Stringendo Ricordi di Spine

di Micole
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il buio dell'alba ***
Capitolo 3: *** Accettiamo l'amore che crediamo di meritare ***
Capitolo 4: *** Nella vita non hai altro che maledizioni ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Cosa resta

Del dolore

E di preghiere, se Dio non vuole?

Parole vane al vento

Ti accorgi in un momento:

Siamo soli, è questa la realtà?

Ed è una paura che non passa mai.

Angelo, prenditi cura di lei,

Lei non sa vedere al di là di quello che dà 

E tutto il dolore

Che grida dal mondo

Diventa un rumore

Che scava, profondo

Nel silenzio di una lacrima.

 

 

[F. Renga; Angelo]

 

 

                          †•†•†•†•†•†

 

Cosa dovrei scrivere secondo voi lettori per iniziare?

Dovrei parlare dei due protagonisti, forse descriverli? 

A cosa potrebbe mai servirvi sapere se sono un uomo o una donna, bambini o vecchi, se sono parenti o sconosciuti, se sono ricchi o poveri, belli o brutti, se si ameranno o odieranno, o prima una cosa e poi l'altra, se saranno una coppia o solamente amici, se si salveranno o se sprofonderanno, se chi cadrà per primo si sfracellerà al suolo o riuscirà a crearsi una corazza protettiva ? 

Dovrei forse dirvi che lui si chiama Bruno, che quando si presenta evita di dire il suo cognome perché è per lui una vergogna e magari anche che è un bel ragazzo, con i capelli ricci e castani e che è un amante dei motori?

E dirvi che lei si chiama Ambra, che ha la fobia delle api e che è, senza dubbio, meno carina di lui, che sente di portarsi addosso sempre più chili del dovuto, che ha i capelli color miele e gli occhi neri? 

 

Credete adesso di conoscerli? Credete che queste siano le cose importanti da sapere per conoscere le persone ?

 

Facciamo un gioco cari lettori, dimenticate tutto quello che avete letto. Voi non conoscete i loro nomi, il loro sesso, le loro passioni o le loro paure, io scommetto con voi che vedrete con i vostri stessi occhi Bruno fare il suo cognome a pezzi affogando in lacrime silenziose; e che vedrete gli occhi di Ambra neri, più della pece, più scuri di quanto non abbiate mai creduto possibile, e chissà se nell'idea che vi siete fatti gli occhi di Ambra si riapriranno mai. 

 

Un'ultima cosa, lettori, ascoltate canzoni mentre andate avanti nella storia. Non solo mentre leggete, ma mentre vivete, lasciatevi trasportare e ballate, cantate, urlate, perché anche nel momento più duro, più basso, più triste, più scuro una canzone vi potrà salvare.

 

Volete giocare ?

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Capitolo 2
*** Il buio dell'alba ***


Il buio dell'alba

 

Roberto passeggiava a piedi nudi lungo il balcone osservando le luci dell'alba illuminare il Vomero. 

Ascoltava.

Lui era un ragazzo che ascoltava molto e parlava poco. Forse però una descrizione del genere è già troppo approfondita. 

Roberto parlava, eccome se parlava. Con gli sconosciuti. 

Aveva, e forse ha ancora, la strana capacità di farsi conoscere meglio dalle persone con sguardi e silenzi. 

Oltre ai suoi familiari comunicava, o meglio interagiva in quel suo modo particolare ed intimo, solo con due persone.

 

Mostrarsi per quello che era realmente era per lui qualcosa di molto intimo, così intimo che le sue fidanzate non si erano neanche potute avvicinare al vero Roberto. Ultimamente, invece, la ragazza che stava frequentando era entrata in lui, con la delicatezza di una piuma che si posa sulla superficie di un lago, ma aveva scatenato al centro di quel lago un vero tsunami. 

 

Roberto si stava scoprendo dipendente da questa ragazza, e la cosa non gli faceva provare neanche tutto il terrore che si era immaginato potesse derivare dal mettere il cuore in mano ad un'altra persona. Era incredibilmente felice. Anche se, pensandoci, non aveva ancora raggiunto con questa l'intimità che aveva con l'amica di sempre. Si chiedeva se mai un'altra donna avrebbe potuto rimpiazzare il suo ruolo. Si chiedeva se il loro rapporto avesse un nome, si chiedeva cosa sarebbero stati se avessero abitato nella stessa città.

 

Forse era proprio di quella ragazza che stava parlando con la sua amica, quando quest'ultima scoppiò in lacrime. 

In quei momenti si sentiva impotente, voler bene ad una ragazza con la quale da anni condividi discorsi notturni e non poterla mai abbracciare, perché lontana almeno cinquecento chilometri poteva essere distruttivo. 

 

Cercò di farla parlare, per capirla, per consolarla, per poter ascoltare la sua voce, ma si rese conto che lei era esattamente come lui. 

Non parlava mai di sé. 

 

Sentì il proprio cuore stringersi in un buio gelido, eppure il sole stava sorgendo luminoso iniziando ad illuminare il suo terrazzo fiorito, così curato dalla madre, inconsapevole di quanto fosse rilassante, per il figlio maggiore, quel luogo, durante le lunghe chiacchierate notturne con l'amica.

 

Non avevano mai parlato di giorno quei due, a parte il giorno in cui si conobbero.

 

La filosofia di vita della sua amica si basava sul fatto che la notte succedessero le cose più interessanti. Lei era una di quelle che di notte scriveva, convinta che l'assenza di luce fosse la vera fonte di ispirazione poiché nel buio le emozioni erano amplificate: la paura, il dolore, l'amore.

Nel buio si susseguivano quelle azioni che normalmente sarebbero state nascoste dagli occhi dei pieni pregiudizi, quelle libere da convenzioni e buonismi. 

 

Per assurdo, secondo lei, le cose di notte facevano più rumore del dovuto anche se fatte in silenzio, ed era un  rumore bellissimo: era musica.

 

La sua amica era fermamente convinta che  fosse la parte buia della giornata a dover essere  vissuta e quella luminosa per dormire. 

 

Il mondo girava evidentemente nel verso sbagliato ed era anche incapace di correggersi ottuso dalla comodità delle proprie convinzioni.

 

Dopo vari minuti di silenzio la sentì parlare : «Ieri mamma mi ha dovuto svegliare nel pieno della notte. Urlavo troppo. Urlavo cose che non avevano senso, ma ero così convinta di ciò che dicevo che aveva creduto fossi sveglia. Urlavo solo una frase: "Devo morire sola. Io devo stare sola "».

 

Non c'era bisogno di ulteriori spiegazioni per Roberto, lui sapeva cosa intendesse la sua amica.

Era un periodo particolare per lei: sua madre stava per sposarsi. 

Non che la ragazza fosse contro il matrimonio, o contro quest'uomo, che anzi era ciò che di meglio potesse capitare ad una donna come la madre, ma ai suoi occhi era come vedere l'ultima persona che credeva potesse cedere nuovamente all'amore finire attanagliata nelle maglie appiccicose di quella ragnatela disgustosa.

 

L'ultima sua certezza cadeva. 

 

Era allora vero che non si poteva vivere la vita in solitudine, si chiedeva la ragazza. 

Esisteva davvero il fantomatico amore, di cui tutti avevano bisogno che però trovava solo chi non cercava? 

No.

Sapeva che non era così. Lo avrebbe dimostrato, a se stessa, al mondo, alle donne che si facevano mettere i piedi in testa e le mani addosso in nome di questo sentimento così egoistico che veniva chiamato 'amore'

 

L'amore non esiste 

è l'effetto prorompente

di dottrine moraliste 

sulle voglie della gente 

è il più comodo rimedio alla paura 

di non essere capaci a rimanere soli

 

Così cantava, a buona ragione,  Max Gazzè, un altro che - la ragazza ne era convinta- viveva di notte. 

 

Roberto si accasciò lungo il muro esterno del terrazzo facendo strisciare la schiena fin al punto in cui si trovò seduto, pronto ad ascoltarla piangere lacrime silenziose. Sapeva che non avrebbe pianto per davvero, non si sarebbe sfogata, non completamente. Sapeva che gli avrebbe detto poco. Sapeva che da quel poco lui avrebbe capito.

 

Erano anni che le ripeteva che lei era forte, una roccia. 

Per quanto i due amici potessero essere incredibilmente simili erano anche molto diversi.

Lui le invidiava da sempre il saper stare da sola.

Lei desiderava essere capace di farsi voler bene e di diventare indispensabile per qualcuno, proprio come veniva naturale fare a lui.

 

Il cellulare di Roberto vibrò improvvisamente e contemporaneamente una moto sotto al suo terrazzo azionò gli abbaglianti per tre volte. 

 

Era il richiamo dell'altro suo confidente silenzioso. 

 

 

Come poteva abbandonare l'una per l'altro?

Non poteva dare delle priorità, pensò mentre leggeva velocemente il messaggio che aveva illuminato lo schermo del telefono.

 

Sono come lui, erano le uniche parole che Bruno aveva scritto.

 

Dall'altra parte la sua amica interpretò il suo silenzio come un saluto e gli augurò la buona notte con voce mesta.

 

"Scusami Ambra, scusami, scusami!" Pensava Roberto mentre apriva il portone del palazzo e stringeva gli occhi per osservare il viso del suo amico, nascosto dal casco integrale nero, in contro luce.

 

*Nella foto uno scorcio del panorama del quartiere Vomero sul golfo di Napoli.

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Capitolo 3
*** Accettiamo l'amore che crediamo di meritare ***


Accettiamo l'amore che crediamo di meritare

 

Roberto prese al volo il casco che l'amico gli aveva lanciato.

Bruno non aprì neanche la visiera del casco integrale, ma da come muoveva il petto si notava che aveva il respiro accelerato. Non era dato sapere se per il pianto o per l'adrenalina che gli scorreva nelle vene per la corsa in moto.

 

I due amici volavano sull'asfalto. 

Bruno al cavallo della moto era inimitabile, sembrava che andasse a pari passo con morte, era rischio, ma anche sicurezza.

Il ragazzo, infatti, quando sentiva che stava per arrivare il momento di frenare iniziava a contare a ritroso partendo dal tre, non arrivava mai allo zero però - non era mica uno stupido -, si fermava sempre prima del due, solo durante le gare era arrivato quasi all'uno. 

Ne aveva vinte molte di gare facendo così. Sapeva fin dove poteva spingersi. 

Conosceva il limite fra coraggio e idiozia.

 

Bruno, in verità, contava prima di fare qualsiasi cosa che secondo lui meritasse attenzione: prima di rispondere ad una domanda durante gli esami all'Università, mentre guidava la moto, prima di premere il tastino verde del telefono quando chiamava suo padre, prima di un litigio, nel momento in cui sentiva la collera salire alla testa.

 

Quella giorno invece non aveva contato. E questo non se lo sarebbe mai perdonato.

 

In meno di dieci minuti erano già arrivati alla loro solita destinazione: Mergellina all'alba.

Roberto osservò l'orologio e sorrise, la madre per lo stesso tragitto impiegava più del doppio del tempo.

 

Bruno non sapeva esattamente cosa avesse voluto dire al suo amico, cosa avrebbe avuto il coraggio di dirgli e cosa  invece avrebbe censurato. 

 

Non era da lui correre dall'amichetto del cuore per parlare dei suoi problemi, ma per la prima volta, quella sera, aveva sentito il bisogno di raccontarsi, ovviamente entro certi limiti, a qualcuno. 

Quel qualcuno era Roberto.

Non sapeva quando, né esattamente come e perché, proprio il bel ragazzo biondo e mezzo dandy incontrato un anno prima mentre valutavano nella sede di fuorigrotta i vari indirizzi di ingegneria, era diventato degno di essergli amico.

 

Posò con cura il casco sullo specchietto sinistro della moto che aveva accostato al marciapiede prima dell'inizio della zona a traffico limitato. Scavallò il muretto del lungomare e prese tempo cercando il giusto masso sul quale sedersi scompostamente.

Prese tempo ad osservare castel dell'ovo che veniva metteva in risalto dalla leggera luce del primo mattino. 

 

Gli era sempre piaciuto quel monumento antico, non solo perché era il castello più grande della sua città, non solo perché era il simbolo del golfo che più amava, ma per la sua storia.

 

Costruito nel I secolo in un primo momento come villa di un imperatore romano, che lo aveva scelto per la bellissima posizione, fu subito soggetto di una leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio - che nel medioevo era considerato anche un mago - nascose nelle segrete dell'edificio un uovo che mantenesse in piedi l'intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.

Durante i secoli fu distrutto da catastrofi naturali e non più e più volte tanto che il disegno iniziale degli aragonesi e degli Angiolini, che si susseguirono nella città partenopea a distanza di poco tempo e trasformarono la villa romana  in fortezza, è stato praticamente perso nei vari restauri. Nonostante tutto è sempre rimasto vivo il mito dell'uovo, tanto che si dice che nelle varie ricostruzioni questo è stato addirittura sostituito per evitare la distruzione della città. 

 

Tirò su e giù la cerniera del suo chiodo in pelle di nappa nero, poi si arrese al fatto che avrebbe dovuto dire qualcosa a Roberto, aprì e richiuse la bocca senza emettere un fiato. Finalmente parlò: «Le ho dato uno schiaffo, in pieno viso» buttò fuori parlando con lentezza esasperante, sembrava che ogni parola pronunciata gli avesse bruciato il petto, lungo i bronchi , ai polmoni, alla trachea fino alle corde vocali e la gola.

 

Bruno si prese una pausa, fece un respiro profondo, contò ed aspettò fino allo zero. Perse altri preziosi secondi osservando l'amico che alzava il volto verso il mare, lasciando che il sole appena sorto illuminasse i suoi tratti decisi ma piacevoli, resi più delineati dal gioco di ombre e luci che creava il cappuccio della felpa, che quest'ultimo si era tirato sopra la testa per proteggersi dall'umidità del mare a quell'ora del mattino. 

 

Aveva usato quei secondi per rigirarsi nella testa  il discorso che aveva già formato quando aveva deciso di andare sotto casa di Roberto. 

Il difficile, arrivati a quel punto, stava solo nel parlare, nel pronunciare quelle parole, che per quanto fosse consapevole che fossero quelle giuste, gli apparivano lo stesso pesanti come macigni. 

 

Prese coraggio, solo perché l'amico in quell'istante aveva ancora lo sguardo assorto sull'orizzonte e non lo stava guardando, o perché sentiva che Roberto non lo avrebbe mai giudicato. 

«Roberto, sii il mio testimone, oggi primo settembre, io Bruno» si fermò per un attimo, deglutì, poi continuò come se nulla fosse, consapevole che il suo amico aveva appositamente ignorato la sua interruzione, abituato com'era a non sentirgli mai pronunciare il suo cognome «Borghese, giuro che non mi avvicinerò mai più ad una donna. Non mi affezionerò; non le inviterò ad uscire; farò in modo che nessuna voglia mai legarsi a me proprio come io non lo farò mai con loro; mi mostrerò a tutte per quello che sono: Un demone».

 

Accettiamo l'amore che crediamo di meritare pensò Roberto continuando ad guardare il sole levarsi sul mare, ma non osò dirlo ad alta voce.

Allungò goffamente il braccio sulle sue spalle e si girò solo dopo qualche secondo ad osservarlo. 

Aveva un viso curioso il suo amico, pensò Roberto.

 

Una volta Bruno gli aveva confessato che  era stato suo padre a dargli il soprannome di demone.

 

Un pomeriggio, tornando dal lavoro prima del solito,  l'uomo aveva  trovato il figlio nel bagno che sorrideva soddisfatto mentre intasava il water con i suoi amati orologi costosi. 

Bruno all'epoca dell'accaduto aveva tre anni.

Per un motivo a Roberto sconosciuto il ragazzo non si era mai liberato di quel soprannome, anzi, sembrava che gli piacesse che lo chiamassero così quando si riferivano a lui, sia quando questo era presente che alle sue spalle.

 

Inconsciamente Bruno aveva accettato quel soprannome perché a tutti gli effetti lui era un demone, si sentiva tale, si comportava come tale.

Anche lo specchio glielo ricordava ogni mattina. I suoi lineamenti avevano un ché di maligno: il naso dritto alla greca e i canini aguzzi e brillanti, gli occhi color cioccolato leggermente infossati sotto le sopracciglia e perennemente contornati da occhiaia livide, il tutto incorniciato da dei capelli castani leggermente mossi, che ricordavano così tanto quelli di un giovane puttino, o dello stesso dio, quello che aveva appena rinnegato, Cupido.

 

Due opposti in un solo volto, diavolo e acqua santa, nero e bianco, paura e tranquillità, pericolo e sicurezza, orrore e speranza, odio e amore.

 

Bruno era tutto ciò ed era anche la dimostrazione che queste cose potessero convivere e dare vita a qualcosa di stupendo, fragile ed unico che era ciò che si racchiudeva nel sui sguardo.

 

Certo, era uno sguardo ostile il suo, ne era consapevole Bruno e lo era anche Roberto, ma c'era dell'altro in quello sguardo. 

 

L'unico problema era che solo poche persone avevano la profondità d'animo o la semplice voglia, e forse il coraggio, di inoltrarsi in quell'oscurità per cercarlo. 

 

Non sarebbe mai stato lui a mostrarsi, mai più si sarebbe avvicinato tanto da farsi ferire, tanto da rendersi debole.

 

Tutto quello che succedeva nella sua vita lo avvicinava sempre più alla consapevolezza che i geni non fossero acqua e che lui infondo, come suo padre, era il male. 

Era un demone.

 

Roberto smise di fissarlo ed i suoi occhi verdi tornarono all'orizzonte ormai limpido.

Come poteva la natura, in un giorno così orribile per le due persone alle quali era più vicino in assoluto, essere così indifferente?

Ora sì che si sentiva Thomas Hardy che osservava le disgrazie di Tess sotto la luce limpida del sole di Wessex, maledicendo velatamente la natura superiore, che da sempre delle umane disgrazie non si cura.

 

 

*Nella foto il golfo di Napoli con castel dell'ovo

 all'alba.

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Capitolo 4
*** Nella vita non hai altro che maledizioni ***


Nella vita non hai altro che maledizioni

 

Com'era la storia de "impara a bastarti?", si chiedeva fin troppo spesso Ambra.

Ci lavori, ci piangi, talvolta pensi anche: "no forse non fa per me!"

E invece, poi sola ci sai stare, fai tutto e lo fai bene, e sei indipendente, e potente, e hai sempre il coltello dalla parte del manico.

 

Poi arriva una canzone, una frase, la scena di un film e all'improvviso crolli.

 

Ma non puoi rimetterti apposto da sola. 

Eppure hai imparato a bastarti pensi tra te e te.

Perché non posso rimettermi in piedi da sola? Ti chiedi stupita.

Fisicamente impossibile! Ti suggerisce il resto del mondo. 

Insomma, potresti sempre chiedere aiuto ti dicono gli sguardi delle persone che ti passano di fianco ignorandoti quando va bene, compassionevolmente se va male. 

Ma c'è un problema: mentre imparavi a bastarti ti sei scordata come si fa a chiedere aiuto, mentre facevi i conti con te stessa ti dimenticavi come comunicare con l'esterno. 

Mentre eri una roccia nessuno si accorgeva che dentro marcivi.

Della roccia, adesso, restano briciole in balia dei venti.

Del tuo cuore rimane puzza di marcio e solitudine.

Di te resta, forse, un ricordo.

Dava l'idea di una forte ma, insomma, stava sempre sola è quello che, forse, qualcuno dirà su di te .

 

Ambra rimpianse, come faceva tutte le volte, di non essere stata capace di dire quello che pensava. Si mostrava forte, una di quelle ragazze che sanno come rispondere alle infamate, di farsi valere nonostante il nomignolo che le avevano affibbiato fin da bambina, nonostante le cattiverie della gente, una di quelle che non piangono mai.

 

Invece era una debole, per davvero debole. 

 

Venivano dei giorni nei quali bastava per davvero uno sguardo, una frase detta o letta, per farla crollare e finire distrutta in mille pezzi. Incapace di aggiustarsi poiché troppo sola. 

Perché si sa che quando ormai tutti sanno che si è soli soli, autonomi e forti se capita di spezzarsi non c'è nessuno  lì pronto  a prendersi la briga di rimettere apposto le parti. 

 

C'era una sola persona che Ambra sapeva che per lei ci sarebbe stata, nonostante i limiti di entrambi, la distanza, i loro difetti, i loro litigi, il loro rapporto ambiguo, e quella  persona era Roberto. 

 

Non si era mai vergognata di piangere davanti a lui, riusciva addirittura a non essere sempre così insopportabilmente orgogliosa quando parlava con lui. 

Per questo si detestava sempre di più per non avergli raccontato tutto, per averlo lasciato andare quella sera.

 

Era consapevole che prima o poi per orgoglio avrebbe perso tutto ciò che aveva di bello, ma anche solo l'idea di far pena a qualcuno la terrorizzava più della prospettiva di una vita futura come eremita. 

 

Osservò i suoi occhi vuoti allo specchio del bagno- unico che aveva in casa-, quasi privi di pupilla tanto che erano scuri, resi opachi dal velo di lacrime che aveva appena tirato via con l'acqua fresca.

 

Occhi neri come il fondo dei tuoi polmoni. 

Nella vita non hai altro che maledizioni! ♪ *

 

Si pizzicò le guance, per cercare di mettere del rossore sul suo incarnato  che dopo il pianto era di un pallore quasi malato.

Si diresse in cucina con lo guardo basso, per nascondere l'urlo interiore che i due bracieri di cenere che aveva  al posto degli occhi, si portavano dentro.

 

In cucina vi era la solita routine mattutina: il tavolo era apparecchiato per la colazione e sua madre di spalle all'ingresso della stanza cercava di far funzionare il trita rifiuti incasinato sotto al lavello. L'unica differenza era che sulla tavola della cucina Ambra trovò dei libri, proprio davanti alla sua tazza di latte freddo.

Si sedette in silenzio ed osservò i tomi voluminosi e colorati. 

Erano i libri per la preparazione ai test di ammissione ai corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria. 

Un sorriso le si formò immediatamente sul viso, abbracciò la madre da dietro sussurrandole un "grazie" fra i capelli.

La donna si girò ed aspettò che la figlia si riaccomodasse, per poi sedersi sulla sedia al fianco di quella di Ambra.

 

Aveva uno sguardo serio, molto serio, che sembrava forzatamente pacato e costruito.

Ambra sapeva quanto sforzo ci fosse dietro quella facciata calma.

 

«Buongiorno, tesoro mio».

La donna le sorrise meccanicamente.

 

Madre e figlia si rassomigliavano molto poco, ma avevamo entrambe un fascino particolare che le aveva sempre rese molto conosciute in  città, o forse era stata la loro storia a renderle le due donne più chiacchierate  di Grosseto.

 

«Quel grazie era per i libri, vero?»

 Ambra annuì con lentezza studiata. 

«Ho parlato con Alessandro ed abbiamo pensato che, se vuoi, a noi farebbe piacere che venissi a vivere con noi a Napoli e che iniziassi l'università lì».

La signora Miceli fece una pausa aspettando che la figlia assimilasse la notizia. 

 

Nessuna reazione.  

 

Così la donna continuò: «Qui a Grosseto non ci sono università, in ogni caso dovresti fare la pendolare o trasferirti in un'altra città e studiare come fuori sede, quindi avevamo pensato che se ti faceva piacere, potevi venire a vivere con noi a Napoli dopo il matrimonio».

 

Ambra la fissava cercando di assimilare le notizie che la madre le stava dando con il contagocce ed evitando reazioni esagerate che avrebbero potuto far precipitare la situazione. 

Una parte di lei attendeva con timore il momento in cui  la donna avesse iniziato ad urlare cose senza senso.

 

Invece la donna riprese a parlare con calma e dolcezza: « Ovviamente potrai in ogni caso mettere Firenze e Siena fra le possibili sedi, nel caso in cui tu decidessi di restare qui. Ma ti prego di pensarci bene prima di prendere una decisione. La Federico II è una delle università più antiche di Europa, inoltre, a solamente mezz'ora c'è la Seconda Università di Napoli, e quella di Salerno, le possibilità sono tante e tu potresti continuare a vivere con me, in una famiglia» prese una pausa e poi sorrise felice «per la prima volta».

 

Poi, apparentemente dal nulla, arrivò il crollo tanto temuto da Ambra. 

 

Fra le lacrime e senza che ci fossero stati dei segnali di avvertimento in quella cucina dai toni color pastello, le parole della donna iniziarono ad accavallarsi diventando sempre meno chiare: «Non mi guardare così, non sto cercando di tagliarti le ali. Credimi voglio fare l'esatto contrario. Voglio farti vivere senza essere sommersa dai pregiudizi ogni volta che attraversi la strada, per una volta vorrei che vivessi senza quegli sguardi pungenti addosso quando compri un vestito nuovo. Senza dover fare attenzione a cosa dire e cosa fare per non subire l'ennesimo terzo grado. Non guardarmi così, davvero, voglio solo che tu resti con me. Voglio che tu resti con me ed Alessandro, voglio che provi a capire cosa significa avere una famiglia, anche se non sarà mai la tua, anche se non sarà mai vera!».

 

Ambra non capiva quale fosse stata la causa del crollo, non aveva mai iniziato a guardare male la madre ed in ogni caso non ne aveva motivo. Una proposta del genere in fondo se la aspettava. 

 

Ad Ambra si potevano biasimare molti difetti ma tra questi sicuramente non c'era la staticità, la paura di cambiamenti e di mettersi alla prova.

Infondo, avrebbe solo cambiato città, sicuramente non avrebbe dovuto dire addio ad una vita perfetta, ad un gruppo di amici affiatato, o alla vita da sogno di ogni adolescente. 

Forse la madre vedeva nascere  tutta questa reticenza nel volersi trasferire solo nella sua testa. Forse stava solo dando voce ad una sua paura inconscia. 

 

Nonostante tutto Ambra si trovò a pensare che un po' l'idea di ricominciare daccapo la annoiava, come la annoiava tutto del resto.

 

Si stava adattando così tanto al mondo da non voler più cambiare le sue noiose abitudini? Si chiese terrorizzata. 

Le piaceva così tanto vivere a Grosseto ed essere conosciuta da tutti, criticata da tutti, sempre sotto i riflettori per quello che era e per quello che faceva? 

Certo che no. 

In realtà lo odiava per davvero. 

E poi lo sapevano tutti che chi si ferma muore.

 

«Mamma, per me va bene» si affrettò a rispondere Ambra bevendo l'ultimo sorso di latte ed alzandosi per prendere le chiavi della vespa ed infilare il casco giallo sotto al gomito.

Ambra corse via lasciandosi alle spalle la madre sul filo del rasoio per una delle sue crisi, in piena confusione fra le parole pronunciate dalla figlia e lo sguardo che aveva visto, nella sua mente, sul suo volto.

L'unica cosa che le dava  la certezza che la crisi sarebbe stata scongiurata era la presenza di Alessandro apparso sull'uscio della cucina. Lo aveva notato solo un attimo prima di uscire. Ambra sapeva che l'uomo avrebbe saputo arginare il fiume in piena che era mente della signora Miceli. 

In certi momenti invidiava addirittura Alessandro per questa sua capacità, in altri ringraziava il signore che l'ardua impresa di placare la madre non fosse più solo ed esclusivamente suo compito.

 

Le lacrime che le scesero veloci sulle guance si asciugarono al vento mentre raggiungeva in vespa il  Kelly: il  liceo paritario di Grosseto. Mai secondo la madre avrebbe potuto frequentare una scuola pubblica. Con il senno di poi la scelta della donna si era in realtà rivelata quasi la peggiore possibile. 

Tutta la Grosseto bene  frequentava il Kelly, ed ovviamente conosceva il suo nome ed il suo passato. 

 

Ambra piangeva. Piangeva perché quei libri erano stati un regalo della madre, il primo dopo anni. Era una cosa che Ambra non aveva chiesto ma che la madre le aveva regalato     sapendo che le avrebbe fatto piacere. 

E chi se ne importava se si trattava di un regalo con una seconda finalità! 

Ambra non era abituata a ricevere attenzioni del genere, era abituata a stare sola, a cavarsela da sola, a non chiedere mai niente ed a ottenere tutto ciò che le serviva da sola grazie al sudore della sua fronte. 

Per questo ogni singola volta che nei suoi confronti veniva compiuto un gesto del genere, non poteva far a meno di cedere alla tentazione di versare qualche innocente e veloce lacrima silenziosa.

 

Era solitaria, sì, ma non sola, si trovò a pensare.

 

E no, Ambra decisamente non era una ragazza debole.

 

* ♪ "Occhi neri" dei Distretti, un gruppo di giovani ragazzi di Grosseto.

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