The Holders

di Noah Jayden Vati
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- Campana di vetro ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. - Come educare un ragazzo distratto. Pt. 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Come educare un ragazzo distratto. Pt. 2. ***



Capitolo 1
*** Prologo- Campana di vetro ***


Heylà, signori e signore. Vi informo subito che colui che parla in questo capitolo è e sarà l'unico narratore di questa storia. Il resto lo scoprirete leggendo.

*********************

Ci sono ricordi che non possono essere dimenticati facilmente, nonostante ogni nostro sforzo; ci sono memorie che non riescono ad abbandonare la nostra mente, perché noi stessi inconsapevolmente non vogliamo mandarli via; ci sono voci, suoni, volti e profumi che trovano dimora negli angoli più impenetrabili del nostro Io e lì si legano con catene intangibili fatte di nostalgia e sogni, paure ed angosce.
Uno scrittore, Huxley, disse che la memoria di ciascun uomo è la sua letteratura privata. Dovrò cimentarmi in questa lettura se voglio spezzare quelle catene e rendere così liberi i frammenti di ricordi che mi mancano per rimettere insieme il mio incompleto puzzle di memorie.
Non è poi così difficile raggiungere lo scopo, tutto ciò che serve è solo un po' di tempo e la giusta concentrazione. Per ironia della sorte però, nonostante ci abbia ripetutamente provato, la pace che tanto bramo non sembra essere alla mia portata, dato che spesso e volentieri vengo puntualmente disturbato.

Devo proprio ammettere che le celle le ho sempre immaginate in modo assai differente.

« Noah?»
Eccoci di nuovo... La voce metallica e sfarfallante che ha appena parlato proviene dal piccolo altoparlante fissato ad un angolo della stanza. È vecchio e logoro, di forma rettangolare e con dei piccoli bucherelli al centro da cui fuoriesce il suono.
Mi volto verso di esso con fare seccato, come se di fronte a me ci fosse una persona in carne ed ossa a cui mostrare tutto il mio disappunto.
«Cosa vuoi?» gli chiedo con un certo tono.
«Ooh.» Sospira la voce, quasi divertita «Tu sai cosa voglio.»
Certo che lo so. Ma mai e poi mai potrei dirglielo.
Un po' per guadagnare tempo, un po' per infastidirlo e non dargli quella soddisfazione di avermi ormai in pugno, decido di non rispondergli subito, e far finta di riflettere.
Appoggio la schiena, prima ricurva, contro il muro e faccio un respiro profondo, ma me ne pento non appena il mio naso, dopo la profonda inalazione, viene assalito da quel forte odore di muffa e umido che impregna ogni centimetro di questo posto. La visuale dal canto suo è quasi del tutto oscurata ( e dico quasi, perché se non fosse per quell'unica lampadina giallognola incavata nel muro del soffitto, mi ritroverei completamente al buio) ma non è poi un gran problema, visto che qua dentro non c'è niente di tanto interessante da osservare. Nonostante tutto, non ho problemi a riconoscere gli oggetti attorno a me e dopo aver fatto un svelta panoramica della stanza il mio sguardo cade sul piccolo materasso vicino alla parete opposta a quella a cui sono appoggiato. Lo guardo intensamente come se in esso si trovasse la risposta che cerco mentre la mia mente viene assalita da migliaia di frasi e parole, che non sembrano minimamente riuscire a soddisfarmi.
Le cose da fare sono sostanzialmente due: o ascoltare ciò che la mia mente mi dice, cioè vomitare fuori tutta la verità, o seguire il volere delle mia labbra e mentire. Chi delle due devo assecondare?

La mia testa, che in questo momento mi da l'impressione di essere così pesante, sfrega lievemente contro la parete ruvida provocandomi un leggero dolore e svegliandomi improvvisamente da quella trance in cui ero caduto.

Ormai deciso sul da farsi, mi volto verso l'altoparlante e parlo, con l'intento di seguire il volere della mia bocca.
«Perché continui ad insistere? Ti ho già detto che io non so niente.»
La Voce non si fece attendere neanche un momento per sputare fuori la sua risposta.
«Io la penso diversamente. Dimmi un po', ciò che è davvero inutile è insistere o lo è il continuare a mentire? Dove ti porterà la strada lastricata di menzogne che hai appena imboccato?»
«Le bugie portano solo ad altre bugie.» Lo so bene.
«Esatto, Noah. Proprio così.» continua lui «Quindi...?»
«Quindi niente. Stai tenendo chiuso un quattordicenne in una gabbia, 'quindi' dovrei dirlo io.»
«Pensi che, vista la tua condizione, a qualcuno importi se sei minorenne?»
«Certo che no.» gli sibilo, con tutto l'odio che ho in corpo.

Udita la mia risposta, la voce metallica comincia ad emettere uno strano suono, molto simile al tintinnio di quelle campanelle che si tengono sull'uscio di un negozio. Ci metto qualche secondo per capire cosa effettivamente sia quel rumore: sta ridendo. Non in modo scomposto o forzato, si sta semplicemente prendendo gioco di me, consapevole che quella è la migliore arma da usare contro una persona piena di rabbia. Senza dire altro, poi, interrompe il collegamento, lasciandomi di nuovo in quel profondo silenzio in cui mi trovavo poco prima, che quasi mi solletica le orecchie.

Ne approfitto per chiudere gli occhi per il tempo che mi basta per rilassarmi un po', prima che la mia mente torni a concentrarsi sul dolore che mi fanno la schiena ed i piedi.
Passa qualche minuto prima che io riesca a trovare la forza per agire, apro di scatto gli occhi e con aria sconsolata inclino leggermente la testa a sinistra, verso il primo ostacolo che mi preclude la libertà. Lentamente mi alzo da terra aiutandomi con le mani e per evitare di cadere a causa delle gambe mezze intorpidite appoggio una spalla al muro. Con non poca fatica raggiungo la porta in ferro della cella che ovviamente non è munita di maniglia ma che ha posizionate, una in alto ed una in basso due finestrelle, sbloccabili esclusivamente dall'esterno: da una passa il cibo e dall'altra le occhiatacce delle guardie. Dopo essermi ben assicurato di aver raggiunto un buon equilibrio mi decido a tirarle un calcio, non troppo forte, per evitare di farmi male, ma comunque abbastanza potente da poter richiamare l'attenzione di una persona.
Non contento, ripeto la stessa azione per altre due volte a discapito del mio piede nudo, e al terzo colpo qualcuno finalmente decide di rispondere al mio richiamo, colpendo la porta violentemente.
Lo sportellino della finestrella superiore si apre di scatto, rivelando la parte superiore del volto di un uomo sulla quarantina intento a spiare l'interno della cella.
Appena i suoi occhi incontrano i miei, la guardia mi lancia uno sguardo di rimprovero, quasi per volermi chiedere il perché del mio comportamento e mi intima con parole piuttosto colorite di non riprovare a prendere a calci la porta.
Gli insulti che mi lancia non mi impressionano più dei suoi occhi inferociti che ormai sono ridotti a due fessure. Lo lascio parlare senza cercare in alcun modo di contrattaccare e, diversamente da ogni sua aspettativa, avvicino il mio volto alla finestrella mantenendo il contatto visivo con l'uomo al di là di essa.
La mia vista comincia ad annebbiarsi e poco prima che la mia pupilla diventi bianca come quella di un cieco rendendomi completamente non vedente, riesco e scorgere il volto attonito della guardia, ormai consapevole che quella di aprire lo sportello e guardarmi dritto in faccia fosse stata una terribile idea.
Fortunatamente la mia cecità non dura a lungo, chiudo per un momento le palpebre ed appena le riapro tutto attorno a me è sparito, niente più materasso, altoparlante o pareti, anche il dolore che provavo e l'odore di quella cella è scomparso. Adesso attorno a me c'è solo il bianco.
Tutto bianco e piatto, come un grande foglio di carta, ma di un colore tanto puro e chiaro quanto irreale. Non ha né limiti né estensioni, è semplicemente bellissimo, e perfetto.
Delle piccole schegge simili a coriandoli e frammenti di vetro cominciano a piovere a migliaia verso il basso, ognuna di esse segue la propria direzione. Alcune si aggregano tra di loro formando delle masse informi, altre cambiano forma e colore per poi sfrecciare di fronte a me in cerca di altre schegge a cui unirsi.
Tutto ciò avviene ad una velocità sorprendente, tanto che non ci metto più di un paio di secondi per capire cosa i frammenti stiano cercando di riprodurre: un'esatta copia della mia cella.
Consapevole di non dover rimanere lì, mi dirigo verso la porta e dopo averla fissata con un po' di esitazione avvicino la mia mano destra ad essa, che la oltrepassa come se il ferro di cui era composta si fosse trasformato in una leggera cortina di fumo. Alla mano, poi, segue la testa, il busto ed il resto del corpo che viene pervaso da un leggero solletico durante il passaggio, seguito da un lieve ronzio simile allo statico di un televisore.
La scena che mi si para davanti all'uscita della stanza è sempre la stessa: dei frammenti schizzano in varie direzioni indaffarati a creare un'esatta copia dei ricordi della guardia riguardo alle varie zone del carcere che voglio visitare.
Adesso sono in mezzo ad un lungo corridoio che porta ad altre celle oltre alla mia, munite di una targhetta con su inciso un numero. La mia è la 41 e ce ne sono sedici in totale.
Infondo al corridoio grigio, alla mia sinistra, ci sono due rampe di scale (una verso l'alto ed una verso il basso) ed un ascensore; con un innocente sorriso stampato sulla faccia mi dirigo verso quella direzione ed inizio a scendere a piedi. Supero un piano, due, tre, quattro; sono tutti identici al mio tranne quello in cui mi trovo adesso, probabilmente il piano terra. Scendo l'ultimo scalino e mi imbatto in un altro corridoio, ancora incompleto a causa di alcuni frammenti mancanti intenti a riprodurre la hall del carcere, situata poco più avanti. Mi incammino verso di essa e noto con una certa sorpresa che si potrebbe considerare completamente spoglia, nonostante la sua ampiezza, se non fosse per il grande disegno di forma circolare che ricopre gran parte del pavimento.

Rappresenta una paradisea con il becco, che sorregge una foglia di palma, rivolto verso sinistra e con le ali ben aderenti al corpicino dal petto bianco e piumaggio verde. La coda di piume dell'uccello ricopre la maggior parte del semicerchio inferiore e su di essa, vicino al bordo della circonferenza sono scritte con un colore rosso vivo tali parole:

ST. LEONARD PENITENTIARY.

Un nome adorabile per un posto adorabile. E quello é il loro logo.
Con una smorfia di disgusto sul viso distolgo lo sguardo dall'enorme disegno e dopo aver lanciato un'occhiata repentina al resto della hall in cerca di indizi interessanti finalmente qualcosa coglie la mia attenzione: un leggero luccichio proveniente da un piccolo stanzino, poco piú a destra dell'entrata del carcere.
Mi dirigo verso di esso e oltrepasso la porta in legno con facilità, proprio come avevo fatto per uscire dalla mia cella.
Lo scenario che mi trovo davanti è un vero e proprio disastro; la stanzetta, oltre a essere piccolissima, è ricoperta da cima a fondo da carte svolazzanti. Le pareti sono ricoperte da post-it e fogli, alcuni di essi sono addirittura sparsi a terra o disposti disordinatamente sui numerosi scaffali fissati ai muri. Solo la scrivania in legno che occupa buona parte dello spazio a disposizione sembra estraniarsi totalmente dal resto della stanza. Tutti i documenti su di essa sono sistemati in perfetto ordine ad un angolo del mobile ed accanto ad essi si trova un telefono munito di soli tre pulsanti (R, G, B), il resto dello spazio lì sopra invece è occupato da otto piccole console unite con dei cavi ad un microfono, ognuna di esse ha inciso ad un lato il piano e l'ala del carcere a cui appartengono ed ogni pulsante permette di collegarsi alla cella corrispondente al numero scritto su di esso.
Non ci vuole un genio per intuire che questa è la stanza in cui lavora il proprietario della Voce.
Preoccupato di aver perso di vista quella flebile luce, comincio a frugare freneticamente all'interno dei cassetti della scrivania ma riesco a controllarne solo due, uno contenente alcune scartoffie, l'altro una semplice cornice blu con dentro una foto. Per quanto riguarda gli altri cassetti, tutto ciò che potevo vedere al loro interno era lo stesso bianco che mi avvolgeva poco prima che la copia della mia cella cominciasse a prendere forma. Dopotutto non posso conoscere qualcosa che la mente dell'uomo che sto manipolando non sa.
Sconsolato per non aver trovato ciò che cercavo, faccio dietrofront per dirigermi di nuovo verso la porta, con la seria intenzione di ispezionare tutta la galera se necessario, ma ancor prima di riuscire a compiere un passo qualcosa riesce a catturare la mia attenzione. È una piccola luce, debole, che sembra andare ad intermittenza. Proviene da uno di quegli scaffali fissati al muro e sembra affievolirsi ad ogni secondo che passa. Mi avvicino in fretta ad essa, mettendomi in punta di piedi per osservare meglio: sopra lo scaffale, oltre ad una montagna di polvere, ci sono mucchi di fogli, delle chiavi e...
«Il mio anello!»
Non è nemmeno mio, lo so, ma grazie a Dio l'ho trovato.
Con una certa dose di odio nei confronti dell'uomo che me lo aveva sequestrato ma con comunque un espressione sollevata sulla faccia, non posso fare a meno di abbozzare un leggero sorriso, nonostante quello che adesso stringo tra le mani sia solo una copia dell'oggetto originale.
Non mi resta adesso che informare Hank della locazione di questo gioiello e della mia cella, con un trucchetto simile a quello utilizzato con la guardia, ed in poco tempo sarò finalmente fuori di qui, com'è giusto che sia.
Apro la mano e guardo orgogliosamente l'oggetto argentato, osservandone i particolari e le incisioni al suo interno.

Improvvisamente, senza il benché minimo motivo, l'anello emette uno strano sibilo, seguito da un leggero tremolio che in poco tempo diventa sempre più violento. L'immagine dell'anello comincia a contorcersi e deformarsi e prima che io possa solo proferire parola mi accorgo che anche le pareti della stanza stanno avendo la stessa reazione del gioiello. Aggrotto le sopracciglia e le guardo con curiosità, curiosità che presto si trasforma in paura dettata dalla consapevolezza di essere completamente indifeso in una situazione in cui non sapevo come reagire. Accidentalmente lascio cadere l'anello che si scompone in piccoli frammenti incolori ancora prima di riuscire a toccare terra. Il pavimento e le pareti si dissolvono in gruppi di piccole schegge e il bianco assoluto inizia ad inghiottire ogni cosa di fronte a sé. Non è rimasto che un frammento di pavimento sotto ai miei piedi, destinato anch'esso a scomparire in poco tempo, ma prima che io riesca a fare qualcosa una forza sovrumana, mai sperimentata in precedenza, mi trascina via verso il basso costringendomi ad interrompere bruscamente il collegamento ormai quasi inesistente con la guardia.

Apro di scatto gli occhi, visibilmente turbato. Con una manica mi asciugo la fronte lievemente imperlata di sudore e mi scosto una ciocca di capelli castani scivolata vicino al mio occhio.
Non riesco ancora a capire cosa sia appena successo ma sono comunque leggermente rincuorato da fatto di trovarmi nuovamente nella mia vera cella. Lo sportellino della porta è rimasto aperto ma non c'è più traccia dell'uomo, che non può essere in alcun modo fuggito, altrimenti me ne sarei accorto.
Un rumore sordo proveniente dall'esterno mi dissuade immediatamente dall'avvicinarmi alla finestrella per sbirciare fuori.
Il mio cuore comincia a battere all'impazzata non appena qualcosa urta la porta, che subito dopo inizia ad aprirsi lentamente.
Faccio istintivamente un passo indietro senza mai distogliere lo sguardo dal piccolo spiraglio che si è aperto, permettendo ad un fascio di luce di entrare nella mia cella. Per un attimo inizio a sperare, forse stupidamente, che sia Hank che forse è riuscito a trovarmi.
La porta si apre del tutto con un sonoro cigolio e finalmente posso mettere a fuoco la figura di fronte a me. Socchiudo gli occhi per poter vedere meglio, tutta quella luce a cui non sono più abituato adesso illumina gran parte della stanza, impedendomi di osservare l'individuo.
Ora lo vedo.

Ma non è Hank. E nemmeno la guardia.

*********************

Vi faccio i miei complimenti se siete riusciti ad arrivare fino qua. Per il resto, ciò che chiedo è solo un vostro piccolo aiuto: se notate errori o qualcosa che vi fa storcere il naso, fatemelo notare subito. Farete un favore a me ed ai vostri occhi. :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. - Come educare un ragazzo distratto. Pt. 1 ***


Quella che voglio raccontare non è la mia storia, purtroppo non ho mai avuto i requisiti giusti per essere considerato un protagonista interessante. Non so nemmeno da dove iniziare in effetti, non sono mai stato bravo neanche in questo. Sono però un buon osservare, e di cose da narrare, credetemi, ne ho viste tante.
Ebbene sì, mi sono impuntato su questa cosa, ed anche se so di non essere mai stato bravo con le parole, io ho intenzione di raccontare.
Raccontare di una guerra senza schieramenti o fazioni, combattuta da uomini che si nascondevano dietro la parola Ideali, ma che di ideali proprio non ne avevano.
Voglio parlare di una battaglia che con la potenza di un vortice è riuscita a risucchiare dentro di sé decine di vite, compresa la mia.
Io voglio raccontare le vicende di una di queste vite. Voglio raccontare una storia di cui non ho mai voluto far parte.

N.J.

Capitolo 1. -Come educare un ragazzo distratto. Pt.1

Katherine e David Lawson, moglie e marito, non avevano proprio niente di cui lamentarsi sulla loro vita insieme.
Erano una coppia felice, un po' invidiata, con un unico figlio a carico e un lavoro assicurato che gli fruttava un modesto guadagno.
Assieme gestivano ormai da una decina d'anni una pasticceria e gelateria proprio vicino casa loro, a Lewiston, Maine. La Esurio Pastry Shop attirava clienti come mosche sul miele, soprattutto in quel periodo dell'anno quando l'estate era ormai alle porte. Gli squisiti dolci artigianali della signora Kath erano molto apprezzati dalla clientela (anche dal sottoscritto), soprattutto la sua torta agli agrumi con decorazioni alla frutta e base di cialda sbriciolata e scaglie di mandorle, mentre il signor David aveva sempre qualche storia interessante da raccontare a chi visitava il negozio; inventata o meno, non faceva molta differenza.
La signora Lawson, spero non si arrabbierà se dico la sua età, era una donna sulla quarantina dal fisico asciutto, un po' bassotta rispetto alla media e all'apparenza fisicamente molto fragile. Assai più tenace era invece il suo caratterino, che la rendeva una donna temibile e rispettata da tutti, capace di leggerti dentro con una sola, fredda, occhiataccia.
David dal canto suo aveva qualche anno in più di sua moglie, ma a differenza di lei sapeva camuffare bene la sua età, forse un po' grazie al suo aspetto sempre curato e gli occhiali dalla montatura nera che indossava ogni giorno o forse per il suo carattere completamente opposto a quello di Kath, così gioviale e a tratti infantile.
Presi singolarmente, probabilmente, avrebbero fatto la figura della donna in crisi esistenziale e dell'uomo che ancora abitava con la madre ma insieme, non c'è che dire, facevano proprio scintille.
Un po' meno scintille, invece, le faceva il loro unico figlio: Justin.
Non andavano molto fieri di lui in ambito scolastico, e non solo in quello. " Potrebbe, ma non si applica" gli dicevano spesso gli insegnanti , o " Se ascoltasse di più invece di fantasticare, sarebbe il più bravo della classe.", tutte parole che li facevano imbestialire, perché loro ci speravano davvero che lui si sarebbe applicato. Ma loro figlio dava l'impressione di essere sempre svogliato, troppo svogliato per fare qualsiasi cosa.
Justin, in realtà, non era davvero pigro come voleva far credere. Lui era solo, in un modo a volte anche disarmante, costantemente distratto. Riusciva a distrarsi in ogni frangente, anche in mezzo ad un discorso che lo interessava in prima persona, e a scuola, figuriamoci, lì riusciva a dare il meglio di sé.
Forse era proprio a causa del suo carattere che la lista dei suoi amici si limitava ad un numero di partecipanti piuttosto basso. Certo, anche il fatto di non farsi scrupoli a dire in faccia a qualcuno ciò che pensava di lui o lei, davanti a tutti, non lo aiutava sicuramente a rendersi più simpatico. Un po' come quando, all'ultimo anno delle medie, salutò i suoi ormai ex compagni di classe con un semplice ma adeguato: "Dio mio, finalmente non sentirò più il vostro tanfo!", imitando una persona che non riesce a respirare. E non posso dargli tutti i torti.
Ma sto divagando.
A volte neanche mi accorgo di non seguire il filo logico del discorso.
Sarà bene ricominciare, stavolta con un inizio più banale, almeno eviterò di sbagliarmi!

Meglio iniziare col parlare di quel Sabato di fine Maggio in cui per la prima volta riuscii a vedere Justin Lawson di persona.

Quella mattina faceva piuttosto freddo nonostante la stagione quasi estiva e il sole se ne stava ancora seminascosto tra le nuvole, evitando di condividere tutto quel calore che la sua luminosità sembrava volesse offrire. Non che ciò dispiacesse a Justin, che non aveva mai sopportato il caldo. Erano le undici passate e lui, ancora mezzo intontito per il sonno, se ne stava seduto al tavolo della cucina, sorseggiando la sua cioccolata calda tanto fuori luogo per quella stagione quanto il pigiama grigio a maniche lunghe che stava indossando. Avvicinò la tazza alla bocca lasciandosi inebriare dall'odore dolce e vellutato della bevanda e quasi rischiò di macchiarsi la maglietta con qualche goccia di liquido, sbadato com'era.
Justin era estremamente felice di potersi godere un altro meritato weekend senza dover toccare libro (sinceramente di compiti da fare ce n'erano, ma lui ormai era diventato abbastanza abile da riuscire a farli durante la ricreazione e prima del suono della campanella), inutile dire che a lui non era mai piaciuta particolarmente la scuola. Troppi ordini da seguire dettati da persone spesso incapaci, pensava lui. Per fortuna le vacanze estive erano ormai alle porte e il ragazzo non poteva che esserne contento, tanto che già fantasticava su ciò che avrebbe fatto nel tempo libero. Pensava di voler mettere da parte un po' di soldi per comprarsi quella strafigata della Playstation 4 e per visitare Portland in cui a detta di Mortimer, suo compagno di classe, si sarebbe svolta la quindicesima edizione dell' Evo's Midnight Festival nei primi giorni di Luglio, e se ciò che Mortimer gli aveva detto era vero, perché Morty era un gran bugiardo, Justin non sarebbe proprio dovuto mancare.
Ovviamente l'idea dei compiti estivi non lo aveva sfiorato minimamente.
Le sue fantasticherie sull'estate furono però bruscamente interrotte da uno strano rumore proveniente dalla cucina.
Drizzò le orecchie in un attimo, attento a non emettere alcun tipo di suono, ed attese immobile che la fonte del rumore si facesse sentire di nuovo.
Un Tud lo fece voltare di scatto verso sinistra. La sua reale paura era quella di trovarsi da solo a faccia a faccia con qualche grosso insetto munito di ali, ma poté constatare che non c'era alcun pericolo di quel genere. Tutt'altro animale, infatti, stava provocando quel rumore: era un cane di grossa taglia, un po' tozzo, dal manto color miele. Stava insistentemente provando ad aprire la porta in vetro che divideva la cucina dal giardinetto della proprietà, colpendola col suo muso.
-Jackson!-esclamò Justin quasi sollevato, facendo correre le sue dita tra le ciocche di capelli nerissimi.
-Non farlo entrare, Justin!- urlò una voce dal piano superiore, seguita a ruota da una serie di tonfi che riecheggiarono per tutte le stanze. Era Kath, che era scesa di corsa giù per le scale per raggiungere suo figlio. L'unica cosa che desiderava dopo una maratona di faccende era tenere quella montagna di peli lontana da casa sua. Si avvicinò alla porta in vetro e la picchiettò con una nocca, vicino al muso del cane. -Via, via!-
Justin guardò la scena senza riuscire a trattenere un sorriso beffardo. A volte aveva l'impressione che Kath avesse paura del suo Golden Retriever, e probabilmente un po' era vero. Per carità, di cani tonti e pacati quanto lui ne esistevano davvero pochi, ma Katherine non aveva mai amato gli animali di grossa taglia.
Il sorrisetto compiaciuto del ragazzo, però, sparì non appena sua madre si voltò verso di lui dicendo: -Justin, alzati in piedi e fammi un favore.-
-...che favore?- chiese lui quasi intimorito, restìo dal dire di sì prima di conoscere ogni singolo dettaglio.
-Tieni il cane un po' lontano da qui e portalo fuori a fare una passeggiata.-
-Ma che fastidio ti da?-
-Portalo fuori, ho detto. Ne approfitterai per prendere una boccata d'aria.- gli ordinò lei, afferrando la tazza di cioccolata calda ormai vuota e posandola dentro il lavandino. -Te ne stai sempre chiuso in casa.-
-Ho 14 anni, posso decidere per conto mio se starmene in casa oppure no.-
-Eh no, tesoro mio!- esclamò lei, poggiando entrambe le mani sui fianchi, segno inequivocabile di profondo disappunto -Fino a quando abiterai qua, farai tutto ciò che diremo io e tuo padre!-
-Ho capito, ho capito!- sbuffò lui, alzando le mani in segno di resa. -Vado!- L'ultima cosa che desiderava in quel momento era sentire le fastidiose urla di sua madre quindi ci mise davvero poco a lasciare la stanza per dirigersi di sopra verso la sua camera. Senza, ovviamente, dimenticare di trascinare i piedi.
Si lavò e si cambiò d'abito, indossando al posto del pigiama dei semplici jeans e la prima maglia, blu a maniche lunghe, capitatagli davanti.
Dopodichè, munito di guinzaglio e poco entusiasmo, si diresse in giardino.
Jackson se ne stava sdraiato, sonnecchiante, sotto l'ombra modesta di uno dei cinque ulivi di quel piccolo prato e sembrò non apprezzare la vista del suo padrone con un guinzaglio in mano, tanto che mugolò contrariato non appena Justin si chinò verso di lui per afferrargli il collare.
-Lo so, nemmeno io ho voglia.- sospirò il ragazzo prima di tirare un'energica pacca sul dorso del cane. -Andiamo, dai.- continuò poi, facendo leva con le braccia sulle ginocchia per alzarsi. Sembrava quasi si stesse rivolgendo più a sé stesso che al cane.
Ma col cavolo che Jackson aveva voglia di seguirlo.
-Andiamooo.- insistette Justin, strattonandolo un po' per il guinzaglio. Solo al terzo tentativo il cane si decise ad assecondare il padrone e lentamente lo seguì fino al cancello, per uscire fuori dalla proprietà.
Justin era un ragazzo poco conosciuto in città, per ovvi motivi. Molte volte capitava che qualche anziano interessato agli affari degli altri lo avvicinasse per chiedergli di chi fosse figlio e nipote, e se abitasse lì. Poi, quando rispondeva, tutti sembravano riconoscerlo all'improvviso. "Aaah! Il figlio di quelli della pasticceria!" si sentiva dire, o "Già, già. Ora ricordo, hai ragione (eh certo che ha ragione, ci mancherebbe altro)." e l'unico modo in cui riusciva a replicare era con un sorriso imbarazzato ed un "Eh sì" che in realtà nascondeva una disperata supplica per essere lasciato in pace.

Camminarono per un po', i due. Era quasi mezzogiorno ed avevano già attraversato un paio di isolati e il parco, senza soffermarcisi, per poi arrivare in mezzo alla città,tra i negozi. Justin decise di fermarsi ad una fontanella pubblica per far bere Jackson che ormai da metà tragitto teneva la lingua penzolante ad un lato della bocca.

-Non sapevo avessi un cane.- lo fece sobbalzare all'improvviso una vocetta squillante alle sue spalle, che quasi gli trapanò un timpano, tanto era vicina all'orecchio.
-Co... Cosa?- cercò di replicare, voltandosi lentamente per scoprire chi fosse il proprietario della voce. Sembrava un bambino colto con le dita nella marmellata.
-Non mi avevi mai detto di avere un cane.- ripeté una ragazzina sorridendogli, indicando Jackson ancora intento a bere. Aveva la stessa età di Justin ed un tempo andavano a scuola assieme. Erano anche buoni amici. Era una ragazza snella, forse con i fianchi un po' troppo larghi rispetto al resto del corpo, e teneva spesso i capelli biondi raccolti in una piccola coda.
-Ah. Sunny.-
-Aaah. Sunny.- lo imitò lei in modo assai grossolano, distorcendo la bocca in una smorfia. -Che c'è? Non sei felice di vedermi?- poi continuò, senza neanche permettere a Justin di rispondere -Ti ho visto dalla finestra del negozio dei miei- ed indicò una specie di mini supermarket a pochi passi da loro -Sai, li sto aiutando un po'.-
-Oh.- disse lui puntando gli occhi castani verso il negozio di alimentari.
D'un tratto sentì una morsa attanagliargli lo stomaco. Si accorse solo in quel momento di non essere mai andato a trovarla in tutto quel tempo ed un po' si sentiva in colpa.
-Anche tu li aiuti, i tuoi?-
-Figuriamoci.-
La ragazza aggrottò le sopracciglia e lo squadrò, incuriosita.
-...Non sono molto bravo in quel genere di cose.- Concluse lui, notando la perplessità dell'amica.
-Capisco.- Sembrava quasi delusa. -Posso?- disse poi, protraendo una mano verso il cane.
-Mhmh.- Annuì Justin. -Certo.-
-Come si chiama?- chiese lei, prima di chinarsi di fronte a Jackson per accarezzarlo e cambiando totalmente tono di voce, un po' come si fa quando ci si rivolge ad un bambino.
-Jackson. Ma è più facile che reagisca se lo chiami tonto.- Era serio quando lo disse.
-Ttttonto!- esclamò con una vocina infantile, afferrando la testa del cane e scuotendola verso destra e sinistra.
Dopodichè si rialzò con l'aiuto delle mani e si risistemò la maglietta sgualcita con qualche pacca.
-Sembra molto stanco, dev'essere un cane piuttosto vecchio ormai. Quanti anni ha?-
-...Tre.- rispose lui un po' imbarazzato ma accennando comunque un piccolo sorriso maldestro.
La pelle diafana della ragazza si tinse in poco tempo di un rosso vivo. -Beh, dai...- cercò subito di rimediare -Dicevo tanto per dire!-
-Figurati Sunny.- la fermò ridendo -Non è certo la prima volta che capita.-
Sunny gli rispose con un sorriso a trentadue denti. Poi, quasi si fosse svegliata all'improvviso da una lunga trance, spalancò i grandi occhi celesti. -Già! Devo tornare dentro!- quasi gridò. Fece dietrofront per dirigersi verso il negozio dei suoi genitori, senza nemmeno salutare, ma si fermò a metà strada di colpo, come se avesse appena ricordato qualcosa di importante. Si voltò di scatto verso Justin allargando le braccia ed esclamòa gran voce -Però potresti venire a trovarmi qualche volta!-
A Justin quasi era venuto il mal di testa. Gli sembrava che Sunny urlasse fin troppo per i suoi gusti.
-Lo farò.- sospirò -Promesso.-
La ragazza gli sorrise soddisfatta, prima di voltargli le spalle. Aveva sempre avuto uno strano modo di comportarsi con le persone a cui teneva.
Intanto il caldo cominciava a farsi sentire e Justin per mettersi un po' più a suo agio si rimboccò le maniche sopra i gomiti. Ci avrebbe scommesso una mano che Sunny lo stava ancora tenendo d'occhio dalla vetrina del negozio, quindi evitò di voltarsi in quella direzione.
In quel momento l'unica cosa che desiderava era tornarsene a casa, ma se conosceva davvero sua madre avrebbe dovuto sapere con certezza che lei fino all'ora di pranzo non lo avrebbe mai fatto entrare; non con il cane. E da quando era nato non c'era mai stato orario differente dall'una in cui avevano mangiato.
Inoltre Justin notò con gran delusione che tutte le panchine a disposizione in quello spiazzo si trovavano proprio sotto il sole, nessuna esclusa, lasciandogli quindi solo due possibilità in man: farsi coraggio e chiedere ai tizi seduti all'ombra di fare un po' di spazio o avviarsi verso casa con l'andatura più lenta possibile. Justin era parecchio tentato dalla seconda opzione ma dovette ricredersi, quando vide le condizioni del suo cane. Chissà che caldo doveva patire, con tutto quel pelo.
Mosso dalla pietà per Jackson, il ragazzo decise di mettere da parte le sue insicurezze e, dopo aver accuratamente evitato le panchine occupate da anziani, si sedette vicino ad un ragazzo dai capelli castani. Silenzioso, sguardo assente, pensò che non gli avrebbe dato alcun fastidio.
Infatti non lo feci.

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Ecco una cosina per togliervi la curiosità sull'aspetto di Justin (sì, anche i narratori ci provano, a disegnare).

N.J.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Come educare un ragazzo distratto. Pt. 2. ***


Capitolo 2 - Come educare un ragazzo distratto. Pt. 2.

Non ci rivolgemmo la parola neanche una volta. Non avevo niente da dirgli, lui nemmeno. Mi lanciò qualche occhiata curiosa, questo sì, ma niente di più. Non duravano più di un secondo.
Justin era un ragazzo intelligente. Non di quella intelligenza che si mostra a scuola e che predilige solo un piccolo numero di studenti. Era ben diversa. Ed andava ben oltre quella del "piccolo numero di studenti" che non riuscivano a vedere più avanti del loro libro di storia.
Credete a me, quelle povere persone che non riescono a capire che la vera intelligenza non si nasconde dietro un voto alto, sono solo soggetti da evitare.
Justin aveva intuito che mi ero accorto dei suoi sguardi e che nonostante tutto facevo finta di niente.
Come faccio a saperlo? Non ci sarebbe alcun gusto a dirlo adesso!
Avrebbe voluto aprir bocca, lui, per chiedermi qualsiasi cosa, per vedere la mia reazione, o per sapere se ero straniero. Aveva imparato un po' di francese a scuola e si vantava di saperlo parlare abbastanza bene, tanto che non vedeva l'ora di poterlo sperimentare con qualche madrelingua.
Ah, no no, io non sono francese.
Nonostante tutto non disse niente, e si alzò. Mi lanciò un'ultima occhiata, veloce, per assicurarsi di non avermi già visto a scuola e poi si allontanò, strattonando il cane per il guinzaglio.
La strada del ritorno fu dura, sotto il sole. Era arrivato quasi a metà strada, quando cominciò a maledirsi per non aver bevuto un po' anche lui alla fontana della piazza. Non lontano da lui però, oltre il parcheggio all'aperto, si ergeva come un miraggio un piccolo bar, famoso per le agguerrite battaglie di Burraco svolte al suo interno e per le caramelle acide vendute che riuscivano a tingere la lingua di blu.
Justin non ci si avviò subito. Prima si controllò le tasche piene di cianfrusaglie per essere sicuro di avere qualche spicciolo con sé. Aveva delle dita ormai molto abili a muoversi in mezzo a tutta quella confusione, e appena i polpastrelli riconobbero la forma delle monetine, le tirò subito fuori per contarle.
La concentrazione riservata al calcolo del denaro non gli permise di accorgersi del ragazzo che stava correndo verso la sua direzione.
Lo scontro tra i due fu inevitabile. E un po' doloroso. Justin mollò la presa sul guinzaglio e sulle monetine, che toccarono il suolo con un sonoro tintinnio.
I due non caddero a terra, ma ci mancò davvero poco. D'altronde il corpo dell'altro ragazzo era troppo minuto per provocare chissà quale danno.
Justin si affrettò subito ad afferrare il guinzaglio e gli spiccioli sparsi ovunque sul terreno, non aveva proprio voglia di mettersi a litigare con chiunque gli fosse venuto incontro, neanche lo guardò in faccia.
"Oh grazie al cielo, Justin!" esclamò il ragazzino, stranamente felice di essergli andato addosso. Sembrava quasi volesse abbracciarlo, ma si limitò ad afferrargli una spalla con la mano scheletrica non appena l'altro si rialzò. "Mi devi aiutare! Subito, subito, subito!" disse a denti stretti e spalancando gli occhi, mentre la mano libera si muoveva in gesti meccanici, come se avesse voluto fendere l'aria in orizzontale. "È una cosa importante, Jus!"
Justin finalmente riconobbe il volto amico e diresse incuriosito lo sguardo oltre la spalla del ragazzo, che spesso si voltava a guardare dietro di sé come se una bestia inferocita lo stesse inseguendo. Ma ovviamente non c'era nessuno là.
"Che succede, Mortimer...?"
Il carattere ansioso e paranoico di Morty era ormai noto a tutti a scuola ma così non aveva mai reagito, o almeno Justin proprio non si ricordava che lo avesse fatto.
"Ho fatto un casino con Blake!"
"Che hai fatto?" Sembrava piuttosto improbabile che un ragazzo mingherlino come lui potesse combinare chissà cosa di grave. "Gli hai sgualcito il cappello?" disse sarcastico.
"No, gli ho tirato un pugno!"
"Un pugno..?!" Lo guardò un po' come si guarda un condannato a morte di fronte al patibolo. "Perché?!"
"Aveva chiamato mia madre lurida p-"
"Ho capito, ho capito." Alzò le mani per fermarlo. Non voleva sentire altro.
"Non mi sono neanche accorto di averlo attaccato! È ovvio che quando mi sono reso conto della situazione ho cominciato a correre..."
"E quindi adesso lui ti sta-"
"Sì, mi sta cercando."
E lo avrebbe trovato presto se Mortimer non si fosse dato una mossa a trovarsi un buon posto in cui nascondersi. Possibilmente per tutta la vita.
Morty era un ragazzo magrolino, con un caschetto biondo che gli incorniciava il volto e nascondeva le sopracciglia. Aveva ancora i lineamenti di un bambino e due grandi occhi chiarissimi sempre all'erta.Sembrava un cerbiatto spaurito. Guardandolo si poteva facilmente pensare che i suoi genitori si fossero divertiti a tenerlo chiuso in una stanza senza cibo né acqua per anni, tanto era fragile e pallido. Blake, invece, era il solito bulletto della scuola. Era un ragazzo di carnagione nera, più grande di Justin e Morty di due anni ed assai più muscoloso. Portava spesso un berretto rosso da cui da dietro sbucavano alcune ciocche rasta che arrivavano quasi fino alle spalle e un paio di anelli argentati sugli anulari. Una cosa su di lui era sicura: era un ragazzo di poche parole, e quando non utilizzava quelle per discutere, non si faceva scrupoli ad usare le mani.
Indovinate un po' chi avrebbe vinto in uno scontro corpo a corpo?
"Justin!" Cominciò a battere freneticamente un piede a terra. "Che devo fare?"
"E lo vieni a chiedere a me?" In quel momento Justin aveva solo voglia di scappare il più lontano possibile da lì. Gli sarebbe bastato seminare Mortimer per allontanarsi anche da Blake. Ma una vocina dietro di lui gli impediva di farlo.
"Sei l'unico qui che può aiutarmi!"
Justin esitò.
"Per favoreee?" chiese in una disperata dupplica, con una tale ansia addosso da sembrare quasi opprimerlo fisicamente, come un grosso peso che gravava sulla sua gracile schiena.
"Ok, ok." Sospirò. Sapeva bene che se Blake avesse scoperto che lo stava aiutando, Mortimer non sarebbe stato l'unico a ritrovarsi con qualche osso rotto, ma non poteva certamente lasciarlo lì.

Justin lo trascinò fino alle poste, che si trovavano proprio lì a due passi. Jackson non poté entrare, quindi fu legato ad un albero di fronte all'entrata, e ne approfittò per dormire.

Dentro, le poste erano piene di persone indaffarate a correre dappertutto, c'era chi si spintonava e chi teneva stretto il proprio numerino come se fosse stato fatto d'oro e diamanti, chi aveva fretta di uscire e chi si prendeva tutto il tempo che voleva.
I due ragazzini si sedettero ad una panchina libera, la prima che riuscirono a trovare.
"Qui non verrà a cercarti."
"Certo che no." disse Mortimer fissandosi le ginocchia "Ma prima o poi dovrò uscire, non credi?"
"Rimarremo qui solo per il tempo che mi serve per dirti una cosa."
"...Cosa devi dirmi?" domandò lui, trovando il coraggio di alzare lo sguardo.
"Secondo me tu saresti più che capace di fargliela pagare."
"Ah sì? E come?" Rise imbarazzato. Poi tirò su il suo braccio e lo piegò a formare un angolo di novanta gradi per mostrarne il debole muscolo, chiudendo la mano in un pugno. "Con questo?"
"No, non con le mani." Disse Justin afferrando il polso di Mortimer e trascinandolo verso il basso.
"E con cosa?" Poi sembrò intuire all'improvviso. "Ah."
"Non sai quanto ti invidio, Mort." sospirò lui appoggiando la schiena contro la sedia. "Davvero, non sai quanto."
"Nah, lo dici solo perché non sai cosa si prova."
"Intendi che non so cosa si prova ad essere dannatamente fighi??"
Mortimer si lasciò scappare una debole ma sincera risata "Ma no! Intendo dire che spesso noi siamo svantaggiati."
"Ma riuscite a fare un sacco di cose fantastiche! Cose che io non mi sognerei neanche!"
L'altro fece spallucce. "Non siamo mica così diversi."
"Mah...se lo dici tu." disse Justin inarcando un sopracciglio. Mortimer era uno dei pochi ragazzi con cui riusciva ad andare d'accordo senza problemi. Era una cosa che lo faceva sentire bene. "Ma se io fosse in te-"
"Tu non sei me Justin." il suo tono si fece subito serio. "Sai che non posso farlo."
"Sì che puoi!"
Il ragazzo non rispose. Si limitò a lanciargli un'occhiata inespressiva.
"Preferisci essere preso a pugni?"
Mortimer sospirò. Poi, dopo alcuni secondi di riflessione che sembrarono ore aprì bocca, "Mi prenderò le mie responsabilità." Non disse altro. Sorrise a Justin e si alzò dalla panchina per avviarsi verso l'uscita, stando attento alle persone che sfrecciavano come auto in tutto quel trambusto. Justin lo seguì e si fermò a pochi passi da lui, che intanto se ne stava uscendo.
"Io torno a casa. Tu augurami di non incontrare Blake per strada."
"Beh te lo auguro." disse, ma il ragazzo intanto aveva già richiuso la porta dietro di sé.
"Al diavolo!" pensò Justin. Con una foga che neanche lui si aspettava si precipitò fuori dalle poste. "Aspetta!"
A Mortimer quasi venne un infarto, tanto era spaventato di trovarsi Blake davanti da un momento all'altro.
"Ti accompagno io, ti accompagno."
"Non c'è bisogno, Jus." sorrise sollevato.
"Dai, dai." disse dirigendosi verso l'albero a cui era legato il suo cane.
"Tanto abbiamo Jackson con noi, no?" E diede un leggero colpetto all'animale che pigramente aprì un occhio.
"Basta dirgli Attacca e lui..."
"Attacca?"
"No, per carità! Ma è una parola che spaventa l'avversario!"
"Se lo dici tu."
"Alle poste,eh?" una voce roca si aggiunge alla discussione. "Prevedibile. I luoghi affollati sono sempre i preferiti dai vigliacchi."
Mortimer diventò ancora più pallido di quanto già non lo fosse e tentò inutilmente di far uscire qualche parola di bocca che prontamente gli morì in gola. Lanciò quindi qualche occhiata disperata a Justin, del tipo: "Parlaci tu, dai!" per farsi aiutare in qualche modo.
E che poteva fare Justin? Prenderle per lui?
Ci provò comunque.
"...Hey Blake."
"E tu che diavolo vuoi?" ringhiò verso di lui con le braccia incrociate al petto.
"Non potresti lasciar perdere per una volta?"
"Wow!" Blake stavolta rivolse lo sguardo dritto verso Mortimer. "Ti sei trovato la guardia del corpo! Ma guardatelo! Non riesce neanche a parlare, poverino." Gli rise in faccia. "Non ce la fai, a parlare? Cos'è quel muso, vuoi piangere?"
"...Blake." Cercò di insistere Justin, ma il ragazzo sembrò non averlo sentito.
Le parole che che diceva non sembravano che dei suoni indistinti alle orecchie di Mortimer. La paura che risiedeva dentro di lui lasciò lentamente spazio alla rabbia. Essa cominciò a ribollire, nutrendosi di ogni memoria negativa che custodiva riguardante il suo bullo.
Crebbe, ad ogni sillaba che lui gli stava sputando davanti. Il suo corpo infine, non riuscì più a contenerla, e lui dovette rigettarne fuori una parte. E lo insultò.
Ci mise un secondo, Blake. Non si lasciò scappare l'occasione e gli mollò un pugno dritto in pancia.
Mortimer si strinse lo stomaco in preda al dolore lancinante e si lasciò cadere a terra senza fiato, ma il bullo ancora non era soddisfatto. "Quello era per prima!" sibilò guardando in basso verso il suo avversario indifeso. "Questo, invece, è per l'insulto!" Caricò un calcio che colpì con potenza la spalla del ragazzo, facendolo voltare a pancia in su. Alzò, poi, un piede dal suolo e lo tenne sospeso sopra la faccia di Mortimer, a pochi centimetri dal suo naso "E questo è per farti ricordare una lezione importante."
A quel punto Justin intervenne.
Prese la rincorsa verso Blake e con un balzo gli fu addosso per placcarlo.
I due caddero sonoramente a terra e Justin colse l'occasione per tenere fermo l'avversario al suolo.
Cinse una mano attorno al suo collo, esercitando una certa pressione, mentre l'altro braccio era proteso all'indietro per caricare un pugno. Ma Blake cominciò a gridare di dolore ancora prima che il colpo potesse partire.
Strinse con forza le sue dita attorno al polso di Justin per allontanare la mano dal suo collo. Solo in quel momento Justin notò con estrema sorpresa che dai suoi polpastrelli sembrava stessero uscendo dei deboli fili di fumo. Mollò subito la presa rivelando delle piccole ustioni sul collo di Blake, come se fosse stato corroso.
"Anche tu!" Gli gridò in faccia massaggiandosi la zona ferita, cercando di nascondere la paura che stava crescendo in lui "Sei una lurida bestia come loro!"

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Questo è Mortimer. Blake... Lo aggiungerò quando avrò voglia.
N.J.

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