Leave out all the rest

di Kiki75
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The secret marriage ***
Capitolo 2: *** Everything burns ***
Capitolo 3: *** A love that will never grow old ***



Capitolo 1
*** The secret marriage ***


Come sei veramente
Leave out all the rest

When my time comes
Forget the wrong that I've done
Help me leave behind some
Reasons to be missed
Don't resent me
And when you're feeling empty
Keep me in your memory
Leave out all the rest


Capitolo 1 - The secret marriage

Settembre 1973

La cucina era buia, illuminata solo dalla luce della luna piena che filtrava dalle tende, la neonata continuava a strillare, paonazza in viso, agitando braccia e gambe, e Jack Twist sospirò, sconsolato, tenendola fra le braccia con lo stomaco contro il proprio petto, la piccola testa contro la spalla. Neanche un'ora prima le aveva lavato il sederino pieno di cacca gialla, liquida e odorosa di formaggio andato a male, le aveva messo un pannolino pulito (diamine, com'era complicato mettere i pannolini), l'aveva rivestita e infine nutrita, dopo averle preparato un biberon pieno del latte in polvere più maledettamente costoso che esistesse sulla faccia della terra - chissà perché doveva poi somministrarle del latte in polvere sciolto in acqua oligominerale, quando le mucche della fattoria producevano latte fresco e sano in abbondanza; ma Janice, che aveva tre figli e se ne intendeva, non aveva ammesso repliche: niente latte di vacca, almeno per i primi dodici mesi. Ovviamente, i produttori di latte in polvere e di acqua in bottiglia se ne approfittavano, e praticavano prezzi stratosferici.
Non che Jack avesse problemi di denaro; non più, almeno.

E se anche ne avesse avuti, avrebbe preferito digiunare, piuttosto che affamare la piccola C.J..
Ma adesso il problema era un altro: dopo il latte e mezz'ora di sonno, la neonata si era svegliata strillando come se qualcuno la stesse sgozzando, ed era l'una e mezzo di notte, o di mattina, se si preferisce. Jack l'aveva presa in braccio e l'aveva portata al piano di sotto, cullandola e cantandole una ninnananna sottovoce, controllandole il pannolino che era più che pulito, ma adesso, dopo dieci minuti di pianto disperato della piccola, non sapeva più a che santo votarsi. Avrebbe potuto chiamare Jan, ma dopo avere considerato la possibilità, decise che era meglio di no: avrebbe dovuto abituarsi a situazioni del genere, Jan non avrebbe potuto aiutarlo ventiquattr'ore su ventiquattro, aveva già i propri ragazzini a cui badare.
"Sst... buona, piccolina, buona", sussurrò, continuando a cullarla, anche se quello che davvero avrebbe voluto fare sarebbe stato appoggiarla sul divano, sedersi ai suoi piedi, prendersi la faccia fra le mani e piangere insieme a lei. "Se continui così, sveglierai persino i cavalli nelle scuderie."
"
Aaaaahh!" strepitò C.J. in risposta, le manine strette a pugno, le palpebre serrate, la bocca spalancata con la lingua che vibrava in mezzo alle gengive senza denti. "WAAAAAHH!"

Jack non aveva mai avuto a che fare con una bambina tanto piccola, ma sentirla piangere a quel modo senza capire cos'avesse era qualcosa di straziante. Il pannolino era pulito, non poteva avere fame... e allora, cosa accidenti c'era che non andava?
Era Ennis che avrebbe tanto desiderato dei figli, che adorava i bambini, che ci sapeva fare con loro e li capiva come dei libri aperti. Jack non si era mai posto quel genere di problema: erano due uomini, volenti o nolenti non
potevano avere figli, quindi perché crucciarsi? Era inutile desiderare l'impossibile: tanto meglio pensare a tutti i vantaggi dati dal non avere bambini, e goderseli. Non era forse Ennis che diceva sempre, Se non ci puoi fare niente, devi accettarla com'è?
Jack considerò che, forse, aveva imparato a godersi fin troppo i vantaggi del non avere figli, e ora che finalmente aveva una neonata di cui occuparsi, non sapeva più da che parte sbattere la testa. In poche settimane, l'esistenza tranquilla e tutto sommato ordinaria, che si era costruito faticosamente e di cui andava fiero e soddisfatto, era andata in pezzi, crollata come una catapecchia durante una scossa sismica, lasciandolo smarrito e confuso e frastornato, ed ora avrebbe dovuto trovare la forza per lavorare sodo e ricostruire tutto quanto - niente sarebbe mai tornato come prima, ma cos'è che non cambia, a questo mondo? Solo le cose morte.
E malgrado tutto quello che era successo, Jack si sentiva vivo e vitale.


Maggio 1966

Il giorno successivo al torneo, lunedì, come previsto, gli Hamilton tornarono a Casper, mentre Ennis rimase a Childress, alloggiato al motel, per aspettare che Jack venisse dimesso dall'ospedale: cosa che avvenne dieci giorni più tardi. Festeggiarono la riunione cenando in un ristorante dall'atmosfera calda e intima, niente a che vedere con i locali per cowboys affollati e rumorosi e pieni di fumo di cui Childress era piena per via delle gare di rodeo, una volta al motel si abbandonarono alla passione, e finalmente poterono addormentarsi di nuovo l'uno fra le braccia dell'altro, Jack fra le braccia calde e rassicuranti di Ennis, che gli sussurrava che presto sarebbe guarito e tutto sarebbe tornato come prima.
Il giorno seguente ripartirono per Casper, a casa, e la vita co
ntinuò, tranquilla com'era stata prima dell'aggressione, proprio come Ennis gli aveva bisbigliato quella notte, più per convincere sé stesso che per rassicurare Jack.
Ennis non ricominciò con le sue solite paranoie; al contrario, sembrava essere diventato ancora più geloso, possessivo quasi, e Jack si rallegrava di non avergli mai raccontato di come Lureen Newsome, pluripremiata reginetta dei rodei, lo fosse andato a trovare in ospedale con un grosso mazzo di fiori, 
i capelli castani sciolti sulle spalle, indossando un abito di sangallo bianco e costosi stivali di coccodrillo anziché la solita tenuta da gara, provando sfacciatamente di baciarlo dopo nemmeno dieci minuti di conversazione - Ennis si era assentato per andare a comprare un pò di biancheria per quella settimana di imprevista lontananza da casa.
Jack l'aveva respinta, scostandosi, confuso e imbarazzato: "N-no, io... davvero, non posso..."
Come se nulla fosse successo, Lureen aveva ripreso il suo posto sulla poltrona di fianco al letto: "Non preoccuparti. Sono io che corro sempre troppo."
"Sei carina, Lureen... ma io..."
"Hai qualcun altro nella testa", aveva terminato lei.
"Bé, sì", aveva risposto Jack, e Lureen aveva ribattuto, inaspettatamente: "Quant'è che è morta la tua ragazza?"
Chissà come l'è venuto a sapere, si era chiesto lui. Non ricordava di avere mai parlato a Lureen Newsome di quella storia, ma lei poteva averlo sentito dire: nell'ambiente dei rodei, ogni tanto, Jack si era trovato a tirarla fuori, anche se non spesso quanto a casa.
E, onestamente, non ne poteva più. Non ne poteva più di fingere, di nascondere la verità. Ma dopo quello che era successo il sabato precedente, non se l'era sentita di raccontare a Lureen, che conosceva solo perché spesso si era trovato sul podio con lei (e perché una volta, prima ancora di conoscere Ennis, avevano ballato un lento insieme in un locale di Denver, dopo una gara, ma lei era scappata via subito dopo, con la scusa che suo padre l'attendeva in albergo, probabilmente incazzato nero perché aveva già sforato il coprifuoco di più di un'ora), che non c'era una fidanzata deceduta, non c'era mai stata, e che la persona che aveva in testa, e nel cuore, era Ennis del Mar. Così aveva replicato, prendendo come riferimento il periodo in cui aveva conosciuto il suo compagno: "Quasi tre anni."
"E' tanto."
"Già."
"Non hai più avuto un'altra, da allora?"
"No."
"Non ti piace parlarne, vedo."
"No. Per niente."
Non è che non mi piaccia, Lureen: lo detesto proprio. Perché vorrei tanto poter smettere con questa farsa del cavolo, e dire a tutti la verità. E invece eccomi qui a mentire, e a cos'è servito, poi? Solo a farmi schiantare un braccio e sfregiare il viso. Chi vuole capire cosa c'è davvero fra Ennis e me, lo capisce senza bisogno che glielo dica io. 
"Senti", lei esitava. "Devi stare attento. Già da un pò, Hackman va in giro a dire che tu e tuo cugino siete... ehm..."
Grazie dell'avvertimento, mia cara, ma arrivi tardi. "Amanti?" l'aiutò.
"Sì", confermò lei. "Te ne sei accorto, eh? Per dirla tutta, io quel tipo non lo reggo... secondo me la sua è tutta invidia."
"Invidia?" fece Jack, sinceramente stupito che un riccone come David Hackman potesse trovare qualcosa da invidiare a uno come lui. "E di che?"
"Tu sei", Lureen era imbarazzata, in contrasto con la sfacciataggine di poco prima. "Bè, molto più carino."
"A essere più carino di quello", ribatté lui, "Ci vuole davvero poco."
Lei ridacchiò. "In effetti... Però non mi dire che non te ne rendi conto."
"Di cosa?"
"Del mucchio di ragazze che ti sbavano dietro."
"Ma no, io..."
"Dai, non fare il modesto", insisté lei. "Lo sai benissimo che potresti avere tutte le ragazze che vuoi."
"E se fossi davvero un finocchio?"
domandò Jack. Che sarebbe successo se per una volta avesse detto la verità? Probabilmente nulla di troppo grave.
Lureen restò raggelata, immobile, per un secondo. Poi scoppiò a ridere: "Ma dai!"
"No, davvero", insisté lui. "Se io fossi veramente il ragazzo di Ennis?"
"Su... non prendermi in giro", fece lei, ancora ridendo. "Tu non puoi essere un finocchio... e tuo cugino, men che meno."
"E perché no?"
"Perché no. Non siete omosessuali, quanto io non sono lesbica." lo guardò, stringendosi nelle spalle. "Jason Corrs, lui sì che lo è. Mike Perez anche. E pure Archie Wells."
"E tu come lo sai, scusa?"
"Lo vedo", disse lei, come se si trattasse di un'ovvietà. "E ce ne sono altri, nell'ambiente dei rodei. Si riconoscono lontano dieci miglia."
Jack avrebbe voluto domandarle da cosa li si potesse riconoscere con tanta sicurezza, ma si morse la lingua: meglio chiudere una conversazione che avrebbe potuto diventare troppo pericolosa. Avevano parlato d'altro, e neanche un quarto d'ora dopo che Lureen se n'era andata, era arrivato Ennis, che gli aveva domandato se la Lureen Newsome che gli aveva regalato quel mazzo di margherite fosse proprio quella
Lureen Newsome. Jack gli aveva detto la verità: non c'era niente di male nell'avere ricevuto la visita di Lureen, che tra l'altro abitava a Childress nella principesca villa dei suoi ricchissimi genitori, a dieci minuti di automobile dall'ospedale. Ma aveva taciuto la storia del bacio: anche se Jack l'aveva respinta, ad Ennis non avrebbe fatto piacere saperlo.
Tanto, ormai sono diventato esperto in bugie.
Ma la gelosia di Ennis li fece discutere spesso, e una volta, due settimane dopo il ritorno a Casper, litigarono di brutto: la litigata più assurda che Jack potesse ricordare fra di loro.
In sostituzione di Jack, che a causa del braccio rotto impiegava il proprio tempo per lo più insieme a Janice, imparando a tenere la contabilità - cosa che comunque gli sarebbe servita, non appena la nuova fattoria fosse stata pronta - Matt aveva assunto un nuovo operaio, tale Jimmy Maddocks: un diciottenne di Edgerton dai capelli rossi e la faccia piena di lentiggini, magro come un chiodo, con madre malata a carico, il cui atteggiamento schivo e riservato ricordava vagamente a Jack quello di Ennis quando l'aveva conosciuto.
"Quello non mi somiglia affatto", grugnì Ennis in risposta, una volta che Jack gli fece notare la somiglianza. Erano seduti all'ombra del portico, a fumare una sigaretta dopo pranzo, prima di tornare al lavoro, Ennis alle scuderie con Matt e Jack in ufficio con Janice. "Anzi, secondo me è un pò frocio."
"Ennis!" quando Ennis se ne usciva con battute del genere, Jack non riusciva a trattenere una risata.
Inizialmente, aveva provato risentimento e delusione: sentire Ennis negare le proprie inclinazioni sessuali, era un pò come sentirlo negare il proprio amore, nonché la propria attrazione fisica, verso di lui. Poi si era reso conto che Ennis era davvero convinto di non essere un finocchio, niente avrebbe potuto fargli ammettere il contrario, tantomeno fargli cambiare idea: per Ennis, essere omosessuale equivaleva ad essere un travestito, un transessuale, effemminato e avvezzo ai rapporti promiscui - facile che Lureen Newsome la pensasse allo stesso modo.
E invece, io credo che ci siano molti omosessuali come noi. Uomini perfettamente normali, innamorati l'uno dell'altro, che fanno coppia fissa e non vanno in giro sculettando dentro pantaloni di pelle aderenti. E, fra parentesi, che evitano come la peste anche solo di sfiorarsi una mano in pubblico, per paura che qualcuno possa pensare male, guardarli peggio... o tendere loro un agguato armati di cacciacopertoni e fracassarli di botte.
"No, davvero", ribadì Ennis. "Quello ti guarda in modo strano. Non te ne sei accorto?"
"Forse è invidioso di quanto sono bello."
Ennis sorrise e lo guardò con insolita tenerezza, invece di dargli del vanesio o del pavone, come faceva di solito quando Jack si vantava del proprio aspetto fisico. "Attento, Twist, che chi si loda s'imbroda", era uno dei suoi ammonimenti preferiti.
Jack ricambiò con uno sguardo interrogativo: "Bé...?"
"E' dal giorno dell'incidente che non ti sentivo fare il pavone. Vuol dire che va meglio."
Jack annuì, sorridendo: sì, andava meglio, e vedere la cicatrice sul viso non gli bruciava più come all'inizio. "Mi hai detto talmente tante volte che sono comunque il cowboy più attraente di tutto il paese, che si vede che sto iniziando a crederti", sussurrò. "Non è da te sprecare complimenti."
Ennis gli passò un braccio intorno alle spalle e lo scrollò, per poi rimettere a posto la mano: "Di solito non lo faccio. Ma quella cicatrice ti dà un'irresistibile aria da canaglia."
"Forse è di quella che è invidioso Jimmy. Le ragazze ne vanno matte."
"Forse."
Poi, sul finire di maggio, Jack si trovò da solo con Jimmy, a raccogliere in un grosso sacco verde i rami di gelsomino che il ragazzo stava potando dalla siepe che divideva il cortile della casa degli Hamilton dal recinto per i cavalli, inondando l'aria con il profumo dei suoi fiori bianchi. Erano ormai due settimane che non faceva altro che stare chiuso in ufficio, e Jack non ne poteva più di tutta quell'inattività: imparare a tenere i conti della fattoria gli sarebbe tornato molto utile, e gli piaceva, ma gli piaceva altrettanto lavorare sul campo, insieme agli altri, con il sole e la leggera brezza di inizio estate sulla pelle, oppure nelle scuderie a prendersi cura dei cavalli, e ritrovarsi alla sera con il corpo stanco e la testa leggera, invece del contrario.
Quel giorno però non c'era brezza, l'aria era torrida e afosa, il sole delle tre del pomeriggio bruciava come se fosse stato luglio, estate inoltrata anziché primavera, e Jack si era trovato più volte a maledire la propria insana idea, rimpiangendo di non essere in ufficio con Janice, al fresco del ventilatore. Di solito amava il caldo, ma il pesante gesso gli stava facendo vedere i sorci verdi, pizzicandogli la pelle, e il tutore di gomma blu che gli teneva il braccio ripiegato fermo contro le costole e lo stomaco non faceva altro che aumentare la sua insofferenza. Così, aveva domandato a Jimmy di aiutarlo a togliersi la t-shirt sudata, rimanendo a torso nudo, con indosso solo il cappello, i vecchi jeans sdruciti che gli stavano troppo larghi e gli scendevano sui fianchi, che usava per fare quelli che definiva i lavori sporchi, e gli stivali.
Non aveva pensato alla conversazione avuta con Ennis qualche giorno prima a proposito di Jimmy.
O meglio, ci aveva pensato, ma il pensiero non era nemmeno riuscito a sfiorargli l'anticamera del cervello. Jack era convinto che quella di Ennis fosse una delle sue solite fisse da amante geloso, e in ogni caso, i
gusti sessuali di Jimmy Maddocks non erano affar suo. Sapeva fin troppo bene come ci si sentisse a scoprire che le proprie inclinazioni non erano quelle che avevi sempre creduto, quelle che appartenevano alla maggior parte della gente.
Jimmy lo aiutò a liberarsi della maglietta senza battere ciglio, senza guardarlo in alcun modo strano, come l'aveva definito Ennis. Se anche era omosessuale, Jack non sembrava rientrare nei suoi gusti.
Continuarono il lavoro per un altro quarto d'ora, e Jack era chino sui suoi ramoscelli, fischiettando fra sé una canzone di Roger Miller, che proprio quella mattina aveva sentito alla radio e ancora non era riuscito a togliersi dalla testa, sentendosi meno accaldato malgrado il sole che gli batteva sulla schiena e apprezzando il piacere che di solito provava nel faticare fisicamente, quando improvvisamente udì Ennis gridare: "Che cazzo stai facendo, razza di bastardo pervertito?"
Jack si rialzò, giusto in tempo per vedere Ennis che saltava addosso a Jimmy, rotolando con lui sull'erba e prendendolo a pugni.
"Ennis, che cavolo..." fece Jack.
"Ehi, amico..." gemette Jimmy, cercando di ripararsi la faccia con le braccia ripiegate.
"Amico un accidente, cazzo!" gridò Ennis.
"Ennis!" Jack si precipitò dai due uomini e, con il braccio sano, prese Ennis per il polso destro, impedendogli di tirare l'ennesimo pugno a Jimmy, che sotto di lui stava cercando difendersi come poteva. "Ennis, smettila, Cristo santo... che cavolo stai facendo?"
"Io, proprio niente!" Ennis alzò la testa e lo guardò, la faccia paonazza, gli occhi inferociti. Era a cavalcioni del torace di Jimmy, tenendogli il collo della maglietta con la mano sinistra, pronto a mollargli un altro diretto. Il naso del ragazzo stava sanguinando. "Era questo qui che ti stava guardando il culo!"
"Che cosa?" Jack non riusciva a credere alle proprie orecchie. "Ennis, è solo una tua..."
"Avevo ragione, è un maledetto frocio. Ti stava guardando il culo, e aveva un bozzo grosso così sul davanti."
Jack avvampò. Non era abituato a fare colpo sugli uomini, la cosa non lo interessava. Anzi, a ben pensarci, lo disgustava: lo disgustava essere guardato in quel modo da qualsiasi altro uomo che non fosse il suo compagno, mentre ricevere apprezzamenti da parte del genere femminile lo compiaceva e lo divertiva, forse perché sapeva che mai più sarebbe riuscito ad andare con una donna, dopo avere convissuto per tre anni con Ennis. Rimase un secondo senza parole, poi tirò Ennis per il polso, cercando di alzarlo in piedi con sé. "Dai, lascia perdere. Lascialo stare, non ha mica..."
Ennis si lasciò tirare in piedi, ma poi fulminò Jimmy con un'occhiata, puntandogli il dito contro: "Tu, vattene. Fila via da qui, e se ti becco un'altra volta a fare quello che stavi facendo, giuro su Dio che ti faccio il culo con quelle cazzo di cesoie."
"S-sì... sissignore", balbettò Jimmy, sconvolto, tirandosi in piedi, e filando di corsa verso le scuderie con la mano sul naso.
"Porca puttana, vengo a portarvi due birre ghiacciate, e guarda cosa mi tocca vedere", sbottò Ennis, indicando la sporta di cellophan che aveva lasciato sull'erba poco distante. "Quello lo faccio licenziare in tronco, madre malata o no. Che vada a farsi drizzare il suo fottuto uccello da qualche altra parte."
"Così sei ingiusto", tentò Jack. "Ammesso e non concesso che mi stesse guardando, non stava facendo niente di male."
"Tu stai zitto!" la collera era tornata negli occhi di Ennis, ancora più incendiaria di prima: non più diretta verso Jimmy, bensì verso Jack. "Che cosa diavolo ti è saltato in mente di conciarti in questo modo?"
Jack iniziò a vederci rosso: "Non provare mai più a dirmi di stare zitto, del Mar, altrimenti..."
"Altrimenti, cosa? Sembra che tu lo faccia apposta, maledizione!"
"Apposta a fare cosa?"
"Anche quella sera, su alla Brokeback... non dirmi che non ti sei cavato apposta la camicia!"
"Ma di cosa stai..."
"Tu sei andato nella tenda e ti sei tolto la camicia, cazzo, e l'hai fatto appositamente per sedurmi. Non dirmi che non è vero."
Jack avvertì un misto di rabbia e imbarazzo salirgli alla testa. Ricordava di essersi rifugiato nella tenda, la sera dopo la loro prima volta, e di essersi sfilato la camicia e la canottiera. Ricordava il proprio disagio di fronte alla fuga e al silenzio di Ennis, ricordava come si fosse sentito una verginella sedotta e abbandonata, ricordava il senso di colpa per avere preso la mano di Ennis, la notte precedente, ed essersela portata sulla patta dei jeans.
Ma era stato Ennis che l'aveva preso, poi.
Aveva tentato di sedurlo, la sera successiva? Sì, era così, era la pura e semplice verità - altrimenti, con quel freddo, col cavolo che si sarebbe spogliato. Ma era altrettanto vero che Ennis si era lasciato sedurre fin troppo facilmente, e l'aveva raggiunto nella tenda, e quella, in fondo, era stata la loro prima volta: la prima volta che si erano baciati, che si erano coccolati, che avevano fatto l'amore lucidamente, con trasporto, non una scopata in preda ai fumi dell'alcol, al gelo della notte e a un desiderio tanto bruciante quanto inesprimibile. 
"Io volevo la stessa cosa che volevi tu", ribatté. "Solo che tu eri troppo codardo per ammetterlo."
"Chissà perché, sei sempre tu quello che prende l'iniziativa."
"Cosa vorresti insinuare, adesso? Che ci ho provato con Jimmy Maddocks?"
"No. Ma che bisogno avevi di svestirti, quando ti ho già detto che ti aveva messo gli occhi addosso?"
"Avevo caldo, santa pazienza", replicò Jack. "E non avrei pensato neanche lontanamente che..." tacque un attimo, poi sospirò, sbottando: "Ma che razza di conversazione assurda è questa?"
"Non lo so", ammise Ennis. "So solo che quello che è successo prima non mi è piaciuto."
"Questo l'avevo capito."
"Non mi piace che ti mettano gli occhi addosso. Né altri uomini, né delle donne."
"Avevo capito anche questo."
"Scusami", Ennis abbassò gli occhi. "Scusami per averti detto che volevi sedurmi."
"Accidenti, che onore. Ennis del Mar che mi pone le sue scuse."
"Te le devo, questa volta. Tu forse volevi sedurmi, ma io non aspettavo altro che essere sedotto."
"Tu non avresti mai preso l'iniziativa, vero?" domandò Jack, malgrado sapesse fin troppo bene quale sarebbe stata la risposta di Ennis.
Ennis esitò. "No. Mai, credo", ammise, guardandolo con il mento appoggiato al collo. "E alla fine, sarei tornato a Sage, da solo, se tu non fossi tornato indietro a riprendermi. Ancora non capisco come sei riuscito a convincermi a salire con te. Forse anche quella volta io non aspettavo altro che fossi tu a chiedermelo."
Lo sapevi, rifletté Jack. E allora, perché ti senti così deluso? Sei tu che hai voluto sentirglielo dire.
Ennis dovette notare la sua delusione, perché gli batté una spalla: "Io sono un maledetto codardo, lo sai. Ringrazio ogni giorno il tuo fottutissimo coraggio."
Jack sorrise. Lo strappo rimaneva, ma almeno, Ennis era riuscito a cucirvi sopra una pezza. "Non lo farai licenziare, vero?"
"Chi, Jimmy?"
"Sua madre è vecchia e malata di cuore. Hanno a malapena di che vivere, e se perde questo lavoro..."
"Hai a cuore la loro sorte, o sbaglio?" Ennis sembrava pronto a scaldarsi di nuovo.
"Sì. Ma non per il motivo che pensi tu. Perché non capisci che non hai motivo di essere geloso?"
Ennis abbassò di nuovo lo sguardo, esaminandosi gli stivali, che avevano bisogno di una lucidata. "Forse perché ho paura di perderti", disse, infine, sollevando gli occhi. "Ormai mi hai sconvolto la vita, e senza di te mi ritroverei perduto anch'io."
Jack lo tirò a sé, passandogli il braccio buono intorno al collo. "Sei un maledetto codardo, del Mar."

Ottobre 1966

Janice adorava i film di Hitchcock, e quel sabato sera Jack ed Ennis si erano offerti di fare da baby sitter ai tre ragazzini, per permetterle di andare con Matthew a vedere Il sipario strappato, in prima visione al multisala di Casper, e magari fermarsi in un pub a bere qualcosa con il marito, cosa che non faceva dall'era mesozoica.
Era ormai mezzanotte, Hope, Ken e Pete erano a letto già da un'ora (quando restavano a casa con loro, Jack ed Ennis si lasciavano immancabilmente convincere a lasciarli andare a dormire con almeno un'ora di ritardo rispetto all'orario previsto dai genitori), e Jack stava guardando svogliatamente La parola ai giurati, ritrasmesso per l'ennesima volta in seconda serata, cambiando canale per un breve zapping ogniqualvolta si accorgeva di ricordare i dialoghi della scena a cui stava assistendo.
Ennis, seduto sul divano accanto a lui, era crollato dal sonno non appena aveva appoggiato il sedere sul cuscino, reclinando la testa sulla spalla destra di Jack: si era impuntato che la nuova fattoria dovesse essere pronta entro Natale, e nelle ultime settimane aveva lavorato come un pazzo per terminarne l'approntamento, oltre al solito lavoro nelle stalle e nelle scuderie degli Hamilton. Jack l'aveva aiutato, ma doveva ammettere che, se lui era più portato per il lato umano della faccenda, come tenere i contatti con gli operai e i muratori, nonché con i fornitori di materiali edili e sanitari e rubinetterie e piastrelle e mobili e Dio solo sapeva cos'altro (com'era complicato tirare su una casa nuova dal nulla), sollecitarli e rabbonirli e irruffianarseli e talvolta arrabbiarsi blandamente quando qualcosa non andava per il verso giusto, Ennis era molto più portato per il lato materiale: mostrare agli operai come eseguire le cose a regola d'arte, ovvero com'era lui a volerle eseguite, e nel contempo aiutarli e sorvegliarli.
D'istinto, Jack gli aveva passato il braccio intorno alle spalle, stringendolo a sé - era stata dura, ma ormai aveva ripreso la piena funzionalità dell'arto. Q
uando gli avevano tolto il gesso, era rimasto sconvolto nello scoprire il proprio braccio bianco, flaccido e ossuto e talmente debole da non riuscire quasi a sollevare la mano, e aveva giurato di darci dentro con con la riabilitazione, nonostante la propria innata pigrizia verso qualsiasi forma di ginnastica ripetitiva, per recuperare il tono muscolare perso durante i due lunghi mesi di ingessatura.
Erano rimasti così, Ennis a dormire, russando appena, e Jack a tenerlo stretto, sostenendolo, entrambi in pigiama, sotto al grande plaid di lana, fino a quando la testa del compagno aveva iniziato a pesargli troppo: allora, l'aveva fatta scivolare pian piano nel proprio grembo, e gli aveva tenuto una mano sulla spalla, e l'altra fra i capelli.

Fra poco, potremo stare così tutte le sere. Non avremo bisogno di aspettare che Jan e Matt escano, e i ragazzini siano a letto.
Proprio come una coppia normale.
Non ne avevano mai parlato con Janice e Matthew, ma era chiaro che questi disapprovassero qualsiasi gesto d'intimità fra di loro: del resto, in pubblico quei due si scambiavano a fatica una carezza, benché fossero donna e uomo, e regolarmente sposati.
Jack chiuse gli occhi, e provò a immaginare come sarebbe stata la loro vita di lì a poco, da soli nella stessa abitazione. Di certo, inizialmente avrebbero fatto un mucchio di sesso, cosa impossibile in casa altrui. E di certo, anche i battibecchi sarebbero raddoppiati: lui ed Ennis erano diametralmente opposti, impossibile non litigare quando ti trovi a dividere l'abitazione, i problemi, le gioie, i dolori, gli affari, e anche le cose più terra terra come le faccende di casa e il conto in banca, tutta l'esistenza insomma, ventiquattr'ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all'anno, con una persona che è il contrario di te e testarda quanto te, senza nessuno a fare da mediatore, come ora accadeva con gli Hamilton sotto lo stesso tetto: se da un lato impedivano loro di abbandonarsi troppo spesso alle effusioni, allo stesso tempo impedivano loro di lasciarsi andare ad alterchi epocali.
Anche alla Brokeback era stato così. Si erano trovati soli, e fra loro era scoppiata la passione, ma accidenti, quanto avevano litigato...
Jack era convinto che, se e quando avessero smesso di litigare, avrebbe significato che non avevano più voglia di perdere tempo a discutere: la fine del loro rapporto.
A poco a poco, anche lui si abbandonò al sonno, scivolando addosso ad Ennis, la testa sul suo fianco. Si ridestò all'improvviso, al rumore della porta del salotto che si apriva.
"Jack?" la voce di Janice.
Jack tirò su la testa, intontito, strofinandosi gli occhi. Jan e Matt erano tornati. Quanto tempo era passato? Doveva essersi addormentato senza accorgersene, non aveva udito né la Mercedes che tornava, né Buck abbaiare, né la porta dell'entrata che si apriva. Alla televisione, La parola ai giurati era terminato, sostituito dalle news della notte.
Janice era rimasta sulla soglia del salotto, con indosso ancora il cappotto e la sciarpa, la bocca incurvata in un mezzo sorriso: "Buonanotte."
"Ciao, Jan", Jack si raddrizzò, imbarazzato. L
ui ed Ennis erano... bè, in una posizione che né Jan né Matt avrebbero approvato. Non che stessero facendo qualcosa di male, ma non era neanche quello che gli Hamilton avrebbero voluto vedere, rientrando: Ennis con la testa e le mani nel grembo di Jack, Jack con la testa sul sedere di Ennis e un braccio intorno alla sua pancia. "Ennis è crollato, e anche a me devono essere scappati gli occhi... come... com'è stato il film?"
"Bello. Dovreste andare a vederlo anche voi, prima che lo tolgano. Le tre pesti?"
"Sono a letto già da un pezzo", disse Jack, come se quello giustificasse la sua condotta. Quello che aveva sempre temuto era infine successo, dunque: Jan li aveva beccati in un atteggiamento potenzialmente sconveniente. "Senti, Jan", tentò. "Eravamo stanchi... e i ragazzini sono su... e voi eravate fuori... e..."
"Lascia perdere", fece lei, sciogliendosi il nodo della lunga sciarpa di lana viola.
Lui la guardò.
"Eravate stanchi, i ragazzini sono su, e noi eravamo fuori", ripeté lei. Poi aggiunse: "E non stavate facendo niente di osceno, mi sembra."
"Sì... ma..."
"E in ogni caso, tu ed Ennis state insieme da più di tre anni."
Jack la osservò togliersi il cappotto, non riuscendo a capire dove Jan volesse andare a parare.
"All'inizio ero prevenuta", ammise lei, ripiegandosi il cappotto sull'avambraccio. "Parecchio. Quando Ennis mi ha detto che tu eri il suo ragazzo, per poco non mi è venuto un colpo, e sono stata lì lì per cacciarvi via tutti e due. E anche Matt... inizialmente, non è che fosse proprio felicissimo di avervi in casa, lo sai. Se vi abbiamo tenuto, è solo perché avevamo bisogno. Eravamo in una brutta situazione e non era il momento di fare gli schizzinosi
, e se vi foste comportati male, saremmo stati sempre in tempo a mettervi fuori." Poi, quasi scusandosi: "So che suona cinico, ma..."
"Noi avevamo bisogno più di voi", l'interruppe Jack. "Chi mai avrebbe dato lavoro, vitto e alloggio a una coppia di finocchi?"
"Sarete pure finocchi", ribatté lei. "Ma io trovo che voi due siate una coppia migliore di tante altre cosiddette normali, e Matt la pensa come me."
Jack tacque, sbalordito.
"Chiudi quella bocca, che entrano le mosche. Non ho detto che condivido la vostra scelta, né tantomeno che potete saltarvi addosso come se niente fosse. Quella volta che vi ho beccati nel fienile, che vi stavate baciando..."
Jack arrossì violentemente: "Quando? Siamo sempre stati attenti a..."
Lei ridacchiò: "Sciocco, non vi ho mai beccati, almeno non a baciarvi. E spero che non succeda mai, perché non so cosa potrei fare. Però posso dirti per certo che Matt vi caccerebbe di qui a pedate."
Jack abbassò lo sguardo, sentendosi in colpa. Quando si trovavano soli, ed erano pressoché certi che nessuno fosse nei paraggi, lui ed Ennis talvolta si lasciavano andare. Niente di esagerato, raramente qualcosa di più che un bacio, una carezza o una strusciata, ma... 
Lei si avvicinò e gli scompigliò i capelli: "Sono contenta che Ennis ti abbia incontrato, Jack. Malgrado tutto quello che comporta."

Febbraio 1967

Alla fine, la nuova fattoria riuscì ad essere pronta per la fine di gennaio dell'anno successivo, un fabbricato di pietra grezza con le strutture di legno, con un portico davanti e uno più grande dietro, vicino al quale troneggiava un grande pozzo. All'interno, una grande cucina in muratura completa di caminetto, salotto e bagno di servizio, lavanderia e sgombraroba al piano terra, tre camere da letto e due bagni al piano superiore. In più, un'autorimessa sufficiente per due furgoni, una stalla con venti posti, in cui sistemarono le dieci vacche che Jack aveva ereditato dai genitori, e una piccola scuderia completa di recinto per i loro due cavalli, Fiona e Ranger. Il tutto, su un appezzamento di terreno di quasi tre ettari, circondato da una siepe di bosso che lo divideva dalla strada, e dalla proprietà confinante degli Hamilton.
Il primo sabato di febbraio, Jack ed Ennis ne presero pieno possesso, iniziando a viverci: nei tre giorni precedenti vi avevano traslocato tutti i propri averi, pulito e riordinato, e quel pomeriggio avevano fatto la spesa al nuovo supermercato di Casper. Non tutto era sistemato alla perfezione, mancava ancora una parte dell'arredamento, due delle camere da letto erano completamente vuote, senza lampadario, senza considerare che, nel mettere a posto i loro acquisti di quel pomeriggio, si accorsero di avere dimenticato parecchia roba.
"Accidenti, avremmo dovuto fare una lista", esclamò infine Jack, quando si rese conto di avere scordato persino il detersivo per i piatti.
"Man mano che ci accorgiamo di quello che ci manca, bisogna che ce lo scriviamo", suggerì Ennis, riponendo in dispensa la senape e il tabasco. "E lunedì andremo di nuovo a fare la spesa. Intanto... che ne dici se stasera, dopo cena, ce ne andiamo a festeggiare al Wolf's Ear? Mi pare che abbiamo dimenticato anche il whisky."
"Ma cos'abbiamo comprato, allora?" sbottò Jack, iniziando a sistemare le posate nel primo cassetto sotto l'acquaio della cucina. "A me sembrava di avere speso un capitale."
E l'avevano speso: fra le provviste, i detergenti e gli attrezzi per la pulizia della casa, nonché un servizio di piatti, uno di posate e uno di bicchieri, una piccola batteria di pentole e un pò di biancheria per la tavola, per il letto e per il bagno, erano loro usciti più di duemila dollari.
Ma in fondo, la cosa più importante era riposta dentro all'ultimo cassetto del comò della camera da letto. L'atto di proprietà, firmato da entrambi alla presenza di un notaio di Casper e redatto il mese precedente, in cui si dichiarava che John Charles Twist Jr., ed Ennis Diego del Mar, erano conproprietari, ognuno al cinquanta per cento, di quel terreno e di tutti i fabbricati costruiti sopra di esso.
Jack amava considerarlo alla stregua di un atto di matrimonio: era quanto di più simile potessero permettersi di firmare. Ma guai a dirlo ad Ennis... e guai a proporgli di indossare due anelli identici, come Jack avrebbe tanto desiderato. La settimana prima della firma aveva tentato di parlargliene, ma Ennis aveva ribattuto con un grugnito: "La tua fantasia corre troppo, Twist, e prima o poi ti metterà nei guai. Non possiamo sposarci, no? E non potremo mai farlo. E allora, tanto vale non desiderarlo nemmeno."
Forse Ennis aveva ragione. Ma a Jack piaceva considerarsi suo marito. Che male c'era?
Quella notte, dopo essere tornati dal Wolf's Ear alle due, entrambi un pò brilli, si lavarono i denti, e poi via, a letto, sotto la grossa e calda trapunta che Janice aveva loro cucito, come dono per la nuova casa. Jack si accorse di non essere solo brillo: era proprio ubriaco, come non gli capitava da parecchio. Avrebbe voluto inaugurare la nuova casa e il nuovo letto, saltare addosso ad Ennis e succedesse quello che doveva succedere, ma il corpo sembrava non rispondergli, disconnesso dal cervello, e la testa gli girava peggio che in giostra. Non era nemmeno sicuro di essere coricato su di un fianco, o a pancia in su oppure in giù. Come aveva fatto a bere così tanto senza accorgersene?
Doveva essere sdraiato sul fianco sinistro, perché Ennis l'abbracciò da dietro, passandogli un braccio intorno alla vita, infilando la mano nel pigiama, negli slip. "Ehi, piccolo."
"Ciao", fece Jack. Sentiva la propria voce provenire da lontano, come fuori da sé stesso.
"Ti senti bene?"
"Mi gira la testa. Credo di essermi beccato l'influenza..."
"Influenza da whisky", disse Ennis, il tono condito da un sorriso.
"Nooo... influenza davvero. Non hai sentito il telegiornale? L'australiana, quest'anno, sta contagiando migliaia di persone. Porta giramenti di testa, intontimento, nausea, debolezza..."
"Proprio come un'ubriacatura."
"Certamente."
"Quindi, se ti dico qualcosa, domani te ne sarai dimenticato, proprio come se questa notte tu fossi stato ubriaco fradicio."
"E' possibile."
Jack avvertì Ennis stringerlo ancora di più a sé, bisbigliando al suo orecchio: "Se solo il mondo fosse diverso, se potessi avere la possibilità di sposarti, Dio solo sa che l'avrei fatto dopo una settimana che ci conoscevamo."
Jack provò un tuffo al cuore, ubriaco o meno. "Tu credi che io possa dimenticare quello che mi stai dicendo?"
"Lo dimenticherai, e lo dimenticherò anch'io. Perché sono solo le farneticazioni di due ubriachi."
"Lo dimenticherò. Va bene."
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Ennis gli prese una mano, intrecciando le dita con le sue, e dichiarò, con la voce ormai ridotta a un sussurro roco: "Io, Ennis Diego del Mar, prendo te, John Charles Twist Jr...."
"Jack", lo corresse Jack. Quello che stava dicendo Ennis gli sembrava assolutamente surreale. "Solo Jack. Mia madre mi ha sempre chiamato così."
"Prendo te, Jack Twist", ripeté Ennis, "come mio sposo. E prometto di amarti e onorarti nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché morte non ci separi. E' così che si dice, giusto?"
"Credo di sì. Non sono molto esperto di queste cose."
"Ora tocca a te."
"Sei sicuro, Ennis?" Jack sentiva lo stomaco annodato.
"Sì. Tanto, domani avremo dimenticato tutto. Non è una cosa che possiamo fare davvero, né potremo mai farla. Però... questa è la nostra prima notte qui, e siamo brilli, e possiamo permetterci di sognare."
"Buffo, Ennis del Mar che si lascia andare ai sogni."
"Sono ubriaco anch'io quanto te", disse Ennis, e lo baciò sulla nuca. "Ora, ti va di fare la tua promessa, prima che si faccia mattina?"
"Io..." Jack sentì la propria voce che tremava. Era un sogno, un bellissimo sogno, l'indomani mattina avrebbero dimenticato ogni cosa, ma la sostanza sarebbe rimasta, niente e nessuno avrebbe potuto sciogliere il loro giuramento. Si schiarì la gola e si voltò verso Ennis, senza lasciargli la mano: sentiva gli occhi umidi e brucianti di lacrime di commozione, ma voleva promettere guardando in faccia il suo compagno. Anche gli occhi di Ennis luccicavano, nella penombra della stanza: forse era l'alcol, o forse era qualcos'altro. Gli carezzò il viso con la mano libera e mormorò: "Io, Jack Twist, prendo te, Ennis Diego del Mar, come mio sposo...
e... e prometto di amarti ed onorarti, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia... finché morte non ci separi."
"Dovresti ridere, Jack, non piangere", Ennis gli passò i polpastrelli di una mano sotto agli occhi, asciugandogli le lacrime. "Non è quello che volevi?"
"S-sì... ma lo sai che rido e piango ancora più in fretta del solito, quando bevo troppo..."
"Di solito, ora gli sposi si baciano. Forse siamo troppo ubriachi per andare oltre, ma un bel bacio fatto bene penso di meritarlo."
Jack accostò le proprie labbra a quelle del compagno. "Grazie, Ennis..."
"Grazie a te, piccolo."

Novembre 1967

Tutto era proseguito a meraviglia, se si evitava di considerare le discussioni iniziali per decidere chi dovesse fare la lavatrice, o stirare, o pulire i bagni, o pulire i pavimenti o cucinare, alle quali avevano posto rimedio decidendo di fare una volta per ciascuno, per poi iniziare nuovamente a litigare quando qualche faccenda non riusciva alla perfezione a colui al quale era spettato il gravoso compito, come quando Jack bruciava la cena, o stirando inceneriva un pezzo di camicia, o Ennis tingeva di rosa o azzurro intere lavatrici piene di indumenti bianchi, a causa di un capo colorato inavvertitamente finito lì nel mezzo.
Chissà se alle coppie eterosessuali succedeva. Forse no, perché di solito erano le donne ad occuparsi delle faccende domestiche, e di solito non commettevano errori tanto grossolani - Dio solo sapeva come potessero riuscirci.
Di certo, una coppia eterosessuale non poteva scambiarsi la biancheria - un bel vantaggio, quando nel tuo cassetto erano finiti i calzini puliti.
Per agosto, avevano racimolato abbastanza soldi da comprare tre giovenche dagli Hamilton, e un toro da monta, un esemplare pregiato che Jack scovò ad una fiera di bestiame a Cheyenne: la loro intenzione era di mettere su un allevamento in proprio, e sfruttare il terreno circostante la loro fattoria a frutteto - niente di imponente come quelli degli Hamilton: il giusto per vivere degnamente, e magari assumere qualche operaio, ma senza sfiancarsi di lavoro. Quando avessero avuto abbastanza soldi, avrebbero comprato qualche nuova vitella, più giovane di quelle appartenute a John Twist, e piantato dei meli; ma intanto Thunderstorm, così si chiamava il toro ("E dai con questi tuoni", aveva commentato Ennis), entro novembre aveva già fecondato le tre nuove manze, che avrebbero partorito alla fine del mese di luglio del nuovo anno.
In ottobre, ricevettero una chiamata da Katherine, che li invitava a Sage per il terzo compleanno dei gemelli: gli Hamilton, che a novembre sarebbero stati alle prese con diversi parti di giovenche e giumente, declinarono l'invito, ma si dichiararono disponibili ad accudire le bestie di Jack ed Ennis, qualora questi avessero voluto raggiungere i del Mar a Sage.
Dove, del resto, c'era ancora qualcosa da sistemare: questa volta, Ennis avrebbe dovuto dire la verità a K.E. riguardo al rapporto che legava lui e Jack. Ormai era inevitabile: al telefono, Kat aveva espresso tutte le perplessità del marito riguardo alla convivenza di Ennis e Jack, al fatto che nessuno dei due si fosse ancora trovato una donna. "Va bene soci in affari", aveva detto K.E. alla moglie, secondo quanto aveva riferito Kat. "Ma da qui a vivere insieme... quei due si cacceranno in qualche guaio."
Così, un venerdì di fine novembre, Ennis e Jack partirono per Sage, al fine di trascorrervi il fine settimana, ma le cose non andarono proprio come Jack, Kat e Janice avevano sperato: andarono piuttosto come Ennis aveva sempre immaginato sarebbero andate.
A
rrivarono il venerdì sera - il compleanno era previsto il sabato pomeriggio - e, dopo avere lasciato Noah e Natalie con una giovane baby sitter, K.E. e Kat li portarono a cena in un nuovo ristorante inaugurato da poco ad Evanston, il Black and Blue Eagle, dove nel week-end si esibivano gruppi musicali country e rock. Durante la cena, parlarono di tutto ciò che era accaduto in quegli anni di lontananza, della nuova casa più grande che Kat e K.E. avevano comprato, nella quale avrebbero traslocato nella primavera successiva, anche della nuova fattoria, ma Ennis non colse l'occasione di andare più a fondo, e K.E. si guardò bene dal chiedere qualsiasi tipo di informazione, entrambi toccando appena le portate, bevendo troppo vino e fumando troppe sigarette, mentre Jack e Kat si lanciavano occhiate deluse e preoccupate. I due fratelli temevano l'uno la reazione dell'altro, nessuno faceva il primo passo e l'aria era carica di tensione, Jack poteva percepirlo, come poteva sentire e vedere la tensione di Ennis dal modo in cui si rosicchiava le unghie, si mangiava le pellicine e teneva la testa incassata fra le spalle, alzando a malapena gli occhi.
Avevano appena terminato di mangiare il dolce, quando il complesso attaccò con I will never let you go. "Adoro questa canzone", esclamò Kat. "Chi mi fa ballare?"
"Non pensarci neanche", sbuffò K.E..
Ennis si riparò dietro i palmi aperti: "Spiacente, ma il ballo non fa per me."
"Che coppia di noiosi", fece lei. "Jack?"
A Jack non dispiaceva ballare, ma se anche non gli fosse piaciuto, dopo avere notato la faccia di Katherine si sarebbe alzato in piedi come se avesse avuto il fuoco sotto la sedia. Quella faccia diceva: Voglio provare a lasciarli soli, quindi vieni a ballare, altrimenti ti prendo e uso questi piatti come supposte.

"Volentieri", rispose, alzandosi in piedi.
Scesero in pista fra le altre coppie, senza distogliere per troppo tempo gli occhi dal tavolo dov'erano rimasti i due fratelli.
"Dici che ce la possono fare?" domandò Kat.
"Non so. Non so nemmeno se ne ho voglia. Ho iniziato anch'io a temere la reazione di K.E.."
"Non è stupido come sembra, se lo immagina che fra voi ci sia qualcosa. Solo che non ne vuole la conferma. Vuole poter pensare di sbagliarsi."
"E' contorto quasi quanto Ennis."
"I del Mar sono gente strana."
"Non me ne parlare."
Il complesso terminò il brano, e iniziò con The devil's right hand, e ancora i due fratelli al tavolo non riuscivano a distrarsi dalle proprie importanti occupazioni, Ennis impegnato a girarsi il bicchiere di whisky da una mano all'altra, agitando il poco liquido color miele e fissandolo come se vi potesse leggere il futuro, K.E. che si torturava le gengive con lo stuzzicadenti. Ogni tanto si scambiavano qualche parola, ma sembrava non essere quella giusta.
Il gruppo attaccò con i lenti, e la voce roca della cantante intonò No one's gonna love you like me. Jack e Kat continuarono a ballare, mentre alcune coppie lasciarono la pista e altre si strinsero un pò di più, e lei gli domandò, a bruciapelo: "Non è con me che vorresti ballare se potessi farlo in pubblico, vero?"
"Ennis non balla", rispose lui, per nulla imbarazzato: con Kat, sentiva di poter affrontare certi argomenti in tutta tranquillità. 
"Non sa cosa si perde, sei un ottimo ballerino."
"Grazie. Ma comunque, conoscendolo, mi verrebbe un pò da ridere se lo facesse con me, anche solo in privato."
"E' uno zuccone", fece lei. "Proprio come suo fratello."
Terminata la canzone, fecero per tornare al tavolo, proprio quando l'orchestra iniziava un altro brano, ma ecco che l'incredibile stava accadendo: i due fratelli stavano discutendo, ogni secondo più animatamente. Jack prese la mano destra di Kat, le passò la mano intorno alla vita: "Vieni, torniamo su."
Lei gli passò il braccio sinistro intorno al collo: "Certo."
"Spero solo che vada tutto bene."
"Bene o no, era una cosa da fare."
"Già."
Ma neanche dieci secondi dopo, ecco K.E. alzarsi dal tavolo, e raggiungerli in pista. Ahia, pensò Jack.
"Tu, lascia mia moglie, razza di schifoso pervertito", lo minacciò K.E., rosso in faccia, puntandogli contro l'indice.
"Io..." Jack lasciò Katherine, senza sapere bene cosa fare, sentendosi sconfitto e inerme. Il suo amore per Ennis era tutto, per lui, ma perché il mondo sembrava non capire?
"Smettila", fece lei, diretta al marito. "Te lo immaginavi, allora perché tante storie?"
"E tu", ribatté lui. "Tu lo sapevi, e non me l'hai mai detto."
"Mi aveva promesso di non farlo", disse Ennis, dietro di lui. "Gliel'avevo chiesto io."
"Tu stai zitto", replicò K.E., ed Ennis fece per tirargli un pugno, ma Jack, pronto, immaginando quel tipo di reazione, lo prese per il braccio: "Ennis, no!", subito seguito da Kat, che gli afferrò l'altro.
"Andiamocene a casa", ordinò K.E. alla moglie, ma lei resistette, trattenendo il braccio di Ennis: "Io resto qui."
"Non farmelo dire due volte, Katherine."
"Kat..." tentò Jack. Non voleva dare spettacolo proprio lì, in mezzo alla pista, ma le coppie che li circondavano avevano smesso di ballare e stavano osservando la scena incuriosite, mentre il complesso continuava la sua canzone: "No, I don't want to say goodbye, All I want to do is live with you..."

"Io resto qui, dannazione!" insisté lei.
"Non con questi due schifosi", disse K.E., e Jack sentì i muscoli di Ennis, già tirati, tendersi ulteriormente, come cavi attraversati dalla corrente elettrica.
"Sei tu lo schifoso, se ti comporti in questo modo", l'apostrofò lei.
"Allora tornatene a piedi con loro, se ti fa tanto piacere!" esclamò K.E., imbufalito. Girò i tacchi e se ne andò.
"Brutto zuccone sentimentalmente stitico!" gli gridò dietro lei.
E' andata, rifletté Jack. Ed è finita.
Per tornare a casa chiamarono un taxi, attendendolo fuori dal ristorante, sferzati dal freddo vento di novembre che faceva ondeggiare gli orli della gonna di Katherine e le scompigliava i capelli sciolti, e sollevava i cumuli di foglie ammucchiati ai bordi della strada, disgregandoli.
Ennis se ne stava appoggiato allo stipite della porta d'entrata, rosicchiandosi le unghie senza ritegno, scuro in viso, la testa bassa, il cappello calcato quasi fin sugli occhi. Kat fumava una sigaretta dietro l'altra, amareggiata e furente, tenendosi i lembi del pellicciotto bianco stretti al corpo con l'altra mano. Nessuno parlava.
E' tutta colpa mia, pensò Jack, con le mani nelle tasche, osservando la strada deserta illuminata dalla luce gialla dei lampioni. Credevo potessimo essere felici, ma perché la felicità di qualcuno deve sempre andare a scapito di qualcun altro, o offenderlo?
"Kat, mi dispiace", mormorò, ad un certo punto. Non ne poteva più di tutto quel silenzio. 
"Eh?" lei lo guardò, come se non afferrasse il concetto.
"Hai litigato con tuo marito a causa nostra", spiegò Jack.
"Non è colpa vostra", disse lei. "E' lui che è uno zuccone."
"E' colpa mia", insisté lui. "E' da me che è partito tutto, lo sai."
"Tu hai reso migliore quest'altro zuccone", lo interruppe lei, accennando ad Ennis con il capo. "Non prenderti colpe che non hai, quando hai solo dei meriti."
"Un accidente. Sono stato io a convincerlo a stare con me. Lui non avrebbe..."
"Sì, hai ragione, non avrei", intervenne Ennis. "Perché sono uno zuccone. Zuccone e codardo."
A disagio, Jack si passò
l'indice sopra la cicatrice sotto l'occhio, ormai ridotta ad un sottile filo bianco.
"Avrei dovuto parlargliene prima", ammise Ennis, rivolto a Kat. "Mi dispiace che abbiate litigato."
"Oh, ragazzi, finitela di scusarvi", sbottò Katherine. Prese un tiro dalla sigaretta. "Passerà presto. Non è la prima volta che litigo con tuo fratello, e non sarà nemmeno l'ultima."
"Ho paura di no", fece Ennis. "Dopo questa sera..."
"Voi vi amate", disse lei. Gettò a terra la sigaretta fumata fino al filtro, la schiacciò, poi li guardò in faccia entrambi, gli occhi grigioverdi calmi e sicuri. "Io vi ho sempre sostenuti, e non cambierò idea. Sarà lui che la cambierà, prima o poi."
Più poi che prima, rifletté Jack quando, una volta arrivati a casa, trovarono K.E. ad attenderli su una delle panchine del giardino di fronte alla lavanderia, con ai piedi una dozzina di mozziconi.
Scesero dal taxi e Jack pagò il conducente, mentre K.E. si alzava in piedi, e lasciava che Kat lo raggiungesse.
"Come stanno i gemelli?" domandò lei, come se nulla fosse successo. Poteva anche essere cascato il mondo, ma sapere come stavano i suoi bambini era la questione primaria: poi veniva tutto il resto, e ci si poteva anche scannare, e K.E. lo sapeva e la pensava allo stesso modo.
"Dormivano già, quando sono tornato", mugugnò lui.
"Che hai detto a Mary?"
"Di non chiedermi niente. Ha capito che abbiamo litigato, e se ne è stata zitta."
Kat sospirò.
"Ora", disse K.E., "Quei due se ne tornano diffilato a Casper."
"K.E...." Katherine iniziò a scaldarsi.
"No, va bene", intervenne Ennis. "Prendiamo le nostre cose, e andiamo via subito."
"Tu prendi le vostre cose", precisò K.E., "E in fretta. Lui", e indicò Jack, "Non lo voglio in casa."
Prima che Ennis o Katherine potessero ribattere, Jack replicò: "Va bene."
"'Sti due maroni, cazzo", sbuffò Kat. "E' anche casa mia, e posso fare entrare chi voglio."
"No, Kat, lascia stare", insisté Jack. "Aspetterò qui fuori."
"Jack, mi dispiace..."
"Non dobbiamo più scusarci fra di noi, okay?" Jack tentò di sorridere. Avrebbe voluto abbracciarla, ma temeva la reazione di K.E..
Fu lei ad abbracciarlo, stringendolo e sussurrandogli in un orecchio: "Andrà tutto bene, Jack. Diamo tempo al tempo."
"Grazie, Katherine."
"Di niente", lei gli strizzò l'occhio. "Ti voglio un sacco di bene, sei il mio cognato preferito. Se non fossimo stati entrambi impegnati, ci avrei fatto un pensierino."
Jack sorrise, ma il sorriso gli si spense quando, con la coda dell'occhio, vide K.E. che iniziava a spazientirsi, e tornava in casa con un moto di stizza, biascicando: "Vi farete ammazzare, prima o poi, e non venite a dire che non vi avevo avvertiti."
"Kat, è meglio che tu vada da tuo marito", le disse. Nonostante il calore che gli trasmetteva il corpo di Katherine, si sentiva gelare, un gelo che gli partiva dalla pancia e dallo stomaco, che nessun fuoco avrebbe potuto sciogliere.
Tenendo il braccio sinistro intorno al collo di Jack, Kat staccò quello destro e lo passò intorno al collo di Ennis, attirandolo in quell'anomalo abbraccio a tre.
"Coraggio, ragazzi", disse lei. "Andrà tutto a posto."
Ennis sospirò. Jack tolse un braccio dalla vita di Kat e glielo passò intorno alla schiena, scrollandolo. Ennis restò immobile, le mani nelle tasche del giubbotto, senza abbracciare né Jack, né Kat.
Era stata davvero brutta. Peggio di quando Alma aveva mollato Ennis.
E perché doveva sempre essere Ennis a finirci in mezzo, Ennis a rimetterci più di ogni altra persona?
Janice aveva iniziato ad approvare la loro unione, trovandola migliore di molte unioni eterosessuali, e Kat era sempre stata convinta che Ennis fosse stato fortunato ad incontrare Jack, innamorarsene e decidere di restare con lui. Jack pensava la stessa cosa di sé stesso, ma non era più tanto sicuro di pensarla per il suo compagno.
Ed Ennis? Cosa pensava, Ennis, di tutto questo?
Molto probabilmente, non l'avrebbe mai saputo. Ennis gli aveva testimoniato svariate volte il proprio amore, con i fatti e con le parole, ma quello che pensava davvero, chi poteva saperlo? Forse, nemmeno Ennis lo sapeva con chiarezza. Forse evitava di pensarci, com'era nel suo carattere.
Chi poteva sapere se si fosse mai pentito delle scelte fatte?
Chi poteva sapere se, tornando indietro con il senno di poi, avrebbe deciso di tornare a Sage e sposare Alma e...
Finiscila, si costrinse Jack. Non si può tornare indietro.
No. Ma il punto è, come si va avanti, da qui?



Credits: "Leave out all the rest" è una canzone dei Linkin Park, "The secret marriage" è di Sting, e le altre canzoni che ho usato per questa storia sono tutte della colonna sonora di "I segreti di Brokeback Mountain".

Giusto un appuntino: non so se nel 1967 esistessero le lavatrici, e se potessero essere di uso comune o solo appannaggio di pochi benestanti, ma non mi sono nemmeno preoccupata di accertarmene, come invece ho fatto per altre cose (tipo "La parola ai giurati", o l'agente 007 citato in "Thunderbird"): nella mia immaginazione, Jack ed Ennis hanno una lavatrice, e almeno una volta al mese tingono di rosa o azzurro un carico di capi bianchi. Del resto, tutta questa serie di storie è pura fantascienza: Jack forse avrebbe potuto trovare il coraggio di chiedere ad Ennis di restare con lui, ma l'Ennis originale non avrebbe mai accettato, e l'avrebbe respinto in malo modo, ben diversamente da come ho fatto accadere in "Before it's too late".

Disclaimer: I personaggi di Jack Twist e i suoi genitori, Ennis del Mar e i suoi genitori e fratelli, Lureen Newsome e Alma Beers appartengono ad Annie Proulx, così come il Black and Blue Eagle e il Wolf's Ear. Non l'ho mai precisato, ma i nomi che ho dato ai due gemelli di Katherine e K.E., Natalie e Noah, sono un omaggio alla mia insegnante di danza e al suo secondogenito, nato nel gennaio 2008 (e voi direte, chi se ne frega!).
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


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Capitolo 2
*** Everything burns ***


Come sei veramente
Leave out all the rest

Capitolo 2 - Everything burns

Aprile 1972

Era una notte di pioggia, come ce n'erano state molte in quella primavera, e Jack se ne stava alla finestra aperta della cucina, in pigiama, vestaglia e ciabatte, ascoltando il rumore delle gocce che cadevano sul tetto e godendosi il profumo dell'erba bagnata, incurante dell'aria fredda. Erano trascorsi esattamente sette anni da quando sua madre era morta, uccisa per sbaglio da suo padre: e come ogni anno, malgrado il tempo che passava, si trovava incapace di prendere sonno, come se temesse che Ada potesse tornare per...
Per dirgli qualcosa?
E che cosa?
E cosa doveva temere da sua madre, che come unica colpa aveva avuto quella di non averlo mai difeso da quel figlio di puttana di suo padre?
Da bambino, Jack era stato in collera con lei, per non averlo mai difeso. Poi, aveva capito che lei non ci sarebbe mai potuta riuscire, non era nella sua indole, e allora aveva deciso che sarebbe stato lui a proteggerla.
E ci aveva provato, Dio solo lo sapeva, ma i suoi sforzi non erano serviti granché.
Poi, aveva deciso di andarsene.
Non era mai riuscito a proteggere sua madre, poi se n'era andato lasciandola al suo destino, e questo era uno dei cattivi pensieri che ogni tanto gli giravano per la testa, impedendogli di dormire sereno o torturandolo con spaventosi incubi.
Come il pensiero di K.E., che da quella sfortunata sera ad Evanston non aveva più voluto sentir parlare del fratello, cosa che sembrava angustiare Ennis più di quanto volesse far credere. Janice aveva provato a telefonare a K.E., e Kat a parlargli, ma era stato come affrontare un muro di cemento armato. Diamo tempo al tempo, aveva detto Katherine, quella sera: ma Jack credeva che, per convincere K.E., l'eternità non sarebbe stata sufficiente.
Lui ed Ennis erano andati avanti. Fra alti e bassi, come tutti - chi non ne ha? Ne hanno a bizzeffe le coppie eterosessuali e regolarmente sposate, come Matt e Jan e K.E. e Kat, figurarsi una coppia di checche con i caratteri diametralmente opposti che cercano in qualsiasi modo di nascondere la propria relazione. Ma malgrado tutto, erano andati avanti, e le cose sembravano andare più che bene, meglio di quanto avessero potuto sperare. Jack, che al contrario di sua madre non era mai stato un gran credente, più di una volta si era chiesto se qualcuno li stesse guardando da lassù o da chissà dove, e avesse messo loro una mano sul capo: forse, sua madre stessa, o addirittura Dio in persona. La sua idea di Dio era vaga e indefinita, ma se un Dio esisteva, cattolico o metodista o protestante, o buddhista o shintoista o cos'altro, ed era puro amore come spesso gli aveva detto Ada, perché mai doveva essere contro un amore così profondo come quello che lo legava ad Ennis, malgrado la chiesa decretasse che era sbagliato? Forse era stato proprio Dio a farli incontrare.
La loro fattoria era cresciuta, e nella primavera del 1972, quasi nove anni dopo essersi conosciuti, erano proprietari di un allevamento composto da una quarantina di capi, che producevano carne e latte, tre pregiati tori da monta, un piccolo maneggio con una dozzina di cavalli e due ettari di frutteto a completamento dell'opera: Ennis gestiva il bestiame e Jack il maneggio e per lo più la contabilità, aiutati da un personale fisso di cinque operai, una segretaria part-time e un'insegnante di equitazione, più altra manovalanza in quantità variabile nei momenti di maggiore lavoro.
Naturalmente, qualcuno a Casper ed Edgerton aveva iniziato a mormorare: Ennis aveva avuto ragione, dopo che lui e Jack furono andati ad abitare nella stessa fattoria, senza mogli, i pettegoli ebbero pane per i loro denti. Ma anche Jack si accorse di avere visto giusto, al pari di Ennis: non si era più negli anni cinquanta, e non abitavano in una piccola cittadina: per la maggior parte, la gente si faceva gli affari propri, purché non venisse messa di fronte alla verità nuda e cruda, e loro non infastidissero nessuno, in nessun modo: l'identico atteggiamento di K.E., con la differenza che a K.E., essendo fratello di Ennis, a un certo punto era venuta voglia di conoscere la verità nuda e cruda, qualunque essa fosse.
Jack era convinto che molti sapessero di lui ed Ennis, o quantomeno l'immaginassero, ma che nessuno avesse il coraggio di domandare niente: a tutti faceva comodo considerarli grandi amici, lontani parenti, legati come fratelli, punto e basta. Faceva comodo ai loro fornitori, faceva comodo ai loro clienti, e a quelli degli Hamilton. Faceva comodo ai genitori dei compagni di classe di Hope, Ken e Pete. Faceva comodo a conoscenti ed amici - non che ne avessero molti, in verità: si erano trovati ad accettare inviti a cena, qualche volta, e a ricambiare l'invito, più che altro con amici degli Hamilton, o con alcuni fornitori o clienti, ma la natura del loro rapporto non permetteva loro di eccedere con le pubbliche relazioni.
Non permetteva ad Ennis di eccedere, si era ritrovato più volte a considerare Jack. Ennis era ancora terrorizzato da quello che sarebbe potuto succedere se qualcuno avesse saputo di loro: ancora oggi, dopo nove anni, neanche si sognava di sfiorargli la mano in pubblico, tranne che in casi particolari, come quella volta al funerale della moglie di uno dei loro operai, Don Wroe, l'anno precedente. Don era distrutto e sconvolto, la moglie era morta all'improvviso a causa di un incidente d'auto, e vedere quell'omone piangere come un bambino aveva commosso Jack, che a sua volta non era riuscito a trattenere le lacrime. Ennis l'aveva abbracciato, proprio come al funerale di Ada, e non l'aveva lasciato nemmeno quando Jack si era aggrappato a lui e aveva nascosto il viso nell'incavo del suo collo, singhiozzando: anzi, l'aveva stretto più forte.
Jack lo rispettava. Conosceva perfettamente Ennis, pregi e difetti, e sapeva che se voleva continuare a stare con lui, avrebbe dovuto continuare ad accettarlo e rispettarlo così com'era. Del resto, da quando lo aveva conosciuto, il suo pessimo carattere si era ammorbidito in un modo che Jack non avrebbe mai creduto possibile: e non era di quell'Ennis intrattabile e scorbutico che si era innamorato, tanti anni prima?
Avrebbe voluto potergli tenere la mano in pubblico, certo. Camminare per strada abbracciati. Scambiarsi un bacio fra l'altra gente. Baciarsi sotto il vischio alla festa di Capodanno. Ma non era possibile, per loro. E allora, meglio non pensarci: a che serve rodersi per una cosa che non puoi e non potrai mai fare? Come spesso diceva Ennis, se non puoi farci niente, devi prenderla così com'è.
E Jack aveva molte altre cose per cui essere grato alla vita che conduceva. C'era chi si baciava in pubblico e fra le mura domestiche si detestava; a lui non era permesso mostrare il proprio amore alla gente, ma in casa propria poteva fare ciò che gli pareva. La cosa che più gli piaceva era potersene stare sul divano con Ennis, in inverno, dopo cena, entrambi sotto alla stessa coperta, vestiti con abiti vecchi o in pigiama, l'uno fra le braccia dell'altro, al caldo, con il camino e la televisione accesi: era una cosa che raramente avevano potuto fare a casa degli Hamilton. Oppure, nelle sere più calde, sedersi nel portico dietro casa, abbracciati, a fumare e chiacchierare e guardare il cielo, come avevano fatto tanti anni prima sulla Brokeback. O concedersi, durante la giornata, un piacevole intermezzo, come lo definiva Ennis: giusto cinque minuti, o anche meno, di coccole, carezze, sussurri e piccoli baci, rintanati in un angolo delle scuderie quando gli altri stavano per tornare dalla pausa pranzo, o nella cucina mentre lo spezzatino finiva di cuocere, o nella lavanderia, mentre la lavatrice terminava la sua centrifuga.
Tutte cose che Jack immaginava facesse una qualsiasi coppia innamorata, la cui passione iniziale si era trasformata in qualcosa di diverso, ma molto più profondo: qualcosa che con il tempo non faceva altro che crescere e stabilizzarsi.
Quel giorno a Signal, Jack era stato sicuro di avere fatto la scelta giusta, tornando indietro a riprendere Ennis, malgrado tutte le difficoltà che sapeva avrebbe dovuto affrontare. E ora, quasi dieci anni dopo, con il viso lievemente più scavato, senza però avere perso quell'aria da ragazzino, ne era più che mai convinto: non rimpiangeva di essere tornato indietro, non rimpiangeva un solo giorno trascorso accanto ad Ennis.
Aveva voglia di bere qualcosa. Si diresse al frigorifero in cerca di una birra, ma cambiò idea e richiuse lo sportello, una birra non era sufficientemente forte. Raggiunse la vetrinetta dei liquori in salotto, prese uno dei bicchieri e la bottiglia del Jack Daniel's e si versò tre dita di whisky: quello l'avrebbe aiutato a dormire.
Lo bevve liscio, senza aggiungere ghiaccio, e subito sentì il liquido che gli infiammava lo stomaco, per raggiungergli poi la testa, facendola girare. Jack sapeva che presto gli sarebbe nuovamente disceso lungo il corpo, per arrivare alle gambe e infine ai piedi: dannazione, non era proprio capace di reggere l'alcol. Tornò in cucina e posò il bicchiere nell'acquaio, poi richiuse la finestra. Lui ed Ennis si erano scolati delle quantità di whisky, quell'estate su alla Brokeback, e ricordò con un sorriso come avesse cercato di bere più del collega per impressionarlo, malgrado reggesse l'alcol neanche la metà di quanto lo reggesse lui, e fosse regolarmente finito ubriaco.

Era ora di raggiungerlo a letto. Se anche non fosse riuscito a dormire, sarebbe rimasto ad ascoltare il suo respiro regolare, accoccolato nel suo calore e nel suo profumo, con il rumore della pioggia in sottofondo e Kes, la cucciolona di dieci mesi di Australian Kelpie dal pelo blu fumé che avevano adottato dal canile municipale cinque mesi prima, sdraiata dietro alla sua schiena.
Una prospettiva nient'affatto malvagia.

Luglio 1972

Quel sabato pomeriggio l'aria era torrida e afosa, non certo l'ideale per recarsi in città, ma non avevano potuto evitarlo: il giorno dopo Hope avrebbe compiuto dodici anni, e dovevano ancora comprarle il regalo. Avevano girato in lungo e in largo per il centro di Casper, osservando le vetrine e cercandovi ispirazione - cosa diavolo si regala ad una ragazzina che compie dodici anni? - e l'insofferenza di Ennis, che non sopportava di avere caldo e sentirsi sudato e appiccicoso almeno quanto Jack non sopportava il freddo, era aumentata di minuto in minuto. Alla fine, erano entrati in un negozio di dischi, e conoscendo la passione di Hope per i Doors, le avevano acquistato il loro ultimo doppio LP, che lei ancora non possedeva.
"Almeno, qualcosa di buono l'abbiamo trovato", aveva sospirato Ennis, mentre la commessa impacchettava il disco. "E qui c'è l'aria condizionata. Se penso che dobbiamo tornare là fuori..."
Appena raggiunto il parcheggio, Ennis si era lamentato di nuovo, togliendosi il cappello di paglia e asciugandosi la fronte con l'avambraccio: "E adesso, chi ha voglia di salire su quel furgone? Ci saranno almeno sessanta gradi, là dentro."
"Esagerato", ribatté Jack, che con il caldo non aveva problemi. Peccato che l'estate fosse così breve... e che dovesse costantemente sorbirsi le lamentele di Ennis. D'altro canto, durante i lunghi mesi invernali, Ennis doveva sorbirsi le sue.
"Cinquantanove di sicuro. La prossima volta, dobbiamo comprarcene uno con l'aria condizionata."
"Perché non ci fermiamo a bere qualcosa?" suggerì Jack: il Wolf's Ear era proprio lì di fronte, e dopo una birra ghiacciata, Ennis avrebbe affrontato le dodici miglia di viaggio fino alla fattoria con uno spirito diverso, senza lagnarsi in continuazione. Era uno stoico, poteva essere in punto di morte e non gli sfuggiva un lamento: ma quando Ennis aveva caldo, non riusciva proprio a trattenersi e la sua irritazione riusciva immancabilmente a contagiare Jack.
"Buona idea."
Jack ricacciò le chiavi nella tasca dei jeans e s'incamminarono verso il locale: entrando, vennero investiti da aria fresca, ed Ennis sorrise, ribadendo: "Proprio una buona idea."
Jack rabbrividì, stringendosi le braccia intorno al corpo: "Perché non restiamo nei tavolini fuori?"
"Ma sei pazzo?"
Il locale era ancora pressoché deserto, eccetto per tre tavoli, più qualche cliente al banco: niente a che vedere con l'affollamento che ci sarebbe stato più tardi, verso le sei, le sette di sera, l'ora dell'aperitivo; e poi ancora verso le dieci o le undici, quella dell'ultimo drink prima di andare a dormire.
"Ciao, ragazzi", li salutò Cassie Cartwright, appoggiata dietro al bancone,
i soliti capelli permanentati e ossigenati trattenuti a fatica dalla cuffietta bianca, la solita minigonna ascellare e il solito sorriso rosso vermiglio e bianco avorio.
"Ciao, Cassie", fece Jack, "Ciao", fece Ennis, e presero posto nel tavolo proprio di fronte.
"Cosa vi porto?" domandò Cassie, raggiungendo il loro tavolo.
"Una Bud ghiacciata", rispose Ennis.
"Per me un caffè, grazie", rispose Jack.
"Un altro?" lo rimproverò Ennis. "E' già il quarto, oggi. Ne bevi troppi."
"E tu bevi troppa birra."
"Allora siamo pari", sbottò Ennis.
"Per niente", dichiarò Jack. "Io non ti rompo le scatole ogni volta che ne bevi una."
Osservandoli battibeccare, Cassie ridacchiò. "Faccio in un secondo", disse, tornando dietro al banco a preparare la loro ordinazione.
"Porti un'altra birra anche a noi, bella?" domandò un ragazzo con i capelli lunghi, in maglietta
e jeans e stivali da motociclista, al tavolo accanto a quello di Jack ed Ennis, il giubbotto di pelle abbandonato sullo schienale della sedia. Con lui sedeva un altro ragazzo, vestito allo stesso modo ma con i capelli rasati.
"Quante ne avete già bevute, Frank?" domandò Cassie.
"Coraggio, bellezza. Te le paghiamo."
"Vorrei anche vedere", rispose Cassie. "Okay, ve ne do un'altra, ma che sia l'ultima. Non sono neanche le cinque e mezzo."
Dopo poco, portò le ordinazioni: prima quella di Ennis e Jack, poi quella dei due motociclisti.
"Perché non resti a farci un pò compagnia, bella?" chiese quello che si chiamava Frank.
"Scordatelo, bello", replicò Cassie. "Devo lavorare."
Lui la prese per un polso: "Eddai, non vedi che non c'è nessuno?"
Lei si divincolò con uno strattone: "Ho detto che devo lavorare." Tornò dietro al banco, a svuotare la lavastoviglie che aveva appena terminato il suo ciclo, togliendone fuori tazze e bicchieri e piatti e cucchiaini.
"La principessa fa la difficile", commentò il ragazzo rasato. "Principessa dei miei stivali", assentì Frank, e i due continuarono a confabulare, a bassa voce.
"Già ubriachi a quest'ora del pomeriggio", grugnì Ennis.
"Alla loro età, noi non eravamo meglio", ribatté Jack, aggiungendo due cucchiaini di zucchero nella tazza.
Ennis bevve un sorso di birra: "Noi non molestavamo le cameriere."
Jack si sporse verso di lui e bisbigliò, sorridendo: "Già, noi ci arrangiavamo da soli."
"A volte sei simpatico come un calcio nelle palle, Twist."
Jack mescolò il suo caffè, e il suo sorriso si allargò: "A volte mi chiedo se alla notte dormi, o se invece ti inventi questi paragoni idioti."
Cassie intanto aveva finito di svuotare la lavastoviglie. "Ehi, ragazzi", chiamò, rivolgendosi a Jack ed Ennis. "Volete qualcos'altro?"
"Per ora no, grazie", rispose Jack.
"Allora vado in magazzino a prendere un altro fusto di birra", disse lei. "E' meglio che ne approfitti adesso, fra mezz'ora questo posto diventerà una bolgia infernale." Buttò un'occhiata al grande orologio con i numeri romani sulla parete opposta. "E Susan e Nancy non sono ancora arrivate."
"Vai pure tranquilla."
Cassie uscì da dietro il bancone, dalla parte sinistra, dove c'era la porta che dava su un breve corridoio che conduceva prima alle toilettes, poi, proseguendo, al magazzino sul retro. Alla destra del bancone stava invece la porta della cucina, dove il cuoco e i suoi due aiutanti si stavano preparando per la serata. Appena Cassie ebbe richiuso la porta dietro di sé, Frank si alzò e la seguì. D'istinto, Jack fece per alzarsi: "Devo andare in bagno."
"Resta qui", disse Ennis.
"Quello lì non mi piace", sibilò Jack.
"Non è affar tuo."
"Non me ne frega un accidente", rispose Jack, e si diresse verso la porta di sinistra.
"Cristo Gesù", sospirò Ennis, ma si alzò a sua volta e lo seguì.
La porta del magazzino era chiusa,
ma la voce di Cassie arrivò loro chiara e forte: "Lasciami in pace."
"Su, non fare la difficile", disse Frank. "Sappiamo tutti come sei fatta, Cassie."
"Smettila, ho detto!"
Jack aprì la porta, e si trovò davanti la scena di Frank che spingeva Cassie contro il muro, stretto a lei, tenendole i polsi con una mano, l'altra infilata sotto la gonna. "Ehi, cosa vorresti fare?" domandò Jack.
"Jack..." fece lei.
"Di che t'impicci, tu?" sbottò Frank.
"Lasciala in pace", disse Jack, in tono tranquillo ma deciso, avanzando verso Frank, seguito da Ennis. "Ti ha detto che non vuole. Cos'è, sei sordo?"
"Bella forza, due contro uno", mugugnò Frank, lasciando i polsi di Cassie e indietreggiando di qualche passo, le mani sollevate. "E comunque, lei ci sarebbe stata."
"A me non pareva", ribatté Jack.
"Tu non la conosci", replicò Frank. "Questa ci sta sempre con tutti."
"Ma non ha voglia di stare con te, adesso", intervenne Ennis. "Avanti, smamma, ragazzino."
Frank se ne andò, brontolando: "Froci di merda", a voce abbastanza alta perché sia Ennis, sia Jack, sia Cassie potessero udirlo.
Ennis lo prese per il collo della maglietta e gli fece compiere un mezzo giro, voltandolo verso di sé: "Cos'hai detto?"
"Che siete due froci di merda", ripeté Frank. Era ubriaco, notò Jack, o quantomeno brillo: la sua voce era malferma e i suoi occhi tradivano i capogiri. E magari, da sobrio non si sarebbe lasciato andare a certi tipi di offesa, da solo contro due uomini adulti. "Voi siete quelli che gestiscono quel ranch sulla strada che va ad Edgerton. Potrei metterci tutt'e due le mani che siete due finocchi."
Jack temette la reazione di Ennis, ma Ennis rimase calmo. Trattenne Frank per il collo della t-shirt, lo avvicinò a sé, gli occhi negli occhi, e sibilò, minacciandolo con l'altro pugno chiuso sotto il mento del ragazzo: "Ti conviene filartela, ragazzino, e andare a smaltire la sbornia, o te la faccio smaltire io a suon di calci in culo."
Ennis dovette essere convincente, perché Frank biascicò: "D'accordo". Ennis lasciò la presa, e il giovane se ne andò, a testa bassa.
"Ragazzi..." mormorò Cassie, pallida ma sollevata, ravviandosi i capelli con una mano.
"Bé", fece Ennis, stringendosi nelle spalle, ma non aggiunse altro.
"Tutto bene, Cassie?" domandò Jack.
"Sì... grazie, ragazzi. Se non ci foste stati voi..."
"Che figlio di puttana", disse Ennis. "E codardo, pure. Gli è bastato poco, per filarsela con la coda fra le gambe."
Cassie si strinse le braccia intorno al corpo, rabbrividendo. "Non è l'unico, purtroppo. Non è il primo che ci prova, ma non sarà neanche l'ultimo, temo. E anche lui, ci riproverà, la prossima volta."
"Una birra di troppo, e pensano di avere il mondo ai piedi", commentò Ennis, duro. "E di poter dire e fare tutto quello che gli passa per la testa."
Si guardarono, tutti e tre a disagio. Poi Cassie ruppe il silenzio: "Mi dispiace per quello che vi ha detto."
"Non è il primo che lo dice, e non sarà neanche l'ultimo", disse Jack, grattandosi la nuca.
"Ma non v'infastidisce?" domandò Cassie. Poi si rese conto di avere fatto una gaffe, e cercò di rimediare: "No, voglio dire..."
"Certo che ci infastidisce", rispose Ennis. "Specialmente, detto da qualcuno che non ne sa un cazzo."
Jack lo guardò, pronto a sentirlo dichiarare per la milionesima volta che lui, assolutamente no, non era un finocchio, pronto a sentire il proprio orgoglio vacillare, come ogni volta che Ennis faceva affermazioni del genere, malgrado Jack ormai sapesse che se si ostinava a smentire il loro rapporto era solo per proteggerlo. Ma Ennis tacque: il suo discorso era terminato, senza sbilanciarsi: non aveva confermato la propria relazione con Jack, ma questa volta non l'aveva neppure negata.
Altro silenzio imbarazzato, e di nuovo Cassie lo ruppe: "In ogni caso, vi sono debitrice. Che ne direste se vi offro qualcos'altro da bere?"


Accompagnarono Cassie fuori dal magazzino, e il tavolo di Frank e del suo amico era vuoto, si erano portati via anche le due bottiglie consumate a metà, senza prendersi la briga di pagare la consumazione.
"Tanto, i conti li regolano sempre i loro padri, al venerdì", commentò Cassie, acida. "Quello di Frank fa l'avvocato, e quello di Michael è un pezzo grosso in una banca."
"Figli di papà", borbottò Ennis.
"Già", tagliò corto lei. "Allora, cosa posso offrirvi?"
"Siamo a posto così, Cassie, grazie", rispose Jack. "
Non abbiamo ancora bevuto quello che abbiamo preso prima."
"Allora resto in debito. Vi offrirò la consumazione la prossima volta."

Dopo avere terminato la birra e il caffè ed essere usciti dal pub, accertandosi che Frank e il suo amico non fossero nei paraggi per tornare dentro e molestare nuovamente Cassie, s'incamminarono verso il parcheggio ed Ennis esplose: "Che cavolo ti è saltato in mente?"
"Non potevamo non aiutarla", ribatté Jack, che se l'era aspettata.
"Io l'ho aiutata. Io ho cacciato via quel bastardo."
"Era un ragazzino ubriaco. Ti è bastato minacciarlo, ed è scappato a gambe levate."
"No, voglio dire... tu hai preso e sei andato a fare il Lancillotto, e alla fine è toccato a me difendere Cassie."
"Se tu non fossi intervenuto, stai tranquillo che l'avrei difesa a dovere anche da solo."
Ennis sospirò. "E' per questo che sono intervenuto."
"Cosa intendi, che non ne sarei stato capace?" Jack iniziò a scaldarsi.
"Intendo che ho paura che ti metti nei guai", disse Ennis. "Tu hai questa tendenza a voler proteggere i più deboli,
anche quando non sarebbe affar tuo."
"Ma non potevo lasciare che quel tipo..."
"Ci sarà qualcun altro che ci proverà", disse Ennis. "E tu non potrai essere sempre lì a difenderla.
Conosci bene la reputazione di Cassie."
Jack si strinse nelle spalle: "Però questa volta è andata bene."
"A volte mi chiedo se sei coraggioso, o solo incosciente."
"Tu cosa credi?"
"Io credo che voglio vivere tranquillo", ammise Ennis. "Voglio cercare di non attirare l'attenzione di nessuno, soprattutto su noi due... e se questo significa lasciare che una cameriera che conosciamo appena venga molestata... bè, mi sta bene, che la molestino pure."
"Alla faccia dell'egoismo", l'apostrofò Jack, disgustato. Sapeva che uno dei motti di Ennis era "Vivi e lascia vivere", ma non l'avrebbe mai creduto capace di seguirlo fino all'estremo.
"E' realismo", precisò Ennis. "Quello ci ha chiamato finocchi, e neanche ci conosce. Significa che sospetta qualcosa."
"Certo che sospetta qualcosa. Cosa credi, che la gente non abbia iniziato a nutrire dei sospetti, soprattutto dopo che siamo andati ad abitare insieme?"
"Certo che lo credo. Era per questo che ho cercato di resistere, quando mi hai chiesto di farci una fattoria per conto nostro."
"Però alla fine ti sei lasciato convincere", osservò Jack.
"E' sempre la solita, vecchia storia", disse Ennis. "Riesci sempre a convincermi, perché sono io che non aspetto altro di essere convinto. Anch'io volevo venire ad abitare con te, ma avevo troppa paura persino per ammetterlo."
"Comunque sia, mi sembra che le cose non ci vadano male, se tralasciamo qualche pettegolezzo dietro le spalle, e quel grosso affare
che non siamo riusciti a concludere con i McFly, l'anno scorso." tacque un attimo, poi soggiunse: "Purtroppo, non a tutti sta bene di avere come fornitori due uomini che vivono insieme."
"Possiamo tranquillamente fare a meno di stronzi come quelli."
"Ben detto."
Continuarono a camminare, ma Ennis rimase pensieroso. Arrivati al furgone, Jack non resistette e domandò: "Tutto bene?"
Ennis lo guardò. "Sì... anzi, no. Per niente."
"E' per prima?"
"Anche", sospirò Ennis. "Non so perché, ma sto iniziando di nuovo ad avere paura.
Abitiamo insieme da più di cinque anni, e non viviamo in un deserto, la gente ci conosce abbastanza per poter pensare che siamo una coppia, che non siamo solo soci in affari, anche se non andiamo in giro a esibirci..."
"Quindi, che vorresti fare?" Jack iniziò a inalberarsi: stava andando tutto benone, meglio di quanto avessero mai potuto sperare, ed Ennis, anziché essere felice, iniziava a tirarsi le solite, antiche paranoie. "Traslocare? Andare ad abitare in un altro stato, dove nessuno ci conosce, e magari comprarci due fedi nuziali e raccontare che siamo fratelli, ed entrambi vedovi? E poi, quando la gente inizierà a sospettare che non è vero niente,
traslocare di nuovo, e così all'infinito?"
"No... ma..."
"Vuoi mollarmi, allora?" Jack non riuscì a trattenersi. "Divorziare?"
"Cristo, Jack, finiscila!"
"Ennis, ascolta", Jack si accorse di avere esagerato, e abbassò il tono. "N
essuno ci è mai venuto a cercare armato di cacciacopertoni, e nessuno lo farà. Ognuno si fa gli affari propri, non ha tempo da perdere a cercare le prove che siamo finocchi per poi venire a rovinarci di botte, almeno finché non diamo spettacolo e onoriamo i nostri debiti."
"Io non voglio perderti", mormorò Ennis. "Non in quel modo. Quel Frank, lui e il suo amico, sembrano poco di buono... e sanno di noi... e ce li siamo tirati contro... quanti altri ce ne saranno, come loro? Potenzialmente, potrebbero..."
"Sst", l'interruppe Jack, stringendogli brevemente una mano, intrecciando le proprie dita nelle sue, per poi lasciarla, a malincuore: lì per strada, anche un piccolo gesto di tenerezza come quello sarebbe stato proibito. E non avrebbe voluto solo stringergli la mano: avrebbe voluto abbracciare Ennis, stringerlo a sé e magari baciarlo, rassicurandolo con tutto il calore e l'amore di cui era capace. "Quei due erano solo ragazzotti viziati.
Tu ti preoccupi troppo, cowboy."
"Mi preoccupo anche per te, visto che tu non lo fai."
"Io mi preoccupo quando ho il motivo per farlo", precisò Jack. "Tu invece ti tiri delle paranoie inutili. Mia mamma avrebbe detto che ti fasci le dita prima di tagliartele."


Dopo l'episodio di Frank, diventarono amici di Cassie Cartwright. Niente di troppo serio o troppo vincolante, tuttavia Cassie fu una delle poche persone che non si trattassero di clienti o fornitori, o di amici degli Hamilton e in presenza di questi ultimi, che invitarono al ranch per una cavalcata e una cena, ben quattro volte durante quell'estate. Lei ricambiò gli inviti nel suo appartamento al terzo piano in un condominio in Tulip Street, piccolo e arredato con mobili da poco, ma ordinato e accogliente.
Cassie non domandò mai nulla sul tipo di rapporto che li legava, né sulla loro reale parentela, né sulla fidanzata di Jack, né su eventuali, attuali ragazze, e Jack vi lesse una conferma del fatto che lei sapeva, ma per evitare di metterli in imbarazzo, taceva.
D'altro canto, a meno che Cassie non tirasse fuori il discorso da sé, non le domandarono mai delle sue relazioni amorose, né del suo passato. Cassie aveva la reputazione di mangiauomini, pronta a farsi sbattere dal primo che glielo chiedesse, pronta a sedurre con qualsiasi mezzo chiunque non cadesse ai suoi piedi nel giro di cinque secondi; si diceva addirittura che avesse un figlio abbandonato in un orfanotrofio da qualche parte nel Montana.
Cassie non faceva nulla per evitare che le malelingue sparlassero sul suo conto: non si era mai presa la briga di smentire le storie che circolavano su di lei, se un uomo la interessava non glielo mandava certo a dire, e il suo abbigliamento a dir poco succinto, a giudizio dei pettegoli, non faceva altro che confermare la sua condotta.
Inizialmente, Jack era rimasto un pò perplesso dell'amicizia che stava nascendo fra loro: già da un pò si era accorto che Cassie aveva un debole, e neanche troppo nascosto, per Ennis. Poi aveva smesso di preoccuparsi. Ennis era innamorato di lui, e di lui solamente, e ogni giorno che passava gliene dava conferma, in un modo o nell'altro: se Ennis si fosse interessato a qualcun altro, o qualcun'altra, Jack era certo che se ne sarebbe accorto subito. E quanto a Cassie, confessò loro di avere instaurato una relazione clandestina con il proprietario del Wolf's Ear, George Thompson,
un cinquantenne con moglie e tre figli, grosso e tozzo e untuoso, dai capelli ispidi che sembravano stoppie di grano, che a Jack ricordava Joe Aguirre senza baffi, e non solo nell'aspetto fisico: anche l'atteggiamento era identico, da io-sono-Dio-in-terra-e-voi-siete-tutti-delle-merde.
Jack più volte si chiese come facesse Cassie a provare la seppur minima attrazione per un uomo di quel tipo, ma non le domandò mai niente. Non gliel'avrebbe chiesto, almeno finché lei non gli avesse chiesto conferma di lui ed Ennis.

Dicembre 1972

Quando Jack ci pensava con il senno di poi, all'inizio tutto si era svolto come in quel film di Frank Capra che piaceva tanto a Janice e Hope: e la metà di dicembre, con il Natale alle porte, era proprio l'atmosfera adatta per quel genere di avvenimenti.
Cassie lavorava al Wolf's Ear come cameriera da quasi quattro anni, ed era una stacanovista peggiore di Ennis, non assentandosi se non in punto di morte: quindi, quando quel venerdì sera non si presentò al loro tavolo, armata di block notes e penna, pronta a prendere la loro ordinazione, trovarono la faccenda molto strana.
"Mah, non so dove sia", rispose  Susan, una delle altre quattro cameriere, con una scrollata di spalle, alla domanda di Ennis. "E' da almeno tre settimane che non viene a lavorare."
"E tu non ne sai niente?" chiese Jack. Da un mese a quella parte, a causa di svariati impegni di lavoro che li avevano fatti arrivare alla sera stremati e senza alcuna voglia di uscire, lui ed Ennis non erano riusciti a recarsi al pub, come di solito facevano al venerdì sera o più raramente durante la settimana, preferendo starsene in casa a vegetare davanti alla televisione, per addormentarcisi davanti e raggiungere il letto alle due o alle tre di notte, o per andare addirittura a dormire prima delle dieci e mezzo. 
"Già", Susan si sporse in avanti appoggiandosi al tavolo, mostrando un'apprezzabile scollatura. "Ho provato a chiedere a Thompson, ma lui dice che non ha idea di dove sia, è sparita senza farsi più sentire e basta. Del resto, lo sapete anche voi, Cassie è sempre stata... diciamo così... strana."
"Strana?" domandò Jack, ben sapendo cosa Susan intendesse.
"Massì. Volubile. Inaffidabile. Promiscua." la faccia di Susan assunse un'espressione di malcelato disgusto. "Correva sempre dietro a un sacco di uomini, anche sposati. Io non voglio dire male, ha sempre fatto il suo lavoro, anzi, ma..."
"Ma la sua vita privata è solo affar suo", terminò per lei Jack, sfoderando quella che sapeva essere la sua arma migliore per chiudere una conversazione che non gli piaceva, soprattutto quando l'interlocutore era una giovane donna: occhioni languidi e sorriso ruffiano. "Giusto?"
"Giusto. Che vi porto, ragazzi?"
Fu George Thompson a portare loro il conto: nei giorni e negli orari di punta, lavorava nel pub alla stregua dei suoi dipendenti. Jack ne approfittò per domandargli di Cassie, ma Thompson, acido ed evasivo, replicò che non ne sapeva niente. E anche lui aveva tutta l'aria di volere chiudere quell'argomento al più presto, ma senza occhioni languidi e sorriso ruffiano. Forse non aveva voglia di parlarne, perché lui e Cassie avevano rotto alla fine di ottobre.
"Ma lavora per te, dovrai pure..." insisté Ennis, ma Thompson lo interruppe, sbrigativo: "Ho provato a chiamarla, ma non risponde mai al telefono, e io non l'andrò certo a cercare, se lei non vuole presentarsi. Posso benissimo trovare un'altra, per fare quello che faceva lei."
La conversazione era chiusa. Regolarono il conto, ma a Jack quella storia di Cassie suonò davvero inusuale. A pensarci, era da un pò di tempo che non la sentivano: il loro ultimo invito a cena risaliva a prima del Ringraziamento, quando lei aveva rivelato loro di essersi lasciata con Thompson, e l'ultima volta che le avevano parlato, lì al locale, era sembrata davvero strana, ma non nel senso che aveva inteso Susan. Piuttosto, era sembrata persa, distratta, con la testa fra le nuvole. Triste, forse.
Avevano pensato che la causa fosse Thompson, non avevano indagato oltre, e la questione era finita lì.
Stavano tornando al ranch, costeggiando il fiume Platte sulla strada che andava verso Edgerton, quando Jack disse: "Che dici? Domani le faccio uno squillo."
"Eh?" Ennis stava controllando lo scontrino, come faceva di solito dopo essere uscito da un locale o avere fatto acquisti.
"Ho detto, domani mattina provo a chiamarla."
"Chi, scusa?"
"Cassie. Chi, sennò? E' da un pò che non la sentiamo. Ti va se l'invito a cena, domenica? Le ultime volte che l'abbiamo vista
, era strana. Ma voglio dire, strana davvero. Era triste, svagata..."
"E' una donna, le donne sono strane", sentenziò Ennis. "Non credo ci sia da preoccuparsi."

"Boh, non lo so", disse Jack. Abbassò il volume della radio, dove Linda Ronstadt cantava che era così facile innamorarsi. "Non so perché mi preoccupa. Forse perché è come noi. La gente le parla dietro."
"A noi, la gente non parla dietro."
"Sì, invece. Sei tu che non vuoi sentirla, ma ci parla dietro eccome."
Ennis appallottolò lo scontrino e lo cacciò nel portacenere, brontolando qualcosa su quanto cavolo costava un litro di birra. "La gente ci parla dietro, okay. Noi però non diamo motivo alla gente di parlarci dietro."
"Il solo fatto che abitiamo insieme da così tanto tempo..."
"Però non ci esibiamo. Lei invece... mi secca dirlo, perché con noi è sempre stata carina, ma va vestita in un modo... e se è vero quello che dicono in giro, sembra che si sia fatta i tre quarti degli uomini di questa città, e forse l'ultimo quarto non è riuscita a farselo perché si tratta di finocchi."
"Ennis." Jack lo guardò storto.
"Okay", Ennis alzò una mano in segno di resa.
"E quello che fa della sua vita privata, sono affari suoi. Come la nostra vita privata, è affar nostro."
"Okay", ripeté Ennis. "Va bene, hai ragione. Non dico più niente. Ma perché se non parlo ti lamenti, e se parlo non ti va mai bene quello che dico?"
Jack l'ignorò. "Spero che vada tutto bene" tacque un secondo, poi riprese: "Hai visto come ne parlava Thompson?"
"Lui non mi è sembrato per nulla strano", rispose Ennis, "considerato che sono stati insieme e hanno rotto da poco. E amanti o no, lei era una sua dipendente, e se uno dei nostri lavoranti se ne andasse senza avvisarci..."
"Chissà se è vero, poi, che se n'è andata senza dire niente. Quel Thompson non mi piace, mi ricorda Aguirre."
"Tutti i proprietari di qualcosa sono dei gran figli di puttana. E Thompson lo è di più, perché lo è anche di natura."
"Ti ricordo che anche noi possediamo un ranch", Jack sorrise, lanciando un'occhiata ad Ennis, poi tornò con lo sguardo alla strada. L'acqua del fiume era scura e turbolenta a causa delle ultime piogge.
"Noi facciamo un'eccezione", ribatté Ennis.
"Io faccio un'eccezione", precisò Jack. Al bivio svoltò a sinistra, verso il ponte che attraversava il fiume: la strada a destra, che dopo un centinaio di metri diventava ghiaiata e polverosa, avrebbe portato alla fattoria dei Browne. "Tu sei un gran figlio di puttana." 
"Ha-ha, che simpatia", l'apostrofò Ennis, ma Jack quasi non lo udì: la sua attenzione era stata attirata da una sagoma nera, in piedi sull'argine di cemento sulla destra, a duecento metri da loro.
La sagoma nera di una donna, i lunghi capelli ricci sciolti al vento. "Ehi, che ca...", esclamò Jack.
Ennis volse lo sguardo verso la shilouette: "Cazzo, ma che vuol fare quella?"
Jack non perse tempo in chiacchiere: schiacciò a tavoletta l'acceleratore, raggiunse la donna frenando secco qualche metro prima, e scese dal furgone come un invasato, agitando le braccia e gridando: "Ehi, signora, aspetti!"
Ennis lo seguì, con altrettanta furia: "Signora, aspetti, signora!"
Jack fu il primo a raggiungere la donna, che si era voltata e li stava guardando. Era Cassie, in equilibrio precario, tremante dal freddo in jeans e maglietta, scalza. Aveva abbandonato la giacca a vento, il maglione e gli stivali dal tacco alto sulla strada, ai piedi dell'argine su cui era salita.
"Cassie, aspetta", esclamò Jack, fermandosi a pochi passi da lei e tendendole le mani aperte. "Che vuoi fare?"
Cassie si voltò e guardò in basso, verso il vuoto sotto di lei. Era un bel salto, di almeno quindici metri, e l'acqua doveva essere profonda - e molto, molto fredda.
"Cassie!"
Cassie si lasciò cadere.
Senza pensare, Jack si tuffò verso di lei e riuscì a prenderla per la vita. Lei era completamente sbilanciata in avanti, e anche lui perse l'equilibrio, e per un istante pensò che sarebbero precipitati nel fiume entrambi; ma subito sentì Ennis che lo acchiappava per le spalle, tirandolo indietro, e ruzzolarono tutti e tre sull'asfalto.
"Ahiahiahi..." gemette Ennis, che aveva addosso il peso di Jack e Cassie.
In quel groviglio di braccia e gambe, Jack sentì Cassie che si toglieva dal suo stomaco e a propria volta ruzzolò via dallo stomaco di Ennis, pronto a trattenere Cassie se avesse tentato di scappare. Lei però era in ginocchio, testa e schiena curve,
una mano appoggiata sull'asfalto per sostenersi, l'altra alla faccia, e singhiozzava.
"Cassie..." fece Jack. Non ci capiva più niente, non sapeva cosa pensare. Cassie stava tentando di buttarsi giù dal ponte? Di suicidarsi? E perché? "Diosanto, Cassie... cosa cercavi di..."
"Stronzo!" gridò lei, rabbiosa. "Non dovevate intromettervi!"
"Ehi, modera i termini", fece Ennis. "Ti abbiamo appena salvato la vita."
"Ma io volevo morire!" singhiozzò lei, e riprese a piangere più forte, gli occhi cerchiati dal nero del mascara sbavato. "Avevo trovato il coraggio, e adesso non lo ritroverò più!"
Ennis si rialzò in piedi e si spolverò il giubbotto e i jeans, poi andò a recuperare i cappelli, caduti da qualche parte sull'asfalto. Jack si tolse il piumino, avvertendo il freddo che lo investiva, lo mise sulle spalle di Cassie, avvolgendola, e la strinse piano. "Su, coraggio... non c'è niente per cui valga la pena togliersi la vita."
"Sì invece... io... io... non so più cosa fare... dove andare... non ho più un lavoro, e mi hanno appena sfrattata perché non ho i soldi per pagare l'affitto... e..."
"Per ora vieni da noi", decise Jack. "Ti offriamo un bel bagno caldo e un bicchiere di qualcosa di forte, e un letto per dormire."
"Questo non sistemerà le cose."
"No. Ma potrai ripensarci. Troverai un altro lavoro, e..."
"Non credo proprio. Chi mai potrà dare un lavoro a una donna incinta di un bastardo?"
"Cosa?"
"Hai capito benissimo, Jack Twist", lei lo fissò, con aria di sfida. "Sono incinta di tre mesi, di un uomo che non è mio marito e non ha alcuna intenzione di riconoscere il bambino."
"Chi è quel figlio di..." iniziò Ennis. "E' Thompson? E' stato lui, non è vero?"
"Non me lo chiedete", Cassie chinò la testa. "E' solo colpa mia, avrei dovuto starci più attenta."
"Colpa tua, un accidente", fece Jack. "Per restare incinta, di solito bisogna essere in due."
"Sì. Però a rimanere fregate siamo noi donne. Alla fine, siamo noi che dobbiamo starci attente."
Jack sospirò. Gli stava girando per la mente un'idea... ma Ennis, sarebbe stato d'accordo? Forse avrebbe prima dovuto parlargliene.
No. Sarebbe stato d'accordo, non poteva non esserlo. Non c'era bisogno di chiedergli il consenso.
"Senti, Cassie, che ne dici di venire a stare da noi?" esordì. Guardò Ennis, e vide i suoi occhi spalancarsi, la bocca aprirsi: la stessa espressione che stava assumendo Cassie.
"Cosa vorresti dire, stare da voi?" domandò lei, dubbiosa.
"Venire ad abitare da noi", spiegò Jack. "Il posto c'è, tu potresti passare una gravidanza tranquilla, e poi si vedrà."
"Voi... mi ospitereste, senza niente in cambio?" Cassie era l'immagine della diffidenza. "E perché?"
"Non ho detto che non voglio niente in cambio", disse Jack. "Ennis ed io siamo molto impegnati con il maneggio e la fattoria, casa nostra è sempre incasinata, e in cucina siamo uno peggio dell'altro. Potresti aiutarci a tenere in ordine, passare l'aspirapolvere, pulire i pavimenti, fare il bucato... prepararci qualche pasto decente... vero, Ennis?"
"S... sì", balbettò Ennis.
"Per la cucina non c'è problema", disse Cassie, ancora incerta. "Ma per le pulizie... per ora è okay, ma man mano che la gravidanza va avanti..."
"Non preoccuparti per questo", Jack scrollò le spalle. "Quando non ti sarà più possibile fare qualche cosa, smetterai di farlo. In fondo, ci siamo arrangiati fino adesso."
Lei era commossa. "Jack... perché?"
"Come, perché?"
"Perché... volete aiutare una che praticamente non conoscete? Una come... come me?"
Jack guardò Ennis, che era incredulo e confuso quanto, se non più di Cassie, ma non aveva il coraggio di esprimere le proprie perplessità di fronte alla donna. "Perché non è vero che non ti conosciamo, anzi sei una delle persone che conosciamo meglio in tutta Casper. E perché... anche noi abbiamo avuto dei grossi problemi, all'inizio", spiegò, più rivolto al compagno che a Cassie. "Non sapevamo dove andare, non avevamo un lavoro, e se nessuno ci avesse aiutato, se nessuno si fosse fidato e ci avesse dato una possibilità, non so dove saremmo, a quest'ora. Vero, Ennis?"
"Bè..."
"Vero?"
"Sì", concesse Ennis. "E' così."
"Allora, che dite di andare verso casa?" esclamò Jack, alzandosi in piedi e al contempo aiutando Cassie a rialzarsi. "Qui fa un freddo cane."

Una volta al ranch, Jack preparò una vasca piena di acqua calda e sali profumati, mentre Cassie ed Ennis preparavano la camera degli ospiti per la prima notte di Cassie alla fattoria. Il bagno era adiacente alla stanza, e Jack non udì il minimo segno di conversazione fra i due: brutto modo di iniziare la convivenza. Fin da subito, Jack si era reso conto che l'offerta che aveva fatto a Cassie non era affatto piaciuta ad Ennis.
Avrebbe potuto rifletterci, essere meno impulsivo, parlarne prima al suo compagno: all'uomo con il quale divideva l'abitazione. Ma offrire il proprio aiuto a Cassie gli era davvero sembrata la cosa migliore da farsi, e non avrebbe mai creduto che Ennis si sarebbe arrabbiato.
Avrebbero discusso, forse litigato, quando Cassie fosse stata in bagno. O almeno, così Jack si augurava: avrebbe significato che Ennis non era incazzato nero, bensì solo... lievemente alterato.
Perché quando Ennis s'incazzava di brutto, si chiudeva a riccio e anche parlargli diventava un'impresa impossibile.
La vasca era piena a sufficienza, l'acqua lievemente colorata, profumata di muschio, calda e invitante. Jack uscì dal bagno e chiamò: "Cassie? Il bagno è pronto."
Lei uscì dalla stanza accanto, seguita da Ennis. Sembrava più tranquilla. "Anch'io ci sono. Grazie mille, Jack."
"Di niente. L'accappatoio pulito è quello azzurro, piegato sopra al termosifone. Ti ho lasciato anche un mio pigiama, visto che non hai niente da metterti per la notte, un paio di ciabatte e un maglione da usare come vestaglia. Domani mattina ti accompagnamo a prendere le tue cose."
"Io vado giù", disse Ennis, e si avviò per le scale.
Cassie lo seguì con lo sguardo. "Non sembra molto felice che io resti qui."
"Sciocchezze", minimizzò Jack. "E' solo che Ennis non è di molte parole, e ha sempre quell'aria imbronciata. Sembra sempre incavolato, anche quando sprizza gioia da tutti i pori."
"Sarà. Ma se pensate che io possa dare fastidio..."
"Nessun fastidio", disse Jack. Ormai aveva proposto a Cassie di restare, e non si sarebbe rimangiato tutto. "Casa nostra è grande abbastanza per tutti e tre."
"Jack, davvero. Posso andarmene in qualsiasi momento, semmai..."
"Goditi il bagno e stai tranquilla", tagliò corto lui con un sorriso. "Noi ti aspettiamo giù in cucina... anche se mi sa che dovrò ritirare l'offerta di qualcosa di forte da bere, visto come stanno le cose. Forse una tazza di tè, o di latte, per te è più indicata."
"Mi sa di sì", confermò lei.
Ennis era in cucina, stava armeggiando per accendere la stufa a legna e si era già versato tre dita di whisky in un bicchiere, sul tavolo insieme alla bottiglia.
"Buona idea", commentò Jack, per tastare il terreno, avvicinandosi alla stufa con le mani tese. "Sono completamente assiderato. Quasi quasi, dopo faccio un bel bagno caldo anch'io."
Ennis si voltò verso di lui: "Cosa diavolo ti è saltato in mente?"
Almeno, ne parlava. E la sua espressione era collerica, ma non quella che Jack associava ai suoi rari ma esplosivi scatti d'ira furibonda.
"Scusa se non te ne ho parlato, ma mi è sembrata la cosa più giusta da fare."
"Metterci in casa un'estranea? Incinta? E... lo sai cosa si dice sul suo conto?"
"Adesso basta con questa storia", disse Jack. "Si dice qualcosa anche sul nostro conto."
"Appunto, che mettendoci lei in casa... chissà cosa dirà la gente... cosa penserà... e quando si vedrà che aspetta un bambino..."
"Che pensino quello che gli pare", sbuffò Jack. "Hai paura che pensino che sia figlio mio o tuo? Dovresti esserne contento, almeno la smetteranno di pensare che siamo dei finocchi."
"Jack!"
"Allora cosa? Hai paura che pensino che ce la spassiamo in tre? O di cos'altro hai paura, Ennis?"
"Non lo so", ammise Ennis. "Cristo, non lo so di cos'ho paura. Ma so che sono terrorizzato. Ogni giorno... non so, ogni giorno mi aspetto che tutto quello che ho mi crolli addosso."
"E questo che discorso sarebbe?"
"Stiamo troppo bene, Jack. Non abbiamo praticamente mai avuto noie, da quando stiamo a Casper, neanche da quando abbiamo iniziato a vivere insieme... ed ho una fifa boia che un giorno il destino mi presenterà il conto, chiedendomi pure gli interessi."
"La vita non è una partita doppia", asserì Jack. Il discorso di Ennis non gli piaceva affatto e desiderava chiuderlo in fretta. Meglio non tirarsi addosso la sfiga. "Non è detto che se oggi sei felice e ti va tutto bene, poi per forza ti debba capitare qualcosa di brutto per compensare."
"No, però... ogni tanto, ho questa paura. E più andiamo avanti, e più le cose continuano ad andarci bene...."
"Cos'è, vuoi che le cose inizino ad andare male, per poi aspettarti che prima o poi migliorino?"
"No... ma..."
Jack gli carezzò una guancia: ogni tanto, Ennis gli dava l'impressione di un bambino spaventato, bisognoso di rassicurazioni, di qualcuno che lo proteggesse. "Vedrai, andrà tutto bene. Anche con Cassie."
"Ma perché cavolo ti è venuto in mente di chiederle di stare da noi?" domandò Ennis. Il tono non era arrabbiato, era una semplice domanda. "Non la conosciamo bene. Ha fama di mangiauomini, quasi di prostituta. Non so se..."
"Ennis, è disperata", rispose Jack. "E' in una situazione terribile, da non sapere dove sbattere la testa. Se posso aiutare una persona in difficoltà, lo faccio con piacere. Ti ricordo che anche noi, se non avessimo avuto l'aiuto di tua sorella e di Matt..."
"Jan è mia sorella."
"Ma ha accettato anche me", asserì Jack. "Io ero un estraneo, per lei, e un estraneo finocchio. Per quanto ne so, poteva anche considerarmi come il depravato che ha traviato suo fratello, come ha fatto K.E.. Ma mi ha accolto in casa sua, si è fidata di me, mi ha dato una possibilità. E per Matt, deve essere stato ancora più difficile, ma l'ha fatto lo stesso."
"Tu avevi questa paura?"
"Certo che ce l'avevo." E ne ho anche altre, se è per questo. Come che qualcuno possa ammazzare te, a causa mia.
"Jack... perché non me ne hai mai parlato?"
"Perché non aveva senso parlartene", Jack sorrise. "Tu hai già le tue paure, ti bastano e ti avanzano."
"Mi dispiace", mormorò Ennis. "Quando io ho bisogno di rassicurazioni, tu ci sei sempre. E tu invece, neanche mi dici le tue, di paure, per paura che io..."
"Sst", Jack lo baciò sulla bocca, zittendolo. Gli sfilò la camicia e la canottiera dai jeans, sollevandole insieme al pullover, e gli passò le mani sulla pancia calda, poi più giù. Ennis rabbrividì e gemette, ritraendosi: "Cazzo, sei gelato!"
"Sono ancora ibernato da prima", bisbigliò Jack stringendosi a lui. "Aiutami a scaldarmi, non vorrai che mi venga una polmonite..."

Mezz'ora dopo, Cassie scese, indossando il pigiama di flanella scozzese di Jack e il suo grosso cardigan di lana bianca, al quale aveva risvoltato i polsi. Ennis era seduto a capotavola, Jack ancora in piedi, vicino alla stufa, con in mano una tazza di latte bollente a cui aveva aggiunto un dito di whisky e due cucchiaini di zucchero; finalmente, stava iniziando a riscaldarsi.
"Tutto bene?" chiese Ennis, per primo.
"Sì, grazie", disse lei, stringendosi i lembi del cardigan intorno alla vita.
"Vieni, accomodati vicino alla stufa", fece Jack. "Cosa posso prepararti? Un tè? Una tazza di latte?"
"Una tazza di latte andrà benissimo, grazie", Cassie si sedette sulla sedia che Jack le offriva. "Te lo scaldo subito", disse Jack, e andò al frigorifero per prendere la bottiglia.
"Aspettate", disse Cassie. "Io... ci ho pensato, e dal momento che accetto di venire a stare con voi, voglio che tutto sia chiaro. Io non sono certo una santa, ma non sono nemmeno quella puttana che dice la gente. Non ho un figlio abbandonato chissà dove..."
"Cassie..." iniziò Ennis.
"So che genere di voci circola sul mio conto. Non ho un figlio bastardo nascosto in un orfanotrofio, e non mi sono fatta tutti gli uomini di questa città, anche se non posso negare di essermene fatta molti, anche sposati. E quello che porto in grembo è il figlio di Thompson, che mi ha mollata e licenziata dopo averlo saputo."
"Lo sapevo", sbottò Ennis. "Il nostro George è proprio un grande. Sposato, tre figli, in chiesa tutte le fottute domeniche. Pensa un pò."
"Non è solo colpa sua", disse Cassie.
"No", convenne Ennis. "Ma per almeno un cinquanta per cento, sì. Cristo santo, perché continui a difenderlo?"
"Forse perché la colpa è soprattutto mia", ammise lei.
"La colpa è soprattutto sua", decretò Ennis. "Un uomo sposato non dovrebbe andare con altre donne."
"Io l'ho sedotto."
"Lui si è lasciato sedurre", ribatté Ennis. "Magari non aspettava altro."
Jack ridacchiò, versando il latte nel pentolino.
"Non c'è da ridere", osservò Ennis, torvo.
"No", convenne Jack, accendendo il fornello. "Ma tu sei piuttosto esperto di come vanno queste cose."
"Ha-ha."
"Comunque", intervenne Cassie, "Io non voglio che si sappia.
Lo so io, lo sapete voi, lo sa George, ma la cosa finisce qui. Lui ha minacciato di ammazzarmi, se lo dico in giro, e so che non scherza."
"Che grandissimo stronzo", borbottò Ennis. "Dovresti denunciarlo."
"A che pro? Lui può benissimo dire che il bambino che aspetto non è il suo... come poi ha detto a me."
"Ma tu sei sicura..." fece Ennis.
"Sì che lo sono", dichiarò lei, risentita. "Hai ogni motivo di dubitare di me, Ennis del Mar, ma per quello che vale, posso darti la mia parola."
"Scusa, io..."
Lei alzò le spalle, come a significare che non importava, era abituata a quel genere di offese. "George avrebbe voluto che abortissi", continuò. "M
i ha offerto di pagare le spese, e ad essere sincera, ci ho pensato... ma..." lei sollevò la testa, li guardò, prima uno, poi l'altro. "Non potevo. Non ce l'ho fatta. Non potevo uccidere il mio bambino, per uno sbaglio mio."
"Però ti volevi suicidare", Jack non riuscì a trattenersi. "Sareste morti tutti e due."
"Sì, saremmo morti tutti e due", ripeté Cassie. "E, in qualche modo,
avrei pagato il mio errore con la vita, anziché liberarmi semplicemente di lui. Forse suona assurdo, ma..."
"Ognuno ha le proprie ragioni", sentenziò Ennis. "E se per lui sono giuste, gli altri possono anche non capirle."
Rimasero un momento in silenzio, come a digerire quell'affermazione, riflettendo al significato che ognuno di loro le dava, Ennis mangiucchiandosi una pellicina, Cassie guardandosi le ciabatte di panno blu di Jack, di almeno tre misure più grandi, Jack controllando il latte che stava per bollire.
Poi Cassie riprese: "Promettetemelo. Promettete che non direte mai a nessuno chi è il padre del mio bambino. Quando si vedrà che sono incinta, verranno fuori abbastanza pettegolezzi anche senza che si sappia chi è stato."
"Promesso", disse Ennis.
"Non hai bisogno di chiederci una cosa del genere", disse Jack, spegnendo la fiamma. "Anche noi non amiamo attirare l'attenzione."
Cassie lo guardò, mentre Ennis gli scoccò un'occhiata minacciosa.
Jack lo ignorò, versando il latte nella tazza. "Dal momento che verrai a stare da noi, è meglio che tu sappia una cosa che ci riguarda. Zucchero? Miele?"
"Miele, grazie. Un cucchiaino."
Jack versò un cucchiaino di miele nella tazza di Cassie, mescolò e gliela porse. "Ecco."
Cassie prese la tazza fumante con entrambe le mani. "Grazie."
"Hai già capito di cosa si tratta, vero?" domandò Jack.
Cassie annuì. "Voi due state insieme", disse, ed Ennis avvampò. "No, scusate", si corresse lei. "Voglio dire... qualcuno, in città, lo mormora... sapete, lavorando in un locale sento la gente chiacchierare... e anch'io, a volte, ho pensato... ma se anche fosse..."
"Hai pensato giusto", dichiarò Jack, interrompendola, e vide gli occhi di Ennis allargarsi, a metà fra lo sbalordito e l'infuriato: Twist, come hai potuto? "Ennis ed io stiamo insieme. Se la cosa non ti piace..."
"Non mi pare di essere in una situazione in cui posso fare tanto la schizzinosa", disse Cassie. "Ma la cosa non mi disturba. E non andrò certo a sbandierarla ai quattro venti, potete starne sicuri."


Marzo 1973


Fino alla fine di marzo, le cose andarono lisce: neanche Jack, che per natura era un ottimista e cercava di non incerottarsi le dita prima di tagliarsele, avrebbe mai creduto che potessero andare lisce fino a quel punto. La gravidanza di Cassie proseguì tranquilla, e lei li aiutò con le faccende di casa, rivelandosi una perfetta massaia. Anche la convivenza, malgrado tutti i tentennamenti di Ennis, non si mostrò troppo impegnativa: la casa era grande, e ognuno aveva i propri spazi. I primi giorni, Jack si stupì di trovarsi insolitamente geloso di Ennis: nell'ospitare Cassie, non aveva considerato il debole che questa sembrava avere per il suo compagno, unito alla sua fama di seduttrice. Presto però scoprì che poteva fidarsi di entrambi: c'era una sola persona di cui Ennis sembrava essere innamorato, e non era certo Cassie Cartwright; e quanto a Cassie, la gravidanza l'aveva cambiata. Se mai era stata una mangiauomini, conoscendola ora non lo si sarebbe mai detto: passava le sue giornate fra i lavori di casa, come una qualsiasi madre di famiglia, e nel tempo libero non faceva che sferruzzare completini a maglia e ricamare bavaglini. Aveva stretto amicizia con Janice, che si era impegnata a prestarle tutto ciò che le sarebbe servito per il piccolo, dall'abbigliamento alla culla alla biancheria, e più volte le aveva promesso che l'avrebbe aiutata, quando il bambino fosse nato.
Un'altra cosa che cambiò profondamente, fu che il Wolf's Ear diventò un luogo tabu. Cassie non voleva vedere George, né essere vista da lui con la pancia in crescita, ed Ennis avrebbe gradito fin troppo dargli una lezione a proprio modo, per quello che quel bastardo aveva combinato.
Non che Jack non sarebbe stato lieto di poter fare la stessa cosa. Era sempre stato convinto che fra persone civili bisognasse parlarsi, discutere e ragionare sulle questioni, senza arrivare alle mani se non in casi particolari, ma uno come George Thompson non poteva essere considerato una persona civile.
Però, non potevano nemmeno prenderlo da parte e spiegargli, con le buone o con le cattive, che quello che aveva fatto era da figlio di puttana: era meno che mai il momento di attirare l'attenzione su di loro.
Caso però volle che l'incontrarono un giovedì pomeriggio, nel parcheggio dell'emporio degli Higgins, a metà strada fra la loro fattoria e Casper. Jack considerò quanto fossero stati fortunati ad incontrarlo proprio lì, di fronte al minuscolo emporio a quell'ora deserto,
dove si erano recati per qualche piccola spesa: se l'avessero incontrato all'affollato supermercato di Edgerton, dove si recavano di solito al sabato, per i rifornimenti settimanali, allora sì che sarebbe scoppiato un vero e proprio finimondo.
Avevano appena caricato le provviste nel retro del furgone, ed Ennis stava chiudendo il bagagliaio mentre Cassie si stava accomodando al suo solito posto, sul sedile anteriore in mezzo a loro. Jack si era allontanato per riportare a posto il carrello, e stava per tornare indietro, quando vide George Thompson avvicinarsi ad Ennis e Cassie e commentare: "Guarda un pò chi si rivede. Allora quello che si dice in giro è vero."
Cassie impallidì, una mano sulla portiera del furgone, l'altra sulla pancia di sei mesi. "George..."
Ennis si parò davanti a lei, protettivo: "Cosa si direbbe in giro, sentiamo."
Oh, Cristo, pensò Jack, affrettandosi dai tre.
"Si dice che Cassie si sia trasferita da voi perché uno dei due l'ha messa incinta", fece Thompson, con la sua solita aria strafottente, sebbene il casino che avesse combinato con Cassie fosse per metà, se non di più, colpa sua. Povera moglie e poveri figli, pensò Jack. "E conoscendola..." proseguì Thompson, guardando Cassie con sfida.
Ennis si fece scuro in viso. "Un galantuomo non si dovrebbe permettere di parlare dietro ad una signora. Ma del resto, non vedo galantuomini, qui."
"Ennis..." Cassie gli mise una mano sul braccio.
"Se è per quello, io non vedo signore", asserì Thompson.
"Lurido figlio di..." Ennis si gettò in avanti per colpirlo, ma Jack arrivò in tempo per bloccarlo, trattenendolo per la vita, mentre Cassie si portava tutte e due le mani sulla bocca.
"Ennis, calmati", fece Jack. "Non abbiamo certo bisogno di pubblicità."
"Io questo lo rovino", ringhiò Ennis. "Andrò a dire a tutti chi è stato a mettere incinta Cassie, e non mi frega un cazzo se ho promesso..."
"Ennis, finiscila", disse Jack.
"Sì, finiscila", fece Thompson. "Dai retta alla mogliettina."
Jack s'infuriò. No, non proprio: fu investito dalla rabbia più incendiaria che avesse mai provato. Spinse da parte Ennis, coprì rapido i due passi di distanza che lo separavano da Thompson e gli tirò un diretto, tecnicamente contestabile per la verità, ma sufficientemente efficace per far finire Thompson a terra, lungo e disteso nel parcheggio.
Senza pensare, Jack gli fu addosso, lo prese per il collo del giubbotto e sibilò: "Adesso ci chiedi scusa. Alla signora, a me e al mio amico."
"Non è tuo amico", precisò Thompson. "Ci ho visto giusto, vero? E Cassie non è rimasta incinta di uno di voi, perché quello che piace a voi non fa molti figli."
"No", s
ussurrò Jack, con gli occhi inchiodati nei suoi. Sentiva il sangue ribollirgli nella testa, nella pancia. "Non è rimasta incinta di uno di noi due. Ma tu lo sai bene, George, chi è il padre del bambino di Cassie."
"Quella bugiarda vi ha detto che sono stato io", alitò Thompson. "Ma non è vero. Non può provarlo."
"Vedo che non riesci ad afferrare il concetto", disse Jack, sempre a bassa voce. "Tu ora ti alzi e le chiedi scusa, per oggi e per tutto quello che le hai fatto, altrimenti, anche se Cassie ci ha fatto promettere di non farlo, giuro sulla testa di mia madre che andrò a dire a tutto questo dannato paese chi è che l'ha messa incinta, e non sto scherzando."
"Per quanto ne so io, potrebbe essere andata contemporaneamente con altri tre o quattro."
"Per quanto ne sai tu, sai benissimo chi è stato. Perché ti sei offerto di aiutarla ad abortire, altrimenti?"
George Thompson impallidì. Poi mormorò: "Non finirà qui, Twist."
"Infatti. Prima devi chiedere scusa." Jack lo lasciò e si rialzò. Thompson lo seguì. "Scusa", biascicò, a testa bassa, accennando a Cassie.
"No, non così", fece Jack. "Mi scusi, signora."
"Mi scusi, signora", ripeté Thompson. Poi, a voce ancora più bassa, un bisbiglio appena udibile: "Ma non finisce qui. Giuro su Dio." Poi, girò i tacchi e se ne andò.
Ennis e Cassie avevano assistito alla scena senza proferire verbo, allibiti.
"E bravo Twist", esclamò Ennis. "Per fortuna che non avevamo bisogno di pubblicità."
"Qui intorno non c'era nessuno", disse Jack. "E quello meritava una lezione. Tu stavi per fare lo stesso."
"L'avrei fatto più che volentieri", Ennis gli diede una pacca sulle spalle. "Ma tu ci sei riuscito molto meglio."
"Cristo santo", sbottò Jack. Si sentiva ancora sottosopra, accecato dalla rabbia. "Mi ha chiamato mogliettina."
"Su, non te la prendere per una cosa del genere."
"Ma perché deve esserci per forza uno che fa la donna?" insisté Jack. "E
perché devo essere proprio io?"
"Te lo stai dicendo da solo", fece Ennis.
"No, non è vero. Me l'ha detto quello stronzo proprio adesso, e..."
"E te l'ha detto tuo padre quel giorno al funerale di tua madre", finì per lui Ennis. "E' questo che ti rode?"
"Sì, accidenti!" esplose Jack. Ennis aveva colto nel segno, facendogli perdere del tutto il controllo. "E' questo che mi rode, va bene? Siamo due maschi, porca miseria, due maschi tutti e due con l'uccello, e perché proprio io devo essere considerato la donna della coppia? Io non sono una donna! Se anche in camera da letto..."
"Cristo, Jack, non urlare!" l'interruppe Ennis, un dito sulla bocca. Nel parcheggio non c'era nessuno, ma quello era un tipo di discussione che non era il caso di fare in un luogo pubblico - e forse, nemmeno in uno privato.
"Non mi dire di non urlare!" gridò Jack. Quella storia lo snervava, lo esasperava. "Cos'ho di femminile, dannazione? Cos'ho meno di te? Perché mio padre ha pensato prima che tu fossi la mia guardia del corpo, e poi che io fossi la donna dei due? Perché non ha pensato il fottutissimo contrario?"
"Ehi, piccolo..."
"Non chiamarmi piccolo! Io non sono piccolo!"
"Scusa. Credevo che ti piacesse."
"Non quando lo fai a sproposito", mugugnò Jack. Riconobbe di essersi comportato come un mocciosetto che fa le bizze, malgrado avesse appena gridato di non essere piccolo, e questo lo calmò. "Gesù, l'avrei ammazzato. Ma perché deve esserci una donna fra di noi, e devo essere proprio io?"
"Forse perché sei quello carino e sorridente", azzardò Ennis. "Mentre io sono il figlio di puttana sempre incazzato."

Verso casa, né Ennis né Cassie osarono parlare di quello che era appena successo, e Jack, immusonito e ancora visibilmente nervoso, si concentrò sulla guida, sulla strada che conosceva a memoria, guardandosi bene dal sollecitarli. Appena arrivati al ranch, si dileguò, nascondendosi dietro un soffocato "Devo andare in bagno", senza aiutare Ennis e Cassie a sistemare la spesa: un comportamento piuttosto Ennisiesco, ma al diavolo la buona educazione.
Andò in bagno, chiuse la porta, raggiunse il lavandino e si sciacquò la faccia con acqua fredda.
La scenata che aveva piantato nel parcheggio gli aveva lasciato uno strano rimescolio nello stomaco.
Che vergogna.
Jack non era tipo da legarsi i torti alle dita, da rimuginare eccessivamente sul passato, ma Ennis ci aveva visto giusto: quello che gli aveva detto suo padre al funerale di sua madre gli era rimasto impresso come un marchio a fuoco. Suo padre lo considerava un debole, un perdente, una donnetta.
Che c'era di strano, poi? L'aveva sempre saputo. Per tutti gli anni che aveva trascorso in casa dei suoi, suo padre non gli aveva certo risparmiato gli insulti, picchiando il chiodo soprattutto su quel punto.
Ma gliel'aveva detto di fronte ad Ennis
, di fronte al suo compagno, e per giunta in un momento in cui Jack, sconvolto per la morte improvvisa di sua madre, si era davvero sentito debole e vulnerabile.
Era così? Era veramente una donnicciola?
Lui non si sentiva tale. Forse era per questo che sentirselo dire lo faceva imbufalire.
Ed Ennis? Lo considerava una donna, Ennis?
Lo chiamava piccolo, spesso aveva un atteggiamento protettivo nei suoi confronti, e
temeva per la sua vita, e non per la propria, perché era convinto che se qualcuno l'avesse aggredito non sarebbe stato in grado di difendersi... e per quanto riguardava la camera da letto, le volte in cui Jack, per dirla come l'aveva detta John, era stato dietro, in dieci anni si potevano a fatica contare sulle dita di due mani - ma solo perché Ennis aveva questo maledettissimo timore di lasciarsi andare, di sentirsi posseduto anziché possedere... o no?
Dannazione, Ennis lo considerava... una donna? La metà debole della coppia?

Era ormai passata l'una di notte, ma Jack non riusciva a dormire. L'atmosfera, quella sera a cena, e anche dopo, era stata tesa e imbarazzata, benché nessuno avesse più parlato dell'accaduto.
E Jack sentiva la mente e lo stomaco ancora in subbuglio.
Guardò Ennis, sdraiato sul fianco destro, con la schiena rivolta verso di lui, il respiro regolare di una persona addormentata. 
Jack si alzò, infilò ciabatte e vestaglia e decise che una boccata d'aria non avrebbe potuto che schiarirgli le idee, insieme ad una sigaretta: da quando Cassie abitava con loro si erano impegnati a non fumare dentro casa, e non fumarle troppo vicino all'esterno, per evitare di nuocere in qualsiasi modo a lei e al piccolo.
Nel portico sul retro, trovò Cassie, seduta a luce spenta sui gradini, in camicia da notte e cappotto, con Kes ai suoi piedi. Niente sigaretta. Pazienza.
"Cassie...?"
"Jack", lei si voltò, senza alzarsi. "Ciao. A volte, il bambino scalcia troppo e non riesco a prendere sonno. Non ti ho svegliato, vero?"
"No, non preoccuparti", Jack premette l'interruttore accanto alla porta, accendendo il lampadario sopra di loro, ma lei disse: "No, non accendere. Si sta bene così, al buio. Si vedono tutte le stelle, c'è un cielo bellissimo."
"Già", approvò Jack, e spense nuovamente la luce. "Quasi come quello..." iniziò, per poi fermarsi.
Lei lo guardò con aria interrogativa.
"Ah, niente", lui le sedette accanto, e accarezzò Kes sulla schiena. La Kelpie lo guardò, poi riaccomodò la testa sulle zampe. "E' stato tanto tempo fa. Quando Ennis ed io ci siamo conosciuti, facevamo i guardiani di pecore alla Brokeback Mountain, su da Signal, e quando non pioveva o era nuvoloso, c'era un panorama da mozzare il fiato."
"Tanto tempo... quanto?"
"Dieci anni."
"E' da dieci anni che state insieme?" Cassie sembrava incredula. "O è successo solo dopo?"
"No, sono dieci anni", confermò Jack. "Praticamente, ci siamo messi insieme quando ci siamo conosciuti. Non è stato sempre facile, anzi... ma sembra che siamo ancora qui."
"Che storia. Tu e lui... voglio dire..." lei esitava, giocherellando con i riccioli sciolti sulle spalle. "Avete sempre avuto certe tendenze? Siete sempre stati..."
Jack tentò di toglierla dall'imbarazzo: "Omosessuali?"
Lei annuì.
"No. Io ho avuto qualche storia con delle ragazze, prima di lui, e devo dire che andare con le donne non mi dispiaceva affatto. Ennis invece era fidanzato e si doveva sposare."
"Ma non ti manca, una donna?"
"Sai che non me lo sono mai chiesto?" Jack si strinse nelle spalle e cercò di radunare i pensieri. "Certo, per quanto riguarda il sesso, la cosa è ben diversa. Voglio dire, fra due uomini... anatomicamente parlando..." si morse la lingua, avvampò. Che razza di discorsi stava facendo, con una donna incinta? 
"Ti ho messo in imbarazzo? Scusami, non volevo."
"No, va bene", Jack continuò a carezzare Kes. Il concetto era ben chiaro nella sua mente, doveva solo scegliere le parole più adatte per esprimerlo con delicatezza. "E' che... con Ennis non si tratta solo di sesso. Certo, lui mi piace, mi piace farci l'amore... ma il punto è che lo amo, lo amo proprio." guardò Cassie, come per sottolineare la propria affermazione. "Ho fatto sesso con una dozzina di ragazze, prima di conoscere Ennis, mi è piaciuto e loro mi piacevano, ma non mi sono mai innamorato di nessuna. Con Ennis, invece, è scattato qualcosa di diverso, qualcosa in più. P
er quel che mi riguarda, in poco più di un mese sono passato dall'odiarlo allo stimarlo all'esserne attratto, poi innamorato. Sinceramente, ero più scioccato dall'essermi innamorato di uno con un caratteraccio del genere, che dal fatto che si trattava di un ragazzo... e pensa che quando l'ho conosciuto era ancora peggio."
"Posso confessarti una cosa?"
"Certamente."
"Anche a me piaceva Ennis", ammise lei, le guance rosse come una ragazzina alle prime cotte, gli occhi sfuggenti. "Spero che non ti dia fastidio, se te lo dico."
"Un pò me n'ero accorto. Al pub, gli servivi sempre delle porzioni di torta doppie, per non parlare di come lo guardavi."
"Jack!" Cassie finse di tirargli un pugno su di una spalla.
Lui ridacchiò, riparandosi dietro le mani aperte: "Ma è vero!"
Lei ritornò seria: "E tu mi hai proposto di stare qui, anche se sapevi che io avrei potuto provarci con Ennis? Viste le voci che girano sul mio conto..."
"Io mi fido di Ennis", dichiarò Jack. "Trovo che sia uno spreco di energia essere geloso quando non ne ho affatto il motivo. E poi, è lui quello geloso."
"Lui... non si fida di te?"
"Non è questo. E' molto possessivo, e la sua paura più grande è perdere le persone a cui tiene... quindi, io posso considerare un complimento il fatto che sia geloso di me."
"Sai, io..." iniziò Cassie. Poi fece una strana espressione e si toccò la pancia. Sorrise. "Vuoi sentirlo?"
"Cosa?"
"Il mio bambino. Si muove."
Titubante, ma allo stesso tempo curioso, Jack allungò la punta delle dita fino a toccare la pancia di Cassie, al livello dell'ombelico sporgente, ben visibile sotto la sottile camicia da notte. "No, non lì", fece lei. Gli prese la mano e la portò verso il basso, premendola nel punto in cui normalmente avrebbe dovuto trovarsi il fegato, e Jack sentì qualcosa che si muoveva sotto il suo palmo aperto, come tirandogli dei leggeri calci. 
Qualcuno, non qualcosa.
"Cavolo", esclamò. "E'... strano. Voglio dire... se pensi che c'è un bimbo, qui sotto, che magari sta ascoltando quello che diciamo." tolse la mano. "E' strano, ma bellissimo."
Cassie sorrise di nuovo. "E' grazie a voi. Io volevo ammazzarmi, e lui con me. Voi... mi avete dato una possibilità."
"Lascia perdere."
"No, grazie davvero, Jack. Mi dispiace di averti insultato, quando mi hai salvato la vita. Ma ero disperata, non sapevo dove andare a sbattere la testa."
"Scuse accettate."

"Quello che volevo dire prima", riprese lei, pensierosa. "Vivendo qui... ho scoperto che avevo un debole anche per te, non solo per Ennis."
"Cosa?"
"Non fraintendermi", spiegò lei. "Ho scoperto di avere un debole per tutti e due... per quello che vi lega, per il vostro tipo di rapporto. Io non troverò mai un uomo che mi ama come vi amate voi."
"Non è detto."
"Sì invece. Io non sono una signora. Non troverò mai nessuno che mi accetti per quello che sono."
"E' solo questione di fortuna", disse Jack. "Non capita a tutti di incontrare l'anima gemella al momento giusto. Per questo, ho fatto di tutto per restare con Ennis, per fare sì che lui accettasse di restare con me."
"Ennis non voleva?"
"Accidenti, no", Jack sorrise, ripensando a come Ennis, all'inizio, avesse cercato di negare quello che provava, sia a Jack sia a sé stesso. "Era innamorato di me quanto io lo ero di lui, ma non accettava l'idea di esserlo. Voleva convincersi che scopassimo solo per passarci il tempo in modo divertente, e che una volta scesi da lassù, tutto sarebbe tornato come prima. Era un fottuto finocchio omofobico, e lo è ancora adesso."
Cassie rise di gusto. "E' proprio da lui."

"Già. Ma io sentivo che avevamo avuto una fortuna sfacciata ad incontrarci, e non potevamo buttarla alle ortiche. Anche se poi abbiamo avuto i nostri problemi.
"Ti riferisci a quello che è successo oggi?" la voce di Cassie suonò preoccupata.
"Anche."
"Mi dispiace per quello che ti ha detto George."
"Non è la prima volta che qualcuno fa delle insinuazioni del genere su me ed Ennis, e non sarà l'ultima." Jack si strinse nelle spalle. "Ennis ha una fifa blu che qualcuno possa farci del male, ma io credo che non succederà. La gente è troppo impegnata a farsi gli affari propri... al massimo, può parlarti dietro le spalle, ma chi ha voglia di rischiare la galera per togliersi lo sfizio di fare la festa a noi, che non diamo fastidio a nessuno, e stiamo bene attenti a non sfiorarci nemmeno, in pubblico?"
"Però dovete starci attenti. George è davvero un grandissimo stronzo, e te l'ha giurata."
"Se è un grandissimo stronzo, perché ci stavi?" sfuggì a Jack.
"Perché non credevo che lo fosse. O non volevo rendermene conto. O forse tutte e due. Noi donne siamo bravissime a non vedere quello che ci fa soffrire."
"Non solo voi donne lo siete."
"Ma noi donne ci riusciamo meglio. George Thompson è un grandissimo stronzo sposato, con tre figli, ma io ci sono stata perché..." esitò, come per raccogliere i pensieri. Poi proseguì: "Perché credevo che potesse funzionare, come ogni altra volta che ho avuto un uomo. E perché avevo bisogno di sentirmi amata, anche se sapevo benissimo che non poteva funzionare. Anche se sapevo benissimo che lui non mi amava, stava con me solo per una scopata ogni tanto."
"Voi donne siete strane", ghignò Jack.
"Anche voi uomini", ghignò Cassie in risposta.
Jack ridacchiò. "Dopo una conversazione del genere, ti offrirei un bel bicchiere di whisky, ma dato che tu non puoi..."
"A dire la verità, c'è una cosa di cui avrei voglia..."


"Cosa state facendo, voi due?" la voce bassa di Ennis, alle loro spalle, dieci minuti dopo.
Jack e Cassie si voltarono, con le facce di due ragazzini colti con le dita nella marmellata. In effetti, Ennis li aveva colti con i cucchiaini nel barattolo della crema di nocciole e cacao: la differenza stava solo nel contenuto.
"Mangiamo", rispose Jack con aria innocente, il cucchiaino pieno di crema in una mano e il barattolo nell'altra. Cassie ridacchiò, la bocca piena dietro il pugno.
"Vuoi favorire, Ennis, prima che ce la finiamo tutta?" domandò Jack, con un largo sorriso. "Vado a prendere un cucchiaio anche per te."
"Santa pazienza, Twist", sbuffò Ennis, le mani sui fianchi. Indossava un paio di calzoni da pigiama grigi a righe verdi, una canottiera bianca a coste, un paio di ciabatte di flanella a pois, aveva il giubbotto sulle spalle, e i capelli spettinati e gli occhi pesti di chi si è appena svegliato: una visione davvero comica. "Posso capire che Cassie abbia bisogno di calorie in più, ma quanto a te..."
"Cos'avresti da ridire, quanto a me?"
"Per carità, fa' finta che non abbia parlato. Ma non venire a lamentarti con me se ti ritroverai con la pancia grossa quanto un dirigibile e il culo largo come una portaerei."
"Finora, mi pare che nessuno dei due abbia avuto mai da lamentarsi del mio culo", ribatté Jack, e subito si pentì di essersi lasciato sfuggire una battutaccia del genere davanti a Cassie - quello era il genere di battute che raramente si lasciava sfuggire anche quando era solo con Ennis. Ma lei scoppiò a ridere, una risata sonora e divertita che riempiva il silenzio della notte.
Jack ed Ennis si scambiarono uno sguardo. Ennis sorrise, con la bocca e con gli occhi e con tutta la faccia. Jack ricambiò il sorriso.
Quella era la loro casa.
Era la loro famiglia.
Cassie e il bambino sarebbero rimasti con loro per tutto il tempo che Cassie desiderava, decise Jack. Prima di proporlo a Cassie ne avrebbe parlato ad Ennis, questa volta, ma era certo che Ennis non avrebbe avuto nulla da ridire.
E che la gente pensasse quello che più gli pareva.

Tre quarti d'ora dopo, Jack era in bagno, a lavarsi i denti prima di andare a letto. Ennis aveva declinato l'invito per la crema di nocciole, ma era tornato in casa a prendere una birra, per poi tornare nel portico con loro, e alla fine, la serata si era conclusa in maniera gradevole. L'incidente del pomeriggio era quasi dimenticato.
Quasi.

"Che stai facendo?" Ennis fece capolino con la testa dalla porta del bagno, senza bussare: raramente bussavano, fra di loro, se non quando erano in contumacia. Buon segno. 
Jack era in piedi davanti allo specchio, aveva già riposto lo spazzolino e si stava sciacquando la bocca con il colluttorio. Sputò il liquido verde nel lavabo, poi esordì: "Mah, pensavo. Che ne diresti se mi facessi crescere i baffi?"
"Che cosa?"
"Sì", confermò Jack, asciugandosi la bocca. Non aveva per niente voglia di farsi crescere i baffi, ma era curioso di sentire l'opinione di Ennis al riguardo, sebbene potesse immaginarla. Senza considerare che aveva voglia di stuzzicarlo un pò. "Un bel paio di baffi, come quelli di Matt, ma senza la barba. Sono di moda, no? E non dovrebbero starmi male."
"Ti starebbero da cani", tagliò corto Ennis.
"Grazie del complimento", brontolò Jack, fingendosi offeso.
"Se è per quello che è successo oggi", insisté Ennis, "un paio di baffi non serviranno certo a rendere il tuo viso più maschile. Anzi, lo renderanno solo semplicemente ridicolo."
"Grazie di nuovo", ripeté Jack. Hai voluto pungolarlo? Eccoti servito.
"Non c'è di che."
"Non è che non vuoi che me li faccia crescere perché non vuoi sentire i baffi di un uomo quando mi baci?"
"E questa che razza di insinuazione sarebbe?"
"Mi spiego meglio: non è che, quando baci me, tu immagini di baciare una donna?"
Ennis si accigliò: "Se avessi voluto una donna, non sarei certo stato con te."
"Quindi un paio di baffi non ti farebbero una grande differenza."
"Sì invece", Ennis si portò dietro a Jack e l'abbracciò, stringendogli leggermente la vita, passandogli le mani sotto il pigiama, sull'addome, sulla pancia. "
La tua faccia mi piace così com'è. Dolce e carina e sorridente, senza baffi." per sottolineare la propria affermazione, Ennis gli baciò una guancia. "E poi, ti invecchierebbero, quando hai la fortuna di sembrare più giovane."
"Seguirò il tuo consiglio", sapendo quanto Ennis si crucciasse del proprio viso, già precocemente segnato da profonde rughe e macchiato dalle lentiggini, risultato di lunghe ore trascorse a lavorare all'aperto, Jack decise di terminare la discussione. Si abbandonò all'abbraccio, alle carezze, appoggiandogli la nuca sulla spalla, allungando le mani all'indietro, sui suoi fianchi, per stringerlo ancora di più a sé.
"Non te li saresti mai fatti crescere", disse Ennis. "Anche se io ti avessi detto Okay, fai pure. L'hai detto solo per provocarmi."
"Cosa te lo fa pensare?"
"Ormai ti conosco, Twist", le mani di Ennis si spostarono languide verso il basso. "Oh oh, senti cosa c'è qua. E tu che hai paura che qualcuno ti scambi per una donna."
"Non ho detto proprio così", Jack si voltò verso di lui, le sopracciglia aggrottate. Ennis lo baciò, piano, sulla bocca, slacciandogli la cintura della vestaglia, trafficando con i bottoni del pigiama. "Come sei puntiglioso", bisbigliò. Continuò a baciarlo, scendendo al mento, al collo, al petto, all'addome, all'ombelico, inginocchiandosi a poco a poco, abbassandogli calzoni e slip, e infine lo accolse. Jack sospirò, deliziato, chiudendo gli occhi, reclinando il collo all'indietro, passandogli le mani fra i capelli mossi che avevano bisogno di una spuntata.
"Non sei una donna", ribadì Ennis, malizioso, staccandosi. "Nonnonno. Non mi pare proprio."
"Lo so che non sono una donna", Jack riaprì gli occhi, e fu compiaciuto nel vedere Ennis ammirarlo, ammirare il suo corpo, come si ammira una preziosa opera d'arte, come si ammira ciò che di più prezioso ci sia al mondo, malgrado le sue caratteristiche maschili, malgrado tutti i suoi difetti e imperfezioni.
"Allora perché tanti problemi?" domandò Ennis, rialzando lo sguardo verso il viso di Jack. "Per quella carogna di tuo padre?"
"Anche."
"Anche, e poi cosa?"
"Tu cosa pensi di me? Mi consideri la metà debole della coppia?"
"E' questo che ti preoccupa?"
Jack annuì. "Mi snerva che non puoi immaginare."
Ennis lo prese per i fianchi, lo attirò a sé e lo prese in bocca, bramoso e impetuoso e vorace, e questa volta Jack gemette, impreparato, appoggiandosi con le mani alle sue spalle per non cadere.
"Ti basta come risposta?" domandò Ennis, il respiro contro la pelle bollente di Jack.
"No", ansimò Jack. "Dimmelo di nuovo."

Quella notte fecero l'amore, ed Ennis lasciò che fosse Jack a condurre il gioco. Quando questo succedeva, Jack adorava stare sopra di lui, fra le sue gambe lunghe, tenendolo abbracciato e baciandolo, i corpi a stretto contatto, muovendo appena il bacino per evitare di fargli male, perché Ennis non era abituato a fare sesso in quel modo, arrivando lentamente alla fine fra baci, sussulti, bisbigli e sospiri. Non che non lo facessero mai dolcemente e lentamente, ma di solito, a un certo punto, perdevano entrambi il controllo e giungevano al culmine fra morsi, spinte, grugniti e gemiti.
Qualche sedicente esperto in psicoanalisi da quattro soldi avrebbe potuto obiettare che quella posizione gli piaceva, perché gli ricordava com'era fare sesso con una donna, rassicurandolo sulla propria virilità. A Jack invece piaceva, semplicemente, perché era il modo in cui più si sentiva una cosa sola con Ennis, il modo in cui più sentiva di appartenergli, in cui più sentiva che Ennis si fidava di lui, metteva da parte il suo maledetto timore di sentirsi posseduto e si lasciava anche e finalmente possedere.
Prima di staccarsi da lui,
Jack gli accarezzò la fronte sudata, i capelli scarmigliati: "Ehi."
"Mmm?" Ennis aveva gli occhi socchiusi, l'espressione appagata e distesa.
"Non è che smetterai di chiamarmi piccolo, dopo quello che ti ho detto oggi pomeriggio, vero?"
"Se ci speravi, scordatelo pure", l'apostrofò Ennis. "Piccolo sei, e piccolo rimarrai, Twist."
Però mi pare che questo piccolo ti abbia fatto divertire, stanotte, pensò Jack. Decise però di non ribattere e lo baciò, piano, tenendogli la faccia fra le mani, sorridendo fra sé.
Per fortuna, la tempesta è passata senza fare troppi danni. Anzi, se come risarcimento arriva una notte come questa, ben venga anche una tempesta alla settimana.
Non immaginava che la vera tempesta doveva ancora arrivare, e sarebbe stata distruttiva quanto un uragano.


Credits: "Leave out all the rest" è una canzone dei Linkin Park, "Everything burns" è di Anastacia + Ben Moody, e le altre canzoni che ho usato per questa storia sono tutte della colonna sonora di "I segreti di Brokeback Mountain".

Disclaimer: I personaggi di Jack Twist e i suoi genitori, Ennis del Mar e i suoi genitori e fratelli, Don Wroe, Cassie Cartwright, Joe Aguirre e Linda Higgins appartengono ad Annie Proulx, così come il Wolf's Ear. 
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


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Capitolo 3
*** A love that will never grow old ***


Come sei veramente Leave out all the rest

Capitolo 3 - A love that will never grow old

Aprile 1973

Man mano che la primavera avanzava e l'aria si faceva sempre più calda, quella di trascorrere le serate sotto al portico diventò una consuetudine, alla quale talvolta si univano anche gli Hamilton. Aprile trascorse sereno, con la pancia di Cassie che si ingrossava, la gravidanza che progrediva senza problemi:
malgrado le proteste di Jack ed Ennis, lei continuò ad occuparsi delle faccende domestiche come al solito, spiegando che almeno si passava il tempo. Fosse stata costretta a starsene ferma, avrebbe dato di matto.
Jack parlò ad Ennis della proposta che aveva intenzione di fare a Cassie, ed Ennis questa volta si dichiarò d'accordo. "A dire il vero, era già da un pò che pensavo la stessa cosa", confessò.
Quando glielo domandarono, Cassie rimase dapprima stupita, poi accettò, commossa, con le lacrime agli occhi. A Jack parve di essere tornato indietro nel tempo, quando Matt, ormai guarito, aveva chiesto a lui ed Ennis di restare ad aiutarli con il ranch: era stato infinitamente grato per quel gesto agli Hamilton, che in fondo avrebbero potuto chiederlo soltanto ad Ennis.
Non avevano più incontrato George Thompson, e Jack non aveva più pensato a lui, se non una volta, all'emporio degli Higgins. Si era fermato a fare benzina prima di recarsi a Casper da un cliente, e quando era andato a pagare il pieno, Linda Higgins gli aveva rivelato che lui e Thompson avevano combinato un bel casino. Qualcuno doveva avere sentito il loro diverbio, con il risultato che tutta Casper ora spettegolava di come Cassie Cartwright fosse incinta di George Thompson, e la di lui moglie lo fosse venuta a sapere e l'avesse cacciato da casa, chiedendogli il divorzio, più un bel gruzzoletto come risarcimento, in quanto era stata lei a sborsare i soldi necessari a comprare i locali del Wolf's Ear, quattordici anni prima.
"Accidenti, mi dispiace", aveva replicato Jack, dispiaciuto più che altro per la famiglia di Thompson, non certo per lui, ricordando come quella volta si fosse rallegrato del parcheggio deserto. Linda Higgins era una brava donna, per carità, di quelle matrone basse e larghe e accoglienti, che sembrano fatte apposta per fare la mamma o la baby sitter, ma gestiva una pompa di benzina con annesso emporio, insieme con il marito Ed, alto e secco come un paletto, e purtroppo aveva la lingua più veloce di tutto il paese, quando si trattava di spettegolare. Non che Jack potesse scommetterci le mani, ma immaginò che Linda avesse visto la scena, avesse ascoltato la discussione, e poi si fosse data da fare a suo modo.
Bè, pazienza. Se aveva sentito tutto, aveva sentito anche di lui ed Ennis. Non che facesse molta differenza: Jack era convinto che Linda ed Ed appartenessero alla schiera di quelli che sapevano, e spettegolavano dietro le loro spalle, sicuro come la primavera viene in marzo, ma non avevano né tempo né voglia di infastidirli.
L'unica cosa che guastò la loro serenità fu l'improvvisa morte di Kes: l'ultima domenica del mese, come faceva di solito, Ennis uscì di casa verso le cinque e mezzo di mattina per recarsi nelle stalle prima di tutti, e la trovò sdraiata e inerte davanti al portone di casa, il corpo rigido e freddo, la bava alla bocca, il bel pelo blu già diventato opaco e stopposo.
Ennis tornò dentro a chiamare Jack, che quando vide il suo cane privo di vita scoppiò a piangere, seguito poco dopo da Cassie, che era stata svegliata dalla confusione ed era scesa per controllare cosa fosse successo.
Solitamente, Kes in inverno dormiva in casa, spesso sui piedi o vicino alla schiena di Jack, più raramente sul suo scendiletto, ma in estate, o comunque quando iniziava a fare più caldo, preferiva stare fuori, nella sua cuccia, a godersi l'aria aperta. Quella notte aveva voluto restare all'aperto, ma qualcosa doveva essere andato storto.
"Era giovane", mormorò Jack, abbattuto, mezz'ora dopo il ritrovamento, seduto sul divano della cucina. Aveva smesso di piangere, ma i suoi occhi erano ancora gonfi di lacrime. "Non aveva neanche due anni, e fino adesso non ha mai avuto problemi di salute... non capisco come possa essere..." la voce gli si ruppe di nuovo, e nuove lacrime traboccarono. "Non capisco proprio... non può nemmeno avere mangiato qualcosa di velenoso... stiamo bene attenti a non lasciare in giro niente, e lei era brava, non infilava il muso nei sacchi dei diserbanti... non usiamo nemmeno il veleno per i topi, ci sono i gatti che ci pensano... non capisco proprio come sia successo..."
"Coraggio", disse Cassie, seduta vicino a lui, circondandogli le spalle con un braccio. Anche lei aveva l'aria triste e affranta, gli occhi rossi.
"Sono stupido, lo so", si schernì Jack, sorridendo mestamente, asciugandosi le lacrime con una mano. "Non si piange per un animale."
"Si piange, eccome", ribatté Ennis, che stava trafficando con il bollitore e la teiera, dando loro le spalle. Ennis non aveva pianto, era l'unico ad essere riuscito a mantenere la calma, ma la sua voce, ora, era malferma. "Era il nostro cane." Si passò l'avambraccio sugli occhi e, dopo un attimo, si girò verso di loro e li raggiunse, lasciando le bustine di tè in infusione nell'acqua bollente. I suoi occhi erano lucidi e arrossati.
"Ennis..." fece Jack.
Ennis s'inginocchiò di fronte a loro, prese una mano di Jack, una di Cassie. "Ascoltate, dopo l'andiamo a seppellire nel cortile dietro casa, e ci piantiamo sopra una pianta di fiori. Siete d'accordo?"
"Sì", disse Cassie. Jack annuì.
"Sapete", iniziò Ennis, "quando ero piccolo, alla fattoria dei miei arrivò un vecchio gatto randagio, ed io mi ci affezionai. Lo facevo giocare, gli parlavo, lui mi faceva le fusa... l'avevo chiamato Tiger, per via del suo pelo." sorrise, al ricordo della bestiola, e Jack immaginò quanto quell'amico silenzioso avesse potuto significare per un bambino timido e schivo come Ennis.
"Un giorno", seguitò Ennis, "tre anni dopo, lo trovammo morto stecchito, proprio come Kes, e io non riuscivo a smettere di piangere... avrò avuto sette anni, credo sia successo l'anno prima che morissero i miei genitori. Ma mia mamma lo sotterrò nel cortile, alla fine prese una pianta di viole del pensiero selvatiche e la trapiantò sopra alla tomba, poi mi disse che non dovevo piangere. Perché Tiger in vita era stato un bravo gatto, un grande amico, e ora il suo corpo sarebbe stato mangiato dai vermi, che avrebbero fertilizzato la terra e aiutato la piccola pianta di viole a crescere."
"Un pò macabra, messa così", osservò Jack, con un mezzo sorriso.
"Forse", Ennis si strinse nelle spalle. "Anche a me, sul momento, la faccenda non piacque molto: io volevo il mio gatto, e basta. Ma a primavera, la terra dove mia madre aveva seppellito Tiger era tutta coperta di viole del pensiero."

Quella sera, nessuno si sentì di uscire nel portico come al solito. Ma la sera successiva, dopo avere cenato, uscirono tutti e tre insieme e, dopo avere controllato le tre piantine di non-ti-scordar-di-me sulla tomba di Kes, si sedettero sulle sedie di vimini a chiacchierare, un pò ricordando Kes, un pò discutendo sul fatto di tornare al canile e adottare un altro cane. Ennis avrebbe voluto aspettare almeno un mese prima di prendere un sostituto, ma Jack era dell'idea di farlo il prima possibile: c'erano tanti animali che soffrivano, chiusi in gabbia in attesa di una famiglia che li salvasse dalla prigionia e dalla morte, che non era il caso di stare ad aspettare di dimenticare Kes.
"Anche perché", aggiunse, "io non potrò mai dimenticarla. Nessuno potrà sostituire Kes, però avrò un altro amico, a cui affezionarmi con la stessa intensità."
Ennis lo guardò. "Hai avuto anche tu degli animali a cui ti eri affezionato, da piccolo, o sbaglio?"
"Chi non ne ha avuti?"
"Hai ragione", convenne Ennis. "Ma c'è chi, quando muore il suo amico, non vuole sentirne parlare di prenderne un altro."
"Gli animali vivono meno di noi", commentò Jack. "Una volta accettato questo, è tutto più semplice. Non puoi sostituire il tuo amico, però puoi fartene un altro."
"Già", approvò Ennis. Poi guardò Cassie, seduta con la schiena all'indietro e le gambe allungate in avanti, una mano sulla considerevole pancia, l'altra a tormentarsi i riccioli, pensierosa, lo sguardo alla siepe che divideva il cortile dal frutteto. "Cassie? Tutto bene?"
"Eh?" lei si riscosse. "Io... sì. Solo, pensavo... ma no, lasciatemi perdere, è una sciocchezza."
"Che cosa?" domandò Jack.
"Io..." lei esitava. "No, non voglio preoccuparvi... è solo una stupida paturnia da donna incinta. Probabilmente sono solo i miei ormoni che lavorano troppo."
"Puoi parlarne, se ti va."
Cassie si morse il labbro inferiore. "Ho pensato... e se Kes non fosse morta accidentalmente? Se qualcuno l'avesse uccisa?"
"Cosa?" Jack era incredulo. La sua mente tornò alla zuffa con Thompson, a Thompson che borbottava Me la pagherai, Twist, ma no, non poteva trattarsi di una cosa del genere, non poteva essere stato...
"Stai pensando forse a Thompson?" domandò Ennis, rivolto a Cassie.
Lei annuì. "E' vendicativo fino al midollo. E ce l'ha giurata. Magari le ha... che so, gettato un boccone avvelenato..."
"Credi che sarebbe capace di vendicarsi in questo modo?" chiese di nuovo Ennis. "Ammazzandoci il cane?"
"Non lo so", ammise lei. "A questo mondo, c'è di tutto. Sui giornali, si legge di mariti che fanno strage di moglie e figli, mamme che buttano nell'immondizia i bimbi appena nati, ragazzi che violentano coetanee, infermiere impazzite che ammazzano decine di pazienti..."
"Quindi", insisté Ennis, "se Thompson avesse voluto vendicarsi di noi, tu lo vedresti capace di ucciderci il cane."
"Non lo so", ripeté lei. "Non posso esserne sicura, ma ce lo vedrei. Solo... per come lo conosco io, credo che si sarebbe in qualche modo firmato, ma senza compromettersi del tutto. Qualcosa che facesse capire a noi che era stato lui, come, che so, una scritta sulla staccionata...
"Qualcosa come luridi culattoni e troia di una puttana?" suggerì Ennis. "Senza offesa, Cassie."
"Qualcosa del genere, sì", confermò lei. "Noi avremmo capito. Ma senza alcuna firma, per non lasciare prove."
Jack aveva assistito allo scambio fra Ennis e Cassie con le viscere aggrovigliate. Se solo quella volta non si fosse lasciato prendere dalla rabbia...
Ma non aveva potuto lasciar correre. Non aveva potuto. Non era corretto dire che non ci era riuscito, perché non ci aveva nemmeno provato: il furore l'aveva investito, accecandolo, annebbiandogli la mente, e si era ritrovato addosso a Thompson sul cemento del parcheggio senza rendersene conto.
Maledetta impulsività.
Forse, Kes era morta a causa sua.
No. Non è colpa mia. Se è davvero stato Thompson, è tutta colpa sua, e basta. Lui ha tradito la moglie e i figli e messo incinta Cassie, poi l'ha mollata e insultata, e infine insultato pure Ennis e me. Io mi sarò arrabbiato, okay, ma non si poteva pretendere che me ne restassi calmo.
E se scopro che ha ammazzato il mio cane, quello che gli ho fatto quella volta sarà come offrirgli il tè con i biscotti, a confronto di quello che gli farò.
"Scusate, devo andare in bagno", disse Cassie ad un tratto, alzandosi in piedi. "I soliti problemi tecnici. Ha iniziato a premere sulla vescica, e..."
"Ne approfitto per venire anch'io", disse Jack. "Intanto mi prendo da bere. Ho bisogno di qualcosa di forte."
"Prendimi una birra, grazie", disse Ennis.
"Con comodo, eh?" l'apostrofò Jack, battendogli una spalla mentre s'incamminava verso la porta.
"Se volete, faccio io", si offrì Cassie.
"Neanche per sogno", disse Jack. "Tu vai in bagno tranquilla, e io porto da bere. Vuoi una spremuta?"
"Grazie, volentieri", fece lei. "Non ho mai mangiato arance in vita mia, e guardami adesso, non mangio praticamente altro. Sembro drogata."
Jack lasciò che Cassie si servisse del bagno al piano di sotto, per evitarle le scale, mentre lui andò in uno dei due al piano superiore. Si stava lavando le mani, quando udì due colpi di fucile, ed immaginò che fossero i contadini dei terreni circostanti che sparavano alle nuvole, per disgregarle ed evitare possibili tempeste. Non era inusuale, anche loro spesso lo facevano.
Stranamente, gli spari gli erano sembrati piuttosto vicini, mentre di solito si udivano in lontananza; ma Jack non diede peso alla questione. Chi altro poteva sparare, a quell'ora di notte? Un cacciatore che aveva scambiato le dieci di sera con le dieci del mattino? 
Mentre scendeva le scale e si dirigeva verso la cucina, s'incrociò con Cassie che tornava verso la porta sul retro.
"Un cucchiaino di zucchero, come al solito?" domandò lui.
"Sì, grazie mille."
Jack proseguì verso la cucina, ma Cassie si fermò a guardarlo.
Lui sentì lo sguardo di lei su di sé, e si voltò: "Hai detto qualcosa?"
"No, pensavo... grazie mille, Jack. Di tutto."
"Figurati."
Lei si avvicinò e lo guardò, gli occhi scuri lucidi, brillanti. "Non potrò mai sdebitarmi abbastanza. 
Ti voglio bene, Jack... non dimenticherò mai quello che hai fatto per me."
"Così mi metti in imbarazzo", si schermì lui.
"Io non ho..."
"Sst", fece lei.
Gli appoggiò una mano sul petto e lo baciò leggermente in un angolo della bocca. Poi si girò, incamminandosi per il corridoio.
Jack si passò l'indice sulla cicatrice sotto l'occhio, pensieroso. Doveva ammettere che, i
n quei mesi, fra lui e Cassie si era instaurato un certo feeling; ma da parte sua, non l'aveva mai considerata più di una cara, carissima amica.
Lei invece... stava forse iniziando a vederlo come un uomo?
Non farti idee strane, Twist. Quello non era un bacio, non ti ha quasi nemmeno sfiorato le labbra. Non stava cercando di provarci, voleva semplicemente ringraziarti.
Senza contare che Cassie sembrava preferire tutto un altro genere di uomini.
Raggiunse la cucina, e non fece in tempo a prendere fuori il vassoio e lo spremiagrumi da uno dei pensili superiori, che udì Cassie urlare: "Ennis! Oh mio..."
Poi un'altra voce, questa maschile, ad interrompere il suo grido: "Stai zitta, troia!"
Poi un altro sparo, e Cassie strillò di nuovo, questa volta di dolore, e a questo punto Jack aveva già lasciato perdere il vassoio e si era precipitato alla porta che dava sul portico sul retro. La porta era aperta, e la scena che gli si presentò davanti fu quella di un incubo: Ennis era riverso bocconi sul pavimento di cotto, sotto di lui un lago di sangue che si allargava lentamente, colando verso i gradini. Cassie era a terra, rannicchiata fra il tavolino di vimini e una delle quattro sedie, con una mano sulla pancia, l'altra sopra la testa, come per proteggere il bimbo e sé stessa. Anche lei sanguinava, il suo vestito era chiazzato sullo stomaco e sul ventre.

E un uomo massiccio e panciuto, di fronte a loro, sul primo dei tre scalini, le stava puntando contro un fucile da caccia.
George Thompson, con quello che Jack riconobbe come un Winchester 30.30.

Per qualche attimo,
rimase paralizzato a fissare la scena. Non aveva senso, era folle, surreale, doveva davvero trattarsi di un incubo. Cosa cavolo stava succedendo? Perché Thompson, vestito normalmente, con jeans e giubbotto e cappello, stava minacciando Cassie con una carabina dopo averle sparato un primo colpo, ed aveva già sparato ad Ennis?
I colpi che aveva udito dal bagno. Non erano stati i contadini. Era stato Thompson, nel cortile di casa sua, sotto al portico. Per questo gli spari gli erano sembrati così vicini.
Che accidenti gli è preso? Non si è camuffato. Se uno vuole fare la festa a qualcuno, di solito...
Devo essere scivolato dalle scale, ho battuto la testa e sono svenuto e sto sognando. Quando mi risveglierò...
"Jack, scappa!" urlò Cassie, e questo lo svegliò dal torpore. "Chiama aiuto!"
Thompson puntò di scatto il 30.30 verso Jack, e premette il grilletto. Jack fece appena in tempo ad abbassarsi, riparandosi la testa con le mani, e la pallottola si piantò nello stipite della porta.
"Maledetto!" gridò Thompson.
"Jack!" strillò Cassie.
Thompson riprese la mira, e Jack rientrò in casa sbattendo la porta. Il proiettile si schiantò nel legno, all'altezza del suo stomaco.
Quello era matto. Era venuto lì, armato, per ammazzare tutti e tre... dunque sapeva che spesso trascorrevano le sere fuori, li aveva spiati. E aveva aspettato il momento giusto per attaccare, per trovarli senza gli Hamilton, e separati...
Era stato lui ad uccidere Kes. Sicuro, che era stato lui. L'aveva uccisa prima di agire, per evitare che abbaiasse, segnalando la presenza di un estraneo.
Matto come un cavallo. Più di suo padre, del padre di Ennis e di quello di Katherine messi insieme.
Jack si rifugiò nel piccolo studio ricavato dallo sgombraroba, la prima stanza disponibile, senza accendere la luce, e rimase con la schiena appoggiata alla porta chiusa. Udiva il rumore dei passi di Thompson in lungo e in largo per il corridoio: stava esaminando le stanze, le porte chiuse o aperte, giudicando dove avesse potuto nascondersi Jack.
Cos'hai fatto ad Ennis, maledetto figlio di puttana? E a Cassie? Oddio...

Non poteva farsi prendere dal panico. Doveva ragionare, restare lucido.
Quanti proiettili aveva sparato Thompson? Due contro di lui... due li aveva uditi dal bagno, probabilmente contro Ennis,
(oddio, Ennis, che cosa ti ha fatto?)
e uno contro Cassie.
Due più due più uno, cinque. Quanti colpi ha un Winchester 30.30? Sei, sette? Sette, credo. Sì, ne ha sette. Ne rimangono due.

Ragiona, ragiona, ragiona. Calmati e ragiona. Non farti prendere dal panico. 
Lo sguardo gli cadde sulla scrivania. Sopra al ripiano di ciliegio, fra una pila di fatture e il libro dei conti, giaceva abbandonato il tagliacarte d'argento con l'impugnatura a testa di cavallo che Ennis gli aveva regalato per il primo Natale trascorso insieme nel nuovo ranch: la lama luccicava al chiarore proveniente dalle tendine aperte. Alla destra delle fatture, il telefono: la salvezza.
Jack abbandonò le ciabatte e, in punta dei piedi, raggiunse la scrivania e prese il tagliacarte. Non era un coltello, ma era piuttosto affilato e, se usato nel modo giusto, avrebbe potuto ferire in modo grave. Jack non aveva mai pugnalato nessuno, ma si sentiva più che pronto a pugnalare Thompson, anche fino ad ucciderlo, se necessario.
Poi prese la cornetta del telefono, l'accostò all'orecchio e stava per comporre il numero del pronto soccorso, quando un pensiero
(se mi sente parlare al telefono, quello entra e mi spara ed è finita per tutti)
gli attraversò il cervello.
E adesso?

"Twist", disse a un tratto Thompson. A giudicare dai suoi passi, stava ancora percorrendo lentamente il corridoio che collegava tutte le stanze del piano di sotto. "So che ci sei. Avanti, vieni fuori. Se ti lasci ammazzare, sarà tutto più semplice."
Jack, con la cornetta in una mano e il tagliacarte nell'altra, si udì ansimare. Cercò di trattenere il fiato, riagganciando la cornetta il più silenziosamente possibile, e strinse il tagliacarte con entrambe le mani.
"Avanti... non te ne accorgerai nemmeno. Se mi lasci prendere la mira per bene, ci vorrà solo un colpo. Quello schifoso del tuo amante, è stato uno sciocco. Probabilmente è già morto, ma se fosse stato fermo, non avrebbe sofferto. Poi è arrivata quella puttana..."
Jack chiuse gli occhi, deglutì. Oddio, Ennis. Cassie. Ennis... oddio. Oddio. Oddio. Oddio...
"Sai perché sono qui?" disse Thompson. Jack lo sentì armeggiare con il fucile: lo stava ricaricando. No, cazzo, no. "Quel giorno, all'emporio. Qualcuno deve averci sentito. E le voci corrono."
Jack, sempre in punta dei piedi, trattenendo il respiro, ritornò alla porta. Doveva tentare il tutto per tutto, e fare più in fretta che poteva. 
"E mia moglie ha saputo", seguitò Thompson, "E ha chiesto il divorzio e mi ha cacciato di casa. E ora, io sono rovinato. Il ristorante lo gestivo io, ma i locali li aveva pagati lei, e ora devo risarcire il debito, o chiudere baracca. Così, ho pensato... prima di andarmene da questa fottuta città, dovrò pure togliermi la soddisfazione di regolare i conti, o no?"
I passi di Thompson si avvicinavano.
Continua a parlare. Dai, continua a parlare. Continua a parlare e a camminare, vieni qui, avanti...
"Se vuoi sapere chi vi ha ammazzato il cane, sono stato io", proseguì Thompson. "Non potevo rischiare che si mettesse ad abbaiare, rovinando tutta la sorpresa."
Kes. Lo sapevo. Bastardo, me la pagherai anche per questo.
"E' stato facile. Era buona, non ha neanche ringhiato, quando mi ha visto attraverso la staccionata. Le ho gettato un pezzo di carne in cui avevo iniettato della stricnina... se l'è mangiato con un gusto che non ti dico. Non era un granché come cane da guardia."
Doveva trovarsi proprio dietro la porta, a cinquanta centimetri in linea d'aria da Jack, o anche meno. Ora o mai più: Jack aprì la porta di pesante mogano proprio in faccia a Thompson, che picchiò la fronte e barcollò all'indietro, incespicando e finendo a terra. Il Winchester gli sfuggì di mano e cadde, e partì un colpo che si schiantò contro il soffitto del corridoio. Con un grido, Jack saltò addosso a Thompson, mollando un fendente che andò a vuoto, e ruzzolarono sul pavimento, lottando furiosamente per il possesso della carabina, per il possesso del tagliacarte.
Thompson era massiccio, forte e pesante. E sicuramente più lucido di Jack, che non aveva altro in testa che raggiungere Ennis e Cassie e chiamare aiuto. Jack riuscì a ferirlo all'avambraccio sinistro,  ma a un certo punto si ritrovò sdraiato sulla schiena, entrambi i polsi bloccati dalle mani più grandi di Thompson, che gli stava a cavalcioni sul torace, quasi impedendogli di respirare con la grossa pancia.
"Molla quel coso, maledetto finocchio succhiacazzi!" gridò Thompson.
Per tutta risposta, Jack gli sputò in faccia, divincolandosi e dibattendosi con tutte le proprie forze, cercando di tirargli un calcio o una ginocchiata, qualunque cosa pur di riuscire a togliersi da lì sotto.
"Mi hai rovinato, Twist", esclamò Thompson, stringendogli dolorosamente i polsi, inchiodandogli a terra le braccia. "Me la pagherai."
"Non sono stato io a rovinarti, maledetto", replicò Jack
. "La colpa è tua, che sei un figlio di puttana che va in giro a tradire la moglie e mettere incinte le amanti."
"Invece sei stato tu. Tu e quel merdoso del tuo amante, e quella puttana di una troia."
"Non chiamarli così!"
Thompson gli sbatté violentemente il polso destro sul pavimento, e dopo altri quattro di quei colpi, sottolineati da Thompson che gridava "Molla! Quel! Coso! Dannazione!", senza volerlo Jack aprì la mano. Il tagliacarte finì sul parquet, rimbalzando, e scivolò dall'altra parte del corridoio.
Troppo lontano, irraggiungibile, come il fucile.
Thompson lasciò i polsi di Jack per afferrargli il collo e stringerlo con forza, pressandolo contro il pavimento, i pollici sulla carotide.
Voleva strangolarlo.
Jack prese i polsi di Thompson e cercò di tirargli via le mani, ma era inutile: più Thompson stringeva, più Jack perdeva lucidità.
Non riusciva più a respirare, sentiva la gola ridotta a una fessura stretta come la cruna di un ago, e la vista gli si stava oscurando. 
Com'è la storia? pensò, incongruamente, chiudendo gli occhi. E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago...
Udì un singulto soffocato, strozzato, e capì di essere stato lui stesso ad emetterlo. E' finita. Ennis, Cassie, mi dispiace... se Ennis fosse stato al mio posto, non si sarebbe certo fatto buttare giù così.
Poi, udì uno sparo - il 30.30 di Thompson. Thompson gridò di dolore, si prese la spalla destra e si girò, lasciando libera la gola e la visuale di Jack, che riaprì gli occhi. Cassie era dietro di loro, reggeva il fucile con mani tremanti e perdeva sangue da una ferita proprio sotto al seno destro.
Cristo, che le hai fatto, razza di bastardo? A lei, e al piccolo?
"Brutta puttana", gemette Thompson, lasciando Jack e tirandosi in piedi. Jack ruzzolò a pancia in giù tenendosi la gola, ansimando convulsamente in cerca di aria. Thompson si gettò verso Cassie, che sparò di nuovo, quasi a bruciapelo.
Thompson rovinò a terra, con una mano sul petto.
E anche Cassie lasciò cadere il fucile ai suoi piedi e si accasciò sul pavimento, con le mani sulla pancia.
Jack riuscì a mettersi in ginocchio, tossendo, si trascinò da lei carponi, la scosse delicatamente per una spalla, rantolando: "Cassie... C-Cassie, come..."
"Jack..." lei era in ginocchio, ripiegata su sé stessa, la testa bassa, la faccia nascosta dai capelli che le spiovevano in giù, le mani sul ventre. "Jack, c-corri..."
"Cosa..."
"Jack, vai da Ennis", gemette lei, rialzando la testa, gli occhi impauriti, confusi. "V-vai da Ennis, corri. Io chiamo il pronto soccorso."
"Cassie, ma sei..."
"Mi ha presa solo di striscio. Corri da lui."
"Non ti lascio qui da sola!"
"Corri da Ennis, maledizione!"
"Va bene", Jack si alzò e, su gambe rigide come tronchi, tornò nel portico.
Ennis non aveva cambiato posizione. Se ne stava sempre riverso sul pavimento, bocconi, nel suo sangue, che era colato sui gradini, raggiungendo infine l'erba. Non sembrava ferito alle braccia, alle gambe o alla schiena, e nemmeno alla testa. Chissà dove l'aveva colpito Thompson. Sul davanti, di certo. E quante volte era riuscito a colpirlo? Una o due?
"Ennis", chiamò, inginocchiandoglisi vicino, posandogli una mano su una spalla, resistendo alla tentazione di girarlo a pancia in su: non si muovono i feriti. "Ennis..."
Gli occhi di Ennis erano chiusi, la sua espressione sofferente. Un rivolo di sangue gli usciva da un angolo della bocca. Il suo respiro era un sibilo.
Ma respirava. Dio, ti ringrazio. 
"Ennis, amore..." Jack si rese conto solo ora che la propria voce era ridotta a un sussurro roco, parlare gli faceva male alla gola, l'aria gli bruciava i polmoni. Thompson gli aveva fatto un bel lavoretto, ma c'era anche qualcos'altro, qualcosa di diverso ma ugualmente soffocante. "Ennis... rispondi, Ennis..."
Ennis non rispose, non si mosse.
Da dentro arrivava la voce di Cassie, al telefono prima con l'operatore del pronto soccorso, poi con gli Hamilton. Dopo poco, Cassie smise di parlare: doveva avere riattaccato. Qualche secondo ancora, e Jack la vide, appoggiata con una spalla allo stipite della porta, una mano sul ventre, l'altra sulla ferita, lo sguardo terrorizzato di un cervo di fronte a un'automobile in corsa, di notte. Anche la sua voce uscì rotta: "Jack..."
"Cassie, che cosa..."
"Jack, aiuto... io... credo di avere rotto le membrane... e sto sanguinando..."
"Cosa?" Jack guardò in basso, e fu come se qualcuno gli avesse nuovamente serrato la gola, questa volta con una morsa di ferro anziché con le mani. Altro sangue 
colava copioso lungo le gambe di Cassie, arrivandole ai piedi e raccogliendosi in una pozza sul pavimento.
"Aiutami, Jack", mormorò lei, accasciandosi a terra nella stessa posizione di prima, iniziando a singhiozzare. "Non è ancora il momento... oddio, il mio bambino..."
Jack non era esperto di parti, ma ne sapeva a sufficienza per capire che Cassie non aveva rotto le membrane: o almeno, non solo. Per perdere sangue in quel modo, doveva esserlesi rotto qualcosa dentro, e non ci voleva un medico per indovinare che si trattava di una faccenda poco simpatica.
Le gattonò vicino, le cinse le spalle con un braccio, cercando di mantenere il tono fermo, nonostante la nausea che lo stava assalendo. Non era il momento di abbandonarsi all'emotività. "Stai tranquilla, Cassie, andrà tutto bene. Hai chiamato il pronto soccorso, vero?"
"S-sì... mi hanno detto di stare calma, che invieranno un'ambulanza al più presto, e chiameranno anche la polizia..."
"Brava. Sei stata bravissima."
"Poi ho chiamato anche Jan", aggiunse lei, scossa dai singhiozzi. "Ha detto che arriverà subito, con Matt. Poi ho avuto questa strana sensazione... oddio, Jack, cos'è successo al mio bambino? Ho perso le acque... s
to sanguinando... n-non è normale, non così, al settimo mese..."
"Niente, vedrai che non è successo niente. Tranquilla, stai tranquilla. I bimbi nascono spesso prima del termine, ma poi diventano grandi e forti più degli altri... hai presente il figlio dei Barlow? Lui..."
"Ed Ennis?" l'interruppe Cassie, aggrappandosi alle sue spalle, incapace di rivolgere lo sguardo al lungo corpo inerte, sdraiato sul pavimento a pochi passi da loro. "Come sta Ennis?"
"Non lo so", disse Jack, cercando di tenere ferma la voce. Poi, come se quello spiegasse tutto, aggiunse: "Respira."
"Non l'hai mosso, vero? Al pronto soccorso, si sono raccomandati..."
"No, non l'ho mosso."
"Andrà tutto bene", disse Cassie, guardandolo implorante, le lacrime che le rigavano le guance. "Vero, Jack?"
"Sì, Cassie", rispose lui, stringendola a sé e chiudendo gli occhi e pregando Dio, se c'era e se li stava guardando, che la sua affermazione non si rivelasse una bugia."Andrà tutto bene."


George Thompson venne dichiarato deceduto, e trasportato direttamente all'obitorio dell'ospedale di Casper per l'autopsia. Cassie ed Ennis, invece, vennero portati al pronto soccorso, la prima con un distacco di placenta e una pallottola proprio sopra al fegato, il secondo con una pallottola nel polmone sinistro, e una a due centimetri dall'aorta. Entrambi avevano bisogno di un intervento chirurgico d'urgenza, e Cassie in particolare necessitava di un taglio cesareo per estrarre il feto prima che soffrisse troppo, sebbene non fosse ancora giunto il momento per il parto.
Ennis non riprese conoscenza, prima di essere operato.
La sala operatoria del reparto di chirurgia era in un'ala dell'ospedale diversa da quella usata nel reparto maternità. Janice si offrì di attendere per Cassie, mentre Jack restava da Ennis insieme a Matt. Jack protestò debolmente, ma Janice tagliò corto: "Tanto, non c'è molto da fare. Si può solo attendere. E per qualsiasi novità, mi chiamerai, come io verrò a chiamare te."
"D'accordo."
"Prima, però, bisogna avvertire K.E.."
K.E.. Jack non ci aveva pensato. Deglutì, sentendo la gola secca.
"Se vuoi lo faccio io", si offrì Jan.
"No, posso farlo io."
Lo chiamò dal telefono a gettoni vicino alla porta d'ingresso, sperando che rispondesse Katherine. Invece fu proprio lui a rispondere.
"Pronto, del Mar?"
"K.E.? Ciao, sono Jack... Jack Twist."
"Che vuoi?" in meno di un attimo, il tono di K.E. da gioviale si era fatto ostile.
"Ennis è..." Jack incespicò, non riusciva a trovare le parole. Si portò una mano al collo, leccandosi le labbra aride. Aveva la gola terribilmente asciutta, la lingua secca, e non era colpa di Thompson. "E' in ospedale... gli hanno sparato, e..."
"Io vi avevo avvertiti", replicò K.E., duro.
"Non è stato a causa di quello", ribatté Jack, sentendo la collera infiammargli la pancia. Non se la sentiva di affrontare una litigata con il fratello di Ennis, non ora, ma se K.E. avesse continuato con quelle insinuazioni, non sarebbe riuscito ad evitarlo.
"E per cosa, allora?"
"E' complicato da spiegare. Senti, perché tu e Kat non venite qui all'ospedale di Casper e..."
"Non ci penso nemmeno. Quello non è più mio fratello, quel che gli hanno fatto non mi riguarda."
"K.E...." tentò Jack, ma Janice gli prese la cornetta dalle mani: "Stammi bene a sentire, razza di stupido", esordì, le guance infiammate dalla rabbia, gli occhi scintillanti. "Forse Jack non si è spiegato bene. Ennis è grave, ha un proiettile in un polmone e uno gli ha mancato il cuore per un soffio, e se non corri qua in fretta, e voglio dire subito immediatamente, forse non avrai più l'occasione di parlargli."
A quelle parole, Jack sentì gelare lo stomaco, che prima aveva sentito ribollire.
K.E. replicò qualcosa che Jack non riuscì ad afferrare, ma il tono sembrava ammorbidito. "Un pazzo gli ha sparato", spiegò Janice, e Jack si chiese come potesse restare così calma parlando del fratello minore che stava morendo. "E la ragione sembra essere stata che lui e Jack avevano dato ospitalità a una ragazza madre che quel bastardo aveva messo incinta."
La voce di K.E. uscì dalla cornetta: "Ma allora quei due se le cercano!"
"Smettila di fare lo stronzo, K.E.", l'apostrofò Jan, dura, la voce vibrante dalla collera. "Sai benissimo che non è così."
Di nuovo K.E. disse qualcosa. "Jack sta bene", rispose Janice. "Potrai parlargli non appena arriverete. Su, cacciate i ragazzini con una baby sitter e correte qui." Riagganciò bruscamente e sorrise, con la bocca ma non con gli occhi. "Visto? Con la dolcezza si ottiene tutto."
"Jan, grazie."
Lei gli passò un braccio intorno al collo, lo strinse e lo baciò sulla fronte e gli sussurrò: "Coraggio", poi lo lasciò e si avviò verso il reparto maternità.
Jack si sedette sulla scomoda panca della sala d'attesa. Sentiva ancora la gola gonfia, e si accorse che gli doleva il braccio destro, colpa dello sforzo che aveva compiuto nella lotta con Thompson. Dopo che Hackman glielo aveva schiantato, non era più tornato come prima: doveva fare attenzione al freddo e agli sforzi, e l'ortopedico l'aveva avvisato che entro una decina d'anni, se non meno, avrebbe iniziato a soffrire di artrite.
Si strinse le braccia intorno al corpo, scosso dai brividi, quasi battendo i denti. Avrebbe avuto tutto il tempo per cambiarsi la vecchia maglietta a maniche lunghe e i jeans sdruciti che aveva indossato quella sera dopo la doccia, e magari portarsi un giubbotto contro l'aria condizionata che usavano negli ospedali (che razza di idea, accendere l'aria condizionata in aprile), ma non ci aveva proprio pensato: aveva dimenticato anche il cappello, e calzato gli stivali solo perché era stato Matt a ricordarglielo. Infilò le mani nelle maniche, sfregandosi gli avambracci, e ripensò a quando, sulla Brokeback, si lagnava per il freddo, ed Ennis lo chiamava lamentone, ma poi lo abbracciava e lo stringeva a sé, riscaldandolo con il calore del proprio corpo.
Come stai, Ennis?
Cosa ti stanno facendo? Sei ancora vivo, vero?
Resisti. Ho bisogno di te. Ti prego, resisti. Non mollare, non andartene. Ti prego.
Torna da me.
Ti prego.
Ti prego. Ti prego. Ti prego.
"Ti senti bene?" domandò Matt, in piedi davanti a lui.
"No", rispose Jack. "Ho un freddo boia, sembra di stare in Siberia. Almeno di notte, potrebbero abbassare l'aria condizionata."
Matt si sfilò il cardigan: "Prendi questo."
"No, Matt, davvero, io..."
"Zitto e mettitelo", Matt lo avvolse nella giacca, sorridente ma fermo. "Io sto bene anche senza. L'aria condizionata è spenta, la tua deve essere solo un pò di tensione nervosa."
Jack tacque, stringendosi imbarazzato i lembi del cardigan intorno al corpo. Matt lo stava trattando come un ragazzino. Poteva permetterselo, c'erano dieci anni di differenza fra loro, ma la cosa lo metteva a disagio. "Grazie."
"E di che?" Matt gli batté una spalla, scrollandolo. "Se mio cognato passa un brutto momento, puoi stare tranquillo che io ci sono."

Dopo altre tre ore, quando Matt era andato al bar a prendere due caffè, per sé e per Jack, ed Ennis non era ancora uscito dalla sala operatoria, tornò Janice. Aveva sempre i capelli sciolti e scompigliati, l'aria distrutta ma composta. Gli si parò davanti, e Jack sollevò la testa e la guardò, senza alzarsi dalla panca. Non sapeva quanto tempo fosse effettivamente passato, era stato lì a tremare nonostante la giacca di Matt, la mente che turbinava come una trottola impazzita, sentendosi rintronato e confuso, cercando di radunare i pensieri senza riuscirci.
"Jack, adesso devi farti coraggio", disse Jan, e Jack capì immediatamente cos'era successo a Cassie.
"No."
"Cassie se n'è andata. Ha avuto un'emorragia..."
"No."
"Hanno provato a farle un'isterectomia... poi una trasfusione... ma..."
"No. N-n-no."
"Jack", Janice si sedette accanto a lui, gli carezzò una spalla. "Ascolta."
Lui si prese la faccia tra le mani. Si sentiva troppo esausto anche per piangere.
"La bambina è viva. E' sopravvissuta."
"E' prematura."
"Sì. Ma può farcela. E' sana e forte. E Cassie mi ha parlato, prima di andarsene. Vorrebbe che foste tu ed Ennis a crescerla."
"Non posso", mormorò lui, la voce soffocata dalle mani. "Non ce la faccio."
"Sì che ce la fai."
"Non ce la farò mai. Non ne so niente di neonati."
"Ti aiuterò io."
"Cosa penserà la gente? Un'orfana bastarda allevata da due finocchi..."
"Non mi pareva che ti fosse mai importato di quello che pensava la gente", sentenziò lei. "Altrimenti, non saresti qui."
"No", disse lui. "Finché c'è Ennis, finché posso stare con lui, il resto non mi tocca. Ma se Ennis muore..."
Lei lo prese per le spalle, lo scrollò finché lui non la guardò negli occhi, poi disse: "Non dirlo neanche per scherzo."
Jack sentì qualcosa che gli si rompeva dentro, e prima che potesse trattenersi, scoppiò in singhiozzi. Temette che Jan, dura com'era di solito, l'avrebbe schiaffeggiato, o almeno l'avrebbe scosso di nuovo, ma lei lo trattenne per le spalle e lo tirò a sé, stringendolo forte. "Vieni qui", disse, dolcemente.
Jack si aggrappò a lei, piangendo, e Jan lo tenne stretto e gli carezzò la testa, come una sorella, come una madre.

Ennis uscì dalla sala operatoria dopo altre quattro ore, sdraiato su di una lettiga, intubato e incosciente, e venne trasportato in rianimazione. Il chirurgo spiegò che l'operazione era andata bene, ma la gravità delle ferite era tale che la prognosi non poteva essere sciolta. Ennis era tenuto in coma farmacologico, e le ore seguenti sarebbero state decisive per capire se ce l'avrebbe fatta o meno.
"Cercate di non farvi illusioni", ribadì il chirurgo. "Abbiamo fatto tutto il possibile, e adesso, l'unica cosa da fare è attendere."
Fuori, era una bella giornata di sole, tersa e serena, il sole filtrava dai vetri del corridoio, riscaldando l'ambiente. Una bella giornata di primavera. Cassie non l'avrebbe mai vista,
(Dio, Cassie... ma com'è potuto succedere?)
non avrebbe mai più visto giornate come quelle. La sua bambina... forse lei sarebbe vissuta abbastanza, sarebbe cresciuta e ne avrebbe viste molte.
Ed Ennis?
Non si poteva morire, in una giornata come quella. Non era giusto.
Ennis, resisti, non mollare. Non andartene anche tu.
Ti prego.
Ti prego, amore mio.
"Possiamo vederlo?" domandò Jack.
"Siete della famiglia?"
Jan scambiò uno sguardo con il marito. Poi si rivolse al chirurgo, accennando a Jack: "Sì, noi due", rispose, calma.
"Solo per un minuto, mi raccomando."

Entrarono. C'erano otto letti, quattro a destra, quattro a sinistra, separati da tende. Ennis era nel terzo letto a sinistra, sdraiato sulla schiena, fasciato fino al petto, pallidissimo, gli occhi chiusi. Dei cavi che sbucavano da sotto la coperta lo collegavano a un apparecchio con due piccoli monitor: la pressione sanguigna e i battiti del cuore. Un tubo di plastica gli usciva dalla bocca, fissato con quello che sembrava nastro adesivo. Il tubo arrivava ad un apparecchio che sembrava una specie di pompa, che gli soffiava l'aria nei polmoni. In un polso gli avevano conficcato l'ago di una flebo, nell'altro il tubo di un catetere. Il suo corpo forte e vigoroso sembrava così inerte, così vulnerabile, che Jack dovette appoggiarsi alla pediera del letto: se avesse tentato di restare in piedi senza sostegno, temeva che sarebbe rovinato in ginocchio.
Janice raggiunse il letto e prese la mano del fratello. Non parlò, ma iniziò a cantare, a bassa voce, poco più di un sussurro:
"Go to sleep, may your sweet dreams come true, Just lay back in my arms for one more night..."
Jack aveva già sentito quella melodia. Non le parole, quelle no: Ennis non le ricordava.
Era la ninnananna che gli aveva cantato quella sera che si era tagliato la mano con la lattina di zuppa, quasi dieci anni prima, quando avevano lavorato insieme sulla Brokeback. Quella sera che l'aveva medicato e aveva cucinato per lui, e l'aveva abbracciato da dietro, cullandolo, le loro ombre e i battiti dei loro cuori e i loro respiri fusi come in una sola persona, e prima di andarsene gli aveva detto, per la prima volta, probabilmente senza accorgersene, Buonanotte, piccolo.
Una delle prime volte che si era lasciato andare ai propri sentimenti, alle proprie emozioni.
"I've this crazy old notion that calls me sometimes, Saying this one's the love of our lives",
cantò Janice, con il viso sereno e la voce aspra e ferma e le lacrime che le traboccavano dalle palpebre e le scendevano sulle guance in strisce lucide. "'Cause I know a love that will never grow old, And I know a love that will never grow old..."
Jack non conosceva le parole di quella nenia, ma conosceva la melodia. Iniziò a cantare con Janice, anche il suo appena un bisbiglio, raggiungendo Ennis dall'altra parte del letto e prendendogli l'altra mano fra le proprie.
"When you wake up the world may have changed, But trust in me, I'll never falter or fail. Just the smile in your eyes, it can light up the night, And your laughter's like wind in my sails..."  
Terminarono la canzone, e rimasero lì, in piedi, al capezzale di Ennis, Jan alla sua sinistra, Jack alla sua destra, tenendogli le mani, in silenzio. La mente di Jack non avrebbe voluto starsene zitta come la sua bocca, avrebbe voluto ricordare i momenti belli, e quelli meno belli, che aveva trascorso con Ennis in quei dieci anni: ma Jack si concentrò nello sforzo di farla tacere. Accidenti, Ennis non era morto, avrebbe trascorso con lui altri momenti belli, e altri momenti meno belli. Avrebbe condiviso con lui altre gioie e altri dolori, sarebbe stato con lui nella salute e nella malattia... finché morte non li avesse separati.
Ennis non era morto. No, non ancora.
Sarebbe sopravvissuto.

Dio, ti prego. Non portarmelo via.
Dopo una decina di minuti, un'infermiera si affacciò: "Signori? Mi dispiace, dovete andare."
Jan annuì. "Veniamo subito." poi guardò Ennis, si chinò su di lui e lo baciò sulla fronte, scostandogli i capelli. "Sogni d'oro, Ennie. A domani."
Jack sentì un nodo in gola. Carezzò la mano fredda di Ennis, si chinò sul suo viso e gli baciò l'angolo della bocca, infine mormorò: "Buonanotte, amore mio. Ti amo."
"Andiamo", disse Janice, e si avviò verso la porta asciugandosi gli occhi. Jack la raggiunse e lei gli passò un braccio intorno alla vita, per confortarlo e trarne conforto. Lui le passò un braccio intorno alle spalle. Era ora di farsi forza.
"Jan", mormorò. Si morse il labbro inferiore, incerto su come continuare. Se avesse detto quelle parole, non avrebbe potuto tornare indietro: era davvero ciò che voleva? "Io... vorrei vedere la bimba. Voglio conoscerla, dal momento che dovrò occuparmene. Mi accompagneresti?"
Lei lo guardò e sorrise. "Ma certo, Jack."


Settembre 1973

Forse C.J. aveva delle coliche intestinali, rifletté Jack: un pò di aria nei tubi, come diceva Jan. Non le era mai capitato, ma c'è sempre una prima volta.
Per calmare le coliche, Jan gli aveva consigliato un rimedio a suo dire infallibile: tanto valeva provare. Jack si posizionò quindi la piccola a pancia in giù sul braccio sinistro, carezzandole la schiena con la mano destra, e intonò la vecchia ninnananna che gli aveva cantato Ennis pur non ricordando le parole, che si era fatto insegnare da Janice: "
Go to sleep, may your sweet dreams come true...
Dopo che Jack ebbe cantato la nenia per due volte, la piccola a poco a poco iniziò a quietarsi, dapprima smettendo di agitare braccia e gambe, poi cessando di piangere, e anche il suo respiro si fece regolare, come se stesse per addormentarsi. Forse aveva davvero avuto delle coliche.
Jack continuò a cantare e a cullarla, rallegrandosi di avere trovato la soluzione.

Erano passati quasi cinque mesi dalla sera in cui Thompson si era presentato in casa loro dopo avere scavalcato la recinzione, armato del suo 30.30. Dopo una settimana di coma, e un'altra di degenza, in cui era rimasto intontito dai sedativi quasi quanto la prima, Ennis era finalmente stato dichiarato fuori pericolo, e dopo altri sette giorni aveva potuto lasciare l'ospedale, pallido e dimagrito. Cassandra Junior, invece - così aveva deciso di chiamarla Jack - aveva dovuto rimanere in incubatrice per un mese intero, poi in culla termica per altri quindici giorni, ma adesso era una bimba perfettamente sana, vitale e vivace, sebbene ancora leggermente sottopeso.
Nell'appartamento di Thompson, perquisito dalla polizia dopo l'accaduto, era stata trovata una lettera, in cui l'uomo spiegava esattamente cos'avrebbe voluto fare: vendicarsi di Jack, Ennis e Cassie uccidendoli, poi fare la stessa cosa con sua moglie e i tre figli, e infine scappare in Messico. La cosa era diventata ben presto di dominio pubblico, e Jack si era ritrovato il beniamino di Casper: il ragazzo generoso che aveva dato ospitalità a Cassie, ragazza madre disperata, l'amante sfortunato dell'uomo che si trovava in coma a causa di un pazzo fuori di testa, e l'innamorato coraggioso che aveva sfidato tutte le convenzioni pur di rimanere accanto all'uomo che amava.
Semplicemente ridicolo, aveva pensato Jack. Guarda cosa ci voleva, per fare ribaltare a certa gente il proprio modo di considerare le persone di cui in precedenza aveva sparlato. Che manica di bacchettoni ipocriti.

Non aveva potuto pensare la stessa cosa per K.E.: bacchettone forse, omofobico sicuramente, ma certo non ipocrita. Si era presentato il giorno successivo all'aggressione, scuro in viso, gli occhi cerchiati, in compagnia di Katherine. Kat aveva abbracciato Jack ed era scoppiata a piangere, mentre K.E. aveva mugugnato: "Sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di simile."
"Non è stato per quello che credi tu", aveva ribadito Jack, tenendo stretta Kat. "Se non credi a me, fattelo ripetere da tua sorella."
"Perché tu sei l'unico illeso, Twist?" aveva domandato K.E., con vivo risentimento.
"Smettila, K.E.", aveva detto Katherine. "Jack è vivo per miracolo. Quel bastardo ha tentato di strozzarlo", aveva posato una mano liscia e curata sul collo di Jack, segnato da ematomi blu e neri, che lo circondavano come una grossa collana, e aveva mormorato: "E ci è quasi riuscito, vedo."
Jack non sapeva cosa dire, si sentiva fuori posto, a disagio. Ennis combatteva fra la vita e la morte, e lui stava lì, in sala d'attesa, ad assistere ad un'assurda conversazione di cui era l'oggetto, incapace di intervenire o difendersi in alcun modo. Si era sentito quasi in colpa per essere l'unico illeso, per avere solo il labbro superiore spaccato, e delle tumefazioni sul collo e sui polsi.
Forse K.E. crede che me le sia procurate da solo, aveva pensato.
Ma K.E. si era avvicinato. "Non pensare che ti dica che mi dispiace", aveva dichiarato. "Disapprovo le scelte di mio fratello, ma avrei preferito cento volte che quel figlio di puttana avesse ammazzato te e non lui."
"Evviva la sincerità", aveva commentato Jack. "Ma se fossi in te, credo che penserei la stessa cosa."
"Non so se riuscirò mai ad accettarti di nuovo in casa mia, ora che so come stanno le cose fra te ed Ennis", aveva detto K.E.. "Credo che le cose non potranno tornare come prima, se anche Ennis sopravvive..." la voce gli si era spezzata sull'ultima sillaba, e gli occhi scuri gli si erano colmati di lacrime. Aveva chinato la testa e si era portato la mano destra agli occhi, immobile nel resto del corpo. "Se... s-se riesce a..."
Jack aveva provato pena per lui. Aveva allungato una mano, gli aveva raggiunto una spalla, ma K.E. l'aveva respinto, duro: "Non mi toccare. Non mi toccare
ora
. Se Ennis ce la fa... forse... ma ora, lasciami in pace."
Jack non ci aveva più provato. Aveva fatto un cenno con la testa a Kat, per esortarla a confortare il marito; lei però aveva scosso il capo, e l'aveva lasciato a ricomporsi da solo.
K.E. non aveva più rivolto la parola a Jack, comportandosi come se questi non esistesse, e
quando le condizioni di Ennis erano migliorate, si era comportato freddamente anche con il fratello, malgrado Jack sapesse bene quanto era stato in pena per lui.
Forse, aveva detto K.E.. Forse, presto o tardi, prima o poi. Più poi che prima, ma spesso la vita va in questo modo, e non ci si può fare niente, se non attendere.
Jack comunque aveva scoperto di non riuscire a prendersela, né per la reazione ipocrita della gente di Casper, né per quella fin troppo schietta di K.E.. In fondo, sarebbe potuta andare peggio: Cassie era morta, ed era dura da digerire, ma Ennis era vivo e stava bene, e c'era C.J. che riempiva le loro già piene giornate.
E se era per quello, anche le notti.
Avrebbe potuto morire anche C.J., pensava Jack, quando il dolore per la morte di Cassie si faceva più acuto. Avrebbe potuto morire anche Ennis. E allora, che ne sarebbe stato di me?
Inizialmente, Ennis si era dichiarato contrario nel tenere con loro la piccola, adducendo le stesse ragioni che per primo Jack aveva opposto a Janice: due finocchi che si occupano di una bastarda, cos'avrebbe pensato la gente? E la bimba, quanti affronti e quanti pettegolezzi avrebbe dovuto sopportare?
Ma poi, Jack era riuscito a convincerlo. Non che Ennis avesse avuto bisogno di una grande opera di convinzione: gli era bastato che Jack lo portasse nel reparto maternità, spingendolo sulla sedia a rotelle, a vedere la neonata, tutta infagottata nell'incubatrice, una flebo nel minuscolo polso, un'altra che usciva da sotto al berrettino, infilata nel cuoio capelluto, la pelle sottile e rossa, quasi come se fosse stata scorticata, gli occhi chiusi, le stesse ciglia lunghe di Cassie.
"Al diavolo la gente", aveva sbuffato. "Non hai detto che siamo diventati i beniamini di Casper?"
"
Io lo sono diventato", aveva precisato Jack, sorridendo, e in cuor suo aveva esultato: Vittoria. "Tu sei quello che, poverino, è rimasto ferito."
"Poverina sarà tua sorella", l'aveva apostrofato Ennis, tirandogli un leggero pugno sul braccio.

"E questa come fai a conoscerla?" la voce di Ennis. Ed eccolo, appoggiato con il gomito allo stipite della porta. Era in pigiama, i capelli scompigliati, a piedi nudi.
"Scusa, ti abbiamo svegliato", disse Jack, voltandosi verso di lui.
Dal giorno della sua dimissione dall'ospedale, il viso di Ennis aveva ripreso colore, malgrado non avesse ancora recuperato tutto il peso perduto. Stava meglio, ma era ancora convalescente e avrebbe avuto bisogno di riposare; tuttavia, con la piccola C.J. in casa, la cosa era pressoché impossibile.
"Non fa niente", disse Ennis. "Come fai a conoscere quella ninnananna? Non dirmi che tua madre la cantava anche a te."
"Assolutamente no."
"E allora, chi te l'ha insegnata?"
"Segreto, cowboy", rispose Jack, con un sorriso malizioso.
Ennis gli scompigliò i capelli: "Non dovrebbero esserci segreti fra noi due."
Gli andò dietro la schiena e
l'abbracciò, passandogli un braccio intorno al collo e uno intorno alla vita, proprio come aveva fatto più di dieci anni prima sulla Brokeback, solo che questa volta non erano più due ventenni confusi e impauriti e a un tempo esaltati per quello che stavano vivendo, per quello che stava succedendo tra loro: erano trentenni, in casa propria, avevano una bambina e, malgrado tutte le difficoltà, erano riusciti a costruirsi una bella vita, una vita che valeva la pena vivere.
"I miei due piccoli", disse Ennis, e continuò a intonare la melodia della ninnananna con la sua voce bassa, quasi baritonale, proprio da dove Jack aveva interrotto, cullando insieme Jack e C.J..
Jack
chiuse gli occhi, strinse ancora di più a sé C.J. inspirando il suo buon odore di latte, di pulito e di nuovo, si abbandonò fra le braccia di Ennis, e dopo poco si unì a lui cantando sottovoce: "Lean on me, let our hearts beat in time, Feel strength from the hands that have held you so long. Who cares where we go on this rutted old road, In a world that may say that we're wrong..."
Ascoltando le parole, Ennis dovette ricordare qualcosa, perché alla fine si unì a Jack per il ritornello: "'
Cause I know a love that will never grow old, And I know a love that will never grow old."
Jack pensò che poteva anche essere un finocchio, che allevava un'orfana bastarda in compagnia del suo amante, ma era un finocchio dannatamente felice e fortunato. Finché Ennis fosse stato insieme a lui, avrebbe potuto superare qualsiasi difficoltà, e tutto sarebbe andato bene.



Nota: Alla fine, sono riuscita a mettere giù questo racconto, che mi girava in testa dalla settimana prima di partorire - il mio Piccolo Principe (o Piccolo Terremoto?) è nato due settimane prima del termine, ormai lo scodellavo nel corridoio dell'ospedale. A dire la verità, avevo questa storia praticamente pronta in testa (c
erte scene le avevo in mente già da Somewhere, come quella in cui Kat balla con Jack, mentre K.E. discute con Ennis, e quella della sfuriata dei "nostri" a causa di Jimmy Maddocks), ma mi mancava il tempo per scriverla. Per quanto soddisfacente, avere a che fare con un neonato è davvero impegnativo, soprattutto quando sei arrivata alla fine della gravidanza mentalmente esausta e fisicamente deperita, e il primo mese dopo il parto ti servirebbe per recuperare, mentre invece devi badare a un Piccolo Parassita (no, scherzo, io sono pazza del mio Tommy: però un neonato è davvero un vampirello)!...

Credits: "Leave out all the rest" è una canzone dei Linkin Park; l'ho scelta come titolo perché mi ricorda Tommaso, ed è a lui che voglio dedicare questo racconto. Le altre canzoni che ho usato sono tutte della colonna sonora di "I segreti di Brokeback Mountain"; in particolare, "A love that will never grow old", che ho usato come titolo per questo terzo capitolo e ho fatto cantare a Janice, Ennis e Jack come se si trattasse di una vecchia ninnananna, è di Emmylou Harris.   

Disclaimer: I personaggi di 
Jack Twist e i suoi genitori, Ennis del Mar e i suoi genitori e fratelli, Cassie Cartwright e Linda Higgins, appartengono ad Annie Proulx, così come il Wolf's Ear. 
Se qualcuno riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua proprietà, mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non si offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


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