Asking Alexandria

di Holly Rosebane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Question? ***
Capitolo 2: *** Answer. ***



Capitolo 1
*** Question? ***




 I.

Question?





“Non sono mai stato così a pezzi in tutta la mia vita,

avrei dovuto aspettarmelo…
Non mi sono mai sentito così senza speranza come in questa notte,
non voglio più andare avanti”.

(Asking AlexandriaMoving On)
 
 
 
 
 
 
 
Odiavo rispondere al telefono. Il solo gesto di dover allungare la mano e sollevare la cornetta, mi provocava un moto d’irritazione. Non sapevo il perché di questo mio astio nei confronti di quel semplice apparecchio telematico. Forse perché non mi piaceva il suono che la mia voce aveva, arrivando all’altro capo del filo. Forse perché, chiunque mi chiamasse, mi poneva delle domande, cercando di mettersi in contatto con me. Mi strappava dalla mia dimensione di beata solitudine per proiettarmi in un’altra nella quale le informazioni della mia quotidianità privata venivano condivise con qualcuno di esterno. E io non volevo spartirle con nessuno. Non mi piaceva, dover rispondere alle solite domande di routine che chiunque poneva appositamente per dare inizio ad una conversazione. “Come stai?”, “Come procede la tua vita?”. Ai “come”, poi, si succedevano sempre i “quando”. Non bastava dire semplicemente “bene”, per definire una posizione nello spazio. Esigevano anche quella nel tempo.
Visto, a quanti problemi portava il dover rispondere al telefono? Ecco perché, ogni volta che l’apparecchio di casa squillava, io lo lasciavo urlare a squarciagola, finché non sopraggiungeva il tanto agognato silenzio. Rispondevo solamente alle chiamate che mi arrivavano sul cellulare. Ed esse erano rare e mi permettevano di sapere all’istante chi fosse, facendo in modo di garantirmi una vaga idea di cosa volesse.
Non seppi perché, quel pomeriggio, il mio telefonino cominciò a vibrare. Preludio della canzone degli Scorpions che mi avrebbe avvertito che qualcuno desiderava parlarmi. Lo presi, tendendomi svogliatamente sul tavolo da pranzo, interrompendo la mia sessione di studio delle quattro. Sollevai lo sguardo dai miei appunti di letteratura inglese, di malavoglia, per posarlo sul display dello smartphone.
Numero Sconosciuto. La prassi sarebbe stata ignorare la chiamata. Ed era proprio ciò che avevo in mente di fare, se solo uno strano impulso non avesse spinto il mio pollice a scorrere rapidamente dal tasto verde a quello rosso.
Me ne pentii all’istante. Mi portai il dispositivo all’orecchio, sorpresa di me stessa e pronta a liquidare il malcapitato dall’altro capo del microfono in due parole secche. Pregustavo già gli attimi di beatitudine che la modalità aereo mi avrebbe concesso, dopo che avessi concluso quella conversazione inutile già in partenza.
«Sì?» Dissi, con un tono di voce volutamente svogliato e poco amichevole. Non ottenni alcuna risposta, solo un silenzio ostinato e vuoto. Sospirai.
«C’è qualcuno?» Domandai, più a me stessa che ad un immaginario interlocutore. Ero quasi pronta a riattaccare.
«Tu non sei mia madre», rispose una voce, nell’apparecchio. Era maschile. Giovane, bassa e vibrante. Con un accenno di contrariato stupore. E l’accento tipicamente australiano. Chissà da dove chiamava.
«Dall’ultima volta che ho controllato, non mi risulta di aver partorito nessun figlio. Quindi no, non credo di essere tua madre» commentai, sollevando un sopracciglio. Udii un verso sarcastico, che si sforzava in tutti i modi di sembrare una risata.
«Ma questo è il numero di mia madre», insisté la voce.
«Potresti ripetermelo? Magari c’è stato uno sbaglio», gli suggerii, con non seppi quale pazienza. In altri tempi, avrei attaccato dopo la prima risposta sarcastica e tanti saluti. La voce mi dettò le cifre con sicurezza. Erano identiche a quelle della mia sim. Con una sola differenza.
«L’ultimo, è un tre. Tu mi hai appena detto quattro».
«E allora?»
«Allora devi aver premuto un tasto, scambiandolo per un altro. Chiamando me» spiegai, ancora più costernata. Ottenni un mugugno come replica.
«Magari c’è una spiegazione valida, per tutto questo», commentò la voce. Sbuffai.
«Ne dubito. Il caso agisce secondo leggi proprie, che non hanno nulla a che fare con le vite degli uomini. Ciò che ti ha portato a premere tre al posto di quattro è stato il frutto di un errore di distrazione. Semplice. E ora, se non ti spiace, vorrei tornare ai miei appunti» dissi, liquidandolo.
«Cosa stai studiando?» Chiese invece lui, ignorando apparentemente il mio tentativo di concludere quella conversazione.
«Letteratura inglese. Ma non vedo come…»
«Da università o superiori?»
Attesi qualche istante, prima di rispondergli. Il quantitativo di domande mi stava già innervosendo oltremodo, eppure lo strano impulso che sembrava avermi guidato nel rispondergli, mi suggeriva di continuare quel breve scambio d’informazioni. Come una specie di sesto senso. Sentivo un inspiegabile urgenza di non abbandonare quella voce al suo destino, tagliando l’esile ed invisibile filo della comunicazione che ci aveva momentaneamente legati.
«Università».
«Quanti anni hai?»
«Mi trovo forse nel bel mezzo di un interrogatorio? Non ricordo di aver spacciato droghe, guidato in stato di ebbrezza, ucciso qualcuno o rubato qualcosa», commentai. Ottenni una risata, vera, genuina. Non il verso strozzato di poco prima. Era quasi piacevole da ascoltare.
«Voglio soltanto conoscerti. Ripeto, forse c’è un motivo che ha spinto il mio pollice a premere quel tre» insisté.
«Perché sei così fissato con il destino?» Chiesi, sinceramente interessata.
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda».
Astuto. Niente da obiettare.
«Venti», confessai, svogliata. Perché non avevo attaccato quattro domande fa?
«Hai un anno più di me», constatò la voce. Facendo un rapido calcolo, mi risultò che stavo parlando con un diciannovenne. Bene.
«Buono a sapersi».
«Come ti chiami?»
«Alexandria» concessi, a malincuore. Ormai avevo gettato tutta la mia privacy alle ortiche.
 «Troppo lungo. Ti chiamerò Lexi» decise la voce, con convinzione.
«Se così preferisci…»
«Perché non mi rivolgi nemmeno una domanda?» Riprese.
Ah, certo. Mi aveva rivoltato la questione contro. Mi sfilai gli occhiali da lettura con una mano, abbandonandoli sul tavolo. Poi mi massaggiai la radice del naso con pollice e indice, dove i segni dei naselli solcavano le mie carni arrossate.
«Credo nella logica del “non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”. Detesto quando qualcuno mi fa delle domande, costringendomi a parlare della mia vita. Ed ecco perché io, a mia volta, non faccio richieste».
«Ma non sei curiosa di sapere con chi stai parlando?» Insisté, seriamente impressionato. Mi strinsi nelle spalle, anche se non poteva vedermi.
«Sei un ragazzo, di diciannove anni e probabilmente vieni dall’Australia».
«Potrei essere un maniaco serial killer».
«Lo sei?» Chiesi allora, cogliendo la palla al balzo. Attimi di silenzio. Forse avrei dovuto cominciare a preoccuparmi.
«No».
«E cosa sei?»
«Una persona».
«Fin lì ci arrivavo anche io, grazie tante» commentai, con ironia pungente. Riecco il verso sarcastico di prima. Se proprio doveva dimostrarmi che si stesse divertendo, avrei preferito una risata vera.
«Vuoi sapere dove sono, adesso?» Riprese. Non sapevo se la sua risposta mi sarebbe interessata davvero, ma ormai ero in ballo. Lanciai una veloce occhiata al mio quaderno con gli appunti scritti di corsa durante la lezione di due giorni fa. E li salutai mentalmente con la manina, conscia che, per quel pomeriggio, la mia sessione di studio sarebbe andata persa.
«Dove sei?» Chiesi a mia volta, rassegnandomi.
«Sono seduto sul davanzale della mia finestra, con i piedi verso il vuoto. Sotto di me, c’è un viavai continuo di macchine. E di individui che camminano avanti e indietro sul marciapiede».
Quella risposta non mi piacque affatto. La mia attenzione subì un’impennata, risvegliandomi dal molle torpore in cui mi ero abbandonata mentre rispondevo alle domande di quella voce un po’ pedante che io non conoscevo.
«Perché sei lì?»
«Avevo tutta l’intenzione di saltare giù. Sai… schiantarmi contro l’asfalto o sul cofano di un’auto», ammise, con tranquillità.
«Sii serio», lo ammonii.
«Lo sono», affermò. «Ecco perché avrei dovuto chiamare mia madre. Per dirle che le volevo bene», concluse. Scattai in piedi. Magari scherzava. Magari era tutta una presa in giro, un banalissimo prank telefonico. Oppure, quel ragazzo stava veramente tentando il suicidio e in quel momento parlava con me al cellulare.
«Okay. Non lo fare».
«Dire a mia madre che le volevo bene?» Domandò, divertito.
«No, stupido. Saltare giù».
«Perché dovrei darti retta? Dammi un solo motivo valido», rispose, gelido. Mi stupii con quale rapidità il suo tono di voce era mutato, passando dall’affabile e anche ingenuo al freddo e tagliente. Mi passai una mano fra i capelli, cercando di radunare le idee.
«Perché… perché voglio conoscerti» buttai lì, senza avere realmente coscienza di ciò che stessi dicendo, aggrappandomi alla prima stupida trovata che mi passasse per la mente.
«Vuoi conoscermi?» Ripeté, quasi divertito.
«Sì. Voglio… voglio farti delle domande. E tu dovrai rispondermi. Se saltassi, non potresti rispondermi» spiegai, cercando di dar forza alla mia intonazione vocale, per sembrare convincente. Passarono alcuni istanti di silenzio, in cui temetti che lui non avesse colto il mio tentativo.
«Come in una specie di gioco» commentò. «Chiamiamolo “Asking Alexandria”», scherzò. Incredibile come, apparentemente, non riuscisse a mantenere un atteggiamento serio per più di due minuti.
 «Dagli tutti i nomi che ti pare, ma accetterai?»
«E sia», affermò. «Risponderò alle tue domande. Giochiamo».
Sospirai, impercettibilmente. Cominciai a camminare nervosamente per il salotto, mordendomi un’unghia.
«Come ti chiami?»
«Luke Hemmings».
«Il cognome potevi anche tenertelo».
«Cosa mi avrebbe distinto dall’essere uno dei milioni di Luke che abitano il pianeta, sennò?» Disse, con una punta d’amarezza nella voce.
«Il fatto che tu ora stia parlando con me».
«Bel tentativo, Lexi» concesse, e chissà perché, immaginai che stesse sorridendo.
«Come passi le tue giornate?» Ripresi, cercando di appigliarmi a tutti quei convenevoli da conversazione telefonica che io odiavo così tanto. Che ironia.
«A casa. Disteso sul letto. Occasionalmente, passo sul divano».
«Non esci mai?»
«Sono agorafobico».
«E la scuola?»
«Ho studiato in casa fino ai sedici anni».
«Cosa ne è stato dei restanti tre?» Proseguii. Dovetti ammettere che cominciavo ad interessarmi sinceramente alla vita di quel Luke. Che persona particolare.
«Sono rimasto nel mio appartamento, a leggere romanzi e ordinare cibo da asporto e pizza a domicilio».
«Per tre anni?» Chiesi ancora, incredula.
«Sì. Che c’è di male?»
«Non hai amici?»
Attese qualche istante, prima di rispondermi. Lo sentii sospirare, piano.
«No».
«Non ci credo».
«Se ne avessi avuti, non pensi che qualcuno avrebbe cercato d’impedirmi di buttarmi dalla finestra?» Reagì, tagliente. Mi sentii colpita nel profondo, da quella domanda. Nessun amico. Nessuno che avrebbe provato a fermarlo prima di suicidarsi. Forse si trattava di una persona sola, che non aveva alcun rapporto col mondo esterno. Fermarsi a chiacchierare con me in un frangente simile, non poteva essere altro che una disperata richiesta di aiuto. Anche se molto bizzarra e inverosimile. Forse mi stavo lasciando impressionare. Tuttavia, il tono della sua voce sembrava sinceramente ostile, sulla difensiva. In genere, si raggiungeva una sfumatura vocale simile solo quando si cercava di rispondere a qualcosa in grado di ferire. Se nessuno avesse tentato di distoglierlo, ci avrei provato io.
«Dove abiti?»
«A Brooklyn».
«In che punto?»
«Bell Street, dopo la quarantaduesima».
Appena ebbe finito di pronunciare la frase, già seppi quello che avrei dovuto fare in seguito. Agguantai le chiavi della macchina, passando per l’ingresso. Poco mi curai di indossare gli abiti più consunti ed inutili del mio guardaroba, prevedendo una giornata di reclusione forzata in casa. Era una situazione d’emergenza.




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Nota: hello, again! Ho deciso di invadere il fandom una volta per tutte, yes. Spero che per voi non sia un problema (?)! L'idea per questa storia, mi è balzata in mente un pochino di tempo fa, ascoltando le canzoni degli Asking Alexandria (se non li conoscete e apprezzate il post-hardcore o i gruppi alla Pierce The Veil... dategli un'occhiata). E quindi, è precisamente grazie a loro che la vicenda è potuta nascere. Pertanto, ho deciso di impostare tutto sul nome della protagonista e sul suo ruolo. Anche l'idea di un Luke intenzionalmente suicida mi piaceva molto, non ho tanta dimestichezza con questo genere di tematiche ed è sempre stato un mio desiderio approfondirle.
Okay, mi sto dilungando. Questa sarà una two-shots, avrà quindi solo due capitoli. Una cosa breve, per tenersi in allenamento e farmi conoscere un po'! Essendo relativamente nuova di questo fandom, mi farebbe veramente piacere conoscere le vostre opinioni sulla storia! Anche per rendermi conto di come voi recepite i miei scritti, hahahah! Quindi, non siate timidi! See ya al prossimo aggiornamento e... stay tuned!

P.S.: vi lascio il bannerino della mia ultima long sui 5sos e il mio contatto Wattpad! Non siate timidi neanche in queste circostanze, è sempre un piacere scambiare opinioni con voi! 



The Hollow Men


Wattpad

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Capitolo 2
*** Answer. ***




 II.

Answer.




«Ogni respiro che prendi,
Ti vedo scivolare via…
Stai lentamente uccidendo te stesso.
                                                                          -Sarò la tua luce nelle tenebre»

(Asking AlexandriaI Won’t Give In)
 
 


 
Continuai a porgli domande per tutto il tempo che impiegai a raggiungere la macchina e a mettermi in viaggio verso Bell Street. Avevo raccolto diverse informazioni: veniva effettivamente dall’Australia, i suoi genitori l’avevano mandato a vivere da solo, su suggerimento del suo psicologo. Sostenevano che cambiare realtà l’avrebbe aiutato a superare il blocco che egli aveva nei confronti dei luoghi affollati. Che, di fronte alle numerose possibilità delle City statunitensi, lui avrebbe sentito l’impulso di gettarsi nella mischia. Ma, l’unico passo avanti che aveva fatto, era stato quello di adottare un gattino randagio che aveva trovato per strada, impaurito a morte, all’angolo che portava verso il suo condominio. Una volta al mese si faceva coraggio e andava a fare la spesa. Viveva di pochissimi viveri, la breve puntata al supermercato gli bastava per almeno trenta giorni. Era in quel frangente che si era imbattuto in “Kurt”, il gattino.
Non scambiava alcuna parola con anima viva, al di fuori di quei pochi e presunti “amici” che il suo contatto Facebook aveva, e che gli scrivevano in chat di tanto in tanto per informarsi su come fosse la vita in America. Lui mentiva, costruendo fantastiche storie in cui ogni notte andava ad esplorare un quartiere diverso, la mattina passeggiava per i parchi, leggendo libri e camminando sotto gli alberi. Nulla di tutto ciò era vero. Ma chi osservava il freddo monitor dall’altra parte dello schermo non poteva saperlo.
Ero al cosciente che forse potesse trattarsi di una colossale recita, e che lui poteva davvero essere un maniaco serial killer. Ragion per cui, nella borsa avevo ficcato uno spray al peperoncino. Per ogni evenienza. Il mondo non era un posto facile in cui vivere, per una giovane donna, le serie tv di Fox Crime me l’avevano insegnato fin troppo bene. Stavo ancora parlando con lui, quando giunsi nei pressi dell’unico condominio presente in Bell Street. Parcheggiai, fiondandomi fuori dall’auto con una rapidità del tutto inedita, per me. Mi avvicinai al citofono, cercando il cognome Hemmings, non del tutto sicura se potesse essere il suo vero nome di famiglia oppure no. Tuttavia lo trovai, ma non mi fu necessario premere il dito sull’interruttore: il pesante portone anticato in ottone e ferro battuto era già aperto.
«A che piano abiti?»
«Terzo», rispose, con tranquillità. Mentre prendevo l’ascensore, gli chiesi se avesse una ragazza. Mi rispose di no, ovviamente. Appena fui fuori dalla sua porta, indugiai per un momento. Poteva ancora trattarsi di un serial killer, mi ripetei. Nascosi la mano nella borsa, stringendo il freddo metallo della bomboletta spray. E poi presi un gran respiro.
«Potresti aprirmi la porta di casa?» Gli chiesi. Passarono diversi attimi di ostico silenzio, e lui continuò a non rispondermi. Cominciai seriamente a preoccuparmi, quando vidi l’uscio schiudersi lentamente. Fui quasi assalita dall’impulso di scappare, come ultimo strascico di buonsenso. Ma rimasi comunque lì. Ciò che vidi, mi lasciò basita.
Un giovane piuttosto magro mi guardava dall’alto in basso. Aveva dei capelli biondo miele non troppo lunghi, dall’aspetto un po’ dimesso e tirati all’indietro; probabilmente domati dalle infinite volte che le sue dita avevano solcato le ciocche, per rimetterle a posto. Volto dai tratti armonici, perfettamente simmetrici e di una struggente bellezza. I suoi occhi azzurri avevano la stessa profondità dell’oceano, e mi scrutavano con attenzione. Quasi come se mi stessero attentamente leggendo l’anima, essendo in grado di decifrare codici di cui io stessa ignoravo l’esistenza. Le sue morbide labbra erano decorate da un piercing nell’angolo inferiore sinistro, ed erano immobili in una linea espressiva. Indossava solo una sbrindellata maglietta a mezze maniche di un gruppo metal che anche io ascoltavo, e degli skinny neri strappati in più punti. Era a piedi nudi. Inoltre, notai che il suo polso destro era fasciato da numerose bende bianche. Che quasi si confondevano col pallore cinereo del suo incarnato.
Quello era Luke Hemmings. La voce sconosciuta che aveva chiamato il mio numero per sbaglio. Un Apollo greco che veniva dall’Australia, dall’aspetto maltrattato e sfatto, dal volto scavato e le occhiaie di un profondo colorito violaceo. La sua presenza m’incuteva timore e ammirazione in parti uguali, disorientandomi. Mi accorsi di avere ancora in mano il cellulare, così chiusi la chiamata. E tornai a rivolgergli un’occhiata stranita. Non sapevo cosa fare. Non avevo nemmeno idea che sarei arrivata fino a quel punto.
«Posso entrare?» Gli domandai. Lo vidi annuire, in silenzio, facendosi da parte per lasciarmi passare. Lo sentii chiudere la porta con gentilezza, seguendomi con passi silenziosi. Mi guardai attorno, rendendomi conto di quanto il suo appartamento fosse piccolo e spoglio. Non c’era nulla che indicasse l’appartenenza di quelle quattro mura ad una persona viva e reale. Nel salotto giaceva una vecchia tv di quarantacinque pollici, spenta. Addossato al muro, un vecchio divano dall’aspetto comodo e vissuto, di una tonalità di grigio che quasi faceva invidia alle macchie di muffa nel bagno della mia università. Colsi uno scorcio del cucinino, spartano, e un miagolio sommesso mi ricordò la presenza del suo gatto, Kurt. Che ci raggiunse in salone, venendo a strofinarsi contro le mie gambe, facendo le fusa. Era un soriano, dal pelo bianco chiazzato di rosso e gli occhi verdi. Mi chinai per accarezzarlo, sorridendo.
«Gli piaci», furono le prime parole che egli pronunciò, da quando fui arrivata. Senza il cellulare a mediarla, la sua voce sembrava ancora più fresca e profonda. Non tradiva quella nota di tristezza che vibrava da tutta la sua persona. Osservandolo, notai che le bende erano presenti anche sull’altro polso. Dandomi una fastidiosa sensazione che mi augurai fosse falsa.
«Ce l’ho fatta», gli dissi. Lui sollevò un sopracciglio.
«A far cosa?»
«Impedirti di saltare dalla finestra», spiegai. Sembrò non averci proprio pensato, fino a quel momento. Si lasciò sfuggire un “oh” sinceramente sorpreso. Parve schermirsi lievemente, nel dovermi parlare faccia a faccia. Un imbarazzante silenzio ci calò sulle spalle. La sua brava spavalderia di poco prima era scomparsa.
«Vuoi… vorresti del caffè?» Mi chiese, rompendo il ghiaccio. Annuii, seguendolo in cucina, mentre Kurt saltava silenziosamente sul divano, acciambellandosi con mollezza.
Come avevo scorto attimi fa, anche quel nuovo ambiente era spoglio e poco personalizzato, con un’isola in stile moderno abbandonata nel mezzo, insieme a due sedie spaiate. Il piano cottura era vuoto, eccezion fatta per la caffettiera, mentre il lavandino era stipato di piatti puliti, accatastati senza essere stati rimessi a posto. Sopra di questo, attaccate al muro, giacevano una serie di credenze addossate le une le altre, orizzontalmente. Il frigo, di un grigio metallizzato, ci osservava in silenzio da un angolo della stanza. E questo era tutto ciò che affollava lo spazio, altrimenti vuoto.
Luke prese due tazzine pulite, versando la bevanda scura in entrambe. Ne mise una di fronte a me, mentre stringeva l’altra fra le mani, accomodandosi su una delle due sedie male assortite. Presi posto sull’altra, vagamente a disagio. Solo in quel momento mi accorsi della presenza di una larga finestra con un ampio davanzale, che era rimasta spalancata. Probabilmente era da lì che il ragazzo aveva chiacchierato con me per tutto quel tempo.
«Adesso puoi dirmelo?» Domandai. Ottenni un’occhiata interrogativa in risposta. Sospirai.
«Perché volevi suicidarti?»
Luke rimase in silenzio, sorbendo il suo caffè, prendendo tempo.
«La mia vita non ha senso», rispose poco dopo, levando i suoi profondi occhi azzurri su di me. «Sono costretto a vivere in questo squallido appartamento, impossibilitato ad uscirne. Se per caso mi passasse per la testa di mettere un piede fuori da quella porta, dovrei prendere almeno tre pillole per riuscire a farmi abbastanza coraggio, prima che la paura mi scortichi vivo. Ho passato tre anni della mia vita a leggere tutti i romanzi su cui potessi mettere le mani, guardando qualsiasi robaccia passasse per quella schifo di televisione ad ore impensate» cominciò, riversando un flusso irresistibile di parole dalle sue belle labbra, infervorandosi. «Spendendo tutto questo tempo ad osservare il mondo, ho cominciato a capire che la vita mi spaventa, perché attraverso i social network mi è più facile controllare ogni cosa. Le mie azioni, le mie parole, sono filtrate da uno schermo, che non permette a nessuno di guardare il mio volto o ascoltare la mia voce. Posso pensare prima di dare una risposta. Posso aggiustarla secondo i miei bisogni, farla passare per una verità assoluta. Nessuno sa veramente se io stia male o bene» spiegò, esauriente.
«Odio la tecnologia. Se non avessi disposto di tutti questi modi per restare in “contatto” con chiunque, sarei forse stato in grado di adattarmi al mondo. E sai cosa ho fatto, invece? Ho adattato il mondo a me, perché rischiare di mostrare le mie emozioni e far entrare qualcuno nella mia vita è meno pericoloso di schiacciare “segui” e “conferma amicizia” su uno stupido display touch screen.
«Spiegami che senso può avere una vita fittizia, costruita attraverso universi immaginari che nessuno potrà mai venire a contestarmi, perché, per il “mondo”, io conduco un’esistenza meravigliosa. Ho quattromila followers e ben cinquecento amici su Facebook. Ma chi era al mio fianco quando i miei piedi dondolavano nel vuoto, questa mattina?»
«Io, Luke. Io c’ero!» Esclamai, battendo una mano sul tavolo e scattando in piedi, scostando malamente la sedia, che grattò il pavimento come forma di protesta. Avevo ascoltato ogni sua parola, sentendomi sempre più male. La sua agorafobia era cresciuta in proporzione diretta con il progredire della sua fama sui social network. Era quasi come un meccanismo di difesa nei confronti del mondo. Più la sua vita virtuale acquistava forza, meno appetibilità rimaneva a quella reale, nella quale lui era uno scarto della società. Un recluso reietto, buono a niente, che aveva perfino timore nel girare l’angolo per raggiungere il supermercato.
«Vuoi sapere la verità? Quando mi hai chiamato, avevo progettato di attaccarti il telefono in faccia dopo le prime tre battute», confessai, appuntandogli addosso uno sguardo determinato e quasi di rammarico.
«E perché non l’hai fatto?» Incalzò lui, alzandosi anch’egli e fronteggiandomi apertamente. Dovetti alzare il capo per guardarlo negli occhi. Era decisamente alto.
«Sei stato tu ad insistere nel conoscermi. Parlavi di destino e possibilità. Ai miei occhi, erano delle pazzesche richieste d’aiuto. Avrei potuto abitare dall’altro capo del mondo, essere chiunque. Ma tu hai voluto conoscermi lo stesso, dicendomi poi che il tuo progetto era quello di farla finita, buttandoti dalla finestra. Come potevi pretendere che non avrei fatto nulla per impedirlo?»
«Eri solo una voce dietro un telefono, il tuo corpo era inesistente quanto quello di tutti i miei amici virtuali».
«Beh, non lo sono, Luke» risposi, risentita. «Io sono vera, esisto. Anche i tuoi… conoscenti dei social network esisteranno, ma io adesso sono qui, proprio davanti a te. Puoi vedermi e toccarmi, ed io posso fare lo stesso. Per esempio», m’interruppi, prendendogli un polso e mettendogli sotto gli occhi le sue fasciature di garza bianca. «Cosa sono queste? Che senso hanno? Sono i tuoi “amici” la causa della loro esistenza?»
Luke rimase in silenzio, osservando il suo polso stretto nella mia piccola mano, guardandolo come se l’avesse davanti per la prima volta.
«Ogni volta che provavo a chiudere tutto e a gettarmi nella vita reale, ci rinunciavo. Rintanandomi nuovamente dentro casa, riaprendo le mie consuete applicazioni e passando un’altra giornata a vivere un’esistenza che non era la mia», ammise. «Queste cicatrici sono qui per ricordarmi ogni singola volta che non ce l’ho fatta, che sono stato debole e miserabile. Ce n’è una nuova per ogni mio tentativo. L’ultimo è stato ieri». In quel momento mi accorsi che il tessuto cicatriziale più chiaro e frastagliato si estendeva lungo tutti e due gli avambracci di Luke, evidenziando delle linee orizzontali più o meno regolari e fittissime. Sembrava di osservare le braccia di un ottantenne.
«Sono semplicemente uno spreco di spazio. Ingombro il mondo con il mio corpo, l’unica cosa che sono capace di fare è incidermi un taglio orizzontale sulla pelle, per stare bene con la mia coscienza. Sono… sono un disastro» commentò, voltandosi e abbassando il capo, liberando il polso dalla mia presa e stringendo le mani a pugno.
Provai una pena incredibile per quel giovane. Stava appassendo sotto i miei occhi con una velocità inaudita ed estremamente ingiusta. La sua vita era valida quanto quella delle altre. Ma lui non lo sapeva. Mi ignorava con un misto di vergogna e risentimento, quasi come fosse disgustato da se stesso. Sospirai.
«Luke, tu non sei uno spreco di spazio», dissi. «Proprio come mi dicevi al telefono questa mattina… se ancora non sei riuscito ad uscire di scena dal mondo, è perché deve esserci un motivo».
«Certo che c’è: sono un debole del cazzo che non è nemmeno capace di riuscire a tagliare bene» ribatté, con rabbia. Gli premetti una mano sulla spalla, facendo in modo che il suo viso fosse nuovamente rivolto verso di me. I suoi profondi occhi color cielo esprimevano un vortice continuo di emozioni. Paura. Rabbia. Frustrazione. Risentimento. Dolore. Sfiorai la sua guancia eburnea ed incavata con la mano, mentre la durezza nel suo sguardo si affievoliva lievemente.
«Non è così. Allora non lo capisci? Sei un miracolo che cammina, Luke. Ogni volta che sei sopravvissuto, hai provato a sconfiggere il mostro che c’era dentro di te. Sei forte e coraggioso. Ucciderti sarebbe uno spreco di potenziale. Chissà quante cose saresti in grado di fare, se solo avessi più fiducia nelle tue capacità».
«Nessuno crede in me».
«Questo lo pensi tu».
La distanza fra noi era così minima che, a separarci, occorreva solo lo spazio di un respiro. Sentii gli occhi azzurri del ragazzo soffermarsi sul mio volto, percorrendone ogni centimetro come se fosse avido di scoprire cosa c’era dopo quello che avesse già visto. Indugiò un istante di troppo sulla mia bocca. Lo vidi avvicinarsi lentamente, inclinando la testa dolcemente. Potevo sentire il suo respiro caldo sul viso. Questione di attimi, e avvertii le sue labbra premere piano sulle mie. Erano fresche, morbide.
Non seppi nemmeno io quello che stesse accadendo. Mi accorsi solo che, rapidamente e senza staccarci l’uno dall’altra, ci spostammo dal cucinino alla sua camera da letto. Sentii le sue mani infilarsi sotto la mia maglietta, e lo aiutai a tirarla via. Si sbarazzò rapidamente anche della sua t-shirt, lasciandola per terra. Gli ultimi ricordi che ebbi di quella smaniosa frenesia, furono le mie gambe che cingevano i suoi fianchi, e il peso del suo corpo sul mio, mentre crollavamo sul suo grande e morbido letto.
 
 


Qualche tempo dopo, Luke aveva appoggiato la testa sul mio ventre, osservando la porzione di cielo stellato visibile dall’ampia finestra della sua camera. In quel momento, passavo le dita attraverso i suoi morbidi capelli biondi, senza stancarmi, mentre lui respirava senza far rumore.
«Non è proprio da me», dissi, rompendo il silenzio.
«Cosa?» Domandò lui, senza cambiare posizione.
«Fare sesso con gli sconosciuti».
«Ma tu mi conosci. Da questo pomeriggio. Penso che tu sia l’unica persona, a parte mia madre, a sapere così tanti particolari della mia vita».
«Allora ce l’hai, una vita», commentai, sorridendo. Ottenni quel suo consueto verso sarcastico.
«Se così ti piace definirla».
«Non sono io. È la realtà dei fatti».
«Se la tua “realtà dei fatti” mi porta ad esperienze simili… magari ci penserò più spesso», commentò con malizia. Smisi per un momento di passargli le dita fra i capelli.
«Stamattina hai detto di non avere una ragazza!» Esclamai.
«Sì. E che quasi non mi ricordassi più come fosse fatta una donna. Ma questo non ho ritenuto importante dirtelo, dal momento che sembro ancora saperci fare bene», aggiunse, ridacchiando. Gli tirai gentilmente qualche ciocca, per ripicca.
«Belle considerazioni per uno che era prossimo al suicidio!» Proruppi. Ciò ebbe il potere di farlo sollevare a sedere, offrendomi la vista delle sue spalle larghe alla penombra della luna. Sembravano due vaste colline, bianco pallido. Al centro della sua schiena, correva la spina dorsale. Che affiorava lievemente con i suoi rigonfiamenti tipici, insieme alle due fossette che spuntavano, simmetriche, poco sopra il bacino.
Luke aveva un bel corpo, sebbene lievemente smagrito. Con un’alimentazione sana, avrebbe potuto riacquistare il valore salutare di quello di qualsiasi diciannovenne. Si voltò, guardandomi in volto. Il suo viso, illuminato per metà dalla luce proveniente dalla finestra, lo faceva sembrare un bellissimo miraggio nel bel mezzo di un sogno. Era un quadro perfetto. Una visione.
«Sai», esordì. «Ho quasi voglia di uscire e andare da qualche parte».
«E la tua agorafobia?»
Si allungò sul morbido materasso, sfiorando le lisce coperte bianche che avevano accolto i nostri corpi, poco prima. La sua mano incontrò la mia, stringendola gentilmente. Sentivo la fresca pressione delle sue dita sulle mie.
«Sarai con me?» Mi chiese, riservandomi un’occhiata di muta preghiera.
«S-sì», gli risposi, sorpresa della mia stessa determinazione.
«Allora penso di potercela fare», ammise. «Più o meno».
«Niente più nuove cicatrici come punizioni per tentativi fallimentari?» Contrattai, non dimenticando mai quelle ferite che ancora gli bruciavano sotto la stretta fasciatura candida. Lo vidi annuire.
«Qualcuno, stamattina, mi ha detto che non sono mai stato uno spreco di spazio», mi disse. «Visto? Una ragione c’era, dietro quel mio premere tre al posto di quattro».


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Nota: e anche questa è conclusa. Devo essere sincera, nonostante siano stati solo due capitoli e anche loro siano passati abbastanza in sordina... ho comunque avvertito un serio legame con questa storia. Sarà per colpa della musica che l'ha ispirata, o per via della tematica. Non ne ho idea. Fatto sta, che ho voluto particolarmente bene a questo Luke, molto più degli altri che ho creato nelle mie vicende.
E niente. Ora che tutto è concluso, posso dirvi che Shailene Woodley ha prestato il volto alla mia Alexandria, come magari vi sarete accorti dal banner! Inoltre, alla fine di questo mio spazio, vi allegherò i links delle canzoni che mi hanno guidata nel dar vita a questi due capitoli, perché trovo che siano molto belle e ho tutta l'intenzione di condividerle con voi (se apprezzate i 5sos, Nirvana -soprattutto per Bleach e In Utero- e i Green Day magari riuscirete ad apprezzare anche questa bellissima band) e non parlerò della mia cotta per il chitarrista.
Per questa sera, il mio angolino si conclude qui. Vi ringrazio immensamente per aver messo AA nelle preferite/seguite/ricordate e per averle dedicato del tempo in ogni caso. Finita anche questa, ho in serbo altro per questo fandom, oltre a The Hollow Men. Quindi... stay tuned! E adesso vi auguro una buona serata, ringraziandovi ancora per i minuti che spenderete per la storia e per me (magari potreste lasciarmi un commentino, anche un "datti all'ippica"... manifestate la vostra presenza!)!



♫ Asking Alexandria - Moving On
♫ Asking Alexandria - I Won't Give In



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