Libre - Libero

di aturiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Libero da ormeggi ***
Capitolo 2: *** Libero da segreti ***
Capitolo 3: *** Libero da nodi ***
Capitolo 4: *** Libero dal silenzio ***



Capitolo 1
*** Libero da ormeggi ***


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La parte più difficile di una storia è iniziarla. Come si può afferrare con esattezza l’origine di tutto? Esiste davvero un “c’era una volta” in un racconto di vita reale? Io non credo: si dovrebbe prima parlare della nascita dell’individuo in questione, per poi passare alla storia di genitori, nonni e antenati – giusto per dare un’idea generale –, poi raccontare brevemente dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità del suddetto, accennare magari a qualche episodio che lo ha segnato particolarmente, che lo ha formato, poi chiarire qual è il reale scopo per cui si sta scrivendo proprio di lui e non di un altro e infine concludere con un “the end” dal gusto un po’ retrò. Ma basta tutto ciò? No, a mio parere per racchiudere davvero l’incipit di ogni cosa, si dovrebbe partire dall’origine dell’universo e io non ho né tempo né, tanto meno, voglia di farlo, per cui inizierò a narrare ciò che voglio dalla fine – almeno quella è certa -, e poi risalirò il corso degli eventi fino a giungere al punto in cui le mie dita e la mia mente saranno esauste o, semplicemente, finché mi garba.
Ed ecco a voi come la storia si concluse…



****


 
Giorno 0, Parigi
È proprio vero che le cose si apprezzano meglio in certi momenti della vita, piuttosto che in altri.
Stéphane se ne stava sdraiato su un divano a tre posti, con una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e un disco in vinile messo nel suo bravo giradischi. Non sapeva perché, ma in quel pomeriggio qualsiasi la musica classica gli piaceva più di quanto non lo facesse in un pomeriggio qualsiasi del mese prima. Era forse dovuto a tutto ciò che era successo? Ne dubitava. Si alzò dal divano e incominciò a girare per la stanza, senza uno scopo preciso eppure con l’intenzione di trovarne uno. Si affacciò quindi alla finestra e lasciò vagare lo sguardo per la città che circondava come un abbraccio sgradito la sua abitazione, soffermandosi di tanto in tanto su un viso particolare o un colore piuttosto acceso che, tra il grigiore generale, poteva essere anche un banalissimo verde oliva.
Non gli mancava per niente o, almeno, non gli mancava come avrebbe dovuto, non lui. Era una cosa strana da pensare dopo ben due anni di relazione, ma era la verità e non aveva intenzione di rinnegarla. Chissà cosa faceva la gente normale quando troncava in modo simile un rapporto; probabilmente avrebbe seguito i famosi Six degrees of separation (1) descritti in quella - noiosa - canzone dei The Script, partendo quindi da un first, you think the worst is a broken heart, passando poi alla seconda parte che avrebbe dovuto ucciderti, e poi al terzo punto, con is when your world splits down the middle, eccetera eccetera. Però lui non era una persona normale, o così gli altri avevano sempre pensato di lui.
E dunque era rinchiuso in quella carina – ma solamente dal suo punto di vista, poiché era piena di muffa e cattivo odore – stanza di un appartamento in affitto che fino a poco tempo prima non era frequentato solo da lui, ma anche da qualcun altro e ascoltava musica classica su un disco in vinile, fumava una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e non aveva nessun rimpianto.
Era un po’ come una diva di Hollywood - una alla Marylin Monroe -, oppure come una donna vissuta, una bella e irraggiungibile femme fatale alle prese con la fine di una delle sue tante e tormentate storie d’amore. Stéphane, in quel momento – ma non solo –, appariva proprio come quel ragazzo insensibile e stronzo che tutti disegnavano, senza un minimo di cuore e senza qualcosa che assomigliasse vagamente al calore.
Camminava per la stanza, con gli occhi che pesavano per l'assenza di rimpianti, di rimorsi o di qualsiasi vero e reale sentimento comune: l'unica cosa che sognava, ora, era la sensazione del viscido grasso per motori tra le dita e del secco sapore delle sigarette nella gola.
Forse sì, un po’ di nostalgia la provava, un po’ di rabbia per ciò che lui aveva fatto, un po’ di rimpianto, ma comunque non abbastanza da fargli alzare la cornetta di quello stupido telefono e chiamarlo per perdonarlo o anche solo per mandarlo a quel paese. Era sempre stato una persona orgogliosa e l’unica volta in cui aveva abbandonto quell’estrema difesa tutto il marciume da cui, fino a quel momento, lo aveva protetto, si era riversato contro di lui, investendolo in pieno e lasciandolo agonizzante. Insomma, non ci sarebbe più cascato, neppure per due anni di relazione.
Ormai la sua sigaretta era finita, quindi la spense, la posò nel posacenere e rovistò nelle tasche finché non trovò un pacchetto di Marlboro rosse tutto schiacciato e irrimediabilmente vuoto.
«Ma porca puttana».
Il ragazzo si alzò dal divano, si infilò le scarpe, afferrò le chiavi e uscì di casa sbattendo la porta, il vinile ancora che ruotava nel giradischi.
Non tornò più in quell’appartamento in affitto. C’è chi dice che sia morto, chi suggerisce che sia tornato dai genitori, chi invece insinua che abbia avuto paura di restare in quel luogo pieno zeppo di ricordi. A me personalmente piace credere che abbia finalmente coronato il suo sogno: raggiungere in barca a vela le coste dell'Australia, percorrendo mezzo mondo e, una volta arrivato nel Paese dei canguri – come lo chiamava sempre lui –, rimanerci.
Ma sono supposizioni: d’altronde, quel viaggio, non avrebbe voluto compierlo da solo.

 
****

Era assurdo come le cose più belle finissero sempre nel peggiore dei modi: il motivo per cui Maurice se ne stava seduto sul divano come se non vibrasse nemmeno un briciolo di vita nelle sue membra era che una delle sue preziose “cose belle” si era conclusa e, lo sapeva, per sempre. Due anni della sua vita andati in fumo, così, tutti a un tratto. E il bello era che aveva deciso proprio lui di scrivere le ultime tre lettere, fin, “fine”.
C'est fini, pensava, et à cause de moi (2). Non provava nessun senso di liberazione, nessun sollievo per essersi finalmente liberato di una persona che, ormai, gli causava solo del male. Eppure, un po' come quelli che dipendono da una sostanza che sta rovinando loro la vita, provano ancora più dolore quando non ne fanno più uso, tutte le sensazioni negative degli ultimi mesi gli sembravano piccolezze rispetto alla tristezza totalizzante che albergava ora nel suo cuore. Il colmo, davvero.
Era finito tutto così in fretta, con una sola parola: basta. Aveva detto basta alle litigate, alle bugie, alla tristezza, ai pianti di entrambi, ma aveva detto basta anche alle uscite romantiche, o ai film sul divano, aveva detto basta ai baci e al sesso, agli sguardi lunghi e intensi, ai silenzi e alle parole, a così tante cose che probabilmente solo elencarle avrebbe fatto correre Maurice da quello che era stato il suo pètit ami (3) e dirgli che aveva sbagliato a lasciarlo e che sì, voleva disperatamente tornare insieme a lui. Ma non poteva farlo perché... beh, lo amava ancora, come si ama un pezzo del proprio cuore; aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di fare ciò che l'altro, per paura e vigliaccheria, si era rifiutato di compiere. L'aveva detta lui la parola “basta” e adesso doveva subirne le conseguenze, le stupide conseguenze del suo stupido amore.
Ora l'unica cosa che gli restava da fare era ritornare alla sua routine, riprendere in mano la sua vita come se gli ultimi due anni non fossero esistiti e ricominciare a sorridere come sempre. Aveva un solo giorno a disposizione per portare a termine tutti questi compiti e solo un giorno per riprendersi dal dolore della perdita: l'indomani sarebbe dovuto andare a scuola e i bambini capiscono meglio di chiunque altro se sei felice davvero o se stai solo fingendo; chissà se il piccolo Nathan avrebbe spalancato quei suoi occhioni che tendevano pericolosamente al viola e gli avrebbe chiesto se ci fosse qualcosa che non andava, chissà se lui sarebbe riuscito a sorridere e a dirgli che no, tutto andava bene, e chissà se il bambino ci avrebbe creduto.
A Maurice non piaceva mentire ai suoi bambini, tuttavia desiderava ancor meno farli preoccupare e, certamente, dire che il proprio cuore in quel momento aveva le sembianze di una statuetta di porcellana che era stata lanciata con violenza dall'ultimo piano di un palazzo e che si era schiantata, poi, sul cemento non era esattamente il modo perfetto per evitare che una creaturina di otto anni facesse domande. Solo in quel momento il ragazzo capì perché fare l'insegnante di una scuola elementare era così complicato: non era per il perenne rumore che ventidue bambini potevano causare, non era nemmeno sentire il peso enorme della responsabilità che lui, Maurice, aveva sulle loro vite e sulla loro istruzione e neanche l'impegno costante che dovevi impiegare per far sì che i piccoli studenti non si annoiassero troppo alle lezioni, ma era essere sempre allegro, sorridere e ridere anche quando non si aveva voglia di farlo... e mentire.
Ma guarda, pure dopo che ci siamo lasciati mi insegni qualcosa di nuovo. Accidenti a te, stupido.
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli castani e si asciugò le lacrime anche se inutilmente, visto che altre continuavano a scendere, inesorabili.
Forse domani è meglio che prenda un giorno di permesso.
E, pensato ciò, alzò la cornetta.

 
****

Aloïs era chiuso in bagno da tempo, convinto che la sua vita facesse schifo. L'acqua lambiva leggera la sua pelle e la bruciava un poco per la sua elevata temperatura. Non si capacitava del fatto che lui lo avesse lasciato, che avesse sussurrato poche parole e che queste fossero bastate per farlo stare zitto come sempre e uscire di casa. Non sapeva perché l'avesse fatto, sarebbe dovuto essere lui stesso a lasciarlo, non lui: così non aveva proprio senso.
Certo, da una parte era meglio che fosse finita in quel modo, finalmente si sentiva libre, libero, ma non era la sensazione che si era immaginato: era libero da ormeggi, libero da ancore o da qualsiasi altra cosa che lo legasse alla terraferma, ma ora era anche in completa balia dell'acqua e dei suoi capricci e si stava fondendo con essa, stava perdendo la cognizione di sé. La sua ancora l'aveva abbandonato e, nonostante avesse sognato giorno e notte che questo accadesse, ora si sentiva semplicemente una persona insensibile e inutile: aveva permesso che il suo, ormai, ex pètit ami lo lasciasse al posto suo e, soprattutto, aveva desiderato che lo facesse per non sentirsi in colpa per ciò che aveva fatto. D'altronde gliel'avevano sempre detto che era un ragazzo insensibile e, in fin dei conti, cattivo: non doveva stupirsi, quindi, di ciò che provava e la confusione che infuriava nella sua mente era del tutto meritata.
Ora che finalmente aveva il via libera per fare ciò che voleva, aveva paura di aprire la porta del bagno e toccare chi per mesi aveva bramato di avere totalmente per sé senza doversi preoccupare di altri. Aveva bisogno del suo tempo per scusare sé stesso e per mettere a tacere il “basta” che continuava a rimbombare nella sua testa, come una cantilena di cattivo gusto; così facendo stava però ferendo di nuovo qualcuno che amava e da cui era amato: ma tanto lui era così, una mauvaise personne (4), e niente l'avrebbe mai cambiato.
Solo l'acqua lo capiva, solo lei lo accoglieva come un figlio con tutti i suoi difetti e solo lei poteva dargli sollievo; vi affondò completamente il suo corpo, chiuse gli occhi e sperò di addormentarsi per sempre, anche se sapeva che, naturalmente, non sarebbe accaduto: c'era qualcuno dietro a quella porta che lo aspettava e lui, per questa volta, avrebbe tentato di non deluderlo.
Uscì quindi dalla vasca e aprì l'ingresso del bagno, senza curarsi minimamente delle gocce che colavano lungo il suo corpo atletico e che bagnavano il pavimento.
Due occhi lo incontrarono e sorrisero. Era a casa.

 
****

Perché si fosse rinchiuso nel bagno proprio non lo capiva: ora potevano stare insieme, potevano avere la vita che da sempre avevano desiderato e lui era dentro quel cazzo di bagno da circa centrotrentasei minuti. Troppo tempo certamente per fare un bagno, ma abbastanza per commettere qualche stupidaggine. Rémy non aveva idea di cosa stesse facendo il suo garçon bien-aimé (5) in quelle quattro mura, ma aveva la sensazione che non stesse accadendo nulla di piacevole, non per loro almeno.
Aveva lottato mesi per liberare le sue ali, troppo sporche di fango per prendere il volo, e aveva lottato mesi perché lo spirito naturalmente libero di Aloïs prendesse il largo e si allontanasse dalla persona che lo aveva ancorato a terra per anni... eppure, da quando finalmente il suo scopo era stato raggiunto, nemmeno un contatto fisico era avvenuto tra i due, nemmeno un singolo sguardo. Che non si amassero davvero? Che fosse tutta un'illusione, una mera passione fisica scattata per il gusto del proibito, una sensazione di nostalgia senza senso? Ma no, non era possibile, non era assolutamente pensabile che fosse solo quello, che tutto quel tempo trascorso a sognare di essere liberi e di poter stare insieme fosse solo un capriccio.
Ma Rémy era certo questa volta, era sicuro di aver fatto la scelta giusta. E se quello stronzo insensibile di Aloïs non l'avesse capito, ci avrebbe pensato lui a spiegargli ogni cosa, a farlo ragionare: si perdeva in un bicchier d'acqua, quel ragazzo, e vi ci affogava, nonostante fosse un campione del nuoto.
Ammetteva che tutto quello che aveva fatto non era stato solo per Aloïs, però: la presenza soffocante di lui lo aveva quasi distrutto e, ora che era riuscito a inserire la parola “fine” a tutto ciò che erano stati, poteva finalmente prendere un respiro e andare oltre, superando quel legame al limite del morboso che li aveva uniti. Nonostante ciò, tuttavia, lo amava ancora e questo suo sentimento era – ne era certo - ricambiato... ma adesso non gli interessava: non si cancella un amore, mai. Lo si supera con un altro e si va avanti.
Proprio mentre Rémy stava per perdere definitivamente la pazienza e andare a bussare con insistenza alla dannata porta del bagno, ne uscì Aloïs. I suoi capelli neri erano incollati al viso, tra le lunghe ciglia si erano incastonate gocce d'acqua e ogni centimetro della sua pelle era bagnato fradicio. Ed era nudo, come un ver (6) avrebbe detto qualcuno, come une statue (7) pensava invece lui. Faticava a capacitarsi del fatto che quel corpo che tante volte aveva preso all'insaputa di tutti ora fosse suo anche agli occhi degli altri, tuttavia il pensiero che ora, finalmente, c'era riuscito lo fece sorridere; Aloïs era suo e lo sarebbe stato per tanto, tanto tempo.
Si avvicinò al ragazzo e gli afferrò le mani; inizialmente gli parve che Aloïs volesse allontanarsi, ma doveva essere stata solo un'illusione perché, pochi secondi dopo, strinse le sue lunghe dita alle sue e alzò gli occhi a guardarlo. A volte gli accadeva di perdersi nel suo sguardo cristallino, trasparente come una lama di ghiaccio e altrettanto imperturbabile, ma in quell'istante non accadde: semplicemente vi si specchiò e lo riempì dell'immagine di sé, quindi lo baciò.
Ti amo, Aloïs, e non ti lascerò andare via da me.






 

Note:
1 → canzone dei The script che potete trovare, con testo e traduzione, qui.
2 → è finita, e a causa mia.
3 → fidanzato.
4 → persona malvagia, malevola.
5 → ragazzo molto amato.
6 → un verme.
7 → una statua.

Come al solito ho adattato i nomi dei protagonisti al luogo e al tempo in cui sono stati “proiettati”.
Aloïs → Haruka
Maurice → Makoto
Stéphane → Sousuke
Rémy → Rin
Nathan → Nagisa

La prima parte, quella in corsivo, è una piccola introduzione alla storia, per far capire meglio lo svolgersi della narrazione che procederà a ritroso per la maggior parte della storia, ma in alcuni punti andrà per il “verso giusto” per far capire meglio i vari avvenimenti e la loro collocazione nel tempo. Inoltre, le indicazioni di tempo a inizio di ogni capitolo/paragrafo (in questo caso “giorno 0”) indicano quanto manca al momento in cui Aloïs e Rémy riescono a stare insieme. In ogni capitolo ci sono quattro POV: quello di Stéphane, quello di Maurice, quello di Aloïs e quello di Rémy.
La storia è ambientata nella Parigi di oggi ma premetto che, anche se ho cercato di inserire indicazioni spaziali ben precise, non ci sono mai stata, quindi mi sono basata semplicemente su Google Maps xD.
Vorrei dire inoltre che questo primo capitolo in realtà è stato liberamente tratto – nel senso che ho mantenuto praticamente invariato solamente la prima parte, quella di Stéphane – dal primo capitolo di una mia long che avevo iniziato a scrivere e pubblicare tempo fa ma che, per miei motivi personali, non ero riuscita a portare avanti e quindi ho eliminato dal sito. In realtà si trattava di una long originale, con tutti altri personaggi e con tutt'altra trama, ma la struttura narrativa che va all'indietro l'ho mantenuta.
Infine consiglio di utilizzare la canzone che ho messo sotto il titolo come colonna sonora della fic. Non ha un ruolo centrale, inizialmente, ma più si va avanti, più diventa comprensibile la sua funzione. Poi la trovo davvero bella e i suoni dolci e malinconici, a mio parere, sono molto in sintonia con i temi della storia!

Questo capitolo, come anche i seguenti, è stato betato da IseyZ, che ringrazio infinitamente per il suo lavoro!

Aturiel

 

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Capitolo 2
*** Libero da segreti ***


Giorno -98, Parigi
Se gli avessero chiesto quanto denaro avrebbe scommesso sulla fine della loro relazione, probabilmente li avrebbe mandati al diavolo. Quello era uno di quei momenti in cui sentiva che quella testa calda mai l'avrebbe mollato, fosse per desiderio o per amore vero era indifferente per lui, ma sapeva che non avrebbe mai avuto abbastanza fegato. Insomma, chi mai avrebbe avuto il coraggio di andarsene dopo aver fatto tre volte sesso con la stessa persona, e per lo più nella stessa giornata? Non lui, no di certo.
Rémy aveva qualcosa dentro di sé con la capacità di fargli perdere totalmente il controllo delle proprie azioni; smetteva di ostentare quella falsa aria da bel tenebroso o quell'orgoglio assopito, troppo pigro per uscire fuori in ogni occasione, e prendeva possesso di quel ragazzo in ogni modo possibile, senza dargli il tempo nemmeno di fiatare. Era così fra loro: un incontro di genitali, qualche gemito, un paio di baci – sulle labbra o altrove – molti strattoni, molti morsi e due sigarette a testa, una per riprendere il contegno e l'altra per assaporare il gusto del fumo.
Poi, ovviamente, qualcosa cambiava sempre di volta in volta, altrimenti la noia sarebbe stata davvero troppa. E né Stéphane né Rémy sopportavano la noia; chissà, forse era proprio per quello che si erano trovati.
Comunque, tornando al discorso di prima, Stéphane non avrebbe scommesso un mezzo tappo di sughero che quella sua creatura dalla zazzera rossa l'avrebbe lasciato a breve... ed era questo il problema. Il sottile pensiero di poterlo abbandonare per sempre si era insinuato nella testa di Stéphane e, nemmeno mentre era aggrovigliato fra le lenzuola che odoravano di sesso – del loro sesso –, questa infida idea si placava. Avrebbe potuto alzarsi, vestirsi e far finta di nulla, uscire dalla stanza, dall'appartamento, dalla città e poi sparire, così, come se nulla fosse successo. Non ci sarebbe voluto tanto e Rémy non avrebbe potuto mettere becco in alcun modo nella faccenda: se c'era una cosa che apprezzava di lui era che non aveva mai pensato che una relazione più o meno ufficiale gli permettesse di avere una qualche voce in capitolo nella sua vita; loro si desideravano e, sì, probabilmente si amavano anche, ma questo non aveva nulla a che fare con tutto il resto. Era un “a prescindere” a cui Stéphane non avrebbe mai rinunciato.
Se la ricordava ancora la prima volta che si erano incontrati in quell'officina dove lavorava, la Moteurs de nuit, quella che faceva angolo con rue Saint-Sulpice e che aveva chiuso dopo che uno dei dipendenti si era scordato la fiamma ossidrica accesa; l'odore dell'olio per macchine che opprimeva l'aria si mischiava a quello della vernice e del sudore e gli odori, a loro volta, diventavano tutt'uno con una voce. Era strana, quella voce, era acuta per un uomo, ma roca, forte e intensa; a volte diventava quasi stridula, altre pareva fin troppo profonda, ma in entrambi i casi sovrastava il rombo dei motori. Il perché? Era convinto che qualcuno avesse infilato le mani nella tasca del sedile posteriore e gli avesse sottratto – o, come lui si ostinava a dire, fottuto – il portafoglio. Stéphane si ricordava anche che avrebbe voluto dirgli che era proprio un couillon, un coglione, se lasciava i suoi soldi nella tasca del sedile posteriore dell'auto che aveva portato a riparare, ma non l'aveva fatto, un po' perché non era mai stato quel tipo di persona che si impicciava nelle questioni altrui, un po' perché i suoi muscoli tesi dalla rabbia, il leggero velo di sudore sulla fronte, i capelli scarmigliati e il rossore sulle gote fornivano uno spettacolo piuttosto gradito.
Alla fine, però, si era stancato di vedere la povera Elise scuotere la testa imbarazzata e cercare con lo sguardo l'aiuto di qualcuno, quindi era uscito da sotto il ventre della Mercedes su cui stava lavorando e si era diretto al bancone, con la sua solita aria da spaccone; poi aveva detto, con il suo miglior tono da “dimmi una parola sbagliata e scoprirai l'effetto che fa una chiave inglese lanciata sulla tua testa di cazzo”: «Ci sono problemi?»
E il bello era che quella zazzera di capelli rosso fuoco non era rimasta nemmeno un po' impressionata dalla sua comparsa, neanche quando aveva notato i cinque centimetri in più di altezza del suo avversario e i tre in più di circonferenza del bicipite. Anzi, si era voltato, ancora più teso di prima, e gli aveva urlato contro tutti gli insulti possibili, immaginabili e pronunciabili, per poi uscirsene con una minaccia di denuncia per furto.
«Voglio sapere almeno chi è che ha messo le mani sulla mia auto. Sicuramente è lui che si è fottuto il mio portafoglio» aveva gridato, poi, contro la povera Elise. Quindi Stéphane aveva alzato il mento con fare di sfida e aveva risposto, sempre osteggiando un'aria tranquilla e, proprio per questo, ancora più minacciosa: «Penso sia stato il fratello del proprietario, Moïse. Comunque le consiglierei, prima di andare a piantar grane dalla polizia, di guardare che non sia caduto da qualche parte».
Rémy aveva fatto quindi una buffa smorfia e si era diretto a grandi falcate verso la sua auto. Si era guardato tutt'intorno, sbuffando, ma poi, quando aveva infilato una delle mani sotto il sedile, era improvvisamente diventato silenzioso. Stéphane si era avvicinato e, vedendo che l'altro aveva fra le dita proprio il portafoglio che aveva ritenuto rubato, gli aveva sussurrato: «La prossima volta controlli, prima di accusare qualcuno di furto» e poi, godendosi un poco l'espressione di profondo imbarazzo dell'altro, lo aveva guardato con aria di rimprovero.
La cosa più divertente era che ora sapeva che quell'espressione fra l'adirato e l'imbarazzato, le gote rosse e i muscoli tesi era molto simile a quella che mostrava ogni volta che facevano sesso. Era stata una scoperta davvero interessante e forse era per quello che si impegnava ogni volta per provocargli quelle emozioni contrastanti, anche fuori dal letto.
Infine, dopo aver chiarito, Rémy aveva offerto un caffè a lui e a Elise.
«Oh, lei è molto gentile, ma non posso lasciare le mie mansioni» aveva detto la ragazza, defilandosi, probabilmente ancora impaurita dalle minacce del ragazzo. Invece Stéphane aveva accettato di buon grado e l'aveva seguito nel bar di fronte.
Avevano parlato del più e del meno, poi Rémy aveva posto la domanda sbagliata alla persona giusta e tutto era cominciato: «Ma tu ed Elise state insieme?»
Stéphane era certo di aver riso di gusto e il suo divertimento si era prolungato vedendo l'espressione stranita del suo interlocutore. Quindi aveva risposto con un malizioso: «No, certo che no. Io ho altri gusti». Chiunque avrebbe capito subito l'allusione, ma non lui. C'erano voluti alcuni secondi perché realizzasse ciò che gli stava venendo detto e, quando lo comprese, il suo viso si era completamente trasformato; Stéphane aveva pensato che sarebbe diventato rosso come i suoi capelli, o che avrebbe distolto lo sguardo, e invece aveva fissato quegli occhi scuri nei suoi e l'aveva guardato intensamente. Infine – cielo, gli scendeva ancora il sangue al bassoventre a ripensarci! - aveva spostato la sua attenzione altrove, ma, con un gesto allusivo, si era sfiorato le labbra.
A quel punto Stéphane non aveva resistito e, con voce roca, gli aveva detto: «Mh, senti... e se ce ne andassimo da questo posto?» e l'altro, come previsto, aveva acconsentito.
Molti gli chiedevano come facesse a capire con chi provarci e con chi no, anche perché, per quanto Parigi avesse la fama di città libertina, anche tra quelle strade c'era della feccia omofoba e, nonostante sapesse bene come difendersi, avrebbe comunque preferito non avere nulla a che fare con qualcuno di quella stregua. Lui solitamente, come risposta, si limitava a una risata misteriosa, o al massimo con una “non so” vago, ma la verità era che lo capiva dall'odore. Poteva sembrare strano, ma quelli con cui ci provava avevano un forte odore di maschio, di homme, addosso. E, fra tutti quelli con cui aveva cercato di andare a letto, quel Rémy era quello in cui questa caratteristica si sentiva di più.
Stéphane si rigirò nelle coperte, approfittandone per accarezzare con una sorta di venerazione la linea affusolata del fianco del suo amante; era così bello in quella posizione, elegante eppure mascolino. C'era qualcosa di particolare nella curva che formava il suo corpo quando si accoccolava tutto da una parte e gli mostrava le spalle, quasi come se si stesse proteggendo da lui.
Anche allora, appena avevano finito di fare sesso, lui si era girato dall'altra parte e si era addormentato quasi subito, come un gatto.
La cosa lo irritava, quasi: gli dava tutto durante l'atto, perdeva ogni contegno, eppure, appena concluso, si staccava da lui e non lo guardava mai negli occhi finché non veniva il momento di salutarlo. Una volta aveva provato a girarlo di forza, ma la sua espressione era stata così spaventata e adirata che non ci aveva più provato: era un vero peccato.
Chissà perché, poi, quel ragazzo sembrava temerlo tanto in quel momento: che pensasse che avrebbe potuto fargli del male? Eppure ogni volta che si scontravano in qualche modo, che litigavano o si sfidavano mai l'aveva visto retrocedere, nemmeno di un centimetro; non era mai rimasto impressionato dai suoi modi fin troppo burberi e non aveva fatto scenate da ragazzina se, qualche volta, superava un po' il confine tra dolore e piacere mentre facevano l'amore. Era tutto d'un pezzo, Rémy, eppure dopo aveva paura di lui. Scosse la testa, sconsolato: probabilmente non avrebbe mai capito appieno cosa passasse per quella testa rossa.
Finito di pensare a ciò che era e sarebbe stato di loro, si alzò, come sempre, dal letto e accese una delle sue adorate Marlboro rosse. L'odore si diffuse, pungente, in tutta la stanza, tanto che anche Rémy si svegliò. Senza dire una parola, afferrò il pacchetto quasi pieno abbandonato fra le lenzuola sfatte e prese anch'egli una sigaretta portandosela alle labbra. Stéphane, senza guardare, aprì la fiamma dell'accendino e ne bruciò la punta. Ora le sigarette accese erano due e durarono esattamente lo stesso tempo. Era un rito, per loro, quello del tabacco e della nicotina, del fuoco che bruciava la punta della carta e del fumo che sporcava le prime falangi delle loro dita e non vi avrebbero mai rinunciato, anche se Rémy continuava a dire che aveva intenzione di smettere. Appena conclusa la prima, Stéphane ne accese subito dopo una seconda e porse l'accendino al suo amante, ma l'altro, per la prima volta in due anni, lo rifiutò.
Il ragazzo dagli occhi verdi lo guardò, stupito, cercando risposta nell'espressione dell'altro, tuttavia l'unica cosa che vi trovò era tristezza, un'immensa tristezza. Aveva fumato la prima sigaretta, quella per ritrovare il contegno, ma non la seconda, quella per assaporarne il gusto: qualcosa stava cambiando, se non era già cambiato e a Stéphane non piaceva per nulla.

 
****

Maurice si svegliò di buon'ora quel sabato, tanto presto che nemmeno Aloïs aveva ancora aperto gli occhi, e lui era una persona decisamente mattiniera. Si alzò dal letto che condivideva con il suo amato pètit ami e si diresse in cucina, con la volontà precisa di fare qualcosa di gradito per il suo compagno. Si mise a cucinare, il più silenziosamente possibile, dei piccoli muffin semplici, di quelli che, senza niente sopra, non sanno quasi di nulla. Aloïs stava vivendo uno di quei periodi che, nella vita adolescenziale di una ragazzina, probabilmente sarebbe corrisposto alla fine di una relazione con un ragazzo piuttosto importante: ogni volta che passavano per caso in rue Bonaparte, si fermava a fissare la vetrina della pasticceria Pierre Hermé e lasciava che Maurice procedesse, senza preoccuparsi di fermarlo. Quello che ne aveva dunque dedotto era che, sì, Aloïs aveva voglia di dolci.
Sfornò i piccoli muffin, cercando di non bruciarsi, quindi prese il tubetto di panna spray che conservava nel frigo e ne spruzzò una grande quantità su ognuno decorandoli infine con dei frutti di bosco che aveva comprato al mercato proprio il giorno prima. Soddisfatto del risultato, entrò in camera, aprì le tende per farvi entrare qualche raggio di quel caldo sole che stava illuminando le vie parigine e svegliò, quindi, il suo ragazzo. Si godette i suoi occhi che si aprivano lentamente, il riflesso della luce nelle sue iridi chiare, l'espressione un po' scocciata che deformò le sue labbra sottili e i capelli scompigliati. Era bellissimo, anche appena sveglio.
Maurice, dopo aver aspettato il tempo necessario per cui l'altro si abituasse al cambiamento improvviso di luminosità, disse: «Buongiorno, Aru».
Le tre lettere rotolarono dolcemente sulla sua lingua e gli portarono alla memoria – come tutte le volte che pronunciava quel soprannome – il loro breve soggiorno in Giappone. Quando erano ancora semplici amici – quindi circa due anni prima – avevano deciso di partire da Parigi e trascorrere una settimana in quel luogo che, per loro, era così esotico. Avevano preso due biglietti per il volo delle cinque, quello meno caro, e, circa diciassette ore dopo, avevano messo piede sulla terra del Sol Levante. Il primo giorno se l'erano cavata con il loro inglese stentato, il secondo avevano fatto amicizia con un certo Rei, un ragazzo tutto impettito che però conosceva alla perfezione il francese, che aveva fatto loro da guida turistica per il resto della permanenza. La cosa divertente era che, nonostante il giapponese avesse davvero un'ottima conoscenza della loro lingua, non riusciva a pronunciare il nome di Aloïs che, nelle sue labbra, si trasformava ogni volta in qualcosa come “Aruis”, con una “r”, tra l'altro, che di francese non aveva proprio nulla.
Alla sera del secondo giorno, i tre si erano messi d'accordo che, esattamente alle otto e un quarto di mattina, Rei si sarebbe fatto trovare sotto il loro albergo e, insieme, sarebbero andati a visitare il Santuario Meiji. Il problema era stato che, proprio quella sera, Maurice aveva preso tutto il suo coraggio a due mani e aveva chiesto ad Aloïs di farlo entrare per qualche minuto nella sua stanza per potergli parlare prima che andasse a dormire. Era stato un discorso lungo, che era partito dalla loro infanzia insieme, che poi era arrivato a parlare della frequentazione della stessa scuola media e superiore, della breve – e dolorosa – separazione di circa un anno che avevano dovuto subire quando la carriera agonistica di Aloïs aveva avuto un'impennata improvvisa e, infine, del loro nuovo incontro a Parigi. Aveva ricordato mille e un momento felice, alcune litigate, gli scherzi e la loro complicità, e poi aveva detto la fantomatica frase: «Dal momento in cui ti ho rivisto tornare a casa, Aloïs, ho capito che ciò che provo per te non è mai stato solo affetto, che ho sempre desiderato di più da te, da noi... io ti amo, ti ho sempre amato» ed era rimasto, a occhi bassi e con le guance leggermente colorate di rosso, in attesa di una risposta. Il bello era che l'altro, senza dire mezza parola, come al suo solito l'aveva stupito: aveva preso il suo viso squadrato e imbarazzato e aveva costretto le sue labbra a baciarlo. Dopo il primo momento di indecisione, l'altro aveva approfondito il bacio e il resto... era venuto da sé.
La mattina seguente, però, alle otto e un quarto erano ancora nel letto, completamente nudi e con i corpi intrecciati, ed era stato davvero scioccante per loro sentire, alle otto e diciassette, la voce di Rei urlare dalla strada: «Aruuuuu, Mauriiiice, voulez-vous descendre, idiots? (1)». Da quel momento Aloïs era diventato “Aru” per Maurice, anche se sapeva perfettamente che lo infastidiva moltissimo sentire il suo nome storpiato. Ma a lui non interessava: gli portava alla memoria tutti quei bei ricordi e nemmeno l'espressione di disappunto di Aloïs avrebbe potuto impedirgli di chiamarlo in quel modo.
Anche quella mattina Aloïs storse leggermente il naso a sentire quel soprannome, ma, come sempre, non disse nulla. Maurice si chinò quindi su di lui e gli rubò un bacio a stampo che, però, l'altro non ricambiò.
Deve essere ancora un po' nel mondo dei sogni, pensò Maurice alla reazione fredda di lui, perciò non si preoccupò e, anzi, si distese di nuovo nel letto vicino a lui. Ma, quando l'altro cercò di non farsi toccare, non riuscì a fare a meno di chiedergli preoccupato: «Che hai, Aru?»
«Stavo facendo un sogno».
«Un incubo?»
«No, un bel sogno» gli rispose e lo sguardo si andò a posare fuori dalla finestra, lontano come non mai. Maurice non capiva: perché sembrava così triste se il suo era stato un bel sogno?
«Senti, Aru, ti ho preparato la colazione» sviò quindi, con un sorriso rassicurante. Eppure la sua dolcezza non parve avere l'effetto sperato, anzi, l'espressione del suo compagno divenne ancora più tetra. Non si diede per vinto e si diresse in cucina, per poi portargli i suoi muffin con la panna e i frutti di bosco a letto. L'altro lo fissò stupito, quindi chiese: «Perché mi hai fatto dei muffin?»
«Perché tutte le volte che passiamo per rue Bonaparte tu ti fermi sempre a guardare i dolci in vetrina, quindi ho pensato che...-» iniziò, ma si fermò immediatamente appena vide gli occhi di Aloïs: erano spalancati, e non dalla sorpresa positiva che aveva sperato, ma in un modo molto simile al terrore. Sembrava che volesse iniziare da un momento all'altro a piangere, o forse ad urlare. Non lo sapeva.
«Ma non devi mangiarli per forza, eh» disse subito, rassicurante «se non ti vanno, non preoccuparti. Li porto lunedì ai bambini...» ma si interruppe nuovamente, vedendo che Aloïs aveva afferrato uno dei muffin e se lo stava ficcando in bocca come se ne andasse della sua vita. Apparentemente chiunque avrebbe detto che lo stava mangiando con gusto, ma lui lo sapeva che stava solo fingendo, eppure, chissà perché, non disse nulla e stette a guardarlo, impassibile. Quando ebbe finito di divorare il suo dolce, Maurice si sedette accanto a lui e, piano, lo abbracciò. Sperava di sentire le mani fresche di Aru sulla schiena, ma l'unica cosa che percepì furono delle calde lacrime sulla spalla.

 
****

Giorno -1, Parigi
Aloïs si alzò dal sedile comodo e consumato del taxi e si diresse verso la rinomata pasticceria Pierre Hermé che si trovava in rue Bonaparte. Erano trascorsi ormai quattro mesi da quando c'era entrato davvero, in quel locale. Voleva comprare una torta da portare alla sorellina di Maurice che quel giorno compiva quindici anni e, visto che lei era celiaca, voleva andare in un posto in cui potevano soddisfare richieste un po' particolari. L'aveva servito un commesso giovane ed elegante, ma con un'aria un po' burbera; i capelli rossi erano legati in una corta coda. La divisa era completamente nera, tanto che sarebbe parsa simile a quella di un cameriere se non fosse stato per lo sgargiante grembiule giallo zafferano che gli fasciava alla perfezione i fianchi stretti. Eppure la divisa non era di certo fatta su misura e Aloïs se ne accorse subito, notando che gli stringeva un poco sul petto. Il cartellino che portava affisso sulla destra indicava il nome di Rémy.
Era certamente stato gentile con lui: si era preoccupato che il pasticciere facesse attenzione di non mettere nel dolce gli ingredienti che provocavano allergia alla piccola fille (2) e aveva incartato la torta decorata con fragoline di bosco con la massima cura. Dopo aver pagato, Aloïs aveva salutato il commesso dicendo: «Au revoir, Rémy (3)» che aveva lasciato l'altro con la bocca e gli occhi spalancati. Vedendo la sua espressione, Aloïs – che da sempre era un po' restio a dire parole di troppo – aveva alzato il dito e toccato il petto dell'altro in corrispondenza del cartellino che portava, poi aveva fatto un mezzo sorriso e aveva mosso qualche passo per andarsene, ma, poco prima che la porta si chiudesse alle sue spalle, aveva udito la voce del commesso chiedere: «Escusez-moi, monsieur, comment vous vous appelez? (4)» quindi il ragazzo dai capelli neri si era voltato e, con sguardo penetrante, aveva risposto: «Aloïs, Aloïs Neveu» ed era uscito.
Avrebbe mentito se avesse detto che da quel momento il gentile cameriere si era impiantato nella sua mente come se avesse appena subito un colpo di fulmine, anzi, lo aveva – quasi – dimenticato subito. Eppure, quando alcuni giorni dopo era successo quello che era successo, si era ricordato immediatamente il suo nome e dove l'aveva incontrato per la prima volta. E, da quel momento, tutto era cambiato.
Entrò nella pasticceria, ordinò un bignè farcito di crema chantilly come sempre e Rémy arrivò magicamente dal retro del locale. Non ci fu bisogno di parole tra loro, si limitarono a uscire dal negozio e a dirigersi all'appartamento di Aloïs, in rue de Lille. Ci arrivarono come al solito utilizzando la metropolitana; bastava scendere alla fermata di Assemblée Nationale e, dopo pochi minuti a piedi, avevano raggiunto il luogo stabilito.
Non appena Aloïs fu entrato nella stanza, Rémy chiuse la porta dietro di sé e, frettolosamente, incominciò a baciarlo con foga, premendo il suo corpo d'atleta contro il muro del salone d'ingresso. Il giovane dai capelli scuri sapeva che l'altro lo desiderava in modo impellente: sentiva perfettamente il battito accelerato del suo cuore e percepiva la frenesia che, ogni volta, traspariva dai suoi gesti. D'altronde anche lui provava lo stesso nei suoi confronti, anche lui bramava il contatto con l'altro più di ogni altra cosa: il suo odore lo inebriava, la sua bocca sulla pelle lo mandava in estasi, il sapore del suo sesso tra le labbra lo faceva uscire quasi di senno. Non c'era tranquillità fra loro, non conoscevano il significato della parola patience (5). Ogni gesto era pieno di urgenza, forse solo di impazzire, forse dettata dalla paura che qualcuno potesse rientrare in casa e vederli lì. Ma questo non accadeva mai: gli orari di Maurice erano sempre stati molto precisi e raramente c'erano stati giorni in cui tornava a casa prima.
Aloïs fece scendere le mani lungo la schiena di Rémy, poi le passò davanti, fino a toccare la sua erezione che, impaziente, premeva nei pantaloni. Iniziò a stimolarla con le dita, senza aprire la cerniera dei jeans che indossava, facendolo mugolare dal piacere mescolato al dolore provocato dal luogo troppo angusto in cui il suo sesso era rinchiuso. Solo dopo un po' fece scorrere la zip e iniziò a lavorare con le mani, andando su e giù più e più volte. E fu proprio in quel momento che, improvvisamente e senza preavviso, la porta accanto a loro si spalancò.

 
****

Rémy si staccò di scatto dal corpo di Aloïs, che nel frattempo aveva spalancato quegli occhi azzurri che tanto amava. Sulla soglia c'era un ragazzo alto dalle spalle larghe e i fianchi stretti, con un fisico forse ancora più prestante e possente di quello di Rémy. Eppure, nonostante la forza che quel ragazzo emanava, i suoi occhi – anche se sottili di delusione e tristezza – erano gentili e buoni. Nella mano destra teneva le chiavi, mentre la sinistra conteneva un sacchetto di plastica con dentro quella che doveva essere la spesa. Passarono circa dieci secondi, i più lunghi della vita di tutti coloro che si trovavano in quel momento nella stanza. Solo dopo il nuovo arrivato si rese conto di cosa stava succedendo prima del suo arrivo: il suo fidanzato lo stava tradendo davvero, il suo fidanzato desiderava davvero un altro... e quell'altro era proprio lui.
Inizialmente Rémy ebbe paura che Aloïs venisse insultato o, addirittura, colpito da Maurice, ma tutte le sue congetture vennero cancellate dal sorriso storto e amaro del pètit ami del suo amante e dalle lacrime che incominciarono a scendere sulle sue gote, improvvisamente pallide. Non fece nessuna scenata, non reagì con violenza, non fece nulla di tutto quello che una persona normale avrebbe fatto. Semplicemente alzò gli occhi al cielo e poi chiese, guardando Aloïs: «Lo ami davvero, Aru?»
Lui lo guardò, con gli occhi pieni di lacrime che, però, si rifiutavano di scendere e dunque annuì, non fidandosi della sua voce. Poi guardò Rémy e, dopo averlo squadrato per qualche secondo, chiese di nuovo: «E tu... tu lo ami?»
Anche Rémy annuì, lentamente. Poi vide il suo interlocutore piegare il capo in avanti, strusciare il piede per terra e infine prendere una decisione. Si poteva benissimo intravedere il lampo di comprensione nei suoi occhi, quando finalmente li alzò dal suolo: quel ragazzo forse non aveva gli occhi chiari come quelli di Aloïs, ma di sicuro possedevano una trasparenza che il suo amato non aveva. E fu attraverso quello sguardo che Rémy capì ciò che passava nella testa di Aloïs, come di riflesso: non sarebbe mai stato in grado di scegliere da solo uno di loro, non aveva le forze necessarie per allontanare definitivamente Maurice o Rémy, doveva farlo qualcun altro. E Maurice, dopo averli visti insieme, aveva già preso la sua decisione: «Aru, basta. Non voglio stare più insieme a te» disse. E lo fece con un tono talmente serio e distaccato che, per un secondo, Rémy dubitò che l'avesse in realtà mai amato. Ma si dovette ricredere quando aggiunse poi: «Ma, prima che me ne vada per sempre... ti chiedo solo una cosa: m'as-tu jamais aimé? (6)». Aloïs annuì nuovamente, questa volta con le mani che tremavano dallo sforzo di non piangere. Maurice allora rivolse un ultimo sorriso amaro al suo Aru e uscì per sempre dalla sua vita.
Aveva preferito farsi da parte, non perché non poteva sopportare di aver avuto sotto gli occhi un tradimento, non perché la persona con cui aveva trascorso più della metà della sua vita l'aveva deluso, non perché non lo amasse più, ma perché aveva visto negli occhi di Aloïs qualcosa che gli aveva fatto pensare che lasciarlo significasse per lui l'unico modo di trovare finalmente la vera felicità.
E Rémy si sentì piccolo – infinitamente piccolo – di fronte alla grandezza immensa di quell'amore. Ma guardò Aloïs e si accorse che, seppur in modo più egoista, non amava meno di Maurice i capelli color carbone, il naso dritto, gli occhi trasparenti, le labbra sottili, la forma ovale del viso, il sorriso storto che a volte spuntava, il collo lungo, il corpo scolpito dagli allenamenti e dalle onde dell'acqua, le dita affusolate, i silenzi, le rare parole, la viltà, la dolcezza, la freddezza, la rabbia gelida, la debolezza, la forza, i pregi e i difetti di quel ragazzo.
Lo amava in modo diverso, forse sì, ma lo amava davvero e questo bastava.







 

Note:
1 → “Aru, Maurice, volete scendere, idioti?”.
2 → ragazza.
3 → “Arrivederci, Rémy”.
4 → “Mi scusi, signore, come si chiama?”.
5 → pazienza.
6 → “Mi hai mai amato?”.

So che questo capitolo è pieno di distruzione, angst a palate e lacrime di dolore, ma andava scritto. Vorrei solo che non fraintendeste una cosa: per quanto sia enorme il sentimento che Maurice prova nei confronti di Aloïs, non dovete pensare che Rémy sia da meno. Ho cercato di spiegarlo nell'ultima parte del capitolo, e verrà motivato ancora di più più avanti. Con questo non voglio nemmeno giustificare il tradimento di Aloïs, però vorrei che non lo odiaste troppo, ecco xD. So che Maurice non meritava nulla di ciò che è successo, e che quasi sicuramente anche a chi sta antipatico inizierà a provare quasi pena per lui, ma ehi, non ammazzate me e il povero Aloïs xD. Vorrei inoltre che faceste attenzione ad alcune parole di quest'ultimo POV... capirete poi il perché, ma qualcuno credo riuscirà già a intuire la verità e la fine di questa fic.

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Capitolo 3
*** Libero da nodi ***


Giorno -114, Parigi
Stéphane continuava a chiedersi che fine avesse fatto Rémy. Era venerdì e il venerdì si incontravano sempre, non avevano mai mancato un appuntamento. Per di più era venerdì 17 luglio, l'anniversario del giorno in cui avevano fatto per la prima volta sesso insieme: non poteva dargli buca, non lui.
Continuava a misurare con i passi la lunghezza del suo appartamento sudicio, scavalcando di tanto in tanto mucchi di vestiti o cataloghi sull'Australia. Non voleva ammetterlo, ma era preoccupato che gli fosse successo qualcosa: non era normale che non venisse proprio quel giorno. Guardò con aria sconsolata l'ora ancora una volta, poi si decise e compose il numero del suo amante. Dava libero.
«Pronto?»
La voce di Rémy risuonò attraverso il telefono, chiara e sicura come sempre.
«Ehi, Rémy, dove accidenti sei?» gridò in risposta Stéphane.
«Sono al lavoro. Dove dovrei essere, scusa?» rispose l'altro, infastidito.
«A casa mia, per esempio».
«Te l'ho spiegato l'altro giorno che oggi non sarei potuto venire visto che il mio capo mi ha praticamente obbligato a fare straordinario! Ma mi ascolti quando parlo?»
Stéphane si diede mentalmente dello stupido: è vero, gliene aveva parlato. Questo non significava, però, che gliel'avrebbe data vinta. Sibilò quindi, assurdamente arrabbiato con il compagno: «Va bene, ok. Divertiti al lavoro» e chiuse la chiamata senza nemmeno salutarlo.
Si sedette sul letto, afferrò una delle guide turistiche sull'Australia e incominciò a sfogliarla rabbiosamente: c'erano immagini di luoghi paradisiaci, barriere coralline, natura incontaminata e poi città ultra-moderne dalle architetture spigolose e slanciate. Un Paese di contrasti, con il centro deserto e le coste al limite del sovrappopolato. L'Australia era un'isola buttata per caso in mezzo all'oceano, nata come luogo di detenzione e trasformatasi in una meta ambita da ogni turista che si rispetti. Era attratto da quel continente in un modo che non riusciva a spiegarsi: forse perché credeva che tutti gli uomini fossero isole, al contrario di Jon Bon Jovi, forse perché sapeva che Rémy vi aveva trascorso gran parte della sua adolescenza, forse perché era sempre stato incuriosito dalla lunga barriera di coralli che ne delimitava le coste sotto la superficie dell'acqua. Non sapeva con esattezza quale di quelle ipotesi fosse esatta e forse erano semplicemente tutte corrette. Eppure in quel momento stava odiando quel continente ai confini del mondo e desiderava solo di non aver deciso, finalmente, di interessarsi a come raggiungerlo realmente.
Quello era un giorno speciale: avrebbe dovuto chiedere a Rémy se voleva tornare in quel luogo che conosceva così bene, ma questa volta insieme a lui e su una romantica barca a vela e invece quello stronzo non si era presentato. Ma, d'altronde, si sa che non si può restare su un'isola per sempre: ogni tanto bisogna scendere sulla terraferma e rendersi conto che non tutto è bello e luccicante come potrebbe sembrare visto da lontano e illuminato dai raggi del sole .
Era una delle prime volte che tentava di compiere qualcosa che fosse gradito, gradito davvero, a Rémy e non credeva che ci avrebbe più provato: voleva bene a quel ragazzo testardo, forse lo amava, però non sarebbe riuscito, ora, a proporgli quel viaggio. L'occasione era passata, e adesso avrebbe solamente voluto ritornare ad essere un'isola, un'egoista isola senza legami (1).

 
****

Era un giorno qualunque per Maurice, una di quelle solite giornate afose e calde che facevano passare la voglia di uscire dalla doccia, perennemente regolata affinché uscisse acqua gelida. Le scuole erano chiuse ormai da più di un mese e sentiva già la mancanza dei suoi bambini, come se fossero passati anni dall'ultima volta in cui li aveva visti e non poche settimane. E sentiva anche la mancanza di Aloïs che, ormai da tre giorni, non si faceva vivo. Non era colpa sua: era dovuto partire per una gara di nuoto ed era assolutamente da lui evitare ogni contatto con la tecnologia quando era impegnato, figuriamoci quando c'erano in gioco le selezioni alle nazionali di quella stagione! Tutto ciò però non toglieva che Maurice desiderasse più di ogni altra cosa rivederlo, e al più presto. Per fortuna sarebbe successo a breve: nel primo pomeriggio avrebbe avuto i suoi 200 metri stile – perché lui nuotava seulement Freestyle (2) –, poi sarebbe tornato a casa e per le sei e mezza di sera massimo avrebbe potuto riabbracciarlo.
Maurice sorrise al pensiero della sua testa bagnata dall'acqua trasparente della piscina che, ritmicamente, si voltava a destra e a sinistra per la respirazione. E sorrise ancora più apertamente immaginandosi il compagno che, finita la sua gara, si sfilava gli occhialini e la cuffia e iniziava a scuotere il capo spargendo goccioline d'acqua ovunque. Non aveva mai capito a cosa gli servisse fare quel movimento, visto che l'unica cosa che otteneva era che i suoi capelli lisci si intrecciassero in un modo che, prima di conoscerlo, riteneva impossibile per un taglio così corto. Aveva passato ore intere a cercando di districare quei nodi con il pettine di legno dipinto che i bambini gli avevano regalato per il suo compleanno e Aloïs si era fatto pettinare da lui con pazienza e rassegnazione, quasi come se Maurice si trattasse di una mamma.
Da quando si ricordava, Aloïs era sempre stato immerso in acqua: la prima volta in cui l'aveva incontrato era stata quando i loro genitori, che erano amici da tempo, avevano deciso di farli conoscere con la speranza di farli diventare, a loro volta, amici per la pelle. La cosa divertente era stata che, in realtà, all'inizio non erano andati particolarmente d'accordo: Aloïs aveva chiesto insistentemente a sua madre di portarli al parco acquatico, mentre Maurice... beh, Maurice non aveva ancora imparato a nuotare. Quindi avevano optato per un parco giochi qualsiasi, e Aloïs aveva tenuto per tutto il giorno il muso a quello che poi sarebbe diventato il suo migliore amico – e poi il suo amante –, e se n'era stato per conto suo sull'altalena. E quando, alla fine della giornata, Maurice gli aveva chiesto per l'ennesima volta di giocare con lui, Aloïs si era alzato e l'aveva preso per mano. Ma, se lui sperava che finalmente fosse riuscito a convincerlo a diventare suo amico, Aloïs, con una forza insospettabile per un bambino di otto anni con un aspetto così fragile, lo aveva sollevato e lo aveva gettato nella fontana che c'era al centro del parco, seguendolo anch'egli dopo poco con un piccolo salto. Com'era ovvio, Maurice si era spaventato tantissimo e si era messo a piangere e solo sua mamma era riuscita a calmarlo, mentre Aloïs l'aveva guardato di sbieco, quasi accusandolo per essere così incapace a stare a galla.
Ogni ricordo che il ragazzo aveva del suo compagno era legato all'acqua, in un modo o nell'altro, e niente e nessuno l'avrebbe mai allontanato da essa. Erano come due identità di natura separate ma che, per un motivo che ancora non comprendeva, diventavano tutt'uno. Ed era accaduto alle medie, quando aveva deciso di frequentare la piscina davanti a casa sua, era accaduto alle superiori, quando era stato descritto come un “fenomeno del nuoto” ed era entrato a far parte della squadra di agonismo vincendo anche numerose gare. Maurice non si stupiva che, alla fine, nuotare fosse diventato il suo lavoro, ciò che lo manteneva e lo rendeva felice e realizzato.
Eppure era sempre stata l'acqua a separarli, ogni volta: già dal loro primo incontro era stata lei a farli litigare e alle medie non potevano mai uscire o anche solo passare il pomeriggio insieme a studiare; alle superiori Maurice era stato il suo unico amico poiché, ad accompagnare la difficoltà di parlare col suo solito silenzio pesante e il viso inespressivo che, seppur bello, era decisamente glaciale, si aggiungeva il fatto che non poteva vedere nessuno fuori dall'orario scolastico a causa dei suoi continui impegni agonistici. Poi c'era stato quel terribile periodo in cui Aloïs era scomparso dalla vita di Maurice: per un anno intero – e forse per qualche mese in più – i due avevano completamente smesso di frequentarsi, creando un vuoto fra loro che si sarebbe colmato solo dopo alcuni mesi, mesi in cui Maurice aveva capito che il profondo affetto che provava per l'amico non era completamente disinteressato come aveva sempre pensato, ma che, al contrario, col tempo era diventato come affamato di qualcos'altro che non si riduceva alla semplice amicizia.
Era stato difficile per lui esternare i suoi sentimenti, non tanto perché aveva paura di essere rifiutato – anche se, lo ammetteva, il pensiero di poter rovinare nuovamente la sua amicizia con Aloïs lo terrorizzava –, ma quanto più perché l'aveva sempre ritenuto una sorta di asessuale. Non aveva mai avuto, per quanto ne sapesse, relazioni amorose con qualcuno, né donna né uomo, e non ne avevano nemmeno mai parlato. Non sembrava interessato all'amore, pareva che avesse invece deciso di legarsi sentimentalmente solo a una cosa: l'acqua. E invece, con quel suo solito silenzio a sigillargli le labbra, aveva colmato ogni distanza tra loro e l'aveva baciato sul letto di quell'albergo in Giappone. Era accaduto l'impensabile e, ancora ora, dopo più di un anno di distanza, si stupiva di poter dire che sì, proprio Aloïs era il suo pètit ami.
Stava ancora sorridendo tra sé e sé a quei pensieri, quando il suo cellulare vibrò, segnalandogli l'arrivo di un messaggio. Era proprio di Aloïs: “Il treno è in ritardo di 20 minuti e dicono che potrebbe accumularne altro durante il viaggio. Scusami, Maurice.”
Rilesse più volte il messaggio e sospirò: pareva troppo bello per essere vero che, per una volta, riuscissero a vedersi esattamente il giorno e l'ora prestabiliti, senza ritardi o due di picche. Si gettò, sconsolato, sul letto matrimoniale e incominciò a pensare a un ristorante che stesse aperto abbastanza a lungo per permettere ad Aloïs di riposarsi, a Maurice di convincerlo a uscire e a entrambi di salutarsi, prima, per bene.

 
****

Rémy era a dir poco infuriato: prima il suo capo lo aveva obbligato a fare straordinario per poter tenere di domenica aperta la pasticceria anche quella settimana, visto che “era luglio, e a luglio tutti hanno più voglia di dolci” – sue testuali parole – quando lui avrebbe dovuto essere nell'appartamento del suo ragazzo a fare ben altre cose con la panna; poi una mamma aveva pensato bene di dare il pacchetto che Rémy aveva appena confezionato a un bambinetto di poco più di quattro anni perché non facesse i capricci e quello, in meno di tre passi, era riuscito a farlo volare per terra, spiaccicando completamente la torta al suo interno. Al bambino era venuto un attacco di pianto, alla madre una crisi isterica e al pasticcere un'improvvisa voglia di mandare tutti al diavolo e tornarsene a casa. E con chi se l'erano presa tutti quanti? Avec lui (3). Infine, Stéphane l'aveva chiamato e aveva dato di matto, facendolo sentire ancora più in colpa.
E ora finalmente, alle ore sette e ventitré del giorno venerdì 17 luglio, poteva tornarsene a casa e trascorrere una serata di meritato riposo. Andò nel retro della pasticceria, si sfilò il grembiule e il resto della divisa, si sciacquò un poco il viso con l'acqua del rubinetto, salutò il pasticcere e uscì da quel terribile luogo. Fece poca strada a piedi, dal momento che Stéphane abitava vicino a una fermata della metropolitana ed era il suo ultimo desiderio camminare per più di quaranta minuti dopo essere uscito dal lavoro. Quindi fece il biglietto e – nel pieno della sua pigrizia – prese l'ascensore. Poco prima che le porte si chiudessero, un piede si infilò nel piccolo spazio che era rimasto vuoto e un ragazzo dall'aria stranamente familiare si intrufolò all'interno della cabina, trascinandosi dietro una valigia blu scuro.
Rémy incominciò a scrutarlo, cercando di capire dove avesse già visto quei capelli neri in contrasto con la pelle bianca come porcellana e con gli occhi di un azzurro così intenso da parere finto. Osservò attentamente le lunghe dita e il fisico decisamente prestante, ma fu interrotto dalla voce pacata dell'altro che, infastidito, gli chiese: «Si può sapere perché continua a guardarmi?»
La sua voce ebbe un effetto totalmente inaspettato su di lui, perché gli ricordò immediatamente due parole che componevano un nome: «Ma lei è... lei è Aloïs...-» si interruppe un attimo per cercare di ricordare il cognome, poi aggiunse: «Aloïs Neveu, giusto?»
L'altro lo guardò con aria stupita, quindi gli chiese: «Ci conosciamo?»
«Sì..., cioè, non proprio. Sono il cameriere di una pasticceria in cui è venuto qualche giorno fa».
Aloïs sembrò frugare mentalmente nella sua memoria alla ricerca di quel viso, quando parve ricevere un'illuminazione: «Rémy, tu ti chiami Rémy»
«Exact (4), sono Rémy» disse, sorridendo all'improvviso passaggio alla seconda persona. Poi chiese: «Torni da un viaggio?»
«Più o meno. Torno da una trasferta».
«Sei uno sportivo?» chiese Rémy, incuriosito.
«Sì, io nuoto».
Rémy trattenne a malapena un sorriso. Certo che sei un nuotatore: chi altri può avere un fisico del genere?
Ad un tratto, però, i pensieri di Rémy vennero interrotti da un improvviso scatto che scosse tutta la cabina dell'ascensore. La luce, per qualche minuto, andò a intermittenza, quindi la cabina si bloccò completamente. Rémy guardò Aloïs, quindi iniziò a premere ogni tasto sulla pulsantiera, senza successo.
«Accidenti, siamo rimasti chiusi in ascensore» disse Rémy, sempre più convinto che, alla fin fine, la credenza che il venerdì 17 portasse sfortuna fosse vera.
«Suoniamo l'allarme» propose Aloïs.
«Decisamente: non ho voglia di rimanere qui per ore».
«Nemmeno io» disse, quindi premette il pulsante giallo con il simbolo di una campanella disegnato sopra.
Rémy si sedette per terra, con aria sconsolata: avrebbe dovuto essere a casa con Stéphane, non lì ad aspettare che qualcuno li tirasse fuori da una cabina dell'ascensore. Il suo ragazzo si sarebbe arrabbiato di sicuro, anche se non era colpa sua e probabilmente avrebbero finito per litigare.
Si sentiva sempre più in trappola e non solo per colpa di quel guasto: era un anno intero che stava con Stéphane e, per quanto fosse sicuro di amarlo, non poteva che sentirsi soffocato da tutto ciò che gli imponeva, anche se involontariamente. Non poteva rimanere quasi mai a cena da lui, perché non voleva che occupasse i suoi spazi per troppo tempo, non poteva sperare di andare nel suo appartamento e tornare a casa senza aver fatto sesso, non poteva venire a prenderlo al lavoro perché aveva paura che qualcuno dei suoi colleghi avrebbe iniziato a dare problemi e, allo stesso tempo, neanche Stéphane si era mai fatto vedere fuori dall'ingresso della pasticceria. Si arrabbiava in continuazione, parlavano poco di cose realmente serie e scherzavano sempre in modo sarcastico; gli offriva sempre sigarette anche se sapeva che Rémy stava tentando di smettere di fumare, aveva più fame di sesso che di una conversazione e lo vedeva più come un amico di letto di un vero e proprio ragazzo con cui aveva intrapreso una relazione... eppure non lo aveva lasciato, e molto difficilmente ci sarebbe riuscito. Aveva un qualcosa di magnetico: forse era il suo modo di muoversi, parlare, sorridere o guardare, ma comunque esercitava su di lui una forza d'attrazione abbastanza potente da impedirgli anche solo per un secondo di sottrarsi alla sua orbita di controllo quando stavano insieme. E così l'assecondava sempre – o quasi – e non diceva di no alle ore di sesso, alle sigarette e alle sue stupide limitazioni.
Guardò di sottecchi Aloïs e percepì una sensazione strana, come se sentisse di conoscerlo da anni. Nei suoi gesti eccessivamente controllati c'era un qualcosa di familiare, le dita lunghe e affusolate parevano quelle di una donna, e furono proprio le mani a provocargli un curioso déjà-vu: vide quelle stesse dita muoversi sapientemente su e giù, cucendo una stoffa rossa all'apparenza molto preziosa. Quell'immagine gli suscitò uno strano sentimento di nostalgia che non riusciva a comprendere. Che cosa stava succedendo?
I suoi pensieri vennero però interrotti dalla voce di Aloïs che parlava al telefono con qualcuno: «Ciao, Maurice. Spero che sentirai questo messaggio: sono rimasto bloccato in ascensore, quello della metropolitana. Non so quando riusciremo a uscirne, ma abbiamo chiamato i soccorsi. Arriverò, te lo prometto. A dopo».
Rémy lo osservò, incuriosito: «Con chi parlavi?»
«Con la segreteria telefonica».
Simpatico, il ragazzo. Si ritrovò a pensare Rémy, con sarcasmo.
«La segreteria telefonica di chi?»
«Di Maurice».
«E Maurice è...?»
«Il est mon pètit ami (5)»
Ah, ecco. Quindi è fidanzato ed è pure gay, cosa non così sorprendente visto il suo aspetto.
«Dovevi andare da lui?»
«Già, ma non sono affari tuoi».
No, mi correggo. È decisamente sorprendente che qualcuno stia con un tipo così.
«Anche io stavo andando dal mio, mh..., dal mio ragazzo».
«Quindi hai anche tu un pètit ami» concluse lui.
«Sì, anche se non è esattamente un fidanzato...»
«E cosa sarebbe?»
«Uno con cui faccio sesso volentieri».
«E tu fai sesso volentieri anche con gli amici o con gli sconosciuti?» chiese lui, come se fosse sinceramente stupito.
O vive fuori dal mondo, oppure è un grande stronzo.
«No, lui è più di un amico... è, come dire, un milleur ami (6)».
Aloïs sembrò pensarci un attimo, poi disse: «Anche Maurice è il mio migliore amico».
«Allora vedi che capisci» rispose quindi Rémy, con un sorriso sollevato.
Era difficile conversare con lui, eppure continuava a sentire quel presentimento, quella sensazione di conoscerlo da sempre, come se si fosse dimenticato di qualcosa di molto importante.
Poi fece un'altra domanda, di cui lì per lì si sarebbe pentito ma che, col senno di poi, sarebbe stata la miglior domanda che avrebbe potuto porgli: «Ma senti, Aloïs, tu pensi che potresti stare con un altro ragazzo che non sia Maurice?»
«E con chi altro dovrei stare?» chiese, guardandolo di sbieco, come se si domandasse che accidenti di pensieri passassero per quella testa rossa.
«Non so... un qualcuno che incontri per caso, con cui senti uno strano lien, un collegamento, o che è come se conoscessi da anni, anche se in verità ci hai scambiato solo poche parole».
«Con qualcuno che mi attrae?» chiese, alzando leggermente un sopracciglio.
«Sì, esatto. Conosci la leggenda giapponese del filo rosso del destino (7)
Sorrise un poco, per la prima volta in quella giornata. A Rémy sembrò che tutti i suoi muscoli si distendessero e che l'atmosfera si fosse fatta stranamente più leggera: «Sì, la conosco».
«Ecco. Se incontrassi qualcuno che senti che è la persona a cui sei legato dal filo rosso, saresti disposto a stare con lui, anche se hai Maurice?»
Ma, prima che Rémy potesse sentire la risposta, l'ascensore ricominciò la sua discesa. Ci vollero pochi secondi perché arrivasse al piano dove entrambi avevano necessità di andare, e Rémy quasi si dispiacque che, dopo quasi mezzora, la cabina avesse ripreso a funzionare.
Arrivati infine alla metropolitana, i due entrarono nello stesso vagone, spingendo un poco per entrare. Aloïs si trascinò dietro la sua valigia e si mise in fondo allo scompartimento, così da non dare fastidio a nessuno con il suo bagaglio, quindi Rémy lo seguì.
«A che fermata scendi?» chiese il giovane dai capelli rossi, morbosamente curioso di sapere quanto tempo ci sarebbe voluto perché si separassero, forse per sempre.
«Tra cinque fermate».
«Ah, perfetto. Io tra quattro» rispose.
Trascorsero le prime due fermate in silenzio, limitandosi a guardarsi solo di sottecchi, quindi Rémy cercò di ricominciare il discorso iniziato prima in ascensore: «Allora, Aloïs, lo faresti? Staresti con qualcun altro che non sia Maurice?»
«Dipende».
«Da cosa?»
«Dipende se quest'altra persona percepisce lo stesso legame che io sento. Perché se si tratta di una cosa unilaterale, significa che mi sono sbagliato e che non c'è nessun filo rosso del destino a unirci».
Rémy sentì una scarica di brividi e adrenalina scorrergli per tutta la colonna vertebrale. Che Aloïs gli stesse davvero chiedendo implicitamente di dargli un segnale? Che davvero quel bellissimo giovane vicino a lui percepisse la stessa sensazione di profonda unione che sentiva lui? Non ne era per nulla certo, ma tentò il tutto per tutto: «Anche io seguirei il mio filo rosso, se fossi certo che anche l'altro ricambi».
Rémy vide Aloïs alzare lo sguardo su di lui, come a volerlo scrutare in profondità. Poi sussurrò, talmente piano che a Rémy venne il dubbio che fosse stato solo frutto della sua immaginazione: «Je te connais, Rémy, je sens une connexion avec toi (8)».

 
****

Le porte della metropolitana si chiusero per la terza volta da quando erano entrati, quindi ne mancava solamente più una, e la prossima sarebbe stata l'ultima. Aloïs si avvicinò un poco a Rémy, cercando di focalizzarsi su quella sensazione che aveva percepito nell'ascensore. Gli sembrava davvero di essere legato a lui da qualcosa, da un passato oscuro di cui né lui né Rémy avevano memoria, ma che comunque si stava manifestando. Come se fosse già accaduta una cosa del genere, come se quel desiderio bruciante e totalizzante che provava appartenesse in realtà a un altro Aloïs Neveu, lontano secoli e spazi. Sentiva che l'unica cosa davvero giusta per lui era avvicinarsi ancora all'altro, prendergli le mani e baciarlo, tuttavia si sentiva bloccato. Non era mai stato una persona particolarmente razionale o normale, ma capiva che baciare un uomo quasi sconosciuto perché gli pareva di averlo già incontrato in un'altra vita era totalmente folle e insensato.
Ci pensò Rémy a mettere a tacere tutto ciò che la sua testa stava farneticando: colmò l'ultima distanza fra loro e, incurante degli altri passeggeri che li guardavano con un misto di curiosità e disgusto, posò le proprie labbra sulle sue.
Aloïs si sentì come se fosse la prima volta che baciava qualcuno: provò un tale senso di smarrimento che gli venne quasi un capogiro, ma si aggrappò alla schiena di Rémy e restò in piedi ancora un poco, approfondendo il contatto. La bocca del ragazzo tremava, e Aloïs era incerto se si trattasse di desiderio represso o di semplice paura, eppure era convinto che stesse sentendo esattamente lo stesso mare di emozioni che stavano scuotendo il suo di corpo fin nel profondo.
Continuarono a baciarsi per tutto il tempo che rimaneva loro, finché anche la quarta fermata sopraggiunse, troppo presto. Rémy quindi si staccò da lui e sussurrò: «Passa in pasticceria uno di questi giorni, se ti va».
Aloïs, ancora stranito da quel bacio, annuì piano, non fidandosi delle parole, e salutò con lo sguardo e un lieve sorriso l'altro ragazzo che, velocemente, si allontanava.
Sarebbe passato certamente in pasticceria, l'avrebbe di certo incontrato ancora. Ma ora c'era un altro problema che lo attanagliava e che lo faceva sentire terribilmente in colpa: cosa fare con Maurice?
Si diresse a casa del compagno, trascinandosi dietro la sua fida valigia blu scuro contenente tutto ciò che era necessario per una trasferta di tre giorni, quindi coprì la poca distanza rimanente che lo separava dall'appartamento che condivideva con Maurice. Dopo poco suonò il campanello e aspettò che l'altro gli aprisse, conscio del fatto che Aloïs non portava mai le chiavi nei suoi viaggi per lavoro per paura di smarrirle. E, di fatti, dopo poco la porta si aprì e Aloïs poté salire.
Appena entrò in casa, un Maurice spettinato e vestito con una semplice tuta lo accolse con un dolce bacio e con una domanda: «Come sono andate le selezioni?».
Aloïs sorrise un poco, sorprendendosi ogni volta di come, nonostante i suoi soliti ritardi, sapesse preoccuparsi sempre per lui prima che di se stesso. «Bene. Sono passato».
Il suo compagno quindi sorrise e disse: «Ah, lo sapevo che il grand prodige (9) avrebbe massacrato tutti con il suo Freestyle (10)...! Motivo per cui gli ho preparato una cosina» aggiunse, trascinandolo in cucina.
Lo spettacolo che si parò di fronte ad Aloïs era qualcosa di semplicemente bellissimo: la loro banale sala da pranzo era ricoperta di candele di un tenue azzurro e di delicate rose bianche, un leggero profumo d'incenso si spargeva nell'aria e in forno si stava cuocendo un enorme sgombro dorato. Aloïs quindi guardò Maurice e, cercando di soffocare il senso di colpa che stava provando, lo baciò con ardore, spingendolo contro il tavolo e cercando il più possibile un contatto con lui. L'altro rise davanti a tanta intraprendenza e sussurrò: «Mi sei mancato, Aru».
Il ragazzo deglutì a vuoto, sentendo una sensazione sgradevole in fondo allo stomaco, quindi rispose: «Anche a me sei mancato, Maurice».
E mentre l'altro iniziava a spogliarlo, cercò di scacciare la sensazione delle calde labbra di Rémy dalla sua testa.







 

Note:
1 → Qui faccio riferimento a uno dei monologhi del film “Abaout a boy”, dove il protagonista afferma di trovarsi in disaccordo con l'affermazione di Jon Bon Jovi “Nessun uomo è un'isola”. Qui potete trovare la citazione completa.
2 → solamente stile libero.
3 → con lui.
4 → esatto.
5 → è il mio fidanzato.
6 → migliore amico.
7 → La leggenda del filo rosso del destino dice che ognuno ha un filo rosso legato al mignolo della mano che lo lega a un'altra persona, e che non importa quanti nodi o intrecci ci siano in questo filo, ma alla fine i due sono destinati a incontrarsi.
8 → “Io ti conosco, Rémy, io ho una connessione con te.”
9 → grande prodigio.
10 → stile libero.

In questo capitolo, e in particolare nel primo bacio fra Aloïs e Rémy, inizia finalmente a sentirsi l'idea che lega tutta questa serie di mini-long: due anime che si conoscono e innamorano in un'epoca passata e che, superando il tempo e lo spazio, si rincontrano periodicamente vivendo nuovamente la loro storia d'amore. Questa volta, però, entrambi hanno la sensazione di conoscersi già, e Rémy ha un déjà-vu che gli ricorda le dita di Aloïs quando era stato Aruse (in Liberum – Libero, per capirci), mentre cuciva la stoffa rossa (che, tra l'altro, è il colore che invece domina in tutta la prima mini-long). Questo perché la serie sta giungendo al termine, e più avanti vanno più si renderanno conto di essere legati in qualche modo, forse proprio dal filo rosso del destino.
Sì, sono un'inguaribile romantica, ma lasciatemi sognare xD.

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Capitolo 4
*** Libero dal silenzio ***


Giorno -36, Parigi
Il suono di un nuovo messaggio scosse Stéphane dal torpore che si era impossessato delle sue membra stanche per il troppo lavoro. Aveva incominciato proprio quel mattino un incarico su un'auto piuttosto costosa, ma non capiva cos'avesse che non andava, quindi aveva deciso che, finché non avesse scoperto la causa del guasto, sarebbe rimasto in officina a lavorare, e così aveva fatto. Peccato che, una volta scoperto che il motivo per cui le luci interne si accendevano sporadicamente e per cui, quando scendeva sotto i 20 km/h, la chiusura centralizzata di apriva da sola era una banalissima bolla creatasi nella portiera dopo che il conducente vi aveva chiuso la cintura dentro, si erano fatte quasi le nove di sera e i suoi muscoli ne risentivano. In particolare aveva un dolore sordo alla spalla destra, anche se non ne comprendeva il motivo visto che si era limitato a provare a più riprese l'auto.
Prese il cellulare e vide che il messaggio era di Rémy: «Ciao Stéph, sei libero 'sta sera? Devo parlarti».
Il ragazzo pensò un attimo alla risposta da dargli: in effetti non aveva impegni, ma era talmente stanco da non riuscire nemmeno ad alzarsi dal divano; sarebbe riuscito a vedere Rémy? Scosse la testa, poi digitò la risposta: «Sono libero, vieni» scrisse, e sorrise leggermente facendolo, complimentandosi da solo per il doppio senso che l'altro avrebbe sicuramente colto.
E infatti la risposta fu altrettanto scherzosa e maliziosa: «Certo che verrò, non manco mai».
Stéphane rise un poco: era davvero buffo come quel ragazzo riuscisse a farlo divertire con poco, quando generalmente ci volevano ben più di un doppio senso e di qualche frase allusiva da ragazzini perché un sorriso piegasse le sue labbra. Gli avevano sempre rimproverato di essere una persona fin troppo seria, ma con Rémy passava lui per quello eccessivamente burlone. Non poteva farci nulla se si divertiva da impazzire a farlo arrabbiare, imbarazzare, arrossire e ridere: è che aveva quel non so ché di pacifico il suo viso mentre veniva attraversato da una qualsivoglia di quelle emozioni...!
Trascorsero circa trenta minuti, quando Stéphane sentì la chiave girare nella serratura e la porta bianco ospedale si aprì. Da dietro di essa spuntò la familiare testa rossa di Rémy, il suo fisico slanciato e il solito sorriso storto. Quindi il ragazzo si lanciò sul divano accanto a Stéphane e gli scoccò un veloce bacio sulle labbra per salutarlo. Ma se pensava che a causa della stanchezza quello non avrebbe nemmeno provato a toccarlo, si sbagliava di grosso: Stéphane si allungò, pigramente, e baciò a sua volta l'altro, questa volta tenendogli fermamente il mento con le dita per approfondire il bacio e, con l'altra mano, sfilargli la semplice maglietta verde oliva che indossava.
Stéphane sapeva di non essere perfetto, di non avere i muscoli abbastanza scolpiti per essere definito un culturiste (1), e non aveva nemmeno la fisionomia longilinea di certi ragazzi che, per quanto non fossero il suo genere, non poteva fare a meno di seguire con lo sguardo quando li incrociava per strada. Non possedeva un viso bello convenzionalmente: i suoi occhi erano troppo distanti fra loro, forse dalla forma troppo allungata, le sue labbra erano sottili, il suo naso importante, i capelli lisci quasi sempre spettinati; nonostante ciò era consapevole di avere un certo fascino, un'armonia particolare sotto quell'apparente cacofonia di lineamenti. Sapeva di esercitare un'attrazione molto forte negli altri, e sapeva che i suoi occhi verde smeraldo erano abbastanza intensi da catturare chiunque. Se ne accorgeva ogni volta che Rémy si trovava con lui: appena lo toccava, che fosse con l'intenzione di provocarlo o meno, l'altro aveva un brivido sottopelle e il suo odore maschile si intensificava un poco; e se ne accorse anche in quel momento che Rémy era eccitato, suo malgrado: all'inizio del bacio aveva percepito una certa resistenza che però si era rivelata inutile in seguito. Non aveva voglia di fare sesso, non quando era entrato nell'appartamento per lo meno, eppure adesso non poteva sottrarsi al suo contatto e bramava di più. E lui ne approfittava ogni volta, così da ottenere ciò che desiderava. In realtà non voleva forzarlo, ma semplicemente traeva piacere nel vedere come bastava un tocco per renderlo suo, nonostante tutto. Si avvicinò ancora, iniziò a far scendere le sue labbra sul collo di Rémy, e poi sul suo petto, sul suo ventre, l'inguine... ma poi una mano bloccò la sua discesa. Stéphane alzò il capo e incontrò lo sguardo deciso e allo stesso tempo sorpreso di se stesso del suo amante. Non era mai successo che lo fermasse, non in quel momento, e per questo se ne stupì. Non capiva cosa fosse avvenuto e solo scavando un poco nello sguardo dell'altro poté trovare la risposta.
Presa quella consapevolezza, iniziò a cercare di darle forma, ne levigò i lati, iniziò a modellarne gli angoli e limò i collegamenti in eccesso, quindi tirò fuori una frase: “Rémy è attratto da qualcun altro più che da me”. E n'era certo, assolutamente e irrimediabilmente certo.
Staccò i palmi dal ventre del suo amante, quindi si allontanò un poco da lui. Voleva, per la prima volta, parlare davvero con il ragazzo di cose che non fossero sciocchezze: «Senti, Rémy, tu sai che non sono il tipo di ragazzo che scrive lettere, manda rose e fa sdolcinatezze, ma so di essere bravo a fare sesso. Tu puoi innamorarti di chi vuoi, davvero Rémy, perché so che ci si innamora delle carinerie, non del sesso, ma dimmelo, perché con te non faccio solo sesso, ok? Sono tuo amico».
L'altro fece un'espressione strana, che Stéphane non riuscì a decifrare del tutto, ma era certo di averci intravisto divertimento.
«Non ci si innamora delle carinerie, Stéph, ci si innamora e basta» rispose l'altro, con un mezzo sorriso. Poi, dopo una breve pausa, continuò: «E comunque sì, mi sono innamorato di un altro... e mi dispiace, ma non riesco a non immaginare che ci sia lui qui con me, al posto tuo».
Era sempre stato schietto e diretto Rémy, e per questo Stéphane lo ammirava. Ma in quel momento non poté reprimere un guizzo violento di gelosia, ed era sicuro che si sentisse nella risposta che diede poco dopo: «Hai ragione, non ci si innamora delle carinerie, ho detto una cazzata. Ma senti, se vuoi stare con questo, stacci».
Rémy si morse leggermente le labbra: «Non posso, ha un altro...».
«Lui ti ama?»
«Non ne sono certo, ma di sicuro un po' gli piaccio».
Il giovane rise piano a quelle parole: «'Un po' gli piaccio'... ma dove siamo, alle elementari? Su, dai, sai che voglio sapere se vuole scoparti o meno».
Vedendo lo sguardo di Rémy che velocemente sfuggiva dal suo, Stéphane si accorse di un'altra cosa: «Non dirmi che c'è già riuscito, a fare sesso con te, intendo».
«E invece...» rispose l'altro, con gli occhi che vagavano altrove.
Stéphane era stato preso completamente alla sprovvista: non aveva immaginato che il ragazzo potesse andare così in là, che l'ambiguità della loro relazione potesse permettergli non solo di affezionarsi a qualcun altro, ma anche di portare su un altro livello il loro legame. Aveva creduto che i sensi di colpa l'avrebbero frenato, che non avrebbe mai trovato davvero un'altra persona con cui poterlo sostituire: Stéphane si rese conto di essersi trasformato, suo malgrado, da relazione semi-seria che metteva in campo genuini sentimenti, in passatempo durato più tempo del previsto. E si sentì stranamente infastidito da questo. Era sempre stato lui ce qu'il s'en moque (2), e ora si ritrovava con i ruoli invertiti improvvisamente: Rémy era stato suo per quasi due anni, e ora si allontanava per quello che immaginava fosse uno sciocco ragazzino che non aveva il coraggio di mollare il suo ragazzo, ma allo stesso tempo era abbastanza stronzo da tradirlo? Sospirò, si passò una mano sulla fronte e chiese, con aria stanca: «Da quanto va avanti questa storia?»
L'altro sorrise un poco, come se ricordare le vicende che avevano unito lui e la sua nuova fiamma lo facesse divertire a addolcire allo stesso tempo: «Da circa tre mesi».
«Perché ridi?» chiese quindi Stéphane, ancora più infastidito.
«Perché...» si interruppe, poi continuò: «Senti, vuoi sentire tutta la storia?»
«E va bene, sentiamo tutta la storia» rispose.
Ascoltò con attenzione tutto ciò che era capitato loro, ma percependo sempre di più una sottile rabbia strisciargli sotto le ossa ogni volta che Rémy sorrideva nostalgico, ogni volta che entrava in dettagli più intimi e ogni volta in cui gli scappava una risatina. Alla fine del racconto, un groppo amaro gli si era fermato in gola, quindi sussurrò, più a sé stesso che a Rémy: «Ce qu'il  s'en moque, s'aperçoit trop tard de toi (3)».
«Cos'hai detto, Stéph?»
«Niente, niente. Continua» rispose lui.
E sorrise, amaramente.

 
****

Dire che era emozionato sarebbe stato un eufemismo: quel giorno era uno dei più importanti, dei più speciali, dei più tutto della sua vita. Quel giorno lui e l'insensibile, glaciale, bellissimo, fortissimo Aloïs avrebbero festeggiato il secondo anniversario della loro relazione, e doveva essere qualcosa d'indimenticabile: non si sarebbe limitato ai fiori, alla cena a lume di candela, al film romantico che, una volta al mese, preparava per commemorare il giorno – quel fantastico giorno – in cui si erano messi insieme, no. Questa volta c'era in ballo molto, molto di più, questa volta si parlava di settecentotrenta giorni insieme, ed era un vero e proprio record, non solo perché era la prima volta che riusciva a mantenere salda una relazione amorosa tanto a lungo, ma perché quella relazione era con Aloïs Neveu, mica con la fidanzatina del liceo! Faticava a credere che quel ragazzino taciturno e molto spesso scontroso, che quel giovane dai capelli neri come l'ebano, che quell'atleta che con il suo “io nuoto solo stile libero” si era dimostrato una promessa dell'agonismo francese avesse acconsentito a condividere due anni della sua vita con lui.
Preparò ogni dettaglio alla perfezione: il proiettore dietro le tende bianche, nascosto finché non fosse giunta l'ora di adempiere al suo compito, i petali di rose rosse sparsi per tutta la casa, la lettera scritta su pergamena con penna e calamaio come si faceva una volta piegata accuratamente in quattro sul tavolino nel salone, lo sgombro nel forno, la musica, quella che aveva sentito ascoltando di sfuggita l'mp3 di Aloïs, pronta a essere diffusa nell'aria. Tutto era perfetto, e Aloïs sarebbe impazzito di gioia.
Già s'immaginava il suo volto stupito, la sua bocca leggermente aperta, i suoi occhi azzurri enormi, con quelle ciglia che si dimenticavano per un attimo di battere. E poi il sorriso, il dolce sorriso che si apriva sulle sue labbra, che distendeva i suoi lineamenti e faceva parere tutto più bello e luminoso. L'ultima volta in cui si era potuto godere un'immagine di Aloïs così era stata quando, il primo mese della loro convivenza, si era fatto trovare in camera da letto con le valigie pronte e la promessa di andare insieme in un hotel a cinque stelle per due notti. Era stata un'esperienza molto divertente, oltre che rilassante, soprattutto perché Aloïs, la seconda sera, era riuscito a trascinare il suo pètit ami nella piscina e si era divertito a soddisfare uno dei suoi più grandi sogni erotici... e Maurice non n'era stato per nulla dispiaciuto, anzi.
Si erano fatte le otto di sera, e Aloïs non era ancora tornato dal suo allenamento, ma non se ne preoccupava: quel giorno era così perfetto che niente avrebbe potuto rovinarlo. Nemmeno se lo sgombro si fosse bruciato, se il proiettore non avesse funzionato a dovere, se la musica si fosse inceppata o lo stereo rotto, se le candele avessero bruciato la tovaglia merlettata, se il suo amato fosse accidentalmente scivolato su una manciata di petali di rosa...
No, fermati, Maurice. Ti sta venendo l'ansia: andrà tutto bene.
Fece un respiro profondo, quindi guardò per l'ennesima volta l'ora sul display del suo cellulare: nessuna notifica in vista, quindi Aloïs avrebbe tardato meno di quindici minuti.
Maurice si sedette sulla poltrona e aspettò ancora per qualche minuto, cercando di scacciare tutti i pensieri di morte e distruzione che si stavano affacciando, maliziosi, nella sua mente stanca e agitata. Solo quando sentì la porta socchiudersi si rilassò e si preparò ad accogliere, finalmente, il suo Aloïs. Poi si ricordò del suo piano a sorpresa, quindi, proprio nel momento in cui la mano bianca del suo compagno si infilava nello spazio comparso tra i battenti e il legno scuro, si mise di scatto a carponi per nascondersi da lui, maledicendosi perché la luce era ancora accesa.
«Maurice, sono tornato». La voce leggermente roca di Aloïs risuonò all'interno dell'appartamento. Solo dopo qualche secondo di silenzio Aloïs continuò: «Maurice... ci sei?».
E fu proprio in quel momento che l'altro saltò su da dietro il suo nascondiglio e urlò: «Joyeux anniversaire, mon amour! (4)».
Aloïs guardò di scatto nella sua direzione, fece un piccolo sorriso e infine voltò il viso di lato, come se volesse nascondere una particolare espressione involontaria che i suoi muscoli facciali avevano creato, per paura che l'altro la vedesse. Maurice, però, fece finta di non farci caso e si avvicinò a lui, abbracciandolo e scoccandogli un rumoroso bacio sulle labbra. Quindi lo prese per mano e lo trascinò in cucina, dove l'odore di pesce arrostito aveva ormai invaso tutta la stanza. Lo fece sedere e gli servì una portata di sgombro, che l'altro osservò passandosi, quasi involontariamente, due dita sulle labbra, mostrando il suo appetito.
Aloïs non lo sapeva proprio quanto fosse bello, non riusciva a capire quanto poco gli volesse per far innamorare chiunque, se non del suo carattere schivo – che, Maurice lo ammetteva, era davvero difficile da apprezzare – almeno del suo aspetto. Aveva un qualcosa di ingenuo sotto quei lineamenti tanto delicati, sotto i suoi occhi talmente chiari da parere lastre di ghiaccio, e ogni suo gesto era sensuale inconsapevolmente, cosa che faceva impazzire Maurice. Sembrava che il corpo scolpito e flessuoso da nuotatore si fosse fuso in qualche modo a quello di un adolescente dall'aspetto estremamente femmineo. Era assurdamente bello davvero, Aloïs, e nemmeno se ne rendeva conto.
Prima di sedersi, però, Maurice accese lo stereo e fece partire il CD al suo interno, la cui prima traccia era “The Blower's daughter”, proprio la canzone che aveva trovato in riproduzione nell'mp3 del suo compagno quel giorno in cui aveva, alla disperata ricerca di un regalo per lui, frugato nella sua asettica e impersonale parte di camera. Non che lì ci trascorresse molto tempo, di fatti erano quasi sempre o nel letto matrimoniale, o in salone, o Aloïs si trovava chissà dove per gare o allenamenti, ma a volte lo vedeva che si allontanava da lui e si sedeva sul bordo del suo letto singolo dalle lenzuola azzurro pastello e fissava un qualcosa di lontano, che solo lui poteva percepire. La prima volta in cui era successo era stata quando era tornato da una delle sue competizioni, quella in cui aveva passato le selezioni per le nazionali. Era rimasto lì tutta la sera, senza muoversi di un centimetro e senza nemmeno cenare. Maurice si era molto preoccupato, ma, quando aveva tentato di avvicinarsi e capire cosa lo stesse turbando, era stato allontanato quasi in malo modo con un'occhiata gelida e un “Lasciami solo” secco e infastidito. E il ragazzo ne era rimasto parecchio stupito, soprattutto perché fino a pochi minuti prima Maurice era ancora sdraiato accanto a lui, tra le lenzuola stropicciate dopo che avevano fatto l'amore.
Durante uno di quei momenti di solitudine, però, Aloïs aveva afferrato le cuffie, aveva chiuso gli occhi e, invece che perdersi nel nulla davanti a sé, era affondato placidamente in una melodia. Maurice, quando aveva cercato l'mp3, si era semplicemente augurato che la canzone che l'aveva reso così apparentemente in pace con sé stesso fosse l'ultima riprodotta, e ora la stava diffondendo ad alto volume in tutta la casa.
Aloïs lo guardò un attimo, con gli occhi spalancati, cristallini come non mai. Socchiuse le labbra. Poi ricompose i suoi lineamenti e, proprio nell'istante in cui Maurice aveva sperato – era stato certo – che avrebbe rivisto il sorriso dolce che tanto amava, uscirono invece delle parole: «Non ti ho mai fatto ascoltare questa canzone».
Maurice sorrise, cercando di nascondere l'agitazione e la delusione: «No, l'ho trovata per caso...»
«Dove?»
«Beh, ecco... nel tuo mp3. Non sapevo che cosa ascoltare, e quindi ho pensato che...-»
«Non mi va che frughi nelle mie cose, Maurice».
Il ragazzo deglutì piano: «Hai ragione, Aru, scusami».
Dopo qualche secondo di teso silenzio, Aloïs chiese, come se ci fosse qualcosa di amaramente divertente: «Sai da dove è tratta?»
«No».
«Da Closer. È un bel film».
«Non... non l'ho mai visto» rispose Maurice, con la netta sensazione di aver commesso una gaffe enorme e di non essersene accorto nemmeno.
«Il film parla di tradimento, Maurice».
Sono un couillon, un coglione idiota e stupido. Pensò l'altro, ma ne uscì solamente uno strozzato: «Oh...».
Per la prima volta dopo anni si creò uno strano silenzio, quel genere di silenzio che non è solo mancanza di parole o presenza di troppe parole, ma qualcos'altro che aveva più a che fare con l'imbarazzo. E l'imbarazzo non era mai piaciuto a Maurice, perché gli sembrava sempre che se lo si provava era perché le anime delle persone erano distanti. Lui e Aloïs non si erano mai sentiti così, e la cosa lo spaventava più di quanto avrebbe dovuto.
Maurice scosse la testa, scacciando quei pensieri cupi: c'era un motivo se stavano ancora insieme, c'era un motivo se Aloïs era seduto di fronte a lui quella sera e non da qualche altra parte, e il motivo era che quel giorno erano esattamente due anni che stavano insieme. Non si sarebbe fatto abbattere da qualche sciocchezza come il film da cui è tratta una canzone o il fatto che avrebbe dovuto, prima di diffonderla nell'aria come fosse stato il romanticismo fatto a note, tradurne il testo. Erano errori che chiunque avrebbe potuto commettere, e lui era una persona come tutte le altre, non era perfetto.
Dopo che Maurice si fu alzato a spegnere lo stereo, la cena proseguì in silenzio, interrotto di tanto in tanto solo dal ticchettio delle forchette che battevano sui piatti di ceramica. Quindi il ragazzo prese il coraggio a due mani e chiese: «Com'è venuto lo sgombro?»
«Credo sia un po' troppo cotto. E manca un po' di condimento» rispose l'altro, con il suo solito sguardo gelido.
«Mi dispiace... è che ho voluto tenerlo al caldo fino all'ultimo, ma tu sei arrivato in ritardo e si deve essere un po' bruciato» spiegò Maurice, giustificandosi.
Solo dall'occhiata ancora più gelida che l'altro gli indirizzò capì di aver commesso un altro errore, e questa volta più grave degli altri: «No, scusami Aru, non intendevo...-»
«Invece sì, Maurice. Lo so, sono arrivato di nuovo in ritardo, ma non ero a divertirmi, e lo sai».
«Certo che lo so, scusami».
L'altro, come risposta, si limitò a scuotere leggermente le spalle. Eppure Maurice se ne accorse: le labbra avevano preso una piega rabbiosa e dura, come se ci fosse qualcosa che lo infastidiva a tal punto che sarebbe bastata una parola di troppo a farlo infuriare. C'era un modo soltanto per farlo tornare calmo, e quel modo era fargli sputare il rospo: «Aru, cosa c'è che non va? Lo sai che puoi dirmelo, ti posso aiutare, ti posso capire... oggi deve essere una giornata speciale» sussurrò, con fare protettivo.
L'altro alzò gli occhi: le pupille erano minuscole, le iridi brillavano di un luccichio rabbioso, le sopracciglia erano paurosamente piegate su sé stesse, quasi fossero accartocciate.
Maurice ebbe un secondo e basta per accorgersi di cosa fosse appena successo: il suo mondo era appena esploso. Aru era appena esploso.

 
****

Aloïs si vide come sputato fuori dal suo stesso corpo: percepì la rabbia bruciante sotto lo sterno, il sapore metallico del sangue a raschiargli la gola; le lastre di ghiaccio al posto degli occhi non erano mai state così torbide, i suoi muscoli mai così tesi. Alzò il capo e guardò Maurice.
Un pensiero, una consapevolezza si disegnò chiara nel suo animo. Ti odio.
Sì, lo odiava. Odiava quella gentilezza intrinseca nei suoi modi di fare, quei suoi sorrisi melensi, dolci fino alla nausea, e le scuse dette per non litigare. Odiava i capelli scuri sempre un po' spettinati, i suoi occhi verdi e brillanti, che se una volta gli parevano erba appena tagliata, ora si riflettevano nelle sue pupille come acqua melmosa; odiava il suono della sua voce da ragazzino, le sue spalle ampie e forti che una volta trovava protettive ma ora lo soffocavano. Odiava quella parte di Maurice che lo amava, odiava il suo sguardo tenero ogni volta che lo guardava, odiava le sue carezze, le sue parole, la sua scrittura sui biglietti lasciati tutte le mattine sul tavolo della cucina, odiava il tremolio leggero delle sue gambe quando tornava a casa esausto. Odiava il suo essere sempre accondiscendente, odiava i tratti perfetti del suo volto, odiava il modo in cui faceva sesso con lui, odiava ogni minimo particolare del ragazzo che aveva amato per due anni. Aloïs non voleva essere aiutato, non voleva essere consolato, non voleva essere compreso, amato e adorato. Non voleva sorprendersi davanti a una cenetta romantica, davanti ai petali di rose o al suo piatto preferito; non gli importava di essere felice, triste, arrabbiato, deluso, innamorato, odiato, amato: voleva semplicemente essere libre.
Si alzò di scatto dalla sedia e, senza dire una parola, si rinchiuse nella sua stanza da letto. Sentiva ancora risuonare dentro la sua testa le note malinconiche della canzone che Maurice aveva rubato dal suo mp3. Ripeteva a bassa voce ogni lettera, ognuna di quelle sillabe dure e sleali, quelle dolci e terribili parole che erano diventate la colonna sonora della sua vita.

I can't take my eyes off you
I can't take my eyes off you.

Aloïs rivedeva dieci, cento, mille volte l'immagine di Rémy che si abbassava su di lui, che gli rubava un bacio, che lo sfiorava come si affondavano le mani nell'acqua, con la certezza di non poterla trattenere. I suoi occhi che al buio brillavano quasi purpurei, i suoi capelli rossi, le sue ciglia corte, i suoi denti un po' storti, le sue labbra carnose, i suoi lineamenti affilati, il suo collo massiccio, le sue spalle aguzze ma forti, il suo petto contenuto a malapena nella divisa, i fianchi stretti, le gambe lunghe, i piedi morbidi, le dita forse un poco corte, le unghie mangiucchiate. Non poteva non vederlo, non poteva allontanare l'immagine di lui dagli occhi, anche se in quel momento non desiderava che i suoi tratti fossero così indelebili, che quella pelle sottile e leggermente abbronzata fosse da lui tanto conosciuta da sentirla sotto i polpastrelli. Non avrebbe voluto che, ogni volta che si incontravano, gli sembrasse di vivere in un continuo déjà-vu, come se si fossero amati già in un altro luogo, in un altro tempo, in un altro mondo. Ma la sua mente non riusciva a staccarsi da lui.

The colder water
The Blower's daughter
The pupil in denial.

Aloïs appoggiò la testa contro il muro. Era davvero una brutta persona, era così insensibile, così egoista, così vile. Fuggiva dalle cose belle, le rinnegava con odio; aveva allontanato Maurice perché con la sua dolcezza lo incatenava, aveva tradito Maurice perché la sua debolezza non gli aveva permesso di allontanarsi da lui prima di fargli del male, aveva amato Maurice perché non poteva fare altro, e aveva odiato Maurice perché quello lo amava troppo.
Aloïs era l'acqua più fredda e l'allievo di rifiuto. Aloïs era la figlia del vento.
Nascose la testa sotto il cuscino, sentendo i timidi colpi sulla porta: Maurice voleva capire e non riusciva. Rémy non voleva capire e invece ci riusciva. Come faceva a non arrivarci? Per quale motivo non comprendeva che il suo amore totalizzante lo soffocava? Come riusciva ad amarlo in modo tale da farlo sentire microscopico? Era davvero questo il Grande Amore di cui tutti parlavano? Un amore talmente vasto da strozzare la vita di colui al quale era indirizzato? È insensato odiare chi ti ama troppo. Eppure Aloïs odiava Maurice, odiava lui e sé stesso perché l'odiava.
«Ehi, Aloïs, ci sei?»
No, non ci sono. Non per te, non ora.
«Aloïs, ti prego. Non so cos'ho fatto, ma per lo meno fammi capire...»
Non capire, Maurice. Non devi capire.
«Aru, fammi entrare».
Vedresti quanto ti odio, se ti facessi entrare.
«Aru, ti amo. Non farmi questo, non oggi».
«Oggi è un giorno come altri» rispose questa volta, non riuscendo a sopportare quell'obbligo che l'altro gli imponeva. Perché ieri potevo essere arrabbiato e non posso esserlo oggi?
«Aru! Dai, fammi entrare e ne parliamo».
«Non chiamarmi Aru. Il mio nome è Aloïs».
Il ragazzo concluse così la conversazione, quindi si infilò le cuffie e si addormentò.

Can't take my mind off you
My mind.


Giorno -35, Parigi
Aloïs si svegliò. Non appena aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu che era ancora chiuso nella sua stanza, la seconda che si era addormentato con entrambe le cuffie nelle orecchie, la terza che il sole era ancora nascosto dietro le montagne. Si alzò dal letto con un terribile mal di testa e i muscoli stranamente deboli, quindi si avvicinò all'ingresso e girò la chiave. Spalancò la porta e un improvviso peso cadde sui suoi piedi: Maurice si era addormentato all'entrata della sua camera. Aloïs fece appena in tempo a notare i capelli scompigliati, i vestiti stropicciati e le linee di preoccupazione tra le sopracciglia che l'altro aprì gli occhi. Nel momento in cui incontrò quelli di Aloïs, li spalancò, si tirò su in piedi e chiese, preoccupato: «Oddio Aru, stai bene?».
Aloïs annuì, quindi lo superò e si diresse in cucina per prendersi un bicchiere d'acqua, ma non si stupì di sentire che l'altro l'aveva seguito.
«Aru... ti va di parlare di cosa è successo ieri sera?» chiese, con le mani che tremavano leggermente.
Aloïs scosse la testa e si versò l'acqua nel bicchiere di vetro. Ne prese un sorso, quindi porse la bevanda a Maurice che, senza capire, l'afferrò.
«Bevi» gli disse, e l'altro l'accontentò. Quindi fece un respiro profondo e disse: «Maurice, io ti ho tradito».
L'altro spalancò gli occhi: il verde brillante si appannò di colpo di lacrime, una delle sue mani andò a posarsi sulla bocca, premendola forte. Poi cadde, come cade un colosso. Si accasciò davanti a lui, si ruppe come una torre di pietra, il suo cuore scricchiolò e poi s'infranse. E Aloïs si vergognò della fitta di soddisfazione che aveva attraversato il suo cuore per essere riuscito, finalmente, a intaccare quel Grande Amore che l'altro provava per lui. Poi pianse, Aloïs, e non comprese nemmeno il perché di quelle lacrime. Si abbassò e abbracciò l'altro che, per la prima volta, non ricambiò. Le sue lacrime gli bagnarono la maglietta bianca, il suo odore sapeva di paura, di tristezza, di delusione, di fine di qualcosa. Aloïs conosceva Maurice, e sapeva che non avrebbe voluto che si allontanasse da lui, ma che anzi il suo abbraccio lo stava aiutando a ricomporre i pezzi. Maurice non era come tutti gli altri, Maurice era diverso. Si alzò in piedi, ma Aloïs non lo seguì e restò invece in ginocchio per terra, aspettando una risposta che arrivò da lì a breve: «Io ti amo, Aru» sussurrò.
Già, mi ami. Mi ami così tanto...
«Perché mi hai fatto questo, perché?» chiese, ma Aloïs capì che non voleva davvero conoscere la risposta, quindi stette in silenzio.
«Vuoi che ti lasci, così da poter andare da lui... o è una lei? Chi è, Aloïs, una ragazza, un ragazzo? Un uomo?»
«Un ragazzo» rispose.
Maurice sorrise, amaro: «Sai, una volta pensavo fossi quasi asessuale, un essere talmente lontano da chiunque altro che noi comuni esseri umani non potevamo nemmeno sfiorarti con un dito. E invece vedo che in molti possono farlo». Aloïs si rese conto che Maurice stava straparlando, che le sue parole non erano vere, che in qualche modo doveva ferirlo se voleva ricomporsi... e Aloïs si rese anche conto che gliel'avrebbe permesso: se lo meritava, era la punizione per quella scintilla di soddisfazione... sì, era la giusta punizione.
«Ti ha scopato, vero? Si è divertito con te, si è sfogato
Quanto mi ami, Maurice... anche ora vuoi proteggermi, anche ora hai paura che mi abbia solo usato, anche ora vuoi avvertirmi, vuoi dirmi che potrebbe essere stato solo uno sfogo.
«Scommetto di sì: tu sei così bravo a letto, Aru, così bravo... sarà rimasto contento, proprio contento». L'afferrò per le spalle, poi continuò: «E perché ti piace tanto? È ricco? È bello? Oppure è solo perché non sono io che ti piace?»
Non è perché non sei tu, Maurice, è perché lui è lui.
«Forse ti piace come ti scopa, forse pensi addirittura che ti ami... ma non è così, Aru. Solo io ti amo, solo io ti amo così».
«Hai ragione, solo tu mi ami così» rispose Aloïs.
«E allora perché, Aru, perché
«Parce que je veux être libre, Maurice (5)».
«E io non te lo permetto? Credi che lui ti lascerà libero, che non prenderà qualcosa da te, che non pretenderà il tuo amore, se è ciò che vuole?»
Aloïs sorrise dolcemente e con malinconia a quelle domande, quindi rispose: «Non ha bisogno di pretendere nulla da me, Maurice. Tutto quello che poteva avere già lo ha».
Un lampo di consapevolezza si fece strada negli occhi dell'altro, quindi si avvicinò ad Aloïs e lo abbracciò. «Aloïs, io non ti lascerò. Ti perdono tutto, lascio tutto così. Farò finta che non sia successo nulla, che tutto potrà tornare come prima. Ti amo troppo per lasciarti a lui». Aloïs fece per rispondere, ma l'altro lo interruppe e continuò: «Non voglio sapere chi è, com'è fatto, cosa fa di lavoro, da quanto vi vedete; non voglio sapere se mi tradirai ancora, non voglio sapere nulla... tranne se mi ami. Mi ami, Aru?»

Did I say that I loathe you?
Did I say that I want to
Leave it all behind?

Aloïs ci pensò un attimo: l'odio bruciante della sera prima era scomparso, tutta la rabbia e il fastidio che gli provocava la sua presenza non c'erano più, rimaneva solo un grande vuoto, come se tutti i sentimenti contrastanti che aveva provato fossero stati succhiati via da qualcuno o qualcosa. Ma non poteva mentire a Maurice, come non poteva mentire a sé stesso: in quel momento amava il ragazzo di fronte a lui, anche se lo amava nel suo modo egoista, anche se da un momento all'altro avrebbe ricominciato a odiarlo, anche se sapeva che ciò che univa lui e Rémy era qualcosa di totalmente diverso, di tremila volte più profondo e totalizzante, di più folle e logorante, forse più meschino e maligno, forse meno dolce e tenero, ma più reale. Ma amava Maurice, lo amava davvero: «Sì» rispose. E l'attimo dopo, quando le labbra di Maurice si sporsero a baciarlo, l'amore scomparse di nuovo e ricominciò a odiarlo, e solo perché, quelle labbra, non erano di un altro.

'Til I find somebody new.

 
****

Giorno +1, Parigi
Rémy si svegliò e l'odore del cloro lo avvolse. Inizialmente la sua mente ancora assopita si meravigliò, ma poi la sua pelle si accorse che qualcosa di caldo e vivo era sdraiato accanto a lui, e si accorse pure che quel qualcosa lo stava abbracciando nel sonno. Sorrise notando che aveva una lucida capigliatura nera come l'ebano e soffocò una risata quando notò che ogni respiro che emetteva faceva sollevare leggermente un ciuffo dei suoi capelli rossi. Gli posò un piccolo bacio sulla punta del naso, e Aloïs si svegliò dal suo sonno. Si stropicciò un po' gli occhi, quindi lo vide e, dopo un attimo di confusione – la stessa che anche Rémy aveva provato vedendoselo accanto – sorrise dolcemente. Non era la prima volta che lo vedeva sorridere in quel modo, ma generalmente quel curioso piegamento di labbra era indirizzato alla piscina nell'esatto momento in cui si stava per tuffare in acqua, non a lui. Rémy sorrise a sua volta e, con fare scherzoso, gli disse: «Buongiorno, Mister Sorriso».
L'altro, per tutta risposta, si limitò a guardarlo di sottecchi, quindi si mise faticosamente a sedere. E inutilmente, visto che Rémy afferrò il suo braccio e lo tirò nuovamente giù. Aloïs mugolò contrariato, ma si interruppe in fretta quando Rémy lo baciò dolcemente. L'altro ricambiò e approfondì il bacio, tanto che il ragazzo dai capelli rossi decise che era meglio mettersi a cavalcioni sopra di lui per farsi trovare preparato in caso Aloïs fosse giunto alla conclusione che fare l'amore al mattino era un buon modo per iniziare la giornata. Purtroppo, però, l'altro lo buttò giù di nuovo, chiaro segno che Rémy doveva mettere da parte per un po' le sue speranze e accontentarsi dei casti e morbidi baci che l'altro stava continuando a dargli.
Rémy passò la mano sul suo ventre piatto e scolpito, e come sempre si meravigliò della perfezione rasentata da quel corpo e ancor di più per il fatto di essere proprio lui a toccarlo. Poi, in un impeto infantile, iniziò a tirare all'altro dei piccoli pizzicotti, ma, accorgendosi che la quantità di grasso sotto la sua pelle era talmente minima che faceva fatica persino ad afferrarne un po', optò per il solletico. L'altro incominciò a contorcersi tutto, cercando di farlo smettere e al contempo di non scoppiare a ridere, ma alla fine si abbandonò a una risata spontanea e liberatoria.
Rémy si bloccò: se il sorriso dolce era già un grande passo in avanti nella lista di espressioni che il viso di Aloïs era capace di rivolgere a un essere umano, la risata era totalmente inaspettata. Doveva avere un'espressione davvero sconvolta, perché Aloïs, tornato serio, lo guardò e gli chiese: «Perché mi guardi imbambolato?»
Ci vollero parecchi secondi perché Rémy si riprendesse e rispondesse: «Non ti avevo mai visto ridere».
«Ed è così strano?» chiese l'altro.
«Sì molto...» rispose Rémy. Vedendo che però Aloïs aveva scosso le spalle e stava tentando di nuovo di alzarsi dal letto, aggiunse: «Vediamo di farlo diventare un po' meno strano» e si lanciò su di lui nuovamente, facendogli il solletico.
Quando la sua personale battaglia si concluse e le sue orecchie si furono riempite abbastanza di risate di Aloïs, stampò l'ennesimo bacio sulle labbra dell'altro e scese dal letto, alla ricerca dei boxer che la sera prima erano stati lanciati via da Aloïs nella foga di spogliarlo. Una volta trovati, se li infilò velocemente e si diresse in cucina per preparare qualcosa da mangiare per colazione. Non era mai stato tanto felice che fosse domenica e che la pasticceria fosse chiusa: lui e Aloïs avrebbero trascorso l'intera giornata insieme, e gli pareva ancora un sogno.
Dopo poco anche Aloïs arrivò in cucina e si mise a rimestare nel freezer; Rémy, non capendo cosa stesse cercando, gli domandò: «Che cerchi lì dentro, Aloïs?»
«Hai uno sgombro?» chiese l'altro di rimando, invece che rispondergli.
«Ho un cosa?»
«Uno sgombro».
«E che ci vuoi fare con uno sgombro, scusa?»
«Mangiarlo».
Rémy alzò un sopracciglio, quindi scoppiò a ridere. Non si preoccupò dell'espressione a metà fra l'infastidito e lo stupito di Aloïs, e nemmeno del ventre che incominciava a fargli male: Aloïs mangiava sgombri a colazione, e la cosa lo divertiva talmente tanto che non riusciva a smettere di ridere. Non appena si fu ripreso, si avvicinò ad Aloïs e lo abbracciò, quindi lo baciò e gli disse, ancora con il sorriso sulle labbra: «Sei proprio strano, caro Neveu» poi aggiunse: «E ti amo».
Aloïs lo guardò un attimo, poi lo baciò a sua volta e, con le mani ancora sui suoi fianchi, rispose: «Je t'aime, Rémy, et je t'ai toujours aimé (6)».

 
****

E così siamo giunti alla fine, o meglio all'inizio, della nostra storia. Il bellissimo Aloïs Neveu è felice e contento – e, attenzione attenzione, ride pure! –, il pimpante Rémy ha qualcuno da cui farsi abbracciare anche dopo il sesso, quel mago della meccanica di Stéphane è sparito dalla circolazione, ed evidentemente non vuole essere trovato visto che tutt'ora non conosciamo la sua posizione, e il gentile Maurice si è liberato di colui che amava talmente tanto da annullarsi per lui. Non vi pare che l'inizio di questa storia sia quanto di più confortante e promettente ci si possa aspettare?
Certo, non conosciamo la fine di tutte le loro vicende, non di quelle appena nate, ma se il buongiorno si vede dal mattino, non possiamo che essere ottimisti.
Ora salutate con il fazzoletto bianco tutti quanti, date un umidiccio bacio sulla guancia a questi quattro individui un po' speciali e una pacca sulla spalla d'incoraggiamento a ognuno di loro, che ne avranno bisogno... e leggete bene le ultime lettere di questa banale e allo stesso tempo curiosa storia:


 
The beginning.






 

Note autrice:
1 → palestrato;
2 → quello che se ne frega;
3 → quello che se ne frega, alla fine si è accorto troppo tardi di te;
4 → Buon anniversario, amore mio!
5 → Perché voglio essere libero, Maurice;
6 → Ti amo, Rémy, e ti ho sempre amato.

Ed eccoci arrivati alla fine della terza mini-long. Inizio ad avere un po' paura di concludere questa serie xD.
Dunque, la parti in inglese sono pezzi di lyrics della canzone “The Blower's daughter”: inizialmente non volevo metterli, ma rispecchiavano così bene i sentimenti di Aloïs che non ho resistito. E poi tutta la fic è nata praticamente da quella canzone, quindi in qualche modo dovevo farla comparire. La traduzione si può trovare tranquillamente in questo link.
In realtà, per questa volta, non so nemmeno io cosa scrivere: ho tirato un sospiro di sollievo enorme quando ho scritto le ultime due parole, perché scrivere così tanto per me è stato davvero stancante e difficile... ma anche bello. Quindi ti ringrazio, giudiciA, per aver indetto questo contest ^_^.
Ah, per quanto riguarda il prompt: alla fine l'ho cambiato perché non c'è un vero e proprio “doppio gioco” , anche se tutta la storia è basata sul tradimento, un po' perché non mostro scene in cui uno dei due fa di tutto per non farsi scoprire dal suo petit ami (ormai ci ho preso la mano, a scrivere in francese ._.), un po' perché entrambi confessano il tradimento. Invece “legame” mi sembrava più appopriato: c'è il legame fra Stéphane e Rémy, quello fra Maurice e Aloïs e, quello più forte, tra Aloïs e Rémy, ma anche, volendo, quello “nascosto” fra Stéphane e Aloïs, che passa attraverso Rémy. Gli altri prompt da cui ho preso, parzialmente, ispirazione sono: “pasticceria” (lavoro di Rémy), “black out” (scena dell'ascensore), “bilocale” (casa di Stéphane), “nave che affonda” (o meglio, “nave” e basta... per quel monologhino all'inizio di Aloïs).
Poi vorrei specificare un'ultima cosa: l'ultima battuta di Aloïs, quella in cui dice per la prima volta direttamente a Rémy che lo ama, nella seconda parte dice “ti ho sempre amato” perché fa riferimento al prima, a quei déjà-vu che entrambi hanno durante i loro incontri e a quella sensazione di conoscersi da sempre.
Infine, poi la smetto, vorrei ringraziare infinitamente
IseyZ che ha betato questa storia e mi ha dato una mano per le traduzioni in francese che prima erano scopiazzate pedestremente da Google Traduttore.

A presto,

Aturiel.

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