riesco a capire come eseguirli dal
vivo!»
La
smorfia sul volto di Rainbow Dash espresse meglio delle parole cosa le
stesse passando per la testa in quel momento. «Effetto
Cori-che?!» Si tirò il mento con uno zoccolo.
«Cacchio Twilight, sei proprio una testa d’uovo!
Devi smetterla di riempirti il cervello con quella roba! Prima o poi ti
cascherà il corno a furia di studiare!»
Come
ammonizione, aveva ottenuto il suo effetto: lei la guardò
desolata.
Rainbow
Dash addolcì le parole. «Ascolta. È
molto più facile di quanto non sembra. Uhm, vediamo se
riesco a spiegartelo.» Pescò nella memoria un
esempio che potesse essere di facile comprensione. «Ecco, ho
trovato! È come salire le scale!»
Rovesciò lo zoccolo, e con l’altra zampa fece il
gesto di qualcuno che sale dei gradini. «Si tratta di cercare
dei flussi di aria che ti permettono di salire al piano successivo. Una
volta che li hai trovati, non devi fare altro che spiegare le ali e
planarci attraverso, lasciare che siano loro a sostenerti!»
Gli
occhi di Twilight s’illuminarono quando realizzò
di avere compreso cosa l’amica stava cercando di spiegarle.
«La pressione dell’aria, ma certo! L’aria
che passa sopra e sotto le ali crea una differenza di pressione che ci
consente di sostenere il nostro peso!»
La
pegaso arcobaleno girò gli occhi e scosse la testa, in modo
appena percettibile. «Ehm, sì. È
esattamente quello… che intendevo. E una volta fatto
questo… devi soltanto mantenere la quota e poi puoi fare
quello che ti pare!»
Lunghe
colonne cilindriche, formate da nuvolette compatte delineavano un
percorso in linea retta di dieci metri, utile per gli esercizi di
slalom. Rainbow Dash si mise a completarlo zigzagando con grazia e
disinvoltura. «Visto? Facile come bere un milkshake
all’avena!»
Twilight
l’aveva osservata dall’inizio alla fine, cercando
di memorizzare le sue azioni. La posizione delle zampe, il raggio di
estensione delle ali, le parabole che compiva quando
s’inclinava a destra o sinistra. I suoi gesti erano stati
rapidi e precisi, stimati con precisione matematica, centrando gli
spazi tra un ostacolo e l’altro, sebbene per tutto il tempo
non l’avesse vista rallentare nemmeno una volta. Quindi,
forse, era veramente così facile come lei lo aveva dato a
vedere.
“Devi
solo provarci Twily, hai affrontato di peggio, che sarà
mai?”
C’era
un particolare, però, che la giovane neo-Principessa aveva
scordato di considerare, e la sua testa, tanto assorta in altri
ragionamenti, non le galoppò certo in aiuto.
«Ti
vuoi muovere o aspetti che siano loro a girarti intorno?»
Rainbow Dash era a destra della prima colonna. Aveva raccolto, mentre
l’altra discuteva con se stessa, una piccola nube cotonata e
l’aveva plasmata in modo da conferirle la forma di una
poltrona. Ora vi sedeva sopra, con le zampe anteriori conserte, in
attesa di una mossa dell’amica.
Twilight
inspirò una boccata d’aria. Erano nel pieno
dell’estate, e gocce copiose di sudore fresco le scendevano
dalla fronte e sugli occhi, costringendola a strizzarli più
volte per disperderle. Si passò la zampa sul viso, quindi
concentrò l’attenzione sul primo ostacolo: sarebbe
partita da sinistra.
Ricordandosi
di quanto le era stato mostrato, cercò di sentire i moti
dell’aria sopra e sotto di lei. Trovò una precaria
stabilità, che sperò di poter aggiustare non
appena avrebbe cominciato a spostarsi.
“Coraggio,
puoi farcela” si
ripeté ancora “sono
solo pochi metri da qui alla fine!”
Si
tufò in avanti e sbatté le ali una volta per
darsi la spinta. Cercò di sentire la corrente passarle
attraverso le piume remiganti, e seguì il
“binario” che le stava suggerendo il vento. Si fece
coraggio, osando di curvare un poco, e irrigidì i muscoli
per entrare nella corrente accanto.
Compiere
quei gesti le fece ricordare di quando aveva provato a pattinare sul
ghiaccio durante la sua prima Chiusura dell’Inverno a
Ponyville. Le sensazioni che aveva provato erano praticamente le stesse
di adesso: il presentimento di stare sbagliando approccio; sapeva bene
che per riuscire nel suo intento, avrebbe dovuto prima di tutto
rilassarsi, consentendo al suo corpo di essere reattivo ai possibili
sbalzi dell’aria, che da lì a poco avrebbe potuto
incontrare. Ma temeva, sua malgrado, che così facendo
avrebbe dovuto rinunciare alla sola stabilità che aveva
conquistato con tanta tribolazione.
Dash
la studiò con occhi severi ed esperti. Chiuse le palpebre e
fece di “no” con la testa. In quel momento
l’alicorno ebbe conferma che non stava volando nel modo
indicato.
Strinse
i denti, mordicchiandosi le labbra. In qualche maniera doveva farcela,
a costo di fratturarsi l’altra zampa in un tentativo fallace.
Mancava
ancora poco al raggiungimento della prima asta. Le sembrò
che una piccola folla di spettatori, dal basso ma anche ad alta quota,
si erano arrestati dalle loro attività per scrutare curiosi
sull’esito della sua prova.
Uno
strano pensiero le attraversò la testa da un capo
all’altro, costringendola a riflettere. “Sono
i miei sudditi ora. Contano su di me, non li posso deludere
così…” per
quanto le apparisse sbagliato considerarli in questa maniera, si
aggrappò a questo pensiero per trasfondersi
un’ulteriore spinta al buon esito del test.
Curvò
ancora di più, preparandosi a schivare l’ostacolo.
L’azione le riuscì in modo goffo, ma fu abbastanza
per permetterle di evitarlo, quindi spinse tutto il suo peso nella
direzione opposta, preparandosi al successivo slancio, e alla forza
d’inerzia che avrebbe fatto il resto.
Ma
commise un errore, e la sua inesperienza la punì nel
peggiore dei modi, facendole calcolare il momento di curvatura un
istante di troppo a dispetto del necessario. Finì per
impattare contro la seconda colonna, piombando a peso morto nel vuoto.
Ora,
se solo Twilight avesse dato meno retta alle sue ansie, lasciando al
suo cervello di processare correttamente, si sarebbe ricordata che quel
tipo di pilastri non erano solo semplici formazioni di vapore,
modellate in forma cilindrica, ma celavano al loro interno una chimica
ben più complessa: un materiale poroso, simile
nell’aspetto a del ghiaccio al cui interno vi erano
intrappolate bollicine d’aria, che ne costituiva lo
scheletro, intorno al quale andavano compattate autentiche nuvole, in
modo da conferirgli un’aria rassicurante ma di falsa
innocuità. Tale composto era stato brevettato a Cloudsdale
da esperti ingegneri chimici esclusivamente per i reparti militari
della Nazione, ricavandolo dal materiale di scarto delle lavorazioni
sul cemento speciale cui i pegasi notoriamente si servono per
fabbricare le loro case, in grado di galleggiare nell’aria
come se fosse praticamente senza peso. Era però un materiale
durissimo, che si poteva rimuovere solo denaturandolo con preparati
appositi, e l’Aviazione se ne serviva per ricordare alle loro
reclute di eseguire le loro manovre correttamente. Un solo sbaglio, e
avrebbero fatto la fine che ora era a toccata a Twilight Sparkle.
Dopo
l’impatto, tutto il poco che la neo-Principessa aveva
imparato fino a quel momento aveva cessato di significato. Twilight,
che pure aveva dimostrato in altre occasioni di saper mantenere il
sangue freddo dinanzi alle difficoltà, cadde al suolo
incapace di ristabilire un contatto con l’elemento aereo. La
parte destra del corpo le bruciava per l’impatto, e le ali
perdevano parti di piumaggio a causa della velocità di
caduta. Tentò di sbatterle un paio di volte, ma il risultato
fu di farle cozzare l’un l’altra, riducendo
ulteriormente la sua percezione della realtà. Non fu in
grado neppure di ricordarsi quale fosse la formula del teletrasporto,
che in tal caso l’avrebbe levata dall’impiccio.
Nel
cadere, la parte superiore del busto si piegò verso il
basso, permettendole di vedere il prato del campo
d’addestramento che si faceva sempre più vicino,
sempre più in fretta.
Nei
secondi precedenti allo schianto, solo un pensiero riuscì a
materializzarsi coerentemente nella sua testa: questa volta non se la
sarebbe cavata con solo una zampa rotta. No, si sarebbe
conclusa in modo molto più grave.
Chiuse
gli occhi invocando la benevolenza di Celestia, chiedendole che le
facesse almeno perdesse i sensi, onde evitare così di dover
subire il trauma delle sue ossa che si sbriciolavano. Più in
là, sulle mura della città, le parve di udire le
grida delle sue amiche, che invocavano il suo nome travolte dal panico.
La
sua caduta si arrestò tutto d’un tratto.
Spalancò un solo occhio, mentre serrava ancora con forza il
secondo. Era atterrata su qualcosa di soffice, che aveva dissipato
tutta l’energia accumulata nella caduta. Capì di
essersi fermata su una nuvola, la stessa che Rainbow Dash aveva
sagacemente tenuto pronta, e sulla quale si era seduta poc'anzi. La
neo-Principessa poteva considerarsi fortunata di essere stata dotata
della stessa prerogativa dei pegasi di trottare sulle nubi, o
l’intervento della Custode della Lealtà sarebbe
stato del tutto vano.
La
pegaso arcobaleno fluttuava sopra di lei con l’aria di chi la
sapeva lunga. Le porse il suo zoccolo per aiutarla a scendere, un gesto
di derisione, dato che l’altezza della nuvola dal suolo era
di sì e no mezzo metro, e Twilight avrebbe tranquillamente
potuto scendervi da sola.
Le
altre Custodi degli Elementi accorsero sul campo uscendo da uno degli
accessi dei dormitori nelle mura.
«Twilight,
tesoro! Stai bene, vero?! Dimmi che non ti sei fatta niente!»
Domandò Rarity, che era sopraggiunta alla testa del gruppo.
«Ci
hai fatte spaventare tantissimo!» Aggiunse Fluttershy subito
dopo, più bassa di voce, ma non meno in apprensione.
Con
loro c’erano anche Applejack e Pinkie Pie.
Quest’ultima sorrideva alla vita, bellamente dissociata da
ciò che era appena successo.
«È
tutto ok, credo» rispose l’alicorno, facendosi uno
screening visivo delle sue condizioni, appurando che era ancora tutta
intatta «devo ringraziare Rainbow Dash per questo. Mi hai
salvato la vita!» Le rivolse un caloroso sorriso.
La
pegaso si mise per aria, accogliendo i plausi che le venivano elargiti.
«L’Elemento della Lealtà al vostro
servizio! Sette giorni su sette, soddisfatti o rimborsati!»
Si glorificò.
Applejack
si fece avanti tenendo in bocca un cestino di vimini ricolmo di mele,
offrendone una a Twilight. Era una cerimonia, questa, che avevano
ripetuto già in diversi momenti durante la giornata.
Twilight, ogni volta, ne aveva addentata una durante le pause, e
l’aveva trangugiata rapidamente con avida fame, per poi
accumulare i torsoli su un cumulo in un angolino, che oramai aveva
raggiunto un’altezza importante.
«Sai,
cara… non per interferire in faccende che non mi competono.
Ma forse dovresti smetterla di ingozzarti in questa maniera. Stai
mettendo a dura prova la tua linea, e poi è comprensibile
che tu non riesca a sostenerti in volo… »
Applejack,
che aveva ascoltato la predica di Rarity, rivolse a questa uno sguardo
torvo. “Le
mie mele non fanno ingrassare!!” Avrebbe
voluto ribattere, ma non era il momento d’inoltrarsi in
futili battibecchi frutticoli.
«Non
posso farne a meno!» Piagnucolò la
neo-Principessa. «Io ci provo a seguire le istruzioni di
Rainbow, ma poi il mio corpo fa tutto il contrario!»
Abbassò il capo e fece come per piangere.
«Perché
invece di pensare a cosa fare, tu ti carichi sulla groppa diecimila
motivi per cui non funzionerà! Non capisco come faccia la
tua testa a non prendere fuoco!»
«In
realtà è già successo.»
Bisbigliò Pinkie Pie alle orecchie di Rainbow Dash, per poi
tornarsene sullo sfondo.
«Sono
senza speranze, eh?». Pigolò Twilight.
Applejack
le si strinse vicino, facendole forza con un abbraccio. «Su,
non ti devi abbattere così, zuccherino. Ricorda che per
imparare a far bene qualcosa è necessario, prima di tutto,
tempo e dedizione. Sei stata tu stessa a insegnarcelo!»
L’alicorno
alzò il collo per guardarla.
«Quando
per errore ci scambiasti i nostri cutie mark, è stato solo
grazie al tuo impegno se siamo riuscite a rimettere le cose a
posto.» Concludendo, Applejack le pose lo zoccolo sul viso e
le tolse una lacrima che si era formata sull’occhio.
«Già,
hai ragione.» Ridacchiò sommessamente.
«Grazie per tutto il sostegno che mi state dando. Siete le
migliori amiche che una pony possa volere.»
«Ai
vostri servigi, Principessa.» Cantilenò la Custode
della Generosità, e tutte si strinsero intorno a lei in un
abbraccio di gruppo, che rinvigorì gli animi e diede nuova
grinta per gli allenamenti successivi.
Poi
qualcosa di nuovo interruppe il momento idilliaco. Un fischio in
lontananza attirò la loro attenzione al cielo: qualcuno
stava attraversando la volta della capitale a una velocità
quasi equivalente a quella necessaria per generare un arcoboom sonico.
Rainbow
Dash si separò dall’abbraccio e puntò
gli occhi in quella direzione. Quello che vide fu una freccia argentata
che tagliava l’azzurro dell’estate, e che si
dirigeva a velocità costante verso il promontorio del
castello. Il pegaso che la produceva era solo un puntino nel grande
firmamento del cielo, ma anche così, bastarono quei pochi
indizi per spingere la giumenta a spalancare le palpebre, ed esprimere
un’ampia esclamazione con la bocca aperta:
«OH… CACCHIO!»
«Dash?»
La interpellò Twilight, chiedendole spiegazioni.
Le
sei giumente non erano le sole a essere state attirate da quel nuovo
arrivato. Intorno a loro gli altri presenti sul campo
d’addestramento si erano fermati a loro volta per ammirare
quel prodigio dell’aria.
Il
Sergente Istruttore dei Wonderbolts, un grosso stallone nero con
piccole chiazze bianche sul muso e criniera color latte, si rivolse con
acredine alle reclute, che nel frattempo si erano distratte a fare
commenti d’ammirazione. «Beh, che state aspettando
voialtri sfaticati, tornate a sgobbare, pegasi!»
Rainbow
Dash schizzò per aria, andando a parlare proprio con il
graduato.
«È
davvero chi penso che sia?! Voglio dire, è proprio lui
lui?»
Il
Sergente sollevò un sopracciglio con fare di stizza,
manifestando la sua insofferenza verso la Custode arcobaleno.
«E
chi altri se no?! Hai visto la sua scia?»
«Ma
non ha senso. Che ci fai “Lui” qui?!»
Incalzò lei.
«E
io come faccio a saperlo? Sei veloce come lui, perché non
glielo vai a chiedere di persona?!»
Qualche
mese prima, Rainbow Dash si era finalmente iscritta
all’Accademia dei Wonderbolts, compiendo un passo importante
verso la realizzazione del suo sogno d’infanzia. Si era
distinta per meriti accademici in appena una settimana (dove questi
concernevano attività fisiche e prove di abilità;
sul fronte delle lezioni teoriche, qualcuno avrebbe detto, “Non
svegliate il pegaso che dorme”),
e dopo alcune difficoltà durante l’esordio, in cui
aveva trovato il tempo di stringere rivalità-amicizia con
un'altra pegaso di talento, aveva conquistato l’ammirazione
del Capitano Spitfire, dalla quale era anche stata nominata, a pieno
titolo, Caposquadra della truppa. Purtroppo, impegni fuori casa
l’avevano costretta, poco dopo, a rinunciare alla fortuna di
poter frequentare l’Accademia. Come Coordinatrice Generale
del meteo a Ponyville, era richiesta la sua costante presenza al
villaggio, e le era stato concesso di continuare il corso, a patto di
dedicarvisi giorno e notte durante il suo tempo libero, continuando a
studiare la storia dello squadrone ogni volta che le veniva recapitato
il nuovo piano di studi (su questo, contava di ricevere futura
assistenza da Twilight, come ricompensa per le sue lezioni di volo).
Mai
fino ad allora era stato concesso a una recluta di beneficiare di
questi privilegi. Ma il retaggio di Rainbow Dash come Custode della
Lealtà, unitariamente alle sue doti di aviatrice conclamata,
le avevano garantito una corsia preferenziale sugli altri cadetti.
E
questo spiegava il perché la sua presenza causasse sempre
esclamazioni di ammirazione nei giovani aviatori, e istigava antipatia
nelle alte sfere, che la reputavano una giovane prepotente e viziata.
“Young
Dart”
pensò tra sé, quando sentì pronunciare
il suo nome dalle altre Custodi rimaste a terra. Si voltò
quindi verso il Sergente, che era rimasto in attesa di una sua
reazione, rivolgendogli un cenno di assenso. «Grazie,
Signore. Potete tornare al vostro addestramento.» Era un
congedo che non aveva nessun’allusione satirica, ma
così doveva aver pensato il superiore, che le rispose
sgarbatamente. «Oh, di quale onore
mi
omaggi.
Lo
apprezzo!» Chiudendo con un nitrito.
Non
badando all’atteggiamento dispotico del graduato (ci aveva
fatto il callo agli zoccoli, ormai), la pegaso scese di quota
ricongiungendosi alle sue amiche.
«Lo
conosci?» Chiese Fluttershy per prima. Anche lei aveva la
sensazione che quel pegaso dalla scia argentea dovesse essere qualcuno
d’importante, ma la sua lontananza da Cloudsdale faceva
sì che spesso fosse l’ultima a essere informata
sui fatti d’interesse della sua razza.
Rainbow
Dash si limitò ad annuire, ben conscia che solo chi faceva
parte dell’Accademia dei Wonderbolts aveva il dovere morale
di sapere i dettagli su quello stallone. «Non l’ho
mai incontrato di persona.» Ammise iniziando a spiegare.
«Tra i cadetti all’Accademia è una
specie di leggenda. È praticamente il modello cui tutti
vorrebbero aspirare per diventare tosti… beh, come noi.»
Ghignò, e qualcuna le rivolse un cenno di disappunto.
« Si chiama Silver Sprint. È di stanza a
Manehattan. Un tempo era conosciuto da tutti come il pegaso
più veloce di Equestria, prima che… »
«Fammi
indovinare» volle provare Applejack «prima che lo
diventassi tu.»
«Eheh,
già.»
Occhi
ruotarono all’interno delle cavità, e qualcuna
nitrì.
«Comunque
la sua presenza qui è insolita. Come vi ho detto
è di stanza a Manehattan. È insolito che uno come
lui venga mandato così lontano senza uno squadrone ad
accompagnarlo.»
«Lo
abbiamo visto dirigersi verso il castello, forse è qui per
incontrare le Principesse, o per una missione di qualche
tipo.» Ipotizzò Twilight.
«Sì,
è quello che pensavo. Sai se Princess Celestia aveva
qualcosa sull’ordine del giorno?»
Scosse
la testa. «Non che io sappia, no. Al massimo mi ha chiesto se
dopo gli allenamenti potevo aiutarla a sistemare degli archivi in
biblioteca, ma non credo centri molto con l’arrivo di Silver
Sprint.»
Rainbow
Dash si passò lo zoccolo sul mento, riflessiva.
«Uhm, molto sospetto. La faccenda mi puzza forte…
»
Rarity
avvicinò furtivamente il muso al manto di Applejack, per poi
ritrarsi disgustata dal miasma di sudore e stalle che emanava la
cowgirl. Odore che, a dire la verità, non turbò
minimamente la Custode dell’Onestà.
«Non
credo intendesse quello.» Le fece notare Twilight.
«Dobbiamo
sospendere gli allenamenti per oggi.» Decise la pegaso
arcobaleno spalancando le ali. «Voglio vederci chiaro in
questa faccenda.»
«Non
sarà mica che fremi invece dalla voglia
d’incontrare un idolo della tua infanzia?» Chiese
Applejack, sospettosa.
«Anche,
sì.» Le rispose con scioltezza, e un furbesco
sorriso malamente celato sulle labbra.
Il
grande portone si spalancò sulla sala del trono di Canterlot.
Ad
accompagnare le sei Custodi c’erano due Guardie Reali (un
pegaso dal manto bianco e un unicorno dal manto nero) che trottavano ai
due lati del gruppo stringendo ben salde nelle zampe anteriori delle
lunghe lance dorate.
«Vostra
altezza, La Principessa Twilight Sparkle e le Custodi degli Elementi
desiderano avere udienza con voi.» Annunciò il
pegaso alla loro sinistra.
Allungando
l’attenzione verso il trono, superate le due fila di Guardie
Reali in posa alle due estremità del tappeto rosso
(canoniche durante il ricevimento di personalità di spicco),
la Principessa dell’Armonia scorse che oltre alla presenza
delle due regnanti, Celestia e Luna, vi era anche Silver Sprint, fermo
in un angolo ai piedi degli scalini, e con lui, un altro soldato
unicorno. Quest’ultimo era di fronte alle due alicorno. Aveva
voltato leggermente la testa verso il portone per scrutare chi era
appena arrivato, quindi era tornato subito diritto.
Princess
Celestia squadrò prima il loro gruppo, quindi rivolse la sua
attenzione alla Guardia Reale. «Vai e avvisa gli altri che
non è più necessario. Dì loro che sono
già arrivate.»
Il
soldato annuì e rispose con fermezza. «Ai vostri
ordini!»
Attraversò
la sala muovendosi all’esterno della fila dei commilitoni di
destra. Giunto vicino a Twilight, s’inchinò al suo
cospetto, accogliendola con un «Maestà»
che la fece irrigidire, quindi uscì, accompagnato dagli
stalloni venuti insieme alle Custodi.
Twilight
dovette venire a patti con l’angolino di lei che ancora non
si capacitava di ciò che era diventata. Fece segno alle sue
compagne di muoversi, e insieme avanzarono verso il trono.
L’atmosfera
che si era venuta a creare fu molto strana. Celestia aveva dato loro le
spalle mentre si stavano avvicinando, e ora leggeva una pergamena che
manteneva sospesa con la levitazione, dentro un alone giallognolo.
Il
poco del suo viso che era visibile, era contratto in una smorfia di
pena, con gli occhi spalancati fin oltre la loro massima estensione,
che si soffermavano in apparenza su ogni singolo carattere del
messaggio, come per assimilarne a pieno i significati.
Colonne
di sole filtravano dalle vetrate in modo debole e cauto, rispecchiando,
come in un’allegoria, lo stato mentale della regnante.
Le
Custodi degli Elementi s’inchinarono al cospetto del trono,
omaggiando le due sorelle alicorno, ma Princess Twilight
galoppò subito al punto.
«Princess
Celestia… è successo qualcosa?» Era una
domanda di circostanza, che racchiudeva in sé tutta
l’ovvietà del momento. Era chiaro che qualcosa di
terribile stava estendendo le sue ombre sul morale della sala,
altrimenti non si potevano spiegare le sue reazioni.
Princess
Luna rivolse loro solo una cupa affermazione, e un ciuffo dei crini
fluenti finì per volarle sul viso. L’alicorno dal
manto blu non fece nulla per scostarlo, l’angoscia che stava
provando doveva essere così forte da renderle ogni altra
distrazione facilmente archiviabile. E non era la sola a manifestare
quello stato di turbamento: le stesse Guardie Reali, congelate nelle
loro pose marziali, contenevano a stento i tic di nervosismo sui loro
visi. Era la prima volta che a Twilight capitava di vedere i valenti
guerrieri dell’esercito della capitale palpitare in quella
maniera.
Celestia
si girò verso le giumente, e come a volersi accertare che
fossero tutte presenti, squadrò le loro posizioni una per
una, rinforzando quell’atmosfera carica di tensione, che si
sarebbe potuta tagliare con un coltello da burro.
«Vi
ringrazio per essere accorse così rapidamente.»
Cominciò, per poi fermarsi, pensando a quale fosse il modo
più immediato per comunicare la notizia. «Proprio
in queste ore la nostra Equestria si trova sotto attacco da parte di
una forza sconosciuta. Qualcosa che fino a questo momento non si era
mai vista nei nostri libri di storia.»
Twilight
sentì come uno schianto provenire dalla sua testa, come se
la bilancia che regolava il suo stesso cosmo si fosse appena rovesciata.
«P-Principessa…
» masticò le parole «c-che cosa
è successo? Diccelo, per favore!»
Celestia
sospirò pesantemente. Malgrado cercasse di
preservale la sua solenne autorità, l’impressione
che diede era di qualcuno che da un momento all’altro potesse
cedere alle emozioni, perdendo così il suo comune
autocontrollo, tramutando le parole in gemini, i sospiri in vagiti.
«Lasciate
che vi presenti una persona.» Dunque sollevò una
zampa e la puntò verso il pegaso. «Ragazze, lui
è il Luogotenente Silver Sprint, dell’Aviazione
dei Wonderbolts di Manehattan. Forse qualcuna di voi ne ha
già sentito parlare. Sarà lui, se siete
d’accordo, a illustrarvi gli accaduti.» In questo
modo, pensò, avrebbe evitato di denudare quella parte di lei
che in quel momento stava mordendo il freno, in balia del panico. E non
per alterigia: se si fosse esposta, come avrebbero fatto tutti gli
altri a mantenere il sangue freddo una volta appresa la notizia?
Rainbow
Dash, che in un primo momento era stata ansiosa di fare la conoscenza
di Silver Sprint, dovette restare al suo posto, fiutando la delicatezza
del momento.
Celestia
gli fece un cenno di capo, il segnale che ora toccava a lui parlare.
«Grazie,
Maestà.» Fece un passo in avanti, si
cimentò quindi nel rituale dell’inchino.
«Lieto di fare la vostra conoscenza, Princess Twilight. E
anche di tutte voi, Custodi.»
Le
giumente ricambiarono con sorrisi a fior di labbra e brevi gesti.
Persino Pinkie Pie aveva avuto sentore che non era il momento di
comportarsi da “se stessa”, e si fermò a
una delicata risata.
«Addolorato
che sia successo in una circostanza così tragica.»
«Parla
pure, Sprint.» Lo incitò Twilight.
«Spiegaci.»
Mentre
attendeva, ebbe tempo di studiare più da vicino le
caratteristiche del pegaso: indossava un’uniforme da
Wonderbolt che gli copriva tutto il corpo eccetto la testa, esponendo
le spalline del suo grado, insieme ai caratteristici simboli della
squadra. La sua criniera era dello stesso colore argenteo lucente del
suo manto, solo di una tonalità più scura,
pettinata all’indietro in tre punte decrescenti, simili per
aspetto alla cresta di un drago. Mentre la coda, se possibile, era
ancora più caratteristica; lunga e orgogliosa, con un ciuffo
nella parte inferiore, che si estendeva per conto suo come
un’appendice secondaria. Osservandola, a Twilight venne in
mente la tipica pinna dello squalo volpe, e anzi, era proprio
così che l’avrebbe descritta a posteriori.
Sui
fianchi, sopra la tuta, esibiva un simbolo che aveva tutta
l’aria di essere il suo cutie mark (un facsimile del suo
cutie mark), era formato da due piume d’argento, una
più corta dell’altra, che s’incontravano
alla radice abbozzando una “V”. Non era comune per
un membro dei Wonderbolts esibire il proprio simbolo sopra gli
indumenti, ma alcuni individui speciali, se lo desideravano, potevano
farne richiesta. Questo denotava una forte individualità, un
pony sicuro di sé, conscio di quale fosse la sua posizione
all’interno della squadra.
Le
giumente degli Elementi si posizionarono a ferro di cavallo intorno
allo stallone, quindi Sprint si mise a parlare.
«Si
tratta di Manehattan. Oggi, poco dopo l’ora di pranzo, la
città ha subito un pesante attacco da parte di
un’ignota creatura gigante. Non sappiamo precisamente che
cosa sia, ma è stato un disastro.»
Twilight
sentì come se le avessero appena tirato uno schiaffo. Una
creatura? Che genere di creatura?! La metropoli era in pericolo?!
Le
sue amiche non furono da meno. Le ascoltò gemere, mentre si
ponevano tra di loro le sue stesse domande.
«Q-quanto
è grave?» Balbettò lei, ottenendo dal
Luogotenente dei Wonderbolts una scrollata di spalle.
«Difficile
a dirsi, almeno fino a quando non avremmo un rapporto completo dalle
squadre di soccorso. Dalle prime testimonianze, dicono che sia apparso
dal mare del nord. Ha attraversato la città, buttando
giù tutto quello che trovava sul suo percorso. Edifici,
mezzi, qualsiasi cosa… chi l’ha visto dice che era
alto fino a trenta metri, una cosa incredibile. E… ci sono
state delle vittime.»
Nessuna
commentò, tutte si fecero attonite.
“Oh
no… no!” La
neo-Principessa sentì le zampe farsi pesanti come di piombo,
e cercò conferme negli sguardi altrui, in qualcuno che
magari le potesse dire che in realtà aveva capito male
(Celestia ad esempio, che in qualunque circostanza aveva sempre una
soluzione da proporre). Ma nessuno aveva avanzato del sollievo per lei
(nemmeno l’alicorno del sole), e perciò dovette
proseguire con la sua sola forza di spirito. Era come trovarsi al netto
confine tra illusione e realtà: un passo indietro e ogni
cosa sarebbe tornata al suo posto, ordinaria come sempre. Solo che non
c’era un comando per fare marcia indietro; avanzare era la
sola opzione, oltrepassare il fumo, schiarirsi gli occhi, e accettare
che era tutto reale.
Silver
Sprint esitò per un momento, poi si mise a esporre un
particolare, assente del contenuto della lettera, che secondo lui
meritava una menzione. «Columbine Circle è stata
l’area che ha subito la maggior parte dei danni. Il mostro si
è arrestato lì, non so dirvi perché.
È rimasto per diversi minuti fermo a… »
«Columbine
Circle, hai detto?!» Esclamò Rarity. «Ma
è dove si trovano i tuoi Zii, Applejack!»
Si
voltarono tutte insieme a guardare la giumenta.
«Sì, la famiglia di Babs. Sulla 20ª
strada.» Annuì la cowgirl, dandosi un tono di
contegno. In verità avrebbe desiderato sbrigliarsi, prendere
la prima cosa che le capitava sotto zampa e scalciare fino a ridurla in
polvere gridando, ma non era il suo modo di fare.
«Poi
che è successo?» Domandò Twilight,
spronandolo a continuare.
Sprint
si passò uno zoccolo sulla cresta, come per cercare di
saldare un concetto non del tutto fermo nella sua testa. «Si
agitava sul posto. Colpiva e buttava giù i palazzi senza
un’apparente motivo. L’esercito aveva mandato dei
contingenti a cercare di gestire la situazione, ma è stato
tutto inutile… sono morti anche loro.»
Tra
le fila delle Guardie Reali, qualcuno si lasciò scappare un
nitrito. Apprendere della dipartita dei loro compagni d’armi
non era una notizia facile, nemmeno per dei combattenti addestrati come
loro. Non nell’Equestria che conoscevano.
Il
Wonderbolt concluse il resoconto spiegando come il mostro fosse poi
schizzato in avanti e avesse cominciato a correre fino a raggiungere la
costa sud-occidentale dell’isola, dove poi si era inabissato
svanendo. A quel punto avevano incaricato lui di diramare la notizia.
Con la sua velocità, disse, era riuscito a recapitare la
pergamena in un quinto del tempo che avrebbe richiesto una carrozza
volante.
«E
nessuno sa che cosa fosse la creatura?» Chiese Fluttershy,
che tra tutte era la più interessata a fare chiarezza
sull’attacco.
«Qualcuno
ha avanzato l’ipotesi che si sia trattato di un drago marino.
Ma non vedo perché un drago dovrebbe fare ciò che
è accaduto lì.» Rispose Sprint, e la
pony giallo canarino si trovò ad accordare con lui.
«Un
drago non si comporterebbe mai così… »
mormorò lei abbassando lo sguardo.
Princess
Celestia disse qualcosa a sua sorella Luna, che le rispose con un cenno
di testa, quindi si mosse verso di loro. «È una
fortuna che siate qui oggi. Mayor Sue, il sindaco di Manehattan, ha
richiesto la presenza delle Principesse in città.»
Si focalizzò sulla neo-eletta Twilight. «Andremo
io e te, mentre mia sorella si occuperà delle questioni a
palazzo. Mi spiace, ma temo che dovremmo rimandare il nostro
appuntamento in biblioteca.»
«Non
fa niente.» Rispose l’alicorno viola, anche se non
immaginava quale contributo poteva apportare con la sua presenza.
«E
vorrei che veniste anche voi, ragazze.» Interpellò
ora le Custodi. «Benché non sappiamo con che cosa
abbiamo a che fare, gli Elementi dell’Armonia potrebbero
ugualmente tornarci utili.»
Twilight
si morse un labbro e s’impennò agitata.
«N-non li ho portati con me, Principessa… sono
rimasti a Ponyville!»
A
quel punto si sarebbe aspettata che Celestia ne venisse turbata, ma al
contrario delle aspettative, lei le distese un sorriso.
«Ho
già previsto quest’eventualità. In
cortile c’è una carrozza che è pronta
per te. Silver Sprint si è offerto volontario per
accompagnarti.»
«Quando
volete, Princess Twilight. Le mie ali sono al vostro
servizio.» Disse lui, inchinandosi di nuovo dopo aver
divaricato ala sinistra e ala destra.
Mentre
stava per annuire, la neo-Principessa fu fiancheggiata da Rainbow Dash.
L’amica arcobaleno era immota in un’espressione
arcigna. «Chi sarà il secondo
cocchiere?» Chiese a Celestia.
Malgrado
la perplessità della domanda, lei le rispose. «Un
pegaso che ho selezionato personalmente in caserma. Le
garantirà di andare e dirigersi a Manehattan prima che cali
la sera. Voi invece, verrete con me sul mio trasporto
privato.»
«Veramente,
se il Luogotenente Silver Sprint me lo permetterà, vorrei
essere io a fiancheggiarlo.»
«Dash!»
Ricevette una replica da parte di Twilght.
«Non
per mettere in discussione la vostra decisione, Princess
Celestia» continuò imberbe, non risparmiando,
questa volta, un’occhiata superba verso il Wonderbolt
«ma credo di essere la più adatta per questo
incarico. Sono l’unica in grado di stare dietro a Silver. Gli
altri finirebbero soltanto per rallentarlo. E non mi sembra che siamo
nella condizione di potercela tirare tanto per le lunghe.»
L’ultima parte risuonò come una frecciata
all’alicorno viola, ma malgrado la puntura
nell’orgoglio, Twilight non poté che riconoscere
le argomentazioni dell’amica.
Silver
Sprint si disse più che favorevole ad accoglierla in
squadra. Era a sua volta curioso di testare sul campo le
capacità di quella pegaso di cui tanto si chiacchierava. E
poi, come giustamente aveva accentato lei, la città non
ammetteva ritardi quel giorno.
Questo
bastò a Celestia perché si convincesse ad
assecondarla.
«Andate
pure allora. Noi ci rivedremo più tardi.» Disse
alla sua ex-allieva, poco prima di congedarsi.
Twilight
annuì con un debole «sì»,
guardando per un’ultima volta le sue amiche. Era come se
sentisse che da quel giorno in poi le loro vite non sarebbero
più state le stesse, qualunque cosa avessero trovato a
Manehattan.
D’improvviso
una Guardia Reale unicorno richiese la loro attenzione. Aveva rotto la
fila di sinistra con un balzo in avanti, e guardava verso di loro
mentre le labbra gli tremavano vistosamente. Tra i denti, una richiesta
che agognava di poter esprimere.
«Che
cosa c’è?» Gli domandò
Celestia, in modo sobrio e attento.
«I-io…
» fece per ritrarsi, ma poi deglutì tutto il suo
terrore, e parlò deciso. «Mia Signora, invoco
umilmente il permesso di poter venire con voi. I… i miei
genitori sono di Manehattan! Devo sapere se stanno bene!»
Mantenne gli occhi stretti su quelli della sua sovrana. Non
gl’importò delle condanne che i suoi superiori gli
avrebbero impartito più tardi, né dei biasimi dei
commilitoni per il suo oltraggio alla reggia. In quel frangente di
tempo, per lui, contava solo sapere se la sua famiglia era perita
nell’incidente, o no.
Celestia
ritrasse debolmente il collo, perché quello non era
l’atteggiamento che tipicamente si aspettava da un membro del
Corpo di Guardia, ma era una richiesta che lei ampiamente condivideva.
Non
ebbe bisogno di spendere del tempo per soppesare una decisione. «Sia.
Parla con il tuo Capitano, e avvisalo che ti ho autorizzato
personalmente a unirti a noi. Dopo di che, presentati in cortile. Sii
svelto.»
Una
lacrima aurea tracciò un sentiero sul zigomo del soldato. Fu
una scena straziante. «G-grazie, mia Principessa!
Grazie!»
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Capitolo 3 *** CAPITOLO 0.3: Il Sentiero ***
CAPITOLO
0.3: Il Sentiero
Non
esistevano parole eleganti per descrivere ciò che stavano
vedendo dal momento del loro arrivo. Era esattamente quello che
sembrava: come se qualcosa di gigantesco avesse attraversato la
città scavando una ferita profonda e infetta lungo le sue
strade. Ed era incredibile pensando che tutto era stato opera di una
sola creatura.
Anche
a distanze di molte ore dall’attacco c’erano ancora
cose che crollavano e fiamme che lambivano i quartieri sollevando nere
volute di fumo attraverso gli isolati, e l’aria aveva
l’odore del bruciato e delle polveri che si levavano per
unirsi nella danza asfissiante.
Poi
c’erano enormi crateri con contorni di artigli, erano le
impronte lasciate dal mostro, larghe otto metri e così
profonde che se qualcuno non vi avesse prestato le dovute attenzione,
sarebbe potuto cadervi dentro facilmente.
Quando
le quattro Custodi scesero dalla carrozza, atterrando in un parcheggio
della lunga Breedway, la loro prima reazione era stata di bloccarsi sul
posto e gemere. Manehattan, seconda città per importanza nel
regno e orgoglio della modernità equestre, patria della
rivoluzione industriale che stavano attraversando in quegli anni,
sanguinava ora da uno squarcio largo decine di chilometri, mentre mezzi di
soccorso della protezione civile facevano lo slalom tra le impronte per
dirigersi ovunque vi era bisogno del loro intervento. E ovunque
era
il termine esatto. C’erano carrozze-cisterne rosse dei
pompieri che trovavano sosta dovunque era possibile, e intanto le
carrozze-ambulanze andavano e venivano a sirene accese, portando i
superstiti della tragedia nel più vicino centro ospedaliero.
Gli stalloni alle briglie che li conducevano avevano lingue che
scivolavano fuori dalle labbra, grondando salive dense che lasciavano
scie lungo l’asfalto.
C’erano
anche pony in divisa e Guardie cittadine, ai quali si erano aggiunti
coraggiosi volontari di tutte e tre le razze, che collaboravano insieme
per disseppellire i superstiti dalle rovine dei palazzi. Alcune volte
qualcuno veniva estratto vivo, forse tutto intero, oppure con qualche
frattura (quelle alla spina dorsale o alla colonna cervicale erano le
più difficili da trattare), con il rischio della sindrome da
schiacciamento, o con organi lesi ed emorragie interne, ma con i dovuti
trattamenti e la complicità di qualche incantesimo, si
sarebbero ripresi e avrebbero continuano la loro vita di un tempo. Ma
quando le macerie restituivano corpi la cui anima era già
spirata da un pezzo, allora il clima si faceva più teso. La
morte era un tabù profondo nell’Equestria
contemporanea, i progressi nel campo delle magie bianche e le tecniche
erboristiche ereditate dalla cultura delle zebre garantivano anche ai
più moribondi di ristabilirsi da mali giudicati incurabili
un’epoca prima, e persino nell’anzianità
un pony poteva assicurarsi una vita lunga e prosperosa grazie a
un’aspettativa di vita che saliva sempre di più
anno dopo anno, e che ormai garantiva a tutti di superare con
abbondanza il secolo di età. Gli incidenti erano cosa rara e
saltuaria, e quando avvenivano quasi a nessuno capitava di lasciarci la
pelle per davvero. Pertanto, l’idea di un disastro che
strappasse dall’affetto dei loro cari così tante
esistenze era qualcosa cui nessuno, al lato pratico, era preparato
mentalmente. Lenzuoli, sacchi o qualsiasi altra cosa potesse fungere da
coperta venivano distesi sui corpi freddi, dove sarebbero rimasti fino
a quando qualcuno non avesse impartito il comando di rimuoverli.
Talvolta questi mancavano del tutto, e così i cadaveri
venivano lasciati esposti, di fronte agli sguardi candidi e fino a quel
momento innocenti di chi, attraversando la strada in quel punto,
avrebbe potuto vederli. A nessuno passava per la testa di censirli, o
anche solo di trovare una collocazione più rispettosa,
perché nessuno aveva idea di come comportarsi davanti a loro.
Questo
era solo una porzione del reale cataclisma che aveva travolto la
città. Un solo chilometro quadrato, contro un intero Sentiero
che tagliava a metà la metropoli equestre.
Proprio in quel
momento, uno squadrone di Wonderbolts passò sopra le teste
delle Custodi dirigendosi verso nord. Loro non lo sapevano, ma quei
pegasi stavano cercando di redigere un resoconto
sull’incidente di quel giorno.
Applejack,
che a Canterlot era stata la prima ad avere avuto dei motivi per temere
dell’attacco, aveva tirato un leggero sospiro quando, in volo
sul trasporto, aveva calcolato che il Sentiero
aveva
evitato per un soffio il quartiere abitato degli Apple metropolitani.
Certo, questo non assicurava che Babs o la sua famiglia fossero
sfuggiti alla catastrofe, ma di certo ne elevava di molto la
probabilità, e a dispetto di altri, almeno loro avevano una
casa a cui fare ritorno.
Il
suo sollievo, però, venne meno quando si rese conto di
quanti altri stavano soffrendo al loro posto. Silver Sprint aveva
lamentato delle vittime, ma neppure nel più pessimistico dei
suoi pensieri, la cowgirl poteva immaginare che la verità
sarebbe stata così oscura.
Proprio
in quel momento un’enorme insegna pubblicitaria si
staccò da un grattacelo mentre tre pegasi cercavano di
assicurarla ai sostegni con corde e soluzioni di fortuna. Cadendo,
rischiò di atterrare proprio vicino a degli stalloni
infermieri, che cercavano di portare via qualcuno su una lettiga.
Sarebbe successa una catastrofe – l’ennesima di
quel giorno – se Celestia non avesse prestato attenzione alla
scena e non fosse intervenuta per tempo, fermandolo in volo, evitando
così il peggio.
Rarity,
intanto, stava affogando nel fiume delle sue lacrime, che in parte
erano di dolore, e in larga percentuale di nostalgia; quante volte
aveva attraversato quelle stesse strade durante un viaggio
d’affari o per presenziare a qualche sfilata di moda?
Bridleway, per giunta, era sede di molti teatri di prestigio e via di
culto per il turismo equestre, con i suoi negozietti pieni di souvenir
ma anche – soprattutto – di boutique
d’abbigliamento.
Adorava
fermarsi di fronte alle vetrine per ammirare i vestiti in esposizione.
Da essi spesso aveva tratto spunto per nuove linee, che poi si erano
rivelati uno sfavillante successo, e una spinta per la sua carriera da
stilista. Ora quelle stesse vetrine erano a pezzi, con schegge di vetro
tagliente che circondavano come denti acuminati le grandi bocche dei
negozi. Un abito rosso rubino dall’elegante foggia
(assomigliava in modo preoccupante a uno che lei stessa aveva disegnato
in primavera) pendeva tutto scarmigliato da un lato di quelle zanne,
come una lingua di seta grinzosa.
Vide
anche delle gocce di un liquido rosso acceso, che tracciavano rigagnoli
scuri sul vetro infranto e che si allargavano in una macchia sul
marciazoccoli, ampia come una zampa di pony: era sangue.
La
stilista si voltò bruscamente dall’altra parte e
strinse i denti mentre cercava di non impazzire. “Non
è successo davvero, non è successo davvero, non
è successo davvero… ” ripeteva
a se stessa, mentre le viscere le si ribaltavano dentro.
Pinkie
Pie non poteva credere che tanta sofferenza poteva essere concentrata
in un’area così ristretta.
Dovunque
posava lo sguardo vedeva solo dolore. La sua visione della
realtà era stata sostituita da un paesaggio grigio e privo
di calore. Vi erano cumuli di detriti ammassati per strada, alcuni
spostati dai volontari al lavoro, che si presentavano
“ordinati”, come strutturati in una forma ben
precisa, quasi avessero una propria logica armoniosa, mentre altri
erano la più banale conseguenza del passaggio della grande
creatura. In ogni caso però, entrambi i tipi un tempo
erano stati qualcosa di bello e allegro, che oramai non esisteva
più.
Tese
l’orecchio, captando un suono che le provocò una
reazione familiare: un pianto di puledrino. E mentre le altre non la
guardavano, si allontanò per seguirne la direzione.
A
un lato della strada scorse una carrozza-ambulanza, con uno stallone in
divisa da infermiere e una unicorno adulta dal manto prugna, che dal
retro del mezzo tenevano compagnia a una coppia di piccoli puledrini.
Dietro di loro il Rivergrant Building, progettato
cinquant’anni prima dall’omonimo architetto,
esponeva il proprio scheletro metallico, come una carcassa sviscerata.
I
piccoli sedevano su una lettiga messa a disposizione per loro. Il
maschietto, che poteva avere sì e no sette od
otto anni, era un pony di terra e aveva il manto verde con una voglia
bianca sulla spalla destra, e stava in un angolo, mogio e silenzioso,
mentre dall’altra parte c’era invece una dolce
bambina dal manto rosa e dalle lunghe treccine gialle, tenute ferme da
alcuni nastrini rossi; singhiozzava invocando la sua mamma e il suo
papà.
Pinkie
sentì un brivido lungo il garrese a vederli così
angustiati, quasi che il suo Elemento la stesse incitando ad agire.
Il
puledrino maschio teneva la testa chinata in basso, con lo sguardo
perso nel vuoto, ignorando le parole con le quali i due adulti stavano
tentando di rassicurarlo. Questo fino a quando non vide comparire da
sotto le sue zampe un animaletto blu di gomma, che si rivolse a lui con
fare curioso. Era un cagnolino di palloncini gonfiato dalla Custode
dell’Allegria, che prese a muovere con gli zoccoli, tanto
abilmente da farlo sembrare quasi vivo.
I
pony intorno presero le distanze, ma solo per ammirare, con occhi
strabiliati, il momento in cui il cucciolo rientrava dal suo stato
catatonico per sbattere lentamente le palpebre e schiudere un leggero
sorriso all’animaletto di palloncini. La sua zampetta si
posò titubante e poi più convinta sulla testa di
lattice, la quale – ci si poteva giocare la propria
criniera – prima scodinzolò
dall’estremità opposta e in seguito
scandì un verso che fu proprio come il guaito di un
cagnolino in carne e ossa.
Pinkie,
però, non si limitò a fare solo a questo. La
puledrina accanto aveva infatti smesso di piangere, solo per rivolgere
a entrambi una smorfia d’invidia, la Custode allora
compì un altro dei suoi prodigi facendo comparire, non si sa
come, non si sa da dove, un orsacchiotto – vecchio e
incartapecorito – da un luogo nascosto della sua
criniera.
«Mr.
Tickle!!» Esclamò la bambina, agguantandolo. Era
un peluche in tutto e per tutto identico a quello che aveva lei nella
sua cameretta. Anzi, era proprio lo
stesso, compresi
i segni dei morsi sull’orecchio destro, che gli aveva
procurato quando era ancora più piccola.
La
tristezza si era tramutata in allegria, e ora i due cuccioli giocavano
con i doni della Custode, completamente estraniati
dall’ambiente circostante.
La
giumenta adulta si avvicinò a Pinkie Pie, ottenendo la sua
attenzione. «Non so come ci sei riuscita, ma è
stato davvero un ben gesto. Grazie.» Disse,
poggiando uno zoccolo all’altezza del proprio cuore.
Pinkie
Pie, guardandola ora più da vicino, si accorse che la sua
chioma grigia era raccolta in uno chignon, e che dall’aspetto
in generale era una pony abbastanza in avanti con
l’età.
«Non
potevo sopportare di vedere questi musini così
tristi.» Rispose accarezzando una guancia del maschietto.
«Ma che vi è successo esattamente?»
La
giumenta di mezz’età rivolse torva uno sguardo
alla Custode, chiedendosi se veramente non fosse informata dei fatti
avvenuti. Ma capì in un secondo momento quale fosse il senso
della domanda. Triste e avvilita, indicò qualcosa che la
pony in rosa, concentrata com’era sul fare felici i cuccioli,
prima non aveva notato: in mezzo alla strada giaceva la carcassa di una
carrozza-autobus, abbandona al margine di un’impronta
lasciata dal mostro. La parte frontale del mezzo era accartocciata e
compressa da tonnellate e tonnellate di peso della creatura
che aveva attraversato la città.
Pinkie
aguzzò la vista, e vide una chiazza tra le lamiere con
qualcosa che era stato coperto in maniera precipitosa da una cerata
bianca. La puledra gioiosa che c’era in lei avrebbe voluto
evitarlo, ma aveva già visto qualcosa del genere
nonappena aveva poggiato gli zoccoli a terra, e capì subito di
cosa poteva trattarsi. Come Rarity, venne colta da spasmi che le
ribaltarono gli organi interni. Il cuore le accelerò, il
fiato le si mozzò come se qualcuno le avesse posto un tappo
all’imboccatura della trachea, e la sua criniera fu sul punto
d’ammosciarsi, come era solito succederle quando la sua
ragione perdeva colpi. Paura e angoscia si presero gioco del suo
Elemento.
Lì
sotto c’era un corpo. Probabilmente, il cadavere del
conducente. O dei
conducenti,
se erano in due…
«Cos’è
successo?» Ripeté per la seconda volta. Un tic
all’occhio, seguito da alcune contrazioni, allarmarono
l’altra giumenta.
«Siamo
di fuori città.» Spiegò questa, che a
quel punto era chiaro che doveva essere l’insegnante
che aveva accompagnato la scolaresca. «Stavamo facendo una
visita con tutta la classe quando quella creatura è
arrivata. Siamo stati fortunati che non ci sia successo niente, a
parte… » fece per indicare la carrozza.
Pinkie
Pie dovette respirare a fondo, la puledra gioiosa che viveva dentro di
lei era sul punto di mettersi a gridare, farsi travolgere dalla
crudeltà di quel giorno, ma lei era lì in veste
di Custode, e doveva trasmettere un messaggio di speranza, almeno fin
quando aveva gli occhi di tutti puntati su di lei.
«D-dove
sono gli altri puledri… ?» Chiese a singulti,
augurandosi che la risposta non si celasse tra le lamiere del mezzo. Il
suo cuore non lo avrebbe sopportato.
«Sono
tornati a casa. I loro genitori sono venuti a prenderli appena gli
infermieri avevano accertato che stavano tutti bene. Sono rimasti solo loro
due.» Indicò i piccoli con un cenno «La
loro famiglia vive in campagna. Temo che non abbiano ancora avuto
notizie di cosa sia successo… »
Pinkie
annuì.
In
effetti, quello delle comunicazioni a grandi distanze era un problema
molto importante nell’Equestria contemporanea. Senza il
servizio offerto dagli incantesimi del Fuoco Magico, con i quali era
possibile trasmettere praticamente ogni tipo di messaggi (se la fiamma
era abbastanza grande da avvolgerli) dovunque vi fosse qualcuno pronto
a riceverli, i pony non avevano altra scelta che affidarsi agli zoccoli
di corrieri erranti, di terra o pegasi, che portassero di persona le
lettere da un capo all’altro del regno.
Solo
di recente poche aziende avveniristiche avevano cominciato a studiare
strumenti elettronici capaci di inviare e trasmettere comunicazioni
tramite onde radio a grandi distanze, ma erano tecnologie sperimentali,
ancora imprecise e colme di misteriose lacune, poco diffuse
perché si potesse sperare di farne un uso sul campo.
Questo
significava che i due cuccioli sarebbero rimasti su quella lettiga
ancora per chissà quanto, costretti a osservare con i loro
occhietti ricolmi di lacrime, soli e spaventati, la morte che
serpeggiava per strada. E con solo il sostegno di un’anziana
(a sua volta frastornata) insegnante a far loro da compagnia.
Pinkie
Pie, purtroppo, aveva degli affari che la attendevano in
un’altra sede, e il pensiero di lasciarli nel ventre del caos le
caricò l’animo di rimorsi, ma prima di andarsene,
promise loro che sarebbe tornata se si fossero trovati ancora
lì quando avrebbe concluso, e non se ne sarebbe
più andata fin quando i loro genitori non sarebbero venuti a
prenderli.
Contemporaneamente,
in fondo alla strada e all’inizio dell’isolato
successivo, Applejack vide un gruppo di stalloni dirigersi a galoppo
spedito verso un edificio in rovina. Erano sia unicorni, che pegasi e
pony di terra ben piantati di muscolatura, vigili del fuoco, Guardie e
volontari della protezione civile, e sembravano impazienti di arrivare
sul posto il prima possibile.
Stava
succedendo qualcosa, e data la sua costituzione, si sentì
chiamata in causa.
«Andiamo
a vedere di che si tratta!» Disse a Rarity, scattando prima
che questa avesse tempo di obbiettare. La stilista scambiò
un cenno con Princess Celestia lì accanto, e decise di
seguire l’amica, con in testa ancora il pensiero di
ciò che aveva fatto Pinkie Pie. Se c’era tra loro
una che aveva dato il buon esempio più di tutte, da quando
erano arrivate, quella era stata senz’altro lei, che da
subito aveva messo da parte le proprie emozioni per dare il suo
contributo in città. La Custode della Generosità
non voleva essere da meno, o non si sarebbe più sentita
degna di portare su di sé il simbolo del suo Elemento. Si
asciugò le lacrime e sigillò il dolore in uno
scompartimento segreto del suo cuore, lanciandosi all’ombra
della cowgirl.
L’edificio
in cui tutti si erano raggruppati era un negozio di suppellettili e
articoli orientali. Chincaglierie di ogni genere e confezioni di cibi
con etichette scritte con ideogrammi incomprensibili riversavano a
terra cadute da scaffali in legno che erano stati ricoperti da strati
su strati di macerie piovute dall’alto. Il soffitto, infatti,
e con esso gran parte del piano superiore, erano scesi a piombo al
piano terra, e sembrava che tutto fosse pronto a crollare di nuovo non
appena qualcuno avesse appoggiato la zampa sul punto sbagliato.
Applejack
entrò mentre un unicorno pompiere finiva
d’impiegare un incantesimo in mezzo ai resti della merce. Era
la “Chiaroveggenza”,
uno dei pochi di cui potevano avvalersi per ritrovare i dispersi sotto
le macerie, ma che di contro, presentava un difetto che ne limitava
l’utilizzo: era fondamentale avere almeno qualche
informazione sul soggetto che si stava cercando; nome di battesimo, una
fotografia che ne raffigurasse l’aspetto, oppure una
descrizione quanto più vicina possibile alla
realtà. In casi come questi erano gli stessi parenti (o
talvolta amici e vicini) a fornire i dati necessari ai soccorritori,
che altrimenti dovevano affidarsi al caso e sperare che le rovine sotto
cui scavavano rivelassero qualcuno che aveva bisogno di loro.
Il
pompiere all’opera in quel momento nel negozio si
arrestò di colpo e puntò lo zoccolo di fronte a
una massa informe, costituita da travi, pezzi di cemento, mercanzia e
un grande lastrone di soffitto che si accavallava sopra tutto il resto.
«Lì!»
Esclamò, e subito la squadra si mise a scavare.
Applejack
s’infilò ancora più dentro il negozio,
quando fece per avvicinarsi e offrire aiuto con i suoi zoccoli, ma
qualcuno le bloccò la strada – una Guardia
Cittadina – invitandola con tono professionale ad
allontanarsi dall’ambiente. «È
pericoloso stare qui. La prego di allontanarsi.»
La
squadra, nel frattempo, scavava con dedizione e impegno, completamente
estraniatasi da quanto succedeva intorno. A uno sguardo più
attento, però, emerse subito che al gruppo mancava una
figura di comando. Qualcuno che coordinasse gli scavi e decidesse come
proseguire. Ognuno diceva la sua su quali blocchi rimuovere, lasciando
che fosse la fretta a parlare per loro.
Nessuno
si rese conto della sciocchezza che stavano per commettere.
«Per
tutti i torsoli di mele, fermatevi subito!»
L’urlo
della cowgirl prese in controzoccolo sia loro che chi cercava di
fermarla. Alcuni si voltarono per guardarla. Altri invece continuarono
imperterriti, troppo presi dal loro compito per far caso alla sua voce.
Un unicorno usava la magia per farsi largo nella nicchia tra i detriti,
dove il pony di terra che tentavano di soccorrere giaceva prono con la
testa affondata nella merce riversa sul pavimento. Nel frattempo, due
pegasi raccoglievano grandi blocchi di cemento e li allontanavano di
qualche metro. Tentavano di estrarre una colonna che, una volta
rimossa, avrebbe consentito loro di insinuarsi nello spazio per
recuperare la vittima.
La
Custode dell’Onestà sorpassò il pony
all’entrata e s’infilò nel gruppo,
spingendo via gli operatori incalliti e frapponendosi fra loro e
l’ammasso.
«Basta!
Non vi siete accorti che questa colonna è
portante?!» Disse, allungando lo zoccolo nel punto indicato.
«Avete idea di che cosa succederebbe se la
rimuoveste?» Solo allora gli stalloni si misero a ragionare e
si resero conto della follia che stavano per commettere, e la loro
fretta di portare a termine il compito subì una battuta
d’arresto. La colonna in questione sosteneva
l’enorme porzione del pavimento-soffitto, che ricopriva il
resto del materiale inerte come un tetto pericolante. Rimuoverla
avrebbe significato privare la massa dell’unico sostegno che
le impediva di crollare su se stessa, seppellendo così il
povero pony che stava lì sotto.
I
soccorritori si osservarono fra di loro, muti e imbarazzati per la
grave inadempienza. I vigili del fuoco, in particolare, avrebbero
dovuto prevederlo, dato il loro addestramento
nell’intervenire in situazioni d’emergenza, ma la
verità era che neppure loro sapevano esattamente come
muoversi in quelle rovine. Mai, nella carriera di ognuno di loro, era
capitato di vivere una giornata come quella, dove le vite di tanti pony
erano in bilico negli zoccoli di pochi operatori inesperti. A
Manehattan, in particolare, non era quasi mai successo (eccezion fatta
per un caso in particolare…) che una calamità
costringesse così tanti organismi della sicurezza pubblica a
mobilitarsi per strada. Il corpo dei vigili del fuoco, al massimo,
interveniva unicamente quando qualche buontempone dava fuoco ai
cassonetti della spazzatura, o quando qualche puledrino pegaso, per
vincere una scommessa con gli amichetti, volava fin sulle fronde di un
albero, restandovi bloccato, incapace di scendere.
Applejack,
resasi conto di essere l’unica in quel momento a sapere cosa
fare, fece due passi all’indietro esaminando
nell’insieme la massa. Aveva abbastanza esperienza in fatto
di costruzioni (con tutte le volte che il suo fienile era stato
distrutto e quindi ricostruito) da sapere che per proseguire dovevano
individuare un altro punta d’accesso.
Si
spostò sulla sinistra, scavalcando una pila di cartoni
contenenti del cibo in scatola. «Qui può andare!
Forza, datemi una zampa!» Ordinò al gruppo e
cominciò a calciare la massa in punti apparentemente casuali.
Volontari,
Guardie e pompieri la studiarono dubbiosi, interrogandosi su come
dovessero comportarsi.
La
Custode colpì un blocco di cemento con una nerboruta
zoccolata, ampia non meno di un metro, e incredibilmente
riuscì ad aprirvi una rete di crepe che si allargarono fino
a portarlo alla completa scissione dei pezzi. Applejack
balzò all’indietro per evitare che questi le
cadessero sulle zampe, quindi tornò subito alla sua opera.
Un
unicorno le andò vicino, rispondendo al suo appello,
sollevando con la telecinesi e con grande sforzo il primo blocco di
edificio, allontanandolo con un gemito di sforzo.
«Allora,
vi volete muovere, o lasciate che siano le signore a fare il lavoro sporco?» Rarity, che era rimasta in disparte fino a quel
momento, non aveva certo la prestanza fisica né i relativi
attributi magici per sostenere per lunghi periodi lo sforzo dello
scavo, ma di certo non avrebbe esitato di fronte alla
necessità di aiutare chi ne aveva bisogno.
Sotto
la guida delle due nuove arrivate, i soccorritori si riorganizzarono e
collaborarono insieme per portare a termine il disseppellimento.
S’incitavano a vicenda e si dividevano i compiti come in una
catena di montaggio, adempiendo ognuno a un incarico specifico. La
stilista, per esempio, che per quanto volenterosa non poteva sostenere
come gli altri il ritmo, sfruttava le proprie abilità
magiche per sgomberare i passaggi dal pulviscolo e dai detriti
più piccoli, che malgrado tutto, potevano rallentare
l’avanzata del gruppo; ed era anche l’addetta alla
sicurezza, che quando scorgeva un ammasso in caduta, aveva
l’incarico di bloccarlo per aria prima che qualcun altro
si facesse del male, o di allarmarli qualora il volume fosse stato
oltre la sua portata per fermarlo.
Applejack,
invece, non aveva alcun tipo di magia, di conseguenza non potevano
contare su di lei per la rimozione dei blocchi, aveva però
delle zampe d’acciaio, ed era sempre la prima a sferrare un
doppio calcio quando c’era da rimuovere una porzione
più spessa e compatta.
La
principale difficoltà, anche ora che tutto prese una piega
più fluida, era l’enorme soffitto che pesava sopra
tutto il resto: schiacciava le macerie, che a loro volta tenevano
intrappolato il malcapitato, impedendo ai soccorritori di riportarlo
alla luce del sole.
Un
infermiere venuto sul posto tastò il suo battito cardiaco
non appena furono in grado di raggiungerlo, e avvisò la
squadra che era ancora in vita, ma privo di sensi. La metà
inferiore del corpo ancora incastonata sotto quintali di cemento.
Discussero
a lungo su quale fosse l’approccio da adottare, se per
esempio era il caso di provare ad estrarlo – ma senza aver
verificato prima quale fosse il suo reale stato, era un rischio troppo
alto da correre – o scavare ancora di più, fin
dove fosse stato possibile, mentre il soffitto incombeva su di loro.
La
soluzione si presentò d’improvviso con
l’arrivo di Princess Celestia.
«Lasciate
fare a me» Disse risoluta, e a quel punto tutti si misero in
disparte.
Un’unità
della Guardia Cittadina, e insieme a lui un pegaso volontario, si
distesero all’ingresso della nicchia, pronti ad allungare le
zampe anteriori per afferrare il moribondo. Celestia accese il suo
corno, che circondò di magia il soffitto, e lo
sollevò con delicatezza, smuovendo pezzi di materiale
più piccoli mentre il grande lastrone, gradualmente veniva
innalzato.
Si
fecero avanti anche altri tre stalloni, che allontanarono i frantumi
che ancora restarono, e a quel punto i due pony distesi si diedero il
via a vicenda per ghermire il ferito e portarlo fuori.
Quando
il corpo fu rimosso, Celestia sibilò tra i denti:
«Mettetevi a riparo… » lasciando
precipitare il soffitto. La lastra cadde pesantemente sulle rovine
sottostanti, e si scompose in parti più piccole, che
rotolarono giù sollevando una nube di polvere.
L’aria divenne pesante e sporca.
Il
moribondo, ricoperto da una patina grigia su tutto il manto, venne
adagiato su una barella e poi portato fuori dal negozio. Non sembrava
aver subito traumi rilevanti, a parte un lungo taglio sulla fronte che
doveva essere stato inferto da un oggetto contundente, quando
l’edificio gli era crollato addosso.
Osservandolo
meglio, si notarono subito i piccoli occhietti a mandorla, e il viso
rotondo con una fronte ampia e spaziosa, tipici tratti distintivi dei
pony provenienti dall’oriente, da città come
Neighgasaki o Tokyoats. Sotto lo strato di polverio che lo ricopriva,
aveva un manto color terracotta e una corta criniera nera.
«Pensate
che si riprenderà?» Domandò Applejack
in trepidante attesa.
I
medici lo sottoposero a una visita preliminare, tastandogli il corpo
alla ricerca di lesioni interne.
«Difficile
a dirsi finché non lo portiamo in un centro
d’assistenza. Ehi, signore, riesce a sentirmi?»
Mosse lo zoccolo davanti al suo viso e quando mancò una
risposta, lo tastò delicatamente un paio di volte.
«Niente,
questo qui è fuori combattimento.»
Confutò infine.
«Vi
spiace se provo io?» Si offrì Celestia, accendendo
di nuovo il suo corno.
I
due infermieri si spostarono immediatamente per lasciare spazio alla
loro regnante. Lei poggiò la punta sul petto del ferito e si
servì di un incanto facilmente distinguibile per farlo
rinvenire, una magia di guarigione.
Si
vide il taglio sulla fronte rattopparsi da sé, lasciandosi
dietro solo una crosta, e le ferite più piccole scomparirono
del tutto. Anche il manto sembrò riprendere visibilmente
colore, che ora divenne di una leggera sfumatura cremisi brillante.
Videro
gli occhi scuotersi, le labbra tremolare e incurvarsi in una smorfia.
«AAAAAHHH!!»
Sì svegliò di soprassalto, agitandosi sulla
barella, tanto che dovettero tenerlo bloccato per evitare che traumi
interni non ancora rilevati potessero aggravarsi. Poi
cominciò a gridare parole in una lingua incomprensibile. Per
i presenti erano vocaboli privi di forma, ma non per Celestia, che
durante le sue visite in oriente, aveva imparato il loro linguaggio per
facilitare le relazioni diplomatiche con i rappresentanti di quella
regione.
«Sono
qui… sono qui… sono arrivati… sono tra
noi… » ripeteva
a intervalli irregolari, senza alcuno schema ordinato.
Gli
infermieri lo trattennero scongiurandogli di calmarsi, fino a quando
non ebbe più le forza per ribellarsi. A quel punto fu
obbligato dalla circostanza a fermarsi per riprendere fiato.
«Lasciatelo.»
Ordinò Celestia. Il pony era appena uscito da un incubo, e
l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di risvegliarsi su una
barella mentre gente sconosciuta lo tratteneva contro la sua
volontà. Aveva bisogno di concentrarsi su di lei,
perché ora la Principessa doveva rivolgergli una domanda.
Fece
partire un debole fuoco fatuo dalla punta del suo corno, e lo
indirizzò di fronte al muso dell’orientale supino,
che ne fu attratto come una falena dalla luce del lampione. I suoi
occhi spiritati iniziarono a seguire la fiammella mentre questa si
muoveva a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Il suo fiato
riprese regolarità e ora aveva assunto un aspetto
più rilassato.
Celestia
fece un passo in avanti e s’inginocchiò di fianco
alla barella, piegando il collo in modo che i loro sguardi potessero
congiungersi l’uno con l’altra.
«Signore,
lei sa che cosa è successo, vero? Mi dica cosa ha visto.»
Gli chiese, parlando nella sua lingua.
L’orientale
a quel punto smise di seguire la fiamma, riconoscendo nelle parole
dell’alicorno del sole qualcosa di familiare, di affine alla
sua cultura.
«Kaiju…
»
disse una volta, poi lo ripeté «Kaiju…»
e ancora una volta
«Kaiju…
»
lentamente, come se fosse perfino spaventato dalla sua stessa voce.
Le
pupille di Celestia si fecero piccole e increduli, quindi
annuì, estinguendo l’incantesimo che teneva in
vita il fuoco fatuo.
Le
Custodi degli Elementi, nel frattempo, si consultarono con gli altri
per scoprire se qualcuno ci stesse capendo qualcosa.
Celestia,
ora, riprese a parlare con il ferito, in tono caldo e rassicurante.
«Questi
pony ti porteranno a medicare adesso, non avere più timore.»
«Tornerà…
»
gracchiò lui «tornerà…
non c’è niente che possiamo fare.»
Celestia
chiuse gli occhi annuendo, quindi si rimise dritta sulle zampe.
«Portatelo al ricovero… » e aggiunse
anche «per favore… trattatelo con
riguardo.»
Presa
nota dell’indicazione, gli infermieri lo condussero verso la
carrozza-ambulanza parcheggiata sul margine della via, e la squadra di
volontari e vigili del fuoco si disperse per andare in cerca di qualcun
altro da aiutare.
«Andiamo.
Non è conveniente far aspettare il sindaco.»
Partì spedita, costringendo le due Custodi a trottarle
dietro.
«Principessa,
sentite… che cos’era quella parola che ha
pronunciato… Kaiju?»
Le domandò Rarity, affiancandosi alla sua sinistra.
L’alicorno
emise un profondo sospiro e si fermò, contemplando
velocemente la devastazione in città.
«È un termine che viene usato per rimandare a un
antico folclore orientale. Sta per “Strana
Bestia”,
anche se le leggende popolari lo associano a un’altra
definizione: “Mostri
Giganti”.
Secondo questi racconti, i Kaiju erano enormi creature marine che
emergevano dagli abissi per portare il Caos nelle terre di quella
regione. Erano temuti dalle popolazioni come delle vere
calamità naturali, praticamente invincibili e dotati di una
forza oltre ogni immaginazione. I pony fuggivano terrorizzati quando uno
dei loro regni veniva assaltato da questi mostri, e si rifugiavano in
grotte o cavità sotterranee fino a quando la creatura,
placata la sua furia, non si fosse allontanata…
» mentre spiegava, si domandò tra sé e
sé se era mai possibile che le fosse sfuggito qualcosa,
perché era assurdo pensare che quelle credenze si fossero concretizzate.
Subito dopo, infatti, aggiunse: «… ma in tutti i
secoli che ho regnato, non ho mai avuto motivo di pensare che quei
racconti fossero veri. Si è sempre trattato di leggende.
Miti infondati che nel tempo hanno assunto connotazioni
epiche… »
«Ma
tutte le leggende hanno un fondo di verità, no?»
Disse Applejack, che non voleva abiurare così alla leggera
quell’ipotesi. Sapeva bene che tra le credenze popolari che
circolano tra i pony di ceto sociale più basso, spesso si
nascondono verità che nessun testo storico avrebbe
l’ardire di rivelare. «Non è detto che
lo sia, ok. Ma se questa creatura lo è veramente, uno di
questi Kaiju… cosa dobbiamo fare per affrontarla?»
Celestia
evitò di parlare per alcuni secondi. Non voleva darle quella
risposta.
Poco
dopo Applejack la vide scuotere la testa e mostrarsi scoraggiata.
«Forse è meglio augurarsi che non lo sia, mia
cara. Perché se il Mito fosse vero, non potremmo fare
proprio nulla… vedi, secondo la leggenda: solo un Kaiju
potrebbe sconfiggere un altro Kaiju… »
Fluttershy
si era isolata dal gruppo quando erano atterrate a Manehattan. La
Guardia Reale che le aveva seguite da Canterlot era schizzata via non
appena avevano toccato suolo, per cercare notizie sulla propria
famiglia. Lei a quel punto, come tutte le altre, era rimasta
attanagliata dall’orrore che si presentava nella forma del
Sentiero.
Aveva
vagato ai bordi della strada per interi isolati, avanti e indietro,
allucinata da quanto era costretta a vedere, con gli occhi che per
neppure un momento avevano smesso di lacrimare. Quel giorno erano morti
centinaia, se non migliaia di pony innocenti, eppure c’era
qualcosa in tutto quello che stava vedendo, che non combaciava con le
informazioni che le erano state riferite quando si trovava ancora a
castello.
Le
avevano detto che un mostro aveva attaccato la metropoli, demolendo i
palazzi in preda a una furia distruttiva, e uccidendo chiunque si fosse
intromesso sulla sua strada. Ma quello che aveva di fronte era uno
scenario totalmente differente da quello che si sarebbe aspettata.
C’erano
segni di artigli e danni strutturali rilevanti sulla maggior parte dei
palazzi del Sentiero, ma il modo in cui si presentavano rivelava molte
più informazioni di quante non le dessero le parole dei
testimoni. Le vetrate e i bordi degli edifici, per esempio, erano
abrasi, sì, ma non sfondati, come sarebbero dovuti apparire
pensando a un predatore in cerca di cibo. Il titano in questo caso non
aveva tentato di assalire le strutture, bensì di passare
lungo uno stretto condotto, troppo stretto rispetto alla sua taglia per
evitare di buttare giù qualcosa.
Solo
le strutture più basse apparivano divelte, e quando
così, erano sempre accompagnate da qualche impronta nelle
immediate vicinanze. In quei casi, il mostro doveva averle urtate
accidentalmente, nella stessa modalità in cui si sarebbe
urtato un ceppo mentre si galoppava nel bosco.
Fluttershy
fece grande fatica ad accettarlo, mentre ascoltava le sirene dei mezzi
coprire ogni altro suono, e osservare il dolore dei pony in lacrime
mentre cercavano di avere notizie sulla sorte dei loro cari, come la
Guardia Reale. Il fatto era che conosceva a sufficienza il
comportamento animale da capire, in base a quali tracce lasciavano, quali fossero le sensazioni che avevano provato in quei lassi di tempo.
Il
mostro di Manehattan non era un loro nemico, ma uno sventurato
vagabondo che era approdato sulla costa per sbaglio, e che aveva vagato
in un ecosistema sconosciuto fino a quando non aveva trovato il modo di
evadervi. Chi poteva sapere quanta paura avesse provato, quanto la
confusione lo avesse travolto, mentre tutto intorno i palazzi cadevano
e delle piccole creature che forse non aveva neppure mai incontrato, lo
attaccavano per qualcosa che alla fin fine si era trattato unicamente
di un equivoco.
Più
ci pensava, e più i pensieri contrastavano a vicenda, quando
rimuginava sulla sofferenza che il mostro aveva seminato, ma
allo stesso tempo che aveva patito a sua volta. Per lei fu
come essere testimone nel momento dell’attacco, e assistere
con gli stessi occhi ai fatti avvenuti. Era l’influenza del
suo cutie mark, l’affinità naturale che aveva con
gli animali, che la legava in una maniera indissolubile a
loro.
Si
stava domandando quanto di ciò che aveva dedotto avrebbe
dovuto raccontare alle sue amiche, e se ne sarebbe valsa la pena di
farlo. E proprio in quel momento qualcuno le arrivò alle
spalle, facendola impennare dallo spavento, ma si distese subito quando
vide che si trattava della sua amica cowgirl.
«Applejack?
S-scusami… » mormorò arrossendo,
imbarazzata per la reazione.
La
cowgirl le venne vicino e la cinse in un abbraccio calmante. Ne avevano
bisogno entrambe per prendere di petto la giornata.
«Come
ti senti, zuccherino mio? »
«I-io…
sto solo cercando di trovare un senso a quello che è
successo qui. Non è… come… »
«Lo
so. Ti capisco bene.» La interruppe con tatto
«Nessuno dovrebbe soffrire come sta succedendo ai pony di
questa città, oggi.»
Non
era esattamente ciò che la Custode della Gentilezza aveva
intenzione di dire, ma mentre aspettava di decidere come comportarsi,
appoggiò il ragionamento della giumenta arancione.
«Comunque
volevo solo avvisarti che Celestia sta per incontrarsi con il sindaco
al Municipio. Tra poco ci avviserà di
raggiungerla.»
Fluttershy
annuì. «Arrivo subito… s-se non ci sono
problemi. Vorrei solo prendermi cinque minuti… ecco, per
pensare.»
La
pony dell’Onestà si sistemò il cappello
sorridendole mestamente. «D’accordo, ti aspettiamo
lì allora. Non metterci troppo però.» E
se ne andò, lasciandola da sola con i suoi pensieri.
“Che
cos’è successo realmente qui? Chi è
quell’essere?” I
dilemmi erano pesanti come macigni e le imponevano di compiere una
scelta delicata. “Da
quale parte devo schierarmi?”. Era
orribile doverci riflettere. La facevano sentire come una traditrice
della sua stessa gente, ma allo stesso tempo, scegliere di ignorarli
avrebbe significato perpetrare un’ingiustizia nei confronti
di quella stessa Madre Natura che da quando aveva scoperto la sua
virtù, aveva promesso di salvaguardare come una cara amica.
Forse non c’era una risposta corretta, o forse doveva
semplicemente schierarsi dalla parte della sua specie. Ma prima
d’indirizzarsi verso l’opinione comune,
c’era ancora una risorsa su cui poteva fare appello. Doveva
solo aspettare l’occasione giusta per metterla in atto.
Il
municipio di Manehattan era sopravvissuto al passaggio del mostro,
mantenendosi intatto e maestoso, benché non si potesse dire
lo stesso dell’ampio parco antistante. Dove un tempo
crescevano con fierezza robusti cedri ed altri alberi che dividevano lo
spazio con arbusti e aiuole curate, ora c’era solo un campo
minato disseminato di enormi zolle di terreno, scavate dalle impronte
del mostro. Alcuni lampioni dell’illuminazione stradale erano
stati abbattuti – facendo fuggire le lucciole contenute al
loro interno – e qualcuno li aveva raccolti e accatastati a
lato delle ringhiere che separavano l’erba dal viale
asfaltato, lasciando così il passaggio libero per la grande
folla di giornalisti e di semplici curiosi che si stava accalcando di
fronte alle scalinate del palazzo.
Una
reporter, presentatasi come Breaking News, del Foal
Free Press,
tentò di superare il cordone di Guardie Cittadine per
rivolgere delle domande a Princess Celestia, ma era solo una dei tanti
che erano accorsi fin lì per intervistare le
personalità di spicco presenti all’entrata. Fu
spinta via da una coppia di unicorni in armatura e quindi trascinata
all’indietro dai colleghi rivali, che occuparono subito il
suo posto in prima fila.
Poco
dopo gli stessi soldati fecero aprire un varco per permettere a
Fluttershy di raggiungere le sue amiche. Sì
posizionò accanto ad Applejack, che parve felice di vederla
tornare così presto; a quel punto il gruppo delle Custodi
– tolte Rainbow Dash e Twilight – era da
considerarsi al completo.
Princess
Celestia si trovava poco più avanti di loro, e discuteva
animatamente con il sindaco Mayor Sue. Questa indossava una gonna e una
camicia nera eleganti con un papillon bianco, a coprire un manto rosso
acceso contrastato dal nocciola della criniera (corta e pettinata) e
della coda. Indossava occhiali dalla montatura rettangolare, che le
donavano un aspetto maturo e attento, in netta contrapposizione con il
suo fare altezzoso e aspro. «… insomma, qui si sta
parlando di milioni di monete di danni! Il quartiere finanziario
è andato distrutto, e la Banca Centrale… con
tutte le spese che abbiamo avuto nell’ultimo biennio
è un miracolo che non siamo ancora con il conto in rosso!
Come dovremmo intervenire se non disponiamo più di liquidità?!»
Celestia
rispose cercando di preservare la propria compostezza, anche se farlo
le risultava difficile, considerati i modi non proprio accomodanti
della prima cittadina. «Canterlot vi aiuterà.
È nostra intenzione stanziare dei fondi per assistere gli
sfollati in città. Ma al momento anche piccole azioni, come
mettere a disposizione ricoveri di fortuna, o trovare alberghi disposti
a ospitarli, sarebbe già da considerarsi come un atto di
carità per molti di loro.»
Fluttershy,
che non aveva seguito la discussione fin dal principio, aveva
però intuito che il tema cardine dovesse essere il denaro, e
questo la fece rabbrividire, come si poteva anche dedurre dagli sguardi
nauseati della sue amiche: era davvero questa la preoccupazione
principale del sindaco?
«Interverremo
con tutte le nostre risorse» continuò a
risponderle Celestia, cercando comprensione negli sguardi delle Custodi
«faremo di tutto per aiutare le famiglie e le imprese che
sono state danneggiate dal disastro. Non dovete preoccuparvi per
questo.»
«Lo
spero bene, perché con i soldi che ci inviate di solito
è già tanto se riusciamo a stipendiare quegli
incompetenti perditempo della nostra milizia! Senza contare
l’assenza di Princess Twilight, che si è fatta
assentare proprio in un momento del genere!»
«Arriverà
presto… » fu la sola cosa che riuscì a
ribattere la regnante di Canterlot.
«Bah!»
Pestò gli zoccoli l’altra. «Stiamo
solamente perdendo tempo qui!»
Scese
di qualche gradino attirando l’attenzione della stampa.
Qualcuno stava già tenendo sollevati i taccuini, e i
fotografi riempivano l’aria con i flash dei loro apparecchi,
ma ad attenderli c’era solo un’amara delusione.
Disse loro che più tardi avrebbero indetto una conferenza
stampa, nella quale avrebbero risposto a tutte le domande che volevano
porle. Il tono che utilizzò questa volta fu più
delicato, forse per non inimicarsi potenziali appoggi alle prossime
elezioni, ma anche così, gli inviati che erano in attesa di
accaparrarsi la loro fetta di cronaca, si lanciarono in mormorii
scontenti e addirittura a lunghi fischi di protesta.
Mayor
Sue li ignorò come poteva, chiamando a sé una
pony che era presente all’entrata insieme alle altre.
«Forza, entriamo. Vieni Time Lapse!»
Time
Lapse era la sua assistente, o comunque doveva adempiere quel ruolo,
dato che la seguiva ovunque lei andasse. Fluttershy si era accorta di
lei solo in un secondo momento, sebbene… non fosse il tipo
di puledra che passasse facilmente inosservata. Questa, malgrado avesse l’aspetto di una unicorno normale non troppo in carne, con un manto grigio, tendente al viola, e una folta chioma nera di capelli mossi con un visino dolce e adorabile, era sorprendentemente “alta” per essere una pony qualunque. Non che fosse sproporzionata o di costituzione robusta, semplicemente era più “grande” delle sue simili, come se una lente d’ingrandimento si fosse frapposta tra lei e l’altrui campo visivo restituendo di lei un riflesso zoomato.
«S-sì…
» gemette in modo timido e svampito quando fu chiamata,
fissando per un momento la Principessa e le ragazze, come per
compatirle, prima di trotterellale al seguito di Mayor Sue.
Immediatamente
si dimenticarono di lei, e la prima cittadina tornò ad
essere il centro dei loro pensieri.
«Ma
si è mangiata una mela bacata quella, chi accidenti crede di
essere?!» Sbraitò la cowpony, in riferimento alla
sua condotta.
«Già,
è come se in pasticceria le avessero venduto dei
bignè salati!» Si aggiunse Pinkie.
Incredibilmente,
l’alicorno prese invece le sue difese. «Siate
clementi con lei.» Disse in tono sobrio. «Mi rendo
conto che a una prima impressione possa riflettere
un’immagine sbagliata di sé. Ma la conosco da
molti anni, e posso garantire personalmente per la sua
competenza.»
«Beh,
è un bel peperino però. Questo non lo potete
negare!» Commentò Rarity, dandole il beneficio del
dubbio.
«È
per colpa della situazione che stiamo vivendo oggi. Ognuno di noi
affronta i traumi a modo proprio, questo è semplicemente il
suo modo di farlo.»
«Capisco,
ma… » fece per aggiungere Applejack, se non che si
rese conto che la Principessa aveva ragione. Forse non era il modo
giusto di fare, ma come biasimarla ora che sarebbe toccato a lei
ricucire le ferite del Sentiero, senza considerare le infinite morti
che reclamavano una sepoltura. Essere in apprensione per le casse della
città era forse il minimo che ci si poteva aspettare da un
sindaco. Almeno questo era il modo di vederla di Princess Celestia.
Con
un gesto del capo, mise in allerta il cordone di Guardie, comunicando
poi alle Custodi che era il momento di entrare. La schiera di
giornalisti eruppe alla notizia, cominciando a spintonare nel verso
opposto nel tentativo di abbattere il rango dei militari. Chi tra di
loro era dotato di ali, tentò la sorte sollevandosi per
aria, cercando si scavalcare i colleghi-rivali, ma incontrò
la resistenza dei Wonderbolts appostanti sui balconi proprio per
prevenire incursioni del genere, gli unicorni invece non avevano magia
sufficiente per opporsi alla resistenza della milizia, sebbene tentassero
comunque di teletrasportarsi oltre la fila.
Quello
era forse il giorno più importante della storia di
Equestria, e nessuno avrebbe rinunciato tanto facilmente ad un boccone di cronaca.
La
sala delle riunioni in cui si ritrovarono era un grande stanzone
spoglio e austero con un lungo tavolo a forma di ferro di cavallo
disposto al centro, un’asta con esposto lo stendardo di
Menehattan, e solo un vaso di Ficus Microcarpa a dargli un tocco di
colore.
Un
grande telo appeso alla parete, con accanto un vecchio proiettore per
le diapositive, attendeva il giorno in cui sarebbe potuto essere
d’aiuto a qualcuno.
I
suoni della metropoli in fermento attraversavano le grandi finestre
diffondendo un tema che suonava di soggezione e senso
d’impotenza alle orecchie delle presenti.
Mayor
Sue, seduta in uno dei posti centrali, a sinistra di Princess Celestia,
usò il proprio corno per sistemare una pila di documenti
nella sua valigetta personale, quindi alzò un bicchiere
ricolmo d’acqua, tracannando con ingordigia.
«Quanto
ci vorrà ancora?» Domandò a Celestia,
mentre le Custodi, ai due lati, restavano in silenzio.
«Arriverà
a momenti. La prego solo di avere ancora un po’ di
pazienza.»
Questa
fece una smorfia biliosa e tornò alle sue faccende.
Poco
dopo, com’era stato promesso, la porta si aprì.
Twilight
Sparkle e Rainbow Dash entrarono accompagnate dall’assistente
chiamata Time Lapse. In quella cornice formale non ci furono gridolini
o aperte manifestazioni di gioia, ma solo calmi sorrisi e saluti
d’accoglimento.
Furono
invitate a sedersi nelle loro rispettive sedie. Dash prese posto nel
ramo sinistro del tavolo, accanto a Fluttershy e Pinkie, mentre per
Twilight avevano riservato uno spazio al centro, accanto alla sua
ex-Mentore.
Discussero
un po’ tra loro, scambiandosi pareri su quanto avevano visto
di fuori.
Applejack,
dall’altra estremità, pose delle domande alla
pegaso arcobaleno, notando nei suoi occhi tracce lucenti di lacrime,
come del resto era capitato a tutte loro.
Dash
la liquidò con un nitrito e pochi giri di parole, facendole
capire che non aveva intenzione di esprimersi. In un altro momento
sarebbe stata entusiasta di raccontare le emozioni e la gloria di avere
volato a fianco di una leggenda come Silver Sprint. Avrebbe occupato
tutto la giornata vaneggiano su quanto fosse stata brava a reggere il
suo ritmo, ripetendo i complimenti che aveva ricevuto mentre
conducevano Twilight a Ponyville e da lì fino a Manehattan;
avrebbe anche voluto proporgli una sfida di velocità al
campo d’allenamento dell’Accademia a Cloudsdale,
che era sicura di vincere senza alcun impegno. Ma quando si rese conto
in quale stato vessava la metropoli… quando
allungò lo sguardo sul Sentiero del mostro, che attraversava
la città in tutta la sua lunghezza, il suo entusiasmo e il
suo spirito combattivo… furono obliterati come pensieri
transitori, e la sua sicurezza costretta a rannicchiarsi in un
angolino, tremante. Non riusciva a credere che Silver Sprint
affrontasse la situazione con tanto distacco.
Erano
atterrati nel piazzale del municipio, aiutati dalle Guardie a superare
la muraglia di giornalisti in attesa. L’insistente Breaking
News tentò nuovamente la sorte, bloccando Princess Twilight
sulle scale.
«Cosa
farete ora? Intendete utilizzare gli Elementi?» Fu una
domanda rapida e strappata con la forza, l’unica che le
scaturì in quel frangente, e la Principessa fu sul punto di
risponderle, cadendo così nella sua imboscata. In fondo
sembrava una domanda così innocente, e rispecchiava appieno
la realtà dei fatti.
Twilight
fu afferrata appena in tempo dal Luogotenente e portata con vigore
oltre il cordone di militari.
Prima
che potesse fare lei delle domande, le fu spiegato che se avesse
concesso a un solo reporter l’intervista, tutti i restanti le
si sarebbero avventati contro come avvoltoi affamanti, per avere
ciascuno un proprio assaggio della Principessa dell’Armonia.
Era un errore da principiante, che Twilight doveva promettersi di non
commettere più.
Silver
Sprint a quel punto fu chiamato da parte da un grosso unicorno in
uniforme da Capitano. Ci fu una breve discussione, durante la quale il
Luogotenente ascoltò e fece dei cenni di assenso, quindi
tornò dalle Custodi.
«Per
il momento temo di dovervi salutare, Vostra Altezza. Altri incarichi
richiedono la mia presenza.» S’inchinò a
Twilight, quindi spostò lo sguardo verso Rainbow.
«Cadetta Dash, volare con te è stato un
vero piacere. Mi assicurerò di farne parola al
più presto con i tuoi istruttori.»
Lei
arrossì, accogliendo con una certa soggezione i complimenti,
in fondo lui non era come gli altri stalloni da cui aveva ricevuto
lusinghe. «Dove te ne vai?» Fu la domanda che gli
rivolse per distogliere l’attenzione da quei pensieri.
«Mi
vogliono fuori città con lo squadrone scelto per andare alla
ricerca del mostro. Il piano è di seguire le sue orme per
scoprire se porteranno da qualche parte»
«Vai
a stanarlo, eh?»
«È
l’unico modo. Se non lo rintracciamo prima che cali la notte,
rischiamo di perderlo di vista. E altre città potrebbero
fare la stessa fine di Manehattan. A proposito» porse a
Twilight un portablocco con dentro infilati dei fogli, che gli era
stato consegnato dal Capitano delle Guardie poco prima.
«Date
questo al sindaco una volta che sarete entrate. È
importante.»
Le
ragazze si presero del tempo per guardare veloce, e quando alzarono la
testa, Silver Sprint non c’era già più.
Lo videro volare nel cielo della metropoli, in viaggio per la sua nuova
destinazione.
Time
Lapse si avvicinò a Mayor Sue e le porse il portablocco. Se
ne era fatta carico mentre accompagnava le due Custodi alla sala delle
riunioni. «E questo qui che
cos’è?» Le domandò il
sindaco, come se le fosse appena stata presentata una palla compatta di
fango.
Timidamente
le risposte: «Uh… è il primo rapporto
completo del Capitano delle Guardie sulla situazione in
città, pensavo che… sì, che lo volesse
esporre alla sala.»
Sentito
ciò, in silenzio, le fece segno con la zampa di provvedere
da sé.
«I-io?!»
Esclamò l’assistenze arrossendo. Vista
così, quella pony sembrava persino più timida e
goffa di Fluttershy.
Mayor
Sue non le concesse ulteriori repliche.
Time
Lapse, allora, andò verso il telo per le proiezioni, che era
avvolto dentro un cilindro di plastica, con un gancio di metallo che
scendeva da sotto. Appoggiò il portablocco
sull’angolo del tavolo e fece per tirare giù il
telo, per agganciarlo così a un anello inchiodato alla
parete, più in basso. Ma poco prima di farcela, perse come
la presa con il corno, e il telo scattò in su con uno
schiocco, riavvolgendosi tutto d’un colpo. Time Lapse
balzò all’indietro per lo spavento, e per poco non
combinò un secondo disastro, urtando con il sedere il
proiettore delle diapositive.
S’irrigidì
sul posto, chiuse gli occhi con forza mordendosi le labbra.
Twilight
provò una pena infinita per quella unicorno grigio-violetta
dalla taglia superiore. Si sarebbe detto che qualcuno di quella stazza
potesse affrontare a testa alta qualunque situazione, ma a quanto
pareva non era il suo caso.
E
il sindaco, nel frattempo, aspettava impassibile che la puledra
finisse, come se fosse già abituata a quel tipo di
performance della sua assistente.
L’alicorno
viola fece per alzarsi e darle uno zoccolo, quando qualcosa la fece
arrestare. Time Lapse aprì gli occhi di colpo, il rossore
dalle sue guance era sparito d’improvviso, e le zampe avevano
smesso di tremare. Ora studiava il cilindro come se sapesse esattamente
come comportarsi, e così fu. Tutto fu sistemato con
precisione professionale.
«Ci
hai impiegato meno del solito Lapse, brava.» La
schernì Mayor Sue, mentre si controllava con uno specchietto
il trucco e si rassettava il papillon.
La
puledra grigia sfogliò le pagine del rapporto, cercando di
orientarsi su come introdurre il discorso. Di nuovo, diede
l’impressione di stare andando nel pallone più
totale, e di nuovo dopo essersi paralizzata per alcuni secondi,
tornò in sé carica come se avesse provato il
discorso per mille volte allo specchio.
Era
forse questa la sua specialità? Concentrarsi su un compito
fino al punto di sapere esattamente come applicarsi? Twilight
sbirciò il suo cutie mark, ma rimase delusa quando
scoprì che il suo fianco rappresentava un simbolo dal
significato del tutto criptico: un puntino nero al centro, e due frecce
che puntavano in due direzioni diverse. Cosa poteva mai
significare?
Time
Lapse puntò verso il telo un incanto molto semplice chiamato
Incanto
Riflessione, che
era in grado rappresentare su una superficie piana
un’immagine di ciò che la unicorno stava
immaginando.
Apparve
la mappa geografica dell’isola di Manehattan, da cui Lapse
prese a esporre ciò che era indicato nel rapporto.
«Dunque,
secondo quanto dice la Guardia Costiera, il primo contatto con il
mostro è avvenuto qui» indicò il punto
sul telone, aggiungendovi un cerchietto rosso «è
approdato da Port Horace, arrivando dal Mare del Nord, sulla rotta per
Griffonstone. Poi, una volta in città, possiamo immaginare
una linea che parte da… ecco, la 27ª strada. Fino
a… Columbine Circle. È stato lì che ha
cominciato a mostrare i primi segni di comportamento anomalo.»
«Ne
siamo informate.» Disse Celestia. «Comunque se
siete tutte d’accordo, suggerisco di rivolgerci a esso con
l’appellativo “Kaiju” da questo momento
in poi, almeno fino a quando non sapremo esattamente con che tipo di
nemico abbiamo a che fare.»
Fluttershy
sentì scorrerle un brivido lungo il garrese quando
udì la parola “nemico”. Twilight,
invece, guardò la sua ex-Mentore confusa.
L’alicorno del sole le restituì
un’occhiata che suonava come “più tardi
ti spiegherò”.
Time
Lapse riprese il discorso. «Ok… dicevamo. Da qui
il Kaiju ha cominciato a… oh!»
S’interruppe e guardò con attenzione il rapporto,
girandosi poi di scatto verso il sindaco. «S-signora, il
rapporto dice che anche la Reborn ha subito ingenti danni, forse
dovrebbe… »
«Vai
avanti Lapse, non annoiare le Principesse con questi futili
dettagli.» Le restituì di risposta, non
accorgendosi dell’improvviso movimento di occhi di Princess
Celestia. Questa però decise di non interrompere
ulteriormente il resoconto.
«Oh…
è che pensavo… ok, non importa.»
Respirò a fondo Lapse. «Allora, il Kaiju a quel
punto ha cominciato a correre sulla Bridleway…
c’è una nota del Capitano che ipotizza che lo
abbia fatto per sfuggire alle offensive che gli venivano
rivolte… il Capitano ipotizza anche che lo ha fatto
per via della lunghezza di quel tratta di strada, che gli ha consentito di procedere senza incontrare altri
ostacoli. Infatti possiamo dire che da quelle parti i
danni principali si sono concentrati principalmente sulla carreggiata…
»
«Da
dove è uscito dalla città, Lapse?» La interruppe spazientita
Sue.
La
povera puledra alta si bloccò, meditò per un
momento, quindi rispose. «Dynamo Plaza, nella baia di
Greensville.»
«Non
prima di aver fatto terra spianata del nostro povero parco,
però!» Aggiunse l’altra con fare
tracotante. «Ci credereste che ero affacciata alla finestra
del mio ufficio quando quel maledetto animale mi si è
palesato qua davanti? Ci è mancato poco che mi rovesciassi
addosso tutto il caffè!»
Di
tutto il gruppo, solo Rarity provò un minimo di effetto per
quell’affermazione.
Time
Lapse girò la pagina nel portablocco, e lesse con
rapidità le ultime righe del testo.
«Sì, ehm… ed è da qui che
hanno perso le sue tracce. Poi il rapporto continua con delle note sui
feriti e i dispersi e… ah, ci sono i dettagli della missione
di ricerca e i nomi di chi vi ha preso parte… »
«Quello
è un compito per le squadre dei Wonderbolts.»
Liquidò di fretta il sindaco. «Ma parliamo di
questo adesso. Voi dite di avere portato gli Elementi
dell’Armonia.» Si mise dritta sulla sedia,
puntandole tutte. «Ma esattamente che cosa ci
dobbiamo aspettare? Insomma, la domanda che mi preme farvi
è: che effetto avranno sul Kaiju, una volta che lo avrete
trovato?»
Fu
Princess Celestia a dare una risposta alla domanda.
«Tecnicamente, è sbagliato pensare agli Elementi
come a una specie di arma. Non lo sono, non in senso lato almeno. Essi
sono degli strumenti che assolvono al compito di purificare tutti quei
fattori che sono causa di uno stravolgimento dell’Armonia
stessa, e lo fanno attraverso un’emissione di energia allo
stato puro che risana le discrepanze createsi in essa. Di conseguenza,
questo fa sì che i loro effetti varino da fattore a fattore.
Quando mia sorella fu liberata dall’influsso di Nightmare
Moon, il loro impiego era servito per espellere
l’oscurità che albergava dentro di lei. In
un’altra situazione, invece, quando sono stati utilizzati per
combattere Discord, dato che lui è una sorgente viva di puro
Caos, gli Elementi lo hanno rinchiuso dentro un bozzolo di pietra,
affinché non potesse arrecare ulteriori squilibri
nell’Armonia… »
«Questo
è davvero molto interessante, ma il punto è:
funzioneranno? Insomma, potete garantire che il loro utilizzo
avrà chance di successo al centodieci per cento?»
«In
passato ci sono state situazioni in cui non hanno funzionato,
è vero. Ma la colpa in quei casi è
stata… »
«Quindi
ho ragione? Non potete garantirci che funzioneranno per
forza?!»
La
bocca della Principessa del Sole si strinse. L’atteggiamento
di Mayor Sue stava diventando indigesto un po’ a tutta la
sala, malgrado in un certo senso avesse ragione a dubitare degli
Elementi. Persino Celestia in persona non poteva anticipare quali
effetti avrebbero sortito al loro nuovo nemico.
Prima
che trovasse la frase per continuare, fu Rainbow Dash a prendere le sue
difese.
«Oh,
ma la vogliamo piantare! Volete sapere se funzioneranno, certo che
funzioneranno, che domande!»
Twilight
fu sul punto di richiamarla, ma si ritrovò
all’ultimo momento a essere d’accordo con lei.
«Uhm. Come rappresentante dell’Elemento della
Magia, so che il loro utilizzo potrà fare la differenza. Il
vero problema sarà riuscire a trovare il mostro, e poi
avvicinarci abbastanza per attivare l’emissione su di
lui.» Disse alla sala.
«Questo
non mi spaventa! Silver Sprint e il suo squadrone lo staneranno, e
poi» si alzò su due zampe «andremo
lì e lo prenderemo a calci! Quell’essere schifoso
rimpiangerà di essersi messo contro di noi! Forza
Fluttershy, diglielo anche tu!»
«A
dire la verità… » iniziò
flemmatica la pegaso della Gentilezza «non sono sicura che
attaccarlo sia la soluzione migliore. Credo invece che dovremmo
calmarci tutti e cercare un’altra strada.»
Nella
sala divampò una risposta unanime di sgomento e sorpresa, a parte Mayor
Sue, che unì gli zoccoli alla bocca, ascoltando curiosa.
Per
Fluttershy era il momento di esporsi. Sentiva di doverlo fare, anche se
ciò avrebbe significato nuotare contro corrente.
«Insomma, non fate che dire che questa creatura sia un
pericolo per tutti e che deve essere fermata. Ma cosa sappiamo
esattamente di lui?
Per
esempio, siamo davvero sicuri che il suo intento sia davvero quello di
farci del male?»
Fu
di nuovo la pegaso arcobaleno a ribattere. «Ma… ma
come ti salta in testa di dire una cosa del genere, Shy?! Quel coso ha
raso al suolo un’intera città, mi sembra evidente
quali sono le sue intenzioni!»
«No,
ti sbagli! Non è andata così... »
obbiettò tesa «o meglio… pensateci,
guardate il suo percorso in città: per tutto il tempo non ha
fatto che cercare una via di fuga per uscire
dall’isola… ha distrutto i palazzi che si sono
frapposti sulla sua strada, e quando qualcuno ha tentato di attaccato,
lui ha solo lottato per la sua vita.
Quando poi è riuscito ad uscire, se n’è
andato, e non abbiamo più avuto sue notizie da
allora!» Si fermò per valutare le opinioni dei
presenti in sala, anche se fino a quel momento nessuno aveva provato a
interromperla o a mettere in discussione la sua tesi. Così
decise di continuare: «A questo punto, se lo avesse voluto,
non pensate che il Kaiju avrebbe già potuto attaccare
Fillydelphia o qualche altra città nelle vicinanze?
Invece… i danni a Manehattan sarebbero stati ben
più gravi se le sue intenzioni fossero state veramente
quelle di distruggerla!»
«Capisco
quello che dici, Fluttershy. Anch’io avevo avuto la stessa
impressione venendo qui.» Disse Twilight annuendo. Sapeva che
in fatto di creature selvatiche, grandi o piccole che fossero, la sua
amica era una spanna sopra a tutti gli altri, quindi la sua parola
doveva essere trattata con i giusti riguardi, tuttavia:
«Questo però non spiega perché abbia
attraversato il mare e si sia dato tanto da fare, quando poteva
semplicemente evitarlo fin da subito.»
«È
quello che vorrei scoprire anch’io infatti. Forse ci troviamo
di fronte a un essere unico e speciale, che deve essere scoperto e poi
compreso. Non è giusto essere ostili per forza, solo
perché diamo per scontato che lo sia stato lui con
noi.» Guardò quindi verso la Custode della
Lealtà, che le stava restituendo una faccia grezza e
contrariata. «Rifletti Dash. Se tu corressi in un prato, e
pestassi per sbaglio un formicaio mandando in rovina il frutto del
lavoro di un’intera colonia, non sarebbe forse lo stesso per
loro? La differenza è che nessuno accuserebbe te di essere
una pony cattiva in quel caso.»
L’amica
azzurra scosse la testa con fare grave. «No… n-non
sarebbe la stessa cosa.» Ma la sua capacità di
obbiettare era già stata infranta dalla solidità
dell’argomento.
«Invece
lo è. Solo che stavolta le formiche siamo noi.»
«Quindi
che suggerisci, ragazza?» Intervenne Mayor Sue, calando le
braccia sul tavolo. «Lo dobbiamo lasciar scorrazzare in pace
per il nostro regno come se nulla fosse?»
«No!
No… cioè, non ho detto questo… ma
forse potremmo provare a comunicarci. Io potrei tentare
d’instaurare un contatto con lui, e chiedergli per quale
motivo ha invaso la città!»
«Tu
faresti cosa?!» Il sindaco volse lo sguardo verso le
Principesse, come a chiedere loro se la pegaso non avesse completamente
perso la ragione, ma a giudicare la gravità dei loro visi,
dovette ricredersi.
Celestia
fece un respiro profondo, rispondendo alla Custode. «Capisco
quello che vuoi fare. Tu quindi intendi usare lo Sguardo per
costringerlo ad arrestarsi?»
«Oh,
no! Assolutamente no! N-non se posso evitarlo, cioè.
Vorrei… sì, ecco… vorrei solamente
provare a parlarci. Convincerlo a fare ammenda per ciò che
ci ha fatto, e quindi assicurarmi che in altre città non
accada lo stesso che è avvenuto qui.»
«Sì,
e soprattutto che ad altre scolaresche non succeda nulla di
brutto!» S’intromise Pinkie Pie, schizzando dalla
sedia senza un motivo logico.
Mayor
Sue si distese sul proprio posto, rinunciando a capirci qualcosa.
«Sappiamo che sei in grado di farlo, zuccherino.»
Riprese Applejack. «Ti abbiamo visto piegare Draghi giganti e
tenere testa ad ogni genere di creatura, ma adesso…
»
«Sarà
lo stesso anche stavolta, ve lo prometto!» Disse lei,
intuendo il punto. «Fidatevi di me, non chiedo
altro!»
Nel frattempo Twilight aveva stabilito che dovevano saperne di più, e c’era un solo luogo in cui era certa di poter trovare tutte le informazioni che abbisognavano.
«Magari nell’attesa potremmo fare qualche ricerca negli archivi storici della biblioteca. Cercare degli indizi per scoprire se ci sono stati casi di eventi analoghi in passato. Potrei darti uno zoccolo mentre aspettiamo notizie dallo squadrone di Silver, che ne dici?» Mentre lo proponeva, nei suoi occhi brillava una scintilla di velato entusiasmo.
«Potrebbe
essere un’idea…oh, ahm… sempre se a
Mrs. Sue non crea disturbo, naturalmente… »
Mayor
Sue sbuffò, rimettendosi composta. «Pff, beh di
libri lì non ne mancano di certo. Fate ciò che
credete giusto.» Fu la risposta.
«E
se poi l’idea di Fluttershy non dovesse dare i suoi frutti,
vorrà dire che ci serviremo degli Elementi
dell’Armonia per fare quello che deve essere
fatto.» S’inserì anche Rarity.
«Invece
funzionerà, funzionerà sicuramente!» Ci
tenne a ribadire lei. Vederla così determinata era atipico
per il suo gruppo, ma allo stesso tempo le caricava di un foga cui non
avrebbero mai pensato di poter fare affidamento per la missione che le
attendeva.
«Vedo
che vi siete fatte un piano. Allora mettetelo in pratica.»
Concluse infine il sindaco, sciogliendo la riunione.
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Capitolo 4 *** CAPITOLO 0.4: La Tana ***
Artwork
by Alvin
Miller
4
– La Tana
Silver
Sprint cominciava a sentire l’urgenza farsi strada attraverso
di lui.
Stavano
volando sulle tracce del mostro da più di un’ora,
viaggiando in formazione attraverso gli altopiani di Hollow Shades,
spediti tanto quanto il suo squadrone riusciva a stargli appresso. Si
erano ricollegati al Sentiero grazie alle impronte che il mostro aveva lasciato nel terreno una volta approdato sulla costa (profonde
fosse, quanto quelle che solcavano le strade in città),
risparmiandosi così il gravoso compito di capire da quale
parte si fosse diretto. Ma anche così, nonostante la sua mole stesse chiaramente giocando a loro favore,
l’assenza di una reazione tempestiva da parte
dell’aviazione gli aveva dato ormai tempo di allontanarsi
dalla zona.
A
quel punto poteva trovarsi dovunque nel regno, forse perfino in
procinto di assaltare una nuova città. Fillydelphia, per
esempio, era poco più a sud rispetto alla direzione che
stavano intraprendendo, ma se anche la creatura avesse seguito la via,
attraversando la catena montuosa e superando le Neighara Falls, la
tappa successiva erano direttamente le Crystal Mountains, che celavano
l’Impero di Cristallo e tutti i suoi antichi segreti. Per non
parlare dei tanti piccoli paeselli (Hollow Shades stessa, per esempio)
che sorgevano tra quelle alture e che in ogni momento correvano il
rischio di essere incrociate dal titano.
«Forza,
ricordatevi che cosa siamo venuti a fare!» Spronava
il Luogotenente incitando gli altri a dare il massimo, bruciando i
secondi di distacco, ma sapeva bene che nessun altro pegaso (a
eccezione forse di Bullseye e di quella Custode degli Elementi, Rainbow
Dash) aveva la stamina per stare dietro ai suoi poderosi muscoli alari,
così dovette limitarsi a un ritmo che per lui era poco
più che una blanda svolazzata.
La
verità era che dentro di lui si agitava un grande tumulto,
che non accennava a diminuire. Davanti alla gente il suo retaggio gli
imponeva di dare di sé un’immagine fiera e
perentoria, con la testa ben piantata sulle spalle e gli occhi sempre
puntati alla prossima meta, ma la verità era leggermente
diversa: lontano dalla folla, libero dal travestimento che era
costretto a esibire in situazioni formali, anche lui era un pony
facilmente soggetto alle emozioni equine, laddove erano coinvolte
persone a lui care. In particolare in quel momento non era la missione
a preoccuparlo (non completamente, almeno), bensì le sorti
di sua figlia, che in quelle ore era distesa a letto in balia di una
forte influenza.
La
piccola Lil’ Wing era sempre ammalata, questo bisognava
dirlo. Era sfuggita miracolosamente alla distruzione perpetrata dal
mostro, dal momento che la loro casa si trovava al di fuori dal raggio
d’azione del Sentiero. Così com’era
successo alla sua Foalsitter, che fortuna voleva che proprio quel
giorno dovesse badare a lei. Questa era una studentessa della MHU,
l’università locale, i cui dormitori erano
annoverati nell’elenco dei palazzi rasi al suolo dalla
creatura. Ogni tanto teneva la piccola per sbarcare il lunario e
pagarsi gli studi, e Silver Sprint era sempre lieto di poterle dare uno
zoccolo.
Quel
giorno doveva prepararsi per un importante esame, e non aveva accettato
di buona volontà di stare accanto alla bambina, ma il
Wonderbolt aveva insistito; da quando sua moglie era perita in un
disgraziato incidente un anno prima, investita da una carrozza trainata
da un folle, si era sempre rivolto a lei quando doveva lasciarla alle
cure di un paio di zampe fidate, in particolare, quando Lil’
Wing era costretta a letto per qualche malanno. Così la
ragazza aveva finito per accettare l’incarico, e di questo ne
sarebbe rimasta grata fino alla sua vita successiva. Si poteva quasi
affermare che la malattia della puledrina l’aveva salvata da
morte sicura!
Solo
che adesso toccava al padre fare la sua parte in quella giornata.
Doveva guidare i suoi aviatori alla ricerca del mostro, e impedire con
ogni mezzo che ad altre città toccasse la stessa sorte di
Manehattan.
Si
sentì urtare il fianco da una gomitata. Non era un colpo
violento, anzi avrebbe riconosciuto quel particolare tocco fosse stato
anche bendato e in mezzo a una folla: era Bullseye, il suo migliore
amico e l’unico che non si lasciava influenzare dalla
particolare aura di mito che aleggiava intorno al Luogotenente. Era di
un manto bianco, candido e brillante, con una criniera rosso lampone
sulla quale dominava sporgente un generoso ciuffo a banana, il suo
cutie mark rappresentava un bersaglio per il gioco delle freccette.
«Tutto
ok Young Dart? Hai bisogno di parlare?»
Silver
lo guardò accigliandosi. «Perché me lo
chiedi?»
«Beh,
tanto per dirne una, qui dietro lo si nota che non sei particolarmente
su di giri.» Gli fece notare in tono scanzonato, quello che
si dedica solo agli amici di lunga data.
Il
pegaso dalla criniera d’argento diede uno scorcio ai due
Wonderbolts che li seguivano sotto pesante sforzo. Suoi loro volti,
oltre alla fatica, era tangibile l’angustia per gli
avvenimenti recenti. Chissà che aspetto doveva avere lui, si
domandò.
«Sono
preoccupato» Disse a voce più bassa, abbastanza
per non essere udito dagli altri.
«Per
la missione o per… » sospese la frase.
Con
un cenno del capo, Silver confermò la seconda.
«Non riesce a riprendersi, e sono ormai quattro giorni che
è bloccata a letto. Non so proprio come comportarmi quando
fa così.»
Il
timore per la salute di sua figlia era presto spiegato anche a causa
della scomparsa della moglie. Ai tempi l’impatto della
notizia lo aveva sconvolto fin nel profondo, e più volte si
era trovato a pensare che se fosse stato uno stallone con uno spirito
combattivo più debole del suo, sarebbe crollato dinanzi agli
eventi senza alcuna possibilità di risalire.
Da
quel giorno divenne più arduo mostrarsi composto in
pubblico, e questo Bullseye lo sapeva bene.
«Te
lo dico da sempre: secondo me dovresti solo lasciare che la malattia
faccia il suo corso. Sono bambini, ogni giorno sono a contatto con non
so nemmeno quanti milioni di germi diversi, è normale che si
ammalino. È il sistema immunitario che deve farsi i muscoli
per quando cresceranno, o qualcosa del genere.»
Sì,
era quello che ai tempi aveva riferito il pediatra a Silver, e che lui
a sua volta aveva raccontato a Bullseye, ed ora Bullseye glielo stava
restituendo.
Il
Luogotenente annuì, continuando ad aprirsi. «Poi
questa storia dell’attacco non ha certo migliorato le cose. A
noi è andata di lusso, ma gli altri? Quelli che sono stati
presi in pieno?»
Senza accorgersene stavano rallentando, e nel frattempo udivano i battiti delle ali dei due pegasi dietro farsi sempre più vicini. A quella distanza lo avevano quasi certamente sentito, nonostante il fischio dell’aria stesse ammantando la sua voce.
«È
un casino sì. Ho dei cugini che stanno dalle parti di
Columbine Circle.» Confessò Bullseye.
Silver
Sprint sgranò gli occhi per lo stupore.
«Stanno
bene, ho chiesto un po’ in giro prima di partire.» Lo rassicurò, e a quel punto la
velocità di entrambi riprese il s scatto regolare.
«Quello che è successo in città non lo
augurerei a nessuno. Ma lo sai? Voglio essere ottimista! Quella bestia
è stata pure così gentile da lasciarci una pista
da seguire… » infatti non c'rano solo delle
impronte a testimoniare il suo passaggio: talvolta allo squadrone
capitava d’imbattersi in interi boschetti sventrati, oppure
in enormi frane che erano crollate dal fianco di una montagna.
«Dobbiamo solo trovarlo, e a quel punto ci penseranno le
Principesse a toglierlo di mezzo!»
“E
le Custodi” pensò
Silver tra sé e sé, ricordandosi di quella
Rainbow Dash e del suo Elemento della Lealtà.
«Senti
amico, te la ricordi quella serata al Warm Flank?» Uno strano
sorriso si tracciò sulla bocca di Bullseye.
«Aha…
» rispose l’altro in tono ambiguo.
Eccome se
la ricordava, quella serata! Si trattava di un Club notturno nel
quale avevano festeggiato l’addio al celibato di un loro
sotto-ufficiale, quasi due anni prima (data antecedente di qualche mese
al terribile lutto che si sarebbe abbattuto sulla sua famiglia).
Avevano brindato con sidri di ottima qualità,
intrattenendosi poi (alcuni dei partecipanti) con belle e bendisposte
giumente. Poi, dopo aver calato il bicchiere della staffa, lui e
l’amico erano usciti nel cuore della notte, ubriachi ed
euforici, sfidandosi (non ricordavano da chi fosse partita l'idea) a una gara
di velocità. Bullseye era svelto, un aviere molto capace ed
esperto, che tuttavia non era mai riuscito a superare il livello di
Silver Sprint.
Il
Luogotenente era solito prenderlo in giro, affibiandogli la colpa della
disparità al suo ciuffo, che a sua detta era “poco
aerodinamico”.
«Bene,
vedi quel rilievo laggiù?» Indicò la
collina che si frapponeva fra loro e il Sentiero. Il pegaso argentato
temette per ciò che sarebbe successo da lì a
poco, ma decise ugualmente di dare un po’ di spago
all’amico.
«Prova
a starmi dietro!» Lo provocò, schizzando nella
direzione indicata.
“Non
ci credo, vuole farlo sul serio?”. Si
girò verso gli altri due Wonderbolts. «Voi due non
perdete di vista le impronte.» Disse severamente.
Gli
aviatori si scossero, spalancando le bocche, provando quasi a
obbiettare, ma a quel punto Silver aveva già coperto
metà della strada che lo distaccava da Bullseye.
In
realtà sapevano entrambi che ci poteva essere un solo e
unico vincitore in quelle competizioni, ma non erano questi i reali
intenti del pegaso dalla criniera lampone.
Bullseye,
sentendolo arrivare espose un ghigno di trionfo. Era ciò di
cui l’amico aveva bisogno, qualcosa che lo separasse dalle
sue preoccupazioni. Pochi secondi e Silver lo aveva già
superato con un guizzo fulmineo, e la gara continuò a
posizioni invertite. Bullseye non dovette neppure fingere
d’impegnarsi, il suo amico era veramente il
più veloce di tutti.
I
due si conobbero ai tempi dell’Accademia. Stesso plotone ma
caratteri contrapposti. Silver Sprint dai primi giorni era stato un
cadetto modello, sempre attento e ligio agli ordini del Sergente
Istruttore, tanto che ben presto i suoi superiori cominciarono ad
attribuirgli il nomignolo di “Young Dart”,
poiché era ciò che sembrava quando lo vedevano
librarsi tra gli ostacoli del campo d’addestramento.
Bullseye
era invece uno dei massimi esperti in una disciplina molto in voga in
un’ampia fetta di pegasi: la pigrizia. Quando si trattava di
volare era un vero asso, un talento di natura, forse persino migliore
del pony dai capelli argentei. Ma questo lo rendeva esuberante e
spavaldo, troppo sicuro di sé, e di conseguenza, posto sotto
una cattiva luce agli occhi dei Wonderbolts più anziani. I
due finirono per entrare in competizione praticamente dal loro primo
giorno di camerata, in uno scontro di tecnica e talenti che ben presto
si tramutò in una guerra in campo aperto, al punto che da
rivali, i due divennero acerrimi nemici.
La
faida proseguì in una lotta senza quartiere per due
lunghissimi anni, mietendo vittime sia da una che dall’altra
ala. Silver Sprint, per essere al passo con le abilità della
nemesi, decise di sacrificare parte del proprio programma di studi
sviluppando tecniche di volo uniche e audaci, mirate al solo fine di
superare di livello il suo avversario. D’altra parte,
Bullseye cominciò a pagare lo scotto per la sua condotta
poco responsabile. Ancora valente come aviatore, era però
incapace di contrastare la forza di volontà e
l’impegno dell’altro.
Così
accadde che quando non vi fu più spazio per le competizioni,
passarono al vilipendio e alle azioni di sabotaggio reciproco. Furono
richiamati innumerevoli volte e talvolta sospesi
dall’addestramento, fino ad arrivare persino a causare un
grave incidente quando Bullseye manomise il macchinario per la
creazione delle tempeste artificiali, scatenando un nubifragio che per
poco non rase al suolo gli edifici dell’Accademia.
Quel
giorno Silver Sprint e Bullseye furono costretti a mettere ordine al
disastro che avevano combinato, il tutto mentre il Capitano, dal suo
sconquassato ufficio, decideva per il loro futuro.
Erano
all’aperto, tenuti sotto rigida osservazione da un ufficiale
incaricato a supervisionare la pulizia, che proibiva loro qualsiasi
forma di contatto o interazione, perfino visiva (non voleva rischiare
che sfociassero in ulteriori conflitti). Meglio così, aveva
pensato Silver, perché non era nell’umore di
discutere col compagno.
Per
passare il tempo, cominciò a rimuginare con
intensità su quanto era avvenuto, e solo allora si rese
conto di quanto stupidamente si stava scavando la fossa da solo, dopo
aver toccato il fondo già da un sacco di tempo. Essere in
competizione con un altro pegaso, anche solo odiandolo con tutto il
cuore, non valeva il suo futuro come Wonderbolt in Accademia, tanto
più se quell’odio rischiava di mettere in pericolo
la sicurezza degli altri pony, sprecando i proprio sogni e macchiando
la propria reputazione in nome di una rivalità infantile che
non portava da nessuna parte.
Promise
a se stesso che non ci sarebbe più ricascato,
così decise di fare qualcosa che avrebbe dovuto pensare
già da tempo. Fu una decisione importante, che se avesse
raccolto prima, avrebbe evitato molto di ciò che era
successo nei mesi precedenti.
Arrivò
il momento della pausa pranzo. Ogni pegaso sa che per volare in forma
deve nutrirsi bene e bilanciare attentamente la propria dieta, e a
nessuno, per quanto rinnegato che fosse, dovrebbe essere negato il
proprio diritto a volare, pertanto il cibo era sempre garantito, anche
al più insubordinato dei cadetti. Ai due era stato
però proibito di avvicinarsi alla mensa, pertanto si
dovettero organizzare all’aperto, seduti per terra e distanti
l’uno dall’altro. L’ordine era di
consumare il loro rancio di fretta per poi rimettersi immediatamente al
lavoro, ma per una negligenza del loro sovrintendente, che aveva
anticipato l’ora del cambio-turno, si erano ritrovati per
alcuni minuti da soli.
Silver
Sprint mangiò velocemente il proprio, quindi si
alzò e si mosse con fare prudente verso lo storico nemico.
Il
Pegaso dalla criniera lampone se ne accorse, mettendosi subito sulla
difensiva. La sua espressione divenne un quadro truce e minaccioso,
ringhiando come fosse un lupo del legno. «Che vuoi?! Vattene
o mi metto a fare casino, lo giuro su Celestia!»
Erano
entrambi tesi, vedendoli da fuori qualcuno avrebbero pensato che
stessero per venire agli zoccoli di nuovo.
«Ho
pensato a quello che è successo ieri. A quello che hai
fatto… » disse Silver, ma poi si
arrestò «a quello che IO ti ho costretto a
fare.» Aggiustò il tiro. Se erano arrivati a quel
punto, infatti, la colpa era stata anche sua.
Bullseye
lo ispezionò scettico, chiedendosi cosa stesse tramando, ma
dopo un po’ che erano rimasti entrambi in sospeso, qualcosa
cominciò a smuoversi. Anche lui, dopo averci riflettuto a
lungo, aveva intuito che erano arrivati sul bordo del precipizio, e se
fossero caduti insieme, non ci sarebbero state ali capaci di
risollevarli.
«Già,
ho un po’ esagerato stavolta.» Ammise calando lo
sguardo.
Silver
fece una smorfia, interrogandosi se fosse sufficiente definirlo
“esagerato”, ma non glielo disse.
«No,
sai… » continuò «avevo girato
quella manopola credendo di metterla su “Uragano”.
Ma si vede che è si è fermata su
“Maelström”, o qualcosa del
genere.»
Era
una battuta. Il pegaso argenteo provò l’impulso di
ridire, ma di nuovo non si sentì pronto a condividere con
lui una simile apertura.
L’altro
notò la sua mancanza di reazioni, e gli chiese:
«Volevi dirmi altro?» Ora il tono era
sorprendentemente cordiale e rilassato.
«Credo
di sì. Credo che sia arrivato il momento di finirla.
All’inizio era divertente avere qualcuno con cui
confrontarsi, con cui mettersi alla prova. Ma sai, questa cosa ci
è sfuggita di zoccolo ormai! Quello che è
successo ne è la prova.»
«Già,
infatti… »
«Voglio
solo diventare un bravo Wonderbolt un giorno, qualcuno che la gente
guardi con rispetto! Non voglio buttare al vento una grande occasione
solo per colpa di una rivalità che non ho neppure iniziato
io!»
Bullseye
lo guardò storto. «Fermo, stai forse insinuando
che la colpa è mia?!»
Silver
si morse il labbro, punendosi per la sua audacia.
«No… senti, chi se ne frega, ok?! Voglio solo
voltare pagina e fare in modo che non si ripeta! Ho sbagliato a
rispondere al fuoco, lo so, e mi prenderò le mie
responsabilità. Ma se avrò ancora
un’occasione di restare qui, in questa Accademia…
non ho intenzione di sprecarla facendoti la guerra in ogni sacrosanto
momento!»
«No,
infatti. Neanch’io lo voglio se è per
questo… » farfugliò l’altro,
grattando un po’ di terra con la punta dello zoccolo.
«E
allora perché non ci fermiamo? Invece di sbarrarci il passo
a vicenda, perché, che ne so… non diventiamo amici?»
Con
quella frase aveva fatto
centro,
anche se non se ne rendeva ancora conto. In quel momento i muscoli
facciali di Bullseye si distesero, formando nuove espressioni.
«Tu ed io? Cioè, vuoi dire… TU ed
IO?»
«E’
così difficile da immaginare? Tu sei bravo di natura, io
sono uno che si impegna molto. Potremmo continuare a metterci alla
prova insieme, senza però ostacolarci l’un
l’altro!»
«E
continuare lo stesso a frequentare l’Accademia…
» rifletté Bullseye ad alta voce, la proposta in
effetti gli suonava invitante.
«Beh,
questo dipenderà da cosa deciderà il
Capitano… »
Proprio
in quel momento, come se fosse rimasto in ascolto, un ufficiale
Wonderbolt corse verso di loro sbraitando a tutto volume.
«…
a proposito, guarda chi arriva.»
Era
il Sergente Istruttore del loro plotone, che aveva visto sul nascere e
poi evolversi fino a degenerare la loro rivalità. Non
sembrava contento di vederli intavolare una conversazione
così ravvicinata.
Bullseye
nel frattempo si era alzato e aveva colpito Silver con una gomitata.
Lui fece per protestare, ma fu stoppato da un’esclamazione
entusiasta del compagno di punizione.
«Sì!»
Disse Bullseye, esibendo un sorriso raggiante.
«Uh?»
Silver lo guardò, ma non era sicuro di capire a che cosa
alludesse.
«Voglio
essere tuo amico, Young
Dart!»
Gli confermò lui, e a quel punto si trovarono davanti il
faccione incollerito del loro superiore.
Fu
così che cominciò tutto.
In
seguito si rivelò non poco difficile convincere il Capitano
(e con lui tutto l’istituto) dell’improvviso
cambiamento avvenuto nei due pegasi. Nessuno reputava plausibile il
voler diventare amico di qualcuno che per tanto tempo si era solamente
cercato di distruggere. Ma loro dimostrarono a tutti in contrario,
salvando il proprio banco in Accademia e la loro nascente carriera. I
Wonderbolts, tra le altre cose, avevano bisogno di elementi talentuosi
come loro per portare avanti l’orgoglio del corpo militare,
pertanto un’espulsione dal corso era da ritenersi fuori
questione.
Per
tutti gli scettici, il tempo diede presto ragione ai due, e tra Silver
Sprint e Bullseye nacque una profonda fratellanza, che avrebbe
continuato anche dopo il loro periodo di formazione, e che niente al
mondo avrebbe potuto infrangere.
Fu
Bullseye a fargli conoscere la giumenta che un giorno sarebbe divenuta
sua moglie, e aveva di buon grado accettato di essere il padrino di
Lil’ Wing, quando questa era venuta al mondo. In seguito,
quando Silver divenne vedovo in quello sfortunato incidente, fu grazie
al suo supporto che riuscì a resistere, trovando la forza
per andare avanti.
Essere
un modello per le nuove leve, un mito per le masse, e allo stesso tempo
un padre amorevole e attento. Niente di tutto ciò sarebbe
stato possibile senza il sostegno del pegaso dalla chioma lampone, e
dal cutie mark a forma di bersaglio…
Quel
giorno avevano un compito da rispettare, dovevano trovare la creatura e
fare rapporto in città, affinché chi di dovere
sapesse dove andare e cosa aspettarsi una volta arrivato. Ma quella
puledresca gara che stavano ingaggiando nel cielo era allo stesso modo
importante, tanto quanto lo erano gli ordini dei superiori.
C’era qualcosa di speciale nell’atto di competere
che chi non conosceva i loro trascorsi in Accademia non avrebbe mai
potuto immaginare.
Bullseye
cercò di stare al volo di Silver Sprint, svuotando
progressivamente le proprie riserve d’energia. In cuor suo
s’illudeva di riuscire ancora a vincerlo in una gara, anche
se ne erano trascorse di lune da quando competevano quasi a pari
livello.
Cercò
di trarre una stima di quanto distacco lo divideva dal Luogotenente, e
per un momento gli sembrò di avere quasi guadagnato terreno,
quando… anzi no! Non era un’impressione! Silver
Sprint stava perdendo velocità, e ora la sua sagoma distante
s’ingrandiva, occupando sempre di più il suo campo
visivo. Mancava ancora poco al raggiungimento del
rilievo che Bullseye aveva segnato come punto d’arrivo, e
forse ce la poteva ancora fare se solo si fosse focalizzato sul
superamento dei suoi limiti!
Il
pegaso dalla criniera argentata si fermò tutto
d’un tratto, senza completare la tratta. L’altro
per poco non gli finì addosso, evitandolo per un soffio con
una virata secca verso sinistra.
“Che
gli è preso?” Si
domandò Bullseye, ma non gli diede troppa importanza. Lo
aveva superato finalmente! Ora aveva l’occasione di portare a
casa una vittoria, e di potergli sbattere in faccia che era riuscito
a…
Poi
la vide, la stessa cosa che aveva visto l’amico, e anche lui
si fermò, dimenticandosi completamente della gara.
Oltre
alla collina, tra le punte della catena montuosa di Hollow Shades, le
impronte del mostro proseguivano giù per un avvallamento
dove anemici ciuffi di verde tentavano di crescere su di un terreno
sterile e pietroso, e nel punto in cui s’innalzava un ampio e
sovrano crinale, il Sentiero incontrava il suo termine in un
enorme cunicolo, scavato dentro roccia. La grotta, alta decine di
metri, era occultata sul lato sinistro da un'alta dorsale, la quale
proiettava la propria ombra sulla soglia del varco. Sembrava che il
mostro l’avesse scavato da poco, forse partendo da un
cunicolo più piccolo che era già aperto in
precedenza. Cumuli di terra e roccia alti come una casa ostruivano in
parte il passaggio, che comunque era sufficientemente ampio da lasciare
un varco per qualunque creatura avesse avuto la sfrontata idea di
volerla esplorare.
«Che
Celestia mi colpisca… » commentò
Bullseye, che si era riunito col proprio gruppo. Tutti e quattro
insieme erano poi atterrati a breve distanza, in un punto rialzato dal
quale poterono contemplare il varco in tutta la sua interezza, e con lo
stupore nelle pupille e sulla bocca.
«Ok,
o c’è un’Ursa Major che si dedica
all’edilizia, oppure abbiamo trovato la tana del mostro. Cosa
facciamo, Signore?» Davanti agli altri aviatori, Bullseye si
rivolgeva a lui con l’attributo formale, così come
gli veniva imposto dalla differenza dei gradi.
Silver
Sprint era rimasto con gli occhi sbarrati come tutti gli altri,
sprofondando con la mente nell’oscurità che
emergeva dall’antro. «Proviamo a
entrare.» Disse. «Vediamo fino a che punto si
è addentrato, in caso poi decideremo il da farsi.»
Al
pegaso dalla criniera lampone, però, l’idea non
piacque per niente, e non mancò di farlo notare.
«Signore, non lo so. È sicuro che sia una buona
idea?»
«Preferirei
di no, ma non abbiamo scelta.» Ammise strenuamente.
«Dobbiamo essere certi che sia davvero là dentro,
che non si sia addentrato nelle viscere della terra. Consideriamo anche
il fatto che potrebbe essere emerso da qualche altra parte. Non
possiamo fare rapporto senza prima avere la certezza che si trovi
realmente laggiù.» Si girò verso gli
altri avieri. «Ascoltate pony, non so che cosa troveremo una
volta entrati, ma qualsiasi cosa sia dobbiamo essere pronti e
affrontarla insieme. Io non intendo lasciarvi, sappiatelo. Ma prima di
procedere devo essere sicuro che voi tutti sarete altrettanto fedeli a
me. Lo sarete, Wonderbolts?» I pegasi, anche se provati dal
ritmo di volo, annuirono energicamente. Silver quindi guardò
di traverso e con un solo occhio l’amico. «E tu,
Bulls?» Chiese aspettando.
Le
labbra di Bullseye si strinsero, mentre lottava contro il disagio.
«Uhm, ho idea che ci cacceremo nella gola del
drago… beh, non posso certo disertare, Signore…
» concluse.
La
caverna era tanto buia quanto immensa. Sembrava quasi che la luce ne
venisse divorata non appena tentasse di penetrarvi.
I
quattro avanzarono a zoccoli, marciando in gruppo senza fare alcun
rumore.
Silver
Sprint, intanto, studiava l’ambiente per quanto la
visibilità glielo permetteva: le pareti erano solcate da
segni di artigli riconducibili alla creatura, simili a quelli
riscontrati su alcuni palazzi in città, e terra e roccia
sulle superfici irregolari erano schiacciate verso i bordi e compresse
da una forza spaventosa. Una nebbiolina sottile e invadente, che in
realtà era polverio, aleggiava nell’aria
impregnandola dell’odore del limo. Tutti segni inconfondibili
che qualcuno vi aveva scavato da poco tempo.
Qualcosa
si staccò dal soffitto, e i quattro si allarmarono quando
udirono l’acuto tuono della roccia che cadeva da qualche
parte più in là. Man mano che avanzavano,
diventava così buio che oramai a fatica riuscivano a
distinguere i contorni del condotto.
«Mi
raccomando, occhi bene aperti! E fate attenzione a cosa vi
circonda!» Bisbigliò Silver.
«Sì,
e soprattutto se vedete il mostro, NON mettetevi a gridare!»
Aggiunse Bullseye. Era un buon consiglio, articolato dalla paura, ma
corretto. Il Luogotenente non obbiettò.
Continuarono
così ancora per un po’, fino a quando il budello
non si allargò in una camera più grande e meglio
illuminata, che al contrario di quanto avevano percorso fino ad allora,
era di origine naturale. Equestria era piena di luoghi come quelli,
scavati dagli elementi nel corso dei millenni. Rifugi ideali per
creature giganti, come quella che stavano cercando.
Un
bagliore azzurrino si propagava da una fonte sconosciuta, merito dei
cristalli di luce molto comuni in posti come quello, che riflettevano i
loro sfavilli da una parte all’altra della grotta.
«Che
meraviglia! Se non fosse che me la sto facendo sotto, sarei quasi tentato
d’incantarmi!»
«Sshh!
Non adesso Bullseye, fai silenzio!» Lo richiamò
Silver.
L’eco
delle loro voci si accompagnò a quello delle gocce di
condensa che precipitavano dal soffitto, contribuendo a generare
un’atmosfera d’isolamento e
d’immensità, come se i quattro pegasi si fossero
estromessi dal proprio posto nell’universo per essere
risucchiati in un differente piano fisico, nel quale erano i primi
a occuparne virtualmente lo spazio.
Ma
non era realmente così, c’era anche qualcos’altro
con loro; suoni e odori estranei, che non ci dovevano essere in un
posto come quello, e qualcosa
che rantolava costantemente nell’ombra, squotendo
l’aria nella caverna.
Lui
era lì, e i Wonderbolts lo capirono subito, anche se non
riuscivano ancora a vederlo. Si congelarono sul posto guardandosi
attorno, cercando disperatamente, prima che fosse Lui a trovare
loro…
Un
lasso di tempo indefinito era trascorso da quando era sfuggito
all’isola grigia e si era ritrovato a vagare per la
terraferma, alla ricerca di un posto che gli ricordasse da dove era
venuto. Delle scene precedenti all’Amnesia ricordava solo
pochi frammenti, schegge di suoni e colori, che talvolta prendevano la
forma d’immagini in movimento.
Era
venuto al mondo all’interno di un utero, per questo sapeva di
essere giovane. Ma dove fosse sua madre e perché si fosse
risvegliato nel bel mezzo di uno scenario da caos, questo gli mancava.
La
grotta in cui si era rintanato era la cosa più simile al
grembo materno in cui cercava di tornare, ma anche lì, a
parte il confortevole buio e l’umidità che lo
teneva idratato, c’era qualcosa di venefico che continuava a
bruciargli la pelle.
Mentre
cercava di dormire, le Voci che fino a poco prima gli gridavano da
dentro la testa, man mano che scorreva il tempo, decrebbero della loro
insistenza, fino a ridursi a dei sussurri velati. Per poi dileguarsi. A
un certo punto cominciò addirittura a convincersi di non
averle mai udite, come se fossero solo frutto della sua immaginazione,
mischiate alla paranoia e alla frustrazione di trovarsi in un pianeta
alieno.
Una
cosa però la ricordava con assoluta certezza: le piccole
creature colorate che aveva conosciuto sull’isola grigia, gli
abitanti nativi di quel mondo inesplorato. E
anche una proiezione di loro che lo attaccavano, sebbene gli sfuggisse
la ragione di una tale condotta ostile. Forse la risposta era celata
nei ricordi che l’Amnesia gli aveva sottratto, anche se non
c’era modo di estrapolare quelle date informazioni dal suo
subconscio frammentato.
Di
queste creature, quattro erano appena entrate nella sua grotta, e i
suoi sensi le avevano captate ancora quando non avevano varcato la
soglia del suo rifugio. Le sue narici ipersensibili al più
piccolo degli odori, e le sue orecchie acute e infallibili, sentivano
meglio di quanto non vedessero i suoi soli occhi cerei.
Nel
buio stretto e avvolgente della grotta, aveva sperato che le piccole
creature se ne andassero prima di arrivare a Lui, desistendo
così dalla loro ricerca. Ma ora che erano dentro, non sapeva
come agire, sentendosi intrappolato in un corpo enorme, inquieto e
goffo.
Avvertì
l’impulso di attaccarle, per salvaguardare così la
propria incolumità, ma soppresse il desiderio, temendo per
le conseguenze delle sue azioni. Dopotutto non sapeva niente di quelle
creature.
Poi
uno strano lampo nel suo cervello gli mise in luce un nuovo pezzo del
mosaico: Lui che attraversava la loro città, e le piccole
creature che fuggivano indifese e spaventate, così impotenti
dinanzi alla sua forza.
Quindi
era Lui l’essere malvagio? Il demone che sfuggiva alle sue
stesse vittime?
Ma
allora perché non stava provando lo stesso desiderio ADESSO?
Quel ricordo non aveva nulla a che spartire con le sue attuali
intenzioni, eppure a giudicare dalla nitidezza di quelle scene, doveva
essere avvenuto per davvero. Non un altro figlio della fantasia,
quindi, ma una testimonianza dei fatti attendibile.
Se
tutto ciò facesse parte di un disegno più
complesso, c’era ancora troppa confusione dentro di Lui
perché potesse vederne i reali contorni.
La
sola cosa che desiderava adesso era di poter restare in quella grotta
ed esser lasciato in pace. E per farlo doveva scacciare quelle quattro
piccole creature, in un modo o nell’altro.
Mosse
in alto una zampa, come per dar loro un avvertimento…
…
e nel farlo urtò il soffitto già incrinato dal
suo primo passaggio, facendo vibrare la grotta in un boato che si
tradusse a sua volta in un ruggito bestiale. Poi tutto
cominciò a implodere in una cascata di rocce e pietrisco,
che minacciò di seppellire i pegasi all’interno.
Silver
Sprint fece giusto in tempo a ordinare agli altri di disperdersi e
cercare un riparo, che la situazione nella caverna diventò
sconnessa e frenetica. Riconobbe la sagoma del mostro che si spostava
nella penombra, e gli sembrò incredibile che proprio quella
silhouette più chiara, che in precedenza gli era parsa solo
una parete di roccia giallastra, fosse in realtà il fianco
di destra dell’animale gigante. Vederlo così
immenso, così rumoroso, gli fece perdere per un attimo la
speranza di riuscire a cancellarlo da Equestria. Poi si
ricordò che il soffitto gli stava letteralmente crollando
sulla testa, e sì unì agli altri nella disperata
ricerca di un riparo, evitando blocchi di pietra grandi come bisonti,
che si sfracellavano a terra rimbombando per tutta la sala.
Pochi
secondi, quanto durò la frana, poi il mostro emise un altro
dei suoi lamenti grotteschi e si accosciò a ridosso della
parete. Il tempo parve ritornare al silenzio.
Silver
Sprint si era salvato rannicchiandosi in un angusto spazio tra due
rocce, che lo avevano protetto dai detriti più corpulenti,
ma non da un pezzo più piccolo, il quale cadendogli su una
spalla gli aveva provocato un’abrasione sotto lo strato di
peli.
«Ehi,
gente… *coff, coff*… State tutti bene? Dove
siete?» Tossì e si alzò, scrollandosi
di dosso la polvere, tentando di muoversi trascinando la zampa.
«Signore,
sono qui!» Ricevette subito una risposta da uno dei pony
dello squadrone, che emerse da dietro un cumulo di materiale, ora
occupante gran parte della sala. Questi immediatamente corse a offrire
il suo aiuto al superiore.
«E
l’altro pegaso? E Bullseye?» Chiese il Luogotenente
preoccupato, ma la risposta del Wonderbolt fu sconfortante: non li
aveva visti.
Insieme
guardarono lo spazio oltre il quale si estendeva il resto della grotta.
Il mostro era lì, immobile e silenzioso, come fosse caduto
in una sorta di letargo.
«Ehi,
quaggiù! Volate, presto! Ci serve assistenza!» Il
richiamo arrivò imprevisto dalla voce del quarto aviatore.
Non
persero tempo ad interrogarsi. Silver si scostò educatamente
dalla spalla che gli aveva offerto il pegaso, quindi si mossero con
urgenza nella direzione del richiamo.
Trovarono
lo stallone, che usciva ferito e con la divisa a stracci da una parete
di detriti: era in quel punto che si era verificato il crollo
più grave. Il Luogotenente e il suo assistente lo aiutarono
a rimettersi sugli zoccoli, poi procedettero subito alla confutazione
del suo stato.
«Qualcosa
di rotto, ragazzo? Le tue ali sono a posto?»
«Sì,
Signore. È tutto ok.» Rispose mentre tutto il suo
corpo fremeva per lo shock. «Io sto bene. Ma Bullseye
è rimasto intrappolato lì dentro!»
Indicò proprio la massa da cui lo avevano appena estratto.
«Cosa?!»
Sbraitò Silver, e al grido si unì anche un
lamento del mostro, che era stato infastidito dall’eco.
Quando capirono che non vi era pericolo che si muovesse di nuovo,
tornarono alla discussione.
«Sì…
si è intromesso per salvarmi la vita, mi ha spinto via
mentre il soffitto ci cadeva addosso. Io… non sono riuscito
a muovermi, Signore… »
«Capisco…
» inclinò la testa con amarezza. Era tipico di
Bullseye, quello che conosceva. Sempre generoso e altruista, anche se
da sempre avventato e incosciente.
«È
tutto ok, ma adesso aiutatemi a tirarlo fuori da lì, per
favore!»
Si
accucciarono davanti all’ammassamento, irregolare e alto
diversi metri, cercando di scoprire se vi era un punto nel quale era
possibile penetrare un po’. Silver Sprint nel frattempo
chiamò l’amico a gran voce per cercare di
localizzarne la posizione. «Bullseye, riesci a sentirmi? Ci
sei lì dentro?!» Ma non ricevette risposta, e
allora la sua ansia salì.
«Bulls’!» Fece più forte.
Stette
per mollare, abbandonandosi alla realizzazione di avere appena perso
uno degli elementi più importanti della sua vita (un altro),
quando le sue orecchie captarono un suono che gli restituì
il sorriso.
«Silver,
per Celestia riesci a sentirmi?!»
Finalmente
era lui!
«Sia
ringraziata lei! Come sei messo là sotto, riesci a
muoverti?!» Dovette gridare, dato che era l’unico
modo per comunicarci, anche se ciò rischiava di far
innervosire ulteriormente il titano.
Nel
frattempo cominciò a scavare.
«Mi
è andata di lusso, beh più o meno... le rocce
hanno formato una specie di sacca d’aria, e quindi
starò a posto per un po’, ma qualcosa mi sta
bloccando le zampe!»
«Ti
tireremo fuori in un attimo, non ti preoccupare! Nel frattempo tu
risparmia l’ossigeno e cerca di resistere quanto
più riesci!» Scavava e scavava, e anche gli
altri pegasi si erano uniti nel compito, spostando blocco per blocco la
massa inerte che lo ricopriva.
«Nossignore,
non farlo! Fermati!»
Silver
per un momento si convinse di avere capito male, e continuò.
Sollevò con le proprie zampe anteriori un altro pesante
blocco, accusando la contusione alla spalla, quindi digrignò
i denti e lo issò flettendo le ginocchia, lanciandolo dietro
di sé, provocando un altro acuto eco nella caverna.
«Sil’,
mi hai sentito? Non farlo ti ho detto, fermati subito!»
Insistette con maggiore impellenza il pony sepolto.
A
quel punto ne era certo. «Cosa c’è
Bulls’, qual’è il problema?!»
«Ricordati
la missione» gli disse «non è per questo
che siamo venuti fin qui! Devi ritornare a Manehattan e avvisare le
Principesse!»
«Vorrai
scherzare?! Io non ho intenzione di lasciarti lì dentro a
soffocare!»
«Dovrai
farlo invece! Per piacere Sil, devi comunicare a tutti che
lo abbiamo trovato! Se non lo fai poi quello se ne va, e tutta questa
storia ricomincerà da capo!»
Aveva
ragione purtroppo, Silver lo dovette riconoscere, anche se farlo gli
provocò una fitta di dolore al cuore che gli
intorbidì i pensieri.
«E
con te che facciamo? Non posso certo pensare alla missione sapendoti
là sotto!»
«Io
me la caverò, va bene?! Per un po’ dovrei farcela.
Se voi mi diseppelliste sarebbe comunque inutile, perché
senza qualcuno che ci aiuti con la magia, io da qui non esco!»
Il
pegaso dalla criniera argentata si rimise sugli zoccoli elaborando in
silenzio. Doveva trovare una soluzione per entrambi i problemi, sia per
il Titano che per Bullseye.
«Sei
ancora lì, Sil’?» Domandò di
nuovo il pegaso dalla criniera lampone.
«Sì,
amico. Sì!»
«Beh,
allora facciamo che se la prossima volta che te lo domando
tu non mi sarai ancora partito, allora m’incazzerò
di brutto! Muoviti adesso, non perdere altro tempo!»
Silver
prese la sua decisione, anche se qualcosa dentro lui si rifiutava di
accettarlo. Smise di scavare, rialzandosi da terra, e
ragionò su quanto ci sarebbe voluto per andare e tornare da
Manehattan, considerando anche il tempo necessario ad avvisare le
Principesse e condurre a destinazione i rinforzi.
«Bullseye… sei sicuro di ciò che mi
chiedi? Posso lasciarti qui sapendo di ritrovarti al mio
ritorno?» Pose ad alta voce.
La
risposta non tardò ad arrivare. «Affermativo, Signore! O se preferisci: sì Young Dart!»
Allora
era deciso.
Respirando
affannosamente,
si
rivolse agli altri pegasi con le frasi contratte, nello sforzo di
impartire un ordine al quale avrebbe volentieri disubbidito per primo:
«Voi
restate con lui… evitate di farlo parlare per ora. Non
fategli consumare la poca riserva d’aria che gli rimane, ma
ogni tanto assicuratevi che sia almeno cosciente.»
Lanciò un’ultima occhiata verso la creatura
semi-dormiente. «Io farò più in fretta
che posso, ma se quello dovesse svegliarsi, o peggio… se mai
dovesse decidere di uscire, uno di voi è incaricato di
seguirlo fino a quando non si sarà fermato di nuovo.
L’altro dovrà invece restare qui a fare compagnia
a Bullseye. Non lasciatelo da solo, mi raccomando!» I due
pegasi assentirono ai suoi ordini, quindi si misero d’accordo
a gesti di capo su chi dovesse fare che cosa. «Presto
porterò i rinforzi, e allora potremmo finalmente dare un
taglio a questa faccenda, ve lo prometto!» Terminò
in fretta il Luogotenente.
A
quel punto volò fuori dalla grotta, più
velocemente di quanto non avesse mai volato nella sua lunga carriera,
toccando davvero per poco l’accelerazione necessaria al
completamento del leggendario Arcoboom Sonico.
Non
ci era mai riuscito, meditò durante la traversata. Per anni
aveva creduto che fosse solamente una menzogna, una favola raccontata
dai papà per incantare gli occhi dei loro piccoli futuri
campioni, proprio come faceva lui stesso con piccola Lil’
Wing, malata d’influenza. Ma poi Rainbow Dash aveva cambiato
tutto, dimostrando che a volte il confine tra sogno e avverazione
è più sottile di quanto uno non si aspetti.
Anche
lui ci avrebbe provato, un giorno, ad avverare quel sogno. E per allora
Bullseye avrebbe avuto un altro motivo per desiderare la sua sconfitta.
Doveva soltanto completare la loro missione, salvando così
Equestria, e con essa il suo migliore amico.
La
luce del tramonto che filtrava dalle grandi vetrate ogivali illuminava
il tavolo da lettura davanti alla quale era seduta, con grazia e
compostezza, la Custode della Gentilezza.
La
Biblioteca di Manehattan era un luogo dove la cultura e la sete di
conoscenza si amalgamavano con l’eleganza e
l’architettura in una sinfonia di emozioni che andavano al
dì là del mero atto della lettura di un tomo.
All’entrata, di fronte alla facciata in marmo, si restava
sbalorditi dalle due imponenti statue di manticore messe a guardia
dell’edificio, e una volta dentro, ci si perdeva con la vista
davanti alle sconfinate file di ripiani in legni pregiati che
straripavano di volumi contenenti l’intera storia di
Equestria. Per quanto ben fornita, neanche la Biblioteca Reale di
Canterlot poteva vantare il grande assortimento di documenti contenuti
in quelle stanze. Le numerose sale di lettura poi, ampie e spaziose,
potevano ospitare centinaia e centinaia di visitatori che
all’occorrenza, se volevano avvalersene, potevano usufruire
di diversi terminali elettronici contenenti l’archivio
completo del materiale della biblioteca. Un tocco di
modernità targato Reborn Technologies, che forse stonava un
po’ con lo stile anacronistico dell’edificio, ma
che salvava la giornata a tutti coloro che, trovandosi in
difficoltà ad orientarsi tra le alte librerie e i numerosi
ripiani spesso raggiungibili solo con le scale, si risparmiavano
così le conseguenti grane della ricerca. Ai bibliotecari
questo non dispiaceva: invece di scovare personalmente i vari volumi
cercati, sostituivano la propria mansione di un tempo col dover
istruire gli ancora ignari visitatori su come interagire con i monitor
touch screen e l’archivio virtuale contenuto nella memoria
centrale.
A
Twilight però tutto ciò non piaceva. Era
cresciuta con l’usanza nostalgica di scovare personalmente i
libri di cui era alla ricerca, imbattendosi poi spesso in testi di cui
ignorava l’esistenza. Non era raro che, partendo col
proposito di prenderne uno solo, si ritrovasse tutto d’un
tratto a trasportare con sé intere torri pericolanti di
libri sorretti magicamente dal corno. Com’era accaduto quel
giorno.
Dopo
aver completato il giro nella sezione dedicata ai misteri e alle
leggende del regno, era tornata da Fluttershy con un carrello
stracarico di volumi, fermandosi accanto a lei con un’euforia
tale da non lasciare spazio all’interpretazione.
«Ho trovato anche questi, li ho già visionati da
me, ma se vuoi darci un’occhiata pure tu…
può darsi che mi sia sfuggito qualcosa.» Disse
dopo essersi parcheggiata e aver fatto caderne alcuni rovinosamente a
terra.
Benché
la biblioteca fosse solitamente gremita di studiosi o anche semplici
curiosi in visita turistica, in quel momento appariva vuota e desolata,
immersa in un silenzio pesante. Tutt’intorno tomi e pergamene
erano sparpagliati per terra, abbandonati dai visitatori quando il
Kaiju aveva assaltato la città.
La
pegaso canarino guardò la documentazione portatale
dall’amica. Si trovò a pensare che era tipico di
lei, e sorrise dolcemente di rimando.
«Grazie
Twi. Apprezzo davvero molto l’aiuto che mi stai
dando.»
«Non
è necessario, fidati. E poi è sempre un piacere
per me quando si tratta di visitare posti del genere.» Fece
una giravolta, ammirando i libri che ricoprivano ogni singolo spazio
nelle pareti, dovunque si posasse il suo sguardo. «Lo sai,
certe volte desidero soltanto chiudermi in posti come questo, e
spendere tutta la mia vita a leggere quello che vi è
contenuto. Non sarebbe fantastico?
La
polvere che si posa sulle rilegature, l’odore della carta
antica e dell’inchiostro sbiadito… »
«Sì,
sono certa che ci siano tante belle cose da
scoprire… » Rispose lei facendola ricomporre.
Twilight capì immediatamente l’antifona e si
affrettò a troncare. Ridacchiarono insieme, approfittando
del fatto che in quel momento l’intero salone era
completamente deserto.
«A
proposito, hai scoperto qualcosa che ci può
aiutare?» Riafferrò il discorso la pegaso.
«A
dire la verità non molto.» Sospirò
affranta l’alicorno. «Non ci sono molti libri che
parlano dei Kaiju in modo approfondito. E anche se li citano, dubito
che ci sia qualcosa di veritiero in queste pagine.»
Passò in rassegna il materiale che aveva raccolto.
«Secondo alcune teorie sono esseri spaziali, scesi sul nostro
mondo con strane navi volanti o mandati da qualche civiltà
nemica nel tentativo di conquistarci. Per altri sono invece agenti di
Madre Natura, che agiscono contro i pony per punirli della loro mala
condotta… » mentre parlava, si passava i libri tra
sé e sé con la telecinesi.
«Di
quale condotta parli? Perché mai Madre Natura dovrebbe voler
punire i pony?» Fluttershy era perplessa, e trasmise lo
stesso cupo pensiero a Twilight, che si mise a fissare il libro.
«Qualche
sorta di guerra che avevano provocato in passato, non saprei. Comunque
hai ragione, è stupida come cosa.»
Gettò via il tomo con poca eleganza, prima e unica volta che avrebbe
deliberatamente compiuto un’onta del genere.
«Ce
n’è una che mi ha interessato particolarmente,
però.» Disse riprendendo la sua cernita.
«Si tratta di una romanzo. Narra di una
lontana isola abitata da una coppia di Breezie, le quali hanno il
potere di evocare una gigantesca falena benevola per proteggere il
mondo quando qualcosa minaccia di distruggerlo. Ecco, in questo caso
credo che il Kaiju assolva al ruolo di salvatore dei pony, combattendo
al loro fianco contro altre creature malvagie.»
«Aww.
Questa la vorrei tanto conoscere!»
«Anch’io…
ma purtroppo sono storie di fantasia. Non esiste niente del genere al mondo.» Si appuntò il titolo del
libro (“Mosura”,
scritto
in lingua orientale) e lo ripose con gli altri. Lo avrebbe cercato con
più attenzione una volta ritornata a Ponyville.
«Non siamo neanche sicure che il termine
“Kaiju” sia azzeccato nel nostro caso. Forse si
tratta di un altro tipo di creatura, e noi siamo qui a leggere di
antichi miti e storie di fantasia.»
«Secondo
me sei troppo pessimista, Twilight. E poi sei stata tu a voler fare
delle ricerche a riguardo. Hai cambiato idea adesso?»
«No,
lo so… sto solo cercando di analizzare i fatti. Stiamo
cercando libri su delle vecchie leggende, mentre il pericolo
lì fuori è reale e odierno, e non sappiamo
nemmeno quando tornerà a colpire, né
dove!» Da quando avevano cominciato, a stento era riuscita a
contenere dentro di sé un dubbio. «Senti, te lo
devo proprio chiedere. Sei sicura di poter comunicare col Kaiju? Voglio
dire, sicura,
sicura?»
Fluttershy
piegò la testa sul libro che stava visionando. Un piccolo
aracnide dal corpo marrone castagno e l’addome irsuto stava
zampettando sulla pagina di sinistra. «Sai, Twilight. Ogni
animale richiede un approccio diverso per comunicare con esso. Certe
volte basta un semplice sguardo per capirsi… » lei
e il piccolo essere a otto zampe si osservarono per un momento. Poco
dopo questo abbandonò la propria posizione, calandosi
giù dal tavolo appeso a un filo. «… e
non parlo dello Sguardo, quello che intendereste voi. A volte ci vuole
davvero molto poco per entrare in sintonia con le creature di
Equestria… »
«Ma
non sempre è così… »
andò dietro al suo discorso l’alicorno.
«No,
infatti. Certe volte devo adottare un approccio diverso, a seconda del
tipo di creatura con cui mi trovo a che fare. Quelle più
piccole sono fragili e spaventate, con loro occorre pazienza e una voce
calma e garbata, non devono sentirsi in pericolo mentre ti rivolgi a
loro. Altre volte, invece, mi trovo davanti ad animali più
grandi e prepotenti. Con loro devo dimostrare di non avere paura, di
sapergli tenere testa senza esitare. I predatori, per esempio, vedono
l’esitazione come un segno di debolezza della preda, e
attaccano di conseguenza.» Il ragnetto di poco prima stava
formando una nuova tela sul ripiano basso di una delle librerie. Anche
lui era un predatore, e avrebbe pasteggiato con il prossimo ingenuo
insetto non appena qualcosa si sarebbe impigliato nella sua trappola.
«Poi ci sono delle eccezioni alla regola. Alcuni animali sono
veramente grossi, e potrebbero non sentire la mia voce quando mi
rivolgo a loro, ma questo non toglie che potrebbero spaventarsi a morte
a sentirmi gridare. Perciò devo stare attenta in quei casi,
misurare l’intonazione in modo da non sembrare
minacciosa.»
A
Twilight fece sorridere che qualche animale potesse trovare
“minacciosa” la sua amica. «Non sembra
così difficile a sentirti parlare in effetti, al
più ci vorrebbe un po’ di pratica per
imparare.»
«Sì,
perché io col tempo ho affinato questa dote e ora riesco a
modularmi al volo in base alle necessità. È per
questo che sono così sicura di poter comunicare col Kaiju.
Credo… anzi no! Sono certa che si sia trattato soltanto di uno
sgradevole equivoco, e quindi mi basterà parlarci per
chiarire tutto.»
«Spero
proprio che tu abbia ragione, amica mia» si
struggé «lo spero con tutto il cuore.
Perché altrimenti non so proprio che cosa inventarmi a parte gli Elementi dell’Armonia.»
«Te
lo garantisco, Twilight. Ci riuscirò!»
Tanta
sicurezza restituì un po’ di fiducia
all’alicorno fucsia. Non era comune vedere Fluttershy
così decisa nei riguardi di un incarico sensibile, ma del
resto si trattava del suo campo d’esperienza. Se
c’era qualcuno che poteva riuscire in un’impresa
del genere, quella era senz’altro lei.
«Continuerò
a cercare qui in giro, magari nell’archivio storico
troverò qualcosa che a Celestia è
sfuggito.» Disse Twilight, incamminandosi per il corridoio.
«Mi troverai lì se avrai bisogno di me.»
Ricevette
un cenno di risposta dalla pegaso, e allora si
avviò verso la direzione iniziata. Fluttershy intanto prese
a consultare alcuni dei libri che le aveva portato.
La
giumenta dell’Armonia si avvicinò a una piantina
delle sale che era appesa al muro. Sopra vi lesse le indicazioni per
trovare la strada dell’archivio (conosceva bene le
biblioteche di Canterlot e dell’Impero di Cristallo, ma
quella era ancora tutta da scoprire), in effetti non era lontana
dall’ala dedicata ai miti che aveva esplorato poco prima.
Fece per procedere, quando proprio in quel momento una saetta color
arcobaleno le volò incontro colpendola sul muso,
scaraventandola per aria. Il manto della pegaso era imperlato di sudore
e gli occhi, spalancati, danzavano da un estremo all’altro
del viso. «Dash, ma che…» Fece per
domandarle, ma fu troppo lenta.
«Presto
venite! Dobbiamo muoverci! Silver Sprint è tornato! Lo hanno trovato!»
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Capitolo 5 *** CAPITOLO 0.5: L'intrusione ***
CAPITOLO
0.5: L’intrusione
La
partenza fu repentina, grazie anche all’organizzazione
preventiva delle carrozze messa in atto da Princess Celestia e Major
Sue. Il sole ormai stava calando lungo la linea
dell’orizzonte, e presto sarebbe toccato a Princess Luna
prendere il posto della sorella maggiore. Prima di allora, il Kaiju
doveva essere raggiunto.
Furono
messi a disposizione tre mezzi di trasporto: un primo carro doveva
contenere un piccolo contingente della protezione civile - Silver aveva
avvisato i suoi superiori del crollo, per cui era stata data la massima
priorità all’ingaggio di una squadra di scavo
specializzata (stavolta che sapesse il fatto suo) - al seguito di cui,
c’era una carrozza-ambulanza con dei paramedici scelti tra
quelli che avevano già assistito numerosi feriti in
città, e che quindi erano preparati a ciò che li
aspettava all’arrivo. La terza era invece una carrozza
volante che caricava su di sé le cinque Custodi degli
Elementi, con indosso i loro gioielli, insieme alla Principessa
dell’Armonia. Twilight era la figura regale di riferimento
che era stata assegnata per guardare alle operazioni, in questo modo
Princess Celestia poteva restare a Manehattan per aiutare a trovare una
sistemazione agli sfollati del disastro.
Silver
Sprint guidava il contingente a terra, indicando la via del Sentiero
lungo il passo montano. Non c’era tempo da perdere,
perché la vita di Bullseye dipendeva tutta dalla scelta dei
percorsi che avrebbero intrapreso durante quel viaggio.
Mentre
aspettavano di arrivare, Fluttershy ripassava mentalmente tutto
ciò che sapeva riguardo all’interazione con gli
animali giganti. Aveva paura e tremava dalla testa agli zoccoli, come
una foglia appassita nel vento autunnale. Le sue amiche questo lo
vedevano, e per rincuorarla si stringevano intorno a lei mormolandole
frasi d’incitamento. Il loro calore e l’affetto che
tramettevano i loro visi le fecero carpire tutta la fiducia che
nutrivano in lei.
Non
poteva deluderle.
Si
arrestarono dinanzi alla caverna, novanta minuti dopo essere partiti
dalla metropoli. Un risultato eccezionale secondo le stime di Silver
Sprint, considerati anche il numero di mezzi e i rallentamenti
più o meno prolungati che avevano incontrato durante il
tragitto.
Il
Wonderbolt scese al suolo passando di fronte alle Custodi, che lo
interrogarono con gli occhi per capire il da farsi. Lui le
guardò a sua volta, facendo però cenno di
aspettare. Per prima cosa doveva parlare con i paramedici per sbrigare
i preparativi dell’operazione. Ordinò loro di fare
in fretta con la lettiga che stavano estraendo dalla
carrozza-ambulanza. Nel momento in cui lui e il resto della squadra
sarebbero entrati, questi dovevano restargli incollati come delle ombre.
Ora
invece si diresse dagli unicorni scavatori, e si assicurò
che tutte le unità assegnategli fossero concentrate e pronte
a darsi da fare per liberare il suo amico.
Il
tutto fu predisposto in fretta e con molta perizia, senza che vi fosse
la necessità di coinvolgere l’alicorno viola.
Mentre lui coordinava, Twilight e le ragazze finivano di discutere con
la Custode della Gentilezza.
«Ti
staremo accanto fino alla fine. Andrà tutto bene,
vedrai.»
Ma
la risposta arrivò secca lasciando tutte quante di sasso.
«No. Andrò avanti da sola. Se il Kaiju
è spaventato come penso che sia, vedere troppi pony tutti
insieme lo farà solamente infuriare, proprio
com’è accaduto allo squadrone di Silver
Sprint.»
Twilight
sbatté gli occhi perplessa, provando l’impulso di
controbattere. «Ok… ma non chiederci di lasciarti
andare da sola! Ti staremo comunque dietro, anche se a debita
distanza!»
«Lo
so che lo farete. Vi ringrazio.» Si comportava da coraggiosa,
ma non riusciva a nascondere la paura che la stava attanagliando dal
momento della partenza.
Il
Luogotenente dei Wonderbolts tornò da loro con tutto il
contingente al suo seguito. «Noi siamo pronti Principessa,
vogliamo andare?»
Un
ultimo scambio di cenni e quindi si addentrarono nella caverna.
Fluttershy
era in testa alla fila, seguendo Twilight e l’ufficiale
pegaso attraverso il condotto che li avrebbe portati alla caverna del
Kaiju. Un secondo unicorno in divisa accompagnava la sua amica facendo
luce al cammino insieme a lei, avvalendosi della propria magia.
Sì
udì un’imprecazione alle sue spalle, e subito dopo
un clangore metallico, come di qualcosa che cadeva.
«Cercate
di non inciampare nelle impronte del mostro!»
Ammonì il Luogotenente senza arrestare la sua marcia. La
Custode della Gentilezza, che si era voltata per controllare,
guardò Applejack e Rainbow Dash dare uno zoccolo agli
infermieri a risistemarsi sui dorsi la lettiga appena caduta; poco
più a destra, c’era un ampio fossato che
sprofondava nel terreno per più di un metro, come tanti
altri uguali lungo il tracciato del Sentiero. Erano le impronte del
Kaiju.
Questo
fece ricordare alla pegaso canarino che cosa l’aspettava una
volta che sarebbero giunti al capolinea. Era vero che in passato aveva
già trattato con animali dalle dimensioni gigantesche, ma i
fatti di quel giorno avevano connotazioni diverse.
Un
messaggio sussurrato dal Luogotenente le avvisò che mancava
ormai poco all’arrivo, se volevano separarsi, come di comune
accordo, questo era il momento per farlo. Dal fondo del tunnel era
intravedibile una debole luce soffusa, che accarezzava la superficie
dei loro grandi occhi equini.
«Da
qui andrò avanti da sola, ragazze.» Disse
Fluttershy, inspirando a pieni polmoni.
I
loro visi si addolorarono, quasi la supplicassero di ripensarci.
«Sei
sicura? Ma proprio sicura, sicura? Avrai paurissima ad andare la dentro
da sola!» Chiese e commentò Pinkie Pie.
Fluttershy
toccò con zoccolo il suo Elemento appeso al collo e lo
portò per un momento a sé.
«Ne
ho tantissima, infatti. Ma purtroppo non ho scelta. Non voglio
rischiare che qualcuna di voi si faccia male nel caso io non dovessi
farcela. Manderò qualcuno a chiamarvi se ci dovessero essere
dei problemi.»
“Non
ce ne devono essere! Sai bene che cosa hai visto su quei palazzi! Abbi
fede nelle tue capacità” Era
ciò che si disse per ritrovare un po’ di coraggio.
Twilight
si mosse in avanti di un passo. «Io verrò con te,
nel caso avessi bisogno di assistenza.»
«Twi,
no… » tentò di contestare lei.
«Rifletti!
Silver e gli altri saranno occupati con gli scavi, e non potranno
aiutarti se le cose dovessero precipitare! Hai bisogno che una di noi
stia con te!»
«Ha
ragione.» Intervenne il pegaso argenteo. «A questo
proposito, Principessa. Perdonate la mia impudenza, ma vi chiedo di
tagliare corto.» Aggiunse poi in tono urgente.
«Giusto»
tornò sulla pegaso gialla «allora Shy, vogliamo
andare?»
Trovandosi
nella condizione di non potersi opporre, Fluttershy si diede per vinta,
sospirando. «Va bene. Facci strada, Silver.»
La
caverna dava l’idea di essere molto spaziosa, o perlomeno lo
era prima che la frana ne ostruisse in parte la viabilità.
Terminava
in un vicolo cieco i cui contorni risaltavano grazie alla luce
azzurrina dei cristalli di luce. Erano anche ben visibili i segni del
passaggio del Kaiju, che si potevano ricostruire seguendo con gli occhi
le impronte da lui lasciate. Vide gli stessi segni di artiglio sui
muri, e poi anche sul soffitto crollato.
Il
titano era invece rannicchiato in un angolo in fondo, con la testa
nascosta tra le zampe anteriori, che impedivano alla pegaso di
guardarne i lineamenti.
«Di
qua, presto. Seguitemi!» Silver Sprint li condusse al punto
nel quale era sepolto Bullseye. Si ritrovò con i Wonderbolts
che aveva lasciato di guardia.
«Per
fortuna siete qui, Signore. C’è qualcosa che non
va!» Disse uno dei due, che appariva in uno stato di
agitazione terribile.
«Che
vuoi dire?! È accaduto qualcosa in mia assenza?!?»
«È
questo il problema, non lo sappiamo! Da quando lei è partito
è rimasto completamente in silenzio. Non una parola, non un
rumore, nessun lamento!»
«Com’è
possibile? Avete provato a chiamarlo?!»
«Affermativo
Signore, ma non abbiamo ricevuto risposta!»
Intervenne
anche l’altro. «Abbiamo provato a gridare il suo
nome più forte, ma niente. Abbiamo provato a insistere a
intervalli… »
«E
non c’è stato verso di parlarci…
» concluse il primo.
«È
lì dentro da più di un’ora! Forse
è rimasto senz’aria ed è
svenuto!» Ipotizzò Silver tuffandosi poi tra le
scorie, avvicinandosi il più possibile con il muso al muro
di macerie. «BULLS, SONO IO, MI SENTI?! SONO TORNATO, HO CON
ME I RINFORZI, BULLS!!?» Gridò più
forte, al punto che gli altri Wonderbolts temettero che questo potesse
risvegliare il colosso dormiente, ma come anticipato da loro, dal suo
amico non arrivò risposta.
“No,
non va bene. Non va bene per niente…” si
rialzò, cercando di riprendere il controllo della
situazione. «Ok, pony. Trovate un punto d’accesso e
cominciate a scavare. Lo voglio fuori da qui prima di
subito!» Ordinò riacquistando un po’ di
calma. Così il gruppo si mise all’opera, ognuno
con i propri rispettivi compiti, con gli scavatori che dovevano
sollevare con la magia i blocchi più pesanti, mentre i
paramedici estraevano dalle proprie borse i kit di pronto soccorso e
tutto l’occorrente per soccorrere Bullseye una volta estratto.
«Principessa,
fate quello che dovete fare. Quella bestia è tutta
vostra.» Disse alle giumente arcigno.
«Sì.»
Annuì lei concisamente, toccando poi la spalla
all’amica. «Fluttershy, vai. Tocca a te
ora.»
La
pegaso canarino deglutì e senza dire niente si
incamminò verso l’enorme creatura. Twilight la
seguì da dietro, standole a debita distanza per lasciarle lo
spazio per lavorare.
Il
mostro non aveva avuto reazioni per tutto il tempo, e anzi, man mano
che si avvicinavano, potevano ascoltare un particolare suono raspante,
che assomigliava in tutti i sensi a un russare lento e prolungato, che
si combinava con gli altri echi nella caverna e con i suoni degli scavi
dalla parte opposta alla loro.
Ora
che lo vedeva un po’ più da vicino, Fluttershy
poteva confermare con accurata certezza che non si trattava di un
drago. Per lo meno, non del tipo che era abituata a conoscere lei.
Aveva
un corpo tarchiato e del colore della sabbia, su strati di pelle in
eccesso priva di squame, che formavano grinze in vari punti sotto le
ascelle e tra il busto e il corto collo taurino.
Del
dorso erano visibili due enormi appendici simili a delle pinne, e sulla
nuca delle propaggini che si muovevano indipendentemente
l’una rispetto all’altra, come piccoli tentacoli
che lambivano l’aria.
Le
grandi zampe anteriori che nascondevano il volto erano munite di
quattro dita ciascuna, una delle quali era un pollice, legate insieme
da una membrana natatoria. Ma non erano artigliate, come in origine
aveva scommesso la Custode della Gentilezza. Erano invece spesse,
andando a restringersi sui polpastrelli appuntiti e rigidi, con piccole
desquamazioni di cute morta sulle estremità.
L’aria
intorno a lui, per un raggio di una ventina di metri, era permeata da
un acre odore di marcio, che fece arricciare di disgusto il muso della
pony.
Trottò
di qualche altro passo. Il Kaiju era così grande da
ricoprire tutto il suo campo visivo, costringendola a spostare
continuamente l’inquadratura da un punto all’altro
per esaminarne i dettagli.
«Ehm…
c-chiedo scusa? Salve?» Pasticciò lei per un primo
approccio. Era il momento di scoprire se le sue intuizioni si erano
rivelate esatte.
Questi
emise un lamento profondo, che sembrava venire direttamente dal suo
stomaco, come un rigurgito.
Fluttershy
guardò verso l’amica dietro di sé, e
Twilight le restituì un’arcata sopraccigliare
confusa. Quindi decise di riprovarci.
«Io
s-sono Fluttershy… posso parlare con lei per un
secondo?» Gli diede del “lei”, come
prevedeva il protocollo quando le creature erano così
massicce e imponenti. Rispetto per l’interlocutore, prima di
tutto.
Quando
non le arrivò nessuna reazione di risposta, la pegaso si
ripeté con un’intonazione più alta.
«POSSO PARLARE CON LEI PER UN SECONDO?» E attese
che succedesse qualcosa.
Così
doveva bastare, pensò, era partita con la zampa giusta. Uno
zoccolo per volta e forse quella giornata si sarebbe conclusa con una
magra conquista.
La
squadra di scavo nel frattempo era quasi arrivata al punto in cui era
sepolto Bullseye.
Qualcosa
lo ridestò dal suo stato di torpore. Qualcosa di nettamente
diverso dal tipico disturbo che provava nei confronti delle creaturine
colorate.
Spalancò
gli occhi, trovandosi di fronte a un altro esemplare della razza dotata
di ali, e ce n’era un’altra che oltre a esserlo a
sua volta, condivideva dei tratti in comune con gli animaletti cornuti.
Fu
però l’esemplare giallo ad attirare il suo
interesse. Con la sua vocetta delicata si era insinuata
all’interno della sua scatola mentale, e gli aveva infuso una
serenità bizzarra che non si sarebbe mai aspettato in una
circostanza come quella.
Chi
era questa creatura, che con una semplice frase era riuscita a tendere
in tal misura i suoi fili emozionali?
Le
zampe anteriori del Kaiju si protesero in avanti mentre questo emetteva
un muggito, rivelando finalmente l’aspetto in tutta la sua
interezza.
Il
muso era di un animale che poteva essere allo stesso tempo sia di
mammifero che di rettile, con denti corti e appuntiti, non
particolarmente sviluppati a dispetto della sua mole (Fluttershy si
chiese quale potesse essere la sua dieta). Gli occhi erano due piccole
sfere lucenti, pallide e prive di pupilla, e anche solo di qualcosa che
assomigliasse vagamente al disco dell’iride; erano chiazzati
da macchie ramate disposte apparentemente a caso sulla superficie dei
bulbi. Assomigliavano e delle enormi perle introdotte a forza nelle
fessure orbitali dell’animale, che rimiravano le pegaso
dall’alto, mantenendo una certa distanza prudente.
Fluttershy
deglutì a denti stretti, continuando la presentazione,
mentre tutto intorno a lei taceva. Anche gli scavatori si erano fermati
temporaneamente per osservare la scena. «Salve a
lei di nuovo. Riesce a sentirmi se parlo in questo modo? Il mio nome
è Fluttershy, e sono una pony del regno di
Equestria… è il nome del posto in cui si
trova… » utilizzò una formula molto
simile a quella cui si era avvalsa in altre circostanze delicate,
aiutandosi con l’eco che diffondeva le sue parole per tutta
la sala. Non aveva la certezza che il Kaiju la stesse capendo. Lui
taceva, continuando ad ascoltarla con le mascelle digrignate, a esporre
leggermente le zanne.
Decise
di continuare per la direzione intrapresa. «Sono umilmente
dispiaciuta dell’averla dovuta svegliare, il fatto
è che c’è una cosa davvero molto, molto
importante che ci tengo a chiederle, Signor, ehm…
» qui si bloccò. Come lo doveva chiamare?
«“Gigante delle Caverne”?»
La
reazione del Kaiju, all’udire di quell’appellativo,
fu di chinarsi in avanti, portando il proprio naso a un tiro di
schioppo dalla pegaso canarino. Prima la annusò,
così come avrebbe fatto un cane di fronte a una nuova
scoperta, allora le alitò contro uno sbuffo del suo fiato,
saturando l’aria di un odore misto di carne in putrefazione e
laboratorio chimico, quest’ultimo molto strano.
«Allontanati
da lì, Fluttershy!» Tentò di avvisarla
Twilight, tappandosi il naso con entrambe le zampe, ma fu taciuta da un
cenno deciso della pegaso. La Custode della Gentilezza sapeva cosa
stava facendo.
Trattenne
un conato di nausea dovuto all’alitata, non ce
l’avrebbe mai fatta se solo non fosse stata abituata ad avere
a che fare con le più eterogenee classi di animali (parlare
con dei predatori, trovandosi a pochi passi dalle carogne delle loro
vittime, spesso la metteva in situazioni altrettanto pesanti).
Alcuni
indizi ravvisati sulla pelle e sul muso del Kaiju l’avevano
messa in allarme, destandole non poche preoccupazioni: si vedevano
delle macchie nerastre, con del pus gelatinoso che fuoriusciva dalle
lesioni insieme a del fluido scuro, sintomi di una grave infezione
batterica, o forse di un qualche tipo di malattia ignota. Distolse lo
sguardo risistemandosi il ciuffo di crini rosa, che era stato smosso
dalla ventata pestilenziale.
Rimuginò
su quanto aveva appena scoperto: l’animale era in pessime
condizioni di salute, quindi era lecito presumere che si fosse
rintanato in quella grotta per riposare in convalescenza, o per morire.
Lei si augurò la prima.
Rifletté
su quali potevano essere le cause. Le Guardie Cittadine erano forse
riuscite a danneggiarlo colpendolo con la magia? In alcune parti del
corpo, come sulla spalla destra, le chiazze raggiungevano diversi metri
di diametro, ed erano neri come di cancrena. Ma in altre la pelle era
anche vistosamente irritata, come se il fautore di tutto ciò
fosse invece un microrganismo che stava intaccando tutta la superficie
della cute.
Forse
era questa la ragione dell’attacco in città? Il
Kaiju, colto dalla disperazione, aveva abbandonato il proprio habitat
naturale per andare alla ricerca di una cura contro la sua malattia,
finendo suo malgrado nel bel mezzo del centro abitato dei pony, che
invece di soccorrerlo, lo avevano perseguitato alla stregua di un
invasore del loro regno.
Con
in testa questa nuova teoria, Fluttershy riprese a parlargli in tono
amorevole e solidale, raccontandogli di com’era venuta a
conoscenza dell’incidente di Manehattan. Poi
continuò, parlandogli anche dell’incidente stesso,
e di tutta la sofferenza che aveva causato al suo passaggio. Sperava
così fargli capire la gravità della situazione,
assicurandosi che la prossima volta non si ripetesse lo stesso.
Gli
chiese della sua malattia, cercando di scoprire come l’aveva
contratta. Gli disse che si sarebbero presi cura di lui, se solo lui lo
avesse desiderato, e mentre lo faceva, Twilight obbediva alla
prescrizione di non intervenire per nessuna ragione al mondo, anche se
i suoi zoccoli scalpitavano sulla roccia per quanto era agitata.
Durante
il monologo, il Kaiju fissava la pegaso canarino ruotando solo
occasionalmente il collo per controllare i movimenti degli altri pony
nella caverna. Respirava affannosamente, rilasciando a ogni sospiro una
nuova ventata di fiato maleodorante, carico di esalazioni corrotte. E
non reagiva, almeno, non con dei suoni che potessero assomigliare a una
risposta…
…
dentro di Lui, forze contrastanti gli dicevano di assecondare le parole
della creaturina, e allo stesso tempo lo mettevano in guardia dal
fidarsi ciecamente.
Non
dimenticava le aggressioni subite nell’isola grigia, anche se
probabilmente si era trattato solamente di un atto di difesa dalla
reale minaccia, rappresentata da Lui. Ma se era efettivamente Lui il
nemico, allora perché quella piccola creatura alata si
mostrava così espansiva nei suoi confronti?
I
modi di Fluttershy si fecero più spigliati, e anche il Kaiju
le sembrò sereno e rilassato, mentre la seguiva con lo
sguardo, interessato alle sue movenze. Lei trottava avanti e indietro,
talvolta alzandosi da terra per poi scendere giù.
Quel
silenzio la convinse di stare facendo la cosa giusta, di comunicare le
esatte parole necessarie a mantenere la connessione col mostro. Credeva
di aver raggiunto un punto d’intesa, a che ora avrebbero
potuto instaurare un dialogo, se solo avesse fatto leva sui pulsanti
giusti…
Al
capo opposto della grotta, dove la squadra di scavo stava completando
il disseppellimento del malcapitato, finalmente si era arrivati a un
punto di svolta.
Si
aprirono i primi spiragli di quella che fu la sacca d’aria
descritta da Bullseye. Fu rimossa un’altra pietra, rivelando
un accesso di mezzo metro in mezzo alla montagna di detriti e fango.
Silver Sprint chiese all’unicorno di fronte a lui di farsi da
parte, quindi provò a infilare la testa
nell’angusto passaggio, ignorando che la sua spalla stesse
bruciando per la ferita ottenuta nel crollo.
L’umidità presente impregnò il suo
mento di sabbia e particelle.
Dentro
non si vide nulla, ma quando provò a chiamarlo per nome, si
aspettò come minimo di sentire il suo migliore amico
emettere un rantolo di sollievo. Il mutismo che invece gli
tornò dietro gli fece germogliare il seme del dubbio. Che
avessero forse sbagliato il punto dove scavare? L’unicorno
della protezione civile che aveva impiegato la Chiaroveggenza giurava
che il suo incantesimo era stato ineccepibile. Ma allora
perché Bullseye continuava a non rispondere malgrado tutti
quei richiami?
L’ipotesi
della perdita di coscienza, a quel punto, aveva assunto una consistenza
più tangibile.
Tirata
fuori la testa, Silver chiese allo scavatore d’illuminare
l’accesso, ma questi invece di ubbidire, lo fissò
imbambolato con una maschera d’orrore cucitagli sulla faccia.
«C’è
qualcosa che non va?» Gli domandò di fretta.
«S-Signore…
» lo chiamò uno dei suoi Wonderbolts, anche lui
manifestando la stessa aria di disagio, come tutti gli altri
«è… è sporco di
sangue… »
Un
formicolio attraversò il dorso del Luogotenente.
“Sangue?!”
Si
tolse gli occhiali da aviatore e guardò il riflesso sulle
lente, scoprendo così che il colletto della sua divisa era
macchiato di rosso – una tinta cremisi scuro mischiata alla
sporcizia – che correva in su, fino ad allungarsi sotto la
mandibola; quella che all’inizio aveva pensato fosse semplice
condensa.
«Illumina
là dentro, SUBITO!!» Berciò
all’unicorno, il quale inciampò tra i cumuli di
pietrame mentre s’apprestava ad eseguire.
Si
affacciarono entrambi attraverso il passaggio, seguendo con lo sguardo
il fascio di luce magica che rischiarava i contorni della pietra per
due o tre metri all’interno. Dentro si profilò per
loro una visione orribile, fatta di sangue che formava piccole pozzette
in alcuni punti e scintille di riflessi scarlatti. Un corpo era fermo
esanime nel mezzo della cornice, compresso dalla vita in giù
da un enorme macigno.
La
caverna si riempì di un urlo straziante, che aveva per voce
quella di Silver Sprint e come suono il nome dell’amico che
erano venuti a salvare. Twilight lo capì senza che vi fosse
la necessità di tornare indietro a vedere. Dal tono
struggente, assunse che non c’era più nulla che si
potesse fare per cambiare le cose.
Si
trovava nel mezzo di due differenti scenari, i quali procedevano senza
aver bisogno del suo intervento, facendola sentire di troppo proprio
quando la situazione si stava facendo più tesa.
Fluttershy,
invece, spaventata da quell’urlo, si girò di colpo
raggelata dal lamento del Luogotenente. Quell’azione,
così ingenua in apparenza, si rivelò essere il
più fatale degli errori…
Lui
scosse la testa, come a voler scacciare qualcosa da addosso di
sé.
Se
fino a pochi istanti prima era confuso, traviato dalla voce carezzevole
della creaturina gialla, adesso capiva con grande nitidezza cosa
stavano cercando di comunicargli le strane pulsazioni che gli parlavano
dall’interno: manipolazione. L’esserina era
riuscita in qualche modo a superare le sue barriere mentali,
interagendo con la parte più recondita di Lui,
più fragile e suscettibile agli attacchi…
…
cessò quindi di essere quella placida massa di carne che
stava genuflessa ad ascoltare Fluttershy, mulinando per aria le zampe,
che urtarono contro il soffitto facendo cadere altri blocchi di pietra
sulle teste dei pony.
Capito
l’errore, la Custode provò in tutte le maniere a
recuperare la sua attenzione, rinunciando persino alla
formalità . «No, non ti agitare! Continua a
guardare me, guardami!». Ma il Kaiju non aveva alcuna
intenzione di cederle altre attenzioni. In tutta risposta emise un
verso profondo, simile a uno sfogo, che s’abbatté
come un vento d’uragano sulle orecchie della pegaso.
Si
buttò a terra, inginocchiata, premendosi gli zoccoli sulle
orecchie. Una forte pressione le schiacciò il cervello,
facendole traboccare lacrime dagli occhi.
«Fluttershy,
che ti succede?!» Twilight stava osservando qualcosa che per
lei era inconcepibile. Non capiva il linguaggio degli animali,
né poteva stabilire quel particolare legame che era invece
caratteristico della sua amica. Per lei fu solo un grido di rabbia, ma
la Custode della Gentilezza patì un dolore lancinante, come
se la bestia l’avesse presa tra le sue fauci e la stesse
masticando molto lentamente.
«No…
ti prego, ascoltami… » allungò la zampa
verso di lui cercando di placarlo, ma un secondo gridò la
affogò sotto una cascata di decibel. Il mostro a quel punto
si erse sulle zampe posteriori, rivelando ancora di più le
sue immani dimensioni, e le fratture del soffitto, dal quale piovve una
nuova fiumana di detriti, riempirono il vuoto all’interno
della caverna.
Twilight
gemette atterrita. I pony della squadra di scavo cominciarono ad
allontanarsi uno per uno. Tutti meno che Silver Sprint, inginocchiato e
insensibile nel mezzo della massa. Che cosa stava facendo? La
Principessa era troppo distante per riuscire a leggerne le emozioni sul
viso. I suoi Wonderbolts lo incitarono a seguirli, ma lui non diede
loro alcuna retta.
«Fluttershy!
Fermati! Basta così! Non puoi comunicare con lui, lascia
perdere!» Le andò vicino.
Il
Kaiju emise un altro verso simile ai precedenti. La Custode della
Gentilezza provò a rimettersi sugli zoccoli, stringendo i
denti per lo sforzo. Tentava di decifrare i suoni che rilasciava,
sfruttando le sue conoscenze di decrittazione linguistica degli
animali. «Io… n-non riesco a capire…
che cosa dice… è… è
troppo… »
«Non
ha più importanza ora, vieni con me! Torniamo dalle
altre!» La prese per una zampa.
«No!
Twilight, non capisci?! Non è di questa terra…
non è di Equestria!»
La
Principessa aggrottò le sopracciglia e rimase per un momento
attonita, pensando all’asserzione dell’amica.
«Ne parliamo dopo, ok? Adesso ti porto fuori da
qui!»
Proprio
in quel momento, il Kaiju smise semplicemente di stare eretto e
avanzò lentamente verso di loro…
Improvvisamente,
era come se fosse di nuovo in trappola.
Era
così che si sentiva, come quando aveva invaso la
città delle piccole creature e aveva temuto che i palazzi
gli si stessero stringendo intorno. Aveva la medesima impressione,
fomentata dalla vicinanza della piccola creatura gialla e della sua
simile cornuta.
Aveva
invaso i loro spazi uccidendone alcuni esemplari, e loro adesso erano
venute per vendicarsi. Avevano cercato di plagiarlo, illudendolo delle
loro buone intenzioni, e chissà a quale fato sarebbe incorso
se solo non fosse riuscito a sfuggire appena in tempo.
Si
domandò cosa mai gli avrebbero detto le sue Voci nella
testa, se solo avesse potuto sentirle mormorare ancora una volta, ma
attualmente tutto ciò che udiva, al di là dei
suoi versi, era il rumore del suo ex-nido che crollava su se stesso.
Quel
posto non era più sicuro per Lui, in tutti i
sensi…
Come
una montagna che d’improvviso si anima, e decide che la prima
cosa da fare è saggiare l’esperienza di correre su
due zampe, il Kaiju scattò verso l’uscita senza
curarsi minimamente dei pony sotto di lui che rischiava di calpestare.
Twilight,
con grande tempestività dei sensi, isolò se
stessa e Fluttershy all’interno di una bolla di protezione
magica, quando la pianta dell’enorme zampa calò su
entrambe. Furono colpite di striscio da un dito del piede del mostro, e
scalzate via con tutta la cupola al seguito.
Malgrado
la difesa, la Principessa dell’Armonia si sentì
come se un bufalo l’avesse travolta in pieno.
Tossì violentemente, e nel farlo provò una fitta
indicibile al costato. Le fece male la schiena, le zampe faticarono a
sorreggerla mentre si rialzava, e un rivolo di sangue fresco prese a
gocciolarle dal labbro inferiore.
«Oh
santo cielo, Twilight!» si agitò Fluttershy
vedendola.
«Sto
bene. Dammi solo un minuto.» Sottopose sé stessa a
un incantesimo di cura, che la rimise doverosamente in sesto. Non era
ancora abbastanza brava con quel tipo di magie, che aveva appena
cominciato a esercitare. Si sarebbe fatta visitare non appena tornate
in città, ma l’effetto analgesico che si diffuse
per tutto il corpo le diede da subito la lucidità per
pensare.
«Qui
sta crollando tutto, sbrighiamoci prima di rimanere chiuse qui
dentro!»
«Il
Kaiju… » altre lacrime cominciarono a solcare il
viso di Fluttershy.
«Sì…
sì lo so. Non ti preoccupare, adesso ce ne occuperemo
insieme.» La rassicurò asciugandogliele.
Galopparono
verso l’uscita. Pezzi di soffitto piovevano per terra
aggiungendosi alle pile già presenti, o creandone di nuove.
Le
due giumente si fermarono nei pressi dello scavo della squadra di
soccorso, dove il Luogotenente Silver Sprint fissava qualcosa mentre se
ne stava inginocchiato con un’aria spettrale addosso.
«Silver,
dobbiamo andare!» Lo chiamò l’alicorno.
Lui
sollevò lo sguardo da terra, puntando con un fare di
rimpianto la direzione dove solo poco prima dominava il titano.
Socchiuse gli occhi sospirando. «Vi raggiungo tra poco,
Principessa. Voi andate.»
Dichiarato
ciò, sembro dimenticarsi della loro presenza. Persino quando
Twilight provò a convincerlo della pericolosità
di quella decisione, il Wonderbolt s’isolò
semplicemente dalla realtà, rifiutando ogni interazione.
Fu
la Custode della Gentilezza, questa volta, a far leva
affinché lasciassero il posto e si ricongiungessero alle
loro amiche. La afferrò per una zampa e la tirò
con sé.
Mentre
correvano via, si guardarono indietro, mentre il Luogotenente diventava
una macchia argentata che si restringeva progressivamente nel loro
campo visivo.
Le
ragazze erano poco più in là
dell’accesso che portava alla tana. Apparentemente stavano
tutte bene, ma Fluttershy e Twilight si riunirono a loro che erano
shockate e in preda all’agitazione. Pinkie Pie aveva una
smorfia di terrore che non si addiceva al suo atteggiamento tipico, e
Rarity dava fondo al suo repertorio teatrale esibendosi in un pianto
senza freni. Applejack e Rainbow Dash controllavano meglio le proprie
emozioni, ma non per questo potevano dirsi meno irrequiete. Entrambe,
rispettivamente trottando per terra e volteggiando per aria,
continuavano a muoversi per scaricare l’enorme tensione che
sussultava attraverso i loro muscoli tesi.
Le
due giumente furono accolte con un caloroso abbraccio, quando le altre
le videro tornare sane e salve (Twilight non completamente in forze, ma
questo non lo ammise, per non gravare sulla già difficile
situazione del gruppo).
«È
stato terribile!» Disse Applejack in modo funereo.
«Prima quelle urla, poi i tremori, e quel bestione correva
verso di noi come se ci volesse caricare!»
«Le
cose non sono andate come speravamo. Avete visto passare gli altri per
caso?»
«Eccome,
puoi giurarcelo!! Se la sono data alla fuga gridando “Via,
presto! Scappate!!”» Strillò Rarity
imitandone l’intonazione.
«Non
sapevamo cosa fare! Se dovevamo farlo pure noi… »
disse invece Pinkie «oppure se dovevamo invece cominciare
prima a correre, e poi a gridare! Insomma, eravamo confuse!»
«Hai
detto che le cose non sono andate come previsto. Che vuoi
dire?» Domandò la cowgirl avendo colto
l’affermazione dissoltasi nella confusione del momento.
«Aspetta!
Dov’è Silver Sprint?!»
S’inserì Rainbow Dash.
«Una
cosa alla volta ragazze. Allora: hanno trovato l’amico del
Luogotenente che era rimasto sotto le macerie… »
«Sta
bene ovviamente, no?» Interruppe la pegaso arcobaleno.
«No
Dash.» Scosse addolorata la testa, dopo aver esitato per un
momento. «Non ho ben capito cosa sia successo, ma pare che
non ce l’abbia fatta…
«Oh
cacchio!»
«…
mentre stavamo uscendo, il Luogotenente ci ha detto che ci avrebbe
seguito a breve. Ma è ancora lì dentro, a quanto
pare… »
«Allora
forse avrà bisogno d’aiuto! Scusate, ma io vado da
lui!»
«Ferma
lì, non è una buona idea! Penso voglia prendersi
un momento per stare da solo. E poi là dentro il soffitto
è troppo instabile per avventurarcisi in volo!»
Si
bloccò, rendendosi conto che doveva recuperare le redini del
discorso, si era lasciata fuorviare dalle sue amiche, dimenticandosi
che un mostro assassino era ancora a piede libero.
«Sentite,
Fluttershy ha provato a stabilire un dialogo col Kaiju. Per un
po’ sembrava anche funzionare. Ma poi è successo
qualcosa… non lo so, è cominciato ad andare in
escandescenza tutto d’un tratto, e poi è
scappato!»
Esclamarono
un «Ooh!» tutte insieme, e spostarono
l’attenzione sulla pegaso canarino. «Fluttershy,
accidenti a te e alle tue manie naturaliste! Si può sapere
cosa gli hai detto?!»
Lei
si accovacciò a terra sentendosi colpevolizzata, tremando di
paura.
«Fluttershy
non c’entra niente, Dash!» La difese Twilight.
«Ve l’ho detto, ha cominciato ad agitarsi senza
alcun motivo, come quando ha attaccato la città! Non si
tratta di un semplice animale che caccia, non ne sono ancora sicura, ma
sembra che… »
Non
finì per tempo la frase, che sopra le loro teste una freccia
dal colore argentato fendette l’aria nel tunnel, tracciando
una linea affusolata in direzione dell’uscita.
«Era
Silver Sprint quello?» Era schizzato troppo velocemente
perché Applejack (o chiunque tra loro) riuscisse a
distinguerlo. L’eco del fischio che produsse al passaggio
accompagnò la sua uscita di scena per diversi secondi, anche
dopo che era sparito dalla loro vista.
Princess
Twilight ripensò a quello che le aveva detto la Custode
della Gentilezza nella caverna. Si rivolse all’amica cercando
di infondere quanto più tatto poteva.
«Fluttershy… lo sai, vero, che arrivate a questo
punto non abbiamo altra scelta che attivare gli Elementi?»
«Sì…
» rispose lei affranta «anche se mi sarebbe tanto
piaciuto evitarlo… »
La
cinse per il collo condividendo con lei la tristezza di
quell’istante. Quando la magia cura le ferite del corpo, un
abbraccio spesso mitiga le pene del cuore.
«Pinkie,
gli Elementi sono con te, vero?»
«Acciderbolina
se sì! Li ho con me da quando mi hai chiesto di tenerli
nascosti senza anticipare niente a nessuno!» E li fece
comparire tutti e sei dall’interno della sua capiente
criniera.
Twilight
indossò il suo senza dare troppo peso a ciò che
aveva detto la pony in rosa. Pinkie ultimamente era ossessionata
dall’idea di essere il personaggio di una specie di epopea
letteraria, e andava in giro vantandosi di essere entusiasta di far
parte dei protagonisti della storia. Un’altra delle sue
innumerevoli stranezze.
«Preparatevi
a galoppare, ragazze. Abbiamo un bel po’ di strada da fare
prima dell’uscita.» Disse Applejack, intanto che
indossava l’Elemento dell’Onestà.
«Un
momento.» Sospese tutte quante Rarity.
«Perché non provi a usare il teletrasporto, Twi?
Lo hai fatto altre volte, no?» Gli sguardi di tutte puntarono
verso l’alicorno.
Twilight
si scosse, e quindi evitò i loro occhi fiduciosi,
vergognandosi per la risposta che stava per dare. «Mi
dispiace, ma non credo di riuscire a teletrasportarvi tutte quante di
fuori. Non così distante almeno… »
«Ma
ormai sei una Principessa! Dovresti avere magia a sufficienza per
farcela, almeno per accorciarci un po’ la strada!»
Ancora
una volta il suo titolo prendeva dei meriti che lei non si sarebbe mai
attribuita. Ma forse questa volta era diverso. Diventare alicorno le
aveva effettivamente infuso capacità magiche che non si
sarebbe mai sognata di avere, quindi forse…
«Beh,
posso provare immagino… » sibilò tra i
denti, per nulla convinta ma decisa a fare almeno un tentativo.
Per
cominciare aveva bisogno di ridurre quanto più era possibile
il raggio intorno al quale avrebbe agito l’incantesimo,
quindi chiese a tutte di stringersi intorno a lei. Chiuse gli occhi,
cercando di sommuovere le sue riserve di energia eterea. Realizzare
quel tipo di sortilegio implica prima di tutto avere la consapevolezza
del luogo in cui si è intenzionati ad andare,
s’interviene quindi sulla stabilità
dell’Armonia nello spazio tridimensionale occupato dal
soggetto che si vuole trasferire, creando una
“scansione” dello stesso. A quel punto ci si
“immagina” con intensità che il soggetto
venga trasferito dal punto “A” al punto
“B”, e il paradosso, formulato ai suoi tempi da
Starswirl il Barbuto, secondo cui un determinato individuo appartenente
a un singolo piano temporale non può trovarsi
contemporaneamente in due posti differenti, fa sì che questo
venga disintegrato e ricomposto praticamente all’istante, a
destinazione, senza nessun tipo di stravolgimento sul piano mentale e
fisiologico.
Compierlo
da sé era un gioco da puledri, per lo meno per gli standard
di chi rumina magia per colazione, come Twilight Sparkle (riteneva che
il volo era una pratica ben più astrusa), ma spostare
così tanti individui per quasi mezzo chilometro dentro un
tunnel scuro come quello era un esercizio che implicava ogni genere di
rischio. Un piccolo errore nelle “scansioni”, o
nell’impiego dalla quantità di magia occorrente
per la riuscita, e le conseguenze sarebbero potute essere letali per
ognuna di loro. Oltretutto, le condizioni non ideali in cui la
Principessa vessava, non le garantivano il massimo della forma.
Ma
scelse di non pensarci. Ora come ora non poteva concedersi divagazioni.
Pensò
invece a concentrarsi sull’incanto, scansionandole tutte e
imprimendo nella sua mente il luogo esatto in cui voleva trasferirle.
Scelse l’entrata del tunnel, l’unica area della
vallata che avevano toccato con gli zoccoli quando erano atterrate, e
quindi l’unica di cui avesse una percezione completa in tutti
e cinque i sensi. Si augurò solo che una volta arrivate alla
meta non finissero schiacciate sotto le zampe dell’orrido
titano.
Il
suo corno entrò in funzione ricoprendole di essenza magica.
Ognuna teneva gli occhi delicatamente serrati, fiduciose della buona
riuscita dell’incantesimo. La loro amica non avrebbe
sbagliato quell’incanto. Il vero problema era ciò
che avrebbero affrontato una volta riapparse.
Poco
prima, nella tana del Kaiju.
Silver
Sprint stava avvertendo una sensazione familiare, di
déjà vu, come quando quell’agente, un
anno prima, si era presentato alla porta di casa sua per comunicargli
l’incidente di sua moglie, e la tragica notizia che era
appena diventato vedovo. Era rincasato da poco, dopo la fine del suo
turno di servizio, e la piccola Lil’ Wing era nel soggiorno a
divertirsi con un libro da colorare.
Non
aveva neppure afferrato, all’inizio, la portata di
quell’avvento, rapportandosi ad esso come con qualcosa di
semplicemente troppo irrealistico per potervi credere. Sua moglie era
morta? Impossibile. E gli servì un bel po’ prima
di superare lo straniamento iniziale e accettare che quel fatto era
autentico, e che dal quel momento le cose sarebbero state diverse
– più
vuote – sia
per lui che per sua figlia.
E
ora la stessa cosa si stava ripetendo in un differente scenario.
La
verità è che Bullseye era già morto
ancor prima che il suo amico ripiegasse in città per
trasmettere la notizia. Anche se questo Silver Sprint non poteva
saperlo.
Aveva
subito uno schiacciamento degli organi interni, danneggiando le
funzionalità fisiologiche e aprendo numerose emorragie in
tutto il corpo, sia all’interno che all’esterno.
L’arteria femorale nella zampa posteriore sinistra perdeva
sangue a fiotti, e ogni volta che inspirava la sua gola si riempiva di
altro liquido che prontamente sputava fuori addensandosi in una chiazza
rossa a terra. A causa di questo, ogni fiato gli causava un male che se
avesse conosciuto prima, probabilmente il timore lo avrebbe
accompagnato come un tormento per il resto della sua vita. Inoltre, un
bruciore intenso e indefinibile all’altezza dello stomaco gli
faceva temere che anche il suo sistema digerente fosse stato
compromesso.
Poi
sentì la voce di Silver che cercava di chiamarlo da fuori
dell’agglomerato di detriti, e al panico per la fine
imminente che stava sopraggiungendo, si aggiunse quello del vedere il
volto del suo migliore amico mentre lo guardava spirare, straziato dal
dolore… non voleva andarsene con quell’immagine di
pena riflessa negli occhi.
Il
grande masso sotto il quale giaceva rallentava di poco la circolazione
sanguigna, impedendogli così di dissanguarsi troppo alla
svelta. Questo gli diede qualche minuto per improvvisare una menzogna.
Gli disse di portare dei rinforzi, fingendo, in uno stato di
assuefazione dal dolore, che per il momento sarebbe stato bene, mentre
invece i suoi polmoni stavano esalando gli ultimi sospiri. Dovette
insistere, ma alla fine fu abbastanza ostinato da convincerlo ad
andare. E ora non gli rimaneva che aspettare in silenzio che la morte
lo prendesse sul serio. Nessuna squadra lo avrebbe liberato, neppure se
si fossero messi a scavare seduta stante, unendo le proprio forze. Era
troppo debole per resistere, privato del suo sangue e
dell’ossigeno che circolava a bolle sempre più
modeste con il ticchettare delle lancette, ferito dovunque supponesse
di avere qualcosa d’importante. Troppe cose contribuirono ad
accelerare la sua fine, compresa la poca aria residua che ancora
rimaneva nella cavità stretta.
Mentre
moriva, si scaldò focalizzandosi sui ricordi dei trascorsi
con Silver Sprint, lasciandosi confortare dalle risate che si facevano
ai bei tempi trascorsi, da quei nitriti acuti che scaturivano ad ogni
loro incontro.
Era
un buon modo per andarsene. Soprattutto, contribuì a farlo
sentire meno solo, mentre le sue palpebre si abbassavano con dolcezza,
e il dolore tramutava in un lontano formicolio.
Lui
e Bullseye ne aveva passate veramente tante insieme. Si erano cacciati
continuamente nei guai, anche dopo che la loro amicizia fu
definitivamente consolidata da quella conversazione al campo
d’addestramento. Il pegaso dalla criniera lampone era il
massimo esperto di scherzi ai tempi dell’Accademia, e si
divertiva a coinvolgere il compagno diligente in trovate sempre
più folli e rischiose, dalle quali era spesso troppo tardi
per tirarsi indietro, prima che la ruota cominciasse a girare.
Un
giorno trovò il modo di comunicare al loro Sergente
Istruttore (il suo bersaglio per eccellenza) che il Capitano lo voleva
incaricato come Alzabandiera per la mattinata seguente, e questi,
malgrado il scetticismo del momento, dovette ubbidire, timoroso di
sfidare l’autorità del più alto in
grado.
Sorse
la mattina, e tutti si adunarono per la cerimonia. Suonarono le trombe
e il vessillo di Equestria era pronto per issarsi. I primi sogghigni
cominciarono a formarsi quando il Sergente era stato notato avvicinarsi
al pennone, insieme agli altri cadetti fermi nel saluto militare.
Fu
solo quando lo stesso Capitano gli andò incontro perplesso,
che il pegaso mangiò la foglia realizzando
l’incredibile inganno in cui era caduto vittima.
L’Accademia
precipitò in una crisi di risate chiassose, malgrado la
formalità del momento, e anche Silver, che non era incline a
prendere parte a quei giochi alla leggera, non poté esimersi
dal ridere assieme al suo migliore amico, che gli lanciava gomitate sul
fianco.
Erano
una bella coppia di scapestrati, che purtroppo il destino aveva scelto
di separare proprio nel periodo di massima debolezza per il pegaso
dalla criniera argentata.
Silver
Sprint ora era solo, senza più nessuno che gli sollevasse il
morale quando le giornate assumevano tratti pietosi.
Riflettendoci
attentamente, forse tutto ciò poteva essere evitato.
Bullseye temeva di entrare in quella caverna, perché sentiva
che alle fine qualcosa sarebbe andato storto. Era come se in un qualche
modo, fuori dalla concezione di Silver Sprint, avesse predetto la sua
morte e avesse cercato di impedirla con ogni mezzo a disposizione, ma
invano.
Così
non c’era più. Il suo migliore amico e compagno di
tante disavventure, rivali un tempo, poi uniti da un legame che si
pensava sarebbe stato indissolubile. Era spirato, e la
responsabilità di tutto cadeva su di lui.
Silver
Sprint si sentì a pezzi, distrutto dai sensi di colpa.
Avrebbe voluto tornare indietro per impedirsi di dare
quell’ordine. Supplicava che qualcuno – chiunque lo
stesse ascoltando – gli permettesse di rimediare a quello
sbaglio. Fiumi di lacrime, ora che era solo e poteva levarsi di dosso
il carico, rivelarono tutta la debolezza che si celava dietro
l’apparenza.
Ogni
cosa sarebbe andata diversamente da quel momento in poi. Non
più il sostegno di Bullseye mentre comandava uno squadrone
in volo. Nessuno che condividesse con lui quella parte del suo essere
che soltanto l’altro conosceva. Le bevute in casa la sera, il
grande sogno di avviare un’attività commerciale
insieme dopo il congedo dall’esercito, le mille esperienze
che avrebbero potuto condividere. Tutto ciò svaniva sotto
l’insistenza di una frase che già adesso
cominciava a risuonargli forte nella testa.
“Non
avresti mai dovuto dare quell’ordine”
“No!”
Un
altro pensiero balzò fuori dal coro, e per qualche ragione
aveva il tono della voce di Bullseye: “Non
darti grane per quello che è successo!”
Come
sarebbe? Non era sua la colpa? E di chi altri poteva esserlo,
altrimenti?
“Ma
del Kaiju naturalmente!”
Realizzò dopo. Quell’orrido essere si era mosso
per primo. La vita a Equestria seguiva ritmi pacifici prima che la
creatura invadesse le loro terre, scandita solo occasionalmente da
qualche difficoltà di quando in quando. Ora invece centinaia
di pony (forse più) lasciavano schiere di orfani a un futuro
senza genitori, e altrettanti se ne andavano abbandonando i propri
affetti ai ricordi e alle lacrime.
Silver
Sprint era sia padre che amico, vittima e superstite di un destino
infausto che più volte lo aveva eletto come bersaglio. Ma
lui era anche qualcos’altro. Young Dart, monumento vivente
dell’aviazione dei Wonderbolts. Un eroe per la sua gente e
per tutti quei puledri che anche ora, senza più un padre o
una madre a cui rivolgersi, avrebbe continuato a seguire le sue gesta
con ammirazione e rispetto.
Per
loro doveva combattere, e per loro, se esisteva anche solo una
possibilità che il suo aiuto contribuisse a fermare la crisi
che stavano vivendo, avrebbe dato il tutto per tutto.
E
non solo per loro, ma anche per sua moglie, che aveva bisogno di
qualcuno che portasse la sua memoria con serenità.
E
non solo per lei, ma anche per Bullseye, che aveva lasciato quella
valle di lacrime, fiducioso che il suo migliore amico se la sarebbe
cavata ugualmente.
E
non solo per lui, ma anche per Lil’ Wing, malata
d’influenza. Lei che più di tutti aveva bisogno di
un padre che fosse più deciso che mai.
Conscio
dell’imponenza che avrebbero rappresentato le sue prossime
mosse, salutò Bullseye per l’ultima volta:
«Grazie, amico. Grazie per tutto quello che hai fatto per
me… e per quanto vale ora… perdonami.»
Quindi schizzò fuori dalla caverna.
Lungo
il tunnel, avvistò le Custodi, intente a discutere a lato
del corridoio, ma si trattenne dal fermarsi da loro. Ognuno stava dando
il tutto per tutto in quella giornata, e non aveva dubbi che anche loro
avrebbero fatto la loro parte. Non si poteva fermare.
Poi,
alla soglia dell’uscita, riuscì a scorgere anche i
Wonderbolts e gli altri pony che lo avevano seguito da Manehattan,
quando la luce del tramonto lo abbagliò per pochi istanti.
Loro non potevano fare molto, a differenza delle giumente, e questo non
gli dispiacque. Dovevano sopravvivere. Il Tristo Mietitore quel giorno
aveva già depennato dalla sua lista troppi nomi.
Il
Kaiju era poco più avanti, intento a risalire la valle.
Aveva cessato la sua corsa, e a giudicare dal modo in cui il suo bacino
oscillava pesantemente ad ogni passo che compiva, doveva essere allo
stremo delle sue forze, completamente prosciugato dalle energie, oltre
che segnato su tutta l’estensione della pelle da chiazze
nere, umide e purulente.
Era
il primo vero colpo di fortuna che il pegaso ebbe in tutta la giornata,
l’occasione per far guadagnare del tempo alle Custodi, in
attesa del loro arrivo.
Partì
alla carica, al massimo della sua velocità, le zampe strette
sui fianchi per favorire il trapasso dell’aria, la testa
rigida come la punta di una freccia.
Non
tutti i pegasi sono consci di questo fatto, ma dove gli unicorni
padroneggiano la magia, e i pony di terra godono di una straordinaria
resistenza fisica agli sforzi estremi, i pony con le ali hanno
l’abilità innata di trasformare i propri corpi in
autentiche palle da cannone, per usare se stessi come armi
d’artiglieria. La loro particolare conformazione fisica,
unita all’Armonia che permea la loro aura, concentra
l’atmosfera smossa di fronte a loro in un’ogiva che
può assolvere simultaneamente da strumento di distruzione e
cuscinetto d’aria per il successivo impatto. E fu proprio
quello che fece Silver Sprint, quando collise contro il titano poco
sotto l’altezza delle grandi pinne dorsali, con impeto tale
da inarcare in avanti il ventre dell’avversario…
…
un impatto violento che gli fece mancare il fiato per diversi secondi.
Cos’era stato? Si chiese Lui. Cosa mai poteva scaricare
così tanta energia da sbalzarlo in avanti con tanta veemenza?
Si
girò, e quando vide che il colpevole era proprio una delle
creaturine colorate della tipologia dotata d’ali (non la
gialla, bensì parte del gruppo che lo aveva stanato
all’inizio), si rese conto che tutte le sue impressioni sulla
pericolosità di quegli strani esserini si erano rivelate
esatte.
Questo
gli ronzava intorno, compiendo delle agili manovre aeree che Lui
faticò a seguire a causa della sua mole. Se avesse provato a
fuggire, pensò, dandogli nuovamente le spalle, era certo che
l’animaletto non si sarebbe fatto scappare
l’occasione per assalirlo di nuovo. Non aveva altra scelta
che tentare di scacciarlo.
Saettò
un braccio per cercare di placarlo al volo, ma l’esserino
argentato e blu lo evitò senza il minimo sforzo, e anzi
approfittando della sua goffaggine per fiondarsi sul suo fianco
scoperto, impattando nuovamente nella carne.
Una
fitta corse lungo i nervi di Lui, esplodendo in una vampata di dolore.
Le
sei giumente ricomparvero alla soglia del tunnel, precedute dalle
faville dell’incantesimo di teletrasporto che poco dopo si
spensero.
Le
zampe anteriori di Twilight cedettero per lo sforzo, costringendo le
sue amiche ad afferrarla prima che capitolasse al suolo.
«Hoo-wee!
Grandissima, Zuccherino! Ce l’hai fatta, siamo
fuori!»
«Già…
*anf*… ma il difficile arriva adesso.»
Tutte
insieme assistettero alla sbilanciata battaglia che stava avendo luogo
tra il Luogotenente dei Wonderbolts e il Kaiju della caverna, con il
contendente più voluminoso che mulinava le zampe nel
difficile tentativo di fermare le virate secche dell’altro.
Rainbow
Dash, con gli occhi completamente spalancati dinanzi allo spettacolo,
era la più agitata del gruppo. «È
impazzito per caso?! Sta cercando di sconfiggere quel bestione da
solo?!?»
«No,
Dash.» Scosse la testa Twilight, drizzando la schiena.
«Ci sta facendo guadagnare tempo.»
Le
altre si misero in fila dietro di lei, i volti che ardevano di
determinazione.
«Dobbiamo
usare gli Elementi ragazze, è l’unico modo per
vincere. Fluttershy… »
«Lo
so. È necessario farlo, ora lo capisco.» Disse
risentita, ma senza esitare. Sentire la sua risposta
alimentò l’ardore dei loro spiriti. Ora
più che mai, niente avrebbe impedito loro di procedere col
rituale.
Un
paramedico inopportuno propose a Twilight di visitarla velocemente.
Aveva notato sia il suo cedimento all’arrivo, che la macchia
di sangue al lato della bocca, ed era preoccupato per le sue
condizioni. Lei, con molto garbo, disse che se ne sarebbero occupati
più tardi.
Dalla
sua bocca scaturì un urlo che riecheggio per tutta la catena
montuosa.
Era
frustrato e confuso, incapace di bloccare le cariche
dell’esserino volante.
Voleva
che ci fosse un modo per eliminarlo, per evitare che questi continuasse
ad accanirsi. Per giunta, l’aria tossica non faceva che
allargare le profonde ferite sulla pelle, facendo gorgogliare spruzzi
di sangue nero dalle piaghe.
Si
era ricordato della Voce del Capobranco che lo avevano guidato nei suoi
primi passi, la stessa che aveva deliberatamente ignorato fino a quando
non aveva deciso di abbandonarlo, lasciandolo alla mercé
dell’elemento alieno. Ora avrebbe dato qualsiasi cosa
perché ritornasse a parlargli, a dirgli cosa fare. Ma adesso
era da solo, giovane e inesperto. Doveva cavarsela con le sue sole
forze e stabilire se aveva o meno le la stoffa per meritarsi la
sopravvivenza.
La
creaturina volante scese in picchiata su di Lui, mirando sta volta allo
squarcio profondo che si stava allargando sul ventre.
Un
bruciore come di un incendio che divampa nei muscoli, lo fece piegare
in avanti. Si tamponò la ferita con una delle grandi zampe
palmate. Poi si risollevò ruggendo.
Fu
la goccia che fece traboccare il vaso. Giurò a se stesso che
non avrebbe più permesso all’esserino di farsi
beffe di Lui. Alla prossima carica lo avrebbe contrattaccato…
Silver
Sprint, nel frattempo, colse l’occasione per allontanarsi e
recuperare un po’ di energie. Il suo respiro era pesante e
correva dai polmoni alla gola in modo aritmico.
Il
Kaiju invece se ne stava eretto con il collo teso in avanti, reggendosi
il ventre mentre provava a bloccare la fuoriuscita del liquido scuro
(che probabilmente era il suo sangue).
Il
Luogotenente si domandò se tutte quelle picchiate erano
servite in qualche modo a rallentare il nemico, poiché i
soli segni di una qualche ferita erano attribuibili a quelle strane
piaghe che gli maculavano la pelle, e che non erano sicuramente opera
sua.
Mentre
riposava, i ricordi ebbero tempo di ripresentarsi alla soglia,
comprimendogli il cuore. Gli sembrava ancora strano concepire la sua
vita futura senza la compagnia del suo migliore amico…
scacciò quei pensieri con una scrollata del capo,
promettendosi che vi avrebbe dedicato del tempo solo dopo aver
terminato la missione.
Con
la coda dell’occhio avvistò le Custodi, che
correvano verso la loro posizione. Erano pronte a usare i loro
Elementi. Ottima notizia quindi, perché voleva dire che
presto sarebbero ritornati a casa.
Ma
le contrazioni muscolari che attraversarono gli arti del Kaiju poco
dopo lo misero subito in allerta. Si stava infuriando, e stavolta per
davvero.
Il
titano gli ruggì contro divaricando le lunghe zampe
anteriori sui fianchi, come per lanciargli una sfida. “Fatti
sotto” sembrava intimargli con i gesti.
Silver
Sprint capì di essere finito in una situazione scomoda. Non
sarebbe mai stato così stupido da tuffarsi a testa bassa in
uno scontro così impari, ma d’altro canto se non
ci avesse pensato lui, l’animale se la sarebbe presa con le
Custodi.
L’esito
degli istanti seguenti si sarebbe decretato sulla base della sua
intraprendenza. Ma come doveva muoversi?
“Tu
cosa faresti, Bulls?”
“Mi
getterei proprio a testa bassa e gli farei vedere chi è il
padrone del ring!”
Sorrise
mestamente a quella sua fantasia. Sì, quello sarebbe stato
proprio da Bulls. Lui si lanciava nelle cose, e non
gl’importava delle conseguenze delle sue azioni, tanto ogni
cosa si sarebbe sistemata a tempo debito. Così come quando
manomise il macchinario per le tempeste, plasmando gli eventi che li
avrebbero portati ad avvicinarsi.
Non
pensava mai a ciò che faceva, tranne quando aveva sospettato
che entrare nella caverna sarebbe risultato un errore, e aveva avuto
ragione in quel caso.
Ripensarci
gli fece ancora male, ma ora doveva convertire quel dolore in
un’azione di coraggio, e pensare che in gioco c’era
anche il futuro di sua figlia, che non poteva crescere in un mondo
minacciato da un animale come quello.
Partì
come una freccia nel vento attraversando le correnti d’aria,
nuotandovi sopra mentre il suo avversario era più che mai
pronto a riceverlo. Fintanto che avrebbe mantenuto la sua completa
attenzione, le Custodi potevano avvicinarsi in tutta sicurezza.
Silver
capì subito che qualcosa era cambiato quando dovette
schivare all’ultimo istante un fendente che arrivò
trasversalmente, dall’alto verso il basso. Il mostro non si
era fatto solo più agguerrito, ma ragionava attentamente sui
tempi e sulle direzioni delle mosse.
La
successiva arrivò in orizzontale, costringendo il pegaso a
compiere una volata verso l’alto. Allungò un
calcio con la zampa posteriore dandosi velocità con le ali,
ma l’animale lo costrinse a rivedere di nuovo i suoi piani.
Solo la velocità di riflessi impedì al Wonderbolt
di cadere sotto i colpi imperterriti del titano.
“Così
non va!” Decise
di ripiegare per elaborare una nuova strategia. Era troppo sperare di
poter sorprendere il Kaiju con la sola agilità. Se soltanto
avesse saputo dove trovare i suoi centri nervosi… avrebbe
potuto facilmente paralizzarlo conquistando secondi preziosi. Ma sotto
quegli strati di carne e senza una vaga idea della sua fisiologia,
poteva solamente andare alla cieca.
L’animale
protestò energicamente per la sua rocambolesca fuga,
emettendo un ruggito. Non voleva lasciarselo scappare proprio ora che
aveva trovato la grinta per attaccarlo.
Silver
stava per voltarsi a guardare, per verificare se aveva coperto un
po’ di distanza. Non si era accorto che il titano aveva
allungato il passo verso di lui azzerandola del tutto. La sua visuale
divenne all’improvviso scura, con qualcosa che copriva i
pochi raggi del sole mentre si abbatteva contro di lui.
Si
sentì uno schiocco e poi un potente suono detonante che
attraversava il suo corpo.
Una
zampata lo aveva infine raggiunto, e lui si ritrovò a volare
contro la parete di roccia sul fianco della montagna…
«L’HA
COLPITO! RAGAZZE, L’HA COLPITO, DOBBIAMO ANDARE DA
LUI!!» I nervi della pegaso arcobaleno disertarono al loro
compito, e la spinsero nella direzione dove era caduto il suo eroe.
«Dash,
non puoi mollarci adesso! Ci serve l’Elemento della
Lealtà!» Vociò Twilight, spaventata
all’idea di vedersi rovinare tutto per colpa della pegaso.
Anche
Rainbow Dash era spaventata, e questo le impedì di essere
obbiettiva. Non solo le sue amiche, ma tutta Equestria dipendeva da lei
e dalla scelta di abbandonare o meno il gruppo.
Tornò
subito da loro, vergognandosi per essere stata così
impulsiva.
Il
Kaiju ruggì come una bestia del Tartaro, dirigendosi verso
le Custodi. Esse smisero di galoppare, al contrario dei loro impulsi
naturali, che suggerirono invece di voltarsi e scappare, ma
nessun rischio poteva essere equiparato a quello di lasciar vincere il
mostro.
I
suoi passi fecero vibrare la terra, salendo a ogni avanzamento
d’intensità, come un promemoria che doveva
ricordar loro che cosa sarebbe successo se non si fossero mosse.
«Che
facciamo, Twilight?! Come ci dobbiamo comportare?!?» Rarity e
le Custodi continuavano a riporre fiducia nella leadership della loro
amica, ma neppure Twilight aveva una risposta a quell’immane
massa di carne e odio, che procedeva come un uragano verso di loro.
Non
era in grado di afferrare i suoi pensieri, che saettavano di qua e di
là come moscerini minuscoli, e se anche avesse dato ascolto
all’istinto, la sola cosa che le avrebbe proposto sarebbe
stata “Fuggi!”.
Poi
però successe qualcosa, che coinvolse tutte loro
simultaneamente. Ma nessuna, in seguito, avrebbe saputo spiegarsi il
perché fosse successo, e neppure trarre delle conclusioni su
quale fosse l’origine del fenomeno.
I
loro Elementi si attivarono in automatico, senza che vi fosse stata la
volontà da parte del gruppo di procedere nel rituale. Un
nastro di Armonia legò i collier alla corona di Twilight, e
la magia del gruppo si concentrò intorno alla pietra che
rappresentava il suo cutie mark.
Le
giumente a quel punto avrebbero dovuto essere in trance, sollevate per
aria e immobili in uno stato di atarassia, invece rimasero coscienti e
s’interrogarono tra loro, lanciandosi espressioni smarrite,
addirittura porgendosi domande reciprocamente. Non era il tipico
rituale a cui erano abituate, e ulteriore conferma di ciò
arrivò poco dopo, quando dal centro della corona,
l’Armonia concentrata sprigionò
un’immensa ondata di pura energia che si abbatté
come un’eruzione contro il Kaiju in corsa, fermandone
l’avanzata.
Improvvisamente
Twilight capì che cosa stava succedendo, anche se non seppe
darsene una giustificazione. «Ci stanno proteggendo! Gli
Elementi vogliono aiutarci a completare
l’incantesimo!» Era la sola ipotesi che rientrasse
nel suo piano razionale. Questo, oppure il merito andava attribuito al
profondo legame che avevano stabilito negli anni, e che si stava
manifestando in quel momento in tutta la sua potenza.
«Ragazze, su forza! Siamo abbastanza vicine ora,
concentratevi!»
Il
raggio si esaurì e il Kaiju ne uscì barcollante e
svigorito, ma non ci fu tempo per lui di riprendere la carica. In pochi
secondi le Custodi degli Elementi erano già in posizione e
in procinto di completare il rituale, stavolta secondo il procedimento
corretto.
Mentre
i loro zoccoli non toccavano praticamente il suolo, raggi multicolore
andavano a congiungersi nella forma dell’Arcobaleno
dell’Armonia, che immediatamente andò ad
avviluppare il gigante sconfitto.
Il
Kaiju guardava con sincera curiosità quelle fasce di colore
che lo rivestivano come bende dalla testa ai piedi, ma il momento di
assoluta meraviglia andò a spegnersi molto presto…
La
sua carne cominciò a sfrigolare, come se ad avvolgerlo fosse
una smisurata lingua di fuoco. Non era neppure comparabile al raggio
contro il quale si era confrontato poco prima. La “cosa
nell’aria”, contro la quale era vulnerabile e
inerte, era concentrata ora all’interno di quei nastri
colorati, e lo divorava senza che ci fosse modo di sfuggirvi.
Provò
uno strazio infinito, mentre i suoi arti sembrarono paralizzati da
legacci invisibili (o forse era proprio il nastro) e i suoi muscoli
erano attraversati da spasmi violenti che gli precludevano ogni
possibilità di ribellarsi o difendersi. Il suo incubo
più recondito si era appena realizzato, la paura di essere
serrato da un agente di quel mondo alieno.
Poi
qualcosa superò il fracasso dei suoi lamenti e
vibrò all’interno della sua cavità
auricolare.
«Reazione
estrema all’elemento sconosciuto. La
“Proteina” sta decadendo in fretta, riteniamo che
questo possa aver dato il via a una reazione incontrollata…
»
Pur
sembrando strano udirla in quel momento, avrebbe riconosciuto quella
voce tra mille altre simili. Era la stessa che aveva innescato
l’Amnesia.
«Collaudo
del “Mietitore” fallito, le analisi preliminari
indicano la specie come inadeguata all’inoculazione. Si
richiede trasferimento del lotto completo alla
“Digestione”. » Parlava
senza emozioni, disinteressata alla sofferenza di Lui, concentrata anzi
in un compito più importante.
Proteina.
Mietitori. Digestione. Queste tre parole si allinearono criptiche nella
testa di Lui, in attesa di una soluzione.
“Non
capisco” usò
i suoi pensieri per comunicare con la Voce “di
cosa state parlando? Che cosa succede?” Era
forse sciocco desiderare spiegazioni in un momento come quello, ma in
un certo senso, sentiva di avere bisogno di sapere.
La
Voce tornò a rivolgersi a Lui, ed era di nuovo dura e
malvagia, con un timbro ricolmo di acredine. «Ti
abbiamo messo a questo mondo perché ottemperassi al nostro
compito, ma hai fallito. Ora abbiamo un nuovo incarico per te:
Morire!»
Da
quel momento non la sentì più, non
sentì più niente in verità. Solo il
tintinnio dell’arcobaleno mortale, che ricopriva i suoi
ultimi grugniti.
Il
nastro multicolore generò un cono che vorticò su
se stesso come una tromba d’aria, quindi si ritirò
a cominciare dall’imboccatura in cima…
Quando
gli Elementi dell’Armonia ebbero esaurito il loro effetto, il
rituale si concluse con un flash luminoso, che tolse alle Custodi la
loro visibilità per un momento.
Riaprirono
gli occhi sbattendo le palpebre. Ora la priorità era
scoprire in quale modo il rituale aveva agito.
Si
udì un tonfo pesante che sembrò quasi
l’avvisaglia di un terremoto, e una nube di pulviscolo si
sollevò da terra proprio in quel momento nel punto in cui
avrebbe dovuto trovarsi il Kaiju.
Attesero
che la polvere si depositasse, e in seguito che il loro cervello
elaborasse l’immagine che le loro pupille avevano captato.
Gli Elementi dell’Armonia dovevano essere una soluzione
drastica al problema del Kaiju, ma nessuna era pronta a immaginare che
sarebbero stati così
efficaci:
il titano era morto, il suo cadavere era stato bruciato e ridotto a una
carcassa annerita, con uno strato di pelle carbonizzata e fumante che
ricopriva il loro nemico, e fosse profonde nella carne che lasciavano
esposti gli organi interni.
«Ma
che accidenti… »
«No,
non è possibile!» Esclamarono Applejack e
Twilight, quasi in simultanea.
Ma
la reazione peggiore scaturì dalla gola di Fluttershy. La
Custode della Gentilezza fu colta da un attacco d’isteria,
che le fece perdere il controllo, facendola gridare come
un’invasata. «AAAAAHH!! NO, NO, NO!!! Che cosa gli
avete fatto?!? CHE COSA GLI AVETE FATTOOO!?!?»
Strillò così forte da costringere le sue amiche a
tapparsi le orecchie.
«Fluttershy,
calmati ti prego! Non era previsto che finisse
così!»
«Ma
non doveva morire, questo non è giusto!! Non dovevamo
ucciderlo… OH CELESTIA, IO NON DOVEVO
UCCIDERLO!!!» Prese a battersi la testa ripetutamente,
così forte da produrre dei tonfi udibili nell’aria.
Rarity,
nel frattempo, che in diverse occasioni si era dimostrata di stomaco
forte ed era riuscita a trattenere suo malgrado lo stimolo,
benché il corpo la supplicasse di lasciarsi andare, si mise
in disparte e vomitò una smisurata quantità di
materiale sul terreno roccioso, che fu il suo pranzo, insieme ai resti
della colazione e della cena precedenti.
Intanto
la ragione di Fluttershy andava sempre più a spezzarsi.
Cominciò a correre verso la carcassa.
«Fluttershy,
ferma!» Applejack e il gruppo le balzarono addosso per
cercare di trattenerla, ma l’impresa si rivelò
più ardua del previsto. Quando la pegaso era in preda ad
emozioni forti, soprattutto dinanzi ad animali feriti – o
peggio - nessuno era mai abbastanza forte da riuscire a
tenerla.
«LASCIATEMI!
DEVO ANDARE DA LUI, DEVO VEDERE SE STA BENE!!»
«Cerca
di controllarti zuccherino, è andato, ok?! Fattene una
ragione!»
«NO!
NO! NON È VERO, STAI MENTENDO!!»
Ora
stava cominciando ad avvolgersi la criniera intorno agli zoccoli, nel
chiaro tentativo di strapparsela a ciuffi.
«Per
mille maiali grugnenti, Twilight, fai qualcosa prima che si faccia lo
scalpo da sola!!»
Si
misero in due a cercare di bloccarle le zampe anteriori, Rainbow Dash e
Pinkie Pie.
«Tenetela
ferma, ho un’idea!» Twilight lasciò la
propria presa e si pose davanti alla pegaso canarino. Dal suo corno
scaturì un incantesimo che illuminò di una luce
violetta il volto della pony.
«Perdonami
amica mia, ma non ho altre soluzioni… »
I
loro occhi si toccarono per un ultimo istante, tra biasimi e rancori, e
Fluttershy a quel punto s’accasciò a terra. I suoi
muscoli si rilassarono e le sue palpebre si fecero pesanti in un
attimo. Poco dopo sprofondò nel sonno più
profondo.
Le
altre Custodi attesero un po’ prima di fidarsi a lasciarla.
«È
andata, ragazze. Dormirà per un po’
ora.» Avvisò, e mentre lo faceva, si
asciugò una lacrima dall’angolo di un occhio.
«Era
un Colpo
Narcotizzante
quello, vero?» Fu la domanda di Rainbow Dash, alla quale
Twilight rispose brevemente, sibilando un
«Sì… »
Non
andava fiera di ciò che aveva appena fatto, e quando
Fluttershy si sarebbe svegliata, avrebbe dovuto trovare un modo per
fare ammenda con lei. Ma al momento, era stata la decisione
più saggia.
Si
girarono a guardare la carcassa abbattuta. Ora che nel gruppo era
tornata un po’ di serenità, potevano valutare con
più dovizia di particolari i fatti appena accaduti.
Qualcosa
era andato storto, l’alicorno ne era sempre più
convinta. Gli Elementi avrebbero dovuto epurare il Kaiju dal male,
privarlo delle forze quel tanto che bastava a renderlo inoffensivo ai
pony, o al peggio, la giumenta avrebbe accettato che lo riducessero a
una statua di pietra, un’enorme
statua di pietra, così come era capitato a Discord. Ma
quello no… ucciderlo era stato troppo, e il fatto che fosse
successo in quel modo, accresceva ancora di più la
gravità della circostanza.
«Io…
forse sono sciocca a dirlo, ma questo non è affatto
divertente.» Commentò la Custode della Gioia, che
incredibilmente stava dimostrando una grande forza di carattere.
«No,
hai ragione, Pinkie. Non lo è per niente. Non immaginavo che
saremmo arrivate a questo. È come se gli Elementi avessero
agito più di quanto avessero dovuto. Non so, forse dovevamo
fermarci prima, e magari gli esiti a questo punto sarebbero stati
diversi… »
«Sentite,
io comunque vado a vedere come sta Silver.» Intervenne
Rainbow Dash, che ricordò loro la priorità in
scaletta.
«Veniamo
anche noi Dash, aspettaci.» Chiamò con un cenno la
squadra di stalloni rimasta indietro. I quali avevano seguito
silenziosamente tutta la scena.
Applejack
intanto stava esaminando i resti del Kaiju, da una distanza che le
consentiva di vederne tutto il corpo per intero. Non era stata una
curiosità morbosa la sua, aveva visto che qualcosa si stava
verificando all’animale, e quindi si affrettò ad
avvisare le sue compagne. «Ahm, Twilight… mi sa
che questa la dovete vedere.» Non la sentirono subito,
dovette chiamarle di nuovo e a voce più alta, ma quando si
girarono, videro tutte che cosa stava cercando di comunicare la
cowgirl: lunghe strisce di un fumo denso e molto nero si alzavano dalla
carne e dai tessuti molli del Kaiju, ma non erano dovuti alle ustioni
provocategli. La prova giunse quando videro che cosa stava succedendo
al suo corpo, ossa comprese: le costole, ora visibili attraverso la
pelle strappata, si ripiegarono su se stesse, e le articolazioni delle
braccia uscirono dalle proprie sedi, abbandonando gli arti a terra,
privati della tensione muscolare. Poi organi interni e fluidi corporei
si mischiarono insieme in una corrente poltigliosa dal colore
dell’inchiostro, che emanava un tanfo micidiale, avvertibile
anche da lontano, e che si roversò in tanti piccoli ruscelli
nella valle circostante.
«È
come se il suo corpo stesse… marcendo. Ma in pochi
minuti… » Commentò inquieta la cowgirl.
La visione era davvero troppo terribile per i candidi occhi di un pony.
«Andiamocene
via ragazze, vi prego. Non credo di resistere un solo minuto di
più a vedere quella cosa. Abbiamo concluso qua, no? Allora
davvero, andiamocene!» Rarity lottò per tenere
dentro di sé quel poco di cibo che non aveva rigettato.
Si
riunirono alla squadra di soccorso. Gli Elementi dell’Armonia
a quel punto erano tornati tra le fronde della criniera di Pinkie Pie,
quasi le stesse Custodi avessero paura di continuare a indossarli.
Insieme
andarono alla ricerca di Silver Sprint, mentre ciò che
rimaneva del colossale predatore si disperdeva tra le pieghe della
valle montuosa.
EPILOGO
ZERO
Era
strano tornare a Manehattan dopo quello che avevano passato. Avevano
sconfitto il mostro, in modo drastico e definitivo, ma prima che la
città si riprendesse del tutto dagli eventi di quel giorno
(e anche loro), sarebbero dovuti trascorrere molti mesi, forse
addirittura degli anni.
La
sera era scesa sulla metropoli. Gli sfollati venivano distribuiti nelle
varie tende comuni, dove avrebbero diviso un piccolo spazio in attesa
di tornare alle proprie abitazioni (i più fortunati).
Le
Custodi intanto si erano divise per strada, ed ognuna cercava a modo
suo di trascorrere le ultime ore prima di fare rientro a Ponyville.
Pinkie
Pie aveva una promessa da mantenere, ed era tornare dai due piccoli che
attendevano ancora di essere recuperati dai propri genitori. Trascorse
il resto della serata con loro, cimentandosi in svariati giochi di
prestigio, che la aiutarono a distrarsi dei pensieri più
tetri.
Twilight
non aveva idea di dove fosse il resto delle sue amiche. Supponeva che
stessero dando uno zoccolo a qualche squadra di recupero dispersi,
oppure che avessero trovato un posto dove ricaricare le proprie
batterie. Andava bene così, meritavano un po’ di
riposo.
Nel
frattempo si era fatta visitare da un pony infermiere per accertarsi
delle sue condizioni, e l’esito, dopo che le aveva auscultato
il petto e il cuore, e l’aveva esaminata con un incantesimo
specifico per le radiografie, indicava che la Principessa era
perfettamente in salute e che nulla di pericoloso stava tramando nel
suo organismo.
E
il sangue che le era uscito dalla bocca? Aveva domandato in un eccesso
di zelo e di diffidenza. Presto spiegato: si era morsa inavvertitamente
quando il Kaiju aveva urtato la sua barriera magica. Si era fatta
curare per i dolori muscolari e alle ossa, e aveva ringraziato
l’infermiere per poi congedarsi da lui.
Poco
dopo era con Celestia, a riassumerle quanto era successo nella valle.
Doveva informarla del bizzarro comportamento che avevano avuto gli
Elementi dell’Armonia.
«Bruciato?!»
Aveva domandato la Principessa del Sole, sgomenta per la notizia, dopo
che Twilight aveva terminato di esporle il riassunto.
«Completamente!
Non capiamo come sia potuto succedere! Abbiamo seguito il rituale alla
lettera, così come abbiamo fatto in altre occasioni! Solo
che poi, quando ci siamo fermate… il Kaiju era morto,
e… » si ricordò di
quell’altro dettaglio, che non andava trascurato
«poi ha cominciato a degradarsi, come se si stesse
decomponendo! Ma è successo tutto in pochi minuti, non
è possibile che sia stato provocato per cause
naturali!»
Princess
Celestia aveva riflettuto a lungo sul resoconto della sua
ex-studentessa. Lei, come precedente portatrice e Custode degli
Elementi, era al corrente di tutte le sfaccettature di cui erano capaci
quegli strumenti. Ma neppure lei, nella sua ancestrale saggezza, seppe
dare una spiegazione al misterioso comportamento che avevano
manifestato in quell’occasione. «Gli Elementi
agiscono come bilanciatori dell’Armonia»
cominciò a spiegare «pertanto sono loro a
scegliere, a seconda del contesto, quale approccio adottare contro le
diverse avversità di Equestria. In questo caso, devono aver
stabilito che evidentemente non c’era altra garanzia per il
nostro mondo, se non di portare alla morte
quell’animale.» Quest’ipotesi, per quanto
drammatica che fosse, era quella che più si avvicinava a una
soluzione esaustiva dell’accaduto. «Mi dispiace
solo che voi siate state costrette ad assistere a quello
spettacolo.»
«Fluttershy
non l’ha presa bene… »
«Lo
so, mi hanno informato di quello che vi è accaduto. Sei
stata costretta ad addormentarla.»
«Già,
e ora non so neanche se avrò il coraggio di guardarla di
nuovo negli occhi. Lei ci teneva così tanto a risolvere la
crisi in modo pacifico… » Abbassò il
capo per la vergogna di mostrare il suo volto arrossito e le lacrime
che cercavano di uscirle. Ma Celestia le pose uno zoccolo sotto il
mento e la risollevò gentilmente.
«Hai
agito per il meglio, mia cara Twilight. Fosse capitato a me…
non credo che avrei dimostrato la tua stessa prontezza di
spirito.»
Questo
la aiutò a tirarsi un po’ su. Se non altro la sua
ex-mentore non disapprovava la sua condotta, e non aveva commesso
errori durante il compimento di uno dei suoi primi incarichi ufficiali
da Principessa, quindi forse non era così fuori posto ad
indossare quei panni.
«Sarà
meglio che tu ora vada da lei, però. Immagino che
vorrà vedere dei volti familiari quando si sarà
ripresa.»
«Già,
e poi ho delle scuse da farle.» Si strinsero in un tenero
abbraccio e poi ognuna prese una direzione distinta.
Twilight
marciò lentamente verso la tenda in cui sapeva che
Fluttershy era stata sistemata. Era nell’accampamento adibito
ai corpi militari. Più piccolo rispetto a quelli della gente
di Manehattan, ma anche meno gremito, più sorvegliato e
tranquillo. C’era sufficiente spazio per camminare godendosi
il proprio spazio personale.
Gli
infermieri potevano prestare cure ai soldati e muoversi lungo i
percorsi senza temere di fare lo slalom nella calca generale. E ogni
paziente era collocato in una branda isolata dalle altre da un
tendaggio bianco, che ne garantiva la privacy per se stesso e per i
proprio visitatori. Per questo un settore era anche stato destinato
alle personalità più importanti in
città. A ricchi rimasti feriti nei crolli, alle
celebrità dello spettacolo e ai politici troppo boriosi per
accettare di dividere il proprio spazio con dei pony di ceto inferiore.
Twilight
non avrebbe mai gradito che dei privilegi simili le fossero riservati
se si fosse trovata nella stessa situazione, e meno che mai Fluttershy,
che non ricopriva di certo alcuna carica di rilievo. Per sua fortuna,
si trattava solo di una sistemazione temporanea, che sarebbe scaduta al
momento del suo risveglio.
Mentre
la Principessa scorreva tra le file di letti, qualcuno ogni tanto si
fermava e le offriva un inchino, comprensibilmente onorati di vederla
così da vicino, e ogni volta lei doveva insistere
perché non si facesse caso al suo passaggio, che
c’erano sicuramente pony più importanti a cui
prestare attenzioni (i pazienti, per esempio).
Sì
udì distintamente l’urlo di una puledrina alcuni
metri più in là, Twilight quindi si
fermò a guardare la scena.
Lil’
Wing, manto lavanda e criniera riccia, era sfuggita al controllo della
sua foal-sitter e della Guardia Cittadina che le aveva condotte
entrambe nella tenda.
Se
di principio trottava indecisa, spinta nella calca del gran numero di
pony in movimento, desiderando solo di scappare via da tutto quel
trambusto, d’improvviso si era sentita rinvigorire delle
proprie energie non appena aveva riconosciuto la sagoma del padre che
veniva trasportata da una lettiga lungo la corsia.
«Papaaaaà!!»
Aveva gridato scattando poi per raggiungerlo, andando contro alle
proteste dei due pony adulti che erano entrati con lei.
La
foal-sitter tentò di lanciarsi in un breve inseguimento,
quando per poco non andò a sbattere contro una dottoressa di
passaggio, realizzando così che era una pessima idea.
In
questo modo la piccola poté raggiungere il suo unico
genitore senza che nessuno tentasse di fermarla. Persino gli stalloni
che trasportavano la lettiga esitarono a muoversi quando la vocina
della piccola pegaso raggiunse le loro orecchie.
Per
tutto quel tempo Silver Sprint era rimasto cosciente, e infatti aveva
fatto loro cenno di fermarsi per dedicare un minuto a sua figlia.
Lil’
Wing si sollevò in volo facendo ronzare le sue alette.
«Papà,
papà! Cos’hai?! Stai bene?! Che cosa ti
è successo?!?» Lo tempestò con queste e
altre domande. Gli occhietti saettarono tra le bende che avvolgevano il
corpo del padre, e inorridì quando vide il binario di sangue
che saliva lungo il suo mento (appartenente al defunto Bullseye, ma lei
questo non lo sapeva ancora).
«Va
tutto bene, piccola. Ho solo fatto a botte con il mostro.»
Disse lui accarezzandole una guancia con il dorso dello zoccolo.
«Non
voglio che ti succeda come con la mamma, ti prego papà, non
te ne andare!» Le lacrime stavano già riempiendo
il suo visino dolce e indifeso, e la puledrina cominciò a
singhiozzare.
Uno
dei pony della lettiga decise d’intervenire al suo posto.
«Non succederà niente al tuo papà, stai
tranquilla piccola. Dobbiamo solo farlo riposare un po’, e
poi potrete tornare a casa».
Lil’
Wing lo aveva guardato negli occhi con fare sospetto, ma poi fu lo
stesso Silver a confermare le sue parole con un cenno del collo.
Questo, insieme alla zampa anteriore destra, erano le sole due parti
del corpo ad essere libere dai bendaggi in cui era avvolto.
Le
Custodi degli Elementi lo avevano ritrovato in stato
d’incoscienza con un numero imprecisato di fratture allo
scheletro, le quali anche ora, in attesa degli esami, era difficile
affermare quante fossero di preciso. Ma la cosa più
importante, il grande sollievo per Rainbow Dash, sua figlia, e
così di tutti quelli che lo conoscevano, era stato scoprire
che era sopravvissuto al confronto con l’animale.
La
ferita più grande ed insanabile era però nascosta
alle lenti dei medici e alle loro magie. Una ferita che si era aperta
nel suo cuore e che riguardava Bullseye, l’amico che ora non
c’era più. Quello non era però il
momento dì esibire la sua pena, doveva mostrarsi forte per
sua figlia, che aveva già di suo il ricordo di un terribile
lutto, della mamma che oramai non c’era più da un
anno.
«È
vero? Mi prometti che torniamo a casa?» Chiese lei con gli
occhi rossi e quella vocina acuta che gli suscitava sempre una
tenerezza incredibile, dove la malattia che l’aveva colpita
non riusciva a discostarla dal profondo affetto che nutriva per il
papà.
Silver
Sprint, con il corpo attraversato dai dolori nonostante gli incantesimi
anestetici, cedette al bisogno di commuoversi, rinunciando per una
volta all’immagine manifesto che doveva dare di fronte a
tutti.
«Sarò
presto a casa, piccola. Te lo prometto.» Fece una pausa e
sorrise, conferendo così una meravigliosa sospensione alla
risposta. «E quando mi sarò ripreso, ti
farò vedere come si fa un Arcoboom Sonico!»
La
notizia, che impiegò un po’ a essere elaborata,
colmò d’orgoglio gli occhietti della figlia, che
sostituirono la sua profonda paura di rimanere orfana una seconda
volta, con un acceso e rinnovato entusiasmo. Si tuffò su di
lui cingendolo con le zampette, e lui la lasciò fare,
nonostante le ferite su tutto il corpo. La strinse a sua volta con il
solo braccio libero, mentre lei piangeva, questa volta di gioia.
La
foal-sitter, rispettosamente in disparte, sorrise a sua volta
all’annuncio di Silver Sprint.
Più
in là di due file di letti, sbirciando nello spazio tra due
tendine, anche Twilight fu sollevata del lieto fine della loro
famiglia, ma questo le ricordò anche che doveva ancora
trovare Fluttershy. Si rivolse a qualcuno per chiedere informazioni su
dove trovarla, quindi rispettò alla lettera le indicazioni
fornitele.
La
tenda era spalancata e concedeva uno spazio di due metri percorribili
intorno al letto, Twilight vi trovò dentro una giumenta dal
manto rosa e la criniera arancione in camice bianco, che
levò il disturbo non appena lei entrò.
La
sua amica era ancora addormentata, avvolta da una sottile coperta che
si adeguava perfettamente al clima caldo di quella stagione. Gli occhi
si agitavano sotto le palpebre, indice che stava sognando, e che la
scena non doveva esserle particolarmente gradita, almeno a giudicare
dalla smorfia che le contraeva il volto.
Chiuse
il tendaggio, si sedette su uno scomodo sgabello adagiato vicino al
comodino, e rimase in attesa che succedesse qualcosa. Fuori era udibile
il via vai generale, ma il fracasso, in qualche modo, era escluso dalla
tenda. Qualcuno gridò di farsi portare una flebo con un
medicinale il cui nome si disperse facilmente nel baccano generale, ma
anche questo svanì rapidamente dall’attenzione
dell’alicorno. In quei minuti che Twilight trascorse
contemplando la sua amica, ci fu spazio solo per loro due.
La
Principessa fremeva per l’attesa, impaziente di scoprire
quale sarebbe stata la reazione di Fluttershy al momento del risveglio.
Prese
quasi sonno, e le sue palpebre erano in lotta contro la stanchezza,
quando un movimento sotto la coperta la fece ridestare. Era forse stata
un’impressione? Un inganno mentale dovuto
all’impazienza e al desiderio di rivederla in zoccoli?
No,
la zampa anteriore sinistra si spostò scivolando dal bordo
del letto, quindi fu riportata al petto, stringendo a sé la
coperta. Fluttershy aprì gli occhi fissando il pallido cono
della tenda. Era confusa, ma ancora troppo assonnata per mettere in
chiaro le informazioni che riceveva.
Twilight
si avvicinò di fretta al suo capezzale, prima che
cominciasse ad agitarsi.
«Ehi
Fluttershy.» La salutò con un approccio prudente e
leggero.
«Twilight?
D-dove mi trovo?» Chiese con la voce impasticciata e
strizzando le palpebre.
«Ti
abbiamo portata qui dopo che il Kaiju è stato
sconfitto» Evitò cautamente di usare il termine
“ucciso”. «Stiamo tutte bene. Le altre
hanno deciso di separarsi per un po’ mentre aspettavamo che
tu ti riprendessi.»
«Capisco.»
La pegaso gialla si strofinò gli occhi. «Che ore
sono adesso?»
«Le
dieci, di sera… no, scusa… le dieci e
mezza.» Si corresse dopo aver verificato sulla modesta
sveglia posta sul mobiletto. Ammesso e non concesso che
l’orario segnato fosse quello esatto.
Fluttershy
chiuse ancora gli occhi come per riflettere sulla risposta.
«Ho dormito per cinque ore quindi.»
«È
colpa mia.» Spiegò con imbarazzo guardandosi in
giro. «Sai, in genere l’effetto non dura per
più di sessanta minuti, se a farlo è un mago di
medio livello. Ma evidentemente questa regola non si applica
a me… devo imparare a dosare le mie capacità la
prossima volta… »
Malgrado
gli sforzi per evitarli, sentiva che gli occhi dell’amica
erano come schegge roventi che le penetravano la mente. Si conficcavano
a fondo nella sua coscienza e per quanto ci provasse, non riusciva a
fare nulla per rimuoverle.
«Fluttershy…
»
«Sì,
adesso mi ricordo tutto. Ricordo che siamo state costrette ad
affrontare il Kaiju con gli Elementi dell’Armonia…
e che poi lo abbiamo ammazzato… »
Oh,
quanto fu tagliente la scelta di parole che aveva adottato.
«Fluttershy,
davvero, io… »
«Non
serve, Twilight. Capisco perché sei stata costretta a farlo.
Capisco che non è colpa vostra (o mia) se è
andata a finire in quel modo. Ho sbagliato a reagire in quel
modo… ero… » cominciò a
piangere, le parole le uscivano a singulti tra un gemito e
l’altro «ero così…
convinta… che… che si potesse fare
qualcosa… per salvarlo… »
«Oh
amica mia… cara amica mia… » le
andò vicino e la abbracciò «piangi se
devi, ok? Ma per favore, fatti forza… lo abbiamo fatto per
il bene di Equestria. Con questo gesto abbiamo salvato la vita a
migliaia di pony, forse a milioni… » Si tennero
forti e strette, e insieme condivisero le lacrime.
«Lo
so, lo so… è solo che… devo farmene
una ragione ecco… »
Piansero
fino a quando l’ondata d’emozioni
confluì fuori dai loro cuori. Quando poi Twilight
terminò le sue e non udì più i
singhiozzi da parte dell’amica, decise di lasciarla.
In
un cassetto del comodino c’erano dei fazzoletti di carta
inscatolati. Ne prese uno per sé e con la levitazione e ne
passò un altro a lei, aspettando che si risistemasse.
«Dovremmo
andare dalle altre… immagino che siano stanche morte e
vogliano tornare a casa» Disse la pegaso ora che aveva
recuperato un po’ di serenità.
«Ahm,
Fluttershy… c’è una cosa che ti vorrei
chiedere… »
«Aha,
dimmi?» La guardò con curiosità.
«Ecco…
forse non è il momento adatto per chiedertelo…
» ripensò a quel pomeriggio, e a come si era
svolta tutta la scena «oggi, nella caverna… quando
il Kaiju si è infuriato e ha cominciato ad
agitarsi… mi stavi dicendo qualcosa… hai detto
che “non è di questa terra”…
che intendevi dire?»
La
domanda intristì nuovamente la pegaso, Twilight se ne
pentì immediatamente. La fretta è cattiva
consigliera, ma oramai la frittata era fatta.
«Non
saprei… come ti dicevo, quando parlo con gli animali entro
totalmente in sintonia con loro, ma oggi è stato
diverso… non è che non ci riuscivo… ma
era come se qualcosa mi escludesse… »
«Come
“ti escludesse”?» Corrugò la
fronte.
«È
difficile da spiegarsi… non mi è mai capitato di
provare qualcosa di simile prima d’ora… ogni
animale possiede un proprio linguaggio, ed io ero convinta di avere
scoperto quale fosse il suo, nei momenti in cui grugniva o ringhiava.
Ero certa di riuscire a comunicarci, e ci stavo anche riuscendo,
credimi!»
«Lo
so, Fluttershy, l’ho visto con i miei occhi.»
«Eppure
quando lo facevo si metteva di mezzo questo
“fattore”, che mi cacciava fuori ogni volta che ci
riprovavo. Il Kaiju protestava, e quando lo faceva la mia testa mi
faceva male da impazzire, non riuscivo neanche a stare sulle zampe, da
quanto mi faceva male!» Si fermò per riprendere
fiato. Non era Pinkie Pie, non era abituata a fare discorsi lunghi e
prolissi. «E poi c’era dell’altro. Pena,
dolore, tristezza, un senso di abbandono infinito e
d’impotenza… nessuna creatura che abbia mai
incontrato a Equestria mi aveva fatto sentire delle emozioni
così nere. Da dovunque fosse arrivato, casa sua non doveva
essere un luogo felice in cui vivere… »
Twilight
era rimasta ad ascoltare senza avere frasi da renderle. Se questo era
veramente quello che l’amica aveva avvertito da quel
tentativo di dialogo, ora comprendeva meglio la sua ostinazione nel
volerlo salvare a tutti i costi.
L’arrivo
di quella creatura aveva portato morte e paura su tutto il regno, ma se
n’era andata lasciandosi dietro molti misteri, che forse non
avrebbero mai avuto una risposta.
Provò
a deglutire ma si rese conto che la sua bocca era secca e arida, allora
si avviò verso la tenda scostandola lentamente. Come lo
fece, i rumori dell’accampamento si fecero più
intensi, e la realtà della crisi al di fuori
penetrò nel loro spazio intimo prendendosi la loro
attenzione.
«Vado
ad avvisare i dottori che ti sei svegliata, tu distenditi ancora un
po’ finché non sarò tornata…
» le disse in tono mesto.
«Va
bene… ahm, Twilight…»
«Sì?»
«Pensi
che sia tutto finito, non è vero? Insomma…
torneremo alla nostra vita di sempre?»
La
domanda era di quelle importanti, ed era difficile dare una risposta
considerate le poche informazioni che avevano raccolto. La
città stava affrontando una calamità senza
precedenti, e molti di quei danni sarebbero rimasti come una ferita
indelebile, nelle strade e nei loro cuori. Ma c’erano anche
degli aspetti positivi in tutto ciò, come il fatto che alla
fine il Kaiju Eremita era stato sconfitto, e tra un po’ di
lui ne sarebbe rimasto solo uno spiacevole ricordo.
Sì,
in fondo una speranza c’era. E il cuore dei pony era forte e
coraggioso, abbastanza per affrontare le difficoltà che li
attendevano.
Con
questo pensiero in testa, presa tra gli zoccoli la zampa della sua
amica e commossa le disse: «Sì, amica mia.
È tutto finito… »
CONTINUA
IN “Fall
of The Kingdom: EQUESTRIA RIM”
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