Océan

di Espen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione + Parte prima (Il cliente che trovava carino Jaime) ***
Capitolo 2: *** Le Visioni (de mort et de famille ) ***
Capitolo 3: *** Terza parte + epilogo ***



Capitolo 1
*** Prefazione + Parte prima (Il cliente che trovava carino Jaime) ***


Note autrice: questa è decisamente la storia più lunga che io abbia mai scritto.
Originariamente era stata pensata come one-shot, ma vista la sua lunghezza ho deciso di diverderla in tre parti. Fa parte delle mia serie "Organization Zero", ma è perfettamente leggibile singolarmente.E' ambientata circa dieci anni prima di “ The Tattoos of Angel” e vi sono alcuni personaggi in comune; per il resto è una storia completamente a parte. Tra l’altro questi protagonisti non compariranno nella long, seguito delle altre one-shot della serie, se non per un breve periodo, quindi la loro storia è praticamente iniziata e finita qui dentro.
 Ad essere onesti, ci sono delle cose che avrei voluto cambiare e approfondire, ma non voleva far diventare questa storia un’epopea. Infatti, soprattutto nel finale, mi sono vista costretta ad “accelerare” un po’ le cose.
Magari le cose che non sono riuscita ad analizzare meglio qui (come alcuni personaggi secondari della terza parte) lo farò in qualche spin-off, ma si vedrà.
Detto questo, vi lascio alla storia.
Spero non faccia troppo schifo (?)
Ice Angel
 
 Nota importante sull'ambientazione della fic: Il mondo in cui è ambientata la storia è parecchio futuristico, con tecnologie innovative, dai toni cyberpunk. Le nazioni esistono ancora, ma solo per “tradizione”, dato che tutto il potere economico, politico e sociale risiede nelle megalopoli. Esse sono divise in due parti: la Tall City, dove risiedono persone importanti, come governatori e capi d’azienda, e ricche; nella Slam City, dove è ambientata l’intera serie, regnano le associazioni malavitose e la maggior parte dei suoi abitanti sono poveri o svolgono lavori illegali.
Esistono gli Skills (di mia totale invenzione, come tutto il resto) che sono persone con poteri speciali, legati principalmente agli elementi naturali (fuoco, acqua, vento…) o a capacità “fisiche” (telecinesi, telepatia, chiaroveggenza…). Non si sa perché abbiano tali poteri, ma si stanno facendo numerose ricerche per scoprirlo. Un essere umano manifesta i suoi poteri di Skills intorno agli otto anni, ma non riesce a controllarli pienamente fino ai diciassette.
Esistono due tipi di Skills: quelli “naturali”, che hanno ereditato il loro potere perché appartenenti a una famiglia di Skills; mentre quelli “innaturali” c non hanno parenti Skills da cui aver potuto ereditare il potere, per cui non si sa esattamente come siano diventati così –l’ipotesi più convincente è che sia a causa dello sviluppo delle nuove energie che hanno avuto conseguenze sul clima e sulle persone.-. Non vi sono differenze fra naturali e innaturali, se non che i primi riescono, anche grazie ai consigli e agli allenamenti dei propri famigliari, a controllare meglio il propri poteri.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Océan
 
 
 


Prefazione.
Soliloquio della puttana dagli occhi color del mare
 
Fra tutti gli animali, l’essere umano è quello più crudele
 
Ogni tanto gli tornava in mente quella frase; non ricordava dove l’avesse sentita, e ogni volta gli sembrava sempre più giusta. Sebbene gli umani si ritenessero superiori agli animali ne avevo le medesime inclinazioni.
Lui, la sua vita, ne era una prova vivente.
All’interno del Rugiada, uno dei bordelli più famosi della Slam City, era Océan: la puttana dagli occhi del colore del mare e l’ombretto blu scuro. Gli esseri umani andavano da lui per sfogare i propri istinti, come le bestie.
In fondo, si ripeteva, gli uomini si sopravvalutano troppo.
 
Lavorava al bordello da sei anni ed era uno dei più richiesti. Alcuni suoi clienti gli dicevano che aveva degli occhi meravigliosi, degni del soprannome che portava.
Jaime, in realtà, li odiava. Ogni volta che si guardava nello specchio sporco della lurida stanza in cui viveva, rivedeva il suo sguardo e si sentiva terribilmente sudicio.
Ma non poteva permettersi di piangere o si sarebbe sciolto il trucco, la maschera dell’ammaliante Océan; per cui finiva di truccarsi e scendeva al piano di sotto, dove c’era il pub, alla ricerca di qualche ricco cliente che l’avrebbe usato come strumento per soddisfare il proprio piacere.
Era facile, in fondo: uno sguardo ammiccante, un sorriso seducente e un balletto volgare.
Era tutta una recita e lui doveva essere un grande attore, visto quant’era richiesto.
In quei momenti doveva interpretare la puttana dagli occhi color del mare e far finta che lui, la vita che non era riuscito a salvare, non fosse mai esistito.
Jaime, in realtà, odiava davvero Océan.
 
 
 
 
Parte prima.
Il cliente che trovava carino Jaime.
 
Jaime aveva legato con poche persone all’interno del Rugiada.
Una di queste era Yana Polanski, la prostituta russa che lavorava nel bordello da vent’anni. Aveva quasi saldato il suo debito e, diceva, avrebbe aperto uno studio di tatuaggi insieme al figlio, Nikolaj.
Yana era una donna allegra e gentile che trasmetteva a Jaime tranquillità e sicurezza, riuscendo a scalfire il muro di cinismo e odio che si era costruito attorno.
Poi c’era Storm, o meglio Micheal, che si tingeva i capelli di viola e si truccava anche quando non lavorava.
Era stato lui a insegnare ad Océan tutto quello che bisognava sapere sul campo del sesso ed era colui con cui aveva perso la verginità.
Forse Micheal era per Jaime quanto di più vicino a un migliore amico, forse per questo aveva deciso di raccontargli di lui e della sua vita in Francia.
Oltre quelle due amicizie, Jaime non aveva nessun altro rapporto umano all’interno o all’esterno del Rugiada.
Questo finché non era comparso Tajo Iglesias.
 
La prima volta che lo aveva incontrato, lo aveva trattato come un normale cliente. Niente di lui lo aveva particolarmente colpito: il suo viso non era tra i più belli che aveva visto e non aveva segni particolari, come cicatrici o altre cose che avrebbero potuto impressionarlo.
Un volto anonimo, con i capelli castano-rossicio spettinati  e gli occhi di un normalissimo verde.
Lo aveva sedotto solo perché Storm glielo aveva indicato, affermando che apparteneva a un clan molto ricco, come era già successo altre volte in passato.
Era andato tutto come al solito: quel ragazzo si era slacciato i pantaloni, prendendosi quanto voleva e poi se n’era andato, lasciando le banconote sul comodino accanto al letto.
Non era stato niente di speciale, per cui Océan se lo dimenticò dopo una ventina di minuti, come aveva fatto con tutti i clienti precedenti.
 
Per questo la seconda volta che si incontrarono, Jaime non fece nemmeno caso alla sua presenza. Tajo, invece, lo guardò per tutto il tempo.
All’inizio non lo aveva riconosciuto, con il viso pulito dal trucco pesante, ma quegli occhi, blu come le profondità di quell’oceano che avrebbe voluto disperatamente raggiungere, non poteva dimenticarli.
Era seduto a un tavolo poco distante da lui, sorseggiava un drink verde, mentre parlava con un ragazzo, un suo collega probabilmente, dato che gli era famigliare. Aveva un portamento elegante, con le gambe accavallate e il viso appoggiato a una mano, l’altra mescolava la bevanda con la cannuccia.
Era davvero bello Océan senza tutti quei glitter e ombretti sul volto, sembrava più vero e splendente, una di quelle bellezze naturali, come in un dipinto perfetto.
E, senza nemmeno accorgersene, rimase a osservarlo per tutto il pomeriggio.
 
-Sai, sei più bello senza trucco!
Aveva deciso di farglielo notare, quella notte. Per questo dopo  l’amplesso non se n’era andato subito, ma era rimasto su quel letto che odorava di sesso e sudore, ancora nudo fra le lenzuola leggere.
Ocèan gli rivolse un’occhiata confusa, mentre si alzava per prendere la biancheria e il ragazzo sentì di dare una minima spiegazione.
-Ti ho visto al Meteor, insieme al tuo amico, questo pomeriggio. Volevo solo dirti che sei più carino senza ombretti o cosmetici strani a coprirti il viso.
Dopo di che gli sorrise, un sorriso vero, non languido o malizioso com’era solito vedere sul volto dei clienti, e, dopo essersi rivestito, se ne andò in silenzio.
Jaime, per quel lasso di tempo, era rimasto immobile, gli occhi spalancati e le mani ancora sui passanti degli shorts.
Nessuno gli aveva mai detto che era carino.
I suoi clienti, solitamente, gli affibbiavano aggettivi come sexy o scopabile e si riferivano sempre a Océan. Lui, Jaime, non aveva mai ricevuto quel genere di complimenti – non che ne sentisse la mancanza – e sentirsi dire una cosa del genere da uno sconosciuto, un suo cliente, lo aveva leggermente destabilizzato.
Scosse la testa, come a cacciare quei pensieri confusi, e diede una veloce occhiata all’orologio sul comodino: ormai era troppo tardi per tentare di prendersi un altro cliente, così decise di farsi una doccia; odiava l’odore di sesso e sudore che aveva addosso dopo un amplesso , lo faceva sentire sporco.
 
Nelle notte seguenti lui e Tajo ebbero altri incontri e, ogni volta, il ragazzo rimaneva in quella stanza sporca un po’ di più, a fumare una sigaretta o a raccontargli qualcosa della sua vita. Non era il primo cliente che faceva una cosa del genere.
Océan aveva sentito tantissime storie grazie al suo lavoro, ma non aveva mai capito perché si confidassero con degli sconosciuti. Quando aveva posto a Yana il quesito,  questa le aveva risposto, sorridendo lievemente “Vedi, Jaime, fra due persone che non si conoscono si instaura uno strano rapporto, l’intimità dello sconosciuto. Le persone parlano dei propri problemi con degli sconosciuti proprio perché sono tali e,quindi, oltre a non poterli giudicare, non si interessano dell’altro. Quelle confidenze sono uno sfogo, nulla di più. Col passare degli anni ti ricorderai solo delle storie più strane e non le assocerai più a dei volti.”
Grazie a quell’intimità tra sconosciuti, Jaime aveva scoperto che Tajo era di origini spagnole e aveva vissuto a Madrid fino ai nove anni; si era trasferito in America con la famiglia  dopo che il padre aveva perso il lavoro.
Faceva parte del clan Campbell, uno dei più famosi nella Slam City, che era in lotta con quello dei Murray. All’inizio la situazione sembrava gestibile, ma in quei giorni stava degenerando: presto si sarebbe scatenata una guerra fra bande.
-Mi dici il tuo nome?
Gli pose quella domanda all’improvviso, cambiando totalmente argomento e Jaime ci mise qualche istante a capirne il senso.
-Océan- rispose con tono indifferente.
Una risata riecheggiò nella sporca stanza.
-Intendo il tuo vero nome- specificò Tajo, un sorriso bastardo che gli dipingeva il viso.
E lui non sapeva se essere più arrabbiato o sorpreso: nessuno, in quei quattro anni di lavoro, gli aveva mai domandato la sua vera identità.
Per molti clienti lui era un buco e non avevano bisogno di un nome, vero o falso che fosse, per essere scopato.
-Hai pagato per avere Océan, non per la mia vera identità- rispose con tono gelido.
E Tajo, dall’occhiataccia infastidita che gli venne rivolta, capì che era meglio andarsene.
 
Tutto sommato, le prostitute del Rugiada venivano trattate bene dal loro padrone, Demetrius Huber. Ognuno aveva una propria stanza e, durante il giorno, potevano andare in giro per la Slam City, purché tornassero per il servizio serale. Avevano anche la cucina a loro disposizione, ma non potevano mangiare parecchi cibi, dato che dovevano mantenere un fisico magro e asciutto, in modo da essere più “appetibili” per i clienti.
Jaime, quella mattina, stava facendo colazione insieme a Micheal e Yana, discutendo, come spesso facevano, della notte appena trascorsa.
-Allora, ho notato che quel ragazzo del clan Campbell viene spesso da te- disse Storm con tono volutamente allusivo, mentre Jaime si limitava a scrollare le spalle, come se la cosa non gli importasse granché.
-Tajo Iglesias, i suoi genitori sono nel clan da parecchi anni- precisò Yana, che conosceva bene il capo del clan Campbell, Gordon, anche se Jaime non sapeva esattamente che rapporto ci fosse tra loro. Non era sicuro che fra i due ci fosse solo un rapporto di amicizia, dato che era  a conoscenza del fatto che Gordon, anni prima, aveva preso sotto la sua ala protettiva il figlio di Yana, Nikolaj, senza chiedere niente in cambio.
-È un cliente come un altro- si limitò a ribattere con tono indifferente, mentre sorseggiava il the -è solo un po’ strano.
Micheal gli lanciò un’occhiata incuriosita –Nel senso che ha gusti particolari?
-Fa domande inusuali. Ieri sera mi ha chiesto il nome.
L’altro ragazzo lo guardò sorpreso, sapeva che quando un cliente poneva quel genere di quesiti non era mai una cosa buona.
-Credi che sia innamorato di te?
Tutti sapevano che era pericoloso innamorarsi nella Slam City, tanto più se si era una prostituta. Non puoi amare e vendere il tuo corpo a sconosciuti contemporaneamente,  Jaime aveva sentito di molti suoi colleghi che si erano suicidati o venivano uccisi dal partner, in preda ad un attacco di forte gelosia, proprio a causa dell’amore.
Ma la risata di Yana interrupe le sue congetture.
-Conosco Tajo, Nikolaj mi parla spesso di lui. Non credo sia interessato a te in quel modo, è solo molto curioso ed estroverso.-  disse con tono rassicurante, come una madre che spiega qualche concetto difficile ai propri figli.
-Spero che tu abbia ragione- sussurrò Jaime, gli occhi blu che osservavano intensamente il the quasi finito.
-Beh, guarda il lato positivo- proruppe il suo collega –almeno Iglesias è un ventenne parecchio figo e non uno di quei cinquantenni frustati pieni di soldi che capitano di solito a me.
E, per qualche strano motivo, la smorfia disgustata che fece Micheal, fece ridacchiare Jaime.
 
I suoi passi rimbombavano nel lungo corridoio, il palazzo del clan Campbell era enorme. Il ricordo della prima volta in cui lo aveva attraversato era inciso nella sua mente. Rammentava ancora il passo incerto di sua madre e lo sguardo di suo padre, di un uomo che aveva perso ogni cosa e non sapeva come ricominciare.
Era iniziato tutto da quel momento, quell’istante in cui gli occhi dei suoi genitori avevano incontrato quelli scuri di un giovane Gordon.
Tajo aveva odiato quei momenti che lo avevano condannato a una vita fatta di denaro sporco, sangue e lotte. Lui era uno dei pochi che riusciva ancora a sognare nella Slam City. Se chiudeva gli occhi poteva vedersi mentre conduceva una vita onesta, frequentando un’università che gli avrebbe dato accesso a un lavoro rispettabile; qualcuno che, magari, lo aspettava a casa la sera, invece di un letto freddo e pieno di rimpianti.
Sapeva di essere un povero illuso, di non potersi permettere nemmeno di sfiorare con la punta delle dita quel genere di vita, che solo i benestanti della Tall City potevano permettersi. 
Non si abbandona o si tradisce mai il proprio clan, pena la morte.
Erano le regole non scritte di quella selvaggia giungla di cemento che era la Slam City.
Prese un profondo respiro prima di aprire la porta dell’ufficio di Gordon, che si ergeva infondo al corridoio, attraversarla significava solo due cose: morte certa o l’arrivo di un nuovo incarico.
La stanza era nella penombra, alle pareti c’erano le fotografie dei precedenti boss del clan e, infondo a essa, vi era Gordon, seduto su una poltrona in pelle dietro a una scrivania in mogano, dall’aspetto raffinato, probabilmente contraffatto.
-Mi hanno riferito che voleva vedermi, capo.
Gordon alzò lo sguardo su di lui, gli occhi scuri che sembravano scavargli l’anima.
Tajo aveva sempre avuto soggezione del suo boss, ma, al contempo, non lo terrorizzava o altro. Era una persona seria e ligia alla vita criminale, ma aveva anche una propria morale e, al contrario di molte persone, era riuscito a preservare un po’ di umanità.
L’uomo agitò il braccio robotico per fargli cenno di sedersi, per poi dirgli, con voce profonda e imperiale:- Ho un lavoro per te, riguarda un pacco che deve arrivare in città domani, alle quattro e venti del mattino. Te la consegnerà un corriere, che si fa chiamare George Smith - gli diede una cartella blu, Tajo gli diede una breve occhiata: vi erano scritti tutti i dati personali del corriere e il luogo d’incontro –temo che il clan Murray sappia di questo scambio, assicurati che il pacco arrivi sano e salvo alla base. Insieme a te ci sarà anche Boris. Tutto chiaro?
-Cosa contiene questo pacco?
Gordon ghignò –Ti basti sapere che potrebbe aiutarci a eliminare una volta per tutte quei bastardi dei Murray.
L’ispanico si limitò ad annuire, per poi andarsene.
Quella storia non gli piaceva per niente, ma gli ordini del boss andavano sempre rispettati.
 
 
-Oggi non scendi al pub, un cliente ti ha prenotato per tutta la notte.
Jaime rimase sorpreso da quelle parole, non succedeva spesso di essere prenotato. Il prezzo per i suoi servigi raddoppiava in quel caso.
Lanciò un’occhiata a Demetrius. Era un uomo sulla quarantina con i capelli rossi sempre pettinati all’indietro e gli occhi grigi che non lasciavano trapelare alcuna emozione. Indossava sempre degli abiti eleganti, che gli conferivano un’aria ancora più austera, quando veniva al locale.
Dopo sei anni di conoscenza, Jaime lo aveva etichettato come una persona avida, a cui interessava solo il denaro.
-Chi è?- chiese, una nota di curiosità gli tingeva la voce.
Huber si limitò a una scrollata di spalle:- Non ricordo il nome, so che appartiene al clan Campbell. Vedi di soddisfarlo.-
E con quell’ultimo avvertimento, simile a una minaccia, il proprietario del Rugiada se ne andò.
Appartiene al clan Campbell.
Sospirò, doveva trattarsi di Tajo Iglesias. Quel ragazzo lo preoccupava, era da settimane che, ogni notte, andava da lui.
Era davvero strano. Sapeva che ai clienti del Rugiada piaceva variare, più di una volta li aveva sentiti parlare al Meteor mentre facevano apprezzamenti sui suoi colleghi e confrontavano le loro esperienze.
Luridi animali, pensava  quando sentiva quei discorsi.
Ad essere onesti, non gli piaceva molto essere prenotato: doveva sopportare persone sgradevoli per ore, che lo toccavano da ogni parte e sussurravano parole sporche, facendolo sentire sudicio.
Mera merce con cui sfogarsi.
Si guardò allo specchio, sospirando: chissà cosa avrebbe pensato lui vedendolo in quello stato. Ne sarebbe rimasto disgustato?
Scosse la testa, non poteva permettersi di fare quel genere di pensieri in quel momento, e cominciò a truccarsi.
 
Tajo arrivò al locale relativamente presto, prima di mezzanotte, ritrovandosi Océan già pronto sul letto. Era sdraiato a pancia in su, con un braccio piegato dietro la testa e il lenzuolo a coprire il corpo nudo dai fianchi in giù. Gli occhi blu, contornati da un ombretto della stessa tonalità, erano socchiusi e lo osservavano, languidi.
Il ragazzo deglutì, sembrava un bellissimo quadro, quasi irreale.
Non poteva resistere di più, doveva farlo suo.
Salì sul letto, sovrastando l’altro con il suo corpo, che prese subito ad accarezzare e mordere.
Océan gemeva, ma non stava godendo davvero. Come avrebbe potuto? Quei tocchi, carezze e baci languidi non erano ciò che voleva.
Nonostante fossero anni che faceva quel lavoro, non poteva fare a meno di sentirsi, ogni volta, terribilmente sporco. Gli faceva venire la nausea sapere che quell’orrenda sensazione sarebbe permasa tutta la notte.
Così chiuse gli occhi, cercando di far finta che tutto fosse solo un lungo incubo.
 
Tajo si sdraiò sul letto, nudo ed esausto. Il sesso con Océan era sempre molto intenso, almeno per lui.
Si voltò verso l’altro ragazzo, che respirava ancora con affanno. I capelli scuri, così tanto da sembrare blu sotto la luce al neon, erano spettinati e il trucco, a causa della patina di sudore sul suo corpo, era leggermente colato; ma Tajo lo trovava bellissimo lo stesso.
Océan gli piaceva e non solo fisicamente, non ne era innamorato, ma lo intrigava quell’alone di mistero che lo avvolgeva. Gli sarebbe piaciuto conoscerlo meglio.
E forse era per quel motivo che lo aveva prenotato per tutta la notte con l’idea iniziale di avere un unico rapporto, come di consueto.
Era preoccupato per l’incarico che gli aveva affidato Gordon, se davvero i Murray sapevano di quell’incontro avrebbe potuto rimetterci la vita.
La Slam City era così: una continua lotta fra la vita e la morte.
E Tajo non voleva passare la  sua –probabile- ultima notte da solo, in un letto freddo. Forse era un pensiero un po’ romantico, ma lui, in fondo, era un sognatore.
-Dovresti andare a farti una doccia- la sua voce spezzò il silenzio creatosi, gli occhi verdi che indugiavano sulle cosce e sullo stomaco dell’altro, dove si vedevano chiazze di sperma.
-Perché mai mi dovrei pulire, se fra un po’ ricominciamo?- domandò Océan con voce maliziosa, avvicinandosi suadente al suo corpo, ma Tajo sapeva benissimo che faceva finta, l’aveva compreso da tempo. Aveva imparato qualche cosa, stando nel clan, come a capire se qualcuno mentiva.
-Cosa ti fa pensare che voglia ricominciare?- domandò, con un ghigno malizioso stampato sul viso. Océan gli rivolse un’occhiata fra il confuso e il sorpreso.
-Hai prenotato per tutta la notte- disse semplicemente, senza una particolare sfumatura nella voce.
-Ora voglio solo riposare- replicò Tajo, sdraiandosi comodamente sul materasso duro del letto.
Per un momento la maschera di Océan vacillò,-Non ti è piaciuto?- domandò confuso. Se Tajo si fosse lamentato del servizio, Huber l’avrebbe punito severamente.
Ma il ragazzo, al contrario di ciò che si aspettava, rise. E Jaime rimase fortemente colpito da quella risata così genuina e pura, in contrasto con tutto lo schifo che lo circondava.
-Tu sei stato fantastico come sempre- spiegò, guardandolo negli occhi -domani ho un incarico molto pericoloso da portare a termine. Questa potrebbe essere la mia ultima notte e non ho voglia di passarla da solo. Capito, dolcezza?
Jaime sorvolò sul nomignolo, riflettendo su ciò che gli era stato riferito, perplesso: Yana gli aveva descritto Iglesias come una persona estroversa, possibile che non avesse nessun amico? Insomma, chi passerebbe le sue possibili ultime ore di vita con una prostituta?
Il tocco di alcune dita sulla sua guancia, lo distrasse dai suoi pensieri. Non era una carezza languida, solo un semplice sfioramento, appena percettibile, ma lo faceva stare incredibilmente bene.
Che diamine gli stava succedendo?
-Va pure a farti una doccia e tirati via tutto quel trucco- gli disse Tajo, continuando a tenere le dita sulla sua guancia. Stava sorridendo.
Jaime si limitò ad annuire, per poi correre in bagno, trafelato.
 
Mentre udiva lo scrosciare dell’acqua, segno che Océan (quanto avrebbe voluto sapere il suo vero nome!) si stava facendo una doccia, Tajo diede uno sguardo alla camera in cui si trovava. Era piccola, ci stavano giusto un letto, una vecchia scrivania e un piccolo comò. Le pareti erano di un azzurro sporco, con l’intonaco screpolato in vari punti e macchie grigie. Sulla parente davanti al letto c’era uno specchio, il quale vetro era stato attaccato alla cornice in legno, dove vi erano attaccati alcuni post-it, con dello scoch, e una mensola, sopra la quale vi erano posata una tazza e dei… libri? Tajo si avvicinò incuriosito per poi scoprire che erano degli album da disegno. Ne prese uno, dalla copertina rossa, e lo sfogliò. Alcuni rappresentavano le strada trafficate della Slam City, altri paesaggi a lui sconosciuti, Parigi forse, dove erano rappresentati un enorme cattedrale gotica e un paesaggio notturno mozzafiato, con la torre Eiffel in primo piano.
Erano disegni bellissimi, fatti da una mano delicata e precisa, ma uno in particolare lo colpì. Un autoritratto probabilmente, di un Océan senza trucco e più bambino. Anche se nell’immagine sorrideva, gli mise addosso una grande tristezza.
Appena sentì il rumore dell’acqua cessare, si affrettò a rimettere l’album al suo posto e ristendersi sul letto, per qualche motivo, aveva intuito che a Océan non sarebbe piaciuto scoprire che aveva curiosato fra le sue cose.
Quando uscì dal bagno, con solo dei boxer scuri a coprirlo, Jaime trovò Tajo seduto sul suo letto, con i jeans addosso e gli occhi verdi puntati su di lui. Si sentiva a disagio davanti a uno sconosciuto, un suo cliente, senza trucco, la maschera di Océan che si era costruito con gli anni.
Cercò, comunque, di non dare a vedere il suo imbarazzo, andando con passo sicuro verso la sedia della scrivania, dove afferrò e indossò una semplicemente canottiera bianca, per poi sedersi sul letto, a una buona distanza da Tajo.
Non sapeva cosa fare, era la prima volta che un cliente gli diceva di averlo prenotato solo per dormire.
-Lo ribadisco, sei davvero più bello senza trucco- disse l’altro ragazzo, per poi sdraiarsi sul materasso, sorridendo quando vide l’altro trasalire.
-Sei teso, dovresti rilassarti un po’. Non mordo- continuò con tono scherzoso.
-Non sono nervoso- mentì Jaime utilizzando una voce incolore, ma capì dall’occhiata che l’altro gli rivolse, che non era stato creduto. In seguito si sdraiò anche lui il più lontano possibile dall’altro, anche se il letto era davvero piccolo, quindi sarebbe bastato allungarsi per toccarlo.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, con solo il rumore del traffico come sottofondo.
Poi, all’improvviso, Tajo parlò –Sii onesto, ti è mai piaciuto un solo rapporto che hai avuto con me?
Jaime spalancò gli occhi blu, sorpreso. Nessuno gli aveva mai fatto una domanda del genere prima d’ora.
Si mordicchiò il labbro, indeciso se rispondere o meno.
-No.
-Lo immaginavo, riesco a capire quando una persona finge, anche se è un ottimo attore come te- fece una pausa per poi ricominciare a parlare –Non pensi mai di cambiare vita?
Jaime sospirò –Ogni singolo giorno, ma ormai ho perso la speranza di andarmene.
Il suo debito con Huber, o meglio il prezzo con cui era stato comprato da lui, era troppo alto per essere risarcito nel giro di poco tempo. Forse sarebbe stato libero fra vent’anni, ma dopo cosa avrebbe fatto? Non aveva particolari abilità, se non quella di saper disegnare decentemente, ma l’arte era pressoché sconosciuta in quel luogo.
-La Slam City è così: si prende tutto, per poi lasciarti solo con i tuoi sogni.
 Tajo aveva parlato con una nostalgia e tristezza che quasi commosse Jaime, riconoscendosi in quell’affermazione.
Rimasero così, sdraiati su quello stretto letto a parlare, fino a quando il sonno non sopraggiunse. Poco prima di addormentarsi, Tajo allungò la mano sulla guancia di Jaime, sfiorandola con la punta delle dita.
-Me lo dici il tuo vero nome?- mormorò piano.
E il ragazzo, forse perché avvolto dall’inibizione del sonno, glielo sussurrò piano, quasi fosse un segreto.
-Jaime.
 
Tajo si svegliò all’alba, come programmato dalla sveglia, e ci mise qualche secondo a capire dov’era e soprattutto con chi.
Océan, o meglio Jaime, era profondamente addormentato, il viso rilassato a pochi centimetri dal suo. Avrebbe voluto allungarsi per baciarlo, ma sapeva di doversi preparare in fretta.
Così si rivestì e, prima di prendere le sue cose e andarsene, per qualche motivo a lui sconosciuto, si avvicinò al ragazzo per dargli un bacio sulla fronte pallida. Quando fece per allontanarsi sentì una mano ben salda afferrargli il polso.
Jaime era sveglio, ma i suoi occhi sembravano spenti, come se non fosse davvero lì.
E ciò che disse lo preoccupò ancora di più.
-Quando Smith darà le armi, stai attento a destra.
Ricadde addormentato subito dopo aver detto quella frase, come se niente fosse successo.
Tajo rimase qualche minuto a osservarlo, occhi e bocca spalancati. Poi se ne andò scuotendo la testa, convincendosi che si era trattato solo della sua immaginazione.
 
Boris Campbell era il secondo dei tre figli di Gordon. Aveva la pelle scura come suo padre e i capelli corvini; il simbolo del clan, un leone con una corona sulla testa, tatuato sulla spalla e una sigaretta sempre in bocca.
Aveva un carattere menefreghista e sarcastico, ma la sua dedizione al clan era enorme. D’altronde era cresciuto con i valori della vita criminale cuciti sulla pelle come i mille tatuaggi che aveva sul corpo.
Non era la prima volta che lavorava con Tajo Iglesias, non avevano un gran rapporto di amicizia, ma se la intendevano durante gli incarichi.
-Siamo quasi arrivati- annunciò.
Stavano andando al luogo dell’incontro con un fuoristrada non molto appariscente, una macchina veloce che, però, non dava troppo nell’occhio.
Tajo, dal sedile del passeggero, annuì. Durante il tragitto non c’erano stati pericoli, se non per un inseguimento quando erano ancora in centro città, brillantemente seminato prendendo alcune strade secondarie.
Forse la missione non era così difficile come credeva, ma gli sembrava strano che il clan Murray si fosse arreso solo dopo un mancato depistaggio.
E poi c’erano ancora le parole di Jaime che gli riecheggiavano nella mente.
Quando Smith  darà le armi, stai attento a destra.
Come faceva a sapere del suo incarico, se lui non gliene aveva parlato? E come faceva a conoscere il contenuto di quel pacco? Solamente Gordon ne era a conoscenza.
Sospirò pesantemente, dicendosi che se sarebbe sopravvissuto, avrebbe posto al diretto interessato quei quesiti. In quel momento doveva solamente pensare a far arrivare quel fottuto pacco alla base.
Guardò l’ambiente circostante, era fuori dal centro città, quasi verso la periferia, in una zona di edifici abbandonati.
Un luogo adatto per tentare un’imboscata.
I membri del clan Murray poteva benissimo nascondersi lì in mezzo, d’istinto strinse la pistola che aveva nella tasca del giubbotto. Era stata fatta con le nuove tecnologie, piccola e tascabile vantava, però, un lungo raggio d’azione. Gordon probabilmente l’aveva ottenuta con qualche scambio di droga con qualche pezzo grosso della Tall City.
L’auto si fermò e Tajo poté notare davanti a lui una moto con accanto un ragazzo, il viso celato da un casco, che teneva fra le mani una scatola chiara.
-Occhi aperti- lo avvertì Boris prima di uscire dall’auto, subito seguito da lui. Sarebbe stato il figlio di Gordon a effettuare lo scambio, mentre Tajo si sarebbe assicurato che non avvenissero incidenti, anche a costo della sua stessa vita.
Il corriere si tolse il casco, rivelando una matassa di capelli rosa e verdi, proprio come gli era stato fornito del rapporto che aveva letto il giorno prima. Si avvicinarono con passo sicuro, per poi fermarsi a un metro di distanza da George.
-È quello il pacco?- domandò Campbell, mentre Tajo si guardava attorno guardingo. Erano circondati da dei fabbricati.
Smith annuì, per poi tendere la mano –Prima i soldi.
Lo scambio stava avvenendo senza intoppi, quando, nell’istante in cui il corriere stava dando il pacco al collega, i suoi occhi andarono automaticamente a destra.
E lo vide, sul tetto di un palazzo: l’inconfondibile luccichio di un’arma.
E uno sparo riecheggiò per quelle vie abbandonate.
 

 

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Capitolo 2
*** Le Visioni (de mort et de famille ) ***


Parte seconda.
Le Visioni ( de mort et de famille)
 
Dalla tapparella bucherellata cominciavano a penetrare i primi timidi raggi di sole, segno che una nuova giornata stava per cominciare. Jaime, però, aveva tutta l’intenzione di rimanere a letto. Quella notte era stato prenotato da Steven White, un cinquantenne pervertito che si divertiva a sottoporlo a certi giochetti, come li definiva lui.
Era un essere viscido e megalomane, lui non lo sopportava, ma, per sua sfortuna, era davvero molto ricco (abitava nella Tall City, probabilmente) e Huber era davvero lieto di lasciargli usare una sua puttana per tutta la notte.
Con un gemito di dolore si sdraiò su un fianco, tutto il corpo gli doleva e sapeva che i lividi sui polsi e sui fianchi non sarebbero andati via prima di due giorni.
“La nottata con Tajo è stata tutt’altra cosa” pensò, sospirando. Era passata più di una settimana dall’ultima volta che lo aveva visto, non sapeva se fosse vivo o morto e, per qualche strana ragione, era preoccupato. Aveva persino chiesto a Yana delle notizie sul suo conto, ma lei aveva risposto che non sentiva Gordon da quasi un mese.
In più aveva ripreso ad avere incubi, in quei giorni. Si svegliava nel cuore della notte piangendo e urlando e Micheal o Yana erano costretti a iniettargli dei sonniferi per farlo calmare.
Sospirò, mentre chiudeva gli occhi, sperando di non rivedere quegli occhi blu che lo tormentavano da anni.
 
 
 
 
-Posso alzarmi, adesso?
-No!
-Ma è passata una settimana, ormai sto bene!
Esclamò Tajo, sdraiato sul letto nella sua camera. Dopo che aveva sparato al cecchino che teneva sotto tiro Boris, era iniziato l’inseguimento e, nonostante avessero portato il pacco a destinazione, lui era stato ferito al bacino con un proiettile avvelenato.
Stando ai medici del clan, era stato fortunato poiché erano riusciti a curarlo prima che il veleno si diffondesse in tutto il corpo. L’unica cosa negativa era di essere stato costretto a letto per più di una settimana, con sua madre che lo rimproverava appena tentava di alzarsi.
-I dottori hanno detto che non devi fare sforzi per almeno altri tre giorni, quindi tu non ti muovi da lì!- gli urlò la sua adorabile mamma dalla cucina. Probabilmente stava preparando un’altra di quelle brodaglie disgustose e piene di verdure, che lei si ostinava a chiamare cibo.
Ines Iglesias proveniva da una famiglia importante a Madrid, ma quando aveva deciso di sposare Carlos,  umile commesso in un negozio di elettronica, era stata diseredata. Nonostante fossero successe cose disastrose in seguito, lei non aveva mai rimpianto quella scelta. Ora aveva una famiglia che amava con tutta se stessa e avrebbe fatto di tutto per proteggerla, anche se non poteva dissuadere Gordon dal non affidare incarichi a suo figlio. Avrebbe voluto per Tajo un futuro differente, ma non poteva farci niente, ormai erano troppo coinvolti negli affari del clan per tirarsene fuori.
-Ormai sono un uomo adulto, so capire da me se sto bene o meno!- ribatté il giovane, poco prima che sua madre si presentasse sulla soglia della camera, puntandogli minacciosamente contro il mestolo per il minestrone.
-Non mi importa cosa pensi tu, se il dottore ha detto che non devi fare sforzi, tu non gli farai. Non permetterò che mi hijo si faccia male, claro?
Tajo sbuffò, incrociando le braccia e lasciandosi cadere sul materasso –Sì, Mamà.
Ines sorrise soddisfatta, mentre tornava in cucina.
Tajo adorava davvero molto sua madre, ma alle volte era troppo apprensiva; ormai riusciva a camminare e a muoversi facilmente, poteva anche uscire per un po’! Per questo, quando la donna uscì di casa perché “il  frigo è vuoto, vado subito a prendere qualcosa di decente al supermercato” lui sgattaiolò immediatamente fuori da Palazzo Campbell, diretto al Meteor, aveva bisogno di qualcosa di forte.
 
Jaime finì di delineare il viso della ragazza che stava ritraendo. Non sapeva dove l’avesse vista, forse era solo un’immagine della sua mente. Era giovane, con un caschetto scuro e gli occhi grigi, che esprimevano una forte malinconia.
Tutti i soggetti dei suoi disegni erano tristi, forse perché anche lui si sentiva così.
-Disegni davvero bene, sai?
Quella voce lo fece sussultare sorpreso, mentre girava un po’ la testa per scontrarsi con degli occhi verdi.
-Tajo Iglesias- mormorò con voce neutrale, anche se in realtà era felice di sapere che stava bene. L’ispanico gli sorrise mentre si sedeva sulla sedia di fronte a lui, a quell’ora del pomeriggio il Meteor era quasi vuoto, ma a Jaime piaceva quel silenzio, così riusciva a concentrarsi meglio sui suoi disegni.
Tajo ordinò un paio di alcolici, per poi rivolgersi a lui - Come stai?
Jaime gli rivolse un’occhiata scettica –Non sono io quello che è sparito per una settimana.
Una risata rimbombò nel locale.
-Hai ragione. A proposito, volevo ringraziarti.
-Ringraziarmi?
Tajo annuì.
-Senza il tuo avvertimento non sarei qui adesso, ma come facevi a sapere quelle cose?
-Quale avvertimento? Non capisco di cosa tu stia parlando.
L’ispanico lo guardò con un sorriso ironico, credendo che stesse scherzando, ma quando si rese conto che l’altro veramente non capiva, si fece serio.
Davvero non ricordava niente di ciò che gli aveva detto?   
 I suoi occhi sembravano spenti, come se non fosse davvero lì…
Che Jaime soffrisse di qualche strana forma di sonnambulismo? Ormai, dopo la comparsa degli Skills, non si sorprendeva più di nulla.
Decise, dunque, di spiegargli cos’era accaduto la mattina della consegna e, man mano che il breve racconto continuava, vedeva lo sguardo del giovane farsi più realizzato e spaventato.
-Hai capito cos’è successo?- domandò con voce calma, notando che Jaime era improvvisamente impallidito.
Il ragazzo annuì distrattamente, era da anni che quello non si mostrava.
 
Un soffitto bianco e il perenne rumore di macchine attorno a lui.
Beep
Beep
 
-Non è niente di grave, ma vorrei che tu non ne parlassi più. Sappi solo che non ero in me in quel momento- sussurrò. L’altro, ignaro del suo scompiglio interiore, fece per replicare, ma l’occhiata supplicante di Jaime lo fece desistere.
 
Urla lontane e degli occhi blu che lo osservavano.
Beep
Beep
 
-D’accordo- non fece nemmeno in tempo a finire la frase che l’altro ragazzo era già uscito.
Tajo rimase solo con una sedia vuota e un block notes sul tavolo.
 
 
 
Jaime si era chiuso nella sua camera, scivolando con la schiena lungo la porta malandata.
Lacrime come rasoi gli scorrevano sulle guance.
 
-Jaime.
Una mano stretta nella sua, un sorriso e un piccolo neo sulla guancia destra.
Beep
Una voce lontana, fredda.
-Diamo inizio al Progetto Gemini.
Beep
La stretta che si rafforza e il sorriso sparisce.
La porta si è spalancata.
Beep
Beep
E poi c’è solo dolore.
 
 
Tornato nel suo appartamento, Tajo aveva dovuto sorbirsi la ramanzina di sua madre su quanto fosse irresponsabile e che  avrebbe dovuto pensare alla sua salute, ma un’improvvisa chiamata di Gordon l’aveva costretta a finire in fretta il suo discorso. Ines era un’ottima hacker, abilità molto richiesta nei clan, e doveva essere reperibile in ogni momento.
Una volta rimasto solo, il ragazzo si era spaparanzato sul divano, rigirandosi fra le mani l’album da disegno di Jaime. Al contrario di quello che aveva visto in camera sua, questo aveva una copertina verde e al suo interno erano rappresentati i grattaceli altissimi della Slam City e alcuni ritratti di persone: una ragazza seduta a un tavolo, un uomo che fumava, un bambino con una palla in mano e molti altri. Ciò che lo colpiva maggiormente era l’eterna malinconia che si respirava in ogni disegno, come una firma costante dell’autore, e il fatto che fossero fatti tutti con una matita grigia, eccetto uno.
Quel disegno lo stupì subito per la sua semplicità: un paio di occhi blu come le profondità marine. Sembravano lo sguardo innocente di un bambino, ma c’era sempre quella nota stonata, quell’accenno a una tristezza incurabile, che probabilmente, più che appartenere al soggetto del disegno, era proprio dell’autore.
Chiuse l’album con uno scatto, per poi appoggiarlo velocemente sul tavolo.
Mille domande gli vorticavano nella mente.
Perché Jaime aveva avuto una reazione del genere al locale? Cosa significava che “non era in lui”? Cosa nascondeva di così terribile?
Era deciso a scoprirlo quella sera stessa, costringendo Jaime a parlargli. Forse era un desiderio egoistico, ma aveva bisogno di dare una risposta a tutte quelle domande che lo assillavano.
 
Un paio d’ore prima che il Rugiada aprisse, Tajo aveva chiamato Huber al fine di prenotare Océan per tutta la notte, ma la sua risposta lo aveva sorpreso non poco.
-Océan questa notte non è disponibile, se vuole posso fornirle qualche altro mio ragazzo di uguale bellezza e abilità.
Il ragazzo aveva rifiutato, confuso. Che qualcuno lo avesse già prenotato?
A quel pensiero, una fastidiosa sensazione si diramò nel suo corpo.
Gelosia? Impossibile. Jaime era un ragazzo molto bello, ma non ne era affatto innamorato. Non poteva permetterselo, non nella Slam City e, soprattutto, non con una prostituta.
Decise che non doveva dare importanza a quel fatto, avrebbe potuto parlargli anche un'altra volta. Così decise di trascorrere la serata guardando la televisione, ma più il tempo passava, più il pensiero di Jaime si faceva più insistente.
Alla fine, quando ormai la vita notturna della Slam City era nel suo vivo, decise di uscire e dirigersi al Rugiada.
Era solo per assicurasi che Jaime stesse bene, si disse, ma, nel profondo, sapeva di mentire a se stesso.
 
Il locale era pieno quella sera. L’ambiente era caotico come sempre, con la musica a tutto volume e bei ragazzi e ragazze in abiti succinti, che si esibivano in balletti provocanti sul palco, altri invece si strusciavano sui clienti o andavano al piano di sopra, dove c’erano le camere, portandosi appresso uomini pieni di soldi che volevano sfogarsi.
Si sedette su uno sgabello al bancone del bar, ordinando un Mojito. Si guardò intorno, anche se con quelle luci psichedeliche non riusciva a distinguere bene i volti, non riusciva a vedere Jaime da nessuna parte.
Forse era davvero stato prenotato da qualcuno, in fondo era molto ricercato.
Sospirò, nascondendo un verso di frustrazione; avrebbe finito il suo drink e poi se ne sarebbe andato, non sapeva cosa avrebbe voluto ottenere con quella visita. Gli avrebbe dato l’album da disegno un altro giorno.
-Cosa sei venuto a fare qui, non ti hanno detto che Océan non è disponibile stasera?
Una voce lo fece sobbalzare, accanto a lui si era seduto un collega di Jaime. Lo conosceva di vista, doveva chiamarsi Storm o qualcosa di simile.
-E quindi? Non posso venire qui per scoparmi qualcun’altro?- ribatté con tono, forse, un po’ troppo rude e palesemente finto. Infatti l’occhiata scettica che gli rivolse l’altro, gli fece capire che non gli aveva creduto.
Il ragazzo si allungò verso di lui, in modo che le sue labbra gli sfiorassero l’orecchio, Tajo era già pronto a respingerlo, ma quello parlò.
-Te lo dirò solo una volta: non avvicinarti più a Jaime- gli sussurrò minaccioso. L’ispanico, a quell’affermazione, spalancò gli occhi e si scostò, come scottato, dall’altro.
-Chi sei tu per ordinarmi cosa fare con lui?- esclamò arrabbiato, ma chi si credeva di essere quel tipo?
Lo sguardo di Storm si fece più duro. Quel ragazzo non sapeva niente del legame che aveva con Jaime e di cosa avesse passato quest’ultimo, di come la cattiveria umana si fosse insidiata a forza nella sua vita.
-Lo conosco sicuramente da più tempo di te. E sono stato io ad aiutarlo quando ha avuto un attacco di panico, io so cos’ha vissuto prima di venire qui e io so cos’è meglio per lui al momento- tuonò, irato. Per fortuna che la sua voce era coperta dalla musica, in modo che solo chi gli stava vicino potesse sentirlo.
Tajo si paralizzò a quelle parole.
-Ha avuto un attacco di panico? Per questo non lavora oggi?- domandò preoccupato. Ripensò all’espressione spaventata che Jaime aveva assunto al Meteor e al modo precipitoso con cui se ne era andato. In effetti, visto il suo stato, l’aver avuto un attacco di panico era plausibile, la vera domanda era perché?
Storm si limitò ad annuire, per poi parlare con più calma –Ora sta meglio, ma sono quasi sicuro che la causa sia stata tu, ha ripetuto spesso il tuo nome durante l’attacco.
-Io non volevo farlo stare male- mormorò, come flebile scusa, ma l’altro, a causa della musica alta, non lo sentì.
-Per il suo bene devi stargli lontano- esclamò Storm, una volta fattosi più vicino, in modo che l’altro capisse ogni sua parola.
Nonostante la sua curiosità nel sapere qualcosa in più su Jaime, Tajo annuì accondiscendente. Doveva riflette sul da farsi e, almeno per quella sera, aveva capito di dover lasciare in pace Jaime.
Con un gesto rapido si sfilò l’album della prostituta da sotto il giubbotto, per poi consegnarlo a Storm.
-L’ha dimenticato al bar oggi pomeriggio, faglielo avere- disse, cercando di mantenere un tono calmo e controllato.
Poi si diresse velocemente verso l’uscita e sparì tra le strade della Slam City.
 
Jaime si svegliò di soprassalto, con un grido in gola e le lacrime agli occhi.
Aveva avuto un altro incubo.
Delle mani si posarono sulle sue spalle e, in un primo momento, si irrigidì, ma si rilassò appena capì a chi appartenevano.
-È stato solo un incubo, Jaime- gli sussurrò Yana, stringendolo a sé –va tutto bene adesso, sei al sicuro.
Il ragazzo annuì, cercando di fare mente locale. Era nella sua camera e sentiva la musica provenire dal piano di sotto. Fuori faceva buio, quindi doveva già essere iniziato il suo “orario lavorativo”.
-Sto saltando una notte- mormorò con voce flebile, ma preoccupata. Huber si sarebbe arrabbiato con lui, ma Yana lo tranquillizzò – Demetrius ti ha dato il permesso di saltare, per stasera. Hai avuto un attacco di panico, oggi pomeriggio, e ti è venuta la febbre.
Si passò una mano sulla fronte sudaticcia, aveva bisogno di una doccia, ma era troppo stanco per alzarsi.
-E tu non dovresti lavorare?- biascicò mentre si sdraiava sul materasso. La donna gli sorrise con fare materno, mentre gli scostava qualche ciocca scura dalla fronte.
-Ho il compito di prendermi cura di te. Mia madre era un’infermiera e, quando ero ragazza, mi ha insegnato qualcosa.
Quelle rare volte in cui Yana parlava della propria famiglia, originaria della fredda Russia, aveva sempre un tono nostalgico. Jaime pensava che le mancasse la sua vecchia vita, sicuramente migliore di quella che si era ritrovata a vivere in America.
In quei momenti la capiva benissimo, a lui mancava tantissimo Parigi, una delle poche megalopoli a conservare ancora le caratteristiche forme d’arte, come la Tour Eiffel o Notre Dame, nella quale si intrufolavano sempre per salire sulle enormi torri e osservare il tramonto.
-Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?
La voce gentile di Yana distrasse Jaime da quei pensieri. Osservò per qualche secondo quella donna che lo aveva aiutato infinite volte, sin dal primo istante in cui era arrivato in quel bordello, quando era ancora terribilmente spaventato e sconvolto. Gli era sempre rimasta accanto, in ogni attacco di panico e incubo, nei momenti in cui il pensiero di lui era troppo vivido e doloroso da sopportare.
Jaime negò con un cenno del capo, poi, prima di addormentarsi, le mormorò –Io non ho molti ricordi di mia madre, ma spero che assomigliasse a te almeno un po’.
 
 
Un vicolo stretto e le insegne di negozi a illuminarlo.
Due persone, un uomo e una donna.
Uno sparo e un urlo trattenuto.
Un corpo che cade a terra e una sciarpa bianca insanguinata.
 
Jaime si svegliò di colpo, il respiro affannato e la fronte sudata. Sollevò il busto dal materasso, guardandosi attorno, ancora spaesato.
Erano passate due settimane da quando aveva avuto quell’attacco di panico ed aveva ripreso a lavorare normalmente, con gli incubi che continuavano ad assillarlo nel sonno.
Quello appena avuto, però, non era stato solo un brutto sogno.
 
Fili attaccati al corpo e delle voci in lontananza.
-Il risultato dello Schema Visioni?
-Al novanta per cento corretto e i soggetti sono ancora vivi e in buone condizioni fisiche. È un risultato sorprendente, dottore!
Applausi e acclamazione come echi nella sua testa.
-Il progetto Gemini sta dando finalmente i suoi frutti. Caro collega, i nostri sogni si realizzeranno presto!
 
Le Visioni, che si manifestavano quando dormiva, erano più vivide e dettagliate dei normali sogni, a volte non se le ricordava quando si svegliava, com’era accaduto con Tajo, altre volte, come in quel momento, erano impresse nella sua mente come un quadro guardato a lungo.
Qualcuno sarebbe morto, in quei giorni, ma non aveva idea di chi fosse. Spesso le Visioni erano collegate a persone che conosceva, sperava solo che non si trattasse di qualcuno con cui avesse qualche legame affettivo, difficilmente si riusciva a cambiare ciò che è stato visto.
Sospirò, alzandosi dal letto con una smorfia di dolore; quella notte era stato con Cooper, un trentenne che sfogava la sua rabbia nel sesso e, beh, il suo fondoschiena ne sentiva le conseguenze.
Diede una rapida occhiata all’orologio sul comò, mancava poco alle sei di mattina e fuori stava albeggiando, per poi dirigersi verso la piccola e malandata scrivania, dove stava appoggiato un album da disegno, lo stesso che aveva lasciato al Meteor quel fatidico pomeriggio di due settimane fa’. Non vedeva Tajo da quel giorno, era come sparito nel nulla.
Non che a lui interessasse, era solo un cliente in meno. Probabilmente l’aveva spaventato con quell’improvvisa fuga, portandolo a pensare che fosse uno psicopatico o avesse chissà quale malattia.
La cosa, comunque, non lo rattristava, per niente.
E il soggetto che aveva preso a disegnare non era affatto un ragazzo dai tratti mediterranei e gli occhi verdi. Assolutamente no.
 
Quel pomeriggio, nella cucina del Rugiada, si respirava un’aria gioiosa, che stonava con l’atmosfera tetra della Slam City.
Yana Polanski compiva trentasette anni e, probabilmente, quello era il suo ultimo mese nel bordello. Per l’occasione Micheal, con il permesso di Huber, aveva organizzato una piccola festa, preparando alcolici e persino una torta.
-Non dovevate fare tutto questo per me, davvero.
Yana era visibilmente imbarazzata da quella situazione, non si aspettava tanto entusiasmo per il suo compleanno.
-Invece te lo meriti, tu ci hai sempre aiutati nel momento del bisogno, Yana, avevi sempre una parola di conforto quando eravamo giù di morale. E in un posto come questo, vale tantissimo.
Micheal sapeva fare discorsi davvero commoventi e veritieri. Yana era la più anziana fra loro ed era stata, per i ragazzi e le ragazze del Rugiada, come una madre.
-Rilassati e goditi la festa, mamma- aveva esclamato Nikolaj, l’unico figlio di Yana. Jaime lo conosceva abbastanza bene, ma il loro rapporto si era raffreddato da quando l’altro era entrato nel clan Campbell.
Era una persona cinica e ironica, che, però, provava un grande affetto per la madre.
Il pomeriggio passò in fretta, fra risate e bicchieri pieni di birra e vino, fino a quando non consegnarono i regali.
In comune accordo, i ragazzi del Rugiada le avevano regalato alcuni strumenti per fare tatuaggi per il negozio che avrebbe aperto fra qualche mese, mentre Nikolaj le aveva donato una bellissima sciarpa bianca con ricamati dei disegni a fantasia.
-Così non ti lamenti più per il freddo- aveva detto, scherzando.
-Quanto è morbida!- esclamò Maya, una ragazza con i boccoli biondi e gli occhi azzurri, accarezzando la seta con le dita, subito seguita dagli altri. Quando, però, Jaime toccò la sciarpa, si irrigidì per qualche istante, mentre una visione gli passava nella mente, come in un flash.
 
Un vicolo stretto e sporco, il rumore del traffico in lontananza.
Odore di sangue nell’aria.
Il cuore batte veloce e il respiro si fa veloce.
Paura.
-E così tu saresti la puttanella dei Campbell, eh?
Qualcosa di viscido sulla guancia, un urlo coperto da una mano rude.
-Sarai un ottimo avviso di guerra.
Il freddo del metallo sul cuore e il sapore di lacrime sulle labbra.
Un altro urlo trattenuto.
Uno sparo.
E poi un freddo e desolato buio.
 
-I-io… devo andare un attimo in bagno!- esclamò con voce agitata e tremolante. Sapeva che molti occhi erano puntati su di lui, ma non gli importava, non poteva stare in quella stanza dopo ciò che aveva visto.
Fra tutte le persone, perché proprio lei, Yana, che era stata come una madre per lui, doveva morire? Non riusciva a crederci.
Si guardò per qualche istante nello specchio del bagno del locale e rivide Felix, Roxanne, Jeremy, Theo e lui, tutte quelle vite che aveva visto spegnersi davanti ai suoi occhi. Persone che aveva amato e che se ne erano andate con uno schiocco di dita.
Vi appoggiò la fronte contro e le lacrime cominciarono a scendergli sul viso.
-Jaime, tutto bene?
La voce di Micheal gli giunse lontana, ovattata, mentre i ricordi di una vita tornavano a ferirlo, come un demone che non se ne era mai andato.
Sentì due braccia esili stringerlo e Jaime soffocò i singhiozzi contro la sua spalla.
-Hai avuto un’altra visione, vero? Ti va di dirmi cos’hai visto?- il tono del ragazzo era calmo e gentile, finché gli passava le mani sul viso, asciugandogli le lacrime.
Jaime inspirò ed espirò profondamente, come per calmarsi, poi provò a parlare, ma la sua voce era tremolante.
-Yana…lei…- non riusciva a dire quelle parole, il suo intero essere rifiutava di crederci, ma Micheal lo capì benissimo, infatti lo strinse un po’ più stretto.
E Jaime fece finta di non sentire la maglietta bagnata di lacrime.


Micheal Dallas, prima di essere una puttana del Rugiada, aveva fatto parte di una famiglia importante della Tall City. Sua madre insegnava in un’università rinomata, mentre suo padre, Richard Dallas, era un famoso dottore. Questo, però, aveva un’insana passione per il gioco d’azzardo e, in una partita andata male, perse tutti i soldi e s’indebitò con le persone sbagliate. Una volta che i media vennero a sapere di ciò, la sua famiglia perse credibilità e prestigio e i suoi genitori vennero licenziati. Micheal, all’epoca, aveva quattordici anni.
Due mesi dopo, in preda alla depressione, sua madre si suicidò e suo padre cominciò a tornare a casa ubriaco.
Poi, qualche giorno prima del suo quindicesimo compleanno, degli uomini vennero a prendere Micheal come risarcimento. Il ragazzo avrebbe ricordato sempre gli occhi di Huber che lo guardavano come se fosse una merce rare e prelibata.
Micheal ricordava i primi mesi al bordello come i più infelici della sua vita, non riusciva ancora a realizzare che la sua vita fosse cambiata in modo così radicale e schifoso. Tentò anche di suicidarsi, ma Yana lo salvò e lo aiutò a rimettersi, a sorridere di nuovo.
Certo, ora aveva un sorriso disilluso e rassegnato, ma almeno non passava il resto dei suoi giorni a rimpiangere un passato che non sarebbe più tornato.
Yana lo aveva salvato e non poteva credere che stava per morire, quando era a un passo dalla libertà.
-Quindi adesso che facciamo?- domandò, sdraiato sul letto di Jaime, gli occhi castani rivolti al soffitto. Avevano entrambi finito il turno serale, ma non riuscivano a dormire da quando Jaime aveva avuto quella visione.
Sentì l’altro, accanto a sé, sospirare.
-Niente. Non possiamo fare assolutamente niente- mormorò afflitto. Se c’era una cosa che Jaime aveva imparato da quando aveva quei poteri, era che non si poteva cambiare il futuro. Il tempo è una struttura davvero delicata e fragile e metterci le mani avrebbe potuto portare a risultati nefasti.
E questo entrambi lo sapevano, Jaime gli aveva raccontato di cosa aveva provocato il giocare col destino.
-Forse potremmo…- azzardò Storm, ma l’altro lo interruppe subito.
-Non si può cambiare il futuro senza gravi conseguenze, Micheal.
Poi sospirò, prima di girarsi su un fianco e guardarlo negli occhi.
-Sono stanco di perdere le persone a cui voglio bene.
-Già, anch’io.
 
Alla fine decisero di non di dire niente a Yana, sarebbe stato davvero meschino e orribile dirle della sua morte prima del tempo.
Ciò, tuttavia, non rese i giorni seguenti più facili. Jaime era diventato bravo a reprimere tutti i sentimenti, così nessuno si era accorto del suo disagio, ma ogni volta che vedeva o parlava con Yana si sentiva morire dentro.
Non sapeva esattamente quando sarebbe successo, probabilmente nel giro di un mese, le visioni non ricoprivano un ampio spazio temporale.
Quell’avvenimento arrivò prima del previsto, in una notte simile a tante altre.
Dovevano essere le quattro di mattina, perché Jaime si era assopito da poco, quando aprì gli occhi di scatto con una strana inquietudine addosso.
Ancora in pigiama e con i battiti accelerati dalla paura, si diresse verso la camera di Yana. Bussò un paio di volte, sempre più agitato, prima di rendersi conto che la porta era aperta e che la sua proprietaria non c’era.
Si precipitò fuori dal locale, senza preoccuparsi del fatto che nevicava e, stando a piedi nudi sull’asfalto, gli sarebbe venuto un accidenti. Nella sua mente, però, questo non aveva importanza, mentre continuava a ripetersi che no, non poteva essere già giunto quel momento.
Urlò il suo nome più volte, mentre si aggirava per le stradine attorno al bordello.
Alla fine la trovò, morta in un vicolo sudicio. Un lampione illuminava parzialmente il suo corpo e vi poté scorgere i capelli biondi e la sciarpa candida sporchi di sangue.
Non sentiva più il brusio del traffico, i piedi dolergli o il freddo nelle ossa.
Cadde sulle ginocchia e niente, in quel momento, aveva più importanza.
Yana era morta e lui non aveva fatto niente per salvarla.
 
[1]
 
Il funerale si svolse un paio di giorno dopo. Era raro che una prostituta ne avesse uno, di solito i cadaveri venivano raccolti dalla polizia (che, in pratica, si limitava a svolgere quel compito, poiché troppo codarda e debole per mettersi contro qualcuno appartenente a clan) e, se non identificati, portati a una fossa comune appena fuori dalla megalopoli, senza cerimonia alcuna.
Per i membri dei clan, invece, si allestivano delle cerimonie funebri. La maggior parte delle volte, dato che la società era al 90% atea, era il boss che ricordava i pregi del defunto, per poi lasciare la parola a famigliari e amici. La cerimonia finiva con la sepoltura nel cimitero privato del clan e poi, alle volte, c’era un breve rinfresco.
Yana, in quanto informatrice e grande amica di Gordon, ebbe l’onore di ricevere questo tipo di rito.
Il funerale si svolse al Palazzo Campbell, nel piccolo giardino che fungeva da cimitero, ed erano presenti tutti i suoi colleghi e colleghe del Rugiada, persino Huber, e alcuni membri del clan Campbell, tra cui, ovviamente, Nikolaj, Tajo e i suoi genitori, Gordon con i suoi figli e qualche altro.
Era la prima volta che Jaime partecipava a un funerale e lo aveva trovato deprimente e orrendamente triste. Finché Gordon parlava, sembrava che la morte stesse volteggiando sopra le loro teste, sussurrando “questa è la fine che farete voi, siete mortali e a tutti spetta questo destino”.
E pensò che, forse, i funerali servivano più alle persone vive che non al morto.
-Non darti colpe che non hai- gli sussurrò Micheal all’orecchio, mentre la tomba di Yana veniva posta in una buca.
-Avrei potuto salvarla- si limitò a dire, cercando di non scoppiare a piangere, anche se gli occhi lucidi facevano ben intuire il suo stato d’animo.
-Ora sei accecato dal dolore, Jaime, lo hai detto tu stesso che non si deve giocare col tempo, no? Non condannarti per questo, la morte arriva per tutti prima o poi.
Jaime avrebbe replicato, se la voce grossa e un po’ roca di Gordon non avesse annunciato la fine del funerale.
C’era anche un rinfresco, ma Jaime non avrebbe partecipato, non se la sentiva di ricordare ancora di più che Yana non era più al mondo.
 
I giorni seguenti al funerale erano stati tra i peggiori della sua vita al Rugiada. Una forte malinconia alleggiava nel locale, come se facesse parte di loro. La morte di Yana aveva risvegliato in tutti ricordi spiacevoli, di persone scomparse da tempo e di una vita che avevano perso.
Jaime non chiudeva occhio da giorni e non perché lo prenotassero la notte. I sensi di colpa lo attanagliavano e gli incubi lo tormentavano, gli attacchi di panico si erano fatti più frequenti, i calmanti che aveva sempre adoperato non facevano più effetto, ma non aveva sufficienti soldi per comprarsene altri.
Sospirò, steso sul suo letto; per colpa dei suoi attacchi aveva saltato un’altra sera. Micheal se ne era andato da un paio d’ore, una volta assicuratosi che stesse meglio, e il rumore del traffico all’esterno era la sua unica compagnia.
Provò a chiudere gli occhi, nel vano tentativo di rilassarsi, ma subito le orribili immagini del cadavere di Yana gli tornarono alla mente.
Spalancò gli occhi blu di colpo e subito dopo sentì un tonfo provenire dal corridoio. Era strano che qualcuno si aggirasse per il bordello a quell’ora, forse si trattava di qualche cliente che si era attardato con qualche suo collega. Per assicurarsi che non si trattasse di un ladro o simili, comunque, prese la pistola dal sotto al letto e si diresse verso il corridoio. Ogni prostituta aveva un arma da fuoco nella camera, Huber si preoccupava molto della sicurezza della sua merce e non avrebbe permesso a nessuno di fare loro del male o di rovinarli.
Certo, era da anni che non usava una pistola, ma, anche se non avesse ferito il delinquente, il rumore dello sparo avrebbe avvisato del pericolo. Jaime, tuttavia, comprese che la pistola non gli sarebbe servita: sdraiato davanti alla porta della camera di Yana, vi era suo figlio Nikolaj. Sembrava avere decisamente un aspetto peggiore di quando lo aveva visto al funerale, con la pelle ancora più pallida, i capelli rossi unti e delle tremende occhiaie sotto gli occhi scuri.
Sapeva che dalla scomparsa della madre, Polanski aveva cominciato a bere molto, ma non immaginava che stesse in quello stato pietoso.
Con movimenti lenti si chinò alla sua altezza per poi parlargli con voce calma e bassa (non voleva di certo svegliare metà bordello)  –Nikolaj, come mai sei qui, hai bisogno di qualcosa?
L’altro ragazzo, però, cominciò ad urlare frasi senza senso, su sua madre e sul suo misterioso assassino, fino a quando Jaime non gli tappò la bocca con una mano, sperando che nessuno si fosse svegliato. Nikolaj provò a ribellarsi per un po’, ma era talmente debole che persino Jaime riusciva a tenerlo a bada, fino a quando non si addormentò fra le sue braccia.
Il giovane sbuffò, guardandolo.
–E adesso che faccio?
Non poteva di certo rimanere lì tutta la notte con un peso di ottanta chili per quasi un metro e novanta di altezza sulle gambe. Con non poca fatica, lo trascinò nel bagno della sua stanza e, appoggiatolo al lavandino, gli posizionò la testa sotto al rubinetto, per poi aprire sull’acqua gelata.
Con un piccolo urlo e un sussultò, Nikolaj si svegliò, ancora brillo ma più cosciente.
-Cacchio che mal di testa- mormorò, mentre si appoggiava alla parete fredda e sporca del bagno, solo in un secondo momento notò Jaime.
-Oh, Ocèan, che è successo?- biascicò confuso, mettendosi una mano sulla fronte.
-Ti ho trovato nel corridoio del Rugiada a urlare cose senza senso, prima di crollare a terra. Così ti ho svegliato con dell’acqua ghiacciata, in modo da farti passare un po’ la sbornia- spiegò brevemente, per poi riprendere a parlare –Riesci a tornare a casa da solo?
Non aveva usato un tono derisorio, era preoccupato per la salute di Nikolaj. In fondo erano stati amici un tempo, oltre al fatto che lui era il figlio di Yana, quindi aiutandolo avrebbe potuto redimersi, almeno un po’, dalle sue colpe.
Nikolaj annuì, troppo orgoglioso da ammettere le sue debolezze, infatti si rialzò barcollando e cadendo subito dopo, si sentiva le gambe come gelatina. Solo dopo un altro paio di tentativi falliti, consentì a un aiuto da parte di Jaime, il quale, sorreggendolo, lo aiutò a camminare.
Per fortuna il tragitto dal Rugiada al palazzo dei Campbell non era molto lungo, anche se Nikolaj non gravava completamente su di lui, era parecchio pesante.
 
Anche se era notte fonda, Tajo non riusciva a dormire. Dalla morte di Yana si respirava grande tensione nel clan. Fra i vari membri girava voce che sul corpo della prostituta vi fosse inciso il simbolo dei Murray, una pantera.
Se ciò era vero, allora presto sarebbe scoppiata una guerra fra clan e lui sapeva che erano in netto svantaggio. Anche se i Campbell erano il clan più grande della Slam City, i Murray avevano fra le loro schiere molti più Skill e armi più sofisticate.
In quei giorni stava accumulando tanto stress e sarebbe andato volentieri al Rugiada, ma le parole di Storm lo avevano sempre fermato. Il solo pensiero che potesse essere causa di dolore per Jaime, lo faceva stare male, anche se non ne capiva il motivo.
In fondo si trattava di una prostituta, che senso aveva preoccuparsi così? Aveva provato ad andare in altri bordelli, ma ogni volta che stava con qualcuno immaginava il suo corpo asciutto contorcersi dal piacere e i suoi occhi blu osservarlo.
Quel ragazzo lo avrebbe fatto impazzire.
I suoi pensieri furono interrotti da dei tonfi provenienti dal corridoio. Sbuffò e scese dal letto, probabilmente era il buttafuori di un qualche locale che riportava a casa un Nikolaj ubriaco. Dalla morte della madre, quel ragazzo aveva perso la testa, uscendo ogni sera a bere fin a non reggersi in piedi. E  dato che lui, in quanto vicino  del ragazzo, aveva una copia della chiave dell’appartamento dell’amico, gli toccava sempre aprirgli.
Stanco di quella situazione, aprì la porta del suo appartamento e rimase molto sorpreso dal trovarsi Jaime a reggere un Nikolaj esausto.
Per un attimo pensò che si trattasse di uno scherzo della sua mente, gli sembrava impossibile che il ragazzo, che tormentava la sua mente da settimane,  fosse davvero davanti a lui.
-Invece di rimanere lì a guardarmi, aiutami! Questo qui pesa!- gli disse a bassa voce con tono  minaccioso, gli occhi blu che brillavano nell’oscurità.
Tajo si riscosse dai suoi pensieri e venne in suo soccorso, sostenendo Nikolaj e aprendo la porta del suo appartamento, per poi metterlo a letto.
-Quel deficiente continua a ubriacarsi da quando è morta sua madre, mi dispiace che ti abbia causato disturbo- si scusò l’ispanico una volta che entrambi furono di nuovo nel corridoio, davanti alla porta di Iglesias.
-Non ti preoccupare, posso capire il dolore che prova.
Gli occhi di Jaime, per un solo istante, si velarono di tristezza e Tajo vi poté leggere tutto il dolore che si portava nel cuore da anni.
Quanto aveva sofferto quel ragazzo?
-Comunque è meglio che vada adesso- mormorò questo, facendo per andarsene.
-Aspetta!- esclamò, forse a voce un po’ troppo alta, trattenendolo per un polso –È pericoloso andare in giro da soli a quest’ora, perché non rimani a dormire qui? Non voglio farti niente, giuro!
Jaime fu sorpreso da quell’invito e valutò per qualche secondo l’offerta. Era strano essere invitati nella casa di una persona che non si vede da settimane, faceva fatica a credere che un suo cliente volesse stare con lui solo per dormire. Poi si ricordò della nottata che avevano passato insieme mesi addietro e si disse che, visto il mittente, una proposta del genere era possibilissima.
Con un sospiro, accettò l’offerta. Se le cose fossero degenerate, comunque, aveva ancora la pistola nascosta in una tasca interna del giubbotto.
-D’accordo, ma dormiamo e basta!
 
L’appartamento di Tajo non era grande e assomigliava a tante altre abitazione della Slam City, con le pareti rovinate e buchi sul soffitto. Era, però, pulito e abbastanza ordinato, se si escludevano alcuni cartoni di pizza sul tavolo e i piatti sporchi nel lavello. Sulle pareti, forse per coprire i buchi dell’intonaco scrostato, vi erano molti quadri e fotografie della Spagna e di paesaggi marini.
-La camera da letto è da quella parte- Tajo indicò una porta sulla sinistra, accennando un sorriso –Io dormirò sul divano.
Jaime osservò il sofà rosso che cappeggiava al centro della stanza, di fronte alla televisione. Era davvero piccolo e Tajo era alto, sarebbe stato scomodo per lui dormire lì.
-Posso stare io sul divano, immagino che tu non dormiresti bene- osservò, cercando di mantenere un tono neutrale.
L’ispanico, anche se riconobbe veridicità nelle parole dell’altro, lo congedò con un gesto della mano.
-Non lascio dormire gli ospiti sul divano! E poi è da notti che non riposo bene, per cui credo che finirò col fare zapping alla televisione.
-In realtà anch’io faccio fatica a addormentarmi, quindi…- mormorò Jaime, era strano avere una conversazione che non includesse il sesso con uno dei suoi clienti.
-Allora vorrà dire che ci terremo reciprocamente svegli!- esclamò Tajo, sorridendo. Aveva notato che l’altro non stava bene, anche se cercava di non darlo a vedere. Qualche distrazione avrebbe fatto bene ad entrambi.
Jaime gli rivolse un’occhiata scettica e stava per ribattere che non avrebbe fatto niente con lui all’infuori del Rugiada, ma, come molte altre volte, il ragazzo lo sorprese.
-Tu scegli un film, i cd sono nel mobile sotto la televisione, io intanto prendo qualcosa da mangiare, preferisci dolce o salato?
Il ragazzo rimase a bocca aperta, guardando l’altro aprire i cassetti della cucina.
-Esattamente che intendi fare?- chiese confuso.
Tajo lo guardò come se avesse fatto la domanda più scema del mondo.
-Guardare un film e mangiare schifezze, no?- spiegò con tono ovvio, tenendo in una mano  un pacchetto di patatine e nell’altra uno pieno di caramelle gommose.
-Allora, dolce o salato?
 
Era da anni che Jaime non faceva una cosa del genere, solo per puro svago. Alla fine aveva scelto un film d’azione, ma tutta la suspense veniva smorzata dalle battute di Tajo su quanto fosse assurda quella situazione o su come si comportava il protagonista, provocando le sue risate.
-Sei più bello quando ridi- gli disse, guardandolo con quegli occhi verde smeraldo e accennando a un sorriso.
Jaime arrossì, maledicendosi perché non poteva avere reazione simili solo per dei complimenti, quel ragazzo lo aveva visto nudo, diamine!
Quella riflessione gli fece venire in mente un altro pensiero.
-Non sei più venuto al Rugiada.
A quell’affermazione l’espressione di Tajo si fece seria, mentre annuiva leggermente.
-La sera stessa del nostro ultimo incontro sono venuto al locale per riconsegnarti l’album da disegno, ma ho incontrato quel tuo collega con i capelli viola, Storm, se non erro. Lui mi ha spiegato che avevi avuto un attacco di panico e io ne ero la causa- spiegò, per poi stringergli delicatamente una mano – Così ho pensato di non farmi vedere per un po’, se la mia presenza di provocava simili cose. E io non ti farei mai di mia spontanea volontà qualcosa di male.
-Lo so.
Fin da quella notte di mesi fa’, in cui avevano parlato di sciocchezze per tutta la notte, aveva capito, seppur inconsciamente, che quel ragazzo non gli avrebbe causato alcun danno.
-E, comunque, Storm a volte trae le conclusioni sbagliate. Non ho avuto un attacco di panico a causa tua, ma per ciò che hai detto- chiarì con voce calma e un po’ dispiaciuta.
Il ragazzo sembrò rilassarsi a quella notizia, ma mille domande vorticavano ancora nella sua mente.
-Non vuoi proprio dirmi perché quel fatto ti ha turbato tanto, vero?
Non era arrabbiato o deluso e, per farglielo comprende meglio, gli accarezzò piano la guancia, con solo la punta della dita, cosa che, aveva notato, gli piaceva molto.
Infatti Jaime sospirò e socchiuse gli occhi, strusciando appena il viso contro la sua mano. A Tajo ricordava un gatto bisognoso di coccole.
-Non adesso, sono cose molto difficile da raccontare per me- spiegò, sforzandosi di non pensare a cose tristi. Tajo annuì e si allungò per lasciargli un innocente bacio sulla fronte, come a fargli intendere che non ce l’aveva con lui, per poi riprendere a guardare il film.
Nell’oscurità Jaime arrossì e, senza nemmeno accorgersene, si appoggiò lentamente al corpo dell’altro, gli occhi blu che fissavano lo schermo.
Pian piano entrambi caddero tra le braccia di Morfeo e quella notte non fu popolata da incubi, ma solamente da occhi blu e sorrisi mozzafiato, da parole non dette e da un qualcosa che stava cominciando.
 
Nei giorni seguenti Tajo e Jaime continuarono a vedersi, sia fuori che dentro il Rugiada. A volte l’ispanico lo prenotava per tutta la notte, non prima di inviargli un messaggio che gli scaldava il cuore.
 
Stasera non truccarti, passiamo tutta la notte a guardare film e mangiare schifezze!
Tajo
 
Passavano intere nottate a ridere, parlare e, , baciarsi. Degli innocenti e brevi contatti, come un bacio a stampo sulle labbra, sulla fronte o sulla guancia, dati per scherzo o forse no, ma a nessuno dei due importava molto, non erano ancora pronti per definire la loro relazione a più-che-amici. Almeno non finché entrambi vivevano nella Slam City e svolgeva i loro lavori, le storie d’amore fra un membro di un clan e una prostituta raramente finivano bene.
Qualcosa, però, cambiò il giorno in cui, nell’appartamento di Tajo, questo consegnò un disegno a Jaime.
L’unico colorato dell’album scuro, rappresentante due occhi blu belli quanto tristi. Se l’era tenuto per sbaglio, ma più lo guardava, più gli piaceva e aveva deciso di tenerselo per un po’. Ormai, però, era tempo che tornasse dal suo proprietario.
Quel giorno Jaime, guardando quegli occhi che continuavano a tormentarlo negli incubi, prese un’importante decisione, ammettendo di fidarsi di Tajo completamente.
-Voglio raccontarti una storia- mormorò, senza staccare lo sguardo dal disegno. Sapeva di dover ancora una spiegazione all’amico, almeno quello glielo doveva.
-Quale?- domandò Tajo, sedendosi sul divano accanto all’altro.
-La mia.










Note:
[1] So che in quest’ultimo pezzo Jaime potrebbe sembrare una persona incoerente, perché, in precedenza, ha ribadito più di una volta che non può salvare Yana, dato che non è bene interferire col tempo.  Credo, però, che un conto sia pensare alla morte di una persona, un’altra vederla e capire che, effettivamente, lei non ci sarà più.
Quindi i pensieri di Jaime, da qui fino a fine capitolo, sono offuscati dal dolore e non perfettamente razionali e coerenti. 




   

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Capitolo 3
*** Terza parte + epilogo ***


Parte terza.
René
 
Blaise Roussel era conosciuto come il boss del più temibile e pericoloso clan di Parigi, omonimo del suo cognome. Si era arricchito col traffico di droga e d’armi con l’estero e la sua fortuna aveva raggiunto livelli altissimi, provocando l’invidia negli altri clan.
La gloria, però, è una dea passeggera e pericolosa, che per lui finì una notte di quindici anni prima, dove un incendio a Palazzo Roussel divorò la sua famiglia e il suo clan.
Gli unici superstiti furono i suoi figli Jaime e René, gemelli, identici se non per un neo sulla guancia che il primo non aveva.
A sette anni rimasero soli, senza più casa e famiglia, con solo il fratello come ancora e riparo sicuro.
Gli orfani non vivono a lungo nelle megalopoli e i due bambini avevano dovuto imparare in fretta a sopravvivere.
 
Riuscirono a trovare rifugio in un teatro abbandonato, che loro chiamavano La Base. Era pieno di insetti e topi, il soffitto aveva numerosi buchi e il palco sembrava star per cedere, ma almeno avevano un posto dove stare la notte.
Vivevano rubando, anche se più di una volta avevano rischiato di essere presi. Col passare dei mesi, però, avevano ideato un piano abbastanza efficace che permise loro di guadagnare qualcosa in poco tempo.
L’arrondissement[2]  Les Halles era sempre pieno di persone. René aveva imparato in fretta a distinguerle e etichettarle: c’erano i membri dei clan, che camminavano sempre in gruppo e avevano un sacco di tatuaggi; i solitari, invece, erano coloro che non appartenevano a un gruppo, ma erano abbastanza forti da andarsene in giro da soli senza preoccuparsi, avevano un passo sicuro ed erano robusti o, comunque, con molti muscoli.
Infine c’erano i comuni, ovvero quella gente che non apparteneva a nessun clan e sapeva di non essere in grado di difendersi, camminavano sempre velocemente e a testa bassa, spesso tenendo stretta la borsa o lo zaino fra le mani (come se servisse realmente a qualcosa).
Le vittime dei loro furti erano quest’ultimi, René li indicava a Jaime e questo, con una grande velocità, li derubava per poi sparire nella folla, prima che capissero cosa fosse successo.
-Guarda quanti soldi abbiamo guadagnato oggi, forse riusciamo a mangiare un hamburger, è da settimane che non vediamo nemmeno un po’ di carne!-esclamò Jaime, facendo vedere al gemello ciò che aveva rubato, avevano entrambi il volto sporco e un corpo magro, ma non importava, finché erano insieme erano felici.
-Siete davvero bravi per la vostra età, sapete?
Entrambi si girarono verso quella voce seria, proveniente da un ragazzo con i capelli rossi e i piercing sul viso. Aveva un’aria intimidatoria, ma il suo sorriso sembrava benevolo.
I fratelli, però, avevano imparato a non fidarsi delle apparenze e lo guardavano pronti alla fuga.
-Come vi chiamate?- continuò a chiedere il misterioso personaggio, avvicinandosi sempre di più ai bambini. Jaime, d’istinto, si parò davanti al gemello, come per difenderlo; anche se René aveva una mente che gli permetteva di uscire dalle situazioni più difficili, era lui ad avere più forza fisica (per quanto un bambino di quasi otto anni potesse averne).
-È solito presentarsi prima di chiedere il nome a qualcuno- gli fece presente cercando di sembrare minaccioso, ma l’altro scoppiò in una sonora risata.
-Mi piaci moccioso, sei cazzuto- spiegò, ridacchiando ancora – Sono Felix Lemaire, boss del clan Lemaire. Ora tocca a voi.
Jaime era dubbioso sul dirgli la loro vera identità, ma René parlo per entrambi –Noi siamo René e Jaime Roussel.
Felix sgranò gli occhi grigi.
–Credevo che i Roussel fossero tutti morti- mormorò più a se stesso che agli altri due, poi scosse lievemente la testa, quel fatto non cambiava ciò che voleva proporgli –Vedete, esistono vari tipi di gruppi criminali, il mio è un clan di artisti. Noi crediamo che l’arte sia importante nella vita quotidiana, anche se ormai è stata dimenticata, capite?
I due bambini si guardarono in faccia per qualche secondo, visibilmente confusi. Non capivano esattamente come l’arte potesse essere importante, un quadro non ti salva la vita o ti da mangiare, ma annuirono ugualmente per farlo andare avanti col discorso.
-Voi due siete degli elementi davvero interessanti, vi osservo da un po’ e ho potuto notare che siete molto bravi nel rubare, considerando la vostra età, con il giusto allenamento potreste diventare ladri provetti! Quindi, ascoltate bene, ho una proposta da farvi: voi entrate nel mio clan e io vi do un tetto sotto cui vivere, insegnandovi tutto quello che c’è da sapere sull’arte del furto. Che ne pensate?
 
Entrambi sembravano entusiasti all’idea, ma non sapevano se fidarsi di quell’uomo. Si guardarono nuovamente negli occhi e, per un osservatore esterno, poteva sembrare che stessero parlando solo con essi, ma in realtà il pollice di Jaime scriveva velocemente lettere sulla mano di René. Quello era il loro linguaggio segreto, un modo loro per parlare senza  che gli altri si impicciassero.
 
Che facciamo?
Io direi di accettare, quel ragazzo sembra sincero
Ne sei davvero sicuro, Ren?
Sì, in fondo non abbiamo niente da perdere, no?
Hai ragione. E poi se tu ti fidi, allora mi fido anch’io.
 
Felix era rimasto a guardare quello scambio di sguardi con aria confusa, non era la prima volta che facevano una cosa del genere. Probabilmente utilizzavano una specie di messaggio in codice, anche se non riusciva a capire quale.
-Accettiamo- proclamò risoluto uno dei due gemelli, ma non riusciva a capire quale, non ricordava chi era quello con il neo.
Bah, avrebbe imparato col tempo.
Strinse la mano dei bambini, sorridendo.
-Benvenuti a bordo, gémeaux.[3]
 
 
La base del clan Lemaire era un appartamento in un enorme e anonimo palazzo nel Les Halles. Vi viveva tutto il clan, ovvero cinque persone.
-Siamo nati da pochi anni, ma abbiamo già il nostro giro di clienti e guadagniamo bene- spiegava Felix mentre entravano nell’abitazione.
Jaime, con la mano stretta a quella del fratello, osservò per qualche attimo la cucina riversa nel caos totale, con piatti e cartoni nel lavello e schifezze e buste di patatine sparse un po’ dappertutto; e quadri appesi ovunque, non ne aveva mai visti così tanti in una stanza così piccola.
Felix si compiacque nel notare che i fratellini erano rimasti a bocca aperta nel vedere tutte quelle imitazioni appese al muro, significava che l’arte non era loro indifferente.
-Ragazzi, abbiamo dei nuovi arrivati!- esclamò e subito si precipitarono nella stanza due ragazzi. Uno aveva i capelli biondi e gli occhi verdi, con il tatuaggio di una fenice sulla guancia sinistra, mentre l’altro aveva la pelle olivastra e gli occhi a mandorla, tipicamente orientali.
-Wow, che piccini che siete! - esclamò questo, chinandosi alla loro altezza e sorridendo –Io sono Mizuki, sono originario di Osaka, in Giappone. Mi occupo delle rapine e sto imparando a contraffare quadri.
-Siete identici, Il est étonnant!- disse l’altro, per poi presentarsi appena il giapponese ebbe finito –Mi chiamo Theo e, come Mizu, mi occupo di saccheggi e di curare questo gruppo di scalmanati quando si fanno male.
-Io sono René, mentre lui è Jaime- come al solito René parlava per entrambi, ma al gemello la cosa non disturbava, non amava comunicare con gli sconosciuti e quei ragazzi, anche se erano gentili, lo intimorivano un po’.
-Ora che vi siete conosciuti, vi porto nel mio ufficio che vi spiego un paio di cose- disse Felix ai due bambini, prima di rivolgersi ai suoi subordinati –Quando tornano gli altri, avvisateli di questa novità, è importante che conoscano il clan.
Vennero condotti in breve corridoio, che si affacciava su sei stanze; si diressero in quella in fondo, che custodiva una stanza in cui troneggiavano una scrivania e una poltrona scura, sulla parete destra c’era una piccola libreria, mentre in quella opposta troneggiava un ampia vetrata che si affacciava sulla strada.
-Nel nostro clan ci sono poche e semplici regole e siete tenute a rispettarle- cominciò a parlare Felix, con voce autoritaria, ma non con l’intenzione di spaventarli.
-Prima di essere un clan, i Lemaire sono una famiglia, quindi da oggi voi siete René e Jaime Lemaire. Noi ci occupiamo principalmente di rapine e contraffazione di opere d’arti, cosa abbastanza facile di questi tempi. Avete mai sentito dell’incendio al Louvre?
René annuì, ricordava di averlo letto in qualche libro trovato in una biblioteca abbandonata settimane fa’ –Il Louvre era uno dei musei più grandi e famosi al mondo, ma, in una guerra fra clan, fu incendiato e la maggior parte dei quadri bruciarono. Gli altri non si sa che fine abbiano fatto, ma attualmente al Louvre non ci sono più opere.
Felix annuì, colpito che un bambino così piccolo e lontano da quell’evento, sapesse in modo così dettagliato una cosa del genere.
-I collezionisti, ricchi sfondati che vivono lontano da questo schifo, sono molto interessati ai quadri scomparsi e noi facciamo finta di ritrovarli, quando in realtà ne facciamo delle imitazioni. Chiaro?
Jaime lo guardò confuso –Come fate a fare delle imitazione se non ci sono più gli originali?
Il boss rise, indicando la libreria –Quei libri sono pieni di quadri che si trovavano al Louvre, noi facciamo delle copie a grandezza naturale e li studiamo attentamente, per poi ricopiarli. -Infine li vendiamo ai collezionisti spacciandoli per originali.
I due fratelli annuirono e Felix si compiacque nel notare che i loro occhi, di un blu intenso, quasi finto, brillavano di curiosità. Adorava i bambini anche per quell’innocente voglia di conoscere e capire ciò che il circondava, a loro, probabilmente, il fatto di appartenere a un clan sembrava  solo un gioco. Ma andava bene così, anche in quel mondo schifoso i bambini meritavano un’infanzia.
All’improvviso bussarono alla porta e una ragazza dai capelli rossicci e una bandana sulla testa fece capolino insieme a un altro dalla pelle pallida e il fisico possente.
-Boss, Theo e Mizu hanno detto che voleva vederci- annunciò lei, entrando insieme al collega quando Felix fece loro segno.
-Abbiamo dei nuovi arrivati- annunciò questo, mentre indicava i fratelli, presentandoli.
La ragazza sorrise loro, per poi tendere loro la mano –Io sono Roxanne, mi occupo della contraffazione di opere d’arti, mentre lui – indicò l’energumeno accanto a lei –è Jeremy, è muto, ma nelle lotte clandestine non lo batte nessuno.
Solo in quel momento Jaime si accorse che sulla guancia sinistra di Jeremy spiccava una macchia violacea.
-Com’è andata?- si limitò a chiedere Felix con aria seria.
Roxanne sorrise mentre tirava fuori dalla tasca della giacca una busta piena di soldi e gliela passava.
-Jeremy li ha stesi tutti,  evidemment [4]
Felix sorrise e, una volta sedutosi dietro la scrivania, prese a contare i soldi, per poi trascrivere qualcosa su un libricino.
-Tutto il denaro che ottenete dovete darlo a me, così registro tutte le entrate e le uscite su questo quaderno- spiegò ai nuovi arrivati, mostrandogli una tabella pieni di cifre. Anche se i due non ne capivano molto, annuirono.
-Ora potete andare. Roxanne mostra ai gémeaux la loro nuova casa- poi si rivolse a Jaime e René –Fra due giorni inizierete le lezioni, così avete il tempo di ambientarvi.
 
La prima notte che passarono lì, stretti in un solo letto perché “purtroppo non ne abbiamo altri, per adesso utilizzate entrambi questo, tanto siete piccoli, ci state” fu strana, per certi versi, perché erano in un ambiente completamente nuovo. Dividevano la stanza con Mizuki, che era ancora in salotto a guardare la televisione con Theo e Jeremy, mentre loro erano andati a dormire presto, sotto consiglio di Felix.
-Jay…
-Mh?
Jaime aprì un occhio blu, guardando il fratello che, al contrario di lui, sembrava fin troppo sveglio.
-Che ne pensi di tutto questo? I Lemaire sembrano persone gentili, ma ho un po’ paura per queste lezioni, cosa credi che ci faranno fare? Io non sono molto bravo ne—
-Ren!
-Sì?
-Parli troppo.
Jaime alzò gli occhi al cielo mentre il fratello ridacchiava nervoso, René tendeva a straparlare quando era agitato, al contrario di lui che stava sempre zitto.
-Non ti preoccupare, Ren- mormorò infine, accarezzandogli i capelli corvini.
Poi si addormentarono abbracciati, sperando che quella nuova vita fosse migliore della precedente.
 
Oltre ad imparare a contraffare e rubare, i Lemaire fornivano ai due gemelli anche lezioni scolastiche, come matematica, storia, letteratura e lingue.
-È importante che apprendiate il più possibile nel maggior numero di campi. Ogni informazione si può rivelare utile nel nostro lavoro- aveva spiegato Felix.
Nel corso degli anni Jaime mostrò una grande abilità nel disegnare e dipingere, mentre fu chiaro che René, anche se negato nell’ambito del fratello, aveva un’intelligenza superiore alle media: dotato di grande memoria, imparava schemi e dati in pochissimo tempo, in più mostrò grande interesse per la tecnologia e una grande abilità nell’usare i computer.
Jaime ricorderà sempre gli anni tra i Lemaire come i più felici della sua vita. Nel giro di poco tempo erano diventati le mascotte del clan e venivano coccolati da tutti.
Rammentava ancora di quella volta in cui, a nove anni, avevano ritardato oltre il coprifuoco perché Mizu, dopo una rapina, aveva voluto ricompensarli regalandoli dei peluche a forma di gatto.
Vedendo i loro sorrisi, Felix non aveva avuto il cuore di rimproverarli.
In fondo si diceva sono solo bambini, devono essere felici e spensierati prima che il mondo si prenda la loro innocenza.
 
Col passare degli anni, i Lemaire si erano ingranditi e avevano acquisito una certa importanza a Parigi. Avevano ottenuto dei subordinati, anche se non vivevano in un Palazzo come la maggior parte dei clan, ma ero dispersi un po’ per tutta la città.
Il nucleo operativo centrale, però, era sempre composto dai soliti sette, con Jaime che cominciava a dipingere alcuni dettagli nei quadri e René che era diventato l’hacker ufficiale del gruppo.
A undici anni, Felix decise di portare Jaime con lui ad uno scambio.
-È importante che conosciate tutti i lati del nostro lavoro. Portarvi entrambi nella stessa volta sarebbe rischioso se le cose si mettono male- gli aveva spiegato, con quel tono autoritario che celava una strana gentilezza, perché anche se Felix faceva il duro e menefreghista, sapeva quanto tenesse alla sua famiglia. Una caratteristica comune di tutti i membri del clan, era di essere orfani. Felix li aveva presi dalla strada, donando una nuova vita e una famiglia. Per tutti loro era non solo il boss, ma anche padre, fratello e amico.
Comunque, quella notte dovevano scambiare La Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci, Jaime si era curato di Giovanni e Gesù bambino. Roxanne era stata felice del suo operato, diceva che sarebbe potuto diventare un grande contraffattore.
-Questo quadro è stato richiesto da Chen Zhen, un collezionista cinese. La cifra è già stata pattuita e dobbiamo solo effettuare lo scambio. La versione ufficiale è che abbiamo rubato il quadro da Jean Roux, un miliardario francese, che lo custodiva nella sua villa appena fuori Parigi.
-Questo tizio esiste davvero?
-Sì, ma di certo non ha quadri del da’ Vinci nella sua villa- ghignò furbescamente Felix.
Jaime annuì, per poi osservare il luogo in cui si trovavano: stavano attraversando il corridoio di un vecchio edificio abbandonato, una fabbrica forse. Con loro c’era anche Jeremy, la sua presenza imponente metteva in soggezione i compratori.
-Il luogo dell’incontro è la stanza numero tredici. Tu, qualunque cosa succede, rimani dietro di me o Jeremy e se accade qualcosa di grave, corri via e chiama gli altri. Intesi?
Jaime annuì deciso, anche se era un po’ spaventato. Sperava che non succedesse niente di grave.
 
Giunsero nella stanza in perfetto orario, ad attenderli c’era un uomo dai tratti orientali in giacca e cravatta, che Jaime intuì  essere Chen Zhen, mentre dietro di lui vi erano altri due uomini alti e grossi almeno quanto Jeremy, uno dei quali teneva una valigetta grigia.
L’undicenne diede un’occhiata al quadro, accuratamente impacchettato, che stava portando Felix, pregando che sarebbe andato davvero tutto al meglio.
-Felix Lemaire- disse con tono neutrale Chen, storpiando il nome con la sua pronuncia cinese, poi diede un’occhiata veloce a Jeremy per soffermarsi qualche secondo in più su di lui –vedo che ti sei portato dietro la famiglia.
Il boss dei Lemaire fece finta di non sentire quel commento, infatti pronunciò con un tono freddo che fece rabbrividire Jaime –Bando ai convenevoli, Zhen, ce li hai in soldi?
Il cinese fece un rapido cenno al suo subordinato, che aprì per qualche secondo la valigetta mostrando un sacco di mazzette di euro.
-Prima voglio vedere il quadro.
Felix fece come richiesto, tirando via l’involucro e mostrando l’opera in tutta la sua bellezza.
 –La Vergine delle Rocce, come richiesto.
Chen avvicinò il viso spigoloso al quadro, osservandolo attentamente –È davvero in ottime condizioni per essere sopravvissuto ad un incendio.
Felix sorrise affidabile, da bravo attore –Il Louvre è grande, l’incendio non ha colpito tutte le sale. Questo, probabilmente, non è stato rovinato da esso, ma soltanto rubato in seguito, come molti altri quadri.
Il cinese lo guardò sospettoso e Jaime si chiese come non facesse a sentirsi sotto pressione  davanti a quegli occhi neri come la pece.
-Dove l’avete rubato?- domandò, continuando ad analizzare il quadro, in cerca di qualcosa che non andasse. Jaime sapeva già che non avrebbe trovato niente, Roxanne era incredibile nel contraffare quadri.
-In una villa di Jean Roux, appena fuori dalla megalopoli. Non ha denunciato il furto perché il quadro era rubato.
L’altro annuì solamente, mentre Chen si soffermò sul Giovanni bambino e lui cominciava a preoccuparsi. Non voleva che l’affare saltasse per colpa di qualche sua imprecisione.
-Mi è sempre piaciuto Leonardo da Vinci, sa? Era un genio e non solo in campo artistico, anche la tecnica fu innovativa per l’epoca. Essa è molto difficile da imitare.
A quelle parole Felix ebbe un breve guizzo all’occhio e Jeremy si era portato lentamente una mano alla pistola, nella tasca posteriore dei jeans.
Chen, però, sorrise lievemente e fece segno all’uomo con la valigetta grigia di avvicinarsi.
-Questo sembra proprio il quadro originale. È stato un piacere fare affari con voi.
Jaime si rilassò, cercando di non farsi notare, mentre Felix prendeva la valigetta  per controllare che i soldi fossero veri, poi diede il quadro a Chen.
-È stato un piacere fare affari con voi!- esclamò, per poi andarsene, prendendo per mano Jaime.
Quando furono in strada, lontano dall’edificio abbandonato, Felix proruppe in una risata liberatoria.
-Prima me la sono fatta davvero sotto!- esclamò continuando a ridere –Fortuna che quel tipo è un idiota!
E Jaime, contagiato dall’allegria dell’altro, scoppiò a ridere di rimando.
Non si era mai sentito così felice.
 
Tutte le cose finiscono, anche quelle più belle.
Jaime se ne rese conto una settimana dopo il loro dodicesimo compleanno, quando, in una notte, subirono un attacco.
I Lemaire erano pacifici, raramente creavano risse o faide con altri clan, al contrario dei Moreau, un clan emergente che si era arricchito prendendo a forze le ricchezze dei suoi avversari più deboli.
Ricordava bene quella notte, dove era stato svegliato da un rumore di spari. René, seduto nel letto accanto al suo, guardava la porta chiusa con fare preoccupato. Il letto di Mizu, invece, era intatto, ma non ci fece molto caso, dato che passava molto tempo con Theo nelle ultime settimane.
-Ren, ch—
Non fece in tempo a dire niente che altri spari rimbombarono nella casa. Il fratello cominciò a tracciare velocemente le lettere sulla sua mano.
 
Sta succedendo qualcosa di brutto
Credi che dovremmo andare a vedere?
 
René annuì leggermente.
 
Prendi la pistola.
 
La porta dello studio di Felix era aperta e uno spiraglio di luce illuminava il buio corridoio. I gemelli si affacciarono, cercando di non farsi notare e René quasi cacciò un urlo nel vedere cosa stava succedendo.
Felix era riverso sulla poltrona con un buco al petto, dal quale usciva sangue, gli occhi grigi erano vitrei. Entrambi capirono che era morto.
-Dato che ho ucciso il boss del clan Lemaire, dichiaro questo posto e tutte le sue ricchezze di mia proprietà!
A parlare era stato un uomo di circa trent’anni, dalla pelle ambrata e i capelli scuri. La pistola era ancora sollevata contro il corpo di Felix.
 
Quello è Alain Moreau, il boss del clan Moreau.
 
Jaime spalancò gli occhi, aveva sentito cose terribili riguardo a lui, su come uccidesse a sangue freddo e non avesse pietà per nessuno.
Intravide Roxanne alzarsi, si teneva il braccio con una mano, probabilmente era stata ferita.
-Se pensi che ti lasceremo pr—
Uno sparo riecheggiò nell’aria e Roxanne cadde a terra, inerme, mentre una macchia vermiglia si allargava intorno alla sua testa. René emise un verso di sorpresa, cercando di trattenersi dall’urlare, mentre lui sentiva la bile salirgli lungo la gola.
Sentì una mano premergli sulla bocca e sentì la presa sulla mano di suo fratello sparire.
-E voi, mocciosi del cazzo, che pensate di fare?
Vennero spinti nella stanza e Jaime notò Mizu e Theo in un angolo. Erano in biancheria e quattro persone li trattenevano, erano sconvolti e infuriati.
Caddero entrambi sul pavimento, Jaime era paralizzato dalla paura mentre suo fratello aveva preso a piangere silenziosamente.
-Li ho trovati qua davanti, che origliavano, Alain- spiegò una voce profonda dietro di lui.
-Gemelli, uh?
Alain ghignò, avvicinandosi a Jaime. Si chinò lentamente alla sua altezza, prendendogli il mento fra le dita e guardandolo.
Jaime si era come gelato sul posto.
-Con questi occhi vendereste bene come puttane.
A quelle parole Theo scattò, mollando un pugno e un calcio ai suoi aggressori.
-Non toccarlo, porco schifoso!
Alain, con calma glaciale, si limitò a dire –Arthur, finiscilo.
Il ragazzo in questione, vicino alla scrivania,  prese Theo per la cottola e, subito, questo prese fuoco.
-No!
L’urlo straziante di Mizu arrivò a Jaime come una lama nel cuore.
La morte di Theo Lemaire segnò la fine del periodo di felicità di Jaime.
Da quel momento, per i sopravvissuti Lemaire, iniziò l’inferno.
 
Jaime ricordava poche cose dei giorni seguenti alla fine dei Lemaire, come il fatto che fossero stati rinchiusi nella loro camera, le lacrime di Mizu e René che vomitava e nessuno puliva.
Non sapeva precisamente quanti giorni passarono prima che Alain si mostrò loro. Mizuki, con le poche forze che aveva, si parò davanti a loro come a proteggerli.
Il boss dei Moreau rise gutturalmente, cattivo.
-Tieni proprio a quelle troiette.
Alain si avvicinò e accarezzò il viso di Mizu con fare lascivo. Lo sentì tremare leggermente e reprimere un singhiozzo, lui, nel frattempo, stringeva la mano del fratello fortissimo.
-Anche tu non sei male- sussurrò Moreau con tono viscido, che a Jaime ricordava molto un serpente o un avvoltoio.
 
Ho paura
Ti proteggo io
 
-Tu sei Mizuki, giusto?- chiese, sempre con quella voce ambigua e raggelante. Il ragazzo in questione annuì, avrebbe voluto piangere, ma sapeva di dover proteggere i gemelli, ciò che rimaneva della sua famiglia.
-Ho un patto da proporti- disse nuovamente, mentre la sua mano si posava sulla bocca di Mizu e scendeva giù, lentamente, fino al fianco, ridacchiò malvagio nel sentirlo tremare.
-Io lascio stare i due mocciosi e tu, in cambio, mi fai dei favori.
L’altro capì subito cosa intendesse quando sentì una mano stringergli una natica.
Singhiozzò, la sola idea lo terrorizzava e disgustava. Doveva farlo con l’uomo che aveva ucciso il suo fidanzato.
Ma non poteva permettere che Jaime e René prendessero il suo posto.
-Non gli farai niente?- sussurrò con voce tremula.
-Non torcerò loro nemmeno un capello, hai la mia parola.
Mizuki prese un profondo respiro, cercando di calmarsi.
-Accetto.
 
Nei giorni seguenti fu permesso ai tre di uscire dalla stanza, ma non di andare fuori dall’appartamento. Scoprirono che il laboratorio era stato trasformato in una mini-palestra e che alcuni membri del clan Moreau si era trasferiti lì. Vennero a conoscenza anche del fatto  che tutti i membri subordinati al clan Lemaire erano stati uccisi; anche se avessero voluto scappare, non avevano nessun posto dove andare.
Jaime aveva preso a rintanarsi in camera, disegnando su un album che gli aveva regalato Roxanne per il compleanno. Non era ancora riuscito a piangere per la morte dei suoi amici e non ne capiva il motivo, era come se la tristezza fosse troppa anche solo per essere espressa.
Suo fratello, invece, piangeva ogni notte, appoggiandosi alla sua spalla  e sfogandosi. Sembrava così lontano dal René allegro, che sorrideva sempre, e a Jaime faceva male vederlo così.
Come quando sentiva delle orrende fitte al cuore nel vedere Mizuki tornare a notte tarda, con lividi sulle gambe e sul collo e un espressione assente e vuota, come se stesse cercando di estraniarsi dal mondo per cercare di dimenticare ciò che gli stava succedendo.
Jaime credeva che non potesse andare peggio di così.
Non sapeva quanto si sbagliava.
 
 
Accadde sei mesi dopo.
Mizuki era entrato in camera visibilmente preoccupato e con le lacrime agli occhi.
-Dovete andarvene!- aveva esclamato con urgenza, raccattando tutto ciò che gli capitava sotto mano per metterlo dentro uno zaino.
-Io posso distrarli per un po’, così voi potrete scappare. Dovete essere veloci.
I due gemelli si guardarono negli occhi confusi, capitava che Mizu avesse degli attacchi di panico e parlasse di fughe, ma non era parso mai così disperato. 
Non capivano cosa stesse succedendo.
La porta si spalancò di colpo e lo sguardo di Alain andò prima a Mizuki, poi alla zaino sul suo letto e infine ai gemelli.
-Che cazzo credevi di fare?- tuonò irato verso il giapponese, facendo sussultare René e Jaime.
Mizuki lo guardò negli occhi, era la prima volta che lo faceva e sembrava furioso.
-Mi avevi dato la tua parola!- lo accusò –Avevi detto che non li avresti fatto niente!
Alain non parve sorprendersi della sua reazione e lo prese per la cottola della maglia, ridacchiando.
-Le parole di non uomo non valgono niente in questo mondo- disse, per poi sussurrargli minaccioso –E una puttanella come te non dovrebbe rivolgersi così a un boss.
Senza neanche lasciargli il tempo di ribattere, sbatté la sua testa contro il muro. Mizu cadde a terra, svenuto, sotto gli sguardi attoniti dei due fratelli.
Alain non li guardò nemmeno e si rivolse a delle persone all’esterno.
-Sono qui dentro, datemi i soldi e prendeteveli.
L’ultimo suo ricordo furono due persone che lo afferravano e un pizzicore al braccio.
Poi il buio.
 
Si svegliò ore o giorni dopo, non lo sapeva di preciso.
La prima cosa che sentì fu l’odore di salsedine e ruggine. Aprì gli occhi e provò a muoversi, ma scoprì di avere braccia e gambe bloccate.
-Ren…- mormorò confuso, cercando la presenza del fratello.
Questo era accanto a lui, seduto contro la parete d’acciaio, lo sguardo fisso su di lui.
-Ti sei svegliato- disse semplicemente, sembrava esausto.
-Sai dove siamo?- domandò Jaime, cercando di sollevarsi e sedersi accanto a lui, per poggiare la testa sulla sua spalla. Si rese conto che si trovavano in una piccola cella, con un oblò sulla parete accanto a loro e una porta d’acciaio chiusa davanti a sé.
-Su una nave, credo. Ho tanta paura, Jay.
Il ragazzino sospirò, per poi dargli un bacio sulla spalla, come a consolarlo.
-Anch’io, Ren.
 
Dopo qualche ora la porta si aprì, rivelando due persone con addosso delle tute bianche che, senza dire nulla, iniettarono loro un'altra sostanza che li fece riaddormentare.
Jaime, quella seconda volta, si svegliò in una stanza completamente bianca. Aveva le braccia e le gambe libere e notò che indossava un maglia e pantaloni grigi.
Sentì un gemito accanto a lui e vide René aprire gli occhi e guardarsi attorno confuso, anche lui aveva i suoi stessi abiti.
-Questo posto mette i brividi- mormorò, prendendo la mano del fratello e stringendola forte.
Ora erano soli in un mondo totalmente sconosciuto.
Jaime cercò di sorridergli, ma era talmente spaventato da quella situazione che riuscì a fare solo una smorfia.
Mosse velocemente il pollice contro il dorso della sua mano.
 
Non ti preoccupare, ti proteggerò io
Promesso?
Promesso.
 
René  sorrise appena, mentre sentivano delle voci fuori dalla stanza. La stretta sulla sua mano si rafforzò.
 
Che succede?
 
Jaime non fece in tempo a rispondere che una porta si aprì, rivelando due uomini con addosso un camice bianco. Uno era alto, con i capelli bitorzoluti e gli occhiali, l’altro invece era più basso e tarchiato, con i capelli quasi rasati. Entrambi sorridevano, ma senza coinvolgere gli occhi. Sembravano terribilmente finti, mettevano i brividi.
L’uomo più alto parlò, aveva una voce controllata e seria.
-Benvenuti nel progetto Gemini, ragazzi.
 
Il progetto Gemini consisteva nell’osservare i comportamenti dei gemelli e le loro abilità, per poi potenziarle. La finalità era, però, a loro sconosciuta.
Capirono subito di non potersi rifiutare, notando che i due avevano delle pistole nella cinta; così, arrendevoli, Jaime e René si lasciarono portare in un enorme stanza, sempre bianca, che assomigliava a una classe, con tanto di banchi e sedie,  cattedra e lavagna elettronica appesa a una parete.
Nella stanza vi erano altri ragazzi, tutti gemelli, di svariate età, che andavano dagli otto ai quattordici anni circa. Ogni coppia era vestita di colori diversi, ma anche i più accessi parevano spenti, quel posto metteva addosso una tristezza infinita.
Un uomo con i capelli rossi e lo sguardo glaciale si mise davanti alla cattedra, in mano teneva un plico di fogli.
-Io sono il dottor Jenkins- si presentò, parlando in inglese[5]  -Voi siete stati scelti per prendere parte al Progetto Gemini. Negli ultimi decenni i gemelli hanno mostrato particolari abilità fisiche e psichiche verso il proprio fratello. Spesso queste abilità rimangono sopite per tutta la vita, ma grazie a questo progetto riusciremo a farle venire fuori e, con accurati studi, a potenziarle.
Un bambino dai capelli biondi in seconda fila parlò –E se io e mio fratello non fossimo interessati?
Jenkins sorrise e tirò fuori da una tasca del camice bianco una pistola, puntandola contro il ragazzino sotto le urla e lo sconcerto di tutti.
-I soggetti ribelli verranno eliminati.
L’uomo ripose la pistola nella tasca.
-Questo è il mio primo e ultimo avvertimento, spero che sarete tutti collaborativi.
Come se niente fosse successo, diede i fogli al suo collega con i capelli rasati, che prese a distribuirli a tutti.
-Ora vi distribuiremo un test con domande che spaziano tutti i campi. Avete un’ora per completarlo.
Quando arrivarono anche a loro, Jaime notò che erano scritti in francese, probabilmente per facilitare loro la comprensione. Ciò che, però, lo spaventò fu la dicitura in un angolo.
 
Soggetto: AJ19
Gemello: BR19
Provenienza: Parigi, Francia
Status sociale:ex-membro di clan
Prova: N°1 (calcolatore QI e potenzialità)

 
Guardò René negli occhi e vi lesse una tremenda paura e confusione, come si sentiva lui.
Non avevano ancora capito che erano finiti all’inferno.
 
Dopo un paio di mesi fu chiaro che qualcosa in quel posto non andava.
Dalle originarie cinquanta coppie, erano rimasti in una trentina. Ogni tanto qualcuno spariva, ma nessuno dei dottori sembrava curarsene.
Inoltre le Prove non consistevano più in semplici test, ma avevano cominciato ad iniettare loro strane sostanza che li facevano vomitare, stancare o provocare fitte terribili alla testa.
Le regole erano dure e imparziali: i Soggetti, così venivano chiamati, potevano uscire dalle loro stanze solo per partecipare alle prove e andare in bagno, sempre vigorosamente accompagnati da qualcuno. I pasti venivano serviti tre volte al giorno dai dottori e consumati all’interno delle proprie stanze.
-Siamo cavie in un laboratorio di pazzi- gli aveva detto René un giorno, con tono triste, mentre fissava il soffitto bianco della loro cella.
-Lo so- aveva risposto lui, sdraiato accanto al fratello.
Le loro mani si intrecciarono.
-Ma resisteremo, finché siamo insieme.
 
Dopo la duecentoquindicesima Prova erano rimasti in una ventina.
Era chiaro che i Soggetti scomparsi venivano eliminati dagli stessi dottori poiché non superavano le Prove.
La paura era diventata una loro costante compagna e la morte aleggiava sulle loro teste come un angelo custode.
Fu dopo la duecentotrentesima Prova che qualcosa cambiò in peggio. Invece di essere portati nell’aula di test o nella stanza delle iniezioni, furono condotti in una grande camera, al centro della quale vi erano due lettini e un sacco di macchinari che emettevano rumori fastidiosi.
Beep
Beep
Beep
 
Secondo te cosa ci faranno?
 
Jaime rafforzò la stretta sulla mano del gemello, come se avesse paura che scomparisse da un momento all’altro.
 
Niente di buono.
 
-Dottor Lewis, proceda col preparare i Soggetti. AJ19 sul simulatore di destra e BR19 a sinistra. Diamo inizio alla Prova Schemi.
La voce del dottor Jenkins era, come sempre, neutrale, tanto da assomigliare a quella di robot senza emozioni. I gemelli ne erano sempre spaventati.
-Inietto l’anestetico?
Jenkins rifletté per qualche istante.
-No, i Soggetti devono avere il pieno delle loro capacità facoltative.
 
 
La Prova Schemi era la più lunga e, da quel che aveva capito, la più importante del Progetto, dato che non andavano più a fare le altre Prove.
Inoltre venivano monitorati ventiquattro ore su ventiquattro, nelle orecchie il costante suono delle macchine.
Vi erano vari tipi di Schemi ed erano uno più doloroso e terrificante dell’altro. René non riusciva ancora a capirne le dinamiche, ma sembrava che, a seconda del simulatore in cui veniva posti, cambiava la prospettiva dello Schema.
Si accorse, però, che qualcosa era cambiato nella mente propria e del gemello. Riuscivano a comunicare telepaticamente, a spostare oggetti piccoli e a creare dei minuscoli campi di forza.
-Ci stiamo trasformando in Skills- rifletté un giorno o una notte, in quel luogo non esisteva il tempo, ma solo i momenti delle Prove e quelli di riposo.
-Forse è quello che vogliono fare- ribatté Jaime, gli occhi chiusi e il tono lieve. Ogni volta che venivano sottoposti agli Schemi, suo fratello era sempre più stanco e i suoi sogni erano popolati da continui incubi.
René pensò a quello che aveva detto Jay. Era una cosa assurda, l’origine dei poteri straordinari degli Skills era sconosciuta, non ci si può trasformare in qualcosa che non si conosce.
Era una pazzia.
Poi si disse che anche rinchiudere una cinquantina di coppie di gemelli ancora bambini era una totale follia, e forse Jaime aveva ragione.
-Gli uomini sono davvero stupidi, vogliono replicare ciò che la natura ha donato ad altri.
 
Gli Schemi Visioni si rivelarono come l’inferno per Jaime.
Anche se i dottori dicevano che rispondevano bene alle simulazioni, il ragazzo era continuamente tormentato da incubi.
Sognava catastrofi passate, omicidi, complotti, tutto il male del mondo passato e futuro si mostrava a lui quando dormiva. E se lui era esausto, i dottori ne erano entusiasti.
-In così poco tempo sei riuscito a vedere sia il passato che il futuro! È un risultato straordinario, AJ19!- esclamavano dopo le simulazioni, senza curarsi delle sue lacrime o dell’orrendo mal di testa che lo tormentava.
Continuavano a monitorarlo e quell’incessante “beep” rischiava di farlo impazzire.
In più René stava ogni giorno peggio, era stanco e pallidissimo, quando non erano sottoposti agli Schemi, dormiva, senza riuscire a riposarsi veramente.
Ma lui continuava a tenergli stretta la mano, come a dargli forza. Sarebbero sopravissuti insieme, il loro legame non sarebbe svanito tanto facilmente.
 
E se Jaime pensava che non potesse andare peggio di così, si dovette presto ricredere.
René non ce l’aveva fatta ed era morto dopo il quindicesimo Schema Visione.
Non ricordava quasi niente di quel giorno, solo il corpo immobile del fratello sul simulatore e i suoi occhi blu socchiusi, che, privi di luce, fissavano il vuoto.
All’inizio non voleva crederci e aveva preso a chiamarlo, urlando e piangendo, fino a quando i dottori non l’avevano tirato via dal suo corpo.
-Non toccatemi, luridi bastardi! Voi l’avete ucciso, è colpa vostra se non ce l’ha fatta!- aveva cominciato ad urlare, infischiandosene delle conseguenze.
Non importava più nulla, René, suo fratello, la sua famiglia, il suo appoggio, era morto. Non avrebbe più visto il suo sorriso o i suoi occhi blu come l’oceano che racchiudevano una formidabile intelligenza e una voglia di scoprire sempre nuova.
Non era riuscito a proteggerlo, a rimanergli accanto come aveva promesso.
René era morto e lui era ancora vivo.
Perché?
Quella domanda lo assillerà per tutta la vita.
Perché non lui? Perché non entrambi?
Jaime non si sarebbe mai perdonato per essergli sopravvissuto.
 
Probabilmente l’avevano sedato ad un certo punto, perché non ricordava di essersi addormentato. Sentiva delle voci in lontananza.
-Dottor Jenkins, il Progetto Gemini è fallito. Ne è sopravvissuto solo uno.
-Lo so, Lewis. È davvero un peccato, BR19 aveva enormi potenzialità.
-Che ne facciamo di AJ19?
Un sospiro.
-Senza il gemello, la sua psiche non reggerebbe altri Schemi. È diventato inutile, lo venderemo a qualche bordello della Slam City, ha degli occhi che sembrano artificiali, sicuramente qualcuno lo vorrà.
 
E così fu, nel giro di due giorni Jaime fu venduto a Demetrius Huber per una somma esorbitante.
-Da oggi tu sei mio, lavorerai come puttana per me fino a quando non riuscirai a ripagare il prezzo con cui ti ho comprato.
E con quelle parole, Jaime iniziò la sua vita al Rugiada.
 
 
 
Epilogo
De lotte et d’amour.


 
Tajo osservava il soffitto della propria camera, mentre Jaime dormiva accanto a lui con la testa sulla sua spalla. Dopo avergli raccontato la sua storia era scoppiato a piangere, in preda ai ricordi più dolorosi, e lui lo aveva abbracciato forte, consolandolo fino a quando non si era addormentato.
Quel ragazzo aveva sofferto così tanto, più di quanto avrebbe mai immaginato. Il suo passato avrebbe continuato a tormentarlo, dato che quelle abilità nate dalla peggiore ambizione umana continuavano a evolversi anche senza macchinari terribili, come a ricordargli che lui era sopravvissuto e suo fratello no.
Gli accarezzò piano i capelli scuri, per poi sfiorare con le dita la guancia e il collo roseo. Era bellissimo, anche se si portava dentro un macigno incredibile, una tristezza che lo stava trascinando in un vortice pieno d’oscurità.
Avrebbe tanto voluto afferrarlo e riportarlo alla luce, ma non sapeva come fare. Non capiva nemmeno che rapporto avevano, soprattutto dopo che Jaime si era confidato a quel modo con lui.
Erano amici o più che amici? Soprattutto, lui voleva avere quel genere di relazione con Jaime?
Sì.
La risposta gli arrivò all’improvviso dal profondo del cuore, bellissima e spaventosa.
Era innamorato di Jaime.
Con quella nuova consapevolezza, si girò su un fianco, abbracciando l’altro stretto, come se  potesse scomparire in un qualsiasi momento.
Gli diede un bacio leggero sulla fronte e vegliò su di lui fino a sera.
 
Jaime era tornato dall’appartamento di Tajo due ore prima dell’orario di apertura del locale, ancora stordito da ciò che aveva raccontato. Era da anni che quella storia rimaneva nascosta nei meandri del suo animo, sotto strati di finta indifferenza e recite continue.
Tajo, con il suo sorriso da sognatore e quella vitalità così simile a quella di un René ancora innocente e spensierato, aveva frantumato la maschera di Ocèan e si era prepotentemente insinuato nel suo cuore.
Non ne era innamorato, persone come lui non potevano permettersi un simile lusso, ma il legame che aveva instaurato con lui, lo faceva sentire sicuro.
E poi, da quando gli aveva raccontato la sua storia, si sentiva un po’ più leggero, come se il grosso masso che si portava sulla spalle da quando era morto René si fosse un po’ sbriciolato.
-Il capo ti vuole vedere nel suo ufficio- la voce di Micheal interruppe i suoi pensieri. Era nella sua stanza a prepararsi per il turno serale e quella notizia lo colse all’improvviso. Huber chiamava una prostituta nel suo ufficio solo se aveva risarcito il suo debito, aveva bisogno di sfogarsi o se tale persona si trovava nei guai.
-Non ti ha detto il perché?- domandò, mentre si dirigeva fuori dalla stanza, seguito da Micheal.
-No, ma non sembrava di buon umore, spero che tu non abbia combinato niente di male.
 
L’ufficio di Huber era al piano terra, dopo un lungo corridoio, a cui si poteva accedere dal bar, e metteva in soggezione la maggior parte delle persone che vi entravano.
Era sempre in penombra, grazie anche ai tendaggi cremisi che coprivano l’ampia finestra, conferendo alla stanza un’atmosfera dark.
Non vi era molto al suo interno: un piccolo mobile in legno scuro,  alcuni scaffali pieni di alcolici e la scrivania in fondo alla stanza, dove, su una poltrona scura, stava sempre seduto Demetrius.
Sembrava quasi un vampiro, con quella pelle pallida, i capelli rosso sangue e uno sguardo glaciale, come la freddezza che avvolgeva il suo cuore.
Jaime aveva sempre avuto una grande soggezione di lui, fin dal primo momento in cui lo aveva visto.
-Voleva vedermi, capo?- sussurrò Jaime, entrando nella stanza.
Vide Huber annuire, per poi invitarlo ad avvicinarsi.
-Ho notato che ultimamente passi molto tempo con quel ragazzo del clan Campbell, Iglesias- disse semplicemente. Jaime sapeva in che modo ne era venuto a conoscenza: a ogni prostituta del Rugiada era stato iniettato un micro-chip nel braccio, in modo che il loro padrone potesse localizzarle in ogni momento, per questo, quando non lavoravano, le lasciava andare in giro per la megalopoli, anche se fossero fuggite, lui le avrebbe trovate in poco tempo.
Questo micro-chip, ovviamente, veniva tolto solamente se una prostituta aveva esaurito il suo debito e, quindi, era libera di andarsene.
-È solo un cliente con cui è piacevole scambiare qualche chiacchiera- mentì minimizzando.
Huber sospirò, probabilmente non gli credeva, ma non sembrava arrabbiato o quant’altro.
-Non mi interessa quello che fai con Iglesias fuori dall’orario lavorativo, ma ciò non deve intralciare la tue efficienza e qualità qui.
-Non ne sono innamorato, se è questo che intende.
E per qualche motivo, a Jaime fece uno strano effetto dire quelle parole, come se non le pensasse veramente, anche se non era così. Era ben consapevole del fatto di non potersi innamorare, non avrebbe giovato al suo lavoro.
Demetrius annuì meccanico, fissandolo serio negli occhi
-Sono felice di sentire ciò, l’amore non porta altro che dolore e sofferenze in questo mondo. Volevo solo essere sicuro che avessi i piedi per terra. Ora puoi andare.
Jaime, dopo aver ringraziato, fece per andarsene, ma la sua voce lo bloccò.
-Ah, mi stavo scordando di avvertirti che Cooper ti ha prenotato per tutta la notte. Vedi di soddisfarlo.
 
Mentre Jaime era stato convocato nell’ufficio del suo capo, Gordon, a Palazzo Campbell, aveva indetto una riunione con tutti i membri più importanti del clan.
Erano presenti i suoi tre figli, i suoi due fratelli, i coniugi Sokolov, un Nikolaj stranamente sobrio e la famiglia Iglesias.
Erano tutti seduti a un lungo tavolo, a cui capo c’era il boss del clan.
-Vi ho convocati qui oggi, per rendervi partecipe di un fatto molto importante per il futuro del nostro clan. Clark Murray, capo dell’omonimo clan, mi ha contatto per fare un trattato di pace.
Subito suoni d’assenso e non si diffusero per tutta la sala e Gordon fu costretto a riportare la calma battendo il pugno sul tavolo.
-Ho già preso una decisione in proposito- continuò con tono che non ammetteva repliche – questa guerra fra clan dura da troppo tempo e ha già causato molte perdite. È ora di mettere la parola fine a questa situazione. Ovviamente, a questo trattato, in zona neutrale, non ci andrò da solo. Ora elencherò le persone che vorrei venissero con me, potete anche rifiutare se non siete d’accordo, ma confido nel fatto che la pensiate come me.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui nessuno fiatò, poi la voce roca del boss scandì i nomi
-Boris e Alan Campbell; Daniel Campbell; Andrey Sokolov; Nikolaj Polanski e Tajo Iglesias. L’incontro è fissato fra tre giorni, alle nove e venticinque di mattina al bar Efestus. Avete tempo fino ad allora per valutare la mia offerta.
E con quest’ultime parole, li congedò.
 
Un gruppo di persone che entra in una stanza.
Un’enorme vetrata occupa un’ intera parete.
-Dove diamine è il Clan Murray? Dovevano essere qui minuti fa’.
Conosce quella voce profonda, appartiene a Gordon Campbell.
 -Papà, fosse è il caso di andar—
Una pioggia di proiettili rompe il vetro e si conficca nei corpi di quelle persone.
Ne riconosce alcune, come Nikolaj e Tajo.
I loro corpi sono riversi a terra, un odore di sangue penetra nell’aria in quella stanza che si è trasformata in un cimitero.
Jaime si svegliò all’improvviso, fuori è già mattina. Si sollevò piano a sedere, lentamente, guardandosi intorno; non era una camera dai vetri infranti piena di cadaveri, ma nella sua stanza al Rugiada. Non c’era odore di sangue, ma solo della muffa che si stava formando sul soffitto.
Ci mise poco a capire che ha avuto un’altra Visione, ultimamente stavano diventando frequenti.
Senza pensarci troppo, afferrò il cellulare e compose il numero di Tajo con i battiti del cuore accelerati.
Rispondi, ti prego, rispondi.
- Pronto, Jaime? Sono le otto di mattina, cos’è successo?
Il ragazzo non fece caso alla voce assonnata dell’altro e decise di andare subito al sodo.
-Il Clan Campbell deve incontrarsi con i Murray?
Forse aveva parlato troppo veloce perché Tajo, ancora mezzo addormentato, ci mise qualche secondo a rispondere.
-Come fai a saperlo, hai avuto una Visione?- domandò allarmato, da quello che aveva capito le Visioni non portavano mai belle notizie.
-Sì- mormorò con voce flebile.
-E com’era?
-Orrenda.
Jaime stava stringendo il cellulare convulsamente e si preoccupò quando l’altro non rispose. Che si fosse addormentato?
La voce di Tajo, però, si fece sentire subito dopo quel pensiero.
-Incontriamoci al Meteor fra quaranta minuti, così mi spieghi meglio.
 
 
Jaime sapeva che non avrebbe dovuto raccontare il futuro a qualcuno, era consapevole del fatto che non doveva giocare con il destino, ma non ce l’aveva fatta a tenere quel segreto terribile per sé, non quando una delle persone a cui teneva di più era coinvolta.
Non avrebbe fatto lo stesso sbaglio che aveva fatto con Yana.
Per questo, una volta giunto al locale, Jaime cominciò a raccontare dettagliatamente ciò che aveva visto , facendo delle pause prima di descrivere gli aspetti più macabri. Tajo ascoltò attentamente, cercando di non far vedere quanto fosse spaventato da quella prospettiva.
-Quindi i Murray ci tenderanno una trappola, fanno finta di volere una resa quando in realtà vogliono eliminarci- concluse infine l’ispanico.
Anche se non voleva darlo a vedere, Jaime aveva capito che l’altro era molto preoccupato.
-Che pensi di fare?
-Dovremmo parlare con Gordon, è lui il boss e saprà di certo cosa fare.
Jaime gli lanciò un’occhiata scettica.
-Perché l’uso del noi?
Tajo sorrise furbo, puntando gli occhi verdi nei suoi blu.
-Perché, anche se lui riesce a capire quando una persona mente, faticherà a credere a delle visioni. Magari se ci sei anche tu riusciamo a convincerlo.
 
In realtà convincere Gordon fu più facile del previsto. Anche se inizialmente risultò scettico, dopo aver sentito la storia di Jaime, che omise tutti i dettagli su René e si limitò a spiegare i fatti più essenziali, si dovette ricredere.
Non era la prima volta che sentiva di scienziati che volevano ricreare artificialmente i poteri Skills (come se fosse una cosa possibile, poi!), così prese le dovute precauzioni: indisse una riunione con i suoi accompagnatori e consegnò loro delle nuove armi, le stesse per cui Tajo aveva rischiato la vita mesi prima.
-Queste- spiegò, mostrando quelle che apparentemente sembravano armi da fuoco –contengono una nuova sostanza, la MB202, che riesce a fermare i poteri Skills per qualche minuti, giusto il tempo di ammazzarli senza rischiare di venire bruciati o fulminati, per capirci. Si adoperano come delle normali pistole, per cui non serve un particolare allenamento per saperle utilizzare.
Infine collaudò un piano contro i Murray, avevano l’effetto sorpresa dalla loro parte e, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero messo fine a quella guerra fra clan uscendone vittoriosi.
 
La notte prima dell’incontro col clan Murray, Tajo prenotò Océan. Gordon non gli aveva fatto nessuna illusione: era diventata una missione pericolosa, quella che dovevano affrontare, e non era garantita la salvezza di nessuno.
Così aveva preso un’importante decisione: avrebbe confessato i propri sentimenti a Jaime. Se doveva morire, voleva farlo senza avere conti in sospeso.
Appena entrò nella sua camera, vide il ragazzo seduto sul letto. Aveva addosso una canottiera attillata nera e dei pantaloni a vita bassa dello stesso colore. Quando posò gli occhi blu su di lui, sorrise.
Jaime era estremamente bello e sexy così, altroché Océan e i suoi ombretti glitterati  e abiti succinti. Una bellezza naturale come lui non aveva bisogno di quelle porcherie.
-Che ci fai qui? Non dovresti prepararti per domani?- domandò il francese e, anche se il tono usato suonava un po’ come un rimprovero, Tajo sapeva che l’altro era felice di vederlo.
-Voglio passare quest’ultima notte con te, e poi…- prese un profondo respiro, doveva farlo, dirgli ciò che provava per lui –dovevo dirti una cosa.
Jaime lo guardò confuso e sorpreso, piegando la testa di lato, in un muto invito a continuare.
L’ispanico si irrigidì per qualche istante, per poi prendere le mani dell’altro fra le sue e tirarlo verso di sé, in modo che i loro corpi fossero più vicini.
-Io non sono molto bravo in questi discorsi- iniziò, parlando a voce bassa, cercando di calmarsi e di scegliere attentamente le parole da dire.
–La prima volta che venni qui al Rugiada volevo solo scopare, avevo bisogno di una valvola di sfogo in cui scaricare lo stress, non avrei mai immaginato di conoscere una persona con una così forte personalità e una sensibilità quasi introvabile in un posto come questo. Quello che voglio dire è…- prese un altro respiro, per poi buttare fuori l’aria e mormorare –credo di essere innamorato di te, Jaime.
Tajo si aspettava varie reazione da parte dell’altro ragazzo a quella confessione, da urla e spintoni a un odioso silenzio, ma non si sarebbe mai aspettato di vederlo piangere. Perché era proprio una lacrima quella che gli rigava il viso.
-Perché stai piangendo?- chiese a bassa voce, accarezzando con la punta delle dita la guancia dell’altro e pulendolo da quella lacrima dispettosa.
-Io non posso amarti, Tajo…- sussurrò. Jaime stava provando tante di quelle emozioni in quel momento: rabbia, confusione e felicità. Era da anni che non si sentiva così felice, come se il suo cuore rotto dalle mille perdite che aveva subito, fosse stato messo a nuovo.
E non riusciva a capirne il motivo.
O forse sì, ma non voleva ammetterlo.
-Non puoi decidere se amare o meno.
Jaime strusciò il viso contro la mano dell’altro, sorridendo triste, mentre altre lacrime calde scendevano sul suo volto
-Il mio lavoro rovinerebbe tutto.
Tajo gli sorrise, mentre la mano si spostava sulla nuca, accarezzandogli piano i capelli.
-Ti amerei anche se fossi un clown. Non mi importa del tuo lavoro, ci convivrò.
Jaime ridacchiò a quel paragone e strinse fra le mani il tessuto arancione della maglietta dell’altro.
-Ho paura.
-Di cosa?
-Di amarti. Tutte le persone che amavo sono morte, Tajo. E tu domani prenderai parte a una missione pericolosa.
L’ispanico lo guardò negli occhi, verde smeraldo in blu elettrico, prima di prendergli il viso fra le mani e poggiare la bocca sulla sua.
Fu un bacio lento e passionale, Tajo leccò le labbra dell’altro come in una cordiale carezza, prima di separarsi e sussurrare –Tornerò solo per saggiare di nuovo queste labbra, te lo prometto.
Stavolta fu Jaime a baciare l’altro, mentre gli accarezzava i capelli rossicci, col passare del tempo erano diventati più lunghi e gli sfioravano la nuca. Il bacio si fece più spinto e Tajo fece scendere le mani fino alle natiche dell’altro, infilando le dita delle tasche posteriori in modo da avvicinarlo al suo corpo ancora di più, facendo aderire i bacini.
Quella notte Jaime fece l’amore, senza trucchi o finzioni, ma solamente con sospiri sinceri e baci roventi. Le mani di Tajo accarezzavano il suo corpo, venerandolo quasi, e lui, per la prima volta in tutta la sua vita, non se ne sentì disgustato.
Fu diverso, quella volta, forse perché era con la persona che amava, quasi non ci credeva, dopo così tanto tempo passato a erigere un muro attorno al suo cuore spezzato dalla crudeltà umana, era bastata una sola persona per abbatterlo.
E Jaime non poteva esserne più felice.
 
Ciò che successe dopo nessuno lo saprà mai con certezza.
L’unica cosa certa è che il clan Campbell annientò i Murray. Della sorte del ragazzo sognatore e della puttana dagli occhi color del mare si dissero molte cose, nei bar affollati della Slam City.
C’è chi dice che Gordon, per ringraziare Jaime di aver salvato il suo clan, pagò il suo debito con Huber e diede il permesso a Tajo di lasciare il clan, perché in fondo sapeva non era lì la sua felicità. I due, così, furono liberi di partire e andarsene.
Altri sostengono che quegli sfortunati amanti scapparono, una notte, di nascosto e che passarono il resto della loro vita a viaggiare fra le città, come due vagabondi innamorati.
Nella Slam City non si sa cosa sia vero o cosa sia falso, ma di certo, da qualche parte nel mondo, un ragazzo dagli occhi color dell’oceano continua ad amare un sognatore ispanico.




Note:

[2] Nominazione per i quartieri di Parigi.
[3] “Gemelli” in francese.
[4] “Ovviamente” in francese.
[5] Ricordo che i gemelli hanno preso lezioni di lingue, quindi  capiscono e parlano l’inglese decentemente.

 
 



 

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