Raccontami ciò che ancora non so

di Mel_mel98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il primo incontro ***
Capitolo 3: *** La prima festa ***
Capitolo 4: *** La prima mietitura ***
Capitolo 5: *** Grida di gioia, stupore e sollievo ***
Capitolo 6: *** Non voglio perderti ***
Capitolo 7: *** Alla scoperta del vero valore ***
Capitolo 8: *** Storia di una festa clandestina ***
Capitolo 9: *** Il primo amore. Vero, intenso, complicato ***
Capitolo 10: *** Non sei onnipotente ***
Capitolo 11: *** Benvenuto nei miei incubi ***
Capitolo 12: *** L'apparenza inganna anche sé stessa ***
Capitolo 13: *** Acqua ***
Capitolo 14: *** Solo sollievo ***
Capitolo 15: *** Di nuovo qui. Ovunque qui sia ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

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Prologo


Sedeva per terra, davanti alle porte a vetri che la separavano dell'ospedale del distretto 13.
Scossa dal pianto, disperata, non riusciva più a mantenere il controllo.
Perché Finnick era il suo equilibrio, e senza di lui tutto le sembrava più sfocato e senza senso. Aveva così tanta paura.
Paura di averlo perso per sempre.
Paura di non poterlo più abbracciare, paura di non sentire mai più la sua voce, la sua stupenda risata.
Si strinse su sé stessa, come se questo avesse potuto aiutarla a sopportare il dolore.
Era sempre stata debole di nervi, lei.
Ancora adesso, certe volte, si chiedeva come avesse fatto Finnick a riuscire a tirarla fuori dall'Arena.
Lei stessa non se ne capacitava. Come poteva non essere impazzita là dentro? Tutto quel sangue, quella violenza, quel dolore.

Si voltò di scatto, dopo aver sentito una presenza alla sua sinistra.
L'uomo che le si era appena seduto accanto indossava un cappello nero e dei mezzi guanti grigi.
La guardava con uno sguardo misto di superiorità e compassione. Sentimenti che ad Annie non piacevano per niente.
Tanta, troppa gente si era già permessa di guardarla in quel modo. L'avevano definita pazza senza sapere veramente chi fosse.
Guardò l'uomo ancora una volta, non aveva nessuna intenzione di parlare con lui.
A dire la verità, non aveva la forza di parlare con nessuno, in quel momento.
Ma quello continuava a fissarla, imperterrito.
Annie vide i suoi occhi farsi più dolci, le dita raggiunsero le sue guance e asciugarono le lacrime.
Lei rimase per qualche secondo immobile, scioccata.
Poi riprese a piangere più forte di prima. Anche Finnick faceva sempre così, per consolarla.

 

“Andiamo Annie, smettila di piangere.”- disse l'uomo, visibilmente dispiaciuto di non aver ottenuto il risultato sperato.
“Come posso smettere di piangere? Io non ci riesco!”- si lamentò l'altra di rimando.
“Dovresti fare i salti di gioia, invece. Il tuo uomo a quest'ora avrebbe potuto essere in una fogna di Capitol City, a far da spuntino agli ibridi lucertola... Direi che è stato fortunato.”
Annie emise un suono sordo, coprendosi la bocca con la mano. “E questa la chiami fortuna?!”
“Sì, senza dubbio. Laggiù sarebbe morto senza ritegno, quegli essere immondi lo avrebbero divorato senza tanti complimenti. Qui invece ha una possibilità: i medici del 13 sono molto competenti, dispongono di cure specifiche e strumenti adatti.”
“Haymich ma l'hai visto come è messo?!”- urlò Annie, fuori di sé. Sentì un conato di vomito sopraggiungere al solo pensiero. Ma forse era solo colpa della gravidanza.
“Annie, devi mantenere la calma per il bene di entrambi. Devi cercare di non andare fuori di testa, per favore.”- disse l'uomo serio.

Annie strinse i pugni. Parlava bene lui.
Non era sul punto di perdere la persona più importante di tutta la sua vita.
Non aveva un figlio in arrivo.
“Non è così semplice.”- disse soltanto, cercando di controllare il tono della voce.
“Lo so”- si sentì rispondere. E poi nient'altro.
Si sarebbe aspettata qualche incoraggiamento in più.
Qualcosa di più di una semplice frase fatta.

Ma il mentore non sembrava intenzionato ad andare avanti. Aveva smesso anche di guadarla.
“Senti, io non so come aiutarti. Mi hanno mandato qua, ma davvero io non so che fare. Qui la gente pensa di sapere tutto di tutti solo perché sono sopravvissuti alla distruzione totale, solo perché sono riusciti a creare da zero un distretto sotto terra perfettamente funzionante. Ma la verità è che non sanno un bel niente”- Haymich fece un attimo di pausa, e si voltò per guardare la ragazza negli occhi- “Non sanno proprio un bel niente. Credono di sapere cosa sia la vita solo perché hanno rischiato lo sterminio di massa. Ma non capisci veramente quanto importante sia la vita, finché non entri in un'Arena. Dico bene?”- il suo volto era distrutto, magro, scarno.

Inutile dire che il suo fosse poco più di un delirio senza troppo senso.
Ma Annie rimase in silenzio e si lasciò sfuggire un piccolo sorriso.
Gli Hunger Games ti cambiano fin dentro al midollo delle ossa.
E lei capiva, capiva davvero quello che Haymich le stava dicendo.
“Come posso io dirti di non piangere di fronte alla morte, o al rischio di questa? Entrambi l'abbiamo vista in faccia, ci abbiamo parlato, ce la siamo fatta amica in qualche modo. Entrambi l'abbiamo augurata e procurata a persone della nostra stessa età. Annie, capisco la tua paura. E mi sembra ingiusto dirti di smettere di disperarti”
“Certe volte le lacrime sono necessarie, inevitabili”- lo interruppe lei- “me lo disse Finnick quando mi faceva da mentore.”
Haymich la guardò, ammirato. “Non avrebbe potuto dirti niente di più giusto.”- commentò.

 

“Non mi va che tu mi faccia passare per una senza cuore”
Entrambi trasalirono all'udire di quella voce.
Ritta davanti a loro stava la presidentessa del distretto, vestita della sua solita tuta grigia. “So bene cosa vuol dire perdere qualcuno che ami”- disse in un soffio.
“Ah, ma per favore! Non mi faccia ridere. Mi vorrebbe raccontare che morte per epidemia e morte per mano di un uomo sia la stessa cosa? Ha visto sangue, udito suppliche, pianti di disperazione? Lei non lo sa cosa vuol dire partecipare agli Hunger Games, veder morire decine di persone, solo per il divertimento di qualcun altro. Non può capire per il semplice fatto che suo marito non è stato una vittima di Capitol City.”- rispose acido l'uomo.
La Coin rimase in attimo in silenzio.
Poi si chinò sulle ginocchia. “Te lo assicuro Annie, faremo tutto il possibile per salvare Finnick. Forse non so cosa avete passato durante i giochi, qua al nostro distretto non siamo stati costretti ad una simile tortura. Ma ripeto: so cosa stai passando. Per questo ti chiedo di essere forte, di non perdere il controllo. In questo momento non possiamo permettercelo, non sapremmo cosa fare per darti una mano. Dobbiamo stare all'erta per poter intervenire il prima possibile in caso di bisogno delle truppe a Capitol City.”

Annie annuì, non del tutto convinta. Non sapeva per certo se ce l'avrebbe fatta.
Si sentiva così confusa, così persa.
Le sembrava tutto parte di un orribile incubo.
Ma sentiva la pressione delle sue stessa dita sul palmo della mano.
Purtroppo, quella era la dura realtà.
“Lei non lo sa come mi sento, nessuno di voi può capire. Solo Finnick ci riusciva.”- mormorò, chiudendo gli occhi, come se cercasse dentro di sé la forza per sopportare un dolore troppo grande.

 

“Secondo me dovresti raccontargli dei tuoi giochi, Annie”- disse ad un certo punto Haymich- “Dovresti far capire alla nostra illustrissima presidentessa perché stai così male.”
La rossa ci pensò un po' su.
Da una parte sapeva che ricordare avrebbe fatto malissimo.
Ma dall'altra non aspettava altro.
Nessuno le aveva mai chiesto con sincerità cosa avesse passato nell'Arena.
A nessuno era mai importato veramente. Ma le parole del mentore le erano sembrate sincere.
Nonostante avesse colto il sarcasmo nella sua voce, aveva notato anche una certa curiosità.
Alla fine annuì muovendo piano la testa.
“E lei, signora Coin? Le andrebbe di ascoltare questa storia? Le andrebbe si sentire cosa succede, quando entri dove la Morte abita di casa?”- fece allora l'uomo, enigmatico.
“Ma certo”- rispose quella, dopo qualche attimo di incertezza.
“Allora la prego, si sieda qui con noi. I suoi doveri di presidente potranno aspettare.”
E così il racconto cominciò.
Parole di una ragazza timida, distrutta dal dolore e dall'amore.
Parole ad un tratto gridate, ad un tratto sussurrate.
Il racconto di ciò che la fece sorride, e di ciò che si insediò dentro di lei e le cambiò la vita.

 

 

 

Angolo dell'autrice
Salve a tutti! Non avete idea di quanto sia nervosa, sono giorni e giorni che lavoro per questa pubblicazione.
Vorrei iniziare queste note partendo dall'introduzione. Lo so, è drammaticamente penosa, mette davvero seria tristezza. Vorrei che non vi spaventaste ecco, non tutta la storia sarà così strappalacrime, anche perché questo è solo il prologo!
Come avrete certo potuto intuire, questa è una fanfiction dedicata a Finnick e Annie perché, come dice una persona che ammiro molto, avrebbero meritato più spazio all'interno della saga.
Citazione questa, che ci riporta immediatamente al titolo: “Raccontami ciò che ancora non so”.
Questa storia è nata appunto per dare più spazio a questi due personaggi, per scoprire lati della loro vita e del loro carattere fino ad ora rimasti nascosti.
Ovviamente i personaggi che entreranno in gioco in questa ff non mi appartengono (tranne qualche piccola eccezione), e questa è solo la mia personale versione dei fatti. Lo dico adesso, per non stare a ripeterlo ogni volta.
Bene, a questo punto, vi lascio liberi :)
Spero di trovarvi in qualche recensione, ci tengo molto a questo lavoro e mi piacerebbe vedere qualche parere.
Ma in ogni caso, grazie comunque a chiunque si arrivato fin qui.
A presto!

Mel

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Capitolo 2
*** Il primo incontro ***


 

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Il primo incontro


Sono sempre stata una bambina timida e riservata: per questo non ero molto popolare tra i ragazzi del distretto 4.
No, non ho mai avuto molte amiche, tranne qualche rara eccezione.
Ma questo non mi aveva mai pesato. Amavo il silenzio, la pace e tranquillità della solitudine. Dopo la scuola, nei giorni di sole, in genere mi divertivo a cercare le conchiglie e le perle sul fondo del mare, in un pezzo di costa nascosto da sguardi indiscreti.
Avevo dodici anni quando parlai con lui per la prima volta, quando ci scambiammo uno dei nostri primi sguardi.

Finnick è sempre stato bellissimo, persino da bambino.
È facile immaginare come a quattordici anni fosse sempre seguito da uno stuolo di ragazze desiderose di uscire con lui, sempre pronte a chiacchierare di qualsiasi cosa, sempre pronte ad elogiarlo e adorarlo.
Io lo conoscevo di vista, ma soprattutto per fama: la mattina, all'entrata della scuola, il suo nome nelle bocche degli altri precedeva il suo effettivo arrivo.
“Ecco, c'è Finnick!”, “Oh arriva, arriva!”, “Ciao Finnick!”. Sempre la stessa storia, ogni mattina.

Non avevo particolare interesse verso di lui, mi sembrava un po' superficiale, egocentrico, anche se in realtà non avevamo mai parlato davvero.
Mi ero sempre limitata a guardarlo da lontano, un'occhiatina ogni tanto.
Perché certamente non era una di quelle persone che passano inosservate.

 

Il giorno in cui mi resi conto che forse Finnick Odair non era proprio come me lo ero immaginato, era all'inizio dell'estate.
Un pomeriggio di sole, il mare cristallino mi chiamava suadente.
Impossibile ignorare quel richiamo, resistere alla voglia di buttarsi e nuotare tra le onde.
Il tempo di togliersi i sandali et voilà, completamente circondata dall'acqua.
Un bel respiro e mi immersi totalmente, spingendo per raggiungere il fondo, dove vedevo scintillare sassolini iridescenti.
Ed è così, che l'ho visto. O meglio, ho visto le sue gambe.
Stupita e in parte sconvolta di vedere qualcuno in quel lido che sembrava essere stato abbandonato dal mondo, sono risalita in superficie, per scoprire chi fosse il misterioso ragazzo.
Il tempo di pulire gli occhi dall'acqua salata, e me lo sono ritrovato davanti.

“Guarda chi si vede... Annie Cresta!”- ha esclamato.
Io devo aver fatto la faccia più ebete dell'universo, ma ero davvero sorpresa di vederlo lì, da solo.
E poi, il suo tono mi era sembrato così amichevole, dolce... come fossimo stati amici d'infanzia.
Anche se non c'eravamo mai davvero parlati, lui sapeva persino il mio nome.
Mi chiesi stupefatta come facesse, a sapere chi fossi. Io non ero certo pari a lui, in quanto a popolarità.
Persa nei miei pensieri, nelle mie riflessioni su quel misterioso ragazzo, non riuscivo più a focalizzare sul presente.
È una cosa che mi capita spesso, certe volte la mia mente è più forte del mio corpo.
E non riesco a collegare l'uno con l'altra.

A risvegliarmi è stato contatto di una mano fredda sulla mia guancia.
“Ehi!”- ho detto scuotendomi.
“Scusa...”- ha risposto lui sorridendo- “È che mi sembravi... sembrava che stessi sognando”- finì.
“Io non sogno con gli occhi aperti”- ho risposto stizzita, suscitando il suo stupore.
“Scusami, non volevo certo offenderti. Allora, che ci fai qui?”
“Avevo voglia di buttarmi in acqua, e non ho saputo resistere.”- ho detto senza neanche pensarci.
“Davvero? Anche a me capita spesso di non riuscire a trattenermi dal richiamo del mare. Ma a me piace di più pescare, che nuotare”- ha aggiunto mostrandomi il bastone appuntito che aveva in mano.
Gli ho sorriso, mi sarebbe piaciuto vederlo all'opera.

“Come mai oggi sei venuto qua? Io ci vengo sempre e non mi sembra di averti mai visto...”- ho mormorato dopo alcuni secondi, mentre le mie guance cominciavano a colorarsi di rosso per l'emozione.
“È vero, ma dove vado di solito c'era troppa confusione oggi, e non riuscivo a concentrarmi.”- ha detto semplicemente. “Troppe distrazioni”- ha aggiunto poi con un gesto della mano.
“E io ti distraggo?”- gli ho chiesto allora, temendo in una risposta affermativa.
“Sì”- e a quelle parole ero già pronta per girare i tacchi- “... ma in senso buono, quindi per favore, non te ne andare.”- mi ha sussurrato dopo, con un sorriso così bello da togliere il fiato.

Così sono rimasta, seduta su uno scoglio poco distante, come una sirena.
L'ho guardato lanciare il suo bastone contro i pesci che gli si avvicinavano, senza mai riuscire a smettere di sorridere.
Non ci siamo detti nient'altro, ma il suo sguardo mi faceva capire che andava bene così.
Ho desiderato davvero che quel momento fosse eterno. Perché non mi ero mai sentita bene come con quel ragazzo, mai nella mia vita.
La verità era che avevo sempre preferito la solitudine perché non ero capace di parlare, di fare conversazione come tutti gli altri adolescenti.
Ma con Finnick non ce n'era bisogno.
Lui mi guardava, e capiva a cosa stavo pensando. Ogni tanto la sua voce si aggiungeva ai miei pensieri, e così tornavo sulla terraferma.

La sera arrivò presto, nonostante le giornate cominciassero già ad allungarsi.
“Si sta facendo buio... che ne dici sarà meglio andare, no?”- e nel momento stesso in cui lo ha detto il mio volto si è dipinto di delusione.
“Ehi, non preoccuparti! Se vuoi domani possiamo ritrovarci qui, questo potrebbe diventare una sorta di nostro posto speciale, no?”- mi ha detto per consolarmi.
“Va bene”- ho acconsentito io, stupendomi di me stessa, di come mi importasse passare ancora un pomeriggio come quello in sua compagnia.
Abbiamo cominciato a camminare nell'acqua, che nel frattempo si era fatta un po' più fredda.
“Vuoi che ti accompagni fino a casa?”- mi ha chiesto dopo un po'.
“Come fanno i gentiluomini...”- ho ridacchiato io- “Sei davvero un gentiluomo o fai solo finta?”- gli ho chiesto poi.
Lui mi ha rivolto uno sguardo sicuro: “Certo che sono un gentiluomo!”- ha esclamato, battendosi la mano sul petto.
“Mi ero sbagliata su di te”- ho rivelato dopo un po' mentre camminavamo sulla spiaggia- “Pensavo fossi diverso, Finnick. Sei più...”- ma neppure io sapevo come esprimere quello che sentivo.
“Anche io mi sono dovuto ricredere. Pensavo che il silenzio fosse terribilmente noioso. Ma il tuo Annie... è speciale.”- ha detto allora, sorridendo.
“Grazie”- ho sussurrato, ormai eravamo arrivati praticamente di fronte a casa mia- “Ci vediamo domani, Finnick”

 

Il giorno seguente lo aspettai per tutto il pomeriggio in spiaggia.
Rimasi in attesa di un segno, un suono, un richiamo che mi facesse capire che non si era completamente dimenticato di me. Ma niente.
Per ore ho guardato il cielo fondersi con il mare all'orizzonte, con la testa piena dei miei soliti pensieri, e il cuore pieno di sentimenti nuovi.
Perché non avevo mai provato la delusione, prima di allora.
Non mi ero mai aspettata niente da nessuno, per questo nessuno era mai arrivato a ferirmi.
Ma lui non c'era, e per la prima volta mi sentii arrabbiata con me stessa, per averci anche solo sperato.
Quando lo vidi arrivare di corsa, trafelato, era troppo tardi.
Troppo tardi perché riuscissi a capire, troppo tardi perché potessi sperare che le cose sarebbero andate come la volta precedente.

“Annie!”- disse sedendosi accanto a me.
Vedendo il mio sguardo lontano rimase un attimo interdetto. Aprì la bocca più volte, senza sapere cosa dire.
“Mi dispiace di non essere venuto”- fece poi in un soffio- “È che stanno partendo le squadre per l'organizzazione della festa di Prima Estate e io sono capitato nella pattuglia che si occupa del cibo...”- ha iniziato a dire, dopo un primo momento di esitazione.
“Lo so”- l'ho interrotto io- “A scuola non si parla d'altro”
Lo vidi intristirsi per il tono della mia voce, e mi dispiacque davvero.
Non volevo che soffrisse per un mio comportamento infantile.
Ma sentivo la rabbia crescere dentro di me, e non riuscivo più a fermarla.
“Annie ascoltami, non volevo lasciarti qui ad aspettarmi inutilmente. È che mi sono lasciato trasportare dalla massa, e mi sono dimenticato...”
“... di me”- non riuscivo a far finta che non mi importasse.

Perché della sua presenza mi importava più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Anche se ci conoscevamo appena, anche se a onor del vero non eravamo neppure davvero amici.
Nonostante tutto, lo desideravo lì, accanto a me.
Mi voltai a guardarlo e vidi i suoi occhi, sinceramente dispiaciuti.
“Fa niente Finnick, mi passerà.”- gli ho detto con enorme sforzo.
“Davvero, perdonami.”- ha continuato lui.
E io sono rimasta in silenzio sperando che in quel silenzio entrambi potessimo trovare le risposte che cercavamo.

Dopo un po' mi sono alzata, ancora una volta si era fatto davvero tardi. “Devo andare adesso”
“Posso accompagnarti, come i gentiluomini?”- ha chiesto immediatamente, pregandomi con lo sguardo per una risposta affermativa, al quale ho risposto con un cenno del capo.
Il suo viso si è come illuminato ed è subito scattato in piedi.
Camminavo guardando per terra, senza il coraggio di alzare lo sguardo.
Le due metà di me stessa combattevano senza darsi sosta.
Da una parte volevo solo tornare alla normalità, dimenticare ciò che era accaduto il giorno precedente, per fermare quella strana sensazione che mi dilaniava dall'interno.
Ma dall'altra no, desideravo soltanto passare ancora del tempo con quel ragazzo.


“Senti Annie io volevo... volevo...”
“Sì...?”- l'ho spronato a continuare io, dopo essermi risvegliata dai miei pensieri.
“Volevo chiederti se ti va di venire alla festa. Con me, intendo.”- ha detto tutto d'un fiato.
Io sono rimasta di stucco. Impalata come un baccalà.
Per un attimo ho creduto che fosse uno scherzo, poi un sogno, poi una vera e propria visione.
Poi ho sentito la mano di Finnick sulla mia guancia. “Allora? Ti va di andare alla festa insieme?”
“Tra tutte le ragazze che ti girano intorno... tu hai scelto me.”- ho mormorato.
“Non sei obbligata... era solo una proposta...”- ha ribattuto- “E per la cronaca, tu sei molto più interessante di tutte le ragazze della mia età messe insieme. E mi è bastato solo un pomeriggio per capirlo.”
“Va bene...”- ho risposto io con un filo di voce, senza sapere cos'altro dire. 
E nel vedere il sorriso sul volto di Finnick ho capito che avevo risposto nel modo giusto.

 

 

 

Angolo dell'autrice
Salve! Eccomi qua, ad una settimana esatta di distanza dalla prima pubblicazione, con il primo vero e proprio capitolo di questa long.
Allora, ci sono un paio di cosette che vorrei precisare prima di lasciarvi definitivamente liberi...
Innanzitutto, il personaggio di Annie. Ho sempre pensato a lei come una ragazza timida, riservata e solitaria. Direi che in un certo senso l'ho descritta un po' come mi vedo io stessa. La adoro con tutto il mio cuore, ma cavolo quanto è difficile tentare di descrivere il suo comportamento.
Magari questa potrebbe non essere una visione condivisa da molti, ma io mi sono sempre immaginata Annie come una persona che ha difficoltà ad esprimere ciò che pensa, che non riesce a tenere mente e corpo uniti insieme. Credo che questa situazione ci fosse anche prima degli Hunger Games, e con questi sia solo peggiorata.
Ho tentato, non so se ci sono riuscita, ditemelo voi, di far uscire dalle parole il disagio che questa bimba prova di fronte alla novità, una novità che le cambierà per sempre la vita.
È davvero un'ardua impresa, so di non aver fatto il massimo, ma spero di riuscire a migliorare di capitolo in capitolo.
Tutto questo per spiegare la mia personalissima visione del personaggio perché, siamo sinceri, quando leggiamo ognuno di noi ha impressioni differenti riguardo ai protagonisti che entrano in gioco. Spero possiate apprezzare il mio punto di vista e, se così non dovesse essere, non vedo l'ora di leggere la vostra versione dei fatti.

Lo stesso vale per Finnick: è estremamente difficile riuscire ad immaginarlo teenager, dopo averlo visto combattere nell'Arena. Diciamo che anche per lui avremo un'evoluzione del personaggio con la partecipazione ai giochi.

Ultimissima cosa, la festa di Prima Estate. So che tutti dopo aver letto questo nome avete arricciato il naso, domandandovi che cosa diavolo fossi andata ad inventarmi. Tranquilli, le risposte a queste domande arriveranno in un capitolo futuro, dove i vostri dubbi saranno chiariti. Per adesso basta sapere che è una semplice festa di paese dei giorni nostri, ecco.

Detto questo, scappo. Credo di aver parlato da sola abbastanza.
Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate, sono molto curiosa di conoscere il vostro parere!
A presto, ci vediamo la settimana prossima.

Mel

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Capitolo 3
*** La prima festa ***


 

 

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La prima festa


È la sera della festa di Prima Estate, quella di una decina di anni prima.
Finnick vede le luci, gli addobbi di conchiglie alle porte delle casette del distretto, sente il profumo del pesce cotto alla perfezione, il dolce suono della musica soffusa.
Ma manca qualcosa, o forse qualcuno.
Si guarda intorno, cercando di capire. E poi si accorge della sua assenza.
Annie non c'è.
Non c'è in piazza a ballare, non c'è seduta in disparte con il vestito buono di un bianco immacolato. Finnick si allontana, comincia a camminare, prima lentamente, poi sempre più veloce.
Dovevano andarci insieme, ma nel posto fissato per il ritrovo della ragazza non c'è traccia.
Dove sei Annie?”
Allora comincia correre, verso l'unico posto che rimane.
Corre contro la folla di gente che si dirige allegra verso il centro del distretto.
Corre ignorando tutti che quelli che lo chiamano, che lo fermano, che lo toccano.
Perché se lei non c'è, qualcosa deve essere successo.


Quando lo vidi arrivare verso di me quella sera, avrei preferito sprofondare.
Mi dispiaceva così tanto di avergli dato buca.
Mi vergognavo come una ladra.
Sapevo di aver appena buttato al vento la mia occasione di passare la serata con Finnick Odair, occasione che molte ragazze cercavano di ottenere da mesi.
Ma proprio quella sera non ero dell'umore giusto per ballare e divertirmi.
“Ehi Annie...”- mi disse quando fu abbastanza vicino.
“Scusami, ti prego.”- ho risposto immediatamente, nascondendo la faccia tra le ginocchia.
Lui si è seduto accanto a me e mi ha sussurrato con tono dolce: “Tutto a posto?”- ed è stato come se la mia mente improvvisamente smettesse di pensare.
Quelle tre parole e... bam! Tutto vuoto.
Come faceva a sapere, lui? Come faceva a sapere che non era tutto a posto?
Perché questa è una di quelle domande che fai solo quando pensi che qualcosa non vada. Quindi lui sapeva, o perlomeno sospettava. Perché?
Avrebbe potuto semplicemente pensare che fossi una sciocca bambina presuntuosa, che non fossi andata con lui per ripicca per dispetto. Avrebbe potuto fregarsene di me, sarebbe riuscito a trovare un'altra compagna in un battito di ciglia se solo avesse voluto.
Ed invece era lì, da me.

Non gli risposi, mi limitai ad alzare la faccia, e a guardarlo negli occhi, con i capelli che mi ricadevano in malo modo su una parte del volto.
“Non è tutto a posto, vero?”- mi ha detto dopo un po', preoccupato- “Puoi dirlo a me se qualcosa non va.”
Ho scosso la testa, anche volendo, non avrei saputo da che parte cominciare a raccontare.
“Non importa, non... non è niente.”- ho mormorato- “Scusami tanto Finnick, non volevo farti preoccupare.”
“Non ti fidi di me?”- ha chiesto allora.
“No, non è questo...”- ho balbettato io, sull'orlo di una crisi di pianto. Non ce la facevo più a reggere la tensione. “È che non ce la faccio a parlare, in questo momento”- ho concluso, con un groppo alla gola.
“Va bene, non importa. Vorrà dire che me ne starò qui con te, finché non avrai trovato le parole.”
Rimasi stordita da quella risposta.
Non riuscivo a crederci, per quanto mi sforzassi.
A quel punto ho cominciato a tremare, il vento si era alzato ed io ero senza maglione.
Finnick si è stretto più vicino a me, si è tolto il suo e me lo ha messo sulle spalle, poi mi ha cinto la vita con il braccio.
“Non devi aver paura, Annie. Te lo giuro, di me puoi fidarti. Magari non sarò perfetto, mi lascio facilmente influenzare dagli altri, forse qualche volta faccio un po' il superficiale. Ma te lo assicuro, non sono cattivo.”

Ho appoggiato la testa sulla sua spalla per un secondo.
Stavo davvero scoppiando. Mi sono passata la mano sugli occhi e ho accomodato i capelli dietro l'orecchio.
Errore. Avevo scoperto troppo la guancia destra.
Nonostante fosse ormai quasi buio era impossibile non notare che qualcosa non andava.
“Annie, che hai fatto alla faccia?!”- ha esclamato Finnick, con un misto di preoccupazione e sgomento nel tono di voce.
E a quel punto le lacrime hanno cominciato a scendere giù, veloci, inarrestabili.
“Mi sono beccata un ceffone da mio padre. Forse più di uno a dir la verità. Lui e la mamma hanno cominciato a litigare, non so neppure io bene per quale motivo. È una cosa che capita, ma oggi era diverso. Mio padre pareva più arrabbiato di sempre, era rosso in faccia, e mia madre invece era sempre più pallida. Sembrava che tanto più lui diventasse colorito, lei diventasse più bianca. Dopo una ventina di minuti, anche se avevo una paura folle, sono entrata nella discussione, per cercare di fermarli. Ma, te l'ho detto, non sono mai stata brava con le parole.”
Parlai senza mai fermarmi, stringendomi sempre di più contro Finnick, cercando di controllare le lacrime, cercando di spiegarmi come meglio potevo.
Alla fine del mio breve racconto, non lo so che reazione mi aspettassi da parte sua.
Ma in ogni caso, come sempre d'altronde, lui riuscì a stupirmi.
Si avvicinò alla mia guancia e la baciò dolcemente. “Vedrai, passerà. Passerà il livido, passerà la paura, passerà l'arrabbiatura di tuo padre. Ne sono certo. Perché la vita è così. Tutto passa, prima o poi.”

E in quel momento ho pensato che ero stata una stupida a giudicarlo senza neppure conoscerlo. Avevo sbagliato su tutti i fronti.
Finnick Odair si mostrava a me per il ragazzo comprensivo, dolce, sensibile, saggio qual era.
La superficialità, la frivolezza, l'arroganza non facevano veramente parte di lui.
E ne fui felice.
“Grazie Finnick”- ho sussurrato, socchiudendo gli occhi.
“Di niente Annie. Ricordati, su di me puoi contare. Siamo amici, ed è questo che gli amici fanno: si fidano l'uno dell'altro”
“Non ne ho tanti di amici, io”- ho mormorato.
“Felice di essere uno dei primi”- ha detto allora lui, sorridendo. E così, ho sorriso anche io.

Finnck sorride, o almeno ci prova.
Ricorda bene quel giorno, lo vede davanti ai suoi occhi.
Vede la bambina dai capelli rossi, così piccola, così fragile.
Sente il suo cuore stringersi in una morsa di dolore per poi riaprirsi e riempirsi di un sentimento nuovo, vero.
Finnick sorride, e non può farne a meno.
Non può fare a meno di pensare che quella notte avrebbe potuto spaccare il mondo intero per lei.
Sarebbe voluto andare dal padre e cantargliene quattro, mostrargli quanto la figlia stesse soffrendo.
Tanto da non essere più capace di capire lei stessa i suoi sentimenti.
Ma aveva appena quattordici anni, cosa avrebbe potuto fare?
Finnick stringe quell'esile figura a sé, e dentro sa che non vorrebbe più lasciarla andare.
Ma la notte arriva veloce, la luna compare alta nel cielo ed arriva l'ora di tornare a casa.
Per tutta la sera non hanno aperto bocca, ma ne è certo, il silenzio di Annie è uno dei più belli e preziosi che abbia mai ascoltato.
Ci ho pensato sai? E ho capito che non è il tuo silenzio, ma sei tu ad essere speciale. Grazie per avermi permesso di restare con te.”- dice, muove le labbra con una certa emozione.
Grazie a te, per essere restato. Allora... amici?”
Certo, amici.”- ripete convinto.
Chi trova un amico trova un tesoro, gli avevano sempre detto.
Ma Annie, Annie era molto più di un tesoro.
La vede sparire dietro la porta di casa sua, le lancia un ultimo sguardo e poi si gira.
Comincia ad avviarsi verso la strada principale, poi tutto si fa meno nitido, poco chiaro.
Allora Finnick chiude gli occhi, e non vede più niente.




Angolo dell'autrice
Ma buona sera! Che bello rivederci (si fa per dire...), dopo tutto questo tempo!
Chiedo davvero perdono per avervi abbandonato durante le ultime due settimane: sono stata davvero molto impegnata con lo scambio culturale, tanto che erano giorni che non mettevo le mani sul mio adorato computer!
Comincio subito col ringraziare coloro che hanno recensito i precedenti capitoli, ho apprezzato davvero tanto le vostre parole.
Su questo aggiornamento non ho molto da dire, tranne che da questo capitolo in poi, verrà introdotto come avrete potuto notare durante la lettura, anche il punto di vista di Finnick, che non sarà quello principale, ma che certamente mi aiuterà ad inquadrare meglio la situazione.
Diciamo che dovete interpretarlo come una specie di sogno, ciò che lui vede e sente mentre è ipoteticamente sotto i ferri nell'ospedale del tredici.

Detto questo, credo di essere a posto, questa volta sono stata abbastanza breve, anche perché il capitolo stesso è piuttosto corto.
Che altro se non,
ci vediamo nelle recensioni? Sono curiosissima di sapere cosa ne pensate di questo episodio... Spero vi sia piaciuto almeno la metà di quanto è piaciuto a me scriverlo!
A presto,

Mel

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Capitolo 4
*** La prima mietitura ***


 

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La prima mietitura

Finnick respira, adesso come allora. Un respiro confuso, stanco, però respira.
Ha paura.
Ha paura per se stesso, per lei, una sensazione orrenda gli attraversa tutto il corpo.
Questa è la mia prima mietitura”- sente Annie mormorare piano.
Sì, fa sempre questo strano effetto, la mietitura”- le dice, cercando di apparire forte, sicuro di sé- “Ma vedrai, anche questa, passerà”
I minuti sono interminabili, le stesse immagini passano davanti ai suoi occhi per l'ennesima volta.
Pare sia colpa loro se a Panem 65 anni prima è scoppiata la rivoluzione.
Sì, sembra proprio così.
Eppure lui non capisce bene: che c'entrano dei ragazzini dai 12 ai 18 anni con una rivolta nata e morta prima di loro?

 

Del giorno della mia prima mietitura ricordo l'odore di cannella che aleggiava in tutta la piazza.
Proveniva dalla capitolina che estraeva i nomi dei partecipanti ai giochi.
Mi riempì le narici quando presi posizione accanto ad alcune mie compagne, e non se ne andò più, nonostante la presentatrice fosse su un palco distante diversi metri da noi.
Avevo sempre amato l'odore della cannella, mi faceva pensare alla torta che mia madre mi preparava ogni anno per il compleanno.
Ma ciò nonostante, quel profumo non era in grado di calmare la guerra di sentimenti orribili che scoppiava dentro di me.
Mi tremavano le gambe, e dentro al vestito di lino mi sembrava di sparire.
Forse, in un certo senso, sparire era tutto ciò che desideravo.

Non pensavo a niente in particolare, ma la mia testa era comunque in confusione.
Di quelle immagini che vedevo nel grande schermo posizionato di fronte al palazzo di giustizia per l'occasione capivo poco o niente.
Mi sembravano confuse, tutte buie e piene di fumo. Sentivo spari, scoppi, e intanto la voce in sottofondo continuava a parlare.
“Quel filmato dovrebbe a giustificare l'atto scellerato di gettare in un'arena 24 ragazzi e di costringerli ad ammazzarsi a vicenda, ma Annie te lo assicuro, non fa che confermare il fatto che questa è solo una prepotenza, solo un'ingiustizia, solo un divertimento meschino”- mi aveva detto Finnick qualche ora prima, quando era venuto a prendermi a casa.
E io gli credevo, con tutta me stessa. Credevo a lui più che a chiunque altro.

Mi voltai verso la zona dove erano raccolti i maschi, e incontrai il suo sguardo: mi stava fissando.
Con gli occhi un po' vuoti, disperati.
Cercai di mettere a fuoco quell'immagine, di tornare con i piedi per terra.
In un primo momento non riuscii ad afferrare il perché di quello sguardo perso, lui che ai miei occhi si era sempre voluto mostrare forte e per certi versi, superiore.
Una voce gli fece voltare la testa, e io feci lo stesso.
Lo stavano chiamando.
Scoprire a chi apparteneva quella voce stridula e leggermente amplificata, e sprofondare nello sconforto fu tutt'uno.
La capitolina sul palco stringeva un biglietto in mano e continuava a gridare a gran voce un nome. Mi concentrai sulle sue labbra, strinsi i pugni nel comprende di che nome si trattava. Il suo.
“Finnick Odair, dove sei?”

E in quel momento capii anche il perché di quel brusio in sottofondo, che mi distraeva terribilmente.
Era per lui.
Tutti i ragazzi presenti gli stavano regalando una nuvola di sospiri, discorsi inutili e lamentele.
Il ragazzo più amato, più ammirato, e più invidiato per certi versi stava lasciando il distretto.
“Bene Finnick, saluta la tua compagna con una bella stretta di mano!”- sentii dire alla presentatrice.
Lo vidi avvicinarsi a quella ragazza, di cui sinceramente non conoscevo neppure il nome, e senza minimamente sorridere fece ciò che doveva.
Dopo quel gesto il suo sguardo tornò a posarsi su di me, lo sentivo pesante sulle mie spalle come un macigno.
Ma risposi continuando a fissarlo, cercando di contenere tutte le emozioni che galleggiavano nel mio cuore.

Il suo volto seriamente preoccupato mi faceva stare male, il pensiero che l'indomani l'avrei visto in televisione piuttosto che nel nostro solito posto, mi uccideva.
Avrei voluto correre verso di lui, ma ero completamente bloccata.
Mente, corpo, anima. Fissi sulla sua immagine, in procinto di entrare nel palazzo.
In pochi minuti la piazza si svuotò, ed io rimasi sola, intrappolata nei pensieri più brutti che avessi mai avuto.
Lo sapevo, lo sapevo bene che dagli Hunger Games non si torna indietro. Ogni anno partivano ragazzi che venivano rispediti al distretto impacchettati in eleganti tombe di mogano scuro.
Pensai a Finnick, chiuso in una di quelle scatole, e il mio stomaco si strinse su di sé talmente forte che mi ritrovai piegata in due a vomitare per terra.

Fu mia madre a raccogliermi e ad aiutarmi a rimettermi in piedi.
“Hanno... hanno estratto il nome del tuo amico”- disse, come se non lo sapessi già.
Rimasi in silenzio, come sempre del resto. Non valeva la pena di rispondere.
E poi, cosa avrei potuto dire? Il mio viso parlava da solo, non aveva bisogno di spiegazioni.
Mia madre mi accompagnò fino all'entrata del palazzo, fino alla stanza delle visite.
“Dai, Annie, andrà tutto bene. Adesso vai a salutare il tuo amico, io ti aspetto qua.”
Ma non ero sicura di voler entrare.
Non ero sicura di cosa gli avrei detto perché non avevo davvero la minima idea di cosa dire in un'occasione del genere.

Il pacificatore aprì lentamente la porta e mi fece forza con una leggera pacca sulla spalla.
Mossi qualche passo nella stanza arredata vecchio stile e raggiunsi Finnick, seduto dall'altra parte su un divanetto rosso.
Mi sedetti vicino a lui e appoggiai una mano sul suo ginocchio.
“E adesso Finn? Non mi hai detto di quello che succede quando annunciano i nomi dei due partecipanti”- ho detto fissando un punto indistinto sul pavimento, con le lacrime agli occhi.
“E chi lo sa, cosa succede a questo punto?”- ha risposto sospirando sonoramente- “Te lo racconto quando torno, d'accordo?”- ha bisbigliato al mio orecchio, sorridendo malizioso.

Allora l'ho abbracciato.
Senza pensare, senza riflettere su se quel gesto fosse troppo avventato o no, mi sono lanciata al suo collo, e lui mi ha restituito l'abbraccio.
Siamo rimasti così per qualche secondo, immobili, e adesso lo so, entrambi piangendo silenziosamente.
Sentivo il cuore di quel ragazzo scoppiare contro il mio petto.
Il mio amico stava partendo per gli Hunger Games ed aveva solo quattordici anni. Le probabilità di rivederci ancora erano praticamente nulle.
“Tornerò Annie, puoi fidarti di me”- ha detto dopo un po'.
“Io mi fido di te, Finnick.”- ho risposto io, pulendomi gli occhi, sorridendo.
Appena in tempo perché il pacificatore aprisse la porta e mi prendesse di peso, per portarmi da mia madre.

 

Finnick si sente sprofondare nel divanetto, si sente pesante come uno scoglio.
Sa di averle promesso qualcosa più grande di lui, ma cos'altro avrebbe potuto dire ad un'amica con il cuore spezzato?
Finnick sussulta, piange, si dimena dal dolore.
Non credeva, ma la paura, quella vera, fa un male cane, un male fisico che ti distrugge.
Fa un rapido calcolo e lo sa, nessuno alla sua età ha mai vinto i giochi.
Però in qualche modo deve provarci, non vuole arrendersi senza combattere.
Ha il fascino dalla sua, e se è tutto solo un gioco per Capitol City, allora lui giocherà con loro.

La porta si apre, e in pochi attimi si ritrova su un treno diretto a Capitol.
Lì incontra il suo mentore, una signora sulla settantina che a vederla così non si capisce come abbia fatto a vincere.
Se ce l'ha fatta lei, posso farlo anche io”- pensa in quel momento.
Lo so a cosa stai pensando”- gli dice la signora con tono scherzoso- “E credo che tu abbia ragione”
Finnick la guarda perplesso, non capisce se sia un bluff o meno.
Perché chi combatte con il cuore possiede tutta la forza necessaria per vincere. Ma ci vuole anche un po' di intelletto”- fa una pausa ad effetto, sorridendo- “E io sono qui per questo.”

Finnick guarda quella donna, e decide che gli piace da impazzire.
Vede nei suoi occhi buoni la saggezza e l'esperienza che lui stesso vuole acquistare.
Come fai a sapere che combatto per qualcuno?”- chiede allora. Che sia una maga?
Ma adesso lo sa, Mags non era una maga.
Aveva solamente imparato ad osservare il comportamento di chi le stava attorno.
Ora stringe il pugno, ma non è sicuro di farlo davvero.
Non sente più le mani, né nessun'altra parte del corpo, ad essere sinceri.
Gli manca Mags.
Gli manca davvero tanto, quella donna che negli ultimi dieci anni era stata il suo punto di riferimento.

 

 

Angolo dell'autrice
E boh, dopo intere settimane, eccoci di nuovo qua. Mi sei mancato, caro fandom di Hunger Games!
Quale modo migliore per festeggiare (Davvero? Davvero voglio illudermi fino a questo punto?!) il rientro a casa dopo uno sfiancante scambio culturale in Belgio? Esatto la pubblicazione del nuovo capitolo, il terzo se non contiamo il prologo, di questa storia.
Spero vi sia piaciuto, alla fin fine non mi sembra poi tanto male rileggendolo, no? Aspetto il vostri pareri con ansia.
Non c'è molto da dire secondo me, il capitolo parla sostanzialmente da sé per quello che è: l'evoluzione del rapporto tra Finnick e Annie attraverso i fatti detti e mai narrati dalla trilogia della Collins. Questo giusto per rinfrescare la memoria.

Che dire quindi? Grazie davvero per la lettura, i commenti sia positivi che negativi sono più che graditi. Ci vediamo nel prossimo aggiornamento, che dubito sarà tra una settimana, ma potrei anche decidere di pubblicare per Pasqua se trovo la connessione buona.
Quindi arrivederci a quando-chi-lo-sa!

Sempre io, la vostra Mel.

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Capitolo 5
*** Grida di gioia, stupore e sollievo ***


 

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Grida di gioia, di stupore e di sollievo


Furono i primi giochi che seguii dall'inizio alla fine.
Gli anni passati, anche se era obbligatorio guardare la diretta dall'arena, non ce l'avevo mai fatta a tenere gli occhi aperti.
Il sangue mi faceva inorridire, le grida di disperazione di quei poveri ragazzi mi spaventavano, persino gli overcraft che scendevano per raccogliere i cadaveri mi terrorizzavano.
Ma quell'anno fu tutto un po' diverso.
Decisi che se Finnick si stava impegnando per tornare a casa io mi sarei impegnata a dargli il mio sostegno.
Pendevo dalle labbra del presentatore, pregavo per vedere ancora una sua immagine, desideravo con tutta me stessa poter osservare ancora una volta il suo volto, anche se scarno e distrutto dal dolore.
Perché lo vedevo nei suoi occhi, il dolore che provava.
Era più mentale che fisico, perché nonostante lo avessi visto combattere tante, troppe volte, non aveva mai riportato ferite consistenti.
Qualche graffio sì, ma niente di grave, fortunatamente.
Finnick era bravo, se la cavava niente male per la sua età.
A giochi appena iniziati gli era arrivato in dono un tridente e da lì in poi non lo aveva più fermato nessuno.
Avrei dovuto essere felice, perché i giorni passavano e lui resisteva.
Ma non lo ero. Desideravo più di ogni altra cosa al mondo che lui vincesse, ma nonostante tutto, ogni giovane che moriva per mano sua era un colpo allo stomaco.
Sapevo che là dentro non c'era nient'altro da fare, me ne ero presto resa conto.
Ma quel sangue, quelle urla, erano troppo per me.
Da una parte avrei voluto fermarlo, dall'altra sapevo che quella era l'unica via della salvezza.

 

Geme, disteso prono su una superficie troppo dura per la sua schiena martoriata.
Respira faticosamente, si sente accaldato e ha i brividi nello stesso esatto momento.
Ripetersi che andrà tutto bene è inutile, perché in questi casi non serve a niente.

Finnick sente come una voce metallica, lontana.
Coglie solo qualche parola ogni tanto, ma il significato gli è ben chiaro: la fine degli Hunger Games si avvicina a grandi passi.

La sua fine, o quella dell'altro concorrente.
Esce dal suo nascondiglio, con il tridente in mano e gli occhi di fuoco.
Non perderà. Lo sa. E se non perderà quindi... vincerà.
Ma quello di Finnick non è un ricordo piacevole, nonostante lo riconduca ad una vittoria.
E perciò continua ad agitarsi, in preda alle convulsioni, accerchiato dalla paura. Fa così male.
Come una lama conficcata nel cuore.
Come una corda attorno al collo, stretta a tal punto da toglierti il respiro e lasciarti da solo con una sensazione di bruciore irresistibile.

 

Tutti stretti in piazza come sardine, e di sardine era l'odore che si respirava.
Ma anche odore di speranza, fiducia, una sorta di eccitazione.
Era ben chiaro a tutti i presenti: stava per accadere qualcosa di sensazionale.
Nessuno aveva la certezza che Finnick avrebbe vinto, ma ognuno in cuor suo ci sperava, e viveva delle proprie speranze. Io più di chiunque altro.
Lo schermo appeso davanti al palazzo di Giustizia era illuminato da giganteschi proiettori, e ogni occhio era fisso in quella direzione.
Tutti seguivano Finnick con lo sguardo, con il fiato sospeso.
Le sue immagini era intervallate a quelle dell'altro tributo, entrambi camminavano furiosamente, entrambi convergevano nella stessa direzione: il laghetto posto a nord dell'Arena, unica fonte d'acqua.
Passavano i minuti, a cui facevano da sottofondo le parole dei due commentatori dell'evento.
Dalle loro voci era intuibile come loro aspettassero il momento dello scontro finale quanto noi.

Alla fine, i due ragazzi entrarono nella stessa immagine, separati soltanto dall'acqua torbida del lago.
Rimasero a studiarsi per tanto tempo, pensando chissà a che cosa.
Un lungo momento di calma, silenzioso e spaventoso.
Poi, l'altro tributo squarciò quell'apparente quiete sfoderando la sua arma.
Dall'inquadratura stretta sul suo volto provai ad indovinare la sua età. Sarà stato più o meno sui diciassette anni.
Era contratto in un'espressione di disgusto, dedicata a chissà cosa.
Magari a Finnick, magari a Capitol City.
Magari al sistema, magari a sé stesso, al gesto che stava compiendo.
I due si trovarono a due metri di distanza e cominciarono a picchiarsi, ferirsi l'un altro, come fosse un gioco.
Io continuavo a guardare, con le lacrime che scorrevano copiose e inarrestabili lungo le mie guance.
Ogni botta la sentivo rimbombare nello stomaco, ad ogni taglio mi bruciava in bocca il sapore del sangue.

E dopo colpi innumerabili, quando ormai non riuscivo più a distinguere le due figure impresse sullo schermo, sentii il rumore del cannone.
Poi un mormorio, sempre più forte, sempre più forte, trasformarsi in grido.
Un grido di gioia, di stupore e di sollievo.
Perché il distretto 4, dopo tanti anni, aveva vinto gli Hunger Games.
Finnick aveva vinto, aveva ucciso anche l'ultimo concorrente.
“Congratulazioni, Finnick Odair!”
Mentre tutti intorno a me ridevano, cantavano, si abbracciavano come fosse capodanno, io rimasi a fissare quel video, incredula.
Perché quel vincitore non sembrava avere proprio niente del Finnick Odair che conoscevo, del mio Finnick Odair.
Mi ritrovai a chiedermi se sarebbe mai tornato.
Se in quegli occhi avrei più rivisto la stessa luce.
Ma adesso lo so, dall'Arena non si torna più indietro.

 

 

Angolo di quella ritardataria cronica dell'autrice
Salve a tutti! Ebbene sì, dopo non so quante settimane di ritardo sono tornata, con un nuovo capitolo!
Spero sia di vostro gradimento, personalmente non mi fa impazzire, anche se ho dato il massimo per scriverlo in maniera decente. Ditemi voi cosa ne pensate, adesso più che mai ho bisogno di pareri!
Perciò, cari lettori, se fino ad adesso avete letto, per favore fatevi avanti: mi bastano anche solo due paroline, giusto per capire se mi sto muovendo nella direzione giusta o meno.
Sul capitolo in sé non credo ci sia molto da dire. Semplicemente la vittoria di Finnick vista dagli occhi di Annie. E nel prossimo, il suo ritorno a casa!
Ci vediamo presto!

Mel

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Capitolo 6
*** Non voglio perderti ***


 

Non voglio perderti

 

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“Hai paura di me, vero?”
Quella domanda mi fece tremare tutta. Mi sentii mancare, avrei preferito essere costretta a non parlare mai più, piuttosto che aprire la bocca per rispondere. Perché non sapevo davvero che fare.
Cosa dire, in una situazione del genere? A chi dovevo dare retta? A quello che sentivo, o a quello che avevo visto?
“Pensavo fossimo amici, Annie.”- mi disse allora, e fu come un pugnale dritto nel cuore.
“Lo siamo”- mi affrettai a ribattere, anche se con scarsa convinzione nella voce.
“E allora perché ieri non sei venuta alla stazione?!”- fece con una nota di rabbia.
Mi dispiaceva così tanto, mi sentivo malissimo al pensiero di ciò che avevo fatto. Lui era tornato dagli Hunger Games, dopo giorni orribili e durissimi. E io non ero neppure andata a salutarlo.

Ma la verità è che sì, avevo avuto paura.
Nella mia testa le immagini rimangono impresse per molto tempo, e lo sguardo di Finnick nel momento in cui uccideva l'ultimo tributo non se n'era ancora andato. E non penso di essermelo scordato tutt'ora.
Avevo avuto paura, paura di ciò che avrei visto, una volta alla stazione. Di sapere se dal treno sarebbe sceso il mio Finnick, o solo la brutta copia assassina e spargitrice di sangue. Adesso lo so che sono stata ingiusta con lui. Ma avevo solo dodici anni e per farmi venire gli incubi bastavano gli schiaffi di mio padre.

“Allora?!”- lo sentii alzare la voce e, data la mia non intenzione di rispondere, andare via.
Avevo le lacrime agli occhi, stavo perdendo il mio amico. L'unico e solo. Ed era tutta colpa mia, tutto nella mia testa.
Decisi di seguirlo, attraversammo l'una dietro l'altro il centro abitato per raggiungere il nostro solito posto.
“Perché mi segui? Se ti faccio paura, lasciami in pace, come io lascio in pace te.”
No, non volevo. Perché se l'avessi lasciato stare probabilmente l'avrei perso per sempre.

Non riuscivo a dire niente, non riuscivo più neppure a ragionare.
I miei pensieri come sempre stavano prendendo il sopravvento, stavano intasando la mia mente e mi stavano rendendo incapace di rimanere connessa con la realtà. Mi vedevo nell'arena, in mezzo a tutto quel sangue, tutti quei morti.

 

“Ehi, Annie, che hai?”- sentii dire a Finnick, ma mi arrivava come una voce lontana e poco chiara. Continuavo a cercare di mettere in ordine tutti quei ricordi ingarbugliati, ma sembrava tutto inutile.
Mi sentivo sopraffatta dalle emozioni.
Avevo paura di lui.
No, non di lui, di quello che era capace di fare.
Avevo paura delle sue mani, del suo sguardo glaciale.

“Annie! Annie!”- il mio nome non mi ricordava niente di familiare. Non ero più sicura neanche di quello.
Ero arrivata a pensare che fosse stato tutto un sogno diventato incubo. Che non esistesse nessun Finnick Odair, che non avessi nessun amico maschio, che fossi sempre solo e soltanto la ragazzina solitaria che raccoglie le conchiglie sul fondo del mare.

 

Finnick vede Annie arrendersi al dolore, ai suoi tremendi pensieri.
È come un pugno allo stomaco, vederla così lo distrugge profondamente. Non vuole perderla, di questo ne è certo.
Il suo cuore batte forte per l'agitazione. Deve risvegliarla prima che sia troppo tardi.
Finnick si dimena, cerca un modo per calmare quella bimba disperata.
È come se provasse il mio stesso dolore, pensa, e pensa giusto.
Oggi sa che Annie ha provato sulla sua pelle gli effetti dell'Arena ancora prima di entrarci.
Empatia, sensibilità. Pazzia. La si può chiamare come si vuole. Il punto è, che la sua è elevata all'ennesima potenza.
La chiama, ma qualcosa non funziona, qualcosa non va.
O la sua voce è troppo fievole, o lei è già troppo lontana.

 

Come sempre succede in questi casi, le lacrime arrivarono da sole.
Indesiderate e inopportune, ma nessuno è in grado di controllarle, figuriamo io in certe condizioni.
Mi accasciai a terra, premendo sulle tempie per far smettere quel dolore infernale nella mia testa.
Poi, finalmente, qualcosa di davvero familiare mi riportò alla realtà.
Mi sentii stringere, sentii il profumo di cannella riempirmi le narici, una voce soave nella mie orecchie: “Annie, tranquilla, ti prego... lo sai, io non sono perfetto, ma non sono cattivo. Non farei mai del male a te, o qualcun altro. Non posso spiegarti adesso perché là dentro ho agito così, ma te lo assicuro, non ho intenzione di ripetere nessuna delle azioni che ho commesso.”

Aprii gli occhi, come accecata da tanta sincerità.
“Scusami Finn... Io non volevo...”
“Va tutto bene, va tutto bene”- disse passandomi una mano tra i capelli.
Lo guardai negli occhi, ancora mezza sconvolta. “Io non sono come te.”- mormorai piano.
“Che vuoi dire?”
“Io non ci riesco, non riesco a fingere. Tu invece riesci a dire che va tutto bene con una naturalezza disarmante. Anche se niente va bene dopo quello che è successo, vero?”

Rimase in silenzio, soppesando quelle parole. “Non lo so neppure io Annie, se va tutto bene o no. Ma in questi casi sembra la cosa più facile da dire.”- ammise.
Io mi strinsi più forte a lui, nascondendo la faccia nella sua maglietta.
“Sono una stupida”- dissi- “Che ci trovi in me Finnick? Perché sei qui, perché tutte le volte che annego nella memoria tu arrivi sempre a tirarmi fuori?!”- gridai, fuori di me. Non ero arrabbiata, solo sconvolta.

“Non sei stupida. Sei solo fragile, prima sono stato troppo duro con te. Non volevo farti stare male Ma vedi... forse anche io in questo momento sono più fragile di prima. La gente pensa che quando esci dagli Hunger Games tu sia diventato una roccia, imbattibile e per certi versi, insensibile. Ma non è così, per niente.”- mormorò, e nel suo volto potei vedere la fragilità di cui mi parlava.
Sentii una stretta al cuore, mi faceva male vederlo soffrire.
“Gli Hunger Games ti distruggono, distruggono il tuo essere più profondo. Ti cambiano, certo. Ma se c'è una cosa che non fanno è renderti più forte. Sono debole, e mi dispiace che tu faccia le spese di una mia debolezza.”- continuò.
No, io non lo pensavo, né mai l'avrei pensato.
Di tutto quello che sentivo dentro di me, lui era responsabile solo dei sentimenti positivi.
Capii che forse, se non ero andata alla stazione, c'era rimasto male perché mi stava aspettando. Lo avevo deluso. Aspettava me per tornare alla normalità, per tornare di nuovo ad essere un'adolescente.
Restai in silenzio, prendendolo per la mano. Ero decisamente più brava a stare in silenzio che a parlare.

“Come fai a chiederti che cosa possa trovare in te”- disse dopo un po', guardandomi con dolcezza- “Non ho mai conosciuto nessuno che riuscisse a parlare nel silenzio, come fai tu. Di tutte le persone del distretto, nemmeno una ha la tua sensibilità. Chiunque riuscirebbe a conquistare con un bel discorso studiato, ma tu, tu ci riesci senza parlare. Non voglio perderti, Annie. Farò di tutto per non farti più avere paura.”
“Io non ho paura”- dissi con un'insolita convinzione- “Basta che tu mi prometta una cosa, una sola.”
Lui mi appoggiò la mano sulla spalla. “Dimmi.”
“Non mi raccontare che cosa succede dopo che hanno estratto i nomi dei tributi. Non credo di volerlo sapere.”- sussurrai, quasi con vergogna.
Anche se in realtà sapevo esattamente cosa accade, non volevo più parlarne. Non volevo più saperne dell'Arena.
Lui sorrise, ed io mi illuminai.
Era ancora il Finnick che conoscevo. Quel sorriso ne era la conferma.
“Ma certo. Ti prometto che non te lo racconterò.”- acconsentì, abbracciandomi.

 

 

Angolo dell'autrice
Bene, salve a tutti (ma tutti chi?) oggi sarò meno prolissa del solito in questo angoletto perché il tempo stringe e io deve scappare. E poi ad essere sinceri non c'è poi molto da dire.
Volevo solo scusarmi enormemente per questo ritardo, maggio allo scientifico è l'inferno, contrappasso per analogia perfetto per chi come me in genere lascia indietro le materie credendo di essere in grado di riprenderle in seguito.
Bene, basta sennò cado nell'autocommiserazione e non credo sia il caso.
Un commentino, soprattutto in questo periodo non particolarmente roseo sarebbe davvero gradito, anche due parole credo riuscirebbero a farmi felice come una Pasqua.
Grazie a chi è arrivato fino a qui, e anche a chi legge in silenzio, apprezzo ugualmente lo sforzo! ;)
A presto (si fa per dire, ovviamente, ormai mi conoscete)

Mel

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Capitolo 7
*** Alla scoperta del vero valore ***


 

Alla scoperta del vero valore

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Passarono anni e, in uno modo o nell'altro, le cose tornarono a quella che entrambi definimmo normalità. Non era tutto come prima, ma almeno era qualcosa che ci si avvicinava molto.
Dopotutto, l'ho già detto: dall'Arena non si torna mai indietro.
Passavamo la maggior parte del tempo insieme, dopo la scuola, e questo provocava non pochi pettegolezzi.
In giro si cominciavano ad udire voci sulla nostra ipotetica storia d'amore, su cosa facessimo tutte le volte che insieme sparivamo per pomeriggi interi.
In realtà non è che facessimo niente di speciale, anzi parlavamo poco e i nostri scambi erano fatti per la maggior parte di sguardi; ma in fondo, era ciò di cui entrambi avevamo bisogno.
Con Finnick mi sentivo leggera, libera dai pensieri tristi, e sempre più di rado mi accadeva di perdermi. E poi con lui non temevo, sapevo che sarebbe sempre riuscito a farmi tornare.
Ma, ad essere sincera, a quattordici anni qualcosa in me cambiò.
Ero contenta di averlo come amico, ma d'altra parte sentivo anche il bisogno di qualcos'altro.
Mi piaceva, mi piaceva da morire.
Tutte le volte che qualcuno faceva il suo nome, io mi ritrovavo con il volto in fiamme, suscitando le risate di tutti i presenti.
Il mio dubbio però rimaneva sempre lo stesso: cosa pensava lui di me?
Un pomeriggio ce ne stavamo seduti in piazza all'ombra, era un'estate piuttosto afosa e andando in spiaggia avremmo sicuramente rischiato l'insolazione.
Così ce ne stavamo seduti a gambe incrociate, parlando delle piccole cose, intrecciando reti da pesca, passione di molti al distretto 4.
Giocavamo a chi fosse il più veloce dei due, e nonostante avesse due anni in più di me, riuscivo sempre a batterlo.
“È che tu hai le dita più lunghe e fini delle mie! La corda praticamente si intreccia da sola!”- ribatteva ogni volta, facendomi ridere. Perché sapevo che mi faceva vincere.
“Sì, come no!”- dicevo io, guardandolo sospettosa.
“Te lo giuro!”- faceva allora alzando le mani.
“Ah, ma va'! Se mi fai vincere apposta non ci gioco più con te!”- mi lamentavo io, anche se entrambi sapevamo bene che non lo avrei mai fatto.
Quel giorno eravamo particolarmente su di giri, e a forza di punzecchiarci finimmo entrambi intrappolati nella rete che stavamo costruendo. Scoppiammo a ridere, quando ci rendemmo conto che non eravamo più capaci di uscirne fuori.

“È colpa tua Finn, sei tu che mi hai spinto”- lo rimproverai con un sorriso.
“Ma che dici! Sei tu che mi hai trascinato in questo groviglio!”- disse, poco prima di riuscire a districarsi. “Ah, ecco fatto! Vieni, ti aiuto io.”
Stava giusto per liberare i miei piedi dalla stretta di una corda, quando il suo nome risuonò per tutta la piazza: “Finnick Odair!”
Ci voltammo entrambi, per scoprire che era stato un Pacificatore a chiamarlo.
“Merda”- sibilò lui tra i denti. Succedeva sempre più spesso, che lo venissero a chiamare durante il pomeriggio. “Tranquillo Finnick, vai pure, io posso aspettare”- gli dissi calma.
“Proverò a fare presto”- mormorò, arrabbiato per come si stava mettendo la situazione.
Lo vidi allontanarsi e parlare concitatamente con quell'uomo. Anche da lontano si vedeva chiaramente che era fuori di sé.


“Annie... io...”- disse quando tornò da me poco dopo.
Era triste, abbattuto. Il suo volto era tornato buio. Mi dispiaceva tanto vederlo così.
“Se devi andare, vai pure Finn”- finii io, cercando di sembrare il più convincente possibile.
Non sapevo dove dovesse andare, ma certo a un Pacificatore non si dice di no, se non si vogliono avere problemi.
Lui mi abbracciò, e prima di voltarsi mi aiutò finalmente a liberarmi dalla rete. “Grazie Annie.”
Detto questo corse verso l'uomo che dall'altra parte lo stava aspettando. Mi fece un ultimo cenno con la mano, dopodiché sparì in direzione della stazione.

Accadeva sempre più spesso, che dovesse andare via.
Mi chiedevo dove mai fosse andato, o cosa avesse da fare di così importante.
A lui non lo avevo mai chiesto, perché faceva parte di quegli argomenti che entrambi cercavamo attentamente di evitare.
Ma quel giorno sentii la curiosità aumentare sempre di più. Volevo assolutamente sapere.
Così camminai fino al Villaggio dei Vincitori, dove sapevo avrei trovato la persona giusta con cui parlare.


“Guarda chi si vede... La piccola Annie!”- Mags mi salutò. In genere non sopportavo quando la gente mi chiamava così, era come se per tutti avessi ancora sei anni. Ma detto da lei, sembrava decisamente più carino. Così non stetti a puntualizzare sul fatto che ormai fossi abbastanza grande da meritare un altro appellativo, e mi sedetti in salotto.
“A cosa devo la tua visita... se cerchi Finnick mi dispiace dirti che non è qua...”
“Finnick è andato via con un Pacificatore”- dissi io allora. E calò il silenzio.
Mi sentivo una vera e propria impicciona. Ma d'altra parte non riuscivo proprio a far tacere quella voce che dentro di me mi gridava di approfondire la questione che tanto mi stava a cuore.
“Dov'è che va, tutte le volte che lo chiamano?”- feci allora, guardano la donna negli occhi.
“A Capitol City”- rispose semplicemente lei, senza una particolare intonazione della voce.
“Perché? Che fa laggiù?”- chiesi allora, preoccupata.
Mags sospirò. La vidi alzarsi e andare in cucina. Io non avevo il coraggio di alzarmi. Avevo di nuovo la testa piena di immagini indesiderate.
Tornò con il servito buono, accompagnato da una limonata per me e del caffè per lei. Io strinsi tra le mani la bibita fresca, senza mai smettere di
guardarla.

“Vedi Annie, a Capitol City gli Hunger Games sono un vero e proprio evento, qualcosa di speciale e elettrizzante. Gli abitanti seguono con estremo interesse i giochi, si appassionano ai loro protagonisti e in particolare una volta eletto si affezionano al vincitore.”
Tutto ciò non mi sembrava particolarmente strano.
Sapevo che nella capitale i giochi erano visti in maniera totalmente diversa, sapevo che era tutto fatto per il divertimento di quella percentuale così bassa di Panem. E per il terrore della restante parte.
Continuai a fissare la mentore negli occhi, non avevo capito dove volesse andare a parare.
“Finnick adesso laggiù è una celebrità. È bello, giovane, il più giovane vincitore che abbiano mai avuto. A Capitol City vogliono vederlo, conoscerlo, parlare con lui. Uomini, donne, bambini. La lista è piuttosto lunga.”

Io rimasi un attimo perplessa. “E Finnick è contento di tutto questo?”
“Ma certo che no. Lo sai meglio di me che vorrebbe dimenticare tutto quanto e tornare alla normalità. Ma la normalità per i vincitori non torna più. Ormai saranno oltre quarant'anni che faccio la mentore. Tutti gli anni sempre la stessa storia, sempre lo stesso dolore. Questa ormai è la mia normalità.”- disse allora Mags, con volto tranquillo. Come se mi stesse raccontando la ricetta dei biscotti.
Ma io non ci potevo credere. Non riuscivo davvero a comprendere come si potesse essere arresa alla vita che faceva. Lei che a vederla così sembrava tanto forte, tanto saggia. Sembrava sempre sopra agli altri di una spanna. E forse lo era davvero.
“E per Finnick la normalità dovrebbe diventare trascorrere la vita facendo il vip a Capitol?!”- mi uscì fuori come un grido, realizzando cosa sarebbe potuto accadere.

La donna si alzò e mi posò una mano sulla spalla. “Non credo che permetterebbe che questo accada, Annie.”
“E se... e se un giorno ci dimenticasse? Se un giorno decidesse che la vita sarebbe più facile se dimenticasse il distretto 4 e diventasse a tutti gli effetti un abitante della capitale?!”- stavo decisamente correndo troppo, ma era impossibile controllare tutti quei dubbi che aleggiavano nella mia mente.
“Calma, calma!”- mi tranquillizzò Mags- “Finnick fa tutto quello che Capitol City gli chiede perché non può fare altrimenti. Ma non gli piace affatto, fidati. L'avrai visto che faccia ha, tutte le volte che è costretto ad andarsene. Tornerà sempre. Qualsiasi cosa accada, lui tornerà qua da noi.”
Detto da lei, tutto sembrava più vero. Decisi di fidarmi, anche perché non avevo altra scelta.
“Ma non potrebbe rifiutarsi? Non potrebbe dire di no?”- chiesi piano. Mi rendevo conto da sola che fosse una cosa troppo ingenua da dire, ma non riuscii a trattenermi.
“No Annie, non si può dire di no. Perché altrimenti il presidente si prende ciò che ami, ti minaccia e ti porta via tutto ciò a cui tieni. E alla fine riuscirà a farti accettare, ti piegherà in ogni caso al suo volere.”- disse con un velo di tristezza.
“È successo anche a te?”- feci, triste per tutto ciò che mi aveva appena detto.
“No, fortunatamente no. Ma quando hai qualcosa che può interessare, il Presidente se la prende. Finnick adesso sta soffrendo, perché si sente le mani legate. Sa che non può fare altro che acconsentire. Stagli vicino, Annie, se vuoi aiutarlo.”
Analizzai il suo sguardo.
Sapeva più di ciò che stava dicendo.
Voleva farmi capire qualcosa, ma non mi era molto chiaro cosa. Mi guardava in modo strano.
Ripensai a ciò che aveva appena detto.
Chi stava proteggendo, il mio amico? La sua famiglia ovviamente.
Ma per quel poco di cui avevamo parlato sapevo che non c'era molto da proteggere. Sua madre era morta dandolo alla luce, e suo padre era quasi sempre per mare.
Lui aveva sempre vissuto praticamente da solo negli ultimi anni, dopo la scomparsa di sua nonna. E dopo la vittoria degli Hunger Games si era sostanzialmente trasferito in casa di Mags, che a dire il vero non disprezzava affatto la sua compagnia.
Ma lei non aveva bisogno di essere protetta, era anche lei una vincitrice e conosceva Capitol City meglio di chiunque altro.

“Mags, ma... cosa potrebbe prendere il presidente per ricattare Finnick?”- chiesi, non riuscendo a capire.
“Davvero non lo sai?”- disse alzandosi- “Cara Annie, credo proprio che tu non conosca il tuo vero valore.”- concluse, per poi sparire dietro la porta della cucina.
Il tuo vero valore. Sgranai gli occhi, ferita dalla verità. Ecco, chi stava proteggendo.
Me.

 

 


Angolo dell'autrice
Buonsalve a tutti! Sono molto emozionata, stanno arrivando le vacanze e potrò aggiornare più spesso (si spera...)!
Sul capitolo non ho molto da dire, ho dedicato questo e il seguente alla figura di Mags, a mio parere importante sia nella vita d Finnick che in quella di Annie.
Spero vi sia piaciuto, ringrazio chi ha lasciato delle recensioni ai precedenti capitoli, mi avete davvero aiutato moltissimo e ho acquistato maggiore fiducia in me stessa! Grazie mille davvero, spero di risentire presto il vostro parere e i vostri consigli ;)
Detto questo, mi dileguo. A presto,
Mel

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Capitolo 8
*** Storia di una festa clandestina ***


 

Storia di una festa clandestina

 

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“Perché la chiamano festa di Prima Estate?”
Erano appena le cinque del pomeriggio, uno dei tanti che mi ero ritrovata a passare con Mags.
Era il giorno del bucato ed entrambe eravamo intente ad appendere lenzuola, camicie e bermuda al filo di corda appeso nel piccolo ma funzionale giardino sul retro che ogni abitazione nel Villaggio dei Vincitori possedeva.
Mags mi rivolse uno sguardo curioso: “Non l'hai mai sentita la storia di quella festa clandestina?”
Io aggrottai le sopracciglia.
“In che senso clandestina? A me sembra una normalissima festa, con balli, canzoni...”- risposi.
“Ah, evidentemente devo essere diventata più vecchia di quanto mi ricordassi...”- sbuffò- “Ai miei tempi questo era un racconto che sapevano tutti, grandi e piccini! Ma non importa... Appena abbiamo finito qui ti spiegherò tutto meglio.”

 

Trascorsero alcuni minuti, in cui portammo a termine la nostra occupazione, per poi rientrare in casa in religioso silenzio.
Ero già pronta per sedermi nel salotto, dove di solito ci fermavamo a parlare, quando la voce di Mags mi fece sobbalzare: “No Annie, seguimi”- disse indicandomi la porta.
E così camminammo fino alla spiaggia, dove ci sedemmo, rapite dalla bellezza dei colori dell'orizzonte.
“Allora... se non sbaglio siamo qui per un motivo...”- disse la donna dopo un po', guardandomi.
“Mi devi raccontare la storia!”- le ricordai, impaziente.
“E va bene! Devi sapere che le origini di questa ricorrenza non sono poi così profonde: si parla circa sessant'anni fa. Lo so che a te potranno sembrare un'eternità, ma se ci pensi bene è più giovane di me!”- esclamò sorridendo.
“Ma quindi... tu hai partecipato alla prima festa di Prima Estate?!”
“Eh sì cara, proprio così!”- disse aggiustandosi una ciocca di capelli che per il vento era scappata dalla presa dell'elastico.


“Sessant'anni or sono, viveva qua nel distretto un ragazzo, da tutti chiamato Jack. Era l'anima del villaggio: sempre sorridente, pronto ad aiutare il prossimo, amorevole e premuroso. Nonostante la sorte lo avesse privato di tutto con la guerra che si era da poco conclusa, lui non aveva perso il suo spirito allegro e sincero. Faceva di tutto perché nei suoi occhi non comparisse mai tristezza, non si abbatteva mai davanti a niente.
Tutti gli volevano bene, perciò anche se da una parte aveva perso tutta la sua famiglia, aveva certamente trovato tanto amore attorno a sé. In particolare, trovò un sentimento a lui ancora sconosciuto negli occhi di una ragazza poco più piccola di lui, figlia del primo cittadino del distretto.
I due, pur essendo molto giovani entrambi, negli anni successivi alla ribellione avevano fatto tutto ciò che era in loro potere per risollevare la situazione nel distretto, fortemente indebolito economicamente per la perdita di tutti pescherecci. Insieme avevano organizzato squadre di uomini e ragazzi per costruire nuove barche con materiali di recupero, avevano lavorato fianco a fianco per assicurarsi che tutto tornasse a quell'antico splendore che gli anziani tramandavano, nonostante le diverse difficoltà.

È facile capire come si siano innamorati: possedevano la stessa decisione, la stessa forza interiore, pur provenendo da due regioni del distretto diverse in quanto a ricchezza e qualità della vita.
Lui rappresentava in sé tutti i pescatori, i lavoratori, con la pelle bruciata dal sole e la salsedine tra i capelli; lei aveva la delicatezza e compostezza di quelli che sono a stretto contatto con Capitol City per lo scambio delle merci. Univano alla perfezione le due facce del distretto e subito ottennero l'approvazione di ogni abitante.
Ma parliamo di un tempo in cui esistevano già gli Hunger Games, purtroppo.

Il nome del ragazzo venne estratto per la settima edizione dei giochi, e in quel preciso istante qualcosa nel distretto 4 si ruppe drammaticamente. Nessuno di noi aveva ancora mai vinto, e tutti lo vedevano già spacciato.
Ma Jack non si arrese neppure in quell'occasione. Neppure quando il mondo che da solo aveva rimesso in piedi gli stava cadendo addosso di nuovo. E così, prima di partire promise alla sua ragazza che sarebbe tornato per lei, per ballare ancora una volta sulla spiaggia al chiaro di luna.”


Mags si fermò, sospirando.
Io intanto morivo dalla curiosità. Mille domande mi vorticavano in testa, ma solo una fu quella che riuscì ad uscire fuori: “Tornò Jack dagli Hunger Games?”
“Sì, riuscì a vincere anche quelli. Quando, dopo l'incoronazione nella capitale, lo riportarono al distretto, la prima cosa che fece dopo essere sceso dal treno fu cercare gli occhi della ragazza a cui prima di partire aveva lasciato il suo cuore. Appena la vide sul suo volto comparve un bellissimo sorriso, le corse incontro e l'abbracciò. Ignorando tutta la folla di gente che gridava il suo nome, che in preda all'eccitazione batteva le mani, fischiava, cantava. Dimenticandosi delle telecamere, dei microfoni, di tutto quello che c'era all'infuori di lei.
Felice, felice a tal punto da mettersi a ballare lì, nel bel mezzo della stazione. Così felice di aver mantenuto la sua promessa da piangere, tanto da costringere la ragazza a fermarsi e a pulirgli le guance con un fazzoletto.
Talmente felice da contagiare anche tutti gli altri, che iniziarono ad intonare motivetti ballabili, a stringere le mani dei propri amati e a volteggiare leggeri per le strade, con la musica che pervadeva ogni angolo del distretto.

Il distretto 4 aveva vinto i suoi primi Hunger Games, Jack aveva mantenuto la sua promessa e ciò che si era rotto era finalmente tornato a posto. E così anche Capitol City chiuse un occhio davanti a tanto entusiasmo e lasciò correre.
Quell'estate, quando alla popolazione arrivarono i compensi per la vincita di Jack, fu indetta la festa di Prima Estate: la prima estate del ragazzo come Vincitore.”

A quelle parole, mi sorse un dubbio: “Ma perché si chiama ancora festa di Prima Estate? L'anno dopo non avrebbero dovuto chiamarla festa di seconda Estate? Così il collegamento con la storia di Jack sarebbe stato più evidente, no?”
Mags mi guardò con con gli occhi lievemente tristi.
Rimasi stupita da quello sguardo. Che cosa avevo detto di sbagliato?
“Vedi Annie, Jack non ha mai vissuto la sua seconda estate da vincitore, purtroppo.”
In quel momento mi raggelai, pietrificata dalle parole della donna.
Perché? Che fine aveva fatto quel ragazzo?
Incapace di fare qualsiasi domanda, attesi in silenzio, nella speranza che lei si decidesse a darmi maggiori spiegazioni.
Da una parte bramavo di sapere che cosa era successo, ma dall'altra avevo paura di scoprirlo. Sapevo che ciò che avrei sentito non mi sarebbe piaciuto.


“Un giorno un pacificatore gli ordinò di seguirlo, e lo condusse fino alla stazione dove lo costrinse a salire su un treno diretto a Capitol City. Anche in quell'occasione, promise alla sua ragazza, già in lacrime, che sarebbe tornato per lei. Ma quella volta non mantenne la promessa, e non è più tornato indietro.
Nonostante questo tutti gli abitanti non smisero mai di considerare Jack come colui che più di tutti aveva motivato gli altri a rialzarsi dopo la grande sconfitta nella ribellione. Perciò il sindaco decise che la festa di Prima Estate si sarebbe tenuta ogni anno, sempre con lo stesso nome, come un momento fermo nel tempo, un modo per replicare quella felicità pura che solo l'abbraccio di due innamorati lontani può far nascere.”

Rimasi zitta, ferita da quella storia.
Ancora una volta, quegli stupidi giochi avevano rovinato tutto.
“Non è giusto...”- mormorai, tentando di ricacciare dentro le lacrime.
“Hai ragione Annie. Non è giusto. Ma adesso noi possiamo fare poco.”- rispose calma Mags.
“G..grazie per avermi raccontato questa storia.”- dissi alzandomi- “Ma adesso mi sa che devo andare a casa.”
“Va bene... Ci vediamo domani, allora...”
“Sì... A domani.”- e voltandomi di spalle, correndo verso casa mia, lasciai che le lacrime mi rigassero il viso.

Continuavo a chiedermi se i giochi sarebbero riusciti a distruggere anche la mia amicizia con Finnick. Lui andava praticamente tutti i giorni a Capitol, però alla sera tornava sempre.
Rimasi in ascolto del battito del cuore, e pregai che una forza misteriosa riportasse sempre il mio amico al suo distretto.
E in questo modo riuscii a placare tutta la confusione nella mia testa, riuscii a zittire tutte le voci nel mio cervello che mi facevano impazzire.
Riuscii persino a dimenticare una domanda che fin dall'inizio del racconto mi aveva infastidita: chi era, e soprattutto dov'era adesso la ragazza di Jack?

 

La ragazza di Jack ce l'aveva messa tutta per superare il dolore.
Aveva lottato contro i suoi stessi sentimenti, per non soccombere ad essi.
E in un certo senso, alla fine era riuscita a vincere.
Dai suoi occhi era scomparsa la tristezza ed era rimasta solo la rassegnazione.
Finnick ricordava spesso quella storia, che lo aveva sempre impressionato, sin dal primo momento in cui Mags gliela aveva raccontata.

Era sempre rimasto affascinato dal modo in cui lei descriveva quei momenti, quelle sensazioni.
Si ricordava di tutto: i sospiri, i gesti, gli sguardi.
E Finnick si chiedeva come avesse fatto a non dimenticare tutto quanto, con l'avanzare degli anni.
La ragazza di Jack non aveva mai trovato davvero la pace.
Due anni più tardi era stata sorteggiata per partecipare agli Hunger Games.
Aveva dovuto combattere, aveva dovuto lottare nuovamente per dare un senso alla sua vita.
E neppure vincendo inizialmente lo aveva trovato.

Finnick si agita, al pensiero che anche lui adesso sta perdendo di senso.
Non è più niente, lui. Non è un vincitore, né un vinto.
Non è fedele né ribelle.
Si sente andar via, sente di non essere più in grado di controllare il suo corpo, dal quale si sta piano piano staccando.
E si sente come lei, come quella ragazza. Perso.

Ci mise un po' a capire, ed adesso avrebbe voluto essere più sveglio a quei giorni, avrebbe voluto arrivarci subito.
Ci mise un po' troppo, in effetti.
A rendersi conto che Mags era la ragazza di Jack.
Quando lei glielo rivelò, allora tutto fu più chiaro.
Il suo sguardo, i suoi ricordi, la sua sofferenza. Finnick comprese, ma era troppo tardi.
E dopo pochi giorni, la sua mentore raggiunse finalmente quella pace che per anni aveva cercato inutilmente.

 


Angolo dell'autrice
Salve a tutti! Sì, tra libri usati da vendere, nuovi da acquistare, vacanze da programmare, per la vostra gioia sono tornata!
Sono molto felice di questo capitolo, anche se apparentemente non c'entra assolutamente niente con il resto della storia.
È vero, forse è leggermente off-topic, ma desideravo da morire inserire qualcosa sul passato di Mags, che come ho già detto considero una figura importante per entrambi i protagonisti della storia.
Spero che questo lungo flashback vi sia piaciuto, o che almeno non vi abbia completamente disgustato...
Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate!
A presto miei cari lettori, ci vediamo nelle recensioni (speriamo) e nel prossimo capitolo!
Mel

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Capitolo 9
*** Il primo amore. Vero, intenso, complicato ***


Il primo amore. Vero, intenso, complicato
 

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L'hanno saputo prima loro di me”
Finnick continua a muoversi, irrequieto come mai lo era stato prima.
Secondo me faresti meglio a dormirci su... adesso non hai la mente lucida, e stai dicendo cose che non hanno senso.”- sospira Mags.
No! No!”- grida allora lui, sempre più arrabbiato. La donna gli rifila un'occhiataccia, così cerca di contenersi e si siede a terra, con la testa tra le mani.
I pensieri, ma soprattutto le paure corrono veloci dentro di lui. Paure tutte nuove e sconcertanti, per la sua età.
Lo hanno saputo prima di me”- ripete, ma con meno convinzione.
Sente una mano sulla guancia, parole sussurrate dolcemente.
Finn, tu lo sapevi già. Altrimenti non avresti accettato tutto questo”- dice la donna.
Non è vero, io non lo sapevo”- ribatte lui, tirando su col naso.
Rimangono in silenzio, seduti sul pavimento.
Ho paura, Mags”
Lei lo guarda in modo dolce, gli dà forza con lo sguardo.
Lo so Finnick, lo so che hai paura.”- dice abbracciandolo- “Ma ce la farai, non temere.”
Io non so che fare, non lo so davvero. Non voglio... metterla in pericolo.”
Non sei tu il pericolo Finnick, e lo sai bene.”- risponde la donna seria.
Ma il ragazzo non ne è convinto. Ha sedici anni, un animo confuso, e non lo sa ancora bene chi è il nemico. Non lo sa che cos'è propriamente il pericolo.
Come hanno fatto a capire che mi piace Annie? Non l'ho mai detto a nessuno, neppure a te, neppure a... me stesso. Come hanno fatto?”- chiede.
Lo si legge nei tuoi occhi. Quando parli di lei, si illuminano di una strana luce. Quando sei con lei, brillano di un altro riflesso. È una cosa involontaria. Non puoi farci niente.”
Lei sorride, perché tante volte ha visto luci del genere, negli occhi di molti del distretto. Ma soprattutto sorride perché si ricorda gli occhi dei quella persona che aveva un tempo fatto battere il suo cuore.

Non volevo innamorarmi di Annie.”
Sì, ma è successo...”
Devo fare qualcosa... qualsiasi cosa. Non posso permettere a Capitol City di utilizzarla come ricatto nei miei confronti. Devo dimostrare che di lei non mi importa niente!”- borbotta lui.
Mags ride, ride di gusto.
Finnick, ma non ti rendi conto che quello che hai appena detto è la prova del fatto che a lei tieni più che a chiunque altro?!”


Passarono giorni, poi mesi, ed era come se Finnick mi evitasse.
Quei momenti che tanto mi piacevano si erano come dissolti, solo un lontano ricordo. Mi faceva male, mi dispiaceva tanto. Troppo.
Non ce la facevo più neanche ad ingannare me stessa: Finnick mi piaceva come mai nessun altro prima. Dopotutto avevo quattordici anni, mi sembra una cosa normale, no?
Ma lui era sempre più distante, il corpo al distretto, la mente a Capitol.
Ma non riuscivo ad odiarlo, non dopo quello che avevo scoperto parlando con Mags.
Se lui continuava ad andare dai ricchi della capitale, allora era segno che ancora contavo qualcosa. E questo bastava per farmi sorridere almeno per qualche secondo. Mi piaceva sapere di essere nei suoi pensieri, o quantomeno, nel suo cuore.
Ero tornata ad essere solitaria, avevo ripreso a passare i pomeriggi da sola raccogliendo conchiglie, ma di questo poco mi importava. Arrivai addirittura fino ad accontentarmi di guardarlo soltanto. Anche perché tutte le volte che provavo ad avvicinarmi, lui si dileguava in pochi minuti.

Però, dopo qualche tempo, mi sorpresi a pensare se quella fosse solo una fantasia che io mi ero creata per non soffrire.
Cominciai a credere che forse lui si era semplicemente dimenticato di me. Frequentando la capitale aveva cambiato gusti e, di conseguenza, compagnie.
Aveva senso. Aveva davvero senso.
Arrivò la festa d'estate, quella dei miei quindici anni, e non ricevetti nessun invito.
E quando iniziò a girar voce su chi fosse stata la prescelta di Finnick Odair quell'anno, non potei che provare rabbia. Una rabbia vera, densa come sangue.
Quella rabbia tipica degli adolescenti,per i quali esiste solo bianco e noero, sempre incavolati con tutto e tutti. 
Mi aveva rimpiazzata. Tolta di mezzo. Quello per me era il segno definitivo, il segno chiaro e limpido della fine della nostra amicizia.
Scioccata dalla notizia, mi rintanai in casa per un bel po'. Mi infilai sotto le coperte, nella speranza che nessuno udisse i miei singhiozzi. Perché lui, il mio amico, mi aveva spezzato il cuore.

 

Non la stai gestendo bene, Finn”
Lui la guarda malissimo, giusto un paio di secondi, per poi tornare alla sua occupazione.
Ma che te lo dico a fare, lo sai benissimo da solo.”- la voce di Mags sparisce in direzione della cucina.
Lo sa. Sta sbagliando, ma non sa cos'altro fare.
Finnick infila la giacca leggera ed esce, cercando di non pensare a niente in particolare.
Arriva fino alla porta della casa della ragazza con cui andrà alla festa. Con cui passerà la serata. Che non è Annie, e non le assomiglia nemmeno lontanamente.

Bussa delicatamente, e lei compare con un sorriso a trentadue denti sulla soglia di casa. Gli stampa un bacio rosso sulla guancia.
Questo gesto gli ricorda troppo quelli che sopporta a Capitol City tutti i santi giorni.
Ma ormai non può fare niente, solo adattarsi alla situazione.
Ingoia il rospo, la prende sottobraccio ed insieme si dirigono verso la grande piazza, già stracolma di gente.
Appena arrivati, Finnick nota Annie in un secondo. La trova tra la folla, nel suo solito abito buono che ormai non le va più così grande.
La vede triste, e sa di essere la causa di quella tristezza. Ma qualche giorno prima non invitarla al ballo gli era sembrata la cosa più furba da fare. Per il bene di entrambi.

Adesso la guarda, e si chiede se almeno uno dei due stia davvero bene. E nei suoi occhi trova la risposta negativa che temeva.
Annie si accorge di lui, lo saluta con la mano debolmente. Lui vorrebbe ricambiare in qualche modo, ma una forza misteriosa dentro di sé lo costringe a rifiutare il saluto e ad andare a ballare con la sua dama.
Soffre, soffre più di sempre.
Soffre perché lei sta soffrendo, soffre perché niente sta andando nel verso giusto.
Sì, in questo modo magari Annie è al sicuro, ma a quale prezzo? A questo pensa, mentre balla.
Così si ferma, punta i piedi. No, non continuerà.
Prende e se ne va. Nell'unico posto in cui sa che troverà la pace. E la persona con cui sta bene davvero.


Lo seguii fino al nostro solito posto. Gli occhi di tutti i presenti erano puntanti su di noi, ma nessuno osò seguirci.
Quando lo raggiunsi era accasciato sulla spiaggia, scosso da un pianto incontrollato.
Mi si strinse il cuore. Ero ancora arrabbiata con lui per come mi aveva trattata, ma capivo che dietro c'era qualcosa di grosso, qualcosa che lo faceva agire in modo
irragionevole.
“Annie...”- lo sentii mugolare- “...Annie, ti prego...”- non riusciva a finire la frase.
Mi accovacciai su di lui. Quel ragazzo così grande e grosso, così forte agli occhi di tutti.
Pensai che solo io lo avevo visto così, fragile e rotto, in un certo senso, e arrivai alla conclusione che se a me aveva permesso di vedere quella parte nascosta di lui, qualcosa avrà pur voluto dire.

“Ssssh”- dissi, accarezzandogli i capelli.
“Annie, io non ce la faccio a spiegarti...”- riuscì a dire tra un sussulto e un altro.
“Non importa, Finn. Vorrà dire che starò qui ad aspettare finché non troverai le parole”- dissi, riprendendo ciò che lui anni prima mi aveva detto.
Alzò la testa e mi sorrise, con gli occhi lucidi.
“Annie io... io ho solo tanta paura...”- sussurrò.
“...Ma non sei cattivo. Lo so, tranquillo, lo so.”- dissi subito io. Mi fidavo di lui. Mi fidavo di quegli occhi sinceri, di quello spirito confuso e impreparato.
“Ho sbagliato tutto con te, Annie. Ho sbagliato tutto con noi. Credevo che allontanandomi da te ti avrei resa più al sicuro ma... non credo di essere capace di fare a meno della tua presenza nella mia vita.”

Rimasi folgorata, come sempre del resto, dalle sue parole. Mi sedetti al suo fianco e aspettai che si sfogasse.
“Sei arrivata all'improvviso, di colpo... non credevo che sarei diventato dipendente dalla tua compagnia, dal tuo silenzio. Pensavo che, per il bene di entrambi, avrei potuto rinunciare a quei momenti. Beh vedi, io non ci riesco.”
Mi strinsi più vicina, con il cuore che mi batteva a mille. Mi sembrava tutto un sogno.
“Non ci riesco, però in ogni caso ho voluto provare. Ma oggi, in piazza, mi sono accorto che... che sì, magari sarai al sicuro dal presidente, ma sei triste Annie. Ed è colpa mia.
Che senso ha allora, tutto quello che sto passando? Tanto non posso proteggerti da Capitol City per sempre, hai ancora quindici anni e davanti a te altre tre mietiture. È tutto inutile, capisci?! Ho sbagliato tutto.”- e a quelle parole le lacrime ricominciarono a rigare il suo viso.


Era bello il mio amico, seduto sulla spiaggia la sera della festa, per la seconda volta. Per la seconda volta insieme a me.
Era ferito, distrutto, il mio amico. Ed era andato in pezzi per me.
E allora capii che il mio amico non era più mio amico, ma qualcosa di diverso.
Gli voltai il viso nella mia direzione, lo pulii dalla lacrime. Lui portò una mano sopra alla mia, e dopo tanto tempo sentii un brivido, che solo con Finnick avvertivo.
Così feci la cosa più insensata del mondo, contro ogni mia stessa aspettativa.
Lo baciai.

 

Finnick la sente ancora quella pressione sulle sue labbra.
Se la ricorda bene. Perché è unica, come Annie.
Dolce, sensibile, delicata. Tutta il contrario delle donne che ha incontrato a Capitol.
Si sente finalmente felice, in pace.
Perché quello è il posto in cui vuole stare, quello è il momento che vuole vivere.
La sfiora con una mano, come per trovare la conferma che non è tutto frutto di un'illusione.
No, lei è lì, paziente, al suo fianco.
Quella felicità è impagabile.
Sorride, pensando che per poco Capitol City non si portava via anche quella.
Ma non ce l'ha fatta, pensa. Ti proteggerò sempre Annie.
Sempre.

 

 

Angolo dell'autrice
Ebbene, signori e signore, eccoci giunti ad un capitolo che io personalmente attendevo di pubblicare da tempo. Ho impiegato forze non indifferenti per tentare di placare il mio animo di fangirl e riuscire a scrivere il tutto in maniera leggibile. Spero che i miei sforzi non siano stati del tutto vani.
Ringrazio tutti coloro che nonostante i miei aggiornamenti non proprio puntuali continuano a seguire questa storia, che mi sta dando davvero grandi soddisfazioni
Conto di trovare qualcuno di voi lettori nelle recensioni, fatemi sapere se il mio delirio interiore mi ha portato fuoristrada o se invece sono riuscita a scrivere qualcosa di apprezzabile.
Ancora grazie mille davvero,
Mel

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Capitolo 10
*** Non sei onnipotente ***


Non sei onnipotente

 

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“Annie!”
Non mi voltai sentendo pronunciare il mio nome. Sapevo chi mi stava chiamando.
Non avevo bisogno di guardare, conoscevo quel tono meglio di chiunque altro.
Un tono preoccupato, esasperato. Il tono di chi ha passato ore alla ricerca di qualcuno o qualcosa e finalmente l'ha trovata. Il tono di chi sa che, nonostante tutto, per quanto potrà impegnarsi, non riuscirà a farti star meglio.
“Annie, ti ho cercato tutto il giorno, cominciavo a stare in pensiero...”- disse Finnick appena mi fu abbastanza vicino.
Mi baciò la guancia e si sistemò al mio fianco, seduto sugli scogli.
Lo guardai tristemente e lui ricambiò con uno sguardo di rimprovero.
“Smettila di fare quella faccia Annie”
“Domani c'è la mietitura, Finnick. Ho tutto il diritto di avere questa faccia”- risposi secca io.
“È la penultima. La penultima volta che il tuo nome è in quell'urna”
Io sbuffai. Mi distesi a terra, e lui mi imitò.
Stavo lottando con tutte le mie forze per non farmi assalire dai brutti pensieri. Avevo passato l'intera giornata combattendo per riuscire a rimanere presente.
Ma più le ore passavano, più le mie paure aumentavano.

 

Finnick mi prese per mano, se la portò al petto. Sentii il suo cuore battere ad un ritmo esagerato. Aveva paura, proprio come me.
Ma tutte quelle serate passate in compagnia dei capitolini gli avevano insegnato a nascondere le sue vere emozioni.
Lo avevano tramutato nella sua versione snob e provocatoria. Il bello e dannato che faceva svenire tutte le donne nel raggio di venti metri.
Certe volte non riusciva più a mostrarsi per quello che era neanche con me.
Si girò su un fianco, e si mise a giocare con i miei capelli, cosa che mi strappò un piccolo sorriso. Avvicinai la testa alla sua spalla e lì rimasi. Protetta, al sicuro.
“Ti amo Annie”- sussurrò- “Lo sai che farò di tutto per proteggerti”- parlò, più per sé stesso che per me.
“Lo so Finn, lo so. Ma questa è una cosa che non puoi controllare. Non sei onnipotente.”- risposi piano.
“È vero, ma vorrei tanto esserlo. Vorrei avere il potere di tenerti qua con me per sempre. Vorrei poter togliere quel pezzo di carta su cui sta scritto il tuo nome. Vorrei poterti dire che andrà tutto bene, che qualsiasi cosa accada tutto si risolverà. Ma non posso”- si alzò con un gesto di rabbia.
“Non posso.”- ripeté, roco.

Io restai ad osservare il cielo. Era così tutti gli anni, prima della mietitura.
Lui distrutto dal passato, io dal pensiero del futuro.
Ci facevamo forza l'un l'altro. Insieme aspettavamo l'alba, dove i nostri destini si separavano drammaticamente.
Io mi preparavo per il sorteggio, lui per un nuovo anno da mentore. Non ci vedevamo per qualche giorno, poi tutto tornava alla normalità.
Succedeva sempre così.
Ma quell'anno, la sorte non fu a favore di nessuno dei due. E fece convergere i nostri destini sullo stesso treno, diretto veloce ed inesorabile a Capitol City.
 

Annie Cresta!”
Finnick non ci crede. Rimane a bocca aperta per lo shock.
Pensa di tutto, in quei pochi secondi.
Di aver capito male, di aver solo fatto un incubo tremendo. Che la donna sul palco abbia sbagliato a leggere il nome. Ma nessuna di queste speranze si avvera.
Vede Annie, prossima al crollo, camminare lentamente verso chi la sta chiamando.
Le sue ginocchia tremano talmente tanto che per un attimo ha davvero paura che si stacchino dalle sue gambe.
La guarda, e lei gli rimanda uno sguardo disperato.
La solita stretta di mano, la solita frase “Possa la buona sorte essere sempre a vostra favore!” ed è ufficiale.
Annie Cresta è il tributo femmina del distretto 4 per i settantesimi Hunger Games.
Finnick vorrebbe piangere adesso, mentre rivede nella sua mente quelle orribili immagini. Ma non ce la fa. Ha consumato tutte le lacrime che aveva in corpo. E adesso
non ne è più capace.

 

Ci misi un po' a ritrovare l'uso della parola. E quello delle gambe.
Non camminavo, non ci riuscivo davvero. Mi lasciavo trasportare a destra e a manca da chi di dovere.
Dopo una decina di minuti mi ritrovai in quella stanza, la stessa in cui avevo incontrato Finnick cinque anni prima, in procinto di partire per i giochi.
Mi sedetti a terra, senza neanche la forza di trascinarmi fino al divanetto.
Tanto, come mi ero immaginata, non venne praticamente nessuno a salutarmi.
Solo mia madre, che per tutti i cinque minuti concessi non fece altro che piangere. Piangeva a dirotto, e non era possibile fermarla. Chi ero io, per dirle di smettere? Stava vedendo la sua unica figlia andare incontro alla morte, cos'altro avrebbe potuto dire? Incoraggiarmi, forse? Lo sapevamo bene entrambe che quelle come me non tornano dall'Arena.
E così ci lasciammo con i lucciconi agli occhi, la bocca impastata dalla troppe parole mai dette.
Ci abbracciammo, per l'ultima volta. Mi sussurrò i versi della canzone che mi cantava da bambina quando ero malata, e che io avevo sempre cantato a lei per tirarle su il morale.
Dopo di lei, nessun altro. Mio padre non avrebbe saputo cosa dirmi, erano anni che non parlavamo seriamente. Forse è stato meglio non averlo visto.
Di amiche ne avevo poche, e non così care da mostrarsi dispiaciute per la mia partenza.
L'unica persona a cui tenevo del distretto non venne, perché purtroppo era costretto a farmi da mentore.


Un dubbio lo assale, gli divora l'anima, macchiata di sangue e sporca di terra.
Un dubbio stupido, insensato. Eppure, non riesce a cacciarlo.
Osserva la piazza svuotarsi, i Pacificatori portare i due tributi nel Palazzo di Giustizia.
Tutto a posto?”- la domanda di Mags arriva alle sue orecchie terribilmente flebile.
Respira forte, non vuole guardarla negli occhi.
Sì, tranquilla. Avviati al treno, io ti raggiungo tra un attimo.”
Quel dubbio. Quel dubbio non gli dà pace.
E così si arrende. Fa quello che il dubbio gli impone di fare.
Si avvicina all'annunciatrice, le cinge la vita con un braccio. Le sorride sicuro.
Gesti automatici, che fa senza alcuna passione. Gesti meccanici, finti.
Ma per Capitol City bastano e avanzano. Tutto è finto, laggiù. Persino le persone.
La risata di quella donna lo infastidisce, ma ormai ha imparato a non farci caso.
La bacia prepotentemente, le sussurra frasi scontate e banali, che sortiscono l'effetto sperato.
Posso dare una sbirciata alla boccia con i nomi dei tributi?”- chiede con il tono più sensuale in suo possesso. Sa che quella non si rifiuterà.
Tutto quello che vuoi”- ansima, mentre le bacia il collo.
Sorride, soddisfatto. E poi, una smorfia di dolore. Si vergogna, di quello che sta facendo. Ma il fascino è la sua unica arma contro Capitol City.
Ci vediamo dopo sul treno”- la congeda velocemente- “Io arrivo tra poco, prima devo fare una cosa.”
È troppo facile, pensa mentre quella si allontana camminando sui tacchi vertiginosi.
Ha un potere immenso, sulle capitoline.

Dopo essersi guardato intorno, controllando di essere rimasto davvero solo, infila velocemente la mano nella boccia con i nomi delle ragazze.
Il dubbio ritorna, prima assopito, più forte di prima.
Inizia ad aprire tutti i biglietti, uno ad uno, per poi rigettarli dentro.
Con le mani tremanti, gli occhi lucidi.
E così, il dubbio diventa certezza.
Non è onnipotente. Non lo è, e mai lo è stato.
Comincia a correre. Corre verso la stazione, verso chi sa sarà in grado di calmare il suo cuore impazzito.
Entra senza considerare le telecamere, si nasconde nell'unico vagone senza finestrini.
Si prende la testa tra le mani, chiama a raccolta tutte le sue forze, per non dare di matto.
Deve essere forte. Non può permettersi sbagli. Probabilmente, ha già sbagliato abbastanza.
La porta di quel piccolo sgabuzzino si apre, la luce inonda i suoi occhi.
Sente una mano anziana tra i capelli.
È colpa mia. Tutta colpa mia.”- non piange, ma vorrebbe davvero.
Non è vero”- risponde semplicemente Mags- “Questo è quello che Snow vuole farti credere”- bisbiglia.
 

Quando mi fecero salire sul treno ed incrociai il suo sguardo, avrei voluto morire sul posto.
Era straziante vedere quella smorfia di sofferenza sul viso di Finnick.
Era straziante stare su quel lussuosissimo treno, pensando a cosa mi sarebbe capitato una volta scesa di lì.
Dopo i soliti convenevoli chiesi il permesso e mi chiusi nella mia stanza.
Non avevo la forza di piangere. Neppure di urlare. Ma nella mia testa, infuriava la tempesta.
Mi sentivo scoppiare. Mi distesi sul letto ed il profumo delle lenzuola pulite mi riempì la narici.
Non c'era già più niente del distretto 4.
Avevo già dimenticato l'odore del mare, del pesce, il rumore delle onde e il verso dei gabbiani.
Mi sentivo persa. Sola, spacciata.
Era ormai ora di cena, quando decisi di uscire dalla camera.
Con enorme fatica riuscii a mettermi in piedi, mi avvicinai alla porta. Stavo per girare la maniglia, ma qualcosa attirò la mia attenzione. Due voci familiari stavano parlando sottovoce.

“Finnick, devi reagire. Così non la stai aiutando”
“Ma come? Come posso reagire?! Io... io non so da che parte cominciare, Mags. Io voglio salvarla, devo salvarla. È la cosa più importante che ho, l'unica che mi sia rimasta. Ma come posso riuscirci?”
“Calmati Finnick, adesso calmati. Durante questi giorni proveremo a trovare una strategia per aiutarla. Ma se perdi il controllo non farai del bene a nessuno.”
E dopo questo, non riuscii a sentire più niente.
Sentivo un dolore profondo dentro al petto. Mi dispiaceva così tanto.
Per Finnick tutti gli anni dover portare dei ragazzi nell'Arena era sempre stato un supplizio. Ma adesso doveva portarci la sua ragazza.
Un'altra prova schiacciante del fatto che i Vincitori non sono onnipotenti. Non sono più forti. Sono solo delle pedine nelle mani del presidente. Che ogni tanto gli lancia degli avvertimenti per ricordargli chi è che comanda.

 


Angolo dell'autrice
Salve! È un piacere tornare qui dopo così poco tempo! Contenti, ma soprattutto soddisfatti, di questo rapido aggiornamento?
Su questo capitolo, come su tutti gli altri del resto, non c'è un granché da dire: come tutti avrete intuito è la mia personalissima versione della mietitura di Annie.
Inutile dire che da questo punto inizia la vera e propria parte malinconica e triste della storia, della serie allegria portami via, insomma. Tenterò di frenare la penna quando mi renderò conto di essere caduta davvero troppo in basso, ma purtroppo da scrittrice in erba (quanto mi piace definirmi così!) quale sono non posso assicurare niente.
Vorrei anche avvisare che nel prossimo capitolo i più attenti e affezionati fan della saga potrebbero avvertire il loro Istinto Omicida alzarsi esponenzialmente nei miei
confronti. Eh sì ragazzi, mi dispiace tanto ma mi sono discostata dalle parole della Collins per quanto riguarda un particolare della storia di Annie.
Bene, vi lascio con il dubbio di cosa mai avrò cambiato (cosa che farà alzare l'Istinto Omicida ancora di più, mi rendo conto), vi mando un bacione e ringrazio tantissimo chi continua a seguire e a recensire questa storia. I vostri commenti sempre attenti e dettagliati mi fanno sempre un piacere immenso, grazie di tutto.
A presto,
Mel

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Capitolo 11
*** Benvenuto nei miei incubi ***


Benvenuto nei miei incubi

 

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Non ricordo esattamente che ore fossero. Ma era buio, un buio denso e compatto. Al di là del finestrino, solo un'indefinita massa scura.
Erano ore che osservavo sempre lo stesso paesaggio notturno, senza riuscire ovviamente a dormire, quando la porta della stanza si aprì con un gesto rapido.
Mi voltai in quella direzione e, illuminato dalla fioca luce sulla toeletta, comparve Finnick, in tutta la sua bellezza. Bellezza deturpata leggermente dallo sconforto, dalla preoccupazione. Da quel dolore più mentale che fisico che caratterizza i Vincitori.

 

Scattai in piedi e mi fiondai tra le sue braccia. Non ne potevo veramente più, non riuscivo a resistere senza di lui.
Mi accolse amorevolmente, mi baciò prima sulla fronte, poi sulle labbra.
Nascosi la faccia nell'incavo del suo collo e finalmente trovai qualcosa di familiare a cui aggrapparmi.
“Grazie di essere qui.”- mormorai.
“Annie, lo sai che è colpa mia se tu sei qui, vero?”- disse allora lui, con tono sofferto.
“Smettila di dire stupidaggini”- lo zittii io. Non era colpa sua. Di questo ne ero e ne sono ancora certa.
Mi passò una mano tra i capelli, si fermò sulla mia schiena.
“Ti prometto che farò tutto il possibile per tirarti fuori sana e salva, Annie. Te lo giuro.”- fece, stringendomi più forte.
“Non serve giurare. Lo so che lo farai.”- risposi semplicemente.

Rimanemmo tutta la notte l'uno avvinghiato al corpo dell'altro.
Ci baciammo come se fosse stata l'ultima volta, anche se nei giorni successivi avremmo dovuto vederci praticamente sempre, per poter pianificare cosa fare una volta nell'Arena.
Ma in effetti, quella sarebbe stata l'ultima volta in cui saremmo stati noi stessi.
Dal nostro arrivo in poi, abbiamo potuto solo stare dietro ai nostri personaggi. Addio sincerità, benvenuti nel mondo dei reality show.
Io ero una delle concorrenti, non potevo fare altro che giocare. Lui, nient'altro che assistere.
Ci salutammo all'entrata della casa.
La casa della Morte, non del Grande Fratello.

 

“Che i settantesimi Hunger Games abbiano inizio!”
È con questa frase che ogni notte iniziano i miei incubi.
L'ho sentita ripetere tante volte, ed è sempre un ricordo straziante.
Strazianti erano le urla dei tributi che si attaccavano l'un l'altro, che si pugnalavano, che scappavano in preda ad una meschina e giustissima voglia di vivere.
Straziante era il dolore che sentivo sul braccio destro, nonostante non fossi ancora scesa dalla pedana. Non capivo, non riuscivo a focalizzare su ciò che mi stava accadendo.
Sei nell'Arena, Annie. Sei un tributo negli Hunger Games, Annie. Corri, scappa, vivi.

Continuavo a ripetermi queste parole, tutt'ora le risento nel mio cervello, da quante volta le ho dette a me stessa.
Spalancai gli occhi, vidi il sangue, il mio sangue, gocciolare a terra.
Inorridii a quella vista, constatando in fretta che mi ci sarei dovuta abituare.
Ma ancora di più mi scandalizzava la faccia del mio aggressore, che ansimante se ne stava ritto davanti a me, mentre a pochi passi da noi infuriava il violento e cruento Bagno di Sangue.

Era Jonathan Circus, il mio compagno di distretto.
Non riuscivo a crederci. Era stato lui a colpirmi.
Ma perché? In genere tra compagni non ci si uccide, o almeno, si cerca di evitare.
Non è una regola ovviamente, ma da che mondo è mondo aveva sempre funzionato così.
I due tributi non formano una squadra, ma certo ognuno spera in cuor suo di poter tornare a casa alla fine. E non sarai certo ben accetto se hai ammazzato con le tue mani un concittadino.
Non capivo, davvero.
Non ci conoscevamo bene, ma io e Jonathan avevamo la stessa età e avevamo addirittura frequentato la stessa classe per diverso tempo, prima che rinunciasse e andasse ad aiutare suo padre nella pesca.

Lo guardai negli occhi, era spaurito quanto me. Respirava forte, mi guardava con sguardo dubbioso.
“Lo so che non si fa... ma io devo ucciderti, Annie Cresta.”- disse ad un certo punto.
Indietreggiai, scendendo dalla pedana e riparandomi dietro ad essa.
Gettai uno sguardo veloce dietro di me. Non ero troppo distante da una boscaglia dove avrei potuto nascondermi.
“Io devo vivere, devo tornare a casa da mio padre... sarebbe perso senza di me. Devo tornare a casa.”
Rimasi zitta, pietrificata dalla durezza delle sue parole.
“Posso farcela, lo so. Dopotutto il distretto 4 è da sempre tra i favoriti. Ma ho bisogno degli sponsor, di un aiuto esterno per uscire da questo inferno. E finché tu sarai viva, Finnick penserà a salvare la tua pelle, piuttosto che la mia. Io mi chiedo, cosa avrebbe intenzione di salvare? Anche ti mandasse un'armatura, saresti sempre la più vulnerabile di tutti i tributi presenti. Vuole salvare l'insalvabile lui, vuole fare l'eroe. Ma io ti ucciderò, Annie. E tutti i soldi degli sponsor andranno a me.”

Deglutii.
“Quale sponsor credi di abbordare, Jonathan?! È tutta questione di apparenza! A chi vuoi che piaccia un tributo senza cuore e senza ritegno, capace di uccidere la sua compagna per ottenere il favore del mentore?”
Lo vidi lanciarsi su di me, e riuscii ad evitarlo per un pelo.
Lui si alzò immediatamente e stringendo minaccioso quel coltello si avvicinava sempre di più.
Mi tremavano le gambe, non riuscivo a muovermi velocemente. Jonathan alzò la mano per colpirmi, ma qualcosa lo colpì per primo.
Mi cadde addosso, con mio profondo orrore, ma anche con mia estrema fortuna.
Colui che lo aveva colpito infatti non si era accorto della mia presenza e, dopo averlo ucciso, aveva continuato il suo cammino nella direzione opposta alla nostra.
Sentii sul mio collo l'ultimo respiro del mio compagno, e un grido mi morì in gola.
Sentii lo sparo del cannone e anche se almeno altri cinque ragazzi erano già caduti a terra ero più che certa che quel suono decretasse la morte del mio compagno.
Ero sola, adesso, assolutamente e dannatamente sola.

Dopo qualche minuto tutto sembrò calmarsi: il Bagno di sangue era finito, e tutti erano corsi via dalla radura scoperta dove regnava la Cornucopia per trovare un rifugio per la prima notte.
Intanto io ero ancora nascosta sotto il corpo esanime di un mio concittadino.
Quando ebbi la certezza di essere risasta l'unica nella piccola valle, presi coraggio e mi liberai dalla stretta fredda di quel corpo. Notai con orrore il sangue di Jonathan sul mio volto, sulla mia tuta, mescolato al mio sul braccio.
Vomitai a terra, come feci alla mia prima mietitura.
Mi sentii debole e stanca, come se avessi corso per chilometri.
Mi sentii sporca, sporca dentro. Colpevole, in un certo senso.
Anche se in realtà, io non avevo ancora fatto niente.
Mi guardai intorno, per decidere da che parte andare.
E scelsi di dirigermi verso il fiume, l'elemento a me più familiare.

Cominciai lentamente a risalirlo, silenziosa e discreta. Attenta ad ogni minimo spostamento d'aria.
Non so esattamente cosa mi aspettassi, una volta giunta alla sorgente di quel corso d'acqua, ma davvero la mia mente non mi permetteva di fare di più.
Avevo bisogno di un percorso certo da seguire, qualunque esso fosse, in un luogo in cui le certezze non esistono.
Sentivo la mancanza di Finnick, sentivo la solitudine pesarmi sulle spalle, nonostante fossi sempre stata un tipo solitario.
Iniziavo a non sopportare più neanche il dolore al braccio, sempre più forte e pulsante. Ma almeno in quello qualcosa di positivo lo trovavo: riusciva a distrarmi dal dolore che sentivo dentro di me.
Quando raggiunsi la sorgente era già buio, e al chiarore della luna ciò che scoprii mi sembrò ancora più sensazionale di quanto lo fosse in realtà.
Era una sorgente artificiale, originata da una enorme diga che si alzava per metri sopra la mia testa. Mi chiesi se davvero ci fosse dell'acqua dall'altra parte. Appoggiai l'orecchio sulla superficie liscia e fredda, e ne ebbi la conferma.

Stanca morta, decisi di accamparmi lì, nonostante non avessi davvero niente da fare: non avevo niente da magiare, né la certezza che l'acqua del fiume fosse potabile. Non avrei potuto chiudere gli occhi neanche per un secondo, per il terrore che l'immagine di Jonathan venisse a tormentarmi,
Rimasi in attesa allora dell'inno che conclude ogni giornata. Guardai i volti dei morti di quel giorno, 14 tributi.
In contemporanea con la fine dell'inno, vidi scendere dal cielo un piccolo paracadute.
Pagnotte tipiche del mio distretto, la mia cena.
Sorrisi, pensando a Finnick. Cercai di non pensare a quanto mi stesse mancando, a quanto avessi paura, a quanto avrei voluto tornare a casa.
Mangiai e basta, socchiusi gli occhi, ma fui costretta a riaprirli.
Jonathan era già pronto a darmi la caccia.

 

 

Angolo dell'autrice
Salve a tutti, ci si rivede dopo qualche settimana di assenza.
Le vacanze si fanno sempre più intense e anche se mi dispiace moltissimo, il tempo da dedicare alle storie si è ridotto alle ore notturne, lavoro finché non cado addormentata sulla tastiera, pertanto devo ricontrollare tre volte di più ciò che ho scritto prima di pubblicare. Sì, sono terrorizzata dagli errori ortografici, spero di aver fatto un buon lavoro con questo capitolo!
Poi, come già avevo preannunciato ho deciso di non rispettare esattamente le parole della Collins per quanto riguarda il modo in cui muore il compagno di distretto di Annie.
Spero che per voi non sia un problema, sinceramente non ho mai apprezzato il fatto che Annie impazzisse alla vista della testa tagliata del ragazzo. Ho sempre creduto ci fosse qualcosa di più profondo dietro alla sua “pazzia”, e diciamocela tutta, non sono il tipo da teste tagliate di netto, ecco.

Se non lo avessi già dato a vedere, sono abbastanza insicura su questo capitolo. È stato difficile scrivere quest'inizio dei giochi, davvero difficile.
Spero davvero che ci sia ancora qualcuno disposto a leggere e a lasciare un commento alla storia, vorrei davvero sapere che cosa ne pensate stavolta.
Detto questo, ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito i capitoli precedenti. Tutto questo mi sprona davvero tanto ad impegnarmi in ciò che scrivo!
Grazie ancora, a presto...

Mel

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Capitolo 12
*** L'apparenza inganna anche sé stessa ***


L'apparenza inganna anche sè stessa
 

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Finnick sente la pressione della mano di Mags sulla sua spalla.
Credevo che dato che sono io il mentore ufficiale adesso, non ti saresti fatta vedere in giro quest'anno. Non avevi detto di essere stanca degli Hunger Games?”- dice, senza troppa enfasi.
La donna si siede vicino a lui, guardandolo preoccupata.
Non ti lascerò da solo ad affrontare tutto questo, Finn. Lo sai bene.”
Finnick si volta, la guarda negli occhi e sente le lacrime correre veloci, premere per uscire.
Con un'incredibile forza di volontà riesce a rimandarle indietro.
Sto bene Mags, davvero. Sono solo stanco”- mormora, abbracciandola.
Stai facendo un ottimo lavoro”- lo tranquillizza lei, accarezzandolo.
Finnick scuote la testa.
I problemi sono appena iniziati... Ma almeno è riuscita a superare la prima giornata... Il fatto è che io mi sento così inutile! Vorrei essere al suo posto, vorrei poterla salvare davvero. Vorrei non averla costretta ad affrontare tutto questo. Non la prenderà bene, Annie è troppo fragile, tu lo sai Mags...”
Si prende la testa tra le mani.
Vorrebbe davvero correre a salvarla, si sente in colpa per tutto ciò che è successo.
Tu non c'entri Finn... È successo, poteva non succedere e sarebbe stato meglio. Ma adesso la situazione è questa, e non puoi scappare.”
Non voglio scappare. Non scapperò. Mai.”- dice con decisione, stringendo i pugni.
Mags sorride: “Lo so. So che sarai sempre qui per lei. Lo so che le vuoi bene.”
Finnick si abbandona sulla sedia, reclina la testa all'indietro.
Non ce la fa, sente davvero di non riuscire a sopportare quel dolore che la lontananza da Annie gli provoca.
Ha paura per lei. Non può farci niente.
Dormi, Finnick. Se succede qualcosa ti sveglio. Te lo prometto.”- sente Mags dirgli.
Così appoggia la testa sulla sua spalla e chiude gli occhi.
Ai suoi soliti incubi, fatti di grida e sangue, si aggiunge la figura della sua ragazza, accerchiata da una decina di tributi.
La sente chiamare il suo nome, la vede soccombere sotto la furia dei suoi aggressori.
ANNIE!”- grida con tutto il fiato che ha in corpo.
Il cuore batte ad un ritmo accelerato, sembra voler uscire dalla gabbia toracica.
Era solo un sogno”- mormora, quando si accorge di essere nella sala dei mentori.
Ma, sfortunatamente, come ormai sa bene, non c'è nessun sollievo nel risvegliarsi.

“FINNICK!”
Quanto era passato? Sinceramente non ne avevo idea. Mi sembrava di stare là dentro da anni.
Minuto dopo minuto, ora dopo ora, tutto diventava meno chiaro e poco nitido.
La realtà mi appariva come distorta e falsata.
Tremavo come una foglia, nonostante il sole fosse grande ed alto nel cielo.
La ferita doveva essersi infettata e mi procurava, oltre a dolori allucinanti, una febbre insopportabile.
Duravo fatica a restare lucida, mi sembrava che tutto intorno a me girasse troppo velocemente.
“Finnick!”
Non me ne rendevo conto, ma gridavo il suo nome a squarciagola.
Il vuoto che si espandeva dentro di me mi divorava, mi spaventava. Avevo bisogno di lui. Non riuscivo a resistere.
Mi odiavo, con tutto il cuore.
Perché, perché non riuscivo a controllare la mia mente come facevano tutti gli altri?
Perché non ero capace di gestire i miei pensieri?
Era il terrore, il padrone di tutto.
Niente del mio corpo mi apparteneva più.

Mags, mi sta chiamando!”- grida, fuori di sé, con le lacrime lungo il viso ed il collo.
Calmati Finn”
Sta urlando il mio nome! E dove sono io adesso, eh? Qua, dove non posso fare niente per lei!”

Un rumore di passi mi fece trasalire.
Scattai in piedi, mi pulii gli occhi e vidi una ragazza, non ho idea di quale distretto fosse.
Aveva uno sguardo compiaciuto, una lancia in mano.
Ero spacciata, quella fu la mia prima conclusione.
Ero distrutta emotivamente, non credevo davvero di riuscire a reagire.

È finita”- continua a piangere, senza riuscire a fermarsi.
Smettila Finnick. Fiducia, ecco cosa ti serve. Devi fidarti di lei”- lo rimprovera Mags.

Ma qualcosa in me continuava ad urlare.
Vivi Annie, vivi. Devi tornare a casa, questo non è posto per te.
Un attaccamento alla vita che non avevo mai dimostrato gorgogliava dentro di me. Non volevo morire.
Strinsi le mani, e il dolore che mi aveva tormentata fino ad allora si dissolse.
La ragazza rise sonoramente di fronte al mio tentativo di farmi forza.
“Sarà un gioco da ragazzi farti fuori...”- disse, scagliando nella mia direzione la lancia, che mi mancò per un pelo.
“Già...”- commentai io raccogliendola- “... se solo tu avessi un minimo di mira.”
Mai avuto tanto sarcasmo. Mai sentita tanta cattiveria.
Mi avvicinai a lei con l'arma in mano. Mi guardava stupita ed incredula di aver mancato il colpo, ma soprattutto scioccata dalla piega che stava prendendo la situazione.
“Cosa pensi di fare con quella... Non sei capace neppure di tenerla in mano!”- mormorò, cercando di convincersi di ciò che stava dicendo.
Ma si era scordata, o forse neppure aveva mai saputo, che io ho passato la mia vita nel distretto 4, guardando Finnick Odair pescare.
Che mio padre era un pescatore e che maneggiavo attrezzi del genere quotidianamente.
“L'apparenza inganna...”- sibilai.
Il suo tono mi infastidiva, mi infastidiva il suo modo di fare.
La guardai, guardai la lancia tra le mie mani.
Feci un respiro, e la rabbia cominciò a scorrere veloce nelle mie vene.
Un gesto rapido del braccio (ovviamente quello sano) e piantai l'arma nel ventre della ragazza, che cadde a terra con gli occhi sgranati.
Avevo appena ucciso una persona innocente con le mie stesse mani.

Finnick respira, dopo essere rimasto senza fiato per diversi secondi.
È viva. Ce l'ha fatta.”- dice Mags semplicemente.
Lui continua a fissare il monitor, incredulo. Rivede lo sguardo di Annie proiettato dalle più disparate angolazioni.
Capisce che cosa doveva aver provato lei guardandolo durante i 65esimi Hunger Games. Sa che è la medesima sensazione che prova lui adesso.
I giochi sono in grado di cambiare anche un animo puro come quello della sua ragazza.
Sapeva che Annie sarebbe stata in grado di difendersi, addirittura di attaccare, in caso di necessità.
Ma mai avrebbe pensato avesse il coraggio di uccidere.
Adesso la guarda piangere, divorata dal senso di colpa.
Ce l'ha fatta. Ma a che prezzo?”- si chiede.
Annie si getta a terra, in preda a spasmi incontrollabili. Si preme le mani sugli occhi, sulle orecchie.
Finnick sente ancora una volta il suo dolore.
Devo tirarti fuori di lì al più presto.”



 

Angolo dell'autrice
Torna finalmente la fic con gli aggiornamenti meno costanti dell'universo con un nuovo, avvincente (oddio, mi sono ridotta a dirmelo da sola, sono irrecuperabile ormai) capitolo.
Capitolo in cui torna, a grande richiesta (?), il punto di vista di Finnick sulla faccenda.
Non che ci sia molto da dire, da questo punto in poi Annie comincia piano piano a cambiare in funzione dei giochi, non senza una buona dose di senso di colpa.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbia descritto in maniera decente quel poco di azione che ho inserito.
Ringrazio AlnyFMillen che con la sua recensione mi ha fatto riflettere sull'importanza dei titoli, con la speranza che quello di questo capitolo le piaccia.
Ovviamente ringrazio anche tutti i miei lettori e recensori, grazie davvero!
Ci vediamo presto (speriamo, perché quando partirò per le vacanze di famiglia trovare una connessione decente non sarà una passeggiata).

Mel

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Capitolo 13
*** Acqua ***


Acqua

 

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Se non altro, uccidendo quel tributo mi ero accaparrata qualche sponsor. E in qualche modo riuscii a curare la ferita sul braccio grazie al kit medico che alla sera vidi atterrare davanti ai miei piedi.
Ma nonostante questo, era davvero difficile riuscire a resistere.
Passavo momenti di disperazione, paura, terrore, desolazione.
In cuor mio, sapevo che non ce l'avrei mai fatta a tornare a casa sana e salva. Ogni tanto mi passava per la testa il pensiero di uccidermi da sola. In fondo, avrei preferito farlo io che qualcun altro.
Poi però pensavo a Finnick, a come avrebbe reagito ad un mio simile gesto.
Allora alzavo gli occhi bagnati al cielo, e pregavo perché quella tortura potesse finire presto.
Passavo le ore nascosta nel bosco vicino alla diga. Era l'unica cosa che in un certo senso mi rassicurava.
Mi bastava appoggiare l'orecchio su quella superficie gelida per sentire l'acqua che premeva dall'altra parte per uscire. Ed era come una sorta di terapia, che mi riportava alla realtà, che mi dava forza e speranza.

 

Finnick sospira, una mano nell'acqua della grande fontana nell'atrio dell'edificio dove ha passato così tante notti insonni ormai.
Il cuore nel suo petto batte ad un ritmo esagerato, tanto che certe volte lui stesso stenta a credere essere umano.
Sì, da quando la settantesima edizione dei giochi è iniziata, lui non si sente più sé stesso.
Gli sembra di essere un burattino, un'inutile bambola di pezza chiusa in una scatola in soffitta.
Qualcosa gli opprime i polmoni, impedendogli di respirare.
Ma, in qualche modo, il contatto con quel liquido lo rassicura.
Lo riporta a casa, in mezzo alla salsedine e alle alghe verdi. Tra reti da pesche consumate dal tempo e barche di legno da poco riverniciate.
Ha paura. Tanta. Troppa, perché possa fare bene il suo lavoro di mentore.
Ma Finnick in questi Hunger Games non si sente un mentore.
Si sente tributo, per la seconda volta.

 

Non ero in grado di cacciare, e quando mai avrei dovuto imparare? L'allenamento pre-giochi si era rivelato abbastanza inutile sotto questo punto di vista.
Così, mi accontentavo delle erbe, bacche e radici, che studiavo e classificavo bene prima di ingoiare. In ogni caso, la fame era quella che meno mi disturbava.
Il sangue sulla mia tuta invece, mi faceva impazzire.
Era come se fosse lì apposta a ricordarmi ciò che avevo fatto, il delitto che avevo commesso.
Continuavo a strofinare in quel punto, poco sopra il bacino, dove gli schizzi della ragazza mi avevano raggiunta. Ero ossessionata, incapace di compiere un movimento diverso dal passare la mano sul tessuto sporco.

La sete invece, mi dava qualche problema in più.
Non avevo la certezza che l'acqua del fiume fosse potabile, Finnick mi aveva precedentemente detto di diffidare dell'acqua facile da reperire, e avevo finito in un giorno quella contenuta nella borraccia del tributo che avevo ucciso.
Come se non bastasse, ad alcune ore il calore del sole era davvero insopportabile. Sembrava avessero deciso di farmi morire disidratata.
E ancora una volta, partiva dentro di me quella voglia di vivere, accecante e incontrollabile, che mi portava a camminare per miglia e miglia, alla disperata ricerca di una soluzione. Per poi tornare esattamente al punto di partenza ed abbandonarmi alla depressione.
Tutto così. Momenti di disperazione e voglia di morire, alternati ad altri di rabbia e voglia di vivere.
Debilitante, per me che già non riuscivo a controllare i miei pensieri in condizioni normali.

Fu durante uno dei miei tanti giri a vuoto, che incontrai la “coppia” dell'edizione.
Il tributo del primo, e quella del secondo.
Li avevo osservati a lungo durante gli allenamenti. Si erano subito piaciuti, avevano formato un'alleanza ancora prima di entrare nell'Arena.
E stavano davvero bene insieme.
Li trovai seduti nel bosco, con la schiena contro un tronco di un albero caduto, che si baciavano indisturbati.
Mi nascosi, abbastanza lontana da poter scappare al primo segnale di pericolo.
Ma anche se era terribilmente rischioso rimanere lì, non riuscivo a staccar loro gli occhi di dosso.
Bruciava dentro di me la voglia di riabbracciare Finnick, di sentire le sue labbra sulle mie.
In un certo senso, li invidiavo quei due.
Poi la situazione prese una strana piega.

“Ti amo, Liz”- fece il ragazzo. Ma nei suoi occhi non c'era l'amore che mi ero immaginata.
“Oh, anch'io”- rispose semplicemente lei, guardandolo, con un'espressione decisa sul volto.
“Però, tutto questo è sbagliato. Da qui solo uno dei due esce, e tu lo sai.”
“Oh, certo che lo so”- e la ragazza si lasciò sfuggire un sorriso.
Era tutto davvero surreale, le loro facce, i loro modi di fare, il loro tono.
Non era una conversazione tra normali fidanzati, quella. Ma dopotutto, eravamo pur sempre all'interno di un'Arena. Niente là dentro poteva essere affiancato dall'aggettivo normale.
“Se non altro, in questo caso sarebbe appropriata la frase Ti amo più della mia stessa vita”- continuò poco dopo il tributo.
“Già...”- e lei continuava a sorridere, in un momento come quello, lei trovava la forza di alzare gli angoli della sua bocca e scoprire i suoi denti smaglianti. Perché?
“Ma io Elizabeth, purtroppo per te, ti amo meno della mia vita”
Sgranai gli occhi a quella parole.
In pochi secondi la poverina si ritrovò un coltello alla gola, un rapido gesto e una collana di sangue si dipinse sul suo collo.
“Avessi avuto la certezza della tua vittoria, probabilmente sarei morto per te. Ma non vali la mia vita Liz, mi dispiace.”- disse, per poi allontanarsi, lasciandola lì a morire da sola.


Mi aggrappai con tutte le mie forze alla corteccia dell'albero dietro al quale ero nascosta, per non cadere a terra.
Non riuscivo a capacitarmi di ciò che avevo visto.
Le immagini si ripetevano della mia testa all'infinito, ad una velocità folle.
Perché? Perché mai era accaduta una cosa del genere?
Il colpo di cannone mi risvegliò, corsi per allontanarmi dal corpo del tributo.
Davvero l'Arena era in grado di cambiare anche i sentimenti più sinceri e puri come l'amore?
Loro mi erano sembrati così perfetti, così in sintonia durante gli allenamenti.
E alla fine, lui l'aveva uccisa senza pietà.
Mi ritrovai a gridare, piegata su me stessa per far smettere quel dolore terribile.
Poco mi importava in quel momento di essere scoperta.
Se neppure l'amore, l'unica cosa che mi tenesse ancora in vita, aveva senso negli Hunger Games, pensai che forse davvero sarebbe stata meglio la morte.
Nei miei pensieri, il volto della ragazza diventò il mio, quello del tributo si trasformò nel volto di Finnick.
Baci, sussurri. E poi sangue, un cuore infranto, vuoto. Il mio. Infine il buio totale.
Caddi giù, con il viso contro le foglie secche e il terriccio. Affondai le dita nella terra, ultimo tentativo di rimanere presente, viva in qualche modo.
Ma dopo pochi attimi, la terra non c'era più. Solo acqua, nei miei occhi, sulle miei guance e nella mia bocca.
Per qualche momento pensai di resistere, di respingere le lacrime e di tornare in me.
Ma invece lasciai la presa, e sprofondai.

 

Finnick è ritto nel mezzo della stanza dei mentori, sotto lo sguardo di chi ancora è rimasto ad osservare il disgustoso spettacolo.
Tra i suoi colleghi, c'è chi si lascia sfuggire una risatina, di fronte al suo sgomento per la caduta del suo tributo.
Altri invece gli sono solidali, capiscono il suo dolore.
Sanno che Annie non è solo la concorrente del suo distretto. È molto di più.
Finn”- la mano di Mags si poggia sulla sua spalla.
Lui trema. Perché sa esattamente cosa sta pensando la sua ragazza.
No...”- mormora, ancora sconvolto.
Sta dubitando di lui. Ne è certo. Annie vede nella sua testa immagini irreali e irrealistiche.
Perché lui non le farebbe mai del male. Mai.
Lotta giorno e notte per proteggerla.
No, non puoi crederci davvero, Annie”- sibila.
La vede, distesa inerme a terra. Sfinita dai suoi stessi incubi.
Devo tirati fuori di lì”- pensa per la seconda volta.
Esce dalla stanza, malfermo sulle gambe.
Sente di essere sul punto di perderla. Sta per perdere tutto ciò per cui ha lottato fino ad adesso.
Avrebbe tanta di quella voglia di piangere, ma non può.
Semplicemente non può perché si trova a Capitol City. E lui è una celebrità.
E le lacrime delle celebrità fanno il giro di tutti i giornali nel giro due secondi.
Conserva ancora dentro di sé quella voglia di proteggere e nascondere il suo amore.
Nonostante ormai ci sia poco da proteggere.
Percorre i lunghi e splendenti corridoi con il cuore pesante, gli occhi gonfi.
Chiede di poter parlare con il capo degli strateghi.
In qualunque modo finisca, Finnick sa che questa edizione dei Giochi terminerà oggi.
È disposto a tutto, a qualsiasi cosa, pur di porre fine a quella sofferenza.

Finito il colloquio, si siede a terra.
E piange.
Piange perché fa male, fa male guardare quelle immagini.
Fa male pensare che dall'Arena non si torna indietro. Che lui non riavrà mai indietro la sua Annie.
Sa che a Capitol City le telecamere sono ovunque.
Sa che non dovrebbe piangere.
Ma ormai non ha più niente da proteggere.

 

 

Angolo dell'autrice
Arriva anche il dodicesimo capitolo, con un leggero ritardo rispetto a quello che mi ero ripromessa.
Ma la connessione aveva improvvisamente deciso di lasciarmi a piedi.
Spero che questo aggiornamento, che vi informo essere uno degli ultimi, la storia sta arrivando al suo termine, sia stato di vostro gradimento.
Questa volta ho messo tutta me stessa nelle parole di Finnick, mi auguro di aver fatto un buon lavoro.
Adesso vi saluto per un po' però: anche da me è arrivata l'ora della vacanza! Me ne vado in camper, perciò sarà difficile trovare la connessione sufficiente per collegarsi. In ogni caso cercherò di rispondere a qualsiasi recensione il prima possibile, niente paura!
Ma per il prossimo capitolo ci sarà da aspettare di più.
Con questo vi saluto, buone vacanze!
Mel

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Capitolo 14
*** Solo sollievo ***


Solo sollievo

 

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Mi risvegliai dal mio sonno senza riposo dopo qualche ora.
Sentii una sensazione strana, ma non nuova sulla pelle.
Cercai di aprire gli occhi, di alzarmi.
Ma qualcosa non andava. Non riuscivo a sentire niente, né il contatto con la terra, né la pressione dell'aria sulla mia testa mentre tentavo di rimettermi in piedi.
Mi guardai intorno, spaesata. E allora capii.
Ero totalmente immersa nell'acqua.

Il mio cuore prese a battere ad un ritmo accelerato. Mossi le braccia per raggiungere la superficie prima di finire l'aria.
Nuotare per me non era mai stato un problema, e in pochi secondi tornai a respirare aria pura.
Mi lasciai trasportare dall'acqua, che veloce scendeva a valle. Guardai dalla parte opposta e compresi cosa era accaduto: la diga aveva ceduto e tutta l'arena era stata inondata.
Sapevo che a forze del genere non si oppone resistenza, così mi ritrovai al centro dell'Arena, a pochi passi dalla Cornucopia.
L'acqua convergeva tutta verso un unico punto, un grande foro che fungeva da scarico.
Se fossi caduta nel foro e non sarei più riuscita a risalire, perciò con tutte le forze che avevo in corpo mi immersi e nuotando raggiunsi la Cornucopia, la quale ero sicura avrebbe resistito al flusso dell'acqua, e lì trovai un appiglio a cui aggrapparmi.
Passarono minuti interi, io me ne stavo con gli occhi chiusi stretta alla parete nella speranza di essere abbastanza forte da non venire spazzata via.

Erano gesti automatici, quelli che facevo per mettermi in salvo, non dettati veramente dalla mia volontà.
Non avevo paura dell'acqua, mi sarei volentieri abbandonata tra le sue braccia e lasciata trasportare lontano. Lontano dall'Arena, dagli Hunger Games. Da tutto quel dolore che sentivo dentro di me.
Non mi spaventava la Morte che avevo visto così da vicino in quegli ultimi giorni. Che avevo indirizzato verso persone che non conoscevo davvero, che non mi avevano fatto niente di male.
La Morte, che mi sembrava di vederla camminare davanti ai miei occhi e prendersi gioco di me, non mi faceva affatto paura. Solo rabbia.

Quando il flusso d'acqua finì, appoggiai di nuovo i piedi per terra, ancora tremante.
Mossi qualche passo fuori dal mio nascondiglio.
Intorno a me, solo distruzione. Corpi inermi portati là da quella forza inarrestabile, morti affogati.
Mi avvicinai al foro, sporsi un poco la testa. Sentii un grido morire in lontananza.
Poi il cannone, al suono del quale sobbalzai, chissà perché.
Spaesata, mi sedetti a terra, cominciai a fare qualche calcolo.
Infine la solita voce metallica mise fine ai miei tormenti.
“Congratulazioni Annie Cresta, sei tu la vincitrice dei 70esimi Hunger Games!”

 

Ha vinto”
Finnick non sa più cosa fare. Se ridere, piangere, correre o saltare.
Perché gli Hunger Games sono finiti, e Annie ne è la vincitrice.
La vede chiudere gli occhi in un'espressione che assomiglia solo vagamente al sollievo.
Degli uomini in divisa scendono dall'overcraft e la raccolgono per riportarla alla capitale.
Per riportarla da lui, finalmente.
Sente il cuore scoppiare.
Vorrebbe alzarsi, correrle incontro, abbracciarla e non lasciarla mai più. Per nessun motivo.
Eppure non ci riesce.
Si sente inchiodato alla sedia, incapace di muoversi.
Il mondo si è come fermato su quegli ultimi istanti di trasmissione.
Adesso cominciano le vere difficoltà.
Quello che succede dentro all'Arena è niente in confronto a quello che viene dopo.
E questo Finnick lo sa anche troppo bene.
La Vincitrice pazza dei settantesimi Hunger Games è già pronta per andare su ogni notiziario della capitale.
E lui non può che provare un moto di angoscia, nel sentire quelle parole.

Mags, tu credi che Annie sia pazza?”- mormora, quando la sente al suo fianco.
Siamo tutti pazzi, Finnick. Lo sei tu, lo sono io. E anche Annie lo è.”- risponde guardandolo apprensiva.
Sì, però non mi chiamano pazzo, quando mi vedono. Perché?”- si sente un bambino a fare certe domande, e forse lo è. Ma in questo momento proprio non capisce.
Sente lo sguardo di Mags posarsi su di lui, accarezzarlo e dargli la forza che in questo momento gli manca.
Annie è una di quelle persone che mostrano agli altri cosa succede là dentro. Ha fatto vedere il dolore, la falsità e l'ingiustizia dei giochi.
Tu ed io, come tutti gli abitanti dei distretti sappiamo che non è lei esagerata, gli Hunger Games sono davvero così. Ma i media di Capitol City devono fare di tutto per far sembrare lei nel torto. Per far sembrare che sia tutto un innocente divertimento”

Cosa c'è di innocente nel mandare a morte 24 ragazzi ogni anno? Come fanno a non capirlo da soli?!”- ribatte- “In questo posto nessuno sa cosa sia l'innocenza. Tutti abbiamo ucciso, in un modo o nell'altro.”
E non è un caso che abbia detto 24 invece che 23.
Si sente arrabbiato, perché quando ha partecipato ai giochi era troppo piccolo per avere la voglia di cambiare qualcosa. Ma adesso, adesso sente in sé lo spirito del ribelle.
L'uomo per natura non è fatto per uccidere. Ma la Natura stessa lo costringe ad imparare.”- le parole di Mags rimbombano ancora nella sua testa.
Non sentirti in colpa per ciò che è successo, Finnick. Nella tua vita non hai avuto alternative.”
Ma lei ne aveva. E io gliele ho tolte tutte.”- dice, stringendo i pugni.
 

Si siede accanto al letto, nella stanza così bianca da togliere il respiro.
In effetti, si sente proprio soffocare.
Vede la figura distesa davanti a lui agitarsi, muoversi nervosamente e mormorare parole incomprensibili.
Ma non ha bisogno di capire, per sapere cosa sta dicendo.
Le accarezza la guancia dolcemente, sospirando.
Quanto tempo dovrà ancora aspettare, prima di poterla di nuovo abbracciare?
La prima volta che Annie ha aperto gli occhi, ha cominciato ad urlare talmente forte, talmente disperata, che i medici hanno preferito sedarla, piuttosto che tentare di calmarla.
Il terrore di perderla, adesso che è riuscito a tirarla fuori, gli morde furioso le viscere senza dargli tregua.
Lo so che hai paura Annie... Ma io sono qui con te. Sempre.”- sussurra piano al suo orecchio.
F...Finnick”- ansima lei.
Sì, sono qui”- risponde lui, con il cuore a mille nel petto.
Annie si dimena tra le lenzuola, cercando di alzarsi.
I fili attaccati al suo braccio le limitano i movimenti, le danno un'orrenda sensazione di asfissia, Finnick la vede respirare senza che l'aria raggiunga davvero i suoi polmoni.
Ma nonostante tutto, riesce a mettersi seduta.
A quel punto getta le gambe fuori dal letto, pianta lo sguardo nel suo.
Finnick...”- mormora- “... giurami che quello che vedo ogni volta che chiudo gli occhi non è reale, non è vero. È solo frutto della mia mente malata. Dimmi che tutto questo non è successo davvero, ti prego”
Non un Ciao Finn, che bello rivederti, niente Mi sei mancato da morire.
Ma lui la capisce, sa perché fa così.
Lei comincia a piangere, e lui non può fare a meno di abbracciarla, prenderla sulle ginocchia e cullarla.
Non conta cosa è reale oppure no, Annie. Conta che adesso siamo qui, io e te, vivi, che gli Hunger Games sono finiti e noi siamo ancora insieme. Io sono reale e questo”- la baciò delicatamente- “...questo è reale.”

 

Ricordo quel bacio. Lo ricordo fin troppo bene.
Lo ricordo perché era tutto quello che desideravo, tutto ciò di cui avevo bisogno in quel preciso instante.
Ma non fu un bel bacio. Non lo fu, purtroppo.
Non fu uno di quei baci che si portano dietro il “...e vissero felici e contenti”, non ci fu passione, amore, dolcezza. C'era solo tanto dolore.
Una punta di sollievo, forse. Sollievo per aver ritrovato la metà mancante di noi stessi.
Ma l'amore, l'amore è un'altra cosa.
Chiusi gli occhi, sopraffatta dal male che si era impossessato della mia vita.

Piansi disperata contro il petto di Finnick, gridando pietà, perché mi restituissero il mio presente.
Sentivo i macchinari ai quali ero collegata emettere suoni sempre più forti.
Quei rumori entravano nel mio cervello e lo intasavano, lo mettevano fuori combattimento. Come ero io, del resto.
Una vincitrice senza premio, senza onore, senza merito. Bloccata, incapace di reagire.
Voci estranee si unirono al vortice di suoni nella mia testa.
Erano i medici di Capitol City, richiamati dai miei strilli.
Mi sentii stringere più forte da Finnick, avrei voluto sparire. Morire.
“No!”- gridò a quegli uomini che si stavano avvicinando- “Per favore, lasciate fare a me. Per favore...”- disse poi cercando di modulare il tono di voce.

La sua mano sulla mia guancia, le nostre fronti a contatto, le sue iridi nelle mie.
“Annie, ti prego”- sussurrò con un groppo alla gola- “Basta urlare. Lo so che stai male, lo so fidati. Ma ti prego, non urlare più. Altrimenti ti porteranno via da me, ti sederanno un'altra volta e non riuscirei davvero a sopportarlo”
Respirava a fatica, in preda ad una paura vera e densa che gli scorreva dentro.
Vedevo nei suoi occhi il terrore di perdermi nuovamente.
“Ti fidi di me, vero Annie? Io lo so quello che senti, perché ti conosco, e conosco ciò che hai passato là dentro. Ma urlare la tua rabbia non serve a niente, anzi peggiora la situazione. Fidati di me, lasciati guidare da chi c'è già passato. Ti prometto che non lascerò che i tuoi brutti pensieri si impossessino di te.”

Bastarono quelle parole. Quello sguardo triste, quella voce rotta con cui si rivolgeva a me.
Soffrivo, soffrivo tanto da non voler più vivere.
Ma non abbastanza da dimenticarmi di lui.
Del mio amico, il mio ragazzo. L'unico e il solo. Sempre.
Non soffrivo abbastanza da ignorare le lacrime nei suoi occhi, il ritmo accelerato del suo cuore.
Perché per me era più importante lui. Più importante degli altri, più importante di me stessa.
In quel momento non mi importava niente di ciò che la mia testa mi mostrava.
Capii che io Finnick lo amavo più della mia stessa vita. E lo amo tutt'ora, più di ogni altra cosa al mondo.
Promisi che mai più sarei stata la causa del suo male, che per me non avrebbe mai più dovuto soffrire. Promisi di non urlare, di non parlare nemmeno.
Chiusi gli occhi, lui mi abbracciò forte.
“Grazie Annie”- sussurrò.
E io non potei fare altro che affidarmi a lui. Arrendermi all'idea che niente sarebbe mai stato come prima. Che ormai ero la vincitrice pazza dei 70esimi Hunger Games, e non potevo oppormi.
Che dall'Arena nessuno torna indietro. Mai.

 

 

Angolo dell'autrice
Eeeeeeeee eccomi qua!
Ebbene sì, sono tornata dalla Francia. Cara Italia, ti sono mancata?
Allora, che dire? Questo capitolo è il disagio, me ne rendo conto.
Ogni singola parola trasuda disagio. Volutamente credo. Ma, davvero, spero di non aver esagerato.
Cavolo, se quello precedente mi era sembrato torci-budella per la piega che gli avevo fatto prendere, questo... questo è tremendo, me ne rendo conto da sola.
Però era questa l'impressione che volevo dare: perché negli Hunger Games la vittoria non esiste, io ne sono profondamente convinta.
Quello che si presenta davanti ai due protagonisti è un futuro buio e soffocante, che impedisce loro di vedere la fine dei giochi come la fine del dolore.
“Dagli Hunger Games non si torna indietro” è una frase ricorrente, chiave di lettura di questo racconto.
Nell'Arena ogni vincitore lascia un pezzo di sé, della sua anima e se Annie già prima poteva sembrare una ragazza diversa per come si approcciava al mondo e per il suo modo di ragionare, dopo i giochi i suoi problemi non possono che essersi aggravati.
Non esiste la felicità, solo sollievo. Questo giusto per riportarci al titolo.
Ma. Sì, c'è un ma.
Non dico altro, mi piace essere misteriosa ultimamente. Il ma avrà un senso nel prossimo aggiornamento, che avrei messo in agenda per questo sabato ma boh, non so se sono stata troppo ottimista. Ho sette miliardi di versioni di latino da fare (sì non ho tradotto neppure mezza riga quest'estate ok?) ma cercherò di pubblicare, in qualche modo.
Grazie a chi con pazienza infinita rimane in trepidante attesa dei miei aggiornamenti. Nel mio mondo la felicità esiste, e siete voi. Grazie di tutto.
Mi raccomando, fatemi sapere se questo capitolo è stato di vostro gradimento o se il disagio vi è uscito anche dalle orecchie! XD
Alla prossima!

Mel

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Capitolo 15
*** Di nuovo qui. Ovunque qui sia ***


Di nuovo qui. Ovunque qui sia 

 

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Non ricordo i miei primi momenti da vincitrice a Capitol City.
L'intervista e l'incoronazione ci saranno state senz'altro, ma io devo avervi partecipato sotto sedativi, evidentemente.
Il primo vero ricordo che ho dopo gli Hunger Games è del giorno in cui tornammo al distretto 4.
Quella mattina c'era il rumore degli applausi, le grida dei bambini, la mano di Finnick sulla mia spalla e la sua voce nel mio orecchio.
“Vieni Annie, andiamo di qua”- diceva guidandomi tra la folla.
Guardandomi intorno vedevo sorrisi e volti gioiosi, persino il sole splendeva così forte da mettere allegria, ma niente di tutto ciò mi raggiungeva minimamente.
Niente allontanava quel senso di freddo e angoscia che mi portavo dentro.

In qualche modo mi ritrovai nel Villaggio dei Vincitori, in casa di Finnick, assieme a Mags.
“Ci siamo Annie”- disse, appoggiando qualcosa sul tavolino del soggiorno- “Siamo a casa, adesso.”
Mi fece cenno di avvicinarmi dalla poltrona su cui si era seduta ed io lentamente andai a sedermi sul divano di fronte a lei.
“Dov'è Finnick?”- chiesi dopo un po'.
“È fuori a rispondere alla ultime domande dei giornalisti di Capitol City, a parlare con gli abitanti più illustri del distretto... Sbriga le ultime faccende in veste di mentore di quest'anno insomma”- mi rispose con un sorriso appena accennato ma sincero. Evidentemente era stanca quanto me di quella situazione.
Pochi secondi dopo la porta si aprì, lasciando entrare in casa il baccano della gente all'esterno.
“Certo, secondo loro io sono appena tornato dall'ultima edizione dei giochi e ho voglia di farmi vedere in giro, di presidiare a pranzi e cene, vero!? Ma andiamo, via!”
Mags si alzò di scatto e io la seguii con lo sguardo mentre raggiungeva Finnick in piedi nell'ingresso, intento ad imprecare contro qualcosa di poco chiaro, almeno per me.
“Dai Finn, lo sai che vogliono solo essere gentili... Sei il beniamino di questo distretto, dovevi aspettarti questa accoglienza dato che avete vinto questa edizione”- disse Mags.
“Vinto? Cosa abbiamo vinto?”- replicò lui, acido.
L'occhiataccia della sua mentore lo fece immediatamente calmare.
“Oh, scusami... Lo sai, è sempre difficile per me tornare a casa.”- mormorò.
“È difficile per tutti, credimi... Come è andata con...”
“Quelli di Capitol? Meglio del previsto”- si affrettò a dire lui.
Lo vidi perdersi nei suoi pensieri per un attimo, mi sembrò smarrito e impaurito per qualche istante.
Poi il suo sguardo tornò luminoso e sicuro come sempre. Si chinò ad abbracciare Mags, ancora in piedi davanti a lui vicino alla porta.
“Va' pure. Noi ce la caveremo in qualche modo, staremo bene”

 

Finnick, seduto sul divano di quella che mai prima di allora aveva chiamato casa, tortura con le dita un pezzo di corda con lo sguardo perso nel nulla.
Ha paura, eccome se ha paura. Ma precisamente di che cosa, ancora non saprebbe dirlo.
Una volta aveva sperato che finiti i giochi e riportata Annie al distretto tutto sarebbe stato più facile, e che avrebbero trovato insieme un modo per tornare alla “normalità”.
Ma erano speranze irrealizzabili, ora se ne rende conto.
Non c'è niente di normale in tutta questa situazione.
E Finnick soffre, sente una fitta lancinante alla testa, se pensa che ha perduto anche quell'ultima goccia di gioia e normalità che aveva nella vita.
Un urlo inonda la casa, riempie le sue orecchie e il suo cuore.
Finnick corre verso la sua stanza, corre veloce ma vorrebbe andare ancora più forte.
Annie...”
Il dolore aumenta, mentre davanti ai suoi occhi compare la sua ragazza rannicchiata a terra, con i palmi premuti sulle orecchie e gli occhi colmi di lacrime.
Come può essere quella, la sua realtà? Come possono loro continuare a vivere così?

Finnick... Finnick...”
È un lamento, una specie di cantilena quella che Annie mormora mentre lui si accovaccia su di lei e la abbraccia.
La stringe forte, per donarle più calore possibile, per ricordarle che è fuori, non è più nell'Arena da sola.
Lei lo guarda, lo riconosce ma nonostante questo non smette di piangere.
Mi dispiace Finnick... io... io avevo promesso che non ti avrei più fatto del male ma... ma non ci riesco, c'è troppo sangue, troppe grida...”
Quelle parole, le prime vere parole che Annie gli dice dopo il loro incontro nell'ospedale di Capitol City, lo trafiggono e lo uccidono.
Smettila, smettila Annie”- le sussurra accarezzandole la testa, cercando di tenere la voce più ferma possibile- “Non sei tu che mi fai male, non è colpa tua il mio dolore”
Sì invece... lo so che se piango o urlo tu stai male... magari ti vergogni di me, magari pensi che io sia diventata pazza per davvero... Ma io ti capisco Finn, capisco ma non riesco a fermarmi, non riesco a... a non aver paura dei miei incubi”
Quanti incubi diversi hanno tormentato Annie da quando è tornata? Finnick se l'è sempre chiesto, dalla prima volta che l'ha sentita gridare la sera prima di tornare al distretto 4.
Che cosa le mostra la sua testa? Che cosa fa lui, in tutti quei terribili sogni?

Annie... Annie guardami”- le prende il volto tra le mani che tremano come mai avevano fatto prima.
Adesso si ricorda di che cosa ha paura.
Teme che lei possa dimenticarsi di lui, del Finnick che pesca col bastone, del Finnick che la invita al ballo a cui lei non si presenta.
Teme che possa non sentire più l'amore che prova per lei, che è maturato e cresciuto in tutti questi anni.
Teme la sua vita senza Annie, perché sa di essersi sentito vivo solo con lei. Perché tutto quello che ha fatto dopo gli Hunger Games, l'ha fatto per lei.
Annie, hai ragione, io sto male. Sto male quando tu stai male. Quando gridi, vorrei gridare anche io, quando piangi, io vorrei fare altrettanto. Perché sì, sono disperato. Ma non perché mi vergogni di te, non perché ti consideri pazza. Perché ti amo. Ti amo così tanto che la sola idea di aver corso il rischio di perderti mi fa gelare il sangue nelle vene”
Tu... mi ami?”- la sente sussurrare, come se non riuscisse a credere possibile una cosa del genere.
Ti amo”- ripete con convinzione- “E il pensiero di aver perso un pezzo di te in quella dannatissima Arena mi uccide ogni secondo di più”

 

Furono notti terribili, non solo per me, anche per lui.
Mi addormentavo con la speranza di non ritrovarmi coperta di sangue, di non incontrare Jonathan o la ragazza che avevo ucciso. Speravo di ritrovarmi immersa nell'acqua del mare ed invece finivo sempre a sprofondare nell'oblio.
Il sangue rosso arrivava a sporcarmi i vestiti, la faccia. L'anima.
Quei tributi dalle facce sempre più sfigurate dalle cicatrici mi toccavano, stringevano, ferivano. E ad ogni contatto il freddo delle loro mani mi stordiva e immobilizzava.
Mi svegliavo bagnata di sudore, con un grido morto in gola.
Mi svegliavo senza riuscire davvero ad uscire dai miei incubi, vedevo Finnick ritto davanti a me ma le urla di dolore e disperazione rimbombavano ancora nella mia testa senza sosta.
Lo vedevo avvicinarsi a me, spostarmi i capelli dal viso. E le sue dita erano sempre calde, come la sabbia a mezzogiorno.
Portava le labbra al mio orecchio, la sua voce dolce si univa al quel vortice infernale di suoni.

 

Annie... è finita. Non c'è niente di cui aver paura”- mormora lentamente.
Il sangue... è reale?”
No, non lo è”- risponde tranquillo.
I tributi... qui... ma loro sono... loro erano... Morti!”
Ci siamo solo io e te qua Annie, adesso”
Sente il respiro di Annie farsi più regolare, il petto alzarsi e abbassarsi sempre più normalmente contro il suo torace.
Ma io... io li ho visti morire... Li ho visti nell'Arena, vero? È successo veramente?”
Finnick deglutisce, ma nessuna saliva bagna la sua gola secca.
Sì Annie, è vero. È successo mentre eri nell'Arena. Ma adesso non sei più dentro. Siamo nel nostro distretto, siamo a casa”
Finnick?”
Sì?”
Perché tu non c'eri? Perché tu non c'eri con me, tra tutti quei morti?”
E Finnick sente così male dentro che quasi vorrebbe prendere un amo e ficcarselo in un braccio, perché il dolore fisico sovrasti almeno per un attimo quello mentale.
Preme con forza le labbra sulla fronte della ragazza, senza sapere davvero cos'altro fare.
In quel momento, forse l'unica cosa che vorrebbe è essere il più possibile lontano da lei.
Ma sente la pressione delle dita di Annie sui suoi fianchi aumentare, come se intuisse i suoi pensieri e non volesse lasciarlo andare.
Scusami Finn. Non volevo dire quello che ho detto, credimi”
Sospira, lui sa che Annie non sta dicendo bugie, sente chiaramente la sincerità nella sua voce.
Non voleva fargli male di proposito,
Non ti preoccupare. Va tutto bene”- e lui non è sincero, sta mentendo spudoratamente.
Ma Va tutto bene è sempre stato più semplice di dire La mia vita si sta rompendo in pezzi talmente piccoli che dubito fortemente di riuscire a recuperarli tutti.
Mi dispiace che tu faccia le spese di una mia debolezza”
Quelle parole se le ricorda bene, perché le ha già sentite. Ed è stato lui a pronunciarle.
Sorride. I ruoli si sono invertiti di nuovo.


Piano piano riuscimmo a trovare una sorta di equilibrio, tornammo e sorridere e a vivere.
Il tempo passava e nonostante le immagini dell'Arena fossero pronte a tormentarmi continuamente, Finnick era sempre lì, per ricordarmi che eravamo al distretto 4, lontani da tutto quel dolore.
Sembrava crederci davvero in quello che diceva, sembrava che davvero pensasse che lì, a casa nostra, il dolore non potesse raggiungerci.
Anche se, in realtà, era più vicino di quanto ci piacesse ammettere.

“Andiamo al mare, ti va?”- mi chiese una sera, verso le otto.
“Adesso?”- risposi sorridendo, incredula.
“Non è questa l'ora in cui il mare ha i colori più belli forse?”- fece lui, afferrandomi per una braccio e portandomi fuori.
E come fossimo di nuovo quello che a tutti gli effetti eravamo, due ragazzini innamorati, cominciammo a correre. Sfidando il vento, ignorando la gente.
Cominciammo a correre a perdifiato verso la spiaggia principale, per poi andare avanti senza degnarla neanche di uno sguardo. Non era lì che volevamo stare.
Arrivammo fino al nostro pezzo di costa, dimenticato da chiunque ma non da noi.
Neppure dopo tutto quello che mi era capitato avevo scordato quel posto.
E per un attimo sentii come se quello che avevo perduto mi appartenesse di nuovo.

“È bellissimo... qua sembra che niente sia cambiato. Dovevamo venirci prima Finn”- dissi, stringendomi a lui.
“No, oggi è il giorno giusto. È oggi che dovevamo essere qui. Né prima né dopo”- rispose lui, lo sguardo sognante verso l'orizzonte dove il sole si apprestava a sparire.
Rimasi perplessa a quelle parole, di cui non capivo veramente il senso.
Poi un ricordo attraversò la mia mente, quel luogo con la sabbia sporca di resti di alghe secche e rocce troppo appuntite mi parlò e mi mostrò ciò che era successo esattamente lì, nello stesso giorno di tanti anni prima.

Sorrisi ripensando a quando gli Hunger Games avevano tentato di dividerci la prima volta, ma noi, forti nonostante l'età, eravamo diventati ancora più uniti di prima.
“Che cosa ci trovi in me, Finn?”- chiesi, ripensando a ciò che mi aveva risposto quella volta.
“In te Annie, trovo l'amore, la felicità. Ma soprattutto, trovo la pace che Capitol City mi aveva portato via. Nonostante tutto quello che ci è successo, anche se qualche volta ho creduto di essere sul punto di perdere ogni cosa... con te io mi sento bene. E ti ringrazio, perché è merito tuo se io non mi sento Finnick Odair, 'il più giovane vincitore degli Hunger Games', ma, semplicemente, Finn. Io ti amo Annie, credo di essermi innamorato di te proprio quel giorno in cui mi hai seguito fin qui. E non ho più smesso, te lo giuro. Qualsiasi cosa tu veda nei tuoi incubi, sappi che io ti voglio troppo bene per poterti abbandonare”

E in quel momento, in quel preciso istante, il tempo sembrava essersi fermato.
Il rosa del cielo, il vento a increspare la superficie del mare, il sorriso dolce sulle labbra di chi continuava ad essere al mio fianco persino dopo momenti troppo bui per vederne la fine. Tutto sembrava destinato a durare per sempre.
Il tramonto sembrava troppo bello per lasciare spazio alla notte, il vento troppo calmo per poter creare tempeste, quel viso troppo felice per poter conoscere la disperazione.
“Ti amo anche io Finn”- dissi, prima di chiudere gli occhi e poggiare le mie labbra sulle sue.

 

Dopo tutto quel dolore, nella testa di Finnick ci sono solo quei cinque vocaboli.
Ti amo anche io Finn”
Sente Annie pronunciare quelle parole per poi baciarlo, e sa di non averne mai udite di più belle in vita sua.
Mentre tutto inizia a farsi più confuso, lei rimane lì, fissa nella sua mente che adesso implode in sé stessa.
Immagini frammentarie e slegate tra di loro lo colpiscono senza toccarlo davvero.
Rivede la sua prima Arena, il primo paracadute argentato che ha osservato scendere dal cielo.
Vede il tridente che Beetee ha costruito per lui al 13, e si ricorda di tutte quelle persone incredibili che gli Hunger Games gli ha fatto conoscere. Katniss, Peeta, Johanna. Wiress e Beetee. Mags.
Una mamma più che una mentore, ecco che cosa è stata Mags per lui.
La sua risata sincera rimbomba dentro di lui, nel suo petto più che nella sua testa.
E Finnick in quel momento capisce cosa sta succedendo. Sa che sta per raggiungerla.
Una barca passa tra le onde dei suoi pensieri che si infrangono contro le sue meningi.
Si sforza con tutto sé stesso di tornare a quel cielo rosa, a quando aveva creduto sul serio di poter ricominciare da capo. Di poter dimenticare tutto il male che aveva vissuto, di chiuderlo per sempre dentro l'Arena della settantesima edizione.
Aveva fatto di tutto per tirare la sua amata fuori dà lì. Aveva persino venduto totalmente sé stesso al presidente. Aveva venduto il suo corpo, ma non il suo cuore.
E alla fine, ce l'aveva fatta davvero. Era riuscito a tornare a guardare quel bellissimo cielo insieme ad Annie.
Volta la testa, e lei non indossa più quel vestito rosso che gli piace tanto, ma un verde, puro e immacolato. Di un verde così chiaro che quasi sente gli occhi lacrimare.
Ma anche riuscisse a piangere, non è certo colpa della luce troppo forte.
Annie indossa il suo abito da sposa e guarda Finnick con un'espressione di autentica gioia.
Sì, ne è certo, quello non è sollievo. È più dell'allegria, più della semplice emozione.
È gioia, e lui sa di averla provata davvero.
Sa di aver sentito le guance farsi più rosse quando davanti agli abitanti di un distretto perduto è diventato marito di Annie Cresta.
Sa di aver visto una lacrima priva di tristezza rigare il volto della sua amata quel giorno. La prima dopo tanto tempo.
Sa tutto questo, perché lo ha vissuto.
E non vuole dimenticare.
Finnick tende la mano per afferrare Annie vestita da sposa, per tenersi stretto quell'ultimo dolce ricordo. Per portarlo con sé. Ovunque adesso stia andando.
Vorrebbe chiamarla, tenerle la mano, accarezzare il suo viso, prima che sia troppo tardi.
Prima che tutto questo finisca.
Un'altra onda arriva a togliergli il respiro, a rallentare il suo battito. Ad oscurargli la vista.
Così Finnick si arrende, mente e corpo sopraffatte dal dolore.
...Annie...”
Ed è tutto finito.

 

 

Angolo dell'autrice
Avrei da parlare di questo capitolo per giorni e giorni ma no, non lo farò.
Vi lascio il piacere di rifletterci da soli, di fare per conto vostro il minuto di silenzio e di maledire nell'intimità della vostra camera la Collins.
Io adesso me ne vado a piangere in un angolino, non sono minimamente in grado di scrivere tutto ciò che avrei da dire, tutto ciò che sta dietro a queste parole (sì, perché ci sarebbe una mia personale riflessione...).
Ci vediamo nelle note a fine capitolo dell'epilogo, che si prospettano moolto lunghe, tra una settimana.
Grazie per chi ha letto il precedente capitolo, chi ha recensito. Chi è arrivato a leggere fino a qui senza mandarmi un accidente. Grazie davvero.
Alla prossima,

Mel

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


Epilogo

 

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“Ma ancora non capisco... eravate così giovani, come hanno potuto i tuoi genitori permettere che non tornassi più a casa ma che andassi a vivere da Finnick?”
Annie alzò la testa, incontrando gli occhi della presidentessa, che rivelavano una confusione malcelata.
Haymitch taceva, fissando un punto indistinto sul muro di fronte.
“Mia madre è morta mentre ero nell'Arena. Era sempre stata cagionevole di salute e ho sempre pensato che fosse stata un'influenza più forte delle altre ad ucciderla. Ma adesso... adesso credo che la malattia non c'entri. Certe volte il dolore uccide prima del male stesso.”
“È vero...”- mormorò la Coin con un filo di voce.
La giovane donna parve non sentirla, immersa com'era nel ricordo che prendeva piede nella sua testa: “Finnick era nella capitale da tutta la mattina, e io ero stufa di rimanere chiusa in casa, così... così iniziai a camminare verso il porto. Attorno a me si alzava una nuvola di mormorii e bisbigli, ma nessuno mi rivolgeva la parola. Raggiunsi il porticciolo dove le navi dei pescatori stavano attraccate quando non erano per mare. Lì trovai mio padre, intento a sbrogliare una vecchia rete.
Mi avvicinai a lui, con il cuore che mi martellava nel petto, e solo in quel momento mi chiesi come mai io non vivessi più con lui e la mamma. Credetti che il ritmo accelerato fosse dovuto alla gioia e all'emozione di rivedere parte della mia famiglia. Ma mi sbagliavo. Quella era paura, la sola sensazione che lui fosse mai stato in grado di farmi sentire. La sola persona grazie alla quale continuava ad esistere la famiglia Cresta era mia madre. Nonostante stesse sempre male, riusciva a tenere a bada mio padre, a farlo ragionare.
Quel giorno, quando lui avvertì la mia presenza e mi guardò negli occhi, io capii. Non so dire come feci, ma capii che non c'era più niente che ci univa. Capii che era inutile parlare, chiedere, perché non avrebbe risposto. Perché non voleva rispondere. E in cuor mio le risposte ce le avevo già. Così me ne sono andata. E dopo qualche giorno, Mags venne a raccontarmi quello che prima non aveva avuto il coraggio di dirmi.”

 

 

“Non hai mantenuto la promessa”
Haymitch parve tornare alla realtà, scuotendo le spalle come per scrollarsi di dosso pensieri troppo freddi.
“Di che sta parlando?”
“La promessa di non essere più causa di dolore per Finnick. Non l'hai mantenuta”- rispose osservando Annie, che piano piano si era abbandonato contro la parete del corridoi,
“Oh, ma insomma Haymitch, ma le sembra una cosa da dire?!”- esclamò scandalizzata la Coin.
Sembrava davvero colpita da tutto quello che aveva ascoltato.
“Che ho detto di strano? È la verità.”- ribatté lui tranquillo.
La presidentessa gli rifilò uno sguardo di disappunto: “In ogni caso non credo che...”
“Ha ragione lui”- la interruppe Annie, guardando il pavimento- “Non ho mantenuto la mia promessa. So che Finnick ha sofferto tanto quando io ero prigioniera a Capitol City. Anche se non me ne ha mai parlato davvero, lo so. Gli ho fatto male per l'ennesima volta.”
Non piangeva più ormai, dopo ore e ore di racconti. Ma era straziante vederla così triste, immersa in dei ricordi troppo duri per lei.
Seduta per terra, con le spalle contro al muro e lo sguardo vuoto. Non era proprio un bello spettacolo.
Ma se non altro, sembrava aver ritrovato quella calma e quel distacco che aveva perso quando aveva visto le condizioni del suo amato poche ore prima.
Era distante, intrappolata in quel mondo dal quale solo Finnick era capace di tirarla fuori.
Non era più parte del mondo reale, era evidente.
Non si accorse infatti dell'uomo che uscì dalla porta dell'ospedale, che iniziò a parlare in modo sommesso alla presidentessa.

 

“Annie... Annie!”
La voce del mentore la risvegliò piano piano.
“Andiamo Annie, è l'ora di andare da Finnick.”
Lo sguardo della ragazza mostrava la sua confusione, il suo stordimento.
“Non era questo quello che più desideravi? Rivedere il tuo innamorato? Bene, adesso è arrivato il momento. Forza, sbrigati”- c'era qualcosa di terribilmente strano nella sua voce.
Ma Annie parve non farci troppo caso.
La prese pazientemente per mano, e la condusse fino ad una stanza poco lontano.
Aprì la porta per lei. “Forza, Annie. Va' da lui.”- mormorò, senza guardarla negli occhi.

Mosse qualche passo in avanti, finché non raggiunse una sedia, posta accanto al letto sul quale giaceva Finnick.
Con il cuore a mille, gli sfiorò la mano. Era fredda, immobile.
Come quelle dei tributi che le avevano sempre dato la caccia nei suoi incubi.
Gli occhi della ragazza si riempirono di sgomento, rischiò per un pelo di cadere a terra. Fortunatamente Haymich era ancora lì, e la sostenne afferrandola per un braccio.
“Annie, ascoltami bene adesso:...”
“No... non è vero...”- mormorò con un tono di voce appena percettibile lei, che pareva ormai irrecuperabile.
“Ascoltami: Finnick in questo momento non può muoversi, né tanto meno parlare, a causa di alcuni farmaci che gli hanno somministrato. Ma se vuoi... beh, puoi stare qui con lui se vuoi”- disse serio il mentore del 12.
Come risposta, vide il volto di Annie rigarsi di lacrime silenziose.
Lottava, faceva di tutto pur di non cedere al dolore. Ma era evidente a tutti che non avrebbe resistito a lungo in quelle condizioni.
“Annie, è vivo. Per adesso devi farti bastare questo.”

E dopo quelle parole incontrò lo sguardo più duro che avesse mai visto, il dolore più profondo che qualcuno avesse mai mostrato di fronte ai suoi occhi. E sì che lui era entrato in un'Arena assieme ad altre 47 persone.
“Sì, come no Hyamich. È vivo. Come me e come te. Vivo.”- c'era così tanta rabbia in quelle parole, così tanto rancore.
“Già, come noi. È vivo, e dovresti ringraziare il cielo per questo.”
“Ah sì certo, ho mio marito disteso immobile su un letto di ospedale, un figlio in arrivo e una crisi isterica in corso, e dovrei pure ringraziare qualcuno?! Ma chi, chi devo ringraziare per tutto questo? Di chi è il merito?!”

Gridava, gridava ancora una volta, dopo tanto silenzio di fronte al prossimo.
Gridava incurante della gente che la guardava, che la indicava.
Non le importava se la chiamavano pazza, o esaurita. Perché era esattamente così che si sentiva.
Gridava perché, per l'ennesima volta, qualcuno si era portato via il suo futuro, dandole in cambio un orrendo presente.
Perché la Morte, dopo cinque anni, si era presa ancora gioco di lei.
“Annie, per favore, calmati... E soprattutto non urlare, non vorrai che ti senta...”- tentò l'uomo, comunque non troppo deciso.
“Chi, chi non dovrebbe sentirmi!? Voglio che mi sentano, invece. Voglio che mi sentano fino a Capitol City, voglio che il presidente in persona possa udire il mio grido di dolore.”
“No, io mi riferivo a lui...”- replicò l'altro, accompagnando le sue parole con un movimento della testa in direzione del letto.

“Oh, Hyamich, pensavo non mi reputassi così sciocca”- e a quel punto, quella che parlava non era più la Annie delle conchiglie raccolte sul fondo del mare, dei baci impacciati al tramonto, dei silenzi preziosi.
Quella Annie era sparita. Morta insieme a colui che l'aveva tenuta in vita per tutto questo tempo.
Adesso era quella pazza incapace di controllare i suoi pensieri, ma capace di uccidere a sangue freddo. Quella degli Hunger Games, egoista, sarcastica. Quella così attaccata alla vita, da desiderare la morte.
Proprio così, nella sua esistenza dopo gli Hunger Games c'erano stati solo paradossi.
Una vittoria destinata solo a chi viene sconfitto, una felicità di quelle tristi, il coraggio dei paurosi di fronte agli incubi.
I suoi occhi non erano vuoti, ma pieni, pieni di quell'odio così profondo e vero, colmi di dolore tanto da traboccare.
“Non ho bisogno di un colpo di cannone per riconosce un morto, Haymich. E nemmeno tu dovresti”

 

E allora, neppure lui seppe tenerle testa.
Di fronte alla semplice verità, di fronte a quella consapevole sincerità, lui non poteva davvero fare più niente.
Avevano messo in scena quella inquietante finzione per renderle meno doloroso il distacco dall'uomo che voleva dire così tanto per lei, che l'aveva amata e protetta come nessun altro.
Avevano tentato di illuderla che ci fosse una speranza, ma per quelle come Annie le speranze se ne erano andate da tempo, avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto capirlo dal modo in cui parlava di suo padre poco prima, e avrebbe dovuto impedire che la prendessero in giro.

“Mi dispiace tanto Annie”- balbettò leggermente.
Era colpito lui stesso dalla propria reazione: mai si era fatto impressionare dalla Morte.
Neppure quando quella si era portata via Maysilee che teneva per mano, neppure quando aveva avvolto tra le sue spire alcuni tra i suoi più grandi amici, come Chaff.
Ma lì non erano agli Hunger Games, non c'erano sangue e boschi selvaggi in cui nascondersi, né acque torbide di laghetti troppo piccoli per ricordare il mare e grida di battaglia.
C'era solo un corpo vuoto coperto da un lenzuolo bianco e una donna sfregiata da una ferita incurabile.
E poi c'era lui, immobile, imbarazzato, inerme di fronte alla scena che i suoi occhi gli mostravano.

 

Annie guardava gli occhi ormai chiusi per sempre di Finnick, mentre i singhiozzi le scuotevano il petto tanto da farle male.
Ma niente, niente faceva male come sapere che era tutto finito.
Era finita la gioia, erano finite le carezze e i sussurri.
Era finita la calma, così come l'amore.
Che cosa c'è, al di là della linea che divide i vari momenti della vita?
Annie c'era, al di là del limite. Aveva superato quel confine con tutto il corpo. E non vedeva assolutamente niente.
Grida riempirono la sua testa, e sapere che Finnick non sarebbe arrivato a fermarle non l'aiutò a reagire.
Perché Annie non era forte, l'aveva sempre saputo. Era arrabbiata, stravolta. Pazza.
Ma nessuno di questi aggettivi contiene la forza, dentro di sé.

Haymich assisteva impotente al dolore di quella donna dai capelli rossi ormai sbiaditi, spenti.
La afferrò per le spalle, la trascinò via dalla stanza sollevandola dal pavimento, mentre lei opponeva inevitabilmente resistenza.
La teneva ferma mentre un medico si avvicinava e rapidamente le infilava una siringa nel braccio.
E poi la cullava, mentre Annie si addormentava contro la sua volontà, dritta verso un mondo brutto almeno quanto quello reale.
Haymich sentiva gli occhi bruciare, ma non piangeva. Non piangeva mai, lui.
Forse non era la Morte stessa che lo lasciava sconvolto.
Era il comprendere una cosa che spesso i Vincitori tendono a dimenticare.
Certe volte anche alla Morte piace uscire fuori di casa.
E certe volte è più crudele verso chi evita, piuttosto che verso chi si porta via.

 

 

Nota dell'autrice
La vita è una ruota, diceva il mio capo scout quando ero lupetta.
Forse è per questo che ogni volta che sentivo dire "Il ciclo della vita" io mi sono sempre ritrovata a pensare ad una bicicletta.
Prima non sai stare in equilibrio, e stai seduto sul seggiolino mentre qualcuno guida per te. Poi impari e inizi a pedalare da solo, ma sempre legato a chi prima ti aveva guidato da una corda sottile.
Così sottile e così facile da spezzare.
Quando spezzi ogni legame, volente o nolente incontri la libertà, con tutti i suoi pregi e difetti.
La paura dell'ignoto, il brivido dell'avventura, l'opportunità vera di conoscere il prossimo.
Ed è così che va letta la storia: come un lungo giro in bicicletta.
Annie inizia il suo percorso con i fili già spezzati, dal dolore, dalla paura e in un certo senso, da Capitol stessa.
Annie comincia a pedalare senza sapere esattamente cosa fare, senza volerlo davvero. Ha una bici troppo grande per le sue gambe gracili.
E poi ha incontrato Finnick, che senza rendersene conto affiancandosi a lei le ha dato una buona ragione per riprendere la sua bicicletta sporca di sabbia e consumata dal sale e pedalare ancora.
E così, se inizialmente affrontano situazioni, osservano luoghi ognuno per conto proprio sul suo veicolo anche se insieme, piano piano problemi e scenari analoghi si ripresentano davanti ai loro occhi mentre loro guidano lo stesso tandem. Stesse frasi ricorrono nella storia, la loro storia, e anche se le parole sono identiche, non sortiscono il medesimo effetto tra i due la seconda volta che vengono pronunciate.
È una ruota la vita, un alternarsi di alti e bassi imprevedibile e implacabile.
Quando si è in altro non si deve far altro che alzare le braccia e godere del vento tra i capelli.
Quando si è in basso c'è solo da fare un bel respiro e spingere più forte sul pedali.

 

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Ringraziamenti
Bene, come sempre quando arrivo al termine di queste lunghe pubblicazioni che mi sono costate tempo e fatica ma che mi hanno data altrettanta soddisfazione, voglio ringraziare coloro che mettendo la storia tra le preferite, seguite o ricordate mi hanno supportato e soprattutto coloro che mi hanno consigliato attraverso le loro recensioni.

adele_12
AlnyFMillen
Conny Guitar
felpata91
Frozen_River
marti_tr
Milkendy
MrsRotlin
PazzaDiCioccolato
sacher_torte
Shehrazad
Sophia_S
zl_0920

Partendo dal presupposto che sono davvero grata a chiunque abbia commentato i primi capitoli e non i secondi, mi sento in dovere di ringraziare in modo speciale una persona fantastica che ho conosciuto grazie a questa storia e da cui ho imparato molto, non solo come scrittrice ma anche come lettrice e “abitante di EFP”.
Grazie AlnyFMillen, so che l'ho già fatto in passato, ma questa è l'ultima volta che posso ringraziarti in questa storia per il tuo impegno e dedizione nelle recensioni.
Sappi che comunque non ti libererai di me nonostante sia finita questa ff! ;)
E adesso, dopo riflessioni e ringraziamenti finali... è proprio finita.
Spero che questo epilogo non vi abbia lasciato troppo amaro in bocca (un po' era voluto, ma mi dispiacerebbe aver esagerato!) e di trovare qualche commento complessivo sulla storia, per capire come voi l'avete letta e interpretata, a prescindere dalla mia visione delle cose.
Alla prossima,

Mel

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