Le origini della rinascita

di Poesie_en_rouge
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Quel giorno d'ottobre. ***
Capitolo 3: *** Our finest hour ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Ci fu un tempo in cui l’aria che respirava era diversa, la terra sulla quale camminava era diversa, lei stessa era diversa. Quel tempo era finito da così tanto che a volte le sembrava essere stato solo un sogno, o un incubo, ad occhi aperti, come se fosse stata la vita di qualcun altro e non la sua.  Tutto ebbe inizio quel giorno d’Ottobre. Mentre le foglie gialle e arancioni cadevano silenziose sulla strada, un rombo risuonò nell’aria e il cielo si oscurò.
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La ragazza guardò il cielo accigliata cercando di individuare la fonte del rumore. Eppure, pensava, non le sembrava di aver visto alcun lampo. Scrollò le spalle decidendo che la cosa non la interessava più di tanto: aveva sempre il suo ombrello nella borsa. Ottobre era il mese delle piogge, dopotutto. Uscì dal vicoletto oscurato dagli alberi per imboccare una delle strade principali.  Si respirava una strana atmosfera. Quella città era piena di vita, allora perché non c’era nessuno per strada? La pioggia non poteva bloccare un’intera metropoli prima ancora di iniziare. Nuovamente scrollò le spalle: aveva una missione da compiere, non poteva fermarsi su questi dettagli insignificanti, il tempo era essenziale nel suo lavoro.
Da quando aveva lasciato l’orfanotrofio in cui era cresciuta, aveva intrapreso come missione personale quella di diventare una sorta di Robin Hood moderno. Vivere in un orfanotrofio l’aveva resa conscia fin troppo presto delle condizioni misere in cui si poteva vivere pur di sopravvivere un altro giorno.
Era il 2050 eppure le condizioni di quei posti non erano che peggiorate. Il divario tra ricchi e poveri si era fatto sempre più grande sino ad eliminare completamente l’esistenza di una classe media spaccando il mondo a metà. Gli stati dell’Unione Nord-Atlantica non stanziavano certo soldi per infrastrutture come gli orfanotrofi: vista la sovrappopolazione, qualche bocca in meno da sfamare faceva sempre comodo.
La ragazza non sapeva come era riuscita a sopravvivere in quelle condizioni fino ai suoi 20 anni, età in cui, considerata maggiorenne, aveva dovuto fare i conti con il vero mondo fuori dalle mura sporche e scrostate della sua stanza che, ad ogni modo, erano state il suo unico rifugio per tutta la sua vita. Aveva trovato un lavoretto in un campo d’addestramento militare. Si occupava degli archivi, anche se, di tanto in tanto, utilizzava le attrezzature cercando di allenarsi imitando le mosse, osservate di nascosto, fatte dai soldati. Aveva bisogno di tenersi allerta per quello che faceva poi di notte… Pur lavorando, si era resa conto che i suoi soldi non bastavano per aiutare i bambini che aveva lasciato all’orfanotrofio: ne morivano sempre di più, specie in inverno a causa del freddo e lei si era sentita in dovere di fare qualcosa per loro. Nonostante la polizia dell’Unione avesse stabilito un coprifuoco molto rigido, lei doveva rischiare. Il coprifuoco iniziava a mezzanotte e chiunque, ricco o povero che fosse, se trovato per strada dopo quell’ora, veniva sparato a vista. D'altra parte lei finiva di lavorare alle ventitré e trenta e aveva solo mezz’ora per correre a casa ed evitare di essere sparata. La sua missione era semplice: recuperare materiale di prima necessità per i bambini; medicine, cibo, vestiti, anche coperte, se riusciva. Per fare questo prendeva di mira negozi e piccole farmacie. Peccato che queste ultime godessero di numerosi sistemi di allarme collegati direttamente con le centrali locali della polizia: le medicine erano diventate un bene prezioso che non era concesso a tutti, i costi di produzione erano elevati e altrettanto elevato era il costo alla vendita. Molte delle malattie ritenute mortali un cinquantennio prima, erano ormai semplici da trattare: il progresso era stato evidente, ma era giusto che solo pochi avessero accesso alle cure e di conseguenza alla vita? Era ancora nelle sue orecchie il suono delle grida di dolore dei suoi compagni di stanza durante le grandi epidemie, lei stessa non sapeva come aveva fatto a sopravvivere così a lungo.
In ogni caso, si disse, pioggia o meno, il suo addestramento era risultato efficace: la sera prima era riuscita a procurarsi del pane e della frutta da portare ai bambini quella sera. Si strinse nella giacca aumentando il passo per raggiungere il suo ufficio lasciandosi alle spalle la via principale ancora stranamente vuota.
Alzò lo sguardo al cielo sempre più cupo e decise di prendere una delle sue mille scorciatoie. Imboccò stradine laterali e dopo dieci minuti giunse all’archivio militare collegato all’accademia. Inarcò un sopracciglio vedendo un certo fermento. Spinse la porta con la maniglia dorata ed entrò. 







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Ciao a tutti!
Grazie per aver letto sin qui. Questo è il mio primo esperimento con un racconto: una sfida per me stessa. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate di quest'introduzione. :) Gli aggiornamenti saranno regolari (almeno questa è la mia intenzione) e saranno di lunedì. Avrà sicuramente più di dieci capitoli di cui i primi 7 sono già scritti.
Al momento il rating è Arancione, ma potrebbe diventare Rosso in seguito. :)
Vi saluto e spero di vedervi la prossima settimana con il primo capitolo della storia: Quel giorno d'Ottobre
 

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Capitolo 2
*** Quel giorno d'ottobre. ***


Capitolo 1. Quel giorno d’ottobre.

La ragazza si bloccò all’entrata vedendo tutto quel trambusto intorno a lei. Tutti si muovevano: chi andava a destra, chi a sinistra, nessuno che stava fermo… tranne lei. Si guardò intorno confusa finché non sentì una voce chiamarla.
-Charlie! –
Si voltò e vide una donna alta, in divisa, venirle incontro quasi correndo. La ragazza le lanciò uno sguardo curioso mentre le andava incontro. La donna l’abbracciò quando la raggiunse e lei s’irrigidì, non aspettandosi una reazione simile.
- Che cosa è successo, Lucille? -  domandò visto che l’altra non sembrava aver intenzione di lasciarla né di dire alcunché.
- Oh, Charlie, sono così felice che tu stia bene! - le disse per tutta risposta la donna per poi rialzarsi. I loro sguardi si incrociarono e Lucille vide lo sguardo sconcertato della ragazza. Sgranò gli occhi appoggiando le mani sulle sue spalle.
- Ma ... Tu non sai nulla...-  Dal tono non sembrava una domanda, più una constatazione.
- Che cosa dovrei sapere? - chiese con un sorriso incerto.L’altra respirò pesantemente e le prese le mani guardandola intensamente con una faccia serissima. Si morse le labbra prima da parlare.
-Charlie, siamo stati attaccati. -
La ragazza alzò un sopracciglio mentre il suo sorriso svanì lasciando posto ad un’espressione seria e irata. – Sono stati quelli dell’Unione Siberiana? Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Quando…- Si interruppe vedendo Lucille scuotere la testa lentamente.
- No, Charlie... Sono stati…. Sono stati gli alieni. - La ragazza spalancò gli occhi e sbatté le ciglia cercando di metabolizzare quelle parole. Guardò in faccia l’altra per poi scoppiare a ridere di gusto tenendosi la pancia.
- Lucille, sei stata brava! Ci stavo quasi per cascare dalla faccia che hai fatto! – Uno schiaffo sulla nuca la fece tornare leggermente in sé mentre il sorriso continuava a persistere sul suo volto. Lucille sbatté un piede a terra frustrata.
- Ma io sono seria! Guardati intorno! Credi davvero che potrei scherzare in una situazione simile?!-La ragazza deglutì e fece come le era stato detto. Loro due erano le uniche persone immobili, gli altri correvano, parlavano con le centrali, sembravano tutti impazziti. Ma non ci poteva credere! Gli alieni? Gli alieni nell’ Unione Nord Atlantica? Era impossibile! Certo, da un punto di vista logico una loro possibile esistenza era plausibile, ma…. Sul serio degli alieni li stavano attaccando? Charlie si voltò verso la donna che la guardava ancora pallida e seria.
- Ok, Lucille…. Ma…. Cosa…come...? -  Ancora non sapeva se credere a tutto quello che la donna le aveva detto, le sembrava tutto uno scherzo di pessimo gusto… ma ora che ci pensava… le strade vuote… Ma no, se ci fosse stato un attacco alieno come avrebbe fatto a non notare nulla? Insomma ci sarebbe stato panico, gente che correva ovunque, tutte quelle cose che scrivevano nei libri. Non potevano esserci gli alieni, era tutto così assurdo.
- Tu non hai sentito i messaggi dell’Unione, vero? Dov’eri ieri notte? - Lucille osservando lo sguardo perso della ragazza non si era trattenuta dal fare quelle domande. Charlie le lanciò un’occhiata colpevole: le aveva promesso che avrebbe smesso di rubacchiare qua e là. La donna capì anche senza che l’altra rispondesse e strinse le labbra mostrando disappunto. Poi sospirò ferita.
- Ormai non importa più, Charlotte…- scosse la testa e le lasciò le mani per poi darle le spalle ed allontanarsi. Charlie la guardò colpevole torcendosi le mani: Lucille era stata la prima a porgerle la mano quando era stata ammessa nell’archivio, la prima a preoccuparsi per lei quando tornava a lavoro con lividi e graffi. Deluderla era sempre qualcosa che le faceva male. Si morse le labbra e si guardò intorno. Era meglio mettersi la divisa ed iniziare a fare qualcosa.  Alieni…. Ma per favore! Scosse la testa incredula quando una mano si appoggiò sulla sua spalla facendola sobbalzare.
- Archivista Ellis, come mai si è presentata oggi? Era stato dato un comando a tutta la popolazione. - la voce profonda del comandante Hirshfeld interruppe i suoi pensieri. Si voltò verso l’uomo e lo salutò con il saluto militare.
- Comandante Hirshfeld. - deglutì – Sono venuta ugualmente perché mi sento in dovere di dare una mano in questa situazione difficile. - le parole vennero fuori prima che riuscisse anche solo a riflettere su come affrontare la situazione al meglio.Il comandante, dopo una lunga occhiata severa, le sorrise. – La sua devozione è encomiabile, Ellis. Anche se ha violato un ordine…- le lanciò uno sguardo divertito per poi indicarle la stanza dei radar – Vada ad aiutarli… Lei sa dove sono archiviate tutte le possibili informazioni su casi di avvistamenti... non ordinari. -
L’uomo schioccò le labbra per poi lasciarla andare e dedicarsi ai soldati dell’accademia già armati dalla testa ai piedi.
Charlie respirò pesantemente sempre guardandosi intorno confusa. Lentamente iniziò ad andare verso la sala radar per sapere cosa cercare. Gli archivi erano il suo lavoro: se doveva fare delle ricerche, se la sarebbe potuta cavare. Mentre camminava acquistava sicurezza e una postura degna di chi lavorava con l’Esercito dell’Unione, anche se la sua testa era tutt’altro che sicura di quello che stava avvenendo.
Spinse la porta a vetri della sala radar ed entrò. C’erano molte più persone di quante la stanza potesse ospitarne. La sala radar era una semplice stanza con una parete in vetro che dava sugli uffici, mentre le altre tre pareti erano occupate da radar di tutti i tipi. Prese un bel respiro ed iniziò a sgusciare tra i soldati fino a trovarsi davanti agli schermi. Li guardò e i suoi occhi si spalancarono.
- Fa paura, vero? - Charlie si voltò guardando il sergente Collins, la moglie del soldato Lucille. Lentamente annuì per poi chiedere – Ma che cos’è? -
- E’ la nave spaziale…. Non crediamo sia quella ammiraglia, ma solo una sentinella. Sino ad ora non hanno fatto né vittime né prigionieri… almeno a quanto ci risulta. Stanno lì, a guardarci. -
Lo sguardo della venticinquenne si diresse ancora agli schermi mentre un brivido la percosse. Ma quindi Lucille non l’aveva presa in giro... Ieri notte…Ieri notte era in un negozio di alimentari in gestione all’Unione, era piccolo e si trovava in un angolo ben nascosto della città. Lì aveva preso il pane e la frutta da portare ai bambini. Ecco perché non era a casa, ecco perché non aveva saputo nulla: aveva speso la notte a nascondersi dalla polizia con la sua refurtiva.  Si morse le labbra. Si voltò verso la donna. – Cosa posso fare, sergente? - Questa sorrise e le ripeté le stesse parole del comandante. Lei annuì e si diresse verso gli archivi stringendosi le spalle. Come avrebbero fatto ad uscire da questa situazione? Che intenzioni avevano quegli… quegli esseri?
Sentiva l’ansia crescerle nel petto, ma quella situazione era assurda, non aveva nulla di normale! Era impossibile! Le stava per venire un attacco di panico. Affrettò il passo, ma prima di raggiungere l’archivio si sedette su una sedia vuota lì vicino. Aveva bisogno di riflettere, di metabolizzare tutta quella situazione. Si mise con la testa tra le mani. Cercava di regolarizzare il suo respiro e di ignorare tutte le persone in movimento attorno a lei quando si sentì l’inno dell’Unione risuonare dagli altoparlanti.
- Popolazione dell’Unione Nord Atlantica, è la presidentessa Skye More che vi parla. Siamo giunti in comunicazione con la nave ammiraglia dei nostri…ospiti. I nostri specialisti stanno tentando di analizzare il loro messaggio, ma sino ad ora, nulla lascia presagire intenti non pacifici. Consigliamo comunque calma e di restare in casa sino al prossimo messaggio. – La comunicazione si chiuse.Charlie si guardò intorno e vide che tutti si erano fermati come in attesa. Deglutì ed abbasso le mani lentamente guardando una delle casse che ora non emetteva alcun suono. E ora?
 
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Era passata un’intera giornata da quell’ultimo messaggio del presidente e le cose non erano cambiate affatto dal giorno prima. L’unica differenza erano i rumori nel cielo che si facevano sentire sempre più spesso. Nell’accademia e negli uffici tutti lavoravano a più non posso su… beh, nulla: non avevano dati a sufficienza. Almeno i comandanti avevano organizzato allenamenti di gruppo ed eventuali schieramenti da utilizzare anche se, senza conoscere nulla dell’avversario, era tutto un enorme salto nel vuoto.
Charlie aveva fatto ricerche su ricerche, ma era stato tutto vano perché nessuno degli avvistamenti “non ordinari” si poteva ricondurre ad abitanti di altri pianeti. La ragazza sbuffò chiudendo l’ennesimo fascicolo. Quella ricerca si stava rivelando frustrante. Se fosse stata un soldato, almeno, sarebbe potuta essere di una qualche utilità, invece non aveva mai superato gli esami fisici: troppo magra a causa di anni ed anni di mal nutrizione. Grazie a quel lavoro, però, era riuscita a rimettersi in forma ed acquistare salute: era rinata.
Si sistemò una ciocca di capelli dietro all’orecchio ed osservò le persone intorno a lei. Sospirò. Erano tutti in attesa. Posò il fascicolo e ne prese uno nuovo iniziando a leggerlo. Prese a sfogliarlo lentamente, quando il suono dell’inno la fece sobbalzare. Questa volta la musica proveniva dagli schermi. Un bellissimo ragazzo stava al centro della schermata. Aveva capelli neri corti, una pelle rosea e le labbra erano piegate in un cipiglio serio. Aveva un’aria importante. L’unica cosa che le faceva storcere il naso erano i suoi occhi: viola acceso. O quel ragazzo aveva il pessimo gusto di indossare lenti a contatto colorate in un momento come quello o…
- Buonasera, popolo della Terra. – partì una sorta di doppiaggio, ma il ragazzo sembrava muovere le labbra senza emettere alcun suono. - Io sono il Principe Ahrry’ del pianeta Zaythea. Il nostro pianeta ha studiato la Terra per numerosi anni prima di ottenere le tecnologie per raggiungerla. Osservando il vostro pianeta abbiamo notato come questo sia vicino alla distruzione e siamo giunti per aiutarvi. Sta a voi accettare o rifiutare il nostro aiuto. – finito il discorso guardò in modo minaccioso la telecamera e la comunicazione si interruppe lasciando lo schermo inesorabilmente nero.Charlie non poteva credere a ciò che aveva appena sentito dire, tutto le sembrava ancora un enorme scherzo, ma provava solo angoscia. Cosa voleva dire quello sguardo dopo quella frase “sta a voi accettare o rifiutare”? Era una velata minaccia? La ragazza si guardò intorno notando di non essere la sola a star cercando di metabolizzare il tutto.  Come avrebbe risposto il presidente? Come avrebbero fatto a decidere? Che la Terra stesse facendo di tutto per liberarsi degli umani, poi… che diavolo diceva quel tizio dalle lenti colorate? Voleva gettare la gente nel panico, questo era sicuro.  Inoltre tutto il discorso che aveva fatto era ridicolo: da qualsiasi punto lo si guardasse sembrava pensato da un ragazzino. Scosse la testa disgustata da tutta quella faccenda.
Alzò lo sguardo verso l’orologio appeso alla parete. La stanza era piena di militari, ma sin dal giorno prima stava pensando ad una qualche strategia per poter uscire ed andare all’orfanotrofio. Si era informata in maniera, sperava, per nulla sospetta se la polizia facesse ancora ronde notturne. La risposta era stata unanime: no, anche loro seguivano l’ordine dell’Unione di stare rinchiusi. Bene, per una volta quella situazione le veniva in aiuto: almeno per una volta non avrebbe rischiato la vita per portare cibo ai bambini. Aveva ancora la frutta e il pane nella borsa, doveva concludere la sua missione.
Si mosse dalla sua postazione. Il suo piano iniziava: erano le 23:25. Recuperò la sua giacca e la sua borsa. Iniziò a camminare rasente ai muri facendo attenzione a non farsi vedere. Il suo obiettivo? I bagni. Aprire la porta principale avrebbe dato nell’occhio e allertato tutti, doveva fare il tutto il più silenziosamente possibile. Raggiunse i bagni più vicini lentamente, ma ostentando un passo sicuro come se non stesse facendo nulla di male. In effetti stava solo andando in bagno, nulla di più.
Una mano le afferrò un braccio. Lei si voltò esibendo una sicurezza che non aveva, ma doveva stare calma. Non aveva dubbi su chi fosse la persona che la stava fermando.
- Lucille, dimmi. – sorrise fintamente.
- Charlie…. So cosa vuoi fare… Non è sicuro, non puoi uscire. Siamo ancora sotto attacco, checché ne dica occhi viola. – Lucille aveva uno sguardo triste.La ragazza sospirò. – Lucille, sto solo andando in bagno. Non ti devi preoccupare. – La faceva soffrire mentirle. Sapeva che la donna voleva evitare che lei si facesse male, ma i bambini contavano su di lei, si rifiutava di lasciarli a loro stessi proprio in questo momento.
Lucille sospirò. – Va bene, ho capito. Addio, Charlotte. Ti voglio bene. -  Scosse la testa e se andò raggiungendo sua moglie. Charlie la guardò per un po’ mentre la tristezza le velava gli occhi, poi decise di muoversi: erano le 23: 28, aveva due minuti per uscire di lì. Raggiunse i bagni e chiuse la porta diedro di sé piegando della carta e infilandola sotto la porta: quel sistema non avrebbe retto ad una poderosa spinta, ma avrebbe impedito di aprire subito con facilità. Si avvicinò alla finestra a ghigliottina e l’aprì bloccandola poi con uno scopino per la toilette. Gli archivi si aprivano al piano terra per poi distendersi nei piani sotterranei. Guardò la strada fuori dalla finestra: deserta. Gli unici rumori erano i rombi che ormai aveva imparato essere associati alle astronavi. Prese un bel respiro e scavalcò la finestra. Si trovò subito fuori. Prese lo scopino da fuori facendo richiudere la finestra dietro di sé.  Gettò lo scopino nel primo cassonetto a disposizione e si allontanò in fretta.
Con la complicità della notte e della conoscenza delle sue scorciatoie, riuscì ad evitare di camminare nelle strade principali e di fare brutti incontri. Si strinse la giacca sulla gola: c’era umidità nell’aria, la pioggia era vicina. In lontananza vide un lampo e poi sentì il rumore del tuono. Si strinse nelle spalle ed iniziò a camminare più velocemente. Svoltò l’angolo e vide dall’altra parte della strada un gruppo di persone. Non riusciva a distinguerle bene, ma non avevano la divisa della polizia. Una goccia di pioggia le sfiorò il volto. Alzò lo sguardo al cielo vedendolo carico di acqua: sarebbe scoppiato un bel temporale. Doveva sbrigarsi, ma come avrebbe fatto con quelle persone? Ad occhio e croce ne contava 4, ma potevano essercene altre nascoste alla sua vista. Dall’apparenza sembravano uomini.
Deglutì sentendosi il cuore in gola. Si mosse nel vicolo senza fare rumore, aprì la sua borsa e prese due moschettoni da arrampicata: erano grandi abbastanza da essere usati come tirapugni, avrebbe potuto usare le chiavi, ma facevano rumore e avrebbero allertato quei quattro uomini. Si alzò il cappuccio della giacca, si sistemò la borsa e si avviò lungo il vicolo. Purtroppo l’orfanotrofio si trovava dall’altra parte e quella era la strada più nascosta per raggiungerlo: doveva superare quelle persone, non aveva altra scelta.
Prese un bel respiro e a passi felpati si avvicinò sempre più alla fine del vicolo. Sentì le voci degli uomini giungerle alle orecchie: non aveva mai sentito quella lingua, doveva essere un qualcosa di asiatico. Assottigliò gli occhi cercando di capire chi fossero: dal portamento sembravano soldati. Soldati asiatici nell’Unione Nord Atlantica? Non era possibile…. Poi di notte e con l’ordine del presidente? Quella cosa puzzava. Mise un piede fuori dal vicolo mentre un tuono rimbombava nelle vicinanze: doveva essere veloce. Gli uomini erano di spalle e camminavano. Ce la poteva fare, doveva solo correre. Dopotutto lo aveva fatto altre volte per evitare la polizia. Trattenne il respiro e si gettò nella corsa senza guardarsi indietro: doveva attraversare la strada, imboccare un altro vicoletto, girare a sinistra e sarebbe arrivata.
“Forza Charlie, forza!” Sentì la pioggia infrangersi sul cappuccio. Strinse i moschettoni con forza e corse come se non ci fosse un domani. Ce l’aveva quasi fatta quando un lampo si infranse sull’albero a destra della via che doveva prendere facendola sobbalzare. Penso che sarebbe caduta dallo spavento: per l’ansia le sue gambe non reggevano benissimo, invece qualcuno l’aveva afferrata per le braccia prima che cadesse. Il respiro le si mozzò in gola e si voltò pronta a colpire la persona che l’aveva afferrata. Preparò il pugno, fece perno sul tacco degli stivali e si voltò. I suoi occhi si sgranarono spaventati, mentre il suo corpo sembrava improvvisamente incapace di reagire: davanti a lei stava un ragazzo bellissimo dagli occhi del verde più innaturale che avesse mai visto ed era circondato da altri tre ragazzi tutti di bell’aspetto e dotati di occhi altrettanto innaturali. Uno di questi lo aveva già visto: Occhi viola. Era terrorizzata, ma loro stavano fermi a fissarla. Bene. Li squadrò malissimo, si voltò e riprese a correre più veloce di prima. Raggiunse la fine della stradina e si voltò indietro: non l’avevano seguita. Con il cuore che riprendeva a battere normalmente corse fino alla porta dell’orfanotrofio. Un sorriso si aprì sulle sue labbra: casa. 


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Ciao a tutti! 
Grazie per aver letto questo primo capitolo :) eeee vi ringrazio in anticipo se avrete la voglia di lasciarmi una recensione. 
A lunedì prossimo con il secondo capitolo: Our finest hour.

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Capitolo 3
*** Our finest hour ***


Capitolo 3. Our finest hour

Nei giorni successivi l’Unione aveva trasmesso messaggi rassicuranti, ma sempre con la stessa raccomandazione di restare calmi e non uscire di casa scatenando, così, più panico che cautela. I poliziotti imperversavano nella città e, oltre a riportare calma, si occupavano di portare cibo ed altri beni di prima necessità alle case più abbienti della città. Charlie, dal canto suo, cercava di trarre il meglio da quella situazione: non essendoci alcuna famiglia benestante nelle vicinanze, la polizia non si avvicinava al loro quartiere e questo le consentiva di uscire a recuperare scorte per sé ed i bambini nei mercati vicini ormai completamente abbandonati a sè stessi.

I piccoli avevano tratto serenità dalla sua presenza. Per fortuna nessuno di loro si era ancora ammalato e le coperte che aveva portato un paio di anni prima facevano ancora il loro lavoro tenendo l’umidità fuori dai loro lettini.

Al momento si trovavano solo sette bambini nella struttura: prima dell’estate erano in quindici, ma l’ennesima epidemia aveva fatto la sua strage. Purtroppo i piccoli prima del suo arrivo erano stati lasciati a loro stessi, i loro responsabili, infatti, erano tutti barricati nelle loro case non perché non ci tenessero ai bambini, ma preferivano seguire gli ordini, soprattutto se da quegli ordini dipendeva l'essere sparati a vista.

Quel pomeriggio tutti gli abitanti dell’orfanotrofio si trovavano seduti nell’ampio salone con l’intonaco che cadeva a pezzi e la carta da parati macchiata di umidità, si erano raggruppati sedendosi intorno ad una vecchia radio degli anni novanta con cui ascoltavano i messaggi dell’Unione. Charlie sospirò mentre accarezzava i capelli biondi della piccola Crystal seduta davanti a sé.
- Challi, mi fai una teccia? – aveva chiesto la bambina con i suoi grandi occhioni scuri. La ragazza aveva annuito ed aveva iniziato a pettinarla. Fare quei gesti la tranquillizzava, ma la sua testa non aveva smesso di pensare a quell’incontro con gli alieni, alla sua amica Lucille e a tutto quel caos che si stava scatenando. I rombi delle astronavi non si sentivano dal giorno prima, forse se ne stavano andando? Charlie scosse la testa sovrappensiero: dopo tutti gli anni luce che avevano fatto per raggiungerli, avrebbero accettato un no come risposta?
- Ecco fatto, Crystal. – diede un buffetto alla bambina per poi andare alla finestra del soggiorno. Gli infissi cadevano a pezzi, ma almeno il vetro era intatto: lo aveva fatto riparare lo scorso inverno con i suoi risparmi. Osservò la strada in silenzio: era vuota, neppure un insetto volava e l’aria sembrava pesante come se fosse fatta di piombo. Ormai si stava abituando a quell’atmosfera di apparente morte: nessuno usciva, nessuno che rideva, urlava, niente, il nulla totale. Sospirò.
- Charlie, vieni qui a giocare a carte con noi? - un bambino con una nuova fila di denti appena spuntati la guardava sorridendo. La ragazza gli sorrise di rimando – Si, Lucas, andiamo a giocare! –

Si sforzava di mantenere un’apparenza serena per non spaventarli: aveva osservato bene le loro facce ai messaggi del presidente, ma dopotutto erano reazioni normali: lei stessa era agitata, nervosa e temeva per la situazione che poteva mutare, e in peggio, in qualsiasi momento. Ricordò a sé stessa le parole della sua educatrice Margery “spera per il meglio, preparati per il peggio”. Con il cuore rinfrancato da quel pensiero, si sedette sul pavimento accanto al bambino che prese a mischiare le carte con aria diabolica. La cosa le fece scappare un sorriso divertito più che sincero.

- Dai, Lucas, molla quelle carte! Vogliamo giocare! – protestò Yuri. Charlie scosse la testa divertita. C’era un’atmosfera serena, quasi di casa, in quei momenti. La ragazza aprì la bocca per parlare quando la melodia dell’inno invase tutta la stanza scacciando via tutto quello che c’era prima. I bambini si pietrificarono e si strinsero tra loro mentre Charlie guardava seria la radio mettendosi in allerta.
- Popolazione dell’Unione Nord Atlantica, è il presidente Skye More che vi parla. In queste ore oscure il rifiuto della Terra è arrivato agli invasori e questi hanno risposto dichiarandoci guerra. Gli eserciti di tutto il mondo si stanno unendo per distruggere questa minaccia. Da questa battaglia dipende la sopravvivenza della civiltà umana. Da essa dipende la nostra vita, e la lunga continuità delle nostre istituzioni e della nostra Unione. Tutta la furia e la forza del nemico devono essere spente e lo saranno. Ma se non ci riusciremo, allora il mondo intero, tutto ciò che noi abbiamo conosciuto e curato, affonderà nel baratro. Cerchiamo quindi di dare forza, di mantenere i nostri doveri e dare noi stessi. Se l’Unione resterà, se la Terra continuerà ad esistere, gli uomini continueranno a dire: questo è stato il lor miglior momento. –   
Un rumore fastidioso, un ronzio, aveva seguito la fine del discorso del presidente. Charlie guardava la radio sotto shock, ancora non del tutto sicura di ciò che aveva sentito. Il suo respiro si era come bloccato in gola, i suoi arti si erano pietrificati e le sue pupille dilatate: non erano buone notizie, non lo erano per nulla. Lentamente prese a respirare silenziosa e sbattè più volte gli occhi cercando di cacciare via quello strano bruciore che conosceva bene e non preannunciava nulla di incoraggiante. Si voltò ancora scossa e osservò i bambini: chi tremava, chi piangeva, chi si mordeva le unghie ...doveva calmarli, per quanto lei potesse essere sotto shock doveva pensare a loro. Richiamò alla mente pensieri positivi, sereni, o per meglio dire cercò di richiamarli, ma il peso che sentiva sul petto le bloccava ancora la normale respirazione. Eppure lo sapeva che i bambini erano la sua priorità, ma la paura si era impossessata di lei. Sentiva l'angoscia agitarsi dentro di lei come un serpente sinuoso che scivolava tra le sue viscere in cerca del punto migliore da mordere. Non poteva permettersi di lasciarsi andare così, era andata all'orfanotrofio per un motivo e per quello stesso motivo doveva fare qualcosa, doveva agire. La paura è normale, è umana, ma non bisogna lasciare che questa ci fermi: bisogna controllarla. Charlie prese dei lunghi respiri attraverso il naso cercando sè stessa in quel vortice di sensazioni buie e negative. Chiuse gli occhi per quelle che sembrarono ore, ma in realtà si tratto di una manciata di secondi. 
"Vai avanti."
Il suo respiro tornò normale mentre i suoi occhi si riaprirono e si posarono sui bambini tremanti ancora seduti a terra. Si schiarì la voce con un colpo  – Piccoli, gli eserciti dell’Unione sono potenti, ce la faranno. Dobbiamo confidare in loro e stare al sicuro finché non vinceranno. - si sforzò di fare un sorriso incoraggiante che, per quanto forzato, diede un briciolo di sicurezza ai bambini. – Perché ora non andate a…– la sua frase venne interrotta da una sequenza di rombi accompagnati da altrettanti fasci di luce: gli alieni stavano attaccando e le poche sicurezze di Charlie si stavano infrangendo.


 

* * *

Ciao a tutti e grazie di aver letto sino a qui! Sono sempre curiosa e felice di sapere cosa ne pensate, quindi lasciate pure una recensione, se volete :)
Mi scuso per il ritardo enorme, ma ho avuto dei problemini. Lunedì, però, dovrebbe tornare tutto regolare.
Un saluto,
Poèsie. 

 

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