The Great Escape

di breeb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Joe Dalton ***
Capitolo 2: *** Jack Dalton - Parte Prima ***
Capitolo 3: *** Jack Dalton - Parte Seconda ***



Capitolo 1
*** Joe Dalton ***


Faceva un caldo torrido, insopportabile. Le vesti madide s’appiattivano sulla pelle umidiccia di sudore, le cui gocce colavano lungo i corpi spossati della gente che affollava le strade; il sole del mezzogiorno si insinuava in ogni dove rendendo inospitale persino l’ombra, mentre del vento era scomparsa persino la memoria. I cavalli, consunti dalla fatica del lavoro, trascinavano gli zoccoli sul selciato polveroso, mendicando acqua e riposo.
Toltosi la giacca in fretta e furia, Joe Dalton tirò la tenda della propria stanza con uno strattone, sbuffando di collera. Con due dita si accomodò il colletto, che cominciava a sentire indiscutibilmente troppo stretto, e si lasciò mollemente cadere sulla sedia, quasi privo di forze. Aveva bisogno di un sigaro ed un bicchier d’acqua. Immediatamente.
Raccolse da terra la brocca che conservava per le emergenze e bevve qualche sorso. Poi ravanò febbrilmente nel primo cassetto della scrivania, ma riscontrò con stizza che non v’era rimasto nemmeno un sigaro.
– Per la miseria! – gridò collerico sbattendo entrambi i palmi sulla piccola scrivania, che scricchiolò.
– È mai possibile che non vi sia più nemmeno uno stramaledetto sigaro, in questa lurida casa?! Averell! – chiamò a pieni polmoni.
Il fratello minore comparve sulla soglia nell’arco di qualche secondo, con un’espressione in volto tra l’intimorito e l’incurante: – hai chiamato, Joe?
– Procurami dei sigari. – ordinò seccamente Joe massaggiandosi la fronte madida di sudore.
– Che tipo di sigari, Joe? – chiese ingenuamente Averell inclinando lievemente il capo.
Joe rimase in silenzio per un attimo.
– Dei sigari, Averell. Normalissimi. Sigari. – ringhiò quindi a denti serrati.
Averell, con  un sorrisino edulcorato, si portò una mano alla nuca e borbottò:– sciocco, sciocco Joe! Intendo di quale marca, così posso…
Joe lo interruppe balzando in piedi e berciando: –  i dettagli sulla tua incompetenza non mi interessano, razza d’idiota!, trascina la tua inutile persona fuori di qui e va’ a procurarmi del tabacco!
–  …non avevi forse parlato di sigari, Joe? – soggiunse Averell pensoso e sinceramente dispiaciuto di non afferrare.
– Esci da questa stanza ed arrangiati, imbecille! – ululò Joe correndo a sbattergli la porta in faccia.
Si trascinò alla scrivania continuando a massaggiarsi le tempie. Si fermò per un istante dinanzi allo specchio che giaceva sbilenco poco lontano, relegato in un cantone tra quella che egli denominava “la robaccia” ereditata da Ma’ Dalton. Joe osservò la propria immagine riflessa, storcendo il naso. Quell’ometto in età, perfettamente raso e modestamente vestito non era lui. Ma infondo, non sapeva dire se davvero gli mancasse ciò che si era lasciato alle spalle. L’unticcio sudiciume di quel penitenziario nel Nevada, ad esempio. Il sudore colante sulla fronte, l’immane fatica dei lavori forzati, la penuria di cibo, gli stenti, i pidocchi che gli divoravano il capo e la pellagra. Scosse la testa e tossicchiò. Si passò una mano sulla spalla destra. Gli parve di avvertire ancora il dolore, l’indolenzimento dovuto a quelle lunghe e gelide notti di permanenza su quelle travi di legno che insolentemente chiamavano “brande”. Con un gesto spiccio si lisciò il panciotto di canapa nero, accomodandosi la camicia di lino come se lo stizzisse indossare un solo lembo di tessuto spiegazzato. Non rimpiangeva nemmeno quel perpetuo, ansioso scapicollarsi ad elaborare piani su piani, goliardiche strategie che portavano solo a fallimenti, a rocamboleschi tentativi d’evasione che sfumavano di volta in volta incendiando le risa sadiche di Melvin Peabody. Joe fece qualche passo, si mosse lentamente avanti e indietro. Da quando i Dalton erano riusciti a fuggire e a raggiungere il Messico, la loro vita non era più stata la stessa. Correva l’anno 1887 quando, miracolosamente, i quattro eredi di Ma’ Dalton erano riusciti a fuggire dal penitenziario di Peabody sgattaiolando nella notte gelida del deserto. Per giorni avevano camminato trascinandosi tra le dune, patendo la fame, il freddo acerbo della notte e l’immane calura del giorno. Per non farsi scovare avevano dovuto elaborare un tragitto tortuoso e ciò prolungò la loro debilitante fuga. Ma ce l’avevano fatta. Dopo quasi venti giorni di cammino privo di sosta alcuna erano liberi. Successivamente ad una serie di vicissitudini, Joe, Jack, William ed Averell Dalton avevano messo piede in Messico. Al contrario dei propri fratelli, Joe disprezzava profondamente tale paese. Di fatto, quando accadeva che spendesse qualche quarto d’ora del proprio preziosissimo tempo a passeggiare all’aria aperta, nelle miti sere di Ciudad Juarez, non poteva fare a meno di storcere il naso e bofonchiare qualche insulto rivolto ad ogni insignificante dettaglio della nazione che, in fin dei conti, lo aveva sottratto alla forca. Dopo aver dimenticato il carcere, la combriccola Dalton poteva concedersi piccoli lussi che ai tempi nemmeno sognava, trapiantata in un contesto sociale e culturale diametralmente differente al proprio. Trascorsi gl’infernali venti giorni nel deserto, i Dalton erano riusciti a raggiungere casa, dove, ricongiuntisi con l’anziana madre, ricevettero qualche tozzo di pane raffermo affogato in un’insipida broda, un po’ d’acqua, qualche ora di riposo e vecchie Colt quindici colpi. Ne seguì una spietata serie di rapine, le cui vittime furono per lo più banche dei paeselli nell’arco di qualche chilometro. Con il denaro proveniente da tale fuoco di fila di furti a mano armata, trasportato a strattoni mentre le caviglie affondavano nella sabbia rovente dell’ultimo lembo di deserto che li separava dal Messico e le gole supplicavano acqua, i Dalton avevano costruito un nuovo presente, fatto di vite pressoché normali. La decisione di stabilirsi in Messico fu dell’autoritaria Ma’ Dalton, che intimò ai propri figlioli di sparirsene per qualche anno al fine di far perdere le proprie tracce. Joe ricordava limpidamente gli ultimi istanti di quella sera febbrile in cui la vecchia donna quasi li aveva cacciati di casa, soffermandosi ad abbracciare Averell per non più di qualche istante.
Joe rinvenne bruscamente dai propri pensieri: si accorse improvvisamente dell’effettivo scorrere del tempo, dopo che il suo sguardo s’era posato sul vecchio ed instabile pendolo che qualcuno aveva appeso alla parete. Più i minuti passavano, più Joe avvertiva un disperato, inumano bisogno di fumare e di Averell non si vedeva l’ombra. Joe Dalton maledì il tempo, suo fratello e la propria stessa vita, preso da uno di quei suoi soliti istanti d’ira ferina. Sbattendo violentemente i pugni sulla scrivania, ad ogni modo, si accorse che una sigaretta solitaria, che giaceva da tempi immemori sepolta sotto stratificazioni millenarie di fogli ricolmi di appunti mal scribacchiati, cartine geografiche e mozziconi, rotolò tra le sue mani. L’uomo abbozzò un sorriso e rifletté sconclusionatamente sull’occasionale magnanimità del destino e sulla fortuna che saltuariamente lo assisteva.
Dopo essersi gaiamente portato alla bocca la sigaretta, Joe estrasse un fiammifero dalla scatolina in acciaio lavorato che conservava accanto al calamaio. Ne strisciò l’apice rossiccio, ottenendo immediatamente la minuscola vampata che avrebbe soddisfatto quella sua persistente smania di tabagista accanito. Nonostante il prepotente, scalpitante desiderio di fumare si soffermò per un istante ad osservare la piccola e timidissima fiammella. Quasi si lasciò scappare una smorfia divertita, alla vista della danza di colori all’interno di essa. Con un grugnito accese la sigaretta portandosi la mano dinanzi al volto per preservare la fiamma: subito dopo, schiacciò impietosamente il fiammifero nel posacenere.
Joe si abbandonò nuovamente alle riflessioni, incoraggiato dal troppo caldo che, si disse, non gli avrebbe concesso di far altro. Nel frattempo accese il grammofono e vi posò un disco nuovo di zecca. Le note di “You Call It Madness” di Smith Ballew si sparsero per la stanza. Erano ormai lontani gli anni Ottanta di quel goliardico 1800: la giovinezza di Joe era stata spazzata via dal sospiro del Tempo che, soffiando sul suo capo, aveva rimpiazzato il nero corvino dei suoi capelli con un tono brizzolato trasudante saviezza. Erano giunti gli anni Venti del neonato Novecento e si erano portati dietro il Charleston, pettinature femminili ornate da onde sinuose e automobili che in giovinezza Joe non avrebbe nemmeno sognato. Era davvero trascorso un sacco di tempo. Il denaro che gl’era rimasto era ben poco e mal lo amministrava. Ogni tanto Jack, che era divenuto un ricco proprietario di Casinò, gli spediva qualche busta chiusa con la scritta “confidenziale” ben impressa sul retro. Joe detestava ammettere di dover essere mantenuto dal fratello, ma sostanzialmente così era.
Joe aprì distrattamente il cassetto centrale della scrivania per dare un occhio al rimanente denaro del mese. Per un attimo fu colto dal panico dal momento che della busta di Jack non v’era traccia: prese a frugare nervosamente tra le scartoffie e la paccottiglia che aveva gettato nel corso del tempo in quel povero ed angusto cassetto. Nulla. Digrignando i denti per la rabbia quasi si scottò con il mozzicone penzolante della sigaretta.
- Al diavolo! Dov’è, maledizione, quella dannata busta? – strillò continuando a rovistare disperatamente.
Gli capitò tra le mani un fazzolettino in tela bordato di rosa. Joe corrugò le sopracciglia ed, un istante prima di scaraventarlo via, ricordò cosa fosse. Era di Betty, della Signorina Betty. Joe ammise tra sé di non aver scordato quella Betty, quella scioccherella smarrita che lavorava presso il penitenziario di Peabody ai tempi della reclusione dei Dalton. Quella cascata di capelli rossi che ondeggiava ad ogni passo tornava ogni tanto ad agitare il sonno di Joe, accompagnata dal cinguettio quasi irritante della sua voce. Joe sorrise portandosi una mano alla bocca. Con un colpetto inferto alla sigaretta, ne lasciò cadere a terra il mozzicone con cui prima aveva rischiato di scottarsi.
– Betty, Betty… –  disse ridacchiando quasi senza rendersene conto –quell’ ochetta imbranata …
Joe allungò un braccio per afferrare il liquore che teneva all’angolo destro della scrivania. Se ne versò una modesta quantità in un bicchierino tubolare che giaceva accanto alla bottiglia; ne bevve un lungo sorso, allontanando per un istante la sigaretta dalla bocca, e riprese tra le mani quel fazzolettino. L’annusò: il tempo aveva portato via il profumo caratteristico di Betty, sostituendolo con l’impregnante odore di chiuso che caratterizzava la stanza di Joe. Betty fu probabilmente l’unica donna realmente amata da Joe Dalton. Non l’aveva mai dimenticata. Non vi furono donne in grado di cancellare la memoria di quei capelli rossi, nemmeno le numerose prostitute che ampiamente costellarono la vita di Joe Dalton negli anni seguenti alla Grande Evasione – come i quattro fratelli la ricordavano. A quel tempo, dopo la fuga in Messico col ricco bottino, i Dalton avevano deciso di darsi alla soddisfazione di piccoli piaceri personali. Joe, in particolare, aveva sperperato parte della propria somma di denaro per fini non certo nobilissimi. Gli capitò non di rado di passeggiare per le borgate di Tijuana con un sigaro in bocca ed abbandonarsi alle proposte indecenti di  qualche donnetta scosciata alla disperata ricerca di pecunia. Il più delle volte ubriaco, si risvegliava stordito dopo ogni avventura, sdraiato in qualche letto sfasciato o in qualche fossato, talora zuppo di acqua stagnante. Smise di frequentare tali ambienti solo quando notò la comparsa di alcune piaghe sul corpo e temette – erroneamente – si trattasse di sifilide. Generalmente non si faceva scrupolo alcuno a frequentare tante donne, per di più sconosciute, né si curava fossero prostitute, nonostante gli sguardi preoccupati di Jack, William ed Averell gli cadessero addosso come massi carchi di rimprovero. Ma accadeva che, in quei letti cigolanti, in quelle notti misere e sconclusionate, gli tornasse alla mente quella Betty e che per giorni ella rimanesse aggrovigliata tra i suoi pensieri. Joe scosse piano il capo: – sei un povero idiota, Joe.
All’interno del fazzoletto, molti anni prima, Joe aveva inserito una piccolo ritaglio di giornale che ritraeva una furiosa Betty alle spalle di un altrettanto furioso Melvin Peabody dopo la Grande Evasione. Perse qualche secondo a fissarla. Era l’unica foto che possedeva di lei. Ma Joe non era certo un tipo sentimentale. Betty gli veniva in mente e spariva dai suoi pensieri con la stessa velocità con cui egli faceva la conoscenza delle più ambigue donnette di strada e si abbandonava ai fumi dell’alcool. Forse, cercava di mascherare il fatto di sapere perfettamente che Betty fosse innamorata di Averell. D’altra parte, quel fazzoletto l’aveva sottratto a lui, che lo conservava con la cura con cui si conserva un dono d’origine amicale.
Lo sguardo di Joe si fece tetro.
Si versò dell’altro liquore, gettando il fazzoletto e la foto nel cassetto, richiudendolo con uno spintone. Spense poi la sigaretta pressandola impietosamente nel posacenere oramai ricolmo.
All’improvviso, Averell comparve nuovamente sulla porta annunciando a gran voce d’aver trovato i sigari che Joe aveva richiesto. Quest’ultimo sospirò, cercando di estinguere quel raro e vergognoso istante di umanità che aveva osato concedersi e si alzò in piedi. Prese tra le mani nodose la sua vecchia Colt che giaceva inerme nel mare di carte geografiche e scartoffie che col tempo aveva accumulato sopra la scrivania. Quelle scartoffie, non le sapeva nemmeno leggere, si disse mestamente. Si lasciò scivolare la pistola in tasca e si alzò per spegnere il grammofono. Strappò di mano i sigari al fratello che lo osservava in riverente silenzio. Dopo averne estratto uno, si cacciò i rimanenti nel taschino del panciotto, accese un altro fiammifero e lo gettò sulla scrivania. Il cumulo di carta cominciò a prendere fuoco sotto gli occhi attoniti di Averell che si precipitò a prendere dell’acqua. Joe si accese il sigaro servendosi della fiammata che stava divorando la scrivania e, dopo aver bevuto un altro sorso di liquore, sparì dalla porta, con il capo chino, i pugni chiusi e più alcuna voglia di pensare.

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Capitolo 2
*** Jack Dalton - Parte Prima ***


Placidamente, calava la sera.
Lo scricchiolio della ghiaia sotto le scarpe produceva un certo senso di compiacimento, in Jack Dalton. Quel pomeriggio, poi, faceva da colonna sonora al fitto intreccio di pensieri e rimembranze che saturavano la sua stanca - e solitamente poco fervida - mente. Mascherato d’un volto visibilmente pensoso, non si sforzò nemmeno di celare quella sensazione di malinconia che l’affliggeva da qualche giorno a quella parte. In religioso silenzio, muoveva ogni passo con meticolosa applicazione, pur rimanendo assolutamente concentrato su quel febbrile ed intensissimo fluttuare di pensieri.
Era fuggito di casa per qualche ora, soffocato dagli affari e troppo stanco persino per riposare. Aveva portato con sé solamente il bastone da passeggio e uno spasmodico desiderio di rimanersene scompagnato. La sorte aveva voluto che quella sera non vi fosse quasi nessuno a Yosemite Park.
Jack, dopo aver percorso qualche metro, si accorse che l’oggetto di tanto subbuglio a livello mentale era senz’altro una marcata nostalgia per il passato. Gl’era balzato in capo, giustappunto, l’episodio culminante della propria gioventù, che non poté non ricordare con gran concitazione: la Grande Evasione. Jack avvertiva dopo tanti anni la stessa emozione nel ricordarne i dettagli. Correva l’anno 1887 ed egli era poco più che un giovanottino reduce da una relativamente breve ma considerevolmente ricca carriera di rapinatore. La banda criminale allestita assieme ai fratelli era una delle più temute del West. Quasi gli scese una lacrima. Tossicchiò chinandosi la bombetta sulla fronte. Dopo il primo arresto, ad ogni modo, l’evasione parve per lungo tempo una vagheggiante illusione: Joe, il più vecchio della nidiata Dalton, imbastì, con piglio autoritario degno della propria madre, un’infinita successione di tentativi di fuga, di piani minuziosissimi che tuttavia conobbero l’uno dopo l’altro una spietata concatenazione di fallimenti. Proprio quando Joe pareva essersi arreso, l’occasione di evadere si presentò ai Dalton su un piatto d’argento. Jack ricordava ancora alla perfezione ogni frangente di quella notte gloriosa che spianò loro la strada verso la libertà: la concitazione di quegli istanti non l’aveva mai più dimenticata e talora si ripresentava nella modernità sconquassando il suo corpo appesantito dal tempo.  Non aveva scordato nemmeno lo sguardo di Joe, che s’era illuminato donandogli inaspettato vigore, nonostante il volto mal rasato per la frustrazione, gli occhi scuri impietosamente solcati dalle occhiaie e le mani corrose dai lavori forzati. L’unico che all’epoca non parve dimostrare sincera eccitazione fu Averell, che anzi diede l’impressione d’essere piuttosto abbattuto; ma Jack riconobbe che in ciò non vi fosse nulla di particolarmente strano, poiché il fratello minore non era certo noto per l’essere sveglio. Dopo la fuga nella notte, Jack rammentava il tortuoso e devastante cammino attraverso il deserto che per lunghissimo tempo aveva fatto a pezzi i loro corpi estenuati. Ma poi, dopo quasi un mese di fuga, su suggerimento di Ma’ Dalton, i quattro avevano raggiunto il Messico, ove permasero per qualche tempo e si procurarono false identità e relativi documenti.
– E fu così – disse Jack ad alta voce – che i Dalton lasciarono gli Stati Uniti con in tasca la libertà ed una nutrita somma di denaro.
Denaro, si disse tra sé, frutto di numerosissime rapine post-evasione.
Fu in Messico che Jack si imbatté nell’uomo lungimirante e sagace che avrebbe rivoluzionato la sua vita: Solomon Finnegan, geologo e mineralogista, commerciante, ma, soprattutto, incorreggibile truffatore. Jack lo conobbe presso un casinò, nel periodo di sperpero danaroso cui i Dalton si abbandonarono immediatamente dopo la Grande Evasione. La vena illecita che caratterizzava il giro di affari di Finnegan solleticava la malcelata indole Dalton che pulsava viva in Jack e lo condusse diritto tra le braccia di quel magnate abbandonando i suoi fratelli. Finnegan, che, avido com’era, lavorava perlopiù da solo, accettò con inaspettato garbo la presenza di Jack Dalton e lo condusse con sé in un viaggio memorabile.
Jack lasciò, per un istante, che la meravigliosa tonalità del cielo l’assorbisse, facendogli accantonare il passato per un po’. Il suo sguardo stanco danzò tra i sontuosi ricami delle nuvole, indiscusse protagoniste di quel cielo estivo tinto d’un arancio inusualmente affascinante. Jack  Dalton respirò profondamente, in preda ad una certa nostalgia, e solo poi si lasciò nuovamente naufragare in quell’impetuoso sgorgare di ricordi che quel giorno aveva deciso di popolare la sua mente. Gli scappò una smorfia divertita, al ricostruire il buffo profilo di quel furbissimo figuro con cui aveva trascorso parecchi anni della propria giovinezza, alla ricerca dei tesori più disparati: Solomon Finnegan era un ometto scaltro, evidentemente cupido, smaniosamente innamorato di ogni qualsivoglia prospettiva di guadagno, persino della più misera. Espertissimo nel proprio lavoro, scrutava il mondo dalla sua modestissima altezza e tendeva ad arricciarsi gli enormi baffi grigi ogniqualvolta pensasse. I suoi occhietti sottili ed incavati guizzavano da un angolo all’altro delle enormi cartine geografiche che portava con sé, al fine di individuare le migliori mete per l’estrazione dei minerali più pregiati. Una volta stabiliti ingegnosi itinerari in tale o tal altro luogo, istruiva meticolosamente Jack in merito ad ogni minimo dettaglio e, dopo avergli spiegato come preparare il Bagaglio Perfetto – come lo chiamava lui –, saltava assieme al suo novello discepolo sulla prima carovana. I viaggi erano estenuanti, vista la scarsa avanguardia dei mezzi di trasporto dell’epoca, ma Jack, da buon Dalton, si faceva motivare dalla prospettiva di guadagno cui Finnegan continuamente faceva riferimento.
Jack calciò un sassetto e si fermò ancora una volta ad ammirare il panorama. Si sistemò la bombetta che, a parer suo, non stava mai come avrebbe dovuto e solo poi si guardò attorno alla ricerca di una panchina libera. Cominciava ad avere la sua bella età e gli anni di fatiche giovanili si riflettevano ora sul suo benessere, rammentandogli ad ogni passo d’avere un’anca ammaccata, un polso perennemente dolorante e qualche problema posturale. Jack, aguzzando la vista dietro agli occhialetti tondi, individuò un grosso masso all’ombra di un grande pino e vi si precipitò, pur con le difficoltà del caso. Quando si sedette, una piacevole brezza gli accarezzò il volto. Fu allora che si ricordò del suo primissimo viaggio con Finnegan. Dopo quasi due mesi di tribolazioni per terra e per mare aveva messo piede in una terra lui sconosciuta ma estremamente affascinante, l’Africa. Jack trascorse in quel continente quasi dieci dei propri anni. Le giornate africane di Jack Dalton e Solomon Finnegan erano fitte e pesanti, ma ricche di scoperte, guadagni ed affari. Ciò che maggiormente riempiva la loro quotidianità era un durissimo lavoro d’estrazione, talvolta sotto il sole battente. Vi era poi il commercio delle pietre, la parte a parere di Jack più coinvolgente, ma che impiegava solo un terzo del loro tempo. Jack ammirava particolarmente la brillante versatilità che Finnegan dimostrava nell’adattarsi alle diverse culture africane, alle nuove circostanze, atmosfere: non si lamentava mai delle enormi fatiche cui sottoponeva il proprio corpo, né delle misere sistemazioni in cui perennemente lui ed il suo allievo incappavano. Sapeva sinceramente apprezzare le talvolta improponibili tradizioni culinarie delle regioni in cui si stabiliva, senza mai negare una buona parola per ogni pietanza, nemmeno per alcune inguardabili sozzerie che fu costretto a ingurgitare. Dalla sua bocca non giungeva mai una lamentela circa i climi differenti, le condizioni di vita né era da lui quella spocchia occidentale che Jack aveva sempre identificato come tipica dei Nordamericani e degli Europei. Piuttosto egli impiegava le proprie energie per studiare il territorio ed una strategia di guadagno vincente. Era solito insinuarsi scaltramente nelle complesse ramificazioni dei sistemi commerciali dei disparati luoghi e, con l’aiuto di una truffa magistralmente studiata, figlia principalmente d’un sapiente ed apparente intreccio di competenza e cieca fiducia in sé stesso, arricchirsi all’inverosimile. Finnegan eresse un impero vendendo a molto più del dovuto ogni genere di oggetto a chi l’avrebbe pagato generosamente, perlopiù gli spietati colonizzatori dell'ovest, ed acquistando presso altri, per quattro soldi, beni che in Occidente avrebbero fruttato profitti da capogiro. Tuttavia, la maggior parte del Tesoro, rimase intatta per oltre otto anni, con la promessa d’essere venduta una volta in America di modo d’aumentare certamente e spropositatamente l’ammontare di un ipotetico guadagno. Per anni accumularono non solo minerali ma anche stoffe, vasi, opere artigianali con la prospettiva di un commercio futuro.
Dalton sospirò, dichiarandosi ben contento di aver potuto collaborare con un tale, intraprendente genio del raggiro. Finnegan morì di colera nel 1894, nel Sud dell’Africa. Jack ne fu sinceramente dispiaciuto e si riserbò di dedicare una degna sepoltura a quello che, bene o male, era divenuto un caro amico.  Nonostante l’evidente cupidigia, Finnegan non era certo un uomo avaro: lasciò al suo benvoluto discepolo la propria parte di Tesoro e le indicazioni per raggiungere una cava che prometteva ritrovamenti straordinari, a patto che Jack avesse raggiunto personalmente quello spropositato guadagno che li aveva motivati sino a quel momento e che l’anziano non avrebbe potuto conoscere. Fu nell’aprile del medesimo anno che Jack Dalton fece conoscenza diretta della Dea Bendata; Finnegan ci aveva visto giusto e Dalton prelevò dal suolo sudafricano i diamanti che successivamente decretarono la sua immensa fortuna.
Jack ridacchiò tra sé e sé, alzandosi e risiedendosi su quel grosso masso che risultava essere piuttosto malagevole. Dandogli uno sguardo, come fosse un’occhiata di rimprovero per la sua scomodità, Jack s’accorse che la luce del tramonto svaniva mano a mano. Con mano tremante, estrasse dal taschino una minuscola fiaschetta in alluminio e bevve qualche sorso d’acqua.
Nel 1895, ormai più che trentenne e desideroso di mettere le mani consunte dagli scavi sul denaro che gli spettava, Jack fece ritorno negli Stati Uniti con lo zaino colmo delle ultime pietre preziose prelevate ed un carro che aveva viaggiato con lui dall’Africa, persino per mare, a bordo della nave St. Mary. In tale carro Jack aveva nascosto il Tesoro, mascherandolo con stoffe di scarso valore, provvedimento che consentì al bottino di giungere illeso a destinazione.
Dalton si lasciò sfuggire una grassa risata che risuonò nei dintorni del parco semi deserto: a quell’epoca quasi non gli sarebbe più servita una nuova identità per sfuggire alla Giustizia; avrebbe potuto fare a meno di quella seconda identità, non gli sarebbe servito quel secondo nome, “Malcom Porton”, che gli era stato affibbiato in Messico nel 1887 con tanto di fasulla documentazione. E ciò poiché, di ritorno dall’Africa, aveva la barba lunga, incolta, la pelle dorata e un intreccio di ciondoli tribali appeso al collo.
Subito dopo il suo arrivo in suolo statunitense, Jack decise di stabilirsi per qualche tempo presso Ma’ Dalton, la quale gioì al poter riabbracciare almeno uno dei propri quattro figlioli. Jack fu sinceramente lieto di scoprire che il Tesoro trasportato dall’Africa avesse un valore inestimabile e, vendendo parte di esso raggiunse una considerevole facoltà economica. Il bandito Jack Dalton era divenuto un rispettato avventuriero, presso cui le dame più nobili potevano acquistare meravigliose gemme, stole e carabattole che egli faceva passare per pezzi unici al mondo. Jack, in ogni caso, temendo ancora eventuali ripercussioni giudiziarie risalenti al passato, si sbarazzò della propria, reale identità e rimpiazzò “Jack Dalton” con quel Malcom Porton che un poco odiava.
Jack si alzò in piedi, con l’intenzione di dirigersi verso casa, poiché l’imbrunire un poco l’inquietava. Ogni tanto si concedeva una sigaretta e decise che in quel momento fumare gli avrebbe fatto bene. Avrebbe chetato quel burrascoso emozionarsi dovuto a quel turbinare di ricordi. Estrasse dal taschino sinistro una  sigaretta che conservava per le emergenze - come quella, d’altro canto – ed un accendino di prestigiosa fattura che aveva acquistato per vezzo.
Accese la sigaretta.
Si ricordò in quell’istante, proprio quando la fiamma divorava il capo della sigaretta, che appena tornato in America, dopo essersi concesso qualche giorno di tregua, aveva acquistato una villetta elegantemente arredata in riva a Lake St. Louis, in Missouri. Trascorse poi qualche mese nell’ozio decidendo di premiare ben otto anni di fatiche con qualche mese di vizi. Sperperò parte della propria fortuna senza alcun ritegno, ma impiegò il proprio denaro anche per la propria istruzione. Un uomo di successo, si disse all’epoca, non avrebbe potuto essere analfabeta. Prese dunque lezioni di lettura, scrittura ed economia di base presso un insegnante privato per sopperire alla propria ignoranza. Fu uno sforzo immane, ma Jack si sentì gratificato.
Tuttavia fece presto a sentire il peso della noia e si mise alla ricerca di qualcosa di nuovo. Accadde che inaspettatamente – e legalmente, cosa ancor più buffa – vinse al casinò. Considerata l’impressionante vincita, Jack convenne fosse cosa astuta investire sull’acquisto dello stabile e rilevare l’attività, che sapeva fruttare bei verdoni all’attuale proprietario. Quest’ultimo cedette alla lauta liquidazione che Dalton – o per meglio dire Mr. Porton – gli offrì e Jack divenne il nuovo titolare dell’impresa.  Dopo una furba ristrutturazione che richiese un ulteriore investimento, il locale antecedentemente malandato divenne meta di clienti d’un certo livello: meravigliose sale finemente decorate e Sale ampie, esteticamente piacevoli, dotate delle roulette e dei biliardi più raffinati ed illuminate da lampade di grido resero a Jack i guadagni sperati ed egli si vide autorizzato a conservare la rimanente parte del Tesoro del Periodo Africano. Naturalmente, da buon Dalton, si riserbò di truccare parte delle roulette, arricchendosi ancor di più mediante la truffa. Inoltre, Jack decise di non liberarsi della casa chiusa che aveva scoperto convivere con il casinò all’interno dello stabile (e che ora gli apparteneva). 
Divenuto in quel periodo parte della cerchia degli uomini più potenti dello Stato del Missouri, Jack Dalton, ufficialmente Malcom Porton, conobbe l’apice della propria ricchezza, assistendo al miracolo con occhi lucenti d’orgoglio. Fu proprio allora che l’impero faticosamente edificato minacciò di crollare rovinosamente. E accade quella che Jack ricordava come La Disgrazia.
Jack lasciò che il tabacco gli avvolgesse i polmoni e chiuse gli occhi per un attimo. 

CONTINUA!

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Capitolo 3
*** Jack Dalton - Parte Seconda ***


~(…) Jack lasciò che il tabacco gli avvolgesse i polmoni e chiuse gli occhi per un attimo. 
Era il 1899. Erano trascorsi tre anni dall’acquisto del casinò; Jack aveva ampiamente riassorbito la cifra spropositata investita nella ristrutturazione dello stabile del ’96, adottando certi piccoli stratagemmi che riempirono le sue tasche. Egli, di fatto, si riserbò di continuare a truccare i giochi, le roulette soprattutto, e di aumentare il prezzo degli alcolici – che faceva allungare con acqua. Jack sentiva un sincero affetto per quel casinò e, soprattutto, per i conquibus che fruttava.
Dalton ricordava benissimo quella torbida sera in cui un uomo vestito di tutto punto s’era presentato nel suo ufficio senza nemmeno bussare, portandogli via quel luogo a lui tanto caro. L’odioso nome di quel tale, Nathan Simmons, risuonava ancora limpidamente in capo a Jack, tanto quanto le sue sgradevoli parole.
– Signore – aveva scandito Simmons con voce grave – io e lei sappiamo perché mi trovo qui.
Jack, sorseggiando un bicchierino di whisky fece segno di no con il capo.
– Non mi obblighi ad essere scortese – disse l’estraneo senza perdere la calma.
Dalton non capiva. Ma disse:– se ha perduto ingenti somme presso il mio casinò sappia che io non ne rispondo, dacché…
– Jack Dalton. Smettiamola di prenderci in giro. Lei è un galeotto evaso cui mancano anni ed anni di detenzione da scontare.
Jack quasi si strozzò con il whisky. Ma decise di mantenere la calma.
Ridacchiando rispose: – temo vi sia un malinteso. Guardi… – affermò mostrandogli qualche documento – il mio nome è Malcom Porton.
L’uomo non volle sentire ragioni: – rinunci alle scuse, Jack. Non ne vale la pena. Ora, sono qui per negoziare. Infondo, nemmeno io sono un intonso schiavo della legge. Se lei comprende, naturalmente.
Si accese una sigaretta e, sfilatoselo di tasca, posò sulla tavola un foglio, rimanendo in silenzio per un po’, lasciando che il sangue di Jack irrancidisse nelle vene. Si trattava di un’usurata taglia risalente al 1887, taglia che pendeva sui capi dei fratelli Dalton.
– So tutto. L’evasione non è passata certo inosservata, signor Dalton. Ma la gente dimentica, io no. Ciò che ora voglio da Lei, in cambio del mio silenzio, è il  suo denaro.
Jack, che ancora non aveva aperto bocca, lo guardò.
– Mi consegni tutte le sue ricchezze. Non un dollaro in più né uno in meno. So dove dimora; domattina mi presenterò presso la sua abitazione. Badi bene di non deludermi.
Jack, inizialmente colto dal panico, venne di sorpresa trafitto da un piano, un piano malefico degno del fratello Joe, che squarciò il suo buon senso facendone indistinti brandelli. Finse una certa apprensione, mostrandosi in ansia per le minacce di quel Simmons: nel frattempo pensava, intesseva silenziosamente una metodologia d’azione. In un cassetto della scrivania conservava la sua vecchia Colt, che non aveva mai abbandonato dai tempi della Grande Evasione. Non appena Simmons si voltò, Jack spalancò il cassetto, l’estrasse e sparò impietosamente alle spalle dell’uomo. Ma egli, evidentemente, non era certo uno sprovveduto e , scansatosi in tempo, sfoderò a propria volta una Dillinger 41 puntandola contro Jack.
– Non giochi con me, Jack Dalton.
Jack l’osservò intensamente e nel farlo, notò la totale assenza di proiettili nel caricatore. Si lasciò scappare un sorrisetto per l’ingenuità (o la faccia tosta) di quel tizio. Era abile, probabilmente un esperto, ma era chiaro che non avesse intenzione di sparare.
– Sono un criminale, Simmons. Dell’inganno, conosco tutti i volti.
Detto questo, facendo appello ad una freddezza attinta da chissà quale, recondito angolo della propria persona, Jack sparò in fronte all’uomo che cadde lungo disteso. Non considerò la possibilità di risparmiarlo nemmeno per una frazione di secondo e ciò, col senno di poi, lo turbò profondamente.
Dalton sprofondò sulla sedia, privo di forze. Non poteva credere di aver realmente sparato a qualcuno. Solitamente, quella Colt, serviva solo come deterrente. S’alzò immediatamente in piedi. Jack ricordava con un fremito, ancora dopo tutti quegli anni, tali istanti di terrore.
Un’ inaspettata furbizia, tuttavia, salvò la sua reputazione e la sua vita. Sapeva bene che al piano inferiore si sarebbero uditi gli spari, nonostante l’intrattenimento musicale, il vociare della clientela e la concitazione generale; ma sapeva ugualmente bene che non sarebbe risultata cosa nuova, dal momento che dall’apertura del casinò, quasi ogni sera, s’era visto costretto a far allontanare dalle guardie manigoldi dall’arma facile, picchiatori di cieca brutalità e non meno di una decina di assassini che, approfittando del trambusto generale, cercavano di eliminare obiettivi disparati.
Avvolto il cadavere dell’uomo in un sacco lercio, lo nascose in un baule, che fece caricare con tutto ciò che gli apparteneva in un carro diretto verso casa.
– Mia madre è sul punto di morte – ricordava d’aver detto ad una guardia con fasulla disperazione. L’uomo l’aveva guardato con accondiscendenza ed aveva promesso di gestire assieme ai colleghi più fidati lo stabile sino al suo ritorno. Jack cavalcò sino a Long Branch Lake ove, legatovi un masso al piede, si sbarazzò del cadavere che venne ingurgitato dalle acque.
Spese solo alcuni istanti ad osservarlo sparire, poi, terrorizzato, si diresse verso casa, ove cominciò a fare i bagagli. Sarebbe partito in breve tempo, non ebbe altra scelta.
Jack, che cominciava ad essere stanco di camminare rallentò bruscamente il passo. La sigaretta, che era oramai sul punto di terminare, l’aveva scocciato e se ne liberò. Si sistemò per l’ennesima volta la bombetta e, dopo aver controllato l’orologio da taschino, venne trafitto da un ricordo. Quella notte del febbraio 1899, il freddo pungente l’aveva accompagnato a casa.
In un angolo del capanno sul retro , fu ben lieto di ritrovare intatto quel carro che s’era portato dietro dall’Africa e che aveva fatto da spettatore alle sue avventure in compagnia del vecchio Finnegan; Jack impiegò un’intera notte a stipare dei suoi averi quelle malandate assi di legno che chissà per la benevolenza di quale divinità ancora rimanevano giunte tra loro. Solamente in seguito, si accorse che il carro non fosse sufficiente a contenere le sue “enormi fortune”, come le chiamava. Si vide costretto ad attendere il mattino per acquistarne un secondo, e nel frattempo, con gran turbamento, accumulò – badando a ben mascherarli – i beni rimasti. Parte del denaro l’avrebbe trasportata ben compressa in un baule, avvolta nei vestiti, parte, invece, in una piccola e discreta cassaforte che pareva un trasportino. Diede un ultimo sguardo all’interezza del proprio bottino: la metà non venduta del Tesoro, i poliedrici acquisti dell’ultimo arco di tempo e l’impressionante quantità di denaro lo compiacquero non poco. Ma, pungolato da quella sensazione di inquietudine, badò a non perdere troppo tempo a rimirare le proprie ricchezze.
Il mattino seguente si fece recapitare il nuovo carro ed acquistò con esso dei cavalli piuttosto giovani. Mise in vendita la casa totalmente ammobiliata, lasciandola a malincuore, e si recò al casinò per l’addio al personale. Decise che un poco di buon cuore misto a furbizia non avrebbe guastato e, salito sul palco, una volta radunati tutti i dipendenti annunciò: – miei spettabili amici. Sono trascorsi appena tre anni, ma credetemi se vi dico che sono stati incredibili. Il mio è un cuore avventuriero e per questo desidera oggi ricondurmi verso mete lontane, alla ricerca, come in passato, di nuove culture, di nuovi stimoli. Ma dacché voi mi siete tanto cari, ho deciso che l’attività cadrà in mano ad uno di voi, il cui nome sarà estratto a sorte da me, qui!, su questo palco.
Un boato di ammirazione e stupore aveva invaso la sala.
Jack aveva naturalmente programmato l’estrazione, scegliendo tra i tanti, l’uomo più adatto ad una seria conduzione dell’impresa: Clark Tomlinson, un’ex guardia che lavorava ora come computista presso il casinò e per esso dimostrava una sincera affezione.
Per evitare l’insorgere di contrasti tra gli altri dipendenti, Jack aveva provveduto ad una nutrita liquidazione per ognuno, consegnata in busta chiusa. Dalton congedò cadauno con una stretta di mano ed un sentito ringraziamento  per il lavoro svolto; si chiuse nella casa vuota attendendo che si manifestasse un nuovo inquilino e ne approfittò per controllare di averla svuotata completamente, mobili a parte. Dovette attendere una decina di giorni affinché l’acquirente tanto bramato si presentasse, ma la trattativa si concluse celermente e Jack poté lasciare la splendida villetta in riva a Lake St. Louis con qualche migliaio di dollari in tasca ed il cuore alleggerito. Si recò presso Ma’ Dalton, la quale non venne messa al corrente dell’omicidio, ma solo della celere partenza. Jack le consegnò il denaro ricevuto subito dopo aver venduta la casa ed ella quasi si commosse per la sua insolita generosità.
La notte del primo marzo 1899, Jack si recò un’ultima volta al casinò con i due carri agganciati l’un altro e, prima di partire, strinse la mano di Tomlinson facendogli i migliori auguri. Una sparatoria nella notte, tuttavia, fece sobbalzare i due uomini. Costoro, usi al perpetuo trambusto di quell’ambiente, si limitarono a farsi un sorriso, a battersi una mano sulla spalla, ignorando quattro uomini armati che parevano rincorrere una ragazzina. A Jack parve d’udire un rumore inusuale, che per un istante gli fece credere che qualcosa avesse urtato il proprio carro. Non notando nessuno gironzolarvi intorno, convenne d’esserselo immaginato. La sua seconda Grande Evasione da una vita rovinata gli lasciò l’amaro in bocca. Aveva l’impressione d’aver insozzata anche la seconda occasione che la vita gli aveva offerto, d’essere ricaduto nel medesimo errore. Ma si consolò come poté, fuggendo verso Sud, viaggiando per giorni e giorni senza concedersi un attimo di riposo. Se aveva fallito nuovamente nel ricostruirsi una vita degna, ci avrebbe riprovato.
Jack si guardò intorno: la luce diurna era quasi totalmente svanita ed egli s’affrettò a rincasare, seppur malfermo su quelle gambucce nocchiute affaticate dal tempo.
Dopo quasi mezz’ora di cammino, fece ruotare la maniglia della porta di casa e, esausto, si sbarazzò di cappotto e bombetta, abbandonandoli sull’appendiabiti. Tutti quei ricordi, quel mesto riesumare cocci rotti appartenenti al passato l’aveva prostrato; decise pertanto, sarebbe stata cosa buona e giusta versarsi da bere e tentare di distrarsi. Buttò giù tutto d’un fiato un bicchierino di whisky, poi si diresse al catino che teneva poco distante dalla porta e vi affondò le mani, portandosele dunque al viso, con la vana speranza di lavare via lo strano sentore che era germogliato attorno al suo cuore, stringendolo in una morsa feroce.  Jack osservò la propria immagine riflessa sul piccolo specchio che aveva appeso al muro. Aveva dimenticato di avere gli occhi tanto infossati. Si allentò il colletto, sentendosi soffocare. Le sue rughe d’espressione erano ben marcate, scavate nella pelle dall’impietoso scorrere del Tempo e le sue mani, che scivolavano mollemente ai lati del volto, non erano che nodosi accumuli d’ossa, velati appena di carne e vene sporgenti.
– Chi sei, Jack Dalton? – si chiese con un filo di voce.
Rimase immobile dinanzi lo specchio per qualche istante interminabile.

Erano trascorse quasi tre ore. Jack, per tutto quel tempo, se n’era rimasto seduto sul divano con un’espressione impassibile in volto ed un turbolento vorticare di pensieri in capo. Stufo, s’accorse di desiderare intensamente della musica. Così s’alzò e, caricato il grammofono, lasciò che le note di “ Dancing with Tears in My Eyes” riempissero l’aria.
Quando la morbida voce di Nat Shilkret cominciò ad insinuarsi dentro di lui, Jack chiuse gli occhi per evitare di cedere agli effetti di sentimentalismo alcuno.
Come se non l’avesse già fatto a sufficienza, riavvolse mentalmente la propria vita ancora per una volta, come si trattasse della pellicola di un film. Tutto sommato, la sua non era stata una brutta avventura; forse a tratti turbolenta, increspata da qualche significativa problematica, ma a conti fatti degna d’essere ricordata con rispetto. Certo, nel suo personal caso, non si poteva parlare di “ rispetto” in senso stretto, canonico, e Jack badò tra sé a specificarlo, come fosse una sorta di dovere morale nei propri confronti. Egli era stato un criminale, ciò risultava innegabile, tangibile, limpido e noto. Ma si concesse in quell’istante, quel giorno, quella sera rabbuiata dallo zelo dell’incombente autunno, di ammirare con rispetto quella sua capacità di rialzarsi dinanzi alle avversità, di reinventarsi ogniqualvolta la vita, od egli stesso, si sarebbe presa l’ingrata premura di metterlo nei guai.  
Jack quasi morì di paura quando, inaspettatamente, una mano si posò morbidamente sulla sua spalla destra. Quando egli si voltò, il viso dolce di Temperance, visibilmente stanco, gli sorrise gentilmente.
Con sorpresa, Dalton ci impiegò un poco a riconoscerla, forse a causa della stanchezza, dell’affaticamento cui, consciamente e scioccamente aveva scelto di andare incontro quel giorno.
– Oh!, Temperance, per la miseria! – borbottò accomodandosi la giacca.
La donna gli sorrise, senza dire momentaneamente nulla ed accompagnando il suo silenzio, il grammofono si zittì bruscamente.
Ella mormorò: – Jack…cosa ci fate ancora in piedi a quest’ora di notte? Non siete stanco? Lavorate intensamente tutto il giorno eppure, giunto a sera, sembrate non trovare pace.
Dalton s’appropinquò all’enorme finestra che, seppur chiusa, si apriva su quella magnifica notte, mostrando un cielo spettacolarmente ricamato delle stelle più lucenti.
– Ho voluto fare una passeggiata, tutto qui. Sono rincasato ed ho perduto qualche istante immerso nella musica. Faccio fatica, ultimamente, a prender sonno. – spiegò l’uomo senza abbandonare con gli occhi lo spettacolo naturale che gli si manifestava dinanzi.
– Mi sono soffermato a pensare…ed il tempo è scorso più velocemente di quanto ricordassi fosse abile di fare – aggiunse con un sospiro.
– Pensate un po’ troppo, di questi tempi, Jack – asserì Temperance con un risolino.
– Ed invece… – proseguì dopo qualche istante.
– Dovreste lasciarvi andare un po’ di più. – concluse dopo essersene saltata giù dalla finestra che aveva aperta. Allorché tese una mano in direzione di Jack, il quale, dopo aver creduto di morire d’infarto, gracchiò: – non penserai io ti segua nei tuoi folli funambolismi! Mi conosci e sai bene quanti acciacchi tormentino la mia quotidianità.
Temperance scosse il capo: – voi siete troppo tragico, mio caro. E poi, guardate, non si tratta che di poco meno di un metro! Non mi direte di temere l’altezza sino a questo punto!
– Misericordiosa pazienza! – borbottò Jack passandosi con compunta disperazione entrambi i palmi in volto.
Scavalcò dunque la finestra con non trascurabile preoccupazione e proprio quando posò il primo piede a terra, la donna disse: –  lo vedete? Non è stato poi tanto tragico. Infondo, avete poco più di cinquant’anni, non siete certo un vecchierello incartapecorito.
Jack precisò: – a dire il vero, ne ho quasi sessanta, di anni, matta d’una donna.
 – Anno più, anno meno! – minimizzò Temperance.
E gli propose di fare una passeggiata nei dintorni, “viste le bellezze che aveva a disposizione in quella casa esageratamente grande per un uomo solo”.
Dopo aver protestato d’essere stanco e stufo di camminare, dal momento che l’aveva fatto per tutta la giornata, Jack non poté far altro che seguire la donna, che pareva non sentire ragioni.
Temperance ed un claudicante Jack si diressero verso il meraviglioso ponticello che sovrastava lo stagno interno all’enorme giardino, ponte che Dalton aveva fatto erigere una quindicina d’anni prima, stufo di dover ogni volta camminarvi attorno.
Improvvisamente Dalton sbottò: – dimmi come diavolo fai, Temperance.
La donna, rimasta di sale, domandò con garbo a cosa alludesse ed egli ribatté : – ad essere tanto vitale a trentott’anni suonati. Insomma, non sei certo più una ragazzina, né si può dire tu sia nel fiore degli anni. Eppure te ne saltelli con emozione qui e là come una sorta di…fanciulla spensierata sul punto di fare la conoscenza della vita vera. Tutto ciò è una burla biologica di dimensioni spropositate, uno smacco!
Temperance rise sonoramente: – così mi offendete!
–  Oh. No, non è questa la mia intenzione. Solo mi domando come tu ci riesca. Io per contro…
Lasciò la frase in sospeso, con una punta di malinconia nella voce.
– Sapete cosa penso? Penso che la colpa del vostro malessere sia imputabile soltanto a voi. Che vi lagnate troppo, ecco la verità.
– Diretta come sempre, mia cara – ridacchiò Jack.
– Sapete che non sono il genere di donna che si tiene tutti i propri pensieri in bocca. Non lo sono, proprio per nulla. Devo dirvelo, e se lo faccio è perché di bene ve ne voglio tanto. Devo dirvelo – ripeté – che voi piagnucolate molto e non vedete quanto ben d’Iddio possedete e quanto, tutto sommato, la vostra salute non sia poi malaccio. Certo, avete un’anca che spesso fa la birbona. Certo, il vostro polso vi duole e più di qualche volta ve ne andate in giro curvo come un qualche animale di specie indefinita…
Jack corrugò la fronte quasi sconvolto dalla sfacciataggine della donna. Ma poi ci rise su, giacché dopo tanti anni aveva appreso che in realtà ciò che ella diceva, seppur all’udirsi paresse un poco insolente, era solamente espressione del gran bene che gli voleva.
– …ma credetemi. – proseguì Temperance – ve la passate abbastanza bene. Potete lavorare, “deambulate decorosamente”, come dite sempre voi, e non dovete assumere particolari medicinali. L’unica cosa che probabilmente, realmente vi affligge è una perpetua solitudine. Che è certamente la più grave delle vostre malattie.
Calò il silenzio per qualche minuto.
Jack disse, tutt’a un tratto: – da quanti anni ci conosciamo, Temperance?
Ella sorrise: – con  quest’anno, saranno ventisei, Jack.
Dalton scosse il capo: – incredibile. E dopo ventisei anni, mi dai ancora del voi?
– Mi par chiaro, Jack. Pensate a cosa avete fatto per me.
– Sciocchezze, Temperance, sciocchezze. Dabbenaggini da donna, ecco che sono queste. Dabbenaggini – borbottò seccamente Jack.
– Il solito, Jack. Siete sempre il solito. Saranno dabbenaggini, ma la penso così.
Dopo che un buon quarto d’ora era passato tra una chiacchiera e l’altra, Temperance sibilò:- ad ogni modo, mi piacerebbe farvela io una domanda.
Senza attendere risposta, proseguì:- giacché ve ne state tutto solo facendo la spola tra casa e casinò, perché non vi mettete in contatto con i vostri fratelli?
– C’è un grande mondo, intorno a te, piccola Temperance.
– Ciò che non vedi non è necessariamente irreale…
– … solo perché sei tu a non vederlo.
Gli occhi di Temperance si spalancarono ed ella socchiuse la bocca per la sorpresa.
– Da anni intrattengo una corrispondenza a senso unico con Joe.
Temperance si illuminò: – allora l’avete trovato! Siete un villano, non mi avete nemmeno messa al corrente! Ed io sciocca, a preoccuparmi per voi!
– Gli spedisco mensilmente del denaro perché ho saputo per vie traverse che non se la cava molto bene. Ed ho ragione di supporre che il fatto di venire mantenuto lo disturbi non poco. Ma non ho intenzione di abbandonarlo a sé stesso. C’è ancora qualcosa che mi lega a lui.
Temperance disse:– non ho mai davvero capito cosa vi sia accaduto. Vi separaste e perdeste sparpagliandovi per il mondo, lasciandovi alle spalle un legame che pareva indissolubile. Sono questi i misteri dell’amore? È dunque ciò possibile? Voglio dire, è possibile che l’amore si estingua anche in contesti tanto peculiari? Non si tratta di amore passionale, senonché fraterno. Si suppone in qualsiasi novella per donne sfaccendate che se tra un uomo ed una donna l’amore possa estinguersi pur rimanendo ufficialmente effettivo grazie alle ferree imposizioni dell’inscindibile vincolo matrimoniale, tra famigliari esso rimanga perpetuamente vivo.
Jack scosse la testa: – non è questo il punto, Temperance. La differenza la fa non tanto quanto amiamo gli altri, chiunque essi siano, quanto piuttosto quanto amiamo noi stessi. Joe, nella fattispecie, è un uomo che pone in primo luogo la propria persona. Non azzarderei parlare di amor proprio, quanto piuttosto di egoismo. Il proprio orgoglio vale per lui molto più dell’amore per un qualsiasi fratello.
Calò un mesto silenzio. Dopo un po’, Jack disse: –  raccontamela ancora una volta, Temperance. Raccontami la nostra storia.
Temperance alzò gli occhi al cielo e, dopo aver scosso il capo affermò: – certo che voi non ve ne stancate mai, eh! Perché non me la raccontate voi, invece, una volta tanto!
– Hai voglia di scherzare – la rimbeccò Jack – sai bene che io non sono un abile narratore. Ma ora torniamo in casa. Per quanto tu ne dica, sono un vecchio ed i vecchi, è notorio soffrano il freddo più dei giovani.
– Come volete, come volete – rise Temperance prendendolo sotto braccio – anche se prima mi avete detto che non sono più nel fiore degli anni…!
Dieci minuti dopo, Jack sedette nuovamente sul divano dopo aver ricaricato il grammofono, mentre Temperance accendeva il caminetto borbottando che le sere cominciavano a farsi effettivamente “fastidiosamente refrigerate”.
– Dunque…volete davvero risentire questa storiella ancora una volta? – chiese la donna sedendo accomodandosi la gonna come di dovere.
– Mi par chiaro. E poi non è una storiella, via. È la nostra storia.
– Insomma…ci siamo conosciuti che ero una ragazzina...mi ero intrufolata in quel vostro carro pieno di tesori con la speranza di fuggire da quella vita sconclusionata che conducevo e quattro uomini che volevano farmi a pezzi. Viaggiaste per giorni, lo ricordo limpidamente ancora oggi, e rammento che passai ore a rimirare i vostri averi passandomene qualcheduno tra le mani. Non avevo mai visto prima tesori nostrani, figurarsi amuleti africani. In realtà, all’epoca non sapevo nemmeno che lo fossero. Pregai che voi non vi accorgeste di me ed invece, la terza notte di viaggio, vi fermaste brevemente per accendere un fuoco e cuocere una trota che avevate pescata a mani nude; volevate evitare gli acquisti ed i contatti umani per un po’, impaurito com’eravate dai vostri trascorsi, lo ricordo. Rovistaste nel carro in cui mi ero rifugiata nella speranza di trovare dei fiammiferi e vi spaventaste a morte quando sfioraste la mia gamba. Credo trascorremmo cinque minuti buoni ad urlare fissandoci negli occhi.
Temperance si interruppe ridendo.
– Mi prendeste con voi per compassione, ma inizialmente mi trattaste con gelido distacco. Un distacco rispettoso, comunque. Vi raccontai la mia brevissima storia di vita costellata di fallimenti e foste il primo che, anziché guardarmi con sdegno, rimase in silenzio, a capo chino. Non mi giudicaste mai per il mio passato vergognoso e mano a mano che il tempo passò, mi accettaste come una presenza nella vostra realtà, mi parve di venir trattata come una figlia; mi deste addirittura un’istruzione, a patto che vi tornassi utile per il nuovo progetto che stavate elaborando. Volevate aprire un rinomato casinò in California, dicevate. Volevate che fosse il più rinomato, che accogliesse il maggior numero di clienti e che vi “restituisse la serenità” che avevate perduta avendo abbandonato la precedente attività. Mi raccontaste la vostra storia solo molto dopo, forse quando capiste di potervi fidare. Si sa – disse la donna aprendo una piccola parentesi – che i poveracci le sventure della vita le conoscono meglio di chi si trastulla nelle comodità del benessere!, e che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio! , come diceva la mia povera nonna. Al mondo ci sono tanti predatori, ma anche molti conigli.
– Non cominciare con i proverbi, ti supplico… - borbottò Jack.
Temperance lo ignorò riprendendo il discorso: – Giungemmo in California mesi dopo, successivamente ad un estenuante cammino. Poi voi ricorreste alle vostre fattucchierie da uomo d’affari e vi procuraste a pochi soldi un vecchio locale fatiscente che trasformaste in quello che oggi è il più noto Casinò nazionale. Non so come, forse infiacchita dalla vita, io finii a farvi da domestica, abbandonando gradualmente il ruolo di spalla amministrativa del casinò e voi lo accettaste. Quando l’attività cominciò a fruttare denaro, acquistaste questa villetta meravigliosa “che vi ricorda tanto la precedente” e mi deste una stanza tutta mia. Voi avete salvato la mia esistenza, Jack, senza che mai nessuno vi vincolasse, senza che foste obbligato a farlo e ciò vi rende un grande uomo.
Dalton si alzò ritto in piedi, riaccomodò il vinile affinché ripartisse “Dancing with tears in my eyes” e tese la mano verso Temperance, invitandola a ballare.
Ella, inizialmente stupefatta, sorrise poi con affetto e gli prese la mano alzandosi a sua volta.
Senza dire una parola, ballarono finché il grammofono non si zittì, lasciando che i loro cuori si sfiorassero, per poi abbandonarsi in un caldo abbraccio di benevola comprensione.

 

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