Mathematical Certainty

di PaleMagnolia
(/viewuser.php?uid=58448)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - For Those in Peril On The Sea ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Nearer, my God, to Thee ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Lullaby For A Stormy Night ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Save Me ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - You Raise Me Up ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - Heroes ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Time After Time ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - Nemo ***



Capitolo 1
*** Prologo - For Those in Peril On The Sea ***


Oh, hear us when we cry to Thee
For those in peril on the sea.

Lo stridore lacerante dei cavi d’acciaio, che si tendevano oltre ogni ragionevole limite, lo schianto del metallo che si spezz

Lo stridore lacerante dei cavi d’acciaio, che si tendevano oltre ogni ragionevole limite, lo schianto del metallo che si torceva e schiantava - una frequenza sonora intollerabile, tanto bassa da far venire le vertigini - tremavano nelle orecchie degli uomini e delle donne aggrappati al parapetto; e il rivestimento di legno sotto i loro piedi cedeva, quando la tensione sulle assi diventava insostenibile, con una serie di schianti netti e terribili, e al contempo assurdi (pop, pop, pop), proiettando attorno lunghe appuntite schegge biancastre. La gente gemeva - grida flebili e acute al tempo stesso, come strilli di bambini; e chiudeva gli occhi, si aggrappava penosamente alle ringhiere con tutte e due le braccia, pencolava verso il vuoto come un mucchio di morbidi pupazzi.

William Irwing rimase appeso alle sbarre metalliche, a guardare le belle vetrate collassare su se stesse al rallentatore (la loro superficie che si piegava in angoli sbalorditivi, prima di esplodere in un'improvvisa, cristallina, gioiosa pioggia di frammenti iridescenti), in un silenzio incongruo (saluti alla partenza del treno coperti dal fischio della locomotiva, labbra che si muovono senza suono) - il rumore del vetro infranto troppo rapido e flebile, per superare il rombo del metallo che si abbatteva sul metallo, le grida, lo sciabordio dell’acqua.

Guardava, affascinato e inorridito insieme, i corrimano d’acciaio piegarsi come pasta frolla tirata verso il mare - elastici e fragili, si torcevano e affusolavano finché un'estremità cedeva, sfrangiandosi; vide una donna di mezza età perdere la presa e cadere all’indietro verso l’acqua, la bocca grottescamente spalancata senza che ne uscisse suono, in modo quasi comico, come in un film muto.

Irwing si strinse convulsamente alla ringhiera, risucchiando aria gelida in singulti dolorosi, mentre, con un ululato terribile di mastodonte ferito, con una brusca impennata che schiacciò l'uomo contro il parapetto, la prua si staccava dal resto della nave: la poppa, non più trattenuta, si inclinò rapidamente, con un terribile scricchiolio: il suono che fa un polpastrello che sfrega un palloncino, ma enormemente amplificato.

Nel giro di pochi secondi, si sollevò fin quasi ad essere perpendicolare alla superficie nera dell’oceano. Sentendo i piedi scivolare all’indietro, senza più presa sull’assito, verso l’acqua ribollente, Irving scavalcò la ringhiera - l’unico piano ad essere rimasto orizzontale rispetto all'oceano nero di sotto - e si appiattì contro di essa. A causa del freddo, aveva perso da tempo la sensibilità delle mani e dei piedi, e l’operazione risultò molto più faticosa e difficile del previsto; non aveva forza nelle gambe, le dita irrigidite scivolavano sul metallo senza riuscire a far presa. Ora che era riuscito ad appoggiarsi alla superficie piana della ringhiera – le sbarre premevano, gelide, contro il suo corpo – guardò giù, verso quel che restava del pavimento su cui, fino a pochi minuti prima, poggiava i piedi. Si stava inabissando con una rapidità che affascinava, quasi in verticale, così anacronistica e assurda che ad Irwing venne da pensare che fosse tutto uno scherzo. Un assurdo, spaventoso, allucinante scherzo di pessimo gusto - anche se non privo di una certa spettacolarità.

Irwing guardava la nave, e gli uomini ed il mare che si avvicinava, senza provare né orrore né paura – ma solo una certa blanda sorpresa, una riluttante curiosità per quel che accadeva; come se, poniamo, stesse guardando da lontano l’incendio di una casa: raccapricciante invero, e tuttavia morbosamente attraente, agli occhi di un passante occasionale, che nulla ha a che fare con l’accaduto.

E così si sentiva Irwing – lo spettatore occasionale, fortuito: l’estraneo casuale che assiste, con interesse ma spassionatamente, al dramma di qualcun’altro.


Per il titolo del capitolo, cfr. "Eternal Father Strong To save", anche conosciuto come "For Those In Peril On The Sea", inno della Marina.

Pur basata, come si può intuire, sulla vicenda di un celebre quanto sventurato transatlantico, la storia non lo nominerà mai direttamente - beh, quasi mai.

Dedicata a Th.A.Jr. (7 Febbraio 1873 – 15 Aprile 1912), mio primo eroe, my only master; che, pur non essendo un personaggio della storia, dovrete sforzarvi di immaginare comunque, fuggevole e indistinto, ritto sullo sfondo - in piedi sulle scale, rivolge a qualcuno un cenno di saluto, e scrive su un taccuino nero, assorto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo I - Nearer, my God, to Thee ***


Se, com'è assai probabile se non avete mai visto una ricostruzione del naufragio di cui si parla, non riuscite a visualizzare bene la scena, guardate questa immagine
http://s243.photobucket.com/albums/ff202/Tanarx/?action=view¤t=spiegazione.jpg (non metto il direct link perchè sennò l'amministrazione di EFP mi spara) - lo so, una buona storia dovrebbe essere in grado di trasmettere esattamente lo stato delle cose: ma questa è una fanfiction, mica un romanzo di Nabokov.
Se volete leggere qualcosa di perfetto, prendete Lolita.

Girò lo sguardo, stranito, sulle persone aggrappate, come lui, al parapetto della nave, inclinata in uno sbalorditivo angolo d

Girò lo sguardo, stranito, sulle persone aggrappate, come lui, al parapetto della nave, inclinata in uno sbalorditivo angolo di quasi novanta gradi.

“Non sta succedendo, non può succedere”, pensò Irwing, con una sorta di quieta, trasognata lucidità. “Non è possibile, non può essere possibile”.

Guardò alla sua destra. Un uomo sulla cinquantina, barbuto, ricambiò il suo sguardo, gli occhi sbarrati in folle, muto terrore. Le luci della nave in agonia, che si accendevano ancora in angoscianti, fuggevoli flash, ne illuminarono il viso contratto. Irwing si voltò dall’altra parte, per evitare l’orrore di quello sguardo, e in quel momento la vide.

Un bambina, che non poteva avere più di dodici anni, con un soprabito grigio chiaro e capelli nerissimi, lo fissava con calmi occhi grigi. Un rapido lampo di luce agonizzante le inondò il viso, disegnando con sconvolgente chiarezza il profilo della bocca, le ciglia scure, i fermi, pallidi occhi.

Non era aggrappata all'esterno della ringhiera, come Irwing, ma stava dall’altro lato del parapetto, sul ponte, appoggiata con la schiena a una bassa colonna d’acciaio – una bitta? - , il viso sollevato e radioso, le braccia lungo i fianchi, le mani appena appoggiate al metallo liscio, come se fosse in posa per una foto: e lo guardava con un’espressione talmente serena e distaccata, da fargli venire i brividi. Irwing capì immediatamente che, nel giro di pochi secondi, quel sostegno non sarebbe più stato sufficiente a trattenerla –soprattutto perchè lei stessa non faceva nessuno sforzo per tenersi aggrappata - , e la ragazzina sarebbe scivolata all’indietro verso l’acqua nera. Non era, infatti, avvinghiata alla colonna con le braccia, bensì stava sdraiata con la schiena su di essa, parallela a Irwing.

L’immagine dell’esile figuretta chiara che cadeva all’indietro, come un fantoccio, rimbalzando sull’assito distrutto, i capelli neri che si allargavano come un ventaglio attorno al viso pallido, furono più di quanto la mente, sconvolta e prossima al cedimento, di Irwing, potesse sopportare: improvvisamente, fu come se si fosse risvegliato da un angosciante dormiveglia. Sapeva che, anche riuscendo ad afferrarla e a portarla al di là della ringhiera, non avrebbe fatto altro che ritardare la sua morte: ma vederla precipitare nel vuoto senza far nulla era un’idea che trovò, improvvisamente, intollerabile.

Sbattè più volte le palpebre, proprio come per scacciare un sogno, poi si decise ad agire: scavalcò di nuovo il parapetto, dandosi un colpo di reni, poi si aggrappò al lato interno della ringhiera – quello che, una volta, aveva protetto i passeggeri dal rischio di cadere, e che ora, invece, era proprio la parte più pericolosa.

Sentendo l’aria gelida salire dall’acqua ribollente sulla schiena, Irwing si appese ad una sbarra della ringhiera, piegandoci attorno il braccio in modo da incastrarla nell’incavo del gomito, poi allungò l’altro braccio verso la bambina.

“Prendi la mia mano”, disse, la voce arrochita dal freddo, nuvolette di condensa che gli uscivano dalla bocca. “Forza, dai”, la esortò, dato che lei si era limitata a guardarlo con blanda curiosità.

Irwing agitò la mano verso di lei, e finalmente la bambina staccò, con esasperante lentezza, la mano dal fianco, e la alzò verso la sua.

Quando il braccino esile fu teso al massimo, Irwing si rese conto, frustrato, che fra la sua mano e quella di lei c’era più di mezzo metro.

Irwing si impose di rimanere calmo. Respirò a fondo, poi tornò a guardare la bambina.

“Va bene, tesoro. Ora prova ad allungarti un po’ di più, d’accordo?”

Lasciò scivolare il braccio piegato – quello con cui si teneva aggrappato alla sbarra del parapetto – e afferrò la ringhiera con la mano. Non sapeva come avrebbe fatto a reggere il suo peso e quello della bambina, se fosse riuscito ad afferrarla, ma tenendo la sbarra di metallo nell’incavo del gomito non riusciva ad arrivare abbastanza lontano.

Tornò ad allungarsi verso di lei, tenendosi stretto con la mano ghiacciata e dolorante. I piedi, con cui tentava di far presa sulle assi, scivolavano miseramente.

“Tesoro”, ripetè, angosciato. “Devi prendere la mia mano. Mettiti in piedi sulla colonna e spingiti verso di me”.

In un altro lampo di luce, Irwing vide che gli occhi di lei si allargavano appena.

“Forza”, disse, disperato. “Devi abbassarti e metterti a sedere sui talloni – hai capito quello che intendo?”

La ragazzina gli rivolse uno sguardo vacuo, poi annuì appena. Si lasciò scivolare, lentissimamente, lungo la bitta, fino a ritrovarsi accucciata nell’angolo fra la base della colonna e il pavimento del ponte.

Irwing sospirò di sollievo. “Ora”, disse rapidamente “appoggia le mani sulle assi del pavimento.”

La bambina allungò, titubante, una mano verso il ponte, ma appena sentì la superficie metallica della bitta mancarle sotto le spalle, si accovacciò di nuovo con un sussulto contro di essa, e si aggrappò alla colonna allungando le mani all’indietro.

Irwing venne preso dall’ansia: se la bambina cedeva al panico e s’immobilizzava, lui non avrebbe mai potuto raggiungerla.

“Coraggio, ce l’avevi quasi fatta”, la incoraggiò, cercando di non far trasparire la disperazione dalla sua voce. “Prova di nuovo”.

Irwing si protese verso la ragazzina, ormai incurante delle grida e degli schianti che continuavano attorno a loro.

La bambina chiuse gli occhi e allungò di nuovo le braccia davanti a sè, riuscendo a poggiarle contro le assi.

Irwing fu stupito del coraggio dimostrato da quella bimba pallida; molti, al suo posto, si sarebbero paralizzati per il terrore, e avrebbero rifiutato di muoversi.

“Bravissima”, disse, trionfante. “Ora sposta i piedi sulla colonna, e datti una spinta verso di me”.

Vide una nuvoletta di vapore allargarsi attorno al viso della ragazzina, quando lei prese un gran respiro. Poi, vide che faceva scivolare un piede per volta sulla superficie della colonna.

Poi, incredibilmente, cominciò a sollevarsi verso di lui, trascinandosi, sdraiata sulla pancia, sulle assi del pavimento. Col cuore che batteva all’impazzata, Irwing vide che la distanza fra loro diminuiva: la bambina, sdraiata sul ponte quasi verticale, era ormai a pochi centimetri dalla sua mano tesa.

Senza guardare in su, ma col viso appoggiato alle assi del ponte, la bambina tese un braccio verso l’alto.

Irwing le afferrò il polso, con una sensazione di esultanza.

“Ti tengo”, disse, trionfante. “Ti tengo io, ora.”

Con uno sforzo terribile, la tirò verso di se. Non appena si sentì afferrata, la bambina si aggrappò con tutte e due le mani al braccio di Irwing, e cominciò a spingersi verso di lui, strisciando sul ponte, puntando i gomiti, piegati, per non scivolare all’indietro.

“Brava, bravissima”, la incoraggiava Irwin, affannato, tirandola verso la ringhiera. Quando furono abbastanza vicini, Irwing passò di nuovo il braccio attorno alle sbarre, e ci spinse la bambina contro; lei staccò una mano dal suo avambraccio e strinse le dita attorno ad una sbarra del parapetto, poi ci si appese anche con l’altra mano. Irwing passò di nuovo sul lato esterno del parapetto e, benchè le braccia gli dolessero e fosse scosso dai brividi, afferrò la ragazzina per il bavero del cappotto e le fece scavalcare la ringhiera.

La trasse a se: la sentiva respirare pesantemente e tremare contro il suo petto.

Quando lui stesso smise di ansimare, la cinse meglio col braccio. “Come ti chiami, tesoro?”, chiese.

Lei alzò il viso verso il suo.

“Catherine Ann Lennox.” Sorrise debolmente. “Annie”.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo II - Lullaby For A Stormy Night ***


Little child, be not afraid
though thunder explodes and lightning flash
illuminates your tear-stained face
I am here tonight

Vienna Teng

La nave continuò a scendere, spaventosamente veloce, trascinando i terrorizzati passeggeri verso l’oceano nero di sotto

La nave continuò a scendere, spaventosamente veloce, trascinando i terrorizzati passeggeri verso l’oceano nero di sotto.

Quando gli spruzzi cominciarono a colpire le loro gambe, Irwing si aspettava che Annie si mettesse a gridare, o a piangere, o a pregare, ma la ragazzina lo guardò placidamente, il viso bianco e calmo alzato con quieta aspettativa verso di lui.

“Che cosa devo fare, adesso, signore?” chiese, calma.

Irwing si sentì gelare. La bambina confidava in lui, nel fatto che sapesse cosa fare. Le strinse brevemente le spalle col braccio per farle coraggio. Pensa a qualcosa, si disse mentalmente. Qualsiasi cosa, dannazione!.

“Ora”, disse, mostrando molta più sicurezza di quanta non provasse in realtà “ora aspettiamo che l’acqua ci arrivi alla vita e poi molliamo la presa, e il mio salvagente ci terrà a galla.”

“Ma”, obiettò la bambina, con calma, aggrottando le sopracciglia. “Se aspettiamo così a lungo, il risucchio della nave ci trascinerà sott’acqua.”

Irwing rimase interdetto. Come diavolo faceva a...

Ma in quel momento l’acqua, più fredda di quanto si aspettasse – più fredda di qualsiasi cosa avesse mai provato – gli lambì le scarpe, e insieme sentì che, con un gorgo che si attorcigliava attorno alle sue caviglie, l’acqua lo tirava verso il basso.

Si rese conto all’improvviso di quanto vicini fossero alla morte, lui e Annie, ad una morte atroce e orribile: sentire le pulsazioni che rallentano fino a tacere, e l’impressione di leggerezza che dà la mancanza di ossigeno; e rimanere lucidi fino alla fine, per lunghi secondi e minuti, e forse ore, se il salvagente non li lasciava annegare.

Mai l’idea della morte gli era sembrata così oscena e ripugnante: non una liberazione, non un placido sonno, ma dolore e perdita, panico, e l’inspiegabile ingiustizia della cosa.

Perché?, pensò, improvvisamente, sinceramente stupito. E poi: perché a me?

Pensò al dolore, l’accalcarsi dei corpi, i crampi terribili e la pelle spaccata dall’acqua gelida; e l’asfissia, la paura: e sopra ogni cosa il freddo, il freddo, il freddo.

“Salta!” gridò, in preda al terrore.

Cosa?” strillò di rimando Annie, col primo sussulto di vera emozione. Girò di scatto la testa verso di lui, e il nero caschetto si allargò attorno alla sua testa per un attimo come una tenda.

Irwing cercò a tentoni la sua mano e la strinse fino a farle male.

“Tieni stretta la mia mano e salta in acqua! Ora!”

 

Si gettò verso la scura superficie dell’oceano, e quasi gridò per il dolore quando l’acqua gelata lo avvolse. L’immensa mole del transatlantico lo trascinava verso il basso con una forza spaventosa, e Irwing, esausto, sconvolto e mezzo assiderato, non riusciva a contrastarla. Tentò di nuotare verso l’alto, cercando di non pensare al dolore. Pensò di lasciarsi morire subito – niente è peggio del dolore, pensò, niente è peggio di questo -, di non cercare nemmeno di raggiungere la superficie.

Perché tentare, pensò, mentre un meraviglioso senso di pacifica rassegnazione si diffondeva nella sua mente. Si sentì quasi felice.

Perché sforzarsi, si chiese, sentendosi sciocco per aver tentato di resistere fino a quel momento.

Che stupido: è solo questione di minuti. Se anche riuscissi a riemergere, morirei di freddo.

Sentì che la lucidità lo abbandonava rapidamente: vedeva lampi di luce rossa sull’interno delle palpebre, e immagini sgranate ballavano dentro ai suoi occhi: passato, presente, sogni che aveva fatto da bambino, falsi ricordi di quando era un infante – tutto si confondeva e diventava vero e attuale, e allo stesso tempo insignificante: il suo lavoro nell’archivio, la partenza da Southampton, e quant’era bello il tempo quella mattina (quanto tempo fa era stato? Anni? No, era successo appena tre giorni prima), e sua madre che rimestava qualcosa in cucina, il suo cane, Kim, morto da vent’anni; la bicicletta nuova che aveva desiderato quand'era bambino, un volume con una pagina strappata - ma non era stato lui; il maestro che lo bacchettava sulle dita, ma lui non piangeva, no, lui non piangeva –

 

Perché lottare anche solo per tornare a galla?, fu l’ultima cosa che pensò razionalmente. Perchè soffrire, perché subire l’aria gelida che brucia la gola, e l’acqua ghiacciata che strazia la carne, perché, perché, perché...

Ma, un attimo prima di sgusciare fuori dal bianco, ampio giubbotto salvagente, e lasciarsi andare, sentì che stringeva ancora qualcosa nella mano.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo III - Save Me ***


Save me, save me, save me
I can't face this life alone
Save me, save me, oh...
I'm naked and I'm far from home
Queen

FieryRedhead: Oddio, oddio, giuro che non ci avevo fatto caso (Annie Lennox, gah!)! XDDD
Mi chiedo come farò a rimanere seria, adesso, se d'ora in poi immaginerò la bambina che, in completino di lurex anni '80, canta "Sweet Dreams"!

Capitolo breve, tanto per cambiare.

Un vago ricordo emerse faticosamente dalle profondità della sua mente intorpidita

Un vago ricordo emerse faticosamente dalle profondità della sua mente intorpidita.

Una forma sfocata. Un bambino - lui stesso? Irwing perse di nuovo la concezione del tempo, la sua mente disancorata e vagante per il freddo e la mancanza d'ossigeno. Non riusciva a trattenere le idee, flash incongrui della sua vita passata lo sommergevano. Un altro ricordo si sovrappose all'immagine che tentava di ricostruire: un campo da gioco polveroso, un bambino che corre fra i campi...

No, no non era quello, si disse. Tentò di scuotersi, ma il desiderio di lasciarsi andare alle immagini di lui bambino, la pesantezza delle sue membra irrigidite, erano più forti della sua volontà. Avrebbe lasciato perdere, ma l'immagine tornava, insistente e fastidiosa. Un bambino dai capelli neri...

Non era lui, il bambino del ricordo. Si concentrò, con un tremendo sforzo. Era una femminuccia - sì, ecco, una ragazzina. Una ragazzina coi capelli neri.

Forse una compagna di scuola – lui aveva fatto le scuole, e suo padre non smetteva mai di rinfacciarglielo – invece di aiutarlo al negozio, perdeva tempo chino sui libri.

Ma la bambina, la bambina... Qual’era il suo nome...? Tentò di ricordare: Kate? Kathy? Catherine. Sì, Catherine.

Catherine, e poi...?

Annie! Oh, Dio, Annie!

 

Improvvisamente, rapidamente, affastellandosi l'una sull'altra, fondendosi in un quadro surreale, le immagini di ciò che era successo nelle ultime ore si susseguirono – come in un film dai fotogrammi accelerati: gli stewart che ordinano di mettere il salvagente, l’attesa sul ponte, le scialuppe che vengono calate, una che si rovescia.

Il massiccio Mr. Andrews dal viso arrossato, in maniche di camicia, che solleva di peso una cameriera e la mette su una scialuppa; un ufficiale spara in aria una, due, tre volte, l’orchestra suona, gli strilli, le nuvole di vapore attorno alla bocca, il rumore dei cavi che cedono, le finestre che si infrangono, il parapetto; le mani gelate, l’aria gelata, freddo, che freddo, l’uomo con la barba, i suoi occhi, oh, i suoi occhi!, e la bambina dagli occhi di bruma, i corti capelli neri, sembra una cinesina, il suo braccio sulle spalle di lei, il suo sguardo serio, il tuffo, la sua mano esile stretta nella propria.

 

Con uno sforzo sovrumano (che neppure lui capì mai, negli anni successivi, come fosse riuscito a  compiere), si slanciò verso l’alto, trascinandosi dietro la ragazzina.

Emerse con un grido rauco, bramando l’aria con ogni fibra del suo corpo. Un secondo dopo, la testolina scura di Annie, i capelli bagnati appiccicati al viso, spuntò al suo fianco. La bambina tossiva e respirava con singhiozzi dolorosi, ma sembrava non aver risentito dell’immersione prolungata quanto Irwing.

“Annie”, boccheggiò, la voce arrochita dall’acqua. “Annie”.

La bambina, scossa dalla tosse e dai conati di vomito, non disse niente, ma si avvinghiò al suo collo con le manine gelide, e si strinse a lui.

Irwing si guardò intorno. Un panorama da bolgia dantesca si stendeva a perdita d’occhio: uomini e donne morti, dalle labbra blu e con la brina nei capelli, galleggiavano, sorretti dai salvagente; una madre con un neonato in braccio, entrambi pallidi e irrigiditi, stavano proprio di fianco a lui. Alcuni degli uomini che stavano, come Irwing, appesi al parapetto, agitavano le braccia e gridavano, lì intorno.

Non c’era nulla, intorno, che potesse servire da zattera: non un tavolo, un’asse, una porta.

Dove sono le scialuppe?, si chiese, angosciato. Dove sono, tutti?

Fosse stato solo, si sarebbe lasciato prendere dallo sconforto.

Ma c’era la bambina, ora, con lui: si era affidata a lui, lo teneva stretto con quelle sue manine, credeva che lui l’avrebbe protetta; e, in un modo o nell’altro - a costo di nuotare fino a New York portandola sulle spalle - lui non l’avrebbe delusa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo IV - You Raise Me Up ***


You raise me up, so I can stand on mountains
You raise me up, to walk on stormy seas
I am strong, when I am on your shoulders
You raise me up - To more than I can be.

Irish traditional song

Prima di tutto, vorrei specificare che i fatti andarono davvero così... Ma per un passeggero di nome Jack Thayer, che venne appunto raccolto, allo stremo delle forze, da - beh, ma non anticipiamo. Chi ha letto "Titanic, la vera storia" di Walter Lord sa di che cosa parlo. Diciamo solo che si tratta della Collapsible B.
Sì, sono una sporca imitatrice, ma che ci volete fare?
Un'altra cosuccia. Se vi va, date un'occhiata alla straordinaria illusione ottica di questa fotografia (http://www.mysteriouspeople.com/Text.htm/images/pic8.jpg): la foto - conosciuta come "The Wem Town Hall Girl" o qualcosa del genere, ritrae lo spettacolare incendio, avvenuto negli anni '90, del municipio di Wem, un paesino in Inghilterra: naturalmente, la fanciulla vestita di bianco non poteva assolutamente essere lì, e il tutto è il risultato di un bizzarro gioco di luci.
Però, la figura mi ha ispirato, all'epoca, il personaggio di Annie.


Naturalmente, una cosa era l’intenzione, un’altra la realtà

Naturalmente, una cosa era l’intenzione, un’altra la realtà.

Irwing si sentì, molto presto, disperato e completamente esausto: l’acqua gelata gli provocava fitte insopportabili dappertutto, e crampi alle mani e alle gambe, gli toglieva il respiro: a malapena riusciva a tenersi a galla lui stesso, nonostante il salvagente, e trovava sempre più arduo riuscire a tirarsi dietro anche la bambina; la quale appariva, per ogni segno, assolutamente incapace di seguirlo a nuoto, e nemmeno di tenersi fuori dall'acqua. Irwing la reggeva con un braccio, tenendola appoggiata sull’anca, stringendola contro il fianco destro, mentre con l’altro braccio si dava la spinta; ogni poche bracciate si voltava a guardare la sua esile compagna, che sembrava, nella strana, tenue luminosità di quella notte serena, ogni minuto più livida e sfinita: cingeva il suo collo coi polsi incrociati, non riuscendo più a piegare le dita quel tanto che bastava a tenersi stretta.

Aveva il viso, bianco come gesso, poggiato contro la sua spalla, gli occhi spalancati e fissi, e respirava a fatica. L’acqua ghiacciata aveva striato i suoi capelli scuri di brina argentea, che rifletteva la pallida luce con un tenue scintillìo. Coi capelli imbiancati e le labbra raggrinzite e pallide, sembrava una vecchina. Anche le sopracciglia brillavano di minuscoli cristalli di ghiaccio, come porporina d'argento, e la bocca sottile e spaccata dal gelo era di un bianco innaturale.

Irwing avrebbe voluto confortarla in qualche modo, ma non aveva la forza per pronunciare nemmeno una parola; tentò un paio di volte di parlare, ma dalla bocca gli uscì solo un sibilo rauco. Annie sollevò appena la testa, lo guardò per un attimo, poi chinò di nuovo la testa sulla sua spalla, in muta accettazione.

Attorno a loro decine di persone, tenute a galla dai salvagenti, gridavano o piangevano, e il rumore delle loro voci lamentose che si sovrapponevano e fondevano ricordò a Irwing un coro di locuste, come quelle che sentiva dalla finestra della sua camera, in Pennsylvania. Doveva, a tratti, difendersi dagli altri superstiti; resi folli dal terrore, cercavano di aggrapparsi a lui, tirandolo sott’acqua.

Irwing si rendeva conto dell’orrore di Annie a queste aggressioni improvvise dal modo in cui affondava le unghie nel suo collo e, quando non fu più in grado di stringere le dita, nella maniera in cui nascondeva il viso contro la sua spalla appena vedeva qualcuno avvicinarsi a loro.

Irwing tentò di allontanarsi dalla folla di persone, per evitare di essere trascinato a fondo da un passeggero terrorizzato.

Aveva visto, con suo sommo orrore, uomini adulti che, rimasti senza salvagente o semplicemente incapaci di nuotare, si avvingjiavano alle spalle di donne o ragazzini, spingendo loro la testa sotto l’acqua senza alcuna pietà, per tenersi a galla, resi insensibili e brutali dal dolore e dalla paura.

Irwing nuotò, con la forza della disperazione, lontano dagli altri sopravvissuti. Distolse lo sguardo quando vide una giovane madre dagli occhi sbarrati, senza vita, che stringeva un infante bluastro e raggrinzito; galleggiava esanime, sorretta dal giubbotto; la spinse via, senza guardarla, per evitare quella vista penosa agli occhi spalancati della bambina.

Nel momento in cui, con un gemito in cui si fondevano dolore, sconforto e risentimento per quella fine assurda e ingiusta, Irwing decise che non sarebbe riuscito a fare a nuoto nemmeno un altro metro, Annie sollevò la testa, socchiuse i pallidi occhi come per guardare meglio, poi mosse appena le labbra livide.

“Guar...da”, disse, in un soffio.

Con tremenda lentezza staccò un braccio dal suo collo e indicò, con la mano irrigidita e bluastra, una massa chiara alla loro sinistra.

Irwing girò il collo dolorante.

A pochi metri da loro, uno sull’altro a formare una instabile piramide, stava un grappolo di uomini infagottati in salvagenti candidi. Irwing aguzzò lo sguardo.

Erano cinque o sei superstiti, aggrappati ai fianchi di una scialuppa rovesciata. Irwing si domandò vagamente come facessero a non scivolare nell’acqua; ma questo era l’ultimo dei suoi problemi.

Trascinandosi dietro la bambina, Irwing cominciò a dare bracciate verso la scialuppa. A pochi metri dal suo obiettivo, il soprassalto di vitalità che lo aveva preso alla vista della scialuppa lo abbandonò: si sentì mancare le forze, ma un paio di mani si sporsero ad afferrarlo per il collo fradicio della giacca.

Quasi privo di sensi, si lasciò strattonare verso l’alto, e sentì appena la chiglia ricurva della scialuppa sotto il suo corpo.

“La bambina?”, chiese, in un sussurro, volgendo lo sguardo annebbiato verso i volti biancastri e sfocati protesi su di lui.

“Accanto a voi”, rispose una voce autorevole, con un accento che, forse, era irlandese.

Irwing disse qualcosa di incoerente in risposta, poi perse conoscenza.

Non si rese conto che, durante tutte le operazioni di salvataggio – e rendendo tutta la manovra alquanto difficoltosa ai suoi soccorritori -, non aveva mai tolto il braccio dalla vita della bambina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo V - Heroes ***


I, I wish you could swim
Like dolphins, like dolphins can swim
Though nothing, nothing will keep us together
We can beat them, for ever and ever
Oh, we can be heroes
Just for one day

David Bowie


Irwing andava e veniva dallo stato di coscienza; rannicchiato sulla chiglia rovesciata della scialuppa - i piedi puntati nell

Irwing andava e veniva dallo stato di coscienza; rannicchiato sulla chiglia rovesciata della scialuppa  - i piedi puntati nelle scanalature per non scivolare -, si  assopiva per poi svegliarsi d’improvviso, con uno scatto, con la sensazione di stare scivolando verso l’acqua ghiacciata. Ogni volta, si trovava davanti gli occhi spalancati di Annie, che, sdraiata accanto a lui, lo fissava inespressiva.

Appena si rendeva conto di essere, invece, ben ancorato e saldo, cadeva di nuovo in un angoscioso dormiveglia, per risvegliarsi entro pochi minuti, con la stessa, ingannevole impressione di stare per cadere.

Continuò così per tutta la notte: e il terrore, il freddo, la stanchezza, gli occhi della bambina fissi nei suoi, lo sciabordio delle onde, agirono sulla sua mente disancorata e vagante fin quasi a fargli perdere il senno.

Verso le quattro del mattino, si svegliò di soprassalto con la bocca arida, scosso da violenti brividi; gli occhi gli facevano male, il collo, quando provò a muoverlo, era rigido e dolorante: si rese vagamente conto che doveva avere la febbre alta.

(Era sempre stato cagionevole, ma quella notte – lui che, vestito degli abiti fradici e congelati, stava esposto, immobile e inerme, al vento impietoso - lasciò conseguenze sulla sua salute per tutti gli anni a venire: gli sarebbe rimasto per sempre l’orrore del freddo - che gli avrebbe procurato frequenti, spossanti stadi febbricitanti -, e ogni alito di vento gli avrebbe, da quel momento in poi, provocato accessi di tosse convulsa e dolorosa).

 

Nel sonno, Irwing ricordava cose cui non pensava da anni, o forse cose che non erano mai nemmeno successe – non era in grado di distinguere le une dalle altre: un gatto nero seduto al sole, al centro di una bianca, dritta strada polverosa; una scarpa in un fosso, un bambino che tirava sassi contro un rospo grigiastro (l’intensa sofferenza che, chissà perché, l’aveva preso nel vederlo); il buco per la boccetta dell’inchiostro nel suo banco di scuola.

Si rivide bambino, serio e timido, silenzioso: escluso dai giochi dei compagni perché gracile e introverso, appena tollerato dal maestro, che lo picchiava sul palmo delle mani perché non rispondeva alle domande abbastanza in fretta.

Fra un’immagine e l’altra, Irwing si svegliava per un momento, e ogni volta vedeva gli occhi della bambina fissi sul suo viso. Un attimo dopo, ricadeva nel suo torpore, ma il viso di Annie rimaneva impresso in negativo nella sua retina, e si sovrapponeva ai suoi sogni e ai suoi ricordi, così che non era mai sicuro di cosa fosse veramente successo, e cosa invece fosse solo una fantasia dettata dalla febbre e dalla stanchezza.

Rivide la gente che lo scostava, sui tram e negli scompartimenti del treno, scambiando la sua timidezza per superiorità: e i pochi amici che aveva avuto, esseri scialbi e privi di talento, come lui; troppo ordinari e incolori, troppo accomodanti. Intelligenti senza essere vivaci, arguti, ma troppo timidi per fare dello spirito, lui, e gli uomini come lui, vivevano per essere pietra di paragone per chi era più sveglio di loro.

Ricordò un episodio della sua giovinezza: la ragazza di cui era innamorato aveva incrociato il suo sguardo per caso – lui la fissava, di sottecchi, cercando di non farsi notare -, e l’aveva guardato, da sopra la spalla del suo interlocutore, per un attimo: Irwing rivisse la bruciante umiliazione di quello sguardo, che non esprimeva né simpatia né, se è per questo, avversione alcuna, ma solo una vaga sorpresa, come se la giovane donna – soffici capelli castani, bocca tinta di rosso - trovasse inverosimile il fatto stesso che lui fosse lì.

Senza antipatia, senza cattiveria, lei aveva sollevato appena un sopracciglio, inconsapevolmente, in un’espressione vaga, che poteva voler dire qualsiasi cosa: ma Irwing aveva interpretato come uno stupito, distaccato, indifferente “tutto qui?

Irwing ne era rimasto mortificato.

È questo che intendono, quando dicono che, in punto di morte, la vita passa davanti agli occhi?, pensò Irwing, in un raro momento di lucidità. Se è così, la mia vita è stata davvero patetica.

Nel suo delirante dormiveglia, perdeva e riacquistava il contatto con la realtà, finchè questa e i suoi sogni non si fusero in un’unica sequenza di immagini: il suo nonno morto ed Annie lo guardavano con gli stessi occhi inespressivi dal balcone della sua casa – o era il parapetto di una nave? -, il violino di Wallace Hartley1 e l’organo della chiesa di Cleverburg2 si fondevano nella stessa, straziante ninnananna. Nei suoi vaneggiamenti illogici e sconnessi, una sola cosa rimaneva costante: Annie, vera o immaginata, viva o morta, compariva in ogni immagine e su ogni sfondo – Irwing non avrebbe saputo dire quante volte aveva davvero visto il suo viso, poggiato accanto al suo, e quante volte invece l’avesse solo immaginato .

E, alla fine, l’uomo non si rendeva più conto di cosa fosse realmente successo: se l’immagine della bambina che, bianca e immota, scivolava nell’acqua bruna, fosse reale, o se invece lo fosse quella di lei sdraiata sulla chiglia, accanto a lui.

 

Quando ormai cominciava ad albeggiare – una tenue luminosità mauve che diffondeva in lontananza – Irwing sembrò recuperare una parvenza di raziocinio: aprì cautamente gli occhi, che ora non dolevano più; la febbre doveva essere scesa.

Si mosse appena, poi guardò, nella luminescenza indaco, il viso della sua compagna. Sbattè le palpebre per assicurarsi che fosse davvero lì, e, fissandola attentamente, si rese conto che i suoi occhi grigi erano arrossati e spalancati in modo innaturale: Irwing si rese conto che, al contrario di lui, la bambina non aveva riposato nemmeno un attimo, e aveva, anzi, tenuto gli occhi sbarrati per evitare ad ogni costo di addormentarsi.

Il suo sguardo era fisso e vitreo, ma quando Irwing si mosse e la chiamò con voce flebile, Annie parve capire che, ora, l’uomo era in sé.

Sbattè le palpebre anche lei, poi mosse le labbra.

Irwing si avvicinò per sentire la sua voce, poco più di un sospiro.

“Vi ho chiamato tanto”, disse la bambina, con un filo di voce. “Quando sembravate svegliarvi. Ma avevate la febbre, e non mi sentivate nemmeno”.

Irwing allungò un braccio verso di lei – spostandolo, sentì la porzione di pelle che era restata a contatto col legno, e che si era leggermente riscaldata, congelarsi nuovamente – ed, esitando, le poggiò la mano sul polso delicato.

“Ora sto meglio”, disse Irwing, e la sua voce suonò fioca, rauca e strana alle sue stesse orecchie. Si sentiva la testa leggera.

“Qual’è il vostro nome?”

Irwing ci mise un po’ ad afferrare la domanda.

“Perdonami?”, chiese, pensando di aver frainteso.

La bambina non rispose subito. Sembrò impiegare qualche secondo a raccogliere le forze per ripetere quel che aveva detto. Irwing capì che la sua mente doveva essere disorientata quanto la propria, e che il solo rimanere concentrata su un concetto, il formulare una frase di senso compiuto, dovevano costarle una notevole dose di impegno.

“Il nome”, bisbigliò infine la bambina, che sembrava tenere gli occhi aperti – fissi nei suoi - con un enorme sforzo di volontà.

“William Irwing”

“William Ir-wing”, ripetè la bambina, con voce sognante. Sospirò pesantemente, poi chiuse gli occhi, e si addormentò all’istante, di un sonno pesantissimo e, grazie a Dio, senza sogni.

“Annie?”, sussurrò Irwing. La bambina respirava lievemente, tranquilla.

Con una sensazione indefinibile, in cui si mischiavano stupore, tenerezza e angoscia, le scostò pian piano una ciocca di capelli dal viso, e gliela spinse dietro l’orecchio. Era così strano e nuovo, e dolce, essere importante per qualcuno, pensò.

“Annie”, disse piano, un nodo nella gola.

Era rimasta sveglia più di quattro ore, gli occhi fissi nel buio e nell’orrore di quella notte, solo per sapere il suo nome.

 


1 Wallace Henry Hartley (2 giugno 1878 – 15 aprile 1912), era un violinista e il capo orchestra a bordo del Titanic. Dopo che la nave colpì l'iceberg e cominciò ad affondare, Wallace Hartley ed i suoi colleghi iniziarono a suonare per far sì che i passeggeri affrontassero il tragico momento con calma e senza panico. Molti dei superstiti testimoniarono che l'orchestra continuò a suonare fino alla fine: nessuno dei membri dell'orchestra sopravvisse, e la storia del loro eroico comportamento si è trasformata in leggenda popolare.

2 Esiste *davvero*. Giuro. E' in Pennsylvania. Lo so che, specialmente rispetto ai prossimi sviluppi, potrà sembrare che io me lo sia inventato perchè suona bene, ma... Beh, per una volta, non è così. XD



Lady Of Lorien (cit.) "Mi rendo conto di non aver scritto recensioni molto significative".
Ehm.
Se lo dici tu.
Io le ho apprezzate - come dire? Tanto.
Ma tanto, eh! XD
Secondo me (e, checchè tu possa pensare, *non* lo dico solo perchè sono molto lusinghiere), sono molto acute: hai colto benissimo il significato del II° capitolo - non pensavo di averlo reso così bene (*si ringalluzzisce alquanto*).
E comunque, giusto come informazione didascalico/culturale, è stato scientificamente dimostrato da una èquipe di scienziati di fama mondiale, che l'influenza è assolutamente micidiale per i neuroni di chiunque (dimostrazione comprovata dall'esperienza personale! Io, come Irwing, devo aver preso freddo da piccola, e da allora becco tutte le influenze che passano un raggio di 10.000 km da me; alcune anche in modo virtuale, scambiando e-mail con gli amici malati)

FieryRedhead: (cit.) "Dici che Irwing potrebbe fare la parte di David A. Stewart?"
Ehm.
*Coff coff*.
*Coff*.
Non ci ho *cough cough* mai *cough* nemmeno *cough* pensato! No, no.
Che idea *coff* assurda!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VI - Time After Time ***


After my picture fades and darkness has
turned to gray
watching through windows
you're wondering if I'm OK
secrets stolen from deep inside
the drum beats out of time

If you're lost you can look
and you will find me
time after time
if you fall I will catch you
I'll be waiting
time after time
Cyndi Lauper


Capitolo rapido - fin troppo, lo so, ma non volevo soffermarmi troppo. Fate finta che io l'abbia fatto per non annoiarvi con le descrizioni, e non perchè voglia passare alla fase successiva della storia - cosa che, in effetti, risponde al vero.


Pochi minuti dopo, i cinque uomini e la bambina aggrappati alla chiglia della scialuppa rovesciata, esausti, paralizzati dal f

Pochi minuti dopo, i cinque uomini e la bambina aggrappati alla chiglia della scialuppa rovesciata, esausti, paralizzati dal freddo e dall’orrore, vennero raggiunti dalla scialuppa numero 14: il quinto ufficiale, il giovanissimo, slavato Harold Lowe, coi brufoli e la faccia da ragazzo (e coraggioso e determinato come pochi uomini), li prese a bordo.

Ci volle più di un’ora a trasferire i passeggeri della scialuppa su altre lance, e l’operazione, svolta di notte, fra le instabili, fragili barche a remi, nel bel mezzo dell’Atlantico, richiese un notevole sforzo – sia effettivo, che di volontà.

Con un grido di sorpresa, Howe riconobbe l’uomo che aveva aiutato Irwing ad arrampicarsi sulla scialuppa – l’ufficiale Charles Lightoller, come Irwing avrebbe scoperto – il cui accento non era irlandese, come aveva immaginato, bensì del Lancashire.

(I due non si sarebbero mai più rivisti, dopo quella notte; anche se Irwing avrebbe di nuovo sentito parlare di lui, molti anni dopo - quando, con un senso di agnizione che gli fece venire uno stupido nodo alla gola, riconobbe il suo nome fra quelli degli uomini che, durante la guerra, con le loro barche avevano aiutato gli Alleati a fuggire da Dunkirk. “Ann, tesoro, vieni qui”, avrebbe detto, porgendole il giornale. “Guarda un po’ chi ha ripreso il mare. Ti ricordi di quest’uomo?”.

Annie, con una rapida occhiata obliqua alla pagina e un vago sorriso

“Certo che mi ricordo del signor Lightoller. Sapevo che l’avrebbe fatto”, avrebbe detto; una delle sue tante bizzarre, enigmatiche asserzioni).

 

Irwing continuò a sonnecchiare, ma senza l’angoscia terribile della notte passata; mentre una luce grigiastra si diffondeva lentamente sul pelo dell’acqua, Irwing assistette all’arrivo della scialuppa, che si avvicinò con grande sciabordio di remi, rompendo quell’atroce silenzio.

In silenzio si svolse anche il trasferimento dei passeggeri che, troppo stanchi, sconvolti e intorpiditi per parlare – uno di loro sarebbe morto un’ora dopo -, si lasciavano strattonare passivamente da Lowe e dagli altri. Tre quarti d’ora dopo, furono raggiunti dal Carpathia.

 

Seduto al sole su una panca, sul ponte del Carpathia, Irwing reggeva Annie fra le braccia, coperti entrambi dallo stesso plaid di lana ruvida.

La bambina dormiva placidamente, la testa appoggiata contro la sua spalla: Irwing la fissava con un miscuglio di sentimenti, in cui si fondevano tenerezza, confusione, tristezza.

Pensò vagamente che Annie fosse bella: non alla maniera in cui di solito lo sono le bambine, ma in un suo modo solenne, come una Madonna fiamminga. Non aveva i capelli soffici che spesso si hanno a quell’età, bensì dritti e pesanti, che le cadevano intorno al viso – pallido ed eccessivamente spigoloso – come una tenda. Le lunghe ciglia nere gettavano un’ombra scura sotto i suoi occhi chiusi. Sovrappensiero, Irwing le accarezzò i capelli, ma s’interrupe subito: la bambina non era sua, si rimproverò. E lui aveva il dovere di restituirla alla sua famiglia.

Quando un ufficiale gliela tolse gentilmente dalle braccia per portarla al caldo, con gli altri bambini, Irwing lo lasciò fare – e si distese sulla panca a riposare.

Senza rendersene conto, doveva essersi addormentato – perchè a un tratto si svegliò bruscamente, con la sensazione che una mano fresca gli passasse sul viso.

Aprendo gli occhi, si trovò davanti Annie, che, l’espressione seria ma tranquilla, gli teneva una mano sulla fronte. Irwing si rese vagamente conto che la febbre gli era tornata – aveva la bocca riarsa, una sete terribile, gli occhi gli dolevano.

D’un tratto, senza preavviso, fu colto da un’ondata di nausea terribile: si girò rapidamente e vomitò un po’ di liquido acido e biancastro sul ponte. Tossì, si pulì la bocca col dorso della mano.

Annie si era ritratta con un sobbalzo e un piccolo singhiozzo di sorpresa.

“Stai male”, disse piano, dandogli del tu.

Senza una vera ragione, Irwing ne fu sorpreso: non sapeva per quale motivo, ma aveva la netta impressione che quella bambina avesse difficoltà a comportarsi con spontaneità, o naturalezza... Un po’ come l'aveva sempre trovato difficile lui, se ci pensava bene.

“Non è niente”, borbottò, imbarazzato.

Annie, con un’espressione intensa, che rese per un attimo adulto il suo viso infantile, gli mise una mano sul braccio. Lo strinse appena, con familiarità: un gesto intimo e strano, per una bambina.

“Ti vado a prendere un po’ di tè”, disse, a voce bassa e chiara. “William, caro.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VII - Nemo ***


Oh how I wish
For soothing rain
Oh how I wish to dream again
Once and for all
And all for once
Nemo my name for evermore
Nemo sailing home
Nemo letting go

Nightwish


Compilare modelli 730, in un ufficio senza finestre, con vista sull'archivio (da Bacchi a Bucciarelli, e da Galassi a Lugli), non è la cosa più ispirante (ispirativa?... Ispirevole?... Ispirazionale? Oddio...) che si sia mai vista, però ecco qui il settimo capitolo. Forse quello che più di tutti è ispirato (anche se credo che la parola giusta sia "plagiato") da The Secret History (e anche un po' - ma poco-poco, da Il Buio Oltre La Siepe), ma, ehi! Lavoro in una stanza senza finestre, non potete pretendere.

Grazie a Killer per il commento, e per la segnalazione: non ci avevo proprio fatto caso! Ho rimaneggiato la frase un paio di volte, e il doppio nome dev'essere il residuo di una versione precedente!


Irwing beveva il tè, tiepido e troppo zuccherato, a piccoli sorsi, tenendo entrambe le mani intorno all’ammaccata tazza di sta

Irwing beveva il tè, tiepido e troppo zuccherato, a piccoli sorsi, tenendo entrambe le mani intorno ad un'ammaccata tazza di stagno.

Seduta accanto a lui, le mani quietamente intrecciate in grembo, Annie lo guardava in silenzio, senza coinvolgimento - senza nemmeno tanto interesse - bensì con quello sguardo calmo e analitico che Irwing avrebbe imparato a conoscere come suo proprio.

Non era indifferenza, pensò, quanto invece una sorta di naturale distacco; un’insensibilità innata, che non derivava da malizia, o senso di superiorità, ma dal semplice fatto che la bambina sembrava del tutto immune al corso degli eventi.

Irwing avrebbe presto imparato ad accettare i suoi modi bizzarri, le sue stranezze: la sua perspicacia e le sue ingenuità, la sua mente brillante e il suo anacronistico, eccentrico rispetto delle superstizioni (“Cosa fai?”, le aveva chiesto una volta, grandemente stupito, quando, al bivio fra le due strade di campagna che portavano alla loro casa, le aveva visto togliere dalla tasca un piattino sbeccato e la bottiglia del latte. Riconobbe il piattino, decorato con fiorellini di smalto blu e un reticolo di crepe, come uno di quelli dentro i quali la ragazzina dava abitualmente da mangiare ai suoi molti gatti.

Annie aveva posato il piatto per terra, nella polvere, e ci aveva versato dentro un goccio di latte. “Nei crocicchi dimorano gli spiriti dei morti” gli aveva detto, tutta seria. “Quando si passa per un bivio, bisogna lasciar loro un’offerta per placarli”).

Irwing si voltò verso di lei, che ricambiò il suo sguardo senza malizia né coinvolgimento.

“Non provi molta emozione per gli altri, vero?”, le disse, senza pensare.

Annie sbattè le palpebre, senza sorpresa. Il vento scompigliava i suoi capelli solo sulla cima, lasciando inalterato il resto. Ciocche leggere si muovevano attorno al suo viso, ma il pesante caschetto nero cadeva, compatto e immobile come un sipario, sul suo collo.

“Nemmeno tu”, rispose, dolcemente.

Irwing riflettè un attimo.

“Hai ragione”, disse infine. Scrollò le spalle. “Non ha molta importanza, dopo tutto.”

Annie si inclinò un poco verso di lui, e gli mise una mano sul braccio.

“No, non ce l’ha, per noi, vero?”, mormorò, non senza una certa tenerezza; poi alzò lo sguardo, allarmata. “Oh”, gemette.

Sorpreso, anche Irwing alzò gli occhi.

Un ufficiale del Carpathia, giovanissimo e in evidente, tremendo imbarazzo, si stava avvicinando a loro con un taccuino fra le mani. Si fermò di fronte ai due, appoggiandosi alternativamente su un piede, poi sull’altro.

“Signore, hmm, io... potete dirmi il vostro nome, per, hm – stiamo facendo una lista dei, uh, superstiti del naufragio per – sapete com’è”.

Irwing lo guardò negli occhi. Il poveretto tormentava la matita che teneva fra le dita, rigirandola e piantando le unghie nel legno tenero; fissava un punto all’orizzonte, per evitare di incontrare lo sguardo dei suoi interlocutori.

“Io sono, uh, il mio nome è William Harry Irwing”, disse. “Seconda classe.”

Il giovane rivolse la sua attenzione ad Annie, e le rivolse un sorriso forzato.

“E questa bella signorina, come si chiama?”

Irwing si voltò verso la bambina, che, si accorse, gli stava ora stringendo spasmodicamente il braccio.

“Lei è Ann--”

“... Catherine Irwing”, terminò Annie per lui. “Quest’uomo è mio padre”, aggiunse, freddamente, fissando il poveretto come per sfidarlo a contraddirla.

Il sorriso si spense; l’ufficialetto scribacchiò in fretta i nomi e si allontanò strusciando i piedi.

Ora Irwing era davvero confuso.

“Perchè hai detto a quell’uomo che io sono tuo padre?”, chiese, incerto se esserne lusingato o inquietato.

“Perchè è quello che sarai, d’ora in poi”, fu la risposta di Annie che, rigida, continuava a fissare dritto avanti a sè.

Cominciò a piovere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=321801