Broken

di Sandra Prensky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ahia. 

L'unica cosa che sembrava avere un senso compiuto nel marasma che regnava nella sua testa. Non c'era un solo millimetro del suo corpo che non le dolesse, che non sembrasse andare a fuoco.
Qualcuno faccia smettere quel fischio, pensava. O era solo nella sua testa? Le lacerava i timpani. Voleva solo tornare nell'oblio, dove non avrebbe sentito tutto quel dolore. La sua mente era vuota, non riusciva a formulare dei pensieri di senso compiuto, ma non le importava. Non le importava sapere chi fosse, dove si trovasse, cosa ci facesse lì o cosa fosse successo. Voleva solo che tutto finisse. 

Sentì qualcosa di caldo e vischioso percorrerle la guancia. Con una fatica che le parve disumana, socchiuse lentamente le palpebre. Luce, luce ovunque. Non distingueva nemmeno i contorni delle cose che la circondavano. Non avrebbe saputo dire quanto rimase lì, se delle ore o pochi minuti, ad aspettare che il mondo si ridisegnasse intorno a lei. Quando finalmente i suoi occhi si abituarono alla luce, tutto ciò che vide erano macerie. Macerie, e sangue. Macchie rosse ovunque. Sbattè un paio di volte le palpebre e poi tentò di muovere la testa. Pessima idea. Le sembrava di avere un macigno al posto del capo. Mosse debolmente le braccia ancora doloranti. In qualche modo riuscì ad appoggiare una mano sulla propria guancia. Quando la ritrasse, c'era una macchia rossa anche sulla sua mano.Fantastico, pensò. Lasciò cadere il braccio nuovamente a terra. Ora che l'oblio era ormai lontano, pretendeva le risposte di cui prima non si curava. Cercò di far ordine nella confusione dei suoi penseri, trovare almeno il proprio nome.

Natasha.

Natasha Romanoff.

Già un inizio. Sospirò, guardando verso l'alto. Il soffitto dell'edificio era per metà crollato. Lo osservava con aria assente, senza fare niente altro o cercare di ricordare più informazioni. Per questo quando il secondo nome arrivò la colse del tutto impreparata.

Clint.

Chi diavolo era Clint? Un parente, un amico, una persona che stava cercando? Cercò disperatamente la risposta per un po', fino a quando un ricordo arrivò a seguire il misterioso nome.

 

 


Una pallottola le passò a pochi centimetri dal viso. Sempre a complicare tutto, questi americani. Si girò e aprì il fuoco a sua volta, facendo comparire una chiazza rossa all'altezza del petto dell'uomo con il fucile dietro di lei. Prima di girarsi e continuare a correre notò un simbolo di aquila sulla divisa dell'agente che aveva avuto la sfortuna di mancarla. Continuò a correre, fino a trovare un edificio abbandonato in fondo alla via. Vi si infilò, accertandosi di aver seminato tutti gli agenti. Si accasciò in un angolino nascosto a riprendere fiato. Doveva aver corso per mezza Budapest senza fermarsi. Era tutta nera di polvere, e aveva diversi graffi sulle braccia. Appoggiò la testa al muro dietro di sè, chiudendo gli occhi. Sentì lo spostamento d'aria giusto in tempo per scattare in avanti ed evitare... Una freccia? Davvero? Si girò verso la direzione dalla quale proveniva. Vide un uomo biondo che dimostrava qualche anno in più di lei guardarla con lo stesso stupore che aveva anche lei dipinto sul volto. Rimasero paralizzati a guardarsi. Lui aveva un grosso arco in mano e una faretra piena di frecce sulla schiena. La cosa che però la colpì di più erano i suoi occhi, ben visibili anche da quella distanza. Erano di un azzurro che lei non aveva mai trovato nemmeno in Russia, con delle ombre grigie. Quel momento di pausa però durò poco. Lui si riscosse e incoccò un'altra freccia, lei andò a ripararsi dietro una colonna tirando fuori una pistola. Sentì un sibilo, e una freccia si conficcò nel muro davanti a lei un secondo dopo. La guardò stranita. Se non l'aveva lanciata per colpirla, allora perchè.... Capì quando la punta iniziò a lampeggiare. Si allontanò dal nascondiglio giusto in tempo per evitare la piccola esplosione causata da essa. Si girò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con lui. Questa volta però era pronta, e riuscì a fargli perdere l'equilibrio prima che lui riuscisse a prendere una freccia. Lo bloccò a terra.

"Sei una persona molto difficile da trovare, lo sai Vedova Nera?"

"Talmente difficile da far esasperare le organizzazioni americane a tal punto da mandare Robin Hood a fermarmi."

Lui riuscì a liberarsi dalla sua presa e lei fece una capriola all'indietro per mantenere l'equilibrio. Puntò la pistola verso di lui, e premette il grilletto. Lui evitò il proiettile come se niente fosse e puntò una nuova freccia verso di lei. Di nuovo lei riuscì a evitarla per un soffio. Gli corse incontro, riuscendo a colpirlo con un pugno sulla mascella. Lui indietreggiò barcollando, lei ne approfittò per prendergli l'arco e iniziò a correre su per le scale dell'edificio. Sentiva il suo passo dietro di lei, ma lui era molto più lento. Si infilò in un corridoio, girandosi a vedere dove fosse. Nessuna traccia di lui, fino a quando si ritrovò un braccio a stringerle il collo. Cercò disperatamente di divincolarsi dalla presa, ma servì solo a fargliela stringere. Lasciò andare l'arco, e lui lo prese immediatamente al volo.

"Mai sottovalutare Robin Hood, Vedova." 

 Poteva quasi percepire il suo sorriso di scherno mentre tentava di prendere aria. Riuscì ad avvicinarsi abbastanza da puntargli i suoi pungiglioni sulla pancia e rilasciare una scarica elettrica che lo costrinse a mollarla. 

"Nemmeno una Vedova Nera, Robin"

Cercò di scappare, ma una freccia le passò vicina alle gambe. Sembrava una normale freccia, fino a quando una rete andò a legarle le caviglie e farle perdere l'equilibrio. Imprecò sottovoce in russo. Strisciò all'indietro per allontanarsi da lui, fino a quando si trovò spalle al muro, bloccata dall'arciere sull'altro lato. Fine della corsa.

 "Okay, ma una cosa rapida. Uccidimi e porta il mio cadavere in America, complimenti, hai sconfitto la Vedova Nera." Disse tra i denti.

"Io ho un'altra idea."

Studiò la faccia del ragazzo, il suo sorriso rassicurante. Era di sicuro una copertura. Quale doveva essere la sua idea, torturarla fino a quando lei non avesse fatto nomi? Ci era abituata, ormai, le torture non la spaventavano. 

"Se devi prendermi per torturarmi puoi anche evitare. Non vi dirò niente"

Il ragazzo rise, e lei lo guardò confusa. Era proprio un bravo attore.

"No, la mia idea era di portarti con me. Sai, saresti utile allo SHIELD. Ucciderti sarebbe uno spreco, sei brava."

A lei l'idea parve così improbabile che trattenne a stento una risata. 

 "E perchè mai dovrei fidarmi di te?"

"In effetti, non c'è motivo. Puoi solo fidarti. Cos'hai da perdere? Non mi dire che ti mancherà il KGB."

L'arciere l'aveva inquadrata subito. Aveva ragione. Lei lo guardò senza rispondere, lui le tese la mano. Avrebbe potuto ucciderla. Era quello per cui era stato mandato... E invece le stava offrendo un'opportunità. Perchè? Doveva esserci una fregatura, da qualche parte. Eppure, qualcosa nello sguardo del ragazzo le faceva venire voglia di fidarsi di lui. Lei, che non si fidava nemmeno della sua ombra. Scosse la testa. Devo essere impazzita, pensò. Afferrò la mano del ragazzo, che la aiutò ad alzarsi e a liberarsi delle corde.

"Allora, la nostra Vedova Nera ha anche un nome o...?"

Lei lo squadrò un attimo. 

 "Natasha."

"Piacere, Natasha. Benvenuta nello SHIELD. Io sono Clint." 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Passarono ancora diverse ore prima che riuscisse a mettersi seduta senza che la testa iniziasse a vorticare così intensamente da costringerla a tornare a stendersi a terra. Quando finalmente ci riuscì, appoggiò la schiena contro un enorme blocco di quello che una volta doveva essere il soffitto. Si prese la testa tra le mani, distrutta. Anche un piccolo gesto come mettersi a sedere le richiedeva uno sforzo immane. Non riusciva a togliersi dalla testa quell'unico ricordo, appena chiudeva gli occhi vedeva il viso dell'arciere che le sorrideva. Si era aggrappata a quell'unica cosa nitida nella sua testa con una disperazione assoluta, era l'unica cosa che le dimostrasse che lei avesse un passato, che lei fosse viva. Alzò nuovamente il capo e di nuovo notò del sangue sulle sue mani. Pensò distrattamente che avrebbe dovuto fermare il sangue dalla ferita sulla sua testa, ma dopo poco se n'era di nuovo dimenticata. Si sentiva stordita, annullata. Tornò a concentrarsi sull'arciere, ignorando il mal di testa martellante. Il suo era il primo nome che le era venuto in mente dopo il proprio, perchè? Certo, quella volta le aveva salvato la vita, ma non doveva essere stato il loro ultimo incontro, giusto? Non poteva. Sospirò profondamente e poi chiuse gli occhi, cercando di trovare altri ricordi. In parte per scoprire dove fosse e perchè fosse lì, in parte perchè in cuor suo sperava di poter rivedere di nuovo quel misterioso Clint...
 

 

 

"E' passato quasi un anno, Clint. Lo so che è difficile fidarsi di me, però cosa devo ancora fare prima che Fury mi lasci partecipare alle missioni, o almeno mi tolga i cani da guardia che ho perennemente intorno?"

"Onestamente, Romanoff, spero che May non ti abbia sentito chiamarla cane da guardia."

Lei non potè fare a meno di sorridere tra sè e sè.

"Non preoccuparti, Natasha. Diventerai presto un'agente... Ormai il fatto che io sia il tuo AS sta diventando veramente ridicolo, mi stendevi già all'inizio. Se conosco il direttore, vuole solo essere sicuro di potersi fidare di te, sai, sarebbe pericoloso rischiare di lasciare a piede libero un'assassina che ha battuto ogni record di addestramento SHIELD dai tempi... Beh, credo dai tempi di Carter."

Lei sospirò e si appoggiò alla sbarra di metallo che la separava da un tuffo in mare. Il massimo che le concedessero erano le ricognizioni e quella via mare di quel giorno le sembrava francamente persino più inutile del solito. Clint si mise accanto a lei, dando le spalle al mare e guardando verso l'interno della barca. Rimasero un po' così, lei a guardare il mare con il vento che le scompigliava i capelli, lui con le braccia conserte a scambiare cenni di saluto con gli agenti che gli passavano davanti. Proprio quando stava per dirgli che sarebbe andata a cercare May per vedere se ci fosse qualcosa da fare, vide l'acqua incresparsi a poca distanza. Si sporse lievemente. Era un sottomarino. Non sapeva che lo SHIELD avesse mandato un appoggio... Fece per avvertire Clint, quando una piccola parte di esso venne a galla e da una botola uscì la figura sottile di una mitragliatrice, puntata verso di loro.

"Giù!" Urlò e si gettò su Clint appena in tempo per evitare i proiettili che sfrecciavano sopra le loro teste. La maggior parte degli agenti che erano dietro di loro non furono altrettanto fortunati. Solo allora si accorse di essere praticamente sdraiata sopra a Clint, che la fissava stupito.

"Tutto bene?" Le sussurrò.Lei annuì e si spostò da lui, per stendersi al suo fianco ad aspettare che la pioggia di proiettili cessasse.

"Natasha, ascoltami. Appena finisce dovranno cambiare la ricarica. Avremo circa venti secondi per correre per il ponte. Vai dritta da May, okay?"

Lei lo guardò con un'espressione esasperata. Possibile che non potesse essere utile, che dovesse andare lontano dall'azione ad aspettare che tutto finisse? Annuì, controvoglia. Aspettarono ancora un po', poi finalmente i proiettili si fermarono. Si alzarono di scatto e iniziarono a correre per il ponte, mentre degli agenti si schieravano lungo tutto esso con i fucili puntati. Clint prese l'arco, che qualcuno gli aveva portato, e si fermò con loro. Lei gli lanciò un'ultima occhiata, piena di invidia, e continuò a correre. May, impassibile come sempre, la stava aspettando all'interno.

"Resta qui Romanoff, intese? Avranno bisogno di una mano là fuori."Di nuovo, si ritrovò costretta ad annuire. Non era mai stata una persona che seguiva gli ordini, ma se voleva entrare nello SHIELD non poteva permettersi il lusso di ignorarli. Guardò in silenzio May che usciva e si maledisse per non averle chiesto nemmeno un'arma. Fortunatamente sapeva come arrivare alla cabina di comando, dove c'era una vetrata antiproiettile dall quale si poteva vedere tutto il ponte. Si affacciò e vide che gli agenti erano riusciti a distruggere la mitragliatrice, ma i nemici stavano iniziando a tentare di salire sulla nave. I suoi compagni li respingevano come potevano, ma erano numericamente inferiori. Vide May respingere quelli che cercavano di salire sul ponte dal lato destro. Cercò Clint con lo sguardo, ma non lo vedeva da nessuna parte. Si sentiva totalmente impotente. Mentre lei era lì chiusa a guardare il sangue continuava a scorrere da entrambe le parti. Resse ancora dieci minuti, poi vide Clint. Aveva finito le frecce ed era accerchiato da quattro o cinque agenti nemici, fortunatamente disarmati. Ma lui era comunque da solo. Al diavolo, si disse. Uscì di corsa dalla porta, ma venne subito bloccata da un nemico. Alzò gli occhi al cielo. Evitò il proiettile che quello aveva già sparato e gli fece perdere l'equilibrio. Prima che facesse in tempo a rialzarsi lei gli aveva già rubato la pistola di mano. Non sparò, ma aspettò che questi si rialzasse per fargli di nuovo perdere l'equlibrio, stavolta verso il mare. Non intendeva sprecare pallottole, avrebbe lasciato il lavoro alle eliche della nave. Corse a perdifiato verso il ponte, gettando ancora un paio di uomini in mare e lasciandone un altro svenuto a terra. Arrivò sul ponte e di nuovo iniziò a cercare Clint con lo sguardo. Lo scorse da lontano. Era impegnato in un corpo a corpo con quei cinque agenti e, malgrado si stesse difendendo egregiamente, era ridotto piuttosto male. Lui la vide. I loro occhi si incrociarono per un attimo, giusto il tempo necessario perchè un proiettile che gli trapassasse il fianco. Uno degli agenti che lo stavano attaccando ne approfittò per tirargli un pugno. Perse l'equilibrio e cadde in acqua. Lei urlò un "No!" e senza pensarci sparò a bruciapelo a tutti e cinque gli agenti che prima lo stavano circondando, prima ancora che loro si accorgessero della sua presenza a pochi metri. Corse verso la ringhiera, scavalcando i corpi. Si affacciò per cercare traccia di Clint in acqua. Niente. Di colpo si sentì tirare da dietro.

"Lascialo andare, Romanoff. Per lui è troppo tardi. Torna dentro, non saresti nemmeno dovuta venire"May la stava guardando con la sua solita faccia impassibile. Quando lei era arrivata allo SHIELD, May le era stata assegnata come secondo AS e si vedeva lontano un miglio che non approvava la sua presenza lì. Eppure, con il tempo, avevano scoperto di avere diverse cose in comune, ed erano arrivate persino ad essere ciò che più vicino ad "amiche" due persone come loro potessero diventare. Però appena c'era del lavoro da fare, May indossava di nuovo la sua maschera e non guardava in faccia nessuno, tranne forse Coulson.

"Non intendete fare niente per aiutarlo? Siete lo SHIELD e lui è uno dei vostri migliori agenti! Non è un'organizzazione basata sul salvare le persone?" Disse lei incredula.

"Esatto. Quindi non ha senso sprecare altre vite per un agente che tanto ormai è già spacciato. Ed è anche un'organizzazione basata sul seguire ordini, Romanoff, quindi ti conviene rientrare se ci tieni ancora a farne parte."

"Vorrà dire che dovrete fare a meno di me." Senza aggiungere altro si tuffò. Sentì in lontananza la voce di May che la chiamava, ma non le importava. L'acqua era fredda, ma d'altra parte non era nemeno primavera. I vestiti si impregnarono subito e diventarono pesanti, anche se lei se ne accorse appena. Intorno a lei l'acqua era scura, non vedeva quasi niente. Socchiuse le palpebre nel tentativo di migliorare la situazione. Vide una scia rossa passare davanti ai suoi occhi. Sangue, pensò. Sentì sulle labbra il suo sapore metallico. Cercò di seguire la scia, lottando contro la corrente. D'un tratto, lo vide. Stava inesorabilmente andando verso il fondo, in balia della corrente. Era pallido, dal fianco il sangue usciva ancora copiosamente e aveva gli occhi semichusi. Non dava alcun segno di coscienza. Nuotò verso di lui più veloce che poteva. Afferrò il suo braccio e risalì a fatica verso galla. Sentiva l'ossigeno mancarle sempre di più e non osava pensare quanto ne potesse rimanere a Clint, in acqua da molto più tempo di lei. Sentiva che i polmoni le stavano per scoppiare, ma continuò imperterrita a nuotare verso l'alto, aggrappandosi alla speranza che la luce sempre più vicina le offriva. Finalmente arrivò a galla, portando Clint con sè. L'aria tornò a girare nei suoi polmoni. Perchè non aveva mai notato quanto fosse piacevole respirare? Fece appena in tempo a sentire Clint dare un lieve colpo di tosse prima di sentire qualcosa stringersi sulla sua caviglia e trascinarla di nuovo verso il basso. Confusa, abbassò lo sguardo: era uno degli agenti che aveva buttato in acqua. A quato pare, lo aveva fatto cadere a troppa distanza dalle eliche. Cercò di divincolarsi dalla presa, ma più lei provava a liberarsi più lui stringeva. Si agitò un po', scoordinatamente, nel tentativo di risalire. Dopo poco, sentì le forze venirle meno. Guardò verso il basso. Il suo assalitore sembrava aver ossigeno a sufficienza. In un ultimo disperato tentativo cercò di tirargli un calcio in faccia con l'altro piede. Miracolosamente, riuscì a colpirgli la mascella e lui allentò un po' la presa. Un altro calcio, e riuscì a rompergli il naso. Un terzo, e l'uomo svenne, lasciandola definitivamente libera. Cercò di risalire, a fatica, ma si sentiva debole, non riusciva a muovere le braccia e le gambe velocemente quanto avrebbe voluto. Mancavano ancora diversi metri prima di arrivare a galla. Capì che non ce l'avrebbe mai fatta. Smise di lottare. Pensò che in fondo non era un brutto modo di andarsene, nell'oceano... Aveva qualcosa di affascinante. E in più se ne sarebbe andata dopo aver salvato un amico, quindi non sarebbe stato un sacrificio vano. Sorrise tra sè, mentre sentiva che le palpebre si facevano pesanti... Tutto a un tratto una mano comparve a poca distanza dal suo viso, tesa verso di lei. Ci mise diversi secondi per costringere il suo braccio ad alzarsi e le sue dita stringersi intorno ad essa. Ancora una volta si sentì trascinare, ma questa volta verso l'alto, verso la salvezza. L'aria fredda la investì nuovamente, ed era la sensazione più bella del mondo. Inspirò a pieni polmoni, ansimando un po'. Si accorse di avere ancora la mano stretta al braccio di chiunque fosse venuto in suo aiuto. Si girò. Ancora pallido e ansimante, Clint le stava rivolgendo un debole sorriso. Le venne d'istinto, lo abbraciò. Lui ricambiò l'abbraccio.

"Tutto a posto?"Lei annuì. Da sopra di loro videro affacciarsi il viso imperscrutabile di May. Senza dire niente, lanciò loro una corda. La afferrarono, e vennero issati a bordo. Appena furono sulla nave, si lasciarono entrambi cadere a terra, uno di fianco all'altra. Le loro dita erano ancora intrecciate, ma nessuno, nemmeno loro, sembrò farci caso.

"Lui è ferito, portatelo in infermeria." Ordinò una voce indefinita. Sentì la mano di lui scivolare via dalla sua. Dopo un po' riuscì ad alzarsi. May la condusse in una cabina e le portò un paio di pantaloni asciutti e una felpa, insieme a un asciugamano. La ringraziò, ma May non disse una parola. Aspettò che uscisse e si tolse i vestiti fradici. Indossò quelli asciutti e caldi. La felpa era enorme, ma era meglio così. Portava il simbolo dell'aquila dello SHIELD. Si lasciò cadere sul letto della cabina e si appoggiò al muro. Prese l'asciugamano e inziò distrattamente ad asciugarsi i capelli, che avevano già iniziato a fare i ricci rossi spettinati che si creavano quando si asciugavano da soli. Passarono i minuti, e si sentì bussare alla porta.

"Avanti" Disse, a mala pena udibile.Clint entrò, ancora pallido e un po' barcollante, ma con un piccolo sorriso stampato sulla faccia. Si sedette di fianco a lei, appoggiandosi anche lui al muro. Anche lui indossava una maglietta diversa, asciutta, sempre con il simbolo dello SHIELD sopra. Era bianca, e si intravedeva facilmente una benda all'altezza della vita.

"Hey." Mormorò

"Hey." Rispose lei.

"Non ti ho ancora ringraziato per avermi salvato la vita, Nat."

Lei si girò verso di lui con un'espressione divertita.

" 'Nat' ?"

"Natasha è troppo lungo... Nat è carino"

Lei sorrise. 'Nat'. Le piaceva.

"Non c'è di che, Clint."

Rimasero un po' in silenzio, guardando verso la porta, tutta lo stress della giornata a pesare sulle spalle.

"Beh... Non è stato male lavorare con te, anche se non diventerò un'agente."

"Perchè dici questo?"

"Beh, ho disobbedito agli ordini... Prima uscendo dalla cabina di comando, poi tuffandomi per cercare te. Non ho superato il test, non diventerò un'agente."

"Spero che tu stia scherzando Romanoff. Perchè la prima cosa che farò appena metterò piede a terra sarà andare dritto da Fury a dirgli che se non ti fa diventare un'agente all'istante mi licenzio."

A lei venne da ridere.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Appena smise di vederci doppio e sfocato cercò di capire quante ferite avesse e quanto fossero gravi. Sapeva già di quella alla testa, che probabilmente era la ragione principale di tutta quella confusione e anche della difficoltà nei movimenti. Non sapeva quanto fosse grave, ma continuava a sanguinare. Aveva graffi sparsi su tutto il corpo ed era completamente coperta di calce. Si accorse di fare ancora più fatica a muovere la gamba destra. Con estrema difficoltà la girò e notò una ferita che andava dalla coscia fino a sotto il ginocchio. La esaminò un attimo. Era piuttosto profonda. Sospirò. Non sapeva cosa fare, intorno a lei non c'era nessuno. E anche ci fosse stato qualcuno, come faceva a sapere se fossero nemici? Non aveva niente per ridurre l'afflusso di sangue ed era ancora troppo debole per alzarsi. Riusciva a mala pena a stare seduta. Sospirò. Tornò a pensare ai pochi ricordi che aveva. Quindi era anche lei un'agente dello SHIELD. Perchè ci avevano messo un anno prima di fidarsi di lei? Perchè a Budapest stava sparando contro gli agenti, perchè avevano mandato Clint per ucciderla? 

 

 

 Scese dal quinjet insieme agli altri agenti. Sorrise vedendoli rabbrividire dal freddo. Lei era abituata alle rigidissime temperature della Russia d'inverno, e la temperatura che c'era al momento era ancora niente.  

"Romanoff, sei fatta in titanio, non c'è altra spiegazione." Clint comparve al suo fianco, tremando lievemente. Lei in tutta risposta gli rivolse un'occhiata divertita. Nevicava fitto, e i bianchi fiocchi di neve si adagiavano sui suoi capelli rossi. 

 "Meglio mettersi in movimento, prima che diventi un ghiacciolo vivente." 

"Quanto la fai lunga, Barton."Si misero in cammino verso le coordinate che Fury aveva loro fornito, lei in testa al gruppo. Doveva fermarsi continuamente ad aspettare gli altri, più lenti di lei a muoversi sulla neve.Guardandosi intorno, ebbe la strana sensazione di essere già stata lì. Scosse la testa. Doveva essere solo suggestione, in Russia i paesaggi sotto la neve da quelle parti si assomigliavano.Da dove si trovava si vedevano le figure degli edifici di Volgograd stagliarsi all'orizzonte. Volgograd. Faceva ancora difficoltà a non chiamarla Stalingrado. Certe abitudini sono dure a morire. Forse era probabile che lei fosse già stata da quelle parti. Aveva vissuto per tanto tempo a Stalingrado. Si girò e vide che i suoi compagni l'avevano quasi raggiunta. Sospirò e riprese a seguire le coordinate. Nessuno di loro sapeva cosa volesse dire per lei ritrovarsi lì. Non aveva raccontato del suo passato a nessuno, nemmeno a Clint, sebbene talvolta avesse provato il desiderio di farlo. Più andavano avanti a camminare, più la sensazione di familiarità cresceva. Nevicava sempre più fitto, la neve andava subito a coprire i solchi lasciati dalle loro scarpe sul manto che già era presente. La visibilità era piuttosto ridotta, si faticava a vedere oltre i due metri dal proprio naso. Per questo vedere dove conducessero le coordinate la spiazzarono. Era una villa. Era grande ed elegante. Ma non per lei. Lei ci vedeva solo una cosa: quella era la villa dove era cresciuta. Quella era la sede della Stanza Rossa.

 "Nat, stai bene?" Si girò e trovò Clint che la guardava preoccupato. Si accorse di essersi fermata di colpo davanti alla villa, e probabilmente era anche impallidita. Cercò di riscuotersi al meglio che poteva. 

"Certo, tutto bene" Gli rivolse un sorriso tirato, che sperava assomigliasse il più possibile a uno vero. Se mai avesse deciso di raccontargli la verità, non era quello il momento. Ricontrollò le coordinate, sperando di aver sbagliato qualcosa. Imprecò tra sè e sè. Fece un sospiro profondo, e seguì i compagni che avevano già sfondato la porta. 

"Fury cosa vuole che facciamo qui?" Chiese sottovoce a Clint, cercando di evitare che le si incrinasse la voce. 

"Pare che abbiano trovato indizi su un progetto che veniva attuato a inizio secolo. Una cosa crudele, credo che si addestrassero bambini a diventare assassini. Quasi impossibile immaginare cosa voglia dire essere nei loro panni, vero?"Lei non rispose e si guardò intorno, inquieta. Era tutto esattamente come se lo ricordava. 

 "E comunque credo gli servano più informazioni. Tu non ne sai niente, vero?" Continuò lui. Di nuovo ignorò la sua domanda, e si diresse verso la sala. I ricordi del suo passato l'assalirono con violenza, quei ricordi contro i quali lottava ogni giorno per tenerli nascosti a tutti, anche a se stessa. Si rivide anni prima, da piccola, a ballare in quella stessa stanza. Rivide il suo maestro, rivide le compagne. I duri allenamenti, tutto ciò che era successo prima che volessero farla diventare una Vedova Nera. 

"Natasha!"Si girò di scatto verso Clint."Nat, è la quinta volta che ti chiamo. Sei sicura di stare bene?"Prima che lei potesse rispondere un agente arrivò dicendo di aver trovato qualcosa. Clint le lanciò un'occhiata che aveva tutta l'aria di significare "Ne riparliamo dopo" e poi seguì l'agente. Lei non era sicura di voler andare. Credeva di sapere perfettamente cosa avesse trovato quell'agente. Incerta, decise di seguirli. Cosa poteva esserci di così male? Lo rivedeva comunque ogni notte, ritrovarcisi davanti dal vivo non poteva essere tanto peggio. Presero una porta che conduceva a un piano sotterraneo. Si ritrovarono in un corridoio pieno di stanze. Sapeva dire perfettamente cosa ci fosse in ognuna di quelle senza bisogno di aprire nessuna porta. Molte erano solo sale vuote dove ci si poteva allenare nel corpo a corpo. Un'altra era piena di bersagli, che potevano essere colpiti con qualsiasi arma: pistole, coltelli, anche frecce. E quella verso la quale si stava dirigendo Clint... A stento si trattenne dall'urlargli di non aprire quella porta. Quella era la stanza dove si teneva la cerimonia di laurea e dove si svolgevano tutti gli esperimenti. Lì lei aveva dovuto uccidere per la prima volta, lì avevano fatto tutti i test su di lei. Lì Natasha Romanoff era definitivamente scomparsa per fare posto alla Vedova Nera. Seguì gli altri agenti in silenzio, cercando di tenere il respiro regolare. Li vide che esaminavano i lettini, gli attrezzi da lavoro come se stessero tenendo in mano degli oggetti dai laboratori dello SHIELD. Loro non avevano idea delle atrocità accadute in quella stanza. L'unico che sembrava capire la gravità di ciò che poteva essere successo in quella stanza era Clint, che si aggirava inquieto. Lo osservò per un po', da lontano, fino a quando lo vide avvicinarsi a una porta, quasi nascosta nella parete. Si stranì, non se la ricordava. Decise di farsi coraggio e avvicinarsi a lui. 

"A cosa ti serve una stanza segreta, se stai lavorando nel piano segreto di una villa segreta?" Chiese lui, più a se stesso che non a lei. Dopo un po' di tentativi riuscì ad aprire la porta e lei lo seguì all'interno. Era una stanza spoglia, fatta eccezione per una sedia e un piccolo schermo. Lei si avvicinò alla sedia, e notò delle cinghie sui braccioli. Sentì Clint dietro di lei che si avvicinava allo schermo. Pigiò un pulsante e lo schermo si accese. 

"Questa roba funziona ancora? Davvero?"Ma lei non badò a lui. Sullo schermo erano comparse delle ballerine durante delle prove. Quando comparve il maestro, notò una spiccata somiglianza con il suo. Un dubbio orrendo la assalì. Continuò a guardare, per accorgersi che il maestro era effettivamente il suo. Tornò a girarsi verso la sedia, e capì con orrore nello stesso momento in cui iniziò a ricordare. Ricordava di essere stata chiusa lì, legata alla sedia. Ricordava di essere stata costretta a guardare quei filmati. Ricordava un uomo dietro allo schermo, che continuava a parlarle lentamente mentre faceva girare un anello sul proprio dito. Portò le mani alla testa. I ricordi delle uniche cose buone successe nella sua infanzia, prima dell'addestramento nella Stanza Rossa, erano tutti fasulli. Clint si girò verso di lei e le disse qualcosa che lei non sentì. 

 "No.." mormorò. "No no no no no!" Ripetè, la voce che si alzava sempre di più. Corse fuori dalla stanza, fuori dal corridoio, fuori dalla villa. Si ritrovò di nuovo all'aria aperta, la neve che cadeva sempre più fitta. Girò su se stessa, spaesata, senza veramente vedere ciò che aveva davanti. Di colpo, ricominciò a correre. Verso cosa, non lo sapeva. Correva solo, sulla strada, tra gli alberi, senza fare attenzione alla neve che diventava scivolosa sotto di lei. Dopo aver corso per circa venti minuti, si fermò e cadde sulle ginocchia, ansimante, lo sguardo vacuo. Sentì distrattamente dei passi dietro di sè. 

 "Poi mi spieghi come fai a correre così veloce anche sulla neve, Romanoff. Ho rischiato di rompermi il collo una decina di volte." Clint si sedette accanto a lei con il fiatone, ma lei non diede segno di accorgersene. Restarono un po' fermi, in silenzio, a riprendere fiato. Appena fu in grado di respirare normalmente, Clint si piazzò davanti a lei e le prese il viso tra le mani per costringerla a guardarlo. 

"Nat, si può sapere che diavolo ti è successo? Non ti posso aiutare se non mi racconti niente... Ancora non riesci a fidarti di me?" 

"Sei l'unica persona di cui mi sia mai fidata Clint." Riuscì a mormorare dopo un po' 

"E allora per favore, raccontami tutto." 

"E' una storia lunga. Molto lunga." 

"Beh, allora sarà meglio che inizi a parlare subito, oppure quando avrai finito sarò completamente ibernato."

Lei lo squadrò per un attimo. Non lo aveva mai raccontato a nessuno. Però Clint se lo meritava... E ciò che aveva detto era vero, era l'unica persona di cui lei si fosse mai fidata. Sospirò e iniziò a raccontare. Gli disse tutto. Gli disse la sua vera età, e gli raccontò dei sieri della Vedova Nera della Stanza Rossa, quelli che rallentavano l'invecchiamento e irrobustivano il corpo. Gli disse della danza, e di come avesse appena scoperto che erano ricordi fasulli. Gli disse dell'addestramento nella Stanza Rossa, del programma Vedova Nera. Gli disse della cerimonia di laurea, della sterilizzazione, dei suoi primi incarichi, del KGB, della figlia di Dreykov, di San Paolo, dell'incendio all'ospedale, gli disse tutto quello che poteva fino alla missione a Budapest. Gli disse tutto ciò che non aveva mai condiviso con nessuno, tutto ciò che si era tenuta dentro per anni, mentre la neve continuava a scendere su di loro. Lui ascoltò tutto in silenzio, con attenzione, senza mai interromperla. Quando lei finì la osservò a lungo. Poi scrollò le spalle. 

"Natasha, se prima pensavo che fossi la persona più forte che avessi mai incontrato ora sei riuscita a superarti." Senza aggiungere altro, si avvicinò a lei e la abbracciò. Lei rimase un attimo rigida, stupita da quella reazione. Poi si sciolse nell'abbraccio, e lasciò che le braccia dell'arciere la stringessero. Quando era stata l'ultima volta che qualcuno l'aveva abbracciata così? Solo allora si accorse di quanto ne avesse avuto bisogno, come una bambina piccola che aveva appena avuto un incubo. Peccato che il suo incubo fosse la vita reale. Chiuse gli occhi, e adagiò la testa sul petto di Clint. Restarono fermi così per diverso tempo, in silenzio, la neve che continuava ignara a cadere, facendo loro da sfondo.     

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Iniziò a piovere. Decise che doveva togliersi da lì, nel caso la pioggia fosse riuscita a spingere i frammenti di soffitto in bilico sopra la sua testa. Inoltre, se si fosse messa sotto l'acqua forse sarebbe riuscita a sciacquare almeno superficialmente le ferite. Con la testa che minacciava di esploderle, cercò di alzarsi. Ricadde a terra subito dopo. La sua gamba non riusciva a reggere il suo peso. Sospirò e si preparò al dolore che strisciare sulle macerie le avrebbe causato. Sentiva la mente ancora annebbiata, ma riusciva ad articolare i pensieri con maggiore facilità. Fece forza sulle braccia che urlavano di dolore e pian piano riuscì a trascinare il suo corpo sulle macerie, verso il punto senza soffitto. Lo sforzo di non gridare per il male era quasi insostenibile. Il dolore offuscava tutti i suoi sensi e prosciugava le sue già scarse energie. Quando arrivò al punto che voleva raggiungere era già allo stremo. Si lasciò andare, distesa tra le macerie, e con un gemito distese la gamba ferita. Rimase lì a prendere fiato, il corpo che bruciava, a guardare la pioggia scendere su di lei. Per tenere la mente occupata dal pensare al dolore, ricominciò a indagare su altri ricordi. 

 

 

Appena Stark fu circondato da un numero sufficiente di donne e fosse arrivato a un tasso alcolemico tale da tenerlo lontano da lei, sgusciò via dalla sala. Detestava le feste, gli assembramenti di gente, la musica troppo alta. Facendo attenzione a non imbattersi nella signorina Potts, che sembrava detestarla più di chiunque altro lì dentro, si fece strada tra i corridoi e le coppiette appartate. Non che ce ne fossero molte, l'utenza normale delle feste di Stark apparteneva principalmente al gentil sesso. Quando fu abbastanza lontana si appoggiò a un muro, sospirando. Si sentiva ancora la musica ovattata provenire dall'altra parte dell'edificio, ma così era molto più tranquillo. Vide una scala che non aveva mai notato prima. Saliva verso l'alto, e dalla vetrata si poteva notare che conduceva al tetto. Senza produrre il più piccolo suono la prese. Una volta fuori, si guardò intorno. La vista era mozzafiato e regnava il silenzio. Sorrise e si sedette ad ammirare le luci della città in lontananza. Il silenzio però venne presto infranto dalla suoneria del suo cellulare. Sbuffò, ma una volta visto il numero le tornò il sorriso. Non aveva certo bisogno di un spiccato intuito per capire che quello che era comparso sullo schermo del telefono fosse il prefisso del New Mexico. Tuttavia, rispose come se non lo sapesse 

"Romanoff." 

"Santo cielo Nat, devi rispondere ogni volta così? Mi sembra sempre di chiamare una centralina." 

"Solo perchè l'articolazione massima delle tue risposte al cellulare dello SHIELD sia un grugnito, non è detto che debba essere anche quella delle mie, Barton." Fu grata del fatto che lui non fosse lì ad avere la soddisfazione di vedere che era riuscito a farla sorridere. 

"Avanti Romanoff, un po' di riconoscenza. Ti sto chiamando da un telefono pubblico del New Mexico, hai idea di quanto ci voglia a trovarne uno? Tre dannatissime miglia senza scorgerne uno, a sentirlo raccontare non ci crederei nemmeno io" 

 "E hai fatto tre miglia nel deserto sconfinato del New Mexico, totalmente senza cabine telefoniche, lontano da ogni forma di civiltà solo per chiamare me?" C'era una nota di sarcasmo nella sua voce, che tuttavia riusciva a mala pena a mascherare che la cosa le facesse un immenso piacere 

"Certo Romanoff, per chi mi prendi? Quella senza cuore dei due sei tu, mica io. E poi hai idea di cosa voglia dire passare giornate intere da solo con Coulson? Ho bisogno di parlare con una voce che produca suoni diversi da 'Captain America' o "Steve Rogers'" 

"Scommetto che si è portato anche le figurine... Che numero di scarpa aveva Captain America?" 

"Molto divertente, Romanoff. E per la cronaca, il 45. Credo di essere diventato imbattibile ai quiz online sugli eroi della Seconda guerra mondiale. Comunque... Come va con Stark?" 

"La prossima volta mi faccio mandare sotto copertura in un asilo nido, incontrerei soggetti più maturi. Lo 0-8-4?" 

"Ancora fermo lì. Sta intralciando con tutte le nostre apparecchiature... Però devi sentire questa. Oggi si è infiltrato un ragazzo, avrà avuto le dimensioni di un armadio. Ha tranquillamente steso tutte le nostre guardie, una cosa impressionante. Agenti livello 7 sbattuti al tappeto come niente fosse. Peccato non ci fossi tu, ti saresti divertita a fermarlo." 

"Probabile. Immagino che ora sia alle prese con una freccia nel bulbo oculare." 

"Mi sarebbe piaciuto. Coulson però me lo ha impedito, credo che volesse vederlo alle prese con lo 0-8-4, per un secondo abbiamo pensato tutti che potesse essere in grado di sollevarlo." 

"E non ci è riuscito?" 

"Non un millimetro. Però è stata una scena straziante, si è buttato a terra disperato e si è fatto docilmente portare via dagli agenti a terra. Credo che Coulson lo stia interrogando proprio in questo momento." 

"E poi dicono che il New Mexico sia un posto tranquillo."Il cemento sotto i piedi di lei tremò per un attimo, e un fracasso si levò dall'interno della casa. Lei si girò di scatto, sulla difensiva. 

"Clint... Temo di doverti lasciare. Sembra che Stark sta combinando uno dei suoi soliti casini." 

"E Fury vorrebbe quel tipo nel progetto Avengers? Ci credo che non l'abbiano approvato al consiglio." 

"Sai com'è Fury quando si mette un'idea in testa. A presto"Fece per interrompere la comunicazione, quando sentì la voce dell'amico levarsi dalla cornetta. 

"Nat?" 

"Sì?" 

Ci fu un attimo di silenzio. 

"Mi manchi." 

Lei sorrise e riagganciò. Poi prese un profondo respiro e si affrettò a scendere, sperando di non dover essere costretta a rivelare la sua vera identità per rimediare a un pasticcio di Iron Man, o ancora peggio, di Stark. 

 

Qualche giorno dopo, si ritrovò a uscire dall'ufficio di Fury piena di dubbi. Aveva un fascicolo in mano, il suo nome scritto a grandi caratteri sotto l'aquila dello SHIELD. Aprendolo, trovava la sua foto. Di fianco, il file recitava "Romanova, Natalia Alianovna. Alias: Vedova Nera. Agente operativo". Detestava essere chiamata con il suo vero nome, la chiamavano così solo nella Stanza Rossa. Era pieno poi di fogli di rapporti sul suo conto, dalla sua infanzia fino alla missione sotto copertura con Stark. Ma non era quello a preoccuparla. Salutò distrattamente Coulson e uscì dalla base dello SHIELD. Senza smettere di sfogliare il fascicolo, si diresse verso l'appartamento di Clint. Non lo aveva ancora visto da quando era tornato dalla missione, però aveva sentito della storia di ciò che era successo dopo la telefonata. Il ragazzo misterioso si era rivelato essere il proprietario del martello, ma non solo. Pareva che fosse un semidio proveniente da Asgard: Thor, il dio normanno nel tuono. Da non crederci. In circostanze normali, avrebbe passato ore da Clint a pregarlo per avere i dettagli della storia, ma ora aveva altro per la testa. Bussò alla porta e aspettò. Sentì un rumore di qualcosa che cadeva al suolo provenire dall'interno. Alzò gli occhi al cielo e prese la copia di chiavi di scorta che lui le aveva dato. Aprì la porta e si ritrovò in quell'impero del caos altrimenti conosciuto come l'appartamento di Clint. Lui era sul divano e le dava le spalle, mentre lavorava su una freccia. 

"Sei perennemente al quartier generale o in missione. Ci devi proprio mettere impegno per mantenere questo disordine post-atomico." 

Lui si girò di scatto, accorgendosi solo ora della presenza di una seconda persona nella stanza. Appena la riconobbe, abbassò la guardia. 

"Non possiamo essere tutti maniaci dell'ordine come te, Romanoff. E comunque stavo giusto riordinando" 

Lei lo guardò con un sopracciglio alzato, spostando poi lo sguardo sulle pile di vestiti sparsi per la casa. Poi andò verso la cucina e gli fece cenno di seguirlo. 

"Bello essere tornati, Nat. Il tuo caloroso benvenuto mi commuove." Disse lui, sarcastico.

Lei lo ignorò e appoggiò la cartella sul tavolo. Estrasse il foglio dal quale non era riuscita a distogliere il pensiero da quando lo aveva visto. Lo passò a Clint, che lo prese e lo guardò. Senza proferir parola, lo riposò sul tavolo e scomparve nel salotto. Lei si affacciò e lo vide intento a cercare qualcosa in una pila di riviste e fogli. Armeggiò un po' per impedire che il mucchio crollasse e tornò in cucina, con una cartella identica alla sua, solo un po' più stropicciata. La appoggiò sul tavolo, e ne estrasse un foglio. Lei lo prese in mano e guardò Clint. 

"Sai questo cosa significa, Nat?" 

Lei scosse la testa. 

"Significa che siamo appena stati scelti per la missione più difficile che ci sia mai capitata." 

Lei lo guardò, mentre quelle parole aleggiavano nell'aria della cucina. Abbassò nuovamente lo sguardo sul foglio che lui le aveva dato, identico al suo eccetto per il nome. Il simbolo dello SHIELD era affiancato da delle parole che avrebbero cambiato la vita a entrambi: Progetto Avengers - Barton, Clinton Francis: approvato. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


La pioggia recò un sollievo minimo, ma meglio di niente. Almeno era riuscita a togliere le tracce di sangue che circondavano la ferita sulla gamba, così da poterne definire i contorni effettivi con più chiarezza, anche se era ancora aperta. Non sapeva ancora dire niente sulla ferita che aveva sulla testa, ma almeno sembrava aver smesso di sanguinare. Riusciva a pensare con un po' più di chiarezza, e il fischio era finalmente scomparso. Il dolore iniziò piano piano a concentrarsi in alcune parti specifiche del suo corpo, però era ancora troppo debole per fare movimenti eccessivi. Le tornò in mente il Progetto Avengers. Era diventato realtà, alla fine? Lei e Clint erano davvero diventati parte di esso? 

 

 

"Inagibile?" Chiese lei incredula alla vicina. Questa annuì. 

"Gli ultimi piani sono crollati, e per sicurezza non fanno entrare nessuno nemmeno ai piani bassi. Pare che dovremmo trovare un'altra sistemazione per la notte." 

Lei scosse la testa, esausta. Ci mancava ancora questa. Ringraziò e salutò la vicina, per poi iniziare a vagare per le strade di Manhattan. Così, si ritrovava anche senza un posto dove dormire. Pensò di andare allo SHIELD, ma dopo la giornata che aveva avuto non l'avrebbero lasciata in pace un secondo. C'era una sola persona che l'avrebbe ospitata senza fare domande o problemi. Peccato che la sua giornata era stata anche più pesante e lei si sentiva in colpa a chiedergli un favore del genere. Sospirò. Che altra scelta aveva, Rogers? Sembrava simpatico, ma si conoscevano da appena due giorni. Non aveva abbastanza soldi con sè per potersi permettere una camera in qualche albergo. Ci pensò per un po', per poi rassegnarsi e dirigersi verso casa di Clint. Arrivata davanti alla porta del suo appartamento, esitò un attimo e poi bussò. Nessuna risposta. Magari era ancora fuori. Magari era in un bar a ubriacarsi. Dopo quello che aveva passato... Era il minimo che avrebbe potuto fare. Se il siero della Vedova Nera non avesse funzionato circa come quello di Captain America, probabilmente sarebbe andata anche lei a ubriacarsi. Si girò e fece per andarsene, chiedendosi se in fondo non avesse potuto provare a chiedere a Rogers, che a prima impressione sembrava gentile e probabilmente avrebbe accettato. Era già arrivata alla fine del corridoio, quando sentì la porta aprirsi dietro di lei. Si girò e vide il viso stanco di Clint affacciarsi. 

 "Ah, sei tu. Sentivi già la mia mancanza o Stark ha deciso di portarci a mangiare shawarma anche stasera?" 

"Casa mia è stata dichiarata inagibile, grazie a quei simpatici Chitauri, e io non dormo da tre giorni. Offriresti ospitalità a una Avenger?" 

Lui sorrise lievemente e si scostò dalla porta, per lasciarle lo spazio per entrare. 

 "Solo se l'Avenger promette di non usarmi più come cavia per le sue ricalibrature cognitive." 

Lei gli rivolse un sorrisetto ed entrò. 

"Grazie." Si guardò intorno e notò che era tutto stranamente in ordine. Prima che potesse fare domande, lui la precedette. 

"Sì è il mio appartamento. Non riuscivo a stare fermo e mi sono messo a riordinare. Non so che mi sia preso, forse passo troppo tempo con te, Romanoff." 

Lei alzò gli occhi al cielo con aria divertita, troppo stanca per ribattere e intraprendere una delle loro solite discussioni a colpi di sarcasmo. Fuori dalla finestra le luci di New York, quelle che non erano state distrutte dai Chitauri, iniziavano ad accendersi mentre il buio calava. Erano entrambi distrutti, e di comune accordo scelsero di andare subito a dormire saltando la cena. Ebbero una breve discussione su dove dovessero passare la notte, ma alla fine lei riuscì a convincerlo a tenersi il letto, lei sarebbe stata comodissima anche sul divano. Si augurarono la buona notte, e appena lui chiuse la porta della sua stanza lei si lasciò cadere sul divano, esausta, senza prendersi nemmeno la briga di cambiarsi. Non aveva di certo vestiti lì, ma probabilmente, se avesse chiesto, Clint le avrebbe prestato qualcosa di più comodo con cui dormire. Decise che non aveva la forza di alzarsi e fare un tentativo. Chiuse gli occhi, ma per quanto fosse stanca, ci mise un po' prima di riuscire ad addormentarsi. Si rigirò un po', fino a quando, dopo circa un'ora, piombò finalmente in un sonno inquieto. 

Sembravano passati solo pochi minuti, quando un urlo la risvegliò bruscamente. Lo avrebbe definito disumano, se non avesse conosciuto perfettamente la voce che lo emetteva. Scattò in piedi, e senza pensare troppo alle proprie azioni si fiondò verso la camera di Clint. Aprì la porta e si ritrovò davanti a uno spettacolo a lei familiare: lui era lì, che si rigirava nel letto, nel mezzo di un incubo, e urlava a pieni polmoni. Rimase paralizzata sulla porta, perchè da vicino riusciva a definire meglio quel suono: non era un semplice grido, era il suo nome ripetuto ancora e ancora. In quel momento quel semplice soprannome, quell'innocente "Nat" a cui ormai lei si era abituata, aveva perso tutta la sua dolcezza ed era diventato una specie di orribile suono distorto, pieno di dolore. A fatica si ricosse e si avvicinò al letto. Si sedette su di esso e posò una mano sul petto di Clint, cercando di farlo stare fermo. Iniziò a chiamare il suo nome, prima piano, poi vedendo che non si svegliava sempre più forte, cercando di sovrastare quel grido. Finalmente, lui aprì gli occhi e si alzò a sedere di scatto, mettendo fine a quell'orribile urlo e iniziando a respirare affannosamente. Alzò gli occhi su di lei, che aveva ancora la mano appoggiata al suo petto, e si ritrasse di scatto, allontanandosi da lei. 

"Eri morta, eri morta! Ed è colpa mia, sono stato io a ucciderti..." Farneticava, guardandola con gli occhi sbarrati. Lei sospirò e salì completamente sul letto, per avvicinarsi a lui. 

 "Era solo un sogno, Clint. Sono qui, sono viva." Mormorò, ma lui continuò comunque a indietreggiare. 

 "Lui vuole che ti uccida... Non sei al sicuro, devi andartene subito, devi starmi lontana!" 

Lei ripensò a ciò che Loki le aveva detto. " Non toccherò Barton, non finché non ti avrà ucciso. Lentamente, interiormente, con tutti i modi che lui sa che tu temi. Poi si sveglierà il tempo necessario per vedere il suo operato... e quando urlerà gli fracasserò il cranio!". Quelle parole le risuonavano ancora in testa, come una canzone che detesti ma non riesci a toglierti dalla mente. A quanto pare Loki aveva condiviso quel piano anche con lui. Continuò imperterrita ad avvicinarsi a lui. 

"Clint, non mi ucciderai. Sei più forte di lui." Mormorò, mettendosi alla sua altezza per guardarlo dritto negli occhi. Lui continuava a scuotere la testa, con gli occhi iniettati di sangue. 

"Natasha, non posso perderti... Io... E' tutta colpa mia." Sussurrò. Lei avvicinò la mano alla sua. Lui la ritrasse di scatto, ma lei andò a prenderla comunque. 

 "Non mi perderai, Clint. Io non vado da nessuna parte." Fece un piccolo sorriso e portò la sua mano sul proprio petto, all'altezza del cuore. "Lo senti? Sono viva. Non hai niente di cui incolparti." 

 Lui sembrò finalmente tranquillizzarsi. Il suo respiro si fece pian piano regolare e non la guardava più con l'espressione spaventata di prima. Lei sorrise, rassicurante, cercando di nascondere i propri dubbi. Quanto di Loki era rimasto in lui? 

 "Grazie, Nat." Sussurrò Clint dopo un po', rompendo il silenzio. Lei sorrise e gli diede un bacio sulla guancia, mentre lui tornava a stendersi. 

 Appena si svegliò ebbe subito l'impressione che ci fosse qualcosa di strano. Sapeva per certo che era mattino, ma allora perchè la sveglia non aveva suonato? Aprì gli occhi e si ricordò di essere a casa di Clint. Si rese conto un secondo dopo di essere nel suo letto. Era ancora vestita come il giorno prima, e la maglia iniziava a essere stropicciata. Non ricordava niente di come fosse finita a dormire lì, ricordava solo fino a quando Clint l'aveva ringraziata ed era tornato a dormire. Si girò nel letto. Nessuna traccia di lui. Stiracchiandosi, si alzò e si diresse verso la cucina, sperando di avere una spiegazione. Lui era lì, seduto sul tavolo, a guardare le notizie dell'attacco di New York del giorno prima. 

 "Clint?"

 Lui si girò e sorrise. 

"Ah, ti sei svegliata alla fine. Dovevi essere distrutta ieri notte... Ti sei letteralmente addormentata tra le mie braccia. La cosa deve avermi fatto bene, però... Non ho più avuto incubi."

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La pioggia cessò come era iniziata, di colpo. Si guardò intorno, cercando di muovere lentamente la testa. Il silenzio era totale e sembrava che lei fosse sola lì. Tuttavia, non si sentiva del tutto tranquilla e pensò che forse avrebbe dovuto nascondersi. Probabilmente, però, se qualcuno avesse voluto attaccarla lo avrebbe già fatto, con tutto il rumore che aveva fatto spostandosi... In più era una preda facile, riusciva a mala pena a muoversi, figuriamoci a difendersi. Sospirò. Si sentiva vulnerabile e indifesa, ed era una sensazione che detestava. Si accorse solo ora di indossare la propria uniforme. Una delle sue pistole era andata persa, ma ne aveva ancora una. La prese e la esaminò: c'erano ancora due pallottole in canna. Meglio di niente... Con un gemito di dolore si mise a sedere, la pistola salda nella mano. I suoi pensieri erano ancora confusi, ma andava molto meglio rispetto a prima. I ricordi faticavano ancora a tornare a galla.

Calmati, Natasha. Lei accelerò il passo, ignorando la voce dentro la sua testa. Aveva finto quella calma per troppo tempo, ma ora che Steve non era più con lei non aveva più motivo di nascondere le sue preoccupazioni. Si fece strada tra le persone che affollavano le strade di New York, diretta verso l'appartamento dove aveva passato diverse settimane.
Dopo la prima notte aveva detto a Clint che avrebbe cercato un'altra sistemazione, ma lui aveva insistito che non era un disturbo e alla fine l'aveva convinta a rimanere a vivere da lui, fino a quando il suo appartamento non fosse ritornato agibile. Era divertente, di giorno. Preparavano da mangiare insieme e lei cercava di fargli mantenere l'ordine in casa. Di notte, invece, era uno strazio per entrambi. Gli incubi di Clint si facevano sempre più frequenti, talvolta si ripetevano anche più volte nella stessa notte, e non riusciva a calmarsi finchè lei non andava da lui e lui si convincesse che era viva. Dopo una settimana, aveva rinunciato a provare a dormire sul divano per trasferirsi definitivamente nel suo letto. Il fatto sembrava aiutare, non tanto perchè gli incubi si riducessero quanto perchè si calmava prima. Ogni tanto lei trovava annunci per appartamenti sul giornale, e almeno per curiosità andava a vederli. Quando tornava Clint trovava sempre delle ragioni, più assurde di volta in volta, per cui lei non avrebbe dovuto andare a vivere in quel determinato alloggio. Sapevano entrambi che lo faceva solo perchè non voleva che lei se ne andasse. Quando però dichiararono di nuovo la casa agibile, Clint non aveva più scuse. Lei non sapeva bene cosa fare, non voleva lasciare Clint da solo con i suoi incubi, però allo stesso tempo tornare nel suo vecchio appartamento avrebbe rimesso le cose a posto: nelle ultime settimane lo aveva fatto avvicinare troppo, ed era un rischio che aveva giurato a se stessa di non correre. Non poteva permettersi di affezionarsi troppo a qualcuno... Non era mai finita bene. Non con il lavoro che faceva, non con lo stile di vita che conduceva. La freddezza che spesso ostentava in pubblico le era servita per anni da scudo per le emozioni, eppure Clint sembrava aver fatto breccia in quella barriera quasi senza sforzo. Non avrebbe mai dovuto permetterlo. Così, con la promessa che se avesse avuto bisogno l'avrebbe chiamata, era tornata nel suo appartamento.
Ora, circa un anno dopo, stava correndo verso lo stesso alloggio dal quale aveva deciso di andarsene tempo prima. Sapeva che la sua era una paura stupida, ma aveva bisogno di sentirglielo dire. Troppi agenti erano saltati fuori essere HYDRA negli ultimi due giorni. Dopo minuti che le parvero interminabili, arrivò a destinazione. Questa volta non si preoccupò nemmeno di bussare, prese le chiavi ed entrò. Il disordine era tornato a regnare, probabilmente da quando se n'era andata lei. La casa sembrava deserta.

"Clint?" Mormorò. A risponderle, solo il silenzio.

Fece un giro della casa, per sicurezza, ma non trovò altro che disordine ad accoglierla. Dove poteva essere andato? Di sicuro non alla base SHIELD di New York, quella era stata presa dall'HYDRA. Sempre che lui fosse ancora dalla sua parte... Sentiva quell'orribile dubbio dilagare nella sua testa. Magari era solo sceso a fare la spesa... Decise di provare ad aspettarlo, ma nei venti lunghi minuti in cui rimase lì nessuno si presentò, se non la paura di essere rimasta senza il proprio compagno di missioni. Non poteva essere, loro due erano inseparabili. Ormai "Barton e Romanoff" era diventato un nome unico, in pochi li pronunciavano disgiunti. Non era possibile che lui fosse HYDRA. Non poteva accettarlo. Quando non potè più sopportare i suoi pensieri che rimbombavano nel silenzio della casa, si alzò e uscì velocemente, dirigendosi verso il suo appartamento. Una volta lì, decise, lo avrebbe chiamato su una linea sicura. Si strinse nella sua giacca e affrettò il passo. Entrò nell'edificio, salutò distrattamente la vicina che stava uscendo e una volta arrivata al corridoio rallentò. La porta del suo appartamento era aperta. Fece per tirare fuori la pistola, quando una figura uscì, scuotendo la testa. La figura si girò, ed entrambi rimasero fermi, come paralizzati appena i loro sguardi si incrociarono. Sembravano due statue, lei al fondo del corridoio e Clint davanti alla porta ancora aperta. Dopo un po' lei prese un profondo respiro e ostentando molta più sicurezza di quanto ne avesse, disse:

"Heil HYDRA."

Lui la squadrò un attimo, perplesso, poi scosse la testa.

"Nemmeno sotto tortura."

Lei sentì qualcosa dentro di sè sciogliersi. Tutta la tensione degli ultimi giorni, la paura repressa, l'adrenalina si lasciarono andare in quell'istante. Come le era successo anni prima, in mezzo al mare, le venne d'istinto: corse verso di lui per abbracciarlo. Stavolta, però, c'era qualcos'altro. Si rese conto solo in quel momento che l'eventualità che lui non fosse dalla sua parte avrebbe avuto risutati catastrofici su di lei: ormai, non riusciva a immaginare una vita senza di lui, non avrebbe avuto senso. C'era qualcos'altro, qualcosa che aveva cercato di tenere nascosto a tutti, se stessa in primis, per tutti quegli anni, e che ormai non riusciva più a tenersi dentro. Così, appena le sue braccia andarono a intrecciarsi dietro al collo di Clint, senza nemmeno accorgersi di ciò che stava facendo premette le labbra sulle sue, trascinandolo in un lungo bacio. Lui rimase qualche secondo immobile, stupito dalla reazione, e lei temette di aver appena rovinato tutto. Quando però avvertì le sue mani scorrere dai fianchi alla schiena per tirarla dolcemente verso di lui e le sue labbra ricambiare quel tanto agognato bacio, sorrise e non si fermò, aumentando piano piano la foga, accumulata dentro di sè per tutti quegli anni.

"L'hai messa alla fine..." Sussurrò lui con le labbra a un passo dalle sue, tenendo tra le dita la piccola collana con la freccia. Lei annuì sorrdendo. Come avrebbe potuto non metterla? Non poteva dimenticare l'ultimo giorno che lei era stata nell'appartamento di Clint, quando se ne stava per andare. Poco prima che lei uscisse, lui aveva tirato fuori una scatola e gliela aveva data. Da essa era uscita quella piccola collana. Lui aveva scrollato le spalle sorridendo, e aveva detto "Mi hai sopportato per tutto questo tempo, e mi hai aiutato, dovevo ringraziarti in qualche modo. In più, per il tuo compleanno sarai in missione...". Le aveva scostato i capelli dal collo e gliel'aveva messa. Quando lei si era girata per ringraziarlo, le era sembrato che lui volesse aggiungere qualcosa, ma poi non lo aveva fatto. Era invece rimasto sulla soglia a guardarla andarsene, con un sorriso amaro stampato sulle labbra.

"Certo che l'ho messa." Mormorò e riprese a baciarlo. Si strinse a lui, avvertendo sulla schiena le sue mani che la avvicinavano sempre di più. Era sempre andata fiera del fatto di essere libera, di non appartenere a nessuno. Questa volta era diverso: lei voleva che il suo cuore, il suo corpo, tutto fosse di Clint. I pensieri sul non affezionarsi sembravano ormai ricordi lontani. Tutto ciò che desiderava ora era stare con lui, era tutto ciò che aveva segretamente desiderato per tutti quegli anni. Delicatamente, senza interrompere il bacio, lo spinse verso la porta ancora aperta del suo appartamento. Lui la prese tra le sue braccia e la sollevò da terra, insinuando una mano sotto la sua maglietta. Un brivido la attraversò appena la avvertì sulla sua pelle. Continuò a baciarlo, come se non potesse mai averne abbastanza di lui, come se ogni volta che le loro labbra si incontrassero non bastasse, ma dovessero incontrarsi ancora e ancora, stringendolo sempre di più a sè. Clint alla fine la portò dentro, chiudendo la porta e ponendo così un'ulteriore, definitiva barriera tra loro due e il resto del mondo. 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Il dolore alla gamba si intensificava, ma lei ci badò a mala pena. Non riusciva a non pensare a Clint... A loro due. Da una parte si aspettava che sarebbe successo, ma era comunque stata presa in contropiede. Scosse la testa. Le sembrava di assistere alla proiezione del film della sua vita, con i ricordi che arrivavano così, lentamente, uno dopo l'altro, senza sapere cosa verrà dopo. Guardandosi intorno, aveva un brutto presentimento. Non poteva essere sempre andato tutto come quel giorno in cui si erano baciati, qualcosa era successo dopo, ne era sicura. Ma quando tutto aveva iniziato a sgretolarsi, a scivolarle via dalle mani e dal controllo?

Fury la guardava con un'aria di compassione, ma lei non voleva la sua compassione, o quella di nessun altro. Lei aveva bisogno che le cose ritornassero come prima. Si prese la testa tra le mani, chiedendosi come aveva potuto essere così cieca.

Da quando gli incubi di Clint erano iniziati, aveva notato che lui al lavoro sembrava più cupo di una volta, che non scherzava più come una volta e c'era sempre una strana ombra nel suo sguardo, ma lei aveva attribuito la colpa agli incubi, al fatto che dormisse poco. Con il passare del tempo, sembrava che lui avesse piano piano iniziato a cercare di evitarla: non quando lei stava a casa sua, non di notte, ma quando non erano da soli lei aveva notato che lo vedeva sempre meno, che spariva anche per diverse ore sul lavoro. Da quando si erano baciati, poi... Lei riusciva a vederlo sempre meno, sembrava che lui lo facesse apposta a offrirsi volontario per tutte le missioni. Quando poi tornava, è vero, stavano insieme come una coppia, ma quei momenti diventavano sempre più rari e a lei non bastava vederlo tra una missione e l'altra, per così poco tempo. Non riusciva a capire. Quando era con lei, sembrava che avesse bisogno di lei in un modo che lei non avrebbe mai immaginato essere possibile, non era mai stata così importante per qualcuno. Ma allora perchè lui continuava ad andarsene? Una volta aveva provato a chiederglielo, proprio un paio di giorni prima. Erano insieme, sotto le lenzuola, ed era notte fonda. Lui la stringeva a sè, accarezzandole dolcemente i lunghi capelli rossi. Lei aveva la testa appoggiata al suo petto e non riusciva a togliersi dalla mente quel dubbio, così glielo aveva semplicemente chiesto. Lui l'aveva guardata e le aveva detto che non cercava in nessun modo di evitarla, che non avrebbe mai potuto, poi aveva avvicinato il viso al suo e l'aveva baciata in una maniera che avrebbe convinto chiunque. Chiunque, meno lei. Il giorno dopo lui era partito per una missione nei pressi di dove si trovava attualmente Fury. Due giorni dopo, adesso, lei si ritrovava lì, in una stanza vuota di ciò che rimaneva di una base SHIELD segreta, davanti a quest'ultimo.

"Natasha, mi dispiace. Lui voleva che non ti dicessimo niente. A quanto pare il maleficio di Loki è andato più in profondità di quanto pensassimo... Non riusciva spesso a controllarlo, e doveva spesso andare a chiudersi in una stanza per non rischiare di far male a nessuno. La tua vicinanza era per lui contemporaneamente un conforto e un pericolo... Sembra che Loki avesse intenzione di costringerlo a ucciderti, e che quindi vicino a te si sentisse combattuto tra l'amore che prova per te e il desiderio di ammazzarti. Lui aveva una paura indescrivibile di farti del male e tu, inconsapevolmente, ricambiando i suoi sentimenti e mettendoti insieme a lui hai peggiorato la situazione. Voleva stare con te più di ogni altra cosa, ma temeva di perdere il controllo e fare qualcosa che non si sarebbe mai perdonato, così cercava di evitarti quanto poteva, di andare più spesso in missione per pensare ad altro. Se controllassi i registri, noteresti che tutte le sue ultime missioni non sono potenzialmente pericolose ed è sempre stato accompagnato da altri agenti, incaricati di sedarlo nel caso le cose andassero per il verso sbagliato. Non ce n'è mai stato bisogno.... Fino ad oggi."

Lei guardò l'ex direttore, senza aggiungere niente, cercando di nascondere la tempesta di emozioni che si era scatenata dentro di lei. Lui rimase un attimo in silenzio e continuò.

"Sembrava andare tutto bene, fino a quando ci hanno attaccato dall'HYDRA. Qualcuno di loro deve aver riconosciuto Barton, ed è bastato fare il tuo nome perchè lui crollasse. Ha perso totalmente il controllo, ha ucciso quasi tutti quelli che erano lì intorno, SHIELD o HYDRA. Stava per uccidere anche me, per fortuna un agente è riuscito a coglierlo di sorpresa e sedarlo in tempo. Ora è di là, privo di sensi, legato a un lettino, ma ti sconsiglio di andare a fargli visita"

Cercando di cacciare indietro le lacrime che minacciavano di scendere, lei riuscì ad articolare, con voce rotta:

"Che ne sarà di lui, ora?"

"Non lo uccideremo, se è questo che ti stai chiedendo."

"E allora cosa?"

"Il progetto T.A.H.I.T.I. è ancora attivo."

"No."

"Lo so che i risultati non sono stati quelli desiderati fin'ora, ma questa volta è diverso. Non è come per Coulson, non dobbiamo farlo tornare in vita, dobbiamo solo usufruire della parte del progetto legata alla memoria. Non c'è altro che possiamo fare, Natasha."

Lei chiuse gli occhi e respirò a fondo.

"Ma non si ricorderà di me..." Non era nemmeno una domanda, era un'affermazione, carica di dolore. Fury accennò un sorriso malinconico.

"Si ricorderà di te. Non è possibile cancellare delle presenze troppo significative nell'esistenza di qualcuno, e tu eri... sei praticamente la sua vita. Non ricorderà di amarti... Ricorderà solo di essere amico con te, un buon amico, come eravate prima che Loki prendesse la sua mente. O almeno come eri tu, perchè da quanto so lui ti ha sempre amata, fin da quando, anni fa, l'ho visto portare allo SHIELD un'assassina provetta dai capelli rossi che gli avevo ordinato di uccidere."

Sentì una morsa stringerle lo stomaco e, cercando di scacciare il groppo che aveva in gola, chiese ancora, con un filo di voce:

"E se dovesse innamorarsi di nuovo di me?"

"Faremo in modo che non succeda. Gli impianteremo dei nuovi ricordi... Si ricorderà di essere innamorato di un'altra donna, di avere una vita con lei. Una casa, dei figli magari." La osservò per un attimo, in silenzio. "Mi dispiace davvero, Natasha."

Lei annuì, incapace di dire niente. Non avrebbe mai pensato di trovarsi in una situazione del genere... Però quella era l'unica opportunità che sembrava avere Clint per essere di nuovo felice. E lei non voleva nient'altro per lui... Anche se ciò voleva dire rinunciare alla propria di felicità. Sospirò. Avrebbe fatto tutto il necessario per aiutarlo. Una lacrima scese silenziosa, rigandole la guancia.

"Va bene." Mormorò, a voce quasi impossibile da udire. "Fate qualsiasi cosa serva a tenerlo al sicuro."

Fury annuì, senza aggiungere altro. Si alzò e uscì dalla stanza, lasciandola da sola con il proprio dolore.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Il dolore alla gamba sembrava svanito, come sembrava svanito tutto il resto del mondo intorno a lei. Non è possibile, continuava a ripetersi. Non può essere successo davvero. Cercava di convincersi che quel ricordo fosse fasullo, che fosse dovuto allo shock dopo l'esplosione, mentre il peso che sentiva all'interno del petto cresceva. Poi, tornò a galla una consapevolezza che si portava dentro da tempo, e di cui avrebbe preferito non ricordarsi.

È colpa mia.

Che razza di fidanzata, di amica, di persona prima di tutto era stata nei suoi confronti? Lui c'era sempre stato quando lei ne aveva bisogno, e lei per ripagarlo non si era nemmeno accorto che lui stesse male. Il senso di colpa dilagava dentro di lei, anche se sapeva che quel che era stato fatto non poteva essere cancellato. Seduta su quelle macerie, senza potersi muovere, si sentiva più impotente che mai. Frugò con disperazione nella sua memoria, cercando di scoprire se il progetto fosse andato a buon fine e lui fosse davvero felice.

Aveva seguito tutte le fasi del procedimento. Cancellare e riprogrammare la memoria di qualcuno non era un processo lento e doloroso, lei più di altri lo sapeva bene, grazie alla Stanza Rossa. Aveva insistito per essere presente, sapendo perfettamente che niente di ciò che avesse fatto ora sarebbe servito a colmare le lacune di ciò che non aveva fatto per aiutarlo prima. Era rimasta con lui, di notte, ogni notte, a osservarlo dormire e riprendersi dalle operazioni. Non dormiva da tempo, ma non le importava. Rimaneva lì seduta sulla sua sedia, a stringere le mani di Clint tra le sue. Guardava il suo viso addormentato, ripensava ai momenti passati insieme, e non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero che avesse permesso che glielo portassero via senza opporre la minima resistenza. Lui era perfetto... E lei cosa aveva fatto per salvarlo, gli aveva tirato un pugno illudendosi di aver così scacciato i suoi demoni? Che idiota. Lui meritava di molto meglio. Non gli ho mai detto che lo amo, aveva realizzato una sera. Perchè era vero, lei lo amava, come non aveva mai amato nessun altro. Troppo tardi per accorgersene... Dannata lei e la sua paura di mostrare i propri sentimenti. No, dannata lei e i suoi sentimenti. Lei doveva essere la Vedova Nera, l'assassina senza cuore che avevano creato nella Stanza Rossa, ed era bastato un ragazzo, un arciere americano a farle dimenticare tutti quegli insegnamenti. Da quando lo aveva conosciuto si era illusa che persino lei avrebbe potuto affezionarsi... Che non ci sarebbe stato niente di male. Non era assolutamente vero, sarebbe dovuta rimanere con il KGB, e con un pizzico di fortuna morire lì prima di danneggiare qualcuno a cui tenesse. Ormai non importava più. Non avrebbe mai più avuto modo di pronunciare quelle parole, non a Clint. "Ti amo.". Sarebbe davvero stato così difficile? Più difficile che tenerselo dento per tutti quegli anni, negandolo persino a se stessa? Il rimorso cresceva e cresceva con il passare dei giorni. Le operazioni si susseguivano una dopo l'altra, e al termine di ognuna di esse lei si ritrovava costretta a convivere con la consapevolezza che Clint, il suo Clint era stato allontanato di un altro passo da lei. All'inizio era stato terribile. Aveva letto il procedimento del progetto TAHITI, ma sulla carta non era nemmeno lontanamente disumano quanto lo era dal vivo. Aveva visto le macchine lavorare sul cervello di Clint, aveva sentito le sue urla e le richieste di smettere con quella tortura. Più di una volta lei aveva provato l'impulso di entrare e salvarlo da quelle macchine e quei dottori, ma invece era rimasta lì a ricordarsi che era per il suo bene, conficcandosi le unghie nella pelle fino a farsi sanguinare. Dopo un po' di tempo, le operazioni si fecero meno ravvicinate e meno dolorose, per entrambi. Finchè, dopo settimane di lavoro, erano cessate del tutto. Per lei era al contempo un sollievo e il termine definitivo della sua vita come l'aveva vissuta fino a quel momento.

"Natasha, mi stai ascoltando? Sei a miglia da qui."

Lei scosse la testa. Si era persa nei suoi pensieri, come sempre in quell'ultimo periodo. Non riusciva a distogliere il pensiero da Clint e dal progetto Tahiti, e aveva smesso di ascoltare Fury da diversi minuti.

"Scusa, mi stavo concentrando sulla strada, non sono mai passata di qua."

Sapevano entrambi che era una bugia, ma Fury si astenne dal commentare. Erano in macchina ormai da un'ora e stavano percorrendo un'autostrada semideserta in direzione della casa dove da adesso avrebbe vissuto Clint. Si trovava circa cinque ore di macchina da dove viveva lei, e lei sapeva che non era una coincidenza. Era in campagna, a quanto le aveva detto Fury, e lei non poteva fare a meno di pensare quanto il Clint che conosceva lei avrebbe odiato viverci. Quel Clint però era ormai andato via da tempo e lei avrebbe dovuto abituarsi al nuovo. Non lo aveva più visto da sveglio dopo la fine delle operazioni, ed era piuttosto nervosa. Fury, che tentava di spiegarle la copertura che avevano adottato, non migliorava la situazione.

"Lei era un'agente livello 5... Si chiamava Maya Wright, era una brillante ricercatrice. Il marito era un agente operativo. Ovviamente stavano insieme da anni... Due figli, il terzo in arrivo. Una coppia felice... Forse troppo. Lui è morto in circostanze sospette durante una missione. Lei, una persona tanto pacata e tranquilla... Non l'ha presa bene. Ha dato di matto, ha distrutto tutto il suo lavoro, poi è caduta in depressione. Lei stessa è venuta da noi a chiederci di sottoporla al progetto Tahiti... Prima che potesse fare del male a se stessa e ai suoi figli. Che scelta avevamo? In più, è perfetta per essere la moglie dell'agente Barton. È premurosa, si prenderà cura di lui, vedrai."

Lei annuì, senza aggiungere altro. Luì continuò.

"Ora crede di chiamarsi Laura. Lei e l'agente Barton si sono conosciuti in un bar, qualche mese prima che tu arrivassi allo SHIELD. Si sono sposati un paio di anni dopo e hanno avuto i suddetti due figli... Adesso è al settimo mese di gravidanza. Tu sei un'amica di famiglia, ormai. I bambini, Lila e Cooper, sono molto affezionati a te e tu e Laura siete ottime amiche."

Lei inarcò un sopracciglio, girando verso l'uscita che lui le indicò mentre parlava. Voleva avere il meno possibile a che fare con questa Laura, non di certo essere la sua amichetta. Strinse la presa sul volante. Le ore successive passarono a raccontare di come le missioni che avevano svolto insieme fossero cambiate nei ricordi di Clint e poi, una volta terminati i dettagli, in silenzio. Quel dannato viaggio sembrava non terminare mai. Quando giunse al termine, tuttavia, lei desiderò tornare in macchina e sorbirsi altre dieci, venti, quaranta ore di viaggio. Perchè, appena scesa dal veicolo, tutte le parole che Fury poteva aver detto per prepararla si dissolsero nel nulla. Davanti a lei si erigeva una fattoria, molto grande, ai cui piedi c'era l'unica certezza che avesse mai avuto nella sua vita che baciava un'altra donna. Rimase ferma dov'era, immobile davanti a quella scena, incapace di dire o fare niente. Avrebbe voluto urlare, tirare via Laura, costringere Clint a levare le mani dalla schiena di quella ragazza che aveva preso il suo posto. I suoi piani vennero interrotti da una gomitata di Fury, che la costrinse a riprendersi e avvicinarsi ai due. Lei fece appello a tutte le abilità di finzione acquisite negli anni di attività. Quasi si stupì di se stessa. Con che forza di volontà riusciva a mantenere quel sorriso, riusciva ad abbracciare Laura mentre dentro di lei tutto urlava, tutto si sgretolava? Fece per andare da Clint, quando due bambini le corsero incontro, cogliendola totalmente di sorpresa. In pochi secondi si ritrovò chiusa nell'abbraccio di una bambina che le arrivava a stento alla pancia e un ragazzino che raggiungeva a fatica le sue spalle.

"Zia Nat! Sei venuta a trovarci!" Esclamò il ragazzino, Cooper, aveva detto Fury.

Lei non rispose. "Zia Nat"? Non sapeva se essere sconvolta o semplicemente cercare di uccidere Fury. Rivolse uno sguardo che chiedeva aiuto a quest'ultimo, ma lui si limitò a scrollare le spalle e osservarla divertito. La sua attenzione tornò sui bambini, che non sembravano aver intenzione di mollare la presa. Si arrese e ricambiò l'abbaraccio. Zia Nat. Non ci aveva pensato, ma dovevano aver fatto il lavaggio del cervello anche ai bambini. Un moto di disgusto si impossessò di lei. Cambiare i ricordi a dei ragazzini così giovani... A quel punto cosa rendeva Fury meglio dei medici della Stanza Rossa? Quando, non senza aver promesso di raggiungerli nella loro camera per vedere i loro disegni, riuscì a scrollarsi i figli di Maya... Laura di dosso, si fece strada verso Clint. Forse di tutte le idee che aveva avuto quel giorno quella era la peggiore. Se ne accorse troppo tardi. Lui le sorrise e l'abbracciò, dicendo di essere contento che fosse venuta. Lei non potè evitare di notare qualcosa di diverso nel suo sguardo. Non la guardava più come l'aveva sempre guardata... Come aveva fatto a non vedere l'amore che si nascondeva dietro quelle iridi azzurro-grigie? Le sembrava così impossibile da non notare, ora che non c'era più. Ora quello sguardo era destinato ad un'altra, non più a lei. Fu mentre lo guardava entrare, con un braccio a cingere le spalle di Laura, lo stesso braccio che un milione di anni prima aveva cinto le sue spalle, e con le labbra che lasciavano un leggero bacio sulla fronte di Laura, le stesse labbra che un milione di anni prima avevano lasciato un leggero bacio sulla sua fronte, che lo realizzò definitivamente. Clint non era più suo. Tutti questi anni in cui lei lo aveva dato quasi per scontato... Andati in cenere. Clint non era più suo, e non lo sarebbe mai più stato. Avvertì distrattamente Fury che la prendeva per un braccio e la conduceva gentilmente dentro la casa.

Girò per un po' la forchetta nel piatto. L'appetito sembrava esserle totalmente svanito. Di fianco a lei, Lila continuava a parlarle. Lei rispondeva con tutta la gentilezza che poteva, e la bambina sembrava adorarla. In effetti era la prima bambina che le parlasse e non scappasse via spaventata... Forse parte del merito era dovuto al fatto che lei ora indossasse un abito e non un'uniforme con delle pistole annesse. O almeno, la piccola non sembrava essersi accorta del revolver nascosto sotto la gonna, quindi tanto meglio. D'un tratto, le chiese di raccontarle una storia. Lei disse di no, non era brava a raccontare. Ma Lila insistette tanto che alla fine lei cedette, e iniziò a narrare una delle poche favole che sapeva, una storia russa che aveva sentito più volte da bambina. Non l'aveva mai più raccontata, però si ricordava ancora tutti i particolari, per qualche strana ragione. Si perse nella storia e solo quando ebbe finito si accorse che anche il resto del tavolo era rimasto in silenzio ad ascoltarla. Fece un sorrisetto timido, desiderando solo di poter sparire dallo sguardo di ammirazione di Laura e da quello divertito di Clint.

"Nat, ti conosco da anni... Non mi avevi mai detto di essere così brava a raccontare le storie."

Lei sospirò, ma cercò comunque di rivolgergli un sorriso.

"Non hai mai chiesto."

Si alzò da tavola, incapace di reggere tutto quello per un secondo di più, e si diresse fuori, nel giardino. Tirò un calcio a un ceppo di legno, spedendolo a diversi metri di distanza. Camminò per un po', e poi senza quasi pensarci si arrampicò su un albero, protetta dal buio, come faceva da piccola in Russia quando voleva scappare dal resto del mondo. Dal ramo dove si trovava riusciva ancora a vedere la stanza illuminata della casa. Erano ancora tutti a tavola. Clint... sembrava davvero felice ora. L'incantesimo di Loki sembrava un ricordo lontano, così come la loro relazione. Osservandolo prendere in braccio Cooper e correre dietro a Lila, per poi fermarsi e chinarsi a baciare la pancia già ingombrante di Laura, si chiese come fosse stato possibile. Per anni aveva davvero amato lei? Ora aveva una casa bella, una vera famiglia con dei figli, una stabilità, una moglie tranquilla e per quanto entrambi sapevano senza una storia tormentata. Tutte cose che lei non avrebbe mai potuto dargli, anche volendo. Clint aveva davvero potuto scegliere lei, una volta, in confronto alla possibilità di avere tutto questo? Forse non sarebbe mai davvero stato felice con lei, nemmeno senza l'incantesimo di Loki. Ma a dirla tutta, in confronto a una qualsiasi Laura, nemmeno lei stessa si sarebbe scelta. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


(Nota dell'autrice.: questo capitolo non sarà incentrato sulla Clintasha, ma Natasha avrà a che vedere con un altro personaggio. La loro relazione, anche se non amorosa, mi piace sia nei fumetti sia nei film, quindi mi sembrava giusto approfondirla, anche se solo per un capitolo. Attenzione, contiene rumors -spoiler non confermati- di Civil War)

Fu allora che lo vide. A cinque metri circa da lei, mezzo sepolto dalle macerie, con il volto deformato. Un cadavere di una donna. Si guardò intorno, e notò che era pieno di corpi, di mani e di gambe che spuntavano dalle macerie. Avrebbe dovuto capirlo... Aveva davvero pensato di essere da sola lì? Come altro si poteva giustificare tutto il sangue sulle pietre e per terra? Non poteva di certo essere tutto suo. Tuttavia, il pensiero di essere l'unica cosciente lì le metteva i brividi. Non potevano essere tutti morti... Senza riuscire a trattenere un piccolo urlo di dolore, si alzò a fatica, reggendosi a una pietra lì vicino. La testa le riprese a girare vorticosamente, e la gamba tremante le implorava di tornare a sedersi. Strinse i denti, e fece un paio di passi verso le macerie e gli altri corpi. Cercò di identificare i visi di alcuni di essi. Non erano facce nuove, ma non avrebbe saputo associare un nome a nessuna. Il suo cuore perse un battito quando li vide in lontanza, mezzi sepolti dalle macerie. Dei capelli biondi, impregnati di sangue. Ignorando le fitte lancinanti alla gamba, si avvicinò il più velocemente possibile, spinta dalla disperazione. Non poteva essere, no. La sua gamba cedette e atterrò pesantemente a terra, a un metro dal corpo. Rimase un secondo immobile a guardarlo, quasi spaventata. Da lì, però, poteva vedere più chiaramente, e si rese conto che i capelli che aveva scorto erano di una tonalità più chiara di quella che aveva creduto di vedere. Sospirò di sollievo. Non era Clint, grazie al cielo. Strisciando, si avvicinò al corpo per spostare il cumulo di macerie che lo seppelliva e vedere a chi appartenesse. Per un attimo, aveva avuto tanta paura che ora le veniva quasi da ridere. Probabilmente Clint non era nemmeno lì. O almeno, lei lo sperava vivamente... Quandò finì di spostare le pietre però il sollievo svanì velocemente come era arrivato. Lei impallidì.

No. No. No no no no no no.

Quella sillaba, quelle due lettere erano tutto ciò che riusciva a formulare la sua testa. Perchè ciò che stava vedendo non poteva essere possibile, doveva essersi addormentata sulle macerie prima, doveva essere tutto un sogno. Avrebbe voluto urlare, ma tutto ciò che uscì dalla sua gola riarsa fu un gemito strozzato, che tuttavia conteneva il dolore di chiunque abbia appena perso qualcuno di importante. Senza preoccuparsi di trattenere le lacrime, avvicinò una mano tremante al viso coperto di sangue del corpo che lei aveva ormai imparato a conoscere. Percorse con le dita il profilo della sua faccia, delicatamente, come se temesse di svegliarlo. Si soffermò un attimo sugli occhi. Le iridi azzurre erano vitree, vuote di quella gentilezza che non le aveva mai abbandonate in quegli anni in cui lei lo aveva conosciuto. Lentamente, gli chiuse le palpebre. Ora sembrava veramente che dormisse... Appoggiò la testa sul petto mortalmente immobile di quello che probabilmente era stato il migliore amico che lei avesse avuto, e iniziò a singhiozzare senza ritegno, come una bambina, desiderando che le sue braccia si potessero sollevare a stringerla a sè come avrebbero fatto una volta, desiderando di sentire il suo calore intorno a lei e non quel gelo privo di vita, desiderando di poter scambiare la propria vita con la sua, perchè lui meritava molto più di lei di vivere. Si strinse a lui più che poteva, cercando di ignorare il sangue che copriva la stella argentata dell'uniforme dell'amico, cercando di ignorare il braccio inerme ancora teso verso lo scudo rosso, blu e argentato che ora giaceva di fianco a loro.

 

Aveva lasciato la casa. Quello che aveva detto a Steve secoli prima era vero, doveva rifarsi un'identità. Avevano fatto dei piani, lei e Clint, che avrebbero messo in atto una volta concluse le missioni contro l'HYDRA in cui avevano bisogno di loro... Ma poi, ovviamente, i loro piani erano saltati. Così lei ora si trovava da sola, senza un vero SHIELD a cui tornare, senza un posto dove stare... Era sembrata bella l'idea di lasciare i rispettivi appartamenti e iniziare a vagabondare insieme, costruirsi una nuova copertura. Da sola, invece aveva tutto un altro aspetto. Non sarebbe comunque potuta rimanere nell'alloggio, sarebbe stata vulnerabile e i troppi ricordi legati a esso l'avrebbero lentamente uccisa. Però non le sembrava più una grande idea viaggiare, andarsene e non lasciare traccia di sè per un po'. Forse avrebbe solo trovato una casa in uno Stato vicino, si sarebbe sistemata lì e sarebbe tornata appena avessero avuto bisogno di lei. Non riusciva a pensare a niente di meglio, seduta su una panchina alla stazione dei treni di New York, una valigia contenente le poche cose che aveva salvato dall'appartamento. Qualche vestito, libri principalmente. Sentiva la collana con la freccia tintinnare nella tasca del suo giubbotto. Fury le aveva ordinato di liberarsene, come si era dovuta liberare della maggior parte dei regali che Clint le aveva fatto, ma lei non ne aveva avuto cuore. Aveva buttato tutto, piena di rimorsi, ma non quella piccola collana. Da quella, non era riuscita a separarsi. Scosse la testa. Stava davvero diventando una sentimentale? Clint si era spinto davvero così in là nel suo cuore, tanto da impedirle persino di liberarsi di un minuscolo oggettino come quello? Aprì la sua valigia e prese un libro a caso, per distrarsi mentre aspettava il treno, per pensare a qualsiasi cosa che non fosse Clint. Il suo tentativo però venne presto interrotto da una voce a lei ormai molto familiare.

"La Vedova Nera in jeans che legge libri di Scott Fitzgerald alla stazione dei treni. La caduta dello SHIELD deve aver proprio creato una crisi enorme..."

Le sue labbra si contrassero in quello che di più simile a un sorriso lei avesse fatto nelle ultime settimane, ma non distolse gli occhi dal libro.

"Lo sai che Fitzgerald è più vecchio persino di me, vero?" L'imponente figura di Steve Rogers prese posto di fianco a lei sulla panchina. Lei finalmente alzò gli occhi dalla pagina del libro.

"Beh, ma tu 'Tenera è la notte' non lo hai scritto, quindi mi dovrò accontentare di un altro vecchietto." Il tono di voce che usò era canzonatorio, come sempre quando parlava con Steve, ormai erano abituati a prendersi in giro a vicenda e scambiarsi frecciatine. Eppure, era meno convinto del solito, la nota di sarcasmo meno evidente. A lui, che sapeva davvero osservare la gente, il particolare non sfuggì.

"Nat, va tutto bene?" A lei sembrava ancora strano sentirsi chiamare così da qualcuno che non fosse Clint. La rapidità con cui gli altri Avengers e gli agenti a lei vicini, persino May, avevano adottato il soprannome che lui le aveva dato aveva un che di sorprendente.

"Alla grande."

"Questa sarebbe la tua nuova copertura? Una pendolare che aspetta il treno?" Nell'ultimo anno, non si erano visti molto. Lui aveva continuato la ricerca del suo amico Bucky con Sam, e si erano sentiti qualche volta per telefono, ma comunque non per lunghe chiacchierate.

"No, non ne ho ancora trovata una. In realtà non so nemmeno dove stia andando..." Fece un sorriso malinconico, non sapeva nemmeno lei perchè. "E il Soldato d'Inverno?"

Lui scosse la testa.

"Svanito nel nulla, non una traccia. Sono tornato da poco, farò delle ricerche da qui. Sam è andato a Washington, è stato lontano da casa per troppo tempo ormai, dovevo concedergli una vacanza"

Tipico di Steve... Mai che facesse qualcosa per se stesso. A parte forse la ricerca di Bucky, ma anche quella probabilmente era causata dal desiderio di salvare l'amico.

"Mi tratterrò qui per un po'... Se hai bisogno di un tetto sotto il quale dormire, casa mia ha due letti."

Lei alzò un sopracciglio, colta totalmente alla sprovvista da quell'improvvisa proposta, fatta come se le stesse chiedendo se potesse firmargli un rapporto.

"Io... Stai scherzando?"

"Mai stato più serio, Romanoff. Detesto vivere da solo." Le rivolse un sorriso tra i più sinceri che le avesse mai rivolto.

Lei soppesò per un attimo la proposta. Steve era un suo amico, certo, però non sarebbe stato imbarazzante vivere insieme? In realtà si sentiva quasi come se stesse tradendo Clint... Però Clint al momento era in una fattoria con la moglie e i figli, a pensarci bene. In più, un po' di compagnia avrebbe fatto bene anche a lei... Considerando che sapeva che lui non aveva secondi fini. Glielo aveva detto chiaro e tondo, voleva che lei fosse un'amica per lui. Di certo anche lei non intendeva andare oltre.

"Okay, Rogers. Ci sto. Però tu mi prometti di invitare a cena fuori Sharon. Prometto che non sarò in casa quando tornerete..." Gli rivolse un sorrisetto malizioso.

 

"Quando avevi intenzione di dirmelo?" Entrò nell'alloggio di Steve di corsa, senza salutare, sbattendo la porta dietro di sè, il sacchetto con l'occorrente per il pranzo dell'indomani sotto braccio. Lanciò il giornale sul tavolo e si piazzò davanti a lui, le braccia incrociate e un'espressione accusatrice.

"Dirti cosa?" Chiese lui, a disagio. Ancora non aveva imparato a mentire, nemmeno dopo aver vissuto con lei per quasi un anno.

"Lo sai cosa." Iniziò a battere con il piede per terra, impaziente.

Una situazione che doveva essere temporanea si era poi prolungata per mesi. Poco dopo la sua proposta, Tony Stark aveva avuto la geniale idea di inventare Ultron a loro insaputa, un robot dotato di intelligenza artificiale e una discreta quantità di istinti omicidi. Erano riusciti a salvare il mondo di nuovo, per il rotto della cuffia, ma ci erano riusciti. Gli altri Avengers avevano scoperto di Laura e della famiglia di Clint, e sembravano essersela bevuta tutti... Anche se con un po' di stupore, all'inizio. La faccia di Stark era stata impagabile... Nella battaglia finale, lei aveva quasi perso Clint. Lo aveva realizzato solo dopo, quando le avevano raccontato per filo e per segno cosa fosse accaduto, ma si era spaventata a morte lo stesso, anche se non lo aveva dato a vedere. Quel ragazzo, Pietro, che si era sacrificato per lui... Lei non aveva ancora capito perchè lo avesse fatto, ma avrebbe desiderato più di ogni altra cosa ringraziarlo. Aveva un debito enorme con lui, un debito che non sarebbe mai riuscita a estinguere. Lei e Steve erano stati incaricati di addestrare i nuovi Avengers, e lei aveva colto l'occasione per stare vicina alla ragazza, Wanda. Sebbene fosse stata lei a procurarle nuovi incubi e più intensi per diverse settimane, la stava addestrando con più determinazione degli altri. In parte perchè si rispecchiava in lei. Da giovane era forte, ma spaventata da ciò che poteva fare proprio come lo era Wanda. In parte, perchè era l'unico modo, seppur insufficiente, che aveva per ripagare Pietro. Per quanto la loro frequentazione fosse stata più breve che mai, si vedeva lontano miglia che quei due ragazzi non avevano niente se non il gemello, e Wanda aveva davvero perso una parte di sè con lui. L'addestramento delle reclute, ovviamente, richiedeva una disposizione di tempo piuttosto onerosa, pertanto la sistemazione di lei a casa di Steve si era rivelata utile, per definire i programmi e le sessioni di allenamento. Nessuno dei due lo avrebbe ammesso ad alta voce forse, ma a entrambi piaceva vivere insieme. Passavano ore a parlare, la sera. Lui le parlava della Seconda guerra mondiale, del padre di Stark, degli Howling Commandos... Ma soprattutto di Peggy Carter. Lei nei suoi racconti c'era sempre. Da come la descriveva lui, sembrava quasi una dea scesa in terra... Era perfetta, in qualsiasi situazione sapeva cosa fare, era forte, indipendente, bella. A lei dispiaceva quasi non avere avuto il privilegio di conoscerla. Una volta Steve l'aveva portata a trovarla... Era difficile vedere in quella fragile vecchietta la donna forte di cui Steve le narrava, ma le aveva comunque fatto piacere parlare con lei. Lei... Dopo un po' di tempo aveva ceduto, e gli aveva raccontato della Stanza Rossa. Fin'ora la storia completa la sapeva solo Clint, e lei sorvolò su diverse parti della storia. Non sorvolò però sulla parte della sua vera età: ci teneva a fargli sapere che lui non era l'unico a essere fuori tempo, ad aver attraversato la guerra mondiale. Lui rimase sorpreso, e nelle sere successive si fece raccontare tutto ciò che era accaduto nei settant'anni in cui lui era stato intrappolato nel ghiaccio, per filo e per segno, contento di poter sentire la versione di qualcuno che li aveva vissuti davvero e non la versione di Wikipedia, che lui aveva ancora qualche problema a usare. Di giorno, gli addestramenti delle reclute andavano a gonfie vele. Era un lavoro faticoso per entrambi, ma piuttosto appagante. Andavano spesso a trovare Clint e Laura. Lei ogni volta si rendeva conto che dimenticare il proprio amore per lui era impossibile. Appena credeva di essere andata avanti, essersi lasciata tutto alle spalle si rendeva conto che non era assolutamente vero. Sapeva almeno di non essere sola: dai racconti di Steve, si sentiva ancora tutto l'amore che lui provava ancora per Peggy, un amore che più di settant'anni non erano riusciti a scalfire. Aveva imparato a conoscere Laura e i bambini, si trovava quasi a proprio agio con loro, ma non riusciva a stare da sola in compagnia di Clint. In più, le davano fastidio le continue frecciatine di Clint sul fatto che lei e Steve vivevano insieme. Non reggeva tanto le allusioni al fatto che ci fosse qualcosa di più che non semplice amicizia tra i due... Lei si mordeva sempre il labbro a sangue per non rispondere e tradire la copertura mantenuta fino a quel momento. A parte quello, sembrava procedere tutto se non bene, almeno nella norma. Fino a quando quel pazzo psicopatico di Nitro non aveva deciso di fare una strage. Da lì, era partito il finimondo. L'iniziale dibattito tra Steve e Stark era lentamente degenerato, stava per raggiungere i pericolosi margini di una guerra civile tra vere e proprie fazioni di supereroi. Lei per ora stava facendo finta di collaborare con Stark e lo SHIELD, mentre segretamente aiutava i supereroi non registrati a fuggire. Gli ideali di Steve le sembravano molto più concreti e corretti di quelli di Stark, e se anche lui le avesse ripetuto più volte che non doveva sentirsi in dovere di collaborare con lui solo perchè vivevano insieme, lei non lo avrebbe mai tradito. Credeva davvero nella causa.

"Non ho idea di che cosa tu stia parlando, Natasha." Cercò di dire lui, con un po' più di sicurezza, ma comunque non abbastanza per convincerla.

"Credevi che non me ne sarei accorta? Steve, sto rischiando di venire condannata come traditrice ogni giorno, ho almeno il diritto di sapere contro chi sto lottando. Senza contare che sto lì sulle 60 ore a settimana, davvero pensi che non mi accorga chi collabora con Stark?" Alzò un sopracciglio e lo guardò, aspettando una risposta. Lui sospirò.

"Lo so Natasha. Sai anche quanto io odi nascondere i particolari ai miei compagni... A te prima di tutto. Ho passato anni a incolpare Fury per questo, e ora lo sto facendo io." Scosse la testa. "Solo che... Avevo paura a dirti che Clint è dalla parte di Stark. So perfettamente cosa lui significhi per te, e so che lo seguiresti in capo al mondo, se necessario."

"Se credi che gli ideali dell'agente Barton possano influenzare i miei a tal punto.... Vuol dire che non mi conosci ancora bene, Rogers. O che non ti fidi ancora di me, il che rende il tutto ancora peggio." Disse lei, più fredda di quanto non avesse voluto. Lui le rivolse un piccolo sorriso.

"Hai ragione, avrei dovuto dirtelo, Nat. Scusami. Mi fido di te... Più di chiunque altro, al momento, a essere onesti."

Lei sospirò. Era materialmente impossibile arrabbiarsi con Steve per più di dieci minuti consecutivi. La verità era che lei era davvero profondamente turbata dalla scoperta. Una cosa era convivere con il fatto di essere una traditrice dello SHIELD. Doveva ricordarsi ogni giorno perché lo stava facendo, e anche così la sera non riusciva a prendere sonno. Ma essere dalla parte opposta di Clint... Questo cambiava ancora le carte in tavola. Non stava tradendo solo lo SHIELD, stava tradendo anche la fiducia dell'unica persona che gliene avesse mai concessa. Avvertì Steve che sarebbe andata a farsi una doccia. Aprendo il rubinetto, sperò che il getto d'acqua lavasse via anche i suoi pensieri, ma quella sera non bastava di certo un po' d'acqua a liberarla dalle preoccupazioni. Uscì dalla doccia un quarto d'ora dopo. Si asciugò e si infilò una felpa che doveva essere di Steve, ma non le importava. Indossava sempre i suoi vestiti per gioco, e in più erano comodi. Non aveva la minima voglia di asciugarsi i capelli, così li raccolse in un ammasso di ricci rossi disordinati con una pinza e raggiunse Steve in salotto. Lui era seduto sul divano, a guardare distrattamente un notiziario in cui parlavano del dibattito tra lui stesso e Stark. Lei prese il telecomando e spense il televisore. Si sedette poi accanto a lui.

"Non ne sai già abbastanza, di tutta questa roba?" Chiese lei stancamente.

"Nat... Tu credi che stia facendo la cosa giusta?" Se ne uscì lui dal nulla.

"Che razza di domande mi fai, Steve? Non vorrai farti venire dubbi esistenziali ora? Sei dalla parte giusta. Un sacco di persone ti supportano e sono d'accordo con te, con i tuoi ideali. Vedo la gratidudine sulla faccia dei ragazzi che aiuto a scappare ogni giorno, e fidati che sono bravi ragazzi, non assassini come me. Tu stai facendo la cosa giusta. Come hai sempre fatto..." Chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale del divano. Era veramente esausta. Non dormiva da più di una settimana. A volte, per rilassarsi, chiudeva gli occhi e pensava a Clint, a quando era ancora suo. Se si concentrava, riusciva ancora a immaginare, a ricordarsi la pressione del suo braccio sul suo fianco, delle sue labbra sulla sua schiena, il calore del suo respiro sul suo collo. Da ora il pensiero le avrebbe solo ricordato di essere una traditrice, e avrebbe dovuto rinunciare anche a quello.

"Nat?"

"Sì?"

"Grazie." Lei aprì gli occhi e vide il sorriso stanco di lui, pieno di gratitudine. Non riuscì a evitare di sorridere di rimando.

"Non hai niente di cui ringraziarmi."

"Uhm... Nat?"

"Steve, lo so il mio nome, non c'è bisogno che lo ripeti." Il suo tono voleva essere giocoso, ma aveva la sensazione che qualcosa di strano stesse per accadere.

"Io..." Steve allungò le mani fino ad andare a prendere le sue, e la tirò delicatamente verso di sè. Lei non osò opporre resistenza, quasi spaventata da quell'improvviso contatto. Si spaventò anche di più, però, quando sentì le labbra di Captain America adagiarsi dolcemente sulle sue. Non sapeva cosa fare, sembrava che il suo cervello fosse andato in tilt. E lui era decisamente migliorato dalla volta che erano sulla scala mobile... Quanto era passato, due anni? Sembrava una vita addietro. Chiuse gli occhi, e si abbandonò a quel bacio, mentre le mani incerte di Steve si facevano strada sulla sua schiena. Natasha, cosa cavolo stai facendo? Una voce si fece strada nella sua testa. L'immagine di Clint si materializzò per magia nei suoi pensieri, e fu allora che si rese conto che quello che stava combinando era sbagliato, non poteva funzionare. Nè in quel momento, nè negli anni a venire. Aprì gli occhi, e posò delicatamente le pallide dita sulla bocca del ragazzo, spingendolo impercettibilmente.

"Steve..." Mormorò. Lui la guardò e scosse la testa.

"Scusa, non so cosa mi sia preso..."

"Steve, ascoltami." Lei prese il suo mento tra le mani e lo costrinse a guardarla negli occhi. "Io non sono Peggy. Non lo sono mai stata, e non lo sarò mai. Tu sei ancora innamorato di lei, lo vedo quando ne parli... E non sarò di certo io a sostituirla. Non ci porterebbe a niente di buono."

Lui annuì, rassegnato.

"Non sei Peggy, hai ragione. E io non sono Clint, non è vero?"

"Di che cosa..."

"Nat, non serve che fingi. Non sono così stupido. Ho visto come lo guardi, come lo hai sempre guardato. Ho visto lo sguardo d'invidia che riservi a Laura, quando è girata. Non sono come Stark, le vedo le persone."

Lei sospirò, guardando Steve nei suoi grandi occhi azzurri. E si arrese. Gli raccontò di ciò che era accaduto dopo la caduta dello SHIELD, dal primo bacio con Clint fino al progetto TAHITI. Fury non avrebbe voluto, ma a lei non interessava più cosa avrebbe voluto Fury o no. Aveva solo bisogno di raccontare quella storia a qualcuno, di condividerla. Quando finì di raccontare, si sentì più leggera, come se si fosse liberata di un peso che la schiacciava da tempo.

"Vieni qua..." Mormorò lui, aprendo le sue braccia per invitarla ad accoccolarsi in esse.

Lei, per una volta, abbassò le difese e si rannicchiò di fianco a lui, lasciando che il suo calore la avvolgesse.

"Grazie per avermi impedito di fare una cavolata. Quando smetterai di avere ragione, Romanoff?"

"Quando tu smetterai di amare Peggy."

"Non credo che qualcuno possa avere ragione così a lungo."

Lei sorrise, stanca, e cadde per la prima volta dopo troppo tempo in un sonno pesante e senza sogni, con la testa ancora appoggiata alla spalla di Steve.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


(Attenzione: contiene rumors -spoiler non confermati- di Civil War)

Dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per separarsi dal corpo freddo e immobile di Steve. Facendo leva sulla gamba sana, si alzò in piedi. Si sentiva coperta di sangue, e non sapeva più se fosse tutto suo o se ci fosse anche quello di Steve ora su di lei. Ancora tremante, cercò di asciugarsi alla meglio le lacrime. Guardò la ferita sulla sua gamba. Continuava a perdere sangue, e se non avesse fatto niente in fretta si sarebbe anche infettata. Sospirò, odiandosi per quello che stava per fare. Si chinò di nuovo a terra, e prese un coltellino che si era ricordata di avere nascosto nella cintura. Facendo per qualche strana ragione attenzione a non ferire il corpo di Steve, tagliò una buona parte di ciò che rimaneva dell'uniforme di Captain America. Era stata disegnata per mantenere il calore corporeo e assorbire il sangue, quindi faceva al caso suo. Stringendo i denti, avvolse quella benda improvvisata intorno alla ferita, facendo pressione e sperando di riuscire a fermare l'emorraggia. Aspettò che i tremori che scuotevano il suo corpo si attenuassero, nel frattempo cercò alla meglio di sistemare i capelli di Steve e di togliere almeno parte del sangue dal suo viso. Non sapeva perchè, non stava nemmeno pensando alle sue azioni. Prese lo scudo e glielo mise in mano, facendogli poi piegare il braccio sul petto. Meritava una fine migliore. Meritava di vivere ancora per anni. Notò che c'era qualcosa che usciva dalla sua tasca. Lo prese in mano. Era una scatoletta di metallo... Una bussola, come quelle che si usavano negli anni Quaranta. La aprì, incuriosita, e capì perchè Steve l'avesse conservata. Nella parte superiore era incastrato un ritaglio di giornale, una foto in bianco e nero. Sapeva perfettamente di chi fosse quel viso di ragazza, la didascalia "Margaret 'Peggy' Carter, US army Commander" era totalmente superflua per lei. Sorrise lievemente, pensando che forse lui ora era contento, presto sarebbe di nuovo stato con lei, e niente avrebbe più potuto separarli questa volta. Appoggiò la bussola sull'altezza del suo cuore, e gli diede un lieve bacio sulla fronte. Addio, Steve. Si alzò di nuovo, lentamente, e iniziò a camminare piano tra le macerie, per verificare se ci fossero dei superstiti come lei, con la consapevolezza di aver perso tutto. Tutto, perchè aveva perso anche Clint. Lavorando con Captain America lo aveva tradito, no?

 

Si guardò intorno. Tre mura, una barriera a energia impenetrabile. Accidenti, Stark si era proprio superato per costruire le prigioni nella Stark Tower. Non aveva nemmeno messo un letto. Era totalmente spoglia, sembrava fatta apposta per mettere a disagio chiunque la occupasse, e probabilmente lo era. La barriera era trasparente, e lei riusciva a vedere fuori. La stanza non si estendeva per molto al di fuori della cella. C'era solo una panca, addossata al muro, e il pannello di controllo per attivare e disattivare la barriera a energia. Tutta la luce che c'era filtrava dalla porta, ma era lo stretto necessario per distinguere vagamente i contorni degli oggetti. Quanto era passato da quando si era risvegliata lì, due ore? Nessuno aveva ancora oltrepassato quella porta da allora. La testa le pulsava in maniera spaventosa, probabilmente non aveva ancora smaltito la dose di dentrotossina che le avevano iniettato sparandole con quell'icer. L'avevano scoperta... Ma era diventata solo questione di tempo ormai, sapeva che sarebbe successo. Tante cose si potevano dire di Tony Stark, ma di sicuro non che fosse stupido... Probabilmente sospettava di lei fin dall'inizio, non si fidava da quando era saltata fuori chiamarsi Natasha Romanoff ed essere un'assassina, al posto della servizievole segretaria Natalie Rushman. In più sapeva della sua amicizia con Captain America... Lei era sempre stata attenta, aveva utilizzato tutti i suoi trucchi per mascherarsi, tutte le sue abilità di spia per coprire le sue azioni, infatti era riuscita a non farsi scoprire per molto più tempo di quanto immaginasse. Ma non poteva durare... In fondo, stava giocando nel campo nemico. Le telecamere aumentavano ogni giorno, i collaboratori di Stark facevano domande sempre più scomode... E poi, l'ascensore. Perchè succedeva sempre in ascensore? Da Stark si sarebbe aspettata almeno un minimo più di originalità. L'aveva pian piano fatta circondare dai suoi scagnozzi, che avessero superpoteri o meno. Appena le porte si erano chiuse, si era scatenato il finimondo. Il problema di Stark, però, era come sempre il suo ego, tanto gigantesco da fargli dimenticare di non essere l'unico con delle abilità lì. Era riuscita a mettere fuori gioco tutti e otto i suoi aggressori, sfruttando la loro forza contro di loro stessi e volgendo a suo favore la ristrettezza dello spazio dell'ascensore. E Stark credeva che servissero dei superpoteri, per combattere. Una volta uscita dall'ascensore, però, aveva trovato una quantità abnorme di agenti SHIELD armati ad attenderla. Sapeva di non avere speranze, ma non per questo si era persa d'animo. Mai e poi mai si sarebbe arresa senza combattere... Era riuscita ad avere la meglio su più della metà di loro, e ci erano voluti ben tre agenti con tre icer per fermarla. Poi, si era risvegliata sul freddo pavimento della cella nella quale si trovava ora a rimuginare sugli avvenimenti di quel giorno. Stava pensando a un modo sicuro per contattare Steve, quando la porta si aprì e una luce si accese. Stava quasi per prepararsi a mantenere un ostinato silenzio di fronte a Stark, quando si accorse che la persona che era entrata non era assolutamente Stark. Ma certo, era così ovvio. Tony non era come Steve, lui avrebbe cercato di estorcerle tutto ciò che poteva nel modo che sapeva che avrebbe avuto più opportunità di riuscita. La sua era una mente matematica, calcolava sempre la strategia con più possibilità di successo, non importava quali fossero le conseguenze. Forse era proprio questo il motivo della sua rivalità con Cap. Sfoderò il più convincente dei suoi sorrisi di scherno, decisa a non darla vinta a Stark per nessun motivo.

"Ovvio che ha mandato te. D'altronde, non sei uno dei suoi tirapiedi più fedeli?"

"Non sono il tirapiedi di nessuno, Vedova Nera. Al contrario di te... Non ti credevo tanto facile da abbindolare." Il tono freddo con cui Clint le si rivolgeva le gelò il sangue nelle vene. "Vedova Nera"? Il modo in cui aveva ripreso a chiamarla con il suo nome in codice, l'unico nome con cui la conosceva prima di portarla allo SHIELD, non presagiva nulla di buono.

"Giusto, sono stata abbindolata. Tipico di Steve, costringere la gente a unirsi a lui, magari comprandosela o facendo promesse che poi non manterrà. Ah no aspetta... Quello è Stark." Disse lei tra i denti, senza però abbandonare il suo sorriso di scherno. Era ancora appoggiata al muro della parete, dalla parte opposta di Clint che si era piazzato a pochissimi centimetri dalla barriera a energia. Lui scosse la testa.

"Sei diventata una traditrice dello SHIELD... Non me lo sarei mai aspettato da te. Non credevo che la tua cotta per Cap arrivasse a questo punto." Il suo tono voleva essere freddo, ma si sentiva la delusione che esso conteneva, e lei dovette concentrarsi per non dare a vedere quanto sentirlo le dolesse. Una cotta per Cap... Non aveva proprio capito niente.

"A volte sei così cieco, Clint..." Sospirò. "Perchè sei qui, un inutile tentativo di farmi passare dalla vostra parte? Perchè il fatto che sia venuto tu e non Stark non cambia proprio niente." Inarcò un sopracciglio. Lui non si scompose.

"Natasha, è lo SHIELD. Tutto ciò per cui hai sempre lottato da quando sei arrivata... Non vale più niente?" Il suo tono si era lievemente addolcito, aveva qualcosa più di lui. Non era rimasto del tutto indifferente al suo tradimento, teneva ancora a lei.

"Vale ancora." Si alzò in piedi e si avvicinò a lui quanto la barriera le permettesse. "Ma ora lo SHIELD non sta più lottando per le stesse cose per cui lotto io. La registrazione... Che razza di libertà è?"

"Libertà? Chi sta parlando, tu o Steve?" La guardava allucinato, come se non credesse a ciò che stava udendo.

"Steve non è l'unico che tenga alla libertà. E Stark non vede i danni di ciò che sta causando."

"Senti chi parla di danni. Quanti potenziati non registrati hai fatto scappare tu? Per colpa tua, appena verranno presi finiranno in prigione. Parli di questo, quando citi la libertà? Forse hai le idee confuse, Romanoff." Adesso si stava proprio arrabbiando. Lei cercò di mantenere invariata la sua calma, ma non lo aveva mai visto arrabbiato.

"Clint, se molti di quei ragazzi si registrassero li mettereste in prigione per ciò che hanno commesso. Scappando hanno almeno una possibilità di sfuggire a voi, e di non essere messi in prigione perchè non si sono registrati. Capisci l'ironia della cosa?"

"Magari se lo meritano."

Lei rimase per un secondo in silenzio, spiazzata da quella risposta.

"Lo vedi cosa ti sta facendo Stark? Non sei più tu! Anche io me lo meritavo, me lo meritavo più di tutti loro messi insieme, ma sei stato tu a offrirmi una seconda possibilità, perchè ci credevi, perchè dicevi che tutti avevano il diritto di averne una. Loro non possono avere una seconda possibilità?" Vide i pugni di lui stringersi fino a far sbiancare le nocche. Aveva appena oltrepassato il limite.

"Beh, guarda com'è finita bene la tua seconda possiblità! Sei chiusa in una cella, hai tradito lo SHIELD, hai tradito gli Avengers, hai tradito me! Hai tradito tutto ciò a cui avevi giurato fedeltà. Forse non avrei dovuto concederti un bel niente, avrei fatto molto meglio a ucciderti a Budapest!" Sputò quelle parole, come se le tenesse dentro da molto tempo.

Lei indietreggiò, in silenzio, senza curarsi di nascondere la ferita che quelle parole le avevano appena inflitto, annaspando nel tentativo di trovare una degna risposta, ma per la prima volta dopo anni era rimasta senza parole. Per un secondo sembrò che anche lui si fosse pentito di averle pronunciate, ma entrambi sapevano che non avrebbe mai osato ammetterlo, e così si limitò a cercare di riprendere la calma e indossare nuovamente la sua maschera di freddezza. Lei riprese il controllò di sè e lo guardò con aria di sfida, serrando i pugni.

"Sarebbe stato comodo, vero? Uccidermi come ti era stato detto. E tu dove saresti ora, se lo avessi fatto? In fondo all'oceano, ridotto a scheletro. Chiedi a Laura se ti amerebbe ancora, anche sotto forma di cibo per i pesci." Ringhiò lei. Si pentì delle sue parole nell'istante in cui uscirono dalla sua bocca, ma non per questo si ritrasse o smise di guardarlo in cagnesco.

"Vai al diavolo, Romanoff." Disse lui, freddo come non mai, prima di girarsi e dirigersi dritto verso la porta, chiudendola rumorosamente dietro di sè e lasciando lei immersa nel buio più totale. Appena lui scomparve dalla sua vista, si accasciò a terra, svuotata di tutto. Si rannicchiò nell'angolo della cella, portando le ginocchia al petto e affondando la testa nello spazio in mezzo, con le mani tra i capelli. Non aveva rivelato niente nè aveva tradito Steve. Non aveva nemmeno accennato al progetto TAHITI o al fatto che una volta loro due avessero davvero avuto una storia. Avrebbe potuto farlo ora, ci aveva pensato. Non aveva più nessun obbligo verso Fury, verso lo SHIELD o verso di lui. Avrebbe potuto farlo per cattiveria, per confondergli le idee. Ma la verità era che, nonostante tutto, lei lo stava ancora proteggendo come poteva, come aveva giurato più e più volte a se stessa di fare. Eppure, dopo quella discussione, l'unico litigio che avessero mai fatto, lo aveva sentito distintamente. Il loro legame, una volta così forte, così indissolubile e così profondo, si era appena spezzato. Definitivamente, dolorosamente spezzato, nel peggior modo in cui sarebbe potuto accadere.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


(Attenzione: contiene rumors -spoiler non confermati- di Civil War)

Intorno a lei, solo desolazione. Non aveva ancora trovato superstiti. A vagare zoppicando tra i cadaveri e le macerie, quasi le veniva da pensare di essere morta anche lei. Il dolore. Il dolore alla gamba, il dolore per la morte di Steve, il dolore per i ricordi. Il dolore era tutto ciò che le ricordasse di essere viva. Perchè c'era solo lei in piedi? Cosa era successo lì? Si stupì di non aver pensato prima a queste domande. Insomma, che diavolo ci faceva in quel posto?

 

 

Era scappata dalla cella. Ovvio che era scappata dalla cella. Era Natasha Romanoff, non la guardia sottopagata del supermercato. Era la Vedova Nera, per quanto tutti seguitassero a dimenticarlo. Stark non imparava mai dai propri errori... Questa volta persino Clint sembrava averla sottovalutata. Clint. Solo pensare a lui le faceva tornare quel peso ormai familiare nel petto, le bloccava il respiro. "Vai al diavolo, Romanoff". Quelle quattro parole le riempivano la testa, giorno e notte, una cantilena infernale. Le riempivano la testa anche adesso, mentre cercava disperatamente di ascoltare ciò che Steve stava cercando di dire alla squadra. Quella di quel giorno non sarebbe stata una battaglia come le altre, lei lo sapeva. Era qualcosa di definitivo. Lo vedeva negli occhi di Steve, lo sentiva nelle urla della folla nelle strade, lo avvertiva nel tono dei messaggi di Stark. Erano andati troppo oltre, avevano superato il limite. Nessuno in quella stanza era tranquillo. Non erano stupidi, lo sapevano anche loro. La Donna Invisibile, Devil, Falcon, Spiderman, la Torcia Umana, il Soldato d'Inverno, la Donna Ragno, tutti. Lei aveva imparato a conoscerli tutti, chi più, chi meno. Quelli che per lei una volta erano solo nomi e foto di uniformi scintillanti sui file dello SHIELD erano diventati ormai i suoi compagni, i suoi alleati in quella guerra. Era stanca. Non aveva più quella voglia di combattere che aveva all'inizio, quella se n'era andata da tempo. Quella guerra non aveva portato a niente di buono. Distruzione, morte, caos. Legami distrutti, che non potranno mai più ricucirsi, e non solo quello suo e di Clint. Vedeva la Donna Invisibile, per esempio. Susan Storm, quella biondina con tutto quel potere. Possibile che nessun altro si accorgesse dei suoi pianti quando era da sola? O facevano solo finta di non vedere? Quella guerra a lei era costata come minimo un divorzio. Quando scendevano in battaglia, la vedeva scrutare tra la folla alla ricerca del suo Reed. Non lo perdeva di vista un attimo, anche se faceva finta di non curarsene. Se quello che i file dello SHIELD dicevano era attendibile, e lo era, i due avevano anche un figlio. Ogni tanto lei sarebbe voluta andare da Susan e dirle che la capiva, che sapeva come si sentiva. Ma non era vero. Tra lei e Clint non era mai andata così. Non erano mai stati sposati, figli non avrebbero potuto averne nemmeno volendo. Lui non aveva perso niente, era lei, lei che aveva perso tutto. Lui una famiglia ce l'aveva, una vita all'infuori di lei. No, lei non aveva proprio niente in comune con Susan Storm. Ora come ora, era sola come non mai. Non riusciva nemmeno ad avvicinarsi a Steve, tanto era preso dalla guerra e dalle battaglie. Lei lo osservava, come osservava Stark alla televisione. Osservava i suoi compagni, e osservava coloro che stavano dalla parte di Stark. Le risultava lampante una cosa, e continuava a chiedersi come potesse essere l'unica a vederla. Entrambe le parti, entrambe le fazioni avevano completamente perso di vista l'obiettivo primario. Quella guerra era slittata sul piano personale, e dei bei propositi iniziali non si curava più un'anima. Nessuno si curava più dei civili intorno, erano effetti collaterali. Nessuno, tranne lei. Chi lo avrebbe mai detto, che nell'insieme di tutti i supereroi dediti a salvare il mondo, l'unica che si ricordasse di cosa davvero era importante fosse lei, l'assassina che per anni aveva puntato solo a sopravvivere, l'assassina il cui registro era inondato di note rosse, l'assassina che non era diventata una combattente per salvare nessuno, bensì per uccidere. Mentre gli altri combattevano contro i propri amici e la propria famiglia, lei si curava di allontanare quanti più civili possibili, non intendeva permettere che loro pagassero il prezzo delle dispute di quegli stessi supereroi che avevano giurato di proteggerli. Nemmeno Captain America badava più troppo a loro, ormai. Ma Steve era pur sempre Steve, e aveva come minimo notato l'operato di lei. L'aveva ringraziata una volta, e lei aveva sentito qualcosa di strano nella sua voce. Forse anche lui si era accorto che tutto gli stava sfuggendo dalle mani, ma anche se ne fosse accorto, aveva preferito non farne parola con lei. O con nessun altro, considerando gli avvenimenti che erano seguiti. Tutto, ogni battaglia, ogni dibattito, ogni cosa sembrava ricondurre a lì, a quel momento. Tra poco sarebbe tutto finito, in qualche modo. Lo sapeva lei, e leggeva sulle facce mortalmente serie dei compagni che lo sapevano anche loro. Riuscì a riscuotersi il tempo necessario per accorgersi che Steve aveva finito il suo discorso pre-battaglia. Non ne aveva sentita una parola.

"Comunque vada oggi... Per me è stato un onore, combattere al vostro fianco." Gli occhi di lui incrociarono un attimo il suo sguardo, pronunciando quelle ultime parole prima dell'inevitabile scontro finale. Lei annuì, come per rassicurarlo, e si alzò, seguendo gli altri che silenziosi come non mai andavano incontro al loro destino.

 

"Andate via! Scappate, subito!" Non sapeva per quanto tempo il corridoio sarebbe stato ancora libero, ogni secondo era prezioso. Dal piano di sotto si sentivano i frastuoni della battaglia, si sentivano i colpi di Stark sullo scudo di Steve. Quanto ci mettevano questi civili a scappare? Dovevano correre, non era così complicato. Vide un proiettile dirigersi dritto verso la testa di una bambina che correva a perdifiato. Lei fu più veloce. Tirò via la bambina, facendo scudo con il suo corpo ed evitando il proiettile a mala pena. Riuscì a far evacuare tutti i civili, non senza il bisogno di piantare un paio di colpi in corpo a quel maledetto di Venom. Non le era mai piaciuto... Per fortuna Spiderman aveva terminato il lavoro per lei, riportandolo nella battaglia. Una volta svolto quel compito, si sentì più tranquilla. Ora, poteva combattere senza problemi. Corse verso il centro della battaglia. Forse avrebbe dovuto aspettarsi tutto quel trambusto, ma la lasciò comunque spiazzata. Tutti lottavano come se non ci fosse un domani, e in effetti, vedendo la loro foga, per molti di loro non ci sarebbe stato. Stark e Steve erano al centro dell'enorme edificio, impegnati in una lotta all'ultimo sangue. Era sbagliato, tutto quello era sbagliato. Loro avrebbero dovuto combattere così contro i cattivi, come avevano fatto con Ultron o con i Chitauri, non tra di loro. Steve sembrava prevalere, ma probabilmente solo perchè Visione aveva mandato in corto l'armatura di Iron Man. Intorno a lei, la battaglia infervorava. X-Men che combattevano tra di loro, i Fantastici Quattro che di fantastico al momento sembravano avere solo la rabbia. Spiderman contro Venom, Devil contro She-Hulk. Lei girava su se stessa, confusa, sperando che tutto quello fosse solo un incubo. Poi, li vide. Due occhi azzurri, spaesati come i suoi, con delle ombre grigie. Si incrociarono con i suoi. Il mondo intorno a loro scomparve per magia. Sembrava che non si vedessero da millenni, e ora eccoli lì, con lo stesso sguardo di stupore che avevano entrambi dipinto sul volto la prima volta che si erano visti, a Budapest. Però quella volta non c'era Visione accanto a loro che cercava di incanalare l'energia dei fulmini di Thor di fianco a loro. Tra le mani del robot si era creata un'enorme sfera di energia, e lei e Clint la notarono nello stesso momento. Probabilmente, ci arrivarono insieme. Quella cosa, qualunque cosa fosse, non era contenibile, nemmeno da Visione. Stava per esplodere. Lei rimase a guardare, spiazzata, la sfera che si espandeva ed emetteva una luce sempre più abbagliante. Poi, il tempo si fermò per un attimo. Un attimo eterno. Vide Visione chiudere gli occhi. La luce divenne più forte che mai, e la sfera esplose. Vide il raggio dell'esplosione espandersi, in un tripudio di luce e distruzione. Sembrava che l'intero edificio stesse per collassare. Riuscì finalmente a distogliere lo sguardo e lo portò verso l'alto. Sopra di lei, c'era una buona parte di soffitto in bilico, proprio sul punto di cadere. Sarebbe davvero andata a finire così? Avrebbe potuto correre, mettersi in salvo.... Ma non ne aveva la voglia, nè un motivo. Era stanca, stanca di tutto. Sospirò, e un debole sorriso si disegnò sulle sue labbra, il primo in mesi. Chiuse gli occhi e sentì il frammento di soffitto che collassava definitivamente, ma non gliene importava più. Riaprì gli occhi. Sapeva perfettamente cosa fosse l'ultima cosa che voleva vedere prima di andarsene. Clint, però, non era più dove lo aveva visto fino a poco prima. Stava correndo verso di lei, a perdifiato. Lei inclinò leggermente la testa e fece per dischiudere le labbra per chiedergli spiegazioni, ma lui fu più veloce. La spinse, con tutta la forza che aveva. L'impatto le mozzò totalmente il fiato, tanto era stato forte. Si sentì sbalzare all'indietro e sollevarsi da terra. Oltre alla spinta, l'aveva raggiunta anche il raggio dell'esplosione. Un dolore lancinante alla gamba. L'ultima cosa che vide prima di riatterrare rovinosamente a terra, fu il frammento di soffitto che si abbatteva su di Clint, e non su di lei.

Poi, buio.

Urla.

Di nuovo buio.

Altre urla.

Doveva andare ad aiutare chiunque stesse gridando.

O era lei?

Buio.

Un fischio, tanto forte da lacerarle i timpani.

E Clint?

Perchè l'aveva salvata?

Era quello che aveva fatto, ecco cosa significava quella spinta.

Ma era vivo, giusto?

Buio.

Era sangue la sostanza vischiosa che si sentiva addosso?

Un'immagine, delle ballerine.

Buio.

Lei, una pistola, un uomo con un sacco in testa. Il grilletto scatta, una macchia rossa sul sacco.

Buio.

Urla, le urla non smettevano.

Un arciere...

Buio.

L'arciere cadeva in mare, lei si tuffava per seguirlo.

Buio.

Il simbolo di un'aquila.

Buio.

Neve, l'arciere la abbracciava.

Buio.

Una telefonata, su un tetto.

Buio.

L'arciere che urlava, nel suo letto.

Buio.

Un bacio...

Buio.

Un uomo con una benda sull'occhio sinistro, lacrime.

Buio.

Una famiglia... Era l'arciere quello in mezzo?

Buio.

Un uomo biondo, con gli occhi azzurri le sorrideva, gentile.

Buio.

Una cella.

Buio.

La battaglia, l'esplosione...

Di nuovo buio, le urla non accennavano smettere.

"Nessun sopravvissuto, qui."

Da dove veniva quella voce?

Aspettate, voleva dire. Vi siete dimenticati di me.

Ma era sopravvissuta, lei?

Buio, urla.

Qualcosa le urtò la testa, e perse conoscenza.

O forse no?

Era ancora sveglia?

Le faceva male tutto.

Non riusciva a mettere ordine nella sua testa...

Buio, urla e di nuovo buio.

Poi, tutto finì.

Silenzio, interrotto solo da un fischio.

Nella sua testa solo confusione.

L'unica cosa che riusciva a distinguere in tutto quel caos...

Una parola.

Ahia.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Non poteva essere... Aveva già perso Steve, ma non poteva sopportare l'idea di Clint sotto le macerie, per colpa sua per di più. Dove poteva essere? Lei non era atterrata molto lontano da lui... Doveva essere nelle vicinanze di dove lei si era svegliata. Magari addirittura sotto i frammenti ai quali si era appoggiata solo qualche ora prima... Maledisse la sua memoria, maledisse quella dannata ferita alla testa. Quanto tempo prezioso aveva sprecato girovagando lì intorno, mentre Clint giaceva sotto un paio di strati di cemento proprio accanto a lei. Iniziò a correre, tanto veloce quanto la gamba glielo permettesse. Non che il dolore alla gamba, o qualsiasi altra cosa, importasse più ormai. Si fermò davanti al cumulo di macerie in equilibrio precario sotto il quale probabilmente si trovava Clint. Con il cuore sul punto di esploderle nel petto, fece un giro intorno a quello che una volta era il soffitto dell'edificio, in cerca di qualche segno di lui. Il suo cuore perse un battito quando intravide la punta di un arco nero spuntare da uno spiraglio. Si accovacciò a terra, cercando di intravederlo, cercando di capire se ci fosse ancora speranza. Non vide altro che i suoi capelli nel buio. Sembrava almeno che ci fosse un minimo di spazio tra lui e il cemento... Non era esattamente stato schiacciato, non ancora almeno. Costringendosi a respirare regolarmente, si rialzò in piedi ed esaminò il cumulo. Come poteva fare a spostare i frammenti senza farli cadere addosso a Clint? Continuò a girarci intorno, lottando contro la disperazione. Doveva esserci un modo. Il cumulo era suddiviso in tre grossi frammenti, che andavano a creare una specie di capanna sopra di lui: due erano sostenuti l'uno dall'altro, il terzo sembrava solo appoggiato a quei due. Sembravano piuttosto pesanti, ma con la giusta leva non sarebbe stato un problema spostarli. Il problema era come fare senza che collassassero... Sospirò. Non aveva modo di contattare soccorsi e comunque ogni secondo era prezioso. Avrebbe dovuto sbrigarsela da sola. Si avvicinò incerta al frammento appoggiato agli altri: con la dovuta attenzione, rimuoverlo non avrebbe dovuto spostare gli altri. Non sarebbe riuscita a sollevarlo tirandolo, quindi si posizionò nella direzione opposta verso la quale questo pendeva e, facendo forza sulla gamba sana, iniziò a spingere. Era più pesante di quanto immaginasse, ma questo non bastò di certo a farla demordere. Strinse i denti, e cercò di spingere più forte. Finalmente, dopo qualche secondo, udì il frammento staccarsi dagli altri. Rimase un attimo immobile trattenendo il fiato, con gli occhi chiusi a pregare che i suoi calcoli fossero esatti e sperando di non dover sentire gli altri due cadere sopra il corpo di Clint. Dopo qualche secondo riprese a respirare, sospirando di sollievo. Continuò a spingere con più forza, ignorando la gamba destra che era scossa da violenti tremiti che la imploravano di fermarsi. Finalmente riuscì a sollevarlo del tutto e lo fece sbilanciare dall'altra parte. Atterrò pesantemente a terra, sollevando una nube di polvere. Lei rimase un attimo immobile a tossire, aspettando che la nube si dissolvesse e la gamba smettesse almeno in parte di tremare. Appena riuscì a vedere chiaramente, notò che le gambe di Clint erano già allo scoperto, mentre dal busto in su era ancora nascosto sotto i rimanenti resti. Adesso, però, si ritrovava costretta a dover tirare Clint: non c'era abbastanza spazio per accovacciarsi e spingere i due frammenti da sotto, e di tirarli non se ne parlava, anche avesse avuto la forza necessaria per toglierne uno, l'altro sarebbe caduto proprio in testa a lui. Si mise in ginocchio a terra, di fianco a lui. Si fece forza e lo afferrò per le gambe, iniziando a tirare al principio dolcemente, poi con un po' più di forza. Notò con orrore che man mano che il resto del corpo di Clint spuntava, i frammenti iniziavano ad oscillare e a produrre un rumore per niente rassicurante. Si fermò, e si avvicinò per osservare. Uno dei due frammenti era appoggiato alla spalla di Clint, e di conseguenza si spostava con essa. Non poteva lasciarlo lì... L'unica soluzione era provare a tirarlo via abbastanza velocemente da evitare che rimanesse spiaccicato sotto kili di cemento, ma non era sicura di averne la forza. Era rischioso, ma che altra scelta aveva? Non era nemmeno sicura che Clint fosse ancora vivo, dalla sua posizione non riusciva a capire se il suo petto si muovesse o no. Raccolse tutta la propria determinazione e questa volta lo afferrò per i fianchi. Studiò ancora per un attimo i frammenti e la loro inclinazione e poi diede uno strattone al corpo di Clint, cercando di tirarlo verso di sè con tutta la forza che le era rimasta. Perse l'equilibrio, e cadde in avanti, mentre i frammenti collassavano e alzavano di nuovo quella coltre di calcinacci e polvere. Tossì violentemente, e quando la nube si dissolse si ritrovò faccia a faccia con il viso pallido di Clint. Era praticamente sdraiata su di lui, ed entrambe le loro teste erano a pochissimi centimetri di distanza dai frammenti che erano caduti. A pochissimi centimetri, ma in salvo. Si scostò in fretta da lui, e avvicinò la mano tremante al suo collo. Adagiò due dita su di esso, sperando di non aver fatto tutta quella fatica per nulla. Per un attimo, si ritrovò di nuovo a trattenere il respiro. Poi, con suo immenso sollievo, li avvertì. Uno, due, tre battiti, e così via. Il cuore di Clint batteva molto lentamente, ma batteva. Era ancora vivo. Si lasciò sfuggire una risatina nervosa per il sollievo. Clint non sembrava riportare ferite troppo gravi, però aveva una ferita superficiale all'altezza dell'addome dalla quale sembrava aver perso una discreta quantità di sangue. Adesso doveva trovare un modo per contattare i soccorsi. Percorse delicatamente il profilo del capo di Clint, fino ad arrivare all'orecchio e sfilare dolcemente l'auricolare. Sperando che funzionasse ancora, lo indossò. La sua gola era ancora riarsa, e da quando si era svegliata non aveva ancora provato ad articolare parole di senso compiuto. Le ci volle una manciata di minuti prima di riuscire a definire i suoni gutturali che uscivano dalla sua bocca in lingua corrente.

"Qui Romanoff. Barton è a terra, ripeto, Barton è a terra. Si necessitano soccorsi immediati, qualcuno riceve?" Non riconosceva nemmeno la sua stessa voce, tanto era roca, sembrava più un rantolo di qualcuno in agonia, ma continuò a trasmettere il messaggio, con la voce sempre più fioca. Quando stava per perdere le speranze, sentì una voce uscire dall'auricolare, lontana.

"Qui agente Hill. Mantenere le posizioni, soccorsi in arrivo." gracchiò la voce. L'auricolare era danneggiata, ma il messaggio era arrivato chiaro comunque. Lei sorrise, e si lasciò cadere a terra, di fianco a Clint. Intorno a lei tutto girava. Quella maledetta ferita alla gamba... Doveva aver perso troppo sangue, e gli ultimi sforzi non avevano di certo aiutato. Però tra poco Clint sarebbe stato salvo, e questo era tutto ciò che importava... Prese la sua mano, e si rannicchiò a fatica di fianco a lui. Ora che non stava più cercando di controllarsi, si accorse di quanto fosse stanca. Le palpebre le si fecero sempre più pesanti, fino a che non si chiusero e il mondo intorno a lei venne avvolto nel buio più totale...

Si risvegliò tossendo, intorno a lei era tutto bianco. Sbattè ripetutamente le palpebre, cercando di abituarsi alla luce. Era in una stanza d'ospedale dello SHIELD. Notò diversi tubicini attaccati al suo braccio destro. Sollevò a fatica l'altro per andare a toglierli. Detestava le flebo. Cercò di mettersi seduta, ma si trovò una mano sulla spalla a impedirle di alzarsi.

"Vacci piano Romanoff, non è consigliabile fare movimenti azzardati nel tuo stato."

Lei alzò gli occhi dal braccio verso il punto dal quale la voce proveniva, e trovò un volto familiare ad osservarla. Nonostante tutto, le venne da sorridere.

"Anche per me è un piacere rivederti, Melinda." Mormorò, constatando che la sua voce sembrava essere quasi tornata alla normalità, sebbene fosse ancora piuttosto rauca. L'altra non rispose, come suo solito, e si girò, dandole le spalle. Stava controllando i parametri vitali su una macchina, ma lei ebbe il dubbio che May lo stesse facendo solo per nascondere un sorriso. Malgrado ciò che le aveva detto, si mise lentamente a sedere. Non indossava più la sua uniforme, ma una maglietta con il simbolo dello SHIELD sopra.

"Quanto ho dormito?" Chiese a May, che si girò a guardarla, alzando gli occhi al cielo vedendo che non l'aveva ascoltata nemmeno questa volta.

"Tre giorni."

Lei annuì. Cercò di muovere la gamba destra: malgrado fosse piuttosto indolenzita, sembrava guarita.

"Sì, era messa piuttosto male quella. Hanno insistito per curartela con uno di quei strani macchinari che ricostruiscono il tessuto..." Iniziò a spiegare May, ma lei non la stava più ascoltando.

"E Clint?" Si girò verso di lei, sperando di ricevere buone notizie. Non le importava se e come avessero ricostruito la sua gamba o nient'altro, le importava solo di lui. May la fissò un secondo negli occhi, prima di rispondere.

"Se è questo che vuoi sapere, è vivo." Melinda esitò un attimo prima di continuare. "Non si è ancora svegliato. I dottori dicono che è in coma, ma le sue condizioni sono stabili. Ci sono buone probabilità che presto si risvegli... Hai chiamato i soccorsi in tempo... Se fosse rimasto ancora lì, probabilmente non ce l'avrebbe fatta. L'hai salvato, Natasha."

Lei sospirò di sollievo, e sorrise. Sentì a mala pena il discorso sbigativo di May sul fatto che Steve si stesse arrendendo poco prima dell'esplosione perchè si era accorto di aver perso di vista cosa fosse davvero importante, che quindi la vittoria fosse andata a Stark che non aveva però imprigionato tutti i sostenitori di Captain America, forse in un accesso di sensi di colpa. Stando a quello che riuscì a udire di quel riassunto, lo SHIELD aveva ricevuto il suo SOS per salvare Clint e aveva deciso di ringraziarla per aver salvato un loro agente riservandole le cure di cui necessitava. Era venuta lei a recuperarli, e a quanto pare li aveva trovati entrambi pallidi, privi di sensi e coperti di sangue. May sorvolò sul dirle se fosse ancora un'agente dello SHIELD, ma tanto lei sapeva che non lo era più, aveva tradito e la sua seconda chance l'aveva già avuta anni prima. Rimasero ancora un istante in silenzio, senza che nessuna delle due sentisse il bisogno di aggiungere altro. Poi May si allontanò da lei e prese ciò che aveva portato con sè, come per andarsene.

"L'agente Barton si trova nella stanza in fondo al corridoio. Ovviamente non è consigliato che tu ci vada e io non ti ho detto niente."

Lei sorrise. Forse almeno Melinda era rimasta con lei, era ancora un'amica o ciò che più si avvicinasse. In fondo un po' le era mancata, per tutto quel tempo che era rimasta con Coulson e il suo team.

"Grazie."

May fece un gesto noncurante con la mano e aprì la porta, ma si bloccò sulla soglia.

"Un'altra cosa... Mi hai fatto prendere un infarto, Romanoff. Non ci provare mai più." Prima che lei potesse aggiungere niente, uscì e chiuse la porta dietro di sè. Le venne quasi da ridere. Chi lo avrebbe mai detto, la Cavalleria si poteva affezionare anche a qualcuno che non fosse Coulson.

Sentì i passi di Laura avvicinarsi, come sempre verso quell'ora, e lasciò la mano di Clint, dirigendosi verso il solito angolino nell'ombra. Erano ormai due settimane e mezzo che ripetevano questo rito. Lei passava quasi ogni ora delle sue giornate accanto al letto di Clint, aspettando e sperando che si svegliasse. Poi arrivava Laura, e lei si alzava per farle posto nella sedia di fianco a lui, per andarsene in un angolo poco distante. Laura non aveva mai dato segno di accorgersi della sua presenza, forse non l'aveva davvero mai notata, con il poco rumore che lei faceva e con tutta l'attenzione che Laura rivolgeva a Clint. Poi, a una certa ora doveva tornare dai bambini, e allora lei riprendeva possesso della sedia accanto a lui. Ogni tanto si risvegliava al mattino con la testa appoggiata sul petto di Clint e si rendeva conto di non essersi nemmeno accorta di essersi addormentata lì, con estremo disappunto degli infermieri che gli ronzavano intorno regolarmente. Quel giorno sembrava uguale a tutti gli altri. Dal buio del suo angolino roteò gli occhi quando sentì Laura iniziare a parlare a Clint, come faceva ogni mattina. Così dannatamente stucchevole, insopportabilmente mielosa. Nemmeno lo amasse veramente e non perchè glielo avevano impiantato nella testa. Poi, successe una cosa che nessuna delle due si aspettava. Clint si mosse, quasi impercettibilmente, ma abbastanza perchè entrambe lo notassero. Laura si alzò in piedi e si avvicinò quanto poteva a Clint, mentre lei si limitò a staccarsi lievemente dal muro, non osando intromettersi tra lui e Laura o anche solo rivelare la sua presenza lì. Da quello che riusciva a vedere da lì, le sembrava che Clint continuasse a muoversi, lentamente. Sentiva il cuore sul punto di esploderle nel petto. Forse non avrebbe dovuto essere lì. Loro due avevano litigato, e si erano schierati sulle due fazioni opposte. Probabilmente non l'aveva salvata di proposito, era stata solo la foga del momento. Sentì Clint emettere un rantolo, non diverso dai suoi quando cercava di parlare. Laura, con le lacrime agli occhi, si protese ancora più verso di lui. Poi, lui cercò di pronunciare qualcosa. Una parola. Strascicata e sussurrata, ma entrambe la capirono perfettamente. No, lei non avrebbe proprio dovuto essere lì. Senza curarsi che Laura la vedesse, si allontanò velocemente dal muro e uscì dalla stanza. A passo spedito, si diresse verso l'uscita, decisa ad andarsene da lì.

Quella parola le risuonava ancora in testa, biascicata come l'aveva detta lui.

Una parola.

Sette lettere.

Natasha.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Scese dal treno, e si avviò verso la piazzola dove le avevano detto che sarebbe partito il pullman per... Non sapeva nemmeno lei dove, aveva preso il primo biglietto che le era capitato. La stazione di Philadelphia era gremita di gente che la spintonava da ogni parte. Stava scappando, come una codarda, e lo sapeva. Era rimasta ancora due settimane a New York, nell'appartamento di Steve, che senza di lui era inesorabilmente vuoto. Ogni tanto chiamava May per sapere come stava Clint. A quanto pare, continuava a chiedere di lei. Dopo quindici lunghi giorni, aveva deciso che non ce la faceva più. Non ce la faceva più a vivere in quell'appartamento sola con i fantasmi di Steve Rogers, non ce la faceva più a convivere con il desiderio di andare a trovare Clint. In più, May le aveva detto che l'agente Barton si era ristabilito. Aveva preso un treno, ed era partita, pienamente consapevole che questa volta non ci sarebbe stato Captain America a fermarla. Era combattuta su due fronti. Da una parte era felice che Clint chiedesse di lei e non di Laura... Era una vittoria personale, seppur piccola. Dall'altra, era spaventata. Perchè chiedeva di lei? Il suo nome era la prima cosa che aveva pronunicato appena sveglio. Il progetto TAHITI non aveva forse funzionato come avrebbe dovuto? Non voleva che Clint tornasse a essere angustiato dagli incubi, dal maleficio di Loki. E non aveva visto altra soluzione, se non andarsene e aspettare che lui si dimenticasse di lei, passando il tempo con Laura e i figli. Non aveva trovato un altro modo per proteggerlo. E poi, ormai, New York le evocava solo brutti ricordi, ovunque girasse. Sarebbe stato meglio per tutti se lei se ne fosse andata, magari avrebbe trovato un lavoro da qualche parte come Natalie Rushman, anche se ormai dopo tutti le vicissitudini con gli Avengers la copertura era quasi completamente saltata. C'era di buono che però erano gli altri Avengers a catalizzare più l'attenzione delle masse, e non capitava troppo spesso che qualcuno la riconoscesse. Un modo per vivere l'avrebbe trovato, come aveva sempre fatto. Aveva ripreso la sua vecchia valigia, le sue poche cose e detto addio all'appartamento di Steve e a New York, non dimenticandosi di passare da Melinda, per ringraziarla. Si sarebbero comunque sentite, come avevano fatto spesso. May non approvava che lei partisse... Ma non era una sua scelta.

"Non fare niente di stupido, Nat."

"Niente che non faresti tu, Mel."

"Lo sai che odio quando mi chiami così."

"Più di quando ti chiamano Cavalleria?"

"Okay, forse un po' meno."

"Porta i miei saluti a Coulson."

Non c'erano mai state tante parole tra di loro, non ce n'era bisogno. In più, nessuna delle due era particolarmente logorroica.

L'autobus arrivò, con mezz'ora di ritardo. Sbuffò, e si costrinse ad alzarsi dalla panchina sulla quale era riuscita a trovare posto dopo diversi minuti passati seduta sull'asfalto della stazione. Si trascinò svogliatamente in direzione del pullman. Sentì i motori accendersi. Fantastico, mezz'ora di ritardo e nemmeno stava tanto ad aspettare. Allungò il passo, facendosi largo tra la folla, e stava per raggiungerlo quando sentì una mano posarsi sopra la sua spalla e tirarla indietro. Lei si girò, scocciata, pronta a dirne quattro a chiunque le stesse facendo perdere tempo. E invece ammutolì, trovandosi a fissare un paio di occhi azzurro-grigi.

"Sei una persona molto difficile da trovare, lo sai Vedova Nera?"

Quello era un colpo basso. Non poteva usare la prima frase che le avesse mai rivolto, non ora, era sleale. Però se la ricordava ancora... Come lei si ricordava la sua risposta. "Talmente difficile da far esasperare le organizzazioni americane a tal punto da mandare Robin Hood a fermarmi.". Erano passati tanti anni... Quanti, dieci? Cosa era rimasto della Natasha di allora nella ragazza dai capelli rossi in camicetta, jeans e Converse nere che al momento era immobile davanti allo stesso arciere di dieci anni prima? Poco o niente, forse. Solo il passato. Nemmeno gli incubi erano gli stessi di dieci anni prima. Si morse il labbro. Perchè Clint era lì? Non capiva che rendeva solo le cose più difficili a entrambi? Lei non poteva permetterglielo. Represse il desiderio di rispondere come dieci anni prima. Non doveva fargli capire che se lo ricordava ancora come fosse il giorno prima... Sentì l'autobus dietro di loro partire. Dannazione, il pullman... Raccolse tutta la freddezza che sapeva di poter ostentare.

"Beh, ho perso l'autobus. Spero che tu abbia raggiunto il tuo scopo... Ora dovrò aspettare il prossimo."

"Non andartene." Il suo tono, quasi supplichevole, era un colpo al cuore. Come se per lei non fosse già difficile recitare la parte della regina dei ghiacci dopo che lui le aveva salvato la vita, dopo aver passato due settimane accanto al suo letto mentre era in coma.

"Non otteniamo sempre quello che vogliamo, Clint. E tu non puoi impedirmelo." Sospirò. "Non dovresti nemmeno essere qui, torna da Laura e i bambini. Avranno sentito la tua mancanza, in questi ultimi tempi."

"Non ti stanchi mai di fingere di non provare sentimenti, Natasha?" Adesso il suo tono era diventato rassegnato, quasi... Triste. Sembrava quasi che provasse pena per lei... Lei scosse la testa, facendo finta di ignorare ciò che le aveva appena detto.

"Se non ti dispiace, dovrei andare a prendere un nuovo biglietto per un autobus, visto che grazie a qualcuno ho perso l'ultimo. Ti auguro una buona giornata, Clint." Senza aspettare una risposta, gli diede le spalle e iniziò a camminare di buon passo verso la biglietteria.

"Nat, aspetta!" Lo sentiva chiamare, ma continuava imperterrita a camminare e accelerare il passo, decisa a mettere quanta più distanza possibile tra di loro. Poi lo sentì pronunciare quelle parole, quelle maledette due parole.

"Ti amo." Colpita. Colpita e affondata. Natasha non fermarti, vai avanti. Ma non riusciva ad ascoltare la vocina dentro la sua testa. Si fermò, paralizzata, e chiuse gli occhi. Una tempesta di emozioni contrastanti si scatenò dentro di lei. Non doveva permetterglielo, Loki sarebbe tornato, lui aveva una famiglia anche se falsa, per loro non c'era un futuro... Però non desiderava altro che sentirsi dire quelle parole. Lo sentì avvicinarsi, piano, e si girò verso di lui.

"Come hai detto?" La sua voce ora era flebile, poco più di un sussurro.

"Ho detto che ti amo. Non è forse così?" La guardò, quasi a chiedergliene conferma. "Sai, ho passato mesi a sognare quasi ogni notte di stare con te, di vivere con te, di baciarti. Poi mi risvegliavo nel letto, di fianco a Laura, e mi chiedevo cosa ci fosse che non andava in me. Insomma io amavo lei, eppure ogni notte comparivi tu. Continuavo a domandarmi perché mi desse tanto fastidio sapere che tu abitavi con Rogers. Sono dovuto finire del mezzo di un esplosione e poi in coma, per capirlo. Quelli che vedevo ogni notte non erano sogni, erano ricordi. Mi ci è voluto del tempo per capire cosa fosse successo, cosa mi aveste fatto. Poi, ho pensato al progetto TAHITI, e ho ricordato tutto. L'incantesimo di Loki, l'effetto che aveva avuto su di me. Coulson ci aveva avvertiti che il progetto era ancora difettoso, in effetti. A quanto pare, era solo questione di tempo prima che ricordassi tutto... Prima che mi risvegliassi sapendo che il nome della donna che amo non è assolutamente quello inciso sull'anello che portavo al dito fino a qualche giorno fa."

Lei abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro, senza avere la più pallida idea di cosa fare. Si ritrovava completamente senza difese. I suoi capelli scivolarono lievemente in avanti, frapponendo una barriera rossa tra lei e lo sguardo di Clint. Sospirò. Lui ricordava tutto, non aveva più senso fingere ormai.

"Non avevamo altre soluzioni... Volevo solo proteggerti. Non era previsto che tu ricordassi niente di tutto ciò che era successo... Di noi due." Mormorò alla fine. Sentì la mano di lui scostarle dolcemente i capelli dal viso, per poi percorrere il profilo di esso fino ad arrivare al mento, costringendola ad alzare lo sguardo su di lui.

"Come pensi che avrei mai potuto dimenticarlo?" Disse lui in un sussurro. Il viso di Clint era molto più vicino al suo di quanto lei avrebbe dovuto permettere, ma era come paralizzata, non riusciva a muoversi. La stazione affollata di Philadelphia era sparita, in quel momento c'erano solo lei e Clint, c'era solo la mano di lui ancora sul suo viso, c'erano solo le loro labbra che si avvicinavano sempre di più. Chiuse gli occhi e avvertì la bocca di Clint adagiarsi dolcemente sulla sua, una mano che si intrecciava nei suoi riccioli rossi, l'altra sul suo fianco a tirarla. Questa volta non lo stava immaginando, lui era vero, ed era lì, con lei, a stringerla tra le sue braccia, a baciarla, come se gli ultimi due anni non fossero mai esistiti, come se non fosse cambiato niente da quando si erano incontrati sul pianerottolo davanti al suo appartamento dopo la caduta dello SHIELD. Si strinse a lui come se mai l'avesse lasciato lui se ne sarebbe andato di nuovo. Le era mancato come l'ossigeno, se ne rendeva conto pienamente solo ora. Fu lei a separarsi per prima, per prendere aria e perchè voleva guardarlo di nuovo in quegli occhi di cui lei si era innamorata dieci anni prima, per accertarsi che fosse vero, che non stesse solo sognando. Lui, con la fronte ancora appoggiata sulla sua e la mano ancora intrecciata nei suoi capelli, le sorrise.

"Ti amo anche io." Le parole le sfuggirono di bocca, ancora prima che lei si accorgesse di averle pensate, quelle due cinque lettere rimaste segregate per anni nella parte più nascosta di lei. Lui la osservò, quasi divertito.

"La Vedova Nera innamorata. Chi l'avrebbe mai detto." Sussurrò, scherzoso. Era felice come non lo vedeva da anni, come non lo aveva visto nemmeno con Laura.

"Non mi costringere a rimangiarmelo, Barton" Mormorò lei con un sorrisetto. Anche lei si era dimenticata come fosse davvero, essere felici. Lui rise, e la avvicinò di nuovo a sè, per baciarla un'altra volta.

Lei si rese conto di non essere mai stata tanto contenta che un autobus fosse in ritardo.

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


Si è addormentata, alla fine. Ci ha messo un po', come sempre da quel giorno alla stazione a questa parte, ma si è addormentata. Probabilmente, due anni passati a vedermi sposato con un'altra donna, due anni in cui è successa qualsiasi cosa, l'hanno segnata abbastanza da moltiplicare i suoi incubi ogni notte, come se non ne avesse già abbastanza prima, rendendola piuttosto reclutante a cercare di dormire. O almeno, questa è la mia opinione. Non ho di certo la presunzione di conoscere Natasha Romanoff, il giorno in cui qualcuno la conoscerà davvero sarà il giorno in cui a Nick Fury ricrescerà l'occhio mancante. Posso però vantare il privilegio di essere colui che la capisce meglio e che sa più di lei, e devo dire che è un risultato non da poco, parlando della Vedova Nera. La sento rannicchiarsi contro il mio petto, e istintivamente la circondo con le braccia, come a proteggerla. Ovvio, come se ne avesse bisogno. Stiamo parlando di una ragazza capace di stendermi ancora prima che io mi accorga di essere attaccato, forse persino prima che mi accorga della sua presenza. E volendo essere onesti, i miei riflessi sono abbastanza pronti. Mi sorprendo spesso, come ora, a guardarla dormire e a cercare di capire come una persona all'apparenza così piccola e delicata possa essere tanto letale. So che è esattamente quella la sua arma principale, ma devo ammettere che è un'arma costruita dannatamente bene. Affondo il viso nella massa di riccioli rossi che io stesso ho reso così disordinata qualche minuto fa. Non posso farne a meno, amo i suoi capelli. A dirla tutta, amo ogni singola cosa di lei. I suoi splendidi occhi color smeraldo, le sue labbra morbide. Più la guardo, più mi chiedo come diavolo si faccia ad essere così incredibilmente perfetti. Senza contare che è la donna più intelligente che abbia mai conosciuto. Lo nasconde sotto uno strato di sarcasmo e di sorrisetti di scherno, ma non ha niente da invidiare a un qualsiasi Stark, che invece adora ostentarlo anche più del necessario. Un giorno le dovrò chiedere se è umana. Mi chiedo come sia possibile non amarla... Mi chiedo come sia possibile che per ben due anni io abbia pensato di amare qualcun altro. Laura è una donna brillante, simpatica, carina, ma... Lei non è Natasha. All'inizio non sapevo come fare a dirle la verità, a dirle che mi ero ricordato del progetto TAHITI, a dirle che il nostro matrimonio non era nemmeno vero, non lo era mai stato. Però Nat ha insistito che non sarebbe stato giusto nei confronti di Laura lasciarla all'oscuro mentre lei e io ricominciavamo a vederci, e come sempre aveva ragione. Sono andato a parlare alla mia per così dire moglie appena il treno da Philadelphia è arrivato a destinazione. Nel frattempo, Nat mi ha raccontato ciò che le aveva detto Fury un paio di anni prima, e io ho scoperto di essere stato sposato con una certa ricercatrice livello 5 di nome Maya Wright. La cosa che più mi ha sconvolto, però, è stata sapere che il progetto TAHITI era stato applicato anche su Cooper e Lila. Non saranno stati davvero i miei figli, ma mi sono davvero affezionato a loro, nel tempo che abbiamo passato insieme. Mentre me lo raccontava, ho letto negli occhi di Nat qualcosa di più persino del mio disgusto, quasi rabbia. Lei e i lavaggi del cervello sui bambini hanno qualche conto in sospeso, in effetti, lei per prima ha il diritto di criticare Fury per aver permesso una simile atrocità. Ancora adesso non so cosa mi aspettassi dal discorso con Laura, ma sicuro come il cielo non mi aspettavo la reazione che ha avuto, quasi di sollievo. All'inizio non l'avevo capita, ma poi lei mi ha raccontato che anche su di lei il progetto TAHITI stava iniziando a perdere parte del proprio effetto: come me, di notte era tormentata dai ricordi del marito, e non riusciva a darsi una spiegazione. Le ho ripetuto la sua storia, basandomi su ciò che mi aveva riferito Nat, e lei ha ricordato tutto, pian piano. Eppure, tutto quel tempo di progetto TAHITI sembrava le fosse servito, inconsciamente, a elaborare la morte del marito, e ha reagito come una persona matura. Sono pienamente convinto che non farà sciocchezze. A distanza di qualche mese, non so ancora come se la sia sbrigata con i bambini: Nathaniel ha solo un anno, non si ricorderà di tutto questo. Ma Lila e Cooper, non li ho più visti. Laura e io abbiamo deciso di comune accordo che era meglio che sparissi per un po', che non mi facessi vedere da loro mentre lei cercava un metodo delicato per raccontar loro la verità, o per farli tornare com'erano prima del progetto TAHITI. Un giorno la chiamerò e glielo chiederò, magari andrò anche a trovarli. Immagino che un po' mi manchino. Ho detto addio a Laura, e me ne sono andato per sempre dalla fattoria dove avevo vissuto con lei. Diamine, davvero erano riusciti a convincermi a vivere in una fattoria? A pensarlo mi viene da ridere ancora adesso, e anche Natasha mi tormenta sovente con le sue battute sempre più elaborate in proposito. Mi sono fatto raccontare per filo e per segno cosa è successo nella sua vita mentre io non c'ero, e lei mi ha raccontato tutto, da quando le hanno comunicato che sarei stato sottoposto al progetto TAHITI alla battaglia finale della guerra tra Rogers e Stark. Me l'ha raccontato come se niente fosse, ma ho passato abbastanza tempo con lei da capire che deve aver sofferto molto. Sapendo com'è fatta, sono certa che si sarà data la colpa di tutto. So per certo che avrà passato mesi a dirsi che avrebbe dovuto accorgersi degli effetti del maleficio di Loki, che avrebbe dovuto fare di più per me. Mi ci vorranno anni per convincerla che non è vero, e non sono nemmeno sicuro di riuscirci. Se c'è qualcuno che non ha colpe in quella vicenda è Nat, ma è troppo testarda per crederci. Mi ha raccontato anche di Rogers, di che fine ha fatto Captain America. L'ho accompagnata una volta al cimitero, sulla sua tomba. Non l'avevo mai vista piangere. Credo che sia stata una delle esperienze più brutte della mia vita... Non riuscivo a sopportare di vederla così, avrei voluto fare qualsiasi cosa pur di fermare quelle lacrime silenziose che le solcavano il viso. Tutto ciò che sono stato capace di fare è stato abbracciarla forte, e dopo qualche minuto passato a sentire i suoi taciti singhiozzi sul mio petto, lei si è asciugata le lacrime alla meglio e ce ne siamo andati. Qualche giorno dopo, per scherzare le ho detto che ero geloso di Cap, che se fossi morto io non avrebbe versato nemmeno una lacrima. Lei si è rabbuiata e ha detto qualcosa che resterà per sempre impresso nella mia memoria: "Hai ragione. Se fossi morto tu, sarei stata lì sotto di fianco a te.". Quella risposta mi ha scosso, quasi terrorizzato, a tal punto che non sono mai più tornato sull'argomento, e non credo che lo farò nei prossimi mille anni. Guardo la sveglia. Tra poco dovremo alzarci e andare al lavoro. Ho pregato Coulson in ginocchio perchè riammettesse Nat nello SHIELD. Per fortuna non è come Fury, e alla fine ha accettato, anche se credo che la sua decisione finale non sia dovuta più di tanto alle mie richieste o al fatto che lui e Nat fossero sempre andati d'accordo, quanto al fatto che May fosse dalla mia parte. Non avevo idea che la loro relazione arrivasse a tal punto... Credevo che il picco massimo della loro amicizia fosse quello di non uccidersi a vicenda quando si incontravano. Ma May è impossibile da capire, e come ho detto non ho di certo la presunzione di conoscere Natasha. Quando gliel'ho raccontato, mi ha riferito, non senza un sorrisetto divertito davanti al mio stupore, ciò che Melinda aveva fatto per entrambi. In fondo, sono anche contento che Nat abbia qualcun altro oltre a me, ora che non c'è più nemmeno Steve. La scomparsa di quest'ultimo e il fallimento del progetto TAHITI hanno fatto sì che io andassi ad affiancare Nat nell'addestramento dei nuovi Avengers, programma che era stato interrotto allo scoppiare delle dispute tra Cap e Iron Man. Ho così avuto modo di reincontrare Wanda, o Scarlet Witch come le piace farsi chiamare adesso. Non ho di certo dimenticato il sacrificio di suo fratello, e mai potrò ringraziare a dovere quella piccola scheggia... Pensare che solo qualche minuto prima della sua morte avevo pensato di ucciderlo. Poi, una nuova agente si è unita all'addestramento: l'ha scovata Nat, girava per le strade facendosi chiamare Occhio di Falco, le dovrò chiedere il copyright prima o poi, e cercando di dare una mano. Kate Bishop, quella ragazza ha decisamente del talento. La mira non è come la mia ma è molto buona. Mi fa esasperare, ma in fondo è una brava ragazza. Nat mi prende sempre in giro, dice che con tutti i litigi e gli scherzi che faccio con Kate e Wanda sembro loro padre. Beh... Lei scherza, ma so che in fondo sa, come me, che ventiquattro mesi a fare il genitore hanno lasciato il loro segno. Anche gli altri non se la cavano male, Natasha e Steve hanno fatto proprio un bel lavoro. Penso a che esercizi sottoporre oggi a quella indisciplinata di Kate, quando una voce roca, la voce più bella del mondo a mio parere, mi riscuote dai miei pensieri.

"Dimmi che non fissavi così anche Laura quando dormiva, o quella povera ragazza avrà bisogno di un'altra sessione di progetto TAHITI per riprendersi dallo shock." Gli angoli della sua bocca si increspano a formare un piccolo sorriso mentre parla, e dopo apre lentamente gli occhi, puntando quelle iridi di smeraldo direttamente su di me. A me viene da ridere. Mi ha preso un'altra volta alla sprovvista. Da quanto tempo si è accorta che la stavo guardando? Forse non si è mai nemmeno addormentata, non mi stupirebbe per niente.

"Che hai da ridacchiare? Sono seria, Barton, sei inquietante." Una mano bianca come la neve si fa lentamente strada sul mio petto, per salire poi sul mio collo e arrivare ai capelli, provocando dei leggeri tremiti ovunque passa. Mi tira lievemente verso di sè, e io la lascio fare, assecondandola e andando a baciare le sue labbra carnose. La mia bocca scende a lasciare baci leggeri sul suo collo e la sento fremere, mentre le sue mani continuano ad accarezzare dolcemente i miei capelli. Tocca a lei, come sempre, cercare di avere un po' di buonsenso.

"Clint, non abbiamo tempo... Non vorrai di certo fare aspettare Kate." Mormora. Non che dalla sua voce si avverta una gran voglia di alzarsi e andare al lavoro.

"Con tutte le volte che è arrivata in ritardo, credo che Kate possa concederci dieci minuti per noi." Sussurro di rimando. Lei sospira e sento le sue labbra adagiarsi sulla mia fronte, prima che si liberi dalla mia stretta e si metta seduta sul bordo del letto. Ancora sdraiato e con un'espressione di disappunto dipinta in volto, la vedo aggiustarsi alla meglio i capelli e raccogliere distrattamente da terra i vestiti che indossava ieri sera, rimasti ai piedi del letto. Mi alzo a sedere anche io, ma solo per andare dietro di lei a cingerle i fianchi con le braccia e far scivolare le mani fino a chiudersi all'altezza del suo ombelico, intrappolandola in un abbraccio. Le dò un bacio sulla spalla e la sento sospirare.

"Dieci minuti, Barton. Non di più." Mormora e si gira sorridendo, tornando a baciarmi e spingendomi fino a quando non sono di nuovo sdraiato.

Dio, quanto la amo. 

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