Sussurri di Candide Voci

di AnnaB99
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Una vita difficile ***
Capitolo 3: *** Scoperte a dir poco piacevoli ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


~~PROLOGO

St. Rose, 18 agosto 1984.

Nel teatro appartenente alla famiglia Ellison si è consumato un terribile omicidio. La moglie di Ephram Ellison e i suoi 8 figli sono stati ritrovati morti nella sala dove, dopo la cena, si sarebbe rappresentato “Don Giovanni”. La serata era stata organizzata per festeggiare il dodicesimo anniversario di matrimonio. I corpi sono stati ripetutamente accoltellati, sfregiati e si pensa addirittura violentati. La scenografia era ricoperta di sangue e molti disegni satanici sono stati ritrovati sul pavimento e sui muri. I cadaveri dei bambini erano seduti nella prima fila, gli occhi vuoti che osservavano la madre, appesa con una catena al sostegno dei riflettori, facendo gocciolare il sangue delle ferite a terra, creando un lago di sangue. Alla signora è stato tagliato di netto il braccio sinistro. Era mancina. Forse significa qualcosa. La pelle del ventre è stata rimossa ma gli organi interni sono ancora al loro posto. Sotto di lei c'era scritto "REVENGE". Forse è stato l'assassino. Crediamo che l’arma del delitto sia stata un’accetta. I nostri sospetti sono stati confermati quando abbiamo trovato l’arma poco lontano dal palco. Si sta cercando di capire quali rivali questa deliziosa e tranquilla famiglia potesse avere. Per ora il teatro è stato chiuso e il giovane Ephram se ne è andato. Non è riuscito a resistere più di un giorno. Ora si trova a Londra, da un'amica. Non si sono trovati indizi che possano incriminare una persona. Stiamo ancora interrogando alcuni invitati al ricevimento. Non ci sono svolte nell'indagine.
-Investigatore capo: Leroy Allen

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Capitolo 2
*** Una vita difficile ***


Ehilà ragazzi! Scusate se ho eliminato il capitolo! Ma mi sono resa conto che mi aveva eliminato i dialoghi! Sono un fottuto genio!
A presto!
-Anna



Capitolo 1: Una vita difficile

Salve. Io sono Atena. Se già mi conoscete vi ricorderete di me grazie ad alcune mie strambe caratteristiche. La prima è sicuramente il mio nome… chi mai potrebbe chiamarsi così?! Seconda… i miei capelli azzurri. Capiamoci, non sono celesti, ma di un azzurro slavato, tendente al bianco. In molti mi chiedono se sono tinti e quanto dico loro che sono nata così mi ridono in faccia e mi intimano di smetterla di scherzare. Io faccio spallucce e me ne vado la maggior pare delle volte. Un’altra sarà sicuramente il mio occhio destro. I miei occhi sono celesti, tranne per il centro dell’iride destra, che è lilla. Per il resto sembro una normale ragazza di 23 anni: la pelle bianca e lentigginosa, il corpo relativamente magro, qualche tatuaggio… peccato che non sia così. Quando il Signore ha distribuito la pazzia, mi ha dato anche la razione delle persona dopo di me. Ogni tanto alcune persone dicono che quando sono con me sentono la presenza di qualcuno o si sentono osservati. Non posso biasimarli, dato che io ci vivo con questa sensazione. Io sono una medium e a causa dei miei poteri, che a detta di mia mamma vanno oltre ogni limite dell’immaginazione, molti fantasmi cercano conforto in me. Alcuni non mi hanno mai lasciato da quando li ho incontrati. Quella di medium è una vita difficile…
< Soprattutto se ti svegli con un centinaio di occhi puntati contro di te! > urlo, per quello che mi permette la voce arrochita dal sonno, lanciando la sveglia che ancora suona beata contro un grumo di ectoplasma in fondo al mio letto. Mi tiro a sedere, mentre scruto il confortevole buio della mia stanza. All’improvviso le tende si aprono e faccio un balzo all’indietro, coprendomi gli occhi.
< Maledetti bastardi, quante volte vi ho detto di non fare questi scherzi! Disgraziati! > strepito, asciugandomi gli occhi lacrimanti e doloranti. Alcune risate remote e soffuse si perdono nella stanza.
< Ok, adesso è ora di una doccia… > mormoro, alzandomi. Attraverso la camera e mi dirigo verso il bagno. Al momento vivo in alcune stanze vuote sul mio posto di lavoro. Io gestisco una libreria in compagnia dei miei fratelli. È una libreria un po’ particolare, niente da dire, ma a noi piace. Abbiamo un sacco di generi ma vendiamo soprattutto libri per bambini e storie fantasy. Abbiamo anche una sezione di videogiochi. I miei fratelli non sono veramente i miei fratelli di sangue, almeno non totalmente. Mio padre ha avuto molte relazioni, una finita peggio dell’altra. Per fare un esempio, la madre del mio fratellastro Juan è morta alcuni mesi dopo il parto a causa di un’infezione. Mia madre invece è ancora viva, malata, ma viva. Ha la leucemia. Cerco di non pensarci troppo e le scrivo e telefono quando posso. Lei vive a Londra e non è voluta venire qua con noi dopo che abbiamo deciso di trasferirci a St. Rose. Korinne, la nostra sorella adottiva è russa. Non è figlia di papà, è un’orfanella che ha trovato in uno dei suoi viaggi a Mosca. Papà ci ha detto che lei aveva fatto a piedi tutta la strada che la separava da San Pietroburgo a Mosca, nel neve. È più grande di me di 4 anni, mentre Juan ne ha 5 in più di me. Ci guadagniamo da vivere non solo vendendo libri, ma anche facendo dei piccoli spettacoli per bambini all’interno della libreria. Abbiamo la sezione Magia, nella quale lavora Juan, quella Fantasy, dove lavoro io, e quella Pirati, che è di Kori. Ma questo solo il venerdì e il sabato. Io solitamente gestisco il piccolo bar della libreria. È un piccolo locale di legno scuro, mobili raffinati e antichi, luci soffuse e una piccola veranda che dà sul selciato del centro. St. Rose è un piccolo paesino, dove abitano poche famiglie con bambini, alcune coppie di anziani e poi noi. È molto attivo, come si può notare. Le casette sono basse e dai colori vivaci, fiori alle finestre, negozietti carini e gestiti da persone mielose e appiccicose. Noi tre usciamo il meno possibile, a volte andiamo al mercato della domenica mattina, dopo messa. A volte ci vedono quando andiamo a fare la spesa, anche se preferiamo andare nella città a qualche chilometro da qui. Siamo circondati da boschi di querce e faggi. Pensando alla colazione che mi aspetta, mi butto sotto il getto d’acqua, ad occhi chiusi. Dapprima è gelata, poco dopo diventa ustionante e poi si fa viscida e tiepida. Chiudo immediatamente l’acqua. Prendo l’accappatoio ed esco.
< Vado nell’altro bagno! > annuncio a Juan seduto a tavola.
< Esce sangue? > mi chiede senza alzare lo sguardo dal libro che sta leggendo. Qualche libro di magia molto probabilmente.
< Come fai a saperlo?! > gli chiedo falsamente sconvolta, cercando di togliermi dal viso alcune gocce di suddetto liquido.
Una volta fatta la doccia, butto giù dal letto Korinne, che ancora non si è alzata. Mangiamo qualcosa tutti assieme e poi scendo per aprire il bar. Oggi Korinne ha il giorno libero. Rimarrà tutto il giorno giù al bar a bere come un pesce e a fumare come un camino. Apro la porta che dà sulla veranda e tiro giù le sedie dai tavolini. Poco dopo Korinne mi raggiunge e comincia ad aprire gli ombrelloni. Rientro velocemente, lasciandola sola. Se rimanessi da sola con lei, probabilmente tenterebbe di assalirmi e chissà che altro. Non posso permetterlo, non a queste ore di mattina!
< Cos’è? Mi stai evitando? > mi chiede lei, sedendosi al bancone.
< Può darsi… > mormoro.
< Quanto sei noiooosa! > dice lei, nascondendo falsamente sconsolata la testa fra le braccia.
Un cliente si siede ad uno dei tavolini all’esterno.
< Su Kori, renditi utile > le dico, mentre asciugo alcune stoviglie. Lei si alza di malavoglia e va verso il cliente con un notebook e una penna.
Ho lavorato per tutta la giornata senza interruzione alcuna, evitando che Kori mi si avvicinasse troppo e sperando che Juan non mi chiamasse per fare qualche lavoretto. Verso le 7 della sera sento arrivare un camion. Questa è nuova. Non ci sono clienti quindi posso anche allontanarmi per un po’. Esco sulla veranda, dove Korinne si è addormentata con la cicca ancora accesa, il viso appoggiato alla mano. Le tolgo la sigaretta dalla mano e gliela spengo nel posacenere ormai stracolmo e porto via i bicchierini da liquore che occupano tutta la superficie del tavolino. Torno fuori. Guardo verso la direzione del rombo del motore. Un camion per traslochi era fermo davanti al teatro. Un brivido freddo mi scende lungo la schiena. Qualcosa non va. Mi avvicino, allungando il collo per osservare meglio.
< Ehi! Salve! Mi scusi, ma chi verrà a vivere qui? > chiedo con un sorriso. L’uomo a cui mi sono rivolta mi osserva un attimo e poi, sorridendo a sua volta, mi risponde:< Tornerà a viverci il vecchio proprietario… è da anni che non torna qui! >.
Io annuisco.
< Signorina, si sente bene? > mi chiese, appoggiando una mano sulla mia spalla.
No, non mi sento per niente bene. Mi giro verso il teatro. Non mi è mai piaciuto, ma ora… è ancora più brutto di prima. È una bella struttura, niente da ridire, ma non è lì il problema… direi… che ci sono un paio di fantasmi all’interno. Erano dormienti, potevo percepirli anche prima, ma ora… no, è peggio. Non sono solo fantasmi…
< Atena! >.
Mi giro. È Dylan.
< Arrivederci > dico laconica, andando verso il ragazzo.
< Ehi, cosa succede? Ti ho sentito improvvisamente debole…> mi chiede il ragazzo dal pallore mortale davanti a me.
< Non è niente… > dico io, quasi correndo all’interno del locale, lasciando Dylan in strada. Mi metto dietro al bancone, cercando di prendere profondi respiri. Sento che sta per succedere qualcosa di orribile.
< Atena? >.
Dylan ora è seduto sul bancone e mi osserva. Ha gli occhi verdi, i capelli lunghi e biondi. È magrissimo e parecchio alto.
< Dimmi >.
< È da anni che non ti sento così giù… hai percepito qualcosa di brutto? >.
< Anche i sassi lo percepirebbero! Sono l’unica a sentire quella maledetta aura malefica attorno al teatro?! > gli sibilo, avvicinandomi. Lui non ha il tempo di rispondere che suona il mio cellulare. Brutto affare. Guardo il nome che compare sullo schermo. Il mio cuore smette di battere. È il numero dell’ospedale dove mia mamma fa le trasfusioni. Con mano tremate rispondo alla chiamata.
< Pronto? > dico, la voce poco più alta di un sussurro.
< Lei è la signorina Atena, vero? > mi chiede una voce dolce al di là del telefono.
< Sì, sono io. Telefonate per mia madre, immagino > dico, sull’orlo di una crisi di pianto.
< Sì signorina… mi dispiace comunicarle che sua madre Selene è stata ricoverata d’urgenza a causa di un crollo >.
< E… non si può fare niente? Nemmeno le trasfusioni posso fare qualcosa? Un trapianto? >. Sto cominciando ad andare nel panico più totale.
< … Mi dispiace, ma la leucemia è a uno stadio troppo avanzato… >.
Non rispondo. Mi copro la bocca con la mano. Dylan non c’è più. Alcune lacrime mi rigano il volto.
< Mi sta dicendo quindi che non ha molto da vivere… vi rendete conto che ha 47 anni!? È giovane! Può farcela a sopportare un trapianto… >.
< È troppo debole per essere sottoposta a un intervento… >.
Mi appoggio al bancone, la braccia incrociate.
< Quanto? > chiedo, la voce tremante.
< Due giorni, forse tre… > mi dice grave.
Riattacco. Mi faccio lentamente scivolare verso il pavimento. Mi sento svuotata ed inutile. All’improvviso sento una porta aprirsi. Cerco di non farci caso fin quando non mi compaiono davanti le gambe di un uomo. Sono gambe muscolose, avvolte nei pantaloni della tuta grigi. So chi è. Due forti braccia mi sollevano di peso e mi mettono in piedi. Io tengo sempre lo sguardo basso. Le braccia di prima si stringono attorno a me, accoglienti e protettive.
< Mike… > sussurro. Lui mi accarezza la testa, per poi lasciarci un bacio.
< Shh... > mi bisbiglia.
< Mia mamma… >.
< Dylan mi ha detto tutto… > mi interrompe.
< Quel maledetto fantasma > bisbiglio. Mi lascio consolare da Mike. Ne avevo bisogno. Poi lui mi solleva il viso. Dei grandi occhi verdi mi osservano, la pelle olivastra e i capelli neri. È il mio migliore amico, da una vita. Ma ormai credo che sia anche qualcosa di più. Ha origini maori, da quello che mi diceva. E questo si rispecchia molto nei suoi tratti ma soprattutto dal tatuaggio che ha sulle spalle. Mi dà un leggero bacio sulle labbra e poi torna a stringermi.
< Vuoi che ti accompagni a Londra? > mi chiede. Io annuisco mentre affondo il viso nel suo petto largo e muscoloso.
< Vado a dirlo agli altri… > mi dice, facendomi accomodare su uno sgabello lì vicino.
Sono così contenta di avere lui nella mia vita.

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Capitolo 3
*** Scoperte a dir poco piacevoli ***


~~Capitolo 2: Scoperte a dir poco piacevoli
Sono stata a Londra per una settimana. Sono rimasta affianco a lei per due giorni, parlandole e cercando di scherzare anche se avrei preferito piangere. Lei continuava a sorridere nonostante tutto. Mike mi è sempre stato accanto. Korinne e Juan ci hanno raggiunto il giorno in cui è morta. Proprio qualche ora prima. Abbiamo organizzato un piccolo funerale, tra pochi intimi, niente rinfresco, solo una breve cerimonia. C’era il sole, brillava così forte. Sembrava volesse salutare la mamma. Mi mancherà così tanto. Abbiamo aperto anche il suo testamento. Abbiamo ereditato la casa e tutti i suoi averi. Tutto. Macchine, vestiti, gioielli. Tutti i soldi che teneva nelle varie casseforti in casa. Con tutti quei soldi potremo tranquillamente fare la bella vita. Ma per ora li abbiamo trasferiti sul nostro conto corrente. Sono partita il lunedì e sono ritornata a casa la domenica sera ma sono andata a dormire da Mike, in quanto Korinne e Juan sono rimasti su un po’, per vedere se papà si sarebbe fatto vedere. Papà era così innamorato di mamma. Ma lei ha chiesto il divorzio. Ho come l’impressione che sia colpa mia. Quando il lunedì sono tornata alla biblioteca, ho visto il teatro aperto, le finestre spalancate e dall’interno proveniva un gran vociare. Non mi fermo a vedere chi c’è e in quanti siano. È pomeriggio inoltrato ormai. Non vedo l’ora di tornarmene a casa. Mi fermo davanti alla porta d’ingresso o meglio, m’immobilizzo. Qualcosa di estremamente arrabbiato e cattivo se ne sta in casa. Non vorrei entrare ma qualcosa mi spinge l’interno. La porta si chiude di scatto e la chiave gira nella toppa. DA SOLA. Ok Atena, mantieni la calma.
< Vieni >.
Un bisbiglio. Una voce di bambino. Tolgo le chiavi dalla serratura. Accendo la luce. In quel preciso istante delle impronte di piedini ricoprono il pavimento. Vanno in tutte le direzioni. Si vede da qua che è sangue. Sfilo le scarpe e lascio le valigie all’entrata. Mi giro e provo a riaprire la porta. Maledizione, mi sembra di essere in uno di quei film dove il protagonista va a cacciarsi nei guai per salvare i suoi amici. Che peccato! Io sono una egoista del cazzo quindi… POSSO USCIREE?! E ora cosa faccio?! Devo attraversare il corridoio e poi tutta la libreria prima di arrivare all’entrata principale… Cazzo. Faccio alcuni passi per l’atrio, verso il corridoio. I passetti si sono fermati. Mi sento osservata, ma non ci faccio caso. Non mi giro. Attraverso il corridoio a passo veloce, la chiave giusta già in mano. Sento i passi che mi seguono. Devono essere una decina di bambini, i piedini che fanno un piccolo squittio ogni volta che incontrano il parquet. Sfreccio silenziosamente verso la porta. Infilo la chiave nella serratura. Ed ecco.
Una risata.
Una risata di cuore, di quelle che ti fanno scendere le lacrime. Peccato che l’essere che la sta emettendo non sia di certo l’essere più contento della terra. Lo percepisco perfettamente... deve essere da molto in casa. Che mi aspettasse? Delle catene risuonano in lontananza. La porta non vuole aprirsi. E ora? Sono assediata da piccoli fantasmi imbrattatori di pavimenti (di cui al momento non mi preoccupo) e da qualche mostro che, al momento, sta facendo il giro della casa (del quale ho una paura che metà basterebbe). La biblioteca è strutturata su due piani. Il piano terra è quello per gli adulti, il primo è quello per i bambini. Al momento il mostro sembra trovarsi nel reparto magia, in quanto tutte le sfere di cristallo di Juan al momento si stanno sfracellando al pavimento. Riprovo ad aprire la porta. La risata va e viene. Riprovo a girare la chiave ma niente da fare. All’improvviso regna il silenzio. Un brivido freddo mi percorre la schiena e un gran terrore mi pervade. Atena, mantieni la calma e ricordati quello che ti diceva mamma! Mantieni la calma e non disperare. Posso prevedere le mosse di quelle creature … Non so che cosa ci sia al piano di sopra e la mia calma sta andando a farsi benedire. Mamma… grazie mille del consiglio, sai. Peccato che non mi hai spiegato COME fare. Grazie. Le impronte di sangue si girano tutte verso le scale che portano al primo piano. Mi giro lentamente anch’io. Tutto quello che vedo emergere dall’oscurità del piano di sopra sono due occhi bianchi e luminosi. Grazie alla luce da loro emessa riesco a distinguere un largo sorriso, i denti aguzzi e mal messi, le labbra rosse, non so se di sangue o di rossetto. Gli occhi sono sbarrati, i capelli radi e sporchi. La pelle ha un sanissimo colorito verdastro. La bestia ansima e mi fissa. Non riesco a muovermi. Sempre guardandola provo a spingere la porta, a girare la maniglia, a fare qualsiasi cosa, in preda al panico, alla paura più nera.
Scende le scale, anche abbastanza velocemente.
Provo a pensare ad un’altra uscita, ma le finestre non si aprono abbastanza per farmi uscire. La porta del bar è chiusa e non ho la chiave con me. Se l’aggiro, considerando che è veloce, potrebbe raggiungermi. E poi non so se ha un’arma con sé. Ok, ci vedremo al mio funerale.
Ansima.
Non capisco quello che dice.
Sta cercando di dire qualcosa ma la bocca cucita in un’eterna smorfia non può permetterglielo.
È ormai giù dalle scale. Ora la vedo. Il vestito che una volta doveva essere giallo, tutto sbrindellato, l’addome è completamente aperto, riesco a vederle gli organi interni, delle ferite rosse e macilente su tutto il corpo, le catene alle caviglie. Un’infinità di altre cicatrici si estendono su tutto il corpo. Una gamba è più lunga dell’altra e se la trascina, come se facesse male. Un braccio è lasciato penzoloni di fianco, l’altro impugna un’accetta sporca di sangue. Panico. Meno male che non mi sono mossa. O forse dovevo muovermi? Dovevo andarmene?
Ansima ancora.
< U…C…D…LA… >.
Non c’è bisogno di un genio per capire che dice “UCCIDILA” … il problema però è un altro... ma non posso pensarci adesso. Più si avvicina, più il panico mi assale, come il terribile tanfo che l’accompagna. Spingo la porta, la calcio, la graffio ma ormai c’è poco da fare. Non riesco a guardarla, non riesco a capire come mai mi sento mortificata. Mi salgono dei conati di vomito, gli occhi mi diventano lucidi e la vista diviene sfocata, le mani che si ricoprono di graffi. Non capisco più niente. Voglio solo uscire, voglio sono andarmene. Cosa ho fatto per meritarmi questo?! Nonostante le mie condizioni sia indecenti, continuo a riprovare. Continuo a sperare che qualche miracolo accada. E all’improvviso si ferma.
< TI… O… DI…O > dice lei.
< P-perché? > mormorò tra me e me.
< Vieni >.
E la porta si spalanca, qualcosa mi spinge fuori. Vado a sbattere contro qualcuno. La testa mi gira e il mio stomaco fa una capriola. La persona che mi sta reggendo mi porta velocemente a un cestino lì vicino. Vomito l’anima mentre quella persona mi tiene i capelli lontani dalla faccia. La mia vista è ancora annebbiata, gli occhi che continuano a lacrimare. La mia mente è confusa e non riesco a pensare lucidamente. Quando ormai nello stomaco non rimane nemmeno la bile, mi scosto con malagrazia dal cestino. Gli occhi stanno lentamente recuperando la loro abilità. Perdo l’equilibrio ma il mio soccorritore mi sostiene.
< Ti senti bene? > mi chiede una voce distante. Scuoto la testa in diniego, la bocca impastata. Rischio di cadere nuovamente, ma il mio soccorritore mi tiene per le spalle.
< Vieni >.
A sentire quella parola il mio cervello va in panne. Non di nuovo, non di nuovo! Mi divincolo dalla sua stretta ma sono così debole che non mi muovo nemmeno di un centimetro. Mi fa sede sulle gradinate del teatro e mi chiede di aspettare. Dove dovrei andare in queste condizioni? Ho ancora la nausea e non riesco nemmeno a tenermi in piedi. Devo avere un aspetto orribile. Il mio soccorritore ritorna con un bicchiere d’acqua e una coperta. Siamo a giugno ma sto tremando come se fossi in pieno dicembre, vestita come ora, nella neve fresca. Sorseggio l’acqua e mi sento rigenerata. La sento scendere giù, dritta nello stomaco. Osservo l’uomo seduto affianco a me. Ha il viso sciupato, gli occhi azzurri stanchi, i capelli sale e pepe e il completo elegante. Ha un’espressione dolce sul viso, nonostante tutto.
< Ti senti meglio? > mi chiese, stringendomi di più la coperta attorno al petto.
< Direi di sì… > mormoro io. Lui sorride. Non so perché ma mi sembra di conoscerlo… perlomeno di averlo già visto da qualche parte.
< Cos’è successo là dentro? Sei uscita così velocemente! > mi dice lui.
< Non era mia intenzione andare a sbatterle addosso, giuro! È solo che… Bah, non mi crederebbe! >.
< Giuro che qualsiasi cosa tu mi debba raccontare ti ascolterò, senza ridere o fare commenti… tu racconta tutto >.
Lo guardo sbalordita. Senza aggiungere altro comincio a raccontare quello che ho visto. Lui rimane serio e mi osserva dritto negli occhi, ogni tanto annuisce.
< Dalla descrizione… sembra proprio mia moglie… > mi dice, pensieroso. Io lo guardo sconvolta.
< Se è sua moglie potrebbe dirle che forse non questo il modo in cui ci si fa conoscere ai vicini?! Cristo, se la vada a riprendere quella matta travestita! > gli urlo addosso. Lui mi guarda senza capire.
< Mia moglie è morta trent’anni fa… > mi dice con un mezzo sorriso.
< Scheiβe… > sussurro, passandomi una mano tra i capelli. Le osservo. Sono tutte graffiate, il sangue che ha lasciato scie rosso scuro sui palmi e sulle dita.
< Mi spiace… è solo che non… voglio crederci… > gli dico, lo sguardo basso. Un fantasma? A me sembrava qualcosa di diverso… di più potente… devo ancora la mente annebbiata.
< Ti capisco, non ti preoccupare > mi dice lui. Mi alzo. Lui mi guarda interrogativo.
< Grazie di tutto signore, ora levo il disturbo > dico, mentre tolgo la coperta.
< A-aspetta! … I tuoi vestiti… > dice l’uomo. Abbasso lo sguardo. Sono tutti sporchi di sangue e stropicciati. Sembra che i fantasmini si siano divertiti a stringersi a me. Le gambe sono ricoperte di stampi di manine. In alcuni punti sembra che si siano addirittura appoggiati con il viso. Guardo l’uomo con un mezzo sorriso.
< Non fa niente, non ho problemi con i vestiti… > gli dico, incamminandomi verso la biblioteca.
< Hai intenzione di tornare là dentro!? > mi urla. Sembra preoccupato. Che sia stato padre?
< Sì, perché è casa mia > gli rispondo, leggermente stizzita.
< No, tu stai qua per questa sera! > mi dice perentorio.
< Dalla padella alla brace… > borbotto stizzita mentre roteo gli occhi.
< Cosa?! >.
< Ascolta, sento perfettamente cosa si nasconde in questo teatro e lasciamelo dire, non è niente di carino e coccoloso! > urlo, infervorata. Lui rimane lì a fissarmi. Come mai più lo guardo più mi pare famigliare? Devo essere confusa, non ci sono altre spiegazioni. Ma la mia mente sembra essersi ripresa completamente.
< Vado a casa di un mio amico… > gli dico in tono monocorde. Scendo le scale velocemente. Ma lui mi ferma. Ci fissiamo per un po’ negli occhi. Come mai ha un viso così famigliare! Non assomiglia nemmeno lontanamente a papà, né a qualsiasi altro uomo cinquantenne che conosco… come mai allora? ...
< Io sono Ephram, Ephram Ellison… >. Io annuisco. Quel nome non mi è nuovo.
< Io sono Atena e basta sapere questo > gli dico, tornando sulla mia strada.


[L'angolino della fallita]
Ciao a tutti ragazzi! Scusatemi se continuo a modificare i capitoli ma veramente, essendo il mio primo racconto horror continuo, soprattutto grazie a voi, a scoprire le mie falle! Vi ringrazio moltissimo!
Baci
-Anna

 

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