Sei baci

di Akemichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Game over. Try again? ***
Capitolo 2: *** Una scommessa vinta ***
Capitolo 3: *** Cambiare ruolo ***
Capitolo 4: *** Il segreto ***
Capitolo 5: *** Scoperti ***
Capitolo 6: *** Maledizione e benedizione ***



Capitolo 1
*** Game over. Try again? ***


 
Game Over. Try again?





La "Scuola Privata per il Recupero Anni Scolastici Barbabianca" aveva molti servizi, che andavano dai corsi serali all'aiuto alla preparazione degli esami, fino a una vera e propria scuola intensiva che permetteva di recuperare l'anno di bocciatura. Non si facevano, invece, ripetizioni a domicilio.
Tuttavia Monkey D. Garp era un vecchio amico e commilitone dai tempi delle lotte del '68, per cui Newgate aveva acconsentito alla sua richiesta, quando Garp gli aveva spiegato che, purtroppo, nemmeno a suon di pugni sarebbe riuscito a convincere il nipote a recarsi alla sede della scuola per le ripetizioni.
Così Marco, dato che i suoi colleghi l'avevano praticamente incastrato con la scusa che era il migliore per occuparsi di ragazzi difficili, si ritrovava davanti alla porta della residenza Monkey, con la sua cartella dei programmi scolastici sottobraccio. A dire la verità, a lui non dispiaceva nemmeno così tanto, perché amava essere un insegnante e una guida, così come Newgate lo era stato per lui. Lo infastidiva solo il pensiero che gli altri l'avessero fatto di proposito.
Aprì la porta, senza nemmeno chiedere di chi si trattasse, un ragazzo dallo sguardo vispo, i capelli corti spettinati e una cicatrice sotto l'occhio sinistro che gli conferiva un aspetto sbarazzino. Troppo giovane, pensò Marco, per essere la persona che stava cercando.
«Ciao» lo salutò con un sorriso. «Sto cercando Ace. Sono qui per le ripetizioni.»
L'altro lo guardò perplesso, poi alzò le spalle e gli fece cenno di entrare. «Ace non c'è» gli comunicò.
Marco controllò l'orario: erano le quattro, com'era stato stabilito dal calendario che Garp gli aveva mandato. «Tu sei...?» chiese, mentre si chiudeva la porta alle sue spalle e contemporaneamente pensava che non ci fosse granché sicurezza in quella casa.
«Rufy.» Era nel salotto, con già in mano il joystick della sua Wii e non sembrava particolarmente preoccupato della situazione. Stava giocando a "Call of Duty" e, a quanto pareva, era preso da una delle missioni principali. «Mi sto allenando che ho una sfida al Gamestop la prossima settimana» gli spiegò, con un grosso sorriso in viso.
«Capisco» rispose gentilmente Marco. Doveva trattarsi dell'altro nipote di Garp, quello biologico, perché, da quello che aveva capito dalla spiegazione di Newgate, il suo futuro alunno era stato adottato. «Posso sapere quando tornerà Ace?»
Rufy alzò le spalle. «Boh. È al lavoro.»
«Sapeva che venivo?»
«Io no. Forse Ace sì, ieri borbottava insulti contro il nonno.»
Marco sospirò: avrebbe dovuto immaginare che sarebbe stato difficile, ma sperava che, poiché Garp era un marine, ci fosse almeno più disciplina nel presentarsi alle ripetizioni. Tuttavia, sapeva anche bene che con certe persone bisognava iniziare a essere più testardi.
«Ti dispiace se lo aspetto?» disse, appoggiando la sua cartella sul divano e iniziando a togliersi la giacca, come a indicare che per lui non c'erano problemi.
«Fa' pure.» Rufy si guardò un attimo attorno e poi recuperò un secondo joystick. «Vuoi giocare?»
«Perché no?» Marco adorava i videogiochi, erano una sua passione a cui in media nessuno credeva, dato che aveva la fama e l'aspetto di un professore di altri tempi. Però aveva quella particolare passione, che gli tornava estremamente utile nell'insegnare ai ragazzi e che, per di più, condivideva con tutti i suoi colleghi. I giorni di ferie venivano passati spesso a giocare a "World of Warcraft" in sala conferenze.
Per altro, se doveva aspettare, tanto valeva farlo divertendosi. Era sempre meglio farsi vedere dai propri studenti allegri e per nulla irritati dal loro atteggiamento disfattista. E Rufy, come compagno, era davvero molto bravo, anche se non al suo livello. Quello che era certo era che si impegnava parecchio.
«Ah, accidenti!» esclamò Rufy seccato dopo l'ennesima sconfitta. «Facciamone un'altra!»
Ma prima che Marco potesse accettare, anche se le sue braccia avevano iniziato a fargli un po' male dopo tutto quell'esercizio, sentirono la porta aprirsi. «Rufy! Sono tornato!»
Marco ebbe finalmente l'occasione di posare gli occhi sul suo futuro allievo e, dovette ammetterlo, rimase spiazzato. Era piuttosto bravo a comprendere i ragazzi con cui aveva a che fare, ma Ace sembrava differente da come se l'era immaginato.
«Ciao!» lo salutò allegro Rufy, avvicinandosi a lui. «Lui è Marco, ti stava aspettando. Sapevi che doveva venire?» aggiunse, notando che Ace lo stava osservando.
«Ah...» commentò lui, scrutando Marco attentamente. «Aspetta da molto?» domandò.
«No, non da tanto...» Marco guardò l'orologio e notò che erano già le sette e mezza di sera. Era in quella casa da più di tre ore e non se ne era accorto. «Tuo nonno non ti aveva avvertito?»
«In realtà me lo sono dimenticato... e pensavo che il nonno stesse scherzando» aggiunse, mentre teneva ferma la testa di Rufy sotto il suo braccio per impedirgli di curiosare nella borsa della spesa che portava con sé. «Le chiedo scusa per l'inconveniente. Spero che mio fratello non le abbia dato troppo fastidio.»
«Non l'ho fatto!» protestò Rufy, liberandosi finalmente dalla sua presa e incrociando le braccia, con un broncio in viso.
«Non l'ha fatto» confermò Marco sorridendo e meritandosi un'occhiata complice da parte di Rufy. «Non ci sono problemi, comunque, anche se preferirei essere avvertito la prossima volta. Possiamo pure iniziare adesso.»
Ace lo guardò sbattendo le palpebre, poi i suoi occhi saettarono sull'orologio appeso nel corridoio, prima di tornare su di lui. «Ma è quasi ora di cena... Non ha da fare...?»
«Vivo da solo e non ho orari.»
«Be', io sì» ribatté Ace, stavolta con più convinzione. «Devo preparare la cena anche per Rufy e poi non riuscirei a concentrarmi a stomaco vuoto.»
«Benissimo» annuì Marco. Non aveva minimamente intenzione di lasciare la presa. Ace l'aveva stupito, come reazione, perché pareva genuinamente dispiaciuto per avergli fatto perdere tempo, ma in ogni caso non poteva permettergli di scappare le prime due ore di lezione. Non faceva parte della sua etica. «Possiamo fare dopo cena. Oppure puoi mangiare mentre studiamo. Sono stato pagato per due ore e ho intenzione di meritarmi lo stipendio.»
I due si fissarono per un attimo, poi Ace sospirò seccato. «E va bene, se proprio vuole.» Estrasse il portafoglio dalla tasca dei jeans e diede un mazzo di banconote da cinque euro a Rufy. «Vai a prendere un po' di roba take away dal nostro indiano di fiducia.»
«Evvai!» esultò Rufy felicemente. Lanciò sul divano senza troppe cerimonie il joystick che aveva al polso e sparì nella sua camera, per tornare poco dopo con le scarpe da ginnastica ai piedi.
«Fai attenzione al resto, non come l'ultima volta!» gli gridò dietro Ace, ma Rufy aveva già sbattuto la porta d'ingresso dietro di lui. «Manco ha preso le chiavi, il furbo...» mormorò fra sé, scuotendo la testa. Poi fece un leggero segno con il capo a Marco di seguirlo fino alla sua camera da letto: la condividevano lui e Rufy ed era incredibile notare come le due parti si riconoscessero immediatamente per la precisione di un lato e l'incredibile caos di un'altra.
Ace liberò una sedia da un cumulo di vestiti tutti arrotolati fra di loro, che poi gettò sul letto ancora sfatto che doveva appartenere a Rufy. «Mi dispiace per la confusione» disse. «Non ho avuto il tempo di sistemare questa settimana.»
«Ho visto di peggio» gli assicurò Marco, con la mente che vagava al suo periodo universitario, in cui aveva il suo migliore amico Satch come coinquilino. Almeno una parte di scrivania era in perfetto ordine, linda, come se non fosse usata da tempo, per cui ne approfittò per appoggiarvi la sua cartella e iniziare a tirare fuori i suoi appunti per i programmi di terza del Liceo Scientifico Tecnologico. «Tuo nonno mi ha detto che devi recuperare quattro materie: storia, letteratura italiana, biologia e chimica, giusto?»
Ace si accomodò sulla sedia accanto a lui, gambe larghe e schiena totalmente appoggiata allo schienale. Annuì in maniera distratta.
«Da quale vuoi iniziare? In due ore possiamo farne una sola.»
Ace alzò le spalle. «Guardi, glielo dico per onestà: lo faccio per lei. A me non me ne potrebbe fregare di meno di questa storia.»
 
***
 
Nel corso dei suoi anni come insegnante, Marco aveva imparato a distinguere i suoi studenti in tre macrocategorie. Ovviamente trattava ognuno di loro individualmente, ma spesso la generalizzazione era utile quando ancora non li conosceva bene. La prima categoria era quella dei ragazzi bravi, ma con pessimi insegnanti; la più facile da trattare, solitamente. La seconda era dei ragazzi volenterosi, ma non altrettanto bravi; con loro si riusciva a lavorare, anche se con difficoltà. E poi c'era la peggiore di tutte: il gruppo di persone a cui, sostanzialmente, non fotteva un cazzo.
Marco aveva inserito Ace in quest'ultima categoria. Erroneamente.
Certo, non aveva mai dato segni di essere interessato allo studio e continuava a presentarsi in ritardo alle loro lezioni, ma non era uno scansafatiche. Lavorava veramente, anche otto ore al giorno, al mercato del quartiere. Lui era intelligente e i suoi insegnanti erano ottimi, solo che, da una parte, non aveva il tempo di studiare, dall'altra sembrava avere la convinzione che studiare, semplicemente, non gli servisse. Non sprecava energie.
Marco era convinto che fosse in parte da attribuire alla situazione familiare: né lui né il fratello avevano i genitori, vivevano con Garp che però spesso era assente anche per dei mesi, dato che lavorava in marina e doveva imbarcarsi. Erano anni che Ace si occupava del fratellino praticamente da solo.
«Non hai fatto i compiti nemmeno stavolta, vero?» commentò Marco, in tono quasi rassegnato, mentre si accomodava in quello che ormai era diventato il suo posto fisso alla scrivania.
«Mi dispiace.» Anche se, dall'alzata di spalle e dal suo sorriso appena accennato, si capiva che non gli dispiaceva per niente. «Ho lavorato molto.» Ed era vero, Marco non poteva negarlo: aveva controllato di persona.
Non aveva altra scelta per trovare un modo di sboccare Ace e di convogliarlo verso la scuola. «Quanto prendi al lavoro?»
Ace, che si era seduto di fronte a lui, lo scrutò intensamente per decidere se poteva fidarsi. «Cinque euro all'ora. È tutto in nero però...» ammise. Nero significava soldi netti.
«Se ti dessi il doppio, verresti a lavorare per me?» Marco aveva incrociato le mani e lo osservava in maniera molto seria.
«Per lei...?» Ace sembrava perplesso. «Ha un banco al mercato?»
«No, ma avrei bisogno di qualcuno che mi aiuti con i lavori di casa e anche con l'organizzazione dell'agenda» spiegò Marco. «Dato che a scuola mi occupo anche della parte amministrativa, non ho mai tempo. E se ti pagassi il doppio potresti guadagnare la stessa cifra e lavorare di meno, così ti rimarrebbe il tempo per studiare.»
Ace alzò un sopracciglio. «È sicuro di essere un professore? Mi sembra che i conti qui non tornino.»
«Perché?»
«Be', in pratica mi pagherebbe con i soldi delle mie ripetizioni!»
Marco rise. «Vero. Ma io comunque guadagnerei qualcuno a sistemarmi casa, non sarebbero soldi buttati. Perché tu lavoreresti, giusto?»
«Certo!» si offese Ace. «Non lo so, prof... Mi pare comunque di truffarla.»
«Ti darò il triplo: quindici euro all'ora.» Se li poteva permettere, il suo stipendio da insegnante privato era ottimo e, vivendo da solo, non aveva grandi spese. Non era nemmeno una persona con grandi vizi, a parte i videogiochi. «E sicuramente sarà meno faticoso che scaricare casse al mercato.»
Ace aveva spalancato gli occhi: in un periodo del genere guadagnare così tanto al netto doveva essere assurdo. Non per Marco, ovviamente: in cambio avrebbe avuto la possibilità di riportare un ragazzo sulla retta via, per quanto lo riguardava non c'era ricompensa più grande.
«Oh, sono soldi suoi, prof!»
 
***
 
«Lei è peggio di mio fratello, prof...» aveva commentato Ace quando, la mattina di martedì, si era presentato alla soglia della sua casa alle otto di mattina, come era previsto. Puntuale, quando di trattava di lavorare.
In effetti, la casa era un completo disastro: c'erano piatti e pentole sporche in cucina e sul tavolo del salotto, vestiti sparsi ovunque e spiegazzati, persino i sopramobili e mobili stessi parevano messi in disordine. Marco aveva studiato l'appartamento di Satch per cercare di ricreare in maniera credibile un ambiente che avesse bisogno di qualcuno che se ne occupasse, dato che lui, solitamente, teneva tutto in perfetto ordine. Però il suo piano non avrebbe funzionato, se non avesse avuto qualcosa da far fare ad Ace in cambio del suo stipendio.
«Per questo ti ho assunto, no?» commentò, con un sorriso.
«Sì, ma me ne sto pentendo» rispose Ace divertito. «Penso di riuscire a sopportare solo un Rufy al mondo.»
«Spero di essere un po' più preciso di lui allora» disse Marco, che doveva ammettere a se stesso di aver fatto uno sforzo notevole per presentarsi come un disordinato, considerando la sua mania per la precisione.
Almeno il foglio con l'elenco di cose da fare l'aveva lasciato in bella vista ed era in ordine. «Qui ce l'elenco di tutte le cose da fare. Ti ho scritto anche dove puoi trovare aspirapolvere, detergenti e tutto. Il mio numero di cellulare ce l'hai, se hai bisogno di qualcosa.»
Ace aveva appoggiato il suo zaino sull'unica parte del divano ancora libera e poi si era dato all'esplorazione della casa, evitando accuratamente tutta la roba che era sparsa per terra.
«Va bene» annuì. «Ci sarà da fare qui.»
«Io torno per le cinque» disse Marco. «Ricordati che abbiamo due ore di ripetizioni da fare e che ti ho lasciato anche i compiti per oggi.» Ignorò la sua alzata d'occhi alla menzione dello studio e allungo versò di lui un mazzo di chiavi. «Queste sono le mie di riserva, così le hai se succede qualcosa.»
Ace le prese e se le rigirò fra le mani, facendole tintinnare. Pareva indeciso, poi fece un cenno del capo. «Alle cinque» ripeté.
«Con i compiti fatti» precisò Marco, quindi afferrò giacca e cartella per la scuola e uscì. «Buon lavoro e buono studio.»
«Buon lavoro, Mister Wayne!» ribatté Ace un attimo prima che chiudesse la porta dietro di lui, facendolo ridere. Anche perché non riteneva che Batman avesse la batcaverna ridotta in quelle condizioni, né che Alfred fosse uno che necessitava di ripetizioni per non rischiare la bocciatura.
Nonostante l'idea di assumere Ace fosse stata sua e continuasse a ritenerla il sistema migliore per dargli il tempo di studiare, Marco rimase inquieto per tutto il resto della giornata. Ace sapeva come prendersi cura di una casa, in fondo viveva da solo per molti mesi l'anno, e sicuramente era un gran lavoratore, tuttavia Marco lasciò la scuola persino prima dell'orario previsto, pur di rientrare alle cinque esatte come aveva predetto.
«Sono qui...» Aprì la porta e rimase stupefatto: il suo appartamento era già tornato all'ordine che gli spettava, senza più qualcosa di fuori posto. Per altro era pulitissimo. «Non credo proprio di essere io Batman...» commentò, sinceramente sorpreso, mentre entrava e continuava a guardarsi intorno.
Ace era accomodato sul divano a giocare alla playstation - tra l'altro aveva ordinato le sue console e i suoi videogiochi in ordine alfabetico e di uscita - e palesò la sua presenza ridacchiando. «Dovevo pur occuparle queste otto ore.»
Marco gli scoccò un'occhiata critica. «Fammi indovinare... Non hai fatto i compiti.»
«Ops...» Ace assunse un'aria colpevole. «Però le ho fatto la spesa. Il suo frigo piangeva.»
Marco tirò un sospiro esasperato. Forse era colpa sua, che aveva ridotto la casa in condizioni eccessive, lasciando che Ace se ne approfittasse. Però era solo il primo giorno e almeno avrebbero potuto iniziare a fare ripetizioni a un orario umano, non come al solito che Ace arrivava con ore di ritardo e studiava ruminando perché non aveva cenato. Andò il cucina e aprì il frigo, che adesso praticamente quasi esplodeva dalla quantità di roba che vi era stata stipata dentro. Probabilmente non sarebbe riuscito a finirle nemmeno fra un mese.
«Quanto ti devo per la spesa?»
«Ci sono gli scontrini sul tavolo» gridò Ace, che era rimasto sul divano a giocare. «Ho anche cancellato quello che mi sono comprato io per pranzo, i conti dovrebbero essere corretti.»
Marco li prese e li controllò: non c'era un errore di matematica e dovette anche ammirare la precisione con cui erano stati fatti. Di nuovo, si chiese perché Ace non potesse essere altrettanto diligente nello studio, date tutte le sue buone qualità. Continuò a fissare gli scontrini ammirato: si era preoccupato per nulla, tanto che Ace gli aveva appena dimostrato che aveva fatto bene a riporre in lui la sua fiducia.
Tornò in sala, prese il portafoglio dalla borsa e ne estrasse i contanti che aveva ritirato al bancomat apposta per pagarlo e glieli lasciò a fianco, sul divano. Avrebbe voluto fare conto pari e ignorare i centesimi che venivano fuori dal conto della spesa, ma poi aveva pensato avrebbe rispettato la precisione di Ace nel raccogliere gli scontrini.
Vide Ace fissare i soldi con la coda dell'occhio, prima di decidersi a mettere in pausa la partita. Li prese e se li infilò in tasca senza troppe cerimonie.
«Non li conti?»
«Non ce n'è bisogno. Sarebbe davvero un pessimo insegnante se sbagliasse, no?» aggiunse, voltandosi a guardarlo con un gran sorriso.
«Immagino di sì» rispose Marco divertito. Apprezzava la fiducia. «Dai, andiamo, è ora di studiare» lo spronò poi, vedendo che aveva ripreso a giocare.
«Non posso finire la partita?» domandò Ace, con sguardo supplicante. Poi allungò una mano a indicare la sua collezione di videogiochi, che ora era stata riposta in ordine sulla libreria, com'era giusto che fosse. «Non ho mai visto così tanti giochi in vita mia, pare un negozio! Alcuni non li avevo manco sentiti nominare.»
«Mi piacciono» ammise Marco. Per altro avere un argomento di conversazione con i suoi alunni era sempre stato utile e, in quello specifico caso, anche piacevole. «Ho già ordinato anche i due nuovi Assassin's Creed» aggiunse, dato che stava giocando proprio a uno di quella serie. «Escono a novembre.»
«Mai visto un prof simile» scosse la testa Ace, ma con un gran sorriso sul volto.
«Resto comunque un professore, eh» specificò Marco divertito. «Te li presto, se vuoi, ma adesso dobbiamo proprio andare a studiare. Almeno tornerai a casa in tempo per preparare la cena» specificò. Aveva imparato che alludere al fratello minore era utile per spronarlo.
«A dire la verità, Rufy stasera non c'è, rimane a dormire da un suo amico» rispose Ace, senza staccare gli occhi dallo schermo. Poi mise un attimo in pausa e si voltò. «Potremo prima finire la partita assieme e dopo studiare, tanto abbiamo tempo. E c'è pure un po' di storia in questo, non è che ne ho scelto uno a caso, eh.» Pareva decisamente convinto e soddisfatto della sua decisione.
Marco incrociò le braccia e ricambiò lo sguardo: era come se entrambi sapessero che non potevano resistere al richiamo di un videogioco. «Controproposta» disse allora. «Andiamo a studiare adesso, ceniamo e poi giochiamo dopo. Puoi anche fermarti a dormire, se vuoi. Tanto, con tutta la roba che hai comprato, ci possiamo sfamare un esercito.»
Ace esaminò la proposta. «Davvero posso restare a dormire?»
«Certo, ho un divano letto. Se ti accontenti del mio pigiama...»
«E dopo possiamo giocare?»
«Puoi anche scegliere a cosa» rispose Marco. L'entusiasmo di Ace lo stava contagiando.
«E va bene, allora, andiamo a studiare, prof. Su, prima che mi venga fame!»
Non si poteva dire che le cose andassero esattamente come Marco le aveva previste all'inizio di quella storia, ma la direzione che aveva preso per sbloccare Ace era quella giusta. Anche se, forse, si trovava ad essere più esaltato lui dell'intera faccenda.
 
***
 
Così, senza che Marco se ne accorgesse, si era creata una routine. Ace veniva da lui al mattino e lo aspettava finché non tornava dal lavoro. Se Rufy era fuori con gli amici, cenava e dormiva, altrimenti tornava a casa. I giorni per le ripetizioni avrebbero dovuto rimanere tre, ma dato che Ace era a disposizione, Marco ne approfittava per spronarlo a studiare maggiormente, anche se il più delle volte finivano a giocare con i videogame.
Come quella volta, quando Ace aveva candidamente fatto presente che non era mercoledì e che quindi nessuno l'aveva pagato per fargli ripetizioni, per cui non si riteneva obbligato a fare alcunché. Così avevano tirato fuori Kindom Hearts II e, per vendetta, Marco aveva iniziato a parlare in inglese a caso.
«Comunque è insopportabile» commentò Ace seccato, dopo l'ennesimo game over perché non capiva le istruzioni in inglese. «Sarà per questo che non ha una moglie e deve pagare me.»
«A parte il fatto che sono omosessuale, dici?» sorrise Marco. Già la frase di Ace appariva abbastanza ambigua, ma lui aveva deciso di aggiungere il carico da undici! L'aveva fatto di proposito, comunque. Credeva di conoscere Ace da abbastanza tempo per sapere come avrebbe potuto reagire ad una rivelazione simile. Lo stava mettendo alla prova.
«Oh... Oh... Okay.» Ace lo stava fissando, ma non era uno sguardo disgustato. Era un misto tra lo stupore e il dispiacere. «Mi scusi. Lei non sembrava uno di loro.»
«E come dovrebbe essere un gay certificato?» domandò Marco dolcemente. Domande simili ne aveva sentite da anni e sapeva che la società viveva ancora molto di pregiudizi.
«Non... Be', c'è uno alla mia scuola che dicono tutti che è froc... Voglio dire, si cura, usa il profumo, ecco...» Il gioco era ancora nel menù iniziale e Ace passava le dita sui pulsanti del joystick, in bilico tra il continuare la discussione e l'ignorarla completamente con la scusa di riprendere a giocare.
«A parte il fatto che siamo attratti dallo stesso sesso, non abbiamo altre differenze» spiegò Marco gentilmente. Era raro che rivelasse la sua sessualità ai suoi studenti, ma quando lo faceva era perché sapeva che poteva dare loro una nuova prospettiva. «Tutto qui.»
«Okay.» Ace gettò il joystick da una parte. «Mi scusi, sono un idiota. Non volevo tirare fuori questo argomento.»
«Non fa nulla» rispose Marco, con un sorriso. «Ho sentito molto di peggio. La tua colpa è solo che viviamo ancora in questa società.»
«Ha avuto molti problemi?» domandò allora Ace. Il suo sguardo era decisamente interessato.
«Alcuni, sì. Ma, come hai detto tu, non corrispondevo alla vera idea di gay che hanno tutti, quindi molte cose sono riuscito ad evitarle e, quando ho fatto coming out, avevo già accanto persone che non mi avrebbero giudicate.» Poiché Ace continuava a guardarlo, aspettando il seguito della storia, proseguì: «A differenza di molti altri omosessuali che sono vittime di bullismo, il bullo sono stato io.»
«Davvero? Non ci credo, prof!»
Marco ridacchiò. «Sono passati molti anni. Avevo dei problemi in famiglia e mi sentivo diverso, per cui reagivo con violenza ad ogni cosa. E sono finito in un carcere minorile, dove ho conosciuto Barbabianca.»
«Non è il nome della scuola dove insegna?»
«Esattamente. Si tratta del preside, Edward Newgate detto Barbabianca» annuì Marco. «All'epoca non l'aveva ancora aperta, ma lavorava già nell'ambiente dell'insegnamento per ragazzi difficili. Lui mi ha salvato e mi ha fatto diventare una persona migliore.»
Ace accennò un sorriso e guardò in un'altra direzione. «Per questo è diventato insegnante anche lei» commentò.
«Già. So cosa vuol dire passare un'adolescenza difficile e pensavo che la mia esperienza potesse essere utile.»
Gli era capitato in altre occasioni di raccontare la sua storia, ma di fronte a studenti il cui curriculum era decisamente più criminale di quello di Ace. Lui era differente da loro: certo era un ribelle, ma c'era un'intera ideologia dietro, che non aveva ancora capito. Un blocco, che stava cercando di superare man mano.
«Prof, o lei è cambiato davvero molto, o non ci credo» commentò infine Ace, con un gran sorriso sul volto. «Anche se questo giustificherebbe i videogiochi.»
«Perché solo i teppisti possono giocarci?» ribatté Marco divertito.
«No, perché è il suo modo di non trasformarsi definitivamente in un insegnante grigio e noioso.»
«Il tuo invece è indossare queste camice di dubbio gusto, vero?» commentò lui, che in realtà le aveva sempre trovate divertenti, anche se decisamente poco convenzionale, come quella zebrata che indossava quel giorno.
Ace gli scoccò un'occhiataccia. «Le mie camicie sono perfette» affermò.
«E il tuo passato, invece?» Era stata una domanda fatta quasi per caso, ma Marco doveva ammettere di essere curioso. Sapeva qualcosa da quello che Barbabianca gli aveva raccontato, ma erano notizie di seconda mano. Ace parlava molto di suo fratello e dei suoi amici, poco di se stesso.
«Niente di che.» Ace alzò le spalle. «Quando era piccolo ero un disastro e un bullo. Poi ho incontrato qualcuno che picchiava forte quanto me e abbiamo finito per diventare amici.» Sorrise dolcemente, probabilmente pensando a qualche ricordo del passato. «E poi ho conosciuto Rufy e qualcuno doveva pur prendersi cura di lui, altrimenti chissà che fine faceva...»
Marco annuì. «Immagino che ciascuno di noi incontri la persona giusta al momento giusto...» mormorò, quasi a se stesso. «Ma posso chiederti una cosa?» Aveva capito che non voleva parlare troppo del suo passato, ma il momento sembrava positivo per chiederlo.
«Certo» annuì Ace, incuriosito.
«Perché hai bisogno di soldi?» disse allora Marco. «Da quello che ho visto, Garp non ha problemi economici e per te sarebbe più facile occuparti di tuo fratello se non avessi da lavorare.»
Ace aveva ripreso il joystick e non sembrava incline a rispondere, ma le sue dita esitarono ancora sul pulsante rosso. «Mi servono soldi per andarmene di qui» rispose infine. «Quando Rufy sarà abbastanza grande per cavarsela da solo.»
«Dove vuoi andare?»
«Lontano» fu la semplice risposta di Ace, prima di selezionare 'nuova partita' dalla schermata iniziale.
 
***
 
Un pomeriggio, Marco tornò a casa e trovò Ace accomodato sul divano con il joystick in mano. Nulla di strano, se non che c'era un altro ragazzo dai capelli biondi accanto a lui. Erano entrambi così concentrati su quello che stavano facendo che non si erano nemmeno accorti del suo arrivo.
Marco si avvicinò a loro da dietro e sbirciò a cosa stavano giocando: non ricordava di averlo mai visto, eppure era a conoscenza di tutte le nuove uscite. La grafica non era granché e come gameplay era molto simile ai vecchi 2D. Si accorse dopo che non stavano giocando con una console, ma che avevano collegato un pc portatile alla televisione.
«Che cos'è?» domandò. Doveva essere un'app, gli unici videogiochi fuori del suo range di conoscenza.
Ace e l'altro ragazzo sobbalzarono per la sorpresa e i loro personaggi vennero sconfitti, dato che evidentemente si trovavano in una posizione particolarmente difficile del gioco. La scritta 'Game Over' brillò sullo schermo della televisione.
«Prof!» protestò Ace, balzando in piedi e con un'espressione a metà fra il seccato e il deluso sul viso, per la quale Marco dovette ricorrere a tutta la sua forza per non ridere. Poi Ace sembrò ricordarsi improvvisamente che c'era un'altra persona in casa. «Oh, questo è Sabo, un mio amico» lo presentò.
«Salve, professore. Scusi per il disturbo» disse Sabo, con un leggero sorriso. Il suo modo di vestire era decisamente più formale di quello di Ace, così come il suo linguaggio. Davvero diverso da Ace, eppure parevano andare molto d'accordo.
«Spero che non sia un problema se è passato, ma stavamo lavorando ad una cosa e ho pensato... Ah, mi ha aiutato a studiare» aggiunse Ace soddisfatto, ben sapendo che la parola 'studio' apriva molte porte quando si trattava di Marco.
Lui vide Sabo annuire un po' troppo vigorosamente e commentò: «A patto che questo non voglia dire che ha fatto i compiti al posto tuo...»
Sabo sorrise. «Vedo che ti conosce bene.»
«Taci.» Ace tentò di colpirlo con un calcio, ma inutilmente.
Marco scosse la testa e rise fra sé.  Nonostante avessero fatto molti miglioramenti, da quando Ace era venuto a lavorare da lui, non si poteva dire che avessero ancora eliminato quel blocco che sembrava impedirgli di vivere veramente. Ma ci stavano arrivando, se lo sentiva.
«Ancora non mi avete risposto. Che gioco è?»
«Oh, questo...» Ace seguì il suo sguardo fino allo schermo della televisione, con ancora la scritta di game over. «Non è niente, solo...»
«È un gioco che stiamo progettando e costruendo noi» spiegò allora Sabo. «È a metà tra un mouso e uno d'avventura. Parla di pirati.»
«Siamo solo al primo capitolo» precisò Ace. «All'inizio della storia, quando il protagonista lascia il suo villaggio per diventare pirata.»
«Il nome provvisorio è "Pirate Warriors"» continuò Sabo. «Ehi, aspetta, ho un'idea, perché non glielo facciamo provare? Lei gioca, vero?»
«Che, no!» lo fermò Ace. «Non è ancora pronto. Non è nemmeno la versione beta, è tipo un embrione.»
«Sì, ma se non facciamo delle prove non sappiamo dove sono i bug, no?»
«Ma è solo un livello! E la grafica è tutta pixelata...»
Marco non li stava ascoltando, era rimasto fermo alla frase "gioco che abbiamo costruito". Aveva conosciuto molti ragazzi molto intelligenti per la sua età, anche ragazzi che se la cavavano con il computer, ma era la prima volta che si trovava di fronte a due che avevano progettato e stavano costruendo un cazzo di videogioco. Poteva apparire piuttosto rozzo, ma si parlava di minorenni che lavoravano da soli.
Senza aggiungere una parola, si sedette sul divano e afferrò uno dei joystick e selezionò, sul menu, 'try again', nonostante Ace avesse cercato di fermarlo. Vero, la grafica non era delle migliori, ma c'era da dire che avevano pensato a tutto, sia per quanto riguardava il menu sia per quanto riguardava l'inizio della storia, con tanto di breve filmato introduttivo.
«Questo... l'avete progettato voi?» domandò, ancora incredulo.
I due ragazzi annuirono assieme.  «C'è ancora lavoro da fare, eh, non è che farà così schifo alla fine...» commentò Ace, agitando la mano allo schermo.
«E anche la storia migliora» aggiunse Sabo, con gli occhi che gli brillavano al pensiero.
«Wow...» Marco non sapeva davvero cosa dire. Ogni volta che credeva di aver capito Ace, di essere vicino a inquadralo, lui finiva sempre per sorprenderla. Questa cosa però le superava tutte. «Com'è possibile che tu sia a rischio bocciatura?» non poté che esclamare.
Ace alzò gli occhi. «Perché non hanno ancora inserito videogameologia tra le materie, prof.»
Sabo ridacchiò divertito. Poi controllò l'orologio da polso. «Devo andare.» Aggirò il divano e iniziò a staccare i cavi che collegavano il computer al televisore, per poi riporlo nella sua custodia.
«Perché non ti fermi a cena?» propose Marco. Aveva sentito più volte il nome di Sabo nelle conversazioni di Ace e sullo schermo del suo cellulare, per cui era davvero curioso di poter parlare un po' con lui, senza contare quello che aveva appena scoperto. «Tanto Ace fa sempre la spesa per un esercito.»
«Be', se così non fosse non potrebbe fare inviti improvvisi» si difese Ace.
«La cosa non mi sorprende» ridacchiò Sabo. «Ma devo proprio andare. I miei hanno ospiti stasera.» Alzò gli occhi al cielo per indicare quanto poco la cosa gli interessasse o gli facesse piacere.
«È il secondo buon motivo per restare» gli fece presente Ace.
«Hai ragione, ma non voglio rotture di palle» commentò Sabo, che si era già messo lo zaino con il pc sulle spalle. «E poi tu devi studiare, quindi vi lascio soli.»
«Bastardo!» gli gridò dietro Ace. Con un sorrisetto eloquente, Sabo lasciò la casa di corsa, sbattendo la porta dietro di sé. «Questa me la paga...» mormorò lui fra i denti, quindi prese un respiro profondo e si diresse verso la cucina, dove solitamente facevano ripetizioni, come un uomo che si recava al patibolo.
Marco lo seguì, ma quel giorno aveva poca voglia di studiare lui stesso. «Progetti videogiochi» disse nuovamente, giusto perché diventava più credibile se lo pronunciava ad alta voce. «E stai per essere bocciato.»
«Perfetto riassunto della situazione» commentò Ace, alzando gli occhi.
«Quello che voglio dire è... Sei dotato! Quante persone delle tua età sarebbero capaci di fare una cosa del genere? Se ti impegnassi solo un attimo saresti il migliore della scuola, per non parlare dell'università...!»
«Io non andrò all'università» affermò Ace, calmo.
«Perché no?» Marco era stupito della sua certezza. «Sai che non è uguale alla scuola, lì puoi fare davvero qualcosa che ti piace.»
«Non ci vado» ripeté Ace, ancora più convinto. «Non serve. Sa che Einstein era stato rimandato in matematica? E che Steve Jobs ha lasciato il college? Non mi serve.»
A quanto pare guardava in alto, il ragazzo. «Capisco, ma è sempre una qualifica da avere. Non tutti possono fondare la Apple e le grandi aziende non prendono non laureati. Credimi, lo so.»
«Tanto non mi prenderebbero comunque.» Di nuovo, quel blocco che Marco sentiva presente e che non riusciva ancora a focalizzare bene.
«Ma...»
«Perché gliene importa tanto?» protestò Ace, interrompendolo prima che potesse parlare. «È pagato solo per farmi passare gli esami di recupero, quindi per il resto si faccia i cazzi suoi!» E rimase per un attimo a fissarlo, respirando pesantemente, poi si voltò e prese uno dei suoi libri di scuola e iniziò a sfogliarlo con disinteresse.
Marco aveva già capito di essere andato troppo oltre, ma quella sfuriata gli diede l'esatta misura di quanto. Di solito era più prudente con i suoi studenti, ma Ace lo prendeva sempre in contropiede. E, doveva ammettere, gli aveva fatto male farsi sbattere in faccia che per lui era solo un lavoro. Il fatto che Garp lo pagasse era ormai una cosa di poca importanza, per lui.
«Ti chiedo scusa» disse allora. «Sono sicuro che hai pensato molto all'università e se hai preso questa decisione è perché senti sia quella giusta. Tuttavia, come tuo insegnante è mio dovere presentarti le alternative che hai di fronte. E penso che sarebbe un peccato non provare l'università, tutto qui.»
Ace lo guardò per un attimo sottecchi, poi annuì. Almeno il fatto di non trattarlo come un bambino che non sapeva prendere decisioni da solo funzionava ancora. Per di più, era indubbio che Ace fosse più maturo della sua età.
«È vero, io vengo pagato, perché i soldi mi servono. Soprattutto da quando sei tu a farmi la spesa» rise, pensando alla quantità di roba che acquistava. «Ma faccio questo lavoro perché tengo ai miei studenti. Vorrei che questo fosse chiaro.» E credeva che fosse già abbastanza chiaro dal fatto che in pratica lo pagava profumatamente pur di lasciargli ore libere per lo studio.
Ace annuì e sospirò. «Scusi per la sfuriata» disse solo. «Almeno lei è l'unico che pensa che abbia un po' di cervello.»
Marco non aveva idea esattamente a chi fosse indirizzata quella frase, ma decise di non approfondire, al momento. Sapeva bene che spesso alcuni dei suoi colleghi insegnanti non sapevano distinguere fra scarsa intelligenza e scarsa voglia.
«Dai, prendi il libro degli esercizi d'inglese.»
«Non dovevamo fare biologia, oggi?»
«Sì, ma se non avrai una laurea, almeno cerchiamo di darti una base di qualcos'altro» rispose Marco, con un sorriso. «Le aziende di videogiochi estere non ti assumeranno mai se le uniche parole che conosci sono 'game over' e 'try again'.»
«Conosco anche 'how are you' e 'thanks', penso che siano sufficienti» rispose Ace, ma si vedeva che era divertito dalla situazione. Gettò in un angolo il libro di biologia e recuperò quello d'inglese, con più entusiasmo rispetto al solito. «Grazie.»
 
***
 
Non era mai agitato prima dell'esame di un suo alunno. Marco sapeva bene che aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per prepararli, per cui il risultato non dipendeva da lui, ma dal loro impegno e dalla loro volontà. Sarebbe stato pronto a consolarli in caso di fallimento, ma capitava raramente.
Con Ace, invece, era tutta un'altra questione. Non solo perché alla fine era finito a farsi trascinare da lui più di quanto avesse voluto, ma anche perché aveva finito per averci una relazione ben più stretta di quelle che solitamente aveva con i suoi studenti, considerando che era praticamente ogni giorno a casa sua.
E Marco non aveva idea di come avrebbe potuto reagire di fronte a un fallimento. Senza contare che aveva ben quattro esami di recupero e aveva promesso di fargli avere notizie solo al termine della sezione. Per distrarsi, si era messo a giocare a Final Fantasy, il primo e in versione 'easy', perché altrimenti sarebbe morto alla prima missione, dato che non c'era con la testa.
Se i suoi colleghi e amici l'avessero visto in quelle condizioni l'avrebbero preso per il culo in eterno, proprio lui che aveva la fama di riuscire a restare calmo in quasi ogni situazione. Al massimo, si disse, avrebbe potuto dare la colpa a Garp, che aveva sentito urlare al telefono di Ace in una maniera decisamente poco rassicurante.
Il cellulare era appoggiato sul tavolino basso del salotto, col volume al massimo, mentre quello della televisione era spento, così avrebbe sentito qualsiasi chiamata in arrivo. Quello che sentì fu però il rumore della chiave che apriva la serratura della porta e Ace che entrava nella stanza. Aveva ancora lo zaino sulla spalla destra ed era vestito in maniera più sobria rispetto al solito, con una semplice camicia bianca - e chiusa, soprattutto.
Il sorriso che aveva sul volto però era sempre lo stesso. «Promosso!» esclamò soddisfatto. «Avrebbe dovuto vedere la faccia degli insegnanti, che già pensavano di essersi liberati di me...» ridacchiò.
Marco tirò internamente un sospiro di sollievo, poi sorrise. «Allora direi che dobbiamo festeggiare...» commentò. Andò in cucina, mentre Ace gettava lo zaino sul divano e apriva i bottoni della camicia, e prese dall'armadietto una bottiglia e due bicchieri.
«Quella è vodka?» si stupì Ace. «Wow, prof, lei quando si lascia andare lo fa con stile.»
Marco rise. «So anche fare dei cocktail. Un'altra volta» aggiunse in fretta, dato lo sguardo brillante negli occhi di Ace. «Però bisogna festeggiare per bene.» E versò il liquido trasparente nei due bicchieri, per due dita.
«Allora, a cosa brindiamo?» fece Ace tutto allegro, mentre prendeva il bicchiere e lo sollevava.
«Direi al tuo successo» rispose gentilmente Marco.
«Tutto merito suo.»
Marco scosse la testa. «È sempre stato nel tuo cervello.»
«Allora a tutti e due» concluse Ace, facendo tintinnare i loro due bicchieri, quindi bevve la vodka in un unico sorso e si pulì la bocca con il dorso della mano.
«Un bicchiere è più che sufficiente» disse Marco, vedendo che occhieggiava in maniera ben evidente al resto della bottiglia piena, lasciandolo deluso.
Ace però si riprese subito. «Allora, cosa succede adesso?»
«Adesso?» ripeté Marco, perplesso.
«Tra di noi, intendo» spiegò Ace. «A me toccherà iniziare la scuola e non avrò più tempo la mattina, ma vorrei continuare a lavorare nel tempo libero. Lo so che lei mi ha dato un lavoro solo per farmi studiare e ora non è più necessario, però, mi chiedevo...»
Marco prese un lungo respiro. Era vero, l'unico motivo per cui gli aveva chiesto di venire a sistemargli casa e per cui aveva dovuto fingere di essere un disordinato cronico era stato per non dargli più la scusa per poter saltare le ripetizioni. Quello per cui era stato pagato era terminato, dato che Ace aveva superato gli esami di recupero, e normalmente la sua strada come insegnante si sarebbe separata da quello dello studente.
Però si era abituato alla presenza di Ace in quell'appartamento, ad averlo intorno e a giocare con lui nel tempo libero e avere il frigo pieno di cibo. Strano a dirsi, aveva anche iniziato a diventare pigro nel fare le pulizie, cosa che non era del tutto positiva, ma che rientrava nella necessità di far fare qualcosa ad Ace.
Inoltre, sperava sempre di riuscire a convincerlo a impegnarsi nella scuola e andare all'università.
«Vero, non sarò più pagato per farti ripetizioni» disse. «Però ho ancora bisogno di qualcuno che si occupi della mia casa e della mia spesa, per cui il tuo lavoro è al sicuro. E ovviamente, se ne avrai bisogno, ti darò una mano con lo studio.»
«E potremo fare delle partite?»
«Certo! A novembre escono due nuovi Assassin's Creed, ricordi?»
Ace apparve particolarmente soddisfatto della situazione. «Credo che dovremo festeggiare anche questo nuovo accordo» commentò. «Ovviamente con un altro brindisi.»
«Non ci provare» rise Marco, spegnendo il suo entusiasmo. «Ma, se mi verrà voglia, qualche sera sperimenterò qualche cocktail.»
 
***
 
Fino a quel momento, Marco aveva creduto che l'interesse per Ace fosse di tipo squisitamente professionale. Gli sembrava di essere un po' come un allenatore che aveva scoperto un nuovo talento e che voleva coltivarlo. Ace aveva vent'anni esatti meno di lui, per cui non aveva pensato, nemmeno per un istante, che potesse esserci qualche altro motivo sotto.
La sua visione della situazione cambiò totalmente la sera del cinque Ottobre, il giorno del suo compleanno. Tornò a casa con istinti omicidi, perché quegli imbecilli dei suoi colleghi gli avevano gettato accidentalmente via l'orario delle lezioni per il mese, costringendolo a rimanere due ore più del normale per riscriverlo da capo. Non aveva sospettato che i suddetti imbecilli l'avessero fatto di proposito per tenerlo fuori di casa mentre gli preparavano una festa di compleanno a sorpresa.
Così, aprendo la porta, li trovò tutti e quattordici radunati nel suo salotto, con la torta e le trentasette candeline da accendere, e con ridicoli cappellini in testa. C'era anche Newgate, che pareva essere quello che si stava divertendo maggiormente, almeno dal modo in cui aveva preso possesso dello stereo e continuava a cambiare musica continuamente.
I vicini l'avrebbero di sicuro ammazzato, la mattina successiva, tuttavia Marco non poté trattenere un sorriso alla vista. In fondo, i suoi colleghi erano anche i suoi migliori amici ed era commuovente vedere che si erano sbattuti tanto per fargli un favore.
«Siete pazzi» commentò, scuotendo la testa. «Ma grazie.»
Satch gli mise un braccio attorno alle spalle e contemporaneamente cercò di infilargli in testa uno dei ridicoli cappelli. «Devi ringraziare il tuo alunno, per quest'idea» gli comunicò.
«Ace?» Oh, be', questo spiegava come avessero fatto a entrare, dato che Marco aveva proibito a Satch di avere una copia delle chiavi, dopo che aveva utilizzato il suo appartamento come un bordello in affitto, l'ultima volta che glielo aveva lasciato in mano. «Dov'è?»
Satch gli sorrise e, con un cenno, gli indicò la cucina.
«C'è un po' odore di bruciato, qui, o sbaglio?» commentò Marco, entrando. Ace era inginocchiato per terra e stava controllando qualcosa nel forno. Il tavolo era ripieno di tartine e roba varia, ma non tutto sembrava commestibile.
«Buon compleanno!» lo salutò Ace. «Bruciato, dice?» Si alzò e prese, dal lavello, una padella completamente nera. «Poi la pulisco» assicurò. «A proposito, dovremo ricomprare la vodka.»
«Avevo una bottiglia piena! Quanta nei hai usata?» commentò Marco, un po' preoccupato.
«Be', siamo in tanti...»
Marco scosse la testa. Personalmente, avrebbe preferito tenere la vodka lontano da Satch, anche in misure molto piccole. «Mi hanno detto che è stata una tua idea.»
Ace annuì. «Non l'ho mai vista festeggiare nulla» commentò. «C'era bisogno di un po' di vita in questa casa.»
Di certo, non si poteva dire che Ace non ne avesse portata, da quando era arrivato nella sua vita. «Dopo metto tutto a posto io, promesso» specificò.
«Me lo auguro, dato che ti pago per quello» rise Marco. «Come hai scoperto che oggi era il mio compleanno?»
Ace si era chinato a cercare qualcosa nel suo zaino, appoggiato contro la parete della cucina. «Oh, ho trovato il suo passaporto mentre sistemavo» rispose, in maniera distratta. «A proposito, è l'unica persona che viene bene pure nelle fototessere. Manco su quello la si può sfottere!»
Poi si alzò e in mano aveva un piccolo pacchetto: era fasciato elegantemente e con un fiocchetto blu su un lato, ma si vedeva che era una cosa fatta a mano, cosa che rese Marco ancora più curioso. Quando la aprì, vi trovò all'interno un cd neutro. La calligrafia di Ace vi aveva scritto sopra, con il pennarello nero, "One Piece".
«Questo è un vecchio gioco a cui abbiamo lavorato io e Sabo» spiegò Ace. «È del tipo di Monkey Islands, sa? Con indovinelli e pessima grafica.»
Marco se lo rigirò fra le mani. «Quanti giochi avete fatto tu e Sabo?» domandò, incredulo.
«Solo uno, quello» rispose Ace, indicandolo. «L'altro è in progress» gli ricordò. «Comunque ci abbiamo fatto giocare solo Rufy, quindi... Non so, ho pensato che magari le faceva piacere provarlo. Però se fa schifo è normale» aggiunse, con un leggero sorriso.
«No, no... È perfetto.»
Ecco, quello fu il momento in cui Marco capì che c'era altro sotto il suo interesse per Ace. Non sapeva dire se fosse per l'idea del compleanno, o per il regalo incredibilmente personale che gli aveva fatto, o solamente perché era arrivato al limite dei suoi sentimenti, ma la sensazione che provò in quel momento fu di prenderlo e sbatterlo contro il muro.
Lo vedeva sorridere e non poteva scostare gli occhi da quelle labbra carnose, pensando a quanto dovesse essere bello toccarle e baciarle e morderle. Voleva sentire le sue mani che lo stringevano a sé. I pantaloni si fecero stretti.
«Ehi, ma dov'è il festeggiato?» venne la voce di Satch dal salotto. «Dobbiamo fargli spegnere le candeline.»
«Arriviamo!» gridò Ace di ricambio. Afferrò il pacchetto di fiammiferi che era appoggiato sul tavolo, fra i vari vassoi di tartine. «Dai, andiamo! Deve esprimere un desiderio.»
Il momento era passato e Marco riprese il controllo di sé, mentre Ace lasciava la cucina. «Tenete qualsiasi cosa infiammabile lontano da lui!» esclamò, ricordandosi che Ace e il fuoco andavano fin troppo d'accordo e questo avrebbe potuto significare un incendio assicurato, considerando che erano trentasette candeline.
Tornò nel salotto qualche minuto dopo, quando si fu assicurato di essersi calmato ovunque, e ostentò sicurezza e cercò di godersi la festa. Dentro, però, si sentiva sporco. Ace non solo era un ragazzino ancora minorenne, ma era un ragazzino che era stato affidato alle sue cure. Le sensazioni che aveva provate erano degne del peggior pedofilo là fuori.
Non aveva alternative, doveva allontanarsi da Ace
 
***
 
«Stai studiando?» si stupì Marco quando, entrando nel suo appartamento, trovò Ace come al solito sul divano, ma con un libro in mano anziché con il joystick.
Ace gli riservò un'occhiataccia. «Se non studio perché non studio, se studio perché studio... Non è mai contento!» Il tono era comunque divertito.
«Sono contento, solo sorpreso» ribatté Marco. «E mi dispiace doverti interrompere data l'eccezionalità della cosa.» Ora Ace lo guardò interessato e il libro finì immediatamente dall'altra parte del divano. «Ti ho trovato un lavoro» annunciò, sedendosi accanto a lui, ma non troppo vicino.
Ace inarcò un sopracciglio. «Ho già un lavoro. È lei che mi paga, ricorda?»
«Non sono ancora così vecchio» precisò Marco, con un leggero sorriso. «Ma ho scoperto che una persona che conosco ha da poco aperto un Game Stop e ha bisogno di personale, per cui ho proposto te.»
«E la scuola...?» Il tono era comunque interessato.
«Lo so, gliel'ho detto» proseguì Marco. «Il fatto è che hanno bisogno di gente esperta che lavori soprattutto il sabato e la domenica e tu sei perfetto. Così potresti andare a scuola, avere del tempo libero e anche guadagnare. Naturalmente, dovrai lavorare anche qualche pomeriggio.»
Ace si prese un attimo di tempo per pensarci. «Non mi resterebbe tempo per venire da lei. O per studiare.»
«Ah, ovviamente non verresti più da me» disse Marco. Era proprio il punto dell'intera questione.
«Ho fatto qualcosa di male?» domandò Ace.
«No!» Marco fu un po' troppo rapido nel negare. Aveva pensato per giorni a come poter allontanare Ace da sé senza che sembrasse che lo stava cacciando. «Mi è capitata questa occasione e ho pensato che fosse l'ideale, per te. Non vorresti lavorare in un negozio di videogiochi anziché pulire appartamenti e fare la spesa?»
«Be', certo...» commentò Ace. «Però mi piace stare qui...»
«Sono sicuro che ti divertirai molto di più al Game Stop, dove potrai giocare anche con ragazzi della tua età.» Marco estrasse un volantino dalla tasca, dove aveva segnato il numero del proprietario. «Gli ho già parlato di te, chiamalo pure per un colloquio.»
Ace lo fissò. «Ha già deciso, a quanto pare, prof.»
«Sto solo pensando a cosa potrebbe essere meglio per te» rispose Marco. Ace non aveva probabilmente idea di quanto difficile era per lui, ma non poteva dirglielo. Semplicemente, era una cosa da adulti.
«Già, come tutti» commentò Ace, in tono neutro. Afferrò il volantino e se lo infilò in tasca poco cerimoniosamente, quindi si allungò per recuperare il suo libro.
«Lo sai che non è così.» Marco non pensava che l'avrebbe presa così male. In fondo, ben sapeva perché stesse cercando di guadagnare, quindi un lavoro era come un altro. E lui aveva scelto di proposito uno che potesse attirarlo anche a livello personale, non certo come scaricare casse al mercato.
«Sì...» Ace era già in piedi, con lo zaino sulle spalle.
Marco avrebbe voluto fermarlo. Nonostante i suoi sforzi, era perfettamente chiaro che l'aveva ferito. Solo che non poteva farlo: trattenerlo sarebbe stato ancora peggio. Sperava che lavorare al Game Stop l'avrebbe rimesso in sesto. In fretta Ace si sarebbe scordato del professore che gli aveva dato delle ripetizioni durante l'estate.
«Aspetta... Ma non vuoi lo stipendio di questa settimana?»
Ace aveva già una mano sulla maniglia della porta e osservò con sguardo assente Marco che tirava fuori il portafoglio, poi scosse la testa. «Non lo voglio. La consideri una buonuscita.»
«A dire la verità la buonuscita si dà al dipendente...» iniziò Marco, ma Ace era già uscito. Non gli restò altro che osservare tristemente la copia del suo mazzo di chiavi, abbandonata nel cestino all'ingresso.
Per quanto sapesse di aver preso la decisione giusta, faceva dannatamente male.
 
***
 
Era a scuola durante l'ora di pausa, quando gli arrivò la chiamata di Shanks, il preside del Liceo Scientifico Tecnologico. Normalmente l'avrebbe ignorato, dato che non faceva altro che tentare di convincerlo a lasciare Barbabianca per andare a fare l'insegnante di sostegno da lui, ma in quel caso rispose.
Dopotutto, era la scuola di Ace.
«Ehi, Marco, come va?» lo salutò col suo solito tono allegro Shanks, per niente adatto a un preside serio. «Non hai cambiato idea sul tuo lavoro, vero?»
«No.»
«Sempre il solito...»
«Se non hai niente da dirmi, attacco.»
«No, no, aspetta!» Shanks era diventato improvvisamente serio. «In realtà ti chiamavo per uno dei miei studenti. Portgas D. Ace. È vero che gli hai fatto ripetizioni?»
Marco sentì che le sue mani erano diventata improvvisamente fredde. «Che è successo?»
«Sono due settimane che non viene a scuola» spiegò allora Shanks. «Ho chiamato suo nonno e mi ha urlato contro assordandomi l'orecchio, ma a quanto pare non è servito a molto.» Anche se Shanks poteva sembrare irresponsabile, era comunque un bravo insegnante che teneva ai suoi alunni e Marco lo rispettava per questo.
«Ho provato a chiedere a suo fratello, Rufy, che tra l'altro è mio alunno» continuò Shanks. «So che c'è qualcosa sotto perché Rufy è pessimo a mentire, ma non so cosa. Mi chiedevo se tu avessi altre spiegazioni.»
«No, mi dispiace» fu la risposta di Marco. «Ho smesso di fargli ripetizioni dopo l'inizio dell'anno scolastico.» Vero e falso allo stesso tempo: avevano continuato a frequentarsi lo stesso... fino a due settimane prima.
«Capisco. Se per caso hai notizie fammi sapere.»
«Certo.» Quando Marco chiuse la chiamata, rimase a fissare il suo cellulare a lungo, per decidere cosa fare. In teoria, non erano più affari suoi. Non era più l'insegnate di Ace. Non era più nulla, per lui. Ma non riusciva a togliersi dalla testa che fosse stato il suo comportamento l'ultima volta a provocare quella reazione in Ace. In dieci minuti aveva vanificato tutto il lavoro di un'estate, alla faccia del bravo insegnante!
Doveva trovare Ace e, in qualche modo, rimettere a posto le cose. Il problema era come fare. Non poteva chiedere a Rufy, perché era chiaro che avrebbe fatto qualsiasi cosa per coprire il fratello, né a Garp, perché non ne sapeva nulla. Solo un altro nome gli venne alla mente: Sabo. Un breve giro su Facebook gli fece scoprire che scuola frequentava, quindi chiamò il preside Dragon e, nonostante la sua fama di inflessibilità, riuscì a convincerlo a passarglielo al telefono.
«Ah, è lei» fu il commento di Sabo, quando capì chi era alla cornetta. «Che cosa vuole?»
Marco non fu particolarmente sorpreso di sentire diffidenza da parte sua. Era dalla parte di Ace, ovvio. «Sai dove posso trovare Ace? Devo parlargli.»
«No, mi spiace.»
«Senti, non so che cosa ti abbia raccontato Ace esattamente, ma non volevo ferirlo.» Marco non si diede per vinto. «Dimmi dove posso trovarlo, per favore. Voglio mettere le cose a posto.»
Per diversi minuti, Sabo restò in silenzio, poi sospirò. «Ha presente il centro commerciale davanti all'Eataly?» disse poi. «A volte Ace va lì, alla Mediaworld, a giocare ai videogame in prova.»
«Grazie.» Adesso aveva almeno una meta. Afferrò la sua giacca. «Satch, sto uscendo. Sostituiscimi tu» gridò al collega e non aspettò risposta e si precipitò fuori dalla scuola. Venti minuti di autobus e raggiunse il centro commerciale che gli era stato indicato.
Ace era seduto sul divano della Mediaworld, a giocare. Dato che sarebbe stato orario di scuola, non c'era nessuno che gli desse fastidio. Marco rimase fermo a decidere come introdurre l'argomento, ma fu Ace a voltarsi e a notarlo.
«E lei che cosa ci fa qui?» domandò, con gli occhi spalancati.
«Mi hanno chiamato dalla tua scuola, dove non vai da due settimane. Erano preoccupati.»
Ace alzò le spalle. «Quelli sono solo preoccupati che il vecchio vada a rompere i coglioni.»
«Non è vero e lo sai.» Poiché Ace stava continuando a giocare, ignorandolo appositamente, Marco aggiunse: «Possiamo parlare un attimo?»
«Non abbiamo niente da dirci.»
«Invece sì. Soprattutto perché stai facendo in capricci come un bambino. Se vuoi essere trattato da adulto, comportati come tale.»
«Non sto facendo i capricci» protestò Ace, punto nel vivo.
«Smetti di andare a scuola perché... Non lo so nemmeno bene il perché, ma è un capriccio.»
Solo allora Ace abbandonò il joystick e si alzò per fissarlo negli occhi. Era arrabbiato. «Io la smetto di fare i capricci se tu la smetti di fingere che ti importi di me.»
«A me importa di te e lo sai.»
«Certo. Difatti non mi hai scaricato alla prima occasione.» Ace fece un risolino. «Sai, ci avevo quasi creduto. Insomma, avevi messo la casa in disordine apposta per me. Dovevo saperlo che tanto sarebbe stata una fregatura.» Ace scosse la testa. «Scommetto che tutti i soldi te li ha dati mio nonno.»
«No.»
«Be', non ti credo. E adesso puoi anche andartene.»
Marco si avvicinò e lo prese per le spalle, con più forza di quella che volesse. «Ascoltami bene. Non è stata un'idea di tuo nonno, ma mia. Perché tengo a te. Non ti ho scaricato, ho cercato di darti un'occasione migliore.»
«Te la potevi tenere. Io non la volevo.» C'era una disperazione, nei suoi occhi, qualcosa che Marco non aveva mai visto prima in lui. Sapeva che c'era qualcosa, un blocco che gli impediva di vivere senza ansie, ma non aveva mai scoperto che cosa fosse. Lo aveva visto più sereno e pensava che andasse tutto bene. Aveva sbagliato in pieno.
«Ace» disse lentamente, lasciandolo. «Dimmi qual è il problema. Dimmi che cos'ho fatto.»
Ace lo fissò intensamente, ma sembrò in qualche modo convincersi. «Quando ero alle elementari mio padre è stato arrestato» gli raccontò. «Prima avevo un sacco di amici e dopo nessuno voleva più giocare con me. In fondo, chi vorrebbe essere amico del figlio di un criminale?» C'era solo amara consapevolezza nella domanda. «Ed è sempre stato così. Sono sempre stati tutti pronti a voltarmi le spalle alla prima occasione. Non piaccio a nessuno. Eppure ci ricasco ogni volta. Non è colpa tua, è mia che mi sono fatto fregare di nuovo.»
Solo allora molti dei comportamenti di Ace assunsero un senso: la sua certezza che fosse inutile studiare, perché nessuno avrebbe assunto il figlio di un criminale, o la voglia di scappare lontano, dove nessuno conosceva il suo passato, quel blocco all'idea di vivere davvero appieno la propria vita. Non era certo facile liberarsi dall'insicurezza che una simile esperienza aveva provocato.
«E Rufy e Sabo?» domandò Marco.
«Loro sono un'eccezione.»
«Anche io.»
«Certo, come no.» Ace fece una leggera risata. «Non mi hai scaricato alla prima occasione, no.»
«No, l'ho fatto» ammise Marco, serio. «Ma avevo un buon motivo dietro.»
«Quale?»
Marco gli prese il volto con le mani e lo baciò. Fu un bacio leggero, con le labbra che si sfiorarono appena, ma fu già troppo. Era bastato a fargli tornare la voglia di andare avanti, di baciarlo ancora e ancora, di stringerlo a sé e di sentirlo sotto di lui. Era andato troppo oltre, ma non aveva avuto altra scelta.
Fortuna che almeno non c'erano clienti curiosi a guardarli.
Quando si separarono, Ace lo stava fissando con gli occhi spalancati. Prevedibile: non era bello baciare un etero in quella maniera, anche se Ace si era dimostrato pronto a scavalcare i pregiudizi. E per di più era il suo alunno.
«Tu mi piaci, Ace» gli disse. «Mi piaci più di quanto dovresti. Se ti ho allontanato, è per questo motivo, non per te. Per cui torna a scuola, va bene?»
Non aveva altro da dirgli, per cui si voltò per andarsene. Anzi, aveva fatto fin troppo, ma rivelare i suoi sentimenti era davvero l'unico modo per mostrare ad Ace che le sue insicurezze non avevano alcun fondamento. Non potevano più stare assieme, ma almeno avrebbe saputo il perché.
Quello vero.
Si sentì tirare per un braccio e un attimo dopo Ace lo stava baciando: un bacio fatto bene, questa volta, con le mani di Ace che si stringevano spasmodicamente contro la sua schiena e la lingua che premeva contro le sue labbra. Marco sapeva benissimo che stava commettendo uno sbaglio, ma non poteva respingerlo. Non dopo quello che gli aveva sentito dire.
«Baci bene, per un ragazzino» ammise infine. Non era la prima cosa da dire, ma era stato contagiato dal sorriso soddisfatto di Ace. «Ma non possiamo.»
«Perché?»
«Sei minorenne, sei un mio alunno e hai vent'anni meno di me.» In elenco di gravità decrescente.
«Fra meno di tre mesi sarò maggiorenne, non sono più tuo alunno e tu dimostri molto di meno.»
Era chiaro che non ne sarebbero usciti. Se c'era qualcosa che aveva capito di Ace era la sua testa dura. Difatti proseguì: «Insomma, non vuoi che torni a scuola?»
«Questo è un ricatto in piena regola» commentò Marco.
«Lo è. Anche perché funziona.»
Ma a quel gioco potevano giocare in due. «Bene, allora, puoi tornare a casa mia se vuoi» disse. «Niente baci, niente sesso, niente di niente almeno finché non ti sarai laureato.»
«Niente...?» Il viso di Ace era sconvolto, ma Marco non cedette. Fra due, tre, quattro anni, sicuramente Ace avrebbe trovato qualcuno della sua età e si sarebbe dimenticato della sua cotta. Marco ne avrebbe sofferto, era chiaro, a vederselo davanti ogni giorno, ma era il suo compito di insegnante educarlo nella maniera migliore.
«E va bene» acconsentì Ace. Ma aveva un sorriso furbo, mentre allungava la mano per ricevere le chiavi dell'appartamento.
 
***
 
Marco leggeva il giornale sul divano del suo salotto, mentre Ace sonnecchiava accanto a lui, con la testa appoggiata contro il suo braccio. Si voltò appena per osservarlo e sorrise fra sé. Non c'era un giorno in cui non si era pentito di averlo accolto nuovamente in casa, e non c'era un giorno in cui non era felice di averlo fatto.
Non voleva rovinare la vita di Ace, legandola a lui che era un vecchio, ma allo stesso modo voleva aiutarlo a superare quel blocco, quell'insicurezza che infine gli aveva confessato, e non poteva farlo continuando ad allontanarlo da sé. Almeno, ora che Ace aveva diciotto anni non sarebbe stato arrestato.
Ace si svegliò, sbattendo appena le palpebre e sorrise, vedendo che lo stava osservando. «Niente baci?»
«Non mi risulta che tu sia laureato.»
«No, però ho preso un sacco di nove questo semestre» ribatté Ace. «E ho studiato tutto il giorno... Mi merito un premio» annuì convinto.
Marco rise. Era certo una strana relazione, la loro, ben oltre i venti anni di differenza, con premi e ricatti e tante, tante partite ai videogiochi. Eppure funzionava. Faceva tacere i suoi sensi di colpa.
«Solo uno» rispose allora. «E solo se poi mi fai provare il nuovo livello che tu e Sabo avete scritto.»
«Non sarebbe ancora pronto, ma... affare fatto!» Ace gli strappò praticamente di mano il giornale e si sedette su di lui. Era una posizione pericolosa e le loro labbra rimasero unite per troppo tempo, ma nessuno dei due era riuscito a sottrarsi al tocco dell'altro.
Solo quando si separarono Marco riprese il controllo di sé e lo allontanò. Ace gli scoccò un'occhiataccia, ma poi annuì e recuperò il pc con il file di "Pirate Warriors": l'avevano provato il giorno prima, per cui sulla schermata principale comparve tremante la scritta 'game over'.
Marco afferrò il joystick e pensò, fra sé, che forse quello che avevano passato corrispondeva ad un videogame. Avevano vissuto un'estate intensa e avevano quasi rovinato tutto. Infine, ci stavano riprovando.
Il senso di inadeguatezza di Ace, che derivava dalle sue passate esperienze, era ancora presente, a bloccarlo, eppure lui cercava sempre di stabilire dei contatti con gli altri, così come aveva fatto con lui. Marco aveva smesso di sentirsi un pedofilo, perché capiva che quello che c'era fra loro due era molto di più che una semplice attrazione fisica, tuttavia non poteva negare a se stesso che era un rapporto decisamente poco convenzionale.
E mentre guardava Ace aprire un pacchetto di patatine e tornare ad accomodarsi al suo fianco, con un grosso sorriso sul volto, spostò il cursore sulla scritta 'try again'. Sì, valeva davvero la pena riprovarci.

 
 

 
Akemichan parla senza coerenza:
Dopo la raccolta 'sei attimi' dedicata alla Rufy/Nami, ho iniziato questa dedicata a un altro dei miei OTP, la Marco/Ace (sì, progetto di farlo per tutti ù.ù). A differenza dell'altra, che erano solo flashfic su canon momenti, qui ho dato libero sfogo alla fantasia quindi ci saranno anche AU, missing moments e un po' quello che mi piaceva metterci dentro. Il filo conduttore, quindi, sono i baci. Sei baci.
In teoria avrei voluto pubblicarla per la Marco/Ace Week che ci sarà la prossima settimana, ma sta partecipando ad un contest e a causa del sovrapponimento con la Rufy/Nami Week, alla fine ho beccato il giorno giusto dove avevo un vuoto per metterla. I prossimi aggiornamenti saranno probabilmente di nuovo alla domenica sera/lunedì mattina, a seconda del tempo. 
Purtroppo non ho la fonte delle immagini; soprattutto nel caso della seconda, l'autore ha cancellato il suo account ç.ç
Questa AU ha preso forma grazie al contest, ma il trope di Marco!Insegnante mi piace un sacco fin dai tempi di "Forbidden Fruits" e sono stata molto felice di poterne riproporre una mia versione. Ho cercato quindi di dargli un tocco decisamente personale, ma, a causa appunto delle tante fic a questo argomento che ci sono (alcune splendide) ho paura di non aver reso loro giustizia.
Spero che non sia così. Grazie a chiunque l'abbia letta e apprezzata. Come al solito, mi trovate sul blog, su twitter, su tumblr e su facebook. Alla prossima!
 

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Capitolo 2
*** Una scommessa vinta ***


Una scommessa vinta

 

C'era un tacito accordo all'interno della ciurma di Barbabianca: nessuno giocava contro Marco, né tantomeno vi scommetteva contro. Questo perché era impossibile batterlo, non importava che gioco si scegliesse né chi fosse il suo avversario. Se fosse stata una leggenda metropolitana o la verità, era impossibile da dire. Certo, i compagni che lo conoscevano da più tempo sostenevano che fosse tutto vero, per cui nessun'altro voleva tentare.
Nessuno tranne Ace, ovviamente. Quando si trattava di sfide, non si tirava mai indietro, per cui il fatto che Marco avesse questa fama di 'imbattibile' era per lui una calamita irresistibile, come una falena verso una fiamma. Ogni occasione era quindi buona per sfidarlo e cercare di batterlo.
Paradossalmente, le sue sfide erano ciò che aveva contribuito a creare la leggenda attorno a Marco. Infatti, mentre con gli altri Comandanti l'esito dello scontro dipendeva più dal caso, dal momento o dalle caratteristiche personali di ognuno, per cui Ace vinceva e perdeva a giorni alterni, con Marco non era ancora riuscito a vincere, nemmeno una volta.
Se era un gioco di forza, in qualche maniera la spuntava comunque, con l'Haki o con il suo frutto. Se era un gioco con le carte, aveva la fortuna sfacciata di prendere le carte giuste al momento giusto, a prescindere dalle regole. Se era un gioco di abilità, si veniva a scoprire che, guarda caso, lui era un esperto. Se era un gioco d'intelligenza... No, questi Ace non li aveva mai provati.
In ogni caso, ogni sconfitta rendeva Ace sempre più ansioso di batterlo seriamente. Non voleva credere che fosse imbattibile. Non era umanamente possibile. Solo che l'elenco di sfide che conosceva andava assottigliandosi sempre di più senza che lui non fosse arrivato nemmeno vicino a trovare il punto debole di Marco.
Almeno si consolava sconfiggendo gli altri comandanti, che per quanto bravi non possedevano né il culo né l'abilità di Marco. Per fortuna, altrimenti Ace si sarebbe già suicidato, considerando anche le imbarazzanti penitenze che su quella nave venivano riservate ai perdenti.
La sua vittima preferita era Satch - e la cosa era decisamente ricambiata.
«Braccio di ferro?» gli propose quindi una sera, scostando da sé il piatto ormai vuoto che aveva contenuto parte della sua cena.
Satch era seduto davanti a lui, dalla parte opposta della tavolata, e non si tirò certo indietro. «Ah, vuoi giocare pesante!» esclamò con un sorriso, mentre si tirava su la manica della divisa da cuoco e appoggiava il gomito sulla tavola. Tutti gli altri, che erano impegnati in conversazioni oppure concentrati sul cibo, alzarono immediatamente i sensori di sfida e si concentrarono su di loro, iniziando a scommettere su chi potesse vincere.
«Cento berry su Satch.»
«Nah, ne do duecento su Ace.»
Poteva sembrare offensivo, ma era una cosa che veniva fatta con così tanta familiarità, che Ace aveva presto imparato a divertirsi di quei momenti e a partecipare quanto possibile. Doveva ammetterlo: adorava essere al centro dell'attenzione. Allungò il braccio verso Satch e gli strinse la mano.
Ovviamente, in quanto Comandante, Satch non era solo chiacchiere e, a dispetto del suo carattere, in combattimento se la cavava bene. Però Ace aveva già un piano in mente: strinse i denti e tenne duro e poi improvvisamente rilasciò una fiammata dal dorso della mano. Satch sobbalzò per la sorpresa e lasciò che i muscoli si rilassassero, cosa che permise ad Ace di atterrargli la mano con facilità, quasi crepando la tavolata di legno.
«Maledetto imbroglione!» protestò Satch, mentre gli altri scoppiavano a ridere. «Rifacciamolo!»
«Niente da fare, hai perso.» Ace ghignò soddisfatto. «Non avevamo stabilito che le distrazioni non contavano» gli precisò. Poi si voltò verso Marco, che era seduto al suo fianco e che non aveva nascosto un sorriso alla scena. «Vuoi provare?» gli chiese, allungando il braccio con il palmo aperto verso di lui.
«Di nuovo...» commentò Atomos, ma si vedeva che era divertito dalla situazione.
Marco poggiò il bicchiere sul tavolo, quindi si voltò verso di lui. Molto lentamente e con un sorrisetto divertito in viso.  «Sicuro?» gli domandò. «Hai appena mostrato la tua mossa segreta.»
«Nah, ne ho delle altre» replicò Ace, allungando maggiormente la mano.
Allora Marco gliela strinse e si sistemò meglio sulla panca per la sfida. Satch aveva già scordato la sua sconfitta, troppo interessato alla situazione, e si era prontamente offerto, nonostante nessuno gliel'avesse chiesto, per fare da arbitro. Poggiò le mani sulle loro e poi diede il via, togliendole, in modo che iniziassero a mettere forza nelle braccia.
Marco era decisamente più muscoloso di Satch, praticamente lo era quanto Ace per una persona di dimensioni normali - gente come Jozu non contava - e questo si vedeva nella sua presa ferrea. Il braccio era immobile a prescindere da quanto Ace tentasse di spingerlo. Pareva di pietra, così come il suo viso impassibile.
Ace lasciò il fuoco scorrere libero non solo sul dorso ma anche sul palmo e fra le dita e, come previsto, incontrò il muro delle fiamme blu curative della fenice, per cui nemmeno una bruciatura era sufficiente a fare in qualche modo cambiare espressione a Marco, che continuava a rimanere immobile e impassibile. Lo fissò a lungo, cercando di trovare una maniera per distrarlo, quando Marco, senza preavviso, tirò fuori la lingua e gli fece una boccaccia.
Bastò quello a far mollare la presa sulla forza del suo braccio, che venne quindi sbattuto contro il tavolo come un fuscello, nonostante avesse cercato all'ultimo di recuperare terreno. Ace osservò con orrore la sua mano premuta contro il legno, con la consapevolezza di aver perso. Per l'ennesima volta.
«Sleale» commentò seccato, mentre si liberava dalla sua presa.
«Non avevamo stabilito che le distrazioni non contavano» replicò Marco, utilizzando la sua frase di poco prima. Aveva un sorriso seriamente irritante in viso.
Ace sbuffò e affogò la sua frustrazione nel suo boccale pieno di rum, fino a svuotarlo totalmente, con il liquido che gli colava ai lati della bocca, lungo il mento per poi precipitare schizzando sul tavolino. «Trovato!» esclamò poi. «Facciamo una gara a chi beve di più!» Non riusciva a capire come mai non gli fosse venuta in mente prima. Marco era più vecchio di lui e sicuramente, dopo anni di vita piratesca, doveva avere il fegato ridotto male.
«Noooo!» esclamarono in coro il resto dei Comandanti, in tono cantilenante. Ace li guardò malissimo, non comprendendo il motivo di quella reazione.
«Marco non può ubriacarsi» gli spiegò, misericordiosamente, Curiel, forse nella speranza di distoglierlo da quello che era un proposito suicida. «Per via del suo Frutto del Diavolo.»
Ace si voltò verso Marco, che sorrise e annuì. «Non ci credo» disse allora, sbattendo il bicchiere sul tavolo per indicare che desiderava che glielo riempissero. «Tutti i frutti hanno un limite, anche il suo. Bisogna solo trovarlo.»
«Credi che non ci abbiamo mai provato?» Non era un caso che quelle parole venissero proprio da Satch.
«Non tanto quanto me.»
I Comandanti sospirarono: avevano imparato a conoscere da tempo la testa dura e la cocciutaggine di Ace, per cui sapevano bene che non sarebbero riusciti a fargli cambiare idea se aveva preso quella decisione. E lo sapeva anche Marco stesso, che, a prescindere dal fatto che in quella combriccola di pazzi era probabilmente il più serio, provava una sorta di divertimento sadico a vedere Ace continuare a perdere.
Fu molto meno divertente arrivare al cinquantesimo bicchiere, con Ace che quasi non riusciva più a reggersi in piedi. I suoi occhi si erano fatti lucidi e le guance spruzzate di lentiggini erano diventate rosse come le sue fiamme, che spesso brillavano incontrollate sul suo corpo. Aveva difficoltà a centrare la propria bocca quando alzava il bicchiere pieno fino all'orlo, finendo per rovesciarsene spesso e volentieri una buona metà addosso.
«Basta così» decise Marco, che ovviamente era ancora fresco come una rosa come se non avesse una sola goccia d'alcol in corpo. Prendere in giro Ace era divertente, ma c'era un limite che non avrebbe mai superato e questo implicava anche proteggere la salute dei propri compagni.
«No!» protestò Ace. «Non mi hai ancora battuto.»
«Sei ubriaco marcio» intervenne Satch. «In quanto arbitro di questa sfida, la dichiaro conclusa.» Sempre auto-nominato, ovviamente, ma Marco lo ringraziò mentalmente per essere una voce della ragione, per una volta. Non avevano mai visto Ace ubriacarsi, perché anche se beveva molto il cibo che aveva nello stomaco lo proteggeva. Marco, doveva ammetterlo, era un po' preoccupato di cosa poteva uscirne fuori: Ace aveva ancora dentro di sé molti dubbi e incertezze e chi poteva immaginare che cosa l'alcol avrebbe potuto tirargli fuori?
«Non shono ubriaco!» esclamò Ace, con un tono di voce strascicato che indicava tutto il contrario. «Shiete tutti d'accordo con lui!» Balzò in piedi, o almeno ci provò data l'instabilità delle sue gambe, e dovette appoggiarsi di schianto sul tavolo per non cadere. Il colpo secco però fece praticamente ribaltare il tavolo, che cadde rovinosamente addosso a tutti quelli che erano seduti da quella parte, trascinando per terra anche tutti i piatti.
Marco e Ace furono i più sfortunati della fila, perché la pila di piatti più alta era proprio impilata a fianco a loro - era quella di Ace, ovviamente. Le stoviglie caddero loro addosso prima di precipitare a terra e riempire di cocci il pavimento, di modo che i due pirati si ritrovarono coperti di sugo, olio e altro cibo, sia nella pelle nuda sia nei pochi vestiti che indossavano.
Il gioco era decisamente andato troppo oltre, come dimostrava, se ce ne fosse stato bisogno, l'occhiata estremamente seccata che Marco lanciò a se stesso, mentre si toglieva una foglia d'insalata dai capelli biondi. Persino Ace si rese conto che difficilmente avrebbe potuto dimostrare la sua tesi dopo il disastro che aveva combinato, quindi si arrese.
«Vado a lavarmi!» annunciò, alzandosi con fatica sulle gambe tremolanti.
«Qualcuno lo fermi o finirà per affogarsi!» esclamò Namur, e non si capiva se il tono era scherzoso o seriamente preoccupato. Era però vero che nel bagno comune per le Flotte, dove c'era la grande vasca, Ace aveva rischiato più volte di morire per via dei suoi strani attacchi di narcolessia, motivo per cui non gli era più permesso entrarci senza qualcuno a controllarlo.
Marco sbuffò, ma poi si alzò in piedi e seguì Ace fuori della sala comune, per poi afferrarlo per la collottola come un gatto selvatico e trascinarlo dietro di sé fino alla sua stanza: come Comandante, avevano il diritto alla camera con bagno privato. Ace tentò di protestare, ma decisamente con scarsi risultati.
«Stai seduto qui, buono» ordinò Marco, spingendolo per le spalle fino a farlo accomodare sul water chiuso.
«Sei noiosho...» commentò Ace, ma finì per acconsentire perché le gambe non gli ressero nel tentativo di tirarsi in piedi. Allora incrociò le braccia e mise su un broncio.
Nonostante la sensazione, Marco non poté trattenersi dal sorridere: per la maggior parte del tempo Ace si comportava come una persona matura, complice anche l'aver passato anni a fare il fratello maggiore di Rufy, il quale, a detta sua, era un'autentica forza della natura, soprattutto quando si trattava di cacciarsi nei guai. A volte, però, dimostrava anche meno della sua già giovane età, regredendo a una specie di stadio infantile. Era un po' come avere un fratellino minore di cui occuparsi, cosa che Marco apprezzava molto. Si sentiva un po' ringiovanire.
Comunque non poteva perdere il resto della serata ad ammirare il viso seccato di Ace, anche perché i resti di cibo che aveva attaccati un po' ovunque iniziavano a irritarlo. Aprì l'acqua della doccia e, mentre aspettava che si scaldasse, si tolse i sandali, i pantaloni a pinocchietto e la camicia leggera, che poi gettò nel cesto della biancheria sporca, ringraziando mentalmente che fosse un'altra Flotta ad occuparsi del bucato.
Diede un'ultima occhiata per controllare che Ace non si sarebbe mosso da quella sedia improvvisata: si stava già appisolando, con la testa che ciondolava da un lato, per cui Marco tirò un sospiro di sollievo. Il massimo che avrebbe potuto capitargli era di crollare a terra addormentato e battere la testa, che però era abbastanza dura da sopravvivere.
In ogni caso, decise di fare in fretta, per cui si infilò sotto il getto della doccia senza nemmeno chiudere dietro di sé la porta di vetro e afferrò la spugna e il sapone per levarsi il sugo appiccicato ai capelli e al petto. Si stava strofinando il viso, con gli occhi chiusi, quando avvertì un rumore dietro di lui. Ace era riuscito ad alzarsi e a spogliarsi da solo e poi si era infilato anche lui sotto il getto della doccia, appoggiandosi contro la parte. Aveva anche chiuso la porta dietro di sé e attraverso il vetro di potevano vedere i suoi vestiti abbandonati alla rinfusa sul pavimento del bagno.
«Non potevi aspettare il tuo turno?» protestò Marco scherzosamente, mentre si chinava in avanti per lasciare che il getto dell'acqua gli lavasse via tutto il sapone.
«Mi annoiavo...» mormorò Ace, strofinandosi gli occhi per cercare di liberarsi dalla sonnolenza che l'alcol gli stava dando.
«Bene, tanto ho finito.» Gli passò la spugna, assicurandosi che riuscisse a tenerla in mano. «Divertiti.» Sapeva che avrebbe dovuto rimanere a controllare che non facesse troppi danni, ma al momento la sua necessità più impellente era uscire il più in fretta possibile da quello spazio angusto dove gli toccava praticamente stare appiccicato ad un Ace completamente nudo.
Aveva appena posto la mano sulla porta a vetri per spingerla, quando Ace lo bloccò posando la sua sul suo dorso e piegando le dita per trattenerlo a sé. «Che c'è?»
«Non shono shicuro di potermi lavare da solo» commentò Ace. Aveva la testa piegata leggermente di lato e lo stava guardando con gli occhi lucidi e un sorriso in volto che non era per nulla ingenuo. «Resta.»
«Meglio di no» gli assicurò Marco, che però non stava facendo assolutamente nulla per sottrarsi dalla sua presa, ma continuava a tenere il palmo premuto contro il vetro.
Il sorriso sul volto di Ace si allargò. «Meglio di shì.»
«Sei ubriaco.» E troppo giovane, anche se quest'ultima obiezione Marco non la disse. Ciò non significa che non l'avesse mai pensato, anzi, se l'era ripetuto praticamente fin dall'inizio per continuare a rimanere in una specie di sentiero di decenza. Per quanto i pirati non fossero conosciuti per rispettare le regole, era troppo serio per decidere di provarci con un proprio compagno che aveva molto meno della metà dei suoi anni.
«Non shono ubriaco» protestò Ace, rimettendo sul viso quel broncio che riusciva ad essere comunque estremamente attraente.
«Credimi, lo sei.» Se già pensava che non fosse il caso di provarci con un ragazzino della sua età, era ancora peggio farlo in quella situazione.
«Allora vuol dire che è una cosa che possho fare sholo da ubriaco» ribatté Ace, con un tono che era estremamente serio rispetto all'atteggiamento da sbronzo che aveva tenuto fino a quel momento, che era più infantile che altro. «Per favore...»
Marco lo fissò stranito. Sapeva da sempre che Ace a volte aveva problemi ad ammettere i suoi sentimenti, così come aveva impiegato settimane a capire che desiderava davvero unirsi alla loro ciurma, e altrettanto sapeva che c'era qualcosa che lo spingeva a nascondere, di tanto in tanto, i suoi veri pensieri. Ma se era in grado di esprimere quel pensiero e rendersi conto che non sarebbe riuscito ad ammettere quei sentimenti in circostanze normali, forse era vero che non era poi così tanto ubriaco.
Non ebbe comunque tempo di riflettere su qualche fosse la strategia migliore da attuare dopo quella dichiarazione importante, perché fu Ace che chiuse la già poca distanza che li separava per baciarlo, portandogli via quel minimo di serietà che Marco stava cercando di mantenere. Lo spinse delicatamente contro la parete e ricambiò il bacio. Ace chiuse gli occhi appoggiando totalmente la schiena contro la parete e schiudendo le labbra per invitarlo ad approfondire il bacio.
L'acqua della doccia continuava a scendere su di loro, appiccicando i capelli al loro viso e facendo scendere gocce leggere sui loro corpi nudi. Ace sentiva quest'acqua che gli percorreva il viso fino a colare sulle sue labbra aperte, ma era troppo concentrato sulla lingua di Marco che gli sfiorava il palato per prestarci attenzione.
«Ehi! Come va? Non è ancora affogato?» Satch era entrato nel bagno senza nemmeno preoccuparsi di bussare e finì per restare paralizzato dalla scena che gli si parava davanti. Marco aveva abbassato leggermente la mano ancora premuta sul vetro e alzò lo sguardo per fissarlo, senza però smettere di baciare Ace, che aveva, volutamente o no, ignorato il nuovo arrivato.
«Credo che tornerò dopo» affermò Satch, annuendo. Una cosa era prendere in giro Marco per la sua evidente cotta per Ace, un'altra era sorprenderli a pomiciare nudi nella doccia. Sinceramente era una scena che voleva cancellare dalla mente al più presto possibile.
Sbatté la porta con forza dietro di sé e fu allora che Ace ridacchiò fra sé, quasi mordendo la lingua a Marco. «Fra due minuti lo sapranno tutti.»
«Non dirlo come se fosse una bella cosa.» In effetti Satch era l'equivalente della vecchia pettegola del villaggio su quella nave, per cui, se Marco avesse avuto ancora un minimo di sanità mentale, l'avrebbe rincorso per cercare di fermarlo dall'andare a raccontare in giro che si approfittava di minorenni ubriachi. Ma era chiaro che tutto quell'alcol doveva aver dato alla testa anche a lui, frutto o non frutto del diavolo.
«Hai un'erezione.» Ace rise ancora, mentre lo stringeva per le spalle per impedirgli di allontanarsi.
«Certo che ce l'ho» ribatté Marco. Come poteva pretendere di stargli così appiccicato, nudo, senza procurargli alcun tipo di reazione? Altro che cotta, come la chiamava Satch per sfotterlo. Si era preso una botta in piena regola, perché non ricordava da anni di provare delle emozioni così intense da finire in una situazione del genere e non riuscire a sentirsi in colpa.
«Vogliamo giocare a chi ce l'ha più lungo?» scherzò Ace. «Ti avverto: mio fratello è imbattibile. A lui si allunga
Marco non poté trattenersi dal ridacchiare: sapeva che Rufy aveva mangiato un Frutto del Diavolo che lo rendeva di gomma, ma non aveva mai pensato che ci potesse anche essere un'implicazione simile. «Be', forse non posso battere lui, ma ti assicuro che posso battere te.»
Ace lo fissò, mentre in viso gli si formava un sorriso estremamente soddisfatto. «Non importa» affermò. «Ho già vinto.» E, suo malgrado, Marco non poté far altro che dargli ragione, prima di tornare a baciarlo.

***

Akemichan parla senza coerenza:
Questa è una storia che ho scritto abbastanza in fretta e come al solito su ispirazione dell'immagine e di vari prompt, però non ne sono soddisfatta come le altre che scrivo in tanto tempo. Varrà la stessa cosa anche per alcune shot successive. Tuttavia ha avuto un successo incredibile dove l'ho pubblicata per cui mi ha restituito un po' l'autostima a questo riguardo XD L'idea riprende il solito headcanon di Marco che non si può ubriacare. Spero anche di non aver fatto sembrare Ace troppo stupido, ma mi piace l'idea che con la ciurma si 'lasci un po' andare' essendo lui, per una volta, il fratellino minore.
Grazie a tutti quelli che l'hanno letta e apprezzata.

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Capitolo 3
*** Cambiare ruolo ***


CAMBIARE RUOLO



Era tutto pronto per partire. Il pullman aveva fatto il pieno e aveva già il motore acceso, i giornalisti e i tifosi erano stati allontanati, le borse con tutto il necessario caricate nel bagagliaio. Edward Newgate, allenatore dei "Barbabianca" aveva anche dato le iniziali istruzioni; per quelle precise per la partita ci sarebbe stato tempo in palestra. Insomma, sarebbe stato tutto pronto, se non si fosse alzata una voce della ragione dai posti in fondo del pullman.
«Scusate, ma Ace dov'é?»
Portgas D. Ace, opposto e maglia numero 2, nonché asso della squadra, aveva un sacco di pregi come giocatore, ma un sacco di difetti come persona. Il ritardo cronico era fra questi, come la sua inspiegabile assenza dimostrava. Nessuno se ne era accorto fino a quel momento, ma a pensarci bene non l'avevano visto a colazione. E lui non saltava mai una colazione.
Marco imprecò mentalmente. «Lo vado a raccattare io» disse e scese dal pullman senza aggiungere altro. In quanto alzatore e capitano della squadra, si sentiva responsabile di quello che succedeva dentro e fuori dal campo. Cercava quindi di tenere sempre sotto controllo tutto, l'unico suo problema era che Ace era decisamente una persona incontrollabile.
Anche per questo motivo aveva chiesto all'hotel che le loro due stanze fossero comunicanti, così da essere sicuro di poterlo rintracciare. E aveva fatto bene, perché non ottenne nulla bussando e, quando entrò, trovò Ace che dormiva, tra l'altro nudo, nella grossa, occupando tutto il letto con le braccia e le gambe spalancate e russando con la bocca aperta. Un comportamento decisamente irresponsabile, considerando che avevano la partita fra poche ore.
Marco lo buttò giù dal letto in senso decisamente letterale, quindi lo trascinò senza nemmeno dargli il tempo di riprendersi per la collottola, fino al bagno, dove lo gettò sotto la doccia e aprì il getto. Quello di certo servì a svegliarsi.
«È fredda!» protestò Ace. «Ma che ti dice il cervello? »
«Dice che siamo già tutti sul pullman e manchi solo tu» rispose Marco, con un tono molto più calmo del suo effettivo stato emotivo.
«Ah... Mi sa che ho dormito troppo, eh?» Ace sorrise ammiccante, indicando che non si sentiva minimamente in colpa per quello che considerava un piccolo incidente di percorso.
«Datti una mossa.»
Marco decise di lasciare perdere e ottimizzare il suo tempo in qualcosa di più costruttivo, come verificare che la sua borsa fosse pronta. Tornò quindi in camera lasciandolo a finire di lavarsi per rovistare nel suo armadio. Lo smoking elegante per il viaggio era perfettamente stirato e appeso all'appendiabiti, quindi Marco si limitò ad appoggiarlo sulla poltrona. La borsa invece era un disastro e risistemarla non fu facile, perché le cose erano sparse per tutta la stanza in maniera casuale. Decise di non chiedersi come avesse fatto una delle scarpe a finire appoggiata sopra il comodino.
Quando ebbe terminato e poté tirare la zip della borsa assieme ad un sospiro di sollievo, si voltò. Ace era uscito dal bagno, anche se aveva ancora i capelli bagnati che si era tirato all'indietro formando un curioso effetto a 'leccata di mucca'. In teoria era vestito, avendo indossato lo smoking e tutto, in pratica era un disastro.
Marco gli si avvicinò, con la sua calma che stava lentamente abbandonandolo, e gli risistemò alla bell'e meglio la cravatta, mentre Ace sbadigliava e lo lasciava fare, come se non fossero assolutamente in ritardo per una partita importante. Quando fu sicuro di averlo reso quantomeno presentabile, prese la sua borsa e lo accompagnò verso il pullman tirandolo per un braccio.
Ace lo seguì docilmente finché non si accorse che non sarebbero passati per il ristorante. «Ma io non ho ancora fatto colazione!» protestò.
«Ti arrangi» ribatté Marco, spingendolo a forza su per le scale del pullman.
«Non posso giocare a stomaco vuoto!»
«Ti prenderemo qualcosa dopo.»
La discussione fu interrotta dall'applauso scrosciante che accolse il suo arrivo a bordo. Newgate, che era accomodato nel primo sedile, ridacchiò fra sé. A differenza di Marco che voleva avere tutto sotto controllo, gli altri trovavano divertenti le uscite poco convenzionali di Ace e non ne facevano mistero.
«Stavo dormendo» si giustificò Ace, con un sorriso e un'alzata di spalle, cosa che suscitò ancora più ilarità generale. Tempo di sedersi sul sedile a lui riservato e riprese il sonno da dove era stato interrotto.
Marco scosse la testa, prima di accomodarsi a fianco a lui. «Non sa cosa sia la tensione» commentò. «Non si ricorda che partita abbiamo oggi?»
«Figurati se non se lo ricorda!» esclamò Atomos. «L'ultima volta ha giurato vendetta in venti lingue diverse.»
«Ce la ricordiamo tutti» aggiunse Izou, con tono più tetro.
«Non giudicarlo male.» Barbabianca si voltò, riferendosi in particolare a Marco ma indirettamente a tutta la squadra. «È stato alzato tutta la notte a studiare i video dei nostri avversari. È pronto.»
A quella spiegazione, Marco si sentì un po' in colpa per averlo trattato in maniera così dura. Lo fissò: teneva la testa piegata ed appoggiata contro il vetro e russava con la bocca semichiusa. I capelli avevano ancora quella strana pettinatura, quindi gli risistemò un attimo la frangia per farle riassumere l'aspetto solito.
Ace gli piaceva, come giocatore e come persona. Voleva semplicemente che fosse un po' più responsabile, ecco tutto. Avrebbe reso tenere sotto controllo la situazione molto più facile, per lui. Almeno sul campo da gioco era più facile, ma nella vita vera un disastro.
Decise comunque di farsi perdonare chiedendo all'autista di fermarsi al primo autogrill disponibile per recuperare una quantità di provviste sufficiente a sfamare l'appetito di Ace che, apparentemente, consumava calorie ad un ritmo inaccettabile per qualsiasi dietologo sportivo, che infatti si era licenziato quando aveva capito che non sarebbe riuscito ad occuparsi di quella squadra. Ace, che si svegliò appunto quando il suo stomaco iniziò a brontolare troppo forte, pareva aver dimenticato l'incidente della mattina, per cui si gettò sul cibo senza troppi complimenti, ringraziandolo del pensiero. Lo smoking sarebbe stato ridotto in condizioni pietose, ma Marco decise che avrebbe lasciato correre, per quella volta.
Ace era una persona che, al contrario suo, non amava molto il controllo. O lo smoking. Soprattutto per la cravatta, che trovava opprimente e che preferiva tenere aperta. Si sentiva a suo agio solamente con la divisa della squadra addosso, con il numero due e il cognome 'Portgas' (aveva categoricamente rifiutato di usare quello di suo padre, per cui aveva fatto richiesta all'anagrafe per quello di sua madre) chiari sulla schiena.
Per cui, nello spogliatoio, fu il primo tra tutti ad essere pronto. La sua eccitazione e il suo buonumore si espansero al resto della squadra, che allentò la tensione che aveva avuto addosso fin dai giorni precedenti, sapendo che sfida li aspettava. Anche Newgate aveva poco da dire loro, dopo aver visto il miglioramento del loro umore.
«Che giocano sporco, lo sapete già, e sapete anche che non possiamo farci nulla. Giocate come siete capaci e andrà tutto bene.»
Era più facile a dirsi che a farsi. Ace strinse i denti e i pugni al ricordo della partita precedente, giocata nella loro palestra. Era stata una sconfitta netta, un 3-0 insindacabile proprio di fronte ai loro tifosi, ma ciò che gli bruciava maggiormente non era stata la sconfitta in sé, ma l'impotenza che aveva provato di fronte a ciò che era successo.
L'infortunio di Satch, che aveva dovuto saltare il resto della stagione, era stato chiaramente provocato. Lui stesso si era sentito pestare il piede sotto la rete, senza che l'arbitro se ne fosse accorto. Giocavano sporco, al limite della sportività, ma non venivano mai beccati. Alla fine Ace era sbottato, in maniera decisamente troppo veemente, e si era beccato la squalifica diretta, cosa che aveva portato la squadra a dover giocare senza l'opposto titolare, oltre alla multa salata che la società aveva dovuto pagare.
Fossa aveva fatto del suo meglio, così come gli altri, ma Ace si sentiva ugualmente responsabile e quindi si era ripromesso che non sarebbe successo di nuovo. In questa partita avrebbe umiliato la squadra di Teach in maniera ancora peggiore rispetto a quello che era successo all'andata. Non avrebbe ceduto alle loro provocazioni e sarebbe rimasto in campo fino alla fine.
Tuttavia, la tentazione di mandare qualcuno a quel paese gli tornò, nonostante i suoi buoni propositi, quando entrarono in campo per iniziare ad allenarsi prima della procedura ufficiale. Il loro ingresso fu accolto da una lunga serie di fischi derisori. Non che la cosa fosse sorprendente, dato che in un certo senso di trattava di un derby, poiché Marshall D. Teach era stato un ex-giocatore dei 'Barbabianca', ma li aveva mollati a metà stagione portandosi dietro tutti i segreti dei loro allenamenti, per formare una squadra rivale dal chiarissimo nome speculare 'Barbanera'. Oltretutto, poiché disponeva di sponsor potenti, si era potuto permettere acquisti di giocatori stranieri di fama.
Ace non gli aveva mai perdonato quello che considerava a tutti gli effetti un tradimento, perché non era stata una semplice scelta, ma un vero e proprio piano pensato fin dall'inizio, per cui il fatto che riscuotesse così tanti consensi lo indispettiva. Marco gli diede una leggera pacca sul culo.
«Controllati» gli sussurrò. «Almeno l'arbitro è Sengoku, di sicuro non gliela farà passare liscia come l'ultima volta.»
Ace lo sperava. Ciò nonostante sapeva già che non sarebbe stata una partita facile, dal modo aggressivo di comportarsi del pubblico. Un po' d'agonismo non aveva mai fatto male, ma con nessuna altra squadra c'era quell'accanimento. Non era il modo di comportarsi, non era da veri tifosi e giocatori.
Bastava vedere come esultavano o fischiavano a seconda che, durante l'allenamento ufficiale, fosse l'una o l'altra squadra a schiacciare. Almeno Marco aveva vinto il sorteggio, per cui avrebbero avuto il primo servizio della partita: era una soddisfazione. Come Marco riuscisse sempre a vincere era un mistero, tanto che la federazione aveva pure indagato, ma non c'erano trucchi, era puro culo. E che culo, pensò fra sé Ace, mentre lo osservava di schiena alzare una palla a Izou.
Però non era il tempo di pensare a quello: avevano una partita da vincere! Peccato che la pazienza di Ace fosse già messa a dura prova durante quell'allenamento, perché aveva notato perfettamente che l'altra squadra tendeva a schiacciare nel loro campo col la chiara intenzione di colpirli, mentre educazione richiedeva che cercassero di mirare unicamente nella zona libera, per non intralciare il loro lavoro.
Scoccò un'occhiataccia in cagnesco a Lafitte, che l'aveva quasi preso con una sua schiacciata, e fece voto di ignorare totalmente quella situazione. Le palle durante l'allenamento non contavano, la cosa fondamentale era tirarle giù una volta che fosse iniziata la partita. Aveva studiato a lungo per prepararsi a quel momento: Barbanera gliel'avrebbe pagata di sicuro!
Purtroppo non potevano contare su Satch come centrale, dato il suo infortunio. Curiel, che l'aveva sostituto come titolare, sentiva molto il peso della pressione per quel motivo, ma gli altri avevano piena fiducia nelle sue capacità, compreso l'altro centrale Vista e gli opposti-laterali Jaws e Atomos. Durante il suo turno sarebbe comunque stato sostituito da Speed Jiru, il libero, quindi non c'erano motivi per cui si preoccupasse della difesa.
L'umore di tutta la squadra migliorò sensibilmente durante la presentazione ufficiale della formazione, prima del fischio d'inizio. I loro mille e seicento tifosi erano finalmente arrivati in palestra, occupando la tribuna loro dedicata, e stavano cercando di fare un casino sufficiente a coprire i fischi del resto delle persone.
«Come fa tuo fratello ad urlare così forte?» domandò Vista ad Ace, ridacchiando fra sé. «Non si sente nient'altro a parte lui!»
«Non ne ho idea, ma non lo vorresti mai come coinquilino!» rispose lui, con un grosso sorriso. Voltò appena la testa verso la tribuna. Rufy, che non si preoccupava di essere contemporaneamente un suo tifoso e un suo avversario, in quanto capitano dei 'Cappello di Paglia', era proprio in prima fila, con maglietta e bandiera e il suo tipico cappello in testa. Era con tutta la sua squadra, anche se loro cercavano almeno di mantenere un contegno.
«Forza, Ace, falli neri!»
Un altro che invece del suo contegno se ne sbatteva, nonostante facesse parte della federazione di pallavolo, era l'altro suo fratello, Sabo, che non solo incoraggiava le pazzie di Rufy, ma pareva abbastanza fomentato dalla partita lui stesso. Probabilmente era perché si era accorto dell'antisportività dei 'Barbanera' e non aveva alcuna intenzione di supportarli.
Ace sorrise fra sé mentre si metteva in posizione e attendeva il fischio d'inizio. Non gli era mai importato veramente del giudizio degli altri, voleva solo diventare un giocatore bravo e famoso e riconosciuto da tutti. Che gli altri tifosi continuassero a gridare pure le loro maledizioni, lui aveva i fratelli e la sua squadra a supportarli.
Tuttavia, l'inizio della partita non fu assolutamente incoraggiante. La palla cadeva nel campo avversario, ma si rendevano conto che non riuscivano a giocare come al solito. I loro attacchi parevano lenti e prevedibili, perché il muro o la difesa avversaria era sempre pronta a bloccarli, anche se non sempre ci riusciva.
Newgate, in piedi davanti alla panchina, non fece nulla. Si limitò a studiare la situazione, rimanendo con le braccia conserte e gli occhi fissi sulla partita. Non c'erano dubbi che, per loro, quella partita fosse più difficile che per altre squadre, dato che Barbanera si era allenato con loro per anni e conosceva schemi e trucchi. Anche se Newgate aveva cercato di modificarli apposta, era impossibile rivoluzionare dei metodi di gioco consolidati nel poco tempo del campionato. Non gli restava che aver fiducia nei suoi giocatori.
Erano i giocatori stessi che, frustrati nel rendersi conto che gli altri li conoscevano fin troppo bene, avevano un po' perso quella fiducia. Marco cercava di cambiare schiacciatore ad ogni attacco, per movimentare il gioco, ma sembrava non bastare mai. Per altro si trovavano anche in difficoltà di fronte alle battute di Sanjuan Wolf, perché aveva una potenza tale da renderle quasi impossibili da prenderle.
Speed Jiru faceva del suo meglio, ma nonostante la sua tecnica invidiabile di bagher, erano più spesso le volte in cui la palla gli arrivava in faccia. Se la prendeva, erano comunque ricezioni sporche e quasi impossibili da rigiocare. Ace aveva tentato di recuperarne una, ma era finito ad inciampare nei cartelloni pubblicitari senza successo.
«Non andarci per forza» gli aveva detto Marco. «Se ti infortuni per una cosa inutile peggioreresti la situazione.»
«Almeno io faccio qualcosa!» gli aveva gridato in risposta, stringendo i denti.
Non ce l'aveva davvero con lui, ovviamente, più con se stesso perché non riusciva a martellare abbastanza il campo avversario. Quando il primo set terminò, non era tanto la sconfitta a bruciare, quanto il senso di impotenza che provavano. Gli altri lasciarono loro il posto libero sulla panchina, dove si accasciarono senza dire una parola.
«State giocando bene» cercò di consolarli Haruta, che faceva le funzioni di vice-allenatore, mentre distribuiva le borracce. «Non stanno facendo quello che vogliono come l'altra volta.»
«Però stanno vincendo lo stesso!» sbottò Ace, seccato. Non aveva granché senso la gloria se non veniva suffragata da un risultato. Scoccò anche un'occhiata nell'altra panchina, dove vedeva benissimo Teach che se la rideva soddisfatto.
«Haruta ha ragione» disse Newgate. Nonostante la situazione, non sembrava aver perso la calma. «Cercate di prendere il vostro ritmo in modo da imporlo anche a loro.»
Nonostante le parole di incoraggiamento, però, il secondo set iniziò e proseguì in modo ancora peggiore rispetto al primo. Erano stati gli avversari a decidere l'andamento della partita, a prescindere da quello che facevano. Soprattutto, avevano trovato il modo di bloccare Ace, che veniva il più delle volte murato, o comunque le sue schiacciate erano smorzate e ciò permetteva la copertura della difesa e consentiva ai Barbanera di poter rigiocare nuovamente la palla.
Ciò che ferì maggiormente Ace non fu però la consapevolezza di essere diventato così facile da bloccare, ma il fatto che Marco aveva smesso di servirlo. Non che non lo comprendesse, in fondo (molto in fondo): un opposto che non riusciva a schiacciare non era in partita e aveva solo senso che l'alzatore lo utilizzasse più raramente. Eppure si sentiva deluso, come se Marco non avesse più fiducia nelle sue capacità come giocatore.
Cercò comunque di rendersi utile alla squadra in difesa e a muro, finché Burgess, l'opposto dei Barbanera, non lo centrò in pieno viso con una delle sue schiacciate. Era stata anche colpa di Ace, perché il suo tentativo di muro era decisamente scomposto, ma lui ebbe la chiara idea che avesse mirato consapevolmente alla sua faccia.
«Arbitro, ma non hai visto che l'ha fatto apposta? Non si fa così?»
«Ma c'hai le fette di prosciutto sugli occhi? Domani ti faccio squalificare!»
Non era l'unico a pensarla in quella maniera, da ciò che sentiva dagli spalti e soprattutto dai suoi due fratelli. Nonostante Sabo, per il ruolo che ricopriva, avrebbe per lo meno dovuto evitare prese di posizioni così nette nei confronti del collegio arbitrale.
Sengoku comunque fu irremovibile nel dare punto, dato che la palla era passata dalla faccia di Ace nel campo, e questo nonostante la vistosa botta e il sangue che aveva preso a colargli dal naso. Marco gli diede una mano ad alzarsi, ma subito dopo Newgate lo sostituì con Fossa per dargli il tempo di riprendersi.
Ace prese il fazzoletto bagnato che Haruta gli stava porgendo per metterselo in viso a fermare l'emorragia e poi calciò con forza la prima borraccia d'acqua che gli capitò sottomano. Odiava essere sostituito, anche se in quel caso era inevitabile perché non poteva continuare a giocare col rischio di insozzare tutto il campo di sangue.
A Sengoku quel gesto non sfuggì, per cui convocò immediatamente il capitano Marco per avvertirlo che simili comportamenti non sarebbero stati tollerati. Anche se Ace era troppo distante dal seggiolone per sentire quello che si stavano dicendo, capì ugualmente e alzò la mano in segno di pace, quindi crollò di schianto sulla panchina continuando a premersi sul viso l'asciugamano.
«Se loro ti tirano una pallonata addosso però va tutto bene, eh» commentò Namur, con tono polemico ma sufficientemente basso a non essere sentito dal secondo arbitro Kuzan, che aveva il compito di controllare le panchine. Il resto della squadra la pensava alla stessa maniera e anche Ace annuì, ma non potevano farci nulla.
Newgate era l'unico che non sembrava irritato dalla situazione, ma continuava a osservare l'andamento della partita con occhi concentrati, non prestando assolutamente attenzione alla squadra avversaria e soprattutto alla loro panchina, con Teach che pareva ormai convinto di averlo superato come allenatore.
L'assenza di Ace in campo non condizionò il risultato, dato che comunque non riusciva più a tirare giù una palla, per cui i Barbabianca finirono il set con un'altra sconfitta, nonostante non si potesse dire che avessero giocato male. Semplicemente, non riuscivano a farlo efficacemente come al solito.
«Come stai?» fu la prima cosa che Marco disse una volta uscito dal campo, poggiando una mano sulla spalla di Ace. In quanto Capitano, era suo compito curarsi della salute dei suoi compagni. Si sentiva in colpa anche perché era la seconda volta che uno dei suoi veniva infortunato davanti ai suoi occhi, contro quella squadra, senza che riuscisse a impedirlo. Per lui che voleva sempre avere tutto sotto controllo era tremendo.
«Sto a posto» replicò Ace. «Sono pronto a tornare in campo» precisò. Non aveva la minima intenzione di lasciare i suoi compagni a continuare quella sfida da soli. Era l'asso della squadra, era suo compito portarli alla vittoria, anche se questa si era allontanata molto, ora che erano sotto di due set.
«Cambiamo formazione» annunciò Newgate, una volta che tutti si furono seduti sulla panca a riposare e a bere. Poteva benissimo vedere la perplessità nei loro occhi, soprattutto in quelli di Marco e Ace. Il primo era già pronto ad intervenire sostenendo che non ce n'era bisogno, perché stavano tutti dando del loro meglio, mentre il secondo temeva davvero di essere lasciato in panchina, ma Newgate alzò la mano per impedire loro di parlare prima che avesse finito. «Sposto Ace come alzatore e Marco come opposto.»
«Che cosa?!» L'intera squadra era rimasta stupefatta. I ruoli erano da sempre prestabiliti. Certo, capitava nel corso della partita che un centrale facesse veci di alzatore di tanto in tanto, ma quello che Newgate stava proponendo loro era un cambiamento radicale di tutti i loro schemi provati e comprovati in allenamento.
«Non credo sia una buona idea» disse Marco, dopo aver scambiato una breve occhiata con i suoi compagni. «Io non sono in grado di schiacciare con la stessa potenza.»
«E io non alzo da anni» aggiunse Ace. «Farei solo falli di doppia.» Non gli piaceva ammettere una sua mancanza, ma giocando con i Barbabianca aveva imparato ad apprezzare l'idea di non essere da solo, di avere dei compagni che lo supportavano. Il suo compito era quello di schiacciare, a Marco di alzargli la palla.
Newgate annuì gravemente e aspettò che il brusio perplesso si calmasse prima di proseguire. «Però sai alzare. Lo facevi, una volta.»
«Sì, in under 15» replicò Ace, con tono un po' troppo polemico. Era il periodo in cui giocava ancora nella squadra locale di Goa, assieme ai suoi due fratelli, prima che diventassero tutti e tre dei professionisti. Poiché litigavano sempre su chi dovesse essere lo schiacciatore titolare, Garp, che faceva loro da allenatore oltre che da nonno, li aveva sempre alternati, per cui sapevano alzare, all'epoca. Però erano almeno quattro anni che non si allenava più per quella posizione.
«Ce lo faremo bastare.» Newgate si rivolse a Marco. «I nostri schemi sono prevedibili, soprattutto i tuoi. Vuoi sempre avere tutto sotto controllo, sempre essere responsabile, ma questo ci si sta rivoltando contro. Voglio provare con un regista più imprevedibile e voglio che anche tu sperimenti nuove possibilità.»
Marco annuì. Non era convinto di quella scelta e non si faceva scrupoli a farlo capire con la sua espressione perplessa, ma aveva grande rispetto in Newgate come allenatore e l'avrebbe supportato, anche se non approvava quella particolare decisione, dato che gli sembrava senza senso.
«Non preoccuparti di sbagliare» disse Haruta ad Ace, poco prima che rientrassero in campo. «Tanto stiamo già perdendo, tanto vale provarci in tutte le maniere.»
Non era esattamente la maniera migliore di incoraggiarlo, ricordargli che nonostante tutti i loro buoni propositi Teach stava di nuovo trionfando, ma Ace capì che stava solo cercare di assicurarsi che non si sarebbe incolpato per la sconfitta, quindi la ringraziò ed entrò in campo con un leggero sorriso sul volto. Che si allargò a sentire gli incoraggiamenti dei fratelli.
«La partita non è finita finché l'ultima palla non cade per terra!» gridò Rufy, fra le varie cose.
Questo, assieme al fatto che iniziava il set in battuta, com'era tipico degli alzatori, gli ricordò inconsciamente il periodo in cui giocavano tutti e tre nella stessa squadra. Erano ancora ragazzini, anche se di talento, eppure prendevano le partite con impegno e non si arrendevano mai, quale che fosse la situazione. Rufy, poi, era sempre pronto alle pazzie e considerava ogni giocata una nuova avventura.
Di sicuro, quella che Ace e il resto dei Barbabianca stava per affrontare non si poteva definire in maniera diversa. Ace sorrise tra sé, mentre faceva rimbalzare a terra la palla in attesa del fischio d'inizio: tanto valeva godersela. Capì subito di aver fatto la battuta migliore della giornata, nel momento stesso in cui la sua mano colpì la palla. L'aveva sentito e ciò gli diede una sferzata di ottimismo.
Lafitte riuscì a prenderla, ma non in maniera precisa, per cui la palla tornò nel loro campo, pronta per essere rigiocata. Speed Jiru la ricevette agevolmente e poté indirizzarla senza alcun problema in direzione di Ace, che la alzò perfettamente verso Jaws, che la schiacciò in campo con la sua solita potenza. Non aveva avuto nemmeno il muro a tentare di fermarlo, perché erano tutti concentrati su Ace, scordandosi che non avrebbe mai potuto schiacciare, dato che partiva dalla seconda linea.
«Ace ha... Alzato...?» Doc Q, il fisioterapista dei Barbanera, era davvero molto perplesso dalla cosa. Teach, al contrario, cercava di non farlo vedere. Scoccò un'occhiata alla panchina avversaria dove Newgate ghignava fra sé per la bella pensata che aveva avuto.
Teach si era accorto che qualcosa non andava nella formazione, quando aveva visto Ace in battuta al posto di Marco, ma il resto dei titolari era rimasto uguale e i due erano comunque agli angoli opposti, per cui aveva pensato che fosse una semplice rotazione differente. Certo, quello che era successo l'aveva stupito particolarmente, perché non aveva mai visto Ace alzare per tutto il periodo in cui era rimasto in squadra con lui, anche se sapeva che era un giocatore completo.
«Non preoccupatevi» gridò alla sua squadra. «Non si diventa palleggiatori da un giorno all'altro. Continuate a giocare come avete fatto finora e andrà tutto bene.» Era infatti certo che Ace, per quanto bravo, non avrebbe potuto reggere il ritmo di tre set. C'erano solamente due alternative, o avrebbe commesso errori finendo per avvantaggiare loro, oppure sarebbero tornati alla formazione iniziale, che sapevano ben contrastare.
Era una mossa disperata di Newgate e presto le conseguenze sarebbero state visibili a tutti.
C'erano molte persone perplesse quanto lui per i cambio di formazione ma, nel pubblico, solamente due erano certe che la scelta di Newgate fosse quella vincente e si trattava, ovviamente, di Rufy e Sabo.
«Quando giocavamo assieme a Goa, ho ricevuto le alzate di Ace molto spesso» spiegò Sabo a Koala, che era rimasta decisamente stupita, come gli altri, dello spostamento di ruolo. «È davvero bravo.»
«Eccome!» confermò Rufy, sorridendo. Per lui quel cambio di strategia rendeva semplicemente la partita più divertente e più interessante da seguire. Era qualcosa di così pazzo che forse solo lui avrebbe potuto pensarci. «Ace è un tipo di alzatore che pensa ai propri compagni prima che agli schemi. Sono sicuro che se la caverà benissimo!»
«Non mancherà un po' di precisione?» domandò Koala, senza alcun intento polemico. I palleggiatori erano quelli che gli arbitri controllavano maggiormente, sia per i falli di doppia che per quelli di posizione, dato che si trattava in pratica del regista della squadra. Ace doveva stare molto attento a tutti i fondamentali.
«Forse sì» annuì Sabo. «Ma ti assicuro che è un rischio che vale la pena correre.»
Lui e Rufy non si sbagliavano. Ace, di tanto in tanto, falliva il palleggio e gli veniva fischiata una doppia, regalando il punto agli avversari, ma erano briciole rispetto a ciò che ottenevano grazie ai suoi attacchi. Le sue giocate erano così imprevedibili, spandendosi per tutto il campo, che spesso persino i suoi compagni faticavano a stargli dietro. Per gli avversari era diventato praticamente impossibile capire dove murare e dove difendere, quindi era raro che la palla non cadesse a terra. La frustrazione dei Barbanera, che non riuscivano più a imporre il loro ritmo, era palpabile nell'atmosfera dell'intera palestra e nei numerosi errori che la squadra finiva per commettere, mentre i Barbabianca macinavano punti su punti.
«La prossima la alzo a te» annunciò Ace a Marco, durante il time-out che Teach aveva chiesto per cercare di infilare un po' di buon senso ai suoi giocatori, come le sue grida ben dimostravano.
«Non so se sia il caso.» Era di turno in battuta e sapeva bene che con le sue palle a effetto avrebbe potuto mettere in difficoltà la difesa avversaria. Inoltre, dava una mano in copertura e a muro. Sentiva di non poter fare altro per aiutare la propria squadra, perché non era il suo ruolo quello di opposto.
«Sciocchezze.» Ace era di ottimo umore e non faceva nulla per nasconderlo. Se aveva deciso così, non c'era modo di fargli cambiare idea, per cui Marco annuì e, quando tornarono in campo, si preparò mentalmente all'idea di schiacciare.
La difesa dei Barbanera era stata scomposta, ma erano comunque riusciti ad attaccare. Speed Jiru era stato rapido a recuperarla e, come aveva annunciato, Ace l'alzò per Marco dalla seconda linea. Anche se era una posizione più distaccata, rispetto alla rete, Marco notò benissimo il campo avversario che si espandeva di fronte a sé mentre saltava. I suoi occhi corsero immediatamente a cercare il punto più scoperto e il braccio schiacciò quasi in automatico verso quella direzione.
La palla si schiantò al suolo esattamente nella zona di conflitto tra Burgess e Van Auger, senza che nessuno dei due riuscisse a muoversi per recuperarla. Marco atterrò di schianto e si fissò la mano, sentendo ancora il bruciore del palmo che aveva impattato contro la palla, incredulo.
«Che ti avevo detto?» commentò Ace allegro, mentre tutto il resto della squadra festeggiava il punto guadagnato.
Marco annuì facendo un debole sorriso, ma tornò in battuta ancora perplesso. Come tutti, aveva avuto anche un periodo in cui si era allenato come schiacciatore, da ragazzo, quando gli allenatori facevano provare i vari ruoli per poter comprendere quale fosse quello più adatto per ognuno. Poi Newgate l'aveva accolto nella sua squadra e non si era più tolto dal compito di palleggiatore e regista della squadra.
Era stato così impegnato a controllare tutto, ad occuparsi dei suo compagni, che non solo aveva finito di dimenticarsi cosa davvero significasse divertirsi mentre si giocava, ma anche la bellezza che gli schiacciatori provavano quando balzavano il alto e superavano la rete. Anche se non era un confronto diretto, in quei pochi secondi di fluttuazione in aria si svolgeva un'intera sfida tra lo schiacciatore e la difesa avversaria. L'adrenalina schizzava alle stelle e si prendevano decisioni istantanee, quasi istintive.
Newgate aveva ragione. Il suo gioco era diventato davvero troppo prevedibile, anche perché aveva totalmente scordato che cosa significasse essere uno schiacciatore. Se non era più in grado di alzare una palla come si doveva, era per quel motivo. Era grato di poter avere l'occasione di comprendere meglio i sentimenti dei suoi compagni.
«Ohi, dopo proviamo anche una formazione a due palleggiatori» gli disse Ace al termine del set.
«È uno schema da ragazze.»
«E quindi? Sarà divertente!»
Anche lui stava sperimentando una serie di sensazioni nuove. Aveva finito per appoggiarsi totalmente a Marco, dandogli pesi e responsabilità che non gli competevano, come quella mattina, dove aveva lasciato che fosse lui a venire a svegliarlo e addirittura a vestirlo e sistemargli la cravatta. Invece erano una squadra e a tutti spettava il compito di fare del proprio meglio per supportare i compagni. Se Marco era diventato così controllato, era perché tutti loro si erano affidati troppo alla sua regia.
Era ora di tornare ad essere una vera squadra di pallavolo. Una squadra che si divertiva a giocare. Incredibile a dirsi, ma dovevano ringraziare Teach per quello!
La vittoria, per 3-2, fu bellissima non solo per la grande rimonta, non solo perché erano riusciti a battere il traditore e vendicare ciò che era successo con Satch, ma soprattutto perché sentivano di aver riscoperto un qualcosa di sé che avevano un po' perso, preda dell'abitudine e della routine. Marco, mentre guardava Ace che correva sotto la curva ad incoraggiare i propri tifosi a urlare sempre più forte, sorrise. Lui aveva probabilmente imparato più di tutti. Non che avrebbe smesso di preoccuparsi per gli altri ed essere irresponsabile ma, certamente, avrebbe tentato di allentare un po' il controllo, soprattutto su se stesso.
E questa sua consapevolezza fu messa immediatamente alla prova quando Ace tornò verso di lui e, approfittando degli altri compagni che lo nascondevano alla vista, lo baciò. Fu un bacio accennato, con le labbra che si sfiorarono appena prima che Ace si voltasse e tornasse a festeggiare la vittoria con gli altri, ma senza dubbio un bacio.
E Marco si leccò le labbra per memorizzare la sensazione, mentre si recava nel settore delle interviste, pensando che sì: certe volte valeva la pena non avere controllo.

***

Akemichan parla senza coerenza:
Questo capitolo è sicuramente uscito dalla mia passione per la pallavolo, ma c'è da dire che amo profondamente l'idea dei pirati di Barbabianca come squadra sportiva in una Modern!AU, è qualcosa che ho già utilizzato anche se non in termini così precisi. Vi chiedo scusa se alcune cose vi paiono incomprensibili, ma magari può essere una buona occasione per avvicinarsi alla pallavolo XD Non ho davvero nulla di più da dire su questo capitolo, se non che so che le sport!au non sono molto amate ma io le adoro e questa in particolare l'ho trovata adattissima al contesto di Marco e Ace. Se riuscite ad arrivare alla fine indenni fatemi sapere cosa ne pensate XD

 

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Capitolo 4
*** Il segreto ***


Il segreto



Ace amava il mare, da sempre. Aveva passato anni della sua infanzia, da solo o in compagnia, a fissarne l'orizzonte chiedendosi come sarebbe stato navigarvi sopra e superarne in confini.
Quello che gli piaceva di meno era finirci dentro, almeno da quando aveva mangiato il Frutto del Diavolo. La sensazione di debolezza, l'impossibilità di muoversi mentre affondava e la massa liquida che lo stringeva dentro di sé erano completamente contrarie all'idea di libertà che Ace cercava e che la superficie, vista dall'alto di una nave, gli offriva.
Fortunatamente aveva anche dei compagni che erano sempre pronti a gettarsi in acqua per salvarlo, altrimenti sarebbe morto alla prima occasione, specialmente considerando quante volte Barbabianca l'aveva scaraventato in mare per difendersi dai suoi attacchi. Ma anche senza il suo aiuto Ace riusciva a finirci dentro, in una maniera o in un'altra.
«Come hai fatto, stavolta?» gli domandò Marco, a metà fra l'incredulo e il divertito.
Satch stava cercando di trattenersi dalle risate, ma con scarsi risultati. «Stava mangiando seduto sul parapetto e si è addormentato
«Ridi, ridi, vorrei vedere te» borbottò Ace fra sé, ma pure gli altri compagni presenti non riuscivano a non ridere delle sue disavventure. Per non guardarli, incendiò completamente il suo corpo in modo da asciugarsi e da liberarsi della fastidiosa sensazione del sale sulla pelle.
Quando fu tornato perfettamente  asciutto, guardò con un certo tono di superiorità Satch, che invece era ancora completamente zuppo. Non che servisse a farlo smettere di ridere, ma lo faceva comunque sentire un po' meglio. Marco aveva un sorriso appena accennato sul viso e poi scosse la testa: a volte era davvero difficile avere a che fare con dei casinisti simili come compagni.
Solo in quel momento Ace si rese conto che, come lui, era perfettamente asciutto. Ricordava, prima di cadere addormentato, che Satch e Marco fossero entrambi al suo fianco, ma solo il primo si era precipitato a raccoglierlo prima che affondasse. Non che la cosa importasse, bastava che qualcuno lo raccattasse, eppure ciò gli fece venire in mente che, per quello che si ricordava, Marco era stato uno dei pochi, in ciurma, a non salvarlo. Poteva essere semplicemente un caso, dato che in un gruppo composto da mille e seicento persone capitava che non tutti facessero qualcosa - e lui non cadeva in acqua così spesso!
Eppure questa cosa gli mise un tarlo in testa, dato che Marco era spesso accanto a lui, specie nei primi tempi quando lui e Satch cercavano di incoraggiarlo a unirsi a loro. Abbastanza vicino da controllarlo e incoraggiarlo, ma non da salvarlo. Per una persona così insicura dei proprio affetti come Ace, fu indubbio che quella scoperta imprevista lo lasciò confuso.
Ovviamente non era una cosa che Ace poteva andare a chiedere direttamente a Marco, non l'avrebbe mai fatto. Però continuava a pensarci continuamente, al punto di controllare se, in qualche maniera, notasse un diverso modo di comportarsi di Marco nei confronti del resto della ciurma, ma non scoprì nulla di rilevante. Marco era quello che teneva tutto sotto controllo e impediva alle gente di fare eccessive cavolate: indubbio che Ace e Satch finissero per essere le sue vittime preferite, dato i casini che combinavano.
Così Ace continuava a domandarsi se ci fosse un motivo per cui Marco non voleva salvarlo personalmente e lasciava fare il lavoro agli altri. Potevano essercene un centinaio, ovviamente, ma la sua mente bacata continuava a mostrargli scenari in cui, semplicemente, a Marco non importava sufficientemente di lui. Certo, l'aveva incoraggiato a entrare in ciurma, ma quelli non erano forse ordini del Capitano?
L'occasione giusta per mettere alla prova le sue teorie arrivò un soleggiato pomeriggio, quando Ace, dato che era l'unico che non soffriva per l'alta temperatura, ad occuparsi del lavaggio del ponte, cosa che era per di più particolarmente tediosa perché l'acqua evaporava in un istante subito dopo aver passato lo straccio.
«Vabbe', oh, più di così non posso fare» commentò ad alta voce dopo l'ennesimo tentativo. Non si poteva fare. Per altro, benché non fosse un problema per lui aiutare la ciurma con i lavori più umili, odiava stare da solo. Un tempo era sempre da solo e non lo ricordava con piacere.
Una risata appena accennata venne da dietro. «Ti hanno messo in punizione?» domandò divertito Marco, quando Ace si voltò verso di lui.
«Per chi mi hai preso, per un bambino?» Marco rispose alzando appena le sopracciglia. «Molto divertente» commentò Ace con un broncio sul viso, prima di gettare lo straccio nel secchio ormai vuoto. «Sono l'unico che resiste sul ponte, quindi è toccato a me» spiegò.
Marco sospirò appena. «Chiunque ti abbia detto di farlo, ti stava prendendo in giro.»
«Oh, grandioso» sbottò Ace, pensando già alla vendetta che aspettava Izou, non appena gli fosse venuta l'idea giusta in mente. Probabilmente gli avrebbe nascosto o distrutto tutti i trucchi a disposizione.
«Io non ti ho visto, comunque» disse Marco leggermente. Partecipava agli scherzi molto volentieri, ma più spesso li rovinava prendendo la parte di quello che veniva preso di mira, cosa per cui Ace lo amava e odiava allo stesso tempo.
«Tu non hai caldo?» gli domandò. Non aveva davvero idea di quanto caldo facesse, dato che non sentiva più le temperature.
«Molto. Devo solo dare un'occhiata alla rotta» spiegò Marco, che si era avvicinato al parapetto e stava guardando attorno alla nave. «L'ha settata Namur, quindi non sono preoccupato, ma è meglio controllare di tanto in tanto.» E naturalmente nessuno era disposto a lasciare la tranquillità del sottocoperta con quella calura, per cui era ovvio che toccasse a lui.
«Capisco» mormorò Ace, avvicinandosi a lui. «Se vuoi posso farlo io, tanto non soffro il caldo.» E almeno era sicuro che, in quel caso, si trattava di un lavoro davvero importante da fare e non uno stupido scherzo.
«Non è necessario» gli rispose Marco gentilmente. «Basta dare un'occhiata di tanto in tanto. E anche se non senti il caldo, potresti comunque prenderti una scottatura. Torna pure dentro.»
Ace annuì e gli riservò un leggero sorriso: almeno sembrava preoccuparsi della sua salute, il che era meglio che niente. Non era possibile che si preoccupasse meno della sua morte, no? Il mare sotto di loro era blu scuro, agitato, con la schiuma creata dal passaggio della nave che appariva e scompariva inghiottita dalle profondità marine. Ace vi fissò i suoi occhi neri, attratto inevitabilmente. Se fosse caduto in quel momento, solo Marco avrebbe potuto salvarlo.
Ace rabbrividì, spaventato dai suoi stessi pensieri pericolosi.
Un soffio di vento, afoso come il resto dell'aria, attraversò all'improvviso il ponte e gli sollevò il cappello. Ace balzò sul parapetto allungando la mano in avanti per afferrarlo in tempo con il medio e il pollice per la testa. Lo sbilanciamento provocato dal tentativo lo fece precipitare, o forse era stato Ace stesso, volontariamente, a lanciarsi troppo avanti, per mettere Marco alla prova.
Il suo corpo precipitò comunque a peso morto, senza nemmeno il tempo di reagire. Solo il contatto con l'acqua lo risvegliò, ma non c'era a quel punto molto che potesse fare a parte stringere la presa più forte sulla tesa del cappello. Teneva gli occhi aperti e il sole brillava appena, schermato da quella passa liquida che lo stava inghiottendo e trascinando in basso. Precipitava lentamente, ma precipitava trascinato da mani invisibili.
Solitamente i suoi compagni riuscivano a recuperarlo abbastanza in fretta, prima che perdesse conoscenza, ma non fu quello il caso, perché sentì che non sarebbe riuscito a trattenere il fiato ancora a lungo, nonostante il fastidio dell'acqua che gli solleticava le labbra e le narici. Dannazione, aveva una cosa, una sola che doveva rispettare e che aveva promesso a Rufy e non sarebbe riuscita a mantenerla.
I suoi polmoni si aprirono per respirare e l'acqua gli entrò in bocca. Tentò di agitarsi e di cacciarla, ma i suoi movimenti erano lenti da apparire quasi fermo. Ciò non faceva altro che farlo agitare maggiormente e fargli respirare ancora più acqua. La cosa successiva che si ricordava era la faccia di Satch chinata su di lui con le labbra schiuse.
«Che cavolo fai!» esclamò, balzando in piedi anche se a fatica, tossendo. Era completamente zuppo, con l'acqua che gli gocciolava dai capelli e dai vestiti. La gola gli bruciava e ciò gli rendeva difficile parlare.
«Ti salvo la vita» protestò Satch, offeso. «Con la respirazione bocca a bocca.»
Namur, che era accanto a lui e che era indicato come suo salvatore dai vestiti bagnati, rise appena alla faccia sconvolta di Ace. «Avevi bevuto parecchio, per fortuna che Marco mi ha chiamato in tempo.» Come uomo-pesce, era veloce a nuotare e la profondità non costituiva un problema per lui, considerando che respirava sott'acqua, ma la stessa cosa non si poteva dire per gli esseri umani.
«Grazie...» mormorò Ace appena, mentre, con il cervello che riprendeva a funzionare, si rendeva conto della situazione. Marco non si era gettato a salvarlo nemmeno in quell'occasione. Se l'avesse fatto, sarebbe riuscito a recuperarlo in fretta, come succedeva sempre. Invece era andato appositamente a chiamare altre persone. Oh, almeno aveva avuto l'accortezza di scegliere proprio Namur, fra tutti.
«Dai, non spaventarti, non è successo niente» disse Namur, battendogli una mano sulla spalla. Era strano vedere Ace così sconvolto, proprio lui che non aveva avuto alcuna esitazione a cercare di fare qualcosa di impossibile come sconfiggere Barbabianca.
«No, è solo che...» Marco era in piedi leggermente più distante da loro e stava controllando tutta la situazione, ma non era intervenuto. «Non potevi buttarti in mare tu?» L'aveva detto, alla fine. Il tono era riuscito un po' più polemico di quello che prevedeva, per nascondere la delusione.
Marco alzò leggermente un sopracciglio. «Ti sei buttato apposta?» domandò, serio. «Che cos'era, una prova?»
«No! È stato il cappello...» Ace si girò attorno per cercarlo e lo trovò appoggiato sul ponte e completamente zuppo. Almeno era riuscito a salvarlo. Lo prese, facendo cadere una cascata d'acqua, per cui illuminò il dorso delle mani di fiamme per asciugarlo. E per poter concentrare la sua attenzione su quello e non su Marco, che lo stava scrutando attentamente.
«Bene» disse lui e poi si voltò e tornò sottocoperta.
Satch passava lo sguardo fra i due, perplesso. «Guarda che Marco ha un Frutto dei Diavolo» commentò in direzione di Ace, che stava continuando a fissare intensamente il suo cappello.
«Che?»
«Ah, ma quindi non lo sapevi!» esclamò Satch. «Non ci credo!»
Ora sì che Ace si sentiva un idiota. Quella era davvero la spiegazione più semplice che si poteva trovare a giustificare il suo comportamento, ma ovviamente il cervello bacato che si ritrovava figuriamoci se ci aveva pensato. Aveva trovato tanti altri motivi, ma non quello ovvio.
«Ma... Ma non me l'ha mai detto» protestò. Sapeva che altri membri della ciurma ne possedevano, tra cui Jozu, ma erano tutte persone che non ne facevano mistero e che lo usavano per combattere. Marco era stato molto attento a non farsi notare. «Che Frutto ha?»
Satch e Namur si guardarono, sorridendo complici. «No, no, se non vuole dirtelo...»
«Ma io voglio saperlo!»
«Primo o poi lo scoprirai, non è una cosa che si può nascondere a lungo. Coraggio.» Satch si era alzato e gli aveva messo il braccio attorno alle spalle in maniera complice, ma divertita. «Comunque, per punizione visto il colpo che ci hai fatto prendere, ti tocca fare il turno di notte per tutta la settimana.»
«Ho quasi rischiato di affogare e mi devo fare la notte in bianco?» protestò Ace, sottraendosi alla sua presa.
«Credimi, ne varrà la pena» commentò Satch, in tono complice.
Non che Ace fosse incline a credergli, dato che lui era uno di quelli che amava fare più scherzi in assoluto, ma anche Namur aveva annuito e in ogni caso era troppo preso dalla nuova scoperta riguardante il Frutto del Diavolo di Marco. Per cui si autoconvinse che forse Satch non lo stesse effettivamente prendendo in giro o che, per lo meno, in questo caso preferisse più indirizzare la sua attenzione nei riguardi di Marco e volesse aiutarlo davvero a scoprire che cosa nascondesse. Mal che andava, avrebbe sempre potuto pestarlo.
Ed era quella la tentazione che gli era venuta dopo due giorni di veglia notturna senza alcun vantaggio personale. La terza l'avrebbe passata probabilmente a inveirlo e a progettare come vendicarsi sia di lui sia di Izou, che gli aveva fatto inutilmente pulire il ponte, ma il suo tempo fu occupato in maniera completamente diversa.
Fu il bagliore che era apparso nel cielo ad attirarlo e a impedirgli di diventare preda del sonno. All'inizio era un puntino nel cielo, facilmente scambiabile per una stella, ma man mano che si avvicinava diventava sempre più grande e assumeva dei contorni ben definitivi. Ace balzò giù dalla coffa e corse sul ponte di poppa. Strinse gli occhi per verificare bene, fino a capire che si trattava di un uccello.
E che uccello! Il più strano che avesse mai visto, perché oltre a sembrare discretamente grande, sembrava circondato da delle fiamme di colore azzurro. Man mano che si avvicinava, appariva sempre più chiaro che quelle non erano semplicemente fiamme, ma le sue piume. Lo si notava soprattutto nella lunga coda scintillante, formata da tre lunghe parti a cerchi dorati. Che razza era? E, soprattutto, era commestibile?
Ace fece una serie di passi indietro quando capì che l'uccello si stava dirigendo proprio verso di lui e contemporaneamente allargò il palmo per farvi apparire delle fiamme, pronto ad attaccare nel caso si fosse rivelato un nemico. Eppure, più si avvicinava più lo splendore delle fiamme blu andava scemando, finché non fu quasi davanti a lui e solo allora diventò completamente un uomo, che atterrò senza alcuna difficoltà sul parapetto.
Il ponte era tornato completamente buio, tranne per il palmo infuocato di Ace, che venne alzato davanti a lui per poter vedere meglio. Marco era in piedi di fronte a lui, con le ombre che non nascondevano il suo sorriso ironico nel fissarlo.
«È questo... Il tuo Frutto...?» mormorò appena Ace, con ancora negli occhi il brillare di quelle piume blu infiammate.
«Ora lo sai.» Marco annuì appena e scese con un balzo sul ponte.
«Non ho mai visto uno Zoan così...» Gli era capitato di scontrarsi contro di loro e di vedere le loro diverse forme, ma tutte assumevano la sembianza precisa degli animali che il loro Frutto rappresentava. Quell'uccello era persino più strano dei mostri marini della Rotta Maggiore.
«Il mio è lo Zoan mitologico della Fenice» gli spiegò Marco. «Conosci la leggenda.» Ace annuì: continuava a scrutarlo pensando di vedere improvvisamente spuntare fiamme blu. «Si tratta di una creatura in grado di resuscitare dalle proprie ceneri. Questo è quello che posso fare.»
«Cioè, sei immortale?» si stupì Ace, riprendendosi un attimo dalla sua ricerca delle piume.
«Non proprio» rise Marco. «Ma posso guarire ogni ferita.» Alzò una mano e la avvicinò a quella di Ace, ancora in fiamme e alzata per illuminare la zona. «Avanti, prova a bruciarmi.»
Ace gli osservò il palmo, poco convinto. «Potrei farti molto male» lo avvertì.
Marco fece un sorriso ironico. «Non credo proprio, ragazzino.» Sapeva bene che un commento del genere sarebbe stato più che sufficiente a convincerlo a provare, difatti non passò nemmeno un minuto che Ace aveva unito i loro due palmi.
Le loro dita si incrociarono, con naturalezza, mentre alcune bruciature nere iniziavano a comparire sulla pelle di Marco. In un istante, vennero fatte scomparire, sostituite da quelle fiamme blu che avevano colpito Ace in precedenza. Non sembravano calde come le sue, nonostante si muovessero nello stesso modo. Ace non riusciva a staccare gli occhi da quei due colori, blu e arancione, che si univano e volteggiavano assieme nell'oscurità della notte. Avvertiva la presa della mano di Marco su di lui e non riusciva a sottrarsi.
«Le fiamme che circondano il mio corpo servono per rigenerarmi, anche dalla ferita più mortale» spiegò Marco. «Ho un limite, ma è molto difficile da raggiungere. Non servono per attaccare come le tue, però.»
Ace non lo riteneva un problema, mentre continuava a fissarle incuriosito, tanto da rimanere deluso quando Marco, con quella che appariva quasi come una carezza, lo lasciò. Le fiamme blu scomparvero subito dopo aver guarito tutte le bruciature, lasciando la sua pelle liscia come in precedenza.
Ace si appoggiò contro il parapetto e continuò ad osservare le sue che emettevano dal suo palmo. Vero, erano molto diverse da quelle di Marco e lui le adorava, eppure non riusciva a non trovare affascinanti anche le sue.
«Oggi mi hai fatto prendere un bello spavento» disse Marco, distraendolo dai suoi pensieri. «Se proprio devi cadere in acqua, vedi di farlo quando c'è qualcuno che possa nuotare nei paraggi.» Il tono era più divertito che spaventato.
«Scusami» rispose Ace, con un leggero sorriso.
«Volevi mettermi alla prova?»
«No... Non proprio. Ma ci stavo pensando» ammise. «Be', la colpa è tua che non mi avevi mai detto nulla del tuo Frutto» commentò, annuendo. «Perché?» chiese poi. Di nuovo il suo cervello gli portò alla mente lo scenario più spaventoso e meno credibile.
Marco alzò le spalle. «Posso trasformarmi in un uccello» puntualizzò. «Hai idea di quante potenzialità Satch abbia sfruttato per prendermi in giro?»
«Posso immaginare» ridacchiò appena Ace. Il loro compagno era piuttosto famoso per queste cose e Ace non era nemmeno minimamente paragonabile. «Però... Tu puoi volare, che figata è? E le tue fiamme...» Non sapeva nemmeno bene come spiegare ciò che aveva provato, ma era rimasto affascinato dallo spettacolo che aveva visto. «Sono così belle, diverse dalle mie...»
In un attimo, Marco aveva appoggiato la mano sul suo petto e gli aveva dato una spinta abbastanza forte da farlo scontrare contro il parapetto e poi cadere oltre, verso le acque scure al di sotto. Ace ebbe appena il tempo di accorgersi dell'aria che gli fischiava nelle orecchie quando la sua schiena toccò qualcosa di più duro della superficie dell'acqua, per poi essere sollevato di nuovo.
Marco si era trasformato in Fenice e aveva volato abbastanza veloce da farlo atterrare sul suo dorso, quindi aveva ripreso quota, molto in alto, sopra la Moby Dick che ora appariva come una minuscola barchetta in lontananza, mentre le stelle si erano fatte estremamente vicine. L'aria gli sferzava contro il viso, per cui Ace fu costretto a tenersi la mano sul capello perché non volasse via, mentre si sistemava meglio sul dorso.
Come aveva compreso, in quella forma non si trattava di vere e proprie fiamme, ma erano le stesse piume ad essere tali. Ace le accarezzò dolcemente, passando la mano in quel mare blu scintillante. Erano morbide e guizzavano tra le sue dita come dotate di vita propria. Le sue non si potevano toccare.
Le fiamme blu continuavano a scintillare attorno a lui, soprattutto perché Marco aveva smesso di muovere le ali e si limitava a tenersi in volo planando, cosa che permetteva alle penne delle ali di apparire in tutto il loro splendore, anche nella scia che lasciavano dietro di loro. Ace si sdraiò completamente sul suo dorso, con le mani che ciondolavano ai lati del suo lungo collo da fenice, il viso affondato in quella massa di piume morbide.
«Non te ne approfittare, non sono un mezzo di trasporto» commentò Marco, ma si sentiva che era più divertito che seccato.
«Peccato, perché sei molto comodo» fu la risposta sbiascicata di Ace, che nonostante il solletico che le piume gli provocavano, rischiava di essere preda di uno dei suoi soliti attacchi di narcolessia. «Non porti spesso persone?» domandò.
«Praticamente mai.» Oh, questo sì che lo faceva sentire privilegiato!
«Grazie» mormorò appena Ace, in tono talmente basso da essere sicuro che Marco non l'avesse sentito. Non era un ringraziamento solamente per quel volo inaspettato, per il quale era certo che fosse un privilegiato, ma anche per averlo prima gettato oltre il ponte. Cosa che, a dirsi, appariva strana, ma Ace aveva, per una volta, capito perché l'avesse fatto. Era per dimostrargli che non si era mai buttato in acqua per salvarlo semplicemente perché non poteva, non perché non volesse.
Lo ringraziava perché, invece di fargli notare quanto bacato fosse il suo cervello a dubitarne ancora, l'aveva messo di fronte al fatto compiuto, per cui nemmeno lui poteva sottrarsi alla verità. Voltò appena la testa, affondando il viso nel piumaggio, le labbra che premevano contro il suo collo.
Ace non sapeva se quello contava come bacio, dato che probabilmente Marco nemmeno se n'era accorto, dato che le piume blu erano abbastanza folte da impedirgli di raggiungere la pelle nuda e, per di più, gli entravano in bocca se schiudeva appena le labbra. Eppure era proprio per quel motivo che sentiva di poterglielo dare senza rischiare troppo.
Nonostante l'iniezione di fiducia che Marco gli aveva appena fornito, non si sentiva ancora pronto per esprimersi in maniera così netta sui suoi sentimenti. Per il momento si sarebbe accontentato di quel piccolo bacio nascosto e di poter stare affondato tra le sue piume. Quel momento che condividevano solo loro due.
«Vuoi fare un altro giro?» domandò Marco, che si era di nuovo abbassato in direzione della Moby Dick, ma non era ancora atterrato.
«Sì.» Ace non era ancora pronto a perdere quel momento, non ora che aveva finalmente scoperto il segreto del Frutto del Diavolo. Non vi avrebbe certo rinunciato così facilmente.
«Va bene» ridacchiò Marco, riprendendo quota. «Però, poi, voglio un bacio vero quando atterriamo.»
Ace avvampò e fiamme rosse gli uscirono dalle spalle per l'imbarazzo, scontrandosi contro quelle blu. Non credeva se ne fosse accorto! Ma Marco non l'aveva detto in tono derisorio, anzi. Sembrava desiderarlo davvero. «Se proprio vuoi...» minimizzò, alzando appena le spalle. Non era che lo volesse tantissimo, adesso, e il cuore aveva iniziato a battergli forte per l'eccitazione.
Marco se ne accorse. «Vuoi davvero fare un altro giro?» gli domandò, stavolta con una leggera risata.
«Sì. No.» Ace imprecò fra sé. Lo stava fregando, se ne rendeva conto.
Allora, Marco fece un giro della morte, così improvvisamente che Ace non fece in tempo a tenersi e finì per precipitare. Agirò le mani in aria fino ad aggrapparsi a qualcosa: le spalle di Marco. Aveva assunto la sua forma umana, a parte per le braccia che erano ancora delle ali e che permettevano loro di restare a mezz'aria.
«Bastardo» commentò Ace, che gli si era praticamente avvinghiato anche con le gambe attorno al petto. E poi lo baciò, con forza, e contemporaneamente lasciando che lingue di fuoco scorressero libere sulle sue labbra. Marco, dopo un attimo di incertezza, ricambiò e allo stesso modo le sue fiamme azzurre si illuminarono per proteggerlo dalle bruciature. Così, com'era successo per le loro mani, i due colori si fusero assieme mentre continuavano a baciarsi.
Quella era la situazione più strana ed eccitante in cui Ace si era trovato, cosa che riusciva a fargli superare persino l'imbarazzo per quello che stava succedendo, per i sentimenti che aveva dovuto scoprire. Forse, senza il Frutto del Diavolo di Marco, non sarebbe riuscito a rivelarli così facilmente o così in fretta.
Alla fine, aveva ragione lui. Doveva dirglielo prima, questo segreto, così non si sarebbe fatto venire dei dubbi sul perché non l'aveva mai salvato. E, probabilmente, si sarebbero baciati molto, molto prima. Con le labbra ancora premute sulle sue e con le fiamme che continuavano a scintillare attorno, l'unica cosa che gli veniva da pensare era meglio tardi che mai.

***

Akemichan parla senza coereza:
Eh sì, come al solito non sono soddisfatta di questa storia. Cioè, la seconda parte mi piace un sacco, ma non mi convince totalmente la prima. Il fatto che Marco nasconda i suoi poteri è un cliché molto diffuso nelle Marco/Ace e a me piace un sacco, ma proprio perché l'ho letto diverse volte mi è venuto difficile trovare un modo originale per riuscire a svilupparlo. Ho deciso di puntare sulle insicurezze di Ace e sul fatto che gli venga spontaneo pensare che, nonostante tutto, magari Marco e gli altri non lo apprezzino abbastanza, ma mi è parso comunque un pochino forzato. Fatemi sapere che cosa ne pensate voi. :)

 

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Capitolo 5
*** Scoperti ***


Scoperti
 


Non c'erano vere gerarchie all'interno dei pirati di Barbabianca. Certo, c'era il capitano, ma tutti lo vedevano più come un padre che come un capo e lui stesso lasciava che sostanzialmente tutti facessero ciò che pareva loro. Certo, c'erano i Comandanti, ma servivano più che altro solo per una parvenza di ordine durante i lavori, non certo perché ci fosse bisogno di qualcuno che comandasse; la Seconda Flotta aveva vissuto per anni senza averne uno.
Eppure Marco era la persona che più di tutti si avvicinava all'essere un vicecapitano. Svolgeva tutti i compiti noiosi che nessun altro voleva fare, si occupava di controllare il lavoro degli altri e della salute del capitano. Inoltre, a detta di Satch, faceva anche un'altra cosa fondamentale, cioè il baby-sitter di Ace. Ovviamente Satch si era ben guardato da dirlo al diretto interessato: non voleva certo finire arrosto!
Eppure Marco doveva ammettere che, ogni tanto, Satch aveva un punto in quella questione. Ace, pur essendo maturo per la sua età, ogni tanto regrediva a uno stato infantile, cosa che probabilmente derivava dall'essere per una volta il fratello minore e non il maggiore. Marco non ci badava, solitamente quell'atteggiamento lo divertiva. Ma in quel momento, alle prese con tutti i calcoli delle provviste necessarie per la ciurma, lo stava odiando.
Ace, deluso dall'idea che non avesse tempo per lui, si era sistemato nella sua stanza, diritto come un palo, e non aveva alcuna intenzione di scollarsi da quel posto. Certo, se si fosse limitato a fare il palo e basta, silenzioso come avrebbe dovuto essere, non ci sarebbero stati problemi, ma era di Ace che si stava parlando. Non riusciva a stare fermo per più di due minuti.
«Dai, Marco!» esclamò l'ennesima volta.
«Più continui a parlare, più mi distraggo, più tempo impiegherò» spiegò Marco, con calma, senza guardarlo. «Giocheremo dopo» aggiunse, con un sorriso divertito.
«Non puoi essere tu a finire dopo?» propose invece Ace.
«Ormai ho iniziato.»
«Uffa-a! Ma io mi annoio!»
Era sempre così, quando la Moby Dick affrontava una tempesta: i possessori del Frutto del Diavolo erano costretti a starsene a riposo, ben lontani dal ponte, ed era loro negata qualsiasi altra attività. A tutti tranne che a Marco, ovviamente, che teneva sempre un occhio a qualsiasi situazione. In quel caso, era una tempesta di lieve entità, per cui Marco aveva lasciato che se ne occupasse Namur. Ora forse pensava che fosse stata una cattiva idea, dato che aveva dato ad Ace l'occasione di disturbarlo.
Ma se se ne fosse andato adesso, Ace l'avrebbe preso come affronto personale.
«Ho quasi finito» cercò di incoraggiarlo, anche se non era vero. «Capisco che ti annoi con la pioggia fuori, ma scommetto che puoi trovare qualcosa da fare anche sotto coperta.»
«Ho già trovato qualcosa per passare il tempo» replicò Ace, lasciando che le sue braccia passassero ai lati del suo collo e le mani si congiungessero sul suo petto. «Però mi servi tu» sussurrò. Aveva appoggiato la testa sulle sue spalle e il suo fiato caldo gli sfiorava le orecchie.
Ad Ace, per Marco, bastava davvero pochissimo per essere tremendamente sensuale. Ma lui era quello maturo, quello responsabile (quello vecchio, come Satch non mancava di ricordare), per cui scrollò appena le spalle per scostarlo, ma senza successo. Del palo Ace aveva solo una cosa: il fatto di non spostarsi mai dai suoi principi.
«Potremo fare tutto quello che vuoi quando avrò finito.»
«Tutto?» ripeté Ace in tono divertito. «Anche stare sopra?»
«Non proprio tutto» si corresse allora Marco.
«Oh, dai!» esclamò Ace. «Fammi contento. Sinceramente sarei curioso di vederti mentre, lentamente...»
Sarebbe andato avanti, ma a questo punto Marco era già oltre la soglia del tollerabile. Si sentiva un imbecille, ma allo stesso tempo non poteva sorridere fra sé sull'effetto che Ace gli faceva. E se proprio non riusciva a finire quei dannati calcoli, almeno avrebbe cercato di divertirsi un po' anche lui.
Si alzò di scatto, scostando Ace da sé, quindi si voltò. «No» affermò. «Sto io sopra. Adesso.»
Ace fece un passo indietro, quasi inconsciamente, nel vederlo avanzare verso di lui, anche se stava sorridendo. Marco, al contrario, non lo stava facendo affatto: si avvicinò a lui con passo deciso, quasi pericoloso. In un attimo, Ace era sdraiato a schiena sul letto e le gambe a penzoloni. marco gli afferrò una gamba e la spinse di lato con forza, per allargarla.
«Ehi, ehi» protestò Ace, cercando di chiuderle. «Non starai correndo un po' troppo?»
«Credevo ti annoiassi» rispose Marco, con tono seccato. Poi si passò la lingua sulle labbra.
«Sì, be', è per questo che voglio andarci con tranquillità...»
«Adesso è troppo tardi per fermarsi» aggiunse. «Hai idea dell'effetto che mi fai?»
Ace cercava di mantenere le gambe chiuse, ma Marco aveva saldamente la mano sopra la sua coscia destra, quel tanto che bastava a farlo avvicinare a lui, i loro due inguini che si avvicinavano pericolosamente.
«Stai scherzando, vero?» commentò Ace, che scostava appena da lui.
«Chissà...» commentò Marco pericolosamente. Poi, temendo di essere andato troppo oltre, fece un breve sorriso e allora Ace capì. Ricambiò il sorriso, ma non smise affatto di cercare di sottrarsi alla sua presa. Era annoiato e ogni cosa era buona per uscire da quella situazione.
Ancora non sapeva che avrebbe avuto modo di occupare il tempo, anche se in modo diverso da quello che progettava. Marco era appena riuscito ad allungarsi per aprirgli la cintura dei pantaloni e a sfilarglieli per lasciarlo in mutande, quando la porta della sua camera di aprì di scatto, andando a sbattere con forza contro la parete.
Barbabianca si affacciò, per quanto le sue enormi dimensioni glielo permettevano. «Si è allagata una delle stive, dovresti andare da Satch a farti dire quanto è andato... oh!» si fermò, notando l'ambigua situazione in cui i due si trovavano, con Ace che tentava di tirarsi su i pantaloni e Marco che glieli sfilava mentre lo teneva per una coscia.
«Posso spiegare» affermò Marco. Ace, invece, era senza parole.
«Non ho alcun dubbio» replicò Barbabianca. Il suo sguardo era passato dal perplesso al divertito, ciò nonostante cercava di mantenersi serio. «Andrò io a parlare con Satch. Vi aspetto volentieri dopo nella mia cabina. Dopo» aggiunse, ponendo particolare enfasi sulla parole.
Ma ormai il momento era passato, per cui Marco si scostò e guardò sconsolato le tavole dei suoi conti. Non solo si era dovuto interrompere, per cui avrebbe dovuto iniziare da capo, ma non era nemmeno riuscito a farsi una sana scopata. Ace pareva ancora più imbarazzato di lui e si affrettò a infilarsi i pantaloni al loro posto, anche se dopo rilasciò un risolino divertito.
«Non è stato bello» ammise.
«No, ma poteva andare peggio» annuì Marco, al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se il Babbo fosse entrato qualche minuto dopo. «Adesso almeno non puoi dire di annoiarti!»
«No di certo!» fu costretto ad annuire Ace.
«Be', prima o poi lo avrebbe scoperto comunque» affermò Marco. Non è che cercasse esattamente di nasconderglielo, però, come qualsiasi figlio, in media si evitava accuratamente di parlare con Barbabianca delle proprie avventure o disavventure amorose. Lui lo veniva comunque a sapere quando gli altri ne parlavano, era così che funzionava. Certo era meglio che essere colti in flagrante com'era capitato a loro. «Tanto vale andare subito a spiegarglielo.»
«Non sembrava arrabbiato» disse Ace, che stava riflettendo su ciò che era successo. Era stato così rapido che non se n'era nemmeno reso conto, ma Barbabianca gli appariva tranquillo. «Non saremo gli unici, no?»
«A dire la verità, sì.»
«Come sì?!» domandò Ace sbalordito. «E come fanno gli altri?»
Marco non poté non sorridere del suo stupore. «Molti hanno famiglia nella loro isola natale, altri non sono fatti per una relazione fissa, ci sono vari casi» spiegò. «Che io ricordi, però, non c'è mai stata una vera relazione fra i membri della ciurma.» Perché Marco dava per scontato che la loro fosse una relazione seria: certo Ace era giovane, ma lui era più maturo (diciamo così) e per essersi davvero lasciato andare voleva dire che ci teneva.
«Capisco...» annuì Ace. «Allora dici... Che al Babbo potrebbe non andare bene? Tipo che... sarebbe un incesto, per lui?»
«Non credo proprio» scosse la testa Marco.
Mentre Ace era evidentemente preoccupato del giudizio di Barbabianca nei confronti della loro relazione, perché teneva moltissimo alla sua opinione, ciò che seccava lui era tutt'altro. Conosceva suo padre da anni e sapeva che, in fondo, era un pettegolo della peggior specie. Di fatto non sparlava mai di nessuno, ma adorava sentire le prese in giro e i pettegolezzi sugli altri e adorava farseli raccontare. Se Marco aveva una certezza era che, qualunque spiegazione Barbabianca volesse, sarebbe stata unicamente per farsi due risate alle loro spalle.
«Comunque, tanto vale risolversi ogni dubbio andandoci a parlare subito, no?»
«Sì, andiamo» annuì Ace. No, decisamente non era più annoiato, anzi, una parte di lui pensava che forse sarebbe stato meglio annoiarsi; tuttavia seguì Marco fuori della sua stanza.
«Ah, ecco i colpevoli» commentò Satch, nella loro direzione. Era uscito dalla porta della cabina del Babbo, perfettamente riconoscibile dalle dimensioni fuori della norma, proprio quando stavano arrivando.
«Mi ha detto il Babbo che abbiamo perso altre provviste» disse Marco, pensando che stesse parlando di quello. «Mi faccio dire poi da lui.»
«Non lo sa» scosse la testa Satch. «Mi ha appena fatto una ramanzina sul fatto che io non gli abbia raccontato nulla su voi due! Dovevate proprio farvi scoprire? Così
«Non è che l'abbiamo fatto di proposito...» commentò Ace, che non apprezzava il tono che Satch aveva messo sull'ultima parola.
«Portami la lista di quello che abbiamo perso» tagliò corto Marco. Per quanto il Babbo fosse pettegolo, affrontare lui era sempre meglio che affrontare un interrogatorio di Satch, che, ne era certo, avrebbe voluto sapere esattamente in che posizione erano.
Quindi lo superò e bussò alla porta, poi fece cenno ad Ace di seguirlo quando sentì muoversi qualcosa all'interno. Barbabianca era seduto sul suo letto, schiena contro il muro, ma non era attaccato alle sue solite flebo. Se rimaneva nella sua cabina, a volte le infermiere gli permettevano di evitarle, a patto che evitasse di bere sakè. Evidentemente voleva essere ben sobrio per ascoltare la loro storia.
«Allora...» cominciò, una volta che ebbero chiuso la porta e si furono sistemati in piedi davanti a lui. «Voi due... state insieme?»
Marco annuì. Nello stesso istante Ace affermò: «No».
Barbabianca scoppiò a ridere, quella sua solita risata gutturale che faceva tremare l'aria attorno a sé, un effetto involontario del suo Frutto del Diavolo. «Be', allora comincio a capire perché Marco stesse cercando di saltarti addosso!»
«Non lo stavo facendo» replicò Marco, calmo. Considerando che si stava spettegolando, era importante non mostrarsi irritato da quello che stava succedendo, anche quando lo di era.
«Be', era quello che sembrava» rispose Barbabianca, con un sorriso divertito in volto.
«Le apparenze ingannano» disse Marco. «È stato lui ad iniziare» aggiunse, indicando Ace, il quale assunse un'espressione offesa all'idea di essere accusato di qualcosa, per quanto vera fosse.
«Oh, avanti, non è da te scaricare così la colpa.» Forse anche Barbabianca era annoiato per via della pioggia, perché si stava davvero divertendo un po' troppo. «Per altro, non sapevo che ti piacessero così giovani. Quanti anni hai, Ace?»
«Diciotto fra qualche mese» rispose lui. Si era rilassato nel momento in cui aveva capito che il Babbo si stava semplicemente divertendo alle spalle di Marco e aveva deciso di unirsi. «Lui è un vecchio.»
«Non sono così vecchio» ribatté Marco, che odiava l'idea che la gente gli desse del decrepito solamente perché il frutto della fenice gli permetteva di invecchiare più lentamente. «E non è una questione d'età...»
«Certo sei più vecchio di lui» replicò Barbabianca, rivolgendogli un sorrisetto. Poi tornò a rivolgersi ad Ace. «Mi raccomando, che tu sei giovane e ancora non sai come funziona il mondo. Cerca di non farti fregare.»
Ace rivolse a Marco un'occhiata, poi annuì. «Purtroppo è troppo tardi...»
«La prossima volta vieni direttamente da me, se ti importuna ancora.»
Marco incrociò le braccia e scosse la testa. «Potremo smettere di parlare come se Ace non potesse decidere per conto suo?» commentò.
«Be', d'altronde ha sempre fatto delle pazzie» disse Barbabianca, come un cenno della testa. «Da te mi aspettavo un po' più di prudenza.»
«Disse quello che invitò in ciurma uno che lo voleva uccidere» terminò la frase per lui Marco, con un'occhiata eloquente. A suo parere, nessuno in quella ciurma era mai riuscito a resistere ad Ace.
«Vero» ammise Barbabianca. «Coraggio, se continui ad insistere magari finirà per essere davvero una relazione.» Poi aggiunse: «Che è anche la dimostrazione per cui stai invecchiando. Mica come noi giovani, che siamo per le avventure e basta.»
Ace si era divertito abbastanza a prendere in giro Marco su quella storia, mentre ora la situazione stava andando troppo oltre. Certo, aveva risposto "no" alla domanda, più per incertezza sua e per incertezza su come Barbabianca avrebbe reagito, ma ciò non significava che non ci tenesse a Marco. Per quello che era stato il suo passato, non sarebbe mai riuscito nemmeno ad avere un'avventura con qualcuno a cui non tenesse.
E averla con qualcuno a cui teneva, be', era anche peggio. Era sempre serio con le persone che facevano parte della sua famiglia.
Allora afferrò Marco per un braccio e lo trascinò più vicino a sé, poi lo afferrò per le spalle, artigliandolo, e lo baciò sulla bocca. Non aveva intenzione di essere un bacio semplice, ma all'inizio si limitò a indugiare appena sulle sue labbra, in attesa che Marco si riprendesse dalla sorpresa. Quando successe, approfondì il bacio e sentì le mani di Marco appoggiarsi sui suoi fianchi, per stringerlo più vicino a sé.
Il che poteva essere pericoloso, con i loro bacini che premevano l'uno contro l'altro ma, d'altronde, era una specie di show, quindi tanto valeva farlo bene. E divertirsi nel frattempo. Cosa che, apparentemente, Barbabianca stava facendo, perché aveva riservato loro un fischio di quelli decisamente ammirati e, essendo un suo fischio, fece tremare le pareti e probabilmente si sentì per tutta la nave.
Ace aveva le guance leggermente rosse quando, al termine del bacio, tornò a girarsi verso di lui, che lo guardava decisamente divertito, motivo per cui Marco non lasciò la presa sul suo fianco. «Forse, sì, può darsi che siamo in una specie di relazione...» ammise. Non ne avevano proprio parlato, semplicemente. Però, sì, Ace al momento non voleva nessun altro.
Barbabianca rise fra sé. «Notavo. Be', congratulazioni, allora» commentò infine. La cosa che gli importava davvero era che i suoi figli fossero felici e, insomma, quella era stata una prova decisamente notevole.
La porta della cabina si spalancò e tutti gli altri Comandanti entrarono affastellandosi l'uno sull'altro, attirati e preoccupati da quel lungo fischio che avevano sentito.
«Che succede? Tutto bene, Babbo?»
«Benissimo» replicò lui, quindi scoccò un'occhiata eloquente a Marco e Ace davanti a lui, che si erano leggermente allontanati l'uno dall'altro all'arrivo dei compagni. Ovviamente tutti sapevano della loro relazione per cui capirono immediatamente che cosa poteva essere successo.
«Lo spettacolo è finito» annunciò Marco. Forse era stata la dichiarazione di Ace a fargli calare la tensione, dopo che davvero aveva quasi pensato di essere troppo vecchio per lui e di pretendere troppo da quello che era il loro rapporto, ma ora aveva recuperato la sua usuale compostezza. «Siamo ancora nella tempesta?»
«Ne stiamo uscendo» rispose Namur. «Probabilmente però pioverà ancora per un'oretta buona.»
Marco annuì e si avviò all'uscita della cabina, poi si rivolse a Satch: «Fammi pervenire al più presto la lista delle perdite nella dispensa, così posso sistemare i conti.»
Satch era probabilmente quello più divertito dall'intera situazione e aveva già scambiato un'occhiata complice con Barbabianca: dopo avrebbe voluto sapere tutto! «Certamente» risposte allegro. «Ma facciamo che te la porto fra un po', sia mai che hai da fare nel frattempo.»
Marco gli riservò un'occhiataccia, ma poi decise di non dargli soddisfazione e sorrise. «Hai ragione.» Si voltò verso Ace, che era rimasto indietro, e gli fece cenno di seguirlo, cosa che lui fece con entusiasmo.
Se avevano ancora un'ora di pioggia, tanto valeva occupare il tempo in qualche modo, prima che Ace si annoiasse e tornasse a fare il palo. Era una scusa trovata da Marco, ovviamente, perché l'interruzione di prima gli aveva dato più fastidio di quanto volesse far credere.
«Allora, com'è questa storia che sono vecchio?» gli sussurrò, non appena furono oltre la porta, lontano dagli sguardi degli altri Comandanti che, ne era certo, stavano comunque spettegolando su di loro.
«Dimostrami il contrario» commentò Ace, quasi saltandogli sulle spalle per abbracciarlo da dietro. Adesso aveva anche l'approvazione del Babbo, per cui poteva tranquillamente essere espansivo quanto gli pareva.
Oh, decisamente non si erano annoiati in quella tempesta!
 
***

Akemichan parla senza coerenza:
Scrivere basandomi sull'immagine questa volta è stato difficile, perché per me, lo devo ammettere, quell'immagine è un pochino OOC. Insomma, Ace mi pare un pochino troppo indifeso e Marco un po' troppo stupratore XD Per questo ho cercato di creare uno scenario che rendesse una situazione simile plausibile e IC e spero di esserci riuscita. In più volevo assolutamente sfruttare anche il prompr del "Best of the Sea Forum" riguardo a Barbabianca che li scopriva, però viste le premesse non poteva diventare una cosa seria, mi spiace XD
Ne ho approfittato per prendere un po' in giro Marco sulla sua età come al solito e anche sviluppare un po' un altro cliché che adoro del loro rapporto, cioè che pert Marco sia una cosa seria fin dall'inizio (perché è vecchio ù.ù) mentre Ace non ci pensa, o meglio non ci vuole pensare perché sennò si farebbe mille problemi, ma la realtà che è parecchio serio pure lui - non riuscirebbe ad avere una relazione altrimenti.
Spero vi sia piaciuta e ci vediamo alla prossima con l'ultimo bacio!

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Capitolo 6
*** Maledizione e benedizione ***


ATTENZIONE: riferimenti alla religione cristiana!

Maledizione e Benedizione
 

Marco si era seduto ad un lato del ponte di poppa della Moby Dick, la schiena appoggiata contro il parapetto. Aveva svolto tutti i lavori di controllo previsti e aveva deciso di godersi un po' di riposo. Erano le ore più calde della giornata, per cui non c'era nessuno all'esterno della nave.
Anche se i suoi poteri gli consentivano di guarire ogni scottatura, aveva scelto un posto ombreggiato e, ora, con gli occhi chiusi, si godeva il leggero vento che gli scivolava sulla pelle e il dondolio conciliante della nave.
Quando sentì un rumore di passi venire nella sua direzione, non si mosse né aprì gli occhi: erano passi lenti, quasi prudenti, il che significava che non c'era un'emergenza per cui lo stavano contattando. I passi si fermarono giusto al suo fianco e per un lungo istante si avvertì solo lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro la chiglia di legno.
Poi Marco aprì gli occhi di scatto e si trovò di fronte ad Ace che, chinato verso di lui, aveva allungato una mano, fino a farla arrivare pericolosamente vicina ai suoi capelli.
«Oh! Sei sveglio!» commentò Ace, fra il deluso e l'imbarazzato, mentre ritirava la mano con nonchalance.
«Mi stavo solo riposando» rispose Marco gentilmente, un sorriso sornione sul volto. «Tu, invece?»
«Niente, mi annoiavo e sono venuto a vedere che facevi.» Alzò le spalle.
«Quindi non stavi cercando di toccarmi i capelli per vedere se sono veri o sono foglie d'ananas come Satch va in giro a dire, vero?»
Ace gli scoccò un'occhiata delusa, poi si sedette al suo fianco di schianto e sorrise. «Quindi posso toccarli?»
«Non ci pensare nemmeno» replicò Marco divertito. Sentire i suoi capelli era sempre stata una prova d'iniziazione per i membri della ciurma, ovviamente per colpa di Satch che non faceva mistero del divertimento che provava nel prendere in giro la sua strana pettinatura. Ovviamente Marco stava al gioco cercando di rendere le cose il più difficili possibili.
«Pazienza» commentò Ace. «Lo farò stanotte.»
«Puoi provarci.»
Ace gli scoccò un'occhiata furba. «Sarai impegnato a fare altro che non a far caso ai tuoi capelli.»
«Questo lo vedremo.» Marco ricambiò il sorriso e, internamente, scosse la testa. Per lui era ancora un grosso mistero come avesse fatto ad innamorarsi di quello scavezzacollo irresponsabile che tra l'altro aveva la metà dei suoi anni. Eppure era successo, forse proprio perché Ace era così diverso da lui pur condividendo ideali simili.
«È raro vederti qui a non far nulla» commentò Ace all'improvviso.
«Ogni tanto anche io ho bisogno di una pausa» rispose Marco semplicemente. «E tu? La tua Flotta non ha niente da fare?» domandò, riferendosi alla sua fresca nomina a Comandante.
«Son tutti distrutti dal caldo» disse Ace.
«Tu non lo senti?»
Ace scosse la testa, poi fece brillare appena le sue fiamme sul palmo della mano. «Dato che sono fatto di fuoco, la temperatura esterna non mi crea alcun problema. Però ne sento gli effetti.»
Curioso come i loro due frutti si somigliassero molto, eppure fossero così diversi nelle conseguenze e nelle potenzialità.
«Allora è meglio se vai dentro.»
«Nah. Ti faccio compagnia, che mi sembri solo. Finché sto all'ombra non dovrebbero esserci problemi.»
«Va bene.» Marco non l'avrebbe certo scacciato, se desiderava restare con lui. «Ma fa' attenzione.»
«Tranquillo, zio.»
«Sono più un fratello maggiore» si piccò appena Marco. «Anche se so che non ci sei abituato.» Insomma, i racconti di Ace sul fratellino minore Rufy e sul suo desiderio di diventare il Re dei Pirati erano leggendari a bordo. Anche perché Ace non stava mai zitto quando si trattava di parlare di quell'argomento.
«Il che è curioso, perché non sapevo che fosse abituale fare sesso col proprio fratello.»
«Non lo è nemmeno con lo zio.»
«Giusto» dovette ammettere Ace.
Rimasero in silenzio per un po'. Non era un silenzio imbarazzante, era semplicemente dato dalla familiarità di due uomini di mare che, di tanto in tanto, apprezzavano godere della nave che navigava su quell'enorme distesa blu, senza necessità di troppe parole, solo con la consapevolezza che non sarebbero più riusciti a vivere senza quelle sensazioni.
«Posso chiederti una cosa?» domandò Ace, ad un certo punto.
«Certamente.»
«Com'era il vecchio Comandante della Seconda Flotta? Perché ce n'era uno, vero?» aggiunse, un leggero dubbio nella sua voce.
«Sì, c'era» annuì Marco. «Era molto diverso da te, era più un solitario. Diventava allegro solo durante gli arrembaggi.»
«Anche io divento allegro durante gli arrembaggi» protestò Ace.
«No, tu diventi imprudente e pazzo, durante gli arrembaggi» lo contraddisse Marco divertito. «E sei allegro il resto de tempo.» Rise del suo broncio e proseguì: «Non devi fare paragoni. Se il Babbo ti ha scelto come Comandante è perché ne hai le capacità.»
«Sì, lo so. Ero un Capitano, sai?» gli ricordò Ace, con una leggera occhiata. «Ero solo curioso.»
«È morto qualche anno fa... Due o tre anni prima che ti unissi a noi.»
«Mi spiace» disse Ace. La ferita doveva essere ancora fresca.
«Non è stata una cosa improvvisa, ce lo aspettavamo» raccontò Marco. «Era l'ultimo rimasto della vecchia guardia, dei primi compagni del Babbo. Era anche più vecchio di lui.»
«Caspita!»
«Non sto dicendo che non ne abbiamo sofferto, ovviamente. Il Babbo soprattutto» si affrettò ad aggiungere Marco. «Tuttavia aveva vissuto una vita lunga e piena, senza rimpianti. Non poteva desiderare di meglio. Dovunque sia adesso, sono sicuro che è soddisfatto.»
Ace rimase in silenzio per un po', a riflettere, e Marco non lo interruppe. Per un ragazzo di nemmeno vent'anni, la prospettiva della vecchiaia doveva essere qualcosa di così lontano da essere difficile da immaginare. Per Marco, al contrario, era molto concreta: aveva visto il Babbo invecchiare e farsi sempre più debole col passare degli anni. Lui stesso non era più un giovincello, benché il potere della fenice contribuisse a mantenerlo in salute.
«Tu credi nell'aldilà?» gli domandò Ace improvvisamente, quasi cambiando totalmente discorso.
Marco lo fissò perplesso. «Sì. In un certo senso...»
«Oh.» Ace parve davvero stupito dalla cosa.
«Tu no?»
Ace alzò le spalle. «È solo che... Se esiste un aldilà, perché c'è prima un aldiqua?»
Marco rise. La logica di Ace era impeccabile. «Nella maggior parte delle religioni la vita è solo un percorso di passaggio» gli spiegò. «Una specie di prova da superare per raggiungere qualcosa di superiore.»
«Non ne so molto di religione» ammise Ace. «E non me la sento di sprecare ciò che ho adesso in prospettiva di qualcosa che forse avrò in futuro.» Era la sua filosofia di vita: senza alcun rimpianto.
«Non avevi qualcuno religioso, in famiglia?»
«Mah, considerando Dadan e i suoi, anche se lo fossero stati di certo non mi avrebbero insegnato nulla» commentò Ace, quasi fra sé. «Persino a scrivere...» Tagliò il discorso a metà, con la mano che andava a toccarsi il tatuaggio che aveva sul braccio, quella s sbarrata che Marco era convinto simboleggiasse ben più che un semplice errore del tatuatore. «Tu invece, sei religioso?» chiese Ace, per cambiare argomento.
«Non proprio. I miei genitori erano cristiani, per cui sono stato cresciuto come tale» rispose Marco, lo sguardo che vagava lontano a recuperare dei ricordi sopiti. «Quando sei in mare per tanto tempo e perdi compagni per strada, finisci per avere consolazione nel pensiero che siano ancora da qualche parte, di là.»
Ora Ace era interessato. C'erano così tanti pirati, su quella nave, che ancora non conosceva le storie di tutti. Marco era sicuramente il più elusivo di tutti, con quello sguardo misterioso e il modo in cui si divertiva a tenere segreti su tutto, per cui l'idea che gli avesse accennato alla sua famiglia lo rendeva eccitato.
«Di che parla la tua religione?» domandò allora, per cercare di mantenere vivo l'argomento.
«Esiste un Dio che ha creato l'universo e gli uomini, che però hanno peccato duramente contro di lui» spiegò allora Marco. «Allora, secoli dopo, ha mandato sulla terra suo figlio, per annunciare a tutti l'esistenza dell'aldilà.» Non era proprio così, ma era sicuro che Ace si sarebbe perso nelle troppe spiegazioni sulla trinità.
«Sembra più una favola» commentò Ace.
«In un certo senso lo è» rispose Marco. «Le favole sono il miglior modo per insegnare delle lezioni. Questa insegna che bisogna essere umili, pii e fiduciosi.»
«Raccontami ancora» disse allora Ace.
«Dio mandò suo figlio sulla terra attraverso una donna, la vergine Maria» raccontò allora Marco. «Era una donna buona e misericordiosa, senza peccato, e soprattutto con una fede incrollabile in Dio, per questo fu scelta, date le prove che la aspettavano. Suo marito lo era allo stesso modo, tanto da accettare che la moglie portasse in grembo il figlio di Dio.»
«Che prove?» domandò Ace.
«Il figlio di Dio non ebbe vita facile, perché nessuno gli credeva. E quelli che gli credevano volevano ucciderlo» spiegò pazientemente Marco. «Ad esempio, quando era appena nato il Re di quella terra pensò che fosse destinato a governare sulla terra al posto suo, per cui cercò di ucciderlo giustiziando tutti i neonati nati in quel periodo. Lui si salvò perché Dio aveva avvertito Maria di scappare nel deserto. Il Re non aveva capito che il regno di Dio non era sulla terra.»
«Ah.» Ace scostò per la prima volta il sguardo da lui per guardare lontano e i suoi pugni si strinsero leggermente. «Come mia madre» disse poi, in un singhiozzo.
Marco sbatté le palpebre. Sì, ricordava vagamente che la madre di Ace lo aveva tenuto in grembo più di quanto fosse necessario per salvarlo, ma non aveva ricollegato che le due vicende avessero in effetti più punti di contatto di quanti ne immaginava. Certo, Ace non era il figlio di Dio, questo no, però l'impronta di suo padre lo seguiva sempre, per quanto cercasse di liberarsene o per quanto gli altri non gli dessero peso.
«Capita spesso che si cerchi di distruggere la discendenza di un re alla sua morte» affermò allora.
«Già, be', a Maria è andata anche bene, aveva Dio che la proteggeva» disse Ace, con una leggera smorfia. «Mia madre non aveva nessuno e per di più era stata con un demonio.»
Marco non disse nulla. Per quanto avesse conosciuto Roger e sapesse bene che c'era del buono in lui, non vedeva alcun punto nel cercare di fargli cambiare idea. Ace aveva sofferto troppo nella sua vita e, indubbiamente, parte della colpa era imputabile all'irresponsabilità di Roger. Non c'era ragione di cercare di fargli cambiare idea, solo aiutarlo a superare il problema.
«Sarà meglio che vai dentro, non vorrei ti prendessi un'insolazione» disse allora.
Ace capì che voleva cambiare argomento. «No, sto bene» gli assicurò. «Parlami della tua famiglia.» Era ciò che voleva sapere fin dal principio, non gli importava molto della religione. Se avesse saputo dove portava, poi, avrebbe evitato ampiamente.
«Non c'è molto da dire.» Marco decise di accontentarlo comunque. «Erano contadini, in un'isola del Mare Occidentale. Avevo anche due sorelle più piccole, di cui ho pochissimi ricordi.» Sapeva che l'accenno alle sorelle avrebbe reso Ace ancora più attento, conoscendo la sua storia con Rufy. «Dato che ero l'unico maschio, avevano messo dei risparmi da parte per farmi studiare. Mi piaceva» si ricordò, con un sorriso. «Avevo studiato molto navigazione, all'epoca per i contadini l'unico modo per salire di classe sociale era imbarcarsi come mercante o come marine.»
«E tu che cosa avevi scelto?» domandò Ace.
«Marine» confessò Marco, ben sapendo dell'ilarità che avrebbe provocato. «I miei genitori pensavano che fosse più sicuro, dato che sarei stato addestrato ufficialmente. Sai bene quando sia difficile la vita dei mercanti.»
Ace gli rivolse un sorriso furbo. Erano loro che gliela rendevano difficile! «E poi? Che cosa ti ha illuminato sul fatto che la vita del marine faccia schifo?»
«La mia famiglia è stata uccisa.»
Ace spalancò la bocca. «Mi dispiace...!» Non intendeva scherzarci sopra, ma Marco alzò il braccio per indicare che andava tutto bene.
«In qualche modo dei briganti della zona avevano capito che i miei genitori custodivano del denaro e sono venuti a rapinarci, quindi hanno dato fuoco alla casa per nascondere le loro tracce» raccontò ancora. «Io mi sono salvato solamente perché avevo già mangiato il Frutto del Diavolo.»
Quand'era bambino, la considerava una maledizione. Ora che era pirata, capiva l'utilità di potersi rigenerare di fronte ai propri nemici, ma all'epoca, era sopravvissuto solo grazie a quello, mentre la sua famiglia era morta. Non aveva un posto dove stare ed era una specie di fenomeno da baraccone. Certo odiava i suoi poteri. Di tanto in tanto, continuava a farlo, quando vedeva i compagni cadere per ferite mortali che lui avrebbe rigenerato in un lampo.
«Scusami» disse Ace. «Non volevo farti tornare alla mente brutti ricordi.»
«Non fa nulla.» Almeno potevano considerarsi pari, dato quello che era successo in precedenza con la storia di Maria. «Fanno parte del passato e, per quanto ci facciano ancora soffrire, ci hanno formato. Per di più, non posso lamentarmi di quello che è stata la mia vita fino ad adesso.» E gli rivolse un sorriso dolce, che Ace ricambiò immediatamente.
«In ogni caso, grazie per avermelo raccontato.»
«Prego.» Marco allungò il braccio per stringergli la mano. «La prossima volta ti racconterò come ho incontrato il Babbo, e forse tu mi svelerai il segreto dietro quella s sbarrata.»
Lo sguardo di Ace corse inevitabilmente sul suo braccio, dove c'era il tatuaggio, e sul suo viso di aprì un sorriso malinconico, che però svanì subito. Annuì. «Certo» affermò. «Però per adesso ti devi accontentare di questo.»
E si allungò verso di lui per baciarlo, posando le sue labbra secche per il caldo sulle sue, lasciando che le fiamme vi scorressero libere. Marco alzò le braccia per prendergli il viso fra le mani e stringerlo più vicino a sé, ma non incontrò la consistenza del suo corpo. Il bacio svanì nella consistenza del nulla, con la consapevolezza che non avrebbe potuto baciarlo mai più.
In un attimo, non c'era più la nave, non c'era più il rumore delle onde, non c'era più Ace accanto a sé, ma solo la sua schiena che si appoggiava alla pietra dura della lapide. Un altro miraggio, un'altra illusione.
Lo sguardo di Marco si perse in lontananza, in quel campo dove i fiori erano stati sostituiti dalle spade e che ormai aveva eletto a sua dimora. Il vento gli fischiò fra le orecchie, mentre faceva tintinnare fra loro le lame, ma non era lo stesso vento che si poteva avvertire sulla Moby Dick. Questo era un vento di terra, il vento della sedentarietà.
Per Marco andava bene, dato che non sarebbe riuscito ad immaginare una vita su una nave che non fosse la Moby Dick, senza il Babbo come Capitano e Ace al suo fianco come compagno, di ciurma e di vita. Per questo aveva deciso di rimanere nel campo dove erano stati sepolti e dove aveva fatto il funerale. Gli altri si erano limitati a lasciare le loro armi, spade soprattutto, e poi avevano ripreso il proprio percorso.
Marco no. Per quanto quel campo gli facesse venire sempre le illusioni, che si fondevano con i ricordi del poco tempo che aveva avuto a disposizione con Ace, aveva deciso di restarvi, guardiano di quelle tombe finché il suo Frutto gliel'avrebbe permesso.
Il suo Frutto, che era tornato ad odiare quando aveva visto Ace cadere per mano dell'Ammiraglio Akainu, per una ferita che per lui avrebbe potuto rigenerare. Aveva visto i suoi compagni feriti e si era bendato per solidarietà, ma non aveva più alcun danno fisico. Un Frutto che non rendeva possibile nemmeno il suicidio era una propria e vera maledizione.
Però, rimanendo in quel campo preda delle illusioni, alla fine aveva trovato una sorta di pace. Anche se non poteva più avere Ace, non poteva più toccarlo né baciarlo, ne conservava il ricordo, che era l'unica cosa che gli rimaneva. E quelle illusioni, in fondo, gli avevano fatto capire che era di nuovo sopravvissuto a tutti per un motivo.
Perciò sarebbe rimasto in quel campo, in attesa del momento in cui il suo Frutto sarebbe tornato ad essere una benedizione.
In attesa del futuro Re dei Pirati.

***

Akemichan parla senza coerenza:
Questa storia è nata quasi per caso, per il prompt "Madonna" che mi avevano dato per una challenge e che non sapevo assolutamente come inserire. Non avevo mai immaginato Marco come cristiano prima di questo momento, e di fatto non lo è, lo erano i suoi genitori, cosa non improbabile dato che è capitato lungo il corso della storia di incontrare suore. Invece, ho sempre pensato dal disegno che Oda ha fatto di lui bambino che Marco avesse una famiglia e che studiasse navigazione, il fatto che siano tutti morti e che solo lui si sia salvato per il frutto del diavolo è invece un'invenzione mia, ma non la ritengo poi così improbabile, considerando che tutti hanno un passato tragico in One Piece XD
Eh sì, ho voluto finire questa storia con un po' di angst perché, diciamocelo, purtroppo c'è parecchia angst per la storia di questi due personaggi XD Mi piace immaginare Marco che sorveglia le tombe di Ace e Barbabianca aspettando l'arrivo di Rufy per potersi mettere al suo servizio, in modo da proseguire anche lui la "volontà di Ace"... e chissà che Oda non mi accontenti XD
E tra l'altro siamo arrivati anche alla fine di questa raccolta! Non ero soddisfatta al massimo di tutte le storie, ma i miei lettori le hanno apprezzate e ciò non può che rendermi felice :D Un ringraziamento è d'obbligo a _Lady di Inchiostro_, a Ice_DP e a sarathepooh che mi hanno commentato tutti i capitoli rendendomi molto felice :D E un altro a Nami93_Calypso per la Challenge che mi ha dato l'ispirazione a scriverla! Spero di rivedervi prossimamente e grazie ancora per tutti i commenti!
A proposito, in teoria la prossima storia sarebbe dovuta essere un'altra di questo tipo di raccolte, dedicata a Sabo e Koala, ma per incroci di contest (spiegarlo è un casino XD) mi tocca rimandarla. Ma arriverà, promesso! Per farmi perdonare cercherò comunque di pubblicare altre storie che li riguardino XD Passate pure dei miei vari profili a chiacchierare con me, se vi va! A presto! :D

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