Lo sconosciuto sulla panchina di Toki_Doki (/viewuser.php?uid=139579)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sconosciuti ***
Capitolo 2: *** Un po' meno sconosciuti ***
Capitolo 1 *** Sconosciuti ***
Cap. 01 - Sconosciuti
Sconosciuti
Amavo fare jogging e tenermi in forma perché mi faceva
sentire viva e in pace col mondo. Da quando avevo scoperto quel meraviglioso
parco non lontano da casa, non riuscivo più a fare a meno di frequentarlo per
allenarmi. Ero una ragazza abitudinaria, quindi il tragitto era sempre lo
stesso, così come i giorni e gli orari.
Frequentavo il primo anno di università e il mercoledì
pomeriggio, il sabato e la domenica, non avevo lezioni, quindi erano i giorni che
dedicavo a me stessa.
Non amavo molto uscire a fare baldoria e non avevo neanche
chissà quanti amici! La mia migliore amica era diventata anche la mia
coinquilina e, a parte lei, frequentavo giusto un paio di ragazze conosciute ai
corsi.
Con la musica nelle orecchie continuai il giro cercando di
mantenere ritmo e respiro regolari, ma i miei sforzi furono vani quando lo
vidi. O meglio: lo vidi di nuovo. Era un ragazzo bellissimo, con l'aria fiera e
la schiena sempre ben eretta, che sedeva sempre sulla stessa panchina a
leggere. La prima volta lo avevo notato in estate, quando avevo iniziato a fare
quel giro, poi lo avevo rivisto ogni giorno. Sempre. Non mancava mai ed io ne
approfittavo per guardarlo e cercare di sbirciare la copertina del libro che
teneva tra le sue belle mani, dalle dita lunghe e affusolate. Era un po'
inquietante il fatto che io avessi notato il particolare delle sue mani, o dei
suoi occhi neri e profondi come il mare di notte, o i suoi capelli arruffati e
neri come la pece che a volte rivelavano riflessi rossi. Era un po' inquietante
che quello sconosciuto mi avesse colpito così tanto da spingermi a fingere una
sosta in prossimità della sua panchina per avere modo di osservarlo.
In quegli ormai tre mesi, non avevo mai avuto il coraggio di
sedermi accanto a lui o di attaccar bottone. Aveva l'aria di uno troppo
intelligente e maturo per una come me, poi secondo me aveva sui trent'anni e
non riuscivo proprio a concepire perché un uomo dovesse dar retta ad una
ragazzina.
Chiariamo: non mi sentivo davvero una ragazzina, perché avevo
vent'anni e le mie esperienze alle spalle - positive e negative - ma avevo
l'aspetto di un'adolescente e quello mi frenava perché ero, forse stupidamente,
convinta che non sarebbe voluto andare oltre l'aspetto. Insomma, quale uomo
sano di mente approfondirebbe la conoscenza di una ragazza che dimostra sedici
anni, tutta sudata, impacciata e rossa per la vergogna? Nessuno. Quindi mi ero
rassegnata da subito a guardarlo da lontano e immaginare soltanto come sarebbe
stato conoscerlo. Inventavo momenti, frasi, gesti, che mai avrei vissuto ma che
tenevano attiva la mia fantasia. Avevo anche scritto qualche storiella, ma al
contrario delle altre, quelle non le avevo fatte leggere a nessuno.
Mi spiego: avevo l'abitudine e il bisogno di scrivere,
qualsiasi cosa purché potessi liberare la mente e sfogare la fantasia. Mi
sentivo bene quando lo facevo e così avevo iniziato senza smettere mai. Il mio
sogno? Diventare una scrittrice, ovviamente!
I muscoli indolenziti dall'aria fredda mi fecero rendere
conto che la pausa era durata anche troppo. Mi sgranchii le braccia e le gambe
e, quando riportai lo sguardo sullo sconosciuto della panchina, i miei occhi
incontrarono i suoi. Il cuore ebbe un fremito: era la prima volta che mi
guardava. Tesi le labbra in un sorriso e corsi letteralmente via da quel
ragazzo, che aveva ricambiato il sorriso mozzandomi il respiro in petto.
Alla lista dei particolari meravigliosi di quell'essere
superiore, avrei dovuto aggiungere il sorriso stupendo.
Da quello scambio di sguardi, erano passati due giorni e non
vedevo l'ora che arrivasse l'indomani: era sabato e sarei tornata al parco.
Uscii dalla mia stanza canticchiando Take me to church, appena sentita alla radio, e mi sistemai sul
tavolo della cucina dopo aver preparato un bel cappuccino amaro e qualche fetta
biscottata con marmellata.
Fui raggiunta dalla mia pazza amica Laura, in ritardo come
sempre.
«Buongiorno,
eh!» la salutai divertita mentre cercava di infilarsi una fetta biscottata
tutta in bocca.
Farfugliò
la risposta sputacchiando briciole ovunque e facendomi scoppiare a ridere.
«Che
corso hai oggi?»
Mandò
giù il boccone, si diede un pugno sul petto per aiutarsi, poi rispose: «Filosofia.»
Sollevai
le sopracciglia ammiccando. «Non far aspettare il signor Miretti, allora!»
Sbuffò
teatralmente. «Non c'è niente tra noi. Devo ripetertelo ogni volta?»
«No,
hai ragione. Un uomo che ti chiede di bere un caffè dopo le lezioni, di certo
non è interessato.»
«È il
mio insegnante! Quella volta mi ha invitato perché dovevamo discutere dei miei
crediti.»
«Gli
sbavi dietro da un anno» le ricordai.
«Non
vuol dire che lui ci sta! E poi perché ne stiamo ancora parlando?» chiese
alzando i toni e procurandomi una risata.
Scrollai
le spalle. «Prima o poi dovrai ammettere che tu e il professorino ve la intendete!»
«Roby,
sei una rompipalle! Non ci sarà mai nulla da ammettere.» Mise il broncio,
lasciò la cucina e sbatté la porta d'ingresso lasciandomi capire che era uscita
infuriata.
Quell'argomento
non voleva mai affrontarlo, ma io l'avevo capito che aveva una cotta per il suo
insegnante. Cotta per altro corrisposta. Parlavo per cognizione di causa dato
che li avevo visti insieme all'università, e il modo in cui lui guardava lei mi
aveva fatto venire il batticuore.
Misi da
parte quei pensieri - anche perché dovevo farmi gli affari miei - e presi la
borsa per dirigermi anch'io in sede. Quel giorno avrei avuto lezione fino alle sei
del pomeriggio e la cosa mi destabilizzava sempre perché mi stancavo
psicologicamente. Era anche per quello che avevo bisogno di sfogarmi correndo.
Scesa
dall'autobus mi recai direttamente nell'aula due del secondo piano; imboccai la
stanza e mi sedetti al banco centrale, per non stare troppo avanti né troppo
dietro.
Le
prime tre ore di giapponese volarono. Sì: amavo quella materia e le ore di
lezione non mi sembravano mai abbastanza.
Le
successive quattro ore furono altrettanto piacevoli, ma quando le terminai,
sospirai di sollievo perché avevo un'ora buca per poter mangiare.
Stavo
morendo di fame, così mi diressi in una piccola pizzeria a taglio che si
trovava vicino all'edificio scolastico. Era una fortuna che fosse raggiungibile
a piedi e che avesse la pizza più buona che avessi mai mangiato.
Col
sorriso sulle labbra e lo stomaco brontolone, mi recai in quella tavola calda
decisa a strafogarmi. Mentre percorrevo il viale alberato, notai una figura
estremamente familiare ferma a scrutare il lato opposto della strada. Il cuore
sembrò uscirmi dal petto, ma riuscii a calmarmi prendendo un bel respiro.
Lo
sconosciuto della panchina continuò a guardarsi intorno, quasi spaesato, poi
sbuffò e si passò una mano tra i capelli. Avevo l'occasione di parlargli con la
scusa di aiutarlo.
Presi
coraggio e mi avvicinai cauta, come un cucciolo di gatto spaventato.
«Serve
aiuto?» chiesi titubante.
Il suo
sguardo saettò nel mio. «No. Sto aspettando una persona.» Aveva una voce
profonda, a tratti rauca, che provocò un'ondata di calore nel mio corpo.
«Ah,
ok» balbettai appena. Stavo facendo la figura della ridicola!
Un
sorriso si aprì sul suo volto. «Sei la ragazzina che fa jogging al parco,
vero?» Ragazzina, mazzata arrivata.
Però almeno mi aveva riconosciuto!
«Sì.»
Vidi
dietro di lui un ragazzo correrci incontro. Di certo era la persona che
aspettava.
Il tipo
in questione gli si affiancò. «Scusa il ritardo» disse guardandolo, poi rivolse
il suo sguardo a me e si aprì in un sorriso. «Ciao.»
«De-devo
andare.» Girai sui tacchi e me la diedi a gambe prima di proseguire con la
figura penosa che stavo facendo.
Perché
ero rimasta così scossa da quell'incontro? Quel ragazzo non lo conoscevo per
niente; era uno sconosciuto e tale sarebbe rimasto. Ed era proprio quella la
cosa che mi metteva tristezza: non avrei potuto conoscerlo. Eppure avevo la
sensazione che doveva entrare nella mia vita, sensazione che diventava più
forte ad ogni "incontro".
Cosa
dovevo fare? Lasciar perdere era l'unica soluzione, quella logica che non mi
avrebbe permesso di restare scottata se le cose si fossero messe male. Ero in
tempo per farmi passare quella stupida infatuazione e cancellare dalla mia
mente il profilo regale dello sconosciuto che aveva occupato un posto nel mio
cuore senza neanche che me ne accorgessi; senza che avesse fatto nulla in
particolare.
Ero
ancora davanti allo specchio a guardare la mia intera figura: le scarpe da
ginnastica erano ben legate; i leggins erano abbastanza caldi per quella
giornata, e la maglia abbastanza lunga da coprire ciò che si doveva coprire; i
capelli erano raccolti in una coda alta. Insomma, ero pronta a uscire, eppure
era qualcosa come dieci minuti che mi fissavo senza dare cenno di voler
lasciare la mia camera.
Fui
riscossa da alcuni colpi leggeri alla porta. Diedi il via libera alla mia amica
che si gettò sul letto, rimbalzando due volte prima di infossarsi nel materasso
e sospirare.
«Ho un
problema» confessò a malincuore.
«Vuoi
un cane che non possiamo tenere nel palazzo?» Era di quello che si lamentava da
due intere settimane.
«Miretti.»
Un sorrisino spuntò sulle mie labbra. «Sembra geloso.»
«Allora
lo è. Ascolta, il modo in cui ti guarda potrebbe essere la causa dello
scioglimento dei ghiacciai!»
«Infatti
è così che mi sento quando mi guarda.»
«Sposato?»
«No.»
«Allora
buttati. Non si vive per sempre e per sempre non si resta single.»
Sospirò
e restò in silenzio mentre io contemplavo ancora il mio riflesso.
«Tu
quand'è che ti butterai?»
Chiusi
gli occhi e presi un bel respiro. «Cioè?»
«Il
tipo del parco. Perché non provi ad attaccare bottone?»
Non le
avevo ancora detto dell'incontro del giorno precedente. «Ieri l'ho incontrato
per caso e mi ha definito "la ragazzina che fa jogging", quindi non
gli posso interessare.»
«La tua
è solo una scusa. Non hai mai avuto intenzione di provarci.»
«Anche
se fosse, ormai è tardi. E poi non ho neanche la minima idea di chi sia. È
stata una parentesi insignificante della mia vita, punto.»
«Per
questo è mezz'ora che fissi lo specchio e non ti sei voltata neanche un secondo
a guardarmi?»
Roteai
gli occhi al cielo. Mi voltai verso di lei mettendo le mani in vita. La fissai
per qualche secondo, poi lasciai la stanza sbattendo i piedi come una bambina. Quando
non sapevo cosa controbattere, mi sentivo frustrata perché era raro che
succedesse.
Presi
l'iPod dal tavolino davanti al divano e uscii facendo le scale due a due. Il
nostro appartamento era al terzo piano, quindi non mi avrebbe fatto male
iniziare il riscaldamento in quel modo.
Appena
uscita dal palazzo, i miei piedi si mossero automaticamente in direzione del
parco. Diedi un'occhiata all'orologio e appresi che ero in ritardo di venti
minuti rispetto al solito. Due sensazioni mi assalirono: sollievo, perché forse
non avrei incontrato lo sconosciuto, e tristezza, perché forse non avrei
incontrato lo sconosciuto. Molto coerente con me stessa insomma!
Ancora
più infastidita, accelerai il passo iniziando a correre sul serio. I primi
venti minuti furono traumatici: avevo spinto troppo e mi sentivo stanca morta.
Lottai contro l'impulso di sdraiarmi sull'erba a prendere il sole per il resto
della mattinata e resistetti fino alla famosa panchina, quella che avevo
addirittura sognato. Ripensai allo sconosciuto che mi baciava dopo avermi
sorriso e il cuore batté ancora più forte di quanto già facesse.
Rallentai
fino a fermarmi al solito posto, con le mani sulle ginocchia e il fiato corto.
Stavo per morire, me lo sentivo! Restai in quella posizione finché il respiro
non tornò regolare, poi drizzai la schiena e presi il coraggio di volgere lo
sguardo alla panchina. Il cuore si bloccò all'istante e il fiato tornò a
mancarmi: lui mi stava guardando, tenendo il libro chiuso sulle gambe. Quando
si alzò, entrai in totale confusione perché non sapevo se mi stesse venendo
incontro o se semplicemente se ne stesse andando. Appena capii che era corretta
la prima opzione, sentii il bisogno di scappare lontano perché non avevo idea
di cosa volesse da me, ma le mie gambe tremanti mi stavano tradendo.
In un
attimo mi fu davanti, con un bel sorriso stampato in faccia che rendeva le sue
labbra fini. Deglutii
a fatica e cercai di ignorare il cuore che batteva violentemente contro il
petto.
«Ciao»
disse semplicemente.
«C-ciao.»
«Volevo
ringraziarti per ieri.»
«Per
cosa?»
«Per
avermi offerto il tuo aiuto.»
«Non
devi. Non ne avevi neanche bisogno...»
«È il
gesto che conta, sai?»
Un
sorriso nacque spontaneo sul mio volto. «Sì.»
«Ti
lascio alla tua corsa.» Mi fece l'occhiolino e fece per andarsene ma, per
qualche assurdo motivo a me sconosciuto, gli afferrai la manica del cappotto.
Si voltò incrociando i suoi occhi sorpresi nei miei, poi abbassò lo sguardo
sulle mie dita ancora strette alla stoffa pesante. Lasciai subito la presa e mi
schiarii la voce cercando qualcosa da dire.
«Ehm...
Scusa. Io non so...» Che figuraccia!
I suoi
occhi scuri e intensi si posarono di nuovo nei miei. «Vuoi dirmi qualcosa?»
Scossi
la testa. «N-non so perché lo abbia fatto» balbettai impacciata.
Le sue
labbra si tesero in un sorriso. «Non ci conosciamo neanche.»
«Lo
so.»
«Vorresti
conoscermi?»
Deglutii
a vuoto. «Sì.»
I suoi
occhi continuavano a scrutarmi dall'alto. «Non puoi.»
«Perché?»
«Sei
una ragazzina.»
Aggrottai
la fronte. «Ho vent'anni.»
Sgranò
leggermente gli occhi rivelando il suo stupore. «Sei comunque una ragazzina.»
«Non ci
conosciamo neanche» citai le sue parole di poco prima.
Gli
scappò un sorriso. «Non voglio conoscerti.»
Anche
se avevo previsto quella possibilità, ci rimasi comunque male.
«Pe-peggio
per te» dichiarai sembrando risoluta, e ripresi a correre.
Mentre
mi dirigevo a casa, sentivo ancora la sensazione di quella stoffa tra le dita e
un nodo alla gola che non si decideva a lasciarmi.
Nelle
due settimane successive, cambiai routine e non passai più davanti a quella
panchina perché non volevo rivedere mai più quell'uomo che era riuscito a
sconvolgermi nonostante fosse uno sconosciuto. Per fortuna lo studio, la
scrittura e la mia amica, mi tenevano impegnata abbastanza da non pensarci
troppo.
Il
mercoledì della terza settimana, presi il coraggio di riprendere il mio solito
giro perché avevo bisogno di ripercorrere con lo sguardo quel paesaggio che
tanto amavo. E poi non potevo continuare a comportarmi da stupida ragazzina
dando la soddisfazione allo sconosciuto di avermi fatto apparire una debole e
sciocca bambina.
Fare di
nuovo quella strada dopo tanto tempo, fu un sollievo e una gioia. Può sembrare
assurdo, ma mi sentivo a casa in quel parco: ogni angolo; ogni albero; ogni
cigno nel laghetto, mi facevano sentire bene. Persino quando arrivai in
prossimità della panchina e lo vidi lì seduto a leggere, mantenni la mia pace
interiore e passai oltre come niente fosse.
Mentre
tornavo all'appartamento, però, ricominciai a chiedermi perché lo sconosciuto
non avesse voluto darmi neanche una possibilità. Poi arrivai alla conclusione
che lui non sapeva di avere i miei stessi gusti in fatto di libri, per esempio;
o che prima di fare jogging passavo anch'io i pomeriggi a leggere in un parco.
Con la
mia risolutezza ritrovata, decisi che avrei dovuto fare qualsiasi per farmi
conoscere. Rimuginai e pregai per un'idea brillante, che non tardò ad arrivare.
N.d.a.:
Buongiorno a tutti! Non ho tanto
da dire, solo che sono contenta di pubblicare questa storia
perché è nata per caso e mi sono davvero divertita a
scriverla. Spero vi piaccia :3
Alla prossima ♥
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Capitolo 2 *** Un po' meno sconosciuti ***
Cap. 02 - Un po' meno sconosciuti
Un po' meno sconosciuti
Mentre fissavo la panchina, quell’idea non sembrava più così
geniale e mi sentii una stupida per aver pensato che potesse funzionare. Girai
e rigirai il libro tra le mani, poi mi convinsi a portare a termine il mio
piano. Tentar non nuoce, mi dissi
avvicinandomi alla meta.
Mi guardai in giro per controllare che non ci fosse nessuno,
poi lasciai il volume de La tempesta
sulla panchina sperando che lo sconosciuto lo aprisse.
Sulla primissima pagina bianca avevo scritto:
Tre cose che non sai di me:
1) Mi chiamo Roberta
2) Studio lingue orientali all’università
3) Sono una ragazza determinata
L’idea era quella di scegliere ogni volta un libro diverso
su cui annotare qualcosa di me e lasciarlo sulla panchina. Pregavo davvero che
il piano funzionasse perché non avevo altre idee e tentare un approccio diretto
era da escludere.
Per verificare la riuscita del mio piano, restai nascosta
dietro un cespuglio, neanche fossi una maniaca, e attesi l’arrivo del ragazzo.
Lo sconosciuto non tardò a farsi vedere e, come di consuetudine, prese posto su
quelle assi di legno che avevano visto tempi migliori. Lo vidi fissare il
libro, poi intorno a sé con fare curioso. Alla fine cedette e prese il libro.
Come speravo, lo aprì e gli nacque un sorriso sul viso che lo illuminò. Il
cuore accelerò all’improvviso perché era chiaro che il motivo della sua
allegria era quella piccola lista scritta con mano leggermente tremante.
Scosse la testa e decise di iniziare a leggere il libro che
aveva appena trovato.
Soddisfatta del risultato, tornai al mio appartamento e
cominciai a pensare a quale sarebbe stata la prossima storia che avrei scelto
per lui.
Quando due giorni dopo tornai al parco, vidi lo sconosciuto
lasciare un libro e andarsene. Aumentai il ritmo della corsa e andai subito a
vedere di cosa si trattasse. Era La
tempesta. Ne rimasi delusa perché pensavo che avrebbe gradito e si sarebbe
tenuto quel tomo.
Aprii e notai immediatamente che sotto la mia lista ce n’era
un’altra:
Tre cose che non sai di me:
1) Mi chiamo Alex.
2) Ho origini inglesi.
3) Ho 31 anni.
Quello scambio di libri durò per l’intero mese e le liste
erano diventate tante. Le avevo tutte riportate in un quaderno visto che alcuni
libri li aveva tenuti lui perché a volte era Alex a lasciare per primo un libro
sul quale dovevo rispondere io. Non volevo dimenticare niente di quello che c’eravamo
scritti e, come in quel momento, capitava che rileggessi tutto.
Su Peter Pan avevo
iniziato io:
Tre cose che amo:
1) Gatti
2) Serie televisive
3) Leggere
Tre cose che amo:
1) Leggere.
2) Guardare partite di tennis.
3) Mangiare il pudding (di qualsiasi tipo) davanti alla
tv.
Su Oliver Twist:
I tre cibi che preferisco:
1) Tiramisù
2) Cocco
3) Pizza
I tre cibi che preferisco:
1) Pudding.
2) Pasta.
3) Pizza, come te.
Uno, nessuno,
centomila lo aveva scelto lui e
aveva lasciato la sua lista per primo:
Tre cose che non mancano mai nel mio guardaroba:
1) Cravatte.
2) Camicie.
3) Jeans.
Tre cose che non mancano mai nel mio guardaroba:
1) Jeans
2) Tenuta da jogging
3) Gonne
Quando poi aveva scelto Mansfield
Park, mi ero sentita felice come una bambina!
Tre cose che odio (curioso di sapere le tue):
1) Le medicine.
2) Il traffico cittadino.
3) La pubblicità, soprattutto televisiva.
Tre cose che odio:
1) Fare la fila
2) Trovare il barattolo della Nutella vuoto nella
credenza (la mia amica/coinquilina se la finisce sempre)
3) Lo sbiascicare di qualcuno che mangia
Poi era stata la volta de Il piccolo principe, che avevo lasciato io:
Tre cose che ancora non sai:
1) Diplomata in lingue con punteggio 100/100
2) Ho un fratello minore che si chiama Manuel
3) Scrittrice a tempo perso
Tre cose che ancora non sai:
1) Laureato in psicologia infantile.
2) Figlio unico.
3) Fotografo a tempo perso.
E alla fine c’era stato I
passi dell’amore, che mi aveva lasciato sulla panchina il giorno
precedente, con questa lista che mi aveva procurato un batticuore da film d’amore:
Tre cose che vorrei sapere:
1) Ti piace la cucina giapponese?
2) Sei libera il 28?
3) Posso invitarti a cena?
Dato che non avevo ancora risposto, ripresi il libro. Cercai
la penna che usavo sempre e aggiunsi la lista, per poi correre al parco e
consegnare il libro a quello sconosciuto che tanto sconosciuto non era più.
Le tre cose che vuoi sapere:
1) Sì, molto
2) Nessun impegno
3) Non aspettavo altro...
N.d.a.:
E
con questo capitolo si è conclusa la storia di questi due
sconosciuti. Originariamente doveva essere una one-shot, ma scrivendola
ho sentito di doverla dividere in due capitoli. Spero vi sia piaciuta e
che abbiate apprezzato. Grazie ♥
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