Sapore di Ciliegie

di Angel_to_Fly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Cavallo Russo ***
Capitolo 2: *** Da Sfamare ***



Capitolo 1
*** Il Cavallo Russo ***



Ci tenevo a farvi sapere che questa storia è puramente inventata, ha certamente basi storiche vere, ma nessuna di queste persone è realmente esistita (credo) e nessuna di queste persone ha mai fatto ciò che sarà scritto durante la storia.
Ci tenevo anche a ringraziare la zia di una mia cara amica che mi ha aiutato con le date storiche, gli avvenimenti, che - non so in che modo - è riuscita a conservare molti dei giornali di quel periodo. Quindi grazie e spero di non deluderti!
Grazie mille, spero che la storia vi possa piacere. Abbracci, ATF




1 | Il Cavallo Russo - Domenica, 3 Ottobre 1943 
 
La penna seguiva il delicato movimento che la mano imponeva lei. Tracciava linee di inchiostro color petrolio sul bianco foglio di carta stropicciata. Era pomeriggio tardo, il cielo si tingeva di un delizioso rosa pesca e le nubi erano bianche. La ragazzina china sul blocco di fogli scriveva, principalmente della sua giornata, poi immaginava ciò che le sarebbe potuto accadere in un giorno alternativo, in un altro paese. Non che lì fosse noioso, anzi, spesso e volentieri le bombe che i Tedeschi buttavano sulla cittadina poco lontana giungevano fin lì, causando rumori inumani. Grazie al cielo loro ancora abitavano nella casetta di legno, in campagna, del nonno materno, il padre di Virginia Diamante.
«Bea, torna immediatamente dentro». Carlotta dall'altro lato del campo di grano, proprio all'entrata dalla casa, la guardava alternando occhiate a lei e al cielo, terrorizzata dal pensiero che altri aerei Tedeschi sorvolassero la loro abitazione sganciando bombe incendiarie.
Anche Beatrice alzò la testa osservando quel cielo spumoso e aspettandosi di vedere planare a bassa quota i Tedeschi, ma quel giorno sembravano essere piuttosto taciturni e invisibili. Non avevano ancora bombardato.
«Bea, ti prego» ringhiò la sorella battendo un piede sullo scalino più alto, in marmo. La gonna che le cadeva fino alle caviglie si alzò sotto il comando del vento, ma lei non se ne curò, tenne lo sguardo furente sul corpicino di Beatrice.
Questa si alzò dal terriccio e scavalcò le alte piante di grano, dorate. Aveva il naso puntato al cielo, osservava ammaliata ogni sfumatura di quella distesa dai colori caldi, mentre il piede di Carlotta picchiettava contro il marmo grigio, era irritata. Beatrice camminò lentamente tenendo stretto al petto il blocco di fogli ormai consumati e in una mano la penna che aveva rubato alla nonna Valeska la sera prima.
Con una leggera corsetta entrò il casa e scampò per miracolo ad una sberla della sorella, questa, però, si lasciò sfuggire un debole sorrisino.
Era sempre così, tutta la famiglia si lasciava coinvolgere dalla genuinità, dall'infantilità della piccola Beatrice, la bambina di casa. Lasciò cadere i sandali bianchi al lato dell'entrata e a piedi scalzi scavalcò il gradino in legno, proprio in quel momento il padre uscì dalla camera da letto con il giornale in mano.
«Dove sei stata, Bea?» domandò curioso entrando il cucina. Beatrice lasciò il blocco e la penna ben nascosti sotto le sue scarpe e quelle di Ginevra e lo seguì a testa bassa.
«Sono stata fuori» sussurrò mordendosi il labbro e raggiungendo la madre ai fornelli. A giudicare dall'odore che fluttuava nella stanza Virginia stava cucinando un delizioso stufato di cipolle.
«Fuori... » borbottò Liev, il padre, sedendosi sul piccolo divano che si trovava in stanza e aprendo il giornale. Le solite notizie erano evidenziate in grassetto: Le razioni sono state dimezzate. I Tedeschi hanno in mano il Nord Italia. I morti sono arrivati a più di novecento al giorno, fra soldati e civili.
«Fuori dove?» continuò scorrendo le pagine, poche perché la carta stava terminando o veniva utilizzata dai Tedeschi per manifesti nazisti.
Beatrice esitò dandogli le spalle. Lo stava facendo innervosire, lo notava dall'accento russo che prendeva il sopravvento nel suo italiano stentato. «Nel campo di grano» rispose senza guardarlo.
«A fare cosa?» continuò lui.
Beatrice scambiò uno sguardo con la madre, ma Virginia le sorrise come se non si fosse accorta che il marito stava perdendo le staffe, poi si voltò verso il padre, lui teneva gli occhi fissi sul giornale, pizzicandosi di tanto in tanto i baffi grigi.
Solo la nonna Valeska ridacchiava tentando di non farsi notare, intenta a cucire un ennesimo vestitino per una delle nipoti.
«Beatrice Lievovna Volkova! Hai intenzione di rispondermi o vuoi continuare a guardare le mosche che volano?» sbottò Liev battendo un pugno sul bracciolo alla sua destra, ma il rumore venne attutito.
Beatrice sbatté le palpebre tornando su di lui. «Sono andata a dormire» rispose prontamente.
Non poteva certo dire loro la verità, andava a nascondersi nel campo di grano appunto per non farsi vedere da loro. Un tempo Liev e Virginia Volkov erano i primi a lodare di buon grado la dote della figlia, a spronarla a scrivere sempre meglio, ma poi era subentrata la guerra, la fame, la povertà, le malattie. Non potevano permettersi fogli per Beatrice, né penne nuove, né inchiostro, dovevano pensare a mangiare, a guadagnare quella lira in più per riuscir a sfamare sei bocche, tre delle quali a carico. Solo Liev, Virginia e Ginevra - la figlia più grande - lavoravano, e nonostante le razioni per loro fossero maggiori, spesso non bastavano neanche a sfamare loro stessi. 
«Dormire» bofonchiò il padre tirandosi la punta del baffo destro.
«Come se facessi altro».
Virginia sorrise alla figlia e mescolò rudemente l'impasto che si trovava dentro la pentola, pochi secondi dopo annunciò con un forte urlo che la cena era pronta. La luce fuori dalla casa stava scemando, grazie al Cielo la lampadina appesa al soffitto funzionava ancora, anche se ad intermittenza.
Erano stati davvero molto fortunati, in periodo di guerra molte persone che abitavano in città erano state costrette a condividere appartamenti comuni, abitare con persone a loro sconosciute o direttamente per strada, loro invece avevano una casa propria con due stanze da letto, cucina, bagno e stalla. Era la casa che Adriano e Ester Diamante avevano lasciato alle due figlie, Virginia e Maddalena, l'ultima era morta di tubercolosi i primi mesi del 1940.
Ginevra e Carlotta arrivarono in cucina e tutti si raggrupparono intorno al tavolo, solo la madre, Beatrice e Carlotta dedicarono una preghiera al pasto a loro regalato dal Signore, Liev, Valeska e Ginevra erano fortemente comunisti.
Consumarono lo stufato di cipolle in un religioso silenzio. Mangiarono lentamente, tentando di saziarsi, ma nessuno era capace di farlo con dell'acqua insapore.
«Non sa di nulla» si lamentò Liev guardando il cucchiaio dove galleggiava quell'acqua giallastra che gli ricordava tanto il vomito.
«E' stato tutto ciò che ho trovato! Al razionamento mi hanno dato del pane, ma lo avete mangiato tutto a mezzogiorno, dobbiamo ringraziare Dio che Suora Iris mi abbia dato due cipolle e due patate» sentenziò Virginia tenendo lo sguardo fisso sulla sua brodaglia. Ne aveva abbastanza delle lamentele del marito, anche lei mangiava ciò che lui mangiava, quella era la guerra, non avevano potere di nulla.
«Hai ragione, cara» sorrise nonna Valeska accarezzando l'avambraccio di Virginia.
«Dobbiamo anche ringraziare il tuo dio se siamo ancora tutti vivi, quindi, Liev, non fare lo schizzinoso e mangia! Io e tuo padre ti abbiamo insegnato a mangiare la buccia delle patate per anni e ora che trovi una buona donna che ti cucina stufato di cipolle in tempo di guerra sentiti lodato» sentenziò sbattendo un pugno debole sul tavolo e facendo tremolare il piatto di Carlotta, al suo fianco. Liev non rispose e bofonchiando sotto i baffi mangiò tutto ciò che il suo piatto conteneva.
Beatrice assaporò tutto con la massima calma, immersa nel suo mondo, sentì forte e chiara la cipolla ballarle sulla lingua e quella brodaglia ora era salata e non insipida.
Quando terminarono di mangiare Beatrice e Ginevra sparecchiarono, mentre la madre prendeva in mano il giornale del marito e lo apriva, osservando le scritte, senza leggerlo; la nonna riprese a fare a maglia, il padre andò in bagno a lavarsi e Carlotta andò nella stalla per pulire, un'ennesima volta.
La radio era accesa a massimo volume e alcune canzoni americane facevano da sottofondo, Liev era riuscito ad intercettare le loro stazioni.
«Bea» sussurrò Ginevra avvicinandosi all'esile corpo di Beatrice. La sorella la imitò lanciando un'occhiata alla madre che era intenta ad ascoltare la musica.
«Cosa c'è?» domandò passando un'ennesima volta lo straccio sui fornelli arrugginiti della cucina.
Ginevra le si strinse contro guardandola in viso, i suoi occhi verdi la ispezionarono attentamente. «Domani mattina vado in paese» sussurrò rimboccandosi le maniche del vestito bianco sporco.
Beatrice alzò lo sguardo fissando la sorella, stupita.
«Per quale assurdo motivo?» chiese ingenuamente scuotendo la testa. Entrambe si accorsero che la radio venne abbassata e girandosi trovarono gli occhi scuri della madre, fissarle.
Ginevra si staccò dalla sorella guardandola, come a volerle far capire qualcosa, ma Beatrice non capiva, non era maliziosa come Ginevra o Carlotta.
"Devo vedere Massimo", mimò con le labbra mordendosi, poi, il labbro inferiore a sangue.
Beatrice spalancò gli occhi strofinando lo straccio con più enfasi, un dolore al polso la fece fermare. La cucina era lustrata nonostante il poco grasso che non si toglieva.
«Vieni con me» sussurrò Ginevra ancora passandole di fianco. Beatrice fece finta di non sentire, ma scosse la testa.
Non aveva alcuna intenzione di farsi beccare dalla madre, o peggio, da Carlotta, quella civetta avrebbe detto tutto al padre e, come minimo, si sarebbero trovate senza pasto per due giorni. Non che cambiasse qualcosa.
E poi, il pensiero di vedere la sua adorata Ginevra a sbaciucchiarsi con quel pidocchioso di Massimo le faceva venire il voltastomaco, se solo avesse avuto qualcosa in pancia anche solo il pensiero l'avrebbe fatta rimettere. Massimo Centi era un partigiano che vantava di essere tale senza nessun interessamento a liberare il Nord Italia dai nazisti, lo diceva solo per farsi "bello" agli occhi delle ragazze.
«Tu potrai andare in biblioteca, o da Isabella, lei ti darà quel poco di pane che le è rimasto» continuò ad insistere Ginevra. Beatrice stava quasi per ribattere quando due bei botti alla porta, ben assestati, la fecero cicatrizzare al suolo.
Si osservò intorno, Ginevra al suo fianco, la madre sul divano, Valeska sulla sedia, il padre affacciato dalle scale e Carlotta di fianco alla porta dell'entrata, tutti con uno sguardo ansioso in faccia.
«Chi potrebbe essere?» sussurrò allarmata Virginia alzandosi e tentando di guardare oltre le tende bianche.
Fuori era buio e le uniche luci erano del paese in lontananza, tutto intorno era buio, sia nel campo di grano dorato, sia nel boschetto alla loro destra.
«La vera domanda è 'chi è riuscito a vederci'?» domandò allarmata Carlotta allontanandosi dalla porta e raggiungendo il padre che era sceso dalle scale e fissava la porta curioso. La fronte aggrottata.
«E se sono ladri?» commentò Virginia stringendosi la collana d'oro fra le mani.
«E se sono i Tedeschi?» domandò allarmata Ginevra.
«Catia mi ha raccontata che vanno di casa in casa chiedendo donne, non importa l'età, basta che plachino i loro bisogni animali» continuò rabbrividendo al ricordo delle parole dell'amica.
Liev si girò verso le donne guardandole, una ad una: «Tutti ci possono vedere, Carlotta, abbiamo la lampadina accesa. Vir, smettila di tenerti quella catenella, avresti dovuto cederla già quando Mussolini aveva detto che era obbligatorio darla via, nell'estate del '42. E poi, tu, Ginevra che te ne vai appresso a quella stolta di Catia, se loro vorranno avervi noi cosa possiamo fare? Ci uccideranno, vi uccideranno se non li soddisfacente» ringhiò non volendo farsi sentire da chiunque si trovasse fuori da quella casa.
Altri due colpi fecero sussultare Beatrice. Quelli di sicuro non erano colpi assestati da una mano, ma dalla canna di un fucile, come minimo.
Liev, senza paura, rizzandosi sulla schiena andò ad aprire uno spiraglio di porta, osservando il giovane armato che si trovava davanti alla porta. Il viso del ragazzo era illuminato solo dalla poca luce che arrivava da dentro la casa, ma Liev ebbe un colpo al cuore.
«Nikolay Tarasovic Kolov» sbottò incredulo. Il tappo di sughero che gli aveva bloccato lo stomaco ora si era sciolto, finalmente.
«Ragazzo, cosa diavolo ci fai qui?» domandò sempre in italiano, sapeva che suo nipote lo conosceva e lo parlava deliziosamente. Nikolay entrò affaticato, tenendo su una spalla un bagaglio e a tracolla la sua arma da combattimento. Ginevra, Carlotta e Beatrice lo squadrarono da capo a piedi.
«Sono tornato dalla battaglia contro i Tedeschi a Leningrado, sono sopravvissuto. Sono tornato a Stalingrado, ho provato a vivere da solo per qualche mese, ma credo di star impazzendo, allora mi sono ricordato di te zio, e anche di te zia. Sei davvero bellissima, proprio come ti ricordavo» sussurrò avvicinandosi a lei e abbracciandola.
Virginia si sentì mancare, tremava e lo stringeva al suo petto con una forza disarmante.
«Bambino mio, mi dispiace così tanto, per tutto» sussurrò accarezzandogli forte la testa.
«Non fa niente zia, ora mamma e papà sono al sicuro» sorrise staccandosi e raggiungendo la nonna. Valeska lo abbracciò dandogli qualche pacca sulla schiena.
«Guardati Nik, il mio Capitano dell'Armata Rossa» sorrise asciugandosi gli occhi bagnati da deboli lacrime.
Le ragazze si scambiarono occhiate perplesse. Da quando avevano un cugino?
«Mi sei mancata anche te, nonna» la strinse a sé.
Beatrice guardò incantata l'uniforme da soldato che portava, era diversa da quella che indossavano i Tedeschi in paese, era color cachi e raggiungeva le caviglie, tenuta stretta alla vita solo da un cinturino nero, e sulla parte superiore, sopra il cuore era piena di medagliette di ogni colore e statura, le osservò ammaliata. Guardò il viso di quel soldato, occhi grandi e azzurri e capelli neri come la pece, leccati da un lato, ma la pelle era bianca, pallida, quasi da morto.
«Oh, mio dio» sospirò la madre togliendogli dal groppone lo zaino pieno e pesante. Liev si portò zoppicando sulla gamba buona fino alla piccola dispensa sotto i fornelli e raccattò del vino forte, quello che Adriano gli aveva lasciato anni prima.
«Nik» s'intromise Valeska alzandosi e raggiungendo il ragazzo. Lui si voltò verso di lei e le sorrise.
«Togliti la giubba e siediti, ti presento le tue cugine, l'ultima volta hai visto solo Ginevra e avevi due anni, non so cosa tu possa ricordarti» ridacchiò aiutandolo a spogliarsi e portando via la giacca scura. Sotto Nikolay portava un'altra giacca color cachi e dei pantaloni di stoffa ruvida, marroni.
Lui voltò lo sguardo e osservò le tre giovani, prima Carlotta, Ginevra e infine Beatrice. L'ultima era rossa come un pomodoro.
«Loro sono Ginevra, Carlotta - la seconda - e Beatrice, la più piccola» spiegò Virginia avvicinandosi al soldato e accarezzandoli i folti capelli neri. Nikolay strinse la mano a tutte loro con un sorriso vivo in faccia, sembrava un bambino felice.
«Quanto resterai, caro?» intervenne Liev passandogli un bicchiere di vetro contenente della sostanza gialla. L'odore scombussolò la mente di Beatrice nonostante lo conoscesse bene.
«Fin quando voi non mi buttate fuori casa, purtroppo non ho dove andare» disse Nikolay bevendo un sorso di limoncello, poi tornò a fissare le tre ragazze. Beatrice si sentì arrossire un'ennesima volta.
«Le avete fatte con il pennello, zia. Fossero così anche le compagne russe, voi italiane siete tutte talmente belle da mozzare il fiato» sorrise caldo voltandosi verso la zia.
Beatrice ci pensò su, aveva visto molte foto di donne russe e invidiava la loro carnagione pallida, il viso ben calcato e i capelli neri come la pece. Invidiava le russe e lui diceva il contrario.
«Smettila, Nik. Così farai imbarazzare le ragazze, guarda le guanciotte scarlatte di Beatrice» sorrise la madre avviandosi verso la figlia.
Lei si ridestò dai suoi pensieri senza capire ciò che la donna le avesse detto, ma notò gli sguardi divertiti delle sorelle e quello compiaciuto dell'uomo. Virginia le circondò le spalle con un braccio esile e bianco.
«Tuo padre mi aveva raccontato tramite lettera che eri in prima linea a Leningrado, è un miracolo che tu ti sia salvato» si intromise Liev riempiendo ancora il bicchiere di Nikolay.
«Sì, zio. Non riuscirò mai a spiegare ciò che ho visto, lo schifo che il mondo ha creato! Dovevo partire per un ennesimo fronte, ma a causa di una ferita alla gamba mi hanno dato la ritirata e - anche se sono rimasto Capitano - evito di andare in guerra» spiegò. Buttò giù il liquido giallastro perlustrando gli sguardi in tutta la stanza, evitando quello di Liev.
«Hai fatto bene, ragazzo. Ti sei già sacrificato per la Santa Madre Russia, ora lascia il lavoro ad altri» si schiarì la voce Valeska, riprendendo a cucire il vestito bianco.
«Come farai ad uscire e ad andare a prendere la tua Tessera della Fame?» chiese Ginevra facendo qualche passo in avanti e togliendosi il panno dal cinturino in vita della gonna.
«Infatti, i Tedeschi noteranno la divisa diversa» continuò la madre stringendo maggiormente Beatrice. Lei osservò il pavimento intenta a pensare ad altro.
Avevano un'altra bocca da sfamare, a quello nessuno ci pensava?
«Non fa nulla, gli darò io dei vestiti» si intromise Liev buttando giù il liquido pieno di alcol. Beatrice sentì la gola bruciare al posto di quella del padre.
«Cambierò il mio in uno italiano... »
«Non ce n'è bisogno, qui accettano anche gli stranieri. Solo gli ebrei non sono ammessi» si intromise Carlotta, ma appena Nikolay la guardò bofonchiò un timido: torno nella stalla.
«A proposito: Nikolay purtroppo dovrai dormire nella stalla, abbiamo due stanze, una per me, lo zio e la nonna e una per le ragazze. Non ti dispiace, vero tesoro?» domandò rammaricata Virginia staccandosi da Beatrice e avvicinandosi al ragazzo.
«Dispiacermi di cosa? Vi sono solo grato, mi state dando una casa» sussurrò afferrando la mano della zia che ora era posata sulle sue spalle.
Virginia tirò su con il naso.

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Capitolo 2
*** Da Sfamare ***



Uao! Davvero, 5 recensioni è davvero un sogno! Vi ringrazio tutte, è davvero bello sapere che la storia vi piace. Spero davvero che faccia un po' di strada, mi piacerebbe anche mandarla ad un Editore, vedremo.
Per ora ringrazio: Ater_Hailie | superM | jam_gg | blery25 | swag_94 

Spero di ricevere altre recensioni e sapere cosa ne pensate, grazie davvero tanto! Abbracci, ATF


 
2 | Da Sfamare - Lunedì, 4 Ottobre 1943
 
«Bea, Beatrice svegliati».
La ragazza venne scossa leggermente, quando un paio di mani ghiacciate le toccarono la pelle nuda del braccio tremò. Aprì gli occhi lentamente, cercando di capire dove si trovasse e perché fosse sveglia quando fuori era ancora l'alba.
«Beatrice, avanti alzati dal letto» sussurrò Ginevra lasciandola andare e allontanandosi. La bruna spalancò gli occhi scuri mettendosi a sedere sul letto e osservando la sorella indossare un paio di orecchini con le perle, finti.
Non capiva cosa stesse succedendo, ma a dire dall'abito rosa che Ginevra portava sembrava stesse per andare ad un appuntamento, poi si ricordò di ciò che le aveva detto la sera prima.
«Non verrò in paese con te per vedere Massimo» sussurrò rudemente ritornando sotto le coperte, tirandole fin sopra la testa.
Il sole fuori dalla finestra arrivava timido e ancora ghiacciato dalla notte, i raggi erano fiochi e la luce era davvero poca, non capiva come Ginevra avesse fatto a prepararsi nel buio totale che fino a pochi minuti prima aleggiava in casa.
«Sssh!». Ginevra spalancò gli occhi portandosi l'indice davanti alle labbra rosse di rossetto e sbattendo al suolo i piedi, tentando di non fare rumore.
Carlotta, addormentata al fianco di Beatrice mugugnò qualcosa di incomprensibile e le due sorelle rimasero immobili, attente a non farla svegliare. Ginevra sbuffò e a grandi passi raggiunse Beatrice, ancora barricata sotto le coperte bianche.
«Te lo dirò un'ultima volta: Beatrice, alza quel sedere dal letto e accompagnami in paese».
«Altrimenti?» ringhiò Beatrice togliendosi la coperta dal viso e guardandola negli occhi. Ginevra era inginocchiata al letto, proprio a pochi centimetri dalla faccia della sorella e la guardava con sfida.
«Altrimenti dì addio al tuo blocco di fogli e preparati ad una scenata di papà» sorrise beffarda tirando una ciocca di capelli della ragazzina di fronte a sé.
Beatrice si congelò e il suo viso divenne pallido come quello di un morto in pochi secondi. Ginevra giocava sporco, da quando l'aveva beccata nel campo di grano a scrivere l'aveva avuta in pugno, continuava a minacciarla dicendo che un giorno l'avrebbe detto al padre. Beatrice non poteva fare nulla, solo stare zitta e subire. Metabolizzare.
Con uno sbuffo e l'aria imbronciata si alzò dal letto dirigendosi verso un piccolo baule, lì teneva i suoi vestiti, non erano tanti, ma bastavano per quell'anno. Prese un vestito giallo che le aveva cucino nonna Valeska e lo indossò senza troppe cerimonie, non le andava di lavarsi e l'acqua che arrivava era sporca, lei profumava ancora, quindi non si preoccupò.
Scese le scale in legno stando attenta a non farle scricchiolare e indossò le scarpette bianche che metteva sempre. Ginevra girava per la cucina aspettando la sorella, le tremavano le mani.
Beatrice non capiva perché fosse così agitata, vedeva Massimo due volte alla settimana, per lei era già tanto che riusciva a vedere Anna una volta al mese. Saltellando arrivò in cucina, raccattò le Tessere della Fame di tutti e seguì la sorella fuori di casa.
Fecero qualche passo fino a giungere nel campo di grano, ma una voce le fermò, facendole tremare.
«Dove state andando?». Con un accento russo forte e chiaro il nuovo cugino uscì dalla stalla, raggiungendole.
Indossava una camicia verde scuro e dei pantaloni neri, ai piedi dei sandali marroni. Erano alcuni dei vestiti del padre, e gli andavano un po' larghi, ma gli stavano bene.
Beatrice vide con la coda dell'occhio Ginevra ingoiare a vuoto. «Stavano andando in paese a prendere le razioni. Vuoi venire?» domandò tranquillamente. 
Sentì gli occhi della sorella bruciarle addosso, furenti.
«Grazie per l'invito, ma devo rifiutare. Devo andare in comune, ma dubito che a quest'ora sia aperto» osservò attento, guardandosi l'orologio al polso.
Beatrice corrugò la fronte osservando il volto scultoreo del ragazzo, e dire che lei non aveva la più pallida idea di che ore fossero, non avevano un orologio in casa, solo la radio ogni tanto le avvertiva.
«Già, sarà chiuso a quest'ora. Noi però siamo di fretta, muoviti Beatrice o finiranno le scorte». Ginevra sorrise fintamente tirando la sorella dalla gonnella gialla. Questa si alzò lasciando in bella vista metà coscia, e Beatrice, arrossendo, la abbassò.
«Ciao, soldato» mimò con le labbra seguendo la sorella. Nikolay alzò una mano con un sorriso divertito in viso.
Ginevra e Beatrice camminarono per parecchi minuti, la più grande rimproverò la più piccola per tutto il tragitto.
«Cosa pensavi di fare? E se mi avesse visto con Massimo? Non pensi a cosa avrebbe fatto papà?».
Mentre Ginevra continuava a blaterare lei continuava a pensare a Nikolay, era russo proprio come il padre, era strano che lui non ne avesse mai parlato. Liev era sempre stato scrupoloso e orgoglioso della sua famiglia e il fatto che non avesse mai nominato il nipote era molto insolito.
Entrando in paese Beatrice afferrò il giornale che un bambino stava sventolando per aria con viso annoiato. «La Gazzetta dell'Emilia, La Gazzetta dell'Emilia. Affrettatevi a prendere la stampa de La Gazzetta dell'Emilia» bofonchiava ancora addormentato, poi sbadigliava e strofinandosi gli occhi ricominciava: «La Gazzetta dell'Emilia, La Gazzetta dell'Emilia. Affrettatevi a prendere la stampa de La Gazzetta dell'Emilia».
«Sta' ferma, dannazione» disse Ginevra con aria arrabbiata, strappandole di mano il giornale e aprendolo ad una pagina a caso.
Beatrice si trovò a ridacchiare sotto i baffi, osservava la sorella e il modo in cui lei guardava il giornale e le parole stampate sopra a questo.
"E' inutile che fingi, tanto tutti sanno che non sai leggere", pensò mordendosi il labbro inferiore e tentando di non ridere.
Affacciandosi alla sua spalla, in punta di piedi, Beatrice lesse quelle poche righe che la vista le permetteva. Un certo Enrico Cacciari scriveva: Si sono fucilati degli sciagurati che hanno rapinato qualche mille lire: che cosa si aspetta a mandare al muro gli uomini che hanno massacrato la Patria? Bisogna decidersi e presto, ed occorre cominciare dai "nostri". Da quelli che prostituirono il Fascismo.
Si chiedeva come i Tedeschi non arrivassero a leggere quelle cose, come facessero a non fucilare le persone che le scrivevano. Beatrice aveva sentito che ora la censura era stata ancora più accentuata e quindi i controlli erano ovunque, ma non lì evidentemente.
Con gli occhi fissi sulla strada cementata e spaccata pensò a quelle parole, che cosa si aspetta a mandare al muro gli uomini che hanno massacrato la Patria?, spesso se lo chiedeva anche lei, perché morivano le persone di stenti e non i traditori a colpi di fucilate? Semplice, quei traditori erano potenti, la gente in confronto non era nulla.
Beatrice aveva sentito delle truppe anglo-americane, gli americani! Diceva che erano ormai vicini a liberare anche il Nord Italia, erano sbarcati in Sicilia e ora stavano risalendo lo stivale, ma quanto tempo sarebbe servito ancora?
Alzò gli occhi da terra solo quando sentì altri sguardi su di lei. Notò subito i Tedeschi appostati vicino ad un piccolo camion color cachi, tremò al pensiero di quello che Catia aveva detto a Ginevra, e che lei aveva riferito a loro la sera prima. I Tedeschi erano in tre, guardavano le persone che camminavano lungo la strada, li fissavano in modo poco appropriato, li squadravano, loro sospettavano di tutti.
Al lato di un Tedesco dai capelli biondi Beatrice scorse un manifesto in italiano, era l'ennesimo manifesto contro gli ebrei, ne vedeva da quando aveva solo undici anni, dal 1938. Dicevano sciocchezze come il dover lasciare il Regno, ma lei vedeva come i Tedeschi li prendevano e li maltrattavano.
Tornò con lo sguardo sul soldato biondo, lui la fissava impassibile e lei tenne lo sguardo ben serrato al suo, non aveva paura. O almeno era quello che si diceva ogni notte prima di dormire.
«Quante volte ti ho detto di non guardarli negli occhi» ringhiò Ginevra prendendole un polso e strattonandola il più lontano possibile. Beatrice fece appena in tempo a vedere il modo in cui quel Tedesco sghignazzava con i suoi compagni.
«Schifosi» sussurrò sputando al suolo. Grazie a Dio nessuno dei soldati se ne accorse, ma una vecchina fece il segno della croce stringendo il rosario fra le dita fragili.
«Finirai per farti prendere e sparare dai Tedeschi» sussurrò Ginevra tenendole stretto il polso e camminando veloce per le strade del paese.
Pochi magazzini e pochi negozi erano aperti, alcuni aprivano nella tarda mattinata, altri erano semplicemente stati chiusi. Le cause erano tante, i bombardamenti che i Tedeschi di tanto in tanto facevano, la mancanza di risorse da vendere o semplicemente proprietari ebrei.
Quando svoltarono in una via buia sfociando nella poco affollata piazza Ginevra mollò Beatrice e la spinse delicatamente verso la zona dei rifornimenti.
«Bene, tesoro. Ora tu vai a prendere il cibo e io rimango ad aspettare qui Massimo. Ci troviamo a casa» e così dicendo sparì dietro il municipio.
Beatrice si guardò intorno, in quel momento si sentì intimorita da ciò che si trovava in quel paese. Da chi si trovava in quel paese. Girò su sé stessa osservandosi intorno, alcune anziane donne passeggiavano a braccetto, c'era un cane spelacchiato che si grattava dietro ad una bicicletta e un soldato Tedesco che fumava tranquillamente. Deglutì e seguì il consiglio della sorella, dirigendosi al razionamento.
Per la strada il silenzio soccombeva su tutto, il sole era diventato caldo nonostante fosse Ottobre. In alcuni angoli delle strade c'era la foto di una Madonnina, in altri semplicemente la svastica. Quanta differenza?
Giunta a destinazione si mise in fila, davanti a lei c'erano poche donne. Una madre con un bambino in braccio, tre anziane e due ragazzine poco più piccole di lei.
«Le Tessere per il razionamento» chiese una donna dai capelli biondi aprendo una mano e mostrando la pelle abbronzata, ma non era come quella di Beatrice e Carlotta. Loro avevano la pelle color caramello, perennemente bruciata dal sole sulle gote e pallida dal ginocchio in su. La pelle della donna era di un colore malaticcio, quasi grigia.
La signora con il bambino gliele pose sul bancone e ricevette la sua merce, ma quando si piegò per sussurrare qualcosa alla donna dietro il banchetto venne subito percossa.
Un soldato Tedesco che prima Beatrice non aveva notato prese la signora per le spalle, venne tirata indietro con talmente tanta forza che il bambino cadde al suolo schiacciato sulle cemento e sulle pietre. La madre venne pestata a sangue, con un bastone il Tedesco le picchiava l'addome e il seno, tirandole calci sui reni, lei piangeva e urlava di dolore, mentre il bambino di poco più di un anno era rimasto steso al suolo.
Nessuna delle donne avanti a lei fece nulla per soccorrerlo, mentre la madre del bambino prese l'ultimo respiro quando il bastone dell'uomo la colpì esattamente sul naso, spaccandoglielo.
Beatrice serrò gli occhi e ingoiò l'aria, ormai la saliva le si era prosciugata in gola, e se fino a poco prima aveva fame, in quel momento le venne da vomitare. Una bambina di meno di dieci anni che le stava di fronte si girò verso di lei con occhi colmi di lacrime.
«Ho paura» singhiozzò cominciando a piangere forte. La ragazza spalancò gli occhi guardandosi intorno, attenta a non farsi accorgere dal soldato Tedesco che distava pochi metri da loro.
«No, no. Ssshh! Va tutto bene. Non devi aver paura, se tu non fai cattiverie non ti succederà nulla. Vieni, dammi a me le tue Tessere, prenderò io la razione per te. Stammi vicina e non piangere» sussurrò togliendole dalle guance le lacrime.
Osservò la bambina, aveva lunghi capelli neri e occhi verdi, sarebbe stata proprio bella se non fosse stato per tutta la cenere che le colorava di nero la faccia, le lacrime avevano lasciato solo lunghi solchi che mostravano una pelle color miele.
Afferrò le due Tessere della Fame che la bambina le aveva consegnato e le mischiò fra le sue leggendo il nome della ragazzina. Celeste si strinse contro la gonna gialla di Beatrice, che arrivava solo fino a sopra le ginocchia, la prese fra le mani tirandosela al petto, come per proteggersi.
La verità era solo che Beatrice tremava come una foglia, se qualcuno l'avesse beccata a prendere la razione di una bambina non sua l'avrebbero ridotta nello stesso modo di quella povera madre. La fila si dimezzò in pochi istanti, e fu il suo turno.
Con Celeste ancora al fianco mostrò le sette Tessere della Fame. La donna la squadrò da dietro gli occhiali dalle lenti spesse e Beatrice si sforzò di sorridere, fingendo di non notare la sagoma in verde alla sinistra della signora, proprio a pochi passi da Celeste.
Mentre la donna prendeva i sacchi di cibo lei portò una mano sulla testa della bambina, accarezzandole i folti ricci neri. Celeste aveva il viso immerso nella gonnella e tremava come una foglia. Il soldato se ne accorse e con lui, Beatrice.
La prese in braccio prima che l'uomo potesse fare qualunque cosa, lo sfidò con uno sguardo terrorizzato, sapeva che il Tedesco stava iniziando a capire qualcosa. Celeste nascose la faccia fra i capelli lunghi e castani di Beatrice.
Lei e il soldato si guardarono a lungo, lui gelido e Beatrice tremante.
"Schifoso!", pensò ancora tornando a guardare la donna che le porgeva il cibo e le Tessere della Fame.
Beatrice non ringraziò neanche e con velocità di voltò cercando di tornare a casa, ma pestò qualcosa di molliccio sotto la scarpetta.
Si voltò giusto per guardare quello che aveva toccato e notò il viso pallido del bambino che la donna picchiata a sangue portava in braccio. Era morto e non solo da pochi minuti.
Quel bambino era morto da giorni.
Con gli occhi lucidi camminò per parecchi metri svoltando più vie, affrettava il passo con ancora gli occhi del Tedesco in mente, era sicura che quell'uomo avesse capito qualcosa, lo aveva notato dal modo in cui aveva squadrato la bambina e poi lei, insistentemente. Giunta in un vicolo baciato dai raggi del sole pose al suolo la bambina e si piegò sulle ginocchia.
«Ecco qui le tue Tessere» sorrise estraendo le due con scritto Celeste e Mario. Le guardò e riguardò attentamente, sicura di non averle scambiate o dimenticato le sue da qualche parte.
«Questi sono i tuoi seicento grammi di pane, le tue tre zollette di zucchero» sorrise passandogliene quattro - anche la sua - e la bambina rise allegramente. Se ne mise una subito in bocca.
«Tre patate, una scatola di uova, trenta grammi di formaggio, un litro di latte e quindici grammi di burro, duecento grammi di farina» sorrise e gli passò la busta in cui c'erano gli averi della bambina.
«Non ti ingozzare di zucchero o non ne rimarrà nulla per una torta!».
Torno a casa con un sorriso e le buste "piene" di cibo. Tentò di non prendere la strada dei Tedeschi e sperò che nessun ragazzino affamato le facesse del male. Il giorno dopo sarebbe tornata per il razionamento del pane. Due volte alla settimana - il Lunedì e il Giovedì - c'era il razionamento di tutto il cibo, ma ogni giorno quello del pane.
«Non dovresti dare il tuo cibo ad una zingara».
Beatrice si bloccò e il suo cuore cominciò a battere forte, troppo forte per essere contenuto nella sua cassa toracica così debole. Aveva riconosciuto quell'accento, lo aveva dovuto sentire per anni e ora, per la prima volta, era rivolto a lei.
«Non ho dato il cibo a nessuno» disse con voce tremante senza girarsi. Sentì i passi pesanti e trascinati del Tedesco dietro di lei, quando se lo trovò davanti un battito le venne a mancare.
Le guance le si imporporarono più di quanto già non fossero, le gambe le tremavano leggermente e già riusciva a vedersi stesa su quel terreno poco asfaltato. Il soldato che poco prima aveva visto uccidere una donna e che l'aveva sfidata con lo sguardo al razionamento la guadava da una distanza ravvicinata. Portava il capello premuto sul capo, e ritto com'era sembrava alto quasi due metri; aveva delle spalle enormi. Gli occhi erano di un azzurro acceso, quasi blu e i pochi capelli che spuntavano da sotto il cappello verde erano biondi. Tipico Tedesco.
«Mi stai per caso mentendo, sorella Italiana?» domandò con tono duro e leggermente canzonatorio, sbattendo un piede al suolo e stando ben dritto sulle gambe. 
Beatrice sobbalzò rischiando di indietreggiare, ma riuscì a tenersi ferma sul cemento. Vide il soldato ridacchiare e girare il capo dal lato opposto.
Avrebbe voluto dire "non sono rossa per imbarazzo, ma semplicemente perché il sole picchia sempre sulla mia faccia e me la brucia", ma rimase in silenzio facendo un passo verso destra.
«Mi perdoni, soldato, non so di cosa lei stia parlando. Vorrei tornare a casa mia» sussurrò con un filo di voce abbassando lo sguardo e notando una macchia color cenere sul suo vestitino pulito e tirato a lucido dalla madre.
«Soldato? Ti sembro per caso un soldato? Ragazzina, tu stai parlando con il Capitano Hadrian Krämer» la rimbeccò lui fiero del suo lavoro.
Solo allora Beatrice posò gli occhi sulle medagliette sul petto dell'uomo. Era il secondo "Capitano" con cui parlava, c'era anche Nikolay che era stato Capitano nella battaglia di Leningrado. Senza volere uno sbadiglio le appannò lo sguardo e dovette trattenersi dal farlo, ma il Capitano se ne accorse lo stesso.
«Per caso ti annoio, ragazzina?» domandò rilassandosi leggermente. Lo notò dalle spalle meno rigide e contratte.
Beatrice si affrettò a scuotere la testa e ad abbassare lo sguardo. «No, Signore. Come potreste! Mi sono solo alzata molto presto questa mattina» tentò di scusarsi tenendo le mani serrate alle buste di plastica sporche.
Hadrian si sbilanciò in avanti arrivando alla sua altezza, con le labbra vicino al suo orecchio. Beatrice rimase paralizzata e viola in viso. «Ti svelo un segreto» sorrise ancora sul suo orecchio. 
«Io questa notte non sono neanche andato a dormire» e ritornando al suo posto rivolse un sorrise poco casto alla ragazzina.
Beatrice si voltò dandogli le spalle e, senza dire nulla, si mise a correre verso il lato opposto del paesino, avrebbe preso la strada lunga, a costo di passare davanti agli altri Tedeschi. 
Le tremavano le gambe e l'adrenalina le scorreva veloce delle vene.

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