weirdness

di Utopia2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** 1st ***
Capitolo 3: *** start ***



Capitolo 1
*** Intro ***


"Nessuno aveva niente a che vedere con me o con quel che provavo: dove mi trovavo –in nessuno posto– che cosa facevo –niente– e cosa volevo –sempre niente.
[...]nessuno sembrava corrispondere alla mia particolare pazzia."



  
Salve a tutti, Margherita Ricci.
1.75, capelli neri, occhi verdi, sedici anni, figlia unica.
Nient’altro.
Da un anno a questa parte ho perso tutto.
Una personalità? Si, la avevo.
Non è mai stata una delle migliori, in ogni caso.
Inizialmente introversa, tremendamente orgogliosa e, a dire degli altri, addirittura simpatica.
Passioni? Quasi non me le ricordo più.
Mi piaceva ballare, sì.
Facevo danza moderna.
Ero portata, mi dava soddisfazioni, mi piaceva.
So del passato ma mi sono persa nel presente.
Ho cercato di spiegarvi in breve che persona ero; che persona sono non so dirlo.
Forse è anche troppo considerarmi una persona.
Le persone sono dotate di un’anima e a me sembra che la mia mi abbia abbandonata da un bel po’.
La vita era riuscita a darmi solo sofferenze.
La vita mi ha insegnato che ‘vivere’ è un’utopia; si può sopravvivere, se si è capaci.
La felicità avrà sempre un suo limite di tempo e non ce ne si deve approfittare.
Nessuno è felice a lungo termine.
Chi è felice sarà doppiamente triste quando la sofferenza busserà alla porta.
Ho capito che è meglio aspettarsi poco e niente dalla vita, che Dio non ha regolato bene le dosi di bene e di male da spedire sulla Terra.
Nessuno mi conosce veramente, tanto meno io.
Prima era diverso, oserei dire quasi normale.
Prima c’era Daniele.
Prima c’ero io.
Non mi affido più al karma.
Nessuno riuscirà mai a darmi tanto bene quanto il male che ho patito.
Ma vado avanti.
Il dolore lo nascondo.
Giuro, da fuori posso quasi sembrare una persona normalmente stabile, ma dentro è tutto un casino.
Le sedute dallo psichiatra mi avevano solo fatto capire che il male che ho dentro non se ne andrà mai via, ma che qualche sorriso e una battuta buttata lì giusto per ricordarsi che si è ancora dotati di senso dell’umorismo, basta alle persone per fargli capire che stai bene.
Ed è così che dopo la terza seduta mi stancai di rivelare i miei drammi a quell’uomo, non li avrebbe capiti.
Avrebbe solo detto le solite frasi preparate e prescritto qualche pillola che avrebbe alleviato il dolore per qualche ora, niente più.
Alla quinta o sesta seduta lo psichiatra rassicurò mia madre dicendole che stavo di nuovo bene. Lei gli credette, ma sapeva che non era affatto così.
Tipico della gente convincersi che tutto va bene anche se si sa che tutto va male.
Tipico della gente, non tipico mio.
Dopo quelle inutili sedute mia madre pensò fosse meglio cambiare ambiente, trovarne uno più sicuro.
Quale luogo migliore se non la capitale?
E quindi eccomi qui, Via Catania 46, Roma.
La città non mi dispiace affatto.
Mi piace il fatto che abbia una storia da raccontare.
Tutti ne hanno una, vincono le originali, le più belle.
Io ne ho una.
Originale, sì. Drammatica. Per certi punti di vista anche coinvolgente.
Il male ha concluso bruscamente la storia e non ho avuto il coraggio di iniziarne una nuova.
In ogni caso, nuova città, nuove persone, nuova vita. Vediamola così.
††† 14 Settembre, ore 7.
Suona la sveglia, primo giorno di scuola.
Mi alzo, prendo un paio di jeans e una maglietta a caso dall’armadio e mi preparo.
Non sono mai stata una di quelle ragazze che ci mette le ore per decidere cosa mettersi.
La scelta è limitata e tutto quello che ho nell’armadio mi piace allo stesso modo.
O forse mi fa schifo tutto allo stesso modo.
Beh, fatto sta che mi lavo i denti, la faccia, mi metto le scarpe ed esco.
Il caldo romano e la forte umidità si fanno sentire subito.
Guardo il cellulare.
7:30.
Bene, posso andare con calma.
La nuova scuola sta in fondo alla strada, una decina di minuti a piedi.
Mi accendo una sigaretta e, senza volerlo, la mente fa un breve viaggio nel passato.
Ritorna a quel giorno.
Quel 7 Dicembre, l’inizio della mia fine.
Inizio a piangere inconsapevolmente.
Le lacrime mi solcano il viso ma non ci faccio caso.
Il dolore è così forte che mi isola dal resto per un paio di minuti.
La mente finisce il suo tour nel passato.
Smetto di piangere, apro gli occhi.
Un ragazzo si intanto era fermato davanti a me e ora mi guarda con preoccupazione.
“Tutto okay?”
Rifletto un attimo sulla giusta risposta da dare.
“Si, tranquillo” mento.
7:45.
Ora di andare.
“Devo andare, scusa”
“Dove vai a scuola?”
“Newton”
“Anche io” e l’aria preoccupata precedente viene sostituita da un sorriso.
Un bel sorriso.
Sorrido anche io, non sapendo come continuare la conversazione.
“Classe?”
“III D”
Sorride di nuovo.
Ora un po’ di più, quasi una risata.
“Beh allora piacere nuova compagna di classe, sono Edoardo, per gli amici Ed.”
“Margherita” questa volta non ricambio il sorriso.
7:50.
Si inizia a far tardi.
Mi alzo.
Ci incamminiamo.
Silenzio.
Poi:“Sei di qui?”
“No, mi sono trasferita una settimana fa”
“Ah, da dove vieni?”
“E’ indispensabile saperlo?” rispondo annoiata.
Non si controlla l’apatia.
“No” risponde freddo.
Silenzio.
Arriviamo a scuola.
Mi fa vedere dove si trovava la classe.
Mi siedo all’ultimo banco.
Si siede vicino a me.
Entra la professoressa d’inglese.
“Abbiamo una nuova alunna qui, presentati cara”
Mi alzo, “Margherita Ricci”, mi siedo.
“Nient’altro?”
“Nient’altro”
Mi ero già rimediata delle occhiate strane, ma non brutte.
Ricordare il passato mi faceva male.
Ora sono solo Margherita Ricci.
Forse neanche quello.

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Capitolo 2
*** 1st ***


Sono più o meno le sette e come ogni mattina mi alzo per prepararmi per la scuola.
Dopo una breve colazione corro in fermata e là incontro i soliti amici. E' la classica giornata invernale in cui tutto ti sembra più di triste di quello che in realtà è ma io, Matteo Amati, all'apparenza ho poco di cui lamentarmi. Sono il capitano della squadra di Basket dell'istituto superiore "Newton" di Roma, uno dei Liceo scientifici migliori d'Italia, il classico ragazzo che partecipa a tutte le feste, che ha sempre mille impegni ed è amato da tutti ma alla fine capito da nessuno. Arrivato davanti scuola tra una risata e l'altra mi accorgo che ho fatto tardi e che quindi devo aspettare l'ora successiva per entrare. Mi siedo sugli scalini della scuola e mi accorgo di una ragazza, mai vista prima, che fuma come se quella sigaretta fosse la sua unica ragione di vita.
E' bella, di una bellezza particolare, naturale. Ha i capelli più scuri che io abbia mai visto e due occhi verdi in cui ti perdi. E' poco o per niente truccata, magra ma con tutte le forme giuste. Mi colpisce molto e decido di chiederle una sigaretta. Quando mi avvicino a lei mi guarda con un misto di menefreghismo e noia.
 "Ehi ciao, aspetti qualcuno o sei nuova?"
 "Sono nuova"
 "Ah, piacere sono Matteo"
 "Margherita"
 "Non è che avresti una sigaretta? Sai stamattina ho fatto tardi e non le ho comprate.."
"Tieni" e mi porse il suo pacchetto.
 "Grazie, domani te la ridò" gli dissi
 "Non ti preoc.."
 In quel momento suona la campanella e corre dentro, la seguoi e vido che entra nel III D, io invece vado nella mia classe, il IV C.
 La giornata continua come al solito tra spiegazioni, interrogazioni e compiti, ma quella ragazza ha decisamente qualcosa che mi ha colpito e quindi a ricreazione la cerco, senza però trovarla. Chiedo ad alcuni amici del terzo il suo nome e mi dicono che si chiama Margherita e che è venuta nella nostra scuola da due giorni; è una ragazza molto riservata e che fino a quel momento non ha rivolto la parola a nessuno. Quando finalmente suona la campanella dell'ultima ora me ne torno a casa e preparo il pranzo per me e mia sorella, Carlotta, che ha 3 anni meno di me. Nostra madre è a lavoro, non tornerà prima delle 6, e quindi mi tocca occuparmi di lei. Il pomeriggio vado agli allenamenti dove mi dicono che la settimana successiva verranno degli osservatori di una squadra importante a livello nazionale per vedermi, dicevano che ero davvero bravo. La sera fui andai a casa di Lorenzo, diceva di aver trovato un'erba che ti manda in estasi.
 Eravamo i soliti, io e Lorenzo, Luca, Francesco, Diana e Miriam. Come sempre Luca ci prova con Diana e Miriam invece mi si getta addosso, credo che non ha ancora accettato la nostra rottura. Loro sono comunque i miei amici di sempre: Lorenzo è nella squadra di basket con me e quindi siamo quasi inseparabili, stiamo sempre insieme. Luca e Francesco vengono nella mia scuola e tutto sommato non sono male mentre Diana e Miriam sono le classiche ragazze viziate, bellissime e invidiate. Hanno  tutto all'ultima moda, dal telefono allo smalto, non c'è ragazzo che non vada loro dietro. Dopo aver fumato ed esserci fatti quattro risate torno a casa dove, non so se per l'effetto dell'erba o semplicemente perché esattamente 5 anni fa nello stesso giorno mio padre veniva portato in prigione, mi butto sul letto con un vuoto dentro, lo sento al posto del cuore come se avessi un foro e voglio solo una cosa: chiudere con questa vita. La notte è sempre così, tutto ciò che durante il giorno riesco a nascondere dietro un sorriso esce fuori.
Mi ritrovo a chiedermi perché ancora mi ostino a fingermi felice quando in realtà voglio solo fuggire da tutto e tutti. Pian piano mi addormento e esattamente alle 7 la mia sveglia suona.

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Capitolo 3
*** start ***


Suona la sveglia, 15 settembre, ore 7:00.
Bene, è un nuovo giorno.
A fatica mi butto giù dal letto, vado in bagno, mi lavo ed esco, insapettatamente in anticipo.
Sento il telefono vibrare, un messaggio.
E' Edoardo: "dove ci siamo visti eri per le... bhe possibilmente ora, corri"
Sono solo le 7:20 e sono troppo stanca per riflettere sul perchè del messaggio, eseguo senza troppe domande.
Svolto l'angolo e lo vedo.
Mi sorride, gli sorrido.
Aveva il motorino e due caschi.
Continuo a non pormi domande calcolando che riesco a muovere a fatica le gambe.
"Buongiorno, complimenti per la puntualità, non me lo aspettavo" 
Lo saluto e finalmente, ai limiti della coscienza arrivo a formulare "il motivo dei caschi e del motorino?"
Ride, ed è bello che qualcuno riuscisse ancora a farlo così facilmente.
Mi sento ormai come in una cupola, impotente, inutile.
Io non combatto la vita, io mi sono arresa, completamente, è la cosa più brutta e me ne rendo conto.
Ho sentito gente affermare che il suicidio è un atto di codardo, concordo, ma quello che sto facendo io è peggio.
Sono morta e ho lasciato che la morte mi sconfigesse.
Ho lasciato che le persone mi ferissero e che le cose mi venissero contro, in questa vita io non ho avuto il coraggio di decidere niente.
"Ti porto a fare un giro, ti va?"
Lo guardo con fare confuso.
"Ma oggi è martedì..." osservo.
"Bhe, si, ma sei nuova, è una bella giornata e di andare a scuola non mi va poi tanto. Salta su, dai"
Mi sta simpatico.
E' un po' come la vecchia me.
Mi piaceva vivere sul momento, non programmare nulla.
Pensare a una cosa e farla subito perchè è appena pensata che è al culmine della sua bellezza.
Prendo il casco e salgo.
Roma è bellissima.
E' come se tutto fosse speciale in sè.
Come se qualunque cosa avesse importanza, anche i sassi.
Il motorino si ferma, alzo gli occhi e vedo il Colosseo.
E' una di quelle cose che ho sempre voluto vedere ma non ne ho mai avuto l'occasione.
"Allora che ne pensi?"
Il mio stupore è facilmente riconoscibile, un po' come tutto in me.
Cerco di nascondere il mio dolore, ma inevitabilmente tutti lo trovano.
E' come se giocasse a nascondino nascondendosi dietro una tenda.
Inizialmente sembra tutto normale, ma basta un secondo per accorgersi dei piedi che sbucano fuori.
"Ci facciamo una passeggiata?" 
Scendo e gli restituisco il casco.
Capisco che si sente un po' a disagio, e cerco di evitare la situazione.
"Comunque, vengo da Milano. Scusami se ieri sono stata brusca quando me lo hai chiesto, e solo che... no, niente, scusami e basta"
"Prima o poi mi spiegherai che cos'hai?" dice guardandomi negli occhi, improvvisamente serio.
A quel punto, riprendono i flashback, in maniera più ripetuta di ieri, tutti insieme, in un colpo solo.
Mi sento impotente, debole, incapace di accettare qualunque tipo di realtà.
E lui continua a stare lì, davanti a me.
E' serio, ma non mi basta, non può capire.
Il suo dolore non potrà mai essere proporzionale al mio.
La sua felicità non potrà che farmi più male, non mi cambierà, o se lo farà se ne andrà, lasciandomi sola con i miei mostri.
Mi piace Edoardo ma non potevo permettermelo, era troppo.
Prendo la borsa e scappo.
Dopotutto sono solo le 7:50, forse faccio ancora in tempo ad andare a scuola.
Sento una mano tirarmi indietro, sono stanca, vorrebbe spiegazioni che neanche io so dare.
"Okay senti. Mi conosci da due giorni, vuoi sapere che c'è? Spiegami solo come puoi minimamente permetterti di chiedermelo. Non so niente di te, ne ne voglio sapere. Semplicemente, per me non sei niente, come io non lo sono per te, come non la sarò mai."
Mi lascia, me ne vado.
Non mi volto, cammino e basta.
Vedo la fermata dell'autubus, controllo il tabellone, perfetto l'autubus che mi serviva era in arrivo.
7:55, entrerò in seconda.
†††
8:50, arrivata.
In effetti il viaggio era lungo, ma mi è piaciuto.
Ho dieci minuti per me, almeno, prima di riaffrontare quel caos.
Mi siedo e mi accendo una sigaretta.
Sembrerà banale, ma io ci credo.
Io ci credo negli avvertimenti sui pacchetti delle sigarette, è per quello che le compro.
Il mio preferito era "il fumo danneggia te e chi ti sta intorno".
Mi piace il fatto che, anche se per qualche minuto, gli altri siano danneggiati quanto me.
"Ehi ciao aspetti qualcuno o sei nuova?" 
Ritorno alla realtà.
Mediamente alto, capelli scuri, castani, occhi sul verde, non esattamente il mio tipo, ma oggettivamente non male.
"Sono nuova"
Dice di chiamarsi Matteo, mi presento.
"Non è che avresti una sigaretta? Sai stamattina ho fatto tardi e non le ho comprate..."
Voglio danneggiarlo, almeno un po'.
Gli do il pacchetto, suona la campanella, dice qualcosa che non riesco a sentire e corro via.
Meglio evitare più persone possibili, almeno per il momento.




 

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