La Perla di Samarcanda

di MegWH
(/viewuser.php?uid=865252)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Due piccole note prima di cominciare...
Si tratta della prima storia che pubblico e, anche se qui la troverete divisa in più capitoli per facilitare la lettura online (non so voi, ma a me dopo un po' bruciano gli occhi davanti allo schermo del pc...), è stata concepita come un racconto. Spero davvero che la storia vi piaccia e attendo commenti e feedback per migliorare.

...Buona lettura! 

 

 

Nella mia lunga vita ho visto cose straordinarie, incredibili persino; città magnifiche, splendidi palazzi, vaste praterie e montagne così alte da toccare il cielo. Ho commerciato con i veneziani a Laiazzo, ho venduto ai genovesi i più pregiati tappeti della Turcomannia, un tripudio di sete preziose e fili d’oro di ogni colore, ho trattato per gli emissari papali un passaggio sicuro lungo la Via della Seta, anche se nessuno di loro ha resistito a sufficienza per cantare le mie lodi di viaggiatore in Occidente.
L’Occidente. Quasi nessuno al di fuori dei miei familiari conosce il mio nome, qui. Tutt’al più sono solo un vecchio pazzo con il cervello arrostito dal sole dei deserti dal nome impronunciabile che si estendono a est di Acri e non ho altro da dare, se non delle storie di fantasia. Ma sapeste, invece, come è onorato il mio nome in Oriente! Non c’è contrada, dalla piccola Armenia fino all’India Minore e alle coste del Cauli, che non sappia chi sono e con quali grandi signori ho cavalcato. Dicono che il ricchissimo Califfo di Baldac sia un mio caro amico – e forse bisognerebbe domandarlo a lui di persona, ma è pur vero che Sua Eccellenza mi ha sempre trattato con cortesia e generosità -, che i monaci di San Leonardo presso Ghenuchelan pregano per me ogni giorno, che persino gli Adoratori del Fuoco di Cala Atuperistan mi hanno permesso di toccare il viso di quei grandi signori che la Cristianità conosce come Re Magi.
Forse, alcune di queste cose sono veritiere, o forse no.
Forse è vero che i monaci di San Leonardo pregano, ma perché io non torni più sulle rive del loro grande lago, che chiamano Mare di Ghenuchelan, e non denunci la vera natura del loro miracolo. Ne conoscete la storia?
Ghenuchelan è, per così dire, un mare sterile, non ci sono pesci per tutto l’anno, salvo il periodo di Quaresima. Dal primo giorno dei quaranta fino al Sabato Santo, infatti, il lago si riempie di pesci grossi e saporiti e, siccome il monastero sta su un monte proprio sopra il lago, i monaci hanno gridato al miracolo dal giorno stesso del loro insediamento nella regione. Tuttavia, se li trattate con rispetto e offrite loro qualche striscia di carne essiccata, i non cristiani di Giorgiania vi racconteranno volentieri una storia diversa, nascosti nelle loro case, ben inteso, e di sera, illuminati dalla luce delle lampade accese con l’olio della Fontana della Grande Armenia. Una storia che comincia con l’osservazione di uno degli anziani di famiglia, che può ancora testimoniare che i pesci, a Ghenuchelan, sono sempre apparsi nello stesso periodo dell’anno, e molto prima che i monaci posassero il primo mattone di San Leonardo, e continua in una maniera che i miei cristianissimi lettori non vorranno leggere e che quindi tacerò. A chi possiede l’animo da esploratore ed è curioso di conoscere cosa davvero accade nel lago sotto al monastero di San Leonardo durante la nostra santa Quaresima, altro non resta che prendere la prima nave diretta ad Acri, e da lì proseguire sempre verso est, sul cammino che altri hanno tracciato e percorso lui.

Ho camminato lungo la Via della Seta molte volte, sia verso oriente che verso occidente, con molti compagni e pochi amici. Ho vissuto avventure incredibili, ma nessuna nemmeno lontanamente paragonabile al mio viaggio verso Samarcanda al fianco di Baithu generale del Gran Khan.
Quella calda estate di molti anni fa, il grande signore si trovava nel suo palazzo di Ciandu, una meraviglia di finestre istoriate e muri affrescati come non se ne sono mai visti nel mondo occidentale, e volle ricevermi nel suo immenso giardino. Quando giunsi in sua presenza, il Gran Khan stava nutrendo il suo falcone preferito, uno splendido animale capace di afferrare ogni preda che incontrava sul suo cammino. I Tartari sono degli abilissimi cacciatori e più di tutto amano la caccia con il falcone; in molti luoghi dell’Impero si allevano una grande quantità di uccelli atti a questo divertimento – falchi, falconi, grifoni, persino girifalchi -, e lo stesso Gran Khan possiede moltissimi esemplari da caccia, essendo egli solito trascorrere con questo passatempo i mesi primaverili.
Come dicevo, il Gran Khan era seduto su uno splendido trono di pietra intagliata, sopra una piattaforma a pochi passi dalla riva di uno squisito laghetto che i suoi giardinieri avevano costruito per lui, intento a nutrire il suo uccello da caccia con striscioline di carne cruda. La bestia, senza cappuccio, posava i suoi possenti artigli sul bracciolo del trono e attendeva pazientemente che il sovrano le porgesse il cibo. Poco distante, sulla riva del lago, la prima e amatissima moglie del Gran Khan osservava i pesci colorati che si rincorrevano tra le ninfee e il loto del laghetto, con gli occhi socchiusi. Anche io mi ero perso in quel meraviglioso spettacolo di colori e trasparenze; poco prima, attraversando il rosso ponticello di legno che mi avrebbe condotto alla presenza del più potente e ricco dei sovrani, mi ero fermato proprio nel mezzo e mi ero sporto verso le acque cristalline, con l’attenzione puntata su un gruppetto di pesciolini gialli, con la coda e le pinne tanto leggere e delicate da sembrare piccoli drappi di seta. Poi, la guardia che mi aveva condotto fin lì si era spazientita e mi aveva spinto in avanti in modo piuttosto brusco, ponendo fine ai miei sogni ad occhi aperti.
Mi inchinai di fronte al Gran Khan e rivolsi i miei omaggi all’imperatrice, che, come spesso accadeva, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Il suo regale consorte, invece, parve rallegrarsi nel vedermi, consegnò il falcone al suo falconiere e mi si rivolse direttamente, pronunciando il mio nome storpiato come solo i Tartari riescono a fare.
“Desidero inviare un’ambascia al mio fratello di sangue che regna sulla provincia di Jarcan. È molto che non lo vedo e voglio sincerarmi della sua salute.”
“È molto generoso da parte vostra, mio signore.” Risposi io, ma con cautela, perché per quanto il Gran Khan sapesse essere estremamente generoso, non ci si poteva ingannare sul fatto che fosse anche molto furbo.
“Il generale Baithu guiderà la spedizione.”
“È una magnifica idea, Gran Khan.”
Baithu era uno dei migliori guerrieri di tutto l’esercito, un uomo di corporatura formidabile anche per la media dei soldati Tartari, che sono molto possenti; si era guadagnato il ruolo di generale per aver tenuto il campo di battaglia con poche centinaia di uomini a fronte di un nemico sei volte superiore e uscendone vittorioso e privo di ferite. I suoi uomini dicevano che era un favorito del Grande Cielo Blu – il più potente tra i loro dei -, la madre, concubina del Gran Khan, che aveva preso tutto lo spirito battagliero del padre. Io lo conoscevo abbastanza bene ed ero lieto di poterlo chiamare amico.
In ogni caso, il fatto che il Gran Khan inviasse uno dei suoi figli, certo, ma anche il più valente tra i suoi generali per far visita al fratello lasciava intendere che le sue intenzioni differivano in parte da ciò che aveva scelto di confidarmi.
“Essendo il fratello di sangue Ciagatai cristiano, tu farai parte della spedizione, converserai con lui e gli porterai un dono da parte mia.”
Mi inchinai profondamente davanti al sovrano ed espressi la mia gratitudine per l’incarico affidatomi nei più alti termini possibili. Il dono che mi si affidava, come scoprii più tardi, era una preziosissima copia dei Santi Vangeli, con miniature dettagliatissime e la copertina di argento e oro massiccio, sapientemente lavorata. Il valore del codice, comprensivo di un pesante scrigno di palissandro che lo racchiudeva, era inestimabile.
“Cavalcherai al fianco del generale” aggiunse il Gran Khan, interrompendo i ringraziamenti in cui ancora mi stavo profondendo “converserai con il mio fratello di sangue fin quando egli vorrà e gli illustrerai al meglio delle possibilità il mio dono. Poi, farai ritorno qui e mi racconterai ogni cosa che hai visto e udito.”
“Sì, Gran Khan.”
Non era una richiesta insolita per me. Era già capitato che il gran signore mi mandasse in giro per il suo regno con mercanti, funzionari e guerrieri perché io gli raccontassi ciò che vedevo, spesso per la prima volta. Ho sempre amato raccontare storie ed ebbi la fortuna di incontrare un sovrano che apprezzasse i racconti quanto chi li pronunciava. Inoltre, grande com’era il suo regno, era impossibile per il Gran Khan percorrerlo tutto, soprattutto quando la gotta lo tormentava, ma egli amava sentire parlare delle sue genti e tenersi informato su tutte le province dell’Impero.
Per nulla impensierito dalla richiesta, quindi, mi inchinai profondamente dinnanzi al sovrano e mi preparai a lasciare la sua presenza, quando la sua voce mi fermò.
“C’è un’ultima cosa.”
“Mio Khan?” domandai, perplesso. Cos’altro poteva volere la massima autorità dell’Impero Tartaro da un umile mercante come il sottoscritto, che viveva negli agi e nelle comodità solo grazie alla sua munificenza? 
“Tra i monti del Pamier, dove le nevi non si sciolgono mai, è stata trovata una pietra di rara bellezza, sacra alle divinità del luogo. Il Pamier appartiene a me, come tutto quello che si trova in esso, e perciò il generale Baithu ha l’ordine di chiedere al fratello Ciagatai la restituzione della reliquia. Essendo egli un cristiano e affidandogli la custodia di un oggetto sacro alla sua religione, non dovrebbe avere remore nel cedermi ciò che gli chiedo. Che cosa ne pensi?”
“Khan Ciagatai è un signore fedele al Gran Khan, non vedo motivo per cui dovrebbe negarvi alcunché, Vostra Maestà.” Cominciai io, badando a parlare con molto tatto, per non adirare il sovrano “Tuttavia, se la pietra che ricercate si trova in possesso di Ciagatai ed egli non ve l’ha ancora inviata, potrebbe esistere una fondata ragione per le sue azioni.”
L’avidità, pensai, era una fondata ragione per chiunque, e la smania di potere ancora di più. Se la reliquia era preziosa e importante come il Gran Khan lasciava intendere, infatti, chi la possedeva acquisiva indubbiamente un enorme prestigio.
Il Gran Khan sbuffò alle mie parole.
“Scoprirai le ragioni di questo rifiuto, se di rifiuto si tratta, e tornerai da me con la pietra.”
“Con la pietra, mio signore?”
“A qualunque costo.” Sentenziò il sovrano, congedandomi con un gesto della mano.

 

Il mattino seguente, il mio stato d’animo era ben diverso dall’eccitazione che mi pervadeva quando partivo per una di queste missioni e anche Baithu, che aveva molte qualità apprezzate dai Tartari, ma di certo non brillava per sensibilità e intelligenza, se ne accorse.
“Si direbbe che c’è qualcosa che ti preoccupa, fratellino.”
La concezione di famiglia dei Tartari è molto dissimile da quella dei paesi civilizzati come il nostro, un uomo o una donna possono considerarsi parte effettiva di un nucleo familiare pur non condividendo nemmeno una goccia di sangue con il capo famiglia. Funziona così anche nella famiglia del Gran Khan, in cui si contano parecchi innesti, anche non appartenenti alla razza tartara, che coprono anche cariche governative di un certo rilievo. Al mio arrivo a corte, il gran sovrano mi aveva preso in simpatia – sospetto che il mio talento nell’inventare racconti abbia giocato una grande parte in ciò -, e mi aveva dichiarato caro come un figlio, una carica, se così la possiamo definire, che non mi concedeva privilegi particolari, ma garantiva pur sempre la mia incolumità. Baithu non mi aveva mai degnato di particolare attenzione, fino a quando gli avevo prestato aiuto in uno stupido affare con alcuni mercanti cinesi, in cui stava avendo la peggio, perdendo grosse somme di denaro che tecnicamente non possedeva. Da quel momento in poi, il generale mi aveva preso sotto la sua grande ala protettiva, e mi chiamava fratellino, come avete letto per sottolineare la mia corporatura esile in confronto alla sua.
“Cosa potrebbe preoccuparmi nell’incarico che il Gran Khan mi ha affidato?” risposi io, suonando, lo ammetto, molto più teso di quanto volessi.
“Non hai di che preoccuparti, sarò io a domandare la restituzione della pietra.” Mi disse il generale, dimostrando, come già pensavo, di conoscere a fondo i piani del Gran Khan. “Il tuo compito è solo quello di allietare le orecchie di Ciagatai con qualcuna delle tue storie cristiane.”
“E di tornare con la pietra, a qualsiasi costo.” Aggiunsi io.
Il nostro gruppo di spedizione aveva da poco varcato le porte del grande palazzo del Gran Khan, con il generale in testa e io che gli cavalcavo affianco, rimanendo rispettosamente indietro di tutta la testa del suo cavallo, lungo le vie fangose della città di Ciandu.
“Ciagatai darà al Gran Khan ciò che gli chiede” tagliò corto Baithu, pieno di ottimismo “Perché non dovrebbe?”
Io avevo in mente molte ragioni per cui l’ambizioso signore di Jarcan potesse rifiutarsi di consegnare al fratello una pietra dal valore inestimabile, ma non ne pronunciai nemmeno una, mentre il mio buon destriero tartaro varcava i limiti ella città e, finalmente, l’eccitazione per la nuova avventura prendeva possesso del mio giovane spirito.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. ***


Come illustrarvi tutte le meravigliose contrade che incontrai sul mio cammino verso Samarcanda? Come rendervi l’idea dei colori, dei sapori e dei profumi di cui ogni città è pregna in quei luoghi? Ahimè, anche il più fedele racconto non sarebbe che un pallido ritratto del mio viaggio.
Il generale Baithu ci condusse verso occidente, lungo la strada che avevo oramai percorso molte volte al seguito della corte del Gran Khan quando si spostava da uno dei suoi palazzi all’altro. Toccammo Cambaluc, dove il Gran Khan risiede per i primi mesi dell’anno nel suo maestoso Palazzo dalle Dodici Porte, e poi facemmo rifornimento nell’antica capitale dell’Impero Tartaro, Karakoron, prima di addentrarci nel grande Deserto di Lop. Questa è una contrada desolata, dove non cresce neppure il più piccolo filo d’erba, continuamente spazzata dai venti. È molto pericoloso attraversarla, se non si è dotati di guide esperte e il proprio cuore non è fermo nei suoi intenti, ma la nostra spedizione non subì perdite. Lasciate le aride terre di Lop, ci rinfrancammo tra le lussureggianti pianure del Vocan e affrontammo di buon grado la salita verso le Terre Alte del Pamier, dove la pietra sacra era stata rinvenuta.
Nessuno tra i miei compagni sapeva dirmi che aspetto avesse la reliquia che costituiva lo scopo principale della nostra missione, ma mi raccontarono che in un tempo antichissimo essa era appartenuta ad un saggio uomo tra i loro monaci – di quelli che possono prendere moglie, se lo desiderano, e che sono di gran lunga i più cortesi -, che alla sua morte l’aveva lasciata al suo ordine, perché portasse pace e prosperità a tutto il territorio. E la pietra compì e compie tutt’ora il suo lavoro, perché le Terre Alte che attraversammo sono ricche di frutti e cereali e viti e armenti, e il suo popolo è allegro e ospitale.
Dopo un’ultima parte di viaggio piuttosto piacevole, giungemmo dunque alle porte della città di Samarcanda, sede del Khan Ciagatai, che evidentemente era già stato informato del nostro arrivo, perché aveva inviato ad accoglierci una trentina di soldati. I Tartari di Ciagatai sono famosi per la loro belligeranza persino tra i loro confratelli e quelli che costituivano la nostra scorta d’onore erano armati di tutto punto e cavalcavano i loro destrieri da guerra; la visuale d’insieme della piccola orda che ci veniva in contro era così efficace che anche Baithu fu tentato di sguainare la spada, invece di salutare gli inviati dello zio. Entrammo dunque in Samarcanda circondati dai guerrieri del nostro ospite e fummo condotti direttamente al suo palazzo.
Samarcanda è una delle più splendide città del mondo conosciuto, di gran lunga più bella, sono costretto a dirlo, di qualsiasi città che io abbia visto in Occidente. Abitano le sue vie e percorrono i suoi verdissimi giardini un gran numero di Saraceni, Tartari, ovviamente, e cristiani di origine armena, ma i suoi mercati attirano visitatori da tutto il mondo, dalla vicina Giorgiania fino a Babilonia e Laiazzo. Sono rari, come in tutto l’Oriente, i mercanti di stirpe latina, che spesso hanno ritrosia nel porsi sotto la protezione del Gran Khan come fanno i loro colleghi orientali, e per questo essi sono ben conosciuti e trattati con rispetto.
Il palazzo di Ciagatai sorge al centro di un giardino talmente vasto che tre intere giornate non sarebbero sufficienti per percorrerlo tutto e per ammirare i suoi fiori e i suoi innumerevoli alberi da frutto, nonché i molti animali che il Khan vi ha fatto trasportare perché allietino le sue passeggiate. Il palazzo è una costruzione massiccia come il Palazzo dalle Dodici Porte di Karakoron, ma il suo tetto non è tanto alto quanto quello di quest’ultimo, e questo inficia la graziosità dell’edificio; ciò che tuttavia imprime la sua vista in modo indelebile nella memoria del visitatore è l’estremo biancore delle sue mura esterne, di cui ci si prende estrema cura perché non diminuiscano di splendore. L’interno del palazzo è fastosamente decorato ed è opera, come tutto il resto della città, dei sovrani precedenti la dominazione Tartara.
Ciagatai ci accolse con molta cortesia, chiedendo notizie sulla salute di suo fratello e di tutti i suoi figli – il che occupò parecchio tempo dell’udienza, essendo i figli del Gran Khan di numero superiore al centinaio e conoscendoli il sovrano quasi tutti per nome – e accettando con manifesto piacere il dono che gli avevamo portato. Come molti Tartari, Khan Ciagatai non sa leggere che i caratteri della sua lingua, e quindi impiegai qualche tempo a spiegargli esattamente di quale codice si trattasse, ma a onore del vero egli mi sembrò già pienamente soddisfatto della ricchezza materiale del volume ancor prima di conoscere il suo altissimo valore spirituale.
Fummo invitati ad un banchetto per la sera stessa del nostro arrivo – altro segnale che le spie del Khan avevano compiuto con precisione il loro dovere, perché l’organizzazione di un banchetto regale come quello a cui assistemmo poteva durare giorni, se non settimane -, dove ci venne concesso il grande onore di sedere sulla stessa pedana di Khan Ciagatai, il generale Baithu alla stessa altezza dei suoi figli e io seduto un poco più sotto. Il banchetto, come dicevo, fu di eccezionale magnificenza. Erano stati uccisi pecore e montoni in gran numero, provenienti direttamente dagli armenti del Khan, e c’era ogni tipo di uccello che fosse possibile cacciare in quel territorio, il tutto cucinato magistralmente dai cuochi che il sovrano teneva al suo servizio in quantità. Fu durante il banchetto che Baithu accennò per la prima volta alla reliquia trovata nel Pamier.
“La pietra sacra del Pamier!” esclamò Ciagatai “La notizia del ritrovamento è dunque arrivata fino alle orecchie di mio fratello il Gran Khan.”
“Poche cose gli sfuggono” replicò cautamente Baithu.
Sapevamo infatti tutti a corte che i soldati di Ciagatai avevano rinvenuto la pietra durante una spedizione nel Pamier per l’acquisto di cereali sufficienti a sfamare un esercito che si stava ammassando ai confini settentrionali di Samarcanda, apparentemente per sedare dei disordini ai confini del regno del Khan, e che i soldati l’avevano subito portata alla presenza del loro sovrano.
“Immagino che il mio Khan sarà curioso di apprendere qualcosa di più su questa pietra.” Continuò Ciagatai, ostentando un atteggiamento cordiale di cui forse non era pienamente pervaso “Ebbene, non lascerò che mio fratello rimanga nella curiosità: domani vi mostrerò la reliquia.”

La notte che seguì non mi lasciò molto tempo per riposare nelle sontuose stanze che il sovrano di Samarcanda mi aveva messo a disposizione, perché tenni per molte ore consiglio con il generale Baithu, per decidere il comportamento da adottare di fronte all’apparente rifiuto di Ciagatai di consegnarci la pietra. Baithu, che, come si è detto, non è certo un diplomatico, fremeva dal desiderio di ordinare al Khan della provincia di restituire tramite noi la pietra al suo legittimo proprietario, il Gran Khan, ma io ero di diverso avviso. Non credevo, infatti, che Ciagatai – un uomo da sempre ambizioso e desideroso di sedere sul trono dell’Impero Tartaro – si sarebbe piegato a un ordine diretto e che, anzi, avrebbe colto l’occasione della scortesia dei suoi emissari per muovere guerra contro il Gran Khan. Meglio sarebbe stato indagare sui veri motivi di un reale rifiuto e tentare di risolvere il problema utilizzando l’astuzia.
Fu per questo motivo che l’indomani mattina, quando il Khan Ciagatai in persona ci condusse nel luogo dove era custodita la pietra, fui io a prendere la parola.
“Il ritrovamento di questa pietra miracolosa non ha scosso la fede dei cristiani di Samarcanda?” mi informai innocentemente, mentre seguivo il Khan attraverso uno dei sentieri del giardino interno del palazzo.
Ciagatai, di alcuni anni più giovane del Gran Khan e di diverse libbre più leggero, amava ostentare la sua sicurezza e girava raramente accompagnato da guardie del corpo. Alcuni soldati erano presenti nel giardino, è vero, ma sostavano tutti a una considerevole distanza dal loro sovrano e comandante e, se il generale Baithu avesse voluto, non gli sarebbe stato difficile aggredirlo, soprattutto considerato che non gli era stato chiesto di consegnare le sue armi.
“Se bastasse il ritrovamento di un’antica pietra per scuotere la loro fede, “ mi rispose graziosamente il sovrano “come potrebbero definirsi veri credenti?”
“Ma, senza dubbio, i più maliziosi potrebbero dubitare dell’attaccamento del Khan alla fede cristiana, visto il suo desiderio di tenere la reliquia all’interno del suo palazzo. Una reliquia pagana.” Obiettai “Confesso di ignorare l’importanza che questa pietra riveste per Vostra Altezza.”
Ciagatai rise. Era, e penso sia ancora, un bell’uomo, con una treccia di folti capelli ancora neri come l’ala di un corvo, il volto dai tratti decisi e una figura slanciata da guerriero, perciò vederlo di umore allegro faceva uno strano effetto.
“Importanza?” ripeté il sovrano, fermandosi davanti a una piccola pagoda in legno laccato. Ce la indicò con un gesto della mano “Accomodatevi, miei graditi ospiti, e traete le vostre conclusioni sull’importanza della pietra.”
Su questo invito, io salii lentamente i due bassi gradini che permettevano l’accesso alla pagoda e vi entrai, seguito dal generale Baithu. L’ambiente era completamente vuoto e rischiarato dalle numerose finestre che si aprivano in alto sulle pareti, da ogni parte; i raggi di luce di quel sole d’estate confluivano tutti nel centro esatto della pagoda, dove, su un massiccio piedistallo, era posata la pietra sacra per la quale mi trovavo a Samarcanda. Si trattava di un oggetto straordinario, una grande sfera liscia e lucida, perfetta, verde scuro e incastonata in una complicata struttura in pietra grigia che la sorreggeva e ne esaltava le qualità. La pietra grigia, a cui non so dare un nome nemmeno adesso, era essa stessa una bellezza mai vista; rifletteva i raggi del sole in modo chiaro e preciso direttamente sulla pietra sacra, che così pareva risplendere di luce propria nei punti in cui toccava il suo sostegno, ed era stata magistralmente intagliata per rassomigliare a una fiamma guizzante. L’effetto di insieme era talmente straordinario da ispirare veramente al divino, e io e il mio compagno rimanemmo a lungo senza parole e a bocca aperta davanti a quel tesoro che – lo appresi in seguito – gli abitanti della città avevano preso a chiamare la Perla di Samarcanda.
Ad un tratto, sentii la risata di Ciagatai, dietro di noi. 
“Non è per la sua importanza spirituale che tengo questa pietra, ma per la sua unica bellezza.”
“È indubbiamente un gioiello degno di un sovrano.” balbettai io, registrando mentalmente che il sovrano non aveva accennato all’importanza spirituale che potesse avere il luogo in cui veniva custodita la Perla di Samarcanda.
“Sono d’accordo.” Approvò il Khan, girando attorno al piedistallo per porsi davanti a me “E quale posto migliore di questo si potrebbe aspirare per custodirlo?” mi domandò, ritrovando di colpo la sua serietà.
Mi stava sfidando, lo capivo, a dichiarare che il Gran Khan avrebbe dovuto avere la pietra per sé e io pregai silenziosamente perché Baithu non mettesse a rischio le nostre vite e la nostra missione perdendo il controllo e discostandosi dal piano che avevamo ideato.
“E compie davvero miracoli?” domandai in tono noncurante, badando bene che Ciagatai notasse il mio desiderio di cambiare discorso il più in fretta possibile “Ho sentito dire dalle nostre guide che la pietra ha poteri magici.”
“Al momento, non ne ha dimostrato nessuno.” Mi venne risposto
“In Pamier si racconta che la pietra andò persa perché, offesa dalla negligenza del monaco che avrebbe dovuto occuparsi di essa, svanì come il fumo.”
“Così vuole la leggenda” confermò il generale Baithu, annuendo alle mie parole
“Si tratta dunque di una pietra capace di sentimenti,” Osservai io “con un’anima tale da sapere come essa stessa deve essere adorata e protetta?”
“Anche in questo risiede la sua magia, suppongo.” Mi rispose il Khan
“E non potrebbe, diciamo, adirarsi anche con Vostra Altezza perché non viene onorata nei modi in cui si converrebbe onorare un dono del cielo?” domandai ancora.
Il Khan sorrise di nuovo
“Naturalmente. Ecco perché ci assicureremo che venga accudita a dovere.”
“Il modo migliore per onorare questo ritrovamento sarebbe donarlo a colui che più di tutti merita di possederlo, il più grande sovrano del mondo.” Dichiarò Baithu, senza giri di parole “Il Gran Khan ti chiede di donargli la pietra, così come egli ti ha donato le sacre scritture della tua religione.”
“Attento, nipote.” Lo interruppe Ciagatai con la voce simile ad un sibilo “Non ti ho concesso ospitalità nel mio palazzo perché tu potessi agire di prepotenza nei miei confronti.”
“È prepotenza portarti il desiderio del tuo Khan?” domandò ancora Baithu socchiudendo gli occhi.
“È prepotenza pretendere che io ceda un tesoro che i miei uomini hanno trovato e che hanno portato innanzi al loro legittimo sovrano.”
“I tuoi uomini l’hanno trovato in una terra che non ti appartiene.” Rincarò Baithu, alzando la voce “Non era tuo diritto appropriartene.”
A questo punto, mi intromisi.
Non è mai stata mia abitudine irrompere in una conversazione tra parenti, ma si è già detto che i Tartari hanno un concetto di famiglia molto lontano dal nostro e che io potevo fregiarmi di appartenere in qualche modo dalla famiglia del Gran Khan. Inoltre, temevo sinceramente che Khan Ciagatai potesse avventarsi sul generale Baithu, così parlai.
“D’altronde, dobbiamo considerare che oramai la gemma si trova in questa città da mesi, senza che nessuna l’abbia rivendicata prima di noi.” Dissi, rivolgendomi direttamente al sovrano e, avvicinandomi di qualche passo, “Il generale Baithu possiede l’ardore dei migliori guerrieri, e il suo primo pensiero è difendere i desideri del suo signore. Non intendeva offendervi.”
“Non nutro rancore nei confronti di mio nipote per aver detto quello che nutre in cuore.” Rispose Ciagatai, degnandomi solo di uno sguardo. I suoi occhi rimasero fissi sul mio compagno di viaggio, che aveva la mano posata sull’elsa della sua spada. “Tuttavia, non intendo rinunciare alla Perla di Samarcanda, come desidero che venga chiamata d’ora in poi.”
Io mi inchinai umilmente.
“E noi non abbiamo il potere né l’abilità per convincere Vostra Altezza a cedercela.” Affermai, notando che il volto del sovrano si rilassava “Ci accontenteremo di riferire al Gran Khan che vi abbiamo trovato bene e in salute, e che la città continua a prosperare.”
Ciagatai annuì “Portate anche i miei omaggi a mio fratello, insieme ad alcuni doni che da tempo avevo preparato per lui.”
“Sarà fatto come da vostro desiderio, mio Khan.”

Partimmo il mattino seguente, riforniti di provviste per il lungo viaggio e con al nostro seguito diversi muli da carico in più, per trasportare i ricchi doni che Ciagatai inviava al fratello e che noi sapevamo il Gran Khan non avrebbe apprezzato. Eppure, da bravi pazzi, ci dirigevamo sereni alla volta di Karakoron, dove contavamo di trovare il nostro sovrano una volta concluso il nostro viaggio, e dove saremmo anche presumibilmente stati puniti per non avere portato a termine il compito che ci era stato assegnato.
Ora, voglio raccontare un evento straordinario accaduto a Samarcanda meno di un mese dopo la partenza dell’ambasceria del Gran Khan, e che destò grande scalpore in tutta la provincia.
Durante una serena notte di luna piena, una delle ultime della buona stagione, la Perla di Samarcanda svanì. Al suo posto, la mattina seguente i servi che aprirono la pagoda trovarono un unico bastoncino di incenso, già consumato per metà, il cui fumo saliva in dolci volute fino alle grandi finestre da cui entrava la luce dell’alba.
Khan Ciagatai divenne furioso nell’apprendere il prodigio e sguinzagliò i suoi uomini per tutto il regno, sospettando che qualche ladro fosse penetrato nel suo palazzo, ma non trovò né la pietra né testimoni del furto, anche se fece torturare, mi è stato riferito, un numero imprecisato di servi per scoprire il responsabile della scomparsa del suo tesoro. Cominciarono a girare voci secondo le quali il Khan di Jarcan aveva peccato d’orgoglio nel rifiutare di consegnare la Perla di Samarcanda al suo fratello e Khan e che per questo la Perla stessa lo aveva punito, ed esse fecero infuriare Ciagatai ancora di più. 
Nessuno seppe più nulla della Perla di Samarcanda, che presto tornò nel mondo fatato di cui sono fatte le leggende in ogni luogo della terra. Quanto al generale Baithu e a me, fummo risparmiati dal Gran Khan, che si dimostrò soddisfatto di noi come se avessimo portato a compimento la nostra missione. Immagino che il fatto che il gran sovrano non avesse avuto la soddisfazione di ricevere dalle nostre mani la Perla di Samarcanda passasse in secondo piano rispetto al fatto che, ora, nessuno avrebbe potuto possedere quella gemma. Sospetto anche che il Gran Khan fosse segretamente compiaciuto che, a causa della misteriosa sparizione della reliquia, suo fratello Ciagatai fosse deriso in tutto l’Impero Tartaro.
Nei mesi seguenti al nostro ritorno venne fatta costruire una nuova stanza nel palazzo, annessa alle camere del Gran Khan, il cui accesso era riservato solo ai suoi sudditi più fedeli. Nello stesso periodo, io venni cortesemente omaggiato con alcune barre d’oro, che mi tornarono molto utili, avendo io contratto un debito con certi uomini ombra delle montagne solitarie… Ma questa è un’altra storia.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3196929