Senza rumore

di Hermione Weasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Note: questa storia nasce perché mi sono ritrovata a leggere un po' troppi libri ambientati in quest'epoca (il 1700) e Age of Ultron stava ancora per uscire e io mi disperavo a pensare a Clint e Natasha. Il mostro che ne è venuto fuori è questo :P il periodo non è specifico, così come non ho specificato il luogo in cui si svolge, né mi sono eccessivamente preoccupata dell'accuratezza storica (salvo sfondoni troppo eccessivi). Mi piaceva darle il tono della favola; se ci sono riuscita o meno non lo so, ma l'idea era quella.
I personaggi si ispirano sia ai film che ai fumetti (per Clint quello di Matt Fraction, per Natasha quello di Nathan Edmondson); alcuni dei personaggi che esistono solo nei fumetti compariranno anche qua. I Vendicatori faranno tutti un'apparizione, ma rimarranno personaggi decisamente secondari. Lo stesso vale per quelli di Agents of Shield di cui mi sono servita qua e là (tranne Skye perché me la sono dimenticata. Scusa Skye mi stai anche simpatica XD). Non ho messo il crossover perché rimarranno personaggi secondari per tutta la storia.
La storia avrà 30 capitoli ed è già stata tutta scritta. Il POV sarà quasi sempre quello di Clint, ma non il solo.  Come al solito tutte le volte che scrivo una long fic mi vengono gli attacchi di logorrea e con questa in particolare me la sono presa abbastanza con calma: è sì di avventura ma anche (spesso e volentieri) introspettiva. Lo stesso vale per la coppia principale (Clint/Natasha) che è decisamente slow-building. Mi scuso in anticipo per la frustrazione.
Dovuti ringraziamenti alla socia-beta Eli :*
Ora che ho delirato per un papiro intero, direi che posso tacere.
Buona lettura!

Disclaimer: nessuno dei personaggi mi appartiene ma sono proprietà Disney/Marvel. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. La trama è frutto della mia fantasia.


Senza rumore

 

Il vero inferno è una cosa senza rumore. Esso non delira o infuria, non è una bestia feroce, ma un che, un qualcuno di sordido e molle che s'insinua in noi, quando con noi non nasce, e a poco a poco riempie tutte le nostre cavità, fino a soffocarci. Esso è fatto di giorni inerti (chimicamente parlando), d'infedeltà a noi stessi, di continui cedimenti. E dico che quest'unico, verace suo volto e del male ci vegliò quando le nostre speranze furono peccaminosamente stanche.

(Tommaso Landolfi – LA BIERE DU PECHEUR)

 

 

Capitolo 1

~

 

 

La polvere si alzava in dense e spesse nuvole al ritmo degli zoccoli che battevano sul viale sterrato come tamburi.

Davanti a lui la villa ad ergersi placida e serena sulla collina; tutt'intorno i campi come un'enorme coperta patchwork dalle toppe gialle, verdi, rosse, marroni, punteggiata qua e là dai lenti movimenti dei contadini sotto il sole di maggio.

Alle sue spalle Kate, la figlia di sir Derek, gli teneva dietro con foga, i capelli scuri sferzati dal vento, gli occhi semichiusi per via della polvere, il suo destriero lucido di sudore per la fatica.

“Sembra che qualcuno sia in difficoltà!” Le gridò dietro, ottenendo di farsi lanciare un'occhiata furente che non soddisfece affatto le sue manie masochistiche. “Lady Bishop,” aggiunse, alzando la voce per farsi sentire al di sopra del folle tumulto generato dalla corsa.

“Sei un pezzente, sir Barton!” Spronò il suo cavallo, riuscendo ad accorciare le distanze. Solo quando gli fu praticamente di fianco – sicura di non essere sul punto di ingollare l'ennesimo boccone di polvere – si decise a rivolgergli di nuovo la parola. “Uno stronzo, volevo dire,” puntualizzò.

Clint scoppiò a ridere.

“Hai paura che i contadini di lord Phillip ti sentano?” La prese in giro.

“L'ultima volta che uno dei tuoi tirapiedi è andato a parlare con mio padre sono stata costretta a prendere lezioni di canto!” Esclamò furibonda nel tentativo di giustificarsi, ma riuscì solo a farlo divertire di più. “Smettila!” Lo minacciò.

“Non sto ridendo!” Mentì spudoratamente. “E comunque quelli non sono i miei tirapiedi,” ci tenne a precisare, tirando bruscamente le redini per far rallentare la sua cavalcatura, l'aria impercettibilmente più seria.

Kate fece altrettanto, riducendo il galoppo del cavallo quasi del tutto. Anche lei aveva smorzato la stizza, sostituita adesso da un timido accenno di solidarietà.

“Lo saranno non appena ti deciderai a sposare la nipote di lord Phillip,” non poté fare a meno di ricordargli. Non che ci fosse la benché minima possibilità di dimenticarsene: la famiglia acquisita, gli amici, persino la servitù non mancava mai di farglielo presente.

Dopotutto che stava aspettando? lord Phillip aveva una nipote bella seppur cagionevole di salute, orfana dei genitori e attualmente in possesso di una magra dote che non le avrebbe consentito alcun matrimonio vantaggioso. lord Phillip gli voleva bene: da quando era arrivato a villa Coulson si era impegnato a farlo sentire parte della famiglia, affezionandoglisi a tal punto da volergli assicurare un'eredità, un posto sicuro nel suo albero genealogico. Sposare la nipote caduta in disgrazia avrebbe concesso alla giovane di non finire i suoi malattici giorni da zitella, e a lui di entrare a pieno diritto nei frondosi rami della famiglia Coulson.

“Non guardarmi così,” Kate aveva ripreso a parlare, il tono di voce un poco addolcito. “Lo so che non vuoi sposarla.”

Se c'era una cosa che Clint detestava era essere un ingrato: lord Phillip l'aveva accolto quando non aveva più niente, quando la ruvida corda della forca stava per attorcigliarglisi al collo una volta per tutte. I suoi veri genitori erano morti tanto tempo prima: il volto tagliente e scontroso del padre, quello delicato e distratto della madre... erano anni che faticava a riportarli alla memoria. Fantasmi, oramai. Niente di più.

La notte dell'incendio, poi, era arrivata a separarlo dal fratello: pensava a Barney ogni sera prima di addormentarsi, chiedendosi dove fosse, cosa stesse facendo, se fosse ancora vivo, se lo odiasse. Che aveva fatto per meritarsi la benevolenza di lord Phillip? Di quell'ometto basso, dalla corporatura apparentemente minuta, la voce pacata e un perenne sorriso comprensivo stampato sul volto...

Era famoso in tutto il regno per la sfegatata passione che nutriva per i casi senza speranza: aveva sposato lady Melinda, una popolana proveniente dall'estremo Oriente, contro ogni buon senso, aveva sfidato le convenzioni quando aveva deciso di adottare Antoine, il figlio di un eroe di guerra dalla pelle scura come la terra appena arata; aveva accolto la nipote che dicevano essere matta per la sua propensione alle scienze naturali, un'inclinazione assolutamente disdicevole per un uomo, figuriamoci per una donna!

E poi c'era Clint. Un orfano, un delinquente, un vandalo. Questo si diceva di lui al villaggio: nessuno aveva il coraggio di dirglielo in faccia, ma come avrebbe potuto ignorare le occhiate che gli lanciavano tutte le volte che attraversava la via principale? Lo vedevano come uno spostato, uno come loro che era riuscito ad elevarsi grazie ad un semplice colpo di fortuna e che adesso, per di più, sputava nel piatto che Dio gli aveva straordinariamente concesso, il tutto perché la signorina Simmons non era di suo gradimento. Certo, c'era una consistente possibilità che fosse completamente pazza, ma la sua follia non era un valido motivo per rifiutarsi alle richieste di lord Phillip. Matta lei, allora, e soprattutto matto lui.

Col senso di colpa aveva imparato a conviverci – per aver abbandonato il fratello, per essersi visto capitare una tale benedizione tra capo e collo, per non aver alcuna voglia di sposare lady Simmons... una persona per bene avrebbe accettato immediatamente quella succulenta offerta. Ma non lui. Non ci era riuscito. E adesso quell'angolo di mondo cominciava ad andargli stretto, a soffocarlo poco a poco. Si sentiva come i volatili impagliati nelle loro teche polverose abbandonate in soffitta, dove amava rifugiarsi, lontano dagli sguardi della famiglia, dei domestici. Aveva ventisette anni e una gran voglia di essere... libero.

“Clint.”

La mano di Kate che si posava sul suo braccio lo fece trasalire. La ragazza gli stava rivolgendo un mezzo sorriso dall'aria desolata e allora il senso di colpa tornò a farsi sentire. Che diritto aveva di lamentarsi? lord Phillip l'aveva salvato da una vita abietta e misera, si stava attivamente impegnando per renderlo parte della famiglia, per esortarlo a non emarginarsi come era solito fare. E adesso si stava facendo consolare da Kate, la primogenita di un ricco possidente come sir Derek che da mesi sondava i terreni della nobiltà del regno per venderla al miglior offerente. Donna e per questo doppiamente schiava delle convenzioni e delle regole che determinavano il corso delle loro vite. Non ci sarebbe stata protesta sufficientemente convincente, atto abbastanza persuasivo... niente l'avrebbe svincolata dalla decisioni che il padre avrebbe preso per lei. Era solo questione di tempo. Prima dell'anno nuovo sarebbe diventata la sposa di qualcuno, sarebbe stata spedita chissà dove in giro per il regno ad ingrassare e fare figli, ad intristirsi al fianco di un uomo che neppure conosceva, tutto perché era la cosa giusta da fare. Provò un irrefrenabile bisogno di proteggerla, di strapparla da quell'orrenda prospettiva, trovare il modo di farle avere la vita che voleva così come un fratello maggiore avrebbe fatto con la sorella più piccola.

“Dovremmo fuggire,” le disse molto seriamente, dando voce ad un proposito che gli aleggiava nella testa, informe e sbiadito, ormai da tempo.

“Fuggire dove?” Si mise a ridere, una risata amara e priva di alcun divertimento.

“Lontano da qui.”

Kate gli scoccò un'occhiata strana, linee di polvere e sudore ad incorniciarle il viso, i capelli corvini spettinati, dispettosamente sfuggiti ad un'acconciatura che aveva visto giorni migliori.

Non distolse lo sguardo e gli sembrò sul punto di rispondere... ma il rumore di una carrozza che procedeva pigramente nella loro direzione distrasse entrambi dai loro propositi.

Clint ne riconobbe il cocchiere mentre Kate costringeva il cavallo a fare dietrofront.

“Non metterti nei guai,” si raccomandò prima di lanciare il destriero in una folla corsa, lontana da occhi indiscreti e chiacchiere che non avrebbero fatto altro che aggravare la sua già precaria situazione.

Restò immobile a guardarla sparire in fondo al viale in una nuvola bianchissima, proprio mentre la vettura che portava lo sbiadito stemma dei Coulson gli si fermava di fianco.

Antoine cacciò fuori la testa dal finestrino, i denti bianchissimi sfoderati in un largo sorriso.

“Ehi eremita,” esordì, “sembra che lady Bishop avesse fretta di andarsene.” Lanciò una rapida occhiata nella direzione in cui Kate era scomparsa, dopodiché gli si rivolse con uno sguardo esplicito e divertito insieme, come di chi ha appena colto qualcuno con le mani nel sacco.

“Sta' zitto,” lo rimbrottò prontamente, accennando a spronare la sua cavalcatura in direzione della villa per lasciarseli definitivamente alle spalle.

“E andiamo, lo sai che sto scherzando,” si affrettò l'altro. Era bello come il sole, Antoine, sempre allegro e con una buona parola per tutti.

“Perché non sali?” L'occhialetto di Leopold, il cui volto magro era appena comparso accanto a quello del cugino, brillò alla luce del sole. “Abbiamo importanti novità,” decretò solennemente, la Bibbia rilegata in pelle perennemente stretta tra le mani bianche e ossute (ma tutti sapevano che erano riempite di formule, numeri e simboli che con la religione – a cui la famiglia l'aveva destinato – non avevano niente a che fare).

“Devo riportarla alla stalla,” si giustificò Clint, alludendo al cavallo.

“Può pensarci il figlio di Marvin,” rispose semplicemente Antoine. Batté una mano sullo stipite della portiera e il ragazzino che sedeva accanto al cocchiere scese repentinamente a terra, accostandosi a Clint in attesa di ulteriori istruzioni. “Adesso non hai più nessuna scusa,” gli fece notare, sancendo definitivamente la sua sconfitta.

Smontò da cavallo e ne affidò le cure al giovanotto che gli stava rivolgendo il suo sorriso sdentato e gioviale. La portiera della carrozza si aprì un attimo dopo e Leopold scivolò sul fondo del sedile per fargli spazio.

Solo allora si accorse che anche Grant faceva loro compagnia, serio e taciturno come sempre, i tratti irrigiditi dall'onnipresente disprezzo che pareva provare un po' per tutti, senza esclusione di sorta.

“Quale sarebbe questa importante novità?” Si decise a chiedere dopo che la carrozza aveva ripreso la sua barcollante ascesa verso la villa.

Si creò un gravido silenzio carico d'aspettativa finché Leopold non decise di prendere l'iniziativa e dissipare ogni dubbio.

“Il capitano Rogers verrà a farci visita con tutto il suo reggimento,” dichiarò, neanche stesse pronunciando una di quelle solenni formule latine che il precettore gli aveva martellato nel cervello in tanti anni di studio.

Clint lo guardò dapprima confuso e poi improvvisamente divertito. Scoppiarono tutti e tre a ridere un attimo dopo, fatta eccezione per Grant che si ostinava a guardare fuori dal finestrino con l'aria di chi non ha la benché minima voglia di fare conversazione.

“Immagino che lord Phillip sia in fibrillazione.” La cotta colossale che lord Phillip nutriva per il più famoso capitano dell'esercito del regno era diventata praticamente leggendaria. C'era stata una visita precedente, svariati anni prima, e Clint ricordava ancora con incredulità i modi e i riguardi che il suo protettore aveva avuto per il militare. Era stato esilarante.

“Come fai a sapere che cos'è la fibrillazione?” Inquisì Leopold, spingendosi l'occhialetto sul dorso del naso. Antoine lo zittì con un cenno della mano.

“Siccome la visita coincide con la festa del patrono del villaggio, ci sarà una grande celebrazione. Canti, balli, giocolieri, saltimbanchi, vino, ragazze...”

Grant parve riprendersi dal suo stizzito torpore per scoccar loro un'occhiata carica di disappunto; evitò tuttavia di esprimersi.

“Magari puoi esibirti con quel tuo arco,” riprese Antoine, ignorando l'indisponenza del fratello.

“Non credo importi a nessuno di quel che so fare con il mio ar-”

“Stai scherzando? Se non stai attento ti accuseranno di stregoneria!” Esclamò Leopold ammirato, perché nelle arti della guerra e in tutto ciò che aveva a che fare con la prestanza fisica, era terribilmente negato.

“Stregoneria?” Gli venne da ridere, anche se – data l'ottusità generale e l'antipatia che provavano nei suoi confronti – la prospettiva non era poi così improbabile.

“Non dite sciocchezze.” La voce imperiosa e annoiata di Grant interruppe la conversazione, facendo calare il gelo nello stretto abitacolo dai velluti lisi e scoloriti.

Clint non gli prestò minimamente attenzione: aveva imparato ad ignorare le sue provocazioni, a farsi scivolare addosso il suo disprezzo come pioggia d'estate.

“A proposito di stregoneria,” intervenne Antoine, “dicono sia arrivata una strega in paese.”

“Dove?” Domandò Leopold, improvvisamente interessato.

“Da qualche parte nel bosco,” si strinse nelle spalle, “Bert ne parlava col fabbro stamattina.”

Fantastico, adesso davano credito a quello che il macellaio ubriacone andava dicendo in giro per il villaggio?

“Pare abbia comprato la casa del tagliaboschi,” aggiunse.

“E perché dovrebbe trattarsi di una strega?” Clint non riuscì a trattenersi dal chiedere.

“Dicono sia la donna più brutta che abbia mai messo piede su questa terra...”

“Il che la rende una fattucchiera?” Obiettò scetticamente.

“... in più vive da sola, nel bel mezzo del bosco. Nessuna donna per bene vive in solitudine e in un posto tanto isolato se non ha qualcosa da nascondere,” argomentò Antoine.

“Non è stata una scelta saggia,” convenne Leopold.

Clint, stavolta, non ebbe di che rispondere. Era vero che dopo l'editto del governatore che aveva portato l'Inquisizione in tutto il regno, la vita per gli emarginati e solitari si era fatta più complicata. Bastava essere guardati storti un paio di volte, non rientrare perfettamente in uno qualsiasi dei ruoli accettati dalla comunità, e si finiva per essere considerati come dei veri e propri reietti. A quel punto non ci voleva granché perché la superstizione popolare facesse il resto: le donne sole erano tutte streghe, i mentecatti erano degli stregoni, gli stranieri degli eretici e tutti quanti, nessuno escluso, avrebbero meritato l'abbraccio cocente del rogo se non fossero stati attenti.

“Magari viene da una delle terre vicine,” una di quelle vessate dalla guerra ormai da svariate decadi. Non sarebbe stata la prima e neppure l'ultima. Le ricordava ancora, le lente carovane di sfollati che avevano attraversato il villaggio in lenta processione ormai anni prima. La legge era intervenuta a ristabilire l'ordine, e adesso i clandestini venivano trattati al pari dei traditori: la testa su un ciocco di legno imbevuto di sangue rappreso, un taglio netto e tanti saluti.

“Non ha importanza,” decretò duramente Grant mentre una buca del viale dette uno scossone alla carrozza. “Dovreste smetterla di parlare di cose che non vi competono.”

Approfittò della brusca sosta per aprire la portiera e scendere con una mossa atletica e fluida. La richiuse con un violento tonfo e proseguì a piedi, le rifiniture d'oro della divisa d'ufficiale che brillavano sotto il sole primaverile.

“Che razza di problema ha...” biascicò Clint.

“Solo uno?” Lo corresse Antoine, beccandosi un'occhiata impallidita da parte di Leopold.

Parlare male del primogenito di lord Phillip, figlio naturale della sua prima moglie – pace all'anima sua – era severamente vietato: era viscido e imprevedibile. Il padre aveva inutilmente tentato di smussare gli angoli più appuntiti della sua personalità, ma tra il risentimento per quella villa riempitasi di derelitti e individui bizzarri, e la consapevolezza che la sua eredità era in grave pericolo, tutti i suoi sforzi erano stati inutili. Anzi, Clint era convinto che ognuna delle manovre di avvicinamento di lord Phillip non aveva fatto altro che spingere Grant in un isolamento ancora più forzato.

La carrozza si arrestò con un leggero contraccolpo proprio davanti alla doppia scalinata che conduceva al portone della villa. Era una grande casa giallognola tempestata di finestre – alcune vere, altre finte – i fantasmi di quelle che erano state ricche pitture ad aleggiare sulla facciata; sul tetto, la parte della casa che Clint preferiva in assoluto, facevano bella mostra di sé statue allegoriche che in passato dovevano aver rappresentato le Sette Virtù, ma che adesso reggevano l'anima coi denti, esposte com'erano ai morsi del vento, della pioggia, del tempo.

Jasper, il maggiordomo, comparve nel riquadro scuro della porta, sistemandosi alla meno peggio la parrucca grigia che poggiava sbilenca sulle sue calvizie precoci, segno evidente che doveva essersi addormentato durante uno dei tanti tempi morti che punteggiavano la giornata di villa Coulson.

Scese per ultimo, restando ad osservare Antoine che saliva agilmente i gradini a due a due, e poi Leopold che invece arrancava nella sue vesti nere di futuro prelato; di Grant neppure l'ombra.

Alzò lo sguardo come per istinto: la netta sensazione di essere osservato si concretizzò come un vago prurito alla base della nuca.

Il volto pallido e smunto di lady Jemma scomparve tanto fugacemente quanto era comparso, dietro le tende damascate del salotto blu, al primo piano.

Indietreggiò di un passo senza neppure accorgersene. Ignorando i richiami del povero Jasper che lo invitava ad andare a darsi una pulita in vista della cena, decise che – dopotutto – quella del suo arco e delle sue frecce era l'unica compagnia di cui aveva attualmente bisogno.

 

***

 

Il ramo cigolò sotto il suo peso, ma non si spezzò, limitandosi ad oscillare pericolosamente. Davanti a lui si estendeva un intricato labirinto fatto di fronde e tronchi più o meno resistenti; in basso, invece, il bosco deserto e silenzioso.

Era una giornata nuvolosa che prometteva pioggia di lì a breve: sapeva benissimo che sarebbe stato meglio non lasciarsi sorprendere dal temporale in mezzo a tutte quelle sterpaglie (Leopold aveva tenuto una lezione, svariati mesi prima, per convincerli che un comportamento tanto ingenuo li avrebbe condotti a morte certa).

Ma la curiosità aveva avuto la meglio: si era addormentato e svegliato col pensiero fisso e incomprensibile di quella vecchia orrenda di cui Antoine gli aveva parlato il pomeriggio prima. Non che morisse dalla voglia di avere a che fare con la donna più brutta del mondo, eppure l'immagine che se n'era dato l'aveva perseguitato. Forse aveva bisogno di distrarsi con qualcosa che non avesse a che fare col matrimonio incipiente e col senso di colpa che ne conseguiva; oppure dipendeva dallo slancio di solidarietà che provava nei confronti di chi gli appariva emarginato e solitario come lui. Uno di quegli stravaganti che non trovavano alcun posto nella comunità, che se non decidevano di adattarsi in qualche modo, di mimetizzarsi tra la folla, ne venivano espulsi, ostracizzati.

Si sentiva così anche lui, dopotutto. Nonostante la benevolenza di lord Phillip, nonostante lo squallido sfarzo di cui l'aveva circondato, Clint non si era mai sentito realmente a casa a villa Coulson. La colpa e il peso del debito che sapeva di portarsi appresso gliel'avevano impedito.

Aveva passato la sera in compagnia dei gufi, delle pernici, dell'aquila impagliati che fissavano i loro occhietti di vetro oltre le teche in cui un collezionista morto da anni – secoli? – li aveva rinchiusi, prima che non arrivasse qualcuno a decidere che erano troppo inquietanti e scabrosi per essere mostrati nello studio di lord Phillip, e quindi trasportati in soffitta, dove erano stati dimenticati.

Il falco pellegrino era quello che catalizzava ogni volta la sua attenzione: il becco leggermente dischiuso in un grido soffocato per sempre, la promessa di un'accusa che non si sarebbe mai concretizzata. Lo sentiva affine: indignato per la sorte che gli era capitata, eppure costretto ad una sorta di cieca ubbidienza che gli aveva tarpato le ali una volta per tutte. L'avevano reputato un ottimo esemplare, l'avevano svuotato dal di dentro e l'avevano messo in esposizione: un magnifico guscio vuoto da cui si era cercato di cancellare l'olezzo di morte con chissà quale sostanza chimica dall'odore altrettanto nauseabondo. Erano famosi per la loro vista acuta, i falchi: gli occhi gli erano stati strappati e sostituiti con due biglie che avrebbero resistito allo scorrere del tempo, che non si sarebbero decomposte insieme a tutto il resto.

La teca era come villa Coulson, e lui era come quel falco, perennemente bloccato in un atto di ribellione che non avrebbe mai avuto il coraggio di compiere.

Passi leggeri e a malapena udibili lo riportarono all'attenzione: qualcuno stava arrivando. Clint si orientò in pochi secondi: quella che era stata la casa del tagliaboschi si trovava a qualche centinaio di metri alla sua destra, mentre alla sua sinistra – oltre la radura che tagliava in due il tetto di vegetazione – si trovava il vecchio pozzo che nessuno utilizzava più da quando si era diffusa la credenza che fosse stato infettato con la peste bubbonica, ormai più di duecento anni prima. La leggenda di Benedict, il ciabattino trovato morto ricoperto di piaghe proprio nei pressi della fonte d'acqua, faceva parte dello striminzito bagaglio d'esperienza che genitori premurosi si assicuravano di procurare ai figli appena nati. Leopold aveva avanzato la possibilità di smascherare quella convinzione come la stupida superstizione che era durante uno dei suoi sermoni, ma lady Melinda l'aveva convinto a desistere onde evitare di incorrere in inutili grattacapi.

Abbandonò la quercia su cui aveva preso posizione, avanzando d'albero in albero finché non ebbe trovato un punto d'osservazione migliore.

Quei passi leggeri e cauti appartenevano ad una donna dai lunghi capelli biondi coperti solo parzialmente da un fazzoletto nero. La luce grigiastra del sole che filtrava dalla coltre del fogliame sortiva uno strano effetto su quelle ciocche color del grano. Stava trasportando due pesanti secchi d'acqua, senza dubbio tirati su dal vecchio pozzo, ma non aveva l'aria di essere particolarmente affaticata. Braccia giovani e pallide fuoriuscivano dalle maniche voluminose e tirate su di una camicetta bianca, stretta da un corpetto marrone allacciato sulla schiena. La gonna scura le lasciava scoperti i piedi scalzi, permettendole di avanzare silenziosa e guardinga come un gatto.

Forse la bruttissima vecchia delle storie del macellaio aveva una figlia; forse non era poi così sola come avevano inizialmente supposto. D'altro canto, non sembrava neppure una morta di fame: ci volevano forze ed energie in quantità per sostenere un peso del genere con tanta disinvoltura.

La seguì silenziosamente, mimando i suoi spostamenti al suolo, con altrettanti tra gli alberi, tallonandola fino alla casa del tagliaboschi.

Rimase appollaiato su uno dei rami più resistenti, studiando le mosse della giovane.

Quale che fosse la ragione del suo trasferimento, sembrava avere tutta l'intenzione di farlo in pianta stabile. La porta sgangherata era stata rimessa a nuovo, nuove tele chiudevano le uniche due finestre della facciata, mentre le altre due – sul lato opposto – erano state inchiodate con pannelli di legno grezzo.

Il piccolo orticello che fiancheggiava la costruzione era stato sistemato e riseminato: minuscoli ciuffetti verdi affioravano timidamente dalla terra umida.

La vide aprire la porta e sparire oltre l'ingresso con i secchi d'acqua. Passò un minuto buono prima che ricomparisse da una delle finestre, dandogli la prima vera occasione di guardarla in faccia. Si stava giusto chiedendo se l'avrebbe vista morire di peste bubbonica, come temevano i beninformati del villaggio, quando la ragazza alzò il viso nella sua direzione.

La paura di essere scoperto (impossibile! Era stato attento ad assicurarsi di avere sufficiente copertura tra le fronde dell'albero che lo ospitava) venne rapidamente sostituita da una strana sensazione cui non avrebbe saputo dare un nome.

Furono gli occhi a monopolizzare la sua attenzione, verdi e apparentemente calmi, eppure accesi di una luce strana, inquietante; erano incorniciati da sopracciglia delicate e rossicce, dalla pelle pallida della fronte e delle guance. E poi c'erano le labbra, rosse e carnose. Erano quelle, insieme allo sguardo, a cozzare bruscamente con il suo aspetto altrimenti angelico. Gli ricordava uno di quegli affreschi rosicchiati dall'usura del tempo che si affacciavano dai soffitti della villa; una dea nuda fatta di curve gentili e burrose, della stessa sostanza delle nuvole che ne avvolgevano le nudità per far sì che non ci fosse niente di scabroso a sconvolgere le povere, pudiche fanciulle non maritate della casa.

Gli occhi, però, gli facevano venire in mente uno di quei temporali terribili che spazzano la terra con la furia del vento, la vessazione della pioggia, che appiccano incendi pronti ad ingoiarsi interi villaggi. Come se gli stessero promettendo una rapida, orrenda punizione. La vendetta per un crimine che ancora non sapeva di aver commesso, ma di cui si sentiva ugualmente colpevole.

Le labbra, invece, oh... quelle gli mettevano addosso un'idea di perdizione completamente diversa, quella fatta di membra ansanti, pelle sudata e bocche che sanno di vino.

Si ritrovò a deglutire malamente e a trattenere il fiato, non tanto per la paura di essere scoperto, ma per la reazione inaspettata che la sconosciuta gli aveva provocato.

Il volto di Barbara gli si palesò davanti agli occhi, spregiudicata e bellissima; vedova e orfana e quindi padrona di se stessa, più libera di tante altre. Rivederla in piedi tra gli scaffali polverosi della piccola biblioteca di paese di cui aveva ereditato la gestione dal defunto padre, gli scatenava addosso un'urgenza calda e familiare, una che sapeva di poter soddisfare ogni volta che l'avessero voluto... bastava stare attenti a non farsi scoprire.

Ma quello che la sconosciuta riusciva a suscitargli non aveva niente a che vedere con Bobbi... era una sensazione nuova che gli metteva addosso terrore, curiosità ed eccitazione tutte insieme.

La ragazza dirottò lo sguardo altrove, lontano dal suo nascondiglio, un attimo prima di sparire oltre il davanzale, inghiottita dalle ombre della casa.

Si sentì immensamente stupido, fermo com'era su quell'albero come un gufo del malaugurio caduto sotto gli incantesimi della folla superstiziosa: che si aspettava di trovare? Una vera strega? Una donna orribile dallo sguardo iniettato di sangue, magari, con un grosso naso ingobbito, mani scheletriche e macchiate dal tempo, unghie lunghe, appuntite e gialle come gli occhi del gatto nero che – sicuramente – accompagnava le sue demoniache incombenze quotidiane.

Fece per voltarsi e andarsene quando qualcosa di rosso e non meglio definito gli schizzò davanti agli occhi. L'istinto prese il sopravvento: allungò una mano e afferrò al volo quella che scoprì essere una mela, talmente scarlatta e lucida da sembrare fatta di cera, come quelle assiepate nel centrotavola della sala da pranzo a villa Coulson.

Abbassò lo sguardo per incontrare quello della ragazza ai piedi dell'albero, le mani sui fianchi e un'espressione a dir poco furibonda ad animarle il volto, insieme ad una tacita domanda cui non si sarebbe potuto sottrarre se non al prezzo di una penosa figura da stoccafisso.

“Bellissima giornata, ah?” Gli uscì stupidamente e senza alcun preavviso, proprio mentre il rimbombare sordo di un tuono scuoteva il cielo grigio e nuvoloso sopra di lui. Si era a tal punto preoccupato della tempesta di quegli occhi verdi e sconosciuti, da dimenticarsi di quella reale che minacciava di abbattersi su di lui da un momento all'altro.

“Non direi,” rispose la giovane, la voce più bassa e roca di quanto non si fosse aspettato.

L'accusa che le lesse in faccia bastò a fargli sprofondare lo stomaco dalla vergogna. Prese un'improvvisa decisione e si inerpicò giù per il tronco, atterrandole (più o meno) elegantemente di fianco.

La fanciulla lo osservò da capo a piedi: i vestiti smessi che usava durante le sue scampagnate, gli stivali logori e la camicia strappata intorno ai polsi, la casacca del gilet sgualcita e mancante di almeno tre bottoni, la corda dell'arco che gli tagliava trasversalmente il petto, l'inarcatura di legno che faceva altrettanto con la schiena.

Non era del tutto estraneo al sentirsi completamente fuori posto, ma non gli era mai capitato al cospetto di quella che aveva tutta l'aria di essere una popolana: non che l'essere stato ufficiosamente adottato da lord Phillip gli avesse mai realmente montato la testa con chissà che velleitarie pretese aristocratiche, ma non gli era mai successo di vergognarsi per il proprio aspetto. Mai prima di allora.

La donna era vestita con abiti più umili dei suoi, eppure c'era un non so che di regale nel mondo in cui gli stava di fronte, senza paura e senza disagio; tanto da farlo sentire terribilmente inadeguato.

“Mi state spiando?” Gli chiese chiaro e tondo, impedendogli di abbassare lo sguardo e di eludere in qualche modo la domanda.

“No,” si affrettò a rispondere, ma non gli ci volle molto per rendersi conto di quanto suonasse stupido. L'aveva appena sorpreso appollaiato su un albero a fissarla... da che mondo e mondo le sue azioni avrebbero potuto essere definite spiare. “Okay. Magari vi stavo spiando,” ammise, passandosi nervosamente una mano sulla nuca (il che contribuì a ricordargli che era tempo di tagliarsi i capelli... di nuovo).

La ragazza non sembrava intenzionata a togliergli gli occhi di dosso: continuava ad osservarlo così come Leopold faceva con le sue stupide rane prima di sezionarle e sbudellarle per capire cosa le tenesse in vita.

Il silenzioso si protrasse fino a diventare fastidioso. Fin troppo. Ne approfittò per rilanciarle la mela... che la sconosciuta fece cadere senza il benché minimo accenno ad un'agile presa. Il frutto atterrò sul prato con un leggero tonfo, mitigato solo dai cannoni dei tuoni che avevano preso a risuonare sopra le loro teste.

“Avete paura che sia avvelenata?” Domandò senza neppure abbassarsi a guardare che fine avesse fatto, le braccia intrecciate al petto che... fece solenne giuramento di non far ricadere lo sguardo in quel punto per niente al mondo.

“Perché dovrebbe?” Si sforzò di risponderle e di apparire disinvolto come non era affatto. Si chinò a raccogliere la mela e neppure aspettò di essersi rimesso dritto prima di darle un poderoso morso. Il succo gli scese giù per il mento mentre il sapore dolce e aspro insieme gli riempiva la bocca.

“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.

“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.

“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.

“Ero curioso.”

“Quindi ci credete.”

“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”

“Per spiarmi? No.”

“Mi scuso se vi ho infastidita, signorina... qualunque sia il vostro nome,” adesso iniziava a spazientirsi sul serio. Va bene, era stato colto in flagrante, ma non aveva neppure intenzione di lasciarsi prendere a pesci in faccia da una completa sconosciuta. “Ma i boschi sono di tutti e si dà il caso che apprezzi moltissimo la solitudine di questi luoghi,” decretò seccamente, detestandosi per il modo compunto in cui stava parlando. Di nuovo, la netta sensazione di trovarsi davanti a chissà che principessa o regina di terre lontane lo colse alla sprovvista. E' solo una contadina, si ricordò. Datti un cazzo di contegno, Clint.

“Fossi in voi mi affretterei a tornare al villaggio, allora. Quando la tempesta sarà scoppiata, i vostri alberi non potranno più tenervi al sicuro, sir...”

“Non sono un sir.”

La sconosciuta non batté ciglio, come se quel diverbio non la stesse turbando per niente. C'era qualcosa di assolutamente sbagliato nel suo viso, nel suo comportamento: era uno di quei giochi cinesi ad incastro di lady Melinda; una composizione praticamente completa, a cui manca solo un pezzo... eppure l'unico che rimane non è della forma giusta. Lo si può schiacciare sull'unica orbita vuota del disegno, ma non ci entrerà mai. La donna, ad occhio e croce non molto più giovane di lui, aveva l'aspetto di un enigma irrisolvibile.

“I vostri abiti sono di nobile fattura,” obiettò semplicemente.

“Sono solo stracci.”

“Stracci aristocratici,” insisté con calma a dir poco snervante. “Andavate a caccia?”

“No, ve l'ho detto. Ho sentito parlare di vostra madre e sono venuto a vedere.”

“Mia madre?”

“La vecchia che dicono di aver visto aggirarsi nei pressi della casa del tagliaboschi,” specificò, “della vostra casa,” si corresse subito.

“Non so di che stiate parlando,” dichiarò lei, forse improvvisamente annoiata da quell'inutile ciarlare.

“Vivete da sola?” Non aveva la benché minima idea di quanto fosse pericoloso? Il regno era pieno di malintenzionati, soprattutto quando si trattava di giovani donne sole... nei boschi. Dio, non le avevano mai raccontato le fiabe più famose, quand'era piccola? Il bosco era costante prefigurazione di pericolo, perdizione, morta certa. Solo uno stolto vi si sarebbe avventurato e solo uno sciocco vi avrebbe preso dimora, soprattutto quando si parlava di una fanciulla incapace di difendersi.

“E' per caso vietato dalla legge?”

“No,” borbottò stizzito.

Fu allora che si accorse che quella che viveva nel bosco era lei, che quello che ci si era avventurato, invece, era lui. Secondo i simboli delle fiabe che sua madre gli aveva narrato la sera, davanti al fuoco del campo, lui era la giovinetta imprudente, e la fanciulla invece il lupo cattivo che aspettava di coglierla in fallo per riempirsene lo stomaco.

Un brivido inaspettato gli corse giù per la schiena, facendolo sentire immensamente stupido. Quali che fossero le sue sensazioni, le ridicole suggestioni che quella donna gli dava, la realtà rimaneva una sola: la potenziale vittima era lei e nessun altro. O almeno tentò di convincersene per mantenere salda la presa su quell'improbabile situazione.

La pioggia li sorprese l'istante successivo, riversandosi sul bosco dapprima con timidezza, poi con impeto sempre maggiore. Lo prese come un valido motivo per andarsene il più rapidamente possibile.

“Signora,” l'apostrofò accennando ad un profondo inchino.

“Vi conviene entrare in casa o rischierete di ammalarvi... o peggio.” Gli dette le spalle senza attendere una risposta, abbandonandolo solo come un verme in balia del temporale. Un lampo improvviso e poi il boato di un fulmine che sembrava essere caduto un po' troppo vicino per i suoi gusti, lo convinsero a seguirla.

Si fermò di nuovo sulla soglia dell'ingresso: un odore dolciastro di muffa, fumo, e chissà quale strano unguento gli pizzicò le narici. Qualcosa gli diceva che non avrebbe mai dovuto varcare quel confine, quasi si sentisse sull'orlo di un cambiamento madornale, un cataclisma che avrebbe cambiato per sempre l'aspetto della sua vita.

La fanciulla si muoveva tra le ombre della cucina, improvvisamente rischiarata dal fuoco che si curò di riportare in vita tra i ciocchi carbonizzati del camino.

Si dette mentalmente dell'idiota: la superstizione non era il suo pane. Possibile si stesse comportando proprio come quegli stupidi bigotti che tanto detestava?

Azzannò la mela, rossa e lucente, per la seconda volta e si decise infine a compiere quel misero passo da cui, l'avrebbe scoperto molto più tardi, non si sarebbe più potuto tirare indietro.






Note: Kate Bishop, per chi non la conoscesse, è l'altra Occhio di Falco nel fumetto di Matt Fraction. Bobbi è Barbara Morse ed è un miscuglio tra quella dei fumetti (dov'è l'ex moglie di Clint) e quella di Agents of Shield. Tutti gli altri personaggi menzionati fino ad ora (fatta eccezione per i due principali) sono di AoS. Tra l'altro mi sento di dire che Ward lo detesto XD Quindi se vi piace Ward, mi dispiace, ma questa non è una storia Ward-friendly.
Ora ho smesso di delirare davvero. Grazie a chi è arrivato fin qui e al prossimo capitolo! :)

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo 2

~

 

 

“Sono tre lepri, due beccacce e una quaglia,” dichiarò con malcelato orgoglio, appoggiando la sacca della selvaggina sotto il naso di Kate.

Seduta ai piedi di un albero al limitare del bosco, la ragazza lo guardò da sotto in su con aria esageratamente annoiata.

“Stavo cominciando a darti per disperso...”

“I professionisti hanno bisogno di tempo per lavorare,” ribatté.

“... che la strega ti avesse rapito...”

“Perché non mi dici che hai preso, piuttosto?”

“... e lasciato ad ingrassare in attesa di poterti mangiare,” si allungò per afferrargli una coscia, facendolo sobbalzare per la sorpresa.

Le scostò la mano con un gesto inutilmente pomposo.

“Va bene, se continui a non collaborare...”

L'aggirò per andare a recuperare personalmente la sacca di pelle della ragazza, allentandone il laccio per spiarne il contenuto. La sua espressione si fece da placida a stizzita nel giro di pochi secondi.

“Dove diavolo le hai trovate sei lepri?” Chiese con una certa urgenza, la consapevolezza di essere stato battuto ad increspargli le labbra in una smorfia di disappunto.

“Dove pensi che le abbia trovate?” Gli ritorse Kate, facendoglisi di fianco con un gran sorriso stampato in faccia.

Prese in considerazione la possibilità di rispondere, ma – senza che potesse far molto a riguardo – la delusione gli si sfaldò sul viso come neve al sole. Scosse il capo, incredulo e divertito assieme: per la prima volta, l'allievo aveva superato il maestro. Non sapeva se sentirsi preoccupato per la sua virilità minacciata, o orgoglioso della sua protetta... probabilmente entrambe le cose.

“Sembra sia già entrato nella fase discendente della mia vita,” commentò drammaticamente, lasciandosi cadere seduto sul prato, archi e faretre abbandonati poco distante.

“Solo perché ti sei messo a cacciare le quaglie?” Mitigò l'affondo con l'offerta del suo otre e un'occhiata innocente.

“I figli di Simone adorano le quaglie!” Protestò a gran voce, strappandole il vino di mano per berne un lungo sorso ristoratore.

“I figli di Simone sono due,” ci tenne a ricordargli, impietosa, il che le valse l'ennesima occhiataccia. “Non hai più l'età, Clint Barton,” decretò in tono definitivo.

“Adesso non ti allargare,” puntualizzò, “potrebbe essere la fortuna del principiante.”

“Oppure...” Kate si sporse verso di lui, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso, occhi negli occhi tanto che Clint ebbe paura di essere diventato strabico, “... stai appassendo.”

“Stronza!” Le lanciò dietro l'otre, ma la ragazza fu più veloce, scattando all'indietro per andare a rifugiarsi dietro l'albero.

Si rimise in piedi mentre la risata di Kate tornava a solleticare il suo orgoglio ferito.

“Dovremmo darci una mossa,” le disse dopo aver lanciato un rapido sguardo al sole ancora alto nel cielo. “Portare questa roba al villaggio prima che faccia buio.”

Riassicurò la sacca della cacciagione alla cintura prima di andare a recuperare arco e frecce.

“Ehi,” Kate era ricomparsa e stava facendo altrettanto. “E' vero che ti esibirai alla festa in onore del capitano Rogers?”

Clint rischiò di vomitare il vino per la sorpresa.

“Chi te l'ha detto?”

“Betsy l'ha sentito dire in paese,” rispose semplicemente, divertita però dall'imbarazzo di lui.

“Betsy la donna che svuota il tuo vaso da notte?”

“Non cercare di cambiare discorso,” lo pungolò, “potrei dirle di vuotarlo sulla tua testa, la prossima volta.”

“Ottimo, magari potrebbe esibirsi lei per il capitano Rogers. Una giocoliera di vasi da notte! La funambola dell'acqua sporca!”

“La saltimbanco della cacca?”

“Woah, adesso cominci ad andare sul pesante,” finse di rimproverarla.

“Perché? Di che stavamo parlando? Credi che le donne non la facciano?”

“Oh dio, Kate, cambiamo discorso,” la supplicò, esilarato e turbato insieme.

“Se ti ricordi stavamo parlando della tua esibizione per il capitano.”

Arco alla mano, faretra a tracolla, selvaggina alla cinta, Clint si fermò per lanciarle un'occhiata ammirata: non solo l'aveva battuto a caccia, adesso era persino riuscita ad intortarlo a parole! Doveva proprio essersi svegliato dal lato sbagliato del letto quella mattina!

“Sì,” mormorò a denti stretti dopo aver imboccato il sentiero che tagliava in due il campo che li divideva dal villaggio.

“Sì cosa?” Interloquì Kate.

“Sì, mi esibirò per il capitano Rogers.”

“Che detta così...”

“Dovresti stare zitta.”

“Lo dicono tutti, ma lo sai che non mi piace prendere ordini dalla gente.”

“Mi stai tremendamente sul culo in questo momento.”

“Lo so.”

“Ottimo.”

Procedettero in silenzio per una decina di minuti buoni, godendosi il silenzio, la luce dorata che inondava il paesaggio, il calore del sole che riscaldava loro il viso e asciugava il sudore sulla pelle dopo un'intera mattinata trascorsa tra le ombre del bosco. L'idea di dover intrattenere il capitano più famoso del regno non lo metteva esattamente a suo agio, ma non era neppure la cosa peggiore che gli avessero mai chiesto di fare. Sposare lady Jemma era la voce che si era installata saldamente al primo posto di quella lista, e Clint temeva ci sarebbe voluto un miracolo perché qualcos'altro riuscisse a prenderne la posizione. Sarebbe dovuto essere un obbligo terribile, tipo: sposare Grant Ward. Ecco, in quel caso si sarebbe felicemente unito in matrimonio con la nipote di lord Phillip senza proferir parola.

“Hai pensato a quello che ti ho detto la settimana scorsa?” Si ritrovò a chiederle, l'atmosfera nuovamente mutata.

Kate si voltò per guardarlo. Ormai erano in dirittura d'arrivo, riusciva a distinguere i tetti delle casupole del paese sul fondo del campo, macchiette nere contro il cielo azzurro.

“Quale cosa?”

“Riguardo la... la fuga,” disse a mezza voce, per l'assurdo timore che qualcuno potesse sentirli.

La ragazza avanzò ancora per un paio di metri, l'espressione che tornava a farlesi innaturalmente seria; dopodiché si fermò, indecisa sul da farsi.

“Se fuggissimo, lo sai cosa si direbbe in giro.”

Clint fece altrettanto, ricambiando l'occhiata preoccupata che Kate gli aveva puntato addosso.

“Lo so, ma... non lo stiamo facendo per convincere tuo padre a darci il permesso di sposarci.”

Non era a questo che, da che mondo e mondo, puntavano tutte le fughe d'amore? Il loro obbiettivo non era un matrimonio ostacolato dalla famiglia, ma sfuggire a tutte le imposizioni, a tutti gli obblighi, a tutte le stupide convenzioni ritenute assolutamente necessarie alla vita in società.

“Se qualcosa andasse storto sarei rovinata,” la voce di Kate si era ridotta ad un misero sussurro. “Lo sai che sono la prima a volersi liberare da tutto questo, però...”

“Però?”

“Per te sarebbe diverso. La gente al villaggio non si fida di te, ma sei pur sempre un uomo. Se la figlia di sir Derek se ne andasse, direbbero che sono stata plagiata, svergognata... o dio solo sa cosa!” Gli rivolse uno sguardo carico di desolazione. “E comunque dove andremmo? Di cosa... di cosa vivremmo?”

“Di caccia. Ne terremmo un po' per noi e venderemmo il resto per comprare quello che ci serve.”

“Ma dove, Clint?”

“Non lo so...” ammise.

Non ci aveva realmente pensato: la sua idea era quella di darsi all'avventura, vagabondare per il regno così come aveva fatto con i suoi genitori finché vari flagelli non erano arrivati a disperdere quel che restava della famiglia Barton. Ma forse... forse per Kate non era abbastanza. La ragazza non aveva mai vissuto nelle condizioni in cui lui aveva trascorso i primi undici anni della sua vita; sapeva che non erano le privazioni che la preoccupavano, ma abbandonare la sicurezza di villa Bishop per un vero e proprio salto nel vuoto avrebbe spaventato chiunque. Rinunciare ad un male conosciuto e rischiare di mettersi su una strada che avrebbe potuto condurre tanto ad una benedizione quanto ad una maledizione senza appello, avrebbe terrorizzato chiunque.

Eppure una cosa la sapeva: non esisteva uno scenario in cui avrebbe sposato lady Jemma. E d'altro canto era anche consapevole del fatto che non avrebbe potuto rimandare all'infinito. Presto o tardi sarebbe stato costretto a fare i conti con le volontà di lord Phillip e, se doveva essere del tutto sincero, non era sicuro che – messo davanti al suo benefattore e alle sue richieste – sarebbe riuscito a dirgli di no. Quel che era certo è che non voleva arrivare a quel punto, non si sarebbe permesso di farlo. Non era giusto nei confronti di lord Phillip, di lady Jemma e neppure nei propri. Si era sempre sforzato di essere sincero anche nell'angusto recinto che le convenzioni e l'educazione gli avevano stretto attorno, quei confini che obbligavano l'alta società ad uniformare i comportamenti, a renderli tutti uguali, tutti debitamente appropriati ad ogni situazione, formale o informale che fosse. Temporeggiare, adesso, avrebbe significato mentire agli altri e a se stesso e cominciava a sentirsi decisamente troppo adulto per continuare con quell'assurda pagliacciata.

“Me ne andrò dopo la festa.” Il proposito gli era sfuggito di bocca prima ancora che avesse potuto farsene una ragione. Ma non appena il suono di quelle parole si sciolse nell'aria calda del pomeriggio, Clint comprese che era la cosa giusta da fare. Che non c'era alcuna alternativa possibile.

“D-Dopo la festa?” La sua determinazione aveva sconvolto Kate tanto quanto lui.

“Quella stessa notte,” le confermò. “Se decidessi di venire con me, ne sarei felice, ma... se dovessi scegliere altrimenti, sappi che lo capisco. E non te ne devi fare una colpa.”

La ragazza fu sul punto di ribattere qualcosa, le guance di un rosa improvvisamente più acceso; Clint la zittì poggiandole una mano sulla spalla.

“Non devi rispondere adesso, mancano ancora tre settimane,” le ricordò, un sorriso a rallegrargli il volto tirato.

Lasciò ricadere il braccio e rimasero a guardarsi, fermi l'uno davanti all'altra, per un lunghissimo minuto prima che Kate riuscisse a scrollarsi di dosso la tristezza.

“A proposito,” fu di nuovo lui a parlare, mentre riprendeva ad incamminarsi verso il villaggio, “ottimo lavoro oggi.” Dopotutto la considerava come una sorta di sua protetta: i suoi successi appartenevano un po' anche a lui.

Il complimento gli valse un brusco spintone che, se non altro, permise alla ragazza di nascondere la luce trionfante che le aveva illuminato lo sguardo.

 

*

 

Le donne circondavano disordinatamente il grande vascone di pietra, uno stuolo di fazzoletti colorati e braccia nude che affogavano panni e lenzuola nell'acqua fredda con gesti decisi e energici. Alcune cantavano, altre chiacchieravano tra di loro, qualcuna era persa nei propri pensieri. Simone, dalla pelle scura e i capelli arricciati sotto la pezzuola umida che la teneva fresca la fronte, era una di queste: lasciata leggermente in disparte rispetto alle compagne, stava finendo di fare il bucato per sé e per un paio di signorotte che erano state abbondantemente persuase da lord Phillip a consegnarle i loro panni sporchi in cambio di pochi soldi. Per via della sua carnagione e del sospetto che suscitava, pochi altri avevano voluto a che fare con lei; tuttavia, la dolcezza della donna e quella dei suoi due bambini aveva comunque finito per imbonire gli abitanti del villaggio che – seppur molto lentamente – cominciavano a benvolerla.

Clint era rimasto seminascosto dietro al capannone del fabbro (la costruzione più vicina al lavatoio) in attesa che Simone avesse finito per consegnarle il bottino della mattinata. A villa Coulson la selvaggina non mancava mai: aggiungerne altra sulla tavola già riccamente imbandita sarebbe stato uno spreco totale. Per questo lui e Kate avevano deciso di unire l'utile al dilettevole e di andare a caccia sia per svago che per aiutare chi ne avesse avuto bisogno. La ragazza aveva distribuito le sue lepri ad alcuni contadini che abitavano al limitare del villaggio, nell'area più povera, e poi si era dileguata con la scusa che era giorno di bagno e che suo padre l'avrebbe costretta a suonare il clavicembalo per i suoi ospiti se si fosse presentata a cena sporca di terra e sangue di quaglia.

Il suono greve delle campane della chiesa sortì l'effetto di far alzare alcune delle donne impegnate al lavatoio. Le seguì con lo sguardo mentre raccoglievano le loro ceste piene di bucato pulito per poi caricarle su dei carretti personali o condivisi. Altre sciamarono via dopo essersele sistemate in bilico sulla testa, una mano a tenerle ferme, l'altra a gesticolare animatamente per sottolineare un qualche pensiero particolarmente sentito.

“Ti dico che l'ha vista,” quella che Clint riconobbe come la moglie dell'oste stava avanzando nella sua direzione affiancata da altre due compagne, “stava facendo non so che malefico sortilegio... nel bosco! Parlava al contrario come Satana!”

Si fecero tutte e tre il segno della croce per esorcizzare le forze demoniache che – senza alcun dubbio – quella frase doveva aver evocato.

“Pierre giura di averla vista decapitare degli animali,” bisbigliò la più giovane del terzetto, assicurandosi che nessun altro potesse sentirla.

“Gira voce abbia anche un libro... pieno di formule e anatemi e malocchi!” Ribadì l'ostessa che, costasse quel che costasse, non voleva di certo lasciarsi battere in materia di pettegolezzi.

“E' terribile,” convenne la terza che ancora non aveva aperto bocca, “sono proprio contenta di non saper leggere.”

“Una donna che legge è una di cui non ci si può fidare. Non si mangia mica con i libri! Non ci lavi i panni, fai la minestra o metti a letto i bambini. Quindi a che serve? C'è qualcosa di strano, vi dico,” insisté la ragazza, fattasi di colpo più pallida con tutto quel parlare di eresie.

“Non potremmo chiedere a qualcuno di intervenire?” Propose debolmente l'altra, la treccia che continuava a sobbalzarle sulla spalla ad ogni passo.

“E a chi?” La moglie dell'oste le aveva lanciato uno sguardo di fuoco. “I nostri mariti e i nostri figli rischiano di rimetterci la pelle e nessuno fa proprio un bel niente... il sindaco sta tutto il giorno a scaldarsi le mani, mentre il prelato è sempre dietro alle sottane di sir Coulson!”

Scossero il capo tutte e tre, prendendo lentamente atto della catastrofe che l'arrivo della strega avrebbe sicuramente comportato.

“Accadrà qualcosa di brutto, ricordatevi quello che vi dico,” l'ostessa aveva ripreso a parlare, abbandonandosi completamente ai toni apocalittici che prediligeva in qualsiasi discussione (si parlasse di zuppa al cavolo nero bruciatasi per disgrazia o della guerra non aveva alcuna importanza). “E sarà colpa di quella megera.”

“Una donna sola... nel bosco!”

“Potrebbe già averci avvelenato l'acqua senza che ce ne accorgessimo!”

Clint le seguì con lo sguardo mentre, con l'ennesimo, frettoloso segno della croce, le tre si allontanavano in fretta e furia, terrorizzate dall'inquietante quadro che loro stesse si erano dipinte con tanto religioso fervore.

L'idea che la sua sorte fosse nelle mani di gente tanto sprovveduta gli faceva ribollire il sangue nelle vene: aveva visto la fanciulla e sembrava tutto fuorché una strega pronta ad ucciderli tutti con chissà che assurdo rituale. Era vero, di lei non si sapeva praticamente niente. Neanche lui, che aveva trascorso non meno di un'ora in quella che era stata la vecchia casa del tagliaboschi, in attesa che spiovesse, era riuscito a tirarle fuori grandi informazioni. La donna si era limitata ad offrirgli un bicchiere di vino e ad affaccendarsi in giro per la stanza a cercare di porre rimedio alle falle del tetto. Clint si era offerto di metterglielo a posto, un giorno di quelli, ma la sconosciuta lo aveva invitato a lasciar perdere, che se le sarebbe cavata da sola, che non era la prima volta che le capitava.

A parte uno spiccato senso d'indipendenza, la donna non aveva niente di strano. Probabilmente veniva da un paese vicino, o – perché no? – da uno dei regni circostanti: non sarebbe stata né la prima né l'ultima ad essere partita in cerca di fortuna. Non era neppure sorpreso che avesse deciso di vivere nel bosco: una donna sola, senza famiglia o padre o marito, che arriva in un villaggio qualunque, non è esattamente nella situazione ideale per ingraziarsi gli abitanti del posto. L'unica soluzione pertinente a circostanze simili era la monacazione: nessuna ragazza per bene se ne sarebbe andata a spasso per il regno quando avrebbe potuto semplicemente consacrare la sua vita al Signore e togliere tutti dall'imbarazzo di doverla evitare per non lasciarsi contagiare dai suoi peccati (presunti o meno era irrilevante).

Magari aveva perso tutti i suoi cari durante una qualche battaglia o cataclisma naturale, era sopravvissuta ad una qualche disgrazia e adesso nessuno le avrebbe teso una mano per aiutarla. Anzi, a giudicare dalla scontrosa riservatezza che aveva manifestato anche nei suoi confronti, Clint sospettava che la donna si fosse vista chiudere in faccia già diverse porte. Si era abituata a quella condizione di emarginata, non la combatteva più, non recalcitrava o agitava affinché l'accettassero. Si era rassegnata ad una vita solitaria, ma neppure quel proposito era riuscito a tenerla al sicuro dalle malelingue.

Il sapore amaro dell'ingiustizia gli riempì la bocca un attimo prima che Simone non comparisse nel suo campo visivo.

“Sir Barton,” lo richiamò con un gran sorriso sul volto, una cesta carica di bucato in ciascuna mano.

“Simone,” le fece eco, scuotendosi dal torpore in cui le sue elucubrazioni l'avevano fatto precipitare.

Si affrettò a farsi carico di almeno una delle due ceste – una volta aveva cercato di appropriarsi di entrambe e Simone aveva protestato tanto animatamente da convincerlo a non ritentare – e la invitò a far strada.

“Ho tre lepri, due beccacce e una quaglia,” le disse. “Ho cercato di prenderne due, ma oggi erano troppo rapide, le maledette.”

“Vi ho già detto che non c'è bisogn-”

“Lo so e io vi ho già risposto,” le sorrise. “Posso lasciarvi tutto. Se volete regalare qualcosa a qualcun altro, siete libera di farlo.”

“Non dovete andare a caccia per noi,” lo rimproverò bonariamente con un leggero accento che Clint non sapeva mai collocare, ma che dava un colore completamente diverso alla voce della donna.

“Infatti ci vado per me,” insisté. “Non ho molte altre scuse per utilizzare arco e frecce.”

Si fermarono davanti alla porta di una piccola casupola addossata da ciascun lato a due costruzioni più grandi che la sovrastavano di almeno un piano e mezzo. Non era esattamente una reggia, ma lord Phillip era riuscito a convincere il maniscalco a vendergli la casa in cui aveva abitato la sua defunta amante, assicurando a Simone un posto dove stare non troppo distante dal cuore pulsante del villaggio.

La donna gli lanciò un'occhiata incerta, quasi avesse voluto chiedergli qualcosa senza però avere il coraggio di farlo. O la sfacciataggine, forse. Fu sul punto di invitarla a proferir parola, ma Simone fu più rapida di lui: scacciò il dubbio e gli sorrise, aprendo la porta per invitarlo ad entrare.

“Potete appoggiare la selvaggina e il bucato sul tavolo,” gli disse, facendo altrettanto con la cesta che aveva con sé prima di sparire nella piccola cantina che si apriva subito alla destra dell'ingresso. Ne riemerse con un fiasco in mano. “Questo è per voi.”

“Per me?”

“Del vino che mi è stato regalato. Voglio che l'abbiate voi.”

“Simone, lo sapete che non ce n'è bisogno...,” si passò una mano sul collo, in evidente imbarazzo. Se c'era una cosa che detestava era declinare certe offerte, perché non sapeva mai riconoscere la linea che divideva un rifiuto educato da una vera e propria offesa.

“Vi prego, insisto. Fate così tanto per noi e il vino non è di mio gusto,” insisté, porgendogli il fiasco con aria agguerrita. “L'avrei fatto bere ai bambini, ma mi hanno detto che è meglio di no. Come vedete non me ne faccio di niente.”

“Va bene... d'accordo,” alzò le mani a mo' di resa, decidendo che – dopotutto – una bottiglia di vino non avrebbe ucciso nessuno.

La sua capitolazione riuscì a strapparle un gran sorriso soddisfatto, dopodiché ritornò più pratica e affaccendata che mai: andò a sistemare le ceste del bucato, svuotò la sacca della cacciagione e si affrettò a restituirgliela in caso ne avesse avuto bisogno a breve.

“E' una quaglia bella grande,” disse, andando a prendere tutto quello che le serviva per pulire la selvaggina, “vedrete che basterà per tutti e due i bambini.”

 

*

 

Il bosco era silenzioso e le finestre della casa del tagliaboschi completamente sbarrate; il sole stava ormai calando, ce ne si accorgeva anche tra le ombre proiettate dagli alberi. Le dita sudate cominciavano a perdere la presa sul collo scoperto del fiasco.

Tutto sommato era stata una pessima idea. Non ricordava come fosse passato dall'uscire da casa di Simone con il vino in regalo, a decidere che avrebbe potuto offrirlo alla tanto temuta strega che si nascondeva nel folto della vegetazione. Forse era stata la stizza con cui aveva constatato che la donna era sulla bocca di tutti, che non avrebbe ricevuto un briciolo di solidarietà per via del suo comportamento sospetto, a convincerlo che doveva dare il buon esempio. A chi, esattamente, non lo sapeva: di certo quei pazzi del villaggio non lo prendevano a modello. L'unico aspetto della sua vita degno di essere imitato era l'essere nato pezzente e poi adottato da un nobile spiantato per farsi mantenere a vita. O almeno era sicuro lo fosse agli occhi di chi lo invidiava e disprezzava in egual misura.

Il pensiero degli abitanti del paese lo mandava su tutte le furie, facendogli desiderare che quelle tre misere settimane che lo separavano dalla festa per il capitano Rogers passassero in un batter d'occhio; ma dall'altra l'immagine di lord Phillip tornava puntualmente a tormentarlo. Avrebbe mandato qualcuno a cercarlo? O magari l'avrebbe lasciato fuggire ringraziando ogni santo esistente di avergli tolto dal groppone un tale peso morto? Persino figurarsi una reazione tanto crudele acuì il suo senso di colpa: non sarebbe stata da lui, Clint lo sapeva. Forse, però, immaginarselo così avrebbe reso meno doloroso il distacco.

Qualcosa gli suggerì che si stava solo illudendo.

Si rigirò il fiasco tra le mani e – dopo aver bussato almeno tre volte – si arrese all'evidenza: ovunque fosse, la donna non era in casa. Se stava fingendo di non esserci, era ovvio che non aveva la minima intenzione di vederlo. Quale che fosse il caso, Clint decise che gli conveniva tornare a villa Coulson prima che facesse buio, senza trattenersi ulteriormente nel bosco. Appoggiò il fiasco sul gradino che separava il terreno dalla porta d'ingresso e fece dietrofront per andarsene...

… ritrovandosi la sconosciuta davanti con un'espressione indecifrabile sul volto impietrito.

“Cazzo!”

Se non sobbalzò fu solo per puro miracolo, ma il cuore aveva preso a battergli tanto rapidamente dalla sorpresa, che per un istante fu convinto di essere sul punto di avere un infarto. A quel punto sì che le accuse di stregoneria si sarebbero fatte pericolose: la fattucchiera ha ucciso un uomo con un solo sguardo! Gli ha lanciato addosso una maledizione! O qualche altra stronzata altrettanto suggestiva.

“Non è il mio nome,” la donna rispose, senza scomporsi minimamente.

Era già la seconda volta che la sconosciuta lo coglieva impreparato e tutte e due le volte si era convinto di essere stato silenzioso e discreto come un gatto nel sottobosco. A quanto pareva le sue doti si spia avevano bisogno di essere riviste e riaggiornate.

“Non me l'avete detto, il vostro nome,” replicò, mascherando in qualche modo lo stupore che ancora gli aleggiava sul viso.

“Neanche voi il vostro.”

“Clint.”

“Bene.”

“Vi chiamate Bene?”

“No,” scosse il capo, tutt'altro che impressionata da quello scambio di battute. “Perché avete lasciato un fiasco davanti alla porta?”

“Ero venuto a regalarvi del vino,” ma al modo in cui l'aveva accolto si era completamente dimenticato del perché avesse deciso di donarglielo: era chiaro che la donna non voleva avere niente a che vedere con lui o nessun altro.

“Perché?”

“Non lo so perché,” indietreggiò per andare a riprenderlo senza che la sconosciuta facesse nulla per impedirglielo. “E voi perché sorprendete sempre la gente?”

“Siete voi che vi fate prendere dal panico ogni volta,” gli ritorse contro con indifferenza.

“Non lo definirei propriamente panico,” protestò, sforzandosi di non lasciarsi andare in preda all'indignazione. Da quando era diventato così pigro? Quand'era piccolo sgattaiolava in giro senza che nessuno si accorgesse di lui, mentre adesso era arrivata una donna qualunque capace di coglierlo alla sprovvista non una, ma ben due volte! Se aveva davvero intenzione di tornare a vagabondare per il regno aveva bisogno di affinare le sue abilità o non avrebbe avuto vita facile.

“Adesso che fate?” La sconosciuta gli chiese. “Ve lo riportate a casa?”

“Non mi sembravate molto incline ad accettarlo,” le fece notare.

“Non me l'avete chiesto,” di nuovo quel tono monocorde che lo faceva uscire di testa.

“Posso offrirvi in dono questo fiasco di vino, signora... ?”

“Natasha.”

L'espressione ironica che aveva sfoggiato fino a quel momento si sfaldò in una di sincero stupore: gli aveva davvero appena rivelato il suo nome?

“Comunque sì,” riprese la donna con fare pragmatico, “potete offrirmelo in dono.”

“Mi state prendendo in giro?”

La seguì con lo sguardo mentre si avviava verso la porta e l'apriva per invitarlo ad entrare.

“Perché dovrei prendervi in giro?”

“Per come parlo.”

“Dovrei prendervi in giro per come parlate?”

“No, dico solo che...,” sospirò, già largamente sfiancato da quella conversazione. “Lasciamo perdere.”

Era lui che si sentiva stupido per come le parlava: non era come con Kate. Con la ragazza si sentiva libero di dire qualsiasi cosa, in qualsiasi modo preferisse, ma con quella sconosciuta... gli veniva spontaneo darsi un tono. Purtroppo si accorgeva sempre in ritardo di essere scaduto nel ridicolo, di aver cominciato ad esprimersi come tutti quei parrucconi che non sopportava.

Entrò in casa per primo, restando a guardarsi attorno proprio come la prima volta, mentre la donna richiudeva la porta e andava ad aprire un paio di finestre per far entrare la superstite luce del giorno anche là dentro.

Non era cambiato niente dalla sua visita precedente: il tavolo era pulito, la cucina sgombra, le macchie d'umido sempre sul soffitto, la fiamma morente nel camino. C'era solo un oggetto fuori posto, un grosso libro abbandonato su una sedia.

Natasha gli sfilò delicatamente il fiasco dalle mani, andando a recuperare un paio di bicchieri puliti per versarvelo. Clint ne approfittò per spostarsi casualmente in quello spazio ristretto, finendo in prossimità del libro che – inutile girarci attorno – aveva attirato la sua attenzione.

“Siete venuto a vedere il mio grimorio?” La donna gli era comparsa di fianco, senza dar segno di essersela presa.

“E' veramente un libro di incantesimi?” Si ritrovò a chiedere, accettando il bicchiere che gli stava porgendo.

“E' un libro di cucina,” lo corresse, raccogliendo il volume dalla sedia per portarlo sul tavolo.

Clint si rimise seduto allo stesso posto che aveva occupato la volta prima, osservando curiosamente le pagine vergate a mano e in modo decisamente più disordinato di quanto non succedesse coi tomi della biblioteca di lord Phillip. Anche la rilegatura era in stoffa piuttosto che in pelle, sfilacciata in più punti; un ricettario che aveva l'aria di aver visto giorni migliori.

“In che lingua è scritto?” Non riuscì ad impedirsi di domandarle dopo aver inutilmente tentato di decifrare le prime parole. Gli ci era voluto qualche secondo per realizzare che non si trattava dell'opera di un copista particolarmente disattento, ma di un alfabeto completamente diverso.

“E' un'antica lingua dell'est,” rispose semplicemente, sorseggiando distrattamente il suo vino (che, per la cronaca, aveva un sapore terribile).

“Siete... slava,” gli uscì più come una constatazione che una domanda. Certo, si era immaginato venisse da fuori, ma non da così lontano. Avrebbe voluto chiederle come avesse fatto a raggiungere il regno da un impero tanto distante, ma non gli parve il caso. “Scommetto che è la stessa lingua in cui cantate,” mormorò, in preda ad un'improvvisa illuminazione.

“Qualche volta,” confermò. “Vi hanno detto che mi hanno sentita recitare formule magiche in una lingua demoniaca?” Le sue labbra si incresparono in un sorriso a malapena accennato attorno al bordo del bicchiere.

Una sensazione strana gli prese lo stomaco mentre si sforzava di rilassarsi.

“Qualcosa del genere,” ammise.

“Che altro?”

“Che decapitate animali per i vostri riti malefici?”

“Stavo pulendo della selvaggina che avevo catturato,” disse. “Lo faccio fuori casa perché detesto l'odore del sangue.”

Ovviamente c'era una spiegazione logica e razionale per ognuna delle fandonie che si stavano diffondendo sul suo conto. Quella consapevolezza gli procurò un moto di solidarietà improvviso che lo portò a sorriderle più apertamente, in modo molto meno irrigidito.

Natasha parve accorgersene perché la tensione che le teneva su le spalle sembrò allentarsi da un momento all'altro. Non aveva mai pensato alla possibilità che il disagio di lei fosse solo un riflesso del suo; si ripromise di comportarsi normalmente, senza lasciarsi suggestionare dalle stronzate con cui gli riempivano le orecchie in paese.

“Siete deluso?” Gli chiese.

“Da questo vino? Un poco.” Evidentemente la signorotta che ne aveva fatto dono a Simone si era solo voluta liberare di alcune bottiglie d'aceto di cui non sapeva che farsene.

“No, dal fatto che non sono una strega,” chiarì Natasha. “Cominciavo a credere che foste venuto qui per chiedermi di farvi un qualche incantesimo.”

“Che genere di incantesimo?”

“Il solito. Chiedermi di maledire qualcuno, o di far innamorare una qualche fanciulla, magari.”

“Vi è capitato spesso?”

“Più di quante immaginiate. Di solito è per questo che devo trasferirmi altrove. Se c'è una cosa che la gente odia più di una strega, è di essere sorpresa a chiedere favori compromettenti ad una che si rivela non essere una strega.”

Clint si mise a ridere senza neanche sapere bene perché: l'intera situazione era semplicemente assurda.

“Farebbe ridere anche me se non fosse... dannatamente fastidioso,” convenne con lui, svuotando il suo bicchiere di vino senza proferir la benché minima lamentela riguardo il pessimo sapore. Possibile che volesse evitare di ferire i suoi sentimenti per un regalo non andato propriamente a buon fine?

“Non vengono a cercarvi per nessun altro motivo?”

“Oh no, più spesso per fare sesso.”

L'accesso di tosse che lo scosse un attimo dopo decise di imputarlo alla pessima qualità di quel vino schifoso e non al suo pudore (che non sapeva neppure di avere ancora!) oltraggiato. La seconda opzione gli parve troppo imbarazzante per i suoi gusti.

“A-Ah sì?” Biascicò, giusto per non lasciar morire lì la conversazione che erano straordinariamente riusciti ad intavolare.

“E' così che ho incontrato il macellaio ubriaco... e poi l'oste e il fabbro... oh e il maniscalco,” elencò rapidamente, sovrappensiero. “Insieme ad un altro paio di persone che non sono riuscita ad identificare.”

“E cosa fate in questi casi?”

“Solitamente declino l'offerta.” Solitamente. Probabilmente era per questo che gli uomini respinti avevano messo in giro le chiacchere sulla vecchia megera dall'aspetto terribile che lanciava maledizioni mortali dalla casa del tagliaboschi.

“Come fate a sapere che non sono qui per questo?” Domandò sfacciato.

“Non siete stato sufficientemente diretto,” rispose semplicemente.

“Magari non è il mio stile.”

“Vi ho visto con la figlia del bibliotecario,” gli rivelò. “Mi siete sembrato piuttosto diretto.”

Lo stomacò gli sprofondò bruscamente, mentre si sforzava di sostenere lo sguardo placidamente divertito e vagamente indifferente che Natasha gli stava riservando. L'aveva visto con Bobbi... eppure si sforzavano di essere cauti e attenti ogni santa volta! Come era potuto succedere? E perché diavolo gliel'aveva confessato con tutta quella leggerezza? Non le importava neppure un po' del suo amor proprio?

Gli bastò guardarla in faccia per accorgersi che no, non le importava; e un paio di secondi in più per realizzare che, nonostante tutto, l'apprezzava. Quand'era stata l'ultima volta che una donna l'aveva messo tanto spietatamente in imbarazzo a causa di troppa sincerità? Non era lui il paladino dell'onestà, forse?

“Va bene, mi avete scoperto,” si arrese, finendo il vino-aceto pur di dissimulare la vergogna che gli aveva acceso lo sguardo.

“Non ho intenzione di fare la spia,” lo rassicurò. “Non mi crederebbero comunque.”

“Sarebbero degli idioti. Ho come la netta sensazione che siate una delle poche persone in questo posto a dire la verità.”

Natasha non rispose, limitandosi a sorridergli in modo criptico: il divertimento non le raggiungeva più gli occhi, adesso. Ma Clint non ebbe il tempo di prenderne atto che la donna si era rimessa in piedi, sottraendogli il bicchiere ormai vuoto.

“Vi conviene incamminarvi,” gli disse. “Tra poco farà buio. Vi assicuro che non volete essere sorpreso nel bosco al calar delle tenebre.”

Qualcosa, nel suo tono di voce, lo fece rabbrividire.






Note: per chi non lo sapesse, Simone e i suoi bambini sono vicini di casa di Clint nel fumetto di Matt Fraction dedicato ad Hawkeye. Per il resto, l'intenzione di Clint di fuggire da villa Coulson sta lentamente prendendo forma, mentre la superstizione degli abitanti del villaggio la fa da padrona. La presunta strega si è rivelata essere Natasha, ma di misteri per Clint ne rimangono a bizzeffe. A cominciare dall'assenza di pudore (o diciamo un'idea molto personale di pudore) di Natasha, che è una delle cose che preferisco di lei :P
Ringrazio chi si è fermato a leggere e recensire il primo capitolo - mi fa sempre tanto piacere! - e la sociabeta Eli perché è sempre la spalla giusta su cui sclerare ù_ù
Mi sono dilungata anche troppo! Alla prossima settimana col prossimo capitolo
(◡‿◡✿)

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo 3

~

 

L'impercettibile sciabordio dell'acqua nella tinozza cozzava prepotentemente coi suoi pensieri.

Il giorno della festa – quello che aveva eletto il momento più opportuno per la sua fuga – si avvicinava inesorabilmente: adesso, all'impazienza di andarsene, era subentrata una bizzarra sorta di malinconia che gli faceva apparire quel buco di mondo improvvisamente appetibile. Casa, in qualche modo.

Clint sapeva fin troppo bene di non potersi fidare, che se avesse deciso di rimanere l'irrequietudine sarebbe tornata a tenerlo sveglio la notte e turbarlo di giorno. Cominciava a sentirsi in trappola: magari quel senso di soffocamento che gli faceva tanto ostinatamente compagnia non aveva niente a che vedere col luogo in cui si trovava. Magari il problema ce l'aveva dentro, da qualche parte. Una stortura congenita che l'avrebbe accompagnato ovunque andasse, a dispetto della distanza, del tempo, delle persone di cui si circondava.

E a quelle pensava continuamente: a lord Phillip e i suoi sorrisi bonari, a Kate, la cui spericolatezza rischiava di essere sopraffatta da un momento all'altro, a Bobbi, a Simone, persino a Leopold e Antoine. Si era ormai convinto che non sarebbe mai riuscito a conciliare la sua voglia di solitudine con il bisogno che aveva di stare con la gente. Era una contraddizione bella e buona, una di quelle che appaiono insolvibili anche alla mente più brillante.

“Sei sicuro di star bene?” La voce di Bobbi lo riportò coi piedi per terra... o più precisamente con la schiena al materasso.

Clint si rimise seduto tra le lenzuola sfatte per poterla osservare mentre finiva di lavarsi.

“Avrai detto un paio di parole al massimo,” gli fece notare, ferma com'era con lo straccio bagnato in mano, completamente nuda coi piedi nella tinozza e la pelle ancora umida.

“Credevo non fossimo qui per parlare,” le rispose, sfoggiando un sorriso che fallì miseramente nella sua patetica operazione di convincimento.

Non fosse stato per i pallidi raggi lunari che filtravano attraverso le tende, l'angusta camera da letto sarebbe stata immersa nel buio più totale. Avevano imparato a fare a meno della luce per evitare che qualche nottambulo del villaggio, deciso a passare il tempo a contare le ombre disegnate nei riquadri delle finestre altrui, ci facesse caso. Non si poteva accedere alla camera se non passando dalla piccola biblioteca situata al pian terreno, niente di più che un ammasso di scaffali e libri polverosi rosi dal tempo, dai topi, dai parassiti.

I Morse avevano vissuto giorni di gloria in passato, ma la fortuna della stirpe era andata assottigliandosi sempre di più fino ad esaurirsi quasi del tutto. Tuttavia, rimanere in possesso di quella preziosissima collezione libraria era stata questione di principio per i coniugi Morse, che avevano fatto di tutto pur di mantenerla. La cultura, dicevano, sarebbe dovuta essere a disposizione di tutti: purtroppo non avevano fatto i conti con la realtà quotidiana di una cittadina rurale alla periferia del regno. Per il popolo pressoché interamente analfabeta, quei libri avevano la stessa utilità di un cavallo zoppo o di una mucca che non dà latte. Bobbi l'aveva ricevuta in eredità e, sebbene fosse stata costretta a vendere qualcuno di quei pesanti tomi per bisogno immediato di soldi, si era impegnata a continuare la tradizione di famiglia, sperando di poter fare altrettanto coi suoi figli, un giorno. Certo per farne c'era bisogno di un marito, e quello di Barbara era morto di febbre solo tre anni prima, lasciandola sola ad occuparsi dei pochi denari rimasti dopo le dispendiose cure che il medico gli aveva inutilmente prescritto.

“Non te la caverai con una delle tue solite battute,” gli disse, uscendo dalla tinozza dopo essersi avvolta un telo pulito attorno al corpo.

L'espressione divertita andò spegnendosi sul suo viso, cedendo il passo ad una smorfia contrita. Si stropicciò le guance con entrambe le mani prima di passare a scompigliarsi i capelli. Aveva sperato che un po' di sana ricreazione sessuale avrebbe contribuito a distrarlo, e invece sembrava aver sgomberato il campo da qualsiasi altra impellente necessità, permettendo a dubbi e preoccupazioni di assillarlo con maggiore insistenza.

“E' per via della festa,” mentì.

“Per la storia dell'esibizione?” Si rimise seduta sul bordo del letto, voltandosi per poterlo fronteggiare. Clint comprese che non gliel'avrebbe fatta passare liscia, stavolta.

“Qualcosa del genere,” borbottò a bassa voce, decidendo lì su due piedi di doversene andare il più rapidamente possibile.

“Ti piace tirare con l'arco,” ribatté, lo scetticismo per quell'improbabile spiegazione palpabile nel suo tono.

“Non per un pubblico,” puntualizzò lui mentre scendeva dal letto per raccogliere i suoi vestiti. Stava fuggendo come un dannato codardo: sembrava essere diventata la soluzione universale ai suoi problemi, quella. Non poté fare a meno di avvertire una punta di vergogna alla realizzazione.

“Che problema c'è? Durerà pochissimo.”

Clint non rispose, limitandosi a rivestirsi con più urgenza del solito. Si sentiva addosso lo sguardo della donna, ma era anche più che intenzionato a far finta di niente. Come avrebbe potuto dirle che se ne andava? Che probabilmente non l'avrebbe neppure salutata? Che razza di vigliacco si comporta così?

Il silenzio si allungò tra di loro come una nebbia fastidiosa che rendeva impacciati i gesti e le parole. Il sesso era l'unico linguaggio che funzionava, quando si trattava di lui e Bobbi: se ci andavano di mezzo le chiacchiere, invece, era come farsi strada in un pantano. Faticoso ed inutile.

“Hunter mi ha chiesto di sposarlo.”

Adesso no che non poteva continuare ad eludere il suo sguardo. Si lasciò il tempo di metabolizzare quell'informazione e finì di allacciarsi i pantaloni prima di rimettersi seduto sul letto. La tensione che aveva cominciato a crescergli nello stomaco era esplosa come una bolla di sapone, abbandonandolo in preda ad un miscuglio incomprensibile di sensazioni piacevoli e spiacevoli insieme; una matassa ingarbugliata di cui non avrebbe saputo trovare né capo né coda. Non aveva idea di come si sarebbe dovuto sentire. Confuso, forse. Deluso? Geloso?

“Tu che gli hai risposto?” Le domandò allora, sostenendo finalmente il suo sguardo.

Gli occhi chiari della donna lo accolsero, malinconici e carichi di quello che avrebbe potuto definire solamente disappunto. C'era stata una piccola parte di lui che aveva fantasticato sull'idea di sposarla, di lasciare da parte le mire di lord Phillip per il suo avvenire, abbandonare villa Coulson e magari metter su famiglia in paese. Ma più passava il tempo e più Clint si rendeva conto che quella non poteva essere la sua vita, che apparteneva ad una versione di sé che non esisteva realmente, non in quel mondo almeno. Forse c'erano altri universi in cui avrebbe trovato il coraggio di chiederglielo, di amarla alla luce del sole, riuscendo a darle e farsi dare tutto ciò di cui avevano bisogno. Nell'unico mondo che Clint conosceva, però, era solo una fantasia. Niente di più.

“Gli ho detto di sì. Ci sposeremo alla fine dell'estate,” mormorò cautamente, osservandolo con l'aria di chi spera in una qualche reazione, ma sa già di non poterla ottenere.

Il senso di colpa subentrò al disagio, all'aspettativa di cui l'aria si era caricata: avrebbe voluto essere un uomo diverso. Per lord Phillip, per Bobbi, per Kate. Per suo fratello, persino. Per se stesso.

Inspirò a fondo e tentò un sorriso.

“Congratulazioni, allora,” riuscì a rispondere, in certa parte sinceramente contento per lei. Hunter era una delle poche persone al villaggio che non avrebbe volentieri lanciato da una rupe alta mille piedi. Quello, in effetti, era il massimo di diplomazia a cui sarebbe riuscito ad arrivare. E tuttavia era sì geloso, ma anche inspiegabilmente sollevato da quel brusco cambio di direzione. Come se fosse stato liberato da un'opprimente responsabilità.

Bobbi sbuffò una risata e scosse il capo, rimettendosi in piedi per sfilarsi il telo umido di dosso e indossare la camicia da notte.

“Non ti capisco,” ammise.

“Perché?” Si era rifatto serio, incapace di nascondere l'incertezza che aveva preso ad attanagliargli lo stomaco.

“Alle volte sembri capace di fare del lavoro di squadra e altre... sei un lupo solitario.”

“Sembro...” non era del tutto sicuro di capire cosa stesse cercando di dirgli.

“Vieni a cercarmi e so che non è solamente per il sesso, eppure quando sei qui sembra che l'unica cosa che tu voglia fare è andartene.”

“Lo sai che non è vero,” azzardò a giustificarsi.

“Lo so? No che non lo so,” appoggiò il telo su una sedia e si fermò per guardarlo dritto negli occhi. “Non chiedi mai aiuto a nessuno. Non ti confidi mai con nessuno. Cerchi le persone solo per evitarle, come se avessi paura di avvicinarti troppo.”

“Bobbi, i-”

“No,” scosse il capo, bloccando la sua difesa sul nascere. “Se non apri gli occhi prima che sia troppo tardi, finirai per lasciarti il deserto intorno.” C'era rabbia nel suo sguardo, ma anche dispiacere e genuina preoccupazione nei suoi confronti.

“Se avessi avuto più tempo...”

“Non mentire,” l'astio le accese le guance di un rosa più intenso. “Non dirmi bugie, non me lo merito.”

Il bisogno di ribattere era fortissimo e cocente, ma gli bastò aprire la bocca per realizzare di non avere niente con cui replicare, che Bobbi aveva ragione.

“Vattene, per favore,” lo supplicò a mezza voce. “Domani devo svegliarmi presto.”

Mentre la guardava disfare il letto e fare un grosso mucchio delle lenzuola su cui i loro corpi si erano intrecciati solo qualche minuto prima, la consapevolezza di aver appena bruciato l'ennesimo ponte gli strinse un fastidioso nodo alla gola.

 

*

 

La grossa treccia bionda le rimbalzava sulla schiena ad ognuno di quei potenti colpi d'accetta. La lama luccicava a mezz'aria prima di abbattersi impietosamente sui ciocchi di legno che Natasha sistemava rapida e con cura sul tronco mozzo di un albero morto da tempo.

Era rimasto in disparte a guardarla lavorare; non aveva palesato la sua presenza, ma non si illudeva più di poterla cogliere di sorpresa. Sapeva che si era accorta di lui e anzi c'era un non so che di confortante in quel tacito accordo di reciproco silenzio.

Aveva finito per vagabondare fino alla casa del tagliaboschi dopo l'ennesima notte insonne. Le parole di Bobbi erano rimaste ad aleggiargli nel cervello come una condanna inappellabile, la promessa di una maledizione di cui non si sarebbe mai potuto liberare. La contraddizione non era nelle cose che lo circondavano, ce l'aveva dentro e se la portava dietro come un oscuro segreto custodito gelosamente. Era vero che teneva le distanze, che era abituato a muoversi in punta di piedi, sperando forse di passare inosservato, ma con la viscerale e onnipresente necessità di essere... visto.

Natasha pareva essersi rassegnata alla sua solitudine: nonostante la condanna le fosse stata inflitta dall'esterno, Clint aveva la netta impressione che l'avesse fatta diventare parte integrante di sé. C'era una confidenza straordinaria nei suoi movimenti, in ogni gesto o sguardo, non importava quanto piccolo o insignificante.

Si era reso conto di invidiarla, di essere precipitato nella sua orbita senza che la donna avesse mosso un dito per far sì che accadesse. A dir la verità non era neanche sicuro che la sua compagnia le facesse piacere: scoprire il suo nome non aveva fatto proprio niente per aiutarlo a decifrarla. Magari era il fascino di quell'enigma a riportarlo continuamente nel bosco... il pensiero lo faceva sorridere. Possibile che tutti i suoi conflitti interiori potessero essere ridotti alla trama di uno qualsiasi di quegli stupidi romanzetti di formazione che affollavano la biblioteca di villa Coulson? La sete d'ignoto l'aveva condotto alla donna fatale e – era scontato – la donna fatale l'avrebbe a sua volta portato alla rovina. Si chiese se, in agguato, non ci fosse anche una scena che l'avrebbe visto redento sul letto di morte, le braccia elevate in un'invocazione rivolta al Signore, una richiesta di perdono pagata con una tardiva e sincera conversione religiosa. Alla fine sarebbe morto comunque, il peccato andava espiato in ogni caso.

“Qualcosa di divertente?” I tonfi dell'accetta sul legno si erano interrotti e domanda l'aveva sorpreso con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra. Se non altro trovava ancora la forza di ridere delle sue disgrazie, no? Forse c'era ancora speranza, pure per uno spiantato come lui.

Si affrettò a scuotere il capo, smorzando poco a poco quel patetico entusiasmo.

“Non sono un esperto taglialegna,” la rassicurò. Qualcosa gli aveva suggerito che la donna temeva di essere stata criticata per la sua tecnica.

A giudicare dallo sguardo scettico che insisteva nel puntargli contro, la spiegazione non doveva averla persuasa granché. Non disse niente, però, limitandosi a impugnare nuovamente l'arnese e prepararsi a ricominciare.

“Posso darvi il cambio, se volete,” si ritrovò ad offrirsi. Non che gli fosse apparsa in difficoltà, tutt'altro; ma la sua educazione sembrava essersi improvvisamente risvegliata da un lungo sonno.

“Sono perfettamente in grado di farcela da sola,” ribatté lei.

“Lo so che lo siete,” la sua risposta non l'aveva minimamente sorpreso. “Ma mi sto annoiando e un po' di allenamento fa sempre comodo.”

Natasha sembrò valutare attentamente le sue parole. Quando era ormai sul punto di convincersi che aveva tacitamente declinato il suo aiuto, la vide abbandonare l'accetta sul prato per andare a sedersi sul muretto diroccato che recintava il terreno immediatamente antistante la casa.

Si scostò dall'albero a cui era rimasto appoggiato fino ad allora e si affrettò a prendere il posto della donna, che adesso lo guardava incuriosita dal suo nuovo punto d'osservazione. Del tutto intenzionato ad ignorarla, cominciò a lavorare di buona lena... ma per quanto si sforzasse, gli occhi di lei sembravano infiammargli la pelle ovunque si posassero.

“Che c'è?” Al terzo ciocco di legno spaccato in due con successo, non riuscì più a trattenersi.

“Niente,” rispose, come se la cosa non la riguardasse. “Mi chiedevo se tutti i nobili si annoiassero al punto da trovare questo un valido passatempo.”

“Non sono un nobile,” decretò seccamente, intensificando i colpi tanto da dover ogni volta disincastrare la lama dalla tronco mozzo in cui era andata a conficcarsi.

“Perché lo prendete come un insulto?”

“Non l'ho preso come un insulto.”

“E' quello che fate. Come se vi stessi incolpando di qualcosa.”

“E' un semplice dato di fatto: non sono un nobile.”

“Credevo viveste a villa Coulson,” obiettò ancora con quel medesimo tono monocorde che gli dava tanto ai nervi. Sembrava fosse stata caricata a molla da una mano invisibile, che avesse una risposta secca e concisa per ogni cosa. Irritante, ecco cos'era.

“Vivo a villa Coulson.”

“Ma non siete un nobile...” alluse, la voce carica di sarcasmo. A rigor di logica, una cosa implicava obbligatoriamente anche l'altra.

“Sono figlio di povera gente,” sentì l'irrazionale bisogno di specificare. “I miei genitori sono morti e lord Phillip dall'alto della sua magnanimità ha deciso di adottarmi.”

“La fate suonare come se vi avesse fatto un torto.”

“Non è quello che intendevo,” si giustificò in fretta e furia, i palmi delle mani che strofinavano sempre più insistentemente sul manico dell'accetta. “Gli sono molto grato.”

“Non dovete dirlo se non è vero.”

“Lo dico perché è vero.”

“Non dovete vendermi le vostre menzogne,” il tono di voce della donna era mutato impercettibilmente. “E' una valuta che non ha alcuna correnza. Non con me.”

La stizza che gli era cresciuta alla base dello stomaco esplose proprio mentre la lama dell'arnese si schiantava violentemente nel legno e un dolore fastidiosissimo gli si propagava per tutta la mano sinistra.

Lasciò l'arma piantata nel tronco, esaminandosi il palmo dolorante: una scheggia gli si era conficcata sotto pelle.

“Grandioso,” biascicò, come se quella fosse l'ennesima di una lunga serie di catastrofi che gli erano capitate in quegli ultimi giorni.

“Fate vedere.” La voce di Natasha, vicinissima, lo fece trasalire.

“La smettete di muovervi tanto silenziosamente?” Sbottò indispettito, ritraendo gelosamente la mano.

“Non siate stupido.” Non fece complimenti e gli afferrò bruscamente il polso, attirandolo a sé con una forza e una decisione che Clint non si aspettava. La sorpresa anestetizzò in qualche modo il disagio, permettendogli di guardarla mentre studiava minuziosamente il danno. “Aspettate qui,” lo istruì infine, correndo dentro casa e uscendone un attimo dopo con quello che si rivelò essere un ago.

“Che diavolo fate con quello?!” La vista di quell'aggeggio l'aveva turbato a tal punto che neppure gli importava di essere impallidito o suonato più acuto del solito.

“Vi tolgo la scheggia,” replicò semplicemente lei, lanciandogli un'occhiata sospettosa. “Non ditemi che avete paura.”

L'imbarazzo gli risalì alle guance e alle orecchie, riscaldandogli il collo in un misto di vergogna e stupore.

“Se anche fosse?”

“Niente, mi pare solo strano. Pensavo che le cose appuntite vi piacessero,” se non altro non sembrava volersi prendere gioco di lui.

“Le frecce non c'entrano niente,” ci tenne a precisare.

“Come dite voi,” lo liquidò. “State fermo.”

Con la scusa di seguire il volo di un merlo tra le fronde di un castagno, Clint evitò molto accuratamente di guardare dio solo sapeva cosa Natasha stesse facendo con quell'ago. Trattenne inconsciamente il respiro e si irrigidì impercettibilmente prima di avvertire una leggera puntura e poi... più niente. Era già pronto a tirare un gran sospiro di sollievo, di farle notare un sospetto spostarsi della vegetazione, quando a quel fastidioso bucare si sostituì un calore umido e piacevole. Si voltò di scatto, improvvisamente dimentico del movimento tra gli alberi, sorpreso nel ritrovarla con la bocca sul palmo della sua mano, intenta a succhiare... la scheggia? La consistenza delle sue labbra era morbida e invitante, ma il rimescolio che gli aveva preso lo stomaco gli fece presente che quel gesto aveva risvegliato qualcosa di sopito e torbido, qualcosa che andava represso e ignorato. Ricacciato indietro a forza.

Il tempo sembrava aver rallentato, ma quando Natasha si scostò non erano passati che pochi secondi. Sputò la scheggia che aveva catturato, totalmente impassibile e ignara di tutti i suoi ridicoli sommovimenti interiori. Se c'era un modo efficace per ridimensionare le tempeste che gli sconquassavano le viscere, era sicuramente avere a che fare con l'imperturbabilità della donna. Più o meno lo stesso effetto che avrebbe avuto lanciandosi in un lago ghiacciato, schiantandosi contro un muro o venendo sbalzato da cavallo: in tutti i casi avrebbe sbattuto la faccia sulla dura realtà dei fatti, costretto a farsene una ragione.

“Fatto,” lo lasciò andare, riguadagnando la sua postazione sul muretto.

E nonostante tutto, Clint avrebbe fatto altrettanto se il suono delle campane – ovattato, trasportato dal vento – non l'avesse riportato bruscamente al presente.

“Cazzo!” Imprecò a gran voce.

“Oh, andiamo, non vi avrò fatto così male?”

“E' tardissimo!” Aveva già cominciato ad allontanarsi dalla casa del tagliaboschi, in preda ad un'urgenza che non avrebbe potuto ignorare neanche se avesse voluto.

“Tardissimo per cosa?”

“Il capitano Rogers!” Le gridò dietro.

“Chi?”

“Non c'è tempo per spiegarvi! Perdonatemi, Natasha!”

Mentre staccava una folle corsa tra gli alberi, Clint pregò tutti i santi e gli dei che conosceva di non essere in ritardo per l'arrivo del capitano Rogers a villa Coulson.

 

*

 

Scese le scale per il piano terra che ancora si stava abbottonando la giamberga che una della cameriere gli aveva lasciato sulla poltrona quella mattina stessa. Spiccò un salto che gli permise di scavalcare gli ultimi cinque gradini in un colpo solo, riatterrando davanti ad un Jasper Sitwell a dir poco contrariato.

“Siete in ritardo,” lo accusò, avvicinandosi in tutta fretta per aiutarlo a darsi una sistemata.

“Ehi, ce la faccio anche da solo!” Va bene che vestirsi da pagliaccio d'alta società non era esattamente il suo forte, ma l'ultima volta che aveva controllato sapeva ancora infilare ciascun bottone nella rispettiva asola.

“Non mi pare. Gli ospiti sono ancora in biblioteca in attesa della cena... e di voi.”

Un gran sollievo gli riempì lo stomaco, tutti i fioretti che aveva promesso di rispettare se fosse riuscito ad arrivare in tempo, si sfaldarono come neve al sole.

“Grazie al cielo.”

“No, grazie a sir Coulson,” lo corresse Sitwell. “Li sta intrattenendo con...”

“Non credo di volerlo sapere.” lord Phillip diventava un tantino inquietante quando si trattava del capitano Rogers. L'ultima volta che il militare aveva fatto loro visita, lord Phillip gli aveva orgogliosamente mostrato il ritratto di lui che aveva commissionato nella capitale e che avrebbe presto trovato giusta collocazione nel suo studio. L'espressione stranita del capitano gli era rimasta impressa a fuoco nel cervello e temeva sarebbe rimasta lì fino al giorno in cui avrebbe incontrato il creatore.

“Mettete questa.” Sitwell gli aveva appena schiaffato in testa una parrucca dall'aspetto terribile.

“Cosa? No!” Se la tolse in fretta e furia, senza dargli il tempo di sistemargliela. “Non ho intenzione di mettermela.”

“Signore, è l'etichetta che ve lo impone,” il maggiordomo tentò di farlo ragionare.

“E' per colpa dell'etichetta se non riesco a respirare e ho le palle schiacciate sul cavallo delle brache, Sitwell. Direi che sto già soffrendo abbastanza per la dannata etichetta!”

Il faccione rotondo dell'uomo era andato gonfiandosi man mano che le parole gli erano uscite di bocca: Clint si aspettava un'esplosione di rimproveri da un momento all'altro.

“Clint?” La voce di lady Melinda, asciutta e monocorde, distolse entrambi dai propri propositi più o meno omicidi. “La cena verrà servita a breve.”

La comparsa della donna ebbe l'effetto di riportarlo immediatamente all'ordine e persino di fargli dimenticare il prurito che quel dannato tessuto pregiato gli provocava in ogni parte del corpo.

“Arrivo subito, lady Melinda. Perdonate il ritardo.”

La raggiunse, mentre Sitwell tentava inutilmente di aggiustargli almeno il fazzoletto che si era agganciato al collo alla meno peggio.

“Non potete presentarvi così, sir Barton. E' uno scandalo!” Piagnucolava.

Lady Melinda si fermò a pochi passi dalla doppia porta della biblioteca, ai lati della quale due valletti sostavano ritti come lance in attesa di istruzioni; si voltò per fronteggiare il maggiordomo, rivolgendogli uno dei suoi sguardi placidi e severi insieme, di quelli che non ammettevano repliche.

“Così andrà bene, Sitwell,” lo rassicurò. “Vi dispiace andare in cucina ad avvisare che siamo pronti?”

Il poveretto ricacciò indietro tutte le sue lamentele e annuì solennemente, dileguandosi alla velocità della luce, la parrucca perennemente storta sulla testa pelata. L'attenzione della donna si era infine rivolta a lui, gli occhi neri puntati nei suoi a metà tra una rassicurazione e un rimprovero. Clint si ritrovò a trattenere il respiro senza neppure accorgersene: lady Melinda sapeva metterti addosso una paura del diavolo. La seconda moglie di lord Phillip era una donna dalle poche parole; tutto quello che le serviva per persuadere la gente ad accontentarla o per esprimere il proprio parere riguardo una determinata questione, era una semplice occhiata. Quella calcolata parsimonia verbale era un'abilità che Clint apprezzava molto: non andava di certo matto per i fiumi di frasi fatte senza senso di cui erano quasi esclusivamente costituite le conversazioni nei salotti nobiliari che aveva, suo malgrado, frequentato. Era abituato a sentir tutti parlare di tutto senza dire assolutamente niente di rilevante. Lady Melinda era il contrario di tutto ciò e sicuramente Clint avrebbe fatto tesoro della sua lezione se il disappunto di lei non fosse stato, adesso, indirizzato proprio nei suoi confronti.

Lo osservò a lungo, ma non disse niente. Si limitò ad allungare le mani per sistemargli il fazzoletto al collo con poche, concise mosse. Dopodiché si voltò per lanciare uno sguardo ai valletti appostati davanti alla porta: i due si mossero all'unisono, afferrando ciascuno una maniglia per spalancare loro l'accesso alla biblioteca.

Solo allora Clint si ricordò di dover respirare se non voleva fare il suo ingresso tra gli invitati capitombolando in apnea davanti a tutti. lord Phillip gli avrebbe tranquillamente perdonato il ritardo (dopotutto si trattava di dover gestire più tempo in compagnia del celebre capitano Rogers), ma non era sicuro avrebbe fatto altrettanto con uno svenimento tanto clamoroso.

Lady Melinda lo precedette all'interno, mentre l'odore e il fumo di quelli che riconobbe come i sigari che lord Phillip conservava per le occasioni speciali, lo investiva acre e pungente. La faccia gentile del padrone di casa si illuminò non appena si accorse della sua presenza, il che non fece altro che acuire il suo senso di colpa, già sufficientemente sovrasviluppato. Clint ricambiò il sorriso prima di far scorrere lo sguardo sui presenti: Leopold era seduto sul divanetto più lontano dalla zona fumatori, un'aria pallida e malaticcia a deformargli i tratti del volto; più vicino al centro della stanza il terzetto formato da Antoine, il capitano Rogers e quello che doveva essere il suo secondo in comando, gli ultimi due agghindati in uniformi nuove di pacca; lord Phillip aveva preso posto su un'ottomana e alle sue spalle svettava la figura del figlio, Grant, serio e solenne nei suoi vestiti militari.

La voglia di fuggire si concretizzò in una fastidiosa stretta allo stomaco: quella non era decisamente l'atmosfera che gli era più congeniale. Non era sicuro di essere pronto per sette portate di imbarazzo, conversazioni sul tempo, sullo stato dell'esercito del re o sulle grandiose opere di sua maestà.

“Finalmente ci siamo tutti,” fu lord Phillip a parlare.

“Sir Barton,” il capitano Rogers si era fatto avanti tendendogli inaspettatamente la mano.

Clint non poté fare a meno di sorprendersi ancora una volta della giovane età dell'uomo: doveva avere al massimo un paio d'anni più di lui, eppure era riuscito a scalare le gerarchie militari del regno, a diventare una delle più importanti e rispettabili presenze della capitale e – si diceva – anche uno dei più stimati consiglieri del re. Il capitano Rogers era una di quelle persone che ti facevano mettere in discussione tutti i traguardi raggiunti, che ti costringevano a chiederti che cosa avessi fatto della tua vita fino a quel momento. Non fosse stato estremamente umile e gentile, avrebbe finito per farti sentire insignificante... un fallito.

“Capitano,” Clint gli sorrise e ricambiò la stretta. “Spero di non avervi affamato troppo,” aggiunse, nonostante tutto a suo agio al suo cospetto.

“Non vi preoccupate. Siamo addestrati anche per questo,” lo rassicurò l'altro mentre lo lasciava andare.

Le porte della sala da pranzo – immediatamente comunicante con la biblioteca – si erano spalancate, permettendo di intravedere una grandiosa tavola imbandita, camerieri e valletti che si affaccendavano tutt'intorno per gli ultimi preparativi.

“Vi sono grato per non esservi presentato con la parrucca,” con sua sorpresa, era stato di nuovo il capitano a parlare. “Credevo sarei stato l'unico,” confessò in tono confidenziale.

“Ufficialmente me ne sono dimenticato,” puntualizzò Clint, facendogli però intendere che non gli era propriamente passato di mente.

Il capitano Rogers annuì con aria consapevole e divertita insieme mentre il gruppo di invitati si spostava nella sala da pranzo. A Clint non sfuggì l'occhiata astiosa che Grant gli scoccò non appena gli fu di fianco, come se quell'improvvisato scambio di battute col capitano potesse essere motivo di invidia. Lord Phillip aveva grandi progetti per il primogenito, un posto di spicco nell'esercito in primis: era chiaro che la presenza del capitano Rogers avrebbe potuto aiutarlo se si fosse giocato bene le sue carte. Non era previsto che quello spiantato del figlio adottivo si mettesse di mezzo con le sue bislacche idee sul codice d'abbigliamento formale o, peggio ancora, sulle convenzioni dell'alta società.

Clint fece appunto mentale di rimanere il più possibile in disparte; per questo era intenzionato a prendere posto abbastanza distante dal capitano, lasciando che fosse Grant a sedergli accanto. Ma tra i vari sommovimenti che seguirono l'ingresso nella sala da pranzo, finì per ritrovarsi in prossimità di sir Coulson – seduto a capotavola – e dirimpetto al capitano Rogers. Lady Melinda era accanto a lui, Leopold un posto più in là con Antoine a chiudere la fila; dall'altro lato il secondo in comando del capitano – un uomo della stessa stazza del superiore, la pelle scura e un sorriso perennemente stampato sulle labbra carnose e gli occhi vispi –, poi Grant e infine Rogers stesso. In quanto a lord Phillip, non aveva neppure contemplato la possibilità di non sedersi accanto al suo beniamino.

Ebbe appena il tempo di passare in rassegna l'assetto generale che i valletti fecero il loro ingresso nella sala con spostamenti che non mancavano mai di apparirgli coreografati fin nell'ultimo dettaglio. Volteggiarono attorno alla tavola come dei maledetti avvoltoi, offrendo zuppiere di porcellana a ciascuno degli invitati, versando la minestra nelle scodelle che sedevano in cima alla pila di piatti data in dotazione a ciascuno dei commensali (insieme a troppi bicchieri e decisamente troppe posate).

La successiva mezz'ora fu riempita da inutili chiacchiere e complimenti sulla prelibatezza della pietanza (una semplice zuppa di patate e porri), sui magnifici stucchi della sala da pranzo (che minacciavano di cadere a pezzi da un momento all'altro), sui meravigliosi affreschi che si affacciavano dal soffitto (figure mitologiche a cui il tempo aveva sbiadito e cancellato un arto, il volto o parte del corpo), sulle maestosità della tenuta dei Coulson, con campi così rigogliosi (si minacciava anno di carestia), allevamenti numerosi e in salute (si fosse fatta eccezione per quella dozzina di capi di bestiame misteriosamente morti nell'ultimo mese), contadini volenterosi ed onesti (quando non dormivano tra le spighe di grano o baravano sul peso del mais raccolto).

Clint preferì affogarsi nell'antipasto e nel vino che scorreva a fiumi piuttosto che su quella tiritera infinita e priva di senso: il secondo in comando del capitano, Grant e lord Phillip erano i principali tessitori di quell'intricata rete di stronzate, con qualche timido intervento di Leopold che avrebbe voluto arringare tutti sull'importanza di uno sfruttamento consapevole del terreno coltivabile, se Grant non gliel'avesse impedito con un'occhiata fulminante.

“E' vero che siete diretto nelle Americhe?” Stavolta era stato Antoine a parlare, rivolgendosi direttamente al capitano forse nel tentativo di coinvolgerlo in prima persona in quella conversazione senza né capo né coda.

Rogers gli rivolse un sorriso cordiale e annuì appena.

“Il re ci tiene a dare il suo contributo,” dichiarò semplicemente, mentre i valletti iniziavano a servire la prima portata (salmone ripieno di pesce ripieno di altro pesce con dentro delle verdure... o qualcosa che ci assomigliava molto, comunque).

“Nella capitale già cominciano a chiamarlo capitan America,” scherzò il suo secondo in comando.

“Non l'ho nemmeno mai vista, l'America, Sam. Mi sembra un po' prematuro,” declinò educatamente il capitano, sperando – Clint se n'era accorto – che la conversazione vertesse su altri argomenti.

“E' vergognoso quello che sta succedendo, non trovate?” Grant si sforzava di apparire amichevole, ma la sua espressione perennemente astiosa era sempre sul punto di affiorargli sul viso.

“La rivolta delle colonie?” Rogers si volse verso il commensale al suo fianco.

“Certo. Tradire così la fiducia accordata loro dal sovrano...,” scosse il capo, quasi non riuscisse a trovare un modo per esprimere tutto il suo disaccordo. “Meriterebbero una punizione esemplare.”

“Non vedo come tagliare teste possa risolvere il problema,” ammise tranquillamente il capitano, ottenendo di far impallidire il suo interlocutore, improvvisamente più rigido e impettito del solito.

“Per dare un esempio,” replicò con decisione, “e dissuadere possibili emulatori una volta per tutte.”

“Le colonie stanno combattendo per la loro libertà.”

“Non è libertà se si tratta di tradimento.”

“C'è un motivo se sono stati condotti fino al punto di rottura.”

“Quindi siete dalla parte dell'illegalità?” Grant faceva di tutto per mostrarsi a dir poco sconvolto. Per un attimo gli sembrò troppo impostato anche per uno tutto d'un pezzo come lui, ma poi la sensazione stranita venne riassorbita dall'antipatia che provava nei suoi confronti: Grant non aveva bisogno di seconde motivazioni per essere tanto odioso.

“Sono dalla parte di cos'è giusto,” stabilì Rogers, gentile e amichevole, ma pur sempre determinato a far valere il proprio pensiero.

Per essere uno che li detestava, i soldati, Clint non poteva non ammirare il capitano: giovane e di successo, eppure capace di non compromettersi neppure quando si trattava di opinioni scomode che avrebbero potuto privarlo della sua prestigiosa posizione. Non era un ottuso, il capitano Rogers.

“Il giusto e la legge non sono forse la stessa cosa?” Insisté Grant, indispettito dal modo in cui la conversazione gli era sfuggita di mano.

“Neanche per idea.”

Tutti gli invitati si voltarono verso Clint che – a dirla tutta – non aveva propriamente pianificato di aprir bocca prima di farlo. Le parole gli erano sfuggite tra un boccone e l'altro di pane e salmone, e adesso era decisamente troppo tardi per riprendersele prima che facessero danno.

“Come possono non essere la stessa cosa?” Grant lo sfidò in tono sprezzante.

“Le leggi sono fatte dagli uomini e gli uomini non sono infallibili,” replicò prontamente, maledicendosi per essersi fatti coinvolgere nel dibattito. Aveva imparato ad evitare quei confronti come la peste, perché non portavano mai – mai – a niente di buono.

“Le leggi vengono direttamente dal re!” Esclamò Grant, teatralmente scandalizzato.

“Anche il re è un uomo e tutti gli uomini sono di parte,” si ficcò in bocca una grossa palla di mollica di pane pur di convincersi a star zitto, a smettere di scavarsi la fossa. Da quando in qua esprimere la sua opinione era diventata una buona idea? Dopo tanti anni di permanenza a villa Coulson non aveva ancora imparato la lezione?

“Il re è re per diritto divino. Il suo potere viene direttamente da Dio!” Grant sembrava sul punto di strozzarsi con la sua straripante indignazione. Avesse cominciato a schiumare dalla bocca, Clint non se ne sarebbe sorpreso più di tanto. Non capiva perché si ostinasse a tal punto.

“Sono d'accordo con voi, sir Barton,” il capitano Rogers era intervenuto – straordinariamente! – a dargli il suo supporto. E se da una parte gli fece immensamente piacere, dall'altra l'espressione che si dipinse sul volto di Grant gli fece maledire il momento in cui aveva deciso di non saltare la cena dandosi piuttosto per malato.

Il gelo scese sulla sala da pranzo. Occhiate fugaci e imbarazzate vennero scambiate, colpi di tosse dati, sguardi indifferenti a vagare tra le quattro mura fingendo interesse per tutt'altro.

La porta laterale che permetteva l'accesso ai valletti si spalancò e il profumo della seconda portata permeò l'aria mischiandosi all'olezzo del talco, dei profumi, dell'indignazione.

“Oh, il cigno in crosta! Aspettate di assaggiarlo, capitano Rogers...” promise lord Phillip, tentando di riportare la discussione su tutt'altri argomenti.

Clint sperò solo che ci fosse vino a sufficienza.









Note: diversi nuovi personaggi in questo terzo capitolo! A cominciare da Bobbi (Barbara Morse) che come vi avevo anticipato, è un miscuglio tra quella dei fumetti e quella di AoS, per questo Clint e Hunter convivono (anche se nel telefilm mi sembra chiaramente messo lì per sostituire Clint). Lady Melinda, ovviamente la Melinda May di AoS, qui sposata con Coulson; il maggiordomo Sitwell, lo stesso di Capitan America 2 e AoS. A seguire il nostro capitano preferito in compagnia del suo secondo in comando (non è detto esplicitamente ma è Sam Wilson).
Col prossimo capitolo entreremo nel viiiiiiiiiiivo dell'azione :)
Intanto ringrazio chi si è fermato a leggere, chi ha commentato - perché mi fa sempre piacere :3 - e la mia sociabetaEli as per usual.
A presto!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo 4

~

 

Quando il suono delle campane riempì l'aria, Clint socchiuse gli occhi ed inspirò a fondo. Il vento spazzava dolcemente il tetto di villa Coulson, scompigliandogli i capelli già di per sé tutt'altro che pettinati.

Il tempo che si era concesso era scaduto. Riaprì gli occhi affinché lo spettacolo della campagna immersa nella luce dorata del tardo pomeriggio gli si palesasse davanti in tutto il suo splendore. I contadini arrancavano fuori dai campi per far ritorno alle loro case dopo un'intensa giornata di lavoro; gli animali da pascolo venivano condotti in direzione delle stalle, il loro andamento lento e barcollante. Oltre il viale alberato, si distingueva la sagoma del villaggio, assediato da un brulichio confuso di persone, viandanti e forestieri giunti per la festa del patrono. Almeno ufficialmente: in realtà, per il santo, non si erano mai fatte le cose tanto in grande. La presenza del capitano Rogers aveva ringalluzzito non soltanto lord Phillip, ma anche gli abitanti del paese, del tutto intenzionati ad impressionare il militare. Dopotutto, di celebrità non se ne vedevano molte da quelle parti. Clint non ne avrebbe fatto una colpa a nessuno se qualche mente illuminata non avesse deciso di farlo esibire per movimentare la serata.

Gli tornavano in mente i giorni bui che aveva trascorso coi genitori, il modo in cui suo padre era solito obbligare lui e Barney a chiedere l'elemosina ai passanti con richieste lacrimose o magari cantando stupide canzonette. Non doveva neppure concentrarsi molto per rievocare la vergogna e l'umiliazione; e neanche per ricordare come si era sentito quando avevano finalmente realizzato di essere rimasti soli. Liberi.

Scacciò in fretta e furia quegli inutili pensieri molesti prima che il volto del fratello tornasse a tormentarlo. Si calò giù dal tetto e attraverso la finestra della soffitta, scambiando l'aria fresca dell'esterno con quella pesante e stantia dell'interno. Si soffermò davanti ad una delle teche impolverate che tempestavano la stanza, un cimitero di vecchi cimeli, ritratti di uomini e donne dimenticati da tempo, oggetti che non avevano più alcuna utilità. Si sarebbe preso volentieri a pugni tutte le volte che quella considerazione gli balenava nel cervello, ma si sentiva perfettamente a suo agio tra tutte quelle cianfrusaglie dimenticate. Come se in fondo anche lui appartenesse a quella razza, ad un tempo conclusosi per sempre, a relazioni interpersonali ormai morte e sepolte. Era un intruso che aveva potuto continuare a vivere solo grazie ad un inganno del destino: tutti i giorni che era riuscito a guadagnarsi con quel colpo di fortuna continuavano ad apparirgli come immeritati, come tempo rubato che avrebbe prima o poi dovuto restituire. A chi però, quello non lo sapeva.

Si specchiò nella vetrina sporca che ospitava gli uccelli impagliati, finendo di sistemarsi il vestito elegante che lord Phillip aveva fatto realizzare per l'occasione. Era un completo relativamente semplice, viola scuro con le rifiniture argentate e il fazzoletto bianco. Ovviamente il suo colore preferito era quello che nessuno osava indossare: perché portava sfortuna, o infastidiva gli dei, o qualche altra stronzata del genere. Forse l'aveva scelto proprio perché sfidava le convenzioni e arruffava le parrucche dei bigotti che infestavano l'alta società, i fazzoletti e i cappellacci di quelli che affollavano la controparte bassa della stessa. Ma le poche volte che Clint si era lasciato convincere a farsi prendere le misure per un vestito nuovo, non aveva mai avuto il coraggio di chiederne uno viola. Neanche stavolta l'aveva fatto, eppure lord Phillip l'aveva accontentato. Possibile che stesse tentando il tutto per tutto per convincerlo a sposare lady Jemma e diventare a tutti gli effetti uno dei suoi legittimi eredi?

Non era sicuro di volerci pensare. Il bagaglio che aveva preparato per la sua fuga, programmata per quella sera stessa, giaceva mestamente sul pavimento. Aveva deciso di nasconderlo nel bosco prima di dirigersi al villaggio per la festa: dopo l'esibizione avrebbe approfittato della confusione delle celebrazioni per defilarsi in silenzio, recuperare i suoi pochi effetti personali dal loro nascondiglio e infine partire alla volta dell'ignoto. Non che quella particolare considerazione lo facesse sentire tanto meglio dell'idea di restare per sempre a villa Coulson. Tutt'altro. Ma tra i due mali, aveva optato per quello sconosciuto.

Dette un'ultima sistemata al fazzoletto, restando ad osservare il proprio riflesso nel vetro polveroso. Pochi attimi e la sua attenzione si spostò sui volatili che giacevano oltre la vetrina, solenni e ridicoli nelle posizioni a cui erano stati condannati dopo la morte. Il suo sguardo andò al falco pellegrino, le ali semiaperte a suggerire l'intenzione di un volo perennemente negato; il becco dischiuso in una smorfia indignata, in un grido per sempre soffocato.

Mentre fissava gli occhi nelle pupille vitree del rapace, la consapevolezza di non poter restare un giorno di più tornò a farsi sentire, concreta e insistente. Esitare avrebbe significato fare la fine del falco, per sempre sospeso su un'idea mai del tutto formata di andarsene, l'intenzione della fuga che non sarebbe rimasta altro che tale. L'ignoto schiudeva alla sua immaginazione infinite possibilità: alcune tremende, ma altre... preferiva correre il rischio, partire all'avventura nella speranza che il futuro avesse in serbo per lui una vita che gli andasse un po' più a genio di quella che conduceva attualmente. Sposare lady Jemma, ereditare parte dei possedimenti di lord Phillip, quello era un destino che spettava a qualcuno che non era Clint Barton. Non importava quanto si fosse sforzato di mimetizzarsi in quell'ambiente, il falco non poteva convivere tra quei corvi travestiti da colombe se non al prezzo di una dolorosa finzione. Un teatrino cui non aveva alcuna intenzione di sottomettersi.

Lì, davanti agli sguardi muti degli uccelli impagliati, Clint scelse di vivere. E per farlo se ne sarebbe dovuto andare quella sera. Tutto il resto l'avrebbe deciso strada facendo, come aveva sempre fatto prima che lord Phillip entrasse nella sua vita.

“Vedrò il mondo per tutti e due,” sussurrò a mezza voce, impedendosi di sentirsi ridicolo per le parole rivolte al falco ridotto a cadavere da esposizione. Si congedò facendo solenne promessa di essere gli occhi di entrambi. Dopodiché si voltò per raccogliere l'arco, la faretra e la borsa preparata per la fuga.

Uscì dalla soffitta senza guardarsi indietro, dirigendosi a passo spedito verso le scale di servizio – meno appariscenti e pretenziose di quelle principali – scendendo rapido fino al piano terra attraverso le stanze dei domestici, le dispense e le cucine. I pochi membri della servitù che erano rimasti alla villa, a dispetto della festa al villaggio, si fecero da parte per farlo passare, senza chiedergli dove fosse diretto. Raggiunse l'esterno dove uno degli stallieri lo aspettava con il suo cavallo. Non ebbe il tempo di ringraziarlo che l'uomo se ne andò bofonchiando qualcosa che Clint non comprese; lo guardò allontanarsi solo per pochi attimi prima di procedere col sistemare la borsa alla sella.

Era ormai sul punto di issarsi in groppa al suo destriero e andarsene, quando il rumore dei passi leggeri di lord Phillip sulla ghiaia non lo riportarono bruscamente all'attenzione. Il cuore gli si strinse nel vederlo avanzare verso di lui col vestito che indossava per gli eventi più importanti, i capelli radi sulla sommità del capo e la parrucca in mano insieme al cappello. Gli apparve più vecchio e stanco di quanto non ricordasse, lo sguardo spento, ma pur sempre gentile e tranquillo. Non sarebbe riuscito ad indovinargli la preoccupazione negli occhi neanche se avesse voluto: lord Phillip sembrava sempre avere tutto sotto controllo, come se niente lo turbasse realmente, quasi fosse convinto di poter risolvere qualsiasi problema, non importava quanto grave o spiacevole. Ma Clint non si illudeva che quella fosse davvero la realtà dei fatti. Solo perché lord Phillip era bravo a dissimulare, non significava che niente lo sfiorasse. Anzi. Le tenute rendevano sempre di meno, i raccolti si preannunciavano scarsi, il bestiame continuava ad ammalarsi; per non parlare di quanto fosse malvisto nella capitale per le sue tendenze eccentriche, per la sua inesausta volontà di offrire il suo aiuto anche a chi non trovava un posto nella società del regno; e infine tutti i grattacapi che il pensiero dell'eredità doveva dargli, la posizione da assicurare a Grant, e poi quella di Antoine, e infine di lady Jemma che rischiava di consumare la sua vita da zitella a villa Coulson.

No, Clint sapeva che essere lord Phillip Coulson era questione tutt'altro che semplice.

“Clint,” l'uomo si soffermò a pochi passi di distanza, “volevo augurarti buona fortuna per l'esibizione. Sono sicuro che il capitano Rogers apprezzerà.”

“Vi ringrazio,” annuì, tenendo a malapena a bada il senso di colpa che gli ruggiva nello stomaco.

“Non darmi del voi,” lo rimproverò l'altro a mezza voce.

“Non-”

“Lo so,” scosse il capo e gli rivolse un lento sorriso. Il silenzio piombò loro addosso, scomodo e gravido di aspettative. Il volto di lord Phillip mutò impercettibilmente espressione, le rughe ai lati degli occhi e sulla fronte improvvisamente più marcate ed evidenti. “Lo so che preferiresti non esibirti, ma sono fiero di te e voglio che tutti, al villaggio, lo sappiano.”

“Non è un problema,” mentì, sforzandosi di apparire disinvolto. “Mi piace tirare con l'arco.”

“Me ne rendo conto,” confermò l'altro prima di inspirare a fondo, quasi un peso gli stesse schiacciando il petto. “Ho sempre voluto solo il meglio per te, Clint. So che alle volte tendo a lasciarmi prendere la mano, ma...”

“Non è vero.”

“Oh, sì che è vero.” I suoi occhi si erano fatti tristi. “Non voglio costringerti a far niente che tu non voglia fare. Quando sembra che me ne stia dimenticando, ricordamelo. Va bene?”

Clint restò immobile a fissarlo. Possibile che avesse intuito le sue intenzioni? Possibile che stesse cercando di convincerlo a restare? Oppure... oppure erano soltanto le raccomandazioni di un padre preoccupato? L'incertezza solcava le burrascose acque del suo senso di colpa, ingrossatosi come un mare in tempesta pronto a schiantare la minuscola imbarcazione della sua vacillante volontà.

“Va bene,” acconsentì, senza sapere come sentirsi. Cos'avrebbe dovuto fare? Rivedere i suoi piani? Magari decidere di restare, risolvere la questione del matrimonio. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto ritornare sulla possibilità di sposare Bobbi. C'era ancora tempo per dire ad Hunter che non se ne faceva di niente, no? Una vita normale, piena, non era ancora del tutto fuori discussione. E una minuscola parte di lui, aveva realizzato, la desiderava quasi con disperazione.

“Bravo ragazzo.” Lord Phillip si sporse per coinvolgerlo in un abbraccio che gli tolse il respiro. Ricambiò la stretta senza esitazioni, riversandovi l'addio che non avrebbe mai avuto il coraggio o la faccia tosta di rivolgergli a parole.

Durò solo pochi istanti, dopodiché lord Phillip indietreggiò di un paio di passi per permettergli di salire a cavallo. Clint si mosse come nel bel mezzo di un sogno, come se il suo corpo stesse prendendo tutto le decisioni e il suo cervello non potesse far altro che restare a guardare. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, essere sincero una volta per tutte. Ma non ci riuscì.

Gli rivolse un cenno d'assenso mentre afferrava le redini tra i palmi della mani sudate.

Lord Phillip gli sorrise e annuì a sua volta, come a dargli la sua benedizione.

Fu tutto l'incoraggiamento di cui ebbe bisogno per spronare il cavallo a partire.

 

*

 

Il villaggio si era trasformato in un'enorme baraonda di suoni, odori, colori. Saltimbanchi e piccole compagnie itineranti avevano riempito il paese con le loro attrazioni; venditori ambulanti di caramelle e dolciumi dall'aspetto stantio compivano instancabili giri attorno alla piazza principale, mentre mangia fuoco e divoratori di spade si erano appostati qua e là, scatenando la meraviglia degli abitanti.

Il fornaio vendeva piccole focaccine e biscotti ad una bancarella improvvisata proprio dirimpetto alla chiesa; il fruttivendolo aveva esposto le sue mele candite insieme a sacchettini di noccioline e semi di zucca; la merce della fioraia era invece un'esplosione variopinta di rose, tulipani, garofani e ginestre; l'oste aveva disposte una decina di botti davanti alla sua taverna, distribuendo boccali di birra, sidro o vino a chiunque avesse un soldo da spendere. Le ragazze avevano indossato gli abiti e i fazzoletti colorati che non avevano mai osato mettere, mentre alle finestre erano state appese bandiere e stracci celesti, verdi, gialli. Gli uomini di Rogers spiccavano nelle loro divise rosse, punteggiando qua e là la folla, impegnati com'erano a bere e divertirsi.

Almeno tre gruppetti di suonatori si erano installati in diverse zone della piazza centrale, serenando gli astanti con canzoni diverse, alcune tristi, altre talmente movimentate da scatenare folli balli improvvisati.

Non fosse stato tormentato da tutt'altre questioni, Clint ne sarebbe rimasto affascinato. Non capitava spesso che i bigotti del villaggio si lasciassero andare a celebrazioni tanto allegre e spensierate. Persino il carnevale, da qualche anno a quella parte, si era ridotto ad una lenta processione di maschere arcigne che non sollevavano il morale proprio a nessuno.

“Sir Barton.”

Si voltò per ritrovarsi davanti Kate che gli rivolgeva una pomposa riverenza, agghindata com'era in un lungo abito elegante tutto pizzi e trine che la faceva sembrare un enorme cuscino puntaspilli.

“Kate?” Per un istante dimenticò tutte le sue disgrazie e cercò disperatamente di non ridere: era abituato a vederla con indosso abiti maschili, gli stivali ai piedi e la faccia polverosa; quello era uno spettacolo del tutto inedito.

“Non ti azzardare a ridere,” biascicò lei minacciosamente, accortasi dell'ilarità che prometteva di scoppiare da un momento all'altro.

“Non sto ridendo.” O almeno ci stava provando.

“Sei veramente uno stronzo.” Gli si fece vicina, allungando una mano per tirargli un pizzicotto sul polso.

“Ahia!”

“E comunque anche tu hai un aspetto ridicolo,” ci tenne a fargli sapere.

“Me ne rendo perfettamente conto, tante grazie. Se non altro tu non devi metterti a fare la bella statuina là in mezzo,” le indicò lo spiazzo recintato che era stato preparato per la sua esibizione. Ai piedi dei gradini della chiesa era stato allestito un piccolo palco che avrebbe accolto le più importanti personalità del villaggio (lord Phillip incluso) insieme all'ospite d'onore e il suo secondo in comando.

“Ma chi di noi due ha un nido d'api in testa?” Gli ritorse contro Kate, indicandosi la complicata composizione in cui erano stati acconciati i suoi lunghi capelli neri.

“Almeno non è una parrucca pulciosa,” la consolò con un sorriso divertito. “Siamo entrambi messi piuttosto male.” Riconobbe infine.

“Mi ero offerta volontaria per il tuo numero,” rivelò Kate. “Ma quando mio padre l'ha scoperto è andato su tutte le furie,” si strinse nelle spalle.

“Alla gente sarebbe preso un colpo!”

“L'idea era proprio quella,” ammise lei con un sospiro melodrammatico. Bastarono pochi secondi perché lo sguardo della ragazza cambiasse, facendosi di colpo più indulgente e incerto. “Hai ancora intenzione di andartene?” Ebbe infine il coraggio di formulare.

Clint si era fatto serio di riflesso, ben consapevole di non poter eludere la domanda. Non le aveva più chiesto niente riguardo la sua proposta di fuga, ma Kate non aveva offerto alcun parere o delucidazione in merito, il che significava semplicemente che non l'avrebbe accompagnato. Si era messo l'anima in pace sin dal giorno in cui le aveva prospettato la possibilità di una vita lontana dagli obblighi e dalle convenzioni cui sarebbero per sempre stati soggetti nelle ville dei rispettivi padri.

“Non lo so,” rispose più sinceramente del previsto. “Credo di sì.”

“Stanotte?”

“Stanotte,” confermò.

Kate strinse le labbra, gli occhi fattisi lucidi di colpo. Dopotutto aveva solo sedici anni e tutta la vita davanti: niente gli impediva di pensare che sarebbe stata tutto sommato contenta. In tutta coscienza, non se la sentiva di convincerla ad abbandonare tutto e tutti per lanciarsi in una corsa verso l'ignoto. Era un azzardo bello e buono anche per lui, ma addossarsi la responsabilità di rovinare completamente la vita di qualcun altro non era esattamente nella lista di cose che avrebbe voluto fare prima di morire. Si era a tal punto sforzato di convincersi che, alla fin fine, era meglio così, che era riuscito a persuadersene davvero. Per quanto, però, quello non lo sapeva.

“Tornerai?” Gli chiese con voce flebile, ma decisa.

“Non lo so.”

“Mi mancherai, idiota,” biascicò lei mentre tirava su col naso.

“Anche tu.” Le sorrise tristemente un attimo prima che lo strillone non annunciasse la sua esibizione a gran voce. Il palco delle autorità si era finalmente riempito, e tutti – saltimbanchi, abitanti, soldati del capitano Rogers indifferentemente – si erano avvicinati allo spiazzo che fungeva da teatro alla sua imminente performance.

Tornò su Kate che ancora lo stava guardando; avrebbe voluto abbracciarla, ma non c'era modo di farlo senza che nessuno li notasse. Imbracciò meglio l'arco e si sistemò la faretra sulla schiena, mentre le teste degli astanti si voltavano verso di lui con curiosità.

“Ehi,” la richiamò nel tentativo di allentare la tensione che gli si stava gonfiando all'altezza del petto. “Te l'ho mai detto che sono stato anche un saltimbanco?”

Non aspettò una risposta, scavalcando piuttosto la recinzione che delimitava lo spiazzo con un agile balzo che gli valse qualche applauso. Lo strillone continuava a decantare le sue lodi agli ospiti seduti sul palco: il prete, il capo della polizia e lord Derek Bishop facevano compagnia al capitano Rogers, al suo secondo in comando – il tenente Wilson – e a lord Phillip.

Il sole era ormai tramontato del tutto, lasciando il cielo scuro della sera ad osservarlo dall'alto. Un rullo di tamburi accompagnò l'avvicinamento di almeno dieci bersagli che vennero sistemati lungo lo spiazzo: gli era stato detto che l'ingegnere del paese aveva in serbo per lui una sorpresa, ma Antoine – che l'aveva informato – non aveva scoperto niente di più dettagliato al riguardo.

Non aveva mentito quando aveva rivelato a Kate che era stato saltimbanco: era stato dopo la morte dei suoi genitori, quando lui e il fratello avevano dovuto cominciare a guadagnarsi il pane da soli, non importava facendo cosa. Si era esibito prima d'allora e in condizioni ben più ridicole e umilianti di quella. Per questo non fu un problema trafiggere quei bersagli uno ad uno, la folla che esultava ad ogni centro perfetto, la banda ad accompagnare ciascun tiro con una musica ad effetto.

Dopo gli obbiettivi immobili, fu il momento di quelli mobili: pannelli di legno stilizzati in forma umana vennero azionati tramite un congegno a manovella che permetteva loro di ruotare attorno alla recinzione. Colpirli tutti al cuore fu un gioco da ragazzi; non importava quanto rapidamente ruotassero quella dannata leva, le sue frecce trovavano sempre il loro obbiettivo. Infine, tra gli applausi sguaiati di tutto il villaggio e quelli più composti del palco delle autorità, sei ragazzini vennero fatti entrare all'interno dello spiazzo, tutti con una mela tenuta immobile sul capo grazie ad un fazzoletto legato sotto al mento. Clint non aveva la più pallida idea di chi fosse stato tanto stupido da farsi convincere a far partecipare il proprio figlio a quella pagliacciata, ma non intendeva lamentarsene. I sei mostriciattoli uscirono dal recinto e si ricongiunsero ai genitori mangiucchiando quello che erano riusciti a salvare delle mele che i suoi dardi avevano spaccato in due con millimetrica precisione.

La banda si era rimessa a suonare canzoni movimentate e allegre, e i crocchi di ragazze ballavano tutt'intorno, mentre si avvicinava la quarta ed ultima fase dell'esibizione. Un paio di ragazzi l'aiutarono a recuperare le frecce scoccate fino a quel momento, e infine un terzo gli condusse il proprio destriero: le sagome di legno erano state rianimate per l'occasione. Avrebbe semplicemente dovuto colpirle tutte stando in sella al cavallo. Niente di più semplice.

Si issò in groppa all'animale, spronandolo immediatamente per un giro di prova a ridosso della recinzione. I pannelli di legno, azionati dall'ingegnere, presero vita per la seconda volta. Clint imbracciò l'arco, incoccò l'ennesima e freccia e prese la mira. Inspirò ed espirò a fondo, ripetutamente, la corda tesa al massimo e pronta ad essere lasciata andare...

… ma non ebbe il tempo di farlo.

Un sibilo improvviso, estraneo, trafisse l'aria con un fischio. Il tempo parve rallentare mentre il dardo gli mancava la spalla per un soffio, continuando la sua inesorabile corsa da qualche parte, dietro di lui. Afferrò le redini del cavallo e lo obbligò a frenare e voltarsi, ma era troppo tardi.

La freccia trovò il suo obbiettivo e un grido di orrore si levò dalla folla degli spettatori.

Il capitano Rogers era in piedi davanti a lord Phillip, le spalle rivolte alla piazza e la freccia conficcata nell'uniforme militare all'altezza dei reni.

Bastarono pochi secondi perché la consapevolezza di quanto era appena successo scendesse sui presenti, scatenando il caos. Le donne presero a gridare e richiamare i figli, fuggendo il più rapidamente possibile dalla piazza. Gli uomini tentavano di non lasciarsi prendere dal panico, mentre la festa si trasformava in un enorme formicaio impazzito. Le banda avevano smesso di suonare, i venditori ambulanti si affrettarono a mettere al sicuro la merce, gli uomini di Rogers – ubriachi e barcollanti – abbandonarono le ragazze che stavano cercando di imbonirsi per accorrere al palco delle autorità.

Lì si trovava il capitano Rogers, una grossa macchia scarlatta che andava ingrandendosi sul rosso della sua divisa. Intorno, il capo della giustizia prometteva enfaticamente che avrebbe catturato i colpevoli di quell'increscioso incidente, il prete pregava incessantemente, lord Phillip e sir Derek aiutavano invece il tenente Wilson a soccorrere il capitano prima che fosse troppo tardi.

Clint spronò il cavallo fino al palco, nel momento esatto in cui Leopold si faceva strada sui gradini per raggiungere il ferito.

“Lord Phillip!” Richiamò l'attenzione dell'uomo, che però era troppo preso dallo sbraitare istruzioni a destra e a manca per potergli dar retta.

“Fate spazio! Fate spazio!” Esclamò sir Derek, lasciando che Leopold avesse la libertà necessaria ad accertarsi delle condizioni del capitano.

“Leo,” Clint insisté, sebbene il cavallo stesse cominciando ad agitarsi. “Leo, come sta?”

“Dobbiamo chiamare il chirurgo,” decretò solennemente il futuro prelato, facendo cenno al secondo in comando di Rogers di sostenere l'uomo. “Fate portare una barella!” Gridò strozzato, mentre lord Phillip si assicurava di ripetere il messaggio a chi di dovere.

“La freccia è avvelenata,” decretò Leopold, “non la toccate!”

“Avvelenata?” Sir Derek si allontanò in tutta fretta, tenendosi un fazzoletto su naso e bocca senza neppure aspettare una risposta.

“C'è un odore dolciastro di... di m-miele,” confermò Leo, sudaticcio e bianchissimo.

“Puoi fare qualcosa?” Clint domandò trafelato, il cuore che aveva preso a battergli all'impazzata nel petto. Qualcuno aveva approfittato della sua esibizione per distrarli a tal punto da attentare indisturbato alla vita del capitano. Da dove era arrivata la freccia? Possibile che nessuno avesse visto chi l'aveva scoccata?

“Se a-avessi qui le mie e-erbe potrei provare a p-preparare un antidoto,” balbettò.

“Dove le trovo?”

“Sono nel baule ai piedi del letto nella mia stanza!” Strillò, sempre più agitato dal caos che gli si stava muovendo attorno.

“Torno subito,” Clint lo rassicurò, prendendo un'improvvisa decisione.

“Clint!” Leo lo richiamò prima che potesse lanciare il cavallo in corsa. “Questa è una delle tue frecce!”

La faccia rossa e sconvolta del cugino gli fece scendere il gelo nello stomaco, ma non c'era tempo di riflettere o pensare. Quello che contava, adesso, era salvare il capitano Rogers. Decise di riordinare rapidamente le sue priorità e gli risolve un cenno affermativo, prima di spronare il cavallo in un celere galoppo che lo portò oltre lo spiazzo recintato e poi in una folle corsa contro il tempo.

 

*

 

Raggiunse nuovamente il villaggio che la confusione pareva essersi ridotta in tutta la piazza, fatta eccezione per la zona circostante il palco della autorità. Scese da cavallo con un agile balzo, correndo a perdifiato verso il punto in cui il capitano Rogers era stato adagiato su una lettiga a pancia all'ingiù, la freccia ancora conficcata alla base della schiena in un lago di sangue. Leopold si era liberato del mantello nero e della giacca, le maniche della camicia tirate su fin sopra i gomiti e un'espressione seria e determinata ad accompagnare ogni suo gesto.

Non appena si accorse di Clint che gli veniva incontro, sbraitò ai presenti di lasciargli spazio e si rimise in piedi per intercettarlo a metà strada e strappargli la borsa delle erbe di mano.

“Forse c'è ancora tempo,” biascicò a mezza voce, tornando immediatamente al suo posto per miscelare sostanze e pestare erbe di cui Clint non conosceva neppure il nome.

L'ansia gli era montata nello stomaco come un fiume in piena, minacciando di sopraffarlo da un momento all'altro. L'immagine della freccia che gli sibilava accanto al viso continuava a tormentarlo; non aveva smesso neppure un secondo di rivivere la scena nella sua testa, sperando in un qualche miracolo che gli permettesse di scorgere chi l'aveva scoccata, da dove e perché.

“Che ci fai qui?” Antoine gli si era fatto di fianco, afferrandolo per un braccio, sudato e trafelato.

“Ho portato la bor-”

“Te ne devi andare. Torna alla villa e non ti muovere di lì,” decretò seccamente a dispetto dell'agitazione generale.

“Di che stai parlando?” Si era accorto della paura che gli animava lo sguardo, eppure qualcosa gli diceva che non aveva direttamente a che fare con la sorte del capitano Rogers.

“La gente è impazzita. Sono convinti sia opera della strega per via del veleno.”

“Che cosa?” Il pensiero di Natasha lo colpì come un cazzotto nello stomaco. “Lei non c'era neanche!”

“Credi che abbia importanza? Una freccia avvelenata che sbuca dal niente! Il fatto che non fosse qui la rende soltanto più colpevole ai loro occhi!”

“Non ha alcun senso, Antoine!”

“Frecce e veleno, Clint,” il figlio adottivo di lord Phillip lo fissò dritto negli occhi, facendosi improvvisamente supplice. “C'è chi pensa che tu fossi d'accordo,” gli rivelò.

“Che cazzo stai dicendo?” Lo shock lo percorse come un fulmine.

“Lo so che sono tutte fandonie, ma c'è chi giura di averti visto nel bosco con lei!”

“Anche se fosse vero non significa che ci siamo messi d'accordo per uccidere Rogers!” La replica indignata non gli uscì così ferma come avrebbe voluto.

“Clint, dammi retta. Corri a casa e nasconditi finché le cose non si saranno calmate. Per la strega non c'è più speranza, ma p-”

“Di che stai parlando?”

“La gente! H-Hanno... hanno raccolto le armi e stanno marciando verso la casa del tagliaboschi per ucciderla.”

“C-Cosa? Non... non possono! Gli uomini di Rogers devono fermarli! Non possono ucciderla solo per una stupida allucinazione collettiva!”

“Gli uomini di Rogers sono più inferociti della gente del villaggio,” Antoine continuava a sperare di farlo ragionare, o almeno questa era l'impressione che gli stava dando. Ma niente di quella storia aveva alcun senso, e adesso – oltre al pensiero ossessivo del misterioso assassino – anche l'incolumità di Natasha si era imposta alla sua attenzione con sferzante urgenza. “Sono tutti ubriachi fradici, sono loro a condurre la folla!”

“Che... c-che cazzo stai dicendo?”

“Clint, devi nasconderti prima che decidano di rifarsela con te.”

Fu sul punto di ribattere, ma decise che non c'era più tempo da perdere, che se non si fosse dato una mossa avrebbero raggiunto Natasha, l'avrebbero circondata e dio solo sapeva cos'altro. Abbandonò Antoine in mezzo alla piazza, saltò nuovamente in sella al cavallo, lanciando entrambi lungo la strada principale ormai quasi del tutto sgombra, e poi verso il limitare del villaggio, i campi e il bosco. Un alone arancione si accendeva sulla sommità della sagoma scura degli alberi, segno che era stato appiccato un incendio. Possibile che avessero deciso di dar fuoco a strega e casa senza pensarci due volte? Possibile che la superstizione e la cieca ignoranza potessero portare a tanto?

Quell'ultima notte di maggio scendeva opprimente sulla poca distanza che lo separava dalla sua meta. Il vento gli sferzava il volto e i capelli, mentre l'eco lontana della folla che rumoreggiava cominciava a raggiungerlo. Varcò la linea degli alberi senza pensarci due volte, incitando il cavallo ad andare più veloce, a farsi strada tra la vegetazione sempre più fitta. Man mano che avanzava, la luce del fuoco andava facendosi più chiara, le voci più forti, il calore più insistente. E poi eccola, la folla assiepata davanti alla casa del tagliaboschi, ordinatamente disposta su quello che inizialmente gli parve un confine immaginario, ma che si rivelò essere un cerchio di fuoco che cingeva perfettamente la zona antistante l'abitazione.

“Fate largo! Fate largo!” Si fece strada tra la gente finché non ebbe raggiunto quel recinto infiammato che sbarrava il passaggio.

“Eccolo! E' l'arciere!”

“Assassino!”

“Figlio del demonio!”

Le accuse si moltiplicarono fino a ridursi ad un unico coro di insulti che andava fomentandosi da solo. La commozione generale ottenne l'effetto di far imbizzarrire il cavallo, che a malapena era riuscito a restare calmo alla vista del fuoco. Clint si vide costretto a smontare in fretta e furia, un attimo prima che l'animale lo disarcionasse per fuggire nitrendo lontano da quel caos infernale.

“Dove sono i soldati?” Tentò comunque di chiedere, sperando ci fosse qualcuno ancora sano di mente là in mezzo.

“La stanno facendo a pezzi, così come merita! Il suo stupido incantesimo non ha funzionato!” Gli rispose una donna con i capelli scomposti e una luce folle negli occhi.

“Non c'è stato alcun incantesimo!” Ribatté, nella disperata speranza di farli ragionare.

“Il cerchio di fuoco! La fattucchiera ha tentato di mettersi in salvo, ma i soldati erano già passati oltre!” Tuonò un uomo grasso e sudato che brandiva un forcone.

“Vi abbiamo visto, sapete? Il mio Peter vi ha visto!” Un'altra donna venne avanti per accusarlo, un poppante attaccato al seno e un figlio più grande appeso alle sottane, un'espressione colpevole sul volto.

“Visto cosa?” Di che diavolo andavano delirando?

“Le avete permesso di bere il vostro sangue e adesso vi ha in pugno!” Il vecchio che aveva parlato gli puntò contro il bastone di cui aveva bisogno per camminare. “Siete stato debole, ragazzo.”

“Non le ho permesso di bere il mio sangue! Ma che cazzo state dicendo?”

“E' inutile che mentiate! Il mio Peter vi ha visto!”

“Siete il suo schiavo!”

“Assassino! Eretico!”

“Lord Coulson avrebbe fatto meglio a lasciarvi morire impiccato!”

La massa ondeggiante si mosse all'unisono, minacciando di sommergerlo e sopraffarlo. Mille facce accese di vera e propria pazzia, mille mani che sembravano allungarsi per ghermirlo e afferrarlo, per trascinarlo nel baratro di superstizione e ignoranza in cui parevano sguazzare tanto comodamente.

Contemporaneamente un grido si alzò dalla casa del tagliaboschi in fiamme, un urlo talmente acuto che a malapena avrebbe potuto definirlo umano.

Non ebbe il tempo di pensare a niente di meglio: tra la folla che prometteva di stringersi e richiudersi su di lui e la preoccupazione per la sorte di Natasha, Clint finì per lanciarsi letteralmente oltre il cerchio di fuoco. Nel ricadere sul prato, ebbe appena il tempo di accorgersi di una sostanza vischiosa che imbrattava l'erba, prima di doversi occupare della giamberga che gli aveva letteralmente preso fuoco.

“Crepa, bastardo!” Strillò qualcuno dalla parte opposta.

“Va' all'inferno! Brucia!”

Gli insulti si riunirono nuovamente in un unico urlo che arrivò a colpirlo come uno schiaffo in pieno viso. Ma non c'era tempo da perdere: riuscì a salvare arco e faretra, ma dovette sbarazzarsi della giacca se non voleva ustionarsi. Si rimpossessò delle sue armi e si sbarazzò del fazzoletto che gli impediva di respirare, correndo in direzione dell'abitazione.

“Natasha!” La richiamò senza ottenere risposta, mentre il sussurro del fuoco sovrastava qualsiasi altro rumore. “NATASHA!”

La porta era stata divelta e gettata contro il muretto di pietra, un calore soffocante proveniva dall'interno della casa. Non si lasciò scoraggiare e varcò la soglia dopo aver incoccato una freccia, pronto a colpire se fosse stato necessario.

Ma allo spettacolo che gli si parò davanti non era preparato. Le fiamme che divoravano le quattro pareti, avevano attaccato il tavolo, la cucina, le scale, le porte, rendendo la consistenza dell'aria praticamente irrespirabile.

Un'ombra scura si muoveva agilmente in quell'inferno messo a ferro e fuoco. Si fermò di colpo, brandendo un'enorme spada. La sollevò sopra la testa e, con un tonfo sordo, la macchia rossa che aveva colpito crollò a terra. Solo allora si accorse che non era la sola, che ce n'erano altre sparse sul pavimento, dominate da quell'unica sagoma che ancora resisteva.

Le mani gli tremavano mentre metteva a fuoco la massa informe che giaceva ai suoi piedi: le fiamme già cominciavano a lambire i cadaveri straziati degli uomini di Rogers. L'odore del sangue gli si palesò un attimo dopo, persino più forte di quello di bruciato.

“Quella è per me?”

La voce di Natasha era un soffio basso in quella bolgia bollente. La consapevolezza che era rimasta informe, da qualche parte nella sua testa, fin dal primo momento che l'aveva incontrata, assunse improvvisamente contorni netti e decisi.

La donna svettava in mezzo alla stanza, i piedi nudi immersi nel sangue dei soldati uccisi, le gambe in parte scoperte dal lembo di gonna incastrato nella cintura per favorire una mobilità maggiore, il petto ansante nella camicia macchiata di rosso, le mani strette attorno all'elsa di una pesante spada che non aveva l'aria di appartenerle, ma che non faceva comunque alcuna fatica a brandire.

I contorni del viso delineati dalle ombre gialle, arancioni, rosse e nere che l'incendio le faceva danzare sul volto; le labbra piene e gli occhi verdi e terribili. Ma furono i capelli a sorprenderlo: la lunga treccia bionda – che notò a terra, nient'altro che una parrucca intrisa di sangue – era stata sostituita da capelli lunghi fino alla spalla, rossi come il fuoco che minacciava di ucciderli da un momento all'altro.

E mentre su quella chioma scarlatta si riflettevano le luci delle fiamme, Clint non poté fare a meno di pensare che la donna doveva essere davvero una creatura dell'inferno, che non sfigurava affatto in quel quadretto di morte e dannazione eterna, che anzi se ne sentiva come sopraffatto e dominato, quasi si fosse trovato in presenza di una divinità infera, potente e oscura.

“Se non lo è, ce ne dobbiamo andare,” riprese a parlare, apparentemente tutt'altro che scossa dal caos che imperversava loro attorno.

Avanzò verso di lui finché la punta della freccia ancora incoccata non le sfiorò il seno che per pochi centimetri.

“Barton,” lo richiamò all'attenzione. “Ce ne dobbiamo andare,” ribadì, cercando i suoi occhi ancora smarriti.

Gli bastò incrociare il suo sguardo, però, per capire che aveva ragione.

Riabbassò lentamente l'arco e annuì una sola volta.







Note: bè, come avevo promesso questo capitolo smuove di molto le acque e cambia decisamente le carte in tavola. Per chi si stesse chiedendo perché Natasha fosse bionda, la spiegazione è: una banalissima parrucca. Anche se questo significa che si sta nascondendo - il perché lo scopriremo più avanti. Clint, invece, ha davvero messo in atto la sua fuga - senza riuscire a trovare il coraggio di affrontare lord Phillip - anche se non come avrebbe voluto lui... e il caos e la superstizione l'hanno fatta da padroni. Per il resto non ho nient'altro da dire a parte specificare che Derek Bishop altri non è che il padre di Kate.
Per tutti gli altri misteri... ci vorrà pazienza :P
Per adesso ringrazio chi ha letto, chi ha recensito, chi si è fermato a spulciare, chi ha aggiunto la storia tra preferiti/seguiti, e ovviamente la sociabeta Eli.
Alla prossima settimana! 
(◡‿◡✿)
 

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo 5

~

 

La cima di un campanile svettava tra le ombre notturne in fondo alla vallata. Avevano camminato per tutta la notte: se Clint non avesse avuto gli avvenimenti della sera precedente a vorticargli rabbiosamente davanti agli occhi, si sarebbe lasciato vincere dalla stanchezza molto prima di raggiungere la meta. A dirla tutta, non aveva neppure una pallida idea di dove fossero diretti. Senza rendersene conto, si era affidato completamente a Natasha; era ancora troppo scosso e confuso per mettersi a pensare ad un piano alternativo o a chiederle dove stessero andando. In fin dei conti, continuava a ripetersi, non aveva alcuna importanza.

Il male ai piedi, però, quello cominciava a farsi sentire. L'opaco susseguirsi degli eventi non aveva smesso un secondo di tormentarlo. Ricordava a malapena di essere rimasto a guardare mentre Natasha recuperava quel poco che avrebbe potuto salvare dall'incendio, di averla vista scomparire al piano di sotto e poi ritrovarsela sotto gli occhi vestita di tutto punto in abiti decisamente più consoni ad una fuga. Si era gettata un lungo mantello sulle spalle, coperta i capelli – rossi come il fuoco che li aveva circondati – con l'ampio cappuccio di cui era fornito, procurandogliene uno perché facesse altrettanto.

Erano usciti dalla casa del tagliaboschi attraverso la porticina sul retro, dove il cerchio ardente che circondava la costruzione lasciava aperto uno stretto varco che li aveva condotti fin nel cuore del bosco. La determinazione della donna era tanta e tale che non aveva potuto fare a meno di affidarlesi completamente. L'istinto gli suggeriva di seguirla e quello aveva fatto, avendo appena la prontezza d'animo di dirle che se avessero deviato solo un poco verso est sarebbe riuscito a riprendere la borsa che aveva preparato in vista della sua partenza da villa Coulson. Natasha non aveva fatto domande, ma l'aveva accontentato.

Adesso la sacca gli sbatteva fastidiosamente sulla schiena ad ogni passo. Il mantello pareva essersi impregnato dell'umidità di cui era carica l'aria, minacciando di trascinarlo giù da un momento all'altro. Di parole ce n'erano state poche, di circostanza. Se doveva essere sincero non sarebbe neppure riuscito a richiamarle alla memoria.

Solo il paesaggio che li circondava era andato mutando, cambiando faccia, con ogni ora che passava. All'inizio c'era stata la fitta vegetazione del bosco, poi un campo arido, incolto e sconfinato, il terreno poco battuto di stradine impervie e seminascoste (il che gli aveva fatto capire che Natasha stava evitando le principali vie di comunicazione del regno), infine le colline, le cui linee sinuose si stagliavano come onde nere contro il manto della notte. Di persone ne avevano incrociate poche – qualche vagabondo dall'aria intontita.

Non avrebbe saputo dire quante miglia avessero percorso e neanche gli importava. Lo shock aveva avuto l'effetto di anestetizzarlo; forse avrebbe potuto andare avanti ad oltranza finché il suo corpo gliel'avesse concesso.

La chiesina, però, la cui sagoma andava facendosi sempre più distinta man mano che l'oscurità cedeva il passo ai primi bagliori dell'alba, aveva tutta l'aria di essere la meta designata. L'idea che la presunta strega avesse scelto la casa di dio come rifugio, in altre circostanze, l'avrebbe divertito. La prospettiva che la folla inferocita avesse ragione sul conto della donna era semplicemente ridicola, ma ciò non significava che Natasha non continuasse ad essere un mistero. Un mistero che non era più tanto sicuro di voler svelare. Il modo in cui aveva fatto strage degli uomini di Rogers gli aveva messo addosso una sensazione gelida che si faceva sempre più difficile da ignorare: com'era possibile che una ragazza sola fosse capace di mettere fuoriuso sei dei migliori uomini dell'esercito regio? Soldati addestrati, scelti tra gli uomini più sani e robusti del regno. Era riuscita a spazzarli via senza rimediare neppure un graffio.

Nonostante tutto, era ancora abbastanza lucido da rendersi conto che la magia non c'entrava proprio niente. La giovane possedeva delle capacità fuori dal comune; abilità che si era ben guardata dal condividere con lui. Non che avesse mai avuto un buon motivo per farlo...

Fatto stava che il rompicapo Natasha, di cui era andato curiosamente cercando il pezzo giusto in grado di completarlo, si era ricomposto inaspettatamente sotto i suoi occhi. Non una fuggiasca dall'aspetto angelico e lo sguardo sfuggente, ma una donna in grado di difendersi a mani nude, tutt'altro che spaventata dalle atrocità del sangue alle quali non si era sottratta. Il rompicapo era sì ultimato, ma gli restituiva un'immagine confusa. Incomprensibile. Inquietante, persino.

Non gli pareva più tanto assurdo di essersi sentito più affine alla giovane fanciulla che nelle fiabe si perde nel bosco, piuttosto che al pericolo che l'attende all'interno. Aveva ceduto al richiamo del mistero e adesso... adesso aveva la netta sensazione che ne avrebbe pagato le conseguenze e che il conto sarebbe stato salato.

Raggiunsero il portone della chiesa che l'aria si era ingrigita, concedendogli di distinguere più facilmente le forme che li circondavano. Non si servirono dell'entrata principale: Natasha lo condusse sul retro, alla porticina della sagrestia e solo allora si decise a bussare per ben tre volte.

I colpi rimbombarono cupamente nel silenzio. C'erano soltanto il cinguettio di uccelli lontani e lo stormire del vento a far sì che non fosse totale.

Attesero per un minuto buono, tanto che Clint cominciò a convincersi che nessuno si sarebbe fatto avanti. Ma la determinazione che le lesse nello sguardo lo fece desistere dal dire alcunché a riguardo. Aspettarono in silenzio finché un rumore – che identificò come passi trascinati sul pavimento – non arrivò a stuzzicare i suoi sensi esausti. Seguì un clangore metallico e poi il cigolio dei cardini arrugginiti.

Trattenne inconsciamente il fiato mentre il volto spaurito e smunto di un prete in camicia da notte si materializzava nel minuscolo spicchio nero che questi aveva osato aprire.

I suoi occhi pallidi cercarono febbrilmente quelli di Natasha, ma il sollievo dell'identificazione – che pur gli lesse in viso – non sembrò sedare del tutto la sua preoccupazione.

“T-Tu?” Riuscì a pronunciare, rivolgendosi poi verso di lui con sguardo sospettoso.

“Abbiamo bisogno di un posto dove trascorrere le ore di luce, Erik.” La donna non si era scomposta minimamente, ma non gli era sfuggita la nota di desolazione che le aveva inflesso la voce, anche se solo per un istante.

“Sono passati... a-anni...”

“Lo so,” tagliò corto lei. Era chiaro che non aveva intenzione di spendere un minuto di più in piedi in mezzo al niente, dove chiunque avrebbe potuto individuarli.

“Lui chi è?” Le chiese, abbandonando l'aria impanicata in favore di un approccio più indispettito.

“Lui è con me.”

“Natasha, se mi stai mettendo nei guai, i-”

“Erik.” La voce di lei ebbe il potere di richiamarlo bruscamente all'ordine.

L'uomo serrò le labbra fino a ridurle ad una linea sottile, gli occhi chiarissimi che sondavano il viso della donna. Durò solo per qualche secondo. L'estremità del suo berretto da notte che si agitava nel buio gli suggerì che doveva aver fatto dietrofront per permetter loro di entrare.

“Andiamo,” lo esortò Natasha, seguendo il prete senza ulteriore esitazione.

Clint, dal canto suo, indugiò sulla soglia; l'odore della cera sciolta mischiato a qualcosa di dolciastro che non riuscì ad identificare gli annebbiò ancora di più la coscienza intorpidita. La sagrestia era un buco nero che prometteva di inghiottirlo da un momento all'altro.

Eppure, pensò amaramente, non aveva nessuna alternativa.

 

*

 

I colpi del tamburo gli vibravano nello stomaco, accompagnando il battito angosciato del proprio cuore.

La folla anonima lo circondava come un banco di nebbia soffocante. Non riusciva a distinguere nessuna delle fattezze di quei volti opachi, così uguali gli uni agli altri.

Sentiva l'odore dell'incenso, quello di un cero acceso, i richiami sgraziati dei venditori di dolciumi, di bicchieri di acqua e anice.

L'odio che emanava da quella massa informe di spettatori cresceva al ritmo dei tamburi, montandogli nello stomaco come un fiume sempre più gonfio, sempre più violento, sempre più minaccioso.

L'ostilità rendeva l'aria densa e appiccicosa, a malapena respirabile, quasi stesse facendosi acquosa, liquida, per annegarlo senza possibilità di emersione alcuna.

Passi trascinati sull'assito del patibolo lo costrinsero a mettere a fuoco il luogo d'esecuzione. Il cappio ciondolava contro il cielo grigio ed immobile. La comparsa dell'uomo scatenò la furia del pubblico affamato di violenza e catartica espiazione; Clint se ne sentì come sommerso. La confusione gli impediva di concentrarsi sul condannato.

Dovette fare appello a tutte le sue forze per mantenersi in equilibrio, aggrappandosi alle ombre che rinserravano i ranghi da ogni lato.

Poté vedergli solo i piedi, calzati da un paio di scarpe eleganti – troppo per quello che, nella sua mente, era il guardaroba del delinquente medio. Si riarrampicò con gli occhi lungo le gambe imbiancate da calze immacolate; le brache di tessuto pregiato, il candore della camicia, del fazzoletto al collo.

Quando i suoi occhi incontrarono quelli spauriti di lord Phillip, si sentì precipitare in un baratro senza fondo. La vertigine fu come un brusco contraccolpo, quasi le bacchette del suonatore di tamburo gli stessero battendo direttamente sullo stomaco. Bum, bum, bum. O forse era il suo cuore che faceva tutto quel baccano: tutto, di quella scena atroce, sembrava penetrargli sotto pelle, diventare parte integrante di lui. L'ostilità della folla senza nome, quel rimbombare che scandiva il tempo, la faccia pallida ma determinata di lord Phillip.

Avrebbe voluto urlare che lui non c'entrava niente, che era innocente, che qualsiasi fosse l'accusa che gli muovevano contro, doveva essere stato commesso un grave, gravissimo errore. Il modo in cui la stanchezza gli aveva appesantito lo sguardo, scavato le rughe, incurvato le spalle, gli contorse ferocemente le viscere.

C'era stato lui, un tempo, su quel patibolo. Un ragazzino vestito di stracci, sporco, col moccio al naso. Se non fosse stato per lord Phillip, non avrebbe mai ridisceso i pochi gradini che l'avevano condotto a quel pezzo di corda. Adesso era arrivato il momento di ricambiare il favore, di pagare il debito che per anni si era sentito pendere sulla testa come una spada di Damocle.

Ma per quanto desse fiato ai polmoni, per quanto si sgolasse per far sentire le proprie ragioni, per quanto convulsamente si stesse agitando per farsi strada tra la gente, i suoi piedi rimanevano piantati dov'erano. Le sue labbra si dischiudevano per non liberare alcun suono.

Un'ombra scura si mosse alle spalle di lord Phillip. Mentre il cappio gli cingeva il collo, Clint lo vide sussultare, un impercettibile brivido di paura sulla maschera di fierezza che si stava sforzando di mantenere.

Gli doveva tutto. Che razza di figlio ingrato sarebbe stato se non avesse neppure tentato di salvarlo? Come avrebbe potuto rimanere lì, fermo ed immobile, a guardarlo morire senza alzare neppure un dito? Forse lord Phillip aveva commesso un imperdonabile errore di giudizio. Forse salvare quel moccioso non gli aveva portato altro che guai. Forse la scommessa che aveva piazzato in una lontana giornata di marzo, si era finalmente rivelata fallimentare. L'investimento era caduto nel vuoto.

La leva che gli spalancò la botola sotto ai piedi lo colpì come una stilettata gelida al petto. La vertigine tornò a trascinarlo verso il basso, dove non c'era aria da respirare, solo il dolce odore marcescente della morte. Il suo cuore impazzito seguiva il ritmo con cui i piedi del condannato si agitavano febbrilmente senza poter trovare appoggio alcuno.

Annaspò in cerca d'aria, artigliò il niente nella patetica speranza di un disperato appiglio, ma la caduta era irreversibile...

 

… scattò giù dal letto improvvisato come una molla, scaraventando via la coperta di lana grezza. Mosse ampi passi attraverso la stanza finché non ebbe raggiunto la parete opposta, praticamente alla cieca. Ci si accostò con occhi sgranati, il volto pallido e la fronte sudata.

Gli ci vollero un paio di lunghi istanti perché la fredda pietra su cui aveva poggiato i piedi cominciasse a riportare i suoi sensi all'attenzione.

Si costrinse ad inspirare ed espirare, riuscendovi più agilmente man mano che i contorni dello spazio gli si palesavano uno ad uno. Scheletri di letti abbandonati lungo le pareti leterali, qualche mobile sbilenco tristemente accostato negli angoli, la candela spenta appoggiata sul davanzale di una finestrella sigillata. Un bancone, che aveva l'aria di appartenere ad un alchimista scalcagnato, occupava l'angolo più buio; fiale, bottigliette di vetro, mortai di varie dimensioni e forme, cassettine di legno che emanavano odori acri e pungenti.

Deglutì a fatica mentre si rendeva conto che si era svegliato di soprassalto proprio in uno dei due materassi di fortuna che riportavano ancora le sagome di chi vi aveva dormito; l'istinto che gli aveva suggerito di allontanarsi il più possibile dal luogo dell'incubo ancora ben vivo alla base dello stomaco.

L'altro, invece, doveva aver ospitato Natasha. Non l'aveva sentita svegliarsi, né sapeva quanto tempo fosse passato da quando padre Erik aveva concesso loro – seppur con riluttanza – ospitalità. Una sottile linea di luce trapelava nel magazzino della chiesa attraverso i bordi della finestra; voci lontane sembravano raggiungerlo da chissà dove. Forse era l'ora della messa. Possibile che il sonno fosse stato talmente profondo da impedirgli di sentire le campane suonare?

Si scostò dalla parete col cuore ancora in tumulto, ma finalmente più lucido. Si affrettò a reindossare gli stivali e a recuperare la sacca nascosta sotto il materasso pieno di paglia. Non aveva ancora un'idea ben precisa di ciò che avrebbe fatto: quel che sapeva con certezza è che c'era una questione in sospeso da risolvere e neppure un secondo da perdere.

Quando fu sicuro di aver preso tutto, si avvicinò alla porta, studiandone sommariamente la fattura per capire come aprirla producendo il minor rumore possibile. Era una tecnica che gli aveva insegnato suo fratello per uscire di casa senza farsi sentire dai genitori, nel breve periodo in cui avevano avuto l'una e gli altri.

Fece pressione sulla maniglia e trattenne il respiro.

“... venire fin qui,” la voce concitata del prete non era più che un sussurro tra le pietre della sagrestia.

“Sono stata cauta. Nessuno mi ha seguita.”

Di Natasha non riuscì a distinguere che un breve stralcio, decentrati com'erano rispetto al suo campo visivo. Parlavano a bassa voce, a distanza ravvicinata, mentre l'uomo si teneva occupato col sistemare i poveri contenuti di un vecchio armadio.

“Quelli non scherzano e tu lo sai bene,” ribatté dandole le spalle per cambiare ripiano ad un ammaccato calice d'ottone.

“Non ho avuto altra scelta. La situazione è precipitata.”

“Avevi giurato che non saresti più tornata, finché non-”

“So cosa ti aveva promesso. Non sarei venuta meno alla parola data se non si fosse trattato di un'emergenza.”

“Se dovessero trovarmi qui, non avrai più un posto sicuro dove andare. Te ne rendi conto?”

“Come pensi che non me ne renda conto?” La voce della donna si era affievolita, la sua solita determinazione che cedeva il passo a qualcosa di molto simile al rimorso.

“Avevi detto che l'avresti fatta finita, avevi detto che era l'ult-”

“Erik.”

“No, non puoi zittirmi ogni volta. Sono passati – quanti? Tre anni?”

“Non tengo il conto e sai bene che se potessi me ne sarei già andata.”

“Non devi loro un bel niente. Fuggi... nasconditi a sud.”

“Mi troverebbero. Hanno occhi e orecchie ovunque, superano i confini e tu lo sai.”

“Sempre una scusa.”

“Non sono scuse.”

“Avranno sempre un valido motivo per farti rimanere. Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

“Devo pagare il mio debito. Dopo potrò andarmene.”

“Dopo sarà impossibile tornare indietro. Ti hanno cambiata. Sei diversa, te ne sei accorta?”

“Non parlarmi di queste stronzate, Erik.”

“Stronzate!” Il prete strinse i pugni e li agitò a mezz'aria come trattenendosi disperatamente dal prenderla a male parole. “Che dio mi perdoni!” Esclamò alzando gli occhi al soffitto prima di riabbassarli su di lei. “E che perdoni anche te, perché non sai quello che fai.”

“Non c'è nessun dio in grado di perdonarmi. Non c'è mai stato.”

Lo squittire di un topo da qualche parte vicino alla porta del magazzino, attirò l'attenzione di entrambi. Clint ebbe appena il tempo di spalancare la porta, come per dare l'idea di essere appena comparso sulla soglia della sagrestia.

Il prete gli lanciò uno sguardo allarmato, ma si affrettò a sostituirlo con un'espressione stizzita.

“Stupidi ratti!” Sbottò con esasperazione fin troppo calcata per i suoi gusti. Corse a recuperare la ramazza appoggiata contro una vecchia cassapanca, cominciando ad inseguire topi invisibili con religioso fervore.

Natasha, dal canto suo, era rimasta immobile a guardarlo. Per un attimo Clint ebbe il timore di essere stato scoperto ad origliare. Ma la reazione che si aspettava rimase sospesa nell'aria, senza concretizzarsi in niente.

Gli si fece vicina: ad ogni passo, la preoccupazione pareva volatilizzarsi dal suo viso, alleggerendole la postura e lo sguardo. Quando gli fu davanti, era la solita Natasha di sempre. Precisa, calma, perfettamente padrona della situazione. Sembrava essersi spogliata di ogni briciolo di incertezza, cancellando l'umanità tutta terrena che aveva sentito nella sua voce solo un attimo prima. La donna che aveva sorpreso a colloquio con padre Erik non aveva niente a che vedere con quella che adesso lo fronteggiava.

“Sei riuscito a riposare?” Come aveva fatto a non accorgersi di quanto suonasse calibrato il suono della sua voce? Di quanto fosse calcolata l'espressione in cui atteggiava di volta in volta il viso?

Per la prima volta da che la conosceva, Clint realizzò quanto profondo fosse l'enigma che la donna sembrava sottoporgli.

“Non tanto,” ammise, sperando che la sincerità l'avrebbe aiutato a disperdere il nervosismo.

Doveva scendere a patti con quell'incontrovertibile verità: di lei non sapeva proprio un bel niente. Ne aveva sottovalutato i segreti perché l'aveva sentita affine; una ragazza sola, senza famiglia, isolata in un mondo ostile. Gli era capitato di osservarla di sfuggita e di riconoscere se stesso nei suoi gesti, nel modo in cui il suo sguardo si perdeva verso mete non meglio definite.

Ma quale che fosse la verità, Clint aveva ormai la netta sensazione che la reticenza di Natasha andasse ben oltre il pudore per una manciata di fatti personali che preferiva non condividere. Qualcosa di oscuro dettava il corso della sua vita, qualcosa che aveva a che fare col modo in cui si era liberata degli uomini di Rogers, con la conversazione nel bel mezzo della quale l'aveva sorpresa solo qualche attimo prima.

“C'è una stanza lì accanto,” gli indicò una porticina di fianco all'armadio in cui aveva visto trafficare il prete. “C'è dell'acqua calda, se vuoi farti un bagno.”

“Non c'è tempo per un bagno,” le disse, suo malgrado più risentito del previsto. Avrebbe sinceramente voluto che la donna fosse stata davvero una strega, almeno avrebbe avuto una scusa per giustificare il modo in cui l'aveva ciecamente seguita fino a quella chiesina sperduta tra le colline. Soltanto la vittima di un perfido incantesimo.

“Vai da qualche parte?” Natasha si era rifatta scettica, sarcastica.

“Devo tornare indietro.”

“Hai intenzione di farti ammazzare?”

“No, non ho-,” si bloccò prima di poter finire la frase. Non aveva voglia di parlare o giustificarsi, soprattutto con chi non aveva fatto altro che mentirgli – seppur per omissione – fin dall'inizio. “Non importa. Torno indietro e basta.”

Una parte di lui si attendeva una qualche reazione da parte della donna, un disperato tentativo di convincimento o magari un rabbioso richiamo alla ragionevolezza. Ma Natasha si limitò a guardarlo, come prendendo quietamente atto della sua decisione.

“Ti conviene aspettare il calare della notte,” suggerì. “E' pieno di soldati qua in giro.”

“Soldati?” Si aspettava di vederlo tornare sui propri passi per una bugia tanto assurda?

“I campi qua intorno appartengono al cugino del re,” gli spiegò. “I contadini si sono ribellati per ben tre volte dall'inizio dell'anno... le condizioni di lavoro sono terribili.”

Avrebbe voluto smascherare la sua menzogna, lì su due piedi, ma gli era bastato rifletterci per realizzare che Natasha stava dicendo la verità. Ricordava di aver sentito Grant discuterne più volte con lord Phillip sia a cena che durante le pigre serate trascorse in salotto a fumare e a leggere le notizie che arrivavano dalla capitale.

“E' stato richiesto l'intervento dell'esercito,” riprese Natasha. “Ci sono soldati ovunque. Sarà più facile eluderne la sorveglianza al calare della notte.”

Il suo lato irrazionale avrebbe voluto ignorare il consiglio della donna, sfidarla apertamente e uscire dalla chiesa, sprezzante del pericolo. Quello più ragionevole, però, sapeva che la notizia dell'attentato alla vita del capitano Rogers doveva già essersi diffusa almeno nei territori limitrofi al villaggio, che i soldati disseminati per le campagne circostanti avrebbero prestato il doppio dell'attenzione ai volti estranei che avrebbero incrociato sul loro cammino. Una delle personalità più in vista del regno era stata aggredita – anzi, nessuno gli assicurava che il capitano fosse riuscito a superare la notte – e la solidarietà che intercorreva tra le file dell'esercito non era di certo un segreto ben mantenuto: se attaccavano uno di loro, li attaccavano tutti. Dal primo all'ultimo. In quel caso, la celerità non gli avrebbe garantito alcuna sicurezza: a che sarebbe servito precipitarsi al villaggio se l'avessero arrestato dopo neanche un miglio di cammino? A quel punto non avrebbe potuto prestare il suo aiuto a nessuno: chiuso in gattabuia sarebbe stato ancora più inutile che ad aspettare in quella chiesa a farsi uno stupido bagno.

Avrebbe voluto combattere con quella ritrovata consapevolezza, ma sapeva di essersi già rassegnato all'evidenza. E a giudicare dal modo in cui la donna lo stava osservando – con un falso disinteresse che rischiava di dargli ai nervi – anche Natasha doveva essersene accorta. O forse quell'accenno trionfante che le leggeva nello sguardo non era nient'altro che un indispettito autocondizionarsi.

“Aspetterò il tramonto,” le concesse in modo più scontroso e definitivo del solito.

“Ottimo.” La donna non parve lasciarsi scalfire dalla sua stizza. “Vado a cercarci qualcosa da mangiare.”

 

*

 

Usò l'ultimo pezzo di pane nero per ripulire il fondo del piatto prima di sbarazzersene, poggiandolo sul pavimento. Si ributtò all'indietro sul materasso di fortuna, rilasciando un basso sospiro.

Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva mangiato una minestra tanto schifosa, né si era mai soffermato a chiedersi se la permanenza a villa Coulson avesse in qualche modo raffinato i suoi gusti. Aveva sempre preso in giro le pietanze impossibilmente complicate che la cuoca di lord Phillip proponeva loro ogni giorno, ma forse si era anche disabituato a sfamarsi con brodaglie dall'aspetto discutibile, in cui galleggiavano pezzi di verdure non meglio identificate.

Riavvicinò arco e faretra, ricominciando a pulire le frecce su cui stava lavorando prima che Natasha arrivasse a condividere con lui quel lauto pranzo.

La donna stava seduta sul suo giaciglio, leggendo distrattamente un libro che doveva aver preso in prestito dalla ridotta biblioteca del curato.

Tentò di ignorarla e di concentrarsi sulle poche ore che ancora lo separavano dal tramonto. Di lì a poco avrebbe potuto inforcare l'uscita della chiesa e ritornare sui propri passi. L'attesa, però, si stava rivelando ben più snervante del previsto: i pensieri si accavallavano gli uni sugli altri, rinfocolando paranoie e preoccupazioni che non avevano intenzione di concedergli alcuna tregua. Gli era sufficiente abbandonarsi per un istante alle proprie elucubrazioni per lasciarsi tormentare dal volto di lord Phillip, da quello di Kate, dalle espressioni inferocite degli abitanti del villaggio. La sensazione di aver commesso un grave tradimento gli si palesava davanti agli occhi a più riprese, gettandolo ogni volta in un baratro fatto d'angoscia e senso di colpa.

Si sforzò di focalizzare sul lavoro che aveva scelto per ingannare il tempo: riaffilare le punte di freccia, assicurarsi che fossero sufficientemente bilanciate, dare un'occhiata alla pistola dall'aria antiquata che aveva portato con sé. In tutta sincerità non avrebbe saputo dire perché aveva scelto un'arma da fuoco: non le prediligeva e non ne aveva neppure una gran dimestichezza. Ma non aveva voluto lasciare niente al caso; non si era fatto alcuna illusione sulla vita errante che aveva scelto, né sui pericoli che essa nascondeva.

“Se hai intenzione di chiedermi qualcosa, ti conviene farlo e basta,” gli sfuggì però. Se Natasha avesse continuato a far finta di leggere quello stupido libro, avrebbe finito per logorargli i nervi.

Non ebbe bisogno di rialzare lo sguardo dal proprio lavoro per accorgersi che la donna lo stava osservando, che non aveva smesso un secondo di farlo da quando si era seduta per consumare in silenzio il suo pasto.

Nonostante il suo invito, però, non disse niente ancora per svariati secondi, tanto che Clint si convinse che non gli avrebbe chiesto alcunché. Non che gli importasse: la convivenza con la donna si era fatta fastidiosamente scomoda da quando era dovuto scendere a patti col suo essere una completa sconosciuta.

“La notte della festa,” la voce di Natasha, infine, lo costrinse a lanciarle una rapida occhiata, “avevi pianificato di fuggire.”

“Questa non è una domanda,” le fece notare.

“Non ho detto che dovevo farti una domanda.”

“Allora cos'è che vuoi sapere?” Per quanto si stesse sforzando di mantenere la calma, quella situazione non faceva proprio niente per aiutarlo in tal senso.

“Saresti fuggito comunque, a dispetto di quello che è successo. E adesso vuoi tornare indietro? Perché?”

Fece appello a tutto il suo autocontrollo per non suggerirle di farsi gli affari suoi. Quella questione non la riguardava minimamente: con che diritto gli chiedeva spiegazioni, lei che non sembrava avere alcuna intenzione di essere sincera con lui? O di dirgli che ci facevano in quella chiesa, magari, chi era padre Erik, di che diavolo stessero confabulando quando li aveva sorpresi nella sagrestia.

“Perché è la cosa giusta da fare,” le rispose invece, riprendendo a controllare che le sue frecce fossero in buone condizioni.

“Per chi?”

“Perché ti interessa?” Si ritrovò a chiederle bruscamente, lanciandole uno sguardo di fuoco.

“Non mi interessa,” lo corresse lei senza rinunciare alla sua placida indifferenza. “Abbiamo ancora quattro ore di luce e comincio ad annoiarmi.”

“Bè, magari puoi trovare un passatempo migliore.”

“Rimbeccarmi non renderà il tuo proposito meno stupido di quanto già non sia.”

“Non m'importa di cosa pensi del mio proposito.”

Natasha era l'ultima persona ad avere voce in capitolo nella sua vita. Dopotutto chi era per lui? Una sconosciuta che era andata a rintanarsi nel bosco vicino a villa Coulson e che aveva preso in simpatia solo perché tutti gli altri si erano affrettati ad esprimersi negativamente sul suo conto. Magari quello era uno di quei casi in cui la maggioranza aveva ragione: se nessuno si era fidato di lei, se tutti erano stati concordi nel darle di strega, forse c'era una motivazione valida. Per assurdo, nessuno gli assicurava che non fosse stata davvero lei ad attentare alla vita del capitano Rogers; dopotutto aveva tolto di mezzo i suoi uomini senza il minimo ripensamento, cosa gli impediva di pensare che il suo obbiettivo fosse disintegrare l'intero reggimento?

“Dovrebbe,” ci tenne a contraddirlo, “visto che ti farà ammazzare.”

“Nessuno mi ammazzerà.”

“Sei un illuso. Sono convinti che tu sia un mio complice.”

“Mi hanno visto tutti in piazza. Sanno che non avrei mai potuto scoccare quella freccia,” rinfilò l'ultimo dardo nella faretra e ritornò a guardarla con una certa sfacciataggine.

“Credi che sia il buonsenso a motivarli?”

“Non avrò bisogno di molto per persuaderli della mia innocenza,” volle contraddirla, ma non era sicuro di avere ragione. Aveva fin troppo presente quanto irrazionali e superstiziosi potessero essere gli abitanti del villaggio, quanto pericolosi potessero farsi quando pensavano tutti con uno stesso cervello. Spesso e volentieri le autorità erano state costrette a piegarsi alle loro ridicole credenze pur di mantenere l'ordine. Natasha non aveva tutti i torti: cosa gli assicurava che non sarebbe accaduta la stessa identica cosa? Dopotutto non era mai stato simpatico a nessuno di loro, anzi, aveva sempre avuto la netta sensazione che aspettassero a gloria di coglierlo in fallo per punirlo della sua fortuna. Non importava quanto lord Phillip si sforzasse di renderlo parte della famiglia, Clint rimaneva un intruso ai suoi stessi occhi e maggiormente a quelli del paese.

“Non ci credi neanche tu alle stronzate che dici,” l'accusò lei a mezza voce, riaprendo il libro come a decretare la fine della conversazione.

“Si può sapere che t'importa?” Cominciava seriamente ad innervosirsi: aveva giurato a se stesso che non ci sarebbe stata nessuna quantità di ragionevolezza sufficiente a convincerlo a mutare il corso d'azione su cui si era orientato.

“Non m'importa, te l'ho detto. Sono solo annoiata.”

“Non sai neppure di che diavolo stai parlando,” l'accusò.

“No, sei tu che non sai dirmi perché vuoi tornare indietro.”

Era quasi sul punto di rivelarle le proprie preoccupazioni, più per zittirla che informarla, ma si costrinse a richiudere la bocca senza aver emesso il benché minimo suono. Come avrebbe potuto dirle che il movente di quel brusco cambio di rotta gli era stato dato da un incubo? Che si era irrazionalmente convinto che lord Phillip stesse pagando per l'attentato al capitano Rogers solo in base ad uno stupido sogno? Non aveva bisogno di essere esageratamente lucido per rendersi conto di quanto suonasse idiota.

Eppure l'angoscia che l'esecuzione onirica di lord Phillip gli aveva causato era ancora ben viva e presente alla base del suo stomaco, pronta ad alimentare paranoie e senso di colpa – temeva – all'infinito. E anche se l'avessero accusato? Non era forse vero che, se non si fosse fatto vivo, qualcun altro avrebbe pagato al suo posto? La freccia che avevano usato per ferire il capitano gli apparteneva: certo, chiunque avrebbe potuto sottrargliene una in qualsiasi momento, ma senza un sospetto alternativo abbastanza convincente, avrebbero comunque voluto la sua testa su un piatto d'argento. E poi c'era Kate: tutti al paese sapevano che erano soliti trascorrere insieme interi pomeriggi. Sarebbe bastata un'illazione particolarmente spinta a trascinare giù con lui anche la ragazza, impedendole di contrarre un matrimonio vantaggioso o, peggio, di essere accusata dell'aggressione al capitano. Che ne sarebbe stato di Bobbi se qualcuno avesse messo in giro la voce dei loro incontri notturni? C'era il rischio che il suo promesso sposo si vedesse costretto a ritirare la parola data solo per l'affiliazione che la donna aveva con l'indiziato principale Analoghe preoccupazioni lo attanagliavano se pensava a Simone e ai suoi due bambini: sarebbe stata l'ennesima scusa che le donne al lavatoio avrebbero usato per emarginarla il più possibile.

No, anche fosse stato condannato a morte, doveva tornare indietro e impedire che tutto il resto andasse a rotoli. Senza contare che se avessero scoperto della fuga che aveva pianificato, allora le circostanze avrebbero assunto gli inquietanti contorni della premeditazione: era intenzionato a lasciare il villaggio proprio quella sera perché sapeva cosa sarebbe successo.

“Non voglio che qualcuno paghi al mio posto,” si ritrovò a dire, più turbato dai propri pensieri di quanto avrebbe voluto ammettere.

“Vogliono noi due,” ribatté Natasha, il tono di voce leggermente meno ostico. “Nessun altro.”

“Come fai ad esserne sicura?”

“Non lo sono,” puntualizzò, quasi avesse voluto mettere in chiaro che di certezze non ne aveva alcuna, e che persuaderlo con un qualche scenario pateticamente ottimistico non era nei suoi piani. “Ma dovrebbero avere ottimi motivi per accusare un nobile di assassinio.”

“Lord Phillip non è come tutti gli altri.”

“No, ma fa comunque parte della categoria.”

Forse aveva ragione, forse era vero che non avrebbe avuto alcun senso. Al massimo gli avrebbero dato la colpa di essersi tenuto una serpe in seno per così tanti anni, ma non avrebbero mai potuto punirlo per la follia del suo protetto.

“Devo tornare indietro comunque,” ribadì, più per convincere se stesso che la donna. Sentiva la sua determinazione cominciare a vacillare sotto le percosse degli argomenti di Natasha.

“E' inutile.” La voce le uscì sferzante e impietosa. “Se hanno già individuato un colpevole non lo scagioneranno di certo per la tua ricomparsa. Al massimo vi condannerebbero entrambi.”

“Ci sono persone che rischiano di venir trascinate nel fango solo per-”

“Vale anche per loro.” Gli puntò addosso lo sguardo, verde e terribile come la prima volta che l'aveva incrociato. “Non sappiamo quale sia la situazione.”

“Che mi consigli di fare?” Le chiese sarcasticamente.

“Di stare alla larga finché le acque non si saranno calmate.” Si rifece più seria, di nuovo quell'aria desolata che le aveva letto in viso mentre discuteva con padre Erik, quasi si sentisse in colpa per qualcosa. “Ti hanno visto entrare in casa mia,” alluse senza dire nient'altro.

Fu sul punto di chiederle di elaborare oltre, ma la realtà dei fatti lo colpì come un pugno allo stomaco. All'esaurirsi dell'incendio avrebbero rinvenuto i cadaveri degli uomini di Rogers, e a quel punto nessuna scusa sufficientemente arzigogolata l'avrebbe potuto scagionare dall'accusa di omicidio che gli avrebbero mosso contro. Nessuno gli avrebbe creduto se avesse giurato che era stata la donna ad ucciderli, che lui era arrivato solo a giochi fatti.

“Cazzo,” si ritrovò a smozzicare, socchiudendo gli occhi mentre la consapevolezza si sedimentava nella sua coscienza.

Rimasero in silenzio per una quantità indefinita di tempo, a concentrarsi sui rumori ovattati che provenivano dall'esterno: voci lontane, il soffio del vento, forse il brontolio di un tuono, l'abbaiare di un cane affamato.

“Ho intenzione di andare a nord-est. Conosco qualcuno che potrebbe offrirci ospitalità, nasconderci finché la tempesta non sarà passata.” Natasha era ritornata a fingere interesse per il suo libro, ma l'indifferenza del suo tono non era più tanto cristallina.

“Perché dovresti aiutarmi?” E soprattutto chi gli assicurava che non si sarebbe trattato di un altro padre Erik? Qualcuno legato al suo misterioso passato, che avrebbe accettato di aiutarli solo vincendo una spiccatissima riluttanza?

“Perché è anche colpa mia se la tua posizione si è aggravata,” rispose lei, evitando accuratamente il suo sguardo.

Mentre studiava la sua espressione, il cipiglio serioso che le aveva corrugato la fronte, un dubbio tornò a tormentarlo come un fastidioso spiffero d'aria gelida nella sua coscienza. Quante erano le possibilità che fosse stata davvero lei ad uccidere il capitano? Possibile si sentisse in colpa perché ci era andato tanto stupidamente di mezzo?

Clint non rispose, sentendosi ancora più confuso e smarrito di quanto non fosse in precedenza. Il suo proposito di ritornare al villaggio si era sfaldato come neve al sole, ma l'alternativa – seguire Natasha solo dio sapeva dove – non lo convinceva affatto.

Il silenzio riempì il magazzino, logorando poco a poco le sue sicurezze, i pochi punti fissi che credeva di aver stabilito al suo risveglio.

Un leggero bussare alla porta arrivò a distrarli entrambi, subito seguito dallo strusciare di un foglio di carta sul pavimento di pietra.

“Per la bontà del signore e di tutti i santi, vi voglio fuori di qui subito dopo il tramonto!” La voce di padre Erik li raggiunse attraverso la porta prima di riallontanarsi in tutta fretta, accompagnata dal rumore dei suoi passi trascinati.

Natasha si rimise in piedi per andare a recuperare il foglio che il prete aveva fatto passare sotto la porta. Clint la vide farsi mortalmente seria mentre lo passava sommariamente in rassegna.

Solo dopo un momento che gli parve lunghissimo, la donna si decise a mostrargli di che si trattava.

In altre circostanze si sarebbe sentito profondamente offeso dal pessimo ritratto di se stesso con cui si ritrovò faccia a faccia. Ma la sua preoccupazione, adesso, era un'altra: sulla sua testa pendeva una taglia di duemilacinquecento denari.

Vivo o morto.











Note: tormenti interiori ai tormenti interiori con contorno di tormenti interiori! Il nostro povero Clint non fa che tormentarsi, e le cose da tenere in considerazione sono talmente tante da fondergli il cervello. Non gli resta che affidarsi a Natasha, ma sarà la scelta giusta? Lo scopriremo... solo vivendo :P Il viaggio è appena iniziato e riserverà diverse sorprese. Intanto qui fa la sua apparizione un'altra guest star: il caro Erik Selvig, trasformato per l'occasione in prete alchimista fallito che appartiene in qualche modo al misterioso passato di Natasha.
Grazie a tutti quelli che leggono & recensiscono e come sempre alla sclerosociabeta Eli (:
Alla prossima settimana! 
(◡‿◡✿)

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo 6

~

 

La luna piena inondava la valle immersa nell'oscurità della notte. Il vento stormiva dolcemente fra le fronde degli alberi, trasportando grossi nuvoloni grigi da un capo all'altro della cupola del cielo.

Fatta eccezione per poche, sporadiche luci in prossimità del villaggio più vicino e di quelle che parevano appartenere ad un accampamento di soldati, tutto sembrava profondamente assopito in un silenzio pressoché totale.

Clint non conosceva quei luoghi: dei viaggi che aveva compiuto con la sua famiglia prima, con suo fratello poi, ricordava poco o niente. A quei tempi – in cui la sua unica preoccupazione era quella di mettere qualcosa nello stomaco e di trovare un rifugio sicuro in cui dormire – un posto valeva l'altro. Delle brevi gite in compagnia di lord Coulson, avvenute più tardi, rammentava solamente il disagio e l'ansia di non apparire mortalmente fuoriposto. Il mondo era solito apparirgli come un unico, grande regno: direzioni, confini, regioni... non esistevano.

Adesso, invece, non poteva fare a meno di preoccuparsi delle miglia di distanza che stava mettendo tra sé e villa Coulson. Più si allontanava e più tornare indietro gli appariva complicato, a tratti impossibile. Metteva continuamente in discussione la decisione che era stato costretto a prendere e, ogni volta, non poteva far altro che constatare di non avere alcuna alternativa, in un circolo d'esasperazione che lo stava logorando lentamente.

Forse aspettare che le acque si calmassero era davvero la scelta più saggia, ma la sensazione di impotenza che accompagnava quella consapevolezza non gli dava tregua. Fatto stava che era ricercato e che, molto probabilmente, se avesse rimesso piede in paese tutto ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stato vincere un viaggio di sola andata per la gattabuia e il patibolo in rapida successione.

Rilasciò bruscamente il fiato non appena i suoi pensieri cominciarono ad incupirsi. Neanche il paesaggio immobile riusciva a placare il groviglio di angoscia che l'aveva tenuto vigile per le ultime quarantotto ore.

Non che ci fosse stato realmente tempo per riposare: sotto le insistenze di padre Selvig, lui e Natasha avevano dovuto lasciare la chiesa e rimettersi in cammino. La donna sembrava conoscere tutte le strade e le scorciatoie che aggiravano le postazioni dei soldati disseminati per la campagna, ma la prudenza non era comunque mai troppa. Se non altro le abitudini di ladruncolo che credeva di aver definitivamente dimenticato erano riaffiorate come vaghi ricordi di un linguaggio fisico e automatico, impossibile da scordare. Ricominciava a masticarlo con sempre maggior sicurezza, il che gli permetteva anche di sentirsi all'altezza di quella lunga fuga, di potervi partecipare attivamente.

Scese agilmente dall'albero su cui si era arrampicato, arco in braccio e la sacca piena di selvaggina gettata sulla spalla. Mentre rimboccava la via che l'avrebbe condotto al punto in cui avevano deciso di trascorrere la notte fino alle prime luci dell'alba, l'atmosfera della caccia e l'odore del bosco lo portarono a ripensare a Kate. Era vero che aveva scelto di lasciare villa Coulson per sempre, quella notte, ma non aveva pianificato di farlo in quel modo. Il volto della ragazza gli aleggiava davanti agli occhi e la nostalgia gli attanagliava lo stomaco senza che potesse far molto per impedirselo.

Si lasciò guidare dal bagliore del fuoco che Natasha aveva acceso, raggiungendola in una manciata di minuti. La trovò che stava finendo di scuoiare una grossa lepre con gesti meccanici e precisi. Neanche rialzò lo sguardo per accertarsi che fosse davvero lui: qualcosa gli suggeriva che la donna fosse in grado di riconoscere il rumore dei suoi passi, la qual cosa gli provocava ammirazione e inquietudine insieme.

Non avevano parlato granché. Clint continuava a sospettare che i segreti che la donna custodiva gelosamente sarebbero prima o poi arrivati a schiacciarli come formiche, mentre lei sembrava più che determinata a lasciar da parte le chiacchiere inutili. Il che includeva più o meno qualsiasi cosa. Parlava solo se strettamente necessario, per informarlo di una deviazione o per metterlo in guardia. Ma per quanto il suo istinto gli intimasse di tenere le distanze, la donna esercitava uno strano fascino di lui. All'inizio aveva pensato si trattasse di un complicato inganno per avvincerlo nelle spire delle sue macchinazioni, ma le interazioni che aveva con Natasha erano talmente sporadiche e irrilevanti da farlo desistere da quella convinzione. Se stava cercando di sedurlo, sicuramente non si stava impegnando granché.

Eppure, il silenzio era andato facendosi da scomodo a confortevole. Si era abituato alla sua presenza, al ritmo leggero e impalpabile dei suoi passi, al modo in cui canticchiava a bassa voce quando sembrava dimenticarsi di dove fosse e con chi, nella sua lingua incomprensibile. La coglieva spesso con lo sguardo perso nel vuoto, puntato su un orizzonte lontano e molto probabilmente invisibile, i pensieri immersi in chissà che ricordo. Era malinconica, Natasha, il perché, però, non riusciva neanche ad immaginarlo.

Abbandonò la sacca a terra e ripose accuratamente arco e frecce prima di prendere posto davanti al fuoco.

“Non sembra esserci nessuno nei paraggi,” la informò distrattamente, “se i soldati non decideranno di spostarsi, non dovremmo aver problemi stanotte.”

La donna annuì una sola volta mentre infilzava la lepre per metterla a cuocere. Gli passò l'otre del vino senza dire niente, così come aveva fatto la sera precedente, distesi nel fosso in cui avevano riposato per un paio d'ore prima di riprendere il cammino.

Valutò se ringraziarla, ma finì per tacere – Natasha non aveva l'aria di essere abituata a sentirsi dire grazie tanto spesso. Tutte le (poche) volte che apriva bocca, quello che diceva suonava sempre terribilmente definitivo. Una sentenza dalla quale non avrebbe potuto tornare indietro neanche se avesse voluto.

“Smettila,” gli intimò dopo un lunghissimo attimo.

“Di fare cosa?” Si schermì in risposta, mentre il profumo della carne arrostita gli solleticava le narici.

“Di fissarmi,” puntualizzò lei, sollevando lo sguardo per muovergli una muta accusa.

“Non ti stavo fissando.” Nel momento esatto in cui le parole gli uscirono di bocca, seppe che stava mentendo.

“Lo fai in continuazione,” ci tenne a correggerlo. Raddrizzò le spalle e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, come preparandosi ad affrontarlo o a fargli una sonora ramanzina.

“Ci siamo solo tu ed io quaggiù, che ti aspetti che faccia?” Era passato dal negare l'evidenza a tentare di giustificarsi. Non una bella mossa. Com'è che tutte le volte che imbandivano una discussione, sentiva sempre di aver perso in partenza?

“Se hai qualcosa da chiedere fallo e basta.” Il tono era stizzito e litigioso.

“E tu risponderai,” commentò sarcastico. “Perché sei una specie di libro aperto.”

“Di che diavolo stai parlando?” Gli occhi le si dilatarono appena, accesi di improvvisa indignazione.

“Sei più abbottonata di una cintura di castità,” l'accusò, maledicendosi un attimo dopo per il paragone infelice. Tossicchiò impercettibilmente, deciso a fare di tutto pur di non lasciarsi schiacciare dal suo sguardo. “Quello che intendo è c-”

“Ho capito cosa intendi,” tagliò corto lei – forse voleva mettersi al sicuro dalla prossima similitudine inopportuna. Non la biasimava. “Non ho detto che ti risponderò,” gli fece notare. “Ma se hai qualcosa da chiedere, fallo.”

“Che senso ha chiederti qualcosa se so già che te ne starai zitta?”

“Che senso ha fissarmi con quella faccia da stoccafisso?”

Clint tacque, stringendo con forza le labbra per impedirsi di dire qualcosa di cui si sarebbe sicuramente pentito. Natasha aveva il potere di riportare a galla tutta una serie di atteggiamenti fin troppo spontanei che credeva di aver dimesso una volta per tutte, e invece eccoli che tornavano a tormentarlo. Gli ci erano voluti anni per imbottigliarli per bene sotto strati e strati di buone maniere e adesso una perfetta semisconosciuta arrivava a devastare impietosamente tutto il suo duro lavoro.

Natasha continuò ad osservarlo con aria di sfida e irritazione insieme. Il fuoco le riverberava sul viso luci arancioni e rossastre che le davano un'apparenza sinistra, proprio come la notte in cui l'aveva sorpresa nella casa del tagliaboschi, corpi senza vita disseminati casualmente sul pavimento intorno a lei.

“Va bene,” alzò le mani a mo' di resa. “Chi ti ha insegnato a combattere?”

“A che ti serve sapere chi mi ha insegnato a combattere?”

Gli venne quasi da ridere. Non che non si aspettasse una certa evasività, ma così non c'era gusto.

“Perché, allora?”

“Il mondo è un posto duro, sir Barton,” lo cantilenò in tono odioso. “Una ragazza deve sapersi difendere.”

“Oh no, conosco donne che sanno difendersi, ma nessuna sa fare quello che sai fare tu.”

“Che tu sappia,” obiettò a mezza voce. Eppure, con la scusa di girare la lepre, distolse lo sguardo – un impercettibile segno di debolezza che lo incoraggiò ad insistere.

“Sei stata tu ad uccidere il capitano Rogers?”

Lo scatto con cui rialzò il capo ebbe l'effetto di allarmarlo. Adesso no, non era più arrabbiata, sembrava piuttoso... delusa. Seppe di aver detto una stronzata quando capì che la donna non aveva intenzione di rispondere.

“E' una domanda legittima,” provò a spiegarsi, scivolando di nuovo e irrimediabilmente sulla difensiva. “All'inizio credevo fossi solo un'orfana di passaggio, un tantino strana solo perché da queste parti la gente non può fare a meno di giudicare negativamente tutto ciò che è diverso da loro,” riprese, “tutto ciò che non capiscono. Ma poi...”

“Poi hai scoperto che sono capace di uccidere,” concluse per lui.

“All'occorrenza tutti sono capaci di uccidere,” la smentì. “E' il come sei capace di uccidere. Sei stata addestrata. E se sei un sicario, o una sorta di assassino, allora collegarti all'omicidio di Rogers è...”

“Scontato.”

“Questa cosa del finire le mie frasi è un tantino-”

“Antipatica.” Gli lanciò un'occhiata contrita e placida al tempo stesso.

“Appunto.”

Inspirò a fondo, improvvisamente determinato a starsene zitto. Una parte di lui continuava ad intimargli di alzarsi e andarsene il più rapidamente possibile, ma l'altra... era stupido, ma la donna lo faceva sentire al sicuro. Ricordava di aver provato quella sensazione solo in presenza di un'altra persona prima d'allora: con suo fratello. Non che avesse intenzione di affidarsi ciecamente alle decisioni di Natasha, però sapeva che finché fossero rimasti insieme avrebbe avuto qualcuno su cui contare. Si sorprese nel constatare che la cosa non gli dispiaceva affatto, anche se era una donna, anche se aveva l'aria di essere dieci volte più debole di lui. Sapeva che non lo era, che nel corpo a corpo l'avrebbe battuto ad occhi chiusi. L'unico modo per soggiogarla sarebbe stato accettare di farle del male... male davvero. E non era per niente sicuro che, se fossero arrivati a tanto, sarebbe stato in grado di rinunciare anche al più piccolo briciolo di autocontrollo per liberare l'animale che sentiva in costante agguato in un angolo remoto di sé.

“Non sono stata io ad uccidere Rogers.”

Le parole di Natasha arrivarono inaspettate. Credeva che avrebbe taciuto per provargli chissà che cosa, trincerandosi in un orgoglioso silenzio che avrebbe dovuto dirgli qualcosa di non meglio identificato. Ma, invece, aveva parlato.

La guardò mentre continuava ad occuparsi della loro cena con un'attenzione un tantino spasmodica. Si accorse che era in imbarazzo. Tentava di nasconderlo, ma le sue labbra avevano preso una piega insolita. Si sentì stupido per tutto lo sforzo che gli ci voleva per decifrarla – o per credere di farlo, almeno.

“Va bene,” decretò dopo un istante di silenzio.

“Va bene?” Adesso era il suo turno di essere sorpresa.

Forse si era aspettata un interrogatorio in perfetto stile, una richiesta di spiegazioni, di essere smentita o contraddetta. Clint si strinse nelle spalle.

“Ti credo,” disse semplicemente. Ed era vero, glielo leggeva negli occhi.

Ci fu un mutamento repentino nell'espressione della donna, che durò solo un attimo. Un solo, misero secondo di vulnerabilità che Natasha era riuscita a cancellare in un battito di ciglia. Gli era sembrata riconoscente... grata.

Finse di non essersene accorto e punzecchiò la lepre – ormai ben cotta – con la punta di una delle sue frecce. Lo faceva sentire un inetto, impantanato com'era a raccontarsi cosa lei sentiva e provava solo guardandola in faccia. Con ogni possibilità la stava leggendo al contrario o in controluce, magari si stava inventando tutto, arrivando alle conclusioni che gli davano maggior sollievo. Ma la sensazione non era sgradevole, seppur ambigua, e per quanto avesse voluto dibattersi e liberarsi dalla trappola che poteva avergli preparato, sotto sotto era sicuro che le sarebbe rimasto accanto fino alla fine. O finché le cose non si fossero fatte più chiare. Definite.

Un ululato lontano squarciò il silenzio, interrotto solamente dallo scoppiettare del fuoco all'interno del cerchio di sassi accuratamente disposti in linea circolare dalla donna.

“Ci conviene mangiare in fretta e rimetterci in cammino,” disse, vista e udito ben tesi, quasi fosse riuscita a captare qualcosa nell'intricata oscurità del bosco tutt'intorno.

Si era rifatta pratica e incolore, come tutte le volte che si concentrava in una qualsiasi attività, anche la più stupida – arrostire una lepre per cena, ad esempio.

Si occupò lui di spartire la carne e neanche pensò a mettere in dubbio la sua decisione.

Qualcosa si muoveva, tra gli alberi.

 

***

 

L'erba gli solleticava il mento mentre il vento si stava portando dietro un gran lezzo di letame. Arricciò il naso, ma rimase in allerta, osservando il ciglio della strada sterrata sopra di loro. Erano immobili, distesi a pancia in giù sul pendio erboso che li separava dalla via in alto, da un canale maleodorante in basso.

Fece il grave errore di far vagare lo sguardo in direzione di Natasha. Lo stava fissando con aria infastidita, di rimprovero.

“Ti ho detto che ho visto qualcuno,” ripeté per la terza volta.

Non gli aveva voluto dar retta quando le aveva detto che c'era un gruppo di uomini e carri in avvicinamento. Natasha l'aveva guardato perplessa, occhieggiando alternativamente lui e la strada.

“Non vedo niente,” aveva decretato dopo un lunghissimo attimo.

Clint aveva capito subito che non gli credeva – non per partito preso, ma perché il fondo della via le appariva come un puntino sfocato e nient'altro.

“Sono tre giorni che ti guardi le spalle,” le aveva ricordato. Sapevano che c'era qualcosa che li seguiva... o che almeno andava dalla loro stessa parte.

“Ma non si vede niente. Come ci riesci?” Sembrava volergli credere e allo stesso tempo impedirsi di lasciarsi ingannare in modo tanto plateale.

“Ti fidi o non ti fidi?”

L'aveva costretta a prendere una decisione e alla fine Natasha aveva ceduto, acconsentendo a restare appostati, in attesa. Stavano attraversando una pianura troppo aperta perché si potesse trovare un nascondiglio più avanti lungo la strada – sarebbe stato disagevole. Avevano tacitamente concordato sulla necessità di capire chi stava loro alle costole: cacciatori di taglie o banditi e, in quel caso, avrebbero dovuto fare in modo di toglierli di mezzo... più o meno definitivamente.

Strinse la presa sull'arco che si teneva vicino, schiacciato al terreno.

Natasha aveva una mano nascosta dentro il mantello; era sicuro che stesse impugnando uno dei suoi coltelli, pronta a sfoderarlo in caso di bisogno.

La donna si mosse, risalendo il pendio, rimanendo quatta sul terreno. Gli sembrò sul punto di contestarlo (di nuovo!), quando l'impercettibile rumore di ruote, zoccoli e passi non li raggiunse, dapprima come un'eco lontana e poi sempre più chiaramente.

Natasha strabuzzò leggermente gli occhi, irrigidendosi come un animale che ha appena registrato un imminente pericolo. Ma qualcosa gli suggerì che era sconvolta perché lui aveva ragione e non per il rischio che stavano correndo.

Il suo volto riassorbì rapidamente la sorpresa e si rifece teso e assorto.

“Devono essere una decina,” disse a mezza voce.

“Non mi credi se ti dico che riesco a vedere in fondo alla strada, ma se ti metti a contare la gente solo basandoti sulle vibrazioni del terreno è tutto perfettamente normale?”

“Vibrazioni del terreno?” Domandò perplessa, in un soffio, l'attenzione ancora focalizzata sulla strada sopra di loro.

Allo sferragliare dei carri, si aggiunsero voci sguaiate e risate che scoppiavano a più riprese – i rumori si facevano più limpidi, iniziavano a distinguersi gli uni dagli altri man mano che si avvicinavano. Chiunque fossero si portavano dietro il suono di alcune campanelle, delle corde pizzicate di uno strumento musicale fin troppo stonato.

“Pastori?” Mormorò Natasha, confusa.

“No,” Clint scosse il capo. Quel suono... gli era familiare. “I campanacci non fanno quel rumore.”

E i pastori non sono mai così allegri, avrebbe voluto dirle. Finché una consapevolezza non lo colpì come un fulmine a ciel sereno. Le campanelle, lo strumento musicale, le risate.

“Saltimbanchi,” pronunciò con decisione.

“Zingari?”

“Può darsi.”

“Come fai ad esserne così sicuro?”

“So che rumore fa una carovana itinerante,” disse solamente, evitando di specificare che aveva viaggiato in un seguito simile insieme a suo fratello, che l'aveva fatto a lungo, prima che le cose precipitassero.

Natasha parve volergli muovere qualche altra obiezione, ma finì per restarsene in silenzio. Provò una certa soddisfazione quando si rese conto del rinnovato rispetto che le leggeva nello sguardo... ma non ebbe il tempo di gongolare come avrebbe voluto, perché la sfilata di buffoni stava passando proprio sopra le loro teste. Sarebbe bastato che uno qualsiasi di loro si affacciasse per sorprenderli in quella posizione ridicola.

“Che facciamo?” Le domandò in un soffio, beccandosi un'occhiataccia.

“Li lasciamo passare,” rispose, a malapena udibile.

“Se non altro non ci stavano seguendo,” aggiunse, come impossibilitato a chiudere la bocca una volta per tutte.

“Sta' zitto,” gli intimò, gli occhi accesi di un dispetto improvviso.

“Rilassati, va bene? Perché sei sempre tut-”

Fu un attimo. Gli fu addosso, cercandogli a tastoni le labbra per tappargliele. Si agitò come un'anguilla mentre Natasha si sforzava di farlo stare fermo, immobilizzandolo con una gamba stretta attorno ai fianchi.

La situazione cominciava a farsi ridicola. I palmi delle sue mani erano più morbidi di quanto si aspettasse e sapevano di erba fresca... ma non aveva tempo di perdersi in questioni tanto ridicole. Cercò di spingerla via con la mano libera e la torsione lo spinse a girarsi a pancia all'insù. Ma Natasha teneva duro. Il baccano della carovana coprì gran parte dei suoi patetici tentativi di mugugnare coloriti insulti in direzione della donna. Lasciò perdere l'arco e le afferrò i polsi, cercando di valutare quanta forza avrebbe potuto metterci prima di farle troppo male.

Si sentì un completo coglione. La donna l'aveva sovrastato e gli stava stringendo le cosce e le ginocchia tra le proprie gambe, impedendogli di muoversi se non voleva anche rompersi qualcosa nel processo. Le mani strette sulla sua bocca e gli occhi sgranati e... divertiti?

Clint decise che stava perdendo il lume della ragione. Che lo stavano perdendo tutti e due.

Sembravano due bambini stupidi che si azzuffano senza un valido motivo, solo per il puro gusto di farlo, solo per-

“Ehi, Pat!” Una risata gracchiante fece vibrare l'aria proprio sopra le loro teste.

Alzarono contemporaneamente lo sguardo sull'uomo di media altezza e dalla faccia rubiconda che li stava fissando dal ciglio della strada, il divertimento ben vivido nel sorriso sdentato che andava loro rivolgendo.

“Ci sono due che ruzzano qua sotto!” Rise sguaiatamente, ma in modo allegro, non del tutto sgradevole. Indossava una giamberga lercia ricavata dall'unione di una discreta quantità di toppe dai colori diversi; subito sotto un gilet dall'aria lurida, ben teso sulla protuberanza della pancia. Anche i pantaloni – larghi, a sottili strisce verticali – dovevano aver visto giorni migliori di quelli.

“Non dire sciocchezze!” Esclamò quello che si supponeva essere Pat.

Una faccia allungata, equina, si materializzò di fianco all'ubriacone vestito da Arlecchino, rivolgendo loro un'occhiata prima sospettosa, poi sempre più apertamente divertita. Non fece in tempo a fare alcuna battuta tagliente che una donna arrivò a concludere il terzetto, il seno prosperoso strizzato in un corpetto troppo piccolo, la pelle bianchissima e le guance arrossate. Si portò una mano al petto e si lasciò sfuggire un commosso aww, come se trovasse il tutto estremamente romantico.

“Però dovrebbe essere il contrario, bello mio!” Dichiarò a gran voce l'ubriacone. “Se è la tua donna che ti deve tappare la bocca per stare zitto, c'è qualcosa che non va.”

Scoppiarono a ridere tutti e tre, mentre Clint decideva se essere stati sorpresi a fare sesso nel bel mezzo della mattinata – e per nessun motivo apparente – fosse positivo o negativo.

“Non mi dà molti motivi per essere più vocale.”

Inizialmente aveva creduto che fosse stata la pingue sconosciuta a parlare, ma poi... fu costretto a riabbassare lo sguardo su Natasha, registrando con orrore il sorriso che le aveva teso le labbra. Che aveva intenzione di fare? Cogliere al volo l'occasione e fingere di essere... cosa, esattamente? Due piccioncini incapaci di tener giù le mani l'uno dall'altra?

“Oooooh,” fecero in coro i due uomini.

“Amico mio, qualcosa non va,” convenne faccia-di-cavallo, intrecciando le braccia al petto con aria professionale. “Eppure non è affatto male,” commentò alludendo a Natasha.

“I capelli sono un po' corti,” puntualizzò la donna dai pomelli accesi, con un po' troppo zelo. “Ma altrimenti...”

Natasha aveva lasciato scivolare via le mani dalla sua bocca, permettendogli di prendere ampie boccate d'aria... che gli rammentarono del canale maleodorante proprio sotto di loro. Chi diavolo si mette a ruzzare nei pressi di un fiume di merda? E chi cavolo usava ancora il verbo ruzzare? Erano tutte domande che Clint si stava chiedendo e a cui non riusciva a dare una risposta perché Natasha gli stava ancora cavalcioni sopra e i tre li stavano osservando con aria interessata.

“Perché non venite su a bervi un po' di vino?” Propose l'ubriacone, contento di aver trovato una scusa per riprendere a bere o – più probabilmente – continuare a farlo.

“Forse dovremmo lasciar loro un po' di tempo per... ricomporsi,” suggerì faccia-di-cavallo.

Annuirono tutti e tre, ma rimasero a fissarli come se nessuno avesse detto niente.

“E' un'ottima idea,” concordò Natasha, facendo trasalire il terzetto che si ritirò subito dopo.

Riabbassò lo sguardo su di lui e Clint desiderò che non l'avesse fatto: sembrava del tutto intenzionata a fargliela pagare.

“Grandioso. Hai visto che hai combinato?” Biascicò, togliendoglisi di dosso dopo essersi assicurata che nessuno li stesse osservando.

“Io? Sei stata tu, se ti ricordi.”

“Potevi startene zitto.”

“Potevi smetterla di agitarti,” le fece eco stizzito. “Che hai intenzione di fare?” Si affrettò a chiederle prima che avesse il tempo di rispondere con un altro insulto.

“Recitare. Che altro?”

Si dette dei pizzicotti sulle guance per farle arrossare e poi fece altrettanto con le labbra. Gli ci volle un secondo di troppo per capire che cavolo le passasse per il cervello, ma quando la vide scomporsi i vestiti, assicurarsi che le armi fossero ben nascoste e riarrampicarsi fino alla strada, seppe che non aveva molta altra scelta.

“Oh, cazzo,” imprecò scompigliandosi a sua volta i capelli (come se ce ne fosse stato bisogno).

Raggiunse Natasha in pochi attimi, senza doversi sforzare più di tanto per apparire sconvolto. Lei, invece, aveva messo su un'espressione allegra e imbarazzata che la rendeva un tantino inquietante – forse perché troppo diversa da com'era di solito, oppure perché dannatamente convincente.

Al terzetto si era aggiunto un nutrito gruppo di persone dall'aspetto variopinto che fugarono ogni dubbio sull'identità di quella carovana. Due ragazze magre e identiche si tenevano per mano all'estremità destra del semicerchio che avevano formato; subito accanto una donna gigantesca con una folta barba ad incorniciarle il viso morbido e allegro; lo sguardo di Clint incontrò uno spazio vuoto al suo fianco, ma poi l'abbassò provvidenzialmente e il volto arcigno di un nano baffuto ammiccò in sua direzione (o più precisamente in direzione di Natasha); fu poi la volta di un grosso omone dalla barba nerissima, lucida, lunga e appuntita, cui facevano pendant un paio di foltissimi baffoni attentamente curati, con le punte arricciate all'insù. Capì allora che l'ubriacone-Arlecchino doveva essere una sorta di pagliaccio, faccia-di-cavallo il direttore della compagnia, e la fanciulla dai pomelli rossi... magari si prendeva cura di tutto il gruppo.

Ripensò a Misty, la signora che aveva mansioni simili nella comitiva di saltimbanchi in cui Clint e Barney erano stati accolti. Era una donna dai modi bruschi e gentili allo stesso tempo, avrebbe consolato se ce ne fosse stato bisogno, ma brevemente – non tollerava che si tenesse il muso per più di un minuto e si aspettava che la sua voce avesse l'effetto di un balsamo miracoloso sulle paturnie altrui. Spesso era così, altre invece... Chissà che fine aveva fatto. Magari era morta durante l'incendio, forse non era riuscita a fuggire o aveva tentato di aiutare gli altri senza riuscirci. Un dolore acuto lo colpì al petto come una stilettata gelida. Si sforzò, in fretta e furia, di scacciare dalla mente quei ricordi funesti, le immagini aranciate del campo in inghiottito dalla fiamme, il calore così spesso e intenso da soffocarlo...

Prese un'ampia boccata d'aria come per darsi un tono.

“Allora,” il direttore equino batté le mani l'una sull'altra e se le sfregò delicatamente. Aveva un che di terribilmente viscido, adesso che lo vedeva da vicino. “Che ci fanno da queste parti due giovani innamorati come voi?”

Clint si voltò istintivamente verso Natasha, che per tutta risposta gli afferrò una mano con la propria, stringendogli l'altra al braccio mentre gli si faceva vicina, quasi in cerca di protezione. Stava recitando. Comprese, solo guardandola in faccia, che non avrebbe parlato, che avrebbe interpretato il ruolo della fanciulla spaesata; di conseguenza, le spiegazioni toccavano a lui. Sarebbe stato inconcepibile il contrario, agli occhi di quella gente.

Una vocina nel retro della sua testa gli suggerì di riflettere su quanto fossero calcolate le mosse di Natasha. Se riusciva a mentire in modo tanto plateale e convincente, se poteva essere chiunque voleva in qualsiasi momento voleva, allora era più pericolosa di quanto avesse creduto. Sotto sotto sapeva di fidarsi di lei, ma non era più tanto convinto che fosse una buona idea. Si era sempre ritenuto piuttosto bravo nel decifrare le persone, ma Natasha gli sfuggiva continuamente. Non sembrava essere mai la stessa cosa troppo a lungo e, quando era sicuro di aver bloccato almeno un paio di punti fermi che la riguardavano, quelli si scioglievano come neve al sole, lasciandolo imbambolato davanti a quella donna che si custodiva tanto gelosamente.

“Ci siamo appena sposati,” bofonchiò, risvegliandosi di colpo dalle sue elucubrazioni per tornare a fronteggiare la compagnia.

Sorrise un po' stentatamente quando le sue parole ottennero degli ooooh e aaaah e risate di varia intensità in risposta (erano due novelli sposini: ovviamente non riuscivano a tenere le mani a posto).

“All'amore giovane!” Esclamò l'Arlecchino ubriacone, lanciandone un brindisi che non condivise con nessuno perché l'unico armato di fiasco era lui. La cosa, poco sorprendentemente, non lo turbò affatto né lo destò dai propri alcolici propositi.

“Quindi siete in una sorta di viaggio di nozze?” Si informò il direttore.

“I viaggi di nozze sono solo per i culoni ricchi, Pat!” Gracchiò il nano, che sottolineò la sua avversione per i culoni sputando un grumo vischioso e giallognolo a terra.

“Modera i termini, Maurice,” lo redarguì mellifluamente l'uomo. “Magari i nostri amici qui appartengono alla categoria.”

“Puzzerebbero di più se fossero dei ricchi,” intervenne una delle due gemelle, la voce talmente squillante da farlo sobbalzare appena.

“E' vero,” convenne la donna barbuta. “Si portano sempre appresso odore di lavanda, rosa, mughetto e piscio.”

“Io sento solo una gran puzza di merda,” disse Clint con aria allucinata.

Scoppiarono tutti a ridere, compresa Natasha, che ne approfittò per stringersi maggiormente a lui.

“Il tipo mi piace!” Annunciò a tutti il pagliaccio, ancora accoccolato contro il suo fiasco.

“Dove siete diretti?” Domandò loro la fanciulla dai pomelli rossi, sempre vistosamente intenerita dalla fasulla storiella dei due sposini in trasferta.

“Da uno zio al nord,” la bugia gli venne automatica. “Le nostre famiglie non hanno benedetto la nostra unione, ma so che mio zio può aiutarci.”

Si chiese da dove diavolo gli fosse uscito il non hanno benedetto la nostra unione, ma provò un brivido di disgusto e per un attimo si immaginò nel salotto di villa Coulson in compagnia di lady Jemma intento a parlare del più e del meno con nobili squattrinati arrivati dai quattro angoli del regno per assistere al disastro del suo matrimonio. Avrebbe dovuto dire cose simili? Fingere di essere uno di loro? Usare tutti i termini e le espressioni del caso?

“Siete veramente teneri,” si lasciò sfuggire la donna, congiungendo le piccole mani bianche sotto il mento.

Clint sorrise, a disagio, ripensando al modo in cui si erano accapigliati perché lui se ne stesse zitto. O a tutte le volte che Natasha lo insultava con lo sguardo; quelle in cui lui la prendeva mentalmente a male parole. Oppure quando lo facevano a voce alta: se intavolavano una qualsiasi discussione si dava di solito al massimo un minuto e mezzo prima che degenerasse. Fortunatamente erano abituati a litigare in assoluto silenzio – il che rendeva il tutto ancora più frustrante, ma se non altro non segnalava la loro posizione ai malintenzionati.

“Anche noi stiamo andando da quelle parti. Siete invitati a proseguire con noi,” sentenziò il pagliaccio, accogliendo l'approvazione di tutti, in particolar modo delle donne.

L'unico che non disse niente fu l'uomo gigantesco, mentre il direttore lanciò un'occhiataccia in direzione dell'ubriacone, trattenendo a stento la rabbia per non essere stato interpellato dato che era lui quello che avrebbe dovuto prendere le decisioni per tutti. Clint riuscì a vedere il viso che si deformava sotto la pelle grigiognola, tirata. Ma durò solo un attimo, l'uomo tornò a sorridere amichevolmente in pochi secondi.

“Ci fareste un grandissimo onore,” snocciolò infine.

“Siamo un po' rumorosi, ma ci facciamo voler bene,” tentò di convincerli la donna barbuta.

“Oh vi prego, vi prego, vi prego,” insisté una delle due gemelle, dopo che la sorella le aveva sussurrato qualcosa all'orecchio.

Un silenzio fastidioso si stese nell'aria, interrotto solo dagli sbuffi del vento. Il tanfo stava diventando insopportabile e tutto quello che Clint voleva fare era allontanarsi il più rapidamente possibile dal canale. Natasha era immobile e non dava alcun segno di voler intervenire, la decisione spettava a lui, e a lui soltanto.

“Perché no?” La voce gli uscì leggermente stonata sul finale, ma nessuno se ne accorse perché il gruppetto scoppiò in grida di giubilo che gli parvero un tantino esagerate per l'occasione. Magari avevano davvero voglia di incontrare gente nuova.

“Diamoci una mossa.” Le parole sembravano essere rimbombate dal fondo di una caverna. A pronunciarle era stato il Mangiafuoco, rimasto in silenzio fino a quel momento. Scoccò loro un'occhiata ostile prima di tornare a quella che doveva essere la sua postazione nella carovana.

“Scusatelo,” biascicò l'ubriacone tra un singhiozzo e l'altro. “E' un po' lunatico... se capite che intendo.” Si portò un dito alla guancia, ma Clint suppose che avesse voluto mirare alla tempia per segnalare la follia del compagno di viaggio, mancando clamorosamente il colpo.

“Rimettiamoci in cammino,” dichiarò il direttore, anche se tutto il gruppo aveva già cominciato ad attivarsi per ripartire sotto il perentorio suggerimento del Mangiafuoco.

Nel caos che ne seguì Clint fu invitato a sedersi al posto di guida di uno dei carretti, di fianco al pagliaccio alcolizzato che continuava a tracannare vino e straparlare di tutto un po'. Mentre sperava ardentemente di sopravvivere al viaggio – ovunque fossero diretti – cercò Natasha con la coda dell'occhio. La intercettò nel momento in cui stava salendo sul retro del carro coperto condotto dal nano; indovinò che si trattava della vettura destinata alle donne. Una risatina allegra l'accompagnò fino a un momento prima che svanisse dalla sua visuale.

Tornò a guardare avanti a sé la strada polverosa che si srotolava loro davanti come un nastro logoro e malmesso, chiedendosi se avesse preso la decisione giusta.

Quanto male sarebbe potuta andare, dopotutto?





Note: bè le domande retoriche di solito hanno risposte scontate, ma vi lascerò prospettare quel che più vi piace :P il viaggio del nostro duo preferito è cominciato e la convivenza non è esattamente pacifica. Clint continua a fidarsi e non fidarsi, e Natasha si scuce a malapena. Quel che è certo è che idee migliori, il nostro arciere ancora non ne ha. L'apparizione dei saltimbanchi (che continuerà nel prossimo capitolo) serve a mettere in luce alcuni eventi del passato di Clint qui accennati, ma che saranno affrontati più ampiamente più avanti.
E adesso smetto di blaterare :P grazie a chi legge e recensisce e ovviamente alla sociabeta Eli <3
Alla prossima settimana! 
(◡‿◡✿)

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo 7

~

 

L'aria si era trasformata in un sudario bollente, soffocante. Clint sbatté le palpebre, gli occhi che lacrimavano a causa del fumo spesso e denso che lo circondava.

Si rimise seduto, la testa che pulsava dolorosamente in prossimità della tempia destra. Si toccò in quel punto, trovando i capelli impiastricciati di una sostanza calda e vischiosa.

Sangue.

I pensieri si susseguivano sconnessi davanti ai suoi occhi, come se non gli appartenessero. Le fiamme divampavano tutt'attorno, affamate, intente a fagocitare le pareti incrostate del rimorchio di Conrad. Il cadavere del vecchio, addetto ai guadagni della compagnia, parve prendere forma a qualche metro di distanza. Era ripiegato su se stesso, rattrappito come una fisarmonica pronta ad essere riposta nella sua custodia. Le braccia magre abbandonate lungo i fianchi, una gamba piegata e l'altra distesa.

Il fuoco gli stava lambendo l'orlo dei mutandoni scuri. Jacques doveva averlo sorpreso mentre si stava preparando per coricarsi. Lì accanto, vuota e rovesciata mestamente a terra, la cassetta di metallo in cui era solito riporre i guadagni della serata.

Clint si agitò, mentre l'irrazionale bisogno di impedire che le fiamme si prendessero, del vecchio, anche i vestiti, si impossessava di lui. La vocina razionale che continuava a blaterargli in testa parole disarticolate e prive di senso, gli suggerì che non ce n'era bisogno. Che era morto, dopotutto. Il dolore non era più una preoccupazione per lui. Niente lo era.

Boccheggiò ancora, l'aria che pareva appesantirsi sempre di più, concedendogli solo sporadiche boccate d'ossigeno. Sembrava di ingoiare le fiamme.

Tentò di rimettersi in piedi, la testa che gli girava imperterrita e un dolore atroce al fianco. Il filo dei suoi pensieri cominciò a tendersi ed intricarsi, considerazioni scollegate iniziarono a sfrecciargli nel cervello in modo sconclusionato.

Jacques. Jacques... era stato lui a colpirlo alla testa.

Ricordava il volto deformato dalla rabbia che gli aveva offerto prima di abbattergli un fiasco vuoto sul capo. Era caduto e poi...

Gli occhi appesantiti si abbassarono di colpo, come attirati da una forza invisibile. C'era una lampada ad olio riversa a terra, i vetri rotti e una macchia scura e oleosa a disegnare una pozza informe proprio lì, praticamente ai suoi piedi.

E poi una consapevolezza, insistente e gelida mentre il fuoco avvampava tutt'intorno.

Era colpa sua. Era stato lui.

L'incendio.

Aveva sorpreso Jacques a rubare, ad uccidere e tutto quello che era riuscito a fare era stato guardarlo imbambolato, permettergli di sbarazzarsi di lui e gettare il campo nel panico perché era stato tanto stupido da lasciar cadere la lampada.

Perché non aveva reagito?

La vista gli si oscurò per un istante. I polmoni si affannavano alla disperata ricerca d'aria, ma ad ogni respiro non faceva che inalare altro fumo, altra aria infuocata.

Provò a muovere un passo, due, ma si sentiva pesante, come se un peso insopportabile lo stesse schiacciando a terra. Sarebbe morto lì dentro senza poter dare l'allarme.

Sarebbe morto e suo fratello non avrebbe mai saputo quant'era stato stupido e ingenuo.

Sarebbe morto e l'avrebbe lasciato da solo ad occuparsi di se stesso. Forse, in fin dei conti, sarebbe stato un bene. Si era sempre sentito un peso per Barney, solo un ragazzino sciocco che si sforzava di essere all'altezza, ma che era incapace di tenere il passo del fratello maggiore. Troppo più scaltro, maturo, furbo di lui. Tutto ciò che avrebbe voluto essere. Ma per quanto si sforzasse di somigliargli, non sapeva come smettere di sentirsi terribilmente inadeguato in sua presenza.

La porta si aprì con un fracasso impossibile. La ventata d'ossigeno intensificò l'incendio e il fuoco stava ormai per attaccarglisi alla pelle sudata, consumarlo come un ciocco di legno abbandonato nel camino.

La faccia di Barney, avvolta da bagliori arancioni e rossi gli si piazzò davanti. Gli parve innaturalmente alto; non si era accorto che le gambe gli avevano ceduto e che era caduto di nuovo a terra. Era venuto a salvarlo. Ancora una volta.

“Clinton! Lo so che è marzo e che fa freddo, ma non ti pare di aver esagerato un pochino?”

La voce era allegra anche se forzata. Aveva in mano una grossa ascia; con l'altra gli afferrò un braccio per aiutarlo ad alzarsi, ma era troppo pesante. Fu costretto ad abbandonare l'arnese per tirarlo su e a Clint venne da ridere. Non era mai stato tanto letteralmente un peso per suo fratello, eppure adesso eccolo lì a farsi trasportare come una bambola di pezza.

“Che cazzo hai da ridere?” Lo sentì chiedere mentre lo trascinava fuori dal rimorchio. Doveva aver notato il sorriso storto che gli si era aperto sul viso, incredulo. “Sei proprio un tipo bizzarro, fratellino.”

Come ci riusciva? Come poteva scherzare anche in una situazione tanto drammatica? Il suo fratellino era un fallimento totale, un ragazzino pieno di sé che credeva di poter conquistare il mondo solo perché sapeva fare dieci, venti, trenta centri consecutivi con arco e frecce. Perché non sembrava cogliere la gravità della situazione?

Il campo brillava di una luce sinistra. Ci mise un secondo di troppo a registrare le urla che rimbalzavano da un capo all'altro dell'accampamento, ad identificare le ombre informi che si spostavano in ogni direzione: i membri della compagnia stavano scappando o mettendo in salvo le poche cose di valore che possedevano.

Aveva distrutto tutto. Aveva lasciato cadere la lampada e aveva cancellato la vita di tutta quella gente. James, Melissa, Trick Shot, Karl, Adele...

Il fuoco si era attaccato avidamente agli alberi che avrebbero dovuto offrire loro rifugio da sguardi indiscreti: si stava propagando sul terreno, serpeggiando tra le foglie secche dell'inverno che arrancava a fatica verso una primavera ancora rigida e inospitale.

Un urlo orribile squarciò l'aria e Barney si bloccò.

“Dev'essere Melissa,” mormorò. Nonostante la scarsa lucidità, Clint riuscì a cogliere l'indecisione nella sua voce. Era combattuto tra mettere in salvo il fratello o soccorrere le persone con cui avevano vissuto in quegli ultimi mesi. Sapeva di essere la sua priorità numero uno, ma era una questione di vita o di morte.

“Vai,” biascicò allora. “Ti aspetto qui.” Avrebbe voluto poter dare una mano, avrebbe voluto non sentirsi completamente inutile mentre suo fratello rischiava la vita per porre rimedio ad un guaio che lui aveva creato.

Barney gli rivolse un'occhiata incerta, i capelli spettinati che sembravano ancora più rossi del solito. Il riverbero delle fiamme che si ingrossavano tutt'attorno come un mare in tempesta lanciavano ombre scure sul suo viso, facendoglielo apparire quasi estraneo.

“Va', ho d-detto,” ribadì e si sforzò di apparire sicuro di sé, più lucido di quanto non fosse.

L'urlo si ripeté una, due, tre volte finché non parve alzarsi in un grido alto, acuto e continuato che si mischiava all'infuriare dell'incendio. Barney esitò ancora per un paio di secondi prima di decidersi ad agire.

Aiutò Clint a sedersi ai piedi di un albero che non era ancora stato toccato e si raccomandò con lui di non muoversi, di aspettarlo ché sarebbe tornato di lì a poco per condurlo definitivamente al sicuro.

Lo guardò allontanarsi di corsa, una macchia scura e sicura nel suo campo visivo; perdeva consistenza ad ogni passo. Finché non tornò a confondersi con le fiamme, le luci e le urla. Il caldo era insopportabile, gli toglieva quel poco di chiarezza a cui si stava disperatamente aggrappando.

Si costrinse ad inspirare ed espirare ripetutamente; gli venne in mente di coprirsi naso e bocca con la camicia che aveva addosso e lo fece. Il caos infuriava, pareva gonfiarsi e ingrossarsi ad ogni attimo. Il tempo scivolava via, ma Clint non ne aveva la cognizione: poteva essere passata un'ora come pochi minuti.

L'ansia gli crebbe in petto con la foga dell'incendio. Le fiamme avvolgevano tutto ciò su cui riusciva a posare lo sguardo. Una vocina gli suggerì che doveva andarsene, ma non l'avrebbe mai fatto senza Barney. Il cielo, di un marrone torbido e cupo, assomigliava al volto ricoperto di cicatrici di un padre distante e indifferente.

“Clint.”

Una voce femminile, calda e roca lo costrinse a voltarsi.

Il fuoco le ricopriva le braccia e le gambe, ma la donna non sembrava soffrirne. Riconobbe gli occhi verdi e accesi, i capelli rossi come le fiamme che si stavano mangiando l'accampamento. Natasha era fatta della stessa sostanza di cui era fatto l'incendio.

“Alzati,” gli intimò con voce decisa, lo sguardo penetrante di chi non ammette repliche. “Te ne devi andare.”

“N-Non posso,” si ritrovò a biascicare sconnesso. “B-Barney...”

“Tuo fratello non tornerà.”

“Ti sbagli.”

La vide scuotere il capo, le vampe rosse che si agitavano nell'aria come a segnalare la sua irritazione. Era arrabbiata con lui perché non voleva capire. Ma come avrebbe potuto lasciare indietro suo fratello?

“Se non ti alzi adesso morirai,” insisté.

Gli si avvicinò e si accorse che era calda, ma di un calore piacevole in cui avrebbe voluto sparire. Era stupido che fosse lì, lei non c'era quella notte. Doveva essere solo una bambina ai tempi e invece eccola, uscita dall'inferno ad intimargli di andarsene, di mettersi in salvo.

“Devo aspettare Barney. Barney verrà a prendermi,” scosse il capo, ostinandosi sulle proprie posizioni come un bambino capriccioso. Eppure dentro di sé sapeva che era passato troppo tempo, che la situazione cominciava a farsi insostenibile.

“Alzati, Clint.” Si chinò su di lui e in quel momento Clint capì che, da lei, si sarebbe lasciato volentieri consumare. Il sudore gli colava copioso sul viso, facendogli bruciare gli occhi, salandogli le labbra su cui percepì il sapore del sangue.

“Alzati,” Natasha ripeté, il viso sempre più confuso nelle fiamme che la ricoprivano. “Alzati.”

Col cuore che gli batteva forte, Clint si alzò.

 

“Alzati.”

Riaprì di scatto gli occhi e, per un attimo, pensò che il cielo dell'incubo fosse ancora sopra di lui. Boccheggiò senza fiato e scattò a sedere prima di rendersi conto che era solo il tetto della tenda che il direttore si era prodigato di erigere per loro. Niente più di un cencio scuro ricucito in più punti che era stato appoggiato su una struttura di legno dall'aria pericolante.

Inspirò a fondo, trovando improvviso sollievo nel respirare aria fresca e leggera. Si portò le mani al viso sudato, i muscoli di tutto il corpo indolenziti per la nottata passata per terra.

“Stavi parlando nel sonno.”

La voce di Natasha lo fece sobbalzare. Si era dimenticato di come, tirandosi gomitate e occhiate allusive, i saltimbanchi della compagnia li avessero invitati a dormire insieme sotto quel rifugio sgangherato. Sembrava volessero sottolineare come le decisioni bizzarre delle loro famiglie – avverse al matrimonio e completamente inventate – non li riguardassero affatto. Erano gente a posto, non dei bigotti o, peggio, dei benpensanti.

“N-Non volevo svegliarti,” si affrettò a borbottare quando il silenzio cominciò a farsi troppo lungo.

“Non stavo dormendo,” rispose lei, lo sguardo attento e indagatore.

Clint annuì una sola volta e si sgranchì le braccia, sperando di apparire rilassato. La schiena scrocchiò più volte, provocandogli un misero piacere che si estinse subito dopo.

Riusciva quasi a percepire il peso di domande non formulate nello spazio ritagliato dalla tenda. Natasha sembrava sul punto di dar forma almeno a qualcuna di quelle, quando una voce femminile la richiamò dall'esterno.

La vide cambiare espressione, rifarsi più determinata.

“Dev'essere Mallory,” mormorò.

Stava per chiedergli chi fosse Mallory – ovviamente si era già imparata i nomi di tutti a memoria – ma non ne ebbe il tempo.

“Credo vogliano invitarmi a fare il bucato giù al fiume,” aggiunse senza nessun motivo apparente.

“Ti sento entusiasta,” la prese in giro.

Gli lanciò un'occhiata severa.

“E se stessero cercando di dividerci?” Ipotizzò in tono polemico.

“Credo che potremmo cavarcela anche separatamente,” le disse, prima che un pensiero lo colpisse. “Magari il Mangiafuoco potrebbe darmi del filo da torcere.”

Natasha annuì una sola volta, sovrappensiero. Il richiamo si ripeté, sempre più vicino. Se avesse esitato ancora, Clint era sicuro che chiunque fosse la proprietaria di quel nome si sarebbe infilata dentro la tenda senza troppi complimenti.

“Sta' attento,” si raccomandò lei, assicurandosi di avere le armi addosso ben nascoste, per qualsiasi evenienza.

“Sissignora.”

“Non sto scherzando, Barton,” lo redarguì.

“Nemmeno io. So che sembro una fragile fanciulla abituata a pizzi e trine, ma posso cavarmela,” le fece presente con sferzante ironia.

“Grazie per l'immagine mentale.”

“E di che?”

Giurò di averla vista sorridere mentre spariva oltre il lembo sdrucito della tenda e nell'aria luminosa del mattino.

Ma forse se l'era solo immaginato.

 

*

 

Il fiasco arrivò di nuovo vicino a lui. Il pagliaccio – aveva scoperto che si chiamava Edmund, ma tutti optavano per Ed – lo esortò a riempirsi di nuovo il bicchiere. Se non altro non era un ubriacone egoista.

Lo accontentò e passò la bottiglia a Natasha che gli era di fianco. Il sole era calato da almeno un'ora e adesso la compagnia si era raccolta in cerchio attorno al fuoco. Il chiacchiericcio andava di pari passo con lo scoppiettare dei ciocchi di legno tra le fiamme; un paio di volte Maurice, il nano, aveva attaccato a suonare un piccolo strumento a corda che aveva sempre con sé, e la donna barbuta gli era andata dietro, intonando una canzone che Clint si accorse di conoscere. Aveva una bellissima voce e lo sguardo gentile.

Lui e Natasha non avevano detto granché, si erano limitati ad ascoltare, ridere e sorridere quando necessario, ad intervenire qualche volta. La ragazza gli sedeva vicinissimo, e teneva poggiata una mano sul suo ginocchio; da fuori doveva apparire come una posa qualunque, segno di una tacita intimità, ma Clint riusciva a percepire la rigidità delle sue dita.

“Io me ne vado a letto,” dichiarò il direttore mentre si rimetteva in piedi. Era alto e macilento, tanto che sembrava quasi impossibile che riuscisse a star dritto su quelle sue gambe nodose. Rimase immobile, le mani poggiate sui fianchi, come aspettandosi che tutti gli altri si muovessero e seguissero il suo esempio, ma non successe. “Non fate tardi,” aggiunse in tono più seccato, dileguandosi in direzione dei suoi appartamenti.

Le gemelle sbadigliarono, sonoramente e perfettamente sincronizzate, prima di riaccoccolarsi l'una contro l'altra, sorreggendosi a vicenda. Il nano ricominciò a suonare, una canzone più lenta e malinconica stavolta, che non gli suonò familiare.

Sentì Natasha trasalire impercettibilmente al suo fianco quando la voce cavernosa e profonda del Mangiafuoco si accompagnò allo strimpellio delle corde stonate. Cantava ad occhi chiusi e braccia conserte, quasi lo stesse facendo nel dormiveglia. Si ritrovò a rabbrividire mentre gli occhi di tutti si fissarono sulla faccia scura dell'uomo; doveva essere una cosa abituale, perché i suoi compagni sorridevamo placidamente, lasciandosi cullare da quella bizzarra ninna nanna.

Si voltò verso Natasha, forse con l'intenzione di dirle qualcosa, ma si bloccò nel vederla come rapita, ammirata e terrorizzata insieme nel fissare il Mangiafuoco. Aveva gli occhi sgranati, persino un po' lucidi, ma non seppe decidere se era per via di un riverbero delle fiamme o se perché fosse... commossa. Il concetto gli parve talmente stupido da farlo sentire un completo idiota.

L'atmosfera rimase sospesa e immobile fino alla fine della canzone, quando l'uomo sembrò pacificarsi di colpo e zittirsi, restando nella stessa posizione, come se non avesse mai neppure aperto bocca. Ci fu un sospiro di generale beatitudine, fatta eccezione per Natasha che era ancora contratta al suo fianco.

Maurice riattaccò con una canzone più allegra e fu di nuovo il turno della donna barbuta di cantare. Il ritmo era allegro e sostenuto, tanto che le gemelle sentirono il bisogno di saltare in piedi e mettersi a ballare.

“Tutto a posto?” Sussurrò in direzione di Natasha, suo malgrado preoccupato dalla sua reazione.

La donna non rispose, limitandosi a fissare il Mangiafuoco ancora per qualche istante. Dopodiché si chinò verso di lui, accostandogli le labbra all'orecchio con calibrata spensieratezza.

“Vieni con me,” gli disse mentre lo prendeva per mano.

Natasha si rimise in piedi e Clint non poté far altro che seguirla; si allontanarono sotto gli sguardi incuriositi e divertiti di chi era ancora sveglio, dalle risatine delle gemelle che zompettavano al ritmo di Maurice.

“Dove stiamo andando?” Le chiese, lasciandosi condurre oltre l'accampamento e nel folto della boscaglia. Avevano deciso di sistemarsi lontano dalla strada e in un posto sufficientemente distante dal fiume per evitare incontri indesiderati.

La donna non rispose e continuò ad avanzare finché il buio non si fece spesso e impenetrabile. L'intravide che si fermava davanti ad un albero dal tronco enorme prima di cominciare ad arrampicarcisi con agilità. Non aspettò di essere invitato e la seguì in alto, finché non si ritrovarono seduti l'uno di fronte all'altra su uno dei rami più resistenti.

L'odore della vegetazione era forte e piacevole e Clint si sorprese a ripensare al profumo dell'erba e al peso di Natasha seduta sopra di lui. Una fitta inaspettata lo colse da qualche parte a sud della cintura dei pantaloni, facendogli sgranare gli occhi. Scacciò il pensiero e ignorò la sensazione, tentando di ripensare piuttosto al lezzo di letame che veniva su da quello stupido canale e magari al naso pieno di capillari scoppiati di Ed o alle mani legnose di Lance, il direttore con la faccia da cavallo.

“E adesso?” Domandò quando fu sicuro che la voce non l'avrebbe tradito e ormai diversi secondi furono passati senza che Natasha offrisse una spiegazione.

“Stiamo facendo sesso,” decretò incolore, ravvivando le scenette che gli si stavano sbiadendo nel cervello come se fossero state riportate in vita da un fulmine.

“C-Come?” Sputacchiò e finse di tossire perché qualcosa gli era andato di traverso (la sua dignità, ad esempio).

“Le ragazze mi hanno chiesto perché non abbiamo fatto nessun rumore stanotte,” disse senza una particolare intonazione.

“Perché avremmo dovuto fare rumore?”

“Credono di averci sorpreso mentre fornicavamo all'aria aperta nel bel mezzo del giorno,” gli ricordò. “E poi abbiamo dormito insieme, appartati, e ci siamo ignorati.”

“Magari non avevamo voglia di fornicare con un pubblico,” bofonchiò, sforzandosi di riappropriarsi di un minimo di contegno. E perché si erano messi a parlare come un frate domenicano imbestialito dalla sua predica?

“Magari,” mormorò lei, sovrappensiero. “Ma non voglio farmi ridare consigli su come soddisfare un uomo.”

Tra le informazioni incomprensibili fornite da Natasha e le immagini mentali che continuavano a pugnalargli i pensieri con straordinaria vividezza, Clint cominciò ad avere le vertigini.

“Di che stai parlando?”

“Amy e May erano convinte che fosse un problema di ingenuità da parte mia.”

“Chi sono Amy e May?”

“Le gemelle.”

Gli veniva da ridere e si sentiva inspiegabilmente in imbarazzo.

“Va bene. Hai scoperto qualcosa di interessante, almeno?” Certo, perché parlare di atti impuri era il modo migliore per togliersi dalla testa le proiezioni mentali di quegli stessi atti.

“Dubito vivamente di poter imparare qualcosa di nuovo.” Risuonò sostenuta e amareggiata al tempo stesso.

Non si permise di prendere del tutto consapevolezza delle implicazioni che quelle parole si portavano dietro. Quindi era una sorta di esperta di fornicazione? Un vago senso di disagio gli prese lo stomaco, senza concretizzarsi in una conclusione definitiva.

“Eri già stato in un posto come questo, vero?” Natasha parlò di nuovo, sollevandolo dall'impiccio di dover seguire il suo enigmatico commento.

“In che senso?”

“Hai fatto delle domande piuttosto specifiche,” gli fece notare, alludendo alla direzione da cui erano venuti. “Sei già stato in giro con gente simile,” aggiunse, come se fosse la naturale conseguenza di quell'intuizione.

“Non credi che il figlio adottivo di un nobile possa conoscere la vita del saltimbanco? Magari sono un appassionato di messinscene o rappresentazioni sacre,” si schermì.

“No,” scosse il capo. “Guardare da fuori e conoscere da dentro sono due cose ben diverse.”

I suoi occhi scintillavano al buio e la sua figura si faceva sempre più definita man mano che la vista gli si abituava all'oscurità circostante.

“E poi l'ho capito che non sei davvero un aristocratico,” riprese, come se ci tenesse a fargli capire che aveva colto un paio di cose sul suo conto.

“Non è bastato sentirmelo dire?” Ricordava ancora la loro prima conversazione nel bosco a poche miglia di distanza da villa Coulson.

“Non ti volevo credere,” ammise candidamente. “Ma sei uno che se la sa cavare anche fuori dalla sua casa a tre piani.”

“Quattro.”

“Cosa?”

“Quattro piani. Se si include il tetto, invece, cinque.” Le sorrise ampiamente, indovinando la confusione sul suo viso. “E comunque non era casa mia.”

“Riesci a sopravvivere in giro per il mondo, ma non in una villa,” formulò lentamente, nonostante tutto incuriosita. “Non devi starci molto con la testa.”

“Probabilmente non saresti la sola a pensarla così.” Si immaginò suo fratello che lo prendeva a male parole perché aveva avuto tutto – casa, sicurezza, pane per il resto dei suoi giorni – per poi decidere che in fin dei conti non voleva, o aveva bisogno, di niente del genere. Barney era ancora un ragazzino nella sua testa, eppure continuava a nutrire una certa soggezione nei suoi confronti; si sentiva in dovere di tenerlo in vita, anche se eternamente bloccato nei suoi tredici anni.

“Chi è Barney?” Gli chiese dal niente, mutando impercettibilmente il tono di voce, quasi gli avesse letto nel pensiero.

“Come fai a sapere di Barney?” Prese tempo, non era certo di volerle rispondere.

“L'hai nominato mentre dormivi,” disse soltanto. Si strinse nelle spalle, come a fargli capire che non le importava se decideva di dirglielo o meno, per lei non faceva alcuna differenza.

“E' mio fratello,” ammise senza neppure pensarci, quasi in tono di sfida.

Natasha gli puntò gli occhi addosso, fissandolo senza dire niente. Gli sembrò di aver colto un'ombra repentina attraversarle lo sguardo, come di una consapevolezza improvvisa. Ma sparì prima che potesse accertarsene, e il buio era tanto spesso da impedirgli di guardarla chiaramente in faccia in ogni caso.

“Che gli è successo?”

“Non lo so,” ed era vero. Non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto; una parte di lui provava ancora l'irrazionale bisogno di andarlo a cercare. Ma non sapeva da dove cominciare a mettere le mani: il mondo era sconfinato e suo fratello poteva essere ovunque. “Forse è morto. Oppure no...”

“Vi siete separati,” constatò Natasha.

“Per cause di forza maggiore. La mia idiozia, per dirne una.”

“Che hai combinato?”

“Ho fatto un casino e poi ho permesso che andasse a risolverlo da solo.” Perché glielo stava raccontando, comunque? Che gliene importava a quella semisconosciuta del suo passato insieme a Barney? Non avrebbe mai capito il suo senso di colpa, gli avrebbe dato dell'imbecille e l'avrebbe creduto più folle di quanto già non le sembrasse.

“Dovevi essere solo un ragazzino,” obiettò, forse in un blando tentativo di consolarlo.

Piombò il silenzio, intervallato solo dal respiro cadenzato della donna, dagli echi della serata che continuava a svolgersi all'accampamento, dai rumori del bosco tutt'intorno, pullulante di animali invisibili.

“La canzone del Mangiafuoco... la conoscevi?” Visto che erano in vena di confidenze, si sentì audace – e poi non voleva essere il solo scucirsi.

Gli sembrò quasi di poter toccare la sua indecisione con mano, mentre valutava se accontentare la sua curiosità o lasciar cadere la domanda nell'indifferenza più totale.

“Sì,” confessò dopo un lunghissimo istante. Aveva parlato come per togliersi un pensiero. “Ma non con quelle parole.”

“In un'altra lingua, intendi?” La vide annuire senza offrire nessun'altra delucidazione. “Di dove sei?” Si risolse a chiederle.

Natasha sbuffò una risata amara che si spense immediatamente.

“Di nessun posto.”

“Non puoi essere di nessun posto,” obiettò debolmente.

“Oh, sì che posso.” Aveva insistito, ma non c'era soddisfazione nella sua voce.

“Devi pur essere nata da qualche parte.”

“E' un'abilità che non si può insegnare, appartenere ad ogni luogo. L'altra faccia di una triste verità: prima devi non appartenere a nessun luogo.” (*) La frase le era uscita recitata, come se stesse ripetendo una regola, un insegnamento impartitole da qualcun altro.

Una sensazione sgradevole gli riempì lo stomaco, impedendogli di chiedere ulteriori informazioni. Che era stata addestrata al combattimento l'aveva capito; ma chi avrebbe potuto avere interesse a farlo? Perché e con quale scopo? E se questo scopo esisteva, allora cos'aveva a che vedere con lui?

La vide fare uno scatto silenzioso mentre si portava l'indice alle labbra, intimandogli il silenzio. Si mosse agilmente sul ramo, guardando verso il basso – Clint la imitò.

C'era un'ombra scura che si aggirava là sotto; sembrava appartenere ad un essere gigante. Natasha gli lanciò una rapida occhiata d'intesa e Clint capì che entrambi avevano pensato al Mangiafuoco. Possibile che fosse andato a cercarli? Un luccichio sinistro li avvertì che l'uomo era armato e senza dubbio intenzionato ad incassare la taglia sulla sua testa.

Vivo o morto, pensò Clint lugubremente, rammentando il pessimo ritratto che accompagnava l'avviso.

Natasha aveva estratto il coltello nascosto nello stivale e si preparava a balzar giù per neutralizzare l'aggressore. Tentò di farla desistere, ma quella era già atterrata diversi piedi sotto di lui senza fare neppure un rumore, dietro all'enorme ombra minacciosa, magari per aggirarla, eluderla e scappare.

“Vaffanculo,” sibilò frustrato prima di seguirla e atterrare al suo fianco in modo molto meno aggraziato.

La donna sembrava avere ogni intenzione di attaccare, ma una voce melliflua li sorprese alle spalle. Si voltarono di scatto, trovandosi davanti il viscido sorriso del direttore. Li teneva sotto tiro con una balestra dall'aria antiquata, ma non per questo meno letale.

“Ehi, che hai intenzione di fare con quella?” Domandò con finta spavalderia, sperando di prendere tempo: c'era ancora la mastodontica ombra alle loro spalle. Erano circondati.

“Vuoi che ti faccia un disegnino, ragazzo?” Il direttore sembrava immensamente soddisfatto di sé.

Natasha, al suo fianco, aveva cambiato espressione e nascosto il coltello, indecisa sul da farsi, su quale personaggio scegliere per l'occasione. Doveva ancora fingere di essere l'ingenua novella sposina, oppure mostrarsi in grado di tenergli testa?

L'uomo parve alzare lo sguardo su qualcosa di imponente alle loro spalle, dapprima sorpreso, poi sollevato.

“Boris, vedo che abbiamo avuto la stessa idea,” constatò.

Clint non ebbe bisogno di voltarsi per capire che c'era il Mangiafuoco dietro di loro, anche lui senza dubbio intenzionato a farlo fuori per intascarsi i soldi della taglia.

“Ci toccherà dividere il bottino.” Il direttore non sembrava particolarmente dispiaciuto.

“Ti ci vorrà un po' per ricaricare quell'aggeggio.” Stavolta era stata Natasha a parlare.

“Oh, tesoro, mi basta solo un colpo.”

“Ne sei sicuro?”

“Fossi in te ammazzerei lei per prima,” suggerì Clint. “E' un consiglio da amico, ma tu fa' come vuoi.”

“E' così che tratti la tua giovane sposa?”

“Morto un Papa, se ne fa un altro, diceva mio padre.” Suo padre non diceva niente del genere, ma sembrava una perla di saggia banalità adatta al momento drammatico.

“Peccato che non possa dire lo stesso di t-”

Qualcosa di solido, gelido e lucido, da qualche parte alle sue spalle, gli sfrecciò al lato del viso, sibilando nell'aria finché non andò a sprofondare nel collo esile del direttore. Lance sgranò gli occhi e impallidì, deviando la traiettoria della balestra che adesso vacillava pericolosamente in prossimità di Natasha. Prima di cadere – il sangue che gli sgorgava giù per il petto come una cascata oscura – ebbe la prontezza di riflessi di premere il grilletto.

Clint non ebbe il tempo di riflettere su che cazzo fosse appena successo. Tutto quello che riuscì a fare fu lo scatto improvviso con cui scaraventò Natasha lontano dalla traiettoria della freccia, la quale, per tutta risposta, gli si conficcò in una spalla.

“Merda!” Imprecò a mezza voce, giusto perché lo shock di essere stato colpito anestetizzò il dolore per i primi, miseri secondi. La fitta arrivò subito dopo, lancinante e improvvisa, come se i suoi nervi si fossero ricordati di fare il loro lavoro solo in quel momento.

Natasha lo guardò con tanto d'occhi dal tronco d'albero contro cui era appoggiata, riversandogli addosso una muta serie di insulti virtualmente infiniti.

“Dovete andarvene,” il Mangiafuoco era rimasto fermo, immobile nel punto da cui aveva lanciato il coltello che aveva ucciso il direttore dalla faccia equina. “Non siete al sicuro.”

“Devi essere uno perspicace,” commentò Clint, portandosi una mano alla freccia conficcata nella spalla. Avrebbe fatto un male del diavolo, tirarla fuori di lì.

“Raggiungete il fiume e tornate indietro di un paio di miglia,” l'uomo lo stava completamente ignorando, rivolgendosi piuttosto a Natasha. “Probabilmente vi aspettate che il ponte di pietra sia pattugliato, ma non è così.”

Di che razza di ponte andava blaterando? E perché Natasha sembrava seguire senza difficoltà le istruzioni di Boris?

“Perché dovremmo fidarci?” Fu lei a chiederglielo, sospettosa.

“Perché non avete altra scelta.” Gettò a terra un groviglio di oggetti e sacche che Clint riconobbe come le loro cose. C'erano anche il suo arco e la sua faretra là in mezzo. “Andatevene adesso.”

Un pensiero lo colpì dal niente, improbabile eppure in qualche modo... sensato. Il Mangiafuoco si era infilato nel bosco per proteggerli, perché sapeva che il direttore avrebbe tentato di intascare la taglia sulla sua testa.

“Il ponte è una delle principali vie di comunicazione. Perché non dovrebbe essere pattugliato?” Natasha non sembrava intenzionata a cedere alle lusinghe di quei consigli tanto assurdi.

“Perché tutti la pensano come te, mia cara.” Il suo sguardo si indurì e la labbra sparirono sotto i grossi baffi arricciati all'insù. Sollevò una delle grosse mani e – per un attimo – Clint ebbe paura che fosse sul punto di schiaffeggiarla.

Trattenne il respiro, ma tutto quello che fece fu abbassarsi l'orlo della camicia bordeaux che indossava, rivelando una cicatrice a forma di clessidra. Un marchio.

Clint sentì lo stomaco stringerglisi bruscamente al modo in cui Natasha impallidì: era terrorizzata.

L'uomo le disse qualcosa in una lingua che Clint non comprendeva, ma che assomigliava a quella in cui, a volte, cantava Natasha. Le parole, però, sembrarono avere un effetto miracoloso sulla donna. Si ricompose rapidamente, facendosi quasi violenza nel riassumere un'espressione neutra.

Continuarono a parlare in quell'idioma sconosciuto finché Natasha non si decise a raccogliere le loro cose e afferrarlo per il braccio sano.

“Andiamo,” ordinò.

Clint lanciò un'occhiata confusa al Mangiafuoco, poi al cadavere del direttore immerso in una densa pozza del suo stesso sangue e infine a Natasha.

Senza guardarsi indietro, si affrettò a seguirla nel folto del bosco.






(*) la frase è una citazione riadattata dal fumetto dedicato alla Vedova Nera di Nathan Edmondson.

Note: insomma, in teoria le cose dovevano calmarsi un poco e invece non è stato così :P in compenso abbiamo scoperto qualcosa sul passato di Clint, della sua vita da saltimbanco in compagnia del fratello Barney, e dell'incendio che li ha separati. Tra tutti i personaggi citati Trick Shot e Jacques Duquesne (a.k.a. lo Spadaccino) fanno realmente parte della backstory del nostro arciere preferito nei fumetti Marvel (o in alcuni dei fumetti Marvel, ho rinunciato a capirci qualcosa). Ma presto o tardi torneremo su questo periodo della sua vita. Natasha invece rimane misteriosa come le si addice... per una risposta che riceve, Clint si ritrova con altre 100 domande. Non temete, però: scopriremo qualche altra cosa sul suo conto nei prossimi capitoli!
Anyway, ringrazio tutti quelli che sbirciano, leggono & commentano, che mi fa sempre piacere, e ovviamente alla sociabeta Eli <3
Alla prossima settimana! Aggiornamento 4/10: il prossimo capitolo verrà postato il 13 ottobre
(◡‿◡✿)
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo 8

~

 

Il cielo si stava ormai schiarendo sulla linea dell'orizzonte. Il sole era solo una macchia fumosa che faceva capolino tra le sagome azzurre delle colline. La scarsa luce si riverberava pigramente sull'acqua del fiume; gorghi di un blu profondo come la notte che andava diradandosi, ma che con il sorgere del giorno avrebbero riacquistato la solita tonalità giallognola di sempre.

La figura di Natasha si muoveva con sicurezza e determinazione davanti a lui. Non si era mai voltata da che avevano abbandonato il bosco, né per sincerarsi delle sue condizioni, né per permettergli di raggiungerla.

Aveva aperto bocca solo per rassicurarlo sul fatto che la freccia avrebbe fermato l'emorragia e che se ne sarebbero potuti occupare durante la prossima sosta. Sosta che Clint aveva scoperto essere più lontana di quanto avesse inizialmente pensato.

Ci avevano messo un'ora ad uscire dalla vegetazione e raggiungere il corso d'acqua, quasi cinque per ripercorrere la strada già fatta, stavolta al contrario. Se non altro non c'era il tanfo che li aveva accompagnati – assieme alla compagnia di saltimbanchi – lungo la via più interna.

La stanchezza era tanta e il sonno gli premeva sugli occhi come un macigno. Ma non aveva rallentato e non si era lamentato, limitandosi piuttosto a tenere il passo della donna. Man mano che i minuti scivolavano via, anche il dolore al braccio sembrò sparire in un antro oscuro della sua testa, insieme all'indolenzimento dei muscoli, alle vesciche ai piedi per il troppo camminare, alla fitta fastidiosa sotto la scapola destra. Clint si sentiva uno schifo, ma si era improvvisamente ricordato di quanto fosse facile andare avanti per inerzia, mettere un piede dolorante davanti all'altro, all'infinito. Fermarsi avrebbe spezzato l'incantesimo e riportato alla sua attenzione tutte le magagne che stava cercando di ignorare.

Natasha continuava a lanciare fugaci occhiate alla sua sinistra, osservando con circospezione la linea degli alberi che andava allontanandosi e diradandosi sempre di più, sicuramente temendo un qualche attacco o imboscata. Non successe niente del genere, ma l'allerta rimase alta e lo era tuttora.

Un puntino scuro parve materializzarsi davanti ai suoi occhi, sospeso in lontananza tra le due rive. Sbatté le palpebre nel tentativo di metterlo a fuoco, ma anche la sua vista era troppo stanca per funzionare adeguatamente.

“Siamo quasi arrivati al ponte.” La voce gli era uscita come un borbottio arrochito dall'insonnia. “Credo,” ebbe l'accortezza di aggiungere, nella vaga possibilità che fosse solo un'allucinazione.

Si aspettava di vedere la sua informazione messa in discussione, ma tutto quello che Natasha fece fu fermarsi improvvisamente. Clint si sentì soffocare da un repentino moto di panico – non lo sapeva, quella sconsiderata, che se si fossero fermati anche solo per cinque minuti, non sarebbero più ripartiti?

Rallentò cautamente i passi, ma non si fermò, indeciso sul da farsi.

“Che fai?” Le chiese, contando lo spazio che li separava, come sperando di cogliere le sue intenzioni e magari evitare di arrestarsi nel caso fosse solo un falso allarme.

“Dobbiamo sistemarti la spalla,” disse solamente, senza guardarlo e a bassa voce. Sembrava stesse parlando da sola, tra sé e sé.

“Posso proseguire.” Ecco, le era praticamente di fianco.

“Non puoi attraversare il ponte con una freccia conficcata nel braccio,” spiegò solamente, decidendosi infine a rialzare lo sguardo su di lui. Era stanca, gli occhi cerchiati eppure vigili. Per un assurdo istante gli parve quasi di averla sorpresa con le difese abbassate e – per qualche motivo – la trovò... bella. Non che non si fosse accorto di quanto fosse attraente, ma non ricordava di averle mai associato quella specifica parola. Bella. In modo un po' triste, forse. O magari la sua malinconia era inestricabilmente legata alla sua bellezza. Forse non aveva proprio niente a che fare col suo aspetto fisico.

“Hai l'aria di uno che sta pensando un sacco di cazzate.” L'amorevole appunto di Natasha lo riportò coi piedi per terra.

“E' quello che stavo facendo,” confermò senza esitazioni, dimenticando prontamente la sfuriata sentimentaleggiante che l'aveva occupato solo qualche attimo prima.

Si era fermato e non se n'era neppure accorto.

“Non mi sento più i piedi,” gli sfuggì, beccandosi un'occhiataccia.

“Hai una freccia infilata nel braccio e ti lamenti dei piedi?”

“Bè, se proprio vuoi metterla così...” Se doveva essere sincero non si sentiva più neppure il braccio.

“Siediti,” gli ordinò perentoriamente.

Obbedì, rendendosi conto che, sì, forse era più vulnerabile, ma pure più stronza. Evidentemente c'era un sottile equilibrio da rispettare: l'ostilità era inversamente proporzionale all'indifferenza. Non le piaceva sentirsi così – ragionava Clint – esposta. Forse era l'alba che incombeva su di loro o magari i fumi dell'insonnia, ma gli sembrò completamente diversa dalla donna infuocata dei suoi sogni, o la muta castigatrice avvolta dalle fiamme che aveva scoperto nella casa del tagliaboschi.

La guardò mentre poggiava a terra il loro bagaglio (arco incluso) e si metteva a rovistare nella piccola bisaccia che si portava sempre dietro e di cui Clint ignorava il contenuto. Ne tirò fuori una scatola larga e appiattita di legno scheggiato, tenuta chiusa da un sigillo d'ottone. Era divisa in diversi scomparti a loro volta coperti. La lasciò aperta sul prato per recuperare un sacchetto di tela.

La luce si faceva via via meno timida; la macchia sfocata del sole si alzava lentamente tra le colline, perdendo progressivamente il suo alone di fumosa foschia. Tra pochi minuti sarebbe iniziato ufficialmente un nuovo giorno. Un altro gran bel giorno di merda, precisò Clint, sperando – se non altro – di potersi tenere il braccio. Non era ancora pronto a rinunciarvi.

Tornò su Natasha mentre stava srotolando della garza bianca. Fece per chiederle qualcosa, ma la donna si alzò e si allontanò senza una parola, lasciandolo solo con tutto quell'armamentario incomprensibile mentre lei passava in rassegna la bassa vegetazione svariati passi più in là. Osservò, annusò e leccò (le leccò sul serio) foglie di diverse forme e dimensioni, finché non parve aver trovato quelle che facevano al caso suo. Ne raccolse una manciata e tornò indietro, facendo come se niente fosse.

“Adesso ho capito perché credevano fossi una strega,” biascicò, rivolgendole un sorriso esausto.

Di solito era in grado di funzionare anche con poche ore di sonno, ma più tempo passava e più doveva prenderne atto: non aveva molto controllo sulla sua faccia o sulla sua bocca in quel momento. Si ripromise di stare zitto per non dire stronzate... non più del solito, se non altro.

“Chi ha detto che non sono una strega?” Rilanciò lei mentre gli porgeva l'otre del vino. “Bevi.”

“Oh... merda,” imprecò a mezza voce, come se fosse bastato quel suggerimento a ricordargli che sarebbe stata un'operazione dannatamente dolorosa.

“No, è vino,” ribatté lei, ignorando le implicazioni delle proprie parole.

Clint bevve, inghiottendo con avidità il liquido dolciastro per sedare una sete che non si era concesso di registrare. Nel frattempo Natasha gli si era avvicinata, organizzando i suoi strumenti per averli a portata di mano o – sospettò – per distrarlo. Subito dopo, infatti, afferrò la freccia e, per un orribile istante, Clint ebbe paura che fosse sul punto di tirarla fuori senza alcun preavviso. Ma si limitò a prendere la misura della propria mano sullo stelo di legno e a spezzare il resto.

Lo aiutò a sfilarsi la casacca di pelle e – senza chiedergli il permesso – aprì uno squarcio per tutta la lunghezza della manica della camicia. Le sue dita erano sorprendentemente delicate mentre sfioravano l'avambraccio per permetterle di osservarlo da più angolazioni. Un'immagine ben precisa gli si materializzò davanti agli occhi.

“Una donna mi ha accusato di averti lasciato bere il mio sangue,” si ritrovò a dire, puntando lo sguardo altrove, sul sole ormai a metà del suo cammino. “Mi sono appena ricordato di quella volta che mi hai tolto la scheggia dalla mano.”

L'illazione aveva una che di ridicolo, eppure in qualche modo Natasha aveva davvero assaggiato il suo sangue. Fosse stato superstizioso avrebbe temuto di essere stato soggiogato grazie a qualche astruso sortilegio di magia nera, ma per sua sfortuna non lo era.

“Gli ignoranti sono più scrupolosi di quanto si pensi,” rispose la donna, “le loro accuse hanno sempre un qualche fondamento di verità. E' quello che le rende pericolose.”

“Quindi non sei una strega,” constatò.

“Non ho detto questo,” lo corresse.

“A che ti serve tutta quella roba?” Stava cercando di non pensare all'atroce dolore che lo attendeva, ma la consapevolezza continuava a farsi tenacemente strada tra le nebbie del sonno e dell'alcool.

“Ad assicurarmi che tu non muoia per un'infezione.”

“Oooh, quindi ti piaccio.” Non avrebbe saputo spiegare da dove gli fosse uscito, ma era successo e adesso gli veniva persino da ridere. “Almeno un poco, dico.”

Natasha lo stava bellamente ignorando, concentrandosi piuttosto sullo strappare la manica di quella che aveva tutta l'aria di essere una camicia pulita.

“Non importava che usassi una delle tue,” aggiunse Clint.

“Infatti è una delle tue,” lo rassicurò, rubandogli una mezza risata.

“Ovviamente.”

E poi... successe. Più che un'onda, il dolore si presentò sotto forma di una cascata gelida. Gli si riversò addosso con un attimo di ritardo e lo attraversò come un fulmine, risvegliando ogni singola porzione di pelle che sfiorava, richiamando tutto il suo corpo all'attenzione affinché potesse percepirlo in tutta la sua straordinaria intensità. Qualcosa di caldo cominciò a scendergli lungo il braccio, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era il dolore, il modo in cui sembrava aver occupato tutto lo spazio disponibile della sua mente. Gli sembrava di essersi dilatato a dismisura per contenerlo tutto e allo stesso tempo di essere stato compresso e ridotto ad un singolo punto pulsante.

“Rimani sveglio.” La voce di Natasha sembrò arrivare da mille miglia di distanza.

Si voltò per guardarla, ma i lineamenti del suo viso gli apparvero confusi. La vista gli si era sfocata.

“L-La f-fai facile...,” si ritrovò a strascicare, ma neppure si rese conto d'averlo fatto.

“Rimani sveglio, Clint.”

“S-Sono... s-sono...,” deglutì, mentre le linee si confondevano davanti ai suoi occhi, sgranandosi sempre di più, tuffandosi le une nelle altre finché tutto quello che vide fu un mare di nero.

Cadde in un sonno senza sogni.

 

*

 

Riaprì gli occhi sulle crepe del soffitto.

Li richiuse un attimo dopo.

Il suono leggero dell'acqua gli solleticava gli orecchi.

La stanza sapeva di chiuso e di muffa, e il letto non l'avrebbe definito comodo neppure sotto tortura. Eppure si sentiva stranamente in pace con se stesso e col mondo.

Fece vagare lo sguardo assonnato più in basso, incontrando la schiena nuda di Bobbi proprio accanto alla finestra chiusa da un telo lercio. Una sottile striscia di luce penetrava dal perimetro del davanzale che il panno non riusciva a sigillare del tutto.

Provò una fitta d'eccitazione improvvisa mentre risaliva con gli occhi lungo il corpo nudo della donna. Sembrava bianchissima nel buio della stanza, in piedi nella tinozza dove amava farsi il bagno. Se ne concedeva uno ogni giorno, d'estate, quand'era sicura di non rischiare un raffreddore; ma evitava sempre di bagnarsi i capelli, troppo lunghi per essere asciugati in tempo.

La guardò mentre si chinava sulle ginocchia, a raccogliere qualcosa da terra. Avrebbe voluto chiamarla, dirle di raggiungerlo, baciarla e adagiarla sul letto, maledicendo la pelle umida che gli impediva di afferrarla e stringerla come avrebbe voluto. Magari avrebbe sepolto il viso tra le sue cosce, così morbide e lisce, e le avrebbe dato un buongiorno come si deve.

Il sesso di prima mattina era una delle cose che preferiva. Era pigro e rilassato proprio come piaceva a lui; quando la pelle sa ancora di sonno e i baci sono indolenti, i movimenti rallentati di chi non è del tutto sicuro di cosa stia succedendo, il piacere che le si disegnava sulla faccia ancora solcata dai tenui segni impressi dal cuscino. La clandestinità della loro relazione faceva sì che non succedesse tanto spesso – Clint evitava di trattenersi fino al giorno seguente, quando allontanarsi di nascosto sarebbe stato più problematico – ma si ritrovava spesso a desiderare quell'intrecciarsi di braccia e gambe, le risate sommesse e soffocate nel materasso dalla superficie irregolare.

Serrò le labbra, mentre un prurito familiare lo rianimava e i fumi del dormiveglia cominciavano lentamente a diradarsi. Bobbi si rimise in piedi, portandosi un secchio sopra la testa. Doveva aver deciso di lavarsi anche i capelli e, infatti, dopo un attimo si rovesciò l'acqua addosso. Le scese in rivoli lungo il collo e le spalle, creando strisce invisibili sulla schiena prima di tuffarsi lungo le curve del fondoschiena e le linee dritte e sode delle gambe.

Ebbe quasi l'impressione che l'acqua le fosse rimasta attaccata alla schiena, mantenendole sulla pelle, come per magia, il disegno irregolare dei rivoli trasparenti.

Ma poi si accorse che la trama non era dell'acqua, ma della pelle stessa.

E quelli non erano serpentelli d'acqua, ma cicatrici. Bianchissime e spesse, le attraversavano circa i tre quarti della schiena. L'eccitazione cedette il passo ad un allarme improvviso: qualcuno l'aveva fustigata.

Si mise a sedere di scatto, procurandosi una fitta di dolore al braccio. E la sensazione piacevole sembrò sgombrargli definitivamente il cervello mentre prendeva atto di dove fosse e con chi. I capelli della donna, infatti, non erano lunghi e biondi, ma rossi come fuoco; le lambivano a malapena la base del collo.

Natasha.

Trattenne il respiro e provò un incomprensibile moto di nausea. Era stata frustata. Più di una volta perché le linee si intersecavano in più punti, alcune erano in rilievo, altre solo delle tracce biancastre che spiccavano appena sulla pelle diafana. Più la guardava e più la rete di cicatrici si infittiva, come se tutta la superficie del suo corpo non fosse altro che un insieme di cuciture l'una sopra l'altra, il ricamo di un pazzo senza controllo.

La guardò strizzarsi i capelli e recuperare un telo chiaro appeso ad un chiodo infisso nel muro. Prima che se lo avvolgesse attorno al corpo, la sua attenzione venne calamitata da un segno più evidente degli altri.

Un marchio circolare in cui era inscritta una clessidra, impresso sulla sinistra, proprio alla base della schiena. Lo stesso che Boris, il Mangiafuoco, le aveva mostrato la notte precedente. Avrebbe voluto riflettere, sviscerare e contare i frammenti che era riuscito a raccogliere sul suo conto fino a quel momento, rimetterli insieme per dar loro una parvenza di significato.

Ma Natasha era uscita dalla tinozza e si era voltata verso di lui mentre si asciugava i piedi su qualcosa di abbandonato sul pavimento.

“Ti sei svegliato,” disse con l'aria di chi sapeva perfettamente di essere osservata. “Credevo fossi svenuto definitivamente.”

“Dove siamo?” Le chiese, stropicciandosi il viso con una mano mentre con l'altra – con estrema nonchalance – si avvicinava un cuscino dall'aria pulciosa attirandolo tra le gambe casualmente incrociate. L'eccitazione si era tramutata in panico, ma non voleva correre il rischio di mostrarsi troppo interessato.

“In una locanda,” rispose e riavvicinò il letto per frugare nella bisaccia abbandonata in fondo al materasso. “Nel primo villaggio dopo il ponte,” aggiunse, forse sentendosi prodiga di informazioni (tanto per cambiare).

Metà del suo cervello si stava sforzando di capire come diavolo fossero arrivati in quel posto da che si era addormentato (suonava meglio di: era svenuto) sulla riva erbosa del fiume; l'altra si perdeva a constatare come la donna non si fosse minimamente scomposta nonostante sapesse di essere stata sorpresa completamente nuda in presenza di un semisconosciuto. Non solo non sembrava importarle, ma le mancava anche la malizia che si sarebbe aspettato in caso di un deliberato atto di seduzione. Non l'aveva voluto provocare, si rese conto. Come se la nudità non fosse che un dato di fatto come qualsiasi altro – gli alberi, le case, il fiume.

“Sei riuscita a portarmi fin qui da sola?” Si costrinse a chiedere, giusto per non rimanere in silenzio come un dannato stoccafisso.

“Sei un po' pesante, ma non è la prima volta che me ne vado in giro con un uomo in collo,” disse serissima, selezionando dei vestiti puliti dal povero assortimento di cui disponeva.

Le credette. Per qualche assurda ragione, credette seriamente di essere stato trasportato fin lì a braccio da una donna poco più bassa di lui e apparentemente dieci volte più debole.

E poi qualcosa di improbabile – persino più improbabile della nudità disinteressata di lei – successe. Le labbra le si strinsero l'una nell'altra e il viso le si contrasse in modo strano.

Stava trattenendo una risata.

Natasha stava (quasi, va bene) ridendo. Lo stava prendendo in giro, ecco cosa.

“Che fottuta stronza,” imprecò, lanciandole addosso il cuscino, dimenticandosi per un attimo del perché l'avesse stretto a sé tanto per cominciare. Si aspettava di vederglielo schivare, ma si lasciò colpire e l'urto, praticamente impalpabile, parve darle il permesso di sorridere.

“Sono molto lusingata dalla tua fiducia nella mia prestanza fisica,” commentò ammirata, anche se non lo stava guardando, occupata com'era a tirar fuori una camicia nera, pulita, ma un po' troppo grande per la sua stazza.

“Come no,” sbuffò in risposta, imponendosi di recuperare un minimo di autocontrollo.

“Un contadino passava di lì con un carretto,” gli spiegò. “Gli ho dato un soldo per convincerlo a caricarti là sopra, tra rape e patate, e portarti dall'altra parte.”

Invece che sfilarsi il telo e indossare la camicia, Natasha indossò la veste sopra l'asciugamano, assicurandosi di essere coperta prima di sfilare la stoffa umida e abbandonarla sul letto.

“Sei diventata pudica tutto insieme?” Si ritrovò a chiederle, maledicendosi per la sfacciataggine. Ma lei non parve turbata, anzi, gli sorrise con aria saccente.

“Non è per me, è per te,” puntualizzò. “Quei cuscini sono pieni di parassiti schifosi e non vorrei che te ne prendessi qualcuno pur di convincerti che non potrei sopravvivere alla vista di un uomo eccitato.”

Si sentì irritato e divertito al tempo stesso, ma soprattutto imbarazzato.

“E' una cosa che succede, la mattina,” tentò di giustificarsi.

“Lo so.”

“Specialmente se c'è una donna nuda nella stanza.”

“Ma davvero?” Si era infilata dei pantaloni puliti.

“Pensavo fossi un'altra.”

“Sta' zitto,” lo rimbrottò. “Conosco tutti gli oscuri segreti del mondo, Barton.”

Gli lanciò un'occhiata esplicita e finì di vestirsi.

“Datti una mossa,” lo esortò. “Vestiti e raggiungimi di sotto. Mangiamo qualcosa e ce ne andiamo.”

La seguì con lo sguardo mentre indossava gli stivali, raccoglieva le sue cose e usciva dalla stanza senza una parola di più.

Pensò che fosse la persona più strana che avesse mai incontrato.

 

*

 

La trovò seduta al tavolo più appartato – quello d'angolo – dello stanzone al pianterreno. Il pomeriggio stava ormai volgendo al termine e la locanda cominciava ad animarsi. Clint individuò senza troppa difficoltà gli ubriaconi abituali; erano quelli che sembravano essersi mimetizzati con l'ambiente e far parte del mobilio insieme a tavoli logori e sedie consunte.

Le finestre erano aperte e lasciavano entrare una luce calda e dorata, accompagnata da un vago olezzo di letame (vago perché vi si era ormai assuefatto, probabilmente).

Appoggiò il mucchio delle sue cose sulla sedia libera lì accanto e le si sedette davanti. La donna, senza una parola, spinse verso di lui un piatto pieno di una brodaglia rossastra in cui galleggiavano pezzi di ortaggi non meglio identificati. O forse carne di un qualche animale sconosciuto. Ma aveva fame e non si lamentò; si appropriò del cucchiaio abbandonato nel piatto ormai vuoto di Natasha e se ne servì per consumare il suo pasto.

La donna non fece alcun commento: era chinata su un libretto punteggiato da simboli fitti che sembrava assorbire tutta la sua attenzione. Lo riconobbe come quello che le aveva visto leggere nella chiesetta di padre Selvig.

“Stai studiando un nuovo incantesimo per farmi il malocchio?” Le chiese, sentendo la ferita al braccio tirare fastidiosamente.

“Fare il malocchio a te è come attaccare un ospedale per i poveri con un reggimento dell'esercito,” rispose atona, sollevando a malapena lo sguardo su di lui prima di rituffarsi nella lettura.

Gli venne da ridere, sinceramente e senza secondi fini.

“Non so come ho fatto a non accorgermene prima,” constatò incredulo.

“Di che?” Si fece guardinga, facendo vagare lo sguardo tutt'intorno come se Clint l'avesse messa in allerta riguardo un pericolo imminente.

“Sei divertente.”

La tensione le abbandonò le spalle, permettendole di rilassarsi... quel poco che Natasha sembrava essere in grado di rilassarsi, almeno.

“Se è un complimento, perché suona come un insulto?” Gli ritorse contro, apparentemente stizzita. Però doveva aver catturato la sua attenzione perché richiuse il libro, tenendo il segno con l'indice a separare le pagine spesse e unte, offrendogli una visuale d'insieme sul suo viso.

“Forse non sei molto abituata ai complimenti,” commentò allucinato.

Gli sembrò sul punto di insultarlo, ma non disse niente.

“Che stai leggendo?” Le chiese piuttosto, riprendendo a mangiare la sbobba che si era rivelata essere più saporita del previsto. Non seppe dire, però, se era un bene o un male. Sperò soltanto che qualcuno non ci avesse sputato dentro; Natasha ad esempio.

“Un libro.”

“Sul serio? Mi sembrava fosse un montone quel coso,” la sfotté per la risposta inutile.

La donna alzò gli occhi al cielo, irritata.

“Sono racconti,” si decise a dire.

“Racconti,” ripeté, come sovrappensiero. “Di che parlano?”

“Di un tizio che viene ucciso perché parla troppo,” rispose a tono, reclinando il capo di lato per incenerirlo più comodamente con lo sguardo.

“Wow, suona avvincente!” Finse di non aver colto l'allusione, e nascose un sorriso nell'ultima cucchiaiata di zuppa. “Voglio sapere cosa c'era qua dentro?”

“Probabilmente no.”

Le porte della locanda si aprirono e richiusero per lasciar passare un gruppetto di uomini sporchi e sudati; dei contadini che avevano appena smesso di lavorare, forse. Si portarono dietro un forte odore di animale e risate sgradevoli e raschianti.

Clint scoccò loro una rapida occhiata, ma Natasha li ignorò consapevolmente, tornando al suo libro. La osservò per qualche istante prima di decidersi a richiamare l'attenzione dell'ostessa per chiederle un po' di vino.

“Che ti ha detto il Mangiafuoco ieri sera?” Si decise a chiederle a mezza voce, quando fu sicuro di non essere ascoltato.

“Niente di rilevante.”

Stavolta la risposta non-risposta di Natasha lo irritò enormemente.

“Hai intenzione di trascinarmi in giro per il regno tenendomi all'oscuro di tutto?” Non aveva voglia di scherzare adesso.

“Sei libero di andartene in qualsiasi momento.” Si era innervosita e Clint non riusciva a capire perché.

“Avete lo stesso marchio,” gli uscì più come una constatazione che una vera e propria domanda.

La vide stringere i pugni, le nocche imbiancate e le dita contratte contro i palmi delle mani.

“Voglio sapere di che si tratta,” aggiunse, beccandosi un'occhiata di fuoco.

“Non ti riguarda,” sibilò a denti stretti. Più appariva calma e più era arrabbiata, ormai l'aveva capito.

“Sì, invece, se ci farà finire nella merda.”

I nuovi arrivati scoppiarono di nuovo a ridere alle loro spalle, qualcuno fischiò un paio di volte e per un orribile attimo Clint temette che i richiami fossero indirizzati a loro. Ci manca solo questa, pensò lugubre. Natasha, invece, continuava a fingere assoluta indifferenza.

“Non ti succederà niente. Ha a che fare col mio passato, puoi smettere di agitarti,” il tono era sostenuto e sulla difensiva.

“Non mi sto agitando.”

“Ehi, amico, perché non vai a farti un giro?” Clint rialzò lo sguardo per incontrare gli occhi acquosi di uno degli omaccioni che si stavano divertendo a loro spese, provvidenzialmente materializzatosi accanto al loro tavolo. Era fiancheggiato da un paio di compagni, ognuno dall'aria meno raccomandabile dell'altro; avanzi di galera sfuggiti dalle maglie della giustizia, era ovvio.

“Sto benissimo dove sto, amico.” Pensavano davvero che avrebbe abbandonato Natasha al suo destino? Ma per chi cazzo l'avevano preso? “Non ci sono più i criminali di una volta,” si lasciò sfuggire in tono incredulo. “Da quando in qua chiedete alla gente di fare il lavoro sporco al posto vostro?”

“Perché non chiudi quella fogna?” Domandò uno dei tre, il volto ripiegato in un grugno animalesco.

“Perché a differenza di qualcun altro ho ancora tutti i miei denti da mettere in mostra.” Le parole gli uscivano di bocca senza che avesse il tempo di riflettere; il che, di solito, era un pessimo segno. “Quanti denti avete? Cinque in tre? Un bel modo di risparmiare sul barbiere.” (*)

Qualcuno gli afferrò lo schienale della sedia e la trascinò all'indietro con lui sopra.

“Non siete carini,” sibilò un attimo prima che uno dei tre si avventasse su Natasha, stringendola per una spalla.

“Ti va una passeggiata, bellezza?” Una minuscola parte di Clint provò una pena infinita per quel coglione, ma l'altra – decisamente più rilevante – non vedeva l'ora che la donna gliele suonasse.

“Avviati che poi ti raggiungo,” furono le parole di Natasha che decretarono l'inizio delle danze.

Un attimo prima l'atmosfera era rilassata e placida, quello dopo si scatenò il caos.

La vide scostare bruscamente la mano del tizio e schiantergliela sul tavolo, conficcandogli nel dorso il coltello che aveva estratto senza farsi notare. Lo lasciò così, inchiodato al legno, mentre col pugno libero lo colpiva in pieno volto.

Clint era troppo preso dal moto di ammirazione che lo colse senza alcun preavviso per evitare il primo cazzotto, ma fu abbastanza pronto da schivare il secondo.

“Figlio di puttana,” imprecò a denti stretti, saltando in piedi per far fronte ai due che gli vennero addosso. “Se mi hai rotto lo zigomo te le suono di santa ragione.” Torse il polso ad uno e respinse con un calcio nello stomaco l'altro. “Se insistete ve le do di santa ragione comunque! Basta chiederlo per favore.”

Con la coda dell'occhio si accorse che gli amici dei tre brutti ceffi si erano uniti alla banda per dar loro man forte, ma Natasha se la stava cavando egregiamente e nemmeno lui era poi così male: scoprì con soddisfazione di ricordare ancora come si fa a botte.

Furono pochi minuti di traffici incomprensibili, al termine dei quali quattro corpi panciuti e gementi giacevano a terra, mentre il quinto era chinato sul tavolo, la mano ancora immobilizzata dal coltello.

Un dolore sordo gli stava pulsando nel braccio in corrispondenza della ferita, mentre metà della faccia sembrava sprigionare un calore impossibile.

“Andiamocene,” suggerì Natasha, raccogliendo in fretta le loro cose sotto gli sguardi basiti degli altri avventori e dell'ostessa che stava tornando indietro con una brocca di vino fresco.

Clint si rammaricò sinceramente di non poterlo assaggiare, ma togliersi di mezzo aveva la precedenza assoluta.

“Sei proprio bravo a sedare gli animi,” commentò Natasha mentre l'affiancava in direzione dell'uscita.

“Ho imparato dalla migliore,” le restituì a tono. Avrebbe tentato di essere più conciliante se lei non l'avesse fatto innervosire a suon di segretezza.

Aveva già una mezza idea di riallacciare le fila del discorso, quando – ormai a pochi passi dalla porta d'ingresso – il riquadro della soglia non si riempì di ombre scure e minacciose: gendarmi.

Frenarono di colpo, voltandosi praticamente all'unisono per tentare la fortuna dalla porta sul retro... ma altre tre divise blu si palesarono all'altro capo della stanza.

Erano circondati.

Li avrebbero arrestati.

Dopo avergli lanciato un'occhiata fugace, la donna alzò le mani a mo' di resa. Malgrado tutto, Clint imitò la sua posa.

“Ogni giorno con te è un dono di Dio,” la prese in giro.

Natasha non sembrò gradire la battuta.






(*) in passato era normale che i barbieri svolgessero alcune mansioni tipiche dei dentisti e dei chirurghi.

 

Note: un capitolo un po' più tranquillo (ma per poco, s'intende) per permettere ai nostri due eroi di conoscersi meglio (poco per volta anche questo). L'insofferenza di Clint nei confronti della segretezza di Natasha è solo all'inizio... ma staremo a vedere! Nient'altro da aggiungere per adesso :) Riusciranno i nostri eroi a togliersi dai guai? Lo scopriremo nella prossima puntata!
Intanto ringrazio chi legge & recensisce, ché mi fa sempre piacere, e ovviamente la sociabeta Eli :*
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo 9

~

 

 

“Cinque!” Sospirò Clint estasiato quando il gendarme si sistemò meglio sulla sedia, reclinando ulteriormente la schiena per far apparire quello che era a tutti gli effetti un quinto mento. “E' un miracolo che sia riuscito a diventare così grosso,” riprese a parlare, le sbarre della cella gelide contro il viso dolorante.

Si stava annoiando a morte e Natasha, rinchiusa nel buco subito accanto al suo, nascosta alla vista, non sembrava aver intenzione di dargli la benché minima relazione.

“Di solito solo i nobili diventano così,” continuò imperterrito. “Con tutta la carne e le stupide salsine che ingurgitano ogni giorno.” Parve illuminarsi, come colto da un'improvvisa rivelazione: “Per non parlare di vini e liquori!”

Subito dopo l'arresto erano stati condotti in un casottino dall'aria decrepita; qui erano stati fatti accomodare nelle migliori stanze del centro di detenzione. Nessuno aveva comunicato loro un bel niente. I gendarmi andavano e venivano senza una parola, grugnendo insulti o sputando direttamente sul pavimento. Dovevano essere passate a malapena un paio d'ore e Clint aveva la netta sensazione che la maggior parte dei silenti visitatori che avevano ricevuto erano lì per Natasha. Per darle un'occhiata e poi ritirarsi coi propri, oscuri pensieri.

“Non credo si possa dire che abbia la gotta, ti pare?” La interpellò di nuovo, anche se ormai era più che sicuro che l'avrebbe ignorato ad oltranza. Si divertiva a stuzzicarla, però, ed era l'unico passatempo che gli veniva in mente. “E' più come se la gotta avesse lui, capisci?”

Il gendarme – c'era solo lui a far loro la guardia in quel momento – cominciò a russare sonoramente. Era seduto (ma piuttosto schiacciato) tra la parete di pietra e un piccolo tavolo traballante su cui era appoggiato un registro lercio e polveroso. Accanto al libro una bottiglia di lurido vetro, ricoperta di ditate su tutta la superficie e una candela che era l'unica fonte di luce dell'intero bugigattolo. Il sole era tramontato da un pezzo e la luna, dopo aver attraversato le strette finestrelle in prossimità del soffitto a travi scoperte, illuminava quietamente il pavimento delle celle.

“La vedi quella gotta? S'è presa un uomo.” Le parole rimbombarono nel niente.

Sbuffò sonoramente e valutò per l'ennesima volta se sedersi o meno: di solito non era un tipo schizzinoso, ma il pavimento di quell'angusto spazio gli dava il voltastomaco – non voleva neanche sapere che diavolo fosse successo là in mezzo.

“Continuo a ripensarci.” Aveva cambiato tono e si era rifatto più serio. “Perché non abbiamo combattuto? Ti sei arresa subito.”

Inizialmente c'era solo il silenzio a rispondergli, ma poi sentì Natasha sospirare. Se l'obbiettivo della serata era logorarle i nervi, ritenne di esserci riuscito abbastanza bene.

“La tua faccia.”

“La mia faccia? Cos'ha che non va la mia faccia?”

“A parte il fatto che assomiglia a un tamburo? Tutto a posto.”

Nonostante il momento delicato e tutt'altro che opportuno – poiché la battuta era del tutto a sue spese – Clint sbuffò una risata incredula.

“Li hai visti gli avvisi affissi all'ingresso?” Fu di nuovo Natasha a parlare.

Come avrebbe potuto mancarli? C'erano fogliacci sparsi per tutto il pavimento, sudici e marchiati da una miriade di impronte.

“Ce n'era uno con la tua faccia,” aveva abbassato la voce. “Ma sei gonfio come il tizio là dietro, al momento.”

“Questo è un colpo basso. Non assomiglio per niente a quello lì,” era indignato, ma si sforzò comunque di mantenere il volume al minimo, toccandosi distrattamente il volto gonfio per le botte ricevute. Ci mancava solo di rivelarsi come un ricercato con una succulenta taglia sulla testa per concludere a gloria la giornata. Ed era già di per sé piuttosto impressionante dato che aveva dormito per almeno metà di quella: eppure, aveva ugualmente trovato il modo per fotterlo.

“Il sole ti ha anche scurito la pelle,” aggiunse Natasha, del tutto non richiesta.

“Oh, ecco perché mi hanno dato di zingaro,” ragionò tra sé, ricordando il commento di uno dei sei gendarmi che si erano presentati alla locanda per arrestarli.

L'aspetto positivo era che sembravano essere lì per la rissa e nient'altro. Dovevano essere nei paraggi quando il caos era esploso nel piccolo locale, ed erano accorsi per sedare immediatamente gli animi. Ovviamente avevano fermato le persone sbagliate, ma questo non lo sorprendeva affatto. Era una cosa che tendeva ad accadere spesso.

Dall'esterno, il rumore di zoccoli sul selciato si ripercosse nell'aria, facendosi sempre più insistente: un gruppo di uomini a cavallo si era fermato all'esterno dell'edificio.

“Soldati,” bisbigliò Natasha, il tono neutrale di chi doveva aver previsto anche quel contrattempo.

Ci fu un gran movimento e, subito dopo, delle voci nel corridoio adiacente alla stanza in cui erano tanto comodamente alloggiati.

“Dove sono tutti?” La domanda era imperiosa e velata di una tacita minaccia.

“I-In giro?” La risposta, invece, incerta e traballante.

Si immaginò un ragazzino brufoloso a far guardia all'edificio e non gli parve poi così improbabile. Le istituzioni dei piccoli paesini avevano il vizio di fare un po' come volevano. Interpretavano le leggi a loro piacimento, così come i preti più avidi riuscivano a far dire alla Bibbia che Dio aveva comandato tutti i contadini di regalare metà dei loro prodotti al vicario se non volevano finire all'inferno. Furbastri pieni di astuzia e privi del benché minimo scrupolo.

“In giro.” Ripeté la voce severa, disgustata. “Va' a chiamarli subito se non volete che vi denunci tutti.”

“Sissignore.”

Clint si mise a giocherellare con uno dei bottoni del gilet, chiedendosi perché non avessero tentato la fuga se le misure di sicurezza di quel letamaio consistevano in un adolescente butterato e un ciccione narcolettico.

“Stanno arrivando,” mormorò Natasha. “Apriranno la mia cella,” gli disse in fretta, “quando lo fanno, spegni la candela.”

Fece una smorfia e balzò in piedi, affatto sicuro d'aver capito (sì, alla fine la pigrizia aveva vinto sul pavimento lercio). Prima di tutto perché avrebbero dovuto aprire la sua cella? E come si aspettava che riuscisse a spengere la candela, rinchiuso com'era in quel ritaglio di pietra? Se la prima domanda lo metteva non poco a disagio, la seconda gli aveva suscitato una sorta di bizzarro orgoglio. Natasha non gli aveva chiesto se era in grado di farlo, l'aveva dato per scontato.

Avrebbe voluto ribattere, ma l'acustica del corridoio portò loro nuove voci trafelate. Il ragazzino doveva aver tirato giù dal letto gli altri gendarmi. Passi in avvicinamento si arrestarono poco prima di raggiungerli.

“Q-Questo posto è sempre così tranquillo,” blaterava qualcuno con inflessione desolata.

“State zitto, che è meglio,” intimò un altro. “C'è un ricercato qua in giro, lo sapete?”

“Certo.” Aveva risposto un po' troppo rapidamente. “Lo sanno tutti cos'ha fatto... come h-ha...” Un pessimo tentativo di costringere l'interlocutore a dare informazioni che avrebbe già dovuto avere, ma che per disdetta – o completa non professionalità – gli mancavano.

Ci fu un breve silenzio e poi (quello che Clint supponeva essere) il soldato tirò su col naso e sputò a terra. Veri uomini del re, pensò disgustato.

“Ha attentato alla vita del capitano Rogers,” decretò infine.

“O-Oddio,” biascicò l'altro, dimenticandosi di simulare consapevolezza di fronte alla rivelazione. “E' m-morto?”

“No, fortunatamente no.” Cint si ritrovò a sgranare gli occhi mentre un peso insopportabile gli abbandonava il petto. “Ma qualcuno l'ha rapito dall'ospedale in cui era ricoverato.”

“C-Chi farebbe mai una cosa del genere?”

“Senza dubbio un complice dell'attentatore.” Senza dubbio? “Deve avere amici piuttosto potenti. Lui e l'intera famiglia sono spariti nel niente... per ora.”

Il cuore aveva preso a battergli all'impazzata nel petto. Lord Phillip era sparito? E con lui il resto degli abitanti di villa Coulson? Tutti i suoi più orribili sospetti si concretizzarono in un istante: qualcuno aveva ritenuto lord Phillip colpevole di aver orchestrato l'assassinio del capitano, accuse gravi al punto da costringerlo a fuggire insieme a lady Melinda e i suoi protetti.

“Mi è stato detto che avete dei prigionieri,” la voce perentoria aveva ripreso la parola, impedendo al gendarme di commentare in alcun modo.

“Sì, una donna e uno zingaro,” rispose quello, sforzandosi di suonare sicuro di sé e padrone della situazione. Clint, che stava continuando a tormentare il bottone del gilet dal nervosismo, non aveva bisogno di guardarlo in faccia per immaginarsi la sua patetica espressione.

Seguirono altri passi che condussero i due uomini al loro cospetto. Clint si era riavvicinato alle sbarre per sbirciare oltre e guardarli in faccia; intravide altri due soldati dietro la casacca blu del gendarme. Ci fu un attimo di totale silenzio. I tre soldati presero atto – con supremo disgusto, a giudicare dalle loro espressioni – della presenza del carceriere addormentato (e apparentemente tutt'altro che intenzionato a svegliarsi per una bazzecola del genere); un secondo dopo l'ufficiale si fece avanti sguainando la spada. Lanciò un'occhiata penetrante all'interno della cella di Natasha, proseguendo poi verso la sua.

“Sta' indietro,” gli ordinò, facendo tintinnare la punta della lama contro le sbarre col chiaro intento di intimidirlo. “Ho detto,” ripeté, contrariato dalla lentezza mentale di Clint che non aveva obbedito immediatamente, “sta' indietro, prigioniero.”

Prigioniero. L'appellativo gli fece tornare in mente quei giorni oscuri trascorsi in gattabuia di tanti anni prima, in un buco persino più brutto di quello, senza aria, né luce, solo il tanfo del suo compagno di cella che non aveva detto nulla per tutto il tempo. Quando erano arrivati per portarlo al patibolo, mentre lo trascinavano via di peso, con una fugace occhiata nell'angolo più buio della stanza, Clint aveva capito di aver condiviso l'alloggio con un cadavere.

Il soldato accennò a punzecchiarlo direttamente nello stomaco e solo allora si decise ad indietreggiare. Abbandonò le braccia lungo il corpo, rigirandosi tra indice e pollice della mano sinistra il bottone che era riuscito a staccare dal gilet.

L'ufficiale lo fissò attentamente in viso, fece una smorfia e si allontanò senza una parola di più. Neanche lui l'aveva riconosciuto. Il cazzotto che aveva preso alla locanda doveva aver avuto l'effetto di deformargli la faccia, il che – per una volta tanto – era un bene.

“Lasciatemi le chiavi di questa,” l'uomo era tornato a rivolgersi al gendarme che l'aveva accompagnato, e adesso indicava con un dito la cella di Natasha. “Potrebbe avere informazioni utili.”

Provò un moto di nausea improvviso che si accorse essere provocato dalla rabbia. Capì che la sicurezza con cui la donna aveva profetizzato quel momento dipendeva dall'abitudine. Quante volte era stata rinchiusa in prigione? Quante le era capitato di essere visitata da chi avrebbe dovuto far rispettare la legge? In quante altre tutto era stato calcolato in vista di una pronta evasione e quante, invece, non era stata in grado di difendersi?

“Ne siete sicuro?” Il gendarme ebbe il buonsenso di mostrarsi contrariato. “Dubito che sappia qualcosa di rilevante. E' solo una donna.”

“Lasciatemi le chiavi e lo scopriremo,” insisté l'altro, il tono persino più gelido e perentorio.

Clint sperò, suo malgrado, che il gendarme si opponesse, ma dopo qualche attimo di incertezza optò piuttosto per consegnare le chiavi al superiore. Non voleva guai, men che meno per assurde questioni morali.

“Tornate a fare quello che facevate prima,” suggerì l'ufficiale con sufficienza. “Dormire o starvene in giro.”

Anche al lume dell'unica candela accesa, Clint indovinò il rossore che andava diffondendosi sul volto del gendarme. Lanciò un'occhiata desolata in direzione della cella di Natasha e poi sparì nel corridoio, riconoscendo infine la schiacciante autorità dei soldati.

Ci fu uno sferragliare inconsistente e poi il cigolare della chiave nella serratura. L'ufficiale aveva rinfoderato la spada e consegnato la cintura che si era sfilato ad uno dei suoi uomini.

“Assicuratevi che non arrivi nessuno,” disse prima di aprire la porta e richiudersela alle spalle.

La voglia di vomitare continuava a riempirgli lo stomaco, ma Clint si costrinse a focalizzare. Natasha l'aveva anticipato e sapeva il fatto suo, lasciarsi gettare nel panico dalla preoccupazione non avrebbe avuto alcun senso. Aspettò, invece, che i due soldati dessero le spalle alla stanza, stazionandosi a guardia del corridoio d'accesso. Dopodiché si riaffacciò alle sbarre, calcolando la distanza che lo separava dalla candela.

“Se ti comporti bene potrei farti uscire di qui.” La voce viscida dell'ufficiale rischiava di deconcentrarlo. Si sforzò di relegarla in un punto cieco e sordo della sua testa. Appoggiò il bottone sul palmo rivolto all'insù della mano destra, incastrandola tra le sbarre a mo' di rampa di lancio. Unì indice e pollice della sinistra a formare un piccolo cerchio. Il gesto gli era famigliare: suo fratello gli aveva insegnato a spaccare le bottiglie servendosi solo di una monetina di rame. Se scagliata con forza sufficiente, riusciva ad infrangere il vetro come fosse stato burro. Ci aveva messo un bel po' a cogliere il meccanismo, ad imitare Barney non solo nei movimenti, ma anche nei risultati. E persino in quel momento, rinchiuso in gattabuia mentre l'ufficiale schifoso tentava di convincere Natasha a collaborare, Clint desiderò che ci fosse suo fratello al suo posto. Perché sapeva sempre cosa fare, perché appariva sempre perfettamente padrone della situazione, perché le mani non gli avrebbero tremato in quel modo indecente.

Sta' calmo, si impose. Come se stessi tirando con l'arco.

Inspirò ed espirò ripetutamente, rallentando il respiro, il battito impazzito del proprio cuore. Prese la mira, cancellando qualsiasi rumore, qualsiasi oggetto o consapevolezza inutile, finché le sue percezioni non si ridussero al bottone nella sua mano e alla candela sul tavolo del gendarme addormentato. Passarono pochi secondi, vischiosi, lunghissimi. L'indice fece forza contro la resistenza del pollice e infine scattò libero, colpendo il bottone sul palmo rigido e disteso della mano, scagliandolo a velocità impressionante attraverso le sbarre e dritto verso la candela.

Il proiettile improvvisato colpì lo stelo di cera prima di scivolare silenziosamente giù dal tavolo. Trattenne il respiro mentre il moccolo oscillava sulla sua base d'ottone, sempre di più, sempre di più... finché non perse l'equilibrio e si adagiò su un fianco.

Non si spense, ma la fiamma si appiccò rapidamente alle pagine unte del registro dei prigionieri, rosicchiandone avidamente le pagine prima di avvampare furioso. Il gendarme si risvegliò di soprassalto e cominciò a gridare come un pazzo. Spinse bruscamente il tavolo di lato, mandandolo a sbattere contro la parete con forza sorprendente.

Non parve curarsi né di lui, né di Natasha, né tanto meno dell'ufficiale nella cella, o dei soldati di guardia al corridoio. Questi ultimi, allarmati dalla luce improvvisa e dalle grida dell'uomo erano rientrati con le spade sguainate. Si maledì: non era quello il diversivo che Natasha aveva chiesto.

“Che diavolo state lì impalati?!” La voce furibonda dell'ufficiale. “Correte a prendere dell'acq-” Le parole si smorzarono senza alcun preavviso, ma i due erano stati reattivi ed erano già sfrecciati via per eseguire gli ordini.

Intanto, nel tragitto che lo separava dal corridoio – unica via d'uscita – il gendarme sovrappeso, sprofondato nel panico più totale, passò di fronte alle sue sbarre. Clint riuscì a sfilargli il mazzo di chiavi che teneva su un lato della cintura senza che se ne accorgesse – fortunatamente erano solo tre e non gli ci volle molto per trovare quella giusta.

Uscì in tutta fretta, proprio mentre Natasha faceva altrettanto. Si scambiarono una rapida occhiata. Il fuoco si era propagato dal registro al tavolo, espandendosi rapidamente. Da fuori, invece, le voci si intensificavano: stavano arrivando rinforzi.

“Il soffitto,” sibilò Clint. Non dovette dire altro perché la donna cogliesse le sue intenzioni. Prese la rincorsa e utilizzò la sedia per spiccare un salto e aggrapparsi alle travi... che tuttavia si rivelarono più marce di quanto pensasse. Fantastico. Non sapeva per quanto avrebbero retto il loro peso, ma temeva non sarebbe stato a lungo.

Tirò su le gambe e si agganciò al legno anche con le caviglie, cominciando a spostarsi orizzontalmente, ignorando gli insetti che si nascondevano nelle intercapedini del soffitto. Davvero fantastico.

Soldati e gendarmi accorsero in massa, macchie blu e rosse, qualcuna armata di un secchio pieno d'acqua. La rovesciarono sul tavolo, senza riuscire a sedare le fiamme in un colpo solo.

“Dove sono i prigionieri?” Urlò uno dei militari, mentre un gendarme si faceva avanti per spegnere il fuoco facendo aria con una coperta... non un'idea grandiosa.

I compagni riuscirono a strappargliela di mano solo quando fu troppo tardi, e anche la sedia era stata inghiottita dalla vampa improvvisa. Il calore risaliva al soffitto e così il fumo che iniziò a pizzicargli gli occhi. Mentre si spostavano al di sopra della stanza e verso il corridoio, si chiese che razza di problema avesse col fuoco e se non avesse sempre avuto la celata ambizione di diventare un fottuto incendiario.

“Tenente?” Uno dei soldati stava richiamando l'ufficiale. “Tenen- MERDA!”

Qualsiasi sorpresa Natasha avesse preparato, sembrava che il soldato l'avesse scoperta. Altri gendarmi accorsero armati di brocche, bottiglie e secchi, brulicando nello stretto spazio tra le pareti. Clint fu costretto a fermarsi, perché la porta era troppo bassa e impediva di proseguire appesi alle travi. Aspettò che il corridoio si sgombrasse prima di lasciarsi cadere a terra e spiccare una rapida corsa. Si volse per assicurarsi che Natasha lo stesse seguendo, ma poi una porticina aperta su una stanza laterale deserta attirò la sua attenzione. Tra un paio di tavoli, cinque brandine sudice e armi sparse un po' ovunque, facevano bella mostra di sé le loro cose, sequestrate al loro arrivo e gettate alla rinfusa sul pavimento. Provò una fitta d'indignazione: c'era il suo arco là in mezzo!

“Barton!” Chiamò Natasha, vedendolo deviare di lato senza alcun preavviso.

“Va', ti raggiungo!” La rassicurò, afferrando le bisacce prima di rilanciarsi nel corridoio e seguirla fino all'esterno.

Puntarono dritto ai cavalli legati alla postazione d'ingresso. Le consegnò le sue cose mentre lei si occupava di slegare tutte le bestie tranne le due che avrebbero preso in prestito per fuggire.

“D-Dove credete di andare? EHI!” Clint si issò in sella, voltandosi appena in tempo per accorgersi del ragazzino che gli stava puntando contro una spada tremolante.

“Fossi in te cambierei professione, ragazzo,” gli suggerì. “Qualcosa di più onesto, che ne dici?”

Natasha lo fulminò con lo sguardo prima di spronare la propria cavalcatura fuori dallo spazio antistante la prigione e oltre la strada principale.

Clint la seguì senza esitazioni, dopo aver rivolto un ridicolo cenno di saluto al ragazzetto – che brufoloso lo era davvero.

Tutt'intorno solo gli echi delle grida degli uomini nella prigione e il buio della notte.

 

*

 

Cavalcavano ormai da svariate ore quando il temporale li sorprese in aperta campagna. Il cielo sembrava una distesa di pece scura e appiccicosa, occasionalmente illuminata a giorno da lampi e fulmini improvvisi. L'acqua arrivò con qualche istante di ritardo sul concerto di boati che li aveva accompagnati fuori dal bosco dove si erano addentrati in cerca di copertura; trovarono una via d'uscita, entrambi tacitamente decisi a non farsi beccare dalla tempesta in mezzo a tutti quegli alberi.

Smontarono in prossimità delle rovine di quella che doveva essere stata una chiesa, o forse un castello nobiliare. Della costruzione erano rimaste in piedi sporadiche pareti in diversi stati di crollo; del tetto, invece, solo pochi stralci. Il soffitto era quasi del tutto scoperchiato e aperto alle intemperie, mentre il pavimento sembrava essere stato riassorbito dalla vegetazione: l'erba lo ricopriva come un tappeto, nascondendo quel poco che ne rimaneva alla vista.

Dovettero cedere la zona riparata più ampia ai cavalli e rifugiarsi in un minuscolo fazzoletto di pietra in cui riuscivano a malapena a star seduti, l'uno accanto all'altra, già mezzi fin nelle ossa.

Natasha era ripiombata in un silenzio ostico e orgoglioso permeato di stanchezza, il cappuccio del mantello calato sugli occhi e i capelli bagnati.

Clint non aveva bisogno della luce del giorno per accorgersi di quanto fosse esausta. Tentò di ricordare un'occasione qualsiasi in cui l'aveva vista dormire e si accorse che non c'era stata una singola volta in cui era stato lui a svegliarsi per primo. C'era solo il buon senso ad impedirgli di sospettare che la donna non avesse mai realmente dormito in sua presenza. Doveva essersi concessa solo le poche ore necessarie a rimanere funzionale, sacrificando il resto sull'altare delle misure di sicurezza. Si sentì offeso dalla considerazione, come se Natasha non si fidasse abbastanza di lui da abbandonarsi ad un meritato sonno ristoratore, o da credere che potesse cavarsela anche senza la sua continua supervisione. Un pensiero si fece strada tra i tanti che gli si muovevano scompostamente nel cervello: forse lo stava tenendo d'occhio. Magari non era questione di fiducia, ma di controllo.

“Stai bene?” Si costrinse a chiederle, anche se non lo stava guardando.

La pioggia scendeva fitta e copiosa; l'erba ne assorbì quanto poté prima che il terreno cominciasse ad allagarsi.

“No,” fu la secca risposta di lei. “Tu?” Gli ritorse contro la domanda, ma Clint capì che non aveva voglia di parlare.

“No,” le fece eco. “Dovresti dormire. Non hai un bell'aspetto.”

“Grazie,” commentò sarcastica, senza divertimento nella voce.

Non aggiunse nient'altro, limitandosi a spiarla con la coda dell'occhio. Circondò con le braccia le ginocchia portate al petto e vi appoggiò il capo. La vide socchiudere gli occhi, ma non poteva giurare che non stesse facendo finta di riposare.

Insisté sull'idea per qualche attimo, prima che la testa pesante, le gambe indolenzite per la cavalcata e l'attutito, fastidioso pulsare della ferita al braccio – sicuramente riaperta durante lo scontro alla prigione – non ebbero la meglio. Decise che in fin dei conti non lo riguardava. Se voleva ammazzarsi d'insonnia, era la benvenuta.

Cercò una posizione comoda e scivolò in un sonno leggero e disturbato.

 

*

 

Non seppe cosa l'aveva svegliato di preciso, non ebbe neppure il tempo di pensare. Riaprì gli occhi su un'ombra enorme che gli oscurava quasi del tutto la visuale. La macchia informe teneva sopra la testa una gigantesca mazza chiodata che stava per abbattersi su di lui senza troppe cerimonie.

Porco cazzo, imprecò mentalmente, troppo rallentato dal sonno per formulare la maledizione ad alta voce.

Scartò di lato, rotolando sull'erba ancora bagnata. Era a malapena l'alba e di Natasha non c'era neanche l'ombra. In compenso un uomo cresciuto a dismisura, avvolto in quello che aveva l'aria di essere il saio più grande che Clint avesse mai visto, sembrava del tutto intenzionato a fargli la festa. Scattò in una corsa sconnessa fino al punto in cui avevano lasciato i cavalli e le bisacce. Riuscì ad estrarre l'arco e a sistemarsi sulla schiena la faretra prima che il monaco impazzito non lo caricasse di nuovo.

“Possiamo almeno provare a parlarne?!” Gli gridò contro, scoccando una freccia che lo colpì ad un polpaccio. Si era aspettato di vederlo almeno rallentare, ma non successe niente del genere, come se la ferita non gli avesse fatto altro che un po' di solletico.

Clint inorridì e saltò all'indietro un secondo prima che la mazza non disegnasse a mezz'aria l'ennesima parabola invisibile e si schiantasse al suolo, spezzando il pavimento di pietra nascosto tra l'erba.

Il monaco era massiccio, alto e imponente. Gli fece venire in mente il Mangiafuoco, la stessa barba lunga e folta, i baffi spessi ma trasandati. A differenza di Boris, però, era completamente calvo, con una croce tatuata sulla fronte spaziosa.

“Non dovresti essere da qualche parte a pregare?” Domandò, anche se già sapeva che farlo ragionare sarebbe stato impossibile. Che cazzo si aspettava da un monaco armato di mazza chiodata?

Puntò sull'agilità, ma per quanto apparisse pesante l'uomo era anche veloce: non importava quanto in fretta Clint scartasse e schivasse i suoi colpi, quello gli era costantemente addosso. Scagliò una, due, tre frecce. Le prime due lo colpirono al braccio e al piede, sortendo il medesimo risultato di quella che ancora gli sporgeva dal polpaccio: il nulla. La terza, invece, mancò il bersaglio perché nell'indietreggiare Clint era inciampato nel suolo sconnesso, deviando il colpo che riuscì a malapena a scalfirgli la guancia destra.

Non fece in tempo a rialzarsi che il monaco era di nuovo all'attacco, la mazza sollevata sopra la testa. Rotolò di lato e i chiodi lo mancarono per un soffio prima di incastrarsi nel terreno. L'alzò di nuovo, con ritmo impressionante; stavolta fu costretto a darsi la spinta sull'altro fianco per evitare che gli riducesse la faccia ad una poltiglia melmosa.

Perse tempo cercando di imbracciare l'arco, anche se non era sicuro di poter tirare ad una distanza tanto ravvicinata. Il monaco ne approfittò per piantargli un grosso piede sullo stomaco e immobilizzarlo – si sentì come il raro esemplare di farfalla spillato su una tela per mano di un sadico collezionista.

Il cuore gli batteva furiosamente in petto mentre la consapevolezza di essere spacciato scendeva su di lui come una pioggia fitta e gelida. La mazza si risollevava, minacciosa e fatale, con la promessa di una morte orribile.

“Molot!” Il richiamo di Natasha costrinse il monaco a voltarsi, ma non abbastanza rapidamente da impedire che la donna gli saltasse sulla schiena e si arrampicasse sulle sue spalle. Aveva un pezzo di corda per le mani e glielo strinse al collo, cavalcandolo come avrebbe fatto con un toro imbizzarrito.

Approfittando della distrazione del gigante – che adesso agitava la mazza sconnessamente, nel tentativo di sbarazzarsi di Natasha – Clint gli sferrò un calcio tra le gambe per obbligarlo a liberarlo dalla pressione del piede. Funzionò e poté ritirarsi e rimettersi in piedi, incoccando l'ennesima freccia alla velocità della luce.

Avrebbe voluto chiederle chi diavolo fosse, ma il monaco riuscì a togliersela di dosso. Natasha restò arpionata al cappuccio del saio mentre atterrava elegantemente a terra con una capriola, la corda nella mano libera. Pur di non lasciarsi strangolare dall'orlo della veste, l'uomo la stracciò a mani nude, come se la stoffa, invece che di lana grezza, fosse fatta con la sottile carta giapponese dei ventagli di lady Melinda.

Fece roteare la mazza e indietreggiò per fronteggiarli entrambi. Rivelava, adesso, il torso nudo grosso e muscoloso, ricoperto da una quantità infinita di tatuaggi.

“E' amico tuo? Posso ficcargli una di queste tra gli occhi?” Le chiese trafelato e arrabbiato, alludendo alle poche frecce che gli erano rimaste. Uccidere non era esattamente il suo passatempo preferito, ma aveva capito che avere la meglio su quella montagna nel corpo a corpo sarebbe stato quasi impossibile, anche nell'attuale situazione di due contro uno.

“Sei il benvenuto,” l'invitò lei, un attimo prima che Molot tornasse all'attacco.

Si scagliò sulla donna, continuando a brandire la mazza come un tamburello, agitandola con agilità inquietante, abbassandola e rialzandola quasi a ritmo di musica. Per qualche assurdo istante, Clint – che dovette ben presto accorgersi che in quell'azzuffarsi e spostarsi incessante non sarebbe stato facile trovare una traiettoria pulita sul monaco – pensò che si fosse messo a cantare. Ma no, non erano le note di una canzone quelle che gli uscivano imperterrite di bocca.

Stava pregando. In una lingua che Clint non conosceva e che intuì essere la stessa con cui Natasha aveva comunicato col Mangiafuoco.

Lo sguardo andò a cercare un segno ben preciso sul torace ampio e possente del monaco, finché non ebbe individuato quel che cercava: era oscurato dall'enorme tatuaggio di una corona di spine, ma il marchio a forma di clessidra era inconfondibile.

Natasha aveva estratto un coltello e gli si era avventata addosso, scivolandogli tra le gambe divaricate per ricomparirgli alle spalle. Gli conficcò la lama nel fianco scoperto.

“Abbassati!” Le urlò, un attimo prima che la mazza non ruotasse violentemente all'indietro. Ne approfittò per scoccare la freccia – la punta di ferrò andò ad infossarsi tra le scapole del gigante.

Solo un leggero grugnito interruppe la cantilena della preghiera e solo per un istante. Sembrava un San Sebastiano abnorme, scuro e furente contro la debole luce del giorno, gli steli neri delle frecce che si protendevano dalla sua carne come fiori sinistri, lo zelo religioso a tenerlo miracolosamente in piedi.

“Qualche suggerimento?” Insisté, adesso che Natasha indietreggiava rapidamente per affiancarlo.

“Dobbiamo atterrarlo,” esalò, rossa in viso, gli occhi cerchiati di nero e il fiato corto. Non si era riposata, Clint realizzò, e non ci sarebbe voluto troppo perché la stanchezza avesse il sopravvento. Non avrebbe potuto combattere ancora a lungo senza correre seri rischi.

Un'idea gli balenò davanti gli occhi. Le sfilò la corda mozza di mano e lasciò cadere a terra l'arco e la faretra ormai mezza vuota.

“Ci penso io,” le disse. “Tu distrailo.”

Natasha annuì e lanciò il coltello a mezz'aria, riafferrandolo per il manico. Lo impugnò meglio prima di scagliarlo addosso al monaco.

Mentre il gigante barbuto si impegnava a schivare la lama (e ci riuscì, intercettandolo con la mazza), Clint gli rotolò tra le gambe, annodandogli la corda attorno alla caviglia sinistra. Afferrò la freccia che gli aveva conficcato nel polpaccio pochi attimi prima e la estrasse con violenza, strappando la carne con un gesto netto; un fiotto di sangue caldo e vischioso andò a macchiare l'erba. Molot gettò un urlo, profondo e furente, e Clint ne approfittò per rimettersi in piedi alle sue spalle tirando a sé la corda.

Il dolore al polpaccio e il diversivo di Natasha, riuscirono a distrarlo a sufficienza per fargli dimenticare di tenersi ben piantato sui suoi enormi piedi. La corda gli fece perdere l'equilibrio e un secondo dopo, con un tonfo sordo, la montagna di muscoli e tatuaggi era a terra.

Clint fece appena in tempo a formulare l'ipotesi di stordirlo, lasciarlo privo di sensi e andarsene – convincerlo a lasciarli andare era impensabile – che Natasha gli si era avventata addosso, piantandogli un pugnale nel collo, spingendo finché non ebbe incontrato la resistenza del terreno.

Gli occhi del monaco si sgranarono bruscamente in un'espressione di cieco orrore. Un ultimo soffio – la conclusione dell'ennesima preghiera – gli sfuggì dalle labbra mentre la barba gli si tingeva del porpora cupo del suo stesso sangue.

Un sole rosso e nebbioso stava sorgendo quando Natasha ritrasse lentamente le mani sporche che le tremavano.

Fissò il cadavere a lungo, restandogli inginocchiata di fianco.

 



 

Note: comincio promettendo che dal prossimo capitolo si riveleranno tutte le carte in tavola (o almeno quella più importante) e smetterò di tormentare Clint e voi :P intanto il marchio a forma di clessidra ha fatto la sua comparsa per la terza volta su un personaggio che ho scippato dal fumetto dedicato alla Vedova Nera di Nathan Edmondson, il flippatissimo Molot. Che ci ha già lasciati... RIP Molot.
Oltre a questo nient'altro da dire a parte tenete duro che la verità è vicina! ù_ù Intanto ringrazio chi legge & commenta che mi fa sempre tanto piacere, e alla sociabeta Eli perché sclerare in compagnia è più divertente!
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo 10

~

 

 

Impiegarono quasi due ore a spostare il cadavere di Molot in un punto meno in vista. Due ore trascorse in assoluto silenzio se non fosse stato per le occasionali istruzioni di Natasha.

Quando l'aveva vista, inginocchiata davanti al corpo del monaco con lo sguardo assente e le mani sporche di sangue che le tremavano, credeva che sarebbe svenuta. Ma si era rimessa in piedi senza una parola ed era precipitata nel furore pragmatico che la prendeva tutte le volte che c'era qualcosa da fare.

All'inizio era stata la preoccupazione a prendere il sopravvento, ma poi, man mano che i minuti scivolavano via insieme alle gocce di sudore che gli avevano imperlato la fronte, Clint cominciò ad innervosirsi. E poi ad arrabbiarsi senza soluzione di continuità.

Mentre trascinavano a fatica quell'ammasso d'uomo, mentre faceva correre lo sguardo affaticato sui tatuaggi che gli riempivano il petto, realizzò che non poteva essere stata una coincidenza. Certo, era possibile che il monaco fosse lì per lui, per intascarsi la taglia che l'esercito aveva tanto gentilmente messo sulla sua testa; eppure il religioso pazzo e armato di mazza chiodata che recita preghiere per propiziare un'uccisione non gli suonava esattamente come il prototipo del cacciatore di taglie perfetto. Inoltre c'era la questione del marchio che condivideva con Natasha e il mangiafuoco, tutti e tre accomunati dalla stessa lingua e – Clint suppose – dalla stessa terra d'origine.

La frustrazione che gli andava crescendo in prossimità dello stomaco, però, non aveva a che fare con l'essere stato quasi ammazzato per una presunta colpa di Natasha. Era il fatto che lei non avesse azzardato neanche una spiegazione, due parole per dirgli che cazzo stesse succedendo. No, continuava a trincerarsi in quell'assoluto, maledetto silenzio che lo faceva sentire un imbecille. Come un padre che nasconde le verità più banali al figlio per proteggerlo da chissà che incresciosa scoperta. Solo che Clint non era un ragazzino bisognoso di essere salvato e di certo neanche il frutto dei lombi di Natasha – questo sì che l'avrebbe traumatizzato a vita.

Gettarono il corpo in quello che aveva l'aria di essere un canale di scolo, abbandonato così come i campi che circondavano le rovine della chiesa. Con la notte non aveva potuto accorgersene, ma lo stato di decadenza della campagna era andato aggravandosi da quando si erano lasciati alle spalle il villaggio dopo il ponte di pietra. Fatta eccezione per sporadici gruppi di militari individuati nella distanza del paesaggio e in marcia verso neanche lui sapeva bene dove, non un'anima viva avevano incrociato sul loro cammino – il che non gli dispiaceva particolarmente, anche se quell'atmosfera da paese fantasma non contribuiva di certo a tranquillizzarlo.

Rimase fermo a guardare mentre Natasha si affrettava a mimetizzare il cadavere con frasche e foglie, finché non venne a formarsi una montagnola di verde dall'aria improbabile. Le spalle di lei si abbassavano e rialzavano in rapida sequenza sotto l'impeto disarticolato del respiro affannato. Era stanca morta, ma non pareva aver intenzione di fermarsi tanto presto.

“Conti di dirmi che cazzo è appena successo?” Le chiese mentre si stava riarrampicando sul pendio che separava il piano dal canale inaridito.

“Ci siamo sbarazzati di un cadavere,” rispose incolore, superandolo senza degnarlo neanche di uno sguardo.

Il cuore prese a battergli disordinatamente in petto, rimbombandogli fin nelle orecchie. La seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso le rovine presso cui avevano lasciato le loro cose.

Fu un attimo: decise che ne aveva avuto abbastanza.

“Non prendermi per il culo.” L'aveva raggiunta e afferrata per un polso per costringerla a voltarsi e fronteggiarlo.

Natasha si girò con uno scatto repentino, strattonando violentemente il braccio per farsi lasciare, gli occhi accesi da una luce sinistra che parlava di indignazione, ira e paura. Per un istante sembrò essersi dimenticata dove fosse e con chi, come se quella particolare situazione, per lei, fosse ordinaria amministrazione.

Trattenne la presa nonostante il disagio, tentando di farle capire che non voleva farle del male, solo ottenere delle spiegazioni.

“Lasciami andare,” sibilò non appena si fu riappropriata delle proprie facoltà fisiche e mentali.

“Non finché non mi dici perché ci stava seguendo.”

“Ho detto,” fece un passo verso di lui, eliminando gran parte della distanza che li separava, “lasciami andare.”

“No.” Pronunciò la secca negazione guardandola dritta negli occhi.

Prima che potesse anche solo capire che diavolo stesse succedendo, Natasha aveva chiuso a pugno la mano libera e gliel'aveva sferrata contro. Clint gliel'afferrò bruscamente prima che potesse colpirlo, lasciando che l'istinto prendesse il sopravvento.

“Davvero? Piuttosto che dirmi chi era quel pazzo preferisci prendermi a pugni?” La frustrazione stava salendo, alimentata dalla rabbia che le leggeva in faccia insieme all'irritazione che aveva provato nel vedersi neutralizzare un affondo con tanta immediatezza.

“Non ti dirò un bel niente,” stabilì.

Ritentò con una ginocchiata nello stomaco. Andò a vuoto, ma Clint fu comunque costretto lasciarla andare per ristabilire le distanze. Presero a girarsi lentamente attorno come due bestie feroci che devono decidere chi si approprierà dell'unica preda disponibile.

“Era qui per te, non è vero? Fa parte della tua piccola setta di svitati,” la provocò.

“Sta' zitto, Barton.”

“No. Sono stufo delle tue stronzate.”

“Sei libero di andartene in qualsiasi momento,” gli rivomitò addosso, furente. “Non ti ho obbligato a seguirmi, l'hai fatto e basta.”

“E con questo?” Aveva ragione, era stato lui a decidere di proseguire il viaggio con lei, ma non giustificava il modo in cui continuava a comportarsi. “Credevo fossimo una squadra!”

Una smorfia contrita le deformò il viso un attimo prima che una risata forzata non le sgorgasse dalle labbra come un'ingiuria.

“Sei solo uno sconosciuto con cui ho fatto un pezzo di strada,” dichiarò sferzante.

“Ti diverti un sacco, ah?” Le mani gli pizzicavano per la delusione. Si sentì terribilmente stupido, ingenuo: come aveva potuto pensare che fossero diventati qualcosa di più che semplici estranei?

“Ho l'aria di una che si diverte?”

“Con la tua ridicola messinscena da donna del mistero...”

Natasha si rifece seria di colpo, mostrandogli di nuovo il volto pallido, segnato dalla stanchezza accumulata nel corso di giorni e giorni di cammino.

“Tutto quello che sei è una pessima commedia,” ribadì, caricando la frase di tutto il disgusto di cui fu capace mentre ricambiava il suo sguardo. “Prima una strega, poi una guerriera, poi una romantica fanciulla, poi una donna priva di pudor-”

La voce gli morì in gola. Natasha era scattata in avanti tanto repentinamente da coglierlo alla sprovvista. L'aveva afferrato al collo e stringeva la presa.

“La donna del mistero è nella tua testa,” bisbigliò. Il suo respiro gli solleticava le labbra. “L'hai creata tu, io non c'entro niente.” Sentì la morsa delle dita accaldate serrarsi sulla sua gola mentre l'urgenza di incolparlo le affiorava plateale sul volto.

Fece la prima cosa che gli passò per il cervello: si aggrappò ai capelli di lei per strattonarli e farsi mollare, ma non accadde niente del genere. Restarono agganciati l'una all'altra come due perfetti imbecilli.

“D-Davvero? Allora perché non mi dici chi c-cazzo era Molot?” Le ritorse contro, costringendola a reclinare il capo all'indietro. Il sangue sembrava scorrergli più rapido nelle vene e un'assurda voglia di mettersi a urlare e combattere gli si rianimò nello stomaco.

“Il mio passato non ti appartiene,” decretò lei in un soffio.

“Ma mi riguarda se rischia di ammazzarmi con una fottuta mazza chiodata!”

La sentì allentare la presa e ne approfittò per afferrarle entrambe i polsi; si avvalse della propria forza, facendo ruotare Natasha su stessa fino ad incrociarle le braccia sullo stomaco e ad immobilizzarla con la schiena contro il proprio petto.

“H-Ho evitato che succedesse, che altro pretendi?” Sibilò in preda a rabbia e fatica accecanti.

Capì di aver commesso il grave errore di crederla soggiogata quando un dolore atroce gli attraversò il piede destro come una stilettata. Non ebbe la prontezza di riflessi di mantenere la presa sui suoi polsi e Natasha riuscì a liberarne uno, servendosene per colpirlo nello sterno con una violenta gomitata. Gli mancò il respiro.

“Sei esattamente come tutti gli altri,” l'accusò lei, affrontandolo ancora faccia a faccia. “Con tutti i tuoi stupidi preconcetti su ciò che sono o non sono.”

“N-Non... non-,” decise che preoccuparsi di far circolare l'aria nei polmoni, dopotutto, era la sua priorità.

“Sì che è vero. Scommetto che ti sei riempito la testa di stupide considerazioni sul mio conto,” riprese imperterrita, il volto che andava deformandolesi per l'indignazione.

Avanzò e Clint fu costretto ad indietreggiare se non voleva farsi menare mentre stava morendo soffocato.

“Magari credi che renderò la tua vita interessante, un'avventura... o che mi salverai grazie alla forza della tua integrità,” cominciò ad atteggiare la voce in aperto tono di scherno. “O che ti porterò alla dannazione.”

Sgranò gli occhi e si sentì come schiaffeggiato. Avrebbe voluto contraddirla, ma aveva ragione. Aveva davvero pensato di lei in quei termini, la donna di fuoco, la creatura venuta dall'inferno, la donna fatale che porta la sua povera vittima alla distruzione...

“Quale delle tre?” Domandò prima di avventarglisi contro e afferrarlo per i vestiti, scuotendolo violentemente. “Sei come tutti gli altri! Non vi a-accorgete, non vedete...” Si era messa ad urlare.

Clint l'afferrò per i fianchi e la ribaltò a terra, schiacciandola al suolo col proprio corpo.

“Smettila,” le intimò, ma Natasha continuava ad accusarlo. “Smettila!”

L'agitò una, due, tre volte, come se scrollandola avesse potuto farla tacere, cancellare la verità delle sue parole.

“Sei un fottuto stronzo, c-come tutti gli altri!” Sbraitò mentre Clint le afferrava le mani.

Fu più veloce di lui, però, nel far leva con la schiena sul terreno per invertire le posizioni.

“Come diavolo fai a non vedere?” Insisté col chiedergli, furibonda, come se avesse perso definitivamente tutto l'autocontrollo che di solito la manteneva gelida e indifferente. “Perché non vedi? Perché non vedi?”

La disperazione che percepì nella sua voce gli ghiacciò il sangue nelle vene. Parve accorgersi di essere stata sorpresa in un momento di vulnerabilità e si incattivì di nuovo, liberandosi con una foga inusitata per colpirlo dritto in viso. Stavolta non ebbe modo di sottrarsi e, sotto sotto, sentì quasi di esserselo meritato. Una sensazione sgradevole che gli riportò alla mente il volto del padre, il suo fiato rancido d'alcool, le sue mani ampie e ruvide...

Impedì al ricordo di prendere il sopravvento e si concentrò su Natasha.

E poi la vide, come in uno specchio che rifletteva la propria immagine. Una ragazzina arrabbiata e impaurita. Una ragazzina sola a cui era stato insegnato di non fidarsi di nessuno. Una ragazzina che se l'era dovuta cavare nonostante tutto, che l'aveva dovuto fare per conto proprio. Una ragazzina incasinata, con un garbuglio incomprensibile di pensieri per la testa e l'istinto di sopravvivenza più tenace che Clint avesse mai incontrato.

La strinse alle spalle e si lasciò colpire una, due, tre volte. Ma man mano che i secondi passavano e il dolore gli si propagava per il viso, i pugni di Natasha perdevano forza e gli si abbattevano sul viso senza alcuna convinzione. Rallentò progressivamente fino a fermarsi del tutto, scossa com'era da fremiti silenziosi che le facevano tremare le spalle e il petto. Sembrava sul punto di piangere, ma non lo fece.

Restò immobile, a cavalcioni su di lui, fissandolo inorridita e incredula.

“Ti vedo,” mormorò dopo un attimo, senza mollare la presa su di lei, quasi ci fosse solo quella ad impedirle di cadere a pezzi. “Ti vedo,” ripeté, per assicurarle la propria sincerità.

Natasha sbatté lentamente le palpebre e annuì, prendendone atto. Gli appoggiò le mani sul viso, forse col pretesto di rimediare ai deboli cazzotti che gli aveva inferto.

Sentì le sue dita lisce e morbide sulle guance ispide di barba sfatta ormai da giorni e provò l'irrefrenabile bisogno di farla sentire meglio, di rimediare al caos che era venuto a crearsi senza che l'avesse programmato.

Continuò a puntargli addosso il suo sguardo vacuo, esausto, sondando i suoi occhi alla ricerca di una risposta che Clint non era in grado di darle.

Non seppe quanto tempo era trascorso quando Natasha si lasciò cadere a pancia all'insù accanto a lui. Provò un leggero fastidio non appena il suo calore gli venne a mancare, la pressione decisa del suo corpo... ma non disse niente, turbato.

Un pensiero lo colpì più vividamente di ogni altro. Il sospetto che non fosse lui ad aver bisogno dell'aiuto di lei, ma lei ad aver bisogno del suo. O forse erano vere entrambe le cose.

Il cielo era acceso di una luce grigia e funerea sopra di loro. Lo fissò a lungo, sentendosi come svuotato, in attesa della pioggia.

Natasha, al suo fianco, si era finalmente addormentata.

 

*

 

“Non hai nessun posto dove andare?”

Clint distolse finalmente lo sguardo dallo scintillio brulicante sulla linea dell'orizzonte per reindirizzarlo su Natasha. Aveva trascorso gran parte del tragitto dibattendo con se stesso se fossero o meno nei pressi del mare, senza essere riuscito ad arrivare ad una conclusione precisa.

“Che intendi?” Le chiese, non troppo sicuro che avesse parlato davvero.

Da che si era svegliata non aveva proferito parola, come se il litigio non fosse mai successo. L'imbarazzo gli aveva impedito di rifarsi avanti e allora si era limitato a ricaricare le loro cose sui cavalli e ripartire.

“Nessun parente, o amico...” Non lo stava guardando.

“Tutti quelli che conosco sono a villa Coulson o al villaggio,” disse soltanto. Perché le era venuto in mente adesso?

“Che mi dici di tuo fratello?”

“Potrebbe essere morto, per quel che ne so,” le ricordò, ma ebbe la sensazione che Natasha conoscesse già la risposta.

Continuò a guardarla di sfuggita, sorprendendosi di quanto gli sembrasse diversa. Era come se fino a quella mattina l'avesse osservata attraverso un cannocchiale difettoso che gliel'aveva fatta apparire lontana e misteriosa – e che adesso, miracolosamente, era tornato a funzionare. Forse era stato lui a volerla rivestire di quella patina enigmatica che tanto l'aveva fatta infuriare, magari era solo uno dei tanti sintomi della sua voglia di abbandonare villa Coulson una volta per tutte. Fatto stava che il velo era stato stracciato e Natasha gli sembrava improvvisamente concreta e reale, una donna che si portava gelosamente dentro le cicatrici dei propri traumi, chiusa a riccio in se stessa senza troppa intenzione di scucirsi.

“Che pensavi di fare una volta fuggito?” Tornò ad insistere e gli venne da ridere.

“Se vuoi scaricarmi la stai prendendo un po' troppo alla lontana, non ti pare?” Arrestò il cavallo e Natasha fece altrettanto.

“Se volessi scaricarti te ne accorgeresti,” le rimbrottò più duramente. Il lato ostico era sempre in agguato, pronto a riapparire in superficie appena necessario. Era un'armatura, Clint realizzò, un modo per difendersi dal mondo esterno, di mettere immediatamente in chiaro le distanze. Questo faceva Natasha, sfuggiva in continuazione.

“Non stento a crederlo,” le concesse, spronando la sua cavalcatura a ripartire.

Il sole era ormai giunto al punto più basso della sua parabola quotidiana e sarebbe tramontato di lì a breve. Una folata di vento portò con sé un vago odore di salsedine, ma Clint non era del tutto certo di non esserselo inventato. Non avrebbe saputo dire perché, ma l'idea di rivedere il mare per la seconda volta in tutta la sua vita lo entusiasmava in modo un tantino imbarazzante.

“Comunque,” riprese a parlare, tenendo gli occhi fissi sull'alone rosato che circondava l'astro morente, “non avevo un piano per il dopo.”

“Hai piantato in asso tutto e tutti per...,” lasciò la frase in sospeso, ma più che critica suonava sinceramente confusa.

“Cos'è che ti sconvolge?”

“La mancanza di organizzazione?”

“Non puoi rispondere ad una domanda con un'altra domanda.”

“Sì, che posso.”

“Come ti pare,” alzò una mano come per liquidarla. “Non sento sempre il bisogno di avere tutto sotto controllo.”

“Bel modo di farti ammazzare,” commentò sarcastica.

“Bel modo di non deprimermi,” le ritorse contro.

“Che vorresti insinuare?” Aveva inarcato un sopracciglio e lo guardava con quella sua aria da maestrina perplessa (una maestrina che prendeva a calci i cattivi). Probabilmente avrebbe dovuto odiarlo, quello sguardo, ma lo trovava divertente – che avesse delle tendenze masochiste latenti era ormai un dato di fatto.

“Che magari se ti rilassassi un po', vivresti meglio,” si azzardò a dire. Sapeva di aver osato troppo prima ancora di aver pronunciato le parole.

“Sono perfettamente rilassata,” puntualizzò astiosamente, superandolo di un paio di metri lungo la strada sterrata, giusto per poterlo incenerire con lo sguardo con più comodo.

“Credo ti sfugga il significato del termine,” la smentì.

“Credo che dovresti evitare di farmi incazzare, piuttosto.”

“Va bene, va bene,” alzò le mani a mo' di resa, approfittandone per sistemarsi la faretra sulla schiena. Dovette sforzarsi per trattenere il sorriso che gli premeva sulle labbra.

“Non c'è niente di divertente,” lo redarguì. Ovviamente se n'era accorta – c'era qualcosa che le sfuggiva, ogni tanto? “Avresti potuto ricominciare da capo da qualche altra parte,” si affrettò a continuare, forse per impedirgli di risponderle a tono.

“Non credo nel ricominciare.” Lo trovava un concetto stupido, creato ad hoc da chi avrebbe voluto avere più vite da vivere. Ma se c'era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni, era che gli errori commessi ti seguono fino alla fine, non importa quanto uno si impegna per dimenticarli o per fingersi una persona diversa.

“Perché no?”

Si voltò per incrociare il suo sguardo. Aveva cambiato espressione, mostrandogli apertamente il suo interesse, come se la cosa la riguardasse in prima persona. Si sentì irrazionalmente in colpa, quasi le avesse appena stroncato una delle poche certezze che aveva nella vita. Scacciò la sensazione: Natasha non era il tipo da lasciarsi influenzare a tal punto.

“Perché sei sempre la persona che sei,” borbottò un po' goffamente. Temeva di essersi infilato in un discorso che non sarebbe riuscito a concludere. “Ti puoi reinventare, va bene, ma sarà sempre una maschera.”

“E le maschere non ti piacciono,” chiarì Natasha.

“All'inizio sono divertenti,” ammise. “Ti dà sollievo, pensare di poter essere qualcun altro.” La donna annuì una sola volta. “Ma a lungo andare ti accorgi che sono solo stronzate.”

“E' per questo che hai lasciato la tua famiglia?”

“Quella non era la mia famiglia.”

“In un certo senso sì, però,” la voce le risuonò più convinta adesso. “Quell'uomo ti ha scelto. Non gli sei capitato tra capo e collo... ha scelto di aiutarti, quando avrebbe potuto abbandonarti a te stesso.”

“Ma non sono stato io a chiederglielo.” Non aveva preventivato di risponderle tanto bruscamente. La fastidiosa stretta allo stomaco che l'aveva accompagnato sin da quando aveva deciso di abbandonare villa Coulson si era ripresentata, gloriosamente acuita. O forse c'era sempre stata e, improvvisamente, non era più capace di ignorarla.

“Che importa? Ti ha aiutato. Potevano essere la tua famiglia, se solo l'avessi voluto.”

“Ma a che prezzo?” Pensò a lady Jemma, al matrimonio, a lord Phillip e lady Melinda. Riusciva a farsi un'idea di quanto massiccia fosse la delusione che aveva loro procurato?

“Hai mai provato a dirgli che non volevi sposarti?” Natasha suonava troppo ragionevole per i suoi gusti.

Avrebbe voluto risponderle che sì, ovviamente gliel'aveva detto, ma andando indietro con la memoria realizzò che non era vero. Che non aveva mai avuto il coraggio di dirgli chiaro e tondo che non provava niente per lady Jemma e che non aveva intenzione di trascorrere la sua intera esistenza a giocare a moglie e marito con una donna che non lo interessava. Che non si era mai deciso a dirgli che pur non sapendo cosa volesse essere, tuttavia aveva un'idea piuttosto chiara di cosa non voleva essere.

Deviò lo sguardo sulla fascia più bassa del cielo dove l'arancione andava tramutandosi in una viola scuro e profondo. Gli fece tornare in mente l'abito che aveva indossato per la festa in onore del capitano Rogers e provò una fitta di rimorso tanto intensa da costringerlo ad inspirare a pieni polmoni.

“Non appartenevo a quel posto,” mormorò, più per se stesso che per lei.

“Magari non appartieni a nessuno,” ipotizzò cautamente Natasha.

“Credi sia possibile?” Non era la prima volta che giocherellava con quel concetto.

“Non saresti il primo a non avere un posto nel mondo.”

L'angoscia gli aveva riempito il petto e gli bastava guardarla per capire che le stava succedendo la stessa cosa: si stavano lasciando schiacciare dalle loro paure.

“Sei già stata in tutto il mondo?” Le chiese, tentando di alleggerire il tono.

“Non è una questione geografica,” dichiarò con una lieve stretta di spalle, come se avesse voluto dargli a bere che la cosa non le pesava più di tanto. “Mentale, piuttosto.”

“Quindi siamo spacciati,” rise, ma di una risata priva di qualsiasi divertimento. “Non ti facevo così drastica.”

“Realista. Non drastica.”

“Nel senso che sei a favore della monarchia?” Si stava letteralmente aggrappando a qualsiasi cosa pur di non continuare a sprofondare nell'oscuro baratro che la conversazione gli aveva aperto sotto i piedi.

“Le forme del potere non mi interessano,” Natasha stette al gioco. “Non durano mai troppo a lungo.”

“C'è qualcosa in cui credi?” Si risolse a chiederle.

“Nella stupidità umana,” convenne. “E nell'inferno.”

“L'inferno... con le bolge, i gironi, i dannati, le urla strazianti...”

“No.” Si era di nuovo persa, lo sguardo vacuo e gli occhi tristi. “L'inferno è un posto senza rumore.”

Le parole le uscirono come un soffio sconnesso e lo fecero rabbrividire. Deglutì a fatica, concentrandosi sulla strada che si snodava loro davanti. Tutt'intorno solo l'abbraccio soffocante del silenzio.

 

***

 

Il sole era alto nel cielo quando Natasha annunciò che sarebbero arrivati a breve. Nonostante fossero rimasti appiedati dopo aver dovuto lasciare i cavalli – troppo stanchi per continuare – avevano raggiunto la costa rocciosa a strapiombo sul mare e l'avevano seguita in direzione nord-est, finché la sagoma di un'abbazia non si era stagliata contro il cielo grigio dell'ennesima mattinata di pioggia.

Con la conversazione del giorno precedente era scesa un'atmosfera strana. Non avevano smesso di parlarsi, ma man mano che il tempo passava, la spontaneità di Natasha era andata irrigidendosi. Continuava a guardarsi attorno con discrezione, forse col sospetto che qualcuno li stesse seguendo. Qualcosa la stava tormentando, ma si guardò bene dal dar voce ai propri pensieri.

Il paesaggio sembrava scolorire nell'estate in uno stato di abbandono pressoché totale. Case abbandonate ricoperte dalla vegetazione, pozzi diroccati, staccionate distrutte, campi incolti invasi dalle erbacce, animali raminghi che arrivavano a spezzare il deserto per ricordar loro che erano ancora sul pianeta Terra.

“I tuoi contatti sono tutti ecclesiastici?” Finì per chiederle quando il silenzio cominciò a farsi troppo scomodo, come se l'aria si stesse rarefacendo ad ogni passo, rendendo difficoltoso il respiro. Più si avvicinavano e più la netta sensazione di essere osservato si faceva concreta. Eppure la donna, a parte l'espressione contrita, continuava ad avanzare.

“Le chiese sono i rifugi migliori, di solito.”

“Quella non è una chiesa,” obiettò, alludendo all'abbazia, sempre più vicina, ampia e imponente.

“Lo so.”

Non poté fare a meno di notare la ruga che le si era formata in mezzo agli occhi. Ci aveva fatto caso non appena si era svegliato quella mattina, ed eccola ancora lì... immobile: qualcosa non andava.

“E se fosse una trappola?” Ipotizzò, mettendo cautamente mano all'arco.

C'erano solo poche centinaia di metri a separarli dalle massicce mura di protezione della costruzione arroccata sugli scogli. Il vento si alzava e soffiava in ululati irregolari, facendo crescere le onde contro la parete scoscesa a picco nel mare. Il panorama aveva un che di spettrale. Forse si stava solo facendo suggestionare, forse era solo troppo stanco per pensare lucidamente.

“Non dire stronzate,” lo zittì lei, tornando di colpo alle sue maniere scontrose. “Ci accoglieranno, ci daranno un pasto caldo e un posto dove dormire.” Gli sembrò strano che avesse sentito il bisogno di elencare tutte le straordinarie attrattive dell'abbazia con l'unico scopo di consolarlo.

Una pessima sensazione gli riempì lo stomaco: uno sgradevole prurito alla base della nuca gli ricordò che, a dispetto dell'assoluto silenzio circostante, c'era qualcuno nei paraggi. Eppure se lasciava scorrere lo sguardo tutt'intorno non incontrava altro che erba, prato, alberi da un lato, il vuoto del mare dall'altro.

Il cuore cominciò a battergli più rapidamente, tutti i sensi improvvisamente in allerta.

“Natasha,” gli uscì come una sorta di supplica, perché sotto sotto sentiva che lei sapeva qualcosa. “Dove mi stai portando?”

Si fermò, lasciando che la donna lo superasse. La vide arrestarsi a sua volta, continuando però a dargli le spalle; le guardò alzarsi e abbassarsi mestamente – un sospiro, o forse un modo per farsi coraggio.

“Mi dispiace.”

Dapprima le parole lo raggiunsero come un bisbiglio informe. Ma non c'era niente che non andasse nel suo udito; era piuttosto un qualche ingranaggio del cervello che si era bloccato bruscamente, impedendogli di registrare il messaggio.

“D-Di che stai parlando?” Balbettò confuso, mentre l'aria grigia si appesantiva di colpo, minacciando di schiacciarlo. Seppe di aver commesso un gravissimo errore, ma nel disordine che gli era scoppiato in testa non avrebbe mai capito quando era successo e perché.

“Non ho altra scelta.”

Un moto di nervosismo lo obbligò all'azione. La raggiunse e le finì davanti per costringerla a guardarlo. Si pentì d'averlo fatto.

“Natasha...”

Sentì dei fruscii tutt'intorno, respiri, passi... e poi, per un attimo, fu convinto che le zolle del prato si stessero sollevando, che un terremoto silenzioso avrebbe sconquassato il promontorio per precipitare l'abbazia in mare. Ma bastarono pochi secondi perché realizzasse che erano persone, quelle. Uomini dai volti tinti di verde e gli abiti logori ricoperti d'erba per mimetizzarsi.

Inorridì e un sapore amaro gli riempì la bocca mentre la sensazione di sprofondare si impossessò di lui con illuminante chiarezza.

Riportò la sua attenzione su Natasha e allora capì, senza ombra di dubbio, di essere stato tradito.

“Non ho altra scelta,” la donna aveva ripetuto guardandolo dritto negli occhi, stavolta con severità, distacco e malcelato orgoglio, più per convincere se stessa che lui.

La fissò a lungo, come pregandola di smentire l'evidenza, di spiegargli cosa stesse succedendo, di rivelargli che c'era cascato come un principiante, di dirgli che aveva solo voluto giocare un po'. Ma Natasha non fece niente del genere – qualcosa le si era spezzato nello sguardo.

“Che...”

“Non ti ho mai ringraziato per esserti preso quella freccia per me.”

“T-Ti sembra il momento?” Gli stava forse dicendo addio?

Gli uomini-prato parevano essersi moltiplicati e adesso li accerchiavano da ogni lato, armi tra le mani, espressioni arcigne e indurite sui volti.

“Avresti dovuto lasciare che mi colpisse.” Sembrava scivolata in uno stato di catatonia improvviso.

“Natasha...,” ripeté per l'ennesima volta.

“Perché mi hai seguita?”

Nella distanza, vide le porte dell'abbazia aprirsi per far uscire un uomo a cavallo: mentre galoppava con decisione nella loro direzione, Clint avvertì un principio di nausea riempirgli lo stomaco.

“Perché?” Le insistenze di Natasha lo costrinsero a distogliere lo sguardo.

“Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare,” ammise con disarmante sincerità. Anche il suo cervello dava per scontato che la fine fosse ormai vicina. Era spacciato. Sarebbe morto e non sapeva neanche perché. Chi era questa gente? E perché gli avevano messo Natasha alle costole? Chi avrebbe potuto avere interesse per uno come lui? Chi era a conoscenza della sua esistenza, comunque? Era solo un individuo insignificante come tanti altri, senza nessun legame al mondo. Un invisibile, un fantasma.

Il palpitare degli zoccoli si intensificò e arrestò di colpo. Natasha aveva smesso di respirare e lui con lei.

E poi, quando rialzò lo sguardo sul cavaliere appena sopraggiunto, non fu più tanto sicuro di non essere morto e finito in una qualche dimensione astratta dove persino le cose più improbabili possono succedere.

“Milady,” l'uomo salutò Natasha con falsa cortesia mentre smontava da cavallo. “Cominciavamo a disperare...”

“Il lavoro è fatto.” Se l'avesse guardata in faccia, Clint avrebbe assistito al repentino mutamento che l'aveva ritrasformata nella solita guerriera fredda e implacabile. La sua attenzione, però, era totalmente catalizzata dal nuovo arrivato – la sua apparizione sembrava aver fermato il mondo, il tempo, il battito del suo cuore.

“Lo vedo,” convenne il cavaliere. Frugò nello scollo della camicia per tirarne fuori una medaglia legata ad un cordoncino scuro. Se la sfilò e la gettò a terra con disgusto. “Il tuo debito è saldato.”

Natasha si affrettò a raccoglierla, stringendola tra le mani con sorda disperazione.

“Adesso vattene,” le intimò nuovamente. “Non ho più bisogno dei tuoi servigi.” La donna esitò e il cavaliere non parve gradire quell'attardarsi non previsto. “Vattene prima che decida di farti diventare un premio per i miei uomini.”

Clint non ebbe bisogno di voltarsi per sentirla andare via, dapprima incerta e poi sempre più decisa. Era vero, realizzò, le vibrazioni del terreno non c'entravano proprio nulla con l'indovinare i passi. Un pezzo di lui sembrava impallidire e perdere forma e consistenza con ogni metro che Natasha interponeva tra loro.

Il cavaliere batté le mani e inspirò a fondo.

“Finalmente soli,” annunciò, rivolgendogli un ampio sorriso. Aveva una lunga cicatrice sulla fronte e il lobo dell'orecchio destro mancante. “Mi dovevano un favore, o non mi sarei invischiato con quegli psicopatici della Stanza Rossa.”

Di che stava parlando?

“Vieni con me,” lo invitò. “E non fare quella faccia. Ti preoccupi sempre troppo... presto tutto avrà senso.”

Fece cenno ad alcuni degli uomini presenti di occuparsi del cavallo, mentre altri si fecero avanti per sfilargli il bagaglio, arco e frecce.

“Ti diletti ancora di armi paleolitiche? Credo di poterti dare del filo da torcere adesso. Dovremmo fare una gara.”

Gli passò un braccio sulla schiena e lo condusse amichevolmente lungo quel poco di strada che li separava dal portone dell'abbazia. Ma non c'era calore nei suoi gesti. Anzi, la sua vicinanza aveva il potere di mozzargli il fiato in gola.

Lo seguì senza opporre resistenza, come un burattino privato di qualsiasi briciola di volontà. La sua voce era bassa, confidenziale ma fredda.

“Sono proprio contento di rivederti, fratellino.”




Note: direi che qui potrebbe concludersi la prima parte della storia. Come promesso il mistero principale è stato svelato: Natasha era stata incaricata di trovare e portare Clint all'abbazia per conto di suo fratello Barney. Per ulteriori spiegazioni/motivazioni bisognerà aspettare i prossimi due capitoli, ma il primo scoglio è stato superato. Anche se col senno di poi Clint sarebbe rimasto volentieri nell'ignoranza XD
Come sempre ringrazio tutti quelli che leggono & commentano, mi fate sempre felicIe, e ovviamente alla sociabeta Eli per il supporto fandomistico e non :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Capitolo 11

~

 

Barney era vivo. O forse era lui ad essersi riscoperto morto.

Clint non riusciva a riordinare i pensieri in modo che avessero un qualche senso logico. Continuava a pensare al viaggio con Natasha, alla trappola che gli aveva teso, al momento in cui l'aveva consegnato nelle mani di suo fratello senza guardarsi indietro una sola volta.

Eppure la rabbia per essersi fatto giocare tanto stupidamente era solo un pulsare distante e flebile, come una lucciola in estate, un puntino luminoso che si accende e si spegne. Placido. I suoi sensi si erano azzerati e ridotti a quell'unica, incredibile consapevolezza.

Barney era vivo.

Era lì, accanto a lui, se lo teneva vicino mentre attraversavano l'arcata di pietra delle mura di recinzione dell'abbazia. Clint sapeva che stava parlando, ma le parole gli scivolavano addosso senza che avesse il tempo, la forza o la concentrazione per registrarle. Gli fischiavano gli orecchi, sudavano le mani, la lingua si era fatta di velluto... solo la vista resisteva. Acuta e ostinatamente puntata sull'unico parente che gli era rimasto. L'unico legame di sangue che valesse la pena mantenere e che – Clint realizzò con un tuffo al cuore – aveva lasciato marcire per mancanza di iniziativa.

Lo condusse all'interno della costruzione, compatta e massiccia, brulicante di uomini impegnati in occupazioni diverse. Non si concesse di indugiare a lungo su quegli sconosciuti, giusto il tempo di rendersi conto che l'edificio poteva essere stata un'abbazia, una volta, poi riconvertita in qualcos'altro. Il quartier generale di un centinaio di uomini sporchi e dagli sguardi ostici che avevano l'aria di addomesticarsi solo quando Barney rivolgeva loro un cenno.

Addentrarsi nel cuore della cittadella era come sprofondare in un baratro, come compiere i pochi, fatali passi in direzione della forca; eppure Clint provò un moto d'irrazionale ammirazione per suo fratello, il capo rispettato di una fazione di avanzi di galera tanto terribili da essersi fatti terra bruciata attorno. Perché non doveva essere un caso che la regione fosse a tal punto deserta: i campi erano stati lasciati incolti, ma la terra non era infertile. Gli abitanti delle aree circostanti erano stati costretti ad abbandonare la loro vita di sempre pur di metterla in salvo.

Una sensazione ridicola che si estinse un attimo dopo, retrocedendo nei recessi della sua mente per permettergli di sondare il bizzarro mondo che gli girava attorno.

Barney lo scosse bruscamente per riportarlo all'attenzione.

“Sembri diventato improvvisamente scemo, fratellino,” lo rimproverò sottilmente mentre imboccavano delle strette scale di pietra per il piano superiore.

“S-Solo...”

“Oh, l'abbazia può avere quest'effetto.” Il tono continuava ad essere gelido – una consolazione solo formale.

Decise di starsene zitto finché non raggiunsero una camera di medie dimensioni, dotata di un piccolo balcone che dava un'ottima visuale sul portone d'ingresso. Gli oggetti sparsi per la stanza sembrarono affiorargli alla coscienza come relitti in un mare mosso e furibondo. Un letto ordinatamente rifatto nell'angolo più distante dalla finestra senza vetri; un vecchio scrittoio, una sedia e alcune cassette vuote adibite a sedile; sul tavolo una mappa arrotolata, lettere e fogli sparsi; dietro un paravento sgangherato si intravedevano un baule aperto, una brocca e un vaso da notte appoggiati sopra e sotto un comodino traballante.

“Benvenuto nella mia umile dimora, Clinton,” annunciò solennemente. Lo invitò a sedersi con un ampio gesto delle braccia; poi, prima di raggiungerlo, si sporse attraverso la soglia e nel corridoio, richiamando l'attenzione di qualcuno.

“Portaci del vino, un po' di frutta,” dispose mentre richiudeva la porta.

Gli si sedette di fronte, accomodandosi scompostamente contro lo schienale della sedia con un sospiro di finta stanchezza.

Del ragazzino tredicenne con cui aveva girato il regno non erano rimasti che i capelli – rossi e spettinati proprio come i suoi – e il sorriso aperto, costantemente in agguato sul viso. Ma la spontaneità che Clint ricordava, la sfacciataggine con cui aveva affrontato il mondo, se n'era andata, lasciando posto a qualcos'altro. Non avrebbe ancora saputo dire cosa, ma non gli piaceva. Si sentì come se un estraneo dalla corporatura muscolosa, il collo e la fronte rigati di cicatrici, un orecchio mutilato, avesse preso possesso del corpo di suo fratello per installarvisi comodamente con una nuova personalità.

“Pensavo saresti stato più contento di rivedermi,” pronunciò dopo un lungo attimo di silenzio. Gli sorrise di nuovo, mettendo in mostra la dentatura irregolare, ma sana – Clint ripensò a tutte le volte in cui si era lamentato per la consistenza del dentifricio quando toccava a lui prepararlo. La madre aveva insegnato loro come fare, con qualche erba e un po' d'acqua o vino; non avevano mai perso l'abitudine, neanche dopo la sua morte.

“Credevo fossi morto,” ammise, il disagio profondo e quasi soffocante.

“Non hai neppure provato a cercarmi.” Una luce sinistra gli balenò per un istante negli occhi insieme all'accusa, neppure tanto velata, prima di sparire e essere riassorbita dalle iridi grigio-verdi che rispecchiavano le sue.

“Non sapevo da dove cominciare.” Tentò di non farla suonare come una giustificazione, ma non ci riuscì granché bene. Intuì, come un fulmine a ciel sereno, che Barney era andato a colpire proprio dove sapeva che avrebbe potuto far male. Il senso di colpa si ripresentò più vivido e feroce che mai, intrecciandosi a quello che provava per lord Phillip; per Kate, piantata in asso senza mezzo ripensamento e per se stesso, per essersi lasciato ingannare da Natasha come un completo imbecille.

Io ti ho trovato,” obiettò tranquillamente, ma non c'era niente di pacato nei suoi modi. Di represso, piuttosto, come di una rabbia fluida e costante a malapena tenuta a bada da pericolanti barriere di protezione. Clint trattenne il respiro mentre Barney lo fissava dritto negli occhi, quasi avesse voluto aprirlo in due per assicurarsi che ci fosse effettivamente qualcosa in quella testaccia vuota. Poi parve scuotersi improvvisamente, scrollarsi di dosso l'intensità e ricominciare da capo con quella sua voce fintamente pigra, artificiosamente confidenziale.

“Bè, la donna ti ha trovato,” si corresse. “Le ho solo dato un paio di indicazioni e voilà – il mio fratellino è di nuovo tra noi.”

Quindi non era capitata al villaggio per pura coincidenza. Che cosa le aveva detto per metterla sulla strada giusta?

“E' davvero sorprendente cosa riesce a fare quella gente,” distolse lo sguardo, facendolo vagare per la stanza. Vacuo, perso chissà dove. “L'addestramento è talmente duro che quasi la metà degli adepti ci rimette la vita. Ma come segugi... sono imbattibili.”

Adepti. Il marchio a forma di clessidra. La Stanza Rossa, l'aveva chiamata.

“Mi dovevano un favore, o non mi sarei immischiato con quelli spostati,” spiegò per la seconda volta, come per fargli capire il perché non se ne fosse occupato personalmente. “E poi appena l'ho vista, ho capito che non avresti resistito.”

Rifocalizzò l'attenzione su di lui, sfoderando l'ennesimo sorriso.

“Non perché fosse attraente,” specificò non richiesto, quasi avesse intuito la sua obiezione. “Mi ricordo la faccia che facevi tutte le volte che incontravamo un cane affamato... o un vecchio, o un bambino...” si strinse nelle spalle, “non hai mai saputo resistere a un randagio.”

Clint si sentì come schiaffeggiato da quella considerazione. Aveva scelto Natasha perché sapeva che avrebbe sentito il bisogno di aiutarla? Di ronzarle attorno come l'ape col miele?

“E poi è caduta in disgrazia... la candidata ideale,” si era rifatto assente, impegnato in una lenta conversazione con un interlocutore fantasma. “Bisogna guardarsi bene dal farli incazzare, quelli là. Pessima, pess-”

Barney fece uno scatto improvviso, appoggiando le mani sul tavolo con rapidità animalesca. Clint si irrigidì e gli ci volle un attimo – durante il quale fissò le pupille ingigantite del fratello – per capire che era stato il leggero bussare alla porta a fargli perdere le staffe.

Un ragazzino dall'aria cenciosa si affrettò ad entrare a capo chino, un vassoio di rame tra le mani tremanti. Trasferì la brocca di vino, due bicchieri di legno e una ciotola di frutta sullo scrittoio prima di arretrare e sparire da dov'era venuto.

“Pezzenti,” sibilò Barney, il petto ancora scosso dall'impeto di rabbia immotivato. “Non sanno come comportarsi.”

Rimasero in silenzio a lungo, il tempo necessario perché il fratello riemergesse dalle profondità in cui era precipitato, qualunque esse fossero. Poi di nuovo quel sorriso pungente che avrebbe dovuto rassicurarlo, ma che gli dava invece la misura esatta di quanto del vecchio Barney fosse andato perduto.

“Non credere che abbia smesso di pensarti,” tenne a sottolineare. “Sei stato un chiodo fisso. Ancora lo sei.” Versò del vino in entrambi i bicchieri prima di invitarlo a servirsi. “Dopotutto avevo promesso alla mamma di prendermi cura di te.”

L'immagine della donna sul suo letto di morte gli avvampò improvvisamente davanti agli occhi. Il volto scavato dalla malattia che l'aveva fatta somigliare più ad un teschio che ad una persona in carne ed ossa; la pelle annerita, le labbra secche e aride, dischiuse e avide di un'acqua che non l'avrebbe dissetata. Il ricordo del tanfo invivibile che ne circondava il corpo venne dopo, costringendolo a pensare ad altro.

“Che ti è successo dopo l'incendio?” Clint parlò pur di non doversi trattenere sulla memoria troppo vivida della madre.

“Sono contento che tu me l'abbia chiesto,” rispose con aria professionale.

Gli fece venire in mente il notaio di lord Phillip, quando arrivava a villa Coulson con tredici bauli pieni di pergamene, pennini e boccette di inchiostro; il modo in cui si sedeva dietro la scrivania della stanza verde degli ospiti sistemandosi l'occhialetto sulla punta del naso aquilino.

“Dopo...” sembrò voler dire qualcos'altro, ma scosse il capo come ad abbandonare quell'ordine di idee. “Sono tornato a cercarti,” riprese e parve più soddisfatto del nuovo attacco, “e tu non c'eri.”

La cicatrice sulla fronte si corrugò lentamente, come a segnalargli tutta la sua delusione per quel mancato ricongiungimento.

“Allora mi sono infilato nel bosco per trovarti.” Abbassò la voce, mentre lo sguardo gli scivolava sulla frutta disposta nella ciotola. “Ti ho chiamato per ore,” sottolineò, “credevo di essere finito in un incubo. Non per il fuoco, né per la gente che mi moriva attorno come mosche, no...”

Perché suo fratello, l'unica cosa che avesse al mondo, si era volatilizzato nel niente, incenerito e sparso dal vento come i resti della compagnia. Lasciò la frase in sospeso mentre si distraeva con la mela gialla e ammaccata che aveva sollevato dalla fruttiera.

“Tanto ho urlato che i gendarmi mi hanno sorpreso là in mezzo. Sono stato arrestato e gettato in un buco fetido...” Le pupille si dilatarono di nuovo, gli occhi fissi sul frutto. “Per settimane, mesi... forse anni.”

Clint avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto ad evadere, ma gli sembrò di non aver più fiato in gola. Qualsiasi cosa gli fosse successa, suo fratello non c'era più. Non come lo ricordava.

“Mi sono ingraziato uno dei gendarmi. Diceva che di ragazzini sani in quel posto ne capitava raramente.” Fece ruotare la mela tra le dita. “Iniziò a portarmi vino, frutta... più tardi persino dolciumi. Confetti all'anice – i miei preferiti.”

Un principio di nausea, sordo e insistente, gli serrò la bocca dello stomaco in una morsa insopportabile. Da qualche parte nella sua testa aveva già capito dove sarebbe andato a parare, e non era sicuro di voler ascoltare.

“Quello che voleva in cambio...” l'ennesimo sorriso, soltanto accennato, si tramutò in una smorfia orrenda. Di nuovo la luce sinistra negli occhi e poi il tonfo sordo con cui sbatté il frutto sul tavolo, infilzandolo col fermacarte estratto da chissà dove sotto la mappa.

Clint trasalì, la testa che minacciava di girargli, i sensi di abbandonarlo. Ma si trattenne. Non voleva fare la figura del coglione. Non era più il ragazzino magro e scarno che trotterellava alle spalle di Barney, sicuro che nessun problema e nessuna situazione – per quanto spinosi – sarebbero stati irrisolvibili per il fratello dalle mille risorse.

“Mi riterrai un debole,” sibilò, tenendo il pugno stretto sul manico dello stiletto d'argento, “ma non avevo altra scelta. Non ce l'avevo.” Bisbigliò qualcosa sottovoce, un'imprecazione che nascondeva un odio verso se stesso dolorosamente evidente.

Sentì il bisogno di smentirlo, assicurargli che non l'avrebbe mai giudicato, che sopravvivere significava mettere in campo tutti gli strumenti a propria disposizione, anche quelli che non si pensava d'avere. Ma qualcosa lo bloccò nel suo proposito. Il disgusto che gli lesse nello sguardo, forse, o il modo in cui la mano poggiata sullo scrittoio tremava impercettibilmente.

Barney tornò finalmente a guardarlo, rivolgendogli uno sguardo vuoto, due pozze scure che minacciavano di inghiottirlo, di coinvolgerlo nell'inferno che gli ardeva al di là delle pupille. Una cosa senza rumore, aveva detto Natasha. Aveva ragione.

“Era un uomo gentile,” sussurrò. “Ma mi fece rimpiangere papà.”

Clint rabbrividì bruscamente e un sospiro distorto gli abbandonò le labbra. Le mani ruvide, gli archi terrosi che definivano ogni unghia, l'alito pesante d'alcool, le guance ispide di barba appuntita, il respiro disarticolato e stentato... tra tutti i suoi ricordi, quello era il più vivido, il più reale. Era sconcertante la facilità con cui il fantasma di Harold prendeva forma davanti ai suoi occhi, più vero delle cose presenti e concrete, più vero di tutto il resto. Nei momenti peggiori, quando la reminiscenza prendeva il sopravvento, Clint si ritrovava a chiedersi se suo padre fosse mai realmente morto. A ipotizzare che tutta la sua vita dal giorno in cui il colera se l'era portato via non fosse stata altro che un sogno. Che il ragazzino che non riusciva a tenere la bocca chiusa si fosse immaginato tutto per sfuggire ad una quotidianità troppo orrenda per essere affrontata a viso aperto. Che non fossero esistiti né il circo, né villa Coulson.

Non aveva mai pensato che ci potessero essere cose peggiori e adesso Barney – Barney che l'aveva difeso e raccattato quando la furia del padre si abbatteva su di loro, che non gli aveva insegnato a non farlo arrabbiare, ma a rispondere ai suoi pugni, quel Barney che era stato la sua unica ancora di salvezza in un mondo spietato – gli stava confessando di aver desiderato di ritornare a quei giorni, che li aveva rimpianti.

La voglia di vomitare si fece schiacciante.

“Sapevo che eri là fuori,” il fratello fissava avidamente, come alla ricerca di qualcosa sul suo viso, nella sua espressione. “E ho fatto di tutto per uscire e venirti a cercare. Qualsiasi cosa che mi ridesse la libertà.” Qualsiasi.

E allora intuì con estrema chiarezza il processo per il quale Barney si era lasciato smontare pezzo per pezzo, compromettendosi una briciola alla volta pur di riscattare la propria libertà, finché non ne fu rimasto poco o niente. Ci era morto, in quella prigione, giorno dopo giorno, e chiunque ne fosse uscito non era altro che la copia sbiadita e incompleta di suo fratello.

“Mi chiedevo se fossi nella mia stessa s-situazione,” non c'era commozione nella sua voce, solo una rabbia cocente e a stento imbrigliata. “Impazzivo ogni minuto di ogni giorno a pensarti nelle mani di qualche viscido pervertito e speravo con tutto me stesso che fossi diventato a-abbastanza scaltro da cavartela anche da solo.”

Prese a muovere il tagliacarte nella mela, cominciando a farla a pezzi con movimenti calibrati e scattanti.

“Quando sono uscito sono venuto a cercarti. E' la prima cosa che ho fatto.” Gli sembrò, improvvisamente, che le parole si stessero accartocciando sotto il peso del rancore che si portavano dietro. “I-Immaginati la mia s-sorpresa quando ho scoperto che facevi il gran signore, che te ne andavi in giro a viaggiare come un nababbo insieme al tuo nuovo protettore.”

“Barney, non er-”

Quello non è il mio nome.”

Il tono sferzante strozzò la giustificazione che aveva stupidamente sentito il bisogno di azzardare. Il senso di colpa era un terremoto che gli batteva in petto a più riprese, sconquassandolo fin nei recessi più remoti della sua persona, amplificandosi in una sensazione talmente sgradevole e terrificante da togliergli il respiro.

“N-Non sapevo neanche da dove cominciare,” riprovò imperterrito.

Si era risvegliato nel bosco dopo la notte dell'incendio, mezzo nascosto da un cespuglio di rovi che gli si erano conficcati un po' dappertutto, la testa che ancora pulsava per il colpo infertogli da Jacques. Era tornato indietro a cercarlo, ma sul luogo dell'accampamento aveva trovato solo carcasse annerite di cose e persone, lo spesso odore della carne bruciata a riempire l'aria, insieme al calore dei fuochi non ancora estintisi del tutto. Aveva girato in tondo per un giorno intero, spostandosi alla cieca e senza alcun criterio nella speranza di rintracciarlo da qualche parte. Non aveva pensato di controllare nella prigione più vicina, neppure gli era passato per l'anticamera del cervello che suo fratello potesse essere stato arrestato. E poi le ore si erano tramutate in giorni, i giorni in settimane, le settimane in mesi. Non ricordava neanche come si chiamasse il villaggio in cui era stato accusato del furto che l'aveva spedito dritto dritto in gattabuia in attesa di una morte rapida ed indolore. L'ingiustizia divina si sarebbe abbattuta su di lui se lord Phillip non fosse intervenuto a salvarlo con un'insperata ed insperabile botta di fortuna che l'aveva addirittura portato a vivere in una villa nobiliare.

“Pensavo che te ne fossi andato apposta,” aggiunse, dissipando a forza le nebbie di quei ricordi confusi.

“Sei sempre la solita testa di cazzo,” fu la risposta contrita e aggressiva del fratello.

“Ero solo un peso per te e tu lo sai,” tentò di ribattere.

Perché in fondo era questo che aveva pensato, che Barney non volesse essere trovato, che in fin dei conti era stato solo un peso per lui, una fastidiosa zavorra che gli aveva impedito di esprimere a pieno le sue abilità. Clint l'aveva sempre visto come un eroe, potenzialmente invincibile e temibile se solo quell'inutile fratellino gli si fosse tolto dai piedi.

“Sei uno stupido!” Si era alzato con tanta foga da far cadere la sedia all'indietro. Aveva estratto il tagliacarte dalle mela e gli si era scaraventato addosso attraverso il tavolo, afferrandolo per la camicia e puntandogli la lama sottile al collo. “Sei un fottuto idiota, ecco cosa sei.”

Gli occhi sembravano bruciargli di una rabbia antica e resiliente che, col tempo, si era tramutata in ossessione, follia. Inorridì mentre scendeva a patti col fatto che Barney era impazzito. Il rancore l'aveva logorato e consunto fino a tramutarlo in qualcos'altro; il compromesso l'aveva smontato e riplasmato ad immagine e somiglianza di un perfetto sconosciuto.

“Tu e il tuo stupido senso di colpa! Per tutto! Per tutti! Sei un maledetto masochista, un codardo che piuttosto che affrontare i suoi problemi se ne sta in un angolo con la coda tra le gambe a piangere miseria!” Gli vomitò addosso parole furibonde, gli occhi assenti ma accesi di un'ira tremenda che sembrava minacciare di sopraffarlo.

“Mi fai schifo,” sibilò disgustato. “E ti odio. D-Dio...” tremò e fu costretto a lasciarlo andare. “Ti odio,” ripeté come se il sentimento fosse sul punto di diventare incontenibile.

Il tagliacarte cadde a terra con un rumore metallico, il vino rovesciato gocciolava su una gamba dello scrittoio e giù sul pavimento di pietra. Barney scattò alla porta e si mise ad urlare. Poco dopo quattro uomini massicci entrarono nella stanza e, seguendo le sue istruzioni, sollevarono Clint di peso per trascinarlo fuori.

Le grida furibonde di suo fratello lo accompagnarono finché l'udito glielo concesse, per poi essere mantenute in vita dal battito impazzito del suo cuore, dai pensieri sconnessi e rapidi come saette che gli balenavano nel cervello senza alcun controllo. Scesero e scesero nelle viscere dell'abbazia, dove il buio si fece pressoché totale.

Lo abbandonarono in una cella stretta e angusta. C'era solo l'oscurità a fargli compagnia, ma era quella dentro di lui a spaventarlo davvero.

 

*

 

Capì ben presto che nel buio le paure, le afflizioni, il senso di colpa e i fantasmi del passato si ingigantivano a dismisura, assumendo dimensioni imponenti e spaventose. Non seppe per quanto tempo fosse rimasto immobile in quell'antro cieco, gli occhi pieni della furia di Barney e il cuore come svuotato di qualsiasi sensazione che non fosse la disperazione più nera.

L'indifferenza, il grigiore che aveva minacciato di soggiogarlo per tanto tempo a villa Coulson, era in agguato da qualche parte, pronto a subentrare al dolore sordo che gli faceva tremare le mani. Avrebbe voluto invocarlo su di sé, quel disinteresse tanto obnubilante e onnicomprensivo da travolgere tutto. Un mare piatto e freddo capace di sommergere e livellare, di rendere tutti i colori uguali gli uni agli altri, di allontanare le emozioni fino a mutarle in oggetti inanimati dall'aria bizzarra di cui non capiva più l'utilità.

Lo sentiva premere dentro di sé, un bisogno tanto intenso da dargli l'impressione di essere sul punto di spaccarsi in due come un frutto, per rivelare un nocciolo inerte e appassito. C'era il dolore, però, a tenerlo sveglio e presente. Un dolore melmoso e appiccicoso che si ripresentava ad onde continue – c'erano momenti in cui pensava se ne fosse andato per sempre, momenti di beata insensibilità; ma erano solo brevi illusioni che si spezzavano sotto l'effetto dirompente di una marea che non tardava a smentirlo.

Rimase in quello stato di catatonia, in un mondo ridotto a squittii lontani e al battito furibondo del proprio cuore per una quantità di tempo indefinita. Potevano essere passate ore o giorni quando tre ombre scure arrivarono a prenderlo, trasportandolo di peso su per scale di pietra che i suoi occhi, assuefatti all'oscurità, non riuscivano a vedere. La luce, anche la più tenue, gli risultò insopportabile.

Lo condussero in un'ampia stanza fresca e dai soffitti bassi che aveva l'aria di essere stata, negli anni di attività dell'abbazia, un refettorio. Non c'erano tavoli, però, solo un folto gruppo d'uomini – macchie informi – disposti lungo tutto il perimetro rettangolare. Doveva essere notte, ma numerose torce punteggiavano le pareti, proiettandovi ombre sinistre. Giurò che un tipo tarchiato e senza collo avesse il suo arco e la sua pistola agganciati goffamente alla cintura, ma forse stava delirando.

Suo fratello era in piedi al centro della sala: aveva l'aria di aspettarlo. Clint avvertì un malore improvviso afferrargli lo stomaco quando se lo ritrovò davanti, ma non disse niente. Si accorse di potersi reggere a malapena in piedi solo quando i suoi carcerieri l'abbandonarono accanto a Barney e lui si sentì barcollare pericolosamente. Aveva fame e sete e una gran voglia di chiudere gli occhi e dimenticarsi di tutto, di suo fratello, dell'abbazia, di se stesso.

“Clinton,” Barney l'accolse con le solite maniere cameratesche che gli aveva riservato al suo arrivo. Ormai sapeva che era solo una facciata e che, se anche fossero state sincere, non lo mettevano al sicuro dall'anima straziata del fratello, pronta a riemergere per vendicarsi in ogni momento. Perché – ormai ne era sicuro – era questo che voleva: vendetta. Un conto in sospeso che andava saldato. Il Barney che conosceva lui non avrebbe mai fatto niente del genere, ma quel Barney non esisteva più.

“Sono contento che tu sia qui,” mentì, “stavo giusto per illustrare ai miei amici, qui, cosa succederà a breve.”

Clint fece fatica a sostenere il suo sguardo, ma annuì comunque. Si sarebbe spinto al punto di ucciderlo?

“Vedi, tra poco lasceremo l'abbazia per reclamare il posto che ci spetta.”

La stanchezza, la gola arida e gli occhi pesanti aggravarono la confusione che gli riempiva la testa con maggior insistenza ad ogni secondo che passava.

“Non sai di che sto parlando, vero?” Rise e gli scompigliò i capelli in un gesto automatico, solo il fantasma di un'abitudine antica e dimenticata, ma il cui ricordo gli era sceso nelle ossa, come un patrimonio indelebile che ora riaffiorava senza il suo permesso. Non parve turbarsi, però, e si divertì a canzonarlo per la sua stupidità.

“Il mio fratellino non è un tipo molto sveglio. Se lo prendessi a cazzotti, rimarrebbe a farsele dare di santa ragione.” Gli tirò un pugno sulla spalla – non era un colpo leggero, scherzoso, ma un affondo convinto e carico di risentimento. Clint rischiò di perdere l'equilibrio, ma si mantenne miracolosamente in piedi. Non voleva che tutti quegli sconosciuti ridessero di lui, e allo stesso tempo sentiva di meritare le loro ingiurie e vi si sarebbe sottoposto volentieri se avessero potuto cancellare le sofferenze di Barney.

“Ah, andiamo, stavo solo scherzando,” lo rassicurò, afferrandolo per un braccio e riportandoselo vicino. “Sai che giorno è oggi?” Gli chiese.

Clint scosse il capo, a dirgli che non lo sapeva.

“Non importa. Non mi stupisce che tu non lo sappia, hai un aspetto terribile.” Qualcuno rise alla considerazione del fratello, ma Barney non sembrò accorgersene. “Te lo dico io: manca esattamente una settimana alla festa della corona.”

Le informazioni gli arrivavano ovattate e incomprensibili, come se gli stesse parlando in una lingua sconosciuta.

“E sai che succede durante la festa della corona?” Lo scrollò violentemente, contrariato dalla sua mancanza di vitalità. “Festeggiamenti dispiegati per tutta la capitale, fiere, processioni, persino fuochi d'artificio!” Esclamò. “E' il giorno in cui il nostro buon re si presenta alla folla con tutta la sua benevolenza, per raccogliere il consenso dei suoi sudditi adoranti.”

Clint colse i vaghi cenni di assenso di alcuni dei presenti.

“E' anche il giorno in cui il re morirà,” lo informò, il tono che si faceva di colpo solenne.

Come faceva a sapere che il re sarebbe morto durante le celebrazioni? E perché gli importava, comunque?

Gli ci volle un secondo di troppo per capire che Barney gli stava rivelando i piani per un attentato. Il fratello dovette aver colto la consapevolezza nei suoi occhi, perché sembrò rallegrarsi di quell'improvviso e insperato segno di vita.

“Le cose si fanno interessanti, non trovi?” Lo interrogò di nuovo. “Vedi, sono anni ormai che alcuni dei gruppi più influenti del regno sono insoddisfatti dall'operato del nostro amato sovrano. E nonostante qualche mente illuminata abbia tentato di indicargli la retta via, l'adorato padre della patria non ha voluto sentirne.”

Al grido di morte al re! la folla raccolta nella stanza esplose in canti furiosi, volgari e blasfemi indirizzati al sovrano e alla famiglia reale.

“Certo non aiuta che l'unico figlio maschio sia una completa delusione,” continuò Barney, apparentemente impassibile di fronte allo scoppio rabbioso dei suoi uomini. “Sarebbe come abdicare in tuo favore, Clinton: il senso di colpa diventerebbe crimine punito per legge e il regno andrebbe in malora dopo una settimana al massimo. Tornei di autoflagellazione!”

Altre risate, altri insulti, occasionali starnuti, colpi di tosse, sputacchi sul pavimento.

“Non possiamo permettere che il potere cada nelle mani di persone deboli.” Lo strale era ancora tutto per lui – lo colpì in pieno, ridestando lo spettro dell'amor proprio che credeva di aver abbandonato nelle segrete dell'abbazia.

“Il re deve morire.” Una sentenza di morte talmente definitiva che Clint si aspettava di vedere il sovrano condotto lì, nell'antico refettorio, pronto a subire la pena capitale.

“Perché te ne importa?” Gli uscì detto. Si era aspettato di pentirsene, ma sostenne invece lo sguardo infuriato del fratello senza batter ciglio.

Era vero che Barney non era più quello di una volta, ma neanche lui era rimasto lo stesso. La rivelazione lo colpì come una secchiata d'acqua gelida che ebbe l'effetto di risvegliarlo, di renderlo più vigile e presente, di riportarlo a galla in quel mare di stanchezza e confusione.

“Che vuoi dire?” Il volto del fratello si era contratto in una smorfia disgustata. “E' di giustizia che stiamo parlando.”

“No, stai delirando di uccidere il re,” lo corresse. E rieccola quella boccaccia insolente che gli era valsa un'infinità di botte da parte del padre. Era così, Clint: nei momenti più drammatici lasciava che la sfacciataggine prendesse il sopravvento, balsamo e condanna insieme.

Barney lo colpì con un cazzotto in pieno volto che lo costrinse ad indietreggiare. Si sentì come se qualcuno l'avesse infilato dentro una campana prima di cominciare a suonarla, i rintocchi a riverberargli fin nelle viscere, scombussolandogli sensi e pensieri. Si portò una mano alle labbra, ritrovandosi le dita sporche di sangue.

“E' questo quello che fai, adesso? Picchi tuo fratello?”

Gli occhi gli si accesero di una rabbia incontenibile, un fuoco impazzito e inestinguibile che lo divorava lentamente, giorno dopo giorno.

“Ti saresti dovuto ricordare prima, d'avere un fratello,” l'accusò. “Ma suppongo che la vita da riccone ti abbia ammorbidito più di quanto già non avesse fatto la tua smidollatezza.”

“Se non altro ho ancora il cervello a posto.”

Fu un attimo – Barney schioccò le dita e due uomini si fecero avanti, portando arco e faretra. Imbracciò il primo e incoccò una freccia con velocità sorprendente. Lo teneva sotto tiro, adesso.

“Ti tremano le mani,” constatò Clint, facendosi sempre più coraggioso e spericolato. Il tremito, infatti, si era propagato alla corda.

“Sta' zitto,” gli intimò l'altro.

“Se è la vendetta che vuoi, dillo subito. Del re non me ne frega un cazzo.”

Qualcuno accennò a farsi avanti per suonargliele di brutto, ma Barney gridò di stare indietro, pena una freccia sepolta tra gli occhi prima che potessero anche solo accorgersene.

“Non è la vendetta che voglio,” sibilò allora, tenendogli lo sguardo puntato addosso.

“Cosa, allora?”

“Vorrei che fossi morto durante quel fottuto incendio. Vorrei che non mi avessi tradito.” Abbassò la voce e, per un solo istante, gli sembrò ritornato il ragazzino tredicenne nelle cui mani aveva riposto tutta la propria fiducia. “Vorrei che non mi avessi abbandonato.”

Era come se qualcuno si stesse divertendo a punzecchiargli la carne viva con un ferro bollente. Una tortura muta e silenziosa che minacciava di annientarlo. L'inferno è una cosa senza rumore. Forse si meritava di morirci, in quel mondo infernale, forse glielo doveva.

“Barney...” mormorò, ma bastò quello a farlo ritornare vigile, ossessionato, consumato dalla sua stessa ossessione.

“Il mio nome è Trickshot,” lo corresse, il respiro affannato e disarticolato.

Gli ritornò in mente l'uomo alto e slanciato che aveva insegnato loro a tirare con l'arco durante la permanenza nella compagnia di saltimbanchi. Si chiamava Trick Shot e aveva da subito mostrato interesse nei confronti di Clint, troppo più rapido e veloce del fratello per non richiedere un'attenzione pressoché esclusiva. Era l'unica cosa in cui fosse più bravo di Barney, l'unico campo in cui poteva vantare superiorità su di lui. Forse era per questo che aveva deciso di chiamarsi così, per raddrizzare una stortura del passato, correggere un errore imperdonabile.

“Non devi far altro che scoccare quella freccia, Barney.”

Clint gli rivolse un sorriso spontaneo, inaspettato, che ebbe il potere di farlo vacillare.

La corda tremò più insistentemente e poi Trickshot la lasciò andare.

 

 

Note: il colpo di scena è che Barney è un tantino schizzato ù_ù premetto che tutte le mie conoscenze su Trickshot o Trick Shot che dir si voglia vengono da Wikipedia. In origine era l'arciere che ha addestrato Clint, poi ad un certo punto non so in che universo Barney ne ha assunto l'identità in veste di super cattivo... mi sono ispirata (sì a Wikipedia XD) a questo per la storia. Abbiamo scoperto un po' del passato di Barney e anche di quello di Clint, sprazzi su quello di Natasha e persino un'anticipazione degli eventi che occuperanno i restanti due terzi della storia. Ma adesso tocca aspettare per la risoluzione del cliffhangerone (proprio -one).
Intanto ringrazio chi legge e commenta, soprattutto Fake_Brit, Ragdoll_Cat e ovviamente la sociabeta Eli a cui mando un bacio di pronta guarigione :* (o magari te lo manda Clint, vedi te!)
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo 12

~

 

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

Natalia, n-non farlo.”

Non importa. Vattene e non guardarti indietro .”

Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare.”

Voglio occuparmene personalmente.”

I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto.”

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare.”

Ti vedo.”

Non c'è nessun dio in grado di perdonarmi. Non c'è mai stato.”

Non importa. Vattene e non guardarti indietro.”

I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto.”

Natalia, n-non farlo.”

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.”

Ti vedo.”

Ti vedo.

Ti vedo.

Ti...

 

… sgranò gli occhi e urlò. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola mentre le voci le si affastellavano nel cervello, le une sull'altre, più fioche, più forti, più squillanti, più perentorie. Si portò le mani agli orecchi e trattenne il respiro, i polmoni che già bruciavano per l'assenza d'ossigeno e il cuore che le martellava in petto, come impazzito.

E poi la vertigine, la sensazione di precipitare in un baratro oscuro.

Si sentiva fluttuare in un mondo privo di consistenza, fatto solo di voci, di echi lontani e di brividi gelidi.

Finché l'odore di resina dell'albero su cui si era decisa a riposare almeno un paio d'ore, prima di ripartire, non le affiorò alla coscienza con provvidenziale concretezza. Ne inspirò a fondo il profumo e appoggiò le mani sul tronco ruvido, premendovi i palmi quasi fino a farsi male. Il fastidio, il dolore, la riportarono coi piedi per terra. Erano reali. Tangibili.

Le voci, invece, se le stava solo immaginando. Si maledì perché dormire significava conceder loro la possibilità di tormentarla, di lasciare che il caos che le albergava in petto prendesse il sopravvento, la schiacciasse sotto il peso di decisioni irresolute e di scelte rimandate per troppo tempo. Una stupida debolezza che l'avrebbe consumata fino all'osso un giorno o l'altro.

La corda con cui si era assicurata all'albero prima di addormentarsi le premeva sullo stomaco, rassicurante e fastidiosa insieme. Doveva procurarsene una nuova: l'aveva dovuta tagliare quando le grida di Clint, aggredito da Molot, l'avevano sorpresa addormentata nel bosco vicino alle rovine della chiesa. Adesso era troppo corta.

Se ne liberò e scese giù dopo essersi accertata che non ci fosse nessuno nei paraggi. Il sole stava tramontando e l'aria era pesante e salmastra – la pioggia sarebbe arrivata di lì a poco, sospettava.

Avrebbe dovuto tornare indietro. Avrebbe dovuto andare avanti. O forse restare ferma era la soluzione migliore.

Le voci ricominciarono a sovrapporsi nella sua testa, ognuna intenzionata a dire la propria, ciascuna col proprio consiglio o ordine o miglior corso d'azione da seguire.

“State zitte,” sibilò a se stessa mentre raccoglieva le sue cose. “Zitte.”

 

***

 

Il respiro dell'uomo era caldo e nauseabondo contro la sua guancia. Si sforzò di sorridere e di tenere bene a mente il motivo per cui si era infilata in quella situazione: l'obbiettivo doveva essere raggiunto ad ogni costo.

Di compagnie itineranti da queste parti, non ne passano,” pronunciò rauco, la mente concentrata altrove. Con una mano si stava facendo strada tra gli strati delle sue sottane, finché non ebbe trovato la carne morbida delle cosce. L'afferrò bruscamente, attirandola a sé con impazienza.

Oh, è un vero peccato.” Si mostrò ingenua, interessata, infantile nel proprio entusiasmo. “Ma ne hai mai visti?” Gli chiese, fermandogli la mano prima che potesse risalire oltre. “I pagliacci, le donne barbute, gli acrobati altissimi, arcieri che riescono a fare cento centri consecutivi!

L'uomo rise schiacciandola maggiormente alla parete. Gli piaceva che si mostrasse disponibile, ma allo stesso tempo pudica, che rendesse il gioco abbastanza difficile da essere interessante, ma non troppo da risultare impossibile. Gli uomini sono cacciatori, le avevano insegnato. Che volevano vincere facile, però, l'aveva imparato da sola.

Di donne barbute non ne conosco, ma mia moglie ha dei baffi niente male.” Faceva scorrere il pollice su e giù sulla porzione di pelle calda e liscia poco distante dall'inguine, tentando di forzare l'ostacolo imposto dalla mano di lei. Non sarebbe riuscito a sedurre neppure un cinghiale con quelle maniere grossolane.

E di arcieri...” l'uomo aveva ripreso a parlare, forse sperando di accontentarla dicendole quello che si aspettava di sentire. “C'è un matto nel villaggio dopo il bosco... uno squinternato che vive in casa di uno di quei parrucconi eccentrici. Dicono sia posseduto dal demonio.” Gracchiò qualcosa, accennando l'ennesima risata. “Per quale altro motivo un pezzente dovrebbe essere tanto abile con quei legnetti?

Natasha ricambiò lentamente il sorriso e rimosse le mano, dandogli per un istante l'illusione di averla convinta, soggiogata.

Grazie.” Solo un sussurro prima che l'aria si riempisse dello schiocco del collo che si spezzava.

 

***

 

La nave sarebbe salpata di lì a poco. Le condizioni non erano ottimali e il cielo minacciava pioggia da un momento all'altro. Ma Natasha aveva fretta di tornare dai suoi mandanti per riscattare il suo debito: si era persuasa che quella e nessun'altra era la sua priorità numero uno.

La medaglia era lucida e brillante sotto la grigia luce dell'alba. Una clessidra rossa come il sangue incastonata in un cerchio d'ossidiana nero: era quella la moneta di scambio che le avrebbe permesso di comprare la libertà di Marina.

Durante il loro ultimo tentativo di fuga avevano deciso di uscirne in ogni caso – vive o morte. Gli uomini sguinzagliati dalla Stanza Rossa le avevano trovate, ma invece che lasciarsi ricondurre docilmente all'ovile con la rassegnazione negli occhi – com'era già successo molteplici volte –, avevano deciso di combattere. Natasha si era preparata a morire; niente l'avrebbe convinta a tornare indietro. Non sarebbe più appartenuta a nessuno: se fossero riusciti a reimpossessarsi di qualcosa, quel qualcosa sarebbe stato il suo cadavere e nient'altro.

E poi era andato tutto a puttane. Una pistola aveva fatto fuoco e Marina era rovinata a terra. L'aveva soccorsa e le era bastato un attimo per accorgersi che avrebbe perso la gamba. Aveva tentato di tranquillizzarla, di convincerla a continuare. L'aveva sollevata e sorretta nell'ultimo, disperato accenno ad una fuga ormai irrimediabilmente compromessa.

Non poteva lasciarla. Un'agente che non può reggersi in piedi è un'agente inutilizzabile. L'avrebbero eliminata. Avrebbe fatto sì che nessuna delle due ne uscisse viva, ma Marina l'aveva guardata con occhi terrorizzati e pieni di panico, supplicandola di ripensarci.

Natalia, n-non farlo.

Per questo, alla fine, all'ovile ci era tornata comunque, implorando pietà per l'affronto di quell'ennesima fuga, negoziando per la vita della compagna. Erano seguiti mesi lunghi ed estenuanti in cui gli incarichi si erano accavallati gli uni sugli altri. Quella medaglia era l'ultimo ostacolo che la separava dalla libertà dell'amica. Il gettone di un favore ripagato che le avrebbe finalmente permesso di strapparla all'incubo della prigionia. Di impedire che diventassero entrambe croci sbiadite sul muro di chi non ce l'aveva fatta.

Avrebbe voluto che le cose fossero davvero così semplici. Lineari.

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti,” le ricordò Selvig nella sua testa.

Rialzò il capo per seguire gli spostamenti degli uomini affaccendati sul molo, pronti alla partenza imminente. Le ci era voluto un giorno intero per raggiungere il porto dei contrabbandieri sulla costa a nord dell'abbazia. Era stanca – tutte le energie spese per tenere ben lontani dalla mente pensieri molesti e divagazioni inutilmente negative. Ma più le ore scivolavano via e più diventava difficile ignorarli.

Ripensò a Molot. La decisione dei sommi capi di concederle un'altra chance non era stata unanime: alcuni tra quelli avrebbero voluto vederla morta prima che diventasse una spina troppo fastidiosa nel fianco dell'organizzazione. Era possibile che in sua assenza gli equilibri di potere della Stanza Rossa fossero nuovamente cambiati, che chi le aveva concesso di rimediare fosse stato rimosso una volta per tutte. Il monaco era stato mandato per ucciderla, su questo non aveva dubbi.

L'implicazione che quella condanna in contumacia significasse anche la morte dell'amica, però, non voleva prenderla in considerazione. Ma per quanto tentasse di respingerla e prenderne le distanze, la sua mente pragmatica già sapeva come dovevano essere andate le cose. Se avevano deciso di poter fare a meno di un'agente ancora perfettamente in grado di portare a termine i propri compiti, sicuramente si erano già sbarazzati della storpia che marciva nei loro sotterranei.

Natalia, n-non farlo.

Il tuono che rimbombò nell'aria un attimo dopo la fece rabbrividire. Il cielo si era annerito; spessi banchi di nubi si erano assiepati sulla linea dell'orizzonte. Trattenne il respiro mentre la pioggia andava a confondersi col mare.

 

***

 

Il silenzio era pieno dei rumori del bosco. I sussurri delle fronde, il frusciare dell'erba, i passi silenti degli animali, il muto frullar d'ali degli uccelli notturni.

E' mio fratello.” L'asserzione gli era uscita come un sorta di affronto, un modo di consegnarle un'informazione con la curiosità di scoprire che cosa ne avrebbe fatto.

La consapevolezza le scese addosso con straordinaria chiarezza: il sospetto se lo portava dietro da giorni, ancora informe e confuso, ma adesso le appariva davanti agli occhi limpido e definito.

Clint era una versione più pulita e meglio mantenuta di Trickshot. Il capo dei ribelli l'aveva mandata alla ricerca del fratello perduto – ecco perché si era raccomandato di volerlo vivo. “Voglio occuparmene personalmente” le aveva detto, e Natasha si era immaginata le circostanze di un regolamento di conti come qualsiasi altro, un debito che andava saldato col sangue.

Lo guardò attraverso il buio, gli occhi grigi che sembravano scintillare nell'oscurità e il senso di colpa che le si riaccendeva in petto. Erano fratelli, ma dubitava che le intenzioni di Trickshot fossero pacifiche. Quell'uomo le faceva paura perché era imprevedibile, troppo sensibile a repentini cambiamenti d'umore per poter essere letto come una persona qualsiasi.

Lo stava conducendo in una trappola da cui non era sicura che sarebbe uscito vivo.

 

***

 

La partenza era stata rimandata in attesa che il temporale si placasse. Marinai e contrabbandieri si erano rifugiati nelle grotte che punteggiavano la scogliera, gli occhi mestamente puntati sulle navi attraccate nel porticciolo nascosto; la speranza che resistessero alla furia degli elementi viva nei volti mangiati dal sole. Qualcuno beveva, altri avevano azzardato a canticchiare qualcosa, ma in maggior parte tacevano.

Natasha era rimasta in disparte, il cappuccio calato sugli occhi. Non era preoccupata, ma contava che nessuno la disturbasse. Le onde furibonde, aiutate dal vento, facevano vorticare gocce salate fino all'ingresso della caverna, spruzzandole le guance.

Si chiese se Trickshot avesse deciso di risparmiare il fratello. Si chiese se Clint fosse ancora vivo e se sì, per quanto lo sarebbe stato ancora.

Voglio occuparmene personalmente. Cos'aveva in mente?

Si sentiva stupida per come i suoi pensieri si dividevano tra la compagna molto probabilmente già morta e quell'uomo che conosceva a malapena e che non aveva fatto altro che ingannare sin dal primo giorno che si erano incontrati. Per quanto si lambiccasse il cervello non capiva perché l'avesse seguita.

Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare.

Se l'era ripetuto un centinaio di volte nel tentativo di capire dove stesse l'inghippo. E alla fine aveva risolto che non ce n'era, che era stato sincero. Era abile, Clint, e capace di cavarsela anche nelle situazioni più complesse, sempre riuscendo a mantenere una leggerezza che la destabilizzava; ma mentire non era la sua specialità, soprattutto quando il fratello creduto morto gli si era materializzato davanti agli occhi.

Aveva parlato senza filtri, ottenendo solo di squarciare la sua indifferenza, di farla in mille pezzi.

Ti vedo.”

Ma non aveva ancora il coraggio di crederci.

 

***

 

Il cuore le si rimpicciolì alla vista della clessidra incisa nella pelle. Dovevano aver deciso che non valeva la pena accontentare i suoi capricci di agente redenta, che in fin dei conti faceva loro più comodo da morta piuttosto che da viva. Non importava quanto fosse abile o che fosse il meglio che il monastero avesse mai prodotto: uno schiavo disubbidiente è uno schiavo che non vale la pena avere.

Era bastata quella vecchia nenia ad instillarle il panico, a farglielo scorrere nelle vene fino ad avvelenarle il sangue. Ma aveva sperato che fosse solo una coincidenza. Una bizzarra, assurda, improbabile coincidenza.

Non so se stai lavorando o se sei scappata,” il Mangiafuoco le stava parlando in quella loro lingua slava, regolare e priva di accento. “Non importa. Vattene e non guardarti indietro.

Si placò di colpo. Non era un sicario. Era un fuoriuscito, qualcuno la cui fuga aveva avuto successo. Provò un moto di invidia mista ad ammirazione e persino ribrezzo. Come se una parte di lei non potesse esimersi dallo sfoggiare una ridicola fedeltà ad una causa che non le apparteneva.

Non tornare da loro,” insisté l'uomo. “Qualsiasi cosa succeda non tornare da loro.

Come avrebbe potuto dirgli che avevano ancora un conto in sospeso? Che la vita di Marina era appesa ad un filo e che solo lei avrebbe potuto impedire che l'abbattessero come un animale rabbioso?

Non è così facile.

No, non lo è. E' la cosa più dura che farai... ma è anche la più semplice.

Le sue parole le scesero nello stomaco con una familiarità schiacciante. Era questione di vita o di morte. Di vera vita e di morte reale o, peggio, solo apparente. Rimanere avrebbe significato morire pure se il suo cuore avesse continuato a battere, compromesso dopo compromesso. Finché di lei non sarebbe rimasto un bel niente.

Andate,” ripeté. “E non tornare a cercarmi.” L'espressione era rimasta impassibile, ma la voce era perentoria. “Se torni a cercarmi, se mandi qualcuno a farlo...

Lasciò la frase in sospeso, permettendole di completarla a proprio piacimento. Sapeva di cos'erano capaci gli adepti della Stanza Rossa – le stesse cose di cui era capace lei.

Annuì una sola volta prima di decidersi a raccogliere le bisacce e ad afferrare Clint per il braccio sano. Soffocò la gratitudine e la sorpresa che erano rimaste ad aleggiarle in petto dacché aveva realizzato che si era beccato una freccia per lei, concedendo solo alla stizza di affiorare in superficie. Non era una donzella in difficoltà e non aveva bisogno di essere salvata.

Né da lui, né da Boris.

 

*

 

Vi darò una moneta d'oro.

Il contadino le scoccò un'occhiata diffidente, guardando alternativamente lei e il carro carico di ceste e casse con cui Natasha l'aveva visto sopraggiungere. Il ronzino che vi era attaccato, invece, era talmente immobile da sembrare una statua.

Solo fino al villaggio oltre il ponte?” La domanda le rivelò che stava per cedere e accontentarla.

Solo fino al villaggio oltre il ponte,” promise, mostrandogli la moneta in segno di buona fede.

L'uomo – tarchiato, dal collo largo e i fianchi rotondi – esitò ancora un istante prima di rilasciare un brusco sospiro. Scese da cassetta e si affrettò ad impossessarsi del soldo prima che uno dei due potesse cambiare idea.

Natasha lo guardò soffermarsi accanto al corpo privo di sensi di Clint. Il suo compagno di viaggio era svenuto durante la medicazione; aveva tentato di risvegliarlo, ma non ci era riuscita. In circostanze diverse avrebbe aspettato che si fosse ripreso, ma dal nascondiglio in cui aveva trascinato entrambi, aveva scorto diversi gruppi di soldati puntare verso il ponte di pietra al quale erano ormai prossimi.

La quantità di militari in giro per le campagne cominciava a preoccuparla; dubitava vivamente che fossero lì per lui, ma ciò non toglieva che Clint fosse ancora ricercato. Sarebbe stato utile scoprire che diavolo stesse succedendo per evitare di cadere in qualche grossolana trappola, ma si obbligò a riordinare le priorità. Doveva rimettersi in viaggio, raggiungere l'abbazia e concludere il lavoro. Capire che razza di intrighi di potere fossero in corso nel regno era sicuramente una priorità secondaria, ma decise comunque di indagare se se ne fosse presentata l'occasione. Magari era semplicemente cominciata l'ennesima guerra di cui nessuno, tra il popolo, avrebbe capito le cause o gli interessi, pagandone però il prezzo più alto.

Aiutò il contadino a sollevare Clint e a sistemarlo sul carretto, tra le casse, le ceste e i mucchi di paglia. Con la scusa di coprirlo col proprio mantello, Natasha si curò di nasconderlo il più possibile alla vista nel caso avessero incrociato qualche soldato ficcanaso.

Che gli è successo comunque?” Le chiese l'uomo, invitandola a seguirla per risalire a cassetta insieme a lui.

Ha alzato troppo il gomito ieri sera,” mentì.

Il contadino non sembrò troppo convinto dalla spiegazione.

Il bosco è pieno di pericoli,” decretò a mezza voce, come credendo di aver intuito qualcosa e, di conseguenza, aver condiviso un consiglio del tutto disinteressato.

Natasha ripensò a Clint, a quello che le aveva detto prima di perdere i sensi, al modo in cui si era curata di eludere le sue domande.

No, una strega non deve aver paura di ciò che si nasconde anche nella foresta più buia: perché una strega sa che la cosa più pericolosa, là dentro, è proprio lei. (*) Prese posto accanto al contadino, sforzandosi di convincersi che era vero. Che non aveva paura, che non poteva averne.

 

***

 

Era scoppiata una rissa alle sue spalle, ma Natasha non se ne curò. Aveva un foglietto tra le mani, macchiato del sangue del tenente a cui aveva tagliato la gola nella fetida cella del centro di detenzione – gliel'aveva sfilato dalla tasca interna della divisa senza averlo realmente preventivato. Vi erano state vergate parole frettolose in un inchiostro costoso:

 

Prepararsi alla festa della corona e convergere sulla capitale.

Il capitano Rogers non è stato ancora recuperato, ma il piano non è cambiato.

I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto.

E' tutto pronto. Procedere come programmato.

Assicuratevi di fare la vostra parte per la gloria del regno.

H.H.

 

Farsi catturare alla locanda, con l'intenzione di scoprire che diavolo stesse succedendo, era stata una scelta avventata e potenzialmente pericolosa. A ripensarci adesso, in retrospettiva, si rendeva conto di aver rischiato molto. Troppo. L'azzardo, però, le aveva permesso di far luce sulla situazione, di poter agire in modo un po' più consapevole – anche se ormai temeva che la faccenda andasse ben al di là dei consueti confini di un mutamento negli equilibri di potere della capitale.

Mancava solo una settimana alle celebrazioni per la festa della corona e ormai il sospetto che l'esercito fosse coinvolto in un colpo di stato si era fatto concreto. Ecco spiegata la quantità di truppe dislocate in tutto il regno.

Ricordò la scusa che si era inventata per convincere Clint a non abbandonare la chiesa di padre Selvig: le strade intorno ai possedimenti del cugino del sovrano erano sotto lo stretto controllo dei soldati del re per schiacciare qualsiasi rivolta contadina nel sangue; sarebbe stato impossibile eludere la loro sorveglianza. A quell'altezza, però, non si era fatta troppe domande sul perché; si era solo limitata a servirsi di quell'informazione – e del rinomato pessimo temperamento del cugino del sovrano – per fabbricare un monito sufficientemente persuasivo.

Fantasticò su quello che sarebbe potuto succedere se l'avesse lasciato andare. Forse sarebbe tornato al villaggio per poi essere catturato dagli uomini di Rogers o usato come moneta di scambio per stanare i Coulson, spariti a nascondersi chissà dove. Magari il nobile eccentrico era meno sprovveduto di quanto sembrasse, magari aveva amici potenti nell'ordine dello Scudo che avrebbero potuto metterlo in salvo. Era possibile che l'attentato al capitano fosse stato organizzato proprio da loro e poi messo in pratica grazie al suo aiuto. Oppure l'attentato non era stato pensato ai danni del capitano.

I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto.

Clint avrebbe voluto saperlo. No, di più, meritava di sapere cosa stava succedendo, che – qualsiasi cosa fosse – i suoi familiari vi erano rimasti coinvolti. Se fosse stata al suo posto, avrebbe voluto esserne messa al corrente per poter prendere una decisione autonoma.

Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare.

Socchiuse gli occhi ed inspirò a fondo.

 

***

 

Aveva capito che le cose si sarebbero messe male quando grida di orrore avevano riempito la piazza addobbata a festa per le celebrazioni in onore del patrono.

Non era riuscita a vedere il momento in cui il capitano Rogers era stato colpito, ma le erano bastate le reazioni della gente per capire cosa fosse successo.

L'istinto di andarsene il più rapidamente possibile – nascosta e camuffata com'era tra la folla così come faceva per tutte le sue sporadiche visite al villaggio – aveva subito preso il comando della situazione.

Aveva fatto ritorno alla casa nel bosco, sperando che la notte, insieme alla superstizione degli abitanti del villaggio, li avrebbe tenuti a distanza. Ma si era sbagliata.

Aveva temuto che il panico e la psicosi generale avrebbero innescato un processo di furia e vendetta irreversibile e così fu.

Si precipitò in casa, gettando a terra l'ampio mantello che la nascondeva. Spalancò il ripostiglio e ne estrasse la bisaccia che teneva sempre pronta in caso di emergenza. Gettò a terra la parrucca bionda e si assicurò un lembo della sottana alla cintura, per essere sicura di avere tutta la libertà di movimento di cui – ne era sicura – avrebbe presto avuto bisogno.

Continuò a cercare tra le finte provviste di cui disponeva finché non trovo quello che le serviva: pece liquida. Uscì all'esterno quando già il palpitare degli zoccoli dei cavalli vibrava nell'aria; si mosse con rapidità, tracciando un cerchio attorno alla casa, ma con l'accortezza di lasciarsi uno stretto varco sul retro per garantirsi una via di fuga.

Il cuore le batteva in petto come impazzito mentre il cervello si sforzava di restare lucido, di fare mente locale nel modo più analitico possibile: un minuscolo errore sarebbe stato sufficiente a metterla in guai seri. Poteva fuggire, certo, ma l'ultima cosa di cui aveva bisogno era trascinarsi dietro l'esercito in un inseguimento senza né capo né coda; senza contare che aveva una missione da portare a termine: allontanarsi di lì senza Clint sarebbe stato un errore imperdonabile. Tutto il lavoro fatto fino a quel momento sarebbe andato in fumo. No, era una prospettiva inaccettabile.

Rientrò in casa per accendere, alla fiamma del camino, una piccola torcia fatta di legno e stoffa.

Quando tornò all'esterno e si fermò sul ciglio del cerchio di pece, le macchie rosse delle divise dei soldati del re erano ormai schierate davanti a lei. Fece scorrere lo sguardo sui loro volti contriti dalla rabbia, sugli occhi annebbiati dall'alcool ingerito durante la festa tanto bruscamente interrotta.

Signori,” li accolse con un leggero inchino.

Ammazzatela!” Gridò qualcuno, facendo un gesto imperioso nella sua direzione.

I soldati si mossero contemporaneamente, scattando in avanti. Natasha indietreggiò con agilità, attirandoli all'interno del cerchio uno ad uno, finché al suo esterno non ne rimase nessuno.

Mentre le urla della gente del villaggio cominciavano a raggiungerla, Natasha si soffermò sulla soglia della piccola abitazione. Un attimo prima che il soldato più vicino sguainasse la spada per aggredirla, lanciò la torcia accesa in un punto ben preciso: le fiamme si appiccarono alla pece, erigendo un muro di fuoco che avrebbe tenuto a bada la folla... almeno per un po'. Quel tanto che le sarebbe bastato ad escogitare un piano alternativo.

Col calore che risaliva fino alle pareti, con le lingue bollenti che, prima o poi, avrebbero intaccato anche la casa, Natasha si preparò a combattere.

 

***

 

Era ormai tarda notte quando la nave salpò dal porticciolo; un'ombra scura che scivolava dolcemente sulla tavola scintillante del mare.

Natasha la guardò allontanarsi dal suo punto di osservazione sul picco della scogliera. L'imbarcazione prendeva il largo, portandosi via l'ultima speranza di rivedere Marina in vita. La medaglia giaceva inerte e fredda nello spazio tra i seni, il cordoncino ruvido e dolorosamente presente contro la pelle del collo.

Tentò di convincersi che era già morta. Che Molot era stato inviato per completare un lavoro già avviato in separata sede, che se fosse tornata indietro non avrebbe trovato altro che un cadavere dato alle fiamme e una moschetto puntato addosso.

Non metteva in dubbio che sarebbe morta comunque. “Qualcosa di grosso bolle in pentola” l'aveva messa in guardia il Mangiafuoco, e ormai era convinta si trattasse dei piani segreti per decapitare la monarchia e creare un vuoto di potere che avrebbe favorito chissà chi. La Stanza Rossa doveva essere coinvolta, ma da sola non avrebbe avuto i mezzi per mettere in pratica un colpo di stato su così larga scala. Qualsiasi fosse il suo alleato principale (H. H. diceva il biglietto del tenente), l'ordine dello Scudo era l'ultimo bastione in difesa della dinastia Stark.

Ma tutti quegli intrighi non le importavano: le congiure di palazzo non la riguardavano. Tutto ciò che sapeva era che i Coulson erano coinvolti e che Clint era caduto nella trappola di suo fratello perché lei ce l'aveva condotto.

Voglio occuparmene personalmente.

Se doveva essere morta di lì a qualche giorno – i traditori saranno giustiziati – tanto valeva andarsene con un ultimo, disperato atto di rivendicazione.

Si chiese se Marina sarebbe stata d'accordo. Si chiese se, arrivata al dunque, non si sarebbe lasciata prendere dal panico anche lei. Si chiese se avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo.

Natalia, n-non farlo.

Si sfilò la collana, guardando la clessidra rossa brillare nella luce pallida di una notte tersa e placida. Lasciò che la risolutezza delle proprie decisioni le scivolasse nello stomaco con la tranquillità delle cose inevitabili e fatali. Tese il braccio sul baratro che si apriva oltre la scogliera e distese una ad una le dita contratte attorno al cordoncino.

Avranno sempre qualcosa con cui ricattarti.

La medaglia, la sua unica speranza di contrattare con la Stanza Rossa, venne inghiottita dall'aria fitta di tenebre prima, dalla massa cupa del mare poi.

Ti vedo.

 

*

 

Aveva rubato un cavallo da uno dei carichi in partenza e aveva cavalcato per tutta la notte finché il profilo dell'abbazia non si era delineato sul fondo grigio del cielo. Solo allora si era accorta che non avrebbe potuto avvicinarsi all'edificio, né tantomeno penetrarvi, senza la copertura offerta dall'oscurità.

Doveva aspettare. Ore. Prima che il momento propizio si presentasse.

Voglio occuparmene personalmente.

Erano passati due giorni da quando aveva consegnato Clint al fratello e niente le vietava di pensare che fosse già morto, tolto di mezzo nell'esatto istante in cui era stato inghiottito dalle mura di cinta, il braccio di Trickshot drappeggiato sulle spalle.

Sapeva che i suoi uomini erano sparsi un po' dappertutto nel raggio di almeno un miglio dall'abbazia e che l'operazione richiedeva la massima cautela – lasciarsi catturare per ottenere l'accesso al quartier generale dei ribelli era un'opzione che aveva già scartato. Erano decisamente troppo numerosi e l'unico modo per ingannarli era conservare il fattore sorpresa, attaccarli prima che potessero capire cosa li avesse colpiti.

L'esterno della costruzione era irregolare, gli appigli sufficienti affinché potesse essere scalata se non comodamente, almeno senza rischiare di ammazzarsi. E poi c'era un lato che gli scagnozzi di Trickshot non si preoccupavano di sorvegliare: quello a strapiombo sul mare.

Si nascose nel bosco poco distante dallo spiazzo erboso antistante l'edificio e legò il cavallo in un punto abbastanza appartato – se ne fossero usciti vivi, avrebbero avuto bisogno di una rapida fuga.

Dopodiché prese rifugio sui rami più alti di un grosso albero, passando il tempo ad individuare le guardie nascoste un po' per tutto il prato, sulle mura, qualcuna persino sul piccolo campanile dall'aria pericolante.

Un ronzio lontano e distante le fece compagnia fino al tramonto.






(*) citazione rielaborata da Terry Pratchett (x)

Note: primo capitolo dal POV di Natasha che credo spieghi un bel po' di cose sul perché ha fatto quello che ha fatto, e anche cosa stava combinando o pensando nel corso di avvenimenti che abbiamo visto solo dal POV di Clint. E' strano perché di solito ho molta più dimestichezza con Natasha che con Clint e invece questo è l'ultimo capitolo che ho finito di scrivere di tutta la storia... 'na faticaccia, non saprei neanche spiegare granché. Spero abbia un senso compiuto in ogni caso :P
Per la cronaca, Marina è una compagna di Natasha nel fumetto dedicato alla Vedova Nera di Nathan Edmondson (finito troppo presto ahimè).
Per lo scioglimento del cliffhangerone, come vi avevo anticipato, tocca aspettare il prossimo capitolo.
(Per i flashback ho usato la tecnica dei dialoghi in corsivo scippata senza troppi complimenti a Dark Rain di Sheep01 che - se non la state già leggendo - vi consiglio caldamente. Ne approfitto anche per ringraziarla per il sostegno morale, fandomistico e tutte cose.)
E un grazie anche a chi legge & recensisce, ché mi fa sempre piacere.
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo 13

~

 

Sentì qualcosa spezzarsi all'altezza del petto quando Barney lasciò andare la freccia. La parte di lui che osava sperare anche nelle situazioni più disperate si era convinta che non l'avrebbe fatto. E invece eccolo lì, gli occhi accesi di rabbia, le labbra incurvate in una smorfia basita.

Forse neanche lui si era aspettato di poter andare fino in fondo. Negli anni la frustrazione e la preoccupazione si erano mischiati alla sofferenza, trasformandola in un odio intenso, ossessivo e cocente che aveva bisogno di un obbiettivo su cui indirizzarsi.

Il tempo sembrava aver rallentato, facendosi melmoso, appiccicoso, scivolando faticosamente nello spazio che li separava. Clint sapeva che avrebbe dovuto togliersi dalla linea della traiettoria, o almeno provarci. Ma i piedi gli si erano fatti di piombo, saldamente ancorati al pavimento di pietra, impedendogli anche solo di prendere in considerazione l'idea di schivare il dardo.

Si odiò per l'arrendevolezza, eppure quella sensazione di finalità e risoluzione sapeva di sollievo e di liberazione. Aveva pianificato di abbandonare villa Coulson per ritrovare se stesso – e dio solo sapeva quanto detestasse quell'espressione – per scrollarsi di dosso l'apparenza del giovane signore e ritrovare un abito che gli andasse più a genio, che lo rispecchiasse. Forse aveva sempre segretamente sperato che Barney fosse la chiave di volta dell'enigma che si trovava davanti tutte le volte che scorgeva il proprio riflesso.

Natasha aveva ragione. Non era una questione geografica e – adesso lo capiva – neanche di tempo. Suo fratello non c'era più: il Barney che avrebbe potuto dargli una qualche sicurezza, ricordargli chi era stato, era morto. Non abbiamo un posto nel mondo. E quel senso di inappartenenza lo faceva sentire leggero, senza peso, capace di fluttuare a mezz'aria tra terra e cielo senza realmente poter mettere mano né sull'una, né sull'altro.

Magari era quella freccia che pareva essersi impigliata all'aria tramutata in liquido spesso e trasparente che lo separava dal fratello – magari era quella freccia la risposta a tutti i suoi problemi. Un'apatia sconcertante si impossessò di lui. Provò disgusto per se stesso, ma non mosse un muscolo.

Trattenne il respiro e poi una scintilla lo abbagliò, costringendolo a chiudere gli occhi. Si aspettò di sentire i polmoni svuotarsi d'aria per lo shock del colpo infertogli, ma c'era solo il battito furibondo del suo cuore a rimbombargli negli orecchi.

E poi un ronzio... un ronzio così intenso da chiedergli se non se lo stesse inventando. Tornò a guardarsi attorno mentre le urla si levavano dai quattro angoli della stanza. Ebbe appena il tempo di individuare la freccia svariati metri più in là e, poco distante, un coltello che gli parve di riconoscere.

Natasha?

Un attimo ancora e il finimondo scoppiò nell'antico refettorio, gli uomini di suo fratello che si disperdevano come formiche impazzite. Piccoli puntini neri saettavano nell'aria... e poi lo vide, l'alveare scaraventato a terra attraverso una delle alte finestre: si era aperto come un frutto maturo, vomitando nella stanza un nugolo di insetti incazzati. Un diversivo. Barney si era messo ad urlare istruzioni che nessuno pareva aver intenzione di seguire.

Natasha piovve letteralmente dal ritaglio nero di notte del davanzale. Atterrò con eleganza, pugnali stretti in entrambe le mani e un'espressione indecifrabile sul volto.

“Ce ne dobbiamo andare!” Lo esortò al di sopra del rumore assordante, delle braccia impazzite che si divincolavano forsennate nella speranza di scacciare via le vespe.

Era venuta a prenderlo. Si accorse di non sapere come la cosa lo facesse sentire.

Annuì una sola volta, costringendosi ad uscire dallo stato di totale apatia in cui era precipitato – avrebbe avuto bisogno di un'arma se voleva andarsene illeso. La maggior parte degli uomini di Barney aveva lasciato cadere a terra qualsiasi cosa avessero per le mani; il suo arco, le sue frecce e la pistola – che, aveva visto giusto, erano entrati in possesso di uno scagnozzo di Barney – non facevano eccezione: giacevano a terra tra i corpi che si dimenavano convulsi.

“Fermate la donna!” La voce di suo fratello.

Clint passò all'azione, schivando gli energumeni che si erano messi a correre per ammassarsi contro l'uscita e salvarsi. Ricevette un paio di spallate e una gomitata in un fianco che quasi gli tolse il respiro, ma riuscì a recuperare prima l'arma da fuoco e poi arco e frecce, infilandosi la prima nella cintura e imbracciando in fretta e furia il secondo, pronto ad utilizzarlo.

Si voltò per accorgersi che qualcuno aveva cominciato a mettere in pratica gli ordini di Barney: un uomo alto e muscoloso coi capelli unti appiccicati al collo si era scagliato contro Natasha, ingaggiando un corpo a corpo che durò ben poco. Un sorriso rosso gli si aprì sul collo prima che altri tre si avventassero su di lei.

Stava per raggiungerla, aiutarla a far fronte all'orda di ribelli incazzati, ma si sentì scaraventare a terra, come travolto. Riuscì a mantenere l'equilibrio – il ronzio, le urla rabbiose come ringhi che rimbalzavano sulle pareti – e si ritrovò a fronteggiare Barney. Gli occhi arrossati e accesi di un'ira lucida e spietata.

Lo aggredì con uno scatto quasi felino, sferrandogli uno, due, tre pugni che Clint riuscì a parare in varia misura. Non voleva fargli del male, ma neanche lasciarsi prendere a botte come un sacco di barbabietole. Lo respinse con un calcio nello stomaco, guardandolo indietreggiare bruscamente.

“Non voglio combattere con te,” gli disse, facendosi a malapena sentire al di sopra del caos che ancora imperversava nella stanza.

Qualche cadavere ricoperto di chiazze rosse punteggiava già il pavimento, altri assiepati vicino all'ingresso dove la calca aveva fatto più danni degli insetti. Se n'erano andati quasi tutti, tranne i pochi che avevano deciso di seguire le istruzioni di Barney – alcuni ritornavano brandendo armi di fortuna, forse pentiti della propria vigliaccheria e decisi a rimediarvi in qualche modo.

“No!” Trickshot gridò, bloccando il terzetto che accorse in loro direzione. Era sudato e l'aria sembrava accavallarglisi in gola, quasi avesse avuto fretta di uscirgli di bocca. “Lui è mio! Pensate alla donna!”

Sbraitava e indicava Natasha che veniva lanciata contro la parete proprio in quel momento. Si rialzò subito e, slanciandosi con la schiena contro il muro retrostante, riuscì a salire cavalcioni sulle spalle dell'uomo che l'aveva attaccata. Gli spezzò il collo con una mossa fluida, abitudinaria, e attutì la caduta quando il morto si afflosciò a terra portandosela dietro.

Lo scintillio di una lama obbligò Clint a prestare attenzione a Barney piuttosto che a lei. Balzò all'indietro per evitare che il pugnale del fratello lo colpisse al volto. Più rapidamente e ripetutamente schivava e più la furia di Barney andava moltiplicandosi. Non aveva previsto tutta quella resistenza, non aveva previsto che il caos infuriasse nel suo quartier generale proprio alla vigilia del viaggio che l'avrebbe portato alla capitale, pronto a conquistarsi un posto al sole accanto ai potenti del regno, per sé e per i suoi uomini.

E adesso quell'ingrato, quel traditore di suo fratello non solo rifiutava di farsi ammazzare, di ricevere la sua vendetta con la squallida rassegnazione che si era prefigurato, ma aveva pure osato scompigliare i suoi piani e umiliare la sua gente.

“Barney, non ti voglio combattere!” Clint ripeté, ricacciando il dolore per la vista di quello sconosciuto, tanto simile al ragazzino che era stato tutto il suo mondo, eppure così diverso da apparirgli estraneo.

“Smettila di chiamarmi con quel nome!” La voce gli si era fatta roca a trafelata. Tentò ancora un paio di affondi, muovendo il coltello con estrema rapidità, senza tuttavia riuscire a intercettare il bersaglio.

Clint si fece scudo con l'arco, bloccando i polsi del fratello quand'erano ancora a mezz'aria e pronti ad abbattersi su di lui. Lo guardò dritto negli occhi, ma era come se Barney non potesse vederlo. Un velo invisibile gli era sceso sullo sguardo, impedendogli di metterlo a fuoco.

“Cosa vuoi che faccia?” Gli chiese, sperando di farlo ragionare. “Che ti chieda scusa?”

“Vorrei che fossi morto in quell'incendio!” Gridò l'altro mentre tentava di forzare il blocco delle sue mani.

“Ma non lo sono!” Lo lasciò andare solo dopo averlo disarmato, indietreggiando di un paio di passi per ristabilire le distanze. “E non ti colpirò.” Gettò a terra il coltello che gli aveva sottratto, per ribadire il concetto.

Era pronto a tutto, ma non a diventar complice di suo padre lasciandosi convincere a picchiare quello che era stato suo fratello.

“S-Sei un debole,” balbettò Barney disgustato. Sputò a terra per sottolineare il sentimento prima di caricarlo di nuovo a testa bassa.

Stavolta fu abbastanza veloce da fargli perdere l'equilibrio. Clint si sentì trascinare verso il basso e solo lo schianto contro il muro gli impedì di cadere sul pavimento. Il contraccolpo gli mozzò il respiro in gola, ma non si lasciò scoraggiare.

Barney ebbe appena il tempo di colpirlo allo stomaco; Clint l'afferrò per i fianchi e usò tutta la sua forza per spingerlo lontano e liberarsi dalla sua presa. Ci riuscì, ma il fratello lo attaccò ancora una volta, e poi una in più, costringendolo ad una bizzarra danza in mezzo al refettorio semideserto per scansarlo a più riprese.

Trasalirono entrambi quando uno sparo riverberò tra le pareti di pietra, risuonando come un lamento sordo o forse uno di quei canti chiesastici che gli era capitato di sentire durante le funzioni a cui lord Phillip l'aveva obbligato a partecipare.

Fece per voltarsi, ma il grido di Natasha che gli ordinava di fare attenzione lo obbligò a tenere l'attenzione puntata su Barney. E infatti rieccolo che gli si buttava addosso, sconnessamente e quasi con disperazione, come le volte in cui da ragazzini si azzuffavano senza un motivo preciso, solo per il puro gusto di mettere in moto i muscoli e sfogare frustrazione e rabbia.

“Smettila,” gli intimò per l'ennesima volta mentre tentava di scrollarselo di dosso. “Smettila!”

Il modo in cui riusciva a tenergli testa gli dava la misura esatta di quanto tempo fosse passato, di quanto le cose fossero cambiate. Non era mai riuscito ad atterrarlo una sola volta, quand'erano piccoli; non era mai stato in grado di batterlo in niente che non fosse stato il tiro con l'arco. Per questo si era aggrappato a quello stupido numero circense in modo quasi spasmodico, perché finalmente era riuscito a trovare qualcosa in cui suo fratello non fosse più bravo e abile di lui.

Ma adesso le sue braccia erano forti quanto le sue, i suoi muscoli avvezzi alle fatiche e abbastanza allenati da impedirgli di soggiogarlo con la facilità di un tempo.

Si rese conto di quanto fosse stato stupido essersi aspettato che le cose fossero rimaste uguali a come le ricordava, che il tempo non avesse passato un colpo di spugna sugli anni trascorsi dall'incendio all'accampamento dei saltimbanchi, che non avesse profondamente mutato l'aspetto di entrambi, delle loro vite, persino dei loro ricordi.

Clint aveva coltivato la memoria del fratello con timore quasi reverenziale, con la solita ammirazione che era solito tributargli da bambino, rafforzata dal senso di colpa per non aver aspettato che tornasse indietro a prenderlo, quella notte. Barney, invece, aveva eretto un altare al risentimento e al rancore – tanto che quando aveva scoperto che fine avesse fatto, non era neanche andato a cercarlo, ma si era assicurato di porre il maggior numero di miglia possibile a separarli.

Ancora faceva fatica a capacitarsi di come le cose fossero andate a puttane tanto rapidamente. Barney aveva smesso di essere l'oasi felice su cui aveva fantasticato per tutti quegli anni, anche adesso che era un uomo fatto e finito che non sapeva più chi dovesse essere.

Non abbiamo un posto nel mondo.

Ruotò su se stesso per schivare l'ennesimo, disarticolato attacco del fratello. Respiravano entrambi affannosamente, stanchi per quello spreco di energie non previsto – a Clint la testa girava e le membra gli si erano fatte di colpo pesanti.

“Non serve a niente,” fu di nuovo lui a parlare, a provare la via della diplomazia. “Parliamo, va bene?”

“Parlare non serve!” Gridò Barney, quasi offeso dalla soluzione prospettata da Clint. “Non uscirai di qui vivo!”

“Che cazzo ti è successo, ah?” Fece un passo avanti, incapace di resistere alla frustrazione che gli andava annodando lo stomaco in una morsa gelida.

“Te l'ho detto che cazzo è successo! Te ne sei andato! Mi hai abbandonato!”

“Non avevi bisogno di me!”

Urlò, tremando violentemente sotto la foga dell'odio che lo animava. Se gli avessero tolto quello, Clint non era sicuro che non si sarebbe afflosciato a terra come un tendone smontato.

“Non capisci, non è vero? Certo che avevo bisogno di te!” Si puntava il dito sul petto con tale forza da far diventare il polpastrello bianco come la neve. “CERTO CHE AVEVO BISOGNO DI TE!”

Il tono disperato ebbe l'effetto di farlo zittire – il suo cuore era come un tamburo suonato con violenza, le cui vibrazioni gli pulsavano dal petto e poi su su fino al collo, le tempie, la sommità della testa. Avrebbe voluto rispondergli mille cose, dirgli che non poteva essere vero, che era solo un vile bugiardo, e poi invocare il suo perdono, chiedergli come avrebbe potuto rimediare.

Ma non fece niente del genere.

Un colpo sordo risuonò nell'aria e gli occhi di Barney si rigirarono, mostrando il bianco della cornea prima di richiudersi. Cadde ripiegandosi sul pavimento, privo di sensi, rivelando alle sue spalle la figura di Natasha, all'apparenza perfettamente padrona della situazione.

“Non c'è tempo per la diatriba familiare. Andiamo!”

Non aspettò una risposta e si voltò in fretta, le mani sporche di sangue ancora strette attorno ai suoi pugnali e l'andatura solo a malapena incerta.

Clint lanciò un'occhiata al fratello ormai privo di sensi – perché l'idea che Natasha l'avesse ucciso non gli era passata neppure per l'anticamera del cervello – e infine si decise a seguirla, scavalcando i corpi degli uomini che aveva sconfitto ed eliminato con la facilità con cui le candele, abbandonate sul davanzale aperto in un giorno di vento, si spengono.

Uscirono nel corridoio immediatamente adiacente il refettorio, Natasha a precederlo con l'aria sicura di chi aveva già visitato quel posto in precedenza. C'erano alcuni uomini addossati alle pareti, morti o forse privi di sensi, ogni palmo di pelle scoperta riempita di punti rossi più o meno grandi ed evidenti.

“Come diavolo ti è venuto in mente di usare l'alveare?” Si ritrovò a chiederle del tutto estemporaneamente.

Tese l'arco e scoccò la freccia al di sopra della spalla di Natasha, andando a colpire l'energumeno che era comparso alla fine del corridoio e che stava andando loro incontro con aria bellicosa. La donna non fece una piega e lui si limitò a scavalcare lo sconosciuto che si lamentava tenendosi il polpaccio ferito, ma non prima di essersi ripreso la freccia, con sommo disappunto e grida disperate del tizio in questione.

“Avevo bisogno di un diversivo,” rispose semplicemente lei. Sembrava si stesse sforzando di apparire disinvolta – probabilmente temeva che qualcuno (lui, principalmente) si accorgesse che era tornata indietro col solo scopo di toglierlo dai guai. Un gesto troppo carico di implicazioni per poterne prendere atto.

“Perché sei tornata indietro?” Aggiunse, proprio perché non fu capace di impedirsi di metterla anche solo un tantino in difficoltà. Dopotutto era colpa sua se era finito là in mezzo tanto per cominciare...

“Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare,” gli ritorse contro, voltando il capo solo per gettargli una rapida occhiata. Aspettò che le parole gli si fossero ficcate bene in testa prima di aggiungere: “è quello che risponderei se fossi uno smidollato a cui piace tirare con l'arco.”

“Grazie al cielo,” Clint finse di alzare gli occhi al soffitto per invocare una qualche divinità, “per un attimo ho avuto paura che fossi diventata una persona normale.”

Incoccò una freccia dopo l'altra, atterrando una coppia di ribelli comparsi da una delle tante stanze che si aprivano sul corridoio per attaccarli. Si riprese i dardi, disincastrandoli dai piedi dei due uomini, mentre Natasha tirava un calcio in faccia a quello che si era aggrappato al ginocchio di Clint nel vano tentativo di rallentare la loro avanzata.

Si era aspettato una qualche battutina sul fatto che le stesse togliendo tutto il divertimento, ma Natasha non disse niente, limitandosi a far strada finché non risbucarono all'esterno, nell'orto-giardino che circondava l'abbazia.

“Non abbiamo molto tempo,” fece presente la donna, mentre deviava verso quelle che – a giudicare dall'odore – dovevano essere le stalle. “Ci sarà un colpo di stato durante la festa della corona.”

“Lo so,” annuì mentre si guardava attorno e in alto per essere sicuro che nessuno li stesse seguendo.

“L'esercito è coinvolto,” aggiunse, scegliendo il primo cavallo che le capitò sotto tiro. “E' possibile che lo Scudo abbia fatto fuori il capitano Rogers per far fallire il piano.”

Credeva di poter seguire il ragionamento, ma si era accorto di averla persa per strada alla menzione dell'ammutinamento dei soldati del re. Cosa c'entrava il capitano Rogers e che diavolo era lo Scudo?

“Ehi, frena.” Natasha era già salita in groppa all'animale e invitò Clint a fare altrettanto. “Il capitano non è un ammiratore del re, ma dubito vivamente che acconsentirebbe a toglierlo di mezzo in questo modo.”

Delle voci in avvicinamento li raggiunsero dall'interno dell'abbazia – qualcuno li avrebbe affrontati a breve. Si affrettò ad issarsi sulla sella, il corpo di Natasha un po' troppo vicino per non risultargli un tantino scomodo.

“Che ne sai?” Partì al galoppo, puntando al portone che era appena stato spalancato per far rientrare le sentinelle esterne allarmate dal concerto di grida oltre le mura.

“E' un tipo a posto, ligio al dovere. Un colpo di stato non è nel suo stile,” insisté.

Un capannello di ribelli si fece loro addosso, ma bastò che Natasha li travolgesse per toglierli di mezzo. Le due guardie all'ingresso si erano messe ad urlare: una venne loro avanti brandendo un grosso spadone arrugginito, mentre l'altra si affannava a serrare nuovamente il portone con movimenti convulsi.

“Credo che i Coulson siano coinvolti,” asserì la donna, che invece che rallentare l'andatura l'aveva accelerata sensibilmente.

“Di che stai parlando?” Decisamente, la conversazione gli era sfuggita di mano. Prese la mira e atterrò l'uomo che tentava inutilmente di spingere una delle due pesanti metà della porta; Natasha si occupò di quello che veniva loro incontro, scagliandogli un coltello proprio in mezzo agli occhi. Fu talmente rapida da riuscire a riprenderselo prima che l'uomo si accasciasse a terra.

Sfrecciarono attraverso le mura, lanciandosi in una folle corsa lungo lo spiazzo aperto in direzione del bosco – una macchia scura e informe ammassata contro la cupa volta del cielo.

“I Coulson devono essere coinvolti con lo Scudo. Direttamente o indirettamente,” spiegò, ma c'era impazienza nella sua voce, una gran fretta di arrivare al punto. “Non c'è tempo.”

“Tempo per cosa?” Sibili sinistri risuonarono loro di fianco, a destra, sinistra, al di sopra delle loro teste. Gli uomini di Barney dovevano aver guadagnato la sommità delle mura di cinta per tentare il tutto per tutto con arco e frecce.

“Se è come penso rischiano di essere sopraffatti quando il re v-verrà ucciso. I traditori saranno giustiziati sul posto.”

“Lord Phillip non è un traditore!”

Natasha virò bruscamente per evitare un dardo e Clint fu costretto ad aggrapparlesi ai fianchi con un braccio. Rispondere al fuoco, in quelle condizioni e a quella distanza, sarebbe stato inutile.

“Lo sarà s-se il colpo di stato avrà successo!” Gli sembrava stesse strascicando le parole, ma non era sicuro che non fosse soltanto una controindicazione della fuga rocambolesca. “Devi continuare verso nord lungo la costa,” riprese, “c'è un porto di contrabbandieri.”

Si accorse prima del modo in cui la postura rigida di lei si andava ripiegando, incurvandole le spalle, e poi del liquido caldo e vischioso che gli imbrattava la mano con cui si stava tenendo agganciato a lei.

“Merda, sei ferita!” Esclamò inorridito. I convulsi momenti dello scontro del refettorio gli saettarono davanti agli occhi. Ricordava di aver sentito uno sparo, ma Natasha non aveva dato alcun segno di essere stata colpita.

“F-Fatti portare alla c-capitale,” lo ignorò, farfugliando le parole come per paura di vedersi troncare il discorso, “se lo Scudo è lì, e s-sono sicura che lo s-sia, ci sarà anche lord C-Coulson.” I sibili delle frecce si erano finalmente placati e il bosco sempre più vicino.

“Cazzo, devi fermarti!” Le premeva il palmo aperto contro la ferita nella speranza di arrestare l'emorragia.

“Non c-c'è tempo... f-fatti portare a-all-”

“Come facciamo ad arrivare fin lì?” La linea della vegetazione li inghiottì e il buio si infittì di colpo.

“Io r-resto qui,” faceva sempre più fatica a parlare.

“Non dire stronzate. Vieni con me.” Non sapeva ancora come muoversi, ma una soluzione l'avrebbe trovata.

“N-Non d-dirle tu...,” perse la presa sulle redini e Clint fu costretto a governare il cavallo con una sola mano.

Un attimo dopo era come molle tra le sue braccia e allora capì che aveva perso i sensi. Il cuore aveva preso a battergli forsennatamente nelle orecchie, mentre il cervello si affannava a mettere insieme un piano qualsiasi.

Si fermò solo quando si imbatté in un cavallo legato ad un albero e intuì dove l'aveva voluto condurre Natasha. Recuperò le bisacce che la donna vi aveva assicurato e liberò la bestia prima di ripartire. Doveva uscire dal bosco e proseguire a nord sulla costa – questo gli aveva detto Natasha.

“Resisti, va bene? Non ti azzardare a morire così,” balbettò, anche se sapeva che non l'avrebbe potuto sentire.

Accelerò l'andatura, supplicando un dio in cui non credeva perché incontrassero qualcuno sul loro cammino che avrebbe potuto aiutarli. Una vocina, nel retro della sua testa, gli ricordò che la regione era deserta, che suo fratello si era assicurato di farsi terra bruciata attorno per poter condurre i propri loschi traffici.

“Resisti,” ripeté, imponendo ai propri pensieri di tacere.

 

*

 

Era quasi l'alba quando raggiunsero il porticciolo – niente più che un paio di moli sgangherati per l'attracco di piccole imbarcazioni. Aveva avvolto Natasha nel suo ampio mantello e se l'era caricata sulle spalle per convincere il capitano di una di quelle bagnarole in partenza che il suo amico era solo un tantino ubriaco e che si sarebbe ripreso non appena fossero arrivati a destinazione.

L'uomo l'aveva guardato storto, ma era bastato che Clint gli consegnasse tutti i soldi che aveva con sé e il cavallo sfiancato che li aveva portati fin lì per convincerlo a farli passare e conceder loro un posto sottocoperta.

“Non voglio grane!” Gli aveva gracchiato alle spalle prima di sputare sul pontile sudicio.

Salì a bordo e ignorò gli sguardi che lo seguirono mentre si trascinava al piano di sotto alla ricerca di un luogo sufficientemente appartato. Il ventre della barca era occupato da alcune brandine sparse sul pavimento, casse, barili e un gran puzzo di vomito, alcool e piscio. Sarebbe stato praticamente deserto se non fosse stato per la massa scura rannicchiata sul letto più distante dalle scale d'accesso, incastonato in alto, nella parete, come un loculo.

Non aveva il tempo di preoccuparsene. Il respiro di Natasha si era ormai ridotto ad un flebile sospiro a malapena percepibile – si era fermato almeno un paio di volte per controllare che fosse ancora viva e tutte le volte aveva provato un tuffo al cuore realizzando che stava tenendo duro, che non si sarebbe lasciata vincere così facilmente. Ma adesso, mentre la adagiava su uno dei letti vuoti, e si sforzava di mantenere in ordine i pensieri e di attenersi alle risoluzioni prese durante il viaggio, si ricordò che le ore a sua disposizione erano decisamente agli sgoccioli.

La liberò del mantello, ma lo tenne vicino nel caso avesse avuto bisogno di ricoprirla. Le sfilò la camicia ormai completamente impregnata di sangue dai pantaloni dopo averle aperto il gilet sul davanti. Quando le scoprì il fianco destro, il buco nero della ferita lo colpì come un cazzotto nello stomaco.

Inspirò a fondo e lanciò una rapida occhiata alle scale prima e allo sconosciuto addormentato poi per assicurarsi di avere campo libero. Le sollevò leggermente un fianco per capire se ci fosse o meno un foro d'uscita e quando comprese che la pallottola era ancora lì dentro maledì ogni santo esistente. Non aveva gli strumenti adatti per estrarla e comunque non aveva la più pallida idea di come muoversi – avrebbe potuto causarle danni permanenti. E d'altro canto non ci sarebbe stato proprio nulla di permanente per Natasha se non si fosse dato una mossa.

Frugò tra le loro cose e ne tirò fuori l'otre del vino. Ne versò un po' sulla ferita senza che la donna si lamentasse minimamente (non un buon segno) e poi si bevve il resto, desiderando di essere completamente ubriaco oppure sobrio e anche chirurgo, ma la sua buona stella non sembrava in vena di miracoli.

Prese un'improvvisa decisione e stabilì che infilare le dita là dentro per cercare la pallottola sarebbe stata una follia. Le avrebbe cauterizzato la ferita per fermare l'emorragia, magari guadagnandole un po' di tempo. Una volta arrivati nella capitale avrebbero potuto cercare qualcuno in grado di rimetterla in sesto in modo meno raffazzonato. Ma per adesso non poteva fare di meglio.

Guardò per un attimo il volto pallido della donna, le labbra che sembravano aver perso l'abituale pienezza tingendosi di una sinistra sfumatura di viola.

Si costrinse a focalizzare, ad ignorare il batticuore e l'angoscia che gli montava nello stomaco, scegliendo uno dei coltelli di Natasha. Si alzò per raggiungere una delle lanterne ad olio che illuminavano il sottocoperta, aprendone lo sportellino di vetro per mettere la lama sopra il fuoco. Aspettò finché il metallo non si fu fatto incandescente, maltrattenendo a stento l'impazienza che gli avrebbe imposto di darsi una mossa.

Tornò indietro e si inginocchiò a terra mentre si sforzava di respingere la puzza che adesso – trovata manforte nel panico che non gli consentiva di respirare normalmente – rischiava di farlo vomitare da un momento all'altro.

Avvicinò il coltello alla ferita, esitando per un secondo di troppo.

“Che avete intenzione di fare?”

La voce lo fece trasalire bruscamente, ma non abbastanza da fargli cadere l'arma di mano o, peggio, su Natasha. Si voltò per incontrare lo sguardo occhialuto e fastidiosamente placido di un uomo di mezz'altezza, i capelli neri arruffati sulla testa e una camicia troppo grande a calargli addosso come su uno spaventapasseri.

Gli bastò lanciare un'occhiata al letto-loculo e ritrovarlo vuoto per capire che il bell'addormentato si era svegliato giusto in tempo per rompergli le palle.

“Devo cauterizzare la ferita,” gli rispose innervosito, come se non fosse già abbastanza ovvio.

“Credevo aveste detto al capitano che si trattava di un amico.” Lo guardò ripulirsi gli occhiali su un lembo della veste e l'irritazione gli accartocciò lo stomaco: gli sembrava il momento di mettersi a fare domande tanto stupide?

“Ha importanza? Se non faccio qualcosa morirà.” Chi cazzo si credeva di essere e perché non se ne tornava a dormire e badare ai fattacci suoi?

“Questo è certo. Non sembra che abbia molto tempo.”

“Tante grazie!” Si rimise in piedi e gli avrebbe anche tirato un pugno in piena faccia se l'uomo non avesse detto quello che poi, effettivamente, disse.

“Sono un dottore, lasciatemi dare un'occhiata.”

Clint sentì la testa girargli e ritirò tutte le maledizioni scagliate contro i santi, la sua buona stella, l'anima di sua madre e tutto ciò che gli venne in mente. Si fece da parte come in trance, guardando mentre lo sconosciuto studiava la ferita.

“C'è ancora la pallottola qua dentro,” decretò, più ragionando tra sé che per metterne al corrente anche lui. “Prendetemi la borsa vicino al letto, se non vi dispiace.”

Clint abbandonò il coltello ancora bollente e obbedì, riconsegnando la sacca di pelle all'uomo prima di risederglisi davanti.

“Avete informato il capitano che avete trasformato la sua imbarcazione in una sala di chirurgia?”

“No,” rispose secco. Non gliene importava proprio un cazzo – col marinaio avrebbe potuto ragionare, con la morte però... ne dubitava vivamente.

“Che le è successo?”

“Che tipo di dottore siete?” Gli venne in mente solo in quel preciso istante che magari aveva fatto male ad affidargli Natasha. Dopotutto come faceva a sapere di potersi fidare? E poi non aveva l'aria di essere un dottore molto famoso se se ne andava in giro coi contrabbandieri, per di più vestito da straccione.

“Non uno che tira fuori pallottole dalla gente, purtroppo,” rispose quello, scegliendo uno strumento lungo e affusolato dal disordinato assortimento che Clint intravide nella sua borsa. Se non altro non era dottore in legge o – pure peggio – in teologia.

“Siete sicuro di quello che fate?”

“No,” ammise tranquillo, “ma bruciarla con quel coltello non le sarà d'aiuto.”

Adesso si metteva pure a criticare le sue scelte! Lo scusasse pure se non poteva diventare chirurgo di fama nel giro di qualche minuto e con la sola forza di volontà!

Lo guardò ripulire il ferro con una qualche sostanza e poi avvicinarlo alla ferita. Non gli disse di tenerla ferma e Clint capì che, ancora, non era un buon segno. Rabbrividì quando la punta dello strumento sparì nella ferita, ma non distolse lo sguardo.

Trattenne il respiro, però, e quello che seguì fu il minuto più lungo della sua vita. L'aria gli uscì rumorosamente dal naso e dalla bocca appena l'uomo ritrasse la mano, lasciando cadere la pallottola su un fazzoletto aperto con cui – Clint ne fu piuttosto sicuro – doveva essere solito soffiarsi il naso.

“Ha perso molto sangue,” gli disse e stavolta sembrava volesse metterlo in guardia da qualcosa.

Aveva riposto lo strumento sporco nella borsa, lontano dagli altri e aveva tirato fuori un ago ricurvo e un rocchetto di filo.

“Il rischio di infezione è altissimo con le ferite d'arma da fuoco,” aggiunse.

Clint si spazientì: l'aveva capito che la vita di Natasha era appesa ad una speranza piuttosto sottile e incerta, ma non aveva bisogno di essere rabbonito come uno stupido. Non rispose o protestò perché sapeva che l'angoscia lo rendeva stronzo e non voleva inimicarsi lo sconosciuto.

Un'idea gli balenò davanti agli occhi. Aprì la bisaccia di Natasha e ne estrasse la scatola di legno di cui si era servita quando gli aveva medicato la ferita alla spalla. Non sapeva esattamente cosa ci avesse fatto, perché aveva perso i sensi prima di potersene accertare, ma forse sarebbe tornata utile.

La trovò e l'aprì sotto al naso del dottore che aveva già cominciato con la sutura, liberando nell'aria un miscuglio d'odori forti, di aromi ed erbe essiccate.

“Può servirvi?” Gli chiese, sperando di non essere suonato stupido. Magari Natasha non amava mangiare insipido e si portava dietro le spezie per rimediare. Magari stava suggerendo al dottore di curarla con rosmarino e salvia destinati ad un arrosto e non ad un buco nel fianco.

“Dove le avete trovate? Queste erbe mediche sono piuttosto rare da queste parti.” Sembrò impressionato e Clint seppe di poter rilasciare il fiato, sollevato.

“Lei non è di qui,” rispose soltanto. “Forse ha anche delle garze pulite.”

“Ottimo. Vi capita spesso?”

“Cosa?”

“Di beccarvi una pallottola nello stomaco.”

“Non molto spesso.”

Il dottore sorrise. Era inquietantemente tranquillo, al punto che Clint si chiese se non si fosse fumato qualcosa di... rilassante.

Antoine gli aveva fatto prendere un paio di tiri da una pipa, una volta, senza dirgli che diavolo ci fosse dentro. Ricordava di come si fosse sentito leggero, come fluttuante e libero da qualsiasi preoccupazione. Senza peso. Antoine aveva riso fino a farsi venire il mal di pancia e Clint gli aveva chiesto se non potesse averne un po' in prestito perché voleva farla provare anche a Kate.

Si costrinse a ritornare coi piedi per terra. Il dottore aveva finito con i punti e adesso stava mescolando alcune delle erbe di Natasha in una piccola ciotolina di legno insieme ad un liquido che a Clint sembrò odorare di whisky. Applicò la pappa che ne ottenne sulla ferita e poi si fece passare le garze per fasciarle la pancia. Si chiese se le sarebbe dispiaciuto sapere che le aveva finito le bende senza neppure domandarle il permesso di usarle.

“Fatto. Adesso non rimane che aspettare,” dichiarò l'uomo, gettando quello che non gli serviva nella borsa.

“Posso fare qualcosa?” Si rese conto di quanto suonasse ridicolo prima ancora di pronunciare le parole, ma non voleva lasciare niente di intentato.

“Pregare, se è il genere di cose che fate in questi casi.” L'uomo gli sorrise gentilmente. Gli occhiali gli si erano appannati sul naso e Clint si accorse di quanto fossero storti e sgangherati.

“Dove siete diretto?”

“Alla capitale.”

“Posso sapere come vi chiamate?”

“Oh, certo. Le mie maniere lasciano molto a desiderare di questi giorni. Mi chiamo Bruce.”

“Vi ringrazio... Bruce.”

“Non ringraziatemi ancora. La vostra amica ha perso molto sangue.”

“Ce la farà.”

Il dottore evitò di rispondere.

“Vado a sciacquarmi le mani. Dovreste fare altrettanto e riposare. Avete l'aria di averne bisogno.” Gli rivolse un cenno del capo e lo superò per risalire al pontile, la borsa sotto braccio. Sarebbe passato per mendicante se non avesse portato gli occhiali.

Clint sospirò e tornò su Natasha, accoccolandosi sul pavimento proprio accanto al letto. Alzò una mano per mettergliela davanti a naso e bocca, per assicurarsi che respirasse ancora, e si sentì in colpa quando si accorse di avere le dita completamente sporche di sangue. Come se avesse potuto in qualche modo contaminarla con quelle sue stupide mani d'arciere.

La testa gli s'era fatta pesante. Il dottore aveva ragione, avrebbe dovuto riposare. Ma era troppo stanco pure per dormire e il pensiero di Natasha cominciava ad ossessionarlo. Aveva paura che, se si fosse assopito, la donna l'avrebbe interpretato come il suo permesso ad andarsene una volta per tutte.

Non voleva che succedesse.

E allora Clint fece l'unica cosa che gli venne in mente di fare.

Chiuse gli occhi e pregò.









Note: possiamo dire che Barney e i suoi sono caduti in un vespaio? D'OH, non sono riuscita a trattenermi :P comunque... i nostri eroi sono riusciti a scappare dalle grinfie del Barton maggiore (a.k.a. Trickshot), pagando l'immancabile prezzo della quasi morte di Natasha. Anche stavolta potrei dire che scopriremo come andrà finire nel prossimo capitolo, ma la storia ha ancora 17 capitoli... insomma, vedete voi ù_ù
Quello che avrete intuito essere nientemeno che il dottor Banner ha fatto una comparsata! E ci tengo a precisare che spesso e volentieri (ad eccezione di due) le apparizioni degli altri Vendicatori non saranno nient'altro che queste: comparsate. Clint e Natasha rimarranno comunque sempre al centro dell'azione.
Ringraziamenti di rito a chi legge & commenta con assiduità e ovviamente shoutout alla socia-beta Eli, il bastone della mia vecchiaia fandomistica... e viceversa XD
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Capitolo 14

~

 

 

Clint aveva scoperto che i contrabbandieri preferivano vegliare di notte e dormire di giorno. Al calar del sole, uomini sparuti e assonnati si erano trascinati sul pontile stropicciandosi gli occhi, intavolando partite a carte e conversazioni sempre più animate man mano che i bicchieri di vino si riempivano e svuotano con ritmo regolare.

Sembravano tutti troppo presi dalle loro abituali occupazioni per prestar loro attenzione, ma Clint si era comunque curato di non lasciare il capezzale di Natasha quando il sottocoperta era gremito. Il capitano non gli aveva più chiesto niente riguardo quel suo amico ubriaco e lui non aveva offerto spiegazioni. Temeva che se qualcuno avesse scoperto che c'era una donna a bordo, superstizione e sordidi istinti avrebbero fatto a gara per decidere quale delle due cose avrebbe trionfato prima e Clint non aveva intenzione di far succedere proprio niente del genere.

Si era risvegliato con la gola asciutta e un gran mal di testa a battergli sulle pareti della scatola cranica. Ci aveva messo un secondo di troppo a registrare il russare e i respiri pesanti dei contrabbandieri a bordo, ma quando si era accorto di essere circondato aveva deciso di rimanere lì dov'era. Qualcuno aveva coperto Natasha e Clint aveva sospettato lo zampino del dottore, perché nessun altro là sotto avrebbe avuto una premura simile. Era bastato quel gesto a fargli capire che Bruce non avrebbe parlato e che il loro segreto era al sicuro con lui.

La luce forte del primo pomeriggio era andata scemando, mitigandosi e facendosi da dorata ad aranciata sull'avvicinarsi della sera. Gli uomini avevano abbandonato i loro giacigli uno ad uno e i rumori dal ponte si erano via via rianimati ed intensificati.

Natasha si era svegliata una sola volta e solo per pochi istanti, giusto il tempo perché Clint le facesse bere un po' d'acqua. Doveva mangiare, ma non aveva niente con sé che potesse mandar giù – aveva persino pensato di masticare un po' di frutta e carne secca e costringerla ad inghiottire, ma poi pensò alla faccia che avrebbe fatto quando si sarebbe ripresa e non era sicuro di volersi beccare tutti quei calci in culo che sicuramente l'aspettavano.

Per questo si era avventurato all'esterno, dove le risate allegre degli uomini ubriachi si disperdevano nel cielo che ormai andava tendendo al viola. Sperava che il capitano si fosse preparato una zuppa, una minestra di qualche tipo – aveva letto svariati romanzi sulla vita di mare ed erano quelle le pietanze che, di solito, si consumavano sulle navi. Quelle oppure cipolle e gallette di riso, che al momento non facevano proprio al caso suo. L'opzione del cibo masticato era comunque ancora valida e, per quanto disgustosa fosse, si era deciso a risolverla in quel modo se non avesse trovato un'alternativa.

Si era seduto sul parapetto in attesa che la luce nella stanza del capitano si spegnesse – c'era il suo sostituto a fare le sue veci alla guida della nave, che dal canto suo non pareva aver bisogno di grandi attenzioni per scivolare liscia sulla superficie del mare. Dopo quei pochi giorni di pioggia intensa, sembrava che il sereno si fosse deciso a tornare giusto in tempo per garantir loro un viaggio tranquillo... almeno dal punto di vista del meteorologico.

Era ancora lì ad aspettare quando la porta che stava tenendo sott'occhio si aprì per lasciarne uscire Bruce. Per un istante si lasciò prendere dal panico, ma poi si ricordò che non c'era motivo d'agitarsi. Se avesse voluto fare la spia al capitano l'avrebbe fatto prima di ricucire Natasha, compromettendosi a sua volta. Si accorse che portava una ciotola coperta da un panno sottile. Gli stava venendo incontro.

“Buonasera,” lo salutò con un leggero sorriso. Aveva gli occhiali appannati, ma non poteva pulirli per via delle mani occupate.

“Dottore.”

“Mi sono fatto dare un po' di minestra per la sua amica,” lo informò, provocandogli un piacevole calore all'altezza del petto.

“State scherzando?”

“Oh, non c'è ragione d'agitarsi,” disse, come liquidando in quel modo la sua gratitudine per quel gesto inaspettato. “Questa brodaglia ha un sapore immondo, ma scommetto che alla vostra amica potrebbe tornare utile.”

“Con che scusa ve la siete portata via?” Gli chiese.

“Con quella del mal di mare. Non volevo che la nausea mi impedisse di gustare tale prelibatezza,” scherzò.

“Conoscete il capitano?” Clint saltò giù dal parapetto e gli fece cenno di seguirlo di sotto.

Si accorse solo in quel momento di quanto non gli fosse mancato il tanfo rancido del sottocoperta, soprattutto adesso che gli odori degli uomini appena svegli continuavano ad aleggiarvi tutt'intorno.

“No, ma stamattina presto mi ha visto mentre lavavo gli strumenti in acqua di mare,” disse. “Ha voluto sapere se ero un dottore e poi mi ha chiesto se avevo qualche rimedio per il suo problema.”

Solo quando furono al riparo da occhi indiscreti Clint gli sfilò la ciotola di mano, permettendogli così di pulirsi gli occhiali. Si avvicinò uno sgabello e prese posto accanto a Natasha che dormiva profondamente.

Non sapeva se era solo un'illusione, ma gli sembrava che l'abbassarsi e rialzarsi del petto e della pancia fosse più evidente, che il respiro si fosse fatto più disteso e meno irregolare. O forse stava solo sognando – non si era forse addormentato con una preghiera che credeva di aver dimenticato in bocca? Non si era ancora abituato al modo in cui le cose gli erano sfuggite di mano, alla piega inaspettata che la sua vita aveva preso. A momenti si sentiva come nel bel mezzo di un sogno, la stessa impalpabile consistenza degli eventi che gli capitava di vivere mentre dormiva; gli era già capitato di dover andare indietro con la memoria per riempire le lacune che separavano un fatto dall'altro.

“Un'unghia incarnita.”

“Come?” Clint si voltò verso il dottore, ricordandosi di averlo lì vicino solo in quel momento.

“Il capitano... ha un'unghia incarnita.”

Gli ci volle un secondo in più per registrare le parole di Bruce, ma quando ci riuscì una smorfia schifata gli contorse l'espressione.

“Più o meno la mia stessa reazione,” convenne il dottore, restando leggermente in disparte.

Rimasero in silenzio mentre Clint cercava di svegliare Natasha, con scarso successo.

“Se la sta cavando piuttosto bene. Sinceramente non credevo che sarebbe arrivata alla sera,” ammise.

“E' un osso duro,” disse soltanto. Il pensiero che stesse morendo di fame, deperendo lentamente nonostante la buona riuscita dell'operazione, minacciava di diventare ossessivo.

“Vi conoscete da molto?”

Qualcosa l'avrebbe voluto spingere a dire di sì, perché inizialmente gli era sembrata la risposta più sincera. Ma poi realizzò che doveva essere passato a malapena un mese da quando l'aveva incontrata sotto gli alberi che circondavano la casa del tagliaboschi. Il tempo sembrava essersi allungato e moltiplicato acquistando la consistenza di una vita intera.

“No,” rispose infine.

“Siete dei criminali?”

Clint si mise a ridere.

“Abbiamo l'aria dei criminali?” Gli ritorse contro, divertito, facendogli capire che non se l'era presa.

“E' difficile trovare una donna conciata in quel modo.” Sembrava avesse riflettuto a lungo sul loro aspetto. “E voi avevate un aspetto orribile quando vi ho visto con quel coltello in mano.”

Lasciò cadere le parole nel silenzio. Una parte di lui avrebbe voluto mentire, imbastire una storia basata su identità inventate; un'altra si era sforzata di trovare una risposta sincera e altrettanto sinceramente era dovuta arrivare alla conclusione che neanche lui sapeva cosa diavolo fossero. Non sapeva come definire Natasha e – ancor più assurdo – non sapeva come definire se stesso.

“Siamo solo diretti alla capitale,” finì per dire.

“Non vi preoccupate,” si affrettò a dire il dottore. “Non dovete parlare per forza. La gente qua sopra non è mai troppo loquace,” lo disse come per sottolineare che c'era abituato.

“Viaggiate spesso?” … coi contrabbandieri? avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne.

“Finché posso, sì.” Si era messo seduto su un barile pieno di dio solo sapeva cosa e sorrideva appena. “Ma devo tornare regolarmente alla capitale.”

“Affari?”

“Suppongo si possano definire così,” convenne.

Gli parve estremamente stupido il modo in cui la gente si teneva i propri segreti, ognuno gelosamente avaro dei propri. Solo in quel momento, con chiarezza sconcertante, capì come fossero proprio quelli a tenere separate le persone, a mantenere le distanze con una barriera invisibile, anche in caso di sincero affetto.

Un mormorio indistinto lo costrinse a voltarsi; anche il dottore era scattato sull'attenti. Natasha aveva dischiuso le labbra e si stava muovendo appena sotto il mantello che le nascondeva il corpo.

“Ehi,” la richiamò debolmente, come per paura che facendola trasalire avrebbe potuto farla precipitare di nuovo in quel suo sonno ostinato.

La vide aprire gli occhi, stanchi e appannati, muoverli senza riuscire a soffermarsi su niente. Le poggiò una mano sulla sua, stringendo un poco la presa, sperando di convincerla a non agitarsi.

“E' tutto a posto,” la rassicurò, “sei al sicuro.” Aspettò un attimo prima di aggiungere: “ti va di mangiare qualcosa?”

Lei annuì fissando finalmente lo sguardo su di lui, ma Clint non era comunque sicuro che riuscisse a vederlo chiaramente. Si sentì riavere a quel cenno d'assenso e si affrettò a restituire la ciotola a Bruce per andare a requisire tutto ciò che poteva servirgli per fabbricarle un cuscino di fortuna e permetterle di rialzare un poco le spalle.

“D-Dove siamo?” Biascicò lei, la voce roca ed esausta, diversissima dal tono pungente a cui aveva imparato ad abituarsi.

“Su una nave,” le rispose, aiutandola a sistemarsi. Impallidì nel vederle fare una smorfia, ma il suo volto la riassorbì senza problemi, cancellandone i segni. Si chiese se potesse essere tutta una finta, se fosse talmente abituata a nascondere il dolore da riuscire a farlo anche in quelle condizioni, la vista offuscata e il cervello ancora rallentato. Come se simulare e dissimulare fosse ormai un comportamento che le era sceso fin nelle ossa, diventando tanto naturale come respirare o camminare. “Siamo diretti alla capitale.”

Gli sembrò sorpresa, ma non disse niente. Doveva essersi accorta di Bruce perché adesso gli puntava addosso uno sguardo vacuo, che nelle sue intenzioni – Clint intuì – avrebbe dovuto essere truce.

“Lui è a posto,” si affrettò ad informarla, producendo un contenitore di legno dalla bisaccia. “Ti ha sistemato la ferita.”

Il dottore gli restituì la ciotola e Clint si prodigò nel raccoglierne un po' col bicchiere prima di portarglielo alle labbra. Natasha bevve con ancora sul viso i segni del sospetto – se non altro ebbe la conferma che diffidenza della donna nei suoi confronti non era dovuta alla sua sfavillante personalità: era così con tutti, all'inizio.

Tossì dopo aver inghiottito, così forte che Clint temette di aver commesso un qualche errore.

“Respira, sta' calma-”

“C-Clint, sta' zitto,” blaterò in risposta, nonostante l'aspetto smunto e slavato che continuava a preoccuparlo. “Non sono m-morta e non s-sto partorendo, c-cazzo.”

Rimase interdetto per un lunghissimo istante e poi si mise a ridere sulla scia del sollievo che andava fiorendogli in petto.

“Dammene a-ancora un po',” decretò secca, sperando forse di dimenticarsi della vulnerabilità della propria condizione a suon di insulti. Le concesse di pensare che fosse possibile e obbedì.

“Sai quelle poesie dove dicono che le donne appena morte sono bellissime?” Le chiese. “Ho scoperto che sono una stronzata.”

Bruce si era messo in disparte, ma Clint lo sentì ridere. Natasha, invece, si limitò a guardarlo malissimo.

“Ti ho d-detto che non sono m-morta,” ribadì.

“Bè, lo sembravi.” Altro sorso di minestra.

“Sei tu che p-puzzi di morto,” l'accusò.

“No, è la stanza,” ma poi ci ripensò, “forse sono un po' anch'io. La prossima volta vedi di rimanere sveglia, così potrai indicarmi i bagni termali che mi sono perso per strada.”

Non dissero niente per un po', ma Clint si consolava nel guardarla bere con facilità sempre maggiore. La vide cercare qualcosa sotto il mantello e alla fine tirò fuori un biglietto spiegazzato.

“C-Ce l'ho fatta a parlarti p-prima di perdere i sensi?” Si accertò, consegnandogli la lettera.

“Intendi quando mi hai dichiarato il tuo amore incondizionato? Sì, eri totalmente in te.” Mise via il foglio e riprese ad imboccarla, perché era quello ad avere la priorità al momento.

“Q-Quello è successo quando tu hai perso i s-sensi.”

“Come sono contento che tu non abbia perso la tua verve,” la prese in giro.

“Ohi.” Adesso era suonata severa.

“Sì, me ne hai parlato,” si arrese. A dir la verità non aveva avuto il tempo di riflettere sulle implicazioni delle sue parole. Il viaggio dall'abbazia al porto gli era volato davanti agli occhi col terrore che Natasha morisse prima che potesse trovare un modo per aiutarla – aveva sperato di incontrare qualcuno sulla sua strada per chiedere soccorso, ma tutti i villaggi che avevano attraversato erano deserti, neanche un'anima in vista. La preoccupazione lo aveva riempito a tal punto da lasciar poco spazio per le delibere sul colpo di stato imminente.

“Tuo p-padre ce l'ha una casa nella capitale?” Gli domandò e Clint capì che aveva usato quel termine per non rivelare nomi in presenza di Bruce. Scosse il capo e la costrinse a buttar giù un altro sorso. “Degli amici, allora? P-Potresti cominciare da l-lì.”

“Non ti affaticare a parlare, devi mangiare.”

“S-Sto mangiando. N-Non trattarmi come una m-malata.”

“Hai un buco nel fianco,” la redarguì seccamente.

“Sono s-stata peggio.”

Avrebbe voluto ribattere, ma qualcosa gli suggerì che stava dicendo la verità. La vide socchiudere gli occhi e inspirare a fondo, come per un capogiro improvviso.

“D-Dio questa p-puzza...” si lamentò, ma rimase immobile.

“Prometto che mi lavo, la prossima volta che ti degni di riaverti.”

“F-Fottiti.”

“Appena finisco qui.”

Riuscì a farle finire quasi tutta la minestra prima che la stanchezza avesse la meglio. Natasha si ripiegò su se stessa, finché il sonno non se la riprese. Clint la guardò per qualche istante prima di finire la zuppa lui stesso. Aveva davvero un sapore disgustoso.

 

***

 

Si risvegliò nel tardo pomeriggio e Natasha non era più al suo fianco. Scattò seduto e afferrò l'arco che aveva tenuto al sicuro accanto a sé, ancora mezzo rincitrullito dal sonno e dall'apprensione. Si rimise in piedi, accorgendosi che le cose della donna erano ancora sistemate contro l'albero presso cui avevano deciso di riposare – o almeno, dove lei avrebbe dovuto riposare nonostante le proteste (mute e vocali) che aveva continuato a lanciargli contro.

La ferita non era altro che un graffio e lei era sopravvissuta a situazioni ben peggiori senza aver bisogno di un paggetto che l'aiutasse a spostarsi. Tutte scuse che Clint aveva accolto tappandosi metaforicamente entrambi gli orecchi.

Aveva insistito perché dormisse un poco prima che riprendessero il cammino: i contrabbandieri li avevano scaricati su una spiaggetta deserta alle prime luci dell'alba e se n'erano andati senza una parola di più. Bruce l'aveva aiutato a condurre la donna su per un viottolo sabbioso e scosceso e poi si era scusato dicendo loro che aveva fretta di raggiungere la capitale. Non poteva proprio trattenersi oltre.

Clint gli aveva stretto la mano mentre il dottore snocciolava consigli su come evitare che la ferita di Natasha s'infettasse, raccomandandosi di cambiare la fasciatura almeno una volta al giorno finché non si fosse rimarginata del tutto. L'avevano guardato andar via, lui in piedi con le bisacce che gli appesantivano le spalle, e lei seduta su una roccia, lo sguardo perso nel vuoto. Gli era sembrata sollevata di non dover continuare il viaggio in compagnia di un semisconosciuto. C'era qualcosa che non la convinceva in lui, ma non aveva l'aria di aver ancora identificato esattamente di cosa si trattasse. Clint non aveva detto niente: in fin dei conti Natasha avrebbe ancora avuto una pallottola ficcata nel fianco se Bruce non li avesse aiutati.

Rimasti soli, avevano cercato un luogo appartato e si erano fermati nei pressi di un boschetto, al riparo dal sole e da eventuali visitatori indesiderati. Come la zona che circondava il porticciolo dei contrabbandieri da cui erano salpati, anche questa sembrava deserta. Clint aveva supposto che la maggior parte dei criminali che giravano da quelle parti, impegnati com'erano in traffici illeciti, vivessero e si spostassero più che altro dopo il tramonto. Ma aveva comunque deciso di rimanere sveglio e fare la guardia mentre Natasha riposava. Lei non era stata molto d'accordo, tanto che adesso era piuttosto sicuro fosse rimasta distesa con gli occhi aperti col solo intento di farlo innervosire e costringerlo ad addormentarsi per primo. Dopotutto non era mica quasi morta!

Quello che lo infastidiva era che alla fine si era assopito davvero. Non ricordava neanche quando fosse successo, ma stava di fatto che adesso si era svegliato di soprassalto e Natasha non c'era più.

“Cazzo,” biascicò a mezza voce, raccogliendo in fretta le loro cose, arco e frecce pronti all'uso.

Si sentiva stupido per la preoccupazione che gli andava serrando lo stomaco. Forse se n'era andata proprio per quello, perché cominciava a non sopportarla più, quella sua ridicola compassione.

Si trattenne dal chiamarla a gran voce, e – mentre si guardava attorno con la netta sensazione di essere un completo coglione – si ricordò di aver scorto il luccichio dell'acqua sul lato destro del bosco. Forse un lago o un fiumiciattolo ormai sul punto di confluire nel mare. Andò dritto in quella direzione, controllando se Natasha avesse lasciato qualche traccia, ma anche in quelle condizioni non sembrava che la donna avesse perso le sue buone abitudini.

Gli alberi gli scivolavano di fianco passo dopo passo e intanto andava chiedendosi che cosa fosse la Stanza Rossa e perché addestrasse uomini e donne nell'arte del combattimento. Ormai aveva capito che Natasha era versata in diversi campi, non solo quello del fare a botte. Sapeva mentire come nessun altro e riusciva a diventare persone diverse praticamente a comando; senza contare la pseudo confessione che gli aveva fatto mentre, seduti nel buio della foresta, avevano tentato di convincere i saltimbanchi che si erano appartati per far trionfare il loro giovane e ingenuo amore. L'idea che potesse servirsi anche del suo aspetto, dell'ascendente che aveva sugli uomini, per ottenere ciò che voleva non lo stupiva affatto, ma lo faceva incazzare in modo del tutto irrazionale.

La individuò non appena fu uscito dal bosco per ritrovarsi sulle rive di quello che più che un lago, aveva l'aspetto di uno stagno glorificato. Le piogge intense degli ultimi giorni dovevano averlo alimentato e ingrossato ben più del solito. Le canne oscillavano pigramente sotto i soffi del vento pomeridiano, ondeggiando silenziose nell'acqua limpida. E proprio là nel mezzo c'era Natasha, distesa sulla superficie, gli occhi chiusi e gli arti mollemente abbandonati.

Restò per un attimo a guardarla, sentendo l'ansia sfumare poco a poco. Fosse stata chiunque altro probabilmente si sarebbe sentito in colpa per essersi fatto spettatore non richiesto, ma sapeva che a lei non sarebbe dispiaciuto, che forse già sapeva che era lì o che, se non altro, sarebbe sicuramente andato a cercarla.

Il sole era ancora caldo, ma aveva perso il mordente del primo pomeriggio. Clint abbandonò le bisacce e l'arco sulla riva, proprio accanto al mucchietto formato dai pantaloni e dagli stivali di Natasha.

Prima che potesse rendersene conto si era sfilato il gilet e la camicia e, una volta a piedi nudi, si tuffò in acqua senza starci a pensar troppo. Non era gelida, ma abbastanza fredda da dargli refrigerio. Riemerse un attimo dopo, le erbe del fondale che gli solleticavano il petto e le braccia e la realizzazione che ne aveva davvero bisogno. Si mise a pancia in su in fissa del cielo azzurro e uniforme, così sereno da metterlo quasi a disagio, e si lasciò trascinare debolmente dalle inesistenti correnti dello specchio d'acqua. Socchiuse gli occhi e inspirò a fondo.

Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva fatto un bagno – di quelli nella vasca della sua stanza a villa Coulson ne ricordava a dozzine, ma fuori all'aperto... aveva visto il mare, con Barney, tanti anni prima. Ci erano arrivati per caso, ma non appena la massa blu si era stagliata loro davanti, non avevano esitato un secondo: prima che potessero anche solo concordare su un piano d'azione si erano già spogliati di tutto per sfrecciare rapidi fino alla riva e poi dritti nell'acqua. Se n'erano pentiti subito dopo perché era gelida e il fondale pieno d'alghe viscide. Clint rammentò la sensazione di rattrappimento che si era impossessata di lui dopo il tuffo, il modo in cui l'aria gli era morta in gola prima di tramutarsi in ilarità. Non si erano aspettati che fosse così freddo, né tanto salato; la sua apertura, poi, una distesa sconfinata che continuava a perdita d'occhio finché la linea del cielo non si univa a quella dell'acqua, confondendosi l'una nell'altra. Era in quel punto lontanissimo che sembrava conservata la promessa di viaggi avventurosi e scoperte che avrebbero cambiato per sempre il mondo.

Lasciò che la mente scivolasse nelle fantasticherie di un Clint a malapena undicenne, fatte di pirati, corsari e bucanieri senza scrupolo che solcavano i mari alla ricerca di ricchezze senza fine, oro giallo e luccicante, pietre preziose, boccali tempestati di diamanti, forzieri appesantiti da ogni sorta di ben di dio. Tutto ciò che gli avrebbe permesso di vivere con suo fratello senza più una sola preoccupazione al mondo.

Quando riaprì gli occhi Natasha gli era di fianco, i capelli scuriti dall'acqua riavviati all'indietro.

“Mi hai fatto prendere un colpo,” le disse, rimettendo i piedi sul fondale scivoloso.

“Credevo fossi morto,” rispose lei senza batter ciglio.

Capì improvvisamente e con estrema chiarezza che preoccuparsi per lei sarebbe stato completamente inutile. Non solo non sarebbe servito a niente, ma Natasha l'avrebbe anche trovato odioso: non era di compassione o apprensione che aveva bisogno.

“Non sono io quello col buco nello stomaco,” le ritorse contro. Va bene, forse un pochino gliel'avrebbe fatto pesare comunque.

“Non mi aspetto che tu sia un asso in anatomia, ma lo stomaco è da un'altra parte.” E neanche lei suonava intenzionata a lasciargliene passare una che fosse una.

“Perché? Non ho la faccia di uno che conosce ogni più recondito segreto del corpo umano?”

Natasha lo scrutò attentamente per un lungo istante, come se stesse davvero riflettendo su quella domanda. E poi, dal niente, lo schizzò dritto in faccia, con la sua solita espressione compostamente seriosa.

“Che... c-cazzo!” Imprecò, cominciando a rispondere al fuoco con ampie manate d'acqua che andarono a colpirla in pieno viso. Subito dopo Natasha era scomparsa sotto la superficie. Capì dov'era andata a cacciarsi quando si sentì mancare l'appoggio dei piedi e una forza decisa lo respinse giù, facendogli inghiottire una gloriosa gozzata d'acqua.

Quando riemerse c'era il suono sommesso e inaspettato della risata di lei ad accoglierlo.

“Sei una stronza,” biascicò, senza lasciarsi intimorire da quello spettacolo improbabile.

Lei doveva essersi accorta della straordinarietà dell'evento, perché si era lasciata sprofondare finché l'acqua non le disegnava una linea azzurra come il cielo, appena al di sopra della bocca. Gli occhi, però, più verdi nella luce del pomeriggio, non riuscivano a celare il divertimento che li aveva accesi.

Sembrava un predatore acquatico pronto ad aggredire la propria preda, troppo inavvertita e ingenua per scorgere il pericolo. O una sirena, forse. Non era questo che le avevano insegnato a fare? Attirare le persone nella propria rete per poi farne un sol boccone? O consegnarle al fratello impazzito, magari. Un sorriso amaro gli piegò le labbra.

Il pensiero di Barney, inevitabile, lo trascinò fuori dell'acqua e di nuovo sulla riva erbosa, dove si mise seduto. Tentò di staccarsi i pantaloni dalla pelle, ma fradici com'erano gli rimanevano tenacemente appiccicati addosso; trovò buffo il modo in cui la sensazione di leggerezza che la stoffa gli aveva dato nell'acqua, si fosse tramutata in pesantezza non appena ne era uscito.

Natasha lo raggiunse un attimo dopo. Le gambe pallide tagliavano l'acqua con più incertezza di quanta Clint si fosse aspettato; la camicia nera le si era attaccata addosso, ridisegnando le curve del suo corpo con estrema fedeltà. Cominciò a chiedersi che razza di bestie orrende vivessero nelle profondità dello stagno, magari anfibi immersi nel fango, pesci trasparenti dal ghigno orrendo... qualsiasi cosa pur di non soffermarsi su Natasha, o di lì a poco avrebbe avuto bisogno di un altro bagno gelido.

Quando la vide barcollare un poco, però, scattò in piedi senza neanche soffermarsi a riflettere. L'aiutò ad appoggiarsi a lui e dal modo in cui Natasha non protestò nell'accettare il suo aiuto, Clint capì che non aveva avuto altra scelta. Era già abbastanza sorprendente che il suo viso avesse ripreso quel po' di colore che faceva prospettare una pronta guarigione, ma la ferita era ancora tutt'altro che un brutto ricordo.

Lo lasciò andare dopo essersi seduta a terra, un sospiro trattenuto ad accompagnare il gesto. Era sicuro che il fianco le facesse un gran male e che si stesse sforzando di non darlo a vedere.

“Avresti dovuto avvisarmi,” si ritrovò a dirle, più duramente di quanto avesse preventivato.

“Stavi dormendo,” si giustificò lei, senza guardarlo.

“Avresti dovuto svegliarmi.”

“Sapevo di potermela cavare,” stabilì, secca e concisa.

Le parole di Natasha sembrarono concludere la conversazione, perché rimasero immobili, seduti nel sole a lasciare che il calore asciugasse loro vestiti e capelli.

“Mi dispiace... per non averti detto niente.” Fu di nuovo lei a parlare, cogliendolo alla sprovvista. La frase suonò calcolata, riprovata, come osse la centesima volta che la ripeteva, ma solo la prima che la diceva ad alta voce.

“Di cosa?” Domandò confuso.

“Di tuo fratello.” Aveva disteso le gambe davanti a sé e solo allora, alla luce del sole, Clint riuscì a cogliere la fitta trama di cicatrici che le ricoprivano. “Mi ero accorta della somiglianza, ma non ho capito finché non me ne hai parlato.”

“Eri in debito con lui?” Era di questo che aveva parlato, no? Barney gli aveva detto di avere un favore in sospeso con la Stanza Rossa e Natasha era andata ripetendo di non avere altra scelta.

“Non io.”

“I tuoi... mandanti.” Natasha annuì una sola volta. “Cos'è che ti ha dato prima che te ne andassi?”

“Un ciondolo,” rispose, un leggero sorriso ad incresparle le labbra. Ma non c'era divertimento nei suoi occhi. “E' così che i nostri capi sanno che abbiamo portato a termine un lavoro... pagato il debito.”

“E adesso che ce l'hai?” Non avrebbe dovuto riportarlo indietro, ovunque si trovassero questi fantomatici superiori?

“Non ce l'ho più. L'ho gettato in mare.”

“Perché?” Temeva proprio di aver perso per strada il filo della conversazione.

“Perché non credo che mi rivogliano indietro,” si voltò per guardarlo, puntandogli addosso uno sguardo triste, rassegnato e arrabbiato al tempo stesso, “Molot era lì per uccidermi.”

Si era quasi dimenticato dell'imponente monaco che l'aveva svegliato di soprassalto nella speranza di riempirlo di mazzate... chiodate.

“Non suona molto sensato,” commentò, impedendosi di apparire anche solo vagamente dispiaciuto. Adesso sapeva che non l'avrebbe apprezzato; probabilmente non sarebbe piaciuto neanche a lui se fosse stato al suo posto.

“Uno schiavo disobbediente è uno schiavo inutile,” chiarì causticamente.

“E' questo che sei per loro? Una schiava?”

Natasha si strinse nelle spalle, forse incerta sulla risposta da dare. Esitò finché il silenzio non riprese a fluire tra di loro, più confortevole di quanto non fosse in precedenza, non più gravido di cose non dette ed informazioni convenientemente taciute.

“Grazie per essere tornata indietro,” si risolse a dire, strappando alcuni ciuffetti d'erba, giusto per tenersi occupato.

“Avevi intenzione di lasciarti ammazzare?” La domanda gli era suonata irruenta, come se Natasha avesse voluto soffocare il ringraziamento e fingere che Clint non avesse neppure pronunciato le parole.

“Non so cos'avessi intenzione di fare,” confessò, lasciando indugiare lo sguardo sulle sue curve un po' troppo a lungo. La stoffa nera si era scavata un posto nello spazio tra i seni, definendone le linee con cura maniacale. “Forse non avrei potuto fare niente, comunque.”

“A volte si devono fare cose orrende per sopravvivere,” sussurrò lei, a malapena udibile.

Deglutì a fatica mentre Natasha gli offriva il suo profilo, gli occhi chiusi, il naso dritto e le labbra morbide. Non voleva pensare a tutti i peccati di cui si era macchiata prima di sedersi lì con lui, o a chi l'aveva obbligata a commetterli, non voleva pensare agli squarci che la vulnerabilità apriva nella sua persona, permettendogli di intravedere la Natasha che stava al di là di quella barriera, impalpabile ma pur sempre presente. Non le piaceva avere le difese abbassate e Clint era più che sicuro che tutte quelle parole le costassero una fatica enorme.

“Cosa farai adesso?” Dopotutto era lui che aveva bisogno di raggiungere la capitale; lei non era obbligato a seguirlo.

“Mi godo la festa della corona... e poi penserò a qualcosa.”

Non avrebbe saputo dire come o perché, ma Clint sapeva che non si era mai fermata a riflettere su cosa sarebbe potuta essere se le circostanze fossero state diverse. Non abbiamo un posto nel mondo, gli aveva detto e lui le aveva creduto.

“Pagherò il mio debito e poi toglierò il disturbo,” aggiunse.

“Non sei in debito con me,” Clint si affrettò a puntualizzare. Non voleva essere come la Stanza Rossa – qualunque cosa fosse – né tantomeno come suo fratello, non quello che aveva tentato di ucciderlo comunque.

“Lo sono.”

“Puoi andartene in qualsiasi momento,” ribadì, ottenendo di farsi guardare.

Natasha lo osservò per un lungo istante e – per un misero attimo – gli parve che i suoi occhi si fossero avventurati sulle sue labbra e poi più giù. Probabilmente stava sognando o non aveva dormito abbastanza.

“Sembra che i ruoli si siano invertiti.” Fu lei a spezzare lo scomodo silenzio che aveva seguito la sua considerazione.

Avrebbe voluto dirle che non gli sarebbe dispiaciuto se fosse rimasta con lui anche dopo la festa della corona – il che sarebbe stato stupido: non sapeva cosa li aspettasse nella capitale, né cosa l'esercito stesse predisponendo per il re e per l'ordine dello Scudo. C'erano ancora troppe zone d'ombra nel disegno che gli si era delineato davanti agli occhi, troppe cose da chiarire o che ancora ignorava. Quel che contava, però, era che lord Phillip potesse essere lì. Che aveva messo in salvo la famiglia e che era in qualche modo coinvolto nell'attentato al capitano Rogers, nel bene o nel male.

“Ripartiamo stasera,” le disse, senza offrire alcuna spiegazione sul come avrebbero fatto a spostarsi.

Natasha annuì e Clint si distese sull'erba. Il paesaggio idilliaco era fastidiosamente in contrasto col garbuglio incomprensibile che gli riempiva il cervello.

Lo cancellò socchiudendo gli occhi.

 


Note: niente da dire su questo capitolo di tregua per i nostri prodi; spero non fosse troppo noioso. Per scoprire cosa li attende nella capitale bisognerà aspettare il prossimo capitolo...
Come sempre tanti ringraziamenti a chi legge e commenta e alla sociabeta Eli :)
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Warning: rapido avvertimento che questo è il capitolo (o uno dei capitoli) che danno il rating R (R+?) alla storia. Buona lettura!


 


Capitolo 15

~

 

La prima notte di viaggio era scivolata via in mezzo al nervosismo crescente di Natasha. Clint si era lasciato condurre dalle sue istruzioni – era lei, dopotutto, che sapeva dove andare – ma la donna non riusciva a tenere il suo passo e la cosa la mandava vistosamente in bestia.

Si stancava rapidamente per via della ferita, ma si ostinava a fare come se tutto andasse alla grande. Non gli chiedeva di rallentare o di aspettarla, limitandosi piuttosto a concentrarsi sui passi da fare, sul mettere un piede dietro l'altro, a ripetizione. Era stata lei a suggerire di prendere strade più imboscate e meno agevoli per evitare di fare brutti incontri lungo la via. Sapevano per certo che l'esercito si stava accentrando verso la capitale – Natasha gli aveva mostrato il biglietto sottratto al tenente che le aveva fatto visita dopo l'arresto – e le probabilità di incontrare qualcuno di quei reggimenti o almeno manipoli di truppe erano piuttosto elevate.

Si erano scambiati poche parole, ma man mano che gli ultimi strascichi aranciati del tramonto venivano cancellati dal buio incombente della notte, Natasha era sprofondata in un orgoglioso silenzio. Clint sospettava che lo sforzo fisico fosse tanto e tale da impedirle di spendere troppe energie in qualsiasi attività che non avesse strettamente a che fare con quell'imperterrito avanzare.

Talvolta, senza farsi notare, aveva rallentato per permetterle di raggiungerlo e aveva continuato a farlo anche quando lei se n'era accorta e lo aveva incenerito con lo sguardo.

Con la luna ad illuminar loro il cammino, il volto pallido di Natasha aveva assunto un colorito irreale e le occhiatacce che gli lanciava assumevano un non so che di inquietante. Più del solito, s'intende.

All'inizio si era sforzato di non irritarla, di mascherare quelle ridicole accortezze con la scusa della propria stanchezza, ma alla fine aveva deciso che non gli importava. Non l'avrebbe seminata solo per non farla incazzare, senza contare che perdersi – in tutto quel buio – sarebbe stato fin troppo semplice. Si era categoricamente rifiutato di comportarsi da idiota solo per blandire l'orgoglio di Natasha.

Lei non sembrava essere molto d'accordo con la sua decisione, e la misura costante e crescente della propria vulnerabilità era andata corrodendola lentamente. Non doveva essere abituata a sentirsi così; magari non del tutto indifesa, ma sicuramente non al cento per cento delle proprie facoltà.

Se qualcuno li avesse aggrediti – sparute persone e animali, infatti, avevano fatto la loro ricomparsa qua e là nella distanza – avrebbe fatto fatica a difendersi come al suo solito. Clint non aveva dubbi che sarebbe riuscita a cavarsela comunque, ma sapeva che avrebbe dovuto pagare un prezzo più alto per la propria incolumità.

La stizza, l'impotenza, l'inutilità della propria presenza l'avevano murata in uno spesso mutismo, tanto ingombrante da essere diventato quasi un terzo viandante a far loro compagnia durante il viaggio verso la capitale.

Il silenzio si interrompeva solo quando Natasha riconosceva alcuni scorci di paesaggio, magari una collina, un albero dalla forma particolare, un gruppetto di case – e allora gli dava informazioni logistiche sul dove fossero e quanto tempo avrebbero impiegato a raggiungere la prossima tappa. Ma più la notte progrediva e più quegli sporadici interventi erano andati esaurendosi. Doveva essersi accorta del modo in cui le risuonava la voce, affaticata e distorta e alla fine, pur di non dargli ulteriori indizi sulle proprie scarse condizioni, aveva preferito tacere.

Clint si era dovuto mordere la lingua per non chiederle cento e più volte se si volesse fermare: sapeva che l'avrebbe odiato per quello, e allora si era impegnato a non cedere alle lusinghe della propria apprensione. Contava sul fatto che non fosse poi così stupida da rischiare la vita pur di non mostrarsi debole (anche se il modo in cui si era comportata all'abbazia non gli dava a ben sperare) ed era deciso a lasciare che facesse i conti col proprio orgoglio: se aveva bisogno di fermarsi, avrebbe dovuto chiederglielo.

Ma non era successo niente del genere. La luce dell'alba brulicava già, in basso nel cielo, quando Clint decise che sarebbe stato opportuno cercare un luogo in cui trascorrere la giornata a riposare. Trovarono una catapecchia abbandonata e mezza nascosta da alcuni alberi e solo allora decretò: “ci fermiamo qui.”

Il sollievo fu solo un fugace bagliore sul volto congestionato di Natasha.

 

*

 

La prima sosta fu più scomoda di quanto Clint avesse preventivato. Natasha non aveva smesso di agitarsi un secondo, come se il nervosismo provocatole dalle proprie condizioni fosse un chiodo talmente fisso da impedirle di riposare.

Avevano messo insieme un magro giaciglio in mezzo all'unica stanza di cui era costituita la baracca e oscurato due delle tre finestre senza vetri per tagliare fuori la luce. Dopo aver messo qualcosa sotto i denti – gallette stantie e qualche frutto ancora troppo acerbo – si erano coricati, ma nessuno dei due era ancora riuscito a prendere sonno. L'agitazione di lei minacciava di contagiarlo e Clint non aveva per niente voglia di rimettersi a litigare: il sonno gli premeva disperatamente sugli occhi e tutto quello che voleva fare era dormire.

“Vuoi stare un po' ferma?” Sbottò improvvisamente, smettendo di darle le spalle per rimettersi seduto.

“Che c'è, hai bisogno che ti canti una ninna nanna?” Rilanciò lei, la voce sveglissima e indispettita, come se non avesse aspettato altro che un valido motivo per prenderlo a male parole.

Sapeva che era solo nervosa, che probabilmente aveva addosso una gran voglia di prendere a pugni qualcosa o qualcuno, ma la sua pazienza aveva un limite. E quel limite era pericolosamente vicino.

“Io? Sei tu che hai bisogno di rilassarti.”

“Tante grazie, Barton. Se potessi fare anche solo una delle cose che faccio di solito per rilassarmi, a quest'ora non sarei qui.”

“Chiudi gli occhi e dormi. Prima o poi il sonno arriva,” le disse, ma aveva sofferto di insonnia in precedenza e sapeva quanto non fossero vere le sue parole.

Lei, invece, aveva assunto un'aria strana. Si era immobilizzata e fissava il soffitto decrepito della sgangherata costruzione, come colta da un pensiero improvviso. Clint la osservò per qualche istante, ma quando capì che non aveva intenzione di dire un bel niente, si ributtò giù, sistemandosi su un fianco e dandole le spalle per tentare di riposare almeno un po'.

Se fosse rimasta sveglia tutto il giorno, la notte seguente sarebbe stata ancora più drammatica di quella appena conclusa. Ma tagliò fuori il pensiero – dopotutto erano affari di Natasha e non suoi. Andò ripetendoselo per un po', nella speranza che il concetto gli risuonasse anche solo leggermente più credibile di quanto non facesse in quel momento.

Aveva appena chiuso gli occhi quando Natasha parlò di nuovo.

“Dovremmo fare sesso.”

La frase era talmente assurda che Clint si chiese se non si fosse già addormentato, se quello non fosse un sogno. Non esisteva nessuno scenario realistico in cui Natasha gli avrebbe chiesto una cosa simile, per di più in quel tono pragmatico e scontato che usava quando gli dava informazioni su quale strada sarebbe stato saggio prendere.

Eppure nel naso aveva ancora l'odore di cenere che riempiva la baracca, persino quello acre e pungente degli escrementi di topo che – se tanto gli dava tanto – ormai dovevano costituire per intero le fondamenta della costruzione pericolante.

“Mi hai sentito?” Di nuovo Natasha.

Il fatto che non si trattasse di una visione onirica gli rendeva ancora più ardua la comprensione di quella proposta.

“Ti ho sentito,” confermò lui, decidendo di non voltarsi. “Tu, invece? Ti sei sentita?”

“Credi che stia delirando?”

Si dette mentalmente dello stupido perché non aveva pensato di tastarle la fronte, magari le era davvero salita la febbre e adesso andava dicendo le prime cose senza senso che le passavano per la testa.

“Non lo so. Stai delirando?”

“Hai detto che devo rilassarmi e non mi viene in mente altro.” Gli risuonò un tantino disperata, segno che era davvero esausta e che per lei quello era un modo come un altro per scaricare la tensione. Non era sicuro di voler sapere quali fossero gli altri metodi a cui era abituata...

Si sentì sprofondare in un baratro di incertezze. Da una parte la situazione era abbastanza ridicola e fin troppo scomoda per permettergli anche solo di pensare ad un'atmosfera adatta a quel genere di cose; dall'altra solo il fatto che si fosse messo a riflettere sulle atmosfere gli faceva capire piuttosto chiaramente cosa avrebbe davvero voluto fare. Il suo cervello proprio non l'aiutava, facendogli saettare davanti agli occhi immagini decisamente poco caste, alcune reali, altre solo frutto di fantasticherie decisamente troppo scomode per poter essere prese in considerazione.

“Se non ti va di farlo devi solo dirlo.” Natasha aveva trattenuto il respiro fino a quel momento e adesso suonava scocciata. Doveva essersi pentita dell'audacia della proposta e indispettita per il silenzio che aveva ricevuto in risposta.

“Non ho detto che non mi va di farlo.” Gli andava?

“Allora cosa c'è che non va?” Insisté.

“Non c'è niente che non va, ma dubito vivamente che nelle tue condizioni fare sesso sia la cosa più indicata.” Aveva detto la prima cosa che gli era passata per la testa. Non voleva approfittare della situazione solo perché le aveva consigliato di rilassarsi.

“Nelle mie condizioni?”

“Potrebbero strappartisi i punti o... o qualcosa del genere.”

Piombò un silenzio ostinato, interrotto solamente dal respiro accelerato di Natasha. L'aveva fatta incazzare: aveva capito di aver detto la cosa sbagliata.

“Nat?” La richiamò dopo un lunghissimo attimo.

“Buonanotte, Barton.”

Si maledì e chiuse gli occhi, ignorando in qualche modo il battito furioso del proprio cuore.

 

*

 

La tensione non fece che crescere durante la seconda tappa. Si erano incamminati nel tardo pomeriggio, dopo aver mangiato un paio di scoiattoli che Clint era riuscito a cacciare nella speranza di schiarirsi un po' le idee. Ufficialmente.

Ufficiosamente invece aveva sperato che tirare con l'arco potesse fargli dimenticare il sogno che aveva fatto, sogno che coinvolgeva Natasha e un elenco talmente lungo di cose che gli ci sarebbero volute due ore per confessarle tutte ad un prete in cambio dell'assoluzione. Sempre che il confessore avesse voluto concedergliela.

Durante il tragitto aveva cercato di non guardarla tanto spesso, perché gli bastava lanciarle una rapida occhiata e tutte le immagini di quello stupido sogno andavano a riaffastellarglisi davanti agli occhi, implacabili e talmente vivide da fargli bruciare le orecchie per l'imbarazzo. Si era svegliato eccitato e si era chiesto per tutto il tempo se Natasha se ne fosse accorta.

Riandò alla conversazione della mattinata precedente almeno un centinaio di volte durante il viaggio, la rigirò da ogni angolazione e la riprovò con battute ed esiti diversi. Ma dirle di sì non sarebbe stato giusto... anche solo figurandosela, la scena, gli rimaneva un sapore amaro in fondo alla bocca.

E poi all'improvviso, voltandosi per accertarsi che lo stesse seguendo e magari rallentare senza farsi notare, si accorse che Natasha non c'era più. Tornò rapidamente sui suoi passi e la trovò seduta sul ciglio della strada sterrata che passava in mezzo ai campi, intenta a tastarsi il fianco.

“Dev'essersi riaperta,” lo informò a voce bassa, contrariata, mostrandogli la mano macchiata. Anche se c'era solo luna ad illuminarla, Clint non stentò a riconoscere il sangue che le imbrattava le dita.

“Dobbiamo fermarci da qualche parte,” disse, guardandosi attorno. Solo fattorie e casolari a perdita d'occhio, ma trovarne uno vuoto sarebbe stato difficile.

“Posso continuare ancora per un po'.” Quel un po' le aveva fatto guadagnare un'occhiata strana. Possibile che le sue pretese si fossero fatte d'un tratto realistiche?

Restarono a guardarsi negli occhi, in silenzio, e Clint non poté fare a meno di chiedersi se stesse pensando a quella mattina, se non lo detestasse per il modo in cui l'aveva rifiutata. Non l'avrebbe biasimata, c'era già lui a detestarsi a sufficienza per tutti e due.

L'aiutò a rimettersi in piedi e Natasha non protestò quando Clint le passò un braccio attorno alla vita per sorreggerla. Per i primi passi era rimasta rigida contro di lui, come indecisa se fidarsi o meno di quell'inaspettato e indesiderato appoggio.

Ma dopo qualche minuto la sentì abbandonarsi, accettare il sostegno e appoggiargli tentativamente un braccio attorno alle spalle per facilitargli le cose.

Scoprì che il buon odore di lei, la cadenza irregolare del suo respiro, a malapena percepibile, non erano poi così semplici da ignorare.

 

*

 

Il tetto del fienile aveva un buco che lasciava intravedere un fazzoletto di cielo trapuntato di stelle. Natasha si era coricata contro la parete opposta, le spalle schiacciate al legno; all'inizio Clint aveva pensato che avesse voluto mettere la maggior distanza possibile tra lui e se stessa, ma poi aveva capito che quel punto in particolare offriva la postazione migliore nel caso qualcuno – il proprietario del granaio, ad esempio – li avesse sorpresi, nascosti com'erano nel sottotetto.

Era buio quando avevano deciso di infilarsi là sopra e lo era ancora quando Clint fu di ritorno dopo una breve spedizione di ricognizione alla ricerca di cibo. L'aveva trovata con un rozzo ago in mano mentre tentava di ricucirsi da sola la ferita e non si era risparmiato una serie di coloriti insulti a cui la donna non aveva risposto. Quel silenzio, Clint aveva intuito, era un modo di dargli suo malgrado ragione.

L'aveva trascinata sotto la falla del tetto, dove la luce della luna era più intensa, e l'aveva costretta a star ferma mentre le rimetteva i punti. Non l'aveva mai fatto prima d'allora – e Natasha doveva essersene accorta – ma si era comunque sforzato di imitare quelli che erano stati i gesti del dottore sull'imbarcazione dei contrabbandieri. Alla nuova fasciatura ci aveva pensato da sola, invece, mentre Clint si occupava di mettere insieme la cena composta da un assortimento di frutta e bacche.

Si erano coricati subito dopo senza dirsi di niente, lei decisamente troppo stanca per intavolare una qualsiasi conversazione, lui con le mani che ancora gli tremavano per la sutura.

Eppure, adesso che era immobile a fissare quella porzione di cielo che andava schiarendosi progressivamente, sapeva che Natasha non stava dormendo. Teneva gli occhi chiusi e qualcosa gli diceva che avesse persino regolato il respiro per fingere la cadenza del sonno; ma era sveglia.

Restò in ascolto, indeciso sul da farsi, la testa che gli si riempiva della conversazione del giorno precedente e di tutte quelle scene indecenti che si era immaginato e che adesso lo tormentavano. Fosse stato un tantino più lucido si sarebbe sforzato di pensare a qualsiasi altra cosa, cose schifose, tristi o disgustose – qualsiasi cosa fosse in grado di far sparire quel familiare prurito tra le gambe – ma per quanto si ostinasse, provando e riprovando, la consapevolezza andava a ricadere sempre e comunque lì.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato quando si alzò per andare a raggiungerla all'altro capo del solaio. Le si distese di fianco e gli occhi di Natasha si aprirono per fissarlo, svegli e privi dello smarrimento del sopore bruscamente interrotto.

“Che fai?” Gli chiese in un soffio, il sopracciglio inarcato a sottolineare la sua perplessità.

“Non stai dormendo,” le disse. Non la stava guardando, ma lei stava guardando lui.

“Tu neanche,” obiettò.

“Voglio provare una cosa,” finì per pronunciare prima che potesse anche solo ripensarci.

“Cosa?”

“Una cosa,” ripeté, evasivo. Si voltò per cercare i suoi occhi – gli parvero più profondi e scuri del solito, pieni di domande a cui non aveva voglia di risponderle. Non adesso. “Se non ti piace, basta che lo dici e mi fermo,” aggiunse.

Quello che seguì gli parve il minuto più lungo della sua esistenza... e ce n'erano stati diversi da che Natasha era entrata nella sua vita. O forse lui nella sua. Alla fine la donna annuì, un gesto leggero e a malapena percettibile.

Clint lo prese come il via libera di cui aveva bisogno. Le sollevò leggermente la camicia per scoprirle l'agganciatura dei pantaloni; tirò delicatamente i fili annodati che li tenevano chiusi, muovendosi in modo abbastanza lento da permetterle di fermarlo se avesse sentito il bisogno di farlo.

Ma non successe niente del genere: Natasha continuò a guardare alternativamente lui e le sue mani, come se non capisse dove volesse andare a parare. La vide sgranare un poco gli occhi quando fece sparire le dita oltre il bordo dei pantaloni, delicato e deciso insieme. La pelle del suo basso ventre era morbida, liscia e calda sotto i polpastrelli; gli bastava toccarla perché si punteggiasse di brividi, perché Natasha trattenesse il respiro.

Scese lungo la curva dell'interno coscia per poi addentrarsi verso l'inguine, senza fretta. La sfiorò, delicatamente dapprima, e poi in modo un po' più ruvido quando capì che le piaceva, che aveva dischiuso le gambe per lasciargli più spazio e agevolargli le cose.

Non aveva esattamente preventivato che lo sguardo di lei gli facesse quell'effetto. Che le sue labbra si separassero in quel modo per lasciar passare i suoi sospiri, che le guance le si colorassero, che gli occhi le si facessero più lucidi, che i suoi fianchi si muovessero a ritmo con la sua mano, che la voglia di farla impazzire potesse farsi così intensa e totalizzante. Se si soffermava a pensare a cosa stavano facendo poco prima (fingere di dormire) e quello che stavano facendo ora (non... fingere di dormire?), si sentiva un tantino ubriaco.

Si interruppe solo per un attimo e come in trance, avvicinandole le dita alla bocca. Non dovette dire niente perché l'aprisse un po' di più, perché gli lasciasse inumidirsi i polpastrelli sulla sua lingua prima di far risparire la mano tra le sue cosce.

Mentre faceva scivolare un dito dentro di lei, sentendola irrigidirsi un poco, gli parve impossibile che qualcuno fosse capace di resisterle. La curva sinuosa del suo corpo, il modo in cui piegava il capo all'indietro contro l'assito del soppalco, quello in cui si rilassava, permettendogli di andare un po' più a fondo, a muoversi lentamente dentro di lei, in quel calore umido e dannatamente invitante.

Avrebbe potuto guardarla per ore mentre si sforzava di trattenere il respiro, di bloccare l'aria che voleva sgorgarle tra le labbra sotto forma di gemiti sottili, mentre andava incontro ai suoi movimenti coi propri, per chiedergli di più, più forte, più veloce, più deciso.

Più intensificava le sue attenzioni e più l'espressione sul suo viso si faceva deliziosa, così diversa dalla Natasha a cui si era abituato, eppure così simile a quella che aveva immaginato, che gli aveva fatto compagnia nei suoi sogni. Sprofondò il viso nell'incavo del collo di lei, inizialmente con l'idea di baciarla, ma quando si trovò a sfiorare quella pelle così morbida con le labbra non poté far altro che morderla senza farle male e succhiarla e sentirla tremare in tutto il corpo.

Gemeva soffocata, adesso, e gli aveva afferrato il polso per esortare i suoi movimenti, forse per manovrarlo a suo piacimento. Si lasciò condurre e smise di guardarla, perché – intuì – era così che si sentiva più libera.

“Sta' ferma,” le sussurrò in un orecchio; si stava agitando troppo e non voleva che i punti saltassero di nuovo.

Sembrò bastare quello perché i suoi muscoli si irrigidissero e il respiro le si mozzasse in gola. Un sospiro distorto le sfuggì prima che la bocca si richiudesse, i denti affondati nel labbro inferiore a ristabilire frettolosamente l'ordine. L'orgasmo la scosse inaspettatamente, come un'onda impetuosa che si ritirò dopo pochi attimi, lasciandosi alle spalle un piacevole intorpidimento. La sentì rilassarsi e allentare la presa sul suo polso, che pure non smise di trattenere.

Aspettò un poco prima di rialzare il capo e concedersi di guardarla – la sensazione andò a finirgli dritta tra le gambe con più decisione di quanto si fosse aspettato. Natasha aveva riaperto gli occhi e lo osservava con soddisfatta vacuità.

Sarebbe rimasto lì per sempre, ma lei aveva ripreso a fargli salire la mano sul braccio e alla spalla, mentre con l'altra accennava a tirargli fuori la camicia dai pantaloni. Si ritrasse, allora, bloccandole le mani con le sue e scuotendo a malapena il capo.

“Non ce n'è bisogno,” le disse. “Dormi.”

Non seppe dove diavolo trovò la dignità per alzarsi e tornare al suo posto, ma lo fece, sotto lo sguardo confuso di Natasha che però non disse niente. Si riaccoccolò al suo posto, tentando di ignorare la propria eccitazione, sforzandosi di pensare a qualsiasi cosa che non fosse il calore umido di lei, i colori accesi del suo viso congestionato.

 

*

 

Si erano rimessi in cammino nel pomeriggio, quando Clint si fu accertato che i proprietari del fienile – e della fattoria adiacente – non fossero nei paraggi. Sgattaiolarono via, tagliando attraverso i campi battuti dal sole, stando alla larga dai fossi ombrosi in cui i contadini riposavano dopo il lavoro.

Avevano di nuovo deviato verso sconnesse strade secondarie, infilandosi tra la vegetazione tutte le volte che Clint avvistava qualcuno proveniente dalla direzione opposta: dopotutto era ancora un ricercato e lasciarsi coinvolgere in uno scontro in piena regola non gli andava affatto.

Natasha si era rivelata essere taciturna come sempre – non che Clint si aspettasse che gli avvenimenti della notte precedente l'avrebbero cambiata radicalmente. La sua andatura era più rapida, però, e più agevole del solito. Provava un certo piacere nel vedersi rivolgere certi rapidi sguardi confusi, quando lei credeva che non fosse attento o che stesse guardando altro.

All'inizio gli era sembrato di avere la situazione in pugno, ma poi si era ritrovato a ripensare alla sera precedente e a mettersi in difficoltà da solo. In quei casi prendere casualmente a calci i sassi sulla strada e fingere interesse per gli insetti che andava scovando era un buon modo di distrarsi. Aveva gongolato, poi, quando aveva realizzato che Barney – quello che ricordava lui, almeno – a sentirsi raccontare l'impresa, gli avrebbe tirato una manata sulla spalla e si sarebbe complimentato insultandolo contemporaneamente (Barney in questo era un maestro), prendendolo in giro per il suo indefesso altruismo.

Quel pensiero invece che agitarlo aveva il sapore della pacificazione. Forse il fratello con cui era cresciuto non esisteva più in carne ed ossa, ma viveva nella sua testa e interveniva tutte le volte che le cose si facevano troppo seriose o troppo scomode. Un pezzo di Barney sarebbe sempre stato con lui, che Clint l'avesse voluto oppure no. E adesso, adesso che finalmente aveva distrutto la barriera che aveva eretto in tutti quegli anni per arginare il senso di colpa, i ricordi fluivano liberi, gli aneddoti riprendevano vita davanti ai suoi occhi, e le voce di quel fratello tredicenne e impertinente gli risuonava nella testa, pungente proprio come era suonata alle sue orecchie bambine.

Era stato al calar della notte che avevano sentito un buon profumo d'arrosto nell'aria. Avevano deciso di dirigersi in quella direzione, magari trovare il modo di rubare un po' di carne col favore delle tenebre. Ma quando il chiacchiericcio di fondo era andato intensificandosi e non appena si erano accorti che era verso un accampamento militare che stavano andando ad infilarsi, si erano arrestati di colpo. Erano tornati sui loro passi senza aver bisogno di deliberare un bel niente e si erano affrettati a reimmettersi su una strada meno pericolosa.

 

*

 

Proseguirono fino all'alba, finché non decisero di fermarsi in quello che aveva l'aria d'essere il capanno degli attrezzi di una chiesetta sgangherata. Dovettero forzare l'ingresso e l'interno era così polveroso e in modo talmente uniforme da convincerli che nessun prete o altro essere umano avesse più messo piede là dentro da diverso tempo a quella parte.

Consumarono la loro cena in silenzio – formaggio e pane stantio che erano riusciti a sottrarre dal carro stracarico di un contadino panciuto, troppo preso a sbraitare contro il suo domestico per prestar loro attenzione. Ne avevano visti diversi lungo la strada: tutti impegnati a raggiungere la capitale per la festa della corona, a vendere i propri prodotti e magari a farne dono a qualche potentato del regno per ingraziarselo.

Clint si rammaricò che gli unici rabboniti da quel pane fossero due pseudo criminali spiantati, ma poi ripensò al modo in cui il contadino aveva maltrattato il suo garzone e si sentì un po' meno in colpa.

Finirono rapidamente di rifocillarsi e poi misero insieme un giaciglio per le ore successive. Si erano coricati distanti senza riuscire a prender sonno. Era stata lei a muoversi per prima e a riposizionarsi accanto a lui – non dovette dire niente per fargli capire che avrebbe voluto che rifacesse la stessa cosa della notte precedente.

Clint l'accontentò, beandosi del buon profumo della sua pelle, della leggera patina di sudore che le ricopriva il collo. Stavolta dovette trattenersi per non cedere alla tentazione di baciarla.

Natasha gli si era stretta contro, appoggiando la fronte sulla sua spalla per impedirgli di guardarla in faccia. I loro corpi erano stati vicinissimi, ma quando lei accennò a ricambiare il favore, Clint fece di nuovo cenno di no col capo, ricevendo in cambio l'ennesima occhiata confusa.

Eppure Natasha non tentò di convincerlo: sembrava stranita e, a tratti, aveva negli occhi soddisfatti un'arrogante aria di sfida, come se fosse convinta che quella fosse tutta una pagliacciata per impressionarla e che prima o poi sarebbe tornato a batter cassa, a riscuotere ciò che gli era dovuto. Ma durò solo pochi attimi, poi il suo sguardo si placò – per quanto potesse essere placato lo sguardo di Natasha – prendendo tacitamente atto del suo diniego.

Si addormentarono in fretta, lei più di lui.

 

*

 

La quarta notte di viaggio durò meno del solito. Evitare la carovane di gente, carri e animali, dirette alla capitale era diventato praticamente impossibile. Si erano dovuti accodare ai viaggiatori notturni – lunghi serpenti scuri che seguivano l'andamento della strada – tenendosi comunque in disparte sul lato della via, i cappucci calati sugli occhi per impedire che il chiaro di luna facesse troppi danni.

Non era ancora l'alba quando le sterminate mura di cinta della città si delinearono sul fondo della strada, grosse torce a punteggiarne il sinuoso snodarsi. I soldati a guardia delle porte ancora chiuse erano numerosi: avrebbero sicuramente perquisito chiunque entrasse nella capitale, controllando il carico e chiedendo di specificare le ragioni della visita.

“Non passeremo da lì,” gli disse Natasha, tirandolo leggermente in disparte.

C'era un bambino che piangeva disperatamente da qualche parte alle loro spalle. Qualcun altro cantava sommessamente davanti a loro, e pigre conversazioni non avevano smesso un attimo di formicolare tutt'attorno durante l'avanzata. Sembrava che la grande festa in maschera organizzata dal re al palazzo reale fosse l'argomento di conversazione preferito: il sovrano avrebbe scelto venti popolani perché partecipassero al sontuoso evento. La donna pettoruta accanto a loro giurava che l'onore fosse capitato a sua cugina cinque anni prima, un vecchio più avanti assicurava che lui c'era stato personalmente per ben due volte, altri ancora avevano condiviso le esperienze trasmesse loro da amici di amici di cugini e parenti lontani. Poi tacevano e malignavano sull'improbabilità l'uno del racconto dell'altro.

“Ah no?”

“C'è una scorciatoia.”

Si mimetizzarono tra la gente assiepata attorno alle mura, come in una sorta di patetico assedio che i soldati del re avrebbero potuto schiacciare ad occhi chiusi. Se solo il re li avesse avuti ancora dalla sua parte, s'intende.

Raggiunsero le mura, possenti ed enormi e le seguirono finché invece della pietra non incontrarono una mezzaluna di sbarre: una grata.

Inspirò a fondo e l'odore forte e nauseabondo che gli riempì le narici fu tutta l'informazione di cui ebbe bisogno.

Poteva esserci un modo migliore di salutare il giorno nascente che con una bella passeggiata nelle fogne?



Note: ultimo capitolo di *pausa* dedicato al viaggio fino alla capitale... niente di meglio di un sano passatempo per ingannare le ore, no? *ahem* Diciamo anche che è l'ultima chance per i nostri di conoscersi, perché dal prossimo capitolo si chiariranno molte cose e l'azione prenderà il sopravvento.
Intanto ringrazio chi legge & commenta, che mi fa sempre piacere, e la sociabeta Eli :*
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Capitolo 16
~
 

Il buio era così fitto e denso che Clint si sentiva immerso in una vasca piena d'acqua nera... e nauseabonda: il fetore risaliva dal fondo in rapide zaffate che rischiavano di tramutare il sentore di nausea in qualcosa di ben più concreto.

L'unica cosa tangibile in tutta quell'oscurità era la mano di Natasha, ben stretta attorno alla sua, come se la donna avesse paura di vederselo sottrarre da una forza invisibile da un momento all'altro. L'aveva guardata mentre scassinava la complicata serratura della grata, spiegandogli che non sarebbe stato saggio accendere una torcia là sotto: non solo qualcuno avrebbe potuto notarli, ma neppure avevano il tempo di mettersi a far cozzare pietre l'una contro l'altra in attesa di una scintilla – perché, di fatto, erano quelli gli unici mezzi che avevano al momento.

Si era infilata lei per prima, con la sicurezza di chi ripete uno stesso gesto una seconda, terza, quarta volta; l'aveva preso per mano senza chiedergli il permesso, senza neppure guardarlo. Clint aveva supposto si trattasse di una di quelle (molteplici) occasioni in cui qualcosa la metteva in imbarazzo, momenti nei quali l'unica risposta accettabile doveva sembrarle una pacata irruenza pragmatica.

Si erano curati di richiudersi la grata alle spalle e poi avevano cominciato ad addentrarsi in quel cunicolo fitto di tenebre, lasciandosi indietro il tenue bagliore dell'alba in cambio di un grottesco prolungamento della notte.

Ad accompagnarli nella loro avanzata solo lo scricchiolio dei piedi sul fondo viscido di sostanze che Clint non voleva proprio identificare, lo squittio distante di topi invisibili, persino lo sfarfallare di ali di quelli che sperò essere solo dei pipistrelli. Dio solo sapeva che cosa vivesse là sotto.

Gli tornarono in mente i discorsi che gli capitava di ascoltare pigramente a villa Coulson durante i pranzi o le cene: le fogne dovevano essere state un'idea del figlio del sovrano, il giovane Anthony, una mente talmente brillante da far impallidire quella del padre, già di per sé piuttosto illuminata. Re Howard gli aveva concesso di portare a termine il progetto e di metterlo in pratica, ma la resistenza del popolo e dei nobili all'innovazione era stata tale da renderlo di fatto uno spreco di denaro ed energie. Evidentemente le menti più sofisticate della capitale trovavano molto più naturale svuotare i vasi da notte nel bel mezzo della strada e che la fogna fosse un'aberrazione, una tentazione del demonio. In effetti, Clint si era aspettato di navigare in un letterale lago di merda, ma l'unico pericolo percepibile, nel buio fitto, era quello di scivolare sulla patina di sporcizia che ricopriva il pavimento o al massimo di cominciare a vomitare a spruzzo senza sosta. La navigazione in acque torbide e disgustose era più metaforica che concreta in quel momento, e Clint non avrebbe saputo dire quale delle due opzioni sarebbe stata la migliore. Che importanza poteva avere, comunque?

“Dobbiamo svoltare a destra,” lo informò debolmente Natasha.

Sperò non si fosse accorto del modo in cui gli sudavano le mani... o forse erano quelle di lei a sudare. In ogni caso, la cosa gli parve piuttosto stupida visti gli avvenimenti dei due giorni precedenti. Possibile che quel ridicolo gesto contenesse più intimità di tutto il resto?

“Quante volte ci sei stata qua sotto?” Le chiese, costringendo i pensieri a deviare altrove.

Se non altro non avrebbero potuto accusarlo di avere la mente nella fogna. O forse sì, ma avrebbe avuto una giustificazione estremamente convincente stavolta.

“Alcune,” rispose evasivamente lei.

“Sei sempre molto specifica,” la prese in giro.

“Sette,” si corresse allora, stizzita. Aveva stretto la presa sulla sua mano – adesso quasi gli faceva male – probabilmente per punirlo di quelle chiacchiere inutili.

“I tuoi affari ti portano spesso nella capitale?”

“Portavano,” puntualizzò, “e non credo che si possa parlare di affari.”

“Dove saresti dovuta tornare se... tutto fosse andato secondo i piani?” Se avesse deciso di riportare la medaglia ai suoi capi, se Molot non avesse tentato di ucciderla.

“Sulle montagne.”

Clint annuì una sola volta, anche se Natasha non poteva vederlo. Avrebbe voluto saperne di più, ma farle tutte quelle domande non gli sembrava mai corretto, specialmente quando le risposte sembravano essere strappate con la stessa delicatezza di un paio di tenaglie roventi. Decise di restare in silenzio, di continuare quel bizzarro gioco del cieco che guida il cieco e sforzarsi di non pensare a quanto la cosa lo mettesse a disagio – lui che contava sulla sua vista di falco per avvistare i pericoli prima che fosse troppo tardi.

Ma poi fu proprio la sottile voce di Natasha a riempire nuovamente il silenzio, inaspettata.

“C'è un monastero... sulle montagne ad est. Solo chi è stato addestrato dalla Stanza Rossa sa come raggiungerlo.”

Clint si figurò un ammasso di pietre arroccate sul fianco innevato di un rilievo aguzzo e impervio; non era affatto sorpreso di saperla proveniente da un posto del genere. Natasha gli dava diverse impressioni, alcune contrastanti, ma quella di complessità restava uno dei pochi punti fermi che la personalità di lei gli aveva concesso di fissare.

Aveva imparato a conoscerla, però, a leggere i pochi segni che la donna si permetteva di mostrare. O forse non era tanto questione di permesso quanto di disattenzione. Si era accorto che non era cambiata poi così tanto da quando l'aveva incontrata sotto gli alberi del bosco vicino a villa Coulson. La presunta strega solitaria non aveva niente a che vedere con l'imbarazzata fanciulla in cui si era trasformata quand'erano incappati nei saltimbanchi. Certo, aveva mentito su tutte le specifiche del caso, ma quello che contava sembrava essere rimasto pressoché invariato. Solo che adesso sapeva come interpretarla, sapeva prenderla per quella che era: una donna in carne ed ossa e non il demoniaco personaggio di qualche romanzo infarcito di oscure fantasticherie.

“E' lì che sei nata?” Si sentì chiedere senza averlo realmente preventivato.

“No,” gli parve quasi di poterla vedere scuotere il capo. “Non so dove sono nata di preciso. Non ricordo nulla della mia... vita precedente.”

“Com'è che funziona?” Continuò, “c'è qualcuno che si occupa di portare bambini da addestrare... al monastero?”

“Qualcosa di simile.”

“Come una specie di collegio o seminario?”

“Una specie di collegio o seminario in cui almeno i due terzi delle reclute non arrivano vivi alla fine.”

Si sentì un idiota. Ovviamente non tutti potevano diventare agenti della Stanza Rossa, non tutti si rivelavano all'altezza del compito o delle aspettative. Forse era per questo che il loro quartier generale si trovava in una zona tanto impervia: non ci sarebbe stato niente di semplice o confortevole nella loro vita.

“Poi se tutto va bene c'è l'iniziazione,” la voce di Natasha si era assottigliata ulteriormente, “se la completi con successo, ricevi l'onore di farti marchiare a fuoco come un maledetto animale.”

Il tono era pacato eppure carico di una rabbia sotterranea e a malapena trattenuta; la presa sulla sua mano andava intensificandosi tutte le volte che il discorso si faceva più spinoso. Non credeva che Natasha se n'accorgesse e si guardò bene dal farglielo notare – non era poi così spiacevole, sentirsi tanto saldamente aggrappato a qualcuno in tutto quel buio che cancellava le forme, le profondità, le distanze... il mondo intero, in fin dei conti.

“Perché non hai provato a scappare?”

La sentì sbuffare una risata prontamente soffocata.

“Ci ho provato più volte di quante voglia ammettere,” mormorò. “Perché credi che abbiano mandato qualcuno ad uccidermi?”

Uno schiavo disobbediente è uno schiavo inutile, gli aveva detto. Provò un moto di disgusto improvviso che – straordinariamente – non aveva niente a che fare con le due dita d'acqua di scolo attraverso cui si stavano facendo strada.

“Hai detto che non avevi altra scelta,” finì per dire, lasciando la frase in sospeso. Tutta quell'oscurità gli metteva addosso una ridicola audacia e sotto sotto era convinto che fosse il buio a rendere Natasha così loquace. Come se le dimensioni della realtà fossero cambiate, come se non fossero davvero là sotto a scambiarsi confidenze.

“Volevo salvare una compagna.”

Il tono di voce era cambiato in modo a malapena percepibile. Eppure non gli sfuggì il fatto che avesse usato il passato o il termine compagna invece che amica, come una parte di lui si sarebbe aspettata. Quel po' di rancore che ancora serbava nei suoi confronti per essere stato ingannato e condotto nella trappola di suo fratello sembrò sciogliersi, sfaldarsi definitivamente. Voleva chiederle di più, capirla di più, ma non dovette esortarla, stavolta – fu lei a parlare di nuovo.

“E' stupido. Nessuno si salva là dentro,” decretò pragmaticamente. Come se quella fosse una regola imprescindibile.

Gli tornò in mente quello che gli aveva detto durante il cammino, del non poter appartenere a nessun luogo in particolare se voleva poi appartenere a tutti. E allora realizzò che quello che le avevano fatto era stato cancellare la sua persona, smussarne tutti gli angoli per renderla infine intercambiabile. Un individuo neutro, camaleontico, capace di diventare, all'occorrenza, chiunque fosse stato necessario diventare. Il modo in cui l'aveva vista mentire ai saltimbanchi, la docile resistenza – se non caratteriale, almeno fisica – con cui l'aveva abbagliato durante il loro primo incontro... ricordava benissimo lo shock che gli aveva serrato lo stomaco quando aveva capito che era stata lei ad uccidere gli uomini di Rogers, riversi sul pavimento nella casa del guardiaboschi. Neppure nel divampare furioso delle fiamme gli era apparsa a disagio: nemmeno un mondo fatto di fuoco l'avrebbe scomposta più di tanto. Le avevano insegnato a mimetizzarsi con l'ambiente, con qualsiasi ambiente, e quello era il risultato.

Ma poter essere chiunque equivaleva a non poter essere nessuno, Clint realizzò. La considerazione gli aprì una voragine nello stomaco e il profondo senso di ingiustizia che gli provocò rischiò quasi di sopraffarlo.

“Credo sia già morta.” Di nuovo Natasha. Qualcosa gli disse che era la prima volta che lo diceva ad alta voce, almeno la centesima che lo ripeteva a se stessa.

“Come fai ad esserne così sicura?” Faceva fatica ad immaginarsi altre persone come lei. Certo, anche il Mangiafuoco e Molot venivano da quel posto, ma era abbastanza chiaro che si trattava di una diversa tipologia d'agente rispetto quella a cui apparteneva Natasha.

“Uno schiavo difettoso è uno schiavo inutile,” recitò prontamente.

Il silenzio tornò a mescolarsi all'oscurità, sempre più pressante e densa. Anche il tempo sembrava essersi cancellato là sotto; da quanto stavano camminando?

“Forse è stata la soluzione migliore,” aggiunse un attimo dopo, magari col preciso intento di fendere la spessa coltre di niente che li avvolgeva. “Vorrei solo averlo fatto personalmente.”

Un nodo gli strinse la gola non appena capì cosa intendeva: avrebbe voluto ucciderla personalmente, tributarle una gentilezza che gli uomini della Stanza Rossa, con ogni probabilità, non le avevano concesso. Avrebbe voluto aprir bocca e dire qualcosa di intelligente, qualcosa che potesse consolarla, ma già sapeva che non esisteva niente del genere. Che certe cose non possono essere sistemate: bisogna solo imparare a conviverci e sperare che i fantasmi del passato non si facciano tanto numerosi e minacciosi da annientarti definitivamente.

Si bloccò di colpo e costrinse Natasha a fare altrettanto.

Agli squittii, allo sbattere furibondo d'ali, al colare dell'umidità sulle mura di pietra di quel fitto labirinto di cunicoli si era abituato... ma al fruscio che aveva appena sentito no.

Non erano soli là sotto.

Le strinse leggermente la mano e solo dal mutare dell'atmosfera Clint capì che Natasha aveva intuito il pericolo. Lo strattonò leggermente e aumentò il passo senza aggiungere una parola.

Il rumore alle sue spalle andava intensificandosi, come se anche l'invisibile pedinatore si stesse velocizzando per mantenere il loro passo.

Natasha si era praticamente messa a correre quando un disco di luce rosata li accolse alla fine dell'ennesima svolta. Un fitto reticolo lo tagliava perpendicolarmente in più porzioni: un'altra grata.

Le lasciò andare la mano e incoccò una freccia, tendendo l'arco verso il vuoto che li stava inseguendo. Natasha, intanto, si era messa a lavorare convulsamente alla serratura del cancello, l'ultimo ostacolo al loro ingresso nella capitale.

Ci mise troppo ad abituarsi a quell'inaspettata incursione di luce mattutina, troppo a rendersi conto che c'erano quattro sagome in fondo al cunicolo, un quartetto d'ombre che si stava muovendo inesorabilmente nella loro direzione.

Non fece in tempo a capire se fossero guardie o magari topi di fogna esageratamente cresciuti – qualcosa lo punse all'altezza del collo. Lo shock fu tale da impedirgli di scoccare la freccia: la vista gli si era sfocata quasi subito e i sensi avevano cominciato a mescolarsi l'uno con l'altro.

Ebbe giusto la prontezza di portarsi una mano al collo, di tastare il dardo di dimensioni ridotte che gli si era andato a conficcare appena al di sopra della clavicola, di estrarlo con muto orrore, di riconoscere Natasha nella macchia informe al suo fianco, nelle sue stesse identiche condizioni.

La consapevolezza di essere stato drogato gli scivolò in petto prima che anche i contorni di quella si ampliassero fino a svanire del tutto.

Perse i sensi mentre quel mondo nero, senza rumore, gli si richiudeva addosso.

 

*

 

Si risvegliò con la testa che gli pulsava fastidiosamente in prossimità delle tempie, come se una massa sconosciuta stesse crescendo sempre più, battendo sulle pareti del suo cranio per convincerlo a lasciarla andare, a liberarla una volta per tutte. Se solo avesse potuto, sarebbe stato felice di porre fine alla sua prigionia e al proprio travaglio. In un colpo solo.

Il materasso morbido sotto la schiena fu la prima cosa che registrò, prima ancora che gli occhi si abituassero alla poca luce che illuminava il soffitto. Il reticolo di linee che gli riempiva lo sguardo andò definendosi sempre di più, finché non si ritrovò a fissare le pietre che lo sovrastavano e circondavano su ogni lato.

“C-Cazzo,” biascicò mentre tentava di rimettersi seduto.

Gli sembrava d'avere un macigno al posto del cervello (il che avrebbe spiegato diverse cose) e un prurito insopportabile al collo gli si palesò alla coscienza, ricordandogli gli ultimi momenti di lucidità che aveva vissuto prima che la droga facesse effetto.

“Passerà tra poco.”

La voce sconosciuta che aveva parlato lo fece sobbalzare e schiacciare con la schiena contro la parete a ridosso della quale era stato sistemato il letto – perché di quello si trattava.

Fece saettare lo sguardo ai quattro angoli della camera, individuando una donna in piedi nell'angolo alla sua sinistra. C'era uno sgabello alle sue spalle, come se si fosse alzata solo nel vederlo finalmente sveglio.

Sbatté le palpebre finché la sconosciuta non fu messa a fuoco, non prima che un moto di frustrazione non lo riempisse da capo a piedi: detestava essere privato della sua vista.

“Vi prendo un bicchier d'acqua.” La guardò spostarsi sul lato opposto, dove si trovavano una sedia, un tavolo e, poggiato su quello, un vassoio con una brocca e un bicchiere di latta.

Si sentì un idiota nel constatare che la donna sembrava una... suora. Indossava la lunga tunica scura dell'ordine più diffuso nel regno, un ampio sacco di stoffa che cancellava le forme del suo corpo. Al centro del petto pendeva una croce di legno e dalle larghe maniche sbucavano delle mani dall'aspetto delicato. Le mancava il copricapo, però, e fu quello a fargli dubitare di ciò che stava vedendo. I capelli scuri erano raccolti in una bassa crocchia.

Dove diavolo era andato a finire? E perché gli sembrava d'essere nella cella di un convento? Forse era una prigione e la donna era lì per sentire la sua ultima confessione e concedergli l'estrema unzione prima che qualcuno arrivasse a portarlo al patibolo, dove una corda spessa e ruvida gli avrebbe spezzato il collo... se gli fosse andata bene, sennò sarebbe rimasto lì ad agitarsi come un fottuto animale in trappola finché l'aria non gli fosse mancata definitivamente.

Il pensiero gli mise addosso un'agitazione improvvisa – gli ricordò il sogno che aveva fatto nella chiesa in cui lui e Natasha si erano rifugiati all'inizio del loro viaggio. I piedi di lord Phillip che si agitavano a mezz'aria, alla disperata ricerca di un appoggio che avrebbe potuto salvargli la vita...

La donna tornò indietro con un bicchiere colmo d'acqua. Gli si fermò davanti, ma invece che porgerglielo direttamente, lo appoggiò sulla testiera del letto.

Dopodiché si ritirò lentamente, rimettendosi a sedere sullo sgabello, le mani serrate in grembo.

“Dov'è Natasha?” Fu la prima cosa che le chiese.

“In un luogo sicuro,” rispose la religiosa. Gli parve perplessa, come se non le andasse molto a genio che quella fosse stata la sua prima preoccupazione.

“Dovrete essere un po' più specifica di così,” le ritorse contro, odiando il modo in cui la voce gli usciva di bocca, pastosa e roca. Sospettò essere non tanto una controindicazione del sonno, quanto della droga con cui erano riusciti a metterlo fuoriuso. Il bicchiere era proprio lì accanto, ma Clint non voleva accettare di bere proprio un bel niente che provenisse dagli stessi individui che l'avevano messo a dormire... chissà quanto tempo prima. Quanto ne era passato?

“In questo momento non posso,” sottolineò fermamente l'altra. “La signorina Romanoff è una nemica della corona e verrà trattata come tale.”

Una rabbia sorda gli contrasse lo stomaco in una morsa gelida che, se non fece proprio nulla per tranquillizzarlo, se non altro contribuì a farlo sentire improvvisamente più sveglio.

“Non è una nemica della corona,” ribatté con astio.

“Con tutto il rispetto, signor Barton, dubito che siate al corrente delle passate azioni della signorina Romanoff,” lo fissò con quei suoi occhi algidi e severi, dritti nei suoi, “e comunque non sono qui per questo.”

La vide lanciare un'occhiata al bicchiere ancora intatto e poi rimettersi in piedi per ritornare al tavolino e alla brocca.

“Non potete tenerci prigionieri.” Le parole gli si erano accavallate in bocca nell'impeto di essere pronunciate. Ma adesso che l'aveva fatto si sentì stupido: era ricercato, ovviamente potevano tenerlo prigioniero e fare di lui ciò che volevano. Se Natasha era stata etichettata come una nemica della corona, allora quella gente serviva il sovrano Stark.

“Non dite sciocchezze,” lo redarguì lei sollevando la brocca tra le mani, “non siete prigioniero.” Fece una breve pausa ad effetto, come per permettere alle sue parole di entrargli bene in testa. Accompagnò il silenzio con i pochi gesti che la portarono a bere direttamente dal recipiente: voleva dimostrargli che non c'era niente di pericoloso in quell'acqua.

“Chi siete?” Le domandò in un tono carico di diffidenza. Quasi si aspettava che la donna sarebbe caduta a terra in preda a spasmi di dolore terribili, ma non accadde niente del genere.

La religiosa riappoggiò la brocca sul vassoio e si pulì le labbra umide con una delle ampie maniche della tunica.

“Avete mai sentito parlare dell'ordine dello Scudo?”

Clint si morse l'interno delle guance e rimase ad osservarla attentamente, come per prevenire una qualsiasi mossa inconsulta. Solo poi si concesse di riflettere: sì che aveva sentito parlare dell'ordine dello Scudo. Era stata Natasha ad ipotizzare che lord Phillip ne facesse parte, che fosse in qualche modo coinvolto nell'attentato alla vita del capitano Rogers. Possibile che avesse ragione? Che il genitore adottivo avesse finto la sua ammirazione per l'ufficiale solo per poterlo convincere ad accettare l'invito a villa Coulson e quindi farlo ammazzare tanto platealmente?

Realizzò con orrore di non sapere da che parte rifarsi; avrebbe voluto credere ciecamente a lord Phillip e alla sua buona fede, ma ormai aveva imparato che la gente poteva cambiar faccia in qualsiasi momento e che non c'era modo di conoscere davvero qualcuno.

Senza accorgersene, si avvicinò il bicchier d'acqua lasciato in bilico sulla struttura del letto e ne bevve un lungo sorso.

Solo allora si concesse d'annuire alla domanda della religiosa.

“Questa sistemazione non è esattamente il massimo,” riprese lei, “ma gli eventi degli ultimi mesi ci hanno obbligato al ritiro in un luogo sicuro.” Quindi era nel loro quartier generale che si trovava.

“Sapete del colpo di stato,” constatò Clint prima di bere una seconda volta.

La donna annuì, ma non aggiunse nient'altro per qualche secondo.

“Vi stiamo tenendo d'occhio da un po',” rivelò infine, “mi dispiace che non ci sia stato modo di farvi fare un ingresso più dignitoso.” Le parole sarebbero dovute suonare affrante, ma si vedeva che non le importava minimamente della sua dignità umiliata. Aveva l'aria di una che fa quello che c'è da fare e che di sicuro non si preoccupa dei sentimenti che rimanevano feriti nel processo.

“Di che state parlando?” Di nuovo, la conversazione rischiava di sfuggirgli di mano.

“Vi conviene darvi una ripulita nella stanza qua accanto. Verrò a prendervi tra poco.”

“Questo non spiega un bel niente.”

“Temo dovrete pazientare ancora un poco per le spiegazioni.” Ancora, non c'era la benché minima traccia di desolazione nella sua espressione. Quella donna sembrava tutto fuorché una pia fanciulla che aveva promesso la sua giovane vita a dio.

“Temo di non aver voglia di aspettare,” le ritorse contro.

“Signor Barton, i vostri capricci non ci interessano. Il mondo rischia di cambiare per sempre domani sera, forse fareste bene a rifletterci.” Ed eccola che si trasformava in un'istitutrice severa.

“Voglio parlare con Natasha,” stabilì mentre la religiosa apriva la porta della camera.

“Al momento non è possibile.”

Scattò in piedi e la raggiunse, ma quella non indietreggiò neanche di un passo nel vederselo venire incontro. Se fosse per la sua ridicola andatura caracollante o perché non avrebbe avuto paura di lui in nessun contesto, Clint non seppe dirlo.

“Non mi interessa! Se le torcete un solo capello, io-”

“Voi cosa? Avete idea del numero di persone che hanno trovato la morte per mano di quella donna?”

Lo stomaco gli sprofondò dolorosamente. No, non ne aveva idea, ma non faceva fatica ad immaginarselo.

“Numerosi membri dell'ordine non sono più tornati a casa per colpa sua,” insisté lei, “uomini buoni, signor Barton.” L'occhiata che gli lanciò fu così penetrante da costringerlo a distogliere lo sguardo.

La religiosa parve prendere per buono il suo silenzio e uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta con il tacito invito a seguirlo.

“Non aveva altra scelta,” si ritrovò comunque a dire, il tono bruscamente ridimensionato.

“Abbiamo sempre una scelta, signor Barton.” Detestava il modo in cui pronunciava il suo nome.

“Già, alle volte tra una cosa orribile e una ancora più orribile.”

La vide fermarsi davanti alla porta della stanza subito adiacente, spalancarla e fargli cenno di entrare. Una leggera nuvola di vapore fuoriuscì nel corridoio illuminato regolarmente da torce infisse alle pareti.

“Non sono qui per parlare di morale,” lo redarguì lei, accennando col capo all'interno della camera. “Si faccia un bagno, ne ha bisogno,” alluse, “sarò qui quando avrà finito.”

“Se le fate del male...”

“Nessuno farà del male alla donna,” tagliò corto, spazientita. “Non prima di un giusto processo. Dopodiché il suo destino sarà nelle mani della giustizia.”

Non sembrava esserci spazio per il perdono divino in quella conversazione.

“Datevi una mossa,” aggiunse, aspettando che fosse entrato nella stanza piena di vapore per richiudergli la porta alle spalle.

Per l'ennesima volta nel giro di così poco tempo, Clint si sentì soffocare.

 

*

 

Avrebbe preferito farsi prendere a calci in culo piuttosto che ammetterlo, ma quel bagno l'aveva rimesso al mondo. Ufficialmente aveva deciso di metterci più tempo possibile col solo scopo di innervosire la suora, ma in pratica la situazione era talmente piacevole da fargli sentire il bisogno di prolungarla il più possibile.

Alla fine la religiosa si era messa a bussare come una pazza, minacciandolo di entrare da un momento all'altro, e allora aveva dovuto uscire dal caldo abbraccio dell'acqua, asciugarsi e vestirsi con gli abiti scuri che aveva trovato ripiegati su una sedia lì accanto. Neanche si infilò la camicia nei pantaloni, come se una mancanza tanto ridicola potesse innervosire gli algidi membri dell'ordine dello Scudo... e l'occhiata che la donna gli lanciò quando fu finalmente pronto, gli confermò che forse aveva colpito dritto nel segno. Non lo chiamavano Occhio di falco per niente, dopotutto.

“Dove andiamo?” Le chiese. “Dov'è Natasha?”

“Pensate seriamente di potermi cogliere in fallo facendomi troppe domande?”

“Non lo so. Pensate sia possibile?” Le ritorse contro, ottenendo un'occhiata asettica e terribile.

Fece fatica a starle dietro mentre si muoveva tra i corridoi tutti uguali. Incrociarono un paio di persone, una suora vestita come lei ma con tanto di copricapo e un frate che si ritirò nella stanza da cui aveva accennato ad uscire per permetter loro di passare.

Non aveva mai riflettuto sulla possibilità che l'ordine dello Scudo fosse un ordine religioso. Gli sembrò assurdo: come potevano uomini di chiesa proteggere il re? Certo, avrebbero avuto una scusa più che valida per girargli sempre attorno, ma faceva comunque fatica ad immaginare una suora che entrava in azione per difendere il sovrano.

Era ormai sul punto di mettersi letteralmente a correre pur di mantenere il suo passo di marcia, quando la donna si fermò di colpo e Clint rischiò di schiantarlesi addosso. Quella gli lanciò un'occhiata ostica prima di bussare leggermente sulla porta presso cui si era arrestata.

“Avanti.” Una voce possente e profonda li raggiunse dall'altro parte.

La religiosa aprì la porta e ce lo spinse dentro senza troppi preamboli. Un uomo sedeva di spalle ad uno scrittoio dall'aria antica e costosa.

“Colonnello, vi ho portato il ragazzo,” decretò con lo stesso tono pratico e asciutto.

“Grazie, Maria,” rispose quello. “Puoi andare.”

Ovviamente la suora si chiamava Maria! La cosa cominciava ad assumere contorni un tantino grotteschi.

Si vide lanciare un'ultima, penetrante occhiata prima che la presunta religiosa si ritirasse, lasciandolo solo con il colonnello, o chiunque fosse. Magari si chiamava Giuseppe e faceva il falegname. Oppure Martino e la sua occupazione era quella di suonare le campane per avvertire il re dell'arrivo dei nemici...

Il nervosismo l'aveva precipitato in un baratro di idiozie. Solo quando l'uomo finì qualunque cosa stesse facendo e si decise ad alzarsi e voltarsi verso di lui, la voglia di sparare stronzare si esaurì di colpo.

Il colonnello era un uomo alto e ingombrante, dalla pelle scura quasi quanto gli abiti neri che indossava. Aveva un aspetto solido e agguerrito: la benda che gli copriva l'occhio sinistro non faceva che sottolineare il concetto.

“Signor Barton, sedetevi pure,” gli intimò, indicandogli una sedia abbandonata poco distante.

“Sto bene in piedi,” si ritrovò a dire, a disagio.

Il colonnello si strinse nelle spalle, come a fargli capire che non gli importava. Poteva pure starsene appeso al soffitto per quel che lo riguardava, l'importante era che ascoltasse. Perché era questo il monito che Clint si sentiva imporre da quell'unico occhio che lo fissava.

“Avevamo sperato di portarvi all'ordine in modo un po' più consono,” riprese col dire. “Lord Phillip ci teneva.”

“Dov'è lord Phillip?” Si ritrovò a chiedere. Allora era vero che era coinvolto con lo Scudo. Possibile che avesse aiutato con il tentato omicidio del capitano Rogers?

“Non è qui,” replicò stringatamente l'altro.

“Che ci stiamo a fare, allora?” Cominciava ad innervosirsi. “Voglio vedere Natasha.”

“La Vedova Nera?” L'uomo si era messo a passeggiare per la stanza, le mani serrate dietro la schiena. Chi diavolo era la Vedova Nera?

“Non so di cosa stiate parlando.”

“Avete viaggiato con un'assassina, ecco di cosa sto parlando.”

“L'assassina mi ha aiutato ad arrivare fin qui,” ribatté. “E comunque cos'è che fate da queste parti? Scommetto che vi limitate a rimproverare la gente per convincerla a star lontana dal re.”

Dubitava vivamente che un ordine nato con il solo scopo di proteggere il sovrano si occupasse semplicemente di fare proselitismo ed educare il popolo ai sani principi di neanche lui sapeva bene cosa. In quel mondo la violenza era indubbiamente un male, ma un male necessario.

“Non è questo che avete fatto col capitano Rogers?” Aggiunse, perché l'uomo lo metteva in soggezione e tutte le volte che sentiva di essere in pericolo cominciava anche a sparare stronzate. In questo era un vero e proprio maestro.

Il colonnello si fermò per scoccargli un'occhiata perplessa.

“Pensate che l'assassinio del capitano sia stata un'idea nostra?” Gli chiese, adesso incuriosito.

“Penso che l'esercito si sta ammutinando e Rogers è uno dei migliori ufficiali del regno,” rispose a tono.

“Precisamente.” Che cazzo gli doveva significare?

“Non mi sembra una risposta soddisfacente, signor...”

“Fury. Colonnello Fury,” stabilì seccamente. Non aveva l'aria di volersi perdere in chiacchiere. “L'attentato a Steve Rogers non è stato orchestrato da noi. Ma avremmo dovuto fermarlo, se è questo che intende. In un certo senso è colpa nostra se l'abbiamo lasciato succedere.” Gli apparve vistosamente infastidito da quello che considerava chiaramente un fallimento bello e buono.

“L'idea era quella di reclutarvi proprio al termine della festa,” continuò Fury, “era a quello che serviva l'esibizione.”

“Di che state parlando?” Le cose ricominciavano a confondersi e sfuggirgli.

“Lord Phillip ha voluto mettervi alla prova. Anche se non avete superato il test più importante...”

“Mettermi alla prova? Non-”

“Voleva che entraste nell'ordine dello Scudo. E' a questo che vi ha preparato in tutti questi anni.”

“No.” La negazione gli era uscita con un certo orrore.

“Ma la vostra fedeltà alla causa non era esattamente cieca come ci saremmo aspettati.”

“Continuo a non capire.”

“Il matrimonio, signor Barton. Se aveste messo da parte ogni egoismo per fare ciò che tecnicamente era giusto per la famiglia, sareste diventato un membro dell'ordine molto prima di adesso.”

Il matrimonio con lady Jemma non era altro che un test? La testa gli girava e lo stomaco gli si era contratto in una morsa insopportabile. Decise di accettare quella sedia, dopotutto, e si mise seduto mentre i pensieri gli si affastellavano davanti agli occhi a velocità sorprendente.

“Lord Phillip sostiene ancora che il test non fosse adatto a provare la vostra fedeltà in particolare.”

“Non riesco a starvi dietro...” biascicò.

Cos'è che aveva detto sulle persone che non si rivelano mai esattamente come credeva che fossero?

“Lord Phillip vi ha scelto. Per questo siete stato salvato dalla forca.”

“Non è possibile.”

“Lo è, signor Barton. E da oggi, se lo vorrete, sarete un membro dell'ordine dello Scudo a tutti gli effetti.”

Lo guardò tirar fuori un medaglione circolare da uno dei cassetti dello scrittoio e porgerglielo senza troppe cerimonie.

C'era un'aquila ad ali spiegate incisa nella placca d'argento.

 



Note: avevo detto che si sarebbero spiegate un po' di cose, e ovviamente le nuove spiegazioni non fanno che richiederne altre... per le qual cosa ci sarà da aspettare il prossimo capitolo, ma prometto che di zone in ombra ne rimarranno ben poche.
Colgo l'occasione per avvertirvi che la prossima settimana la storia sarà in pausa e posterò un'altra cosetta.
Nel frattempo, tanti ringraziamenti a chi legge & recensisce, e ovviamente alla sociabeta Eli :3
A risentirci con Senza rumore tra due settimane!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Capitolo 17
~

 

La stanza in cui l'avevano condotto aveva i soffitti più alti di quelle che aveva visto fino ad allora. Maria l'aveva ripreso in consegna dal colonnello Fury per mollarlo da solo in quella camera circolare, occupata per la maggior parte da una tavola rotonda.

Gli vennero in mente le storie di prodi re e cavalieri che sua madre era solita raccontare a lui e Barney quand'erano più piccoli. Ma quello era solo un vecchio tavolo pieno di crepe, scheggiato in più punti: probabilmente era una sorta di sala consiliare raffazzonata alla bell'è meglio. Ricordava ancora cosa gli aveva detto Maria durante la loro prima e unica conversazione: in altre circostanze non sarebbero stati là dentro... ovunque fossero realmente. Clint si era accorto che mancavano finestre, il che gli aveva fatto sospettare di trovarsi sottoterra. Magari l'accesso al quartier generale dell'ordine dello Scudo era solo a qualche cunicolo di distanza dal punto in cui i loro uomini li avevano sorpresi.

Il medaglione che l'uomo gli aveva consegnato gli appesantiva la tasca dei pantaloni: non sapeva neanche perché l'avesse accettato. Fury era stato parco di spiegazioni e alla fine aveva borbottato qualcosa sull'essere troppo occupato e aveva richiamato la suora perché se lo portasse via. Li aveva visti lanciarsi un cenno d'intesa e poi, dopo altri interminabili corridoi tutti uguali, era finito lì.

Solo come un cane se non fosse stato per i mille e più pensieri che gli vorticavano nel cervello. C'era il chiodo fisso di Natasha, sicuramente rinchiusa da qualche parte in attesa di essere processata (da chi, però, e con quale autorità? Le avrebbero concesso una difesa degna di questo nome?); e dall'altra quello di lord Phillip, della vita a villa Coulson che adesso – in retrospettiva e alla luce di quel poco che Fury gli aveva rivelato – gli appariva completamente diversa da come l'aveva vissuta. Il matrimonio con lady Jemma non era stato altro che un espediente per ottenere la prova della sua lealtà alla famiglia e Clint aveva fallito. Clamorosamente. Non solo non aveva avuto il coraggio di confessare i propri dubbi a lord Phillip, ma aveva persino pianificato d'andarsene... e l'aveva fatto. Era vero che l'attentato del capitano aveva velocizzato le cose, ma il risultato non era stato troppo diverso da quello che aveva pianificato.

Adesso capiva che il capitano Rogers non era d'accordo con l'ammutinamento dell'esercito. Probabilmente i capi militari avevano deciso di toglierlo di mezzo perché troppo fedele al re: un ostacolo alla buona riuscita del colpo di stato. Ricordava le tirate infinite che lord Phillip gli dedicava con cadenza regolare, su quanto fosse coraggioso, giusto, fiero, capace di guadagnarsi il consenso e il rispetto dei suoi uomini. Ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a credere nel re se il capitano Rogers fosse rimasto in piedi; conosceva a menadito le mancanze del sovrano e ne avrebbe riconosciute anche a dio se fosse stato necessario. Di sconti non ne avrebbe fatti a nessuno, ma credeva nella buona fede del re Stark ed era fermamente convinto che, con i consiglieri del caso, potesse essere una buona guida per il regno. Non era stata una messinscena – Clint adesso lo capiva con estrema chiarezza. Probabilmente il capitano non era neppure capace di mentire.

Si coprì il volto con entrambe le mani, maltrattenendo a stento un'imprecazione. La porta si aprì in quell'istante e una ragazzetta conciata da novizia entrò per portare una brocca d'acqua e un bicchiere. La vide lanciargli un'occhiatina imbarazzata e arrossire prima di sparire da dov'era venuta. Non si chiuse la porta alle spalle, però, e un attimo dopo sulla soglia comparve una figura minuta. Clint ci mise un attimo di troppo a riconoscerla con quei vestiti semplici e pratici addosso.

Lady Melinda gli andò incontro con soltanto il fantasma di un sorriso a incresparle le labbra. Gli sembrò sul punto di abbracciarlo, ma quando gli fu vicino optò piuttosto per sedersi sulla sedia subito alla sua sinistra.

Non ricordava di averla mai vista senza uno di quei suoi vaporosi abiti addosso, senza uno dei ventagli giapponesi a nasconderle parte del viso, e nemmeno con i capelli sciolti. Erano più corti di quanto immaginasse, ma neri, lisci e lucidi che le ricadevano sulle spalle.

“Il colonnello Fury mi ha detto che eri qui,” esordì, stringendogli delicatamente un braccio. Forse per infondergli coraggio o per convincerlo delle sue buone intenzioni. Ma si fidava di lei, del suo tono asciutto, dei suoi modi di fare bruschi, eppure sinceri e dritti al dunque.

“Dov'è lord Phillip?” Le chiese quasi automaticamente, perché i pensieri continuavano a battere su quell'unico punto.

“Phil non è qui,” rispose, rivelando una familiarità che non poté fare a meno di stranirlo. “Dopo l'attentato abbiamo dovuto lasciare la villa,” spiegò. “Sarebbe andato tutto secondo i piani se Fitz non fosse rimasto indietro per recuperare dio solo sa cosa,” il contrattempo doveva averla contrariata parecchio. “Phil l'ha seguito. Alla fine a tornare indietro è stato solo Leopold.”

Una sensazione spiacevole gli riempì lo stomaco. Dov'erano tutti gli abitanti di villa Coulson, adesso? Dov'erano Antoine, Leo e lady Jemma?

“Crediamo sia opera della lega dell'Idra,” puntualizzò.

“La lega dell'Idra?” Ne aveva abbastanza di tutte quelle organizzazioni dai nomi misteriosi che – se aveva capito qualcosa dacché quella storia era cominciata – tenevano le fila delle sorti del regno. Aveva sempre pensato che il re e la chiesa fossero le principali parti in gioco, ma a quanto pareva si era sbagliato. Da sempre.

“Qualche anno fa alcuni membri dell'ordine hanno abbandonato lo Scudo,” Melinda cercò i suoi occhi, come per far attecchire più rapidamente le informazioni. “Persone che non avevano fiducia nella dinastia Stark e che hanno votato la loro vita a toglierla di mezzo.”

Quindi erano quelli dell'Idra che avevano messo in piedi il colpo di stato, loro che si erano infiltrati nell'esercito per farvi serpeggiare il malcontento e convincere i soldati al tradimento.

“E' vero che era tutto un inganno per farmi diventare uno di voi?” Si ritrovò a chiederle, perché del re non gliene importava poi così tanto. Quello che contava era che lord Phillip era nelle mani del nemico e che i pochi punti fermi che credeva di avere nella vita si erano disintegrati di colpo, come per effetto di un terremoto che aveva compromesso per sempre gli equilibri della sua esistenza.

“Non lo definirei un inganno,” rispose Melinda col suo solito tono neutro, quasi ostile tanto era asciutto e diretto. “Phil credeva che saresti stato un'ottima aggiunta alla squadra,” spiegò. “Fury dice sempre che tutti possiamo fare di più quando ci rendiamo conto di essere parte di qualcosa di più grande e importante di noi.” Si strinse nelle spalle e si riappoggiò allo schienale della sedia che aveva occupato. C'era una sorta di malcelata tristezza nella sua voce, mista a rabbia per quello che non aveva potuto fare per riportare lord Phillip al sicuro. “Phil sapeva che ti sentivi... senza radici,” l'espressione risuonò buffa sulle sue labbra. Clint realizzò senza difficoltà che quella linea di pensiero non le apparteneva minimamente. “Sperava che far parte di tutto questo ti avrebbe dato un po' di stabilità. Qualcosa per cui combattere.” Le sue parole, però, andarono dritte al punto, colpendolo dove faceva più male.

“E il matrimonio era solo-”

“E' una delle prove standard per assicurarci della lealtà dei candidati.”

“Ho fallito,” si ritrovò a pronunciare mestamente.

“Non hai fallito,” Melinda scosse il capo, seccata, “ognuno risponde a determinati stimoli.”

“Che significa?”

“Che ti abbiamo sottoposto alla prova sbagliata. Speravamo di informare sia te che il capitano Rogers dei nostri piani dopo la festa al paese,” serrò le labbra fino a ridurle ad una linea sottile, “ma non ne abbiamo avuto il tempo.”

Era arrabbiata. Realizzò la portata della furia che doveva albergarle in corpo solo in quel momento, guardandola stringere i pugni con discrezione.

Non fece in tempo a dire niente che si era già rimessa in piedi e lo invitava a fare altrettanto.

“Ho delle reclute da allenare,” gli disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Ti porterò dal capo, così potrà spiegarti i piani per domani e tu potrai scegliere cosa fare.”

“Ho già parlato con Fury,” obiettò, seguendola senza farselo ripetere due volte.

“Non è di Fury che sto parlando.”

Clint si chiese chi diavolo potesse essere tanto autorevole da convincere l'imponente colonnello a prendere ordini da qualcun altro.

 

*

 

Maria sedeva rigida sulla sedia accanto alla sua. Davanti a loro uno scrittoio ricoperto di carte ordinatamente arrotolate o ripiegate; su quelle erano sparse altri strumenti di vario genere e un paio di boccette d'inchiostro. Chiunque fosse il fantomatico capo dell'ordine dello Scudo, Clint non aveva una gran voglia di incontrarlo. Anzi.

Era già stufo di tutti quei colloqui non richiesti: Maria prima, Fury poi. Rivedere lady Melinda gli aveva fatto piacere, invece. Era la prima faccia amica che incontrava da quando il viaggio era cominciato, l'unica prova concreta e tangibile che la sua vita a villa Coulson era davvero esistita, che non se l'era solamente inventata.

L'aveva lasciato davanti alla porta della stanza in cui si trovava attualmente; gli aveva stretto di nuovo il braccio e aveva aggiunto: “sono contenta che tu sia qui”. Poi se n'era andata.

Per arrivare allo studio, più spazioso di quello del colonnello, avevano attraversato corridoi e stanze sempre meno deserti man mano che si erano avvicinati alla meta. Donne e uomini si muovevano in ogni direzione, alcuni vestiti da suore e frati, altri in abiti borghesi. Tutti indiscriminatamente, però, sembravano avere una gran fretta. Gli era parso di intravedere almeno due aule adibite all'addestramento e una che aveva l'aria dell'armeria improvvisata. Si era chiesto se tutte le forze a disposizione del re si trovassero là sotto, se davvero tutto ciò su cui il sovrano potesse contare era un manipolo di religiosi (veri o falsi che fossero) e una manciata d'armi.

Maria era arrivata poco dopo, sfoggiando la stessa espressione assente e ostica di sempre. Clint non aveva ancora capito se il nervosismo fosse dovuto alla sua specifica presenza o agli eventi del giorno. La possibilità che quella fosse la sua condizione naturale gli aveva fatto capolino nel cervello, ma ancora non osava prenderla per buona.

Il silenzio, però, cominciava a farsi insopportabile. Per questo, stufo di passare in rassegna ogni singolo oggetto presente nella stanza, si decise ad aprir bocca.

“Quindi sareste una specie di cane da guardia,” constatò e non dovette aspettar molto per l'occhiataccia che aveva pronosticato di ricevere.

“Non sono niente del genere,” puntualizzò Maria.

“Se non siete qui per tenermi d'occhio, siete qui per farmi da cicerone... e se non vi dispiace, come cicerone fate un po' schifo.”

“Cosa credete che sia?” Era sbottata, subito sulla difensiva. “Un grand tour per rampolli nobili e annoiati?”

“Perché ve la prendete così tanto? Cicerone era molto probabilmente un ciccione che andava in giro in ciabatte... non mi scoccerebbe più di tanto non essere paragonato ad uno come lui.” E poi era decisamente troppo pomposo per i suoi gusti.

“Non siete divertente.”

“Siate indulgente,” la canzonò un poco. “Che fareste al mio posto?”

“Non sono solita discutere di cose improbabili.”

Valutò se chiederle o meno, per l'ennesima volta, dove si trovasse Natasha e se fosse possibile vederla. Parlarle. Ma fu Maria a riprendere la parola.

“Se Phil si fida di voi, allora non vedo dove sia il problema,” decretò con il tono definitivo di una verità incontrovertibile. Aveva addolcito leggermente la voce nel pronunciare il nome di lord Phillip, abbastanza da fargli capire che i due dovevano aver lavorato insieme... prima d'allora.

Realizzò di non avere la più pallida idea di che aspetto avesse la vita di lord Phillip; sapeva che viaggiava molto, ma gli era sempre apparso come un nobile spiantato ed eccentrico con una predilezione per i casi disperati, di certo non come un membro di una potente organizzazione segreta nata per proteggere il re. Bè, in effetti della potenza dello Scudo non era esattamente convinto... ancora.

“Non sono neanche sposati, non è vero?” Si sentì chiedere.

“Chi?” Maria si voltò finalmente a guardarlo.

“Lord Phillip e lady Melinda.” Gli sembrò di indovinare l'ombra di un sorriso sul volto austero della donna, e alla fine, anche se riuscì ad impedirsi di farlo troppo apertamente, il divertimento le aveva acceso lo sguardo. Le faceva strano che qualcuno li chiamasse in quel modo.

“No, non sono sposati,” ammise.

“E gli altri? Sono tutti membri dell'ordine?”

“Candidati,” lo corresse.

“Perché non ci hanno detto niente?” Finì per domandare, più a se stesso che a lei.

“Non eravate ancora pronti. L'ordine sopravvive grazie alla segretezza dei suoi membri. Non è facile decidere di chi ci si può fidare e di chi no,” distolse lo sguardo.

“E adesso?”

“Adesso abbiamo bisogno di tutti gli uomini disponibili.” Una ruga le si era formata sulla fronte, l'unico segno tangibile della sua preoccupazione.

Avrebbe voluto dirle del biglietto che Natasha aveva trovato sul tenente al villaggio dopo il ponte di pietra, leggerle il messaggio, raccontarle del sogno che aveva fatto su lord Phillip, quello in cui l'aveva visto morire appeso per il collo. I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto – ormai aveva imparato la frase a memoria. Tutta quella gente sarebbe morta se l'Idra avesse avuto la meglio. Si stava chiedendo se suo fratello e i suoi ribelli ne facessero parte, quando la porta si aprì senza alcun preavviso.

Si voltò mentre una macchia bordeaux si infilava nello studio. Registrò la sua fretta prima ancora di poterla guardare in faccia.

“Maria, signor Barton, vi prego di seguirmi. Devo ancora controllare l'infermeria e sono indietrissimo sulla tabella di marcia.”

La donna – perché di una donna si trattava, Clint si accorse – si concesse a malapena il tempo di recuperare alcuni fogli dallo scrittoio e quello che sembrava un grembiule da uno dei cassetti. Clint imitò Maria e si rimise in piedi, accodandosi alla sconosciuta che era già uscita nel corridoio.

Portava un grosso abito rosso scuro dalla gonna ampia e voluminosa, ma senza strascico. I capelli, di un bel castano scuro erano sistemati in un'ingombrante acconciatura che le traballava sul collo ad ogni passo. Era leggermente spettinata e anche il vestito era sgualcito in più punti, come se non si fosse fermata per tutto il giorno. O forse più a lungo.

“La vostra amica si è divertita a prendere a pugni i nostri uomini, signor Barton.” Aveva una bella voce e un accento che non gli risultò familiare. Sembrava divertita dalle proprie parole e quando Clint non rispose si voltò giusto un attimo per rivolgergli un rapido sorriso. Un sottile velo di trucco le metteva in risalto gli occhi e gli zigomi, e le labbra erano di un bel rosso cupo.

“Natasha?” Si ritrovò a chiedere. Com'erano passati dal definirla una nemica della corona al considerarla sua amica? Possibile che fosse riuscita a liberarsi?

La donna annuì prima di imboccare delle ripide scale a chiocciola. Clint invitò Maria a precederlo nella salita, ma la religiosa gli lanciò un'occhiata di fuoco, spronandolo a darsi una mossa.

“A quanto pare il nostro sedativo non è stato altrettanto efficace su di lei,” ricominciò a spiegare. “Non sappiamo molto della Stanza Rossa, ma è possibile che i suoi adepti siano addestrati a resistere a determinate sostanze.”

Non sapeva perché avesse sentito il bisogno di dirglielo, ma gli sembrò plausibile. In certi libri che aveva letto, di viaggio soprattutto, c'era sempre qualcuno che si era abituato ad assumere veleni in piccole dosi per diventarne – alla lunga – immune.

“Posso vederla?” Le chiese allora, affrettandosi su per la scala. Si accorse che la donna indossava scarpe alte eppure si muoveva con tanta rapidità da essere costantemente sul punto di seminare sia lui che Maria.

“Non adesso, se non vi dispiace,” il tono era gentile, ma fermo. “Ve l'ha detto lei di chiamarsi così?”

Clint non rispose perché erano arrivati al piano superiore: altri corridoi di pietra punteggiati da aule e stanze di varia misura, ma stavolta c'erano delle piccole finestrelle in cima ai muri, segno che dovevano essere ancora sottoterra, ma decisamente più vicini alla superficie.

“La conosciamo con molti nomi diversi da queste parti,” la donna aveva ripreso a parlare. “Ogni area del regno le affibbia un nome diverso. Morte Rossa, Ombra Slava, Vedova Nera...”

Gli tornò in mente il modo in cui si era arrabbiata quando l'aveva accusata di essere troppo misteriosa, di essersi cucita addosso un personaggio improbabile col preciso intento di ingannarlo. Aveva perso completamente il controllo – l'unica volta in cui si era lasciata sopraffare dalla furia con cui doveva fare i conti ogni giorno. Doveva essersi stufata di sentirsi dipingere come qualcosa che sentiva di non essere, di essere considerata una sorta di simbolo invece che una persona in carne ed ossa. Un concetto, magari. Non apparteneva a nessun luogo, non aveva un'identità stabile e nessuno riusciva a vederla per quello che era, un essere umano come tanti altri. Certo, con abilità letali che le permettevano di risultare fatale in mille e più circostanze, ma pur sempre un essere umano.

“Per me è solo Natasha,” sentì il bisogno di dire. “Non vi aiuterò se non la lasciate libera.” La condizione gli era uscita di bocca senza che avesse realmente preventivato di farlo. Ma non appena le parole furono fuori, libere di fluttuare nell'aria, Clint realizzò che ci credeva fino in fondo.

“Non dite sciocchezze,” intervenne Maria.

“No, Maria, lascialo stare,” la donna senza nome la redarguì con pacatezza.

Non si erano fermati un secondo: ancora la seguivano in quel labirinto infinito di corridoi e stanze. Solo quando furono in dirittura d'arrivo per una doppia porta, si legò il grembiule in vita. Si infilò nell'ampio stanzone riempito dalla luce dorata del pomeriggio senza bussare, con irruenza.. Clint fece fatica ad abituarsi all'illuminazione naturale, ma individuò subito le schiere di letti che costeggiavano entrambe le pareti. Su ognuno era disteso o seduto un uomo o una donna che sfoggiava una ferita o un acciacco diverso. Altre persone giravano tra i giacigli portando acqua, bende e dio solo sapeva cosa. C'era uno sgradevole odore dolciastro nell'aria che Clint riconobbe come l'olezzo del sangue misto a qualcos'altro. Erbe, aromi, spezie.

Sembrava un ospedale in piena regola, anche se non del genere che garantisce vitto e alloggio ai poveri.

Alcuni degli infermieri presenti si staccarono dalle loro occupazioni per raggiungere la donna. Parlarono a turno, ognuno comunicandole la situazione di un paziente diverso. Quando ebbero concluso, la sconosciuta consigliò cose diverse a ciascuno, raccomandandosi di fare tutto il possibile seppur col poco che avevano a disposizione.

Fu in quel momento che la realizzazione lo colpì come un fulmine a ciel sereno. Era lei, la donna senza nome, il capo dell'ordine dello Scudo. Tanta era stata la rapidità con cui era entrata e uscita dallo studio, da impedirgli di ricollegare immediatamente le due cose. Il colonnello Fury, alto, scuro e minaccioso, prendeva ordini da quella signora vestita elegantemente, dal sorriso gentile e l'accento bizzarro. Non gli capitava spesso di provare subitanea ammirazione per qualcuno, ma quel giorno, per quella donna, fece un'eccezione.

“Venite,” sembrò ricordarsi di loro solo in quel momento e li esortò a seguirla ulteriormente. Dopo lo stanzone in cui si trovavano ce n'era un altro uguale e da quello risbucarono in un secondo corridoio, più stretto dei precedenti. Su questo si aprivano diverse stanze, ma la donna si fermò davanti ad una in particolare.

“Finisco qui e poi vi raggiungo,” avvertì sia lui che Maria prima di bussare leggermente.

Una voce familiare l'invitò ad entrare e la donna sparì oltre la soglia, dimenticando però di richiudersi la porta alle spalle. Clint non voleva esattamente spiare, ma la camera era ben visibile dal punto in cui la donna li aveva lasciati. Si intravedeva lo spartano mobilio, la finestra alta sul muro, e poi un letto alto dalla struttura in legno.

Il vestito bordeaux della donna gli oscurava la visuale, chinata com'era su chiunque occupasse il materasso, ma la voce... quella voce. Riuscì ad identificarla con un secondo di ritardo, proprio mentre gli ritornavano alla memoria le parole del tenente dell'esercito, quello che aveva voluto visitare Natasha nella sua cella: … qualcuno l'ha rapito dall'ospedale in cui era ricoverato.

La donna si spostò per andare a prendere qualcosa nell'angolo della camera fuori dal suo campo visivo, e allora Clint ebbe la sua conferma.

Il capitano Steve Rogers era seduto con la schiena dritta contro la testiera del letto, le lenzuola disordinatamente drappeggiate in grembo e sulle gambe; il busto era nudo e una fasciatura lo copriva quasi del tutto, agganciata com'era ad una delle spalle per mantenerla più ferma.

L'ordine dello Scudo aveva il capitano Rogers. E se il capitano era in combutta con loro, allora i traditori l'avevano voluto togliere di mezzo, senza che però ogni singolo membro dell'esercito ne fosse messo al corrente. Forse Rogers era una presenza talmente scomoda da non poter essere cancellata dal panorama politico senza una buona dose di manipolazione a più livelli. Magari anche qualcuno dei più convinti nemici del re avrebbe vacillato nel sapere che l'Idra aveva osato uccidere un ufficiale di talento come lui.

Sbatté le palpebre e un attimo dopo Maria aveva riaccostato la porta, impedendogli di continuare a sbirciare all'interno della camera. Le lanciò un'occhiata incomprensibile, anche se la religiosa stava facendo finta di niente.

“Cos'è successo dopo l'attentato al capitano?” Le chiese allora.

Maria rimase in silenzio un po' troppo a lungo per non innervosirlo; intrecciò le braccia al petto infine, sostenendo ostinatamente il suo sguardo.

“Gli uomini di Rogers, i superstiti, vi hanno accusato dell'attentato e hanno emesso un mandato di cattura.” La taglia sulla sua testa, quella che aveva convinto il direttore della compagnia di saltimbanchi a fargli la festa... o a provarci, se non altro. “Il veleno usato per ucciderlo proveniva dalle scorte di Leopold Fitz.”

“C-Che cosa?” Ricordò il volto pallido del cugino mentre trafficava con la borsa che gli aveva riportato dalla villa nella disperata speranza di poter salvare il capitano. Se era una sostanza di sua invenzione allora aveva sicuramente sperimentato anche l'antidoto, non sarebbe stato tanto stupido.

“... e la freccia era una delle vostre. Qualcuno che conosce voi e i Coulson ha fatto in modo che sembrasse colpa vostra.”

“E poi?”

“Quando hanno capito che eravate fuggito, si sono rivolti a Phil, ma lui era già stato allertato da alcuni contatti all'interno della gendarmeria.”

A quel punto doveva aver messo in fuga la famiglia intera, salvo poi dover tornare indietro per recuperare Leo... qualcosa era successo per convincerlo a non tornare dagli altri, ma avrebbe dovuto parlare col cugino per capirne di più. Lady Melinda non era stata molto specifica e adesso tutte le domande che avrebbe dovuto farle gli si accavallavano nel cervello, implorando di veder soddisfatta la loro curiosità.

“Ho pensato di tornare,” mormorò tra sé. Era stato sul punto di farlo quando aveva spiato Natasha impegnata in una fitta conversazione con padre Selvig.

“Sarebbe stato stupido,” Maria scosse debolmente il capo. “Non avreste potuto fare niente. L'Idra avrebbe messo le mani su di voi e a quest'ora avrebbero un'ulteriore moneta di scambio da usare contro lo Scudo.”

Non fu sorpreso di constatare che Natasha, già a suo tempo, aveva avuto ragione. Ma anche dopo tutti quei giorni, lord Phillip continuava a rischiare la vita... a meno che non fosse già morto.

“Credete che gli sia successo qualcosa?” Finì per chiederle, sperando forse di essere confortato.

“Non possiamo saperlo,” rispose realisticamente la religiosa. “Se sanno chi è, staranno cercando di cavargli tutte le informazioni possibili.”

Non era sicuro del perché ne fosse così certo, ma lord Phillip non avrebbe parlato.

“Il figlio è andato a cercarlo,” aggiunse Maria sovrappensiero, “ma non abbiamo ancora ricevuto notizie.”

“Il figlio?” Si era perso per strada... di nuovo. Tutte quelle rivelazioni lo facevano sentire ubriaco.

“Grant.”

Non poté soffermarsi su quanto si sentisse stupido per aver completamente rimosso Grant dal teatro di puro caos che gli si stava articolando nel cervello, perché la donna senza nome era di nuovo tra loro, la porta della stanza del capitano ben chiusa alle sue spalle.

“Dicevamo,” riprese, scostandosi dal viso una ciocca di capelli sfuggita all'acconciatura, “speravo che avrebbe accettato di collaborare con noi, signor Barton.”

Clint era ancora troppo confuso per poter dire niente di sensato; si limitò ad annuire. La sconosciuta si era appoggiata alla parete lì accanto: sembrava stesse riprendendo fiato dopo una lunga corsa. Solo adesso che poteva guardarla per bene si accorse di quanto fosse bella, le braccia tornite e il seno prosperoso schiacciato nel corpetto, il viso segnato dalla stanchezza eppure ben truccato e composto.

“Pensiamo che il colpo di stato avverrà domani sera, alla festa in maschera organizzata al palazzo reale,” lo informò. “Alla celebrazione privata avranno accesso tutti i nobili del regno, alcuni popolani scelti tra la folla, vertici della chiesa e dell'esercito. Non sappiamo se l'assassinio del re avverrà a porte chiuse o in un luogo in vista...”

“Se la storia ci insegna qualcosa, vorranno almeno mostrarne il cadavere alla folla. Convincerli che è morto davvero per fugare ogni dubbio,” chiosò Maria.

“E' possibile che optino per la strategia più spettacolare,” aggiunse la donna senza nome, sovrappensiero. “Abbiamo già alcuni uomini che si infiltreranno alla festa per tener d'occhio il re. Non escludiamo che sia qualcuno a lui vicino ad essersi preso la briga di portare a termine l'uccisione.”

“Quel che è certo è che toglieranno di mezzo anche il giovane Stark,” di nuovo la religiosa, “devono eliminare l'intera dinastia e rimuovere qualsiasi erede se non vogliono che i loro sforzi si rivelino inutili.”

“Vorremmo che tu fossi uno degli infiltrati. Sappiamo che sei un ottimo tiratore e ci tornerebbe utile avere un paio d'occhi come i tuoi là in mezzo.”

Ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse passato dalla passeggiata nella fogna a quell'assurda visita al quartier generale dell'ordine dello Scudo, il cui capo continuava a trattarlo come se fosse sempre stato uno di loro, come se non mancasse che un soffio a rendere la sua affiliazione all'organizzazione pressoché ufficiale.

“Ve l'ho detto,” Clint si sforzò di dire, “non farò niente se non libererete Natasha.”

“La donna è troppo pericolosa e la Stanza Rossa è coinvolta nel complotto. Pensiamo che abbia fornito uomini alla causa... il caos favorirebbe tutte le piccole sette criminali ed illecite del regno, Stanza Rossa inclusa.”

“Non è più fedele a quella gente,” insisté. “Hanno persino mandato un sicario ad ucciderla. Ormai è fuori dal giro.”

La donna assottigliò lo sguardo e lo fissò intensamente, come per accertarsi della sincerità delle sue parole. Maria, invece, non sembrava essere poi così impressionata dalla rivelazione.

“L'operazione è estremamente delicata,” sottolineò la donna senza nome, “non possiamo permetterci errori. E' possibile che la Vedova Nera sia-”

“Natasha. Si chiama Natasha,” ci tenne a puntualizzare.

“... è possibile che Natasha sia davvero una fuoriuscita, ma non abbiamo il tempo di esserne sicuri al cento per cento. Non posso mettere a repentaglio l'incolumità dei membri dello Scudo, non adesso.”

“Me ne prendo la responsabilità.” Non sapeva neanche perché si stesse ostinando tanto per convincerli a riabilitarla, ma saperla rinchiusa in una cella buia gli dava alla testa.

“Non possiamo fidarci,” ribadì duramente Maria.

Clint avrebbe voluto raccontare di come Natasha fosse tornata indietro a salvarlo quando avrebbe potuto abbandonarlo al suo destino, in balia di suo fratello e dei suoi ribelli, ma la stessa ragazzina che gli aveva portato l'acqua nella stanza circolare era appena sbucata dal fondo del corridoio. Era pallidissima.

“Lady Carter! Lady Carter! Dovete scendere immediatamente!” Strillò prima di sparire nuovamente da dov'era venuta.

Bastò quello a lanciarli tutti e tre in corsa, a ripercorrere rapidamente i loro passi, attraverso l'ospedale, i corridoi, la scala chiocciola e altri corridoi ancora. Finché non la videro in quella che aveva l'aria d'essere la stanza centrale del quartier generale, riempita di tavoli, panche, fogli, piume d'oca e boccette d'inchiostro. Una delle postazioni era stata ribaltata contro la parete e gran parte della gente che doveva essere a lavoro solo pochi attimi prima si era ritirata sul fondo della camera.

Clint registrò per primi i lamenti degli uomini a terra: alcuni si tenevano la testa, altri il viso, altri ancora gambe o braccia. Là nel mezzo c'era Natasha, i capelli spettinati, il fiato corto e un tappeto di avversari messi fuoriuso. Ne stava tenendo uno nella morsa delle proprie braccia e Clint impallidì perché sapeva fin troppo bene cosa seguiva quel particolare assetto.

“Nat!” La chiamò e la donna rialzò il capo, lasciando andare di colpo l'uomo che si affrettò ad allontanarsi strisciando sul pavimento.

Gli sembrò sul punto di dire qualcosa, ma altri membri dello Scudo si fecero avanti, alcuni attaccandola alle spalle, altri frontalmente. Natasha riuscì a sbarazzarsene, uno alla volta, con un ritmo impressionante. Nemmeno Clint aveva mai avuto realmente occasione di vederla all'opera: quello che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi era uno spettacolo in piena regola.

Maria alzò un braccio per chiamare rinforzi, ma la donna – lady Carter, l'aveva chiamata la ragazzina – la costrinse a riabbassarlo e a tacere.

Trattennero tutti il respiro finché anche l'ultimo degli agenti accorsi a ridimensionare l'exploit di Natasha fu steso a terra. Non ne aveva ucciso neanche uno.

La guardò fermarsi, le braccia stese lungo il corpo e il respiro affannoso, il petto che si alzava e abbassava in rapida sequenza e sentì qualcosa di molto simile all'orgoglio fiorirgli nello stomaco.

“Ve l'ho detto,” fu lui a parlare nell'assoluto silenzio che permeava la stanza. “Non è lei ad aver bisogno di voi, siete voi ad aver bisogno di lei.”

Lady Carter spostò lo sguardo da lui a Natasha, a tutti gli uomini – i suoi uomini – che aveva atterrato con tanta facilità, a quelli che invece erano rimasti indietro per paura di lasciarsi coinvolgere.

Infine annuì una sola volta.





Note: mi scuso per il ritardo prima di tutto, ma tra feste e drammi assortiti mi è proprio passato di mente.
Un altro capitolo di spiegoni tra facce vecchie e nuove (alcune più attese di altre :P), ma dal prossimo si entrerà nel vivo dell'azione finale.
Ringrazio chi mi legge e commenta e ovviamente la sociabeta Eli :*
A questo punto ci risentiamo il prossimo anno ù_ù auguri a tutti!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


Capitolo 18
~

 

Tenne gli occhi fissi sul tavolo mentre i presenti si alzavano uno ad uno per abbandonare la sala consiliare. La riunione non era durata molto: il tempo stringeva e il piano per quella sera era già stato progettato nei minimi dettagli. Lady Carter si era limitata ad illustrarlo ancora, indirizzando ripetutamente lo sguardo verso il punto in cui sedevano lei e Clint, come per far capire loro che quell'ennesima spiegazione era più che altro a loro vantaggio.

Si era concentrata su di lei, sulla nobildonna che sembrava tenere in pugno le sorti di tutto lo Scudo con grazia e discrezione tali da non negare affatto la forza delle proprie intenzioni, la determinatezza dei propri obbiettivi. Natasha aveva capito subito che non si trattava solo di un capo fantoccio, una persona qualunque messa là nel mezzo per accontentare chissà chi senza però avere alcun potere decisionale. No. Aveva guardato un po' tutti, studiato le loro espressioni fingendo disinteresse – ignorando l'ostilità che le tributavano quando deviavano lo sguardo verso di lei – e non aveva faticato ad accorgersi dell'ammirazione, della stima e del rispetto di cui quella donna godeva.

Il rumore di sedie trascinate sul pavimento, il fruscio degli abiti delle signore e dei fogli recuperati dal tavolo, accompagnarono la silenziosa processione verso ed oltre l'uscita. Finché – secondo i suoi calcoli – non sarebbe dovuta essere... sola. Ma sapeva che Clint era rimasto seduto, giusto un posto di distanza dal punto in cui si trovava lei.

Finse interesse nel cartoncino che aveva ricevuto durante la riunione: un foglietto rettangolare su cui una mano ferma e decisa aveva vergato poche parole in un inchiostro sbiadito. Erano le istruzioni per il ruolo che avrebbe dovuto giocare quella sera, alla festa della corona. Si pentì di essersi concentrata su quello come diversivo, perché più lo guardava e più non capiva come diavolo fosse finita in quella stanza, con indosso abiti forniti dallo Scudo, dopo aver partecipato ad un consiglio su come salvare il re dalle grinfie dei suoi soldati ribelli.

Eppure, tra le due cose, era la presenza di Clint ad innervosirla maggiormente. Le dava fastidio il modo in cui aveva intercesso per lei, quello in cui si sincerava delle sue condizioni, quello indefinibile in cui la guardava. Lasciò andare il cartoncino e nascose le mani sotto al tavolo perché avevano preso a tremarle impercettibilmente e non voleva correre il rischio che lui se ne accorgesse.

“Scommetto che non ti hanno assegnato il ruolo della fornaia miracolosamente selezionata dal popolino per partecipare alla festa,” esordì lui, che – dopo aver finto di seguire l'uscita degli altri membri dello Scudo – non aveva potuto far altro che rivolgerlesi.

No, il ruolo che le avevano assegnato era quello della nobildonna, ma che importanza poteva avere? Sapeva che Clint stava solo cercando una scusa per parlarle, perché gli eventi del giorno precedente erano stati troppo rapidi e convulsi perché avessero potuto metabolizzarli a dovere... ma il disagio che le cresceva alla bocca dello stomaco le impediva di prendere serenamente alcunché. Persino le accortezze dell'arciere con cui aveva trascorso gli ultimi mesi di quella sua vita insensata.

Non disse niente e si rimise in piedi, perché l'aria sembrava essersi fatta di cera, perché la sedia sembrava aver preso a bruciare sotto di lei, impedendole di trovare una posizione comoda. La ferita al fianco si era solo parzialmente riaperta durante lo scontro multiplo e adesso, dopo essere stata suturata di nuovo da uno degli infermieri dello Scudo, pizzicava fastidiosa.

In circostanze normali avrebbe saputo ignorare tutto e tutti, ma adesso, in quella sala così poco familiare, con le pareti che sembravano volersi restringere fino a schiacciarla nel loro fatale abbraccio, Natasha si sentì sopraffatta.

Afferrò il foglietto e l'accartocciò nel pugno chiuso, più che decisa ad andarsene, a fuggire da quel soffocante inferno.

“Dove vai?” Clint si era rialzato a sua volta, finendole davanti per impedirle di superarlo.

“Non lo so,” rispose sinceramente. Non aveva né la lucidità, né la forza per mentire in quel momento e tutta quella disattenzione la faceva imbestialire.

“Cosa c'è che non va?” Di nuovo quel suo tono comprensivo, un po' pigro e imbarazzato che di solito riusciva a farla sentire a suo agio, ma non adesso, non in quelle condizioni.

“Lasciami passare,” tagliò corto, accennando a scartare di lato per seminarlo. Clint fu più rapido di lei e riguadagnò la sua posizione, costringendola a farsi guardare.

Aveva ancora i segni del cuscino sulla faccia e i capelli spettinati. La camicia nera dello Scudo gli stava un po' troppo grande e sembrava mettergli in risalto le mani, quelle sue... stupide mani...

“Che ti passa per la testa?” Insisté col chiederle, pacato e fermo al tempo stesso.

“Non ho voglia di parlarne.”

“Ma hai voglia di esplodere quando avrai raggiunto il punto di non ritorno? Perché a me sembra che non manchi molto,” l'accusò a mezza voce. Avrebbe preferito esser presa a male parole: a quelle se non altro avrebbe saputo come rispondere. Senza contare che la semplice nozione che qualcuno si preoccupasse sinceramente per lei continuava a destarle uno straziante sospetto, un sospetto di cui non riusciva a liberarsi.

“Non ho voglia di niente, Barton. Levati di mezzo.”

“Ho detto di no.”

Non aveva preventivato di spingerlo con così tanta violenza, ma quando lo vide indietreggiare bruscamente seppe che era stata lei a scaraventarlo contro il muro. Avvampò di vergogna senza avere il tempo o la prontezza di cancellarne i segni dal proprio viso. Adesso sì che la necessità di andarsene si era fatta impellente, bruciante e incandescente nel suo stomaco.

Gli lanciò un'ultima, breve occhiata... o almeno credeva di averlo fatto. Stava quasi per varcare la soglia, quella soglia che le avrebbe permesso di rimandare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare i propri demoni, quando due braccia sicure la trascinarono all'interno della sala.

Si sentì spingere contro un angolo, le dita di lui che le premevano sulle spalle senza farle male. Lo trovò insopportabile.

“Non farti venire in mente strane idee. Se non fai quello che dicono ti processeranno e giustizieranno,” parlò veloce, come per paura di vedersela scivolare tra le mani da un secondo all'altro.

“Che facciano quello che vogliono,” sibilò, dimenandosi per liberarsi dalla sua presa.

Non aveva potuto far altro che prendere due manciate della sua camicia e stringerla tra i pugni, mentre lui esercitava una pressione maggiore, trattenendola con più forza. A parità di condizione fisica, Clint era più forte di lei. Eppure non una sola volta si era avvalso di quel vantaggio per costringerla a fare qualcosa che non voleva... e forse era quello che le dava alla testa. Il fatto che ad ogni azione aveva sempre e comunque associato una reazione e adesso quell'uomo arrivava a sballarle tutto ciò che credeva di aver imparato dalla vita, tutte quelle poche, semplici e spietate regole che sottostavano all'ordine del mondo. O così almeno le avevano insegnato.

“Natasha.”

“Sta' z-zitto,” smozzicò ancora, agitandosi con più violenza, senza riuscire a scostarsi di un solo millimetro dalla parete. L'unico modo per liberarsi sarebbe stato fargli del male... bastava l'idea a farle risalire la nausea su per la gola.

“Lo so che potresti andartene di qui ad occhi chiusi,” riprese lui, evidentemente a disagio eppure determinato a farsi ascoltare, “ma pensaci, va bene? Ti chiedo solo di pensarci.”

“C-Cosa credi che possa cambiare, ah?” Non voleva stare a sentirlo.

“Hai mai pensato a cosa fare una volta fuggita dalla Stanza Rossa?”

Fu costretta a guardarlo dritto in faccia, in quei suoi occhi grigi che aveva tentato di evitare fino a quel preciso istante. Le tornò in mente la conversazione avuta mentre ancora dovevano raggiungere l'abbazia, il modo in cui l'aveva tormentato su ciò che si era aspettato dalla fuga dal villaggio. Non le tornava perché l'avesse fatto, perché avesse voluto piantare tutto per... qualcosa di indefinito. E adesso eccolo lì, l'arciere confuso, che le riversava addosso lo stesso interrogativo, e lei che realizzava di non avere una risposta. Non aveva mai riflettuto sul dopo, non si era mai chiesta cosa o chi avrebbe potuto essere una volta archiviata la Stanza Rossa.

Neanche si accorse di aver smesso di protestare, di essersi appoggiata al muro affinché la sostenesse. Si sentiva svuotata e leggera mentre il panico le apriva una voragine in petto. Si può mentire tanto a lungo da non poter più distinguere la realtà dalla finzione? E che succede se a furia di indossare maschere non si riesce più a decidere quale fosse il volto originario? E se quel volto non esistesse affatto? Se fosse sparito sotto il peso di tutte quelle identità fittizie che l'avevano fatto sbiadire fino a cancellarlo definitivamente? E Clint... Clint si sarebbe accorto di quanto inconsistente e trasparente fosse in realtà? Magari tutte quelle maschere non avevano fatto altro che dare forma e concretezza ad un fantasma, magari senza di loro sarebbe stata solo il ricordo scolorito di qualcuno che non era mai realmente esistito.

“Respira,” la voce di Clint la richiamò da quel baratro oscuro in cui stava precipitando, il cuore impazzito in petto e le mani sudate ancora strette attorno alla stoffa della sua camicia. Non più con l'intenzione di respingerlo, però, ma con quella di aggrapparcisi quasi fosse l'unico appiglio che la teneva ancorata alla realtà.

“N-No...” scosse il capo. Provò un'irrefrenabile, rabbiosa voglia di piangere.

“E' di tempo che hai bisogno, Nat,” bisbigliò lui, colto in contropiede dalla sua reazione – se n'era accorta anche nel bel mezzo di quell'attacco d'ansia – ma pur sempre immobile e deciso. “Di capire quello che vuoi... cosa sei.”

“Non s-sono niente,” biascicò, odiandosi profondamente perché tutto quello che avrebbe dovuto fare era stare zitta. Tacere, trincerarsi in un silenzio ostinato e confortante insieme.

“Puoi decidere quello che vuoi essere invece.”

“H-Hai detto che non credi nel r-reinventarsi.”

“Non è di reinventarti che hai bisogno... ma di... inventarti, credo.”

Adesso si stava arrampicando sugli specchi pur di convincerla a restare. La verità era che non aveva mai pensato a cosa sarebbe venuto dopo la Stanza Rossa, perché una parte di lei era sempre stata convinta che non ci sarebbe stato proprio niente ad aspettarla. Prima o poi l'avrebbero trovata e uccisa comunque, perché non erano le materiali pareti gelide del monastero arroccato sulle montagne la vera prigione, ma quelle che aveva in testa. Avrebbe potuto rimuovere se stessa dalla Stanza Rossa, ma la verità era come una ferita che le era stata inferta anni e anni prima, uno squarcio rosso sulla carne viva che non si sarebbe mai rimarginata: non avrebbe mai saputo come rimuovere la Stanza Rossa da se stessa.

“Ascolta,” Clint aveva ripreso a parlare. Le sembrava facesse fatica a farsi sentire al di sopra del battito furioso del suo cuore, mille tamburi che le riempivano le orecchie, assordanti. “Lo so che tutto questo non t'importa. Non t'importa del re, dello Scudo e di tutto quello che ne consegue.”

Natasha tentò di focalizzare sul suo viso, che adesso le appariva inspiegabilmente sfocato.

“Ma forse è l'occasione giusta per guadagnare tempo... e capire.”

“Scudo... S-Stanza Rossa... credi davvero che faccia tutta questa differenza?” Si sentì dire, la voce più ferma di quanto si era aspettata, ma bassa e quasi impalpabile.

“Non lo so e neanche tu lo sai,” le ritorse contro. “Forse potresti rimanere e scoprirlo da sola.”

“P-Perché t'importa tanto?”

“M'importa e basta,” aveva risposto seccamente, senza pensare.

“N-No, stai mentendo,” l'accusò. E adesso la rabbia e il fastidio erano tanto schiaccianti da rinvigorirle il corpo e la mente: la convinzione che la stesse giocando l'aiutò a recuperare lucidità, ad affidarsi a quella sensazione conosciuta. Il sospetto.

Si divincolò senza difficoltà dalla sua presa, sorprendendosi di quanto fredda fosse l'aria adesso che i loro corpi si erano separati. Realizzò con orrore che la mancanza non era affatto piacevole.

“Credi di potermi r-raggirare come f-fossi una principiante,” gli vomitò addosso. “Con i-il tuo stupido numero da uomo p-per bene.” Il petto le si alzava e abbassava in rapida sequenza. Tentò di aggrapparsi all'indignazione per evitare di sprofondare di nuovo nella voragine oscura che minacciava di prendere il sopravvento da un momento all'altro. “N-Non puoi,” scosse rabbiosamente il capo. “Non puoi,” ripeté.

Gli lanciò un'ultima, scottante occhiata e uscì dalla stanza prima di poter identificare nel morso gelido che sentiva nello stomaco, quello familiare del senso di colpa.

 

*

 

Non sapeva perché si fosse trascinata fuori dalla sua stanza. O forse lo sapeva, ma le implicazioni di quella decisione erano troppo gravi per poter essere anche solo prese in considerazione.

Sedeva ad uno dei tavoli di forme e fatture diverse assiepati nella stanza dal soffitto basso, in fissa della ciotola di zuppa che un ometto tarchiato le aveva servito quand'era arrivato il suo turno. L'unico motivo per cui era sicura che non ci avesse sputato dentro era che aveva seguito attentamente le sue mosse: non si era accorto che non era una di loro. Le aveva sorriso frettolosamente e aveva fatto cenno alla donna dietro di lei di farsi avanti.

Realizzò di essere affamata solo dopo la prima cucchiaiata, mentre il liquido pastoso scendeva a riscaldarle le viscere.

Le faceva male la testa e non riusciva a smettere di pensare a Clint, al modo in cui l'aveva trattato. Tentava di convincersi di aver agito secondo ragione, perché un comportamento come il suo era completamente illogico: ci doveva per forza essere qualcosa sotto. E comunque qual è la persona sana di mente che si sacrifica per l'incolumità di una perfetta sconosciuta? Aveva attraversato mezzo regno portandosela dietro, ferita e malconcia, quando avrebbe potuto semplicemente abbandonarla a se stessa. E poi c'erano state quelle tre notti che ancora le fluttuavano davanti agli occhi come un sogno sconnesso e disarticolato: perché non le aveva permesso di toccarlo? Sapeva di interessarlo in quel senso, eppure si era sottratto alle sue attenzioni... ripetutamente.

Si lambiccava il cervello nel tentativo di ricollegare i pezzi e convincersi che era tutto un complicato inganno per fregarla. Non c'erano alternative possibili a quella conclusione. O meglio... c'erano, ma anche solo riconoscerne l'esistenza avrebbe sconquassato e demolito il precario castello di convinzioni che Natasha si stava sforzando di erigere. Non le importava che le fondamenta di tutto quel ragionamento fossero tanto instabili, solo che il risultato le fosse familiare. Perché un pericolo conosciuto l'avrebbe potuto affrontare ad occhi chiusi; uno sconosciuto invece...

Il cucchiaio di legno cozzò contro il fondo della ciotola e allora capì che aveva finito. Si riprese da quella sorta di trance in cui era sprofondata e rialzò lo sguardo per ritrovarsi ad osservare un uomo che la fissava da sopra in giù. Era arrabbiato e spaventato insieme, lo capì immediatamente dalla sua postura.

“Stuart Rollins,” pronunciò quello senza distogliere lo sguardo.

Natasha realizzò che stava facendo fatica a sostenere i suoi occhi, ma si ostinava comunque a puntarle i propri addosso, forse nella speranza di poterla strozzare solo con la forza del pensiero. Perché l'odio che gli illuminava il viso era fin troppo plateale perché Natasha non se ne accorgesse.

“Ti ricordi di lui?” Insisté, stringendo la ciotola vuota che teneva ancora tra le mani. Doveva aver deciso di affrontarla così, su due piedi, senza averlo realmente pianificato.

“Non te lo ricordi, non è vero?” Schiantò le stoviglie sul tavolo, facendo cadere a terra un cucchiaio.

Natasha restò immobile. Non le serviva guardarsi attorno per capire che tutti i presenti si erano zittiti e voltati a fissarli. Sembrava che qualcuno avesse risucchiato tutta l'aria della stanza, che il centro da cui si sprigionava quella forza oscura si trovasse proprio nel punto in cui era seduta.

“Come potresti?” L'uomo rise di una risata priva di gusto in cui non credeva neanche lui. “Quanti di noi hai rispedito al Creatore, ah? Scommetto che hai perso il conto.”

Il cuore le si era riassestato su quel ritmo impossibile che minacciava di sfondarle il petto.

“Partner per dieci anni prima che arrivassi tu a disegnargli un bel sorriso rosso sulla gola,” continuò imperterrito, gli occhi lucidi e il pomo d'Adamo che gli tremava sotto il mento. “A-Aveva moglie, lo sai?” Adesso anche la voce l'aveva tradito, ma la rabbia era sempre lì, a deformargli il volto in una smorfia disgustata. “E figli.” Deglutì rumorosamente. “Ma che importa ad una come te?”

Non mosse un muscolo finché non fu sicura di potersi controllare, di non essere sul punto di vomitargli il pranzo sulle scarpe. Avrebbe voluto dirgli qualcosa... qualsiasi cosa. Avrebbe voluto avere il coraggio di affrontarlo, di prenderlo a male parole magari, ma sapeva già che non era possibile. Che non ci sarebbe riuscita.

Perché era vero, Stuart Rollins non lo ricordava. Ricordava con chiarezza le sue prime vittime, i loro cadaveri, i loro ultimi spasmi prima di arrendersi all'inevitabilità della morte. Ma col passare del tempo e degli incarichi quelle facce avevano finito per confondersi le une con le altre. Adesso c'erano solo gli occhi vitrei di tutti quei morti che le toglievano il sonno, che animavano i suoi incubi e le impedivano di riposare davvero da troppo tempo.

Si rimise in piedi di scatto. Con la coda dell'occhio vide che alcuni membri dello Scudo seduti nelle vicinanze avevano fatto altrettanto, come temendo che il compagno venisse attaccato da un momento all'altro. Sarebbero accorsi ad aiutarlo, questo era certo e Natasha avrebbe potuto far fronte a quello scontro incrociato senza troppe difficoltà... ma non ne aveva voglia. E non sarebbe stato giusto. Forse lasciarsi riempire di botte l'avrebbe fatta sentire un po' meglio, ma tutto quello che desiderava davvero, in quel preciso istante, era andarsene.

Si chinò a raccogliere il cucchiaio che gli era caduto e lo rimise nella ciotola che aveva sbattuto sul tavolo, senza neppure registrare il proprio gesto.

Lo guardò solo per un attimo prima di decidere che non avrebbe resistito a lungo, che se non se ne fosse andata il più rapidamente possibile avrebbe dato spettacolo un'altra volta e non nello stesso modo della sera precedente.

Si allontanò in fretta dalla sala refettorio, sentendosi addosso gli occhi dei presenti che sembravano bruciarla là dove le si posavano addosso. Riuscì a controllare il passo finché non si ritrovò nel corridoio deserto e solo allora accelerò, mettendosi praticamente a correre per raggiungere la sua stanza.

Si sentiva come se un mostro invisibile le stesse crescendo in corpo, così grande e imponente da rischiare di deformarla e squartarla pur di reclamare lo spazio che gli serviva per respirare. Trattenne il fiato fin quando il rumore sordo della porta che le si richiudeva alle spalle non andò ad amplificarsi nelle orecchie, mescolandosi al tonfo cupo del proprio cuore.

Si guardò febbrilmente attorno, il respiro affannato, alla disperata ricerca di qualcosa su cui scaricare la propria rabbia. Si scagliò contro il letto e lo disfece con furia, scaraventando il magro materasso contro la parete. Rovesciò il tavolino sgangherato, lo sgabello, li prese a calci quand'erano ormai a terra e poi, non contenta, si avventò contro il muro. Gli sferrò contro uno, due, tre pugni, lasciando che il dolore le si propagasse dalle nocche alle braccia, alle spalle, terribile e familiare insieme.

Fu la stessa, incosciente consapevolezza che l'aveva portata fuori di lì per mangiare che le impose di smetterla.

Una nobildonna non poteva sfoggiare mani piene di lividi.

Una nobildonna avrebbe avuto bisogno di tutte le energie possibili per sventare il colpo di stato organizzato ai danni di re Stark.

Natasha si lasciò scivolare sul pavimento mentre la realizzazione le si stagliava davanti agli occhi con l'inevitabilità delle cose già decise da tempo. Il mostro invisibile, però, continuava ad agitarlesi in corpo, a spingere e premere pur di uscire, di prendere il sopravvento, di trovare una qualsiasi via di sfogo.

Inorridì al suono che le sfuggì dalle labbra. Aveva fatto appena in tempo a riconoscervi un singhiozzo che ne seguì subito un altro. Provò a frenarli, ma capì ben presto che era tutto inutile, che era troppo spossata per fingere ancora una volta.

Si rannicchiò contro il muro e si coprì il viso con entrambe le mani mentre i sussulti del pianto le scuotevano le spalle e le braccia, mentre il sapore salato delle lacrime le inumidiva le labbra.

 

*

 

Sollevò il frammento di specchio che le avevano messo a disposizione, studiando l'acconciatura da più angolazioni. Solitamente avrebbe avuto un armamentario più adatto, ma il risultato non era poi così malvagio: la parrucca si era un tantino arruffata dopo averla trascinata in giro per il regno, ma faceva ancora il suo lavoro con quel suo rosso cupo.

Anche i trucchi se li era dovuti far bastare, ma si era arrangiata. Non sarebbe stata la prima, né l'ultima volta: un po' di nero sugli occhi, una tinta sanguigna sulle labbra..

I capelli le stavano gonfi al di sopra della fronte, mossi da lunghe onde che salivano verticalmente e circolarmente dietro la testa, fino a scendere in una ciocca di boccoli arrotolati che le giacevano vaporosi su una spalla.

Le era già capitato di dover interpretare il ruolo della nobildonna, persino di partecipare a certe feste esclusive che finivano immancabilmente col morto... o con qualche segreto d'importanza capitale ghermito con l'inganno tra lenzuola umide e colonne attorcigliate di pomposi letti a baldacchino.

Rabbrividì e provò disgusto per lo sguardo che lo specchio le rimandava. Lo ribaltò sul tavolo e si rimise in piedi per indossare l'abito che le avevano portato un'ora prima.

Aveva deciso di concentrarsi sulla prova imminente, di focalizzare sulla concretezza delle operazioni da svolgere per impedire che la mente divagasse, che il pensiero si fissasse su Clint o sull'episodio del refettorio. Non era ancora sicura che fosse quella, la decisione più adatta, ma sapeva di aver fatto una scelta e di non poter tornare indietro.

Rimanere là sotto – ovunque fossero di preciso – mentre fuori infuriava l'inferno sarebbe stato impensabile. L'inerzia era la nemica numero uno quando tentava soltanto di non pensare: restarsene con le mani in mano avrebbe finito per soffocarla in un vortice di interrogativi, dubbi e sospetti che ormai conosceva a memoria e che voleva soltanto allontanare per un po'.

Si chiese per quanto a lungo avrebbe potuto rimandare la resa dei conti, per quanto ancora avrebbe potuto ignorare i fantasmi che la tormentavano senza affrontarli a viso aperto. L'avrebbero schiacciata, di questo ormai era fin troppo consapevole.

Scacciò il pensiero a fatica – più tempo passava e più le risultava arduo – e uscì dalla stanza con il vestito sotto braccio e il corpetto aperto sulla schiena. Non c'era nessuno nel corridoio, ma anche nell'aria ferma dei cunicoli sotterranei risuonavano le voci dei membri dello Scudo in fervente preparazione per l'imminente entrata in scena.

Individuò una porta precisa e bussò un paio di volte prima che qualcuno non arrivasse ad aprire.

“Non possiamo fare a meno della parrucca?” La voce di Clint la raggiunse prima ancora che la porta si aprisse. “Mi sento un completo coglione,” decretò seccamente una volta che furono faccia a faccia.

Lo vide cambiare espressione quando realizzò che si era rivolto a lei e a nessun altro, ridimensionando di colpo l'entusiasmo per farsi più guardingo.

“Non stai poi così male,” si sforzò di rassicurarlo, “anche se le probabilità che ci viva una colonia di tarme, là in mezzo, sono... elevate.”

Le sembrò interdetto, ma durò solo per un attimo: il disagio gli si sciolse sul volto per cedere il posto ad una smorfia schifata.

“Grazie, adesso sì che mi sento meglio.” Rabbrividì teatralmente e si fece da parte per lasciarla entrare.

Indossava una divisa militare: la giamberga rossa coi polsini dorati, le ampie maniche da cui sbucavano le trine della camicia, i bottoni lucenti sul petto, le calze alte fino al ginocchio.

“Non fare commenti,” la mise in guardia, perché doveva essersi accorto dell'insistenza del suo sguardo. “Assomiglio a quel bellimbusto di Grant.”

“Niente arco?” Gli chiese.

“A dir la verità stavo per venire a cercarti,” le disse, adesso vagamente imbarazzato. Le mostrò l'arco e la piccola faretra sottile che erano appoggiati sul letto mentre accennava a scompigliarsi i capelli sulla nuca com'era solito fare quand'era nervoso, ottenendo soltanto di sbilanciarsi la parrucca – di cui si era sicuramente dimenticato – sulla fronte. “Per nasconderlo nella fodera della spada ci vorrebbe troppo tempo,” spiegò brevemente, “se avessi una sottana, invece...”

“Vuoi indossare una sottana o che nasconda l'arco sotto la mia?”

Clint le lanciò una rapida occhiata – Natasha si accorse che si stava sforzando di non guardarle il seno, parzialmente messo in mostra dal corpetto ancora allentato.

“A meno che tu non voglia fare a cambio... credo che quel copricapo di capelli mi starebbe particolarmente bene. Potrei nasconderci ogni ben di dio là dentro!”

“Ci ho già pensato io,” rivelò con tono di finto rimprovero. “Aiutami ad allacciare il corpetto,” soggiunse, voltandosi per mostrargli la schiena.

“Nel senso che hai nascosto un'arma là sotto?”

“Sarebbe stato stupido non farlo.” Tutto quello spazio sprecato... “Sai come allacciare un corpetto?”

“Certo che lo so. Dove credi che abbia vissuto fino ad ora?”

“So esattamente dove hai vissuto fino ad ora,” gli ricordò, mentre Clint stringeva i nastri e la morsa della stoffa rinforzata dalle stecche di balena si serrava progressivamente sul suo busto.

Rimasero in silenzio per un po', quel tanto che le bastò per accorgersi che l'aria sembrava essersi fatta di colpo più leggera. Non le importava più che fosse venuto a sapere o meno dell'episodio del refettorio.

“Mi dispiace per stamattina,” finì per dire senza averlo realmente preventivato.

“Non importa.” Aveva parlato a voce bassa, concentrato com'era sull'operazione in corso.

“Importa,” lo contraddisse debolmente.

Magari la stava davvero ingannando, magari era davvero tutto un complicato trucco per convincerla della sua buona fede. Aveva capito che avrebbe potuto scervellarsi per anni senza venire a capo di un bel niente. Forse tutto quello che doveva fare era fidarsi... ciecamente e stupidamente. La nozione stessa le risultava ancora completamente folle, ma era anche l'unica soluzione che aveva trovato. La fiducia era un po' come la fede religiosa: non esistevano prove tangibili su cui fare affidamento. Certo, i fatti aiutavano a colmare la distanza che separava il sospetto dalla fiducia, ma solo parzialmente: ci sarebbe sempre stato un breve tratto che avrebbe dovuto percorrere da sola... confidando in neanche lei sapeva cosa. Un volo di cui non avrebbe conosciuto gli esiti finché non l'avesse tentato.

“Fatto,” annunciò Clint, facendo un passo indietro per rimirare il suo operato.

Natasha dispiegò l'abito e ci si infilò dentro – le stringeva un po' sul petto ma avrebbe fatto il suo dovere.

“Non avevano nessun altro colore?” Le chiese mentre riavvicinava i due lembi che avrebbero dovuto chiuderlesi sulla schiena. “E perché diavolo ci sono così tanti bottoni?”

“Sono arrivata per ultima, quindi mi becco il vestito da vedova.” La coincidenza era paradossale e, in modo del tutto grottesco, la fece sorridere.

“Chissà se lo sanno...” mormorò Clint sovrappensiero, “che la spaventosa Vedova Nera russa nel sonno.”

“Non è vero!” Sbottò prima ancora di aver metabolizzato la stoccata.

“Oh, sì che è vero. Così placida e docile... finché non comincia a strombettare,” insisté.

“Sta' zitto!” Le veniva da ridere.

“Ma è vero!”

“Concentrati su quei bottoni e smettila.”

“Sissignora.”

Portò a termine il compito in completo silenzio, silenzio che era tornato confortevole, come alcuni di quelli che avevano condiviso durante il viaggio tutte le volte che Natasha si dimenticava di dover fingere. Non c'erano più tutti quei segreti ad appesantire l'aria, a frapporre tra di loro la distanza invalicabile che l'inganno le aveva imposto di stabilire.

Si stirò le grinze sulla pancia e si voltò facendo un passo indietro. La stoffa nera della gonna era morbida e lucente, striata di pizzi altrettanto scuri che le definivano la vita, la scollatura, le maniche lunghe fino ai polsi.

“Da cosa saresti mascherata?” Le chiese, osservandola con occhio fintamente critico.

Natasha sfilò un nastro di tulle dall'acconciatura e se lo sistemò sugli occhi a mo' di maschera.

“Da tuo peggior incubo.”

“Mi porterai l'arco, più che un incubo sarai... un aiuto provvidenziale.”

“Proprio. Diamoci una mossa,” lo esortò, assicurandosi le cinghie della faretra e dell'arco alle cosce ben nascoste dall'ampia sottana.

“Natasha...”

“Sì?”

“Cos'è che ti ha fatto cambiare idea?” La voce di lui le risuonò solo vagamente incerta.

“Se ti mando là in mezzo da solo, dio solo sa che combineresti.”

“Grazie per la fiducia,” stronfiò in risposta.

Si limitò a rivolgergli un rapido, spontaneo sorriso in risposta.

Si chiese se si fosse accorto della fiducia che gli aveva davvero accordato. Si chiese se comprendesse la capitale portata di quella scelta. Si chiese se sapesse quanto le era costata.

Decise che non le importava.








Note: primo capitolo del 2016 e già mi tocca scusarmi perché avevo promesso azione, ma mi ero dimenticata del capitolo allo Scudo dal POV di Natasha :P my bad... spero che vi sia piaciuto e che la delusione non sia esagerata! Dal prossimo entriamo davvero nel vivo dell'azione ;) (davvero davvero eh)
FYI, il look che Natasha sfoggerà alla festa della Corona è al 100% ispirato a quello del ballo in maschera di Marie Antoinette nell'omonimo film della Coppola.
Grazie a chi mi legge, commenta, segue, ché mi fa sempre piacere :3 e grazie alla sociabeta Eli per il sostegno morale e fandomistico ù_ù
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


Capitolo 19
~

 

Lunghe processioni di tortini, tartine e antipasti di ogni tipo si erano già snodate attorno al grande tavolo disposto a mo' di ferro di cavallo, quando il re fece la sua apparizione nell'imponente Salone Azzurro.

Clint lo vide uscire dalla doppia porta del Salotto della Luna; alla sua destra il figlio dall'andatura spavalda e incerta insieme, alla sua sinistra la favorita, signora di una delle contee orientali del regno. Il bel blu scuro bordato d'argento dell'abito da cerimonia del sovrano faceva spiccare ancora di più il verde smeraldo del vaporoso vestito della donna, alta e slanciata, dai lunghi capelli biondi scolpiti in una gonfia acconciatura in cui erano state infilate alcune piume di pavone. La maschera che si portava leziosamente al viso perfettamente truccato seguiva il medesimo tema. Il re, invece, aveva preferito lasciar perdere i travestimenti; i suoi folti capelli neri erano striati di bianco e a questi facevano da pendant i baffi perfettamente curati che gli disegnavano il labbro superiore.

Il giovane Anthony aveva optato per un completo rosso e oro e una maschera che gli copriva gran parte del viso. Tutto di lui gli faceva presupporre che qualsiasi altro posto gli sarebbe andato maggiormente a genio di quella gigantesca sala gremita di cibo, fiori, persone.

Re Howard si affacciò alla balaustra della doppia scalinata di marmo che l'avrebbe condotto al Salone Azzurro e sollevò le braccia affinché l'orchestra – che aveva suonato incessantemente fino a quel momento – si chetasse.

Gli invitati saltarono subito in piedi, accennando ad inchini e riverenze, la cui profondità aumentava man mano che il ceto sociale si faceva più umile: gli parve di scorgere quello che aveva tutta l'aria di essere un maniscalco che riuscì quasi a toccare il pavimento col naso, tanto si era piegato.

“Signori!” Tuonò allegramente il re, ottenendo il silenzio dei presenti. “Vedo che avete cominciato senza di me.” Si portò una mano al petto e finse un broncio indispettito che gli valse un giro d'applausi e risatine dalle donne meglio vestite della festa.

“Scommetto che è tutta colpa del duca di Bremond,” riprese il sovrano, indicando un nobiluomo dal volto rubizzo che si mise a ridere facendo traballare la grossa pancia, “ti riconosco anche mascherato da topo, vecchia volpe.”

“E' un elefante!” Strillò il diretto interessato facendosi ancora più rosso, ma nessuno lo sentì nel trambusto che ne seguì.

“Vedervi tutti qui mi riempie di gioia il cuore,” continuò re Howard, “e mi fa venire in mente che se tassassimo champagne, tartine e divertimento a quest'ora nelle casse del regno ci sarebbe qualche spicciolo in più.”

Seguì un imbarazzato silenzio in cui i più ricchi si guardarono a disagio, mentre il manipolo di presenti selezionati dal popolo ridevano a crepapelle... perché di champagne e tartine non ne avevano visti mai prima di quel momento. Figuriamoci assaggiati!

“Signori, come siete facili da impressionare!” Scoppiò di nuovo il sovrano con aria sufficientemente ambigua da convincere i più a sciogliere il nervosismo in risatine sommesse che si fecero via via più convinte. “Che la festa abbia inizio! Bevete, mangiate, brindate!”

L'orchestra riattaccò a suonare e il piccolo microcosmo assiepato nella sala tappezzata d'azzurro si rianimò e riprese come se niente fosse successo, mentre il prestigioso terzetto andava a sedersi al posto d'onore, ancora intonso.

Dal suo punto d'osservazione privilegiato, Clint riusciva ad abbracciare con lo sguardo l'intero ambiente. Dagli arzigogolati affreschi allegorici dei soffitti – divinità, animali, scene di guerra, paesaggi idilliaci – scendendo agli stucchi d'oro che impreziosivano le pareti (e che avevano l'aria di essere stati rimessi a nuovo di recente perché le crepe e le ammaccature erano ancora ben visibili sotto l'ultima mano di quel costoso smalto) fino agli arazzi che le rivestivano, ampi, maestosi e di colori diversi. E poi più giù, alla tavola riccamente imbandita con stoviglie d'argento, calici di cristallo, vassoi dorati e vasi della più fine porcellana del regno in cui trionfavano folti mazzi di garofani variopinti – il fiore che rappresentava la dinastia Stark. Tutti ne portavano uno, chi assicurato alla giamberga, chi nei capelli, mentre i colori variavano: le signore, gli parve, avevano cercato di abbinarli ai pesanti abiti che indossavano.

Il gruppo degli invitati era nutrito e variegato: i primi ad entrare erano stati gli esponenti delle maggiori casate nobiliari del regno, subito seguiti da un manipolo di ricchi ecclesiastici nelle loro tuniche lucenti bordate d'oro e di scarlatto, poi le divise scintillanti degli ufficiali dell'esercito, infine i rappresentanti del popolo scelti tramite una lotteria di cui Clint non aveva compreso le regole.

Nonostante le maschere, non gli ci era voluto molto per accorgersi di riconoscere un po' troppa gente là in mezzo: gli uomini di suo fratello, i ribelli dell'abbazia, si erano mescolati a fabbri, artigiani, orafi e fornai. Logica voleva che qualcuno, dall'interno, avesse manomesso il meccanismo di selezione per infiltrare alla celebrazione altri partecipanti al colpo di stato. Anche se la maggior parte di quelli era lì per un calcolo ben preciso, avevano comunque negli occhi e sulle labbra l'espressione scioccata di chi non aveva mai visto tanto ben di dio in un solo posto, di chi non credeva possibile che nel mondo esistessero persone tanto ricche e case tanto sfarzose quando tutto ciò cui erano abituati era, spesso e volentieri, la miseria più nera.

Mascherati erano anche il resto dei presenti, chi in modo pomposo e plateale, chi in modo più sobrio, altri ancora con maschere di fortuna, raffazzonate alla meno peggio un attimo prima di uscire di casa. Clint si chiese se il re si fosse rifiutato di fare altrettanto per rendere ben evidente il disgusto che provava per gran parte di quella gente, inutilmente dissimulato tra incessanti sorrisi e battute di spirito.

I camerieri formicolavano tra gli invitati, solerti, rapidi ed invisibili – perché essere un fantasma silente è la caratteristica imprescindibile di ogni buon servitore. Avevano portato antipasti a non finire, una lunga processione di ampi vassoi d'argento che gli erano sembrati quasi avere vita propria, carichi di ogni leccornia possibile ed immaginabile. Il profumo arrivava fino a lui, lassù nella galleria, e lo stomaco ne aveva allegramente preso coscienza, mettendosi a borbottare impaziente.

Contemporaneamente era stato il momento dei vini, dello champagne, dei liquori dolci e delle acque aromatizzate che scorrevano beatamente dalle brocche ai bicchieri, dai bicchieri alle tovaglie. Le stoviglie, le posate d'oro e d'argento, le casseruole lucenti, i piatti di porcellana rimandavano il loro luccichio per tutta la sala, rifrangendosi nelle pitture e negli stucchi, brillando della luce dei grossi lampadari di cristallo che pendevano dai soffitti, appesantiti dal loro carico di candele e gocce trasparenti dalle forme perfette.

Clint continuava a sentirsi nauseato da tutto quello sfoggio di ricchezze, dai tappeti che nascondevano il sudiciume dei pavimenti, dagli arazzi che coprivano le pareti unte o annerite dal tempo, dalle grosse bacinelle piene d'acqua profumata sistemate ai quattro angoli della sala per nascondere l'olezzo di sudore ed essenze che gli invitati più facoltosi emanavano. Si era ormai abituato a quel bizzarro mescolarsi di odori sgradevoli e dolciastri quando più di cinque nobili si riunivano in una stessa stanza, ma non per questo lo trovava meno disgustoso.

Aveva seguito con lo sguardo lo spostarsi costante dei presenti, tentando di individuare le risate e le chiacchiere, di capire se qualcosa di sospetto fosse già in corso, ma da quel che aveva potuto osservare la festa procedeva tranquillamente.

Natasha era una sagoma nera che si spostava discretamente da un lato all'altro della sala, talvolta fermandosi a mangiare qualcosa... o meglio, a fingere di farlo, in compagnia del finto nobiluomo che l'accompagnava. L'aveva guardata passare davanti a ciascuna delle guardie appostate lungo le pareti, col preciso intento di captare qualche strano segnale: alcuni erano membri dello Scudo, altri potevano essere dei traditori pronti a contribuire alla dimessa del re Stark.

Provava una ridicola fitta allo stomaco tutte le volte che la vedeva gettare il capo all'indietro per ridere di una qualche battuta particolarmente divertente, o sorridere educatamente quando veniva presentata, sempre e comunque agganciata al braccio di quell'agente dello Scudo che Clint non conosceva. Il garofano rosso che portava appuntato sul petto sembrava quasi una macchia di sangue in tutto quel mare di nero che l'avvolgeva. Gli occhi degli invitati – ricchi o poveri che fossero – la cercavano in continuazione, quella misteriosa donna vestita a lutto, che più che una vedova faceva venire in mente la rappresentazione allegorica del peccato in persona. Se non altro, però, poteva godersi da vicino la festa.

A lui invece era toccato il compito di supervisionare il tutto da quella postazione sopraelevata dove a fargli compagnia c'erano solo i lampadari e qualche sparuta guardia, come lui impettita e irrigidita ma con lo sguardo ben fisso sugli spostamenti dabbasso.

Di finestre in quell'enorme ambiente non ce n'erano, ma Clint sapeva che il sole non era ancora tramontato. Di lì a qualche ora il re e i principali potentati del regno si sarebbero ritirati nel Salotto della Luna per un conciliabolo ristretto; dopodiché si sarebbero affacciati dalla vasta terrazza di cui la stanza era provvista e il sovrano avrebbe parlato alla folla. All'annuncio – magari seguito da qualche pretenzioso proclama – sarebbero seguiti i fuochi d'artificio che avrebbero colorato il cielo e fatto gridare di sgomento e meraviglia il popolo assiepato ai cancelli del palazzo reale.

Si chiese se non fosse possibile che tutto quella mobilitazione di forze e sotterfugi si rivelasse inutile, che in realtà il colpo di stato non fosse mai stato pianificato, che qualcuno avesse giocato loro un brutto scherzo. Dopotutto non suonava del tutto improbabile che fosse stato il re stesso ad inventarsi tutto per rendere la serata un po' meno noiosa.

Sospirò debolmente e aspettò che qualcosa – qualsiasi cosa – succedesse.

 

*

 

La lunga fila dei camerieri in livrea sciamò ancora una volta attraverso le doppie porte della sala, portando con sé quella che doveva essere la dodicesima portata del banchetto.

Natasha, però, non aveva mangiato o bevuto niente. Prima che tutti gli olii, le essenze, i talchi delle parrucche le mettessero fuori uso il senso dell'odorato, era sicura di aver sentito un profumo strano provenire dallo champagne e dal vino. I suoi sospetti erano stati confermati quando nel fondo del calice della nobildonna che le sedeva di fianco – una vecchia marchesa dai capelli quasi completamente grigi e il vestito lilla – aveva visto aleggiare una polverina biancastra.

Aveva tentato di mettere in guardia l'agente dello Scudo che l'accompagnava (o meglio: che la controllava), ma quello era rimasto sordo ai suoi avvertimenti, incapace di decifrare le sue occhiate allusive e assolutamente restio a lasciarla avvicinare per sussurrargli qualcosa all'orecchio. Come se avesse potuto ucciderlo solo pronunciandogli un qualche sordido incantesimo in prossimità del viso.

Fece scorrere lo sguardo sulla tavolata, sugli invitati sparsi per sala: alcuni erano ancora seduti, altri in piedi e impegnati a parlottare in circoli più o meno ampi, qualcun altro – soprattutto signore dall'aria curiosa – era salito al piano superiore per godersi dalla galleria lo spettacolo delle acconciature, delle maschere, delle pietre preziose che adornavano il collo delle nobildonne più in vista.

Aveva notato che alcuni dei popolani presenti altri non erano che uomini di Trickshot. Aveva alzato lo sguardo e incrociato gli occhi di Clint che doveva averla guardata mentre passava in rassegna finti maniscalchi e sarti, e che le aveva annuito consapevolmente, facendole capire di essersene accorto lui stesso.

Sbocconcellò, senza assaggiarlo, il tortino al limone che le era stato messo nel piatto e di nuovo la sensazione di essere osservata la costrinse a rialzare il capo. Ma Clint, in alto sulla galleria, stava guardando altrove e allora con tutta la discrezione di cui fu capace, fece vagare pigramente gli occhi per la sala fino a posarli sulla favorita del re. Nonostante il salone pullulasse di traditori, era la donna a preoccuparla maggiormente. Era stata la postura ad attirare inizialmente la sua attenzione, il modo in cui la contessa sedeva rigida contro il velluto dello schienale. Lo stomaco le si stringeva fastidiosamente tutte le volte che la guardava o ne era guardata, perché ormai aveva capito che la sconosciuta aveva preso interesse nei suoi confronti. Magari da fuori sembrava solo una tacita rivalità tra donne, viste le attenzioni che molti degli invitati le stavano tributando, ma Natasha sapeva che si trattava di tutt'altro. Un sospetto gelido la tormentava ormai da ore senza che avesse il coraggio di formularlo chiaramente.

La osservò quietamente finché il re non si mise in piedi e batté le mani per ottenere silenzio.

“Finite in fretta i vostri dolciumi, signori: tra poco ci sposteremo nel Salone degli Specchi per dare inizio alle danze,” annunciò, guadagnandosi grida di giubilo e qualche applauso.

Natasha si rimise in piedi sulla scia di una decisione improvvisa, mentre l'avversione profonda che provava per quella gente iniziava a farsi quasi cosa concreta. Nobilastri, vescovi e cardinali che si complimentavano tra di loro per le cose più stupide, soddisfatti del cibo, del vino, di tutto quello sfarzoso spreco che le loro ricchezze potevano comprare, mentre altrove contadini in balia della carestia morivano di fame ed erano costretti ad abbandonare case, campi e fattorie in cerca di un lavoro in grado di sostentare la famiglia.

Qualcuno si alzò per farle un inchino mentre passava, altri osarono persino sfiorarle la schiena, come se avesse avuto bisogno di essere sostenuta per tenersi in piedi. Fu mentre aggirava il tavolo diretta alle scalinate di marmo, mentre faceva scivolare lo sguardo sui piatti, sui calici e sulle brocche di cristallo che una certa regolarità di distribuzione non le saltò agli occhi. In alcuni punti lo champagne fluiva ancora abbondante, in altri era quasi completamente finito. Osservò i volti mascherati di chi aveva ancora il bicchiere pieno, tentando di capire se avessero qualcosa in comune. Ma i camuffamenti erano troppo vari e lo stesso poteva dirsi per l'ordine sociale d'appartenenza.

Era arrivata in prossimità delle scale e del posto d'onore presso cui sedevano il re, l'erede Stark e la favorita, costantemente sorvegliati da un quartetto di guardie che sostava alle loro spalle... e in quel preciso momento se ne accorse: la nota comune erano i fiori. Chi portava un garofano giallo si era limitato – o molto più probabilmente completamente astenuto – nel bere. Tutti gli altri avevano ingerito parti più o meno consistenti di quella polverina bianca che aveva visto depositarsi sul fondo del calice della marchesa in lilla.

Finse di perdere l'equilibrio proprio mentre passava accanto al tavolo del re e cacciò persino uno strilletto acuto quando si aggrappò alla tovaglia per non cadere rovinosamente a terra. Si assicurò di provocare un contraccolpo sufficiente: il calice del re si rovesciò accanto al piatto, quello del giovane Stark si salvò perché l'aveva in mano, mentre il bicchiere della favorita irresponsabilmente abbandonato sul bordo del tavolo oscillò pericolosamente.

Fu questione di un battito di ciglia: la donna l'afferrò un attimo prima che cadesse a terra, dando prova di riflessi tanto straordinari quanto inconsapevoli. Natasha dissimulò la sorpresa mentre due delle guardie personali del sovrano si affrettavano a rimetterla dritta con l'aiuto del principe Anthony.

“Scusate, sono così maldestra... devo aver esagerato con lo champagne,” si giustificò in tono frivolo e rammaricato, mentre la favorita rimetteva a posto il calice con l'aria di chi è appena stato sorpreso a fare qualcosa di indicibile.

Natasha riconobbe sul suo viso il pentimento e la rabbia che premevano per affiorare sulla superficie del suo bel viso e tutto per colpa di quel gesto inconsulto che non aveva calcolato e che cozzava vistosamente con il personaggio che si era cucita addosso.

Non aveva più alcun dubbio.

L'amante del re era un'agente della Stanza Rossa.

 

*

 

Seguì Natasha con lo sguardo mentre l'orlo della gonna accarezzava i gradini di marmo. Aveva intuito che l'avrebbe raggiunto non appena l'aveva vista alzarsi, ma non si era aspettato di vederla inciampare una volta avvicinato il tavolo del re.

Non era ancora sicuro di riuscire a capire come una donna tanto agile potesse essere capace di una goffaggine tanto credibile, ma ormai sapeva che Natasha poteva questo ed altro.

Aveva ormai raggiunto il piano superiore e la galleria quando le maestose doppie porte del Salone Azzurro si spalancarono e i primi invitati cominciarono a defluire nel corridoio carico di candelabri che li separava dal Salone degli Specchi dove si sarebbe tenuto il ballo.

I gruppetti di signore che erano salite qualche tempo prima per giocare alle vedette si affrettarono a scendere nuovamente dabbasso: avevano chiamato per nome ed esaminato con maniacale attenzione gli abiti di tutte le presenti, ridacchiando delle parrucche più vecchie e dei pizzi più sciupati. Una delle più giovani si era persino voltata verso di lui per rivolgergli un sorriso malizioso e lui non aveva potuto far altro che ricambiare sentendosi un completo coglione.

Ma adesso c'era Natasha al loro posto, casualmente appoggiata alla balaustra ad almeno un paio di metri di distanza da lui.

“La favorita del re lavora per la Stanza Rossa,” disse seccamente e senza alcun preavviso. La serietà della voce strideva potentemente con l'espressione beata che stava sfoggiando.

Clint si costrinse a non guardarla, a puntare lo sguardo sull'esodo in corso al piano di sotto, sui musicisti che si facevano aiutare dalle guardie a trasportare gli strumenti. Ci vollero tre persone per sollevare il clavicembalo.

Il re, la contessa e il principe erano ancora fermi ai loro posti: probabilmente si sarebbero spostati per ultimi quando un nuovo ordine si fosse ristabilito nel Salone degli Specchi. Gli bastò lanciare una rapida occhiata alla donna per capire che non aveva motivo di dubitare delle parole di Natasha.

“Credi che sarà lei ad occuparsi del re?” Le chiese.

“E' sicuramente la miglior assassina a loro disposizione in questo momento.”

“E il principe?”

“Uno qualunque dei dignitari presenti.”

“Li separeranno,” constatò a mezza voce. Ormai ne era più che sicuro: dividerli ed ucciderli, quello sembrava il piano più sensato.

Natasha annuì una sola volta.

“Terrò d'occhio il re,” aggiunse, fintamente sovrappensiero. Aveva già cominciato ad allontanarsi, non potendo più rimandare il momento in cui avrebbe raggiunto gli altri invitati nel salone.

“Allora mi prendo il principe,” disse comunque Clint.

“Non bere o mangiare niente,” fu il suo ultimo ammonimento, ormai a malapena udibile, “quelli col garofano giallo sono i traditori.”

Clint l'accompagnò cautamente con lo sguardo mentre scendeva nuovamente le scale.

Stava ancora metabolizzando quelle nuove informazioni quando il coordinatore delle guardie accorse frettolosamente, rosso in faccia. Ringhiò loro di darsi una mossa e scendere al piano di sotto, chiedendosi a gran voce che cosa avesse fatto di male per meritarsi degli uomini tanto incompetenti.

Clint, che un'idea o due in proposito ce l'aveva eccome, si accodò alla breve fila delle guardie. Prima di abbandonare la sala, si affrettò a staccare un garofano giallo da uno dei vasi posti all'uscita e lo sostituì a quello rosa bordato di bianco che gli era stato assicurato alla divisa prima di lasciare il quartier generale dello Scudo.

 

*

 

Il conte la stringeva con tanta forza mentre la faceva volteggiare, che ad un certo punto non fu più tanto sicura se la volesse avere vicina o stritolarla per toglierla di mezzo.

“Oh, perdonatemi,” biascicò quello rivolgendole un sorriso sdentato. Era la quarta volta che le pestava in piedi.

“Non preoccupatevi, conte,” lo rassicurò.

Per quanto detestasse quell'inutile espediente, ballare era un'ottima scusa per girare il salone e tener d'occhio gli invitati. I grossi specchi che tempestavano le pareti le facilitavano il compito, permettendole di sorvegliare i riflessi di nobili, ecclesiastici e popolani quando fissare gli originali sarebbe stato troppo compromettente.

Il grosso dei presenti occupava il grande spazio centrale, ma diversi gruppetti si erano distribuiti sui divanetti gonfi sistemati ai lati del salone, sorseggiando champagne, vini e acque aromatizzate. I rappresentanti del popolino si erano assiepati vicino ad una delle grandi finestre di vetro e osservavano l'intrattenersi dei nobili così come avrebbero fatto di fronte ad un acquario che mettesse in mostra creature marine esotiche provenienti da un qualche favoloso regno dell'estremo oriente.

Qualcuno degli aristocratici si era azzardato ad invitarne un paio a ballare, uomini attratti dalle prosperose rotondità della sartina, donne dall'animo caritatevole che avrebbero danzato con il fabbro per poi parlare con le amiche – beandosi della propria ipocrisia – della sincerità d'animo dei bifolchi, di come la loro vita fosse più autentica e i loro occhi così vividi e in contatto con la natura. Certo, non sapevano come mangiare utilizzando le forchette e puzzavano come una montagna di letame, ma quanto sarebbe stato bello poter vivere con loro per qualche giorno e sorridere delle piccole, vere gioie della vita!

Le guardie si erano disposte lungo il perimetro del salone, concentrate in particolar modo nei pressi del divanetto su cui si erano accomodati il re e la favorita.

Il principe Anthony era seduto più in là, circondato da uno stuolo di giovinette soffocate dai loro abiti all'ultima moda confezionati per quella precisa occasione. Natasha si chiese quante di loro avessero ricevuto una lunga e nutrita raccomandazione dalle rispettive madri perché si mostrassero docili, ben educate e sempre pronte a lasciarsi spiegare parole e concetti troppo complessi per poi riasserire la propria ignoranza – l'erede al trono non avrebbe di certo sposato una donna intelligente, non una di quelle che non sanno tenere a freno la lingua e parlano a sproposito dimenticandosi che certi argomenti non competono ad una signora per bene.

Il giovane era molto più a suo agio adesso di quanto non lo fosse stato al banchetto, ma tutte le volte che si voltava verso il padre le sue spalle sembravano incurvarsi, come se si fosse appena ricordato del peso insostenibile che gli gravava addosso. Re Howard, però, non sembrava aver intenzione di considerarlo minimamente.

La canzone finì in quel momento e Natasha fu costretta a prestare attenzione al suo cavaliere, vistosamente sudato e rosso in faccia.

“Perdonatemi, milady,” si scusò lasciandola andare, “ma credo di aver bisogno di una pausa.”

Furono diverse le coppie a sciogliersi e ricollocarsi sui divanetti per rinfrescarsi con dolcetti e champagne, mentre l'orchestra riattaccava con un pezzo diverso, più movimentato.

Qualsiasi cosa i traditori avessero mescolato alle vivande, doveva aver cominciato a far effetto: a ballare erano rimaste coppie composte perlopiù da aristocratici e popolani che sfoggiavano il garofano giallo, mentre la parte più consistente degli invitati si era seduta come in preda ad una stanchezza impossibile da ignorare. Le teste ciondolanti e le palpebre così pesanti da minacciare di serrarsi da un momento all'altro.

Natasha accettò l'invito di un cardinale alto e smilzo che arrossiva tutte le volte che la guardava negli occhi, e ne approfittò per sondare discretamente la sala mentre l'uomo la conduceva debolmente a ritmo di musica.

Ad ogni giro il numero dei presenti che si era arreso al sonno cresceva. Colse il riflesso della favorita che sussurrava nell'orecchio del re, anch'egli in preda a quella subitanea pigrizia. Il sovrano sorrise e le baciò una guancia, stringendole il ginocchio con una mano attraverso la spessa stoffa verde smeraldo del vestito.

Li guardò mentre si alzavano stretti l'uno all'altra, come incapaci di resistere ad uno stimolo improvviso. Si defilarono in silenzio, seguiti fedelmente dal quartetto di guardie.

Natasha si affrettò a prendere congedo dal cardinale fingendo un insopportabile mal di testa.

 

*

 

Il cielo che si intravedeva dalle imponenti finestre si era ormai annerito del tutto: non doveva mancar molto al momento in cui il re si sarebbe ritirato nel Salotto della Luna per affacciarsi alla terrazza e salutare la folla riunita in strada.

O almeno avrebbe dovuto, perché il re se n'era appena andato con la sua algida amante e Clint si era a malapena trattenuto dall'accodarsi al seguito di guardie che li aveva accompagnati ovunque fossero diretti – sicuramente in una qualche area più appartata del palazzo – e si era dovuto limitare ad osservare Natasha che li seguiva discretamente senza farsi notare.

L'atmosfera era cambiata adesso che gran parte degli invitati aveva ceduto alle lusinghe del sonno... o della mistura che qualcuno si era assicurato di aggiungere allo champagne; tra questi anche svariati membri dello Scudo che si erano di fatto resi inutili per il momento decisivo. Clint sapeva che il grosso delle forze dell'ordine era stato dislocato altrove, mimetizzato tra domestici, cameriere e stallieri, e che sarebbero entrate in azione solo quando fosse stato assolutamente necessario, quando i traditori avessero scoperto il loro gioco.

I garofani gialli spiccavano dalle giamberghe e dalle acconciature di chi era ancora lucido e presente: alcuni ballavano sforzandosi di mantenere le apparenze, altri erano in piedi contro le pareti o seduti sui divanetti da dove lanciavano occhiate penetranti ai quattro angoli del salone, innervositi dalla tensione che andava man mano serrandosi.

I musicisti continuavano a suonare imperterriti: si arrestarono solo al potente squillo di tromba che li raggiunse dall'esterno e che fece tremare i vetri delle finestre chiuse.

Il principe Anthony si decise a deviare l'attenzione dalle fanciulle adoranti che lo circondavano per cercare il padre con lo sguardo. Clint suppose che quello fosse il segnale che avrebbe dovuto condurre re Howard a salutare i suoi sudditi, ma il sovrano se n'era appena andato e non sembrava voler accennare a far ritorno.

I più scaltri tra gli invitati ancora in possesso delle loro facoltà finsero sgomento, sorpresa e meraviglia in varia misura, chiedendosi dove fosse finito il re proprio adesso che avevano bisogno di lui.

Lo squillo di tromba si ripeté e allora qualche ecclesiastico si decise ad abbandonare la sala dopo aver annunciato di voler risolvere quell'infelice contrattempo. Il principe Anthony si era rimesso in piedi sotto gli sguardi allibiti e carichi d'ansia delle giovani nobildonne che l'avevano attorniato fino ad un secondo prima.

Non gli risultò difficile capire come si sarebbero evoluti gli eventi: l'amante del re l'avrebbe tenuto occupato tutto il tempo necessario affinché l'onere di arringare la folla non fosse ricaduto sul principe ereditario. Questo avrebbe obbligato il giovane a seguire cardinali e aristocratici nel Salotto della Luna e, dato che i fedeli alla corona erano praticamente tutti fuoriuso, si sarebbe ritrovato solo in balia di traditori che, nel momento decisivo, non avrebbero esitato.

E infatti gli ecclesiastici partiti con la missione di recuperare il re tornarono indietro con aria esageratamente rammaricata, riavvicinando il principe mentre si ammantavano di deboli rimproveri diretti a quel sovrano che preferiva il divertimento ai doveri che il suo ruolo gli imponeva.

“Non riusciamo a trovarlo,” si scusò un cardinale basso e tarchiato, congiungendo le mani grasse sulla pancia. “Toccherà a voi salutare il popolo, vostra altezza.”

“Non potete farlo voi?”

“Io?” Il religioso scoppiò in una risata allegra e gioviale, come se il giovane avesse appena detto la più grande sciocchezza del secolo. “Ragazzo, la tradizione vuole che sia un membro della famiglia reale ad occuparsene.”

“Non voglio farlo,” stabilì quello.

“Oh, vostra altezza, sarete perfetto,” insisté una delle fanciulle ancora sedute sul divanetto.

“Vedete?” Insisté il cardinale, che sembrava aver deciso di sorvolare su quell'intromissione inopportuna e, piuttosto, di approfittarne. “Non avete niente di cui preoccuparvi.”

Altri aristocratici si erano avvicinati per convincere il principe ad avvalersi di quell'inusitato onore, ma parlavano gli uni sugli altri e Clint non riuscì a distinguere ciò che dicevano. Fatto stava che tanto fecero e tanto persisterono che qualche minuto dopo, mentre risuonava il terzo squillo di tromba, il principe Anthony si lasciò condurre fuori dal Salone degli Specchi.

Clint si affrettò ad accodarsi alle guardie che si incolonnarono ordinatamente per seguirlo, mentre l'altra metà rimaneva a sorvegliare lo stuolo di invitati addormentati e quelli ancora svegli che adesso sfoggiavano visi pallidi e tirati dalla preoccupazione, forse dal rimorso.

La rapida processione si snodò attraverso il corridoio e lungo un percorso alternativo – più breve di quello che conduceva al Salone Azzurro – che li condusse al Salotto della Luna, collocato al piano superiore. Le doppie porte della stanza erano state prontamente aperte da servitori immobili come statue ai lati dell'ingresso, lasciando che il principe e poi nobiluomini e religiosi ne varcassero la soglia.

Mancava poco più di un paio di metri perché anche le guardie guadagnassero l'entrata, ma sul più bello le porte vennero chiuse dall'interno.

“Merda,” bisbigliò inudibile, mentre gli uomini in divisa si scambiavano occhiate perplesse, senza però avere il coraggio di mettere in discussione la decisione o di bussare per accertarsi che fosse tutto a posto.

“Non preoccupatevi. E' stata una specifica richiesta del principe.”

Clint si sentì gelare il sangue nelle vene, perché la voce che aveva parlato alle sue spalle gli risultò fin troppo familiare. Una smorfia disgustata gli riaffiorò sul viso e si voltò di scatto, proprio nel momento in cui risuonò il quarto squillo di tromba.

Grant, nella sua divisa d'ufficiale da cerimonia, gli rivolse un rapido, insopportabile sorriso.

“Prendetevi una pausa, andate a bere qualcosa,” suggerì di nuovo a tutte le guardie, senza però togliergli gli occhi di dosso. “Re Stark vuole che partecipiate alla festa come chiunque altro.”

Sul taschino destro della giamberga, sotto le luci tremolanti dei candelabri, brillava un garofano giallo.

 

 

Note: ooooh e siamo entrati nel vivo della festa! Per i capitoli d'azione (questo come i prossimi) mi sono servita dei POV alternati visto per dare un po' di dinamicità alla cosa. Clint e Natasha sono separati così come i due Stark e... insomma, la situazione non è delle più felici. Qualcuno aveva già intuito che Grant puzzasse di traditore, ma adesso ne abbiano una conferma... almeno che il garofano giallo non sia solo un diversivo. Chissà! Lo scopriremo nel prossimo capitolo :P
Intanto ringrazio come sempre chi legge & commenta, e la sociabeta Eli per tutto il resto ù_ù
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

 

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


Capitolo 20
~

 

Il corridoio sarebbe stato silenzioso se non fosse stato per i passi, quasi del tutto soffocati dai lunghi tappeti stesi sul pavimento, delle guardie che procedevano davanti a lei e le risatine sommesse di re Howard e della favorita, intrecciate le une alle altre.

Natasha si sbarazzò della striscia di velo che le copriva gli occhi mentre il piano d'azione prendeva lentamente forma nella sua testa.

Il piccolo seguito virò in un corridoio adiacente, anch'esso ricoperto di specchi e ritratti ad olio che non poteva soffermarsi ad ammirare. La puzza di chiuso aumentava man mano che si addentravano nelle viscere del palazzo, nell'ala dell'imponente edificio in cui dovevano trovarsi gli appartamenti della famiglia reale. Anche i candelabri si facevano sempre più rari, alcuni carichi di candele spente, altri su cui erano rimaste poche superstiti. Le fiammelle proiettavano ombre inquietanti in quei cunicoli progettati da un qualche rinomato architetto, al punto che le divise delle guardie sembravano venir inghiottite a più riprese da pozze d'oscurità pressoché totale.

Fu poi la volta dell'acconciatura: districò i capelli dalla parrucca e se ne liberò dopo aver impugnato i corti coltelli che vi aveva nascosto all'interno.

Solo in quel momento, quando fu sicura di poter disporre della massima mobilità concessale, si decise ad affrettare il passo, ad approfittare dell'ennesima zona d'ombra in arrivo per sorprendere l'ultima guardia della fila. Gli saltò addosso da dietro, stringendogli un braccio attorno al collo e piazzandogli una mano su naso e bocca per impedirgli di urlare. Lo colpì duramente all'altezza dei reni con una ginocchiata ben assestata, lasciando che crollasse a terra mentre ancora si dimenava inutilmente. Dovette pestargli dolorosamente la mano che andò ad aggrapparsi alla spada assicurata alla cintura e in pochi attimi l'uomo perse i sensi, accasciandosi su se stesso a peso morto.

Si rimise in piedi e ritornò sui propri passi, raggiungendo quella che, adesso, era l'ultima guardia della fila.

Sarebbe stato tutto molto più semplice se avesse potuto uccidere piuttosto che stordire. Ma c'era una sordida, ridicola paura che quelli dello Scudo non approvassero, che l'avrebbero accusata di tutte le morti che avrebbe provocato, quale che fosse il risultato delle sue azioni. Eppure sapeva che l'ordine non era esattamente composto da stinchi di santo che si lasciavano tormentare da inutili questioni morali, non in momenti a tal punto decisivi per le sorti del regno.

E in fin dei conti il quartetto che si era accodato alla coppia formata dal re e dalla sua amante portava garofani gialli appuntati alle divise scarlatte...

Serrò le labbra e quando trascinò il secondo uomo nell'ombra, lo zittì prontamente aprendogli un profondo squarcio nella gola, lasciandolo a gorgogliare contro la parete, incapace di articolare alcunché.

Natasha si sforzò di controllare il proprio respiro, ignorando il modo in cui le si era stretto lo stomaco quando aveva affondato la lama nella carne calda e morbida, quando il sangue tiepido le aveva imbrattato solo leggermente la punta delle dita. Non le capitava spesso di perdersi in quei ragionamenti perché la politica della Stanza Rossa era piuttosto semplice. Il peso degli omicidi che aveva commesso l'aveva sempre scaricato su di loro, sui suoi capi, sugli uomini e le donne che l'avevano resa ciò che era... ciò che non era. Ma adesso che l'assassinio era solo una delle tante opzioni, si riscopriva a desiderarne la netta e chiara elementarità, ad aspettare che quella sensazione indefinibile le contraesse il petto mentre qualcuno esalava l'ultimo respiro davanti ai suoi occhi.

Alla possibilità che tutto ciò le piacesse non aveva mai pensato. L'eventualità che la Stanza Rossa fosse in fin dei conti il posto giusto per lei non l'aveva neppure sfiorata. Mai.

Un nodo minacciava di chiuderle la gola e allora fu costretta a respingere quei pensieri insensati e a rimandarli ad un secondo momento. Aveva una missione da portare a termine, non aveva importanza chi gliel'avesse assegnata; senza contare che Clint si era esposto per far sì che le dessero un'opportunità. Non poteva permettersi errori.

Nel corridoio – sempre più nettamente separato tra aree oscure ed occasionali stralci di luce tremolante – non riuscì a vedere il re e la favorita aprire la porta, ma li sentì e seppe che erano giunti a destinazione. Ne approfittò per mettere fuoriuso anche la terza e poi la quarta guardia, disseminando la propria strada di cadaveri.

Si ritrovò davanti ad una doppia porta chiusa proprio al centro di un corridoio più ampio dei precedenti, alle cui estremità si aprivano due finestre.

Si liberò dell'arco e della faretra che ancora portava agganciati alle cosce, sistemandoli in un angolo buio accanto ad un pesante tendaggio, ripromettendosi di recuperarli più tardi. Si rigirò i coltelli tra le mani fino a stringerli con più decisione, sentendone finalmente il peso rassicurante.

C'era un'altra Vedova Nera là dietro, una spietata assassina che avrebbe fatto di tutto pur di portare a termine il proprio incarico con successo. Non sarebbe stata la prima volta che Natasha si batteva contro altri agenti della Stanza Rossa – gli allenamenti e le dimostrazioni erano all'ordine del giorno al monastero – ma non ne aveva mai affrontati da un diverso schieramento. Non era mai stata loro amica, perché di amici non ne potevi avere alla Stanza Rossa, ma neanche loro nemica.

E adesso... adesso in fin dei conti era quello, che era. Una nemica. Una traditrice dell'organizzazione che l'aveva allevata e cresciuta, forse strappandola ai suoi veri genitori o magari salvandola dagli stenti che l'avrebbero sicuramente portata alla morte in tenera età.

Fece un passo avanti, talmente vicina da poter quasi sfiorare la porta con la fronte. Inspirò ed espirò ripetutamente, aspettando che il battito del proprio cuore si fosse placato.

Solo allora afferrò le maniglie d'ottone e le tirò bruscamente a sé, spalancandole su un'enorme camera da letto immersa nella semioscurità.

“Cominciavo a pensare che avessi cambiato idea.” Il russo pulito della donna echeggiò debolmente tra le pareti ricoperte d'arazzi.

La favorita era in piedi in mezzo alla stanza. Si era sfilata l'abito e stava facendo roteare pigramente il polso della mano armata di spada, come si fosse annoiata nell'attesa.

Natasha ebbe a malapena il tempo di lanciare un'occhiata al re riverso sul letto (il sonnifero doveva aver fatto effetto nel momento meno opportuno) che la bionda le si scagliò contro con tutta la foga di cui fu capace.

 

*

 

Le guardie che al seguito del principe Anthony e dei suoi funzionari si erano dileguate una ad una, fatta eccezione per un ragazzetto imberbe che Clint aveva riconosciuto come uno dei membri dello Scudo. Nessuno aveva osato mettere in discussione gli ordini dell'ufficiale appena sopraggiunto.

Ma Grant non aveva occhi che per lui, il che non faceva che accrescere il già discreto disgusto che Clint nutriva nei suoi confronti. Gli era bastato vederselo materializzare davanti per poter dar finalmente forma concreta a tutti i dubbi e le antipatie che aveva provato nei suoi confronti, a tutto il marcio che gli era sempre sembrato di fiutare quand'era nei paraggi a villa Coulson.

“Dov'è sir Phillip?” Fu la prima cosa che gli chiese mentre sguainava lentamente la spada.

“Al sicuro,” rispose evasivamente, senza abbandonare quell'insopportabile sorrisetto malizioso di chi è tremendamente soddisfatto di se stesso.

“E' tuo padre,” esalò inorridito e furibondo.

Il cuore gli batteva forte ora che i pezzi del puzzle si ricomponevano davanti ai suoi occhi una volta per tutte. Se lo Scudo l'aveva mandato a recuperare sir Phillip dalle grinfie della lega dell'Idra, l'unica spiegazione plausibile era che Grant lavorava per gli uomini che avevano complottato per il colpo di stato.

“Avrebbe dovuto esserlo,” disse, il bel volto solo leggermente irrigidito nella smorfia rabbiosa che riuscì a malapena a trattenere. “Ma invece si dilettava di casi disperati... bifolchi e pezzenti salvati dalla strada.”

“Sul bifolco e pezzente ci posso anche stare, ma disperato suona un tantino drammatico, non trovi?” Si ritrovò a contestare, mostrandosi teatralmente perplesso dalla scelta di parole.

“Di drammatica c'è solo la fine che farai, Clint Barton.”

“Wow,” si portò una mano al petto, scioccato, “credevo che nemmeno lo conoscessi, il mio nome.”

“Ti stai divertendo, ah?” Grant forzò una risata poco credibile, infastidito dalla nonchalance che Clint andava sfoggiando.

Sperò non si accorgesse di quanto fosse realmente incazzato e indignato per la ridicola piega che avevano preso gli eventi; per il fatto che il rampollo di casa Coulson avesse scelto di tradire il padre e l'intera famiglia per lenire il suo maledetto orgoglio ferito.

“No, non particolarmente. Di solito per divertirmi faccio altro,” finse di riflettere, “ma temo di dovermi accontentare.”

Fu Grant ad attaccarlo per primo, a sfoderare la spada e abbattergliela contro. Clint l'intercettò a mezz'aria e il clangore si disperse per le pareti, riverberandosi lungo il corridoio e disperdendosi nella galleria antistante il salotto della luna.

“Va' a cercare aiuto!” Gridò rivolto al ragazzetto in divisa che era rimasto immobile a fissarli. La spada d'ordinanza gli tremava in pugno. “Di' che c'è un traditore nello Scudo! Di' che si tratta del figlio di sir Phillip Coul-”

“Sta' zitto!” Grant lo colpì con un calcio nello stomaco, respingendolo contro un mobiletto su cui era poggiato un enorme vaso carico di garofani.

“Fottiti, Grant!” Smozzicò un attimo prima di dover fronteggiare l'ennesimo attacco. “Datti una mossa! Qui ci penso io!” Sbraitò in direzione del giovane membro dell'ordine che corse via tenendosi il tricorno sulla testa.

Quella stupida divisa gli rallentava i movimenti e la spada non era decisamente l'arma in cui era maggiormente versato: sapeva fin troppo bene che Grant era uno spadaccino più abile di lui.

“Sei spacciato e lo sai,” gli sibilò in faccia mentre le lame si incrociavano di nuovo davanti ai loro visi.

“Te l'ha mai detto nessuno che sei troppo sicuro di te?” Gli ritorse contro prima di sferrargli una testata in pieno viso e ritrarsi rapidamente dopo aver perso la parrucca. “Grazie al cielo, cominciava a fare un po' troppo caldo qua dentro.”

Lo guardò portarsi una mano al naso che sanguinava e poi rifarsi sotto con rinnovata ira, mentre dalla finestra spalancata in fondo al corridoio risalivano le grida di giubilo del popolo assiepato davanti ai cancelli del palazzo reale.

Doveva decisamente darsi una mossa.

 

*

 

Riatterrò sul pavimento con una capriola e si rimise dritta su un ginocchio, i pugnali spianati davanti a sé in posizione di combattimento.

Natasha registrò prima la sottile striscia di sangue raccoltasi sulla lama di uno dei suoi coltelli, e poi la linea rossa che aveva tracciato sul viso dell'amante del re che, proprio in quel momento, si stava voltando verso di lei.

Non aspettò di vederla constatare il danno perché la donna le fu nuovamente addosso e lo scontro riprese a ritmi serrati, fendente dopo fendente.

Il vestito le ingombrava i movimenti, ma si era rivelato utile nel respingere i colpi con cui la favorita tentava inutilmente di sorprenderla alle spalle o alle gambe, per toglierle qualsiasi tipo d'appoggio.

Intercettò la lama con il coltello destro e la colpì con un gancio dritto in faccia prima di abbassarsi e schivare la sciabolata con cui la donna non si peritò di ristabilire le distanze.

I suoi occhi azzurri, gelidi come il ghiaccio, scintillavano furiosi nella semioscurità della camera da letto, l'acconciatura le si era arruffata e sciolta in più punti, là dove ciondolavano boccoli biondi e lunghissimi. Il petto di entrambe si alzava e abbassava in rapida sequenza, ma i loro respiri erano silenziosi e impalpabili.

“S-Sei solo una sporca t-traditrice,” sibilò la favorita prima di avventarlesi nuovamente contro.

Natasha fu più rapida di lei e lo roteò di fianco schivando per un pelo i suoi affondi e sorprendendola alle spalle. Riuscì solo a conficcarle uno dei suoi pugnali nella schiena, a sentire l'aria che le si prosciugava dai polmoni per la sorpresa, prima che la donna si voltasse di nuovo.

La lama rimase incastrata tra le costole e Natasha non poté far altro che lasciarla dov'era e affidarsi all'unica arma che le rimaneva.

La danza riprese, una coreografia fatta di mosse simili perché simile era l'addestramento che avevano ricevuto. La bionda imitava e prevedeva i suoi gesti perché erano anche i suoi: era come riflettersi in uno specchio, come combattere col proprio riflesso.

All'ennesimo fendente andato a vuoto, mentre il suono della lama lunga che tagliava l'aria le echeggiava nelle orecchie, la favorita fece nuovamente volteggiare la spada davanti a sé, ma invece che colpirla la infisse nel pavimento.

Natasha impiegò un secondo di troppo a capire che le aveva inchiodato il vestito al pavimento e, quando la donna estrasse un pugnale di medie dimensioni per aggredirla ancora una volta, si ritrovò bloccata a terra potendo solo abbassarsi e indietreggiare col busto per schivarlo.

Un dolore sordo e inizialmente a malapena percepibile la colpì alla spalla destra. Finì col perdere l'equilibrio e cadere per terra. La favorita le fu addosso con tutto il peso del proprio corpo.

La lama del coltello che la bionda aveva sollevato sopra la testa brillò alla tremolante luce delle candele prima di calare su di lei con la gelida certezza della fatalità.

 

*

 

Scartò di lato e la spada andò a colpire la parete, imprimendovi un profondo solco.

“E' inutile che ti affanni tanto,” sibilò Grant mentre riguadagnava il centro del corridoio. Il sangue gli era colato sulla bocca e creava l'illusione di un ridicolo pizzetto rosso porpora.

“Adesso sì che sei un vero cattivo da romanzo,” lo sfotté Clint, senza che l'altro capisse a cosa si stesse riferendo.

Fu sufficiente a farlo incazzare però, e il fratello adottivo gli si scagliò contro menando colpi a destra e a manca a velocità sorprendente. Clint mancò i primi tre, ma il quarto lo prese di striscio al polpaccio e la calza bianca si impregnò di scarlatto in pochi attimi.

Si preparò a fronteggiare l'ennesima sfuriata: i colpi di Grant si fecero sempre più rapidi e, prima che potesse accorgersene, la spada sfuggì alla sua presa.

Maledì ogni santo esistente mentre l'agente dell'Idra lo spingeva contro la parete, la lama a solleticargli il collo come nella più odiosa tradizione dei combattimenti teatrali.

“Avresti dovuto vedere la tua faccia,” Grant aveva ripreso a parlare e a sorridere, ora che era convinto di averlo in pugno, “quando hai visto la tua freccia infilzare il capitano Rogers.”

“Brutto pez-”

“Certo sarebbe stato ancora meglio se avesse colpito la vittima designata...,” lo interruppe, la voce ridotta ad un sibilo.

“Di che stai parlando?”

Papà doveva morire, ma suppongo che l'atto d'eroismo del capitano ci abbia facilitato... inaspettatamente le cose.”

Un improvviso moto di rabbia minacciò di fargli perdere il controllo: “Sembri davvero compiaciuto da te stesso,” biascicò Clint in risposta, piegando il capo contro la parete per alleggerire la pressione della spada appuntita contro il pomo d'Adamo, “è abbastanza disgustoso.”

Ovviamente era stato Grant l'esecutore dell'attentato: aveva accesso sia al suo arco e alle sue frecce, sia alle provette e le sostanze con cui Leopold si trastullava durante la maggior parte dei pigri pomeriggi a villa Coulson.

“Non mi stupisce,” sussurrò l'altro, assaporando finanche l'ultimo istante di quella conclusione a suo vantaggio, “dubito che tu abbia le facoltà di riconoscere un vincente quando ne vedi uno.”

“Ma come fai a sopportare la tua stessa pomposità?” Domandò schifato col preciso intento di guadagnare tempo, giusto quel poco necessario a calcolare le distanze. Gli sarebbe bastato distrarlo per un misero secondo per scostare la lama e caricarlo a testa bassa per schiantarlo contro la parete opposta.

Si stava preparando ad ubriacarlo di stronzate, ma non ce ne fu bisogno. Un boato pazzesco sembrò scuotere il pavimento e le fondamenta del palazzo, rimbombando nel cielo che si intravedeva dalla finestra aperta in fondo al corridoio e scatenando le urla della folla.

Approfittò di quel provvidenziale diversivo perché Grant si era rapidamente voltato verso la finestra; scostò la lama e mise in pratica il suo proposito, schiantandolo contro la parete mentre gli afferrava il polso che teneva la spada. Lo colpì con un pugno in pieno viso – dritto sul naso che gli aveva già potenzialmente rotto – e gli torse la mano finché non fu costretto a mollare la presa sull'arma.

Da fuori partirono i fuochi d'artificio, filamenti di luci colorate che si dipinsero nel cielo senza alcun preavviso. I botti facevano tremare i vetri e le pareti, ma non come il boato precedente... ma perdersi in inutili ragionamenti non sarebbe servito a niente.

Ingaggiarono un breve corpo a corpo in cui il dislivello di preparazione si azzerò quasi del tutto, perché se c'era una cosa che Clint sapeva, quello era fare a botte. Grugnirono e trattennero il fiato mentre si scaraventavano da un lato all'altro del corridoio, si colpivano in pieno viso, nello stomaco, nei fianchi, senza grazia alcuna.

Grant lo mandò a sbattere contro il tavolino su cui era appoggiato il vaso carico di garofani e allora prese un'improvvisa decisione. Fece fronte all'ennesima sfuriata di Grant, colpendolo ripetutamente all'altezza dello sterno per togliergli il respiro; in cambio ricevette un pugno sullo zigomo sinistro che cominciò a sanguinare prima ancora che potesse registrare il colpo.

Dopodiché l'agganciò per il collo e gli abbassò violentemente il capo contro il ginocchio alzato, costringendolo a piegarsi in due per il dolore, per i polmoni che bruciavano reclamando aria.

Senza perdere tempo, afferrò il vaso di porcellana che pesava almeno un quintale e gliel'abbatté sulla sommità della testa, guardandolo andare in mille pezzi. I fiori si sparsero sul tappeto quasi fossero stati sul palco di un teatro dopo una messa in scena di particolare successo e l'acqua si disperse tracciando un alone scuro nella stoffa pesante e polverosa del tappeto.

Clint indietreggiò di un passo mentre respirava affannosamente osservando Grant accasciato a terra, privo di sensi. Recuperò entrambe le spade – la sua e quella del fratello adottivo – e andò dritto alla porta del salotto della luna tentando di aprirla, ma qualcuno l'aveva sigillata dall'interno. Sentì delle voci soffocate, stralci di parole che gli parvero prive di senso.

Il principe Anthony non avrebbe resistito a lungo là dentro, non da solo con tutti quei traditori decisi a fargli la festa. Insisté nell'agitare le maniglie, ma non ci fu niente da fare.

Imprecò a mezza voce, i botti dei fuochi d'artificio – all'esterno – non cessavano e fu quello a spostare la sua attenzione sulla finestra. Corse al davanzale e quello che vide confermò la sua intuizione: la terrazza del salotto della luna non era molto distante da lì. L'avrebbe potuta raggiungere scalando la facciata.

Rinfoderò le armi e si arrampicò sulla finestra per aggrapparsi alle sporgenze esterne dell'edificio. Mentre il vento leggero di quella sera estiva gli accarezzava il viso, Clint si sforzò di ignorare quell'unica sagoma schiacciata contro la balaustra della terrazza vicina e il minaccioso stuolo d'ombre nere che le incombevano addosso.

 

*

 

Natasha le aveva afferrato entrambi i polsi e stava respingendo l'arma dal proprio viso quando il sordo boato scosse le pareti della camera da letto. Neanche la donna sembrava esserselo aspettato, ma non si lasciò distrarre più di tanto.

Continuò ad affondare il pugnale verso il basso e, ormai, la sua punta acuminata rischiava di solleticarle la guancia destra.

Inspirò a fondo, una, due, tre volte per raccogliere le energie. Caricò il colpo e la respinse bruscamente con tutta la forza che aveva in corpo, allontanando il coltello per lasciarsi lo spazio sufficiente a colpirla in pieno viso col pugno chiuso, senza rischiare di vedersi infilzare nello stesso secondo.

La bionda barcollò all'indietro e Natasha continuò a stringerle il polso armato mentre si rimetteva seduta. Approfittò del momento di defaillance per colpirla con una testata sulla fronte, stando attenta a non concederle l'attimo giusto per reagire. Si rimise in piedi allora e la sovrastò mentre disincastrava dal vestito la spada che la teneva ancora saldamente ancorata al pavimento.

La favorita rise di una risata sgradevole e un tantino ubriaca, ma Natasha non si lasciò impressionare. L'aggirò alle spalle e le torse il braccio dietro la schiena, ancora inginocchiata a terra com'era. Le sarebbe bastato esercitare un po' di pressione in più per spezzarglielo di netto.

“Sei u-una stupida,” esalò la donna, che ancora stava riprendendo fiato, nella loro lingua. “Ti r-ritroveranno... s-sempre.”

Le puntò la lama della sua stessa spada al collo, più che decisa a porre fine ad uno scontro che si era protratto fin troppo a lungo.

“C-Credi che lo S-Scudo faccia q-qualche differenza? C-Che possiamo r-rinnegare q-quello che siamo?”

“Ti conviene scegliere le tue ultime parole con attenzione,” le sibilò contro Natasha, pronta a romperle il braccio al minimo segnale di pericolo.

Forse lo Scudo non avrebbe fatto alcuna differenza, forse non sarebbe neanche rimasta con loro, forse del suo futuro non le importava poi così tanto. Non in quel momento.

Quella rise di nuovo, le spalle scosse da un tremito leggero mentre dalla finestra penetravano i bagliori dei fuochi d'artificio sparati dal tetto del palazzo.

Natasha si stava ormai preparando al colpo finale quando la favorita si voltò verso di lei, rivolgendole un sorriso rosso sangue, uno sguardo vacuo e folle al tempo stesso.

“L'ho ucciso prima ancora di lasciare la f-festa,” le sussurrò con la stessa confidenza con cui le avrebbe rivelato un segreto compromettente.

La vide fare uno scatto inconsulto e Natasha fu costretta ad indietreggiare mentre la donna si conficcava nel collo uno dei coltelli che aveva raccolto dal tappeto. Inorridì mentre la guardava aprirsi uno squarcio nella gola e poi accasciarsi di lato in un gorgoglio sinistro.

Il cuore prese a batterle all'impazzata nel petto e un conato di vomito le risalì su per lo stomaco. Le ultime parole dell'amante del re le rimbalzarono nel cervello spingendola ad abbandonare le armi e il cadavere della donna per avvicinarsi al sovrano ancora riverso sul letto.

Pensò a come neppure il boato che avevano sentito – di un'esplosione, ne era sicura – fosse riuscito a svegliarlo anche solo per un istante.

Il materasso era altissimo e spesso, ricoperto da una decina di vaporosi strati di pregiate lenzuola. Il copriletto di seta blu si era raggrinzito sotto il peso del corpo. Recuperò l'unica candela accesa abbandonata sul comodino e gliel'avvicinò al viso.

Trattenne il respiro mentre il volto dell'uomo si delineava nell'ombra, le guance striate di sottili vene azzurrognole, le labbra violacee, la pelle ingrigita e irrigidita nella sua maschera di morte, gli occhi già opachi e spalancati in un'espressione di muto orrore.

Re Howard Stark era stato avvelenato.

Re Howard Stark era morto.

 

*

 

La folla gridava a pieni polmoni sotto di lui. Si era costretto a tagliare quelle grida fuori dalle proprie percezioni, ad ignorare i botti e gli strepiti dei fuochi d'artificio perché anche la più piccola distrazione avrebbe significato un volo di svariati metri nel vuoto... e poi morte certa nello spiazzo antistante il palazzo.

Era così vicino da riuscire a sentire le voci dei congiurati e quella del giovane principe, schiacciato com'era contro la balaustra a frapporre tra sé e i traditori uno spadino di dimensioni ridotte. Quel che c'era di positivo era che nessuno sembrava volersi fare avanti per primo e rischiare di perdere la vita nel tentativo di privare l'erede al trono della sua, il che gli faceva guadagnare tempo prezioso.

“State indietro, signori,” stava dicendo il principe in tono apparentemente calmo, “potete ancora evitare inutili colpi di testa.”

“Il tempo dei colpi di testa è passato, vostra altezza,” rispose qualcuno proprio mentre Clint si aggrappava al cornicione e benediceva chiunque avesse deciso che quello stile architettonico pieno di fronzoli e riccioli dovesse andare di moda ai tempi della risistemazione del palazzo.

“Voi e vostro padre non avete fatto altro che trascinare il regno nella disgrazia!” L'accusò rabbiosamente un secondo.

“Se non altro abbiate la decenza di non travestire le recriminazioni per i privilegi perduti con queste inutili fandonie sulle sorti del regno,” rivomitò con disprezzo il principe, continuando a brandire l'arma davanti a sé.

“I nobili e la chiesa sono il regno, vostra altezza. Siamo noi che vi conferiamo il potere,” obiettò il primo che aveva parlato.

“Ed è qui... che vi sbagliate,” sibilò Anthony lanciando un'occhiata nella sua direzione.

Gli parve sorpreso di vederlo, ma Clint si affrettò a portarsi un dito alle labbra per imporgli il silenzio.

“No, vostra altezza, l'errore è stato vostro.”

“Se ci aveste sostenuti come avreste dovuto, a quest'ora non vi trovereste in questa situazione.”

“Nella situazione di essere minacciato da un manipolo di vecchi ciccioni puzzolenti?” Il principe stava prendendo tempo e intanto aveva estratto qualcosa da una delle tasche della giamberga rossa e ora che indossava.

“Adesso basta, sono stufo di queste ridicole chiacchiere.” Un tizio si fece strada dalle retrovie proprio mentre Clint era sul punto di balzare dal cornicione alla balaustra della terrazza... c'erano un paio di metri a separarlo da quell'appiglio, ma era sicuro di potercela fare dandosi la giusta spinta.

A distrarlo fu lo scatto di un'arma da fuoco che veniva caricata, a malapena soffocato dallo scoppiare insistente dei fuochi artificio, le cui luci lanciavano bagliori bizzarri su quella scena tutt'altro che allegra e spensierata.

Il nuovo arrivato costrinse gli altri congiurati a scostarsi e puntò la pistola contro il principe.

“Che Dio vi perdoni, vostra altezza,” decretò in tono definitivo prima di far fuoco... ma non successe niente. L'arma aveva fatto cilecca.

“Sir Francis,” lo rimproverò comicamente il principe, mascherando l'agitazione con una buona dose di sarcasmo, “nessuno vi ha insegnato a conservare all'asciutto la vostra polvere da sparo?”

Clint saltò in quel preciso istante, rimanendo sospeso nel vuoto per un secondo che gli parve durare un'eternità prima di sentire la pietra tiepida della balaustra sotto le mani. Intravide Stark gettare qualcosa a terra e un gran fumo, bianco e spesso riempì la terrazza, confondendo gli uomini che ancora gli stavano assiepati attorno.

Si stava tirando su quando il principe si affacciò lì accanto, guardando un punto qualsiasi oltre le sue spalle.

“Dove sono gli altri?” Chiese perplesso, la preoccupazione malamente celata sul suo viso.

“Gli altri?” Clint si alzò sul parapetto e sguainò entrambe le spade perché i congiurati si erano districati dal vapore che li aveva momentaneamente accecati e li avevano nuovamente individuati.

“Siete da solo?” Domandò con orrore il principe, dando ancora le spalle alla balaustra per fronteggiare l'attacco imminente.

“Mi dispiace, vostra altezza, ma vi dovrete accontentare,” si scusò scendendo finalmente sulla terrazza mentre i primi uomini – nobili in parrucche vaporose ed ecclesiastici dalla tuniche setose – si facevano avanti per porre fine alla questione.

“Fantastico. Veramente fantastico!” Si lamentò l'altro, respingendo con un calcio un vecchio cardinale panciuto. “Fortuna che hanno quasi tutti la gotta.”

“Già, che fortuna!” Gli fece eco Clint, disarmando un aristocratico e respingendone un altro.

Un nobiluomo praticamente calvo che doveva aver perso i capelli per strada rientrò dal salotto della luna imbracciando un fucile con tanto di baionetta.

Lo vide prendere la mira, ma non aveva modo di neutralizzarlo, non impegnato com'era ad occuparsi di altri tre congiurati imbestialiti.

“Vostra altezza!” Urlò, ma il principe Stark era coinvolto in una feroce colluttazione che stava assorbendo tutte la sua concentrazione. “Toglietevi di mezzo!”

Infilzò un vescovo dall'aria arcigna e scattò in avanti, ma l'uomo armato di fucile aveva già premuto il grilletto.



Note: bè nessuno dei nostri eroi è messo particolarmente bene, e re Howard è messo pure peggio *cough cough* ma se Natasha ha fallito, la sorte di Clint e Anthony è ancora tutta da decidere... e per scoprirla ci toccherà aspettare il prossimo capitolo.
Per il resto ringrazio sempre chi legge & commenta e la sociabeta Eli :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


Capitolo 21
~

 

Quando riappoggiò la candela sul comodino, la fiammella tremolava insistentemente. Natasha ritrasse le mano e fece finta di non aver capito che la colpa era sua e non di un qualche spiffero di vento.

Il cuore le batteva furioso in petto e il sangue pulsava violento nelle vene mentre tutte le sue percezioni, tutti i suoi pensieri si riducevano ad un'unica, pressante consapevolezza.

Il re era morto.

Aveva riconosciuto sul suo viso irrigidito i segni delle lacrime di cristallo, un potente veleno distillato direttamente al quartier generale della Stanza Rossa, su per le ostili montagne ammantate di bianco dell'est. La favorita poteva averglielo somministrato in un qualsiasi momento durante il banchetto nel Salone Azzurro: richiedeva dalle due alle due ore e mezza per fare effetto. Lei stessa se n'era servita per programmare la dipartita di alcuni obbiettivi, talvolta mettendosi alla prova nel concedersi solo quel che restava da vivere alla sua sfortunata vittima per portare a termine il compito assegnatole. Le lacrime non davano alcun sintomo se non negli ultimissimi momenti di vita.

I fuochi d'artificio continuavano a scoppiare gioiosi nel cielo scuro incorniciato dalla finestra, mettendole addosso una quiete melmosa, una rassegnazione ineluttabile.

Avrebbe dovuto salvare il re, non lasciarlo morire in preda a sordi spasmi di dolore mentre il suo cuore smetteva di funzionare. Lo Scudo le aveva dato una chance e lei aveva fallito. Per la prima volta in vita sua, nella prova più importante di tutte, aveva fallito.

La sconfitta le bruciava nello stomaco e la delusione aveva cominciato a stringerle la gola. Avrebbe dovuto immaginarselo non appena si era accorta che l'amante del re altri non era che un'agente della Stanza Rossa sotto copertura. E invece era lì, immobile davanti al cadavere dell'uomo più importante del regno.

Se anche Clint avesse fallito, allora il colpo di stato dei traditori dell'Idra avrebbe avuto successo. Per quel che ne sapeva, il principe Anthony poteva essere già morto e la dinastia Stark estinta una volta per tutte.

Si costrinse a respirare a fondo come le avevano insegnato durante uno dei primi allenamenti alla Stanza Rossa. Si scostò dal letto e riavvicinò la donna riversa a terra, sul tappeto imbevuto del suo stesso sangue. Raccolse i pugnali sparsi sul pavimento e li appoggiò su una sedia mentre si sbarazzava del pesante abito da vedova che le aveva inutilmente rallentato i momenti durante il combattimento.

La stoffa si adagiò tristemente a terra, come una crisalide che però non avrebbe liberato niente di simile ad una farfalla variopinta. Le farfalle non sono velenose, pensò lugubre mentre si allentava il corpetto e sbarazzava delle scarpe per restare negli improbabili mutandoni lunghi fin sotto il ginocchio.

Scelse infine due pugnali ben precisi e li impugnò con sicurezza prima di decidersi a dirigersi verso le porte della camera da letto del re...

… ma non aveva fatto due passi che quelle si spalancarono da sole e un paio d'ombre scure si dipinsero sulla soglia, armate di pistole che si curarono di puntarle immediatamente addosso.

“Restate dove siete,” intimò una voce femminile che Natasha riconobbe appartenere a Maria Hill.

Era affiancata dalla taciturna Melinda May – quella che aveva creduto essere la madre adottiva di Clint – entrambe travestite da domestiche.

Si sentì invadere da una calma innaturale. Alzò le mani ma non abbandonò le armi e rimase in silenzio mentre Melinda andava a controllare prima il corpo del sovrano e poi quello della sua amante. Non disse niente perché a quel punto qualsiasi esplicitazione doveva sembrarle superflua; Maria colse l'occhiata penetrante della compagna e annuì una sola volta, il volto contratto in una smorfia a malapena trattenuta.

“Barton è con il principe nel Salotto della Luna,” si decise a dire Natasha. “E' da solo là in mezzo. La maggior parte dei membri dello Scudo sono fuoriuso.”

“Ce ne siamo accorte,” la informò Maria Hill. “Buffo che tu sia qui, allora.”

“No, non tanto,” la corresse pacata, rifiutandosi categoricamente di lasciarsi provocare. Clint era da qualche parte a fronteggiare un manipolo di traditori armati fino ai denti, nel disperato tentativo di salvare la pelle del principe. Non c'era il tempo di perdersi in inutili convenevoli. “Dobbiamo raggiungerlo.”

“Così puoi finire il lavoro?” La donna non pareva intenzionata a lasciarsi convincere tanto facilmente.

“Così possiamo sventare il colpo di stato,” ribatté, imponendosi una tranquillità assoluta e fittizia. “L'amante del re lavorava per la Stanza Rossa,” spiegò brevemente, “l'ha avvelenato durante il banchetto... quando li ho raggiunti era già troppo tardi.”

La sentì quasi trattenere il respiro, mentre la presenza di Melinda May aleggiava alle sue spalle, pronta a far fuoco nel caso avesse tentato un qualsiasi atto inconsulto.

Il silenzio si protrasse per un lunghissimo attimo, i botti distanti dei fuochi d'artificio ad interromperlo ad intervalli regolari. Finché Maria Hill non riabbassò la pistola senza però abbandonare l'espressione contrariata con cui continuava a guardarla.

“Diamoci una mossa,” decretò seccamente, indicando la porta con un ampio gesto del braccio. “E giusto perché lo sappiate, non credo che lavorare in mutande sia il massimo della professionalità.”

“Preferite che lo faccia nuda?” Le chiese mentre le passava di fianco per superarla oltre la soglia della camera e nel corridoio deserto.

Recuperò l'arco e la faretra che aveva nascosto dietro un tendaggio e se li sistemò in spalla.

Un paggio terrorizzato si affacciò in quel momento da una delle stanze che si aprivano sul corridoio, chiedendosi se le due domestiche armate in compagnia della donna seminuda fossero il segno dell'imminente apocalisse.

 

*

 

Infilzò un vescovo dall'aria arcigna e scattò in avanti, ma l'uomo armato di fucile aveva già premuto il grilletto.

Eppure, quando gli occhi del nobiluomo si fecero improvvisamente vacui e il moschetto gli cadde di mano mentre si accasciava a terra, Clint capì che non era stato lui a far fuoco.

Non ebbe il tempo di riflettere che un duca sdentato prese la rincorsa per andargli addosso, armato com'era di una spada troppo lunga per la sua persona. Clint si chinò per schivare il colpo che andò a conficcarsi nella balaustra e ne approfittò per ribaltare e scaraventare l'aristocratico direttamente giù dalla terrazza, ottenendo un grido orripilato dalla folla sottostante che non aveva smesso un secondo di rumoreggiare.

Fu a quel punto che prima due e poi tre ombre si unirono allo scontro, facendosi strada nel gruppo dei congiurati a suon di pugni e stilettate. Riconobbe Melinda nella sagoma nera che liberò il principe Anthony da uno dei suoi ultimi e più accaniti assalitori, Maria Hill e Natasha in quelle che la seguirono per completare l'opera.

Si riappoggiò al parapetto della terrazza, i fuochi d'artificio che non sembravano volersi chetare sopra le loro teste, e una distesa di corpi gementi e doloranti sparsi sul pavimento.

“Dobbiamo mettervi in salvo,” disse Maria Hill rivolgendosi al principe.

“Che diavolo sta succedendo?” Le ritorse contro quello, il fiato grosso e il viso congestionato dalla fatica del combattimento.

“L'esercito ha messo sotto assedio il palazzo. Il colonnello Fury sta cercando d-”

“Quanti sono?” Le parlò sopra, incredulo.

“Troppi. Non possiamo affrontarli in queste condizioni.”

“Che è successo a tutti gli altri?” Si intromise Clint senza riflettere.

Credeva che il grosso dell'ordine dello Scudo fosse nascosto da qualche parte, che avrebbero mandato rinforzi quando fosse arrivato il momento opportuno. E in fin dei conti gli abiti da domestica che Melinda e Maria indossavano confermavano la sua ipotesi, ma adesso sembrava che le forze fossero state decimate. Non poteva essere solo colpa di quel maledetto sonnifero che i congiurati avevano provvidenzialmente mescolato a vini e champagne.

“C'è stata un'esplosione alla tesoreria,” rispose Maria, fissando su di lui il suo sguardo penetrante. Ricordava con chiarezza il boato che sembrava aver scosso il palazzo fin nelle fondamenta quando ancora si stava scontrando con Grant. “Parte degli uomini che avevamo a disposizione sono stati rilocati sul posto.”

“Era un diversivo.” Stavolta era stata Natasha a parlare. Aveva smesso la vaporosa acconciatura e l'ingombrante abito nero della festa, e adesso stava lì nel mezzo con mutandoni lunghi fino alle ginocchia e il corpetto stretto attorno al busto. “Qualcuno vi ha teso una trappola,” aggiunse.

“Come fate a saperlo?” Interloquì Maria.

“Non lo so per certo,” ribatté la rossa, avvicinandolo per consegnargli arco e faretra senza una parola di più. Aveva evitato di guardarlo negli occhi. “Ma se volevano dividere le forze dello Scudo ci sono riusciti.”

“I ribelli dell'abbazia...,” si ritrovò a mormorare, dimenticando per un istante qualsiasi altra questione. “Devono essere stati loro ad occuparsene.”

“Sapevano come avremmo agito,” decretò Melinda nel suo tono asciutto e pragmatico. “Qualcuno li ha avvertiti.”

Maria si era già voltata verso Natasha con aria d'accusa, ma Clint sentì le parole uscirgli di bocca senza alcun preavviso.

“E' stato Grant,” disse, nauseato dalla rivelazione che adesso tornava a tormentarlo. “E' stato lui a tradirci. Dev'essere ancora là fuori, credo d'averlo-”

“Non c'è nessuno nel corridoio,” mormorò Natasha con circospezione.

Grant era scappato e probabilmente ricongiuntosi agli altri congiurati. Melinda aveva cambiato espressione, sfoggiando un'aria contrita che Clint non le aveva mai visto addosso.

“Sono desolato per le vostre controversie familiari, ma cos'avete intenzione di fare adesso?” Il principe Anthony aveva riportato tutti coi piedi ben piantati nella situazione presente.

“Il colonnello Fury è ancora nel Salone degli Specchi,” disse Maria. “I traditori all'interno del palazzo sono stati neutralizzati, ma quelli all'esterno...”

“Si sono mescolati alla folla. Probabilmente con l'intento di aizzarla nel momento più opportuno,” precisò Melinda. “Il grosso dell'esercito ammutinato è là fuori, e se altre truppe dovessero convergere qui dalla periferia nelle prossime ore...”

“E la metà delle nostre forze è attualmente occupata a far fronte ad un'emergenza fasulla alla tesoreria,” aggiunse l'altra.

“E' possibile che parte degli uomini di Trickshot fossero già lì ad aspettarli,” commentò Clint, mentre il gruppetto si spostava dalla terrazza all'interno del Salotto della Luna.

Alcuni degli arazzi che ne rivestivano le pareti erano stati strappati e gettati a terra, rivelando le mura consunte e gli stucchi sbiaditi o anneriti dal tempo. Sopra di loro l'affresco allegorico che dava il nome alla stanza li occhieggiava placidamente, in netto contrasto col caos che stava imperversando.

“I banditi della costa?” Domandò Maria mentre il gruppo si spostava nel corridoio.

Clint annuì. Melinda, invece, aveva appena finito di bloccare le porte del Salotto della Luna con una lunga spada sottratta ad uno dei congiurati privi di senso sulla terrazza.

“Alcuni erano mescolati ai popolani selezionati per partecipare alla festa,” disse Natasha. “Qualcuno, dall'interno, potrebbe trovare il modo di farli entrare.”

“Dobbiamo avvisare il colonnello Fury nel salone,” decise Melinda.

“Come facciamo a respingere gli attacchi esterni?” Chiese Clint, che cominciava a sentir la testa girare tante erano le variabili in gioco.

Il palazzo reale era attualmente tenuto sotto assedio dai soldati che avevano tradito il re in collusione con la lega dell'Idra; a dar loro man forte c'erano gli uomini di suo fratello, o comunque parte dei brutti ceffi che aveva avuto modo di conoscere all'abbazia; senza contare che la folla confusa e strepitante – ignara della tragedia che andava consumandosi oltre i pesanti portoni della residenza regia – avrebbe potuto essere facilmente manipolata e aizzata dagli ammutinati, i quali avrebbero trovato un rapido aiuto per forzare i cancelli e scatenare il caos una volta per tutte. Per quel che ne sapevano i ribelli che si supponevano aver provocato l'esplosione potevano essere attualmente impegnati a scatenare l'inferno nella capitale, innescando tumulti e rivolte, esacerbando gli animi dei sudditi del regno. Dopotutto non ci sarebbe voluto granché per convincere la gente a ribellarsi contro l'ingiusto regime di privilegio imposto dalla monarchia...

E poi c'era la questione di lord Phillip ancora prigioniero dell'Idra e nascosto chissà dove. Clint si stava già pentendo di non aver immobilizzato Grant, di aver finito per soccombere alla fretta di salvare il principe e di non aver quindi pensato a perquisire il fratello adottivo alla ricerca di indizi che potessero condurlo al quartier generale dell'organizzazione segreta.

I traditori e i membri dell'ordine dello Scudo saranno giustiziati sul posto... quale che fosse l'esito di quella notte fatale, se non avessero strappato lord Phillip alle grinfie di quei figli di puttana, l'uomo che lo aveva salvato dalla forca sarebbe morto. Se per rappresaglia o perché i congiurati vittoriosi avrebbero deciso di portare a termine i propri propositi non aveva importanza.

“Lady Carter era alla testa del gruppo che si è spostato alla tesoreria dopo l'esplosione,” disse Maria sovrappensiero. Anche gli ingranaggi del suo cervello sembravano essere in estenuante movimento; a Clint sembrava quasi di poterne sentire il rumore. “Se mandassimo qualcuno a richiamarli qui al palazzo...”

“Non servirebbe a niente,” disse Natasha, guadagnandosi un'occhiataccia. “A quel punto anche il resto dei banditi dell'abbazia sarebbe libero di raggiungerci.”

“Allora dobbiamo trovare un modo per sbarazzarci dei traditori dall'interno,” intervenne Melinda mentre scendevano le scalinate di marmo del Salone Azzurro ormai completamente deserto.

La tavola, ancora imbandita e devastata dal banchetto, dava un'aria di decadente abbandono all'ambiente. Gli sembrava di trovarsi in un castello fantasma i cui invitati si erano improvvisamente dissolti nell'aria e la cui presenza non era che un ricordo lontano.

“Usano ancora le secchiate di olio bollente?” Si ritrovò a chiedere ironicamente mentre percorrevano l'ampio stanzone silenzioso.

“Certo, perché non alziamo il ponte levatoio?, magari ci farà guadagnare del tempo,” commentò sarcastico il principe Anthony, senza poter tuttavia dissimulare il pallore che gli aveva prosciugato il colore dalle guance. “Forse però ho un'idea,” aggiunse con un attimo d'esitazione.

Il gruppo si fermò quand'erano ormai in prossimità del Salone degli Specchi, le cui porte erano spalancate. La voce del colonnello Fury arrivò fin laggiù: era in mezzo ai divanetti ancora occupati dagli ignari invitati drogati e stava strepitando ordini ai pochi uomini che gli erano bastati per sottomettere gli ammutinati presenti.

“Che idea?” Insisté Maria Hill.

“Ho delle... ahm... tecnologie a cui ho lavorato personalmente.”

“Tecno-cosa?” Chiese Clint perplesso.

“Tecnologie,” ripeté il principe. “Dipende però da quanto siete disposti a mettere in gioco...”

“Di che parlate?” Incalzò Melinda.

“Potremmo essere tutti scomunicati e accusati di stregoneria o qualche stronzata del genere,” spiegò l'uomo.

“Non abbiamo altra scelta,” ricordò Clint. Se avevano un modo, un'arma segreta per respingere l'assedio dell'esercito e dei traditori, allora dovevano usarla. Alle conseguenze avrebbero pensato più tardi, quando si sarebbero occupati dei figli di puttana che volevano far loro la festa.

“Hill, May!” La voce perentoria del colonnello che si era accorto di loro li richiamò bruscamente all'attenzione.

Le donne lo raggiunsero in tutta fretta, lasciando indietro Clint, Natasha e il principe. Fece per accodarsi al seguito, ma Anthony aveva fermato la rossa per un polso e l'aveva trattenuta, costringendo Clint a fare altrettanto.

“Perché nessuno ha ancora nominato mio padre?” Domandò debolmente l'uomo che stava tentando inutilmente di nascondere la preoccupazione.

Natasha si divincolò dalla sua presa e non rispose.

 

*

 

La notizia della morte del re si era lentamente sparsa a macchia d'olio nel Salone degli Specchi.

Natasha si era seduta in disparte e aveva fatto finta di ignorare gli sguardi inquisitori che i presenti lanciavano in sua direzione, mentre il colonnello e i suoi agenti stavano tenendo consiglio al centro della stanza.

I traditori erano stati legati e messi a sedere sotto le finestre, i garofani gialli ancora agganciati a giamberghe e acconciature. Alcuni si lamentavano, qualcuno piangeva invocando pietà, altri si attenevano astiosamente alla scelta fatta, augurando morte lenta e dolorosa al principe Anthony. Qualcun altro ancora, una volta che la notizia ebbe raggiunto le loro orecchie, le lanciava occhiate riconoscenti, quasi aspettandosi che da un momento all'altro si sarebbe attivata per sgominare da sola l'intero Scudo e liberare i prigionieri. Cos'altro potevano aspettarsi dalla presunta assassina del re?

Il principe aveva ripreso posto sul divanetto che aveva occupato durante il ballo, ma adesso non c'era più traccia delle fanciulle adoranti che l'avevano intrattenuto qualche ora prima. Aveva i gomiti appoggiati alle ginocchia e continuava a fissare il pavimento opaco e ricoperto dalle impronte impressevi dagli scarpini e dagli stivali sporchi degli invitati, come se avesse potuto leggervi il proprio futuro.

Era circondato da otto membri dello Scudo, uomini e donne che il colonnello Fury aveva assegnato alla sua protezione: la dinastia Stark sarebbe sopravvissuta fintanto che il principe avesse avuto fiato in corpo. Eppure qualcosa le suggeriva che nessuna delle due opzioni andava granché a genio al giovane Anthony: morire avrebbe significato, bè... smettere di esistere, e Natasha era sicura che non fosse ancora pronto per il momento finale; dall'altro, se avesse continuato a vivere, niente e nessuno l'avrebbe salvato dall'essere proclamato re, dall'incoronazione, dal resto della sua vita che si tramutava in una lista di compiti, responsabilità e pressioni che lo repellevano tanto quanto la morte.

Fu costretta a distogliere lo sguardo e a spostare l'attenzione su Clint che aveva improvvisamente invaso il suo campo visivo.

“Ti ho trovato dei vestiti e delle scarpe da mettere,” le disse, consegnandole un fagotto di indumenti ripiegati alla meno peggio e un paio di stivali.

“Voglio sapere dove?”

“Probabilmente no. Ma se non ti metti addosso qualcosa a Maria prenderà un colpo,” la prese debolmente in giro corredando il tutto con un sorriso altrettanto incerto.

Aspettò che si fosse alzata per poi accompagnarla nel corridoio ancora deserto.

“Cos'hanno deciso?” Gli chiese non appena furono abbastanza lontani dalle doppie porte del salone.

Non era stata coinvolta nelle discussioni che erano seguite al ricongiungimento con il colonnello, ma era sicura che avessero parlato anche di lei, dibattendo sulla sua presunta innocenza... o colpevolezza.

“Niente.” Clint scosse il capo, visibilmente contrariato. Natasha gli dette le spalle affinché le slacciasse il corpetto già leggermente allentato. “Maria non crede che dar sfoggio di strane arti sia il modo migliore per ingraziarsi la folla.”

“Non ha tutti i torti,” dovette ammettere Natasha mentre l'uomo districava i lacci che lui stesso aveva stretto al quartier generale dell'ordine.

“Lo so, ma se l'alternativa è lasciare che entrino a scannarci, non credo che abbiamo molta scelta.”

Non disse niente perché sapeva che anche lui aveva ragione. Il giovane Stark e suo padre erano già abbastanza famosi per le loro eccentricità, spesso descritte come passatempi inutili più che perniciosi, ma niente le vietava di credere che quelle occupazioni li avessero impegnati su scala molto più ampia di quanto la gente credesse. Sapeva anche quanto i popolani potessero essere superstiziosi e quanto i più ricchi e accorti potessero essere pronti ad approfittarne per girare la ruota della fortuna in proprio favore e a sfavore della dinastia Stark.

Si infilò la camicia sgualcita che odorava di lavanda un attimo prima che il corpetto si aprisse del tutto e solo allora si voltò per fronteggiarlo.

“Mi sono offerto volontario per andare ad avvisare Lady Carter alla tesoreria,” le rivelò dopo un istante di silenzio mentre Natasha si stava infilando i pantaloni sopra i lunghi mutandoni.

“Speri di incontrare tuo fratello?” Andò dritta al punto perché sapeva che era lì che Clint voleva andare a parare.

Lo vide annuire, ma non aggiunse nient'altro. Natasha gli lesse sul viso i segni della preoccupazione e dell'impazienza malamente dissimulati. Si sorprese nel rendersi conto di quanto forte fosse la necessità di confortarlo in qualche modo, di risolvere l'impasse in cui si sentiva intrappolato, ma si costrinse a non dire niente. Qualsiasi parola di rassicurazione sarebbe suonata troppo ridicola perché anche solo uno di loro ci credesse.

“Se pensi di poterlo far ragionare...” alluse, come per avere conferma che sapesse con certezza in cosa si stava andando a cacciare.

“So di non poterlo far ragionare,” confermò Clint, rivolgendole un microscopico sorriso. “Ma è l'unico traditore con cui ho un qualche rapporto... a meno che Grant non decida di tornare miracolosamente indietro.”

“Vuoi scoprire dove tengono lord Coulson,” intuì senza smettere di scrutarlo in viso per un solo istante.

“Devo tentare,” confermò. “Devono pur aver concordato un piano d'azione, i ribelli e la lega dell'Idra. Forse si sono incontrati al loro quartier generale... forse Barney ha qualche indizio utile.”

“Come conti di farlo parlare?” Suonava molto più semplice a dirsi che a farsi.

“Non lo so,” ammise. “Ma non ho altra scelta.”

“Potrebbe essere già morto,” si ritrovò a dire, pentendosene un secondo dopo aver formulato l'ammonimento.

“Oppure no,” rispose semplicemente l'arciere con una leggera stretta di spalle.

“Oppure no,” convenne perché non aveva niente da obiettare. “Andrai anche se non ti daranno il permesso, non è così?”

“Ci puoi contare.”

“Vengo con te,” annunciò calzando rapidamente gli stivali.

Clint rimase in silenzio solo per qualche attimo, indeciso.

“Sei già nei guai fino al collo,” disse infine. “Forse ti converrebbe solo... seguire gli ordini.”

Capì che non la stava mettendo in guardia perché non la volesse con sé, né perché fosse convinto che la faccenda sarebbe stata troppo spinosa e pericolosa, o ancora perché non la credeva meritevole di fiducia. Lo stomaco le si strinse un poco, piacevolmente e fastidiosamente insieme, mentre realizzava che Clint aveva parlato nel suo interesse, che era sinceramente preoccupato della sua situazione con lo Scudo.

“Credono che abbia ammazzato il re,” gli ricordò simulando una leggerezza che non le apparteneva per niente, non in quel momento, “andare ad affrontare i ribelli mi sembra l'insubordinazione minore.”

“Sanno che non sei stata tu. Sanno che non avrebbe alcun senso...”

“Ma non si fidano.”

“No, loro no.”

Natasha sentì il bisogno di distogliere lo sguardo, incapace di sostenere il suo.

“E' stato Grant ad attentare alla vita di Rogers,” riprese Clint, fingendo di non essersi accorto del suo muto imbarazzo. “Bè... a quella di lord Coulson, in realtà. Ma se non altro questo ti scagiona... da un paio di cose.”

“Aveva intenzione di uccidere suo padre?” Possibile che si fosse ribellato a tal punto all'autorità paterna da acconsentire a tradire il re, la famiglia e ad assicurarsi che lord Coulson trovasse morte certa nelle grinfie della lega dell'Idra?

“Mi odia talmente tanto da aver tentato di implicarmi nell'attentato usando una delle mie frecce... ma come arciere è piuttosto scadente. Suppongo si possa parlare di giustizia divina.”

“La sua antipatia per te ha salvato la vita sia al capitano che a lord Phillip. Sei praticamente un eroe,” lo prese in giro, finendo di allacciarsi i pantaloni eleganti decisamente troppo grandi che Clint le aveva procurato.

“Vorrei dire che fosse tutto calcolato, ma sai...”

Lasciò la frase in sospeso appoggiando la punta dell'arco sul pavimento. Si era rifatto serio, come fosse sul punto di dire qualcosa.

Un fiotto gelido le irretì il respiro per un orrendo secondo, e la paura di stare a sentirlo si fece di colpo insopportabile. Fu la voce del colonnello a sollevarla dall'impiccio di doverlo interrompere ancora prima che avesse cominciato.

“Datevi una mossa voi due,” li richiamò severamente prima di tornare a sparire oltre le porte del salone.

Natasha lanciò una rapida occhiata a Clint che ancora la stava osservando e si affrettò a rientrare nello stanzone ricoperto di tutti quegli specchi che adesso riflettevano gli sguardi preoccupati di traditori e traditi, quelli assonnati di chi aveva appena ripreso conoscenza, giusto in tempo per apprendere in che razza di situazione disperata si trovassero.

“Barton, ti dirigerai alla tesoreria per avvertire Lady Carter di quello che è successo,” li informò il colonnello non appena ebbero raggiunto il gruppetto ancora a consiglio nel bel mezzo del salone.

“Romanoff viene con me,” aggiunse Clint con naturalezza, come se si trattasse di una conseguenza naturale delle circostanze e non una richiesta ridicola. Le fece strano sentirlo pronunciare il suo nome... o presunto tale, comunque.

Fury lo osservò penetrante per un attimo che le parve durare un'infinità tanto fu pressante e inquisitore, prima di acconsentire con un rapido gesto della mano e passare oltre. Maria Hill non sembrò entusiasta di quell'improvvisa concessione.

“Maria, tu accompagnerai il principe nel suo laboratorio e riporterai sul tetto qualsiasi diavoleria metta a nostra disposizione,” riprese, “e per carità del cielo informate il mastro dei fuochi pirotecnici e fate smettere questi maledetti botti.”

“Sarà fatto, signore,” obbedì la donna.

“Melinda, tu prenderai tre uomini e pattuglierai il palazzo alla ricerca di eventuali superstiti o traditori ancora infrattati chissà dove.”

“Sissignore.”

“Fa' attenzione alle entrate ed uscite segrete. Questo posto pullula di finte librerie e botole del cazzo, e non ho intenzione di lasciarmi sorprendere da quei figli di puttana là fuori perché mi sono dimenticato di inchiodare un fottuto ritratto alla parete.”

Melinda annuì una seconda volta.

“Io resterò qui ad organizzare la sicurezza e ad assicurarmi che nessuno sfugga dal salone,” aggiunse infine. “Se avete bisogno di contattarmi per qualsiasi motivo, inviate degli emissari all'entrata vicino alle scuderie e troveremo il modo di farli passare. Se le informazioni non sono di vitale importanza, però, desistete. Significherebbe correre un rischio inutile.”

Il silenzio serpeggiò tra di loro in attesa che Fury desse l'ordine di entrare in azione.

“Andate,” si arrese il colonnello, dopo averli guardati uno ad uno ed essersi assicurato che avessero assorbito le sue disposizioni. A giudicare dalla sorda preoccupazione che le pareva di scorgere dietro il suo unico occhio, Natasha si immaginò si stesse chiedendo se sarebbe stata l'ultima volta che guardava in faccia alcuni dei suoi uomini migliori.

Melinda e Maria furono le prime ad allontanarsi, la prima in direzione di un manipolo di membri dello Scudo per selezionare i tre che l'avrebbero accompagnata, la seconda verso il principe ancora seduto e sbigottito, schiacciato dal peso degli eventi.

“Voi due,” Fury li bloccò prima che potessero muovere un passo. “Niente colpi di testa,” li mise in guardia, “e state attenti. Prendete l'uscita delle cucine.”

Clint annuì, ma Natasha era troppo presa dall'interrogarsi sulla sincerità del monito per poter pensare ad una risposta.

“Romanoff,” il colonnello le riservò per un attimo tutta la sua attenzione, “il tuo aiuto non andrà dimenticato.”

Lo stomaco le si strinse di nuovo e, improvvisamente, le parve di essere appena stata investita di una nuova responsabilità, da un nuovo dovere inderogabile: quello di non deludere un uomo che aveva appena conosciuto e che non le aveva mai rivolto la parola prima d'allora.

Annuì una sola volta, maledicendosi per la propria solennità, dopodiché affiancò Clint e uscirono dal salone in pochi, rapidi passi.

 





Note: capitolo più che altro logistico e strategico, ma adesso tutti hanno i loro compiti per la prossima fase dello scontro e... dobbiamo solo aspettare e vedere che succederà :P
Ringrazio chi è arrivato fin qui e continua a leggere & commentare, e ovviamente la sociabeta Eli per tutto la clintashosità perenne, che ci vuole direi.
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


Capitolo 22
~

 

La tegola che Clint aveva appena scagliato sulla strada si frantumò in mille pezzi. Puntualmente, una scarica di pistolettate seguì lo schianto, guadagnando loro tutta la conferma che andavano cercando.

“Sono circondati,” constatò lui per entrambi, mentre tornavano a nascondersi dietro il comignolo del tetto su cui si erano posizionati col favore delle tenebre.

Natasha annuì una sola volta, riportando lo sguardo sulla tesoreria semidistrutta. Trickshot e i suoi ne avevano fatto saltare in aria la parte posteriore per attirare l'attenzione dello Scudo. Lady Carter era caduta in trappola e quand'era arrivata sul posto doveva essere stata respinta all'interno dell'edificio o di quello che ne rimaneva insieme ai suoi uomini, tenuti sotto tiro dai ribelli assiepati sui tre lati della costruzione che ancora reggevano. Il retro era quasi del tutto crollato, pattugliato e controllato com'era da una cascata di macerie.

“Sono nella redazione del giornale,” lo informò a mezza voce, alludendo allo stabile dirimpetto alla tesoreria, “nella sartoria,” alla destra dell'edificio, “nel negozio di dolciumi,” infine alla sua sinistra. Nuvolette di fumo contrassegnavano i punti in cui i ribelli avevano fatto fuoco quando la tegola era andata a schiantarsi sulle pietre del selciato.

Al loro arrivo tutto quel silenzio li aveva insospettiti. Procedere sui tetti si era rivelata una necessità per superare le aree abitate più prossime al palazzo reale, dove la folla era talmente fitta e spessa da rendere le strade impraticabili. Se non altro i fuochi d'artificio erano finalmente cessati e il buio aveva concesso loro una maggior libertà di movimento.

“Qualche idea brillante?” le chiese Clint assicurandosi la cinghia della faretra alla spalla per la quinta volta.

Natasha si era già accorta del suo nervosismo, ma si impegnava a non darlo a vedere. Sapeva che se avessero fallito, per lord Phillip Coulson non ci sarebbe stato niente da fare, sia che lo Scudo avesse la meglio, sia che fosse l'Idra a spuntarla.

Rimasero in silenzio per qualche secondo, come raccogliendo i rispettivi pensieri per dar loro una parvenza d'ordine.

“La pasticceria,” si ritrovò a dire, accennando all'edificio più vicino, “da lì hanno sparato solo in due.”

“Credi che ci siano meno uomini?”

“Lo spero. Non possiamo sapere con certezza dove si nasconda Trickshot, ma anche se non fosse là dentro potremmo estorcere l'informazione ad uno dei suoi uomini,” propose.

“Non so più se ridere o vomitare quando lo chiami così,” non riuscì a non dirle del tutto estemporaneamente, senza far segreto del proprio disagio.

“Scusa,” pronunciò in modo tutt'altro che sentito. “Possiamo scendere in strada e attaccarli dal basso,” si trovavano infatti sul medesimo lato della tesoreria e dei due negozi, “oppure penetrare dal tetto.”

“Sulla via saremmo troppo scoperti.” Clint abbassò scetticamente lo sguardo sullo stretto vicolo puzzolente che separava il negozio dall'edificio su cui si trovavano.

“Tetto sia.”

Non gli dette il tempo di aggiungere nient'altro che si era già alzata per raggiungere il lato più distante del tetto e prendere la rincorsa per saltare sul tetto accanto, quello della pasticceria. Riatterrò silenziosamente e si voltò per lanciare all'arciere un'occhiata impaziente, ottenendo in cambio una smorfia incomprensibile.

Le fu accanto un attimo dopo, mentre il vento trasportava le grida lontane della folla.

“Che cazzo sta succedendo laggiù?” Bisbigliò Clint inorridito, volgendosi all'indietro.

I cancelli principali del palazzo reale erano stati avvolti da uno spesso banco di nebbia bianchissima materializzatasi da chissà dove. Non avevano sentito alcun boato, quindi non poteva trattarsi di un'esplosione.

“Stark,” si ritrovò a mormorare, come se quell'unica parola potesse spiegare tutto. In fin dei conti il principe aveva promesso allo Scudo strabilianti assi nella manica con cui far fronte all'assedio dell'esercito ammutinato, mezzi che gli avrebbero fatto correre il rischio di essere accusato di stregoneria.

Si costrinse a distogliere lo sguardo perché il tempo a loro disposizione stringeva e qualsiasi cosa stesse succedendo al palazzo reale non era un loro problema. Non adesso, almeno.

“Scendo sul retro e li distraggo,” decise a mezza voce, “tu prendi la finestra laterale e... fai quello che fai di solito con quel coso.”

“Si chiama arco.”

Sollevò le mani a mo' di resa prima di estrarre uno dei suoi coltelli e sistemarselo tra i denti. Presero a calarsi lungo i due lati della costruzione, scendendo dal secondo al primo piano e soffermandosi in prossimità dei davanzali delle finestre serrate da pannelli di legno. Se non altro il proprietario della bottega di dolciumi e la sua famiglia sembravano non essere in casa – probabilmente la quasi totalità degli abitanti della capitale era riunita davanti ai cancelli della dimora regia. Il che giocava a loro vantaggio.

Contò fino a tre mentre era ancora aggrappata ad una delle sporgenze della parete prima di sollevare entrambe le gambe e colpire violentemente la finestra a piedi uniti, dandosi lo slancio per saltare all'interno della pasticceria.

“Signori,” le bastò esordire perché i tre uomini trincerati dentro il negozio non si voltassero verso di lei, due affacciati all'apertura che dava sulla tesoreria e uno seduto sul bancone sporco di farina.

“Brutta putt-”

Non fecero in tempo né ad insultarla, né a far fuoco, perché Clint aveva fatto irruzione sull'altro lato della stanza e, approfittando di quel microscopico attimo di distrazione offertogli da Natasha, era riuscito a colpirli uno dopo l'altro in rapida sequenza. I ribelli armati di fucile e pistola si accasciarono a terra con una freccia conficcata in fronte ciascuno, mentre il terzo – quello seduto sul bancone – era stato colpito ad una spalla e il contraccolpo l'aveva spedito sul pavimento.

“Così non è divertente,” si lamentò Natasha incolore.

Raggiunse l'uomo là dove era caduto, puntandogli immediatamente il coltello alla gola.

“Azzardati ad urlare e sei morto,” lo avvertì, premendogli la lama contro il pomo d'Adamo per fargli capire che non stava scherzando.

“Dov'è Trickshot?” Clint andò dritto al punto, caricando di particolare enfasi il nomignolo che il fratello si era auto affibbiato.

“A-Andate a farvi f-fott-”

“Ah-ah,” Natasha lo interruppe e un rivolo di sangue gli scese giù dal collo costringendolo a piegare maggiormente il capo all'indietro per sottrarsi alla pressione del coltello.

“V-Va bene... v-va bene,” biascicò il bandito. Aveva la testa malamente rasata e una brutta cicatrice sulla guancia sinistra. “N-Nella redazione,” masticò infine, “ma vi ucciderà p-prima ch-”

“Non ce ne frega un cazzo,” asserì Clint prima di colpirlo con un violento calcio in piena faccia che gli fece perdere i sensi.

Natasha si rimise in piedi senza degnare il capo ciondolante del ribelle di un solo sguardo.

“Ti tocca attraversare la strada,” constatò a mezza voce.

“Perché mi tocca?” Le chiese mentre recuperava le frecce dai due cadaveri.

Non l'aveva mai visto uccidere nessuno, non fino a quel momento. Persino durante lo scontro all'abbazia si era sforzato di stordire e ferire piuttosto che eliminare una volta per tutte. Vederlo prendere misure tanto drastiche non faceva altro che confermare l'urgenza che animava ogni suo proposito, ogni suo gesto.

“Perché fungerò da diversivo.” Aveva già formulato l'idea quando la presenza di Trickshot alla redazione non era altro che una possibilità.

“Ti metterai a fare da bersaglio a quei figli di puttana?” Non suonava molto contento.

“Qualcosa del genere,” annuì. “Se si concentrano su di me sarai libero di muoverti a tuo piacimento.”

Clint rimase in silenzio per un lunghissimo istante, pulendo la punte sporche di sangue delle sue frecce su un angolo della divisa rossa che ancora indossava.

“Va bene,” acconsentì infine, contrariato. Lo vide chinarsi a raccogliere la pistola di uno dei due ribelli che aveva freddato, controllarne lo stato e poi porgergliela. “Prendi questa e non farti ammazzare.”

Natasha rinfoderò il coltello e accettò l'arma, soppesandola nella mano.

“Vale anche per te,” lo mise in guardia.

“Non ho tutta questa voglia di crepare, se proprio ti interessa.”

Lo ammonì con una rapida occhiataccia prima di rifarsi seria e pronta a rientrare in azione. Decise che sarebbe uscita dalla finestra da cui i due banditi avevano tenuto sotto tiro la tesoreria, sperando nella rapidità di riflessi degli uomini dello Scudo perché non fosse il fuoco amico a metterla fuoriuso.

“Vieni fuori solo quando mi sentirai parlare,” stabilì.

“Sta' attenta,” sottolineò lui in tutt'altro tono.

Gli lanciò uno sguardo che avrebbe voluto essere fulminante, ma sentì che non le era riuscito troppo bene. Ignorò la stretta che minacciava di serrarle lo stomaco e si costrinse a rimanere concentrata sulla prova imminente.

Annuì in sue direzione per un'ultima volta prima di scavalcare il davanzale della finestra aperta con un agile balzo.

 

*

 

Restò nascosto dietro l'ingresso della pasticceria finché la voce di Natasha non risuonò nella strada deserta, subito seguita da cinque spari.

Respinse la preoccupazione in un remoto angolo del suo cervello e aprì la porta con una spallata, una freccia incoccata e pronta all'uso nel caso si fossero accorti di lui. Attraversò rapidamente la strada senza essere notato, mentre gli sbuffi di fumo che avevano accompagnato la deflagrazione dei colpi di pistola e fucile ancora aleggiavano a mezz'aria.

“Non sapete proprio fare di meglio?” La voce alta e squillante di Natasha.

Gli sparì si ripeterono e Clint guadagnò il tempo necessario a nascondersi nella stradina striminzita che costeggiava l'edificio in cui era ospitata la redazione del giornale. Si tenne basso, al di sotto della linea delle finestre sbarrate che si aprivano su quel lato, riuscendo a sentire la voci degli uomini assiepati al primo piano.

“Siete tutti ciechi?” Di nuovo Natasha. Ce la stava mettendo proprio tutta per farli uscire dai gangheri. Clint non si stupì nel constatare che anche quello le riusciva particolarmente bene.

Si spostò lentamente fino alla porta posteriore mentre l'ennesima scarica di pallottole si abbatteva sulla facciata della tesoreria già ridotta a colabrodo.

“Un cieco saprebbe prenderla meglio, la mira!”

Qualcuno imprecò dall'interno e allora Clint approfittò del momento di distrazione per bussare un paio di volte.

“E adesso che cazzo c'è?” Gracchiò uno.

“Va' a vedere, no? Che cazzo stai lì impalato?” Tuonò un altro in tono autoritario.

“Va bene, va bene,” una terza voce acuta, che si faceva via via più vicina.

Non si era aspettato tanta ingenuità, ma un attimo dopo la porta si aprì e Clint si ritrovò davanti un ribelle dall'aria malaticcia, coi capelli unti legati in una magra coda di cavallo.

“Buonasera,” si annunciò prima di colpirlo in pieno volto col pugno chiuso.

Scavalcò il corpo privo di sensi del ragazzetto e si infilò a forza nel retro della stanza d'ingresso. C'erano tavoli accostati alle pareti, fogli stampati sparsi sul pavimento, l'odore forte dell'inchiostro fresco e un gran fetore d'umido e muffa. Un'altra porta aperta conduceva all'ambiente principale e da lì si affaccio per contare cinque uomini oltre a quello che aveva appena steso; tre erano occupati a sparare disarticolatamente su Natasha, mentre gli altri si voltarono verso di lui con aria sbigottita.

Si avvalse della vicinanza dei due e scoccò due frecce contemporaneamente, colpendoli entrambi al collo.

“Ma che-” Uno dei tiratori si era appena accorto della disattenzione e si affrettò a virare la traiettoria della vecchia pistola che teneva in pugno e a puntargliela contro.

Clint lo freddò in pochi attimi, ma i compagni superstiti avevano realizzato il pericolo e si preparavano a far fuoco, proprio mentre incoccava la quarta freccia da che era entrato alla redazione.

Un solo sparo rimbombò nell'aria.

Sentì l'aria prosciugarglisi dai polmoni e i rumori quietarsi di colpo nella sua testa.

Ma durò solo un attimo.

Era stata Natasha a premere il grilletto e a colpire alla testa uno dei due ribelli. Con uno scatto impossibile Clint fece altrettanto con l'altro e in un secondo era solo come un cane là sotto.

Si affrettò a recuperare le frecce dai cadaveri e a fare un cenno affermativo alla donna attraverso una delle due finestre spalancate, mentre dal soffitto arrivavano le voci e le imprecazioni dei ribelli barricati al piano di sopra.

Inspirò a fondo e si preparò ad un nuovo colpo prima di imboccare le scale scricchiolanti per il secondo piano. Si fermò davanti all'ennesima porta, constatando solo di sfuggita come l'odore del sangue era già andato a mescolarsi a quelli del legno marcio e dell'inchiostro. Ignorò categoricamente la morsa che minacciava di bloccargli di nuovo il respiro.

Barney l'aspettava dall'altra parte e, per quanto stesse tentando in ogni modo di evitare inutili considerazioni, sapeva che estorcergli l'informazione non sarebbe stato semplice. La vera incognita era fino a che punto si sarebbe spinto per ottenerla, fin a dove avrebbe accettato di compromettersi per riportare lord Phillip a casa. La consapevolezza di aver ucciso, quella sera, gli aleggiava davanti agli occhi come una nebbiolina inconsistente, la cui natura gli risultava ancora difficile da identificare.

La sua esitazione aveva zittito le voci che aveva solo indovinato oltre la porta. Gli parve di sentir bisbigliare, poi dei passi distanti... capì che qualcuno stava arrivando ad aprire.

Strinse i pugni e scattò in avanti nel momento esatto in cui l'ennesimo ribelle compariva sulla soglia. Lasciò andare la freccia che gli si conficcò in mezzo al petto, immobilizzandolo dov'era con gli occhi sgranati per lo shock.

Gli si avventò addosso e afferrò l'estremità del dardo, servendosene per manovrare l'uomo ancora vivo a mo' di protezione e farsi strada nella stanza. I compagni impauriti iniziarono a far fuoco, ma gli bastò usare il bandito trafitto come scudo per evitare la prima sfuriata di proiettili.

Respinse l'uomo ormai privo di vita con un calcio nello stomaco, servendosi dell'appoggio per estrarre la freccia e incoccarla rapidamente mentre con lo sguardo cercava una persona in particolare. Gli sembrò quasi che i suoi occhi andassero ad orientarsi verso l'angolo sinistro della stanza perché calamitati da una forza invisibile.

Barney gli puntò addosso i suoi, incapace di nascondere la sorpresa e – forse – una punta d'improbabile orgoglio.

“Fermi!” Gridò perentorio, sollevando un braccio per sottolineare il concetto. I ribelli ancora ferventemente impegnati nel ricaricare le armi da fuoco si bloccarono sul posto, pallidi e sudaticci.

“Non credevo saresti stato così stupido da tornare,” riprese Barney, apparentemente affatto preoccupato dal modo in cui Clint stava tenendolo sotto tiro.

Si rese conto, in quel preciso istante, che se il fratello gli avesse impedito di evitare la morte di lord Phillip per mano dei traditori della corona – per mano di suo figlio – allora sarebbe stato pronto a tutto. Non aveva paura della situazione, ma per un misero istante ebbe paura di se stesso e di ciò che era disposto a fare per arrivare fino in fondo.

“Voglio sapere dove si nascondono quelli dell'Idra,” andò dritto al punto, senza concedersi di riabbassare l'arco o di addolcire lo sguardo. Non avrebbe accettato mezze risposte, non avrebbe accettato farneticamenti elusivi. Voleva una risposta chiara e la voleva subito.

Barney rise e con lui alcuni dei suoi uomini – quelli meno agitati, se non altro.

“Cosa ti fa credere che sappia dove si trovano?” Gli chiese, ma Clint intuì che non era altro che un modo per prendere tempo.

“Ti sei accodato a questo patetico tentativo di rovesciare la monarchia,” fece notare, “sono sicuro che ti abbiano rivelato qualcosa... a meno che tu e i tuoi fetenti qua dentro non contiate un cazzo.” Lo vide irrigidirsi per uno scatto d'ira improvviso e malamente trattenuto. “Se qualcosa dovesse andare storto, dov'è che li incontreresti?”

“Sei un coglione,” l'accusò con malcelato disprezzo. Eppure qualcosa gli suggeriva che era piacevolmente stupito di quell'entrata in scena, che non si era aspettato di vederlo irrompere nel bel mezzo dei suoi luridi piani... o forse sotto sotto sapeva che sarebbe successo ed era quella confermata intuizione ad aver pizzicato il suo interesse.

“Questo lo so. Non so perché la gente continui a sottolinearlo,” rispose a tono.

“Perché lo sei.” Clint continuò a tenerlo sotto tiro mentre Barney si spostava lentamente al centro della stanza, circondato com'era dai suoi scagnozzi – alcuni pronti a far fuoco, altri ad attaccarlo con spadacce, pugnali, asce e qualsiasi cosa stessero brandendo. “Ho venticinque uomini qua dentro, tutti armati. E tu...”

“Io ho un'arma del paleolitico, lo so. Possiamo saltare la parte in cui mi prendi per il culo per l'arma?”

Barney rise, stavolta più sinceramente di quanto Clint si aspettasse. Fu costretto a ricordarsi che suo fratello non esisteva più, che per quanto gli sembrasse normale, per quanto gli ricordasse il ragazzino con cui era nato e cresciuto, non doveva lasciarsi ingannare. Anche il benché minimo errore avrebbe potuto significare la sconfitta definitiva.

“Hai un po' la coda di paglia,” notò.

In quel momento gli parve di sentire qualcosa dalla finestra socchiusa alle proprie spalle.

“Stavi per dire questo? Che tu hai venticinque uomini armati e io una coda di paglia?”

“No, stavo per dire che tu sei solo e che non hai abbastanza frecce per farci fuori tutti... certo, nel ridicolo caso in cui tu sia capace di scoccarle tutte insieme.”

Ridicolo caso,” lo scimmiottò, il bisogno di sdrammatizzare che riaffiorava come ogni volta che la situazione cominciava a farsi troppo spinosa, “non dovresti sottovalutarmi così.”

“Non ti sto sottovalutando. Non appena darò l'ordine di far fuoco, sarai morto prima che tu possa dire arma del paleolitico.”

“Hai scelto una frase piuttosto lunga per il tuo esempio,” andò a stuzzicarlo. “Ci metterei un po' a dirlo.”

Il rumore che gli era parso di percepire dall'esterno sembrò fermarsi di colpo. Una sorta di ferrea sicurezza gli rinvigorì di colpo le braccia, i muscoli, la schiena, la concentrazione.

“L'ho detto che sei un coglione?” Ribadì Barney, provocando qualche risatina qua e là, adesso decisamente più tranquille e numerose: i ribelli erano convinti di averlo in pugno.

“Hai detto un sacco di stronzate,” confermò Clint. “Tanto per cominciare, non è vero che ho una coda di paglia...”

“Non capisco perché dovrebbe essere rilevante,” obiettò l'altro.

“... se mi facessi finire!” Lo incenerì con lo sguardo in modo un tantino comico. “Dicevo... non è vero che ho soltanto una coda di paglia.”

“Parli della faccia a culo?” Come diavolo erano finiti a scambiarsi carinerie come facevano quand'erano piccoli e particolarmente annoiati?

Ma l'espressione tronfia di Barney fu immediatamente cancellata dallo scatto con cui le imposte socchiuse della finestra che dava sulla tesoreria si aprirono per lasciar atterrare nella stanza – con un salto inquietantemente elegante – Natasha, accompagnata dall'inveire inorridito degli uomini assiepati contro le pareti.

“Parla della Vedova Nera.” La delucidazione arrivò dalla diretta interessata.

“Esatto. Ho una coda di paglia e una fottuta Vedova Nera,” sottolineò... ripensandoci un attimo dopo. “Scusa,” aggiunse, rivolgendosi direttamente a lei. Natasha scosse le spalle, come a dirgli che non le importava. “Dicevamo,” tornò su Barney, “dove si nascondono i traditori dell'Idra?”

“Credi davvero che avere con te una donna faccia qualche differenza?” Pronunciò con un certo disgusto. Dalla rabbia con cui parlò, Clint capì che temeva di vedersi sfuggire la situazione di mano. La finta sicurezza di poterne uscire indenne era sempre lì, ma adesso faceva molta più fatica a reggere la facciata.

“L'ha già fatta... svariate volte,” lo corresse. “Lui se ne ricorda, giusto Frank?” Additò un ribelle a caso – che ovviamente non si chiamava Frank – che sfoggiava ancora le chiazze rosse delle punture di vespa rimediate durante lo scontro all'abbazia.

“Quello è stato un colpo basso!” Puntualizzò un altro con un leggero tremolio nella voce.

“Wow, non credevo che dei banditi traditori avessero anche un codice d'onore,” mormorò Clint con aria fintamente impressionata.

“E una gran voglia di chiacchierare,” chiosò Natasha in tono annoiato.

“Giusto.” La traiettoria della freccia ancora incoccata era sempre puntata in direzione di Barney. “Dove si nascondono gli uomini dell'Idra?”

“Non te lo direi neanche se lo sapessi,” vomitò il fratello, abbandonando qualsiasi velleità di apparire tranquillo e in controllo degli eventi.

“Credi che non mi accorga se stai mentendo?” Gli ritorse contro.

Ed era sincero. Perché un sacco di tempo era trascorso da quando avevano viaggiato per il regno in lungo e in largo in cerca di cibo, di un rifugio per la notte, di vestiti meno lisi di quelli che portavano addosso; però non aveva dimenticato l'effetto che una bugia aveva sul volto del fratello. Anche quand'erano bambini, quando le menzogne erano a fin di bene, per convincerlo a resistere ancora per un po' o per persuaderlo che un bel piatto di zuppa e ogni genere di leccornia li stesse aspettando alla loro meta – anche allora Clint sapeva quando Barney mentiva. Certo, a quei tempi la finzione era a beneficio di entrambi: tutti e due sapevano che ad attenderli non ci sarebbe stato nient'altro che le solite cose, le solite difficoltà. Ma dipingere un quadro più roseo, più positivo, li aveva spesso e volentieri aiutati a non lasciarsi schiacciare dal peso delle incombenze quotidiane per la sopravvivenza.

Adesso le cose non erano tanto diverse. Solo la bugia aveva cambiato la sua funzione e Clint non aveva intenzione di cascarci volontariamente. Non stavolta.

Barney parve sorpreso dell'appunto del fratello e lo sguardo che gli stava puntando addosso andò intensificandosi, facendo più duro ed ostile. Clint seppe allora di averlo colto in fallo.

“Dove si nascondono quell'Idra?” Ripeté, scandendo le parole una ad una.

“Non te lo dirò,” ribadì tenacemente l'altro.

“Ce lo dirai lo stesso, alla fine,” Natasha era intervenuta col suo solito tono pragmatico e tranquillo. Come se non avesse avuto neanche mezzo dubbio su come si sarebbero concluse le cose.

“Questo è tutto da vedere,” puntualizzo Barney.

Bastò che uno dei ribelli più agitati premesse per sbaglio il grilletto, che la deflagrazione dello sparo rimbombasse sulle pareti, che le reazioni dei compagni si innescassero a catena, perché il caos più completo scoppiasse tra le quattro mura.

 

*

 

Si portò una mano alle labbra che sanguinavano, maltrattenendo una smorfia contrariata.

Fece scorrere pigramente lo sguardo sui corpi sparsi per il pavimento: alcuni ancora si lamentavano, altri erano irrimediabilmente rigidi e in fissa del soffitto.

Si decise a guardare altrove, a scavalcare il cadavere che le ostruiva il passaggio per raggiungere Clint.

L'arciere era inginocchiato per terra, impegnato ad attorcigliare una spessa corda attorno ai polsi di Trickshot. Non era molto sicura di aver capito chi avesse colpito chi nella baraonda che era esplosa dopo il colpo accidentale sparato dai uno dei banditi dell'abbazia, e in tutta sincerità non le importava neanche granché. Quel che contava era che erano riusciti ad avere la meglio.

Neanche quello la sorprendeva. I ribelli erano vistosamente mal organizzati, attrezzati con armi vecchie e a malapena ancora funzionali, spade scheggiate, pugnali che non tagliavano più, pistole a corto di polvere da sparo. L'aveva capito fin dal loro primo incontro – da quando Trickshot l'aveva convocata per assegnarle il compito di rintracciare suo fratello – che la loro forza stava nelle apparenze, che era tutta una questione di scena. Peggiore fosse stata l'impressione che avrebbero provocato, migliore il risultato. Persino la lega dell'Idra doveva essersi lasciata persuadere dall'efficienza di quel manipolo di criminali, o forse dalla fama che si erano conquistati nelle regioni costiere... ma terrorizzare contadini, allevatori e lavandaie e convincerli ad abbandonare le proprie case era ben diverso dal portare a termine una congiura ai danni della monarchia. Tutti i nodi erano venuti al pettine e anche Trickshot doveva averlo capito. Forse se n'era accorto molto tempo prima e aveva deciso di imbarcarsi comunque in quell'impresa disperata: anche se i traditori avessero avuto la meglio, Natasha sospettava che i banditi non ne avrebbero ottenuto niente. Magari solo il permesso di poter scatenare le loro scorribande in giro per il regno senza che l'esercito corrotto alzasse un dito per fermarli o almeno fingere di farlo.

“Pensi che l'informazione sia valida?” Gli chiese mentre Clint si rimetteva in piedi trascinando con sé il fratello.

Lo scontro aveva impresso lividi, ferite ed escoriazioni sui volti di entrambi. Così conciati le sembrarono ancora più simili del solito.

“Non lo so,” ammise Clint con una leggera scrollata di spalle.

Lo guardò mentre passava in rassegna il caos che imperversava tutt'intorno, ma le parve anche sollevato.

“Sarebbe utile che parlassi,” mormorò Natasha, rivolgendosi direttamente a Trickshot.

Durante le varie colluttazioni, lei stessa aveva messo all'angolo uno dei ribelli e questi per disperazione si era messo a gridare di un presunto nascondiglio dell'Idra nelle cripte della cattedrale della città. Natasha non aveva avuto il tempo di registrare la reazione sul volto di Trickshot per accertarsi che ci fosse anche solo un vago fondamento di verità nell'informazione, ma in ogni caso quello spiraglio li aveva esortati a velocizzare le operazioni e a porre rapidamente termine al pandemonio furibondo che aveva distrutto completamente la redazione del giornale.

L'odio deformò i tratti del volto dell'uomo che per tutta risposta le sputò ai piedi per rivendicare ancora una volta l'orgoglio del proprio silenzio.

“Cosa cazzo sei, adesso? Un fottuto cammello?” Clint lo scosse come per rimproverarlo. “Comunque,” riprese, “non lo so. Ma è l'unica traccia che abbiamo.”

Natasha ne prese atto annuendo una sola volta e lo aiutò a recuperare le frecce che erano saettate un po' ovunque durante lo scontro e che erano andate a conficcarsi nelle pareti, sul pavimento, più frequentemente nei corpi vivi o morti che tempestavano la stanza.

“Lady Carter e i suoi uomini sono usciti dalla tesoreria,” lo informò a mezza voce dopo aver lanciato una rapida occhiata fuori dalle finestre aperte. Dovevano essere riusciti a neutralizzare i banditi nascosti nella sartoria – il contrafforte nemico caduto per ultimo.

Gli restituì le frecce e lo guardò rimetterle nella faretra prima che mandasse avanti il fratello, giù per le scale e al piano inferiore. Li seguì silenziosamente, rinfoderando a sua volta i coltelli con cui aveva combattuto, ancora sporchi di sangue.

L'aria fresca della notte li accolse non appena furono in strada a raggiungere Lady Carter e il manipolo di membri dello Scudo sopravvissuti all'imboscata dei banditi.

“Barton, Romanoff,” li accolse la donna, i capelli arruffati e il volto sporco di polvere e sangue. Indossava vestiti da uomo ma non appariva meno femminile o elegante, “sono contenta di vedervi.”

Annuirono entrambi mentre Natasha occhieggiava con discrezione le espressioni stravolte degli uomini e le donne usciti indenni dalla sparatoria.

“Il colonnello ha bisogno di rinforzi,” spiegò rapidamente Clint, “ha detto di farsi vedere all'ingresso delle scuderie.”

“Vi conviene stare attenti,” si sentì di dire, “il principe ha messo a disposizione dell'ordine non so che diavolerie per tenere indietro la folla.” Non era ancora riuscita a trovare una spiegazione per la nebbia bianca che avevano visto avvolgere l'ingresso del palazzo reale poco prima, ma era possibile che la zona fosse più pericolosa adesso di prima.

“Faremo attenzione,” convenne Lady Carter, vistosamente occupata a non lasciare che la preoccupazione trasparisse troppo vistosamente sul proprio viso. “Voi...”

“Andiamo a recuperare lord Phillip,” decretò Clint in tono talmente deciso da scoraggiare qualsiasi accenno a proteste o disaccordi. “Secondo i ribelli, l'Idra è nascosta nelle cripte della cattedrale.”

Gli occhi della donna parvero sgranarsi un poco prima che la sorpresa si riassorbisse sul suo viso.

“Grant è un traditore,” aggiunse l'arciere. “Se non ci diamo una mossa potrebbero ucciderlo per rappresaglia.”

Lady Carter annuì gravemente.

“Manderemo rinforzi non appena ci sarà possibile,” assicurò prima di far cenno ai suoi di prendere la strada più sicura per le scuderie. “Fate attenzione anche voi,” li mise in guardia a sua volta, “e grazie.”

Li guardò entrambi negli occhi perché registrassero la portata della sua gratitudine e si allontanò prima di una qualsiasi risposta.

“Se me lo dicevate prima che c'è gente del genere allo Scudo, ci avrei fatto un pensierino,” commentò caustico Trickshot.

“Sta' zitto. Ti pare il momento?” Clint lo scrollò di nuovo. “Diamoci una mossa.”

Si avviarono lungo la strada deserta, l'alto campanile della cattedrale che li osservava silente dal cielo nero.







Note: come avrete capito la trama ha preso il sopravvento (insieme alla mia logorrea *cough cough*), ma spero non sia troppo noioso. Il prossimo passo sarà recupera lord Phillip... tanta azione e un punto di vista inedito. Ma non anticipo nient'altro!
Ancora grazie a chi continua a seguire la storia e a commentare, e alla mia beta-socia Eli perché essere Clintasha trash in due è sempre più divertente.
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


Capitolo 23
~

 

 

I santi della cattedrale sembravano puntare loro addosso le orbite vuote dei loro occhi di pietra, incombendo sulla piazza deserta con cieco livore.

Barney scoccò loro una lunga occhiata, sfidandoli apertamente a distogliere lo sguardo per primi, come se la colpa dei suoi piani andati in frantumi potesse ricadere su quell'esercito di fredde statue. Avrebbe voluto riversare loro addosso tutta la bile del suo fallimento, prenderli a male parole e sfogare la sua rabbia per la piega inaspettata che avevano preso gli eventi.

Ma dentro di lui c'era già la consapevolezza che non poteva sfuggire al fato e forse già esisteva quella della sconfitta, un tarlo invisibile che l'aveva rosicchiato da dentro, rendendo tutta quell'immane messinscena un colpo nel vuoto, un'impresa fallita in partenza.

Non sentì Clint che parlava e ritornò coi piedi per terra solo quando il fratello lo scosse bruscamente. L'irrefrenabile voglia di colpirlo al volto sorse e raggiunse il suo picco in un misero secondo prima di acquietarsi di nuovo. Faceva ancora fatica a convivere con l'idea che suo fratello fosse davvero lì, fatto di carne ed ossa, dopo che per tanti anni non aveva fatto altro che fantasticare sul loro incontro, prima con impazienza e poi con sordo odio.

“Come facciamo ad entrare?” Clint ripeté per quella che Barney suppose essere la seconda volta.

Alzò gli occhi sulle tre enormi porte d'accesso della cattedrale, quella centrale più ampia delle altre due, tutte sigillate per la notte.

“Solitamente una porta va aperta... e poi ci passi attraverso,” si sentì suggerire prima ancora di avere il tempo di formulare una risposta sensata.

Avrebbe voluto rimandare all'infinito il momento in cui gli avrebbe mostrato come contattare gli uomini della lega dell'Idra, eppure dentro di sé già sospettava che prima o poi avrebbe ceduto. Era una cosa che gli capitava spesso e che lo faceva uscire di testa: figurarsi con esattezza come sarebbero andate le cose, ma tentare comunque il tutto per tutto, muoversi ostinatamente contro la corrente delle proprie percezioni. Era stupido e insensato, ma da anni ormai non era più capace di combattere contro se stesso e la precarietà dei propri desideri.

La parte di lui in costante lotta contro il destino prendeva sempre più il sopravvento con ogni anno che passava; la necessità di sconfiggere i pronostici, di soffocare le proprie sensazioni, era andata ingrossandosi come un fiume di attimo in attimo, gli argini che a malapena riuscivano ancora a reggere la furia di una piena che non sembrava aver intenzione di placarsi tanto presto. Magari l'idea era quella di annientarsi definitivamente in quel gioco senza sbocchi, alla disperata ricerca di una pace qualsiasi. Di un po' di quiete per quella sua mente vessata da migliaia di pensieri assillanti e avviluppati gli uni agli altri in una catena senza fine.

“Molto divertente,” commentò sarcastico il fratello. “Come facciamo ad entrare?” Glielo ripeté ancora e Barney avrebbe voluto tacere. Fargli scoprire da solo che bussare ad uno di quegli enormi portoni gli avrebbe fatto guadagnare una condanna a morte certa perché con l'Idra aveva stabilito altro.

E invece si ritrovò a parlare sull'onda di un'irritazione implacabile.

“Sai cos'è divertente? Che tu sia così stupido da fidarti di una uscita da quel buco di merda della Stanza Rossa.”

Avrebbe potuto ubriacarlo di parole. Dopotutto era quello che l'istinto gli suggeriva di fare, perché confondere il suo fratellino a suon di stronzate era stata la sua specialità quando non erano altro che due mocciosi sudici e affamati. E anche adesso che le cose erano tanto diverse, la presenza di quella donna disturbava profondamente il suo equilibrio interiore: era una figura estranea al quadretto che si era figurato, non aveva niente a che vedere né con lui, né con Clint e allora perché diavolo si permetteva di stare tanto nel mezzo?

Strinse i pugni immobilizzati nel mozzicone di corda con cui era stato legato e fece forza, incurante del raschiante bacio del legaccio sui polsi. Gli sembrava una punizione sufficiente, perché un pensiero insopportabile era appena riaffiorato alla sua coscienza, ricordandogli che quella sconosciuta era stato lui stesso a tirarla in mezzo.

Si fermarono a pochi passi dal portone di sinistra, Clint visibilmente indispettito dalla situazione, la rossa completamente imperturbabile. Gli dava noia vedersela sfuggire davanti agli occhi, il non riuscire ad inquadrarla, il non ritrovare nei suoi ricordi un appiglio per decifrarla. Di appigli Clint, invece, gliene dava a iosa. C'erano tante cose che credeva di aver definitivamente dimenticato eppure erano ancora lì, annidate in un remoto angolo della sua testa in attesa di tornargli utili.

Aveva passato talmente tanto tempo a rivangare il passato, a starvi immerso come in una pozza stagnante che conosceva palmo a palmo, da aver perso di vista la fisionomia originaria delle cose. Sapeva di aver manipolato tanto a lungo i propri ricordi da renderli irriconoscibili, da plasmarli in altro, i segni del rancore stampati su ogni memoria che andava e tornava e che adesso non coincideva più con la realtà.

Clint, quel Clint che aveva tenuto dritto dopo dodici ore di cammino ininterrotto, quel Clint a cui aveva insegnato come spellare uno scoiattolo – una lepre o un coniglio se erano stati particolarmente fortunati, ma erano un lusso raro in quei giorni – o a filtrare alla meno peggio l'acqua potabile... il Clint della sua testa non aveva più niente a che vedere con l'uomo che lo teneva saldamente arpionato al braccio.

La delusione di vederselo davanti, adulto fatto e finito, ancora tutto intero, ancora vivo e solido nonostante la sua assenza, nonostante la mancanza del suo costante aiuto – lo stesso che l'aveva sostenuto per anni – gli aveva fatto bruciare le viscere. Non sapeva cosa si fosse aspettato di preciso, ma la voglia di ritrovarlo disfatto, sconfitto, a pezzi l'aveva cullato per tante e tante notti, a convincerlo che il distacco non aveva distrutto solo lui, ma anche il fratello. Che la sua fuga per aver salva la pelle, la vigliaccheria con cui se n'era andato dal bollente incubo dell'incendio, non l'aveva salvato proprio da niente. Che era caduto dalla padella alla brace, che non era stato lui il solo a pagare per i peccati di quella notte.

Ma sapeva, adesso, che non era successo niente del genere. Che all'inferno – quell'inferno che credeva di aver abitato, seppur parallelamente e a distanza, insieme a Clint – c'era stato solo lui. Che il caos che gli imperversava tra gli occhi apparteneva a lui soltanto. Che il tempo e le esperienze divergenti avevano scavato una trincea lunga chilometri e profonda altrettanto a separarlo da quello sconosciuto che gli assomigliava così tanto.

“Sono contento che la mia idiozia sia per te continua fonte di sorpresa e meraviglia,” lo canzonò in risposta, ma si vedeva lontano un miglio che non aveva voglia di perdersi in chiacchiere. “Potrai ridermi in faccia quando e se Natasha deciderà di tradirmi.”

“Di nuovo,” si sentì di sottolineare. L'attaccamento a quel ridicolo parruccone truccato che gli aveva fatto scampare la forca lo offendeva ad un livello talmente profondo da fargli girare la testa.

“Non è questo il momento,” lo zittì ancora. “Come facciamo ad entrare?”

Serrò le labbra e tacque perché l'idea di quel protettore che era arrivato a sostituirlo nel ruolo di difensore del fratello lo faceva imbestialire, il fastidio così concreto da artigliargli lo stomaco a più riprese.

“C'è un ingresso laterale che conduce alla sagrestia vecchia,” suggerì la donna.

L'occhiata furibonda che le lanciò dovette tradire la sua giusta intuizione perché Clint lo spronò a incamminarsi sul lato cui la rossa aveva alluso. Si maledì con violenza, riprendendo a torturarsi i polsi sulle corde troppo ben annodate per sperare di slegarle con la sola pressione dei propri muscoli – gliel'aveva insegnato lui, a fare i nodi migliori. Non era esilarante il modo in cui le sue stesse azioni, a distanza di anni, tornavano a fotterlo tanto platealmente?

“Dev'esserci un modo per assicurare a chi sta là dentro che stiamo dalla loro parte,” puntualizzò evasivamente il fratello. Ovviamente il modo c'era, ma non gliel'avrebbe confessato neppure tra un miliardo di anni. “Non hai più nulla da perdere, Barney.”

“Non chiamarmi così.” Sentirgli quel nome in bocca lo faceva avvampare di rabbia, gli scatenava addosso un terremoto che lo sconquassava da capo a piedi, attivando ogni singola terminazione nervosa.

“Non hai più nulla da perdere, scemo. Così va bene?”

Barney alzò gli occhi al cielo scuro e ancora offuscato dal fumo dei fuochi d'artificio, ma non disse niente.

“Vi hanno lasciato la parte più inutile del piano, te ne rendi conto?” Riprese Clint mentre avvicinavano la porta della sagrestia sul lato più buio della cattedrale. “Pensi davvero che avrebbero condiviso la gloria del colpo di stato con dei criminali comuni?”

Per quanto si sforzasse di far finta di niente, le parole del fratello lo sferzarono impietose.

“Per cosa te la sei presa? Per il colpo mancato o per i criminali comuni?”

“Me la prendo perché sei un fottuto coglione.” Risolversi alle offese era la reazione più spontanea, quella che gli veniva senza starci a pensar troppo.

“Non ti ricordavo così adorabile.”

“Non ti ricordavo così brutto.”

“E questo, adesso, che cazzo c'entra?”

“Mi andava di dirtelo.”

“Perché non ti fai venir la voglia di dirmi come si entra nella sagrestia?”

Sigillò di nuovo le labbra per impedirsi di rispondere... e rieccolo il sospetto sempre vivo che gli faceva mettere in dubbio la sua stessa risolutezza. Il sospetto che prima o poi avrebbe parlato, avrebbe ceduto. Perché a quel suo stupido fratellino non riusciva a dir di no, non troppo a lungo almeno.

“Tienilo sotto tiro.” Stavolta era stata la donna a parlare e ad intromettersi. Ancora.

Guardò Clint scoccarle un'occhiata confusa, ma poi farsi determinato e annuire. Lo trascinò proprio davanti alla porticina sbarrata dall'interno e si fece leggermente da parte, coperto dalle tenebre che abbracciavano i fianchi della cattedrale. Sentì la corda dell'arco tendersi, lo stelo della freccia scricchiolare del tutto impercettibilmente.

La donna gli rimase sull'altro lato e quando Clint fu in posizione ricevette il via libera per bussare – tre forti colpi sulla superficie di legno massiccio.

Barney se li sentì rimbombare fin nello stomaco mentre anche la rossa si lasciava inghiottire dal buio per far sì che l'unico allo scoperto, e per di più con un dardo acuminato puntato addosso, fosse proprio lui. Trattenne il respiro, sforzandosi di apparire tranquillo. Sapeva fin troppo bene che l'intero corpo armato dell'Idra era stato allertato l'attimo in cui i colpi avevano percosso la porta. La guardia di stanza all'ingresso aveva segnalato ad una più in alto, quella alla vedetta sul tetto della cattedrale, e quella ancora alla vedetta stazionata sul tetto del palazzo proprio dirimpetto alla porta della sagrestia. L'oscurità era decisamente dalla sua, ma anche un tiratore inesperto avrebbe potuto localizzarlo alla meno peggio.

Avvertì dei passi, dapprima leggeri e poi sempre più pesanti e strascicati. La celata della porta si aprì bruscamente facendo tremare i cardini e lo scintillio di un paio d'occhi arcigni si disegnò nel rettangolo nero.

“Va' via, pezzente, non abbiamo niente da dare stasera,” comandò perentorio.

Barney sentì i nervi tendersi di nuovo in una contrazione improvvisa, ma non disse niente.

“Ho detto va' via,” insisté la guardia. “Mi hai sentito, sporco bifolco?”

Le parole gli premevano contro la gola, spingendo per uscire, per convincerlo a pronunciarle e cedere alle richieste del fratello. Se solo ci fosse stato qualcun altro dietro quella fottuta grata, se solo l'avesse aiutato ad ignorarlo...

“Se non te ne vai entro cinque secondi, giuro ch-”

Hail Hydra,” formulò lentamente con la fatalità di quelle stupide sillabe che gli scivolarono giù di bocca per sancire la sua sconfitta.

Gli occhi sembrarono immobilizzarsi e poi una smorfia deformò lo spazio che li separava, subito seguita dall'inconfondibile rumore di uno sputo. Gli parve di avvertire i respiri trattenuti di Clint e della donna che lo affiancavano nell'ombra mentre la porta si apriva con un cigolio distante.

“Sei uno dei tirapiedi di Prickspot?” La guardia si era rivelata essere un omone alto e ben piazzato, tanto muscoloso quanto grasso, con una rada barba biondiccia sparsa sulle guance molli.

“Proprio uno di quelli,” confermò muovendo un passo oltre la soglia nera.

Aveva deciso di colpirlo nel momento esatto in cui gli aveva dato del pezzente e adesso che ce l'aveva davanti non poteva proprio esimersi dall'abbandonarsi a quella necessità impellente che gli faceva pizzicare i pugni chiusi. Ma vedendosi privato del suo gancio destro, non poté far altro che usare la testa. Letteralmente.

Prese una breve rincorsa e lo colpì con una violenta testata dritta sul setto nasale che scricchiolò sinistramente fino a rompersi del tutto. L'uomo indietreggiò per il contraccolpo e mise mano alla spada appesa alla cintura che gli pendeva di sbieco sopra le gambe.

Gli parve di avvertire qualcosa nell'aria, uno spostamento ridicolo, ma bastò quello per fargli fare un passo di lato e liberare così la linea di traiettoria per la freccia di Clint.

Il dardo provvidenzialmente scoccato trovò il proprio obbiettivo nel collo della guardia. Barney lo guardò accasciarsi a terra in un gorgoglio indistinto che affogò le sue ultime parole.

Clint invase il suo campo visivo fatto di ombre e sagome a malapena distinguibili. Lo scrutò mentre rivolgeva una riluttante occhiata al cadavere per poi costringersi ad indirizzarne un'altra verso di lui.

“Da che parte?” Chiese soltanto, estraendo la freccia dal suo bersaglio.

“Continuo solo se mi sleghi,” la condizione era talmente inaspettata che sorprese anche se stesso.

“Non credo sia la cosa più saggia da fare, Prickspot.”

Il nomignolo deformato gli riempì le orecchie di uno stridore insopportabile.

“L'hai detto tu che ci avrebbero comunque escluso dai frutti di questo... colpo di stato del cazzo,” si sentì ribattere.

“Adesso mi dai ragione?”

“Non ti sto dando ragione. Ormai mi avete messo in questo fottuto guaio, il minimo che posso fare è cercare di uscirne vivo,” stabilì, anche se non era del tutto sicuro che fosse davvero quello il caso.

Il fratello ebbe a malapena il tempo di cercare i suoi occhi che l'oscurità nell'androne si fece totale: la donna aveva chiuso la porta per non destare sospetti.

“Dobbiamo darci una mossa,” sussurrò inudibile. “Qualcuno ci verrà incontro.”

“Grazie al cazzo,” le rispose brusco. Non aveva tempo per chi si dilettava di ribadire l'ovvio.

“Dammi un coltello,” le si rivolse Clint, scuotendosi dal pensieroso silenzio in cui era piombato.

Gli sfuggì un microscopico sorriso mentre il fratello lo faceva voltare per tagliare le corde che gli bloccavano i polsi.

Si chiese se avesse davvero intenzione di aiutare lui e quella spostata della Stanza Rossa a salvare il parruccone incipriato che gliel'aveva portato via. Avrebbe piuttosto volentieri combattuto per far sì che non accadesse niente del genere, ma l'oscurità sembrava impastargli le idee, oltre che i movimenti. Anche il desiderio di rivalsa su quella setta di assetati di privilegio gli bruciava nello stomaco: si era mescolato a quella gente con obbiettivi nebulosi e adesso era pronto a tradirli per ragioni altrettanto indefinite. Per superbia, o orgoglio... forse erano il conflitto e la volontà di ribaltare i pronostici le uniche molle di propulsione che lo spingevano ad andare avanti. E adesso il conflitto con Clint era impallidito di fronte alla fervore del fratello nel ritrovare il suo prezioso padre adottivo – era una battaglia, quella contro di lui, che avrebbe combattuto da solo.

I legacci si afflosciarono a terra e Barney si accodò a Clint e alla donna che si erano appena fermati sulla soglia della sagrestia. La stanza era pressoché immersa nel buio più totale, illuminata da una singola candela ormai sul punto di consumarsi del tutto.

“Quanti sono?” Domandò la rossa, rivolgendosi direttamente all'arciere.

“Uno alla finestra, uno in piedi vicino alla porta in fondo e un altro addormentato... seduto sul lato opposto,” elencò rapido.

“Mi prendo quello seduto,” si offrì volontario Barney. “Che c'è?” Indovinò l'occhiataccia dell'altro. “Sono disarmato nel caso non te ne fossi accorto.”

“Me ne sono accorto, tante grazie.”

“Allora di che caz-”

Clint l'afferrò bruscamente per un braccio perché le chiacchiere avevano esasperato la donna che era entrata in azione senza aspettare alcun invito.

Si mossero rapidamente, divergendo nelle tre direzioni assegnate in un silenzio di tomba. Con la coda dell'occhio vide la donna correre muta e silenziosa verso il suo obbiettivo: gli saltò addosso per sorprenderlo alle spalle, spezzandogli il collo prima che potesse rendersi conto di cosa stava per succedere. A Clint aveva lasciato la guardia più lontana, quella vicina alla porta, e allora bastò una freccia ben assestata in mezzo alla fronte per assicurarsi che non parlasse prima di morire. Furono talmente rapidi che nessuno dei due uomini dell'Idra ebbe il tempo di realizzare cos'aveva colpito l'altro.

Barney, per conto suo, non poté far altro che portarsi alle spalle della guardia che sonnecchiava nella sedia, recuperare un candelabro carico di mozziconi spenti appoggiato sul mobile a ridosso della parete, e colpirla violentemente alla testa. Sentì il sangue schizzare dalla ferita, imbrattare i capelli stopposi dello sconosciuto, ma non se ne curò. L'importante era averlo messo fuoriuso senza che avesse avuto il tempo di allertare quei gran figli di puttana dei suoi compari.

“Muoviti!” Il sibilo di Clint, già proiettato verso la porta che li avrebbe immessi nell'ampio spazio della chiesa vera e propria, lo costrinse a focalizzare.

Fece per seguirlo, ma uno scricchiolio sinistro riempì l'aria proprio mentre muoveva il primo passo. Si fermò e pestò il piede nel punto in cui l'aveva poggiato. Ottenne ancora un leggero rimbombo.

“Che cazzo fai?” Di nuovo il fratello che veniva a rompergli le palle.

“Non ti pare un tantino strano che questo ciccione fosse seduto proprio in questo punto?” Erano costretti a bisbigliare, ma era come se si stessero urlando contro. Colpì di nuovo il pavimento provocando quel medesimo rumore sordo e poi guardò Clint perché secondo lui la cosa si spiegava da sola.

“C'è un passaggio là sotto,” completò la donna per lui.

“Pure lei è meno stupida di te,” sottolineò Barney che ancora teneva lo sguardo fisso sul fratello. Avrebbe voluto che Clint si fidasse ciecamente di lui, proprio come faceva quand'era piccolo, avrebbe voluto essere degno di quella fiducia e allo stesso tempo il desiderio di tradirlo e fargliela pagare gli faceva pulsare il sangue più rapido nelle vene. Si sentiva come se lo spazio occupato dal suo corpo fosse il punto di convergenza di due correnti opposte, contrarie, d'acqua fredda l'una, calda l'altra, che arrivavano a mescolarsi in gorghi violenti e impossibili proprio al centro della sua persona, rendendo improbabile un qualsivoglia equilibrio. La tensione tra i due estremi era tanta e a Barney pareva di essere come spalmato su una distanza troppo ampia, i muscoli e i nervi tesi e contratti per lo sforzo di racchiudere troppi stimoli diversi e inconciliabili.

“Aiutami a spostarlo invece di offendermi,” lo esortò Clint che aveva infilato il braccio nell'arco per aver libere le mani e spostare di peso la guardia abbandonata sulla sedia.

L'aiutò nell'operazione mentre la donna si occupava di tirar via il tappeto pregiato e sbiadito che ricopriva il pavimento lercio diviso a scacchi bianchi e neri. Una porzione composta da sei mattonelle era visibilmente in evidenza rispetto alle altre. Barney non attese alcun via libera e si inginocchiò a terra per spostare la lastra, ma scoprì che non ce n'era bisogno. Bastò fare pressione verso il basso perché un meccanismo si attivasse col rumore del marmo che struscia sulla pietra, e il coperchio bianco e nero si ritirò lentamente come per magia, rivelando uno stretto passaggio che scendeva verso il basso.

“Chi si offre volontario per scendere all'inferno?” Domandò indicando il cunicolo con un dito.

“Ottima idea, Barney, fatti avanti.” Clint gli fece cenno di infilarcisi e Barney attese che la rabbia lo invadesse di nuovo... ma non successe.

“Fantastico,” commentò secco. “Posso avere almeno qualcosa con cui difendermi?”

“Ti difendo io.”

“Mi stai mandando avanti in un buco di merda!”

Un improvviso spostamento d'aria accanto a loro li avvertì che, di nuovo, la donna aveva ceduto all'impazienza e si era calata nel passaggio senza pensarci una volta di più.

“Bravo,” si complimentò Clint, ribadendo l'ordine di calarsi nel cunicolo. “L'hai fatta incazzare.”

“Quella è sempre incazzata,” si giustificò Barney mentre obbediva alle insistenze del fratello e si pigiava a forza nel pavimento.

Un odore di terra, umido e acqua santa gli riempì il naso non appena toccò terra. Le pareti strettissime erano illuminate da rade torce che dovevano essere state accese non molto tempo prima, segno che qualcuno si era servito della scorciatoia per raggiungere le cripte.

Seguì la rossa che gli camminava davanti; il rumore dei passi di Clint alle sue spalle si mescolò al cigolio pietroso con cui la botola doveva essersi richiusa automaticamente. Un brivido gli corse giù per la schiena.

Proseguirono per svariati metri, assecondando lo snodarsi e il progressivo abbassarsi del passaggio finché alla terza o quarta svolta non apparve uno sbocco che metteva bruscamente fine alla strada. Non era quella la via che gli era stata indicata da uno dei traditori dell'Idra quando gli avevano spiegato come comunicare con loro in caso di emergenza. Sapeva che si nascondevano nelle cripte, che probabilmente si spostavano attraverso le catacombe pagane, ma le sue conoscenze si fermavano al come farsi ammettere all'interno della cattedrale. Nient'altro.

La rossa si era fatta tutta quatta vicina allo sbocco, Clint la imitò e Barney si vide costretto a fare altrettanto se non voleva tuffarsi nella fase successiva di quel piano assurdo completamente alla cieca.

Il cunicolo si era interrotto su un enorme ambiente sotterraneo dal soffitto sorprendentemente alto. Aveva l'aria di una caverna immensa e gli sarebbe sembrata persino naturale se le pareti non fossero state tempestate di loculi rettangolari, ognuno di quelli contenente un sarcofago di fattura diversa.

“Oh cazzo,” sentì Clint esalare, mentre prendevano consapevolezza di essere finiti in un gigantesco ossario incastonato tra le viscere della terra.

Le tombe si moltiplicavano a perdita d'occhio fin dove il buio non se le inghiottiva del tutto, tanto che gli ci volle qualche secondo per ricordarsi di guardare in basso, verso il punto da cui proveniva la poca luce a loro disposizione. Abbracciò il gruppo di uomini in divisa con lo sguardo e il suo cervello registrò il parlottio sommesso dei soldati a consiglio.

“Hanno Grant,” bisbigliò il fratello. Barney seguì la direzione del suo sguardo e si ritrovò ad osservare un ufficiale privo di sensi, disteso su un tavolaccio di legno che non aveva niente a che vedere col resto dell'ambiente.

Anche la zona bassa della caverna era piena di sarcofagi, ma lo spazio centrale era vuoto ed era lì che l'Idra aveva stabilito il centro delle proprie operazioni. C'erano mappe distese o arrotolate su tavoli o sgabelli, armi gettate alla meno peggio tutt'intorno, feriti addossati alle pareti senza che nessuno sembrasse intenzionato a soccorrerli. Capì allora che l'Idra non aveva neanche preso in considerazione l'eventualità della sconfitta: si erano aspettati di schiacciare gli Stark e lo Scudo ad occhi chiusi, non di dover far fronte ad un contraccolpo tanto brusco. E adesso erano costretti a pagarne le conseguenze.

“Che facciamo?” Finì per chiedere. Per quanto precarie apparissero le condizioni dei congiurati era pur vero che erano solo in tre contro un manipolo di soldati armati fino ai denti.

“Devo trovare lord Phillip,” rispose il fratello, lo sguardo fisso sul formicolio nella parte bassa della caverna, alla disperata ricerca di quel nobilastro da strapazzo che l'aveva cresciuto come un figlio.

“E' probabile che tengano i prigionieri altrove,” si intromise la donna, censurando sul nascere l'ennesima ondata d'odio che prometteva di annebbiargli le idee.

“Allora devo trovare qualcuno che sappia dove si trovano i prigionieri,” soggiunse Clint. “Lì,” indicò un punto alla loro destra, “quello non ha l'aria di far parte dell'esercito.”

Barney si ritrovò ad osservare i due soldati che erano appena entrati trascinandosi dietro un frate. Li guardò finché non li vide sparire in un passaggio che si apriva sul lato opposto dello stanzone, immettendo chissà dove.

“Va bene, allora come diavolo facciamo ad infilarci laggiù?” Chiese Barney in tono pragmatico e un tantino irruento.

“E' pieno di tombe là sotto,” sussurrò la donna.

“Non ti sfugge proprio niente, lady Ovvio.” L'appunto gli valse un'occhiata gelida della rossa che lo fece rabbrividire per la seconda volta nel giro di pochi minuti.

“C'è sufficiente copertura. Ci basta atterrarne uno a testa per indossare le loro divise.” Stava proponendo un travestimento.

“Ci serve un diversivo per distrarli mentre scendiamo,” obiettò perché non voleva proprio dargliela vinta.

“Ci penso io,” intervenne Clint.

Il fratello aspettò di ricevere un cenno d'assenso da entrambi – rapido quello della donna, svogliato il suo – dopodiché si alzò in piedi con l'arco teso e ben tre frecce incoccate allo stesso tempo. Prese la mira per un misero secondo prima di lasciar andare la corda sottile: i dardi andarono a conficcarsi nelle torce tremolanti infisse alla parete dirimpetto alla loro, estinguendole di colpo.

Quel lato della caverna piombò in un buio fitto, denso e subitaneo che attirò l'attenzione di gran parte dei soldati assiepati nello spazio centrale, impedendo loro di distinguere le frecce che erano andate a conficcarsi nel muro.

La donna fu la prima a calarsi giù dal passaggio servendosi delle rientranze scavate ad arte nella parete rocciosa, seguita da lui e poi da Clint. Guadagnarono in fretta la copertura offerta dalle tombe, ciascuno appostato dietro ad un diverso sarcofago.

Si lanciarono uno sguardo d'intesa che scacciò via qualsiasi sospetto sugli interessi reciproci. C'era la sua vita in ballo e non aveva alcuna intenzione di rimanerci secco, in quel maledetto cimitero sotterraneo.

Adocchiarono tre diversi soldati – i più vicini ai vari punti in cui si erano nascosti – e li attirarono nell'ombra e verso il basso per stordirli o ucciderli. Barney fu costretto a schiacciare il suo a terra e a montargli addosso per impedirgli di urlare o estrarre la spada, spremendogli dai polmoni fino all'ultimo respiro finché non smise di dimenarsi. Non si fermò ad assicurarsi se fosse morto o meno prima di cominciare a spogliarlo della divisa, degli stivali e delle armi che aveva addosso. Si rivestì in fretta e furia, sempre accucciato contro la tomba di un qualche vescovo morto almeno trecento anni prima, e quando rialzò lo sguardo anche Clint e la rossa erano si erano messi in tiro. Lei aveva persino indossato il cappello dentro cui aveva accuratamente infilato i capelli, mentre al fratello avrebbe voluto dire che conciato così sembrava ancora più un coglione del solito.

Si rimisero in piedi uno dopo l'altro e uscirono allo scoperto, dividendosi su tre percorsi diversi per non dare nell'occhio: sembravano essersi messi tacitamente d'accordo su quale fosse il miglior corso d'azione. O meglio... Clint e la donna l'avevano fatto e lui si era limitato ad imitarli. Se non altro adesso non era più disarmato come un verme in balia di una fottuta alluvione.

Passò accanto al gruppetto d'uomini ancora a consiglio e per un istante la possibilità di rivelare la presenza di ben due membri dello Scudo (o qualsiasi cosa fossero) gli apparve così allettante da costringerlo a fermarsi in prossimità del capannello.

“Si sono tutti addormentati. In un colpo solo!”

“Stai vaneggiando, Charles, adesso sm-”

“Ve lo giuro, signore! C'è stata come un'esplosione silenziosa e poi una polverina bianca che si posava su tutto...”

“Ti ho detto di stare zitto, soldato.”

“... la gente si è addormentata dopo pochi secondi! Dovete credermi!”

“E se stesse dicendo la verità?”

“Anche tu ti metti a credere alle streghe?”

Gli occhi dell'ufficiale gli si puntarono addosso e per un attimo Barney fu convinto di essere stato scoperto. Lo sguardo dell'uomo, però, rimase vacuo, come se non l'avesse identificato come un estraneo, ma come un membro qualsiasi dell'Idra.

Si scosse a forza dal torpore in cui era precipitato e si costrinse a proseguire in direzione del passaggio attraverso cui i due soldati avevano trascinato il frate. Riaffiancò Clint e la rossa e ricompattarono lo schieramento proprio mentre varcavano la soglia del tutto indisturbati...

… più o meno.

“Siete voi quelli del cambio?”

Nessuno si era accorto della guardia seduta subito alla destra dell'ingresso ed era stata proprio quella ad aprir bocca e a pietrificarli sul posto.

“Sì, siamo noi,” rispose Clint con convinzione mentre la donna retrocedeva impercettibilmente alle spalle di entrambi per non farsi guardare in faccia.

“Grazie al cielo,” esalò l'uomo, rimettendosi in piedi per sgranchirsi le braccia e le gambe, “stavo cominciando ad addormentarmi. Questi gran figli di puttana, ah?”

“Va' a riposarti,” convenne il fratello, “qui ci pensiamo noi.”

La guardia annuì e se ne andò sbadigliando sonoramente, lasciandoli col fiato sospeso.

“C'è mancato poco,” sussurrò Clint con una mano affondata tra i capelli.

Il commento sarcastico gli morì in gola perché lo sguardo era finalmente libero di spaziare in quella seconda caverna, decisamente più ristretta dell'altra, ma comunque rimpinzata di sarcofagi a perdita d'occhio lungo le pareti. La luce soffusa delle torce consumate gettava un'aria spettrale sulla colonna mozza posta nell'angolo più buio dell'ambiente; al moncone di pietra erano state inchiodate pesanti catene che da essa si dipartivano come lo scheletro di un tendone circense. All'estremità opposta grossi bracciali di ferro stretti attorno ai polsi di uomini dai volti stravolti e irriconoscibili. Solo allora registrò il fetore che permeava l'aria umida, l'odore di deiezioni e sangue che pareva impregnare la roccia che li circondava su ogni lato.

“Merda,” imprecò Clint a mezza voce.

“Quella e qualcos'altro,” confermò Barney, irrigiditosi di fronte allo spettacolo dei prigionieri. Avevano l'aria di essere stati torturati, probabilmente per estorcere loro informazioni riguardo lo Scudo e i loro piani.

Restò immobile di fianco alla donna mentre Clint scattava in avanti per guardarli in faccia uno ad uno, inorridendo ad un paio che – a giudicare dall'odore – dovevano essere già morti, finché non si ritrovò a scuotere quello seduto con le spalle alla colonna. Sembrò quasi che l'udito gli si azzerasse nel momento in cui vide le rughe di preoccupazione sul volto del fratello distendersi per un misero attimo e poi ricontrarsi.

L'aveva trovato. L'uomo coi capelli radi e tagliarti corti e il colletto arruffato era lord Phillip Coulson, l'aristocratico che aveva ripescato Clint dalle viscere di una prigione qualunque salvandolo da morte certa. L'aveva visto soltanto una volta, prima d'allora, tanti anni prima: ricordava il volto placido incorniciato dal finestrino di un'elegante carrozza; ricordava il silenzio che gli aveva riempito la testa quando, nel giovane che gli sedeva davanti, aveva riconosciuto Clint. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora ad immaginarsela, quella gabbia stuccata d'oro che gli sfrecciava davanti portandosi via suo fratello. Lo smarrimento era stato tanto e tale da impedirgli di memorizzare lo stemma della carrozza e, quando aveva fatto domande al villaggio più vicino, si era guadagnato solo occhiate di diffidenza e disprezzo. Dovevano essere stati in viaggio, però, perché quella carrozza non l'aveva più rivista.

Il sangue gli pulsava furioso nelle tempie e il battito del cuore gli rombava nelle orecchie come un tamburo impazzito.

Pensò che quello era il suo posto, che non aveva chiesto a nessuno di essere sostituito tanto brutalmente, che era il ruolo che gli spettava e che gli era stato portato via dal giorno alla notte, tra le ceneri e le macerie dell'accampamento dei saltimbanchi inghiottito dalle fiamme.

“Dobbiamo liberarli tutti,” disse Clint, serio e determinato, rialzando il capo.

La donna si fece finalmente avanti brandendo uno dei suoi dannati coltelli, prodigandosi per liberare dalle manette l'uomo trascinato a forza fuori dal suo torpore carico di confusione e incoscienza.

“Barney, ci serve una mano!” Di nuovo il fratello a lanciargli un'occhiata urgente.

Il suo corpo reagì alle insistenze prima ancora del suo cervello, tanto che quando mosse il primo passo non sapeva cos'avrebbe detto o cos'aveva davvero intenzione di fare.

“Non possiamo portarli via tutti. A malapena riescono a camminare,” ribatté, sfilando dalla cintura il pugnale corto dell'ufficiale che aveva svestito poco prima per aiutare la donna a liberare le figure accasciate contro la colonna.

“Ce la facciamo,” rispose Clint, secco.

“Ha ragione,” credette di aver sognato ma era stata la rossa a parlare e gli stava dando ragione.

“Ti ci metti anche tu adesso?” Ribatté il fratello, l'agitazione che gli aveva deformato i tratti del volto.

“Ci rallenteranno troppo,” stabilì duramente.

“Ne prendiamo uno a testa e-”

“Andate,” il frate, l'ultimo arrivato nella cripta che fungeva da carcere dell'Idra, si stava massaggiando i polsi appena alleggeriti dalla morsa gelida dei bracciali di ferro. “Ci penso io.”

Capì, dalle occhiate poco sorprese che Clint e la donna gli lanciarono, che doveva essere un membro dello Scudo, qualcuno con un minimo di credibilità e non un pio religioso qualunque.

Vide il fratello annuire mentre rimetteva in piedi il padre adottivo che non sembrava capace di focalizzare lo sguardo spento su niente in particolare.

“C'è con la testa, almeno?”

“Sta' zitto, Barney. Ce ne dobbiamo andare.”

“Grazie al cazzo.”

La rossa si era rimessa in piedi dopo aver fatto il giro della colonna; gli unici a non aver ricevuto il trattamento erano i prigionieri già cadavere.

“Non possiamo prendere la direzione da dove siamo venuti,” obiettò la donna.

“C'è un altro passaggio da quella parte,” la informò Clint con un rapido cenno del capo.

“Come facciamo a sapere che non è un vicolo cieco?” Ribatté lei.

“Non possiamo,” stabilì secco, muovendo senza più esitazioni in quella direzione.

Stava per varcare l'arco di pietra che li avrebbe immessi in un altro spazio ancora, quando la strada fu loro sbarrata da un paio di guardie che venivano proprio da lì.

“Chi vi ha dato ordine di liberare lord Coulson?” Interrogò immediatamente il primo, che sfoggiava un grosso bernoccolo sulla fronte.

Barney agì insieme alla rossa e in pochi attimi le guardie furono neutralizzate senza che facessero troppo rumore. Ma stavolta non erano riusciti a mantenere il silenzio.

“Andiamo,” insisté Clint, impossibilitato ad imbracciare il suo arco perché troppo occupato a trasportare Coulson che a malapena si reggeva sulle proprie gambe.

Seguirono la scia segnata dalle torce accese, spente o in procinto di estinguersi del tutto, passarono accanto e sopra ad infiniti sepolcri, in stanze via via più strette e soffocanti, salendo manciate di gradini e poi scale più lunghe, riaffiorando con estenuante lentezza verso la superficie della terra. Finché non si ritrovarono davanti ad un elegante portone in cui erano state incise alcune scene bibliche – Barney non esitò ad aprirlo con una spallata decisa.

Le solenni campate della cattedrale si aprirono sulle loro teste, altissime ed imponenti, a ridar loro tutta l'aria di cui si erano sentiti privati nei cunicoli delle cripte sotterranee.

Ma i passi che rimbombavano sul mosaico dei pavimenti li informarono che non erano soli, che altri membri dell'Idra erano stati allertati della loro presenza.

“Il portone,” si ritrovò a dire, puntando immediatamente in quella direzione.

Una botola vicina all'altare maggiore, intanto, aveva cominciato a rivomitare soldati nella zona dell'abside, uomini che si guardarono attorno spaesati finché non li ebbero individuati in corsa lungo una delle navate laterali.

“Più veloce!” Sbraitò, tirando al massimo.

Ma quando i fumi dell'ansia si furono diradati, si accorse che c'era solo la rossa davanti a lui perché Clint era rimasto indietro rallentato dal peso morto di quel maledetto parruccone inutile. Si arrestò di colpo, voltandosi verso il fratello con sguardo furente.

“Andiamo, Clint! Che cazzo ti salta in testa?”

Gli uomini dell'Idra stavano per raggiungerli – erano proprio là in mezzo, ostacolati solo dalle panche che affollavano lo spazio antistante il palco su cui era costruito l'altare. Gli sarebbero stati addosso in pochi secondi.

“Ce la faccio! Va'!” Lo esortò il fratello.

Una rabbia nuova, dal sapore ben diverso, lo riempì da capo a piedi. Perché quell'idiota di Clint sapeva che non ce l'avrebbe fatta e nonostante tutto lo esortava ad andare avanti, a convincerlo a lasciarlo indietro per aver salva la pelle.

“Sei il solito coglione!” L'imprecazione gli incespicò giù dalle labbra mentre tornava indietro per aiutarlo a sollevare Coulson e a trascinarlo giù per la navata e verso il portone laterale che la donna stava spalancando sulla notte. “Forza, forza!” Lo incitò perché il rumore delle pistole caricate riempì la cattedrale insieme alle urla degli uomini dell'Idra, sempre più veloci, sempre più vicini.

“Sto correndo, cazzo!”

“Corri più veloce, allora!”

“Grazie al-”

“Taci, porco culo!”

Annasparono finché la deflagrazione di uno sparo non fece tremare l'aria immobile. Il proiettile era andato a scheggiare una delle colonne che delimitavano la navata alla loro sinistra.

“Fortuna che hanno una mira di merda!” Esclamò Clint con forzata allegria, ma i passi erano sempre più prossimi. Quasi gli sembrava di poter avvertire il sibilo delle lame estratte dai loro foderi.

Un istinto antico come la vita e la morte gli si risvegliò in petto, una sensazione così familiare da fargli scorrere il sollievo nelle vene. Gli sembrò di avere ancora tredici anni, di essere impegnato in una folle corsa attraverso le case diroccate di un villaggio in cui abitava solo la miseria, per sfuggire ai gendarmi che li stavano inseguendo. Avevano rubato solo un paio di mele e una pesca che avevano intenzione di dividersi, ma non avevano avuto il tempo di gustarsele perché erano stati sorpresi un attimo dopo.

E adesso dovevano correre, correre se volevano salvare la cena e la pelle e Clint gli era proprio davanti e faceva fatica, arrancava.

Agì prima di poter capire fino in fondo cosa stesse facendo. Spinse il fratello insieme al suo inutile fardello verso il portone presso cui la donna aspettava con un braccio teso. Continuò a sospingerlo da dietro finché una sciabolata non lo raggiunse alla schiena, costringendolo a voltarsi di scatto.

“Barney!” Il grido inorridito di Clint.

“Corri!” Gli urlò contro mentre estraeva la spada sottratta al soldato derubato nella cripta.

“No!”

La protesta del fratello venne soffocata dal fragore delle due lame che si scontravano. Respinse l'uomo dell'Idra dopo averlo trafitto al collo con una finta sconclusionata e, prima che i compagni del soldato tornassero all'attacco, ebbe appena il tempo di rimettersi a correre verso l'uscita che Clint aveva ormai raggiunto.

“Vai! Ti seguo!” Ordinò, ma già sapeva che era una bugia. E anche Clint ne era consapevole.

“Non ti lascio! Forza, muoviti!”

“Per una volta nella tua miserabile vita, dammi retta!”

“Ho detto-”

Gli fu addosso con un cazzotto dritto al volto che lo spedì con violenza oltre la soglia insieme a Coulson e alla donna che si era fatta avanti per contrastarlo. Ma non aveva capito le sue intenzioni... solo Clint era riuscito a farlo.

Lasciò andare la spada e afferrò l'anta del portone, cominciando a spingere con tutta la sua forza per sigillarlo. Non sarebbe stata una porta sbarrata a fermare l'Idra, ma sicuro li avrebbe rallentati.

“Barney!” Lo sguardo inorridito di Clint si disegnò nello spiraglio sempre più sottile che dava sull'esterno.

“Leva il culo di qui.” L'uscita stava per serrarsi definitivamente; il sangue gli colava dalla ferita alla schiena e i soldati incombevano ormai alle sue spalle.

“Bar-”

L'espressione impallidita del fratello sparì insieme alla cupa volta del cielo.

Si chinò a raccogliere l'arma che aveva gettato a terra e si voltò per fronteggiare l'orda che stava per abbatterglisi addosso come il cavallone impazzito di un mare in tempesta.

Si preparò a combattere.




Note: tutto d'un fiato e tutto dal punto di vista di Barney. Spero che le sue motivazioni e la sua personalità abbiano senso anche nella loro insensatezza XD è uno dei capitoli che mi hanno dato più grattacapi: cambiare prospettiva mi ha decisamente aiutata.
Adesso c'è da riportare Coulson al sicuro e di affrontare quel che resta della battaglia nella capitale. Mancano ancora un paio di giri alla fine della corsa (:
Ancora grazie a chi legge e commenta e alla sociabeta Eli :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV ***


Capitolo 24
~

 

Aveva lasciato cadere l'arco e la faretra ed era rimasto a guardare con maltrettenuta apprensione mentre l'infermiera si affaccendava al capezzale di lord Phillip. All'inizio aveva creduto di essere indietreggiato fino alla parete per non ingombrare il passaggio, ma poi si era accorto che non sarebbe stato capace di tenersi saldamente in piedi senza il rigido sostegno del muro alle sue spalle.

La stanza era una piccola mansarda collocata sotto il tetto dell'ala ovest del palazzo reale; si apriva su uno stretto corridoio tempestato di porte che avrebbero condotto ad altrettante camere, tutte riservate alla servitù, o almeno parte di quella.

Il tragitto dalla cattedrale alla dimora regia era stato talmente rapido e confuso da impedirgli di rintracciarlo con precisione nella sua testa. Ricordava di essersi concentrato sulla figura di Natasha che gli procedeva davanti – armata e pronta ad entrare in azione in caso di pericolo –, di essere passato accanto al piazzale silenzioso antistante l'imponente edificio senza degnare né l'uno né l'altro di uno sguardo, di aver ridotto gli stimoli del mondo esterno al peso dell'uomo che gli rallentava i movimenti.

A Barney ancora non riusciva a pensare. Temeva che se avesse chiuso gli occhi l'espressione determinata e furente su cui si era sigillato il portone della chiesa l'avrebbe tormentato per sempre. La faccia gli faceva ancora male per il cazzotto che il fratello gli aveva somministrato come antidoto alla sua ostinazione.

“Come sta?”

Era stata la sua voce a parlare. Le parole gli erano uscite di bocca senza preavviso nel momento in cui la donna aveva finito di medicare alcune ferite sul torso scoperto di lord Phillip. Gli appariva tremendamente pallido, riverso com'era sul letto di un paggio o una cameriera, più bianco delle lenzuola su cui era stato frettolosamente adagiato.

Dopo aver riguadagnato l'interno del palazzo attraverso il passaggio delle scuderie – come il colonnello Fury aveva loro suggerito di fare – erano stati condotti senza una parola di più nell'ala ovest, perché era lì che l'ordine si era trincerato per ridurre la superficie dell'area che avrebbero dovuto sorvegliare e difendere da eventuali intrusioni nemiche.

Non uno dei membri dello Scudo con cui avevano parlato prima di quella notte si era fatto vedere. L'uomo barbuto che li aveva accompagnati fino al corridoio delle stanze dei domestici li aveva lasciati soli dopo averli aiutati a sistemare lord Phillip sul letto. Pochi minuti e l'infermiera era arrivata a sostituirlo, evidentemente allertata dal collega, armata di una bacinella d'acqua calda, garze e una piccola borsa di pelle dentro cui tintinnavano boccette di vetro tutte le volte che veniva spostata.

La donna non aveva offerto spiegazioni; né lui né Natasha ne avevano chieste. Si erano limitati a scambiare un paio di muti sguardi che non si preoccupavano più di cancellare la tensione.

“Vado a cercare di capire cosa sta succedendo,” gli aveva detto prima di defilarsi silenziosamente, lasciandolo con l'infermiera ancora impegnata a fare il possibile per l'uomo che gli aveva a suo tempo salvato la vita.

La donna, che indossava una logora divisa da cuoca, si decise finalmente a prenderlo in considerazione.

“Ha subito diversi traumi,” spiegò, rispondendo alla sua domanda con consistente ritardo. “Danni interni, anche, ma non ho gli strumenti per accertarmene. L'addome è gonfio e-”

“Ce la farà?” Non aveva bisogno di specifiche mediche, solo di capire se lord Phillip sarebbe sopravvissuto per vedere l'alba ormai imminente e magari quella successiva e quella dopo ancora.

“Troppo presto per dirlo,” rispose la donna in tono asciutto. Aveva l'aria stanca di chi non si è fermato un secondo per tutta la notte. Clint capì che dovevano aver avuto il loro bel da farsi, lì a palazzo, ma non riusciva comunque ad affrontare lucidamente la scarsezza dei mezzi a loro disposizione, non quando ne andava della sopravvivenza di lord Phillip. “Mi dispiace,” la sentì aggiungere, forse perché si era accorta del suo turbamento. “Fategli bere un po' d'acqua con cinque gocce di questa soluzione,” gli mostrò una boccetta in cui ondeggiava un liquido scuro, “ogni tre ore”.

Clint annuì, incapace di articolare niente di sensato. L'istruzione le era uscita in modo superficiale, come se le circostanze fossero tali da rendere quegli inutili dettagli quotidiani una battuta di spirito che non faceva ridere. Lo Scudo era ancora occupato a far fronte all'attacco dell'Idra che, ne era piuttosto sicuro, non intendeva arrendersi tanto facilmente.

La testa era un macigno e i pensieri gli si confondevano nel cervello mentre la donna si allontanava, lasciandolo di fatto solo in compagnia di lord Phillip. Raggiunse il letto con pochi passi barcollanti e osservò il viso dell'uomo, cereo e così diverso da come lo ricordava. Non avrebbe mai potuto immaginarselo in uno scenario tanto squallido, con la camicia strappata e macchiata di sudicio e sangue ammucchiata in un angolo del pavimento, il busto ricoperto di lividi e ferite di varia entità, le più gravi fasciate alla meno peggio dall'infermiera che se n'era appena andata.

Si sforzò di ricordarlo nel salotto in cui era solito intrattenere i suoi ospiti con vini, sigari, pasticcini al limone, con quel ridicolo ritratto che aveva fatto fare del capitano Rogers, ma non ci riuscì. Erano scene che appartenevano ad una vita diversa e lontanissima da quella che stava vivendo in quel momento; faceva fatica a capacitarsi del qui ed ora e la stanchezza – che adesso cominciava a pesargli sugli occhi e sulle spalle – non aiutava affatto.

“Non farmi brutti scherzi,” si ritrovò a bisbigliare, molto più informalmente di quanto non avesse mai fatto.

Tutte le volte che i pensieri e le considerazioni sfioravano zone troppo oscure, Clint si obbligava a ritrarsi bruscamente indietro. Perché se si fosse lasciato andare al vortice buio della propria disperazione, non ne sarebbe più uscito. All'eventualità che lord Phillip non potesse farcela, che quindi Barney si fosse sacrificato per niente, non poteva neanche pensare.

Fu costretto a mettersi seduto sul bordo del materasso quando un conato di vomito gli risalì su per la gola. Inspirò a fondo e cercò di ignorarlo, di placarsi, di focalizzare su qualche dettaglio reale e concreto che gli impedisse di fluttuare incoscientemente sul flusso confuso degli eventi e delle reazioni che gli avevano scatenato dentro.

Passi leggeri arrivarono a fargli compagnia: Natasha ricomparve sulla soglia della camera, anche lei visibilmente provata – gli occhi cerchiati e più scuri, le labbra spaccate all'angolo della bocca, i lividi delle colluttazioni che cominciavano ad affiorare sulla superficie bianchissima della sua pelle.

“Che ti hanno detto?” Le chiese con urgenza, perché distrarsi con altro, con questioni ben più immediate e attive, era diventata improvvisamente una necessità inderogabile.

“A quanto pare Stark ha drogato mezza città,” rispose lei con voce calibrata. La guardò mentre recuperava una sedia sbilenca abbandonata nei pressi della finestra di tela, la sistemava davanti a letto e vi prendeva finalmente posto. La schiena parve incurvarsi di colpo sotto la pressione dello sfinimento.

Trovava piuttosto ridicolo il modo in cui il mondo pareva appesantirsi di colpo tutte le volte che smettevano di correre, fuggire, inseguire. Era come se la reale portata di quel continuo sperpero di energie si palesasse ad entrambi solo quando si fermavano; non prima. Bastava spezzare l'incantesimo dell'azione per precipitarli nella più sfiancata stanchezza.

“Drogato... mezza città?” Fece una smorfia. “Forse devo solo dormire, ma non credo d'aver capito... un cazzo,” biascicò. Ricordava, però, la nebbia bianca che avevano visto avvolgere l'ingresso del palazzo reale quando non erano che appena arrivati alla tesoreria. Anche quel dettaglio gli appariva lontanissimo nel tempo.

“Una sostanza inventata da lui,” si limitò a spiegare, facendo vagare lo sguardo da lui a lord Phillip e viceversa. “Unita ad un altro congegno, una sorta di... soffione, credo. Sono riusciti a mettere a dormire gran parte della folla prima che i cancelli venissero divelti.”

“Per quanto?”

“Non lo so. Hanno portato via alcuni dei soldati e degli ufficiali mescolati alla gente per aizzarli alla ribellione. Sperano che senza istigazioni, chi non era coinvolto se ne torni a casa non appena l'effetto del sonnifero si esaurirà.”

“Dove li hanno portati?” Non sapeva nemmeno perché gli importasse.

“Non me l'hanno detto,” spiegò brevemente con una leggera scrollata di spalle. “Sono quasi tutti impegnati a fortificare gli accessi all'ala ovest. Lady Carter è andata a cercare rinforzi al quartier generale.” Di cui, tra l'altro, non avevano ancora scoperto la collocazione.

“Per quanto credi che durerà ancora?” Perché se si soffermava a pensarci, a tutta quella storia non vedeva una fine. Quella che gli si presentava davanti era la prospettiva di una battaglia da combattere ad oltranza.

“Non lo so,” cercò i suoi occhi, rivolgendogli una muta domanda che Clint non riuscì a decifrare. “Altre truppe di traditori stanno convergendo sulla capitale. Non è finita... non ancora.”

La seconda carica da parte degli uomini dell'Idra si stava avvicinando, quindi, e lo Scudo avrebbe avuto bisogno di tutte le forze a sua disposizione se voleva avere la meglio e salvare quel che restava della dinastia Stark.

“Fury e Stark stanno escogitando altro per... massimizzare i mezzi a nostra disposizione,” aggiunse Natasha, come se quello fosse uno spiraglio abbastanza roseo da fargli rivedere le sue lugubri aspettative.

Rimasero in silenzio a lungo, scrutandosi a vicenda o divergendo la loro attenzione su lord Phillip, sul suo respiro pacato e ancora irregolare.

“Dovresti riposare,” suggerì lei, “posso stare io con lui.”

“Non cambierebbe niente.”

“Hai bisogno di dormire.”

“Anche tu.”

“Posso resistere.”

“Anch'io, se è per questo.”

Si voltò a guardarla giusto in tempo per scorgere il lampo d'irritazione che le aveva rianimato gli occhi, ma fece finta di niente. Si ripromise di non parlare, perché troppe cose gli si agitavano in petto per permettergli di pensare linearmente. Avrebbe corso il rischio di pronunciare parole che non pensava, di muoverle accuse che riteneva infondate.

Eppure il silenzio era complice della confusione e più pensava e più quell'insopportabile sensazione d'affanno cresceva e si gonfiava.

“Come ci riesci?” Le chiese quand'ormai gli sembrava che non ci fosse più aria nella stanza.

Natasha ricambiò con uno sguardo perplesso, perché non aveva colto il senso di quell'allusione. Ma poi, poco a poco, vide il suo viso riassorbire lo smarrimento e l'espressione distendersi senza alcun sollievo.

“Non ci riesco,” confessò dopo un attimo d'esitazione.

Di tutte le cose che aveva fatto quella sera e che minacciavano di tornare a tormentarlo, l'aver ucciso era in cima alla sua lista perché, tra le tante, era la più impersonale di tutte.

“Ci ripensi... mai?” Si era aggrappato a quella conversazione nella precaria speranza di sentirsi ancorato a qualcosa. A qualcuno.

“A volte,” ammise, ma non gli parve soddisfatta della risposta. “Spesso,” si corresse infatti. Si era seduta più compostamente sulla sedia, come se il dialogo richiedesse maggiore rigidità. “Non ti ci abitui mai del tutto.”

“Quante volte l'hai...”

“Non lo so. Ho perso il conto.” In un altro momento l'avrebbe presa in giro per l'esagerazione, ma in quello non poté far altro che crederle ciecamente.

“Ti ricordi tutte le loro facce?”

“No... solo alcune.” Clint realizzò che non le faceva piacere parlarne, che estorcerle una parola per volta era come una lenta tortura. “Devi solo imparare a conviverci.”

“Suona più facile a dirsi che a farsi,” l'accusò debolmente, tentando un sorriso che non convinse nessuno dei due.

“Uccidere è più rapido che ferire, stordire o imbavagliare. E' più pratico.” L'atteggiamento gelido e pragmatico che aveva assunto, invece che inquietarlo, lo rassicurò perché riportava quel groviglio di eventi impossibili ad una dimensione tutta materiale, di azioni e reazioni, di scelte inderogabili.

“Forse se-”

“No, Clint,” Natasha l'interruppe bruscamente. “Salvare la vita a quella gente avrebbe significato rallentare... tutto. E' già tanto essere riusciti a tirar fuori lord Coulson.”

Ma non Barney. La consapevolezza gli balenò davanti agli occhi con l'ineluttabilità delle cose tanto reali quanto orribili. Forse ce l'aveva fatta a scappare da un'altra uscita, magari era stato capace di far fronte all'attacco degli uomini dell'Idra. Poteva essere ancora vivo. Poteva aver bisogno del suo aiuto.

“Alle volte puoi solo scegliere tra una brutta scelta e una scelta ancora peggiore,” riprese Natasha. “Ci sono situazioni in cui devi per forza giocarti una parte di te.”

Compromettersi, di questo stava parlando. Compromettersi quando ormai si è messi alle strette, quando non si sa più dove sbattere la testa, quando uscirne in modo pulito non è altro che un'illusione bella e buona. Un sogno confortante e irreale in egual misura.

“Puoi convivere con il peccato di certe cattive azioni, ma non con il peso di altre.” La voce della donna era ormai solo un soffio.

Clint deglutì a fatica, cercando di ricacciare indietro il nodo che gli aveva ingombrato la gola. Fu solo quando la guardò dirigere lo sguardo verso lord Phillip, disteso sul letto sul quale era ancora seduto, che capì cosa intendesse.

Avrebbe potuto salvare gli uomini che aveva ucciso in nome di un corso d'azione più rapido, ma avrebbe significato arrivare troppo tardi, perdere lord Phillip, magari mettere in pericolo la vita di Natasha, Barney, se stesso. Poteva sopravvivere al peso di quelle morti, ma non a quella del suo protettore, della gente a cui tutto sommato voleva bene. Aveva rinunciato alla propria integrità morale pur di non dover rinunciare a lord Phillip, pur di non fallire nel salvare chi l'aveva a sua volta salvato tanti anni prima.

No. La portata di quella delusione, di quel senso di colpa, non gli avrebbe permesso di vivere. Se lo sarebbe portato dietro come un'ombra soffocante per il resto dei suoi giorni. Anche i volti anonimi dei banditi dell'abbazia, dei soldati dell'Idra che aveva eliminato l'avrebbero accompagnato fino alla fine, ma non avrebbero pesato così tanto sulla sua coscienza. Non gli avrebbero impedito di vivere, di respirare.

“Non devi farlo per forza.” Si accorse che Natasha lo stava guardando dritto negli occhi. “Non dopo stanotte.” Stava cercando di consolarlo... a suo modo.

“Neanche tu,” le ritorse contro, il tono di voce più controllato e pacato.

“E' quello che faccio,” lo contraddisse lei, il fantasma di un sorriso amareggiato ad incresparle le labbra. “Da sempre.”

“Non sei più obbligata a tornare alla Stanza Rossa,” ribadì, calmo eppure deciso. Voleva farle capire che il caos degli eventi aveva modificato per sempre la fisionomia delle cose, che niente era più come prima, che si era aperto un nuovo margine di libertà. Uno spazio nuovo, vuoto, privo di qualsiasi restrizione, dove avrebbe potuto scoprire se stessa, svestire i panni dell'assassina addestrata alla menzogna per capire chi era veramente. Chi voleva essere.

“Forse non l'ho mai lasciata,” ribatté lei, la voce contratta dalla rassegnazione e dalla rabbia verso se stessa.

Non era una questione di alleanze e schieramenti, realizzò Clint. Si trattava di scelte di vita che si erano ormai fatte carne, sangue ed ossa, tutt'uno con la sua persona. Magari era davvero troppo tardi per districarsi da quella ragnatela, ma... non ci voleva credere. Non poteva farlo. Sapeva che Natasha era molto più di quello e avrebbe fatto di tutto pur di farglielo capire, pur di permetterle di vedersi come la vedeva lui.

“L'unico modo per saperlo è provarci,” finì per dire, cercando i suoi occhi, verdi e profondamente turbati. “Provare non costa niente.”

“Tutto ha un prezzo.”

“No... alcune cose non ce l'hanno,” la smentì. “Alcune cose resistono... e sono quelle che contano davvero.”

Pensò a Barney, all'ultimo sguardo che gli aveva lanciato prima di chiudere il portone della cattedrale, prima di tagliarlo fuori sul sagrato della chiesa avendogli concesso un prezioso vantaggio per mettere in salvo se stesso e lord Phillip.

Era sicuro che fosse davvero odio il sentimento che suo fratello aveva provato quando l'aveva rivisto la prima volta. Delusione, tradimento, abbandono, ossessione erano stati i compagni degli anni che Barney aveva trascorso lontano da villa Coulson e da lui. La vita era stata implacabile con lui, l'aveva costretto ad abbassarsi ai compromessi più tremendi. Sopravvivere significava questo, dopotutto: fare qualsiasi cosa nelle proprie facoltà pur di autoconservarsi. Pur di andare avanti e strappare un altro giorno al destino avverso, mandare la morte al diavolo per un'alba, un tramonto ancora. Odiarlo, odiare quel fratello minore a cui aveva dato tutto e che l'aveva abbandonato per una disattenzione imperdonabile, gli aveva permesso di aggrapparsi alla realtà e di andare avanti, di avere un'ancora forte e concreta che lo tenesse ben saldo nel mondo dei vivi. Era il ricordo che aveva portato con sé all'inferno e forse lo stesso che gli aveva permesso di uscirne... solo qualche ora prima in quella maledetta cattedrale.

Sbatté le palpebre e riprese contatto col presente, ritrovando gli occhi di Natasha puntati nei suoi. Era sicuro avesse capito a che stava pensando, c'era troppa consapevolezza sul suo volto per poter ipotizzare altrimenti. Intuì anche che avrebbe voluto dirgli qualcosa e allo stesso tempo che non l'avrebbe fatto.

“L'infermiera ha detto di dargli cinque gocce di quello insieme ad un po' d'acqua,” si ritrovò a dire, indicandole la boccetta abbandonata sul comodino accanto al letto. “Ogni tre ore.”

La confusione che le lesse in volto sparì in fretta quando colse le sue intenzioni. In fin dei conti aveva davvero bisogno di riposare e, se non l'avesse fatto, la sua presenza e il suo aiuto allo Scudo non sarebbero valsi a niente, esausto com'era.

“Vengo a darti il cambio tra tre ore esatte, va bene?” Decise, perché una sana dormita non avrebbe fatto bene solamente a lui.

Natasha annuì una sola volta mentre Clint si rimetteva in piedi per sgranchirsi le braccia e la schiena.

“La camera qui accanto è libera,” l'informò la donna a mezza voce, lasciando che ne prendesse atto senza aggiungere alcunché.

Recuperò l'arco e la faretra e scoccò un'ultima occhiata a lord Phillip, ancora profondamente assopito, e si sentì stringere lo stomaco alle pietose condizioni in cui versava. Quanto avrebbe dato per avere una di quelle sue orrende parrucche ingrigite da mettergli in testa per farlo assomigliare un po' di più al lord Phillip che ricordava, prima che il mondo decidesse di cadere a pezzi davanti ai suoi occhi.

Districò a forza se stesso dalla stanza, guardò ancora Natasha e poi si dileguò nel corridoio e nella camera accanto.

Si gettò sul letto sfatto dopo aver mollato le armi sul pavimento e senza darsi neppure il tempo di sfilarsi gli stivali. Gli ci vollero pochi minuti per crollare in un sonno senza sogni.

 

*

 

Il sole era sorto, caldo e dorato, da almeno un paio d'ore quando si riunirono in un salotto rivestito di seta damascata nei toni del giallo e dell'ocra per decidere sul da farsi.

Clint si era rifiutato di abbandonare il capezzale di lord Phillip finché non era arrivata Melinda a sollevarlo dall'incombenza di vegliare il malato; non aveva ancora ripreso conoscenza: a malapena erano riusciti a risvegliarlo dal suo torpore le due volte che gli avevano somministrato la medicina.

Natasha era al suo fianco, ancora visibilmente intontita dal (poco) sonno non fosse stato per la luce acuta e presente che le animava lo sguardo. Di nuovo, non si sarebbe stupito di vederla correre in giro, combattere e resistere alla stanchezza e al dolore fino all'infinito.

In piedi e appoggiati alla cabinetta di legno lucido alle loro spalle, non avevano spiccicato parola mentre gli ultimi membri dell'ordine prendevano posto sui divani, le ottomane, le sedie che erano state disposte a cerchio al centro della stanza.

Riconobbe alcune facce note: Maria Hill, seduta rigida e composta sul bordo del divano; il ragazzetto a cui aveva ordinato di dare l'allarme durante lo scontro con Grant; il finto nobiluomo che aveva accompagnato Natasha durante la festa in maschera, la parrucca mestamente abbandonata in grembo. Non era l'unico ad essersi risvegliato dal riposo forzato inflitto dal sonnifero dell'Idra. Clint li riconobbe perché erano quelli vestiti meglio, i più imbarazzati e i più arrabbiati perché meno stanchi di chi era rimasto sveglio tutta la notte.

“Sai cosa sarebbe pazzesco?” Si voltò verso Natasha con aria allucinata. “Che ci avessero riuniti tutti qui per dirci che siamo spacciati.”

Andate tutti a casa, qui non c'è più niente da fare?” Recitò la donna in tono assolutamente incolore. “Non suona divertente.”

“Ho detto pazzesco. Non divertente,” le fece presente.

Natasha stava per ribattere quando il colonnello Fury entrò nella stanza seguito da un paio di agenti travestiti da stallieri che presero rapidamente posto per terra, sul tappeto.

“Ci siamo tutti?” Domandò l'uomo, facendo dardeggiare il suo unico occhio in giro per la stanza. “Dov'è Melinda?”

“Con Phil,” si affrettò a rispondere Maria, che ottenne solo un rapido cenno d'assenso in risposta.

“Le nostre vedette hanno confermato che diverse truppe dell'esercito stanno ritornando in fretta e furia qui alla capitale,” il colonnello non si perse in convenevoli prima di cominciare ad illustrare il mare di merda in cui erano ancora immersi. “Non possiamo sapere se stiano arrivando per darci man forte, o per fotterci ulteriormente. Fino a prova contraria qualsiasi membro dell'esercito è da considerarsi un nemico.”

I presenti annuirono tutti insieme con aria più o meno grave in attesa che l'uomo continuasse.

“La cattiva notizia è che dei messaggeri che ho inviato alle varie sedi dello Scudo per chiedere rinforzi ieri notte, ne sono tornati solo due... su sette.” Un mormorio sommesso, ma indignato serpeggiò per il salotto, ma Fury fece finta di non aver sentito. “Ci abbiamo guadagnato a malapena due dozzine d'uomini in più.”

“E la buona notizia?” Azzardò un agente vestito da maggiordomo in possesso di un orribile paio di baffi – lunghi, sottili e arricciati alle estremità – che cominciò a leccarsi forsennatamente quando il colonnello lo incenerì con lo sguardo.

“Non ce ne sono, brutto idiota. Ti sembro forse Gesù Bambino la notte di Natale?”

Il finto domestico arrossì vistosamente e cercò di far finta di niente distogliendo lo sguardo altrove; se ne pentì amaramente un attimo dopo perché incrociò quello di Maria, che di occhi per guardarlo male ne aveva ben due e sapeva come sfruttarli al massimo.

“Gesù Bambino ci sarebbe d'aiuto,” Clint confermò senza riuscire a frenare la battuta.

“Grazie tante, signor Barton, cercheremo di tenerlo presente nel caso qualcuno scoprisse il suo indirizzo.”

“Si figuri, colonnello,” insisté l'arciere, sentendo una sorda e ridicola euforia risalirgli su per lo stomaco e il petto: perché la situazione era disperata e quello poteva benissimo essere l'ultimo giorno che passava sulla terra. Di questo era sempre più consapevole con ogni secondo che passava ed era sicuro di non essere l'unico là in mezzo alle prese con quella realizzazione.

“Il principe Stark è nel suo...,” Fury si soffermò per un attimo, come alla ricerca della parola adatta a non far suonare quello che stava per dire come un'immane, improbabile stronzata, “laboratorio. Speriamo che possa avere il tempo di mettere insieme qualcosa che possa aiutarci a sopperire allo svantaggio numerico.”

“Ma non è naturale!” Protestò con voce acuta e squillante una finta nobildonna ancora agghindata nell'abito del ballo, rosa e terribilmente voluminoso, gli occhi bistrati e i pomelli di un rosso troppo acceso.

“Accomodatevi pure,” la invitò il colonnello, che non sembrava aver intenzione di blandire i suoi uomini per prepararli alla battaglia ormai annunciata. “C'è una morte naturalissima che vi attende là fuori,” ribadì, “magari sarete fortunata e non sarà né lenta né dolorosa.”

La donna raggrumò le labbra in un unico punto sbiadito e irrigidì la mascella senza però aggiungere nient'altro. Era chiaro che nessuno aveva poi così tanta voglia o fretta di crepare per mano dell'Idra o di chicchessia.

“Ci sono già alcuni uomini ad aiutarlo,” riprese Fury del tutto indisturbato. “Altri agenti si stanno occupando di riesumare i cannoni d'assedio di cui il palazzo dispone,” disse, “ma sono antiquati e risalgono ad almeno centocinquanta anni fa.”

“Come siamo messi a polvere da sparo?” Intervenne l'aristocratico accompagnatore di Natasha alla festa.

“Non bene,” ammise il colonnello. “Speravamo di organizzare alcune spedizioni per recuperarne all'esterno, ma non ho abbastanza uomini per garantire la sicurezza di tutti.”

“Posso andare da solo,” si offrì l'altro, improvvisamente determinato. L'imbarazzo di chi si era lasciato fregare dallo champagne e dai vini drogati era particolarmente vivo in lui perché era stato messo in guardia da Natasha, ma non aveva voluto crederle.

“Ottimo. Ne riparleremo a riunione conclusa,” convenne Fury, lanciandogli un'occhiata penetrante ma carica di rinnovato rispetto. “Abbiamo organizzato dei turni per sorvegliare le entrate all'ala ovest. Rivolgetevi a Maria per sapere quale vi è stato assegnato.”

La situazione era pressoché disperata, ma la pragmatica sicurezza e sferzante causticità del colonnello gli infondeva coraggio, la bizzarra convinzione che sarebbe andato tutto bene... o quasi. Che, in qualche modo, si potesse uscirne. Gli dava la stessa impressione di Natasha, lo stesso modo pratico di analizzare le cose, di non lasciarsi scoraggiare dall'imponenza dei problemi, ma la continua e instancabile solerzia di spezzettarli in parti più piccole per renderli più facilmente gestibili. Per aggredirli da più direzioni nella speranza di sgretolarli E la prospettiva dipinta da Fury suonava talmente scientifica che Clint non poteva fare a meno di fidarsi come aveva imparato a fidarsi delle reazioni chimiche che Leopold innescava nella sua stanza da lavoro, nelle cantine di villa Coulson.

“Quello che vi consiglio di fare è prepararvi e riposarvi. Abbiamo inferto un duro colpo all'Idra questa notte, decimato le loro file... ma torneranno all'attacco,” stabilì il colonnello, soffermandosi un po' su tutti. “Rimettete in ordine le vostre armi e affilate le vostre spade. A breve ci giocheremo il tutto per tutto.”

Gli era parso di udire la rassegnazione nella sua voce, ma capì che era solennità e non altro: la consapevolezza che una prova importante stava avvicinandosi e che – per quanto avesse voluto – non tutti i presenti sarebbero stati capaci di superare l'ostacolo e approdare dall'altra parte. E forse era proprio quella l'unica cosa che il colonnello Fury non poteva sopportare, l'idea di mandare i suoi uomini al macello senza avere un'alternativa convincente.

“Se qualcuno avesse una brillante idea,” riprese l'uomo bendato, “questo è il momento di parlare.”

“Io ne ho una, signore.”

Si voltarono tutti verso l'ingresso del salotto giallo. Clint udì prima le manifestazioni di sorpresa a malapena trattenute e i respiri sospesi e solo poi si rese conto che chi aveva parlato altri non era se non il Capitano Steve Rogers.

“Capitano,” constatò il colonnello, neanche lui esente dallo stupore di vederlo in piedi con indosso una divisa spaiata, la giacca rossa da ufficiale, i pantaloni blu della gendarmeria.

Lady Carter gli era comparsa di fianco insieme ad un ristretto manipolo d'uomini tra cui Clint, con una stretta allo stomaco, riconobbe Antoine.

“Uno dei messaggeri inviati alla sede dello Scudo presso le montagne dell'est è ritornato al quartier generale secondario con cinquanta uomini,” disse la donna, i capelli spettinati e i vestiti sgualciti, eppure ancora in possesso di una certa parvenza d'eleganza. “Non sono molti, ma non hanno avuto il tempo di fare di più. Confermano, inoltre, che alcune truppe dell'esercito sono ormai alle porte della città.” Lady Carter distolse lo sguardo da Fury e lo fece vagare sui volti dei presenti. “Non manca molto prima che tornino all'attacco.”

“Mi posso occupare io della difesa dei cancelli,” si offrì Rogers. “Magari riesco a convincere qualcuno a desistere.”

Il colonnello gli rivolse una lunga, penetrante occhiata. Si vedeva lontano un miglio che non era ancora convinto della solidità delle sue condizioni, eppure la situazione era talmente disperata da richiedere misure estreme se volevano sopravvivere per vedere un altro giorno. Persino mettere in campo un capitano amato dai suoi soldati, ma acciaccato e non al massimo delle proprie forze, gli doveva apparire come una possibilità di tutto rispetto.

“Non sono io che detto gli ordini,” decretò Fury, restituendo la patata bollente a Lady Carter.

“Il capitano è già stato informato del mio disaccordo, ma data la situazione non possiamo fare altrimenti,” specificò la donna, scandendo a tal punto le sillabe ed evitando di guardare il capitano con tanta concentrazione, che Clint intuì che una lunga discussione a riguardo doveva già aver avuto luogo tra i due e che lui aveva avuto la meglio.

Il colonnello annuì e un breve secondo di silenzio cadde nel salotto.

“E' tutto. Andate,” li esortò infine Fury, visto che nessuno sembrava aver più niente da dire.

Clint prese automaticamente Natasha per mano e puntò verso l'uscita perché voleva riabbracciare Antoine e presentarlo alla donna, ma la perentoria voce del colonnello li fermò sul posto, nessuno dei due particolarmente consapevole di avere l'uno la mano in quella dell'altra.

“Barton, Romanoff. Ho un lavoro per voi.”







Note: capitolo di pausa & logistica mentre ci approprinquiamo alla fine della battaglia che... sarà tutta nel prossimo capitolo e presa in modo un po' strano. Insomma, vi ho avvertiti ù_ù
Grazie a chi continua a leggere e alla sociabeta Eli :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV ***


Capitolo 25
~

 

Il boato gli rimbombò nelle orecchie, nella testa, nello stomaco. Sgranò gli occhi e annaspò alla disperata ricerca d'aria, ritrovandosi a fissare nuvole soffici e spumose, un concerto di putti, figure seminude avvolte da stoffe mosse dal vento.

Il boato si ripeté con forza ancora maggiore, con tanta insistenza che gli parve quasi che uno degli uomini disposti in cerchio sul soffitto stesse battendo forsennatamente sulla barriera di stucco che lo teneva prigioniero per uscirne, finalmente libero.

I dintorni apparivano alla sua coscienza in stralci confusi. Tentò di rimettersi seduto, ma il mondo prese a girargli davanti agli occhi nell'esatto momento in cui accennò a riuscirci.

Ricadde all'indietro, impastato e rallentato. L'ennesimo tuono, fragoroso e furibondo, lo scosse da capo a piedi.

 

Hanno cominciato coi cannoni,” le disse mentre il cielo smetteva di tremare.

Ma non mi dire.”

Natasha, avvolta come lui nelle divise che avevano sottratto ai soldati dell'esercito nelle cripte della cattedrale, gli procedeva di fianco con passo sicuro. Teneva il capo basso per far sì che il tricorno le oscurasse a sufficienza il volto, ad impedire che qualcuno si accorgesse che era una donna.

Il sole era calato quasi del tutto e l'assedio al palazzo reale si era tramutato in una vera e propria battaglia. I rinforzi dell'Idra si erano accampati nello spiazzo che preludeva ai cancelli, unica barriera a protezione della soglia reale. Voci, grida ed esplosioni si ripetevano a distanza ravvicinata.

Il caos e il fumo che si alzava in alte colonne scure tutt'intorno gli impedivano di capire chi avesse colpito cosa. L'odore della pioggia imminente permeava l'aria, ma poteva ben poco contro la puzza di bruciato.

Di qua,” suggerì la donna, superando in fretta un terzetto di soldati che correvano nella loro direzione. Questi li oltrepassarono senza chiedere loro cosa stessero facendo.

 

La consistenza della trapunta di lana grezza fu la prima cosa su cui si sforzò di concentrarsi. Dopo quella gli si palesò il materasso – fin troppo morbido per i suoi gusti –, la polverosa pesantezza delle coltri stracciate appese al baldacchino. Il buco era tale da far ciondolare la stoffa sul lato sinistro, tanto da permettergli di avere una visuale buona, anche se parziale, sull'affresco del soffitto, annerito e scolorito dal tempo in più punti.

Era in una stanza del palazzo, comprese. Qualcuno l'aveva abbandonato su quel letto nel bel mezzo della battaglia... o così, almeno, credeva.

La luce era soffocata, ma i boati continuavano a ripetersi senza sosta. Fuori e nella sua testa.

I ricordi, terribilmente confusi.

 

Dovrebbe essere là dentro,” mormorò a mezza voce.

Non è solo,” constatò Natasha.

In effetti la luce che illuminava la tenda dall'interno lasciava indovinare la presenza di almeno cinque figure. A loro ne interessava una soltanto e da fuori non sarebbero stati in grado di capire a chi appartenesse.

Hanno armi da fuoco,” riusciva ad individuarne le sagome.

La terra tremò una volta ancora. Clint tentò di non far caso alle esplosioni o alle urla disarticolate di chi era stato colpito o aveva visto un compagno saltare in aria a qualche passo di distanza.

Prendiamo un'entrata laterale ciascuno,” propose Natasha, riferendosi alle aperture che consentivano l'accesso alla tenda alle due estremità opposte.

Come facciamo a riconoscere Pierce?”

Lo sapremo quando lo vedremo,” rispose semplicemente. Avevano una descrizione talmente sommaria che avrebbe potuto riferirsi ad almeno un terzo dei soldati dell'Idra.

Fury lo vuole vivo.”

Lo so.” Gli parve di intravedere uno scintillio strano nei suoi occhi, qualcosa di molto simile all'offesa.

Intendevo dire che non possiamo entrare là dentro e fare piazza pulita,” si corresse. Di certo non nutriva alcun dubbio sulla capacità di Natasha di obbedire agli ordini senza dover necessariamente rispedire qualcuno al creatore.

Non importa,” scosse il capo. “Prendo il lato sinistro, dalla parte della botte d'acqua.”

Come ti vuoi muovere?”

Attacchiamo contemporaneamente. Non avranno possibilità di fuga.” Gli sembrava un piano piuttosto azzardato, ma non c'era il tempo di metterne insieme uno migliore.

Al tre,” sussurrò Natasha. “Uno, due...”

Scattarono in avanti e presero direzioni divergenti mentre le urla tutt'intorno si intensificavano, mentre i cancelli del palazzo venivano definitivamente abbattuti e il capitano Rogers, da qualche parte, scendeva in campo alla testa dei suoi uomini.

 

Il dolore. Quello arrivò subito dopo aver capito per quale ragione era stato sistemato nella camera. Era sicuro fosse sempre stato lì: era stato sufficiente che il suo cervello riacquistasse consapevolezza per dar concretezza anche al dolore.

Si tastò addosso per assicurarsi che tutti gli arti fossero al loro posto. Capì di avere una gamba fasciata all'altezza del polpaccio – ma Grant l'aveva ferito proprio lì durante lo scontro che li aveva visti protagonisti subito dopo il ballo – e la spalla sinistra stretta in una bendatura asfissiante.

Fu poi la volta del pulsare fastidioso che pareva essersi impossessato della metà destra del suo volto. Fece scorrere le dita sulla guancia gonfia e poi più su, fino all'attaccatura dei capelli. Si ritrovò a seguire l'andamento ondulato di uno spesso filo di sutura e comprese che l'appiccicume che si sentiva sulla faccia doveva essere sangue essiccato.

Lo spazio e il tempo parevano essersi azzerati di colpo, annullando l'ordine e la linearità delle sue percezioni. Però era vivo.

Si aggrappò a quella verità con entrambe le mani e si decise finalmente a mettersi seduto, riuscendo – stavolta – a risparmiarsi il conato di vomito e il folle vorticare del primo tentativo.

Il boato tornò ancora una volta. Gli parve di udire qualcos'altro in sottofondo, ma i suoni gli arrivavano ovattati, lontanissimi. Solo quei tonfi sordi riuscivano a strappare il velo di silenzio che lo circondava su ogni lato... o quasi.

Abbassò lo sguardo sulle mani sporche e ricoperte di lividi, sulle braccia nude – qualcuno doveva avergli tolto la giamberga e la camicia della divisa per medicarlo.

Gli avvenimenti della notte precedente (a dir la verità non era neppure tanto sicuro che si fosse conclusa) gli saettarono scomposti davanti agli occhi.

 

Le cinque figure si voltarono di scatto in direzioni diverse. La mano stretta attorno alla cocca della freccia gli solleticava il volto mentre osservava gli ufficiali impegnati a capire che diavolo stesse succedendo.

Gettate a terra le armi,” suggerì Natasha. Aveva rinunciato ai suoi pugnali con riluttanza – e solo per poco – e adesso teneva il quintetto sotto tiro impugnando due grosse pistole.

Lui, dall'altro capo dello spazio delimitato dal perimetro dell'ampia tenda militare, faceva altrettanto armato d'arco e frecce. Magari una scelta un tantino obsoleta (gli bastò intercettare l'espressione perplessa di uno degli ufficiali per coglierne lo scetticismo), ma niente e nessuno sarebbe stato capace di batterlo in velocità.

I militari risero, vagamente innervositi dalla brusca intrusione. Certo, anche intimoriti, ma comunque forti del vantaggio. Clint non si era guardato allo specchio, ma gli bastava passare in rassegna Natasha per capire che non erano esattamente in forma smagliante.

Solo uno degli uomini presenti, raccolti al centro dello spazio, – l'unico seduto su una cassa rovesciata – non sembrava divertito. Aveva, piuttosto, l'aria del padrone di casa che è stato sorpreso da una visita inaspettata (si erano curati di aggirare il palazzo e le postazioni dell'Idra per avere la certezza che tale sarebbe stata), ma che è troppo ben educato per non intrattenere ed accogliere i suoi ospiti, per quanto indesiderati possano essere.

Ho detto,” ripeté la donna, “gettate a terra le armi.”

Se aveste voluto ucciderci, a quest'ora l'avreste già fatto,” la sfidò l'ufficiale più vicino all'uomo seduto.

Dall'occhiataccia che quest'ultimo lanciò al compagno, Clint intuì che era lui che comandava.

Quando lo sparo rimbombò nell'aria ritagliata dalla tela pesante, quando il cadavere del militare che aveva parlato cadde a terra con un rumore sconnesso, capì che anche Natasha era arrivata alla sua stessa conclusione.

L'uomo seduto, era lui lord Alexander Pierce.

 

Con fatica si portò sul bordo del letto e buttò giù le gambe fino a sfiorare il tappeto con le piante dei piedi. Si soffermò a studiarne l'intrico per qualche secondo prima di rialzare lo sguardo: il disegno era troppo complicato, rischiava di confondere – per una sorta di ridicolo gioco di specchi – anche i suoi pensieri.

Tutto il suo corpo protestò violentemente quando tentò di rimettersi dritto. La gamba ferita minacciò di cedere sotto tutto quel peso, la testa ricominciò a girare, portandosi dietro il suo carico sconnesso di idee e coordinate disarticolate.

Contro ogni buon senso, però, Clint resisté. Ricacciò indietro il conato di vomito e lasciò che l'aria stantia della camera gli fluisse liberamente e regolarmente nei polmoni. Si era aggrappato ad una delle colonne di legno del baldacchino per non cadere, ma evitò di dare troppo peso all'informazione, perché il suo obbiettivo era uno e uno soltanto.

La finestra.

Certo, potevano averlo collocato in una stanza che affacciava sul retro del palazzo, ma non gli importava. Doveva vedere. Doveva capire. Se non altro per accertarsi che la battaglia fosse ancora in corso: a giudicare dai boati che non cessavano di scuotere le pareti, c'era una consistente possibilità che lo fosse.

Il senso di colpa per quella degenza improvvisa, per non essere là fuori insieme agli altri, insieme a Natasha – dov'era andata a finire Natasha? – prese a pesargli addosso, più schiacciante del dolore e della stanchezza.

Si assicurò di poter tentare un primo passo e solo quando fu sicuro che non sarebbe rovinato a terra come un dannato marmocchio che sta imparando a camminare, mise un piede davanti all'altro e lasciò andare il rassicurante sostegno del letto.

 

La seconda freccia andò a conficcarsi nel dorso della mano dell'ufficiale che aveva appena perso la parrucca. Clint si affrettò ad estrarne una terza dalla faretra perché un altro soldato gli stava venendo addosso. Non ebbe il tempo di incoccarla e allora si limitò ad inginocchiarsi rapido davanti all'avversario e a piantargli il dardo nel piede, ottenendo di farlo urlare in preda al dolore.

Riafferrò lo stelo della freccia e la estrasse di violenza mentre si rimetteva dritto. Approfittò delle posizioni per sferrargli un cazzotto da sotto in su dritto sul mento, ma dovette affrettarsi a ritrarsi per evitare la sciabolata che l'uomo tentò di abbattergli sul capo.

Ci riuscì per uno soffio mentre il cappello infilzato gli volava via dalla testa per andare a posarsi chissà dove. Non c'era il tempo per pensare, tantomeno per guardarsi attorno.

I pugnali di Natasha sibilavano nell'aria adesso che anche la seconda pistola aveva sparato il suo colpo (dritto nelle scapole dell'ufficiale a lei più vicino) – non ci aveva neppure provato a ricaricarle. Era lo stesso che Clint aveva trafitto alla mano per costringerlo a lasciar andare l'arma da fuoco con cui la stava minacciando, mentre la prima freccia era servita a disarmare del suo fucile il militare che aveva appena finito con l'azzoppare.

Infine, circondati da ufficiali riversi a terra, gementi, doloranti o morti, Clint e Natasha convergettero entrambi su lord Pierce, ancora seduto e apparentemente nel pieno comando della situazione.

Andiamo a farci un giro,” gli suggerì, esortandolo a rimettersi in piedi.

E' la mancanza di attenzione ai dettagli,” rispose quello, “che vi rende del tutto inadatti a guidare il regno.”

Ci pensiamo dopo alla politica, che ne pensate?” Di nuovo a stuzzicargli una spalla con la punta dell'ennesima freccia per convincerlo ad alzarsi.

Natasha gli teneva gli occhi puntati addosso, ma c'era qualcosa di strano in fondo alle sue pupille dilatate. Vi riconobbe la consapevolezza di un pericolo imminente e, quando intrecciò l'informazione con le parole di lord Pierce, capì che erano nella merda fino al collo.

Fece scorrere lo sguardo lungo le pareti della tenda, leggermente smosse dal vento. Da fuori i boati delle cannonate e le urla continuavano a raggiungerli. Ma le immediate vicinanze erano troppo silenziose per i suoi gusti.

Vi conviene arrendervi adesso,” suggerì l'ufficiale che Fury aveva scoperto essere il capo della congiura, colui che aveva riunito il malcontento della nobiltà, del clero e dell'esercito per dargli un senso e un ordine, per incanalarlo verso la deposizione definitiva della dinastia Stark.

Scambiò un rapido sguardo con Natasha proprio mentre gli scatti delle armi da fuoco che venivano caricate e preparate alla deflagrazione li raggiungevano come un ricordo lontano. Un ricordo che li avrebbe ammazzati se non fossero stati attenti... e veloci.

Il suo cervello si era a malapena concesso il lusso di accarezzare la consapevolezza che erano circondati, quando l'inferno si scatenò in un concerto di spari assordanti.

 

Al terzo passo fu costretto a realizzare che sotto la fasciatura doveva esserci ben più che la ferita dovuta ad un colpo di lama ricevuto di striscio; pulsava troppo dolorosamente e in fin dei conti ci aveva corso senza problemi durante l'operazione di recupero di lord Phillip alla cattedrale.

No, gli avevano sparato. Ecco perché faceva così male, ecco perché si vide obbligato a spostare tutto il peso sulla gamba sana e ad arrancare come un povero storpio fino alla finestra. Un doloroso passo alla volta.

Tutte le volte che si abbandonava sui propri passi gli sembrava che mille spilloni gli si conficcassero nella carne viva, per poi ritrarsi e prepararsi all'affondo successivo, in un ritmo da tortura medievale.

Ma si sforzò di non demordere, perché lo scontro della notte, l'esito della missione che il colonnello Fury aveva loro assegnato, gli si andava finalmente ricomponendo davanti agli occhi, vincendo l'opacità dei ricordi, la convinzione di fluttuare in un mondo privo di punti fermi.

I pesanti tendaggi che oscuravano la finestra erano così vicini, eppure così lontani considerando la velocità a cui stava procedendo. Strinse i denti e provò a relegare la consapevolezza del dolore ad un remoto angolo della sua testa, si sforzò di pensare a qualcosa di bello, qualcosa che gli piaceva.

Pensò a Natasha.

 

Si ritrovarono fianco a fianco dietro un tavolo che si erano affrettati a rovesciare per ottenere un minimo di copertura. La prima scarica di spari si era esaurita, svariati fori si erano aperti nella tela della tenda, ma Pierce era rimasto fermo dov'era.

Probabilmente i suoi uomini avevano indovinato, da fuori, l'ombra della sua figura e avevano evitato di sparare in quella direzione. O magari era uno schema preciso, provato e riprovato in vista di occasioni simili. La mira, in ogni caso, non era delle migliori: tiratori un po' meno scadenti li avrebbero già uccisi.

Si sforzò di non guardare la gamba che gli faceva male (come se aggiungere l'immagine al dolore e al sospetto di essere stato colpito facesse un insieme troppo reale e concreto) e lanciò un'occhiata a Natasha. Una macchia di un rosso più scuro di quello della divisa le si stava progressivamente allargando sul braccio sinistro.

Che serata del cazzo,” si lasciò sfuggire.

Dobbiamo muoverci,” asserì lei, “prima che abbiano il tempo di ricaricare.” La concentrazione le irrigidiva il volto.

Che facciamo con Pierce?” Domandò, mentre si stava già preparando ad uscire di nuovo allo scoperto.

Lo portiamo con noi.”

Vivo?”

L'hai sentito il colonnello, no?”

E vivo sia.”

Esco io per prima. Tu occupati di lui.”

La donna alzò i pugnali vicino al viso e annuì una sola volta; ancora pochi secondi prima che le armi da fuoco fossero pronte ad una seconda mandata.

Si mossero contemporaneamente.

 

Il sollievo lo invase non appena le sue mani si allungarono per afferrare le tende in due grosse manciate. Si immobilizzò per qualche secondo, si disse, per prepararsi a ciò che lo aspettava là fuori, ma la verità era che il suo corpo aveva bisogno di una pausa.

Aveva avuto il tempo di far scivolare lo sguardo tutt'intorno, ad abbracciare la camera durante la traversata così breve, così lunga. Aveva l'aria di essere appartenuta ad un bambino, una volta, ma dovevano essere passati anni dall'ultima volta che qualcuno ci aveva abitato. I segni del tempo e dell'abbandono si erano posati su ogni angolo, su ogni oggetto del mobilio, delle suppellettili dimenticate in giro o cadute per terra. I topi avevano rosicchiato le nappe agli angoli del tappeto e la polvere era l'unica vera proprietaria di quell'anfratto del palazzo.

Inspirò a fondo, spostando l'attenzione sulle proprie mani, sulle nocche diventate bianche nello sforzo di trattenersi alle tende. Finché non si sentì stupido a procrastinare a quel modo, come se frapporre altro tempo tra sé e l'esterno avesse potuto cambiare il corso degli eventi passati, presenti e futuri.

Le tirò a fatica nelle due direzioni opposte, liberandosene quel tanto che bastava per aprirsi uno spazio verso la finestra. Si avvicinò ai vetri e si affrettò a spalancarla per lasciare che il vento, l'umido e la pioggia lo investissero, che gli facessero compagnia nella stanza troppo silenziosa.

I suoi occhi ci misero un po' ad abituarsi alla luce grigiastra del primo pomeriggio. Non avrebbe saputo dire come aveva fatto a capire che ore erano: il cielo era completamente coperto da uno spesso strato di nubi nere e perlacee, in varie sfumature. Eppure lo sapeva.

Doveva essere passato da poco mezzogiorno e pioveva.

Pioveva e ad ogni tuono i vetri tremavano impercettibilmente, risuonandogli dentro come se al posto dello stomaco avesse avuto un tamburo che rispondeva meccanicamente ai boati provenienti dall'esterno.

Aveva come la sensazione che i rumori arrivassero tutti da una sola direzione, che tacessero dall'altra. Si aggrappò al davanzale e si sporse leggermente all'esterno per sentire meglio, ma la sensazione non cambiò. Solo se si concentrava molto intensamente riusciva a percepire il ticchettio della pioggia sui vetri, il leggero soffio del vento, le voci lontane.

Il sospetto che non fosse un difetto dei suoni, ma suo, gli balenò nel cervello con la lucidità e la chiarezza dei dubbi che si trasformano in spiegazioni fin troppo plausibili per non essere vere. Ci sentiva dal sinistro, ma dal destro... dal destro non ne era sicuro.

Ripercorse lo spazio tra la ferita alla fronte, lo zigomo gonfio e sporco di sangue, fino a scivolare di lato verso l'orecchio. Anche lì il liquido vischioso si era seccato lasciandogli la pelle di una consistenza strana; la sensazione continuava se risaliva lungo il lobo.

Il cuore prese a battergli forte mentre realizzava di essere mezzo sordo, ospite di un mondo fatto di suoni e rumori tagliati a metà.

 

I due ingressi laterali della tenda avevano rivomitato all'interno uno stuolo apparentemente infinito di divise rosse come il sangue.

Natasha era uscita un attimo prima che la seconda scarica di spari si abbattesse su di loro, e Clint si era affrettato ad avvicinare Pierce e a trascinarlo bruscamente in piedi per servirsene come di uno scudo umano.

Il trucchetto aveva funzionato, ma il capo della lega dell'Idra si era affrettato a respingerlo e ad estrarre la spada che gli penzolava da un fianco. Da fuori, intanto, continuavano le cannonate e le urla, queste ultime molto più vicine di prima, segno che Natasha si stava facendo strada nel circolo di soldati che circondavano la tenda.

Non uscirete vivi di qui,” l'avvertì lord Pierce, un'aria malsana negli occhi adesso che calma e pazienza gli si erano disintegrate sul volto.

Questo è tutto da vedere,” gli ritorse contro, tendendo di nuovo l'arco per tenerlo sotto tiro.

Non potete uccidermi.”

Ci sono cose ben peggiori della morte.”

Cominciate a parlare per frasi fatte, adesso? E' questo che Lady Carter v'insegna?”

Non aspettò una risposta e gli si avventò contro brandendo la lama con sicurezza. Clint non ebbe il tempo di scoccare la freccia – la distanza era troppo ravvicinata – e allora si servì dell'arco per intercettare e respingere il colpo. Approfittò della vicinanza per piazzargli un calcio nello stomaco e farlo indietreggiare.

Rincoccò la freccia che gli era sfuggita e l'avrebbe lasciata andare se la terra non avesse tremato in modo molto più deciso. Non era più solo un'impressione scatenata dal rumore delle cannonate. Il boato era stato vicinissimo, a pochi passi dalla tenda.

Natasha!” Chiamò, ma fu costretto a rifocalizzare su Pierce che era tornato all'attacco, stavolta più determinato di prima.

La gittata dei cannoni piazzati sul tetto del palazzo si era improvvisamente moltiplicata. Urla distanti e prossime (“A fuoco! A fuoco!”, “Toglietevi di mezzo! Serrate i ranghi!”), preghiere mormorate a velocità impressionante (“Ave Maria piena di grazia...”, “Oh Dio... oh Dio...”), persino pianti e gemiti strazianti... tutte voci che il vento trasportava attraverso gli ingressi mentre Clint era occupato nel duello contro l'ispiratore della congiura ai danni della casa regnante.

L'esplosione si ripeté – una, due, tre volte – finché non fu un intero fianco della tenda ad essere spazzato via, il picchetto che ne teneva fermo il lembo polverizzato e l'accampamento che diventava improvvisamente visibile su quel lato, come di un sipario stracciato a forza.

Un enorme incendio era scoppiato tutt'intorno. Divise rosse correvano e scattavano in ogni direzione, inciampando, fermandosi per soccorrere qualcuno o raccogliere qualcosa.

Colpì Pierce al viso col pugno chiuso – sarebbe stato tutto molto più semplice se l'ordine di Fury fosse stato leggermente diverso – e si scansò appena in tempo per evitare l'ennesimo affondo.

Pensò a Natasha, a quando gli aveva detto che l'inferno è una cosa senza rumore e improvvisamente non fu più tanto d'accordo. Perché il caos che imperversava là fuori era spaventoso e privo di qualsivoglia controllo, era fatto di fiamme, grida disumane e lamenti.

La donna comparve inaspettatamente nel passaggio aperto dall'esplosione. Prese le misure in pochi secondi e scagliò uno dei suoi pugnali, mandandolo a conficcarsi nel polso di Pierce che perse la presa sulla spada e si ritrovò disarmato.

Dobbiamo andarcene! In fretta!” L'avvertì Natasha mentre Clint teneva sotto tiro il capo dell'Idra e lei lo costringeva ad inginocchiarsi.

Che cazzo sta succedendo?” Le chiese guardandola legare le mani dell'uomo che pareva essersi arreso.

Stark,” fu la secca risposta di lei, che si curò di condire il tutto con uno sguardo carico di incertezza.

Il principe Anthony doveva aver dato fondo a tutte le sue strabilianti invenzioni per aumentare in tal modo la gittata dei vecchi cannoni del padre. Forse era un genio, forse voleva vendicarsi della morte di re Howard, fatto stava che lui e Natasha erano nel raggio d'azione di quelle maledette esplosioni.

Ci conviene fare il giro lungo anche al ritorno,” aggiunse subito dopo, facendogli cenno di precederlo fuori.

No, vai, ti copro le spalle!” Non si fidava di Pierce e non si fidava dei soldati che si muovevano per l'accampamento, terrorizzati e quindi doppiamente imprevedibili.

Natasha ne prese atto e si affrettò ad uscire. Clint era sul punto di lasciarsi la tenda alle spalle, quando un lampo improvviso l'accecò e il boato che seguì fu talmente vicino che avrebbe giurato che la bomba gli fosse scoppiata da dentro il petto.

CLINT!” L'urlo di Natasha, lontanissimo, fu l'ultima cosa che sentì.

 

Sbatté le palpebre e tentò di cancellare dagli occhi il lampo dei suoi ricordi. Se non altro quelli funzionavano ancora.

Così bene da permettergli di disegnare i profili degli uomini e delle donne che punteggiavano il piazzale antistante il palazzo reale. La linea dei cancelli era stata completamente obliterata sia in prossimità delle porte sia nelle porzioni immediatamente adiacenti.

L'artiglieria pesante dell'Idra aveva scavato profondi solchi nella pavimentazione a grosse pietre quadrate e più abbassava lo sguardo per farlo aderire alla facciata dell'edificio e più si accorgeva che di crateri ne erano stati aperti anche sulla costruzione stessa.

I frammenti del cornicione, delle finestre, delle pareti sventrate, giacevano mestamente a terra, a svariati metri di distanza. Erano stati riuniti in mucchi più o meno piccoli, segno che qualcuno si era già attivato per limitare i danni. I grossi leoni rampanti e dorati che sorgevano sulle colonne dell'ingresso erano crollati a terra, uno dei due spaccandosi a metà.

Oltre i cancelli che non esistevano più si stendeva il deserto dell'accampamento dell'Idra: le tende erano state schiacciate o spazzate via, qualcuna era rimasta miracolosamente in piedi, sottolineando per contrasto la distruzione che la circondava.

La devastazione su quel lato del piazzale era molto maggiore: le invenzioni belliche del principe avevano fatto il loro lavoro.

Lo stomaco gli si strinse e un'improvvisa voglia di vomitare si impossessò di lui. Non riuscì a trattenersi, stavolta, e tutto quello che poté fare fu rientrare nella stanza e afferrare un vecchio vaso sbrecciato abbandonato su un comò che aveva perso due dei suoi tre cassetti. Si piegò in due e rimetté quel poco che doveva aver mangiato il giorno precedente per prepararsi alla battaglia. A dir la verità neanche si ricordava di averlo fatto.

Da quando il colonnello Fury li aveva presi da parte per informarli che sarebbero stati loro ad occuparsi di prelevare il presunto capo dei traditori per assicurarlo alla giustizia, il resto della giornata si era protratto come in un sogno – un incubo.

La preoccupazione per lord Phillip tornò a farsi strada tra le nebbie della sua mente confusa. Si chiese se fosse ancora in una delle camere della servitù, se si fossero occupati di somministrargli la medicina, se fosse ancora vivo...

Finì per domandarsi se fosse vivo lui stesso, se lo Scudo avesse infine avuto la meglio. E allora tornò alla finestra, a respirare l'aria umida di pioggia stringendo il vaso sotto il braccio sano.

Fece saettare lo sguardo giù per il piazzale nel disperato tentativo di riconoscere qualche faccia amica. Si concentrò su un giovane in maniche di camicia che gli ricordò il ragazzino che aveva inviato a chiedere rinforzi durante la colluttazione con Grant, ma non fu abbastanza. Insisté con avidità finché non ebbe individuato un uomo che poteva essere l'aristocratico che aveva accompagnato Natasha al ballo. E quella donna laggiù non era forse Maria Hill? L'uomo che le stava accanto non poteva essere il colonnello Fury?

La testa riprese a vorticargli, costringendolo a chiudere gli occhi e a ritirarsi di nuovo dentro la stanza. Ebbe a malapena l'accortezza di rimettere il vaso al suo posto, sopra il vecchio comò sgangherato, prima che l'equilibrio venisse meno.

Neanche si accorse di cadere. Lo capì perché si ritrovò a fissare la possente raffigurazione dell'uomo affrescato sul soffitto.

Gli sembrò di vederlo battere sulla propria prigione di stucco e pittura al ritmo di tuoni lontani, di una pioggia senza rumore. Ancora e ancora.

Finché, a suon di colpi, non riuscì a spingergli il buio negli occhi.









Note: siccome mi ero stufata di capitoli d'azione, questo l'ho preso per un verso diverso e allora sta a Clint nel post battaglia accompagnarci attraverso i ricordi confusi dell'ultimo scontro con l'Idra. Spero di non aver barato troppo ù_ù
E ora che questa è risolta, gli ultimi cinque capitoli si concentreranno su Clint, Natasha e il loro rapporto. Vediamo di tirare le fila (lo sono che sono stata prolissa XD sarà l'ambientazione d'epoca che mi ha reso troppo pomposa, chissà).
In ogni caso ringrazio chi continua a leggere & recensire e ovviamente alla socia-beta Eli :*
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI ***


Capitolo 26
~

 

 

 

Gli occhi sgranati di Natasha erano puntati dritti nei suoi.

I baluginii delle fiamme tutt'intorno le proiettavano luci bizzarre sul viso, facendolo apparire strano. Diverso dal solito.

Niente a che vedere con la creatura dell'inferno che aveva incontrato per la prima volta nella casa del guardiaboschi inghiottita dalle fiamme.

No, stavolta era un essere umano, una creatura terrestre. Le linee del suo volto significavano apprensione.

Gli sembrava di avere le orecchie piene di un rumore sordo e continuo che non pareva aver intenzione di fermarsi tanto presto, che non sembrava essere generato da niente in particolare. No, il rumore era dentro la sua testa e Natasha lo stava scuotendo.

Gli stava parlando. Ma Clint non riusciva a decifrare un bel niente di quello che stava dicendo. Non una parola le usciva di bocca, e allora perché continuava a muovere le labbra?

La terra tremò sotto di lui e la donna gli si fece maggiormente addosso. Sentì il calore della sue mani sul viso tiepido e umido di una sostanza che non riuscì ad identificare.

Natasha parlava e parlava.

La disperazione di non poter dar forma alle sue richieste gli si avvinghiò al petto in una morsa gelida, in netto contrasto col calore insopportabile che infuriava tutt'intorno.

Doveva capirla. Aveva bisogno di farlo.

Perché era agitata e impaurita e avrebbe fatto di tutto pur di farle capire che era tutto a posto, che sarebbe andato tutto bene.

Si sforzò di dire qualcosa, ma non sentì la sua voce e non fu più neanche sicuro di averla fatta uscire tanto per cominciare.

Gli occhi di Natasha, verdi e limpidi, lo rassicuravano, ma non potevano niente contro il silenzio che gli riempiva la testa. Che lo sprofondava sempre più a fondo in un mondo senza rumore, un inferno in cui l'unica voce che avrebbe sentito sarebbe stata quella dei suoi ricordi.

Il silenzio si tramutò in un sibilo e poi il mondo vacillò pericolosamente...

 

… si svegliò di soprassalto col cuore che gli batteva forte in petto e un fischio nelle orecchie. Il sudore gli impregnava la fronte, il collo, il petto. La consapevolezza di avere la febbre scese su di lui con sconcertante chiarezza, ma più che agitarlo lo tranquillizzò.

Era lucido. Febbricitante, ma lucido.

L'immagine degli occhi di Natasha era ancora nei suoi. Doveva aver sognato, ma non era del tutto certo che si fosse trattato solo di quello: di un evento inventato dal delirio notturno della sua mente.

“Clint?”

Per un attimo pensò che era stato l'uomo dell'affresco a parlare, perché era ancora lì, sopra la sua testa, proprio dove l'aveva lasciato. O almeno la figura pitturata lo era. Lui no. Qualcuno l'aveva sollevato dal tappeto e riadagiato sul letto senza che se ne accorgesse.

“Clint, come ti senti?”

La voce si ripeté e Clint dovette concentrarsi per riconoscerne l'inflessione e il tono. La risposta giusta si affacciò proprio mentre il volto di lord Phillip gli occupava la visuale. Era meno pallido di come lo ricordava e... più alto.

“V-Voi...” si ritrovò a balbettare mentre l'uomo lo aiutava a rimettersi seduto e gli sistemava i cuscini dietro la schiena per farlo stare più comodo.

“Hai la febbre,” disse lord Phillip.

Adesso che il mondo era tornato a reggersi nel verso giusto, Clint capì che il suo protettore non era diventato più alto, che era solo un'illusione ottica dovuta allo scarto di distanza tra il pavimento e il materasso. L'uomo era in piedi di fianco al suo capezzale.

“Lo so,” rispose con un leggero cenno del capo. Si sentiva la testa terribilmente pesante, come se qualcuno l'avesse aperta, riempita di sassi e poi sigillata di nuovo.

L'orecchio sinistro aveva ripreso a funzionare, ma il destro non sembrava volerne sapere. Neanche quello era stato un sogno; ne prese atto con riluttanza. Non voleva – poteva? – ancora farci i conti.

“Al povero Bigsby è preso un colpo quando ti ha visto per terra,” riprese lord Phillip, armeggiando con qualcosa appoggiato sul comodino.

Clint girò un poco il capo, quel tanto che gli bastò per accorgersi che gli aveva versato un bicchier d'acqua che adesso gli porgeva. Allungò una mano e lo strinse tentativamente tra le dita indolenzite; tremò mentre se lo portava alle labbra, ma riuscì comunque a bere senza provocare troppi disastri.

Provò un certo sollievo mentre il liquido fresco scivolava giù per la gola riarsa e impastata dall'incoscienza obbligata. Lord Phillip lo aiutò a rimettere il bicchiere al suo posto con movimenti lenti e calibrati, che Clint non si sognò neanche di velocizzare perché aveva bisogno di tempo per abituarsi alle circostanze. Per lasciare che i fatti riaffiorassero alla coscienza a illuminare gli angoli bui dei suoi pensieri.

“Come state?” Formulò infine, cautamente, come per paura di vederselo sparire davanti agli occhi. Magari stava solo delirando e lord Phillip non era realmente lì con lui – solo un fantasma dei suoi ricordi confusi e disarticolati.

“Credo che i tempi per le formalità siano già passati, Clint,” rispose bonariamente quello. Doveva aver intuito la portata del suo smarrimento; Clint lo capì dal modo in cui manteneva le distanze per lasciargli tutto lo spazio – fisico e mentale – di cui aveva bisogno.

“Non credo che riuscirei a d-darvi del tu neanche se lo volessi,” si sentì di ribattere, condendo il tutto con un pallido sorriso. Riappoggiò la nuca ai cuscini per non sentir la testa girare un'altra volta.

“Tempo al tempo,” recitò l'altro, “ci si abitua a tutto nella vita.”

“Se lo dite voi.”

“Lo dico io,” confermò con aria vagamente divertita. “Sto bene,” riprese poi, riallacciandosi alla sua domanda. “Un po' arrugginito, ma bene.”

“Quando...”

“Le cannonate mi hanno svegliato,” gli rivelò, senza abbandonare il tono di voce leggero e superficiale, anche se l'argomento non lo era affatto. Aveva un modo tutto suo di far apparire anche la peggiore delle disgrazie come un semplice fatto della vita, qualcosa di tutt'altro che straordinario, qualcosa con cui avrebbero potuto fare tranquillamente i conti.

“Non so neanche cos'è successo,” disse a mo' di scusa. Era riuscito a ricordare stralci della notte precedente, della missione che il colonnello aveva assegnato a lui e Natasha, dell'esplosione che l'aveva colto di sorpresa. Da quel punto in poi non c'era modo di riallineare le immagini per dar loro un senso compiuto: c'erano troppe lacune, troppi buchi neri.

“L'Idra è riuscita a riunire più uomini di quanti lo Scudo avesse preventivato,” gli spiegò lord Phillip, l'aria impercettibilmente più greve. “Il principe ha messo a disposizione dell'ordine degli ordigni di sua invenzione, molto più leggeri e maneggevoli delle palle di cannone... e a quanto pare troppo instabili e volatili per poter essere controllati adeguatamente.”

“E Rogers...”

“Il capitano Rogers è sceso in campo quando l'Idra ha abbattuto i cancelli.” Fece una breve pausa, dandogli il tempo di registrare e metabolizzare le informazioni. “Abbiamo avuto la meglio.”

La cosa, realizzò Clint, non lo consolò. Sentiva ancora il sapore amaro della battaglia in fondo alla bocca – forse era così che si sentiva chi andava a fare la guerra. Come se, alla fine, anche i vincitori fossero in parte degli sconfitti. Di perdite, ne era sicuro, ne avevano subite anche loro.

Il pensiero corse di nuovo a Natasha, al fatto che non la vedeva da... quanto tempo era passato? Un giorno intero? Per quanto era rimasto privo di sensi?

“La signorina Romanoff sta bene,” disse lord Phillip, intercettando in qualche modo i suoi pensieri.

“Lord Pierce?” Incalzò, per non lasciarsi dominare dal sollievo.

“Il colonnello Fury e lady Carter si stanno occupando di lui.”

Quindi erano riusciti a riportarlo in ostaggio a palazzo. Gli occhi verdi e impauriti di Natasha tornarono a riempire i suoi con straordinaria nitidezza, quasi la donna avesse smesso di guardarlo solo qualche attimo prima.

“Grant?” Si pentì d'averlo chiesto non appena il nome gli scivolò giù dalle labbra.

L'espressione di lord Phillip si contrasse visibilmente, la bocca assottigliatasi di colpo, lo sguardo che improvvisamente non incrociava più il suo.

“Abbiamo inviato una squadra alla cattedrale questa mattina,” allora era davvero passato un giorno intero, “non è ancora tornato nessuno, ma temiamo che sia troppo tardi.”

L'emergenza dell'assedio al palazzo reale era stata la priorità assoluta, l'atteggiamento difensivo una necessità impellente. Non si erano potuti permettere colpi di testa o manovre d'attacco impreviste perché il tempo era quello che era e i mezzi a malapena sufficienti a garantir loro la sicurezza di uscirne vivi.

“Forse non gli ho dato abbastanza attenzione...” lo sentì mormorare tra sé, “forse ho sbagliato tutto.”

“Stronzate,” si affrettò a puntualizzare, dando voce e forma al fastidio che andava stringendogli lo stomaco.

Si vedeva lontano un miglio che lord Phillip aveva riflettuto a lungo sulla questione, su come il figlio primogenito – l'unico naturale – si fosse ribellato alla sua autorità al punto di accettare di farlo morire per sua mano. Gli riconobbe i segni della colpa su tutto il volto e lo trovò inaccettabile, inconcepibile. Non gli avrebbe permesso di abbandonarsi all'incertezza o all'odio per se stesso, per quello che non era stato in grado di fare – che credeva non essere stato in grado di fare.

“Certe battaglie sono perse in partenza,” aggiunse, nel tentativo di ridimensionare la brusca affermazione precedente. “Non gli siamo mai piaciuti, nessuno di noi. Ma non giustifica niente di ciò che ha fatto.”

“Ho messo in pericolo l'intero ordine,” ribatté lord Phillip, turbato e indeciso tra una colpa che sentiva di meritare e un perdono che non aveva l'ardire di chiedere. “Mi sono accertato d'avere la tua fedeltà, ma non ho messo alla prova la sua.”

“Perché è tuo figlio. Non avresti dovuto averne bisogno.”

“Se lady Carter non avesse avuto la precauzione di spostare il quartier generale dello Scudo, a quest'ora saremmo tutti morti.” Serrò labbra e indurì lo sguardo prima di costringersi a rilassarsi, ad affrontare la questione con un briciolo di serenità in più. “Di solito l'ordine è stazionato altrove, ma dopo la mia cattura lady Carter ha deciso che sarebbe stato saggio spostarci.” E Grant non aveva fatto ritorno allo Scudo da quando era stato formalmente inviato a recuperare lord Phillip per salvarlo dalle grinfie dell'Idra. Grinfie a cui si era piuttosto preoccupato di consegnarlo una volta per tutte. Se fosse tornato prima, con una scusa qualsiasi, sarebbe stato messo al corrente del cambiamento e allora avrebbe potuto condurre gli uomini di lord Pierce fin nelle viscere della terra... o ovunque fosse collocato il quartier generale secondario – l'unico di cui Clint era a conoscenza.

“E' inutile pensare a ciò che non è successo,” si ritrovò a dire. “Che importanza vuoi che abbia?”

“Non lo so,” ammise lord Phillip, vagamente sorpreso dalla constatazione. “Nel frattempo sono riuscito a farmi dare del tu, però,” gli fece notare con un mezzo sorriso.

“E' che ho la febbre,” si giustificò Clint, prima di rifarsi un po' più serio. “Può darsi che Grant avesse qualche motivo valido per esservi ostile,” tornò a dire, “ma non per fare quello che ha fatto.”

“Ho tentato di farlo ragionare... ma quando l'ho visto arrivare, in quella maledetta fortezza in cui mi avevano portato, ho capito che c'era qualcosa di strano.”

“Vi ha detto del capitano? Della festa del patrono?” Gli aveva rivelato di essere stato lui ad attentare alla sua vita?

“Non ce n'è stato bisogno.”

“A-Aveva pensato a tutto,” mormorò, sentendo la rabbia bruciargli lo stomaco dolorosamente vuoto e fargli girare un poco la testa. “Ad usare un veleno di Leopold, una delle mie frecce...”

“A tutto, ma non alla tua voglia di andartene.”

Clint sbatté le palpebre per focalizzare di nuovo la propria attenzione sul padre putativo. Da quanto non pensava alla sua voglia di fuggire per sempre da villa Coulson? Adesso che le cose erano cambiate in modo tanto radicale, gli sembrava persino stupido parlarne o rifletterci.

“Avrei dovuto parlarvene.” Si mosse leggermente sul materasso e la spalla bendata gli rimandò una stilettata di dolore improvvisa.

“Avresti dovuto,” convenne lord Phillip.

“Non volevo deludervi.” No, quella era davvero l'ultima cosa che avrebbe voluto fare. Senza di lui la sua vita sarebbe stata molto diversa, di questo era fin troppo consapevole. L'aveva salvato dalla forca senza chiedergli niente in cambio, concedendogli di vivere una vita che molti avrebbero fatto di tutto pur di avere. “Sono stato un vigliacco.”

“Forse,” gli concesse dopo un attimo d'esitazione. “Ma per come la vedo io, è stato un atto di coraggio.”

“Come potrebbe?” Il concetto gli risuonava completamente ridicolo.

“Te ne sei andato perché sapevi che se fossi rimasto avresti finito per cedere.”

“E non vi pare codardia?”

“No, mi pare sia...” cercò la parola finché i suoi occhi non si illuminarono un poco, “integrità.”

“Integrità?”

“Piuttosto che comprometterti hai preferito andartene.”

“Ma vi ho deluso.”

“Non mi hai deluso, Clint. Sei diventato tutto ciò che speravo fossi quando ti ho visto sul patibolo, la prima volta.”

Si ritrovò a stringere le labbra e ad inspirare a fondo, perché la sensazione che gli aveva riempito lo stomaco era troppo piacevole e troppo poco familiare per permettergli di accoglierla con tranquillità.

“Sono orgoglioso di te,” riprese lord Phillip.

“S-Se non fosse stato per voi...”

“No, io non c'entro niente,” sorrise di nuovo di quel suo sorriso gentile che non smetteva di rivolgere un po' a tutti. “Sei quello che sei sempre stato. Una brava persona.”

Clint restò a guardarlo, incapace di dare un nome al tumulto che aveva preso possesso del suo petto, del suo cuore. Gli era terribilmente grato per tutto quello che aveva fatto, per tutte le opportunità che gli aveva concesso, per aver creduto in lui quando nessuno era stato disposto a farlo – se stesso incluso. Per non averlo lasciato solo nel momento più difficile della sua vita, per non aver permesso che questa si concludesse attorno al nodo scorsoio di una corda ruvida e rosicchiata dai topi.

“Credete che lady Jemma ci sia rimasta male?”

Lord Phillip – dal niente – scoppiò a ridere di gusto, tenendosi una mano sulla pancia; Clint ricordava tutte le fasciature e le ferite che aveva sparse sul petto e si chiese se non fosse meglio farlo sedere per non lasciare che si affaticasse.

“Senza offesa, Clint, ma lady Jemma ha ben altro per la testa.”

“Di che state parlando?” L'ilarità dell'uomo aveva contagiato, suo malgrado, anche lui.

“Almeno la metà degli esperimenti con cui Leopold ci ha ammorbati per tutti questi anni erano in realtà frutto della mente della mia brillante nipote.”

“E' davvero vostra nipote?” Trovò paradossale il fatto che l'unico vero legame di sangue di tutta quell'intera vicenda – quello con Grant – era stato anche l'unico a cedere alla prova dei fatti. Il resto di quella che aveva sempre considerato la famiglia Coulson, per quanto illegittima e improbabile, aveva resistito.

“No,” rivelò. “Conoscevo i suoi genitori, però. Ho promesso loro che mi sarei preso cura di lei quando non ci sarebbero stati più. E così ho fatto.”

“Chi di noi... sapeva?” Domandò, perché quel punto non gli era chiaro. Tutti gli abitanti di villa Coulson erano stati sottoposti ad una prova simile alla sua? Era successo prima o dopo l'attentato al capitano Rogers?

“Solo Grant. Poi sarebbe stato il tuo turno e quello di Antoine. Dopo la festa le cose sono precipitate e non c'è più stato bisogno di mantenere il segreto.”

Annuì leggermente, la testa che aveva ripreso a pulsargli per l'intontimento e la confusione.

“Avete intenzione di tornare a villa Coulson?”

“Prossimamente. Ma prima... devo rimettermi in sesto e trovare un buon maggiordomo.”

“Jasper ci ha rimesso la pelle?”

“Jasper lavorava per la lega dell'Idra, ci crederesti?” Il dispiacere che aveva solo cominciato a formarglisi all'altezza del petto svanì come fumo nel vento.

La rivelazione ebbe il potere di sorprenderlo più di tutto il resto. Possibile che l'uomo che sonnecchiava in divisa accanto all'ingresso della villa, con la parrucca perennemente sbilenca sul capo pelato, lavorasse per il nemico?

“Wow,” esalò, “i criteri di selezione non sono esattamente il loro forte.”

“No, non lo è,” convenne lord Phillip, sbuffando una risata divertita.

Aspettò che l'ilarità si fosse nuovamente acquietata per versargli un altro bicchiere d'acqua e aiutarlo a bere.

“Ho bisogno di riposare,” fu di nuovo lui a parlare, il volto più pallido e tirato di quanto non fosse all'inizio. “Mando qualcuno a portarti da mangiare.”

Gli bastò l'allusione perché il suo stomaco iniziasse a brontolare, strappando a lord Phillip l'ennesimo sorriso.

 

*

 

Il viavai nelle cucine andava assottigliandosi sempre di più man mano che il tempo passava.

Clint si era fatto aiutare da Bigsby – l'ometto tarchiato e con una forza spaventosa che l'aveva raccolto dal tappeto su cui era svenuto – per raggiungere il piano terra del palazzo. Il profumo di minestra e pollo allo spiedo li aveva guidati fin nelle cucine, e lì il fidato Bigsby l'aveva abbandonato per andare a fare gli occhi dolci ad un'aiuto-cuoca con il davanzale più consistente che Clint avesse mai visto in vita sua.

Era rimasto seduto su una delle panche sistemate nel soggiorno in cui doveva essere solita pranzare e cenare la servitù, a guardare i membri dell'ordine passare e andarsene dopo aver consumato frettolosamente il proprio pasto. Li aveva studiati tutti uno ad uno, ascoltando distrattamente i discorsi scambiati tra un boccone e l'altro per mettere alla prova il suo udito menomato, abituarcisi.

Così era venuto a sapere che un messaggero era già stato inviato affinché il miglior architetto del regno accorresse alla capitale per dare un'occhiata al palazzo e fare una stima dei danni; che gli uomini dell'Idra fatti prigionieri erano talmente tanti da richiedere un trasferimento immediato nelle carceri della città – operazione che aveva occupato almeno un quarto degli agenti dello Scudo per l'intera giornata – e che tra i capi dell'ordine era in corso un acceso dibattito su ciò che avrebbero dovuto farne; che un parroco fidato era stato richiamato a corte affinché si occupasse delle esequie di re Howard mentre alcuni dei funzionari più fedeli alla corona erano ancora impegnati ad organizzare il funerale.

La congiura era stata un evento di portata epocale, solo adesso se ne rendeva veramente conto. I dettagli da tenere in considerazione erano tantissimi e si intrecciavano ad altri ancora: l'aristocrazia cittadina era stata decimata dall'esito del complotto, e lo stesso poteva dirsi per il clero che vi aveva partecipato.

Aveva rischiato di sbilanciarsi e cadere all'indietro quando una donna, alle sue spalle, si era messa a parlare di Trickshot e dei suoi ribelli che, a quanto pareva, erano stati visti fuggire dalla capitale all'aprirsi delle ostilità tra l'Idra e lo Scudo alle porte del palazzo reale. Non aveva fatto alcuna menzione specifica sul capo dei banditi, ma Clint sperava comunque che Barney fosse riuscito a scappare dalle cattedrale e a mettersi in salvo.

La luce dorata del tardo pomeriggio era andata scurendosi, fino a tramutarsi in un'arancione caldo e rosato che gli aveva messo una tranquillità assoluta addosso. La ciotola di zuppa e carne che uno dei cuochi gli aveva servito giaceva vuota e accuratamente ripulita con una mollica di pane secco proprio davanti a lui. Bigsby si era dimenticato di lui e Clint non era ancora granché sicuro di poter tornare al piano di sopra sulle proprie gambe. Neanche la febbre se n'era andata del tutto. Però non gli dispiaceva. Non aveva fretta di tornare nella camera abbandonata, coi tendaggi polverosi e l'uomo che lo fissava dall'affresco con la sua stupida veste gonfiata da un vento tutto immaginario. Non aveva voglia di stare solo e, allo stesso tempo, non aveva voglia di parlare: quella delle cucine gli era sembrata la soluzione perfetta per ottenere entrambe le cose.

E poi aveva bisogno che gli eventi, le notizie e le informazioni attecchissero ben bene nel suo cervello, che si fissassero con la verità e la concretezza delle cose realmente accadute. Faceva ancora fatica a capacitarsi di come non fosse stato tutto un sogno – un incubo. Le immagini gli si affastellavano davanti agli occhi senza sosta, confuse e disarticolate: alle volte non era più sicuro di ricordare se una cosa fosse successa prima o dopo un'altra, se ne era la causa o la conseguenza, se certe cose erano capitate tutte nello stesso giorno o in giorni diversi.

Gli sembrava di avere un lago in testa, un lago che qualcuno si era curato di agitare con correnti spaventose, sollevando il fondale e facendo vorticare la vegetazione acquatica fino a mescolare tutto, a confonderlo. Col tempo la terra si sarebbe riadagiata al suo posto e così le piante e allora l'acqua sarebbe tornata limpida e chiara e gli avrebbe permesso di capire e ricordare con ordine.

“Stai dormendo con gli occhi aperti?”

Non si era accorto del movimento al suo fianco finché la donna non aveva parlato. Natasha si era seduta a cavalcioni sulla panca a circa mezzo metro di distanza da lui e adesso lo osservava con aria... sollevata, forse. Si fosse trattato di qualcun altro l'avrebbe definita serena, ma non era sicuro che il termine potesse applicarsi a Natasha, quali che fossero le circostanze.

“Qualcosa del genere,” ammise, rivolgendole un sorriso sincero, “perché, stavo russando?” Ruotò leggermente col busto per fronteggiarla.

“No, ma ciondolavi un poco.”

Portava ancora i segni della battaglia sul volto: nei lividi che le ricoprivano parte del viso, nel labbro ancora spaccato ma in via di guarigione che le faceva sembrare la bocca più carnosa e morbida di quanto già non gli sembrasse, nello zigomo gonfio. Una fasciatura le andava dal collo, alla spalla e al petto per permetterle di tenere sollevato il braccio destro; un'altra le faceva capolino dal colletto largo e annodato con un nastro della camicia scura, segno che anche la ferita d'arma da fuoco ricevuta al sinistro era stata medicata.

“Sto bene,” lo anticipò senza esitazioni. Si era accorta del suo sguardo, ma non sembrava aver sentito il bisogno di sottrarvisi. “Tu, piuttosto, hai un aspetto terribile.”

“Parla per te, principessa. Ti sei vista allo specchio?”

“Ti sembro una che ha voglia di guardarsi allo specchio?”

“Direi di no,” le concesse. C'era qualcosa di profondamente rassicurante nel ritrovare i ritmi delle loro passate conversazioni, nello scoprire che non c'era niente di diverso, che nulla era cambiato. Il sollievo della familiarità ritrovata in ogni scambio con Natasha lo sorprendeva ogni volta. “Mi dispiace averti lasciata in balia di Pierce.”

“Di che stai parlando?” Gli sembrò confusa.

“Non sono svenuto per l'esplosione?” Ormai era arrivato alla conclusione che il sogno che l'aveva svegliato quella mattina non fosse un'invenzione, ma un frammento della notte dello scontro.

“No. Eri confuso, ma poi ti sei ripreso e abbiamo portato Pierce fuori dall'accampamento e fino al palazzo,” spiegò e Clint ne fu sollevato, “e poi sei svenuto,” o quasi.

“Sono svenuto davanti a tutti?”

“Come no, appena varcato l'ingresso. Il colonnello Fury è persino arrivato a soccorrerti coi sali.”

“Mi stai prendendo per il culo.”

“Ti giuro di no.” Ma stava vistosamente trattenendo un sorriso.

“Che stronza. Sono in condizioni piuttosto sensibili se non te ne rendessi conto, non dovresti prenderti gioco di me,” decretò, abbandonandosi ad un po' di sano e semiserio vittimismo.

“Non sei letteralmente svenuto. Abbiamo portato Pierce all'ala ovest e poi ti sei messo a sedere su un divano... e non ti sei più rialzato.” Si era rifatta seria, lo sguardo distante come se stesse rivivendo la scena proprio lì, nelle cucine.

“Dovevo avere un sacco di sonno arretrato,” tentò di ridimensionare le cose, riportarle ad un livello accettabile. Non aveva voglia di intristirsi. “Lo sai che sono mezzo sordo?”

“Me lo sono immaginato.”

“Come?”

“Bè, l'ho sospettato quando ho visto il sangue uscirti dall'orecchio... e poi ti sei voltato quasi del tutto per parlarmi,” alluse, indicando il modo in cui aveva riaggiustato la postura al suo arrivo.

“Se non altro adesso sentirò solo la metà dei tuoi insulti.”

“Non credo funzioni così, Barton.”

“Dovrebbe, no? E' giusto che un povero storpio soffra la metà di chi non lo è.”

“Non sei uno storpio,” lo redarguì lei.

“Significa che mi trovi attraente?”

“Ci sono diverse sfumature che separano lo storpio dall'attraente.” Come diavolo erano finiti ad andare a parare proprio là?

“Sei troppo pignola per i miei gusti.”

“Non sono qui per soddisfare i tuoi gusti, Barton.”

“Grazie al cielo. O non sarebbe divertente.”

Natasha reclinò il capo di lato, condensando tutto il suo (falso) disappunto in un'occhiataccia. Rimasero in silenzio per qualche secondo e un attimo dopo il cuoco che l'aveva servito tornò indietro per riprendersi la scodella vuota, accorgendosi della presenza di Natasha. Si affrettò a portare un piatto caldo anche per lei e poi si allontanò borbottando e maledicendo tutto il lavoro che aveva da fare e rimpiangendo i tempi in cui spalava letame in campagna.

“Hai deciso che fare?” Gli chiese. Erano bastate un paio di cucchiaiate perché il colore le risalisse fino alla guance accaldate.

“Dopo questo, dici?” Natasha annuì per dargli conferma. “Non ancora,” ammise. “Tu?”

“Neanch'io.” Realizzò che stava prendendo tempo, che si preparava a dire qualcos'altro. “Ma non credo che rimarrò nella capitale.”

Clint serrò le labbra e restò in silenzio per qualche attimo, tentando di abituarsi alla notizia.

“Ti perderai il funerale del secolo.” Sapeva che si sarebbe pentito d'averlo detto, ma non riuscì a trovare niente d'alternativo, niente che suonasse meno stupido.

“Ne ho abbastanza di morti.”

“Però hai detto che non hai deciso,” lo ritorse contro. “Tornerai?”

“Non lo so.”

“Credevo che il colonnello ti avrebbe convinta a rimanere.”

“Ci ha provato,” gli rivelò.

“Ci è riuscito?”

Ottenne una scrollata di spalle e uno sguardo evasivo che andò a concentrarsi sulla zuppa. Non era un sì, ma neanche un no. E non si faceva illusioni riguardo la possibilità che la sua incertezza fosse dovuta al desiderio di non ferirlo. Natasha non si sarebbe fatta alcun problema in tal senso; magari le avrebbe comunque letto il dispiacere negli occhi, ma non si sarebbe abbassata ad ottemperare alle sue esigenze in modo tanto superficiale.

“Rimarrai con lo Scudo?” Parlò di nuovo, ma senza alzare gli occhi dalla scodella.

“Probabilmente.” A dir la verità non ci aveva ancora riflettuto. Il futuro gli appariva come uno specchio confuso in cui non poteva discernere alcun riflesso. Non ancora, almeno. “Non mi dispiace, quello che fanno. E in fin dei conti c'è solo una cosa che so fare bene...”

“Rompere le palle?”

“No, mi riferivo al tiro con l'arco, tante grazie.” Le lanciò addosso una mollica di pane secco che andò ad incastrarsi tra i suoi capelli, legati in una minuscola coda di cavallo con un nastro striminzito.

“Non è vero che è l'unica cosa che sai fare.”

“E' vero che è l'unica cosa che so fare bene, però,” la corresse. “Tanto vale che metta le mie abilità al servizio di una buona causa.”

“Come fai a sapere che è una buona causa?” La domanda le uscì con disarmante sincerità. Gli fu chiaro come quello doveva essere un punto su cui si era arrovellata parecchio in quegli ultimi giorni, senza riuscire ad approdare ad una qualche considerazione definitiva.

“Non lo so,” ammise, “però so che è la causa a cui si sono votate tante persone che... stimo.” Il fatto che persone come lord Phillip, Melinda, Antoine, Fury, lady Carter e persino Maria Hill ne facessero parte, gli faceva apparire lo Scudo come una valida alternativa al suo proposito di girare il regno senza una meta fissa, senza uno scopo. “Potrebbe essere palloso,” aggiunse, “con te lo sarebbe di meno.”

Natasha rialzò il capo per puntargli addosso il suo sguardo, confuso e grato al tempo stesso, ma solo per un attimo. Un secondo dopo stava già inarcando un sopracciglio e guardandolo male, cosa che le riusciva un po' troppo bene per i suoi gusti.

Ripiombò il silenzio, durante il quale Clint si curò di non fissarla per non metterla a disagio mentre mangiava. Era vero che avrebbe preferito lavorare per lo Scudo al suo fianco, perché se c'era una cosa che aveva capito nelle ultime settimane, era che formavano un'ottima squadra. Che funzionavano, che colmavano l'uno le lacune dell'altro, che riuscivano ad intuire le reciproche intenzioni solo guardandosi. Con Natasha si sentiva al sicuro e al tempo stesso era convinto che anche per lei fosse così. E poi c'era l'euforia che gli prendeva lo stomaco tutte le volte che ingaggiavano in uno dei loro battibecchi, l'ansia di scoprire come avrebbe risposto lei, quella di capire come avrebbe ribattuto lui.

Gli sembrava che, quand'erano insieme, tutto andasse al proprio posto, tutto acquistasse un senso proprio. Forse era solo un tiro mancino della sua immaginazione, forse era solo stata una questione di tempismo: magari le cose sarebbero state diverse se si fossero incontrati in altre circostanze.

Oppure no.

“Posso chiederti una cosa?” Gli chiese Natasha, che aveva di nuovo perso interesse nella sua minestra di carne e verdura.

“No, non ho una fidanzata, Nat. Smettila di chiedermelo con tanta insistenza,” rispose a tono. Aveva voluto scherzare, ma la vide cambiare repentinamente espressione. “Stavi per chiedermelo?”

“Non l'avevo formulata così nella mia testa.” Giurò che era arrossita, ma non era certo che non fosse colpa del calore emanato dalla zuppa. O della sua febbre improvvisamente riacuitasi. “Diciamo per niente.”

“Cos'è che volevi sapere?” Trattenersi dal ridere fu l'impresa più ardua della settimana. Sì, pur considerando tutto quello che era successo.

“Mi chiedevo se era per via della...” fece una breve pausa e smise di nuovo di guardarlo, “la donna bionda al villaggio.” Capì senza difficoltà che stava parlando di Bobbi.

“Per via di lei... cosa?”

“Il fatto che non mi hai permesso di toccarti.” Ricambiò improvvisamente il suo sguardo con la stessa sfacciataggine a cui l'aveva abituato durante il loro viaggio. Non c'era provocazione però, solo una genuina curiosità che pareva portarsi dietro da diverso tempo. Qualcosa che non le tornava. Adesso era lui a sentirsi in imbarazzo – i ruoli si erano invertiti a velocità talmente elevata da fargli girare la testa.

“Ancora non ho capito come hai fatto a scoprire di me e Bobbi.”

“La vostra segretezza faceva acqua da tutte le parti.”

“Mi spiavi?”

“Ero lì per te, ricordi?”

“Sì... me lo ricordo.” L'inquietava pensare che non l'aveva mai notata tra gli abitanti del villaggio, che Natasha poteva essere stata nelle vicinanze a sua completa insaputa. “Non era per Bobbi,” si risolse a rispondere.

“Perché allora?”

“Perché non volevi farlo.”

La vide sgranare leggermente gli occhi, come colpita – sorpresa? Inorridita? Offesa? – dalla sua risposta. Assottigliò lo sguardo, poi, scrutandolo con un'attenzione che aveva del maniacale. Stava cercando di capire se poteva credergli o meno. Solo quando i tratti del suo volto da contratti si rifecero più rilassati, comprese che era arrivata ad una conclusione che non gli era dato conoscere.

“Grazie,” disse infine.

“Per cosa?”

“Per esserti fidato di me,” pronunciò lentamente, come calcolando ogni sillaba, ogni parola. Realizzò che stava facendo fatica a sostenere i suoi occhi, ma non tentennò, né cedette alla voglia che aveva di guardare altrove.

La solennità e la portata del momento riusciva quasi a percepirle nell'aria, farsi cosa concreta e poi scivolargli nello stomaco, calde, piacevoli e rassicuranti. Un sorriso gli riaffiorò sulle labbra e infine scosse il capo.

“Com'è la zuppa?” Le offrì un appiglio per virare la conversazione e allontanarsi bruscamente da quei lidi pericolosi.

“Fa schifo.”

“Credo sia carne di cavallo.”

“Non è la cosa peggiore che potrebbe esserci qua dentro.”

“Magari è il cavallo di Fury. L'ha sacrificato per permetterci di avere un pasto caldo,” suonava drammatico al punto giusto.

“Non è divertente, Barton.”

“Stai ridendo!”

“No, sto mangiando, non vedi?”

“Sono mezzo sordo, ma non mezzo cieco. Non credere di potermi fregare.”

“Perché mezzo sordo e non mezzo muto?” Natasha aveva alzato per un istante gli occhi al soffitto, forse per interrogare una qualche entità divina che viveva nelle travi scoperte che lo solcavano da un lato all'altro.

“Bella domanda.” Ne approfittò per scagliarle addosso altre due, tre palline di pane, che andarono a finirle tra i capelli, oltre la spalla, e dritta nello scollo della camicia. Fu l'approdo di quell'ultimo proiettile a farla diventare mortalmente seria. “Vado a chiedere se c'è modo di organizzare il mio funerale oltre a quello di re Howard.”

“Ottima idea.”

“Mi ci vorrà un po' per uscire di qui, però.”

“Fa niente, sono una persona paziente.” Mise da parte la scodella ormai vuota e poi lo guardò rimettersi dritto, leggermente barcollante. “Non fare l'idiota, aspettami.”

Non era molto stabile neanche lei, ma gli offrì comunque il suo appoggio dalla parte del braccio (un po' più) sano.

“Il bastone della mia vecchiaia,” la prese in giro.

“Non farti illusioni. Voglio assicurarmi che arrivi vivo, così possono prenderti le misure.”

“Wow, dritta al punto.”

“Per la bara,” puntualizzò.

Clint scoppiò a ridere, senza pensarci.






Note: come promesso, si cominciano a risolvere le situazioni in sospeso e si tirano le conclusioni della storia. Il confronto tra Clint e Coulson era doveroso, e anche Natasha deve decidere cosa fare della sua vita...
Nient'altro da dire quindi passo a ringraziare tutti quelli che leggono, in particolar modo a Ragdoll_Cat e ovviamente la sociabeta Eli :3 Grazie!
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII ***


Capitolo 27
~

 

Antoine improvvisò qualche passo di danza quando lo vide arrivare.

“Finalmente!” Esclamò, rivolgendogli uno di quei suoi sorrisi ampi e contagiosi. “Stavamo giusto pensando di inviare una squadra di soccorso a cercarti.” Clint lo vide voltarsi verso Maria Hill, che gli stava di fianco, come in cerca di un appoggio che la donna si guardò bene dal dargli.

Si limitò a sollevare il boccale di birra verso di lui, prendendo atto della sua presenza, prima di defilarsi con una scusa qualsiasi.

“Credo sia la conversazione più piacevole che abbiamo mai scambiato,” commentò Clint, seguendola con lo sguardo mentre si allontanava. Indossava gli stessi abiti civili neri come la pece che lo Scudo forniva a tutti i suoi agenti: la fantasia era poca, ma se non altro le stavano meglio del soggolo che aveva addosso quando l'aveva conosciuta.

“Ma se non vi siete detti niente,” fece notare Antoine.

“Infatti.” Il fratello adottivo sorrise e gli batté una mano sulla spalla. “Che devo fare per avere qualcosa da bere?”

“Non credo che tu lo voglia sapere,” lo prese in giro. “Vieni, da questa parte.”

Il sole era calato e il cielo si era ormai fatto scuro e terso sopra le loro teste. Il cortile interno del palazzo reale, però, non aveva mai visto tanta vitalità come quella sera. Al centro dell'enorme spiazzo erano stati accatastati relitti di carri, mobili, varie strutture in legno a cui era stato dato fuoco almeno un'ora prima. Qualcuno doveva essersi lasciato ispirare e aveva deciso di approfittare dell'enorme falò per organizzare una sorta di rinfresco.

In men che non si dica botti di vino e birra erano state trasportate dalle cantine al cortile, lunghi tavoli di legno umido e scheggiato dalle cucine insieme a sedie, panche e sgabelli. Altri si erano occupati del cibo: prosciutti, dolcetti, frutta e formaggi razziati dalle dispense di sua maestà.

Clint aveva spiato il viavai dalle finestre del secondo piano e alla fine si era deciso a scendere – seppur con una certa riluttanza – per unirsi ai festeggiamenti improvvisati. Non era stato l'unico ad aver avuto quell'idea: il cortile era gremito di facce conosciute e sconosciute in egual misura; capannelli più o meno consistenti si erano formati intorno al fuoco e alle tavolate imbandite in tutta fretta.

A dir la verità non era sicuro di aver capito cos'è che stessero festeggiando esattamente, ma non gli importava. Forse bastava essere ancora vivi per avere qualcosa da celebrare, e poi rimanere chiuso nella camera che gli era stata assegnata gli risultava ormai impossibile. L'immobilità cominciava a mettergli addosso una fastidiosa irrequietezza.

Antoine si mise seduto su una panca libera e si occupò di versargli un bicchiere di birra che non esitò a porgergli.

“Qualcuno si è ricordato di chiedere al principe se era d'accordo?” Chiese Clint, prendendo posto accanto al fratello.

“Non ce n'è stato bisogno. Ci ha pensato lui,” gli rivelò, ficcandosi in bocca un chicco d'uva ancora troppo acerba.

“E' stata una sua idea?” Lo cercò istintivamente con lo sguardo e lo trovò che era intento ad intrattenere un gruppetto di donne di diverse età, alcune vestite da cameriere, altre da nobildonne, altre ancora da agenti dello Scudo.

“Ha un modo tutto suo di affrontare il lutto,” convenne Antoine.

Un'allegria forzata e sgradevole illuminava gli occhi del principe Anthony Stark mentre gesticolava animatamente. Disse qualcosa che fece ridere le sue ospiti e allora rise anche lui, ma senza divertimento.

Il funerale di re Howard si sarebbe tenuto l'indomani: il programma prevedeva un lungo corteo che si sarebbe snodato in processione attraverso il centro della città e fino alla cattedrale dove il sovrano sarebbe stato tumulato nella cappella degli Stark. Il sacerdote che aveva dato asilo agli uomini dell'Idra era stato arrestato e prontamente sostituito con un religioso fedele alla corona.

“Forse non sa affrontarlo affatto,” mormorò Clint a mezza voce.

Non gliene faceva una colpa, ma – a giudicare da come si muoveva – il principe Anthony doveva essere sbronzo già da un pezzo. Non aveva avuto proprio nessuna intenzione di scendere a patti con la verità della morte del padre, Clint sospettava, ma solo dimenticarsene.

“Sei stato alle esecuzioni?” Il tono di Antoine era cambiato.

Clint scosse il capo senza aggiungere altro. Per tutto il giorno processi, condanne ed esecuzioni dei membri dell'Idra fatti prigionieri dall'ordine si erano susseguiti nello spiazzo antistante il palazzo reale. I nodi scorsoi delle forche dondolavano ancora nel vento, davanti all'ingresso della dimora regia, tra le macerie provocate dalle cannonate nemiche – tentò di non pensarci.

La giustizia aveva fatto il suo repentino corso così come i vertici dello Scudo avevano voluto. Clint sapeva che alcuni dei capi dell'ordine e dei funzionari di corte si erano opposti a procedimenti tanto rapidi, ma alla fine la controparte aveva avuto la meglio. Il rischio che il colpo di stato andasse a buon fine era stato concreto, elevatissimo: c'era bisogno di una risposta immediata e implacabile, affinché di tutti quei traditori fosse fatto un esempio e un monito. I sudditi necessitavano di una dimostrazione di forza rapida e schiacciante che non lasciasse alcun margine di dubbio, nessuna incertezza sulla capacità della dinastia Stark di detenere il potere.

E nonostante tutte le condanne – a morte, al carcere a vita, ai bagni penali – che erano state somministrate quel giorno, il pericolo che qualcuno decidesse d'emulare la congiura della lega dell'Idra, ritentare una seconda volta, era ancora vivo e presente.

Solo lord Pierce era stato risparmiato. Lady Carter era convinta che fosse a conoscenza di informazioni troppo importanti perché potessero giocarselo tanto imprudentemente. Per tutti gli altri, però, non c'era stato scampo.

La situazione non era piaciuta a nessuno: neanche la vendetta era riuscita ad addolcirla. Tra traditori e fedeli alla corona c'era stata una distanza troppo esigua e sottile, quasi impalpabile. Amici, fratelli, colleghi divisi su due schieramenti opposti. Forse proprio il grigiore del giorno aveva spinto il principe a mettere in piedi quel banchetto raffazzonato alla meno peggio, e gran parte dei provvisori abitanti del palazzo a non farsi pregare più di tanto per accettare l'invito: tutti avevano bisogno di dimenticare. Anche se solo per una notte.

C'era persino il capitano Rogers, seduto un paio di tavoli più in là in compagnia di lady Carter e un uomo dalla pelle scura che Clint non aveva mai visto prima. Durante l'ultima riunione indetta dal colonnello – che per quanto sembrasse odiarle, ne richiamava in continuazione – aveva appreso quanto numerosi fossero i membri dello Scudo giunti alla capitale dopo aver abbandonato le sedi dell'ordine sparse per il regno. Anche Antoine aveva raggiunto la capitale in circostanze simili.

Tutto sarebbe rientrato nella normalità dopo il funerale, dopo la breve incoronazione che ne sarebbe seguita. Breve perché così aveva voluto il principe. Girava voce che Anthony avesse espresso la volontà di tenerla a porte chiuse, ma gli alti funzionari di corte erano stati irremovibili: il popolo doveva poter assistere all'investitura del nuovo sovrano.

Era tutta una questione di apparenze, aveva realizzato Clint. La consapevolezza gli aveva scatenato in petto un moto di solidarietà per il principe rimasto invischiato in una cosa troppo più grande di lui. Certo, la sua vita era più agevole e privilegiata di tante altre, ma Clint non era sicuro che tra una vita fatta di miseria e libertà, e una di ricchezze e responsabilità schiaccianti avrebbe scelto la seconda ad occhi chiusi.

“A che pensi?” Antoine gli assestò una leggera gomitata su un fianco.

“Se cerco di star dietro a tutto quello che è successo rischio di impazzire,” confessò con finta leggerezza prima di bersi un lungo sorso di birra.

“Naaa, scommetto che stai pensando alla tua fidanzata.”

“La mia che?”

“La tua fidanzata. La rossa. Credi che non me ne sia accorto?”

“Non accorgersi di Natasha sarebbe impossibile,” si lasciò sfuggire. Si chiese come avrebbe reagito se gli avesse rivelato che Natasha altri non era che la strega di cui era stato proprio lui il primo a parlargli, tante settimane prima sul viale polveroso che conduceva a villa Coulson.

“Su questo siamo d'accordo. E... quindi?” Lo colpì di nuovo per esortarlo a parlare, per estorcergli una qualche confessione.

“Quindi niente. Non è la mia fidanzata, come ti salta in mente?” Gli venne da ridere, ma non spontaneamente come avrebbe voluto. Certo che associare la parola fidanzata a Natasha gli provocava lo stesso straniamento dell'accoppiata pesce e vestito di pizzo, tanto per dirne una.

A lei aveva pensato pure troppo in quei giorni, ma mai in termini di permanenza, sempre in quelli della precarietà e della sfuggevolezza. Dopotutto era stata proprio lei a rivelargli che se ne sarebbe andata prima del funerale. Per quel che ne sapeva poteva averlo già fatto senza neanche salutarlo, non se ne sarebbe sorpreso più di tanto.

La realizzazione gli rimestò sgradevolmente lo stomaco, ma cercò di non darlo a vedere. Si era dovuto ricredere su tante cose che la riguardavano, aveva dovuto distruggere le prime impressioni, o forse completarle con altre per dar solidità e profondità alla sua immagine. Ma l'impossibilità di fissarla in un'idea precisa non aveva fatto altro che riconfermarsi.

“Non me la dai a bere,” stabilì Antoine con teatrale determinazione.

“Dammi altra birra, piuttosto.” Lo costrinse a cambiare argomento e condì il tutto con una mezza risata, mentre l'altro gli riempiva di nuovo il bicchiere per poi mettersi a bere direttamente dalla brocca con cui l'aveva servito.

Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si erano messi a scherzare su argomenti tanto triviali e frivoli come ragazze e conquiste galanti?

Lasciarono che le chiacchiere, le risate e persino le canzoni improvvisate si preoccupassero di occupare il silenzio al posto loro. La febbre se n'era andata e il dolore alle ossa, alle giunture, alle ferite si era trasformato in un fastidioso, ininterrotto indolenzimento sparso; eppure continuava a sentirsi intontito. Forse più per colpa degli eventi che di qualsiasi altra cosa.

“Credi che lo troveranno?” Antoine era di nuovo tornato serio e Clint non ebbe bisogno di chiarimenti per capire di chi stesse parlando. Grant.

“Non lo so,” ammise. “Lo spero.”

La spedizione dello Scudo per ripulire le cripte della cattedrale era stata un buco nell'acqua: quand'erano giunti sul luogo l'avevano trovato già deserto, fatta eccezione per i cadaveri. Lord Phillip si era personalmente occupato di controllare che non ci fosse anche Grant là in mezzo.

Di Barney non aveva parlato con nessuno. Clint non aveva avuto il coraggio di chiedere al padre adottivo se avesse visto qualcuno che gli somigliasse. Si era limitato a farsi fare una descrizione dei morti rinvenuti nella chiesa da uno degli agenti che avevano partecipato all'operazione e se non ricevere una risposta affermativa non l'aveva rassicurato del tutto, era sempre meglio del contrario. Per quel che ne sapeva suo fratello era vivo, vegeto e ormai lontano dalla capitale e dal suo trambusto.

“Credi che lo uccideranno?”

“Probabilmente,” scrollò le spalle, “a meno che lord Phillip non voglia intercedere per lui.”

“Lo farebbe,” asserì Antoine. Clint non poté far altro che dargli ragione. “Hai mai pensato che le cose potessero andare a finire così?”

“Neanche nei miei sogni più selvaggi.”

“Scommetto che i tuoi sogni selvaggi sono di tutt'altro genere,” lo stuzzicò per allontanare il più possibile il profilo di Grant dai propri pensieri.

“Sarebbe una scommessa ben piazzata,” convenne Antoine senza fare una piega prima di costringerlo a far cozzare il bicchiere contro la brocca in una sorta di bizzarro brindisi.

“Mi auguro non abbiate intenzione di esagerare con quella.”

La voce proveniva da un punto non meglio identificato alle loro spalle. Si voltarono entrambi per accogliere lord Phillip con un sorriso. Continuava a muoversi con circospetta lentezza, ma stava decisamente meglio rispetto ai giorni precedenti.

“Ce n'è un po' anche per me?” Si informò l'uomo, esaminando sommariamente alcuni dei contenitori disseminati sulla tavola.

Antoine si adoperò per trovargli un bicchiere pulito e un po' di vino e solo quando lord Phillip si fu accomodato tra loro tirò fuori una lettera dalla tasca interna della giamberga scura che indossava, slacciata sul davanti.

“Leopold e Jemma mi hanno scritto,” disse semplicemente, mostrando la missiva ad entrambi.

“Che dicono?” Chiese Clint.

“Stanno bene,” confermò lord Phillip mentre Antoine gli sfilava di mano il foglio ripiegato in quattro per leggerne il contenuto.

Una musica squillante proruppe in quel preciso istante dal lato opposto del falò che continuava ad ardere allegro al centro del cortile. Si dimenticarono della lettera, improvvisamente troppo presi dalla banda scalcagnata formatasi in quattro e quattr'otto e dalle coppie che erano saltate in piedi per lanciarsi in balli sfrenati e scomposti.

Fu allora che la vide, solo un'ombra proiettata sulla parete traforata da mille finestre, come occhi spalancati o sigillati sul buio della notte. Il calore delle fiamme sembrava sciogliere l'aria in un liquido denso e pastoso che deformava immagini, persone e cose. E Natasha era una di quelle macchie sconnesse che parevano risentire dei tentacoli bollenti e invisibili del fuoco.

“Torno subito,” si sentì dire, distratto, mentre abbandonava il bicchiere sul tavolo per circumnavigare il perimetro della festa e raggiungere la donna che se n'era rimasta in disparte.

La fasciatura al collo era sparita: teneva le braccia incrociate al petto come per difendersi da una situazione che non comprendeva e che la metteva a disagio, una barriera che la divideva dal gruppo di festaioli già mezzi ubriachi che avevano deciso di trascorrere la notte tra vino, bagordi e cibo più o meno prelibato.

“Stai per andartene?” La prima cosa che le chiese non appena le fu a pochi passi di distanza.

“Domani mattina, all'alba,” rispose soltanto, dritta al punto.

Vide il suo sguardo deviare oltre la sua persona, tornare sulle celebrazioni, su chi aveva cominciato a battere le mani per tenere il ritmo della musica. Si voltò anche lui per guardare il principe Anthony che coinvolgeva in un ballo improvviso una nobildonna appena sopraggiunta con un pesante plico di fogli sottobraccio. I documenti le caddero a terra per il brusco movimento, ma la donna si sforzò di mostrarsi piacevolmente sorpresa, forse un tantino irritata.

“Chi è quella?”

“La figlia dell'alto funzionario di corte,” rispose Natasha.

Continuava a risultargli assurdo il modo in cui nonostante la donna evitasse di interagire con chi la circondava, non mancava mai di sapere tutto sul conto di tutti. Come se il mondo avesse occhi ed orecchi di cui Natasha poteva servirsi per spiare chiunque avesse voluto in qualsiasi momento. Sempre.

“E' lei che si è occupata del funerale di re Howard. Tecnicamente è il padre a ricoprire la carica, ma in pratica è lei a fare... bè, quasi tutto.”

Clint tornò su di lei, abbozzando un vago sorriso in sua direzione. Era da un po' che non le sentiva mettere così tante parole una dietro l'altra, il che gli fece pensare che era nervosa e che ogni scusa era buona per rimandare qualunque fosse lo scopo della sua apparizione.

“Perché non vieni a bere qualcosa?” Le propose con falsa indifferenza, come se non gli importasse.

“Non posso,” scosse il capo. La risposta se l'era aspettata.

“Va bene.” Annuì, ma non aveva intenzione di lasciare che la loro ultima sera si concludesse così, nell'angolo più buio e silenzioso del cortile. “Possiamo andare da qualche altra parte, se non vuoi stare qui.”

Sostenne lo sguardo curioso e perplesso di Natasha senza batter ciglio. La guardò raggrumare le labbra e poi forse trattenere una qualche reazione, passare rapidamente in rassegna le opzioni che le si presentavano, calcolare i pro e i contro di ciascuna, le possibili conseguenze.

“Non voglio portarti via dalla tua famiglia,” disse allora, alludendo con un cenno del capo al gruppetto formato da lord Phillip, Antoine e lady Melinda, da poco unitasi ai festeggiamenti. Persino il colonnello Fury aveva fatto la sua comparsa, fermo ed immobile sotto l'arcata d'ingresso, le mani unite dietro la schiena e l'occhio sano che abbracciava l'intero spiazzo con aria di supervisore.

“Avrò tempo per stare con la mia famiglia,” la rassicurò con una leggera scrollata di spalle. Tornò a guardarla e la sorprese di nuovo a fissarlo con curiosità e sospetto.

“Va bene,” concluse infine, come arrendendosi alla sua proposta. Eppure non gli era sfuggito il fatto che aveva ceduto molto prima di quant'era solita fare; e poi che cosa era venuta a cercare alla festa? Era impossibile che si fosse avventurata nel cortile senza immaginarsi cosa l'aspettava.

“Va bene,” le fece eco. “Aspetta un momento. Non ti muovere.”

Si assicurò che gli desse retta e poi sparì per tornare indietro ai tavoli, alla ricerca di una brocca ancora piena. Ne trovò una di vino, ma non si curò di recuperare anche una coppia di bicchieri.

“Possiamo andare,” annunciò dopo averla nuovamente raggiunta.

Natasha annuì e si affrettò a precederlo fino al piccolo ingresso secondario della servitù che li riportò all'interno del palazzo. Il silenzio li accompagnò durante la loro ascesa al primo e poi al secondo piano e infine nell'ala est.

“Ecco perché non ti ho vista in giro in questi giorni,” commentò mentre si addentravano nella zona del palazzo lasciata praticamente disabitata per volere dello Scudo.

“Sono stata occupata,” lo contraddisse.

“Con cosa?” Le porte scivolavano loro di fianco, senza sosta.

“Pierce. Fury ha voluto che l'interrogassi,” rivelò, continuando a dargli le spalle.

L'informazione non lo sorprese più di tanto: si era accorto dell'intesa che era venuta a crearsi con naturalezza tra Natasha e il colonnello. I loro pensieri sembravano muoversi su un medesimo ordine di idee, una complicità diversa rispetto a quella che Clint sentiva di condividere con lei.

“Sei anche un'esperta di interrogatori?”

“Sono soprattutto un'esperta di interrogatori,” lo corresse.

Si fermarono di fronte ad una porta singola che Natasha non esitò ad aprire. Ma Clint non fece in tempo a seguirla oltre la soglia perché la donna si era bloccata sul posto, sbarrando il passaggio. I gemiti distorti che provenivano dalle ombre scure che si muovevano in sincrono sul letto gli solleticarono l'orecchio ancora funzionante solo in quel momento.

“Li conosci?” Gli venne da ridere: qualcuno si era impossessato del letto di Natasha per trascorrere la serata in attività ricreative tutt'altro che innocenti.

“No, direi di no,” Natasha confermò i suoi sospetti, reclinando il capo di lato per capire come diavolo erano messi.

“Vino?” Le suggerì offrendole la brocca, quasi si trovassero nella platea di un teatro popolare ad assistere ad uno spettacolo particolarmente interessante.

La donna gli scoccò un'occhiataccia prima di entrare nella camera, recuperare qualcosa di abbandonato dietro le tende che oscuravano la finestra e tornare indietro richiudendo la porta. Capì che era il suo bagaglio, la stessa bisaccia di tela che si era portata dietro per tutto il viaggio e che qualcuno allo Scudo doveva averle fatto riavere.

“Andiamo nella tua,” decise lei per entrambi, esortandolo a farle strada.

“Dio, Natasha, non ti facevo così sfacciata.” L'appunto gli guadagnò una gomitata che lo fece prontamente zittire.

Ci misero più del previsto a ritrovare la strada per l'ala ovest: il palazzo reale rischiava di tramutarsi in un vero e proprio labirinto per chi non ne conosceva la suddivisione a menadito.

“Ti hanno messo nella stanza dei bambini?” Gli chiese quando si soffermarono di fronte alla camera di Clint, finalmente vittoriosi.

“Qualcosa del genere. Credi che Stark bambino abbia dormito qua dentro?” Aprì la porta e la invitò ad entrare, seguendola subito dopo.

Natasha abbandonò le sue cose sul pavimento e andò ad affacciarsi alla finestra aperta; il vento smuoveva a malapena il pesante tendaggio polveroso che lasciava filtrare la luce pallida della luna e delle stelle che li occhieggiavano dal cielo.

“Sembra troppo normale per essere la camera del principe,” asserì a mezza voce.

Clint la studiò distrattamente mentre si sfilava gli stivali e appoggiava la brocca sul comodino, accanto a quella dell'acqua. Si arrampicò sul materasso altissimo e troppo morbido e ci sprofondò nel mezzo come aveva fatto in quegli ultimi giorni. L'avvallamento centrale si accentuò ancora di più quando Natasha lo raggiunse mettendosi seduta sopra i vari strati di coperte e lenzuola, con la schiena contro i cuscini.

Si riappropriò del vino e ne bevve un sorso prima di passarglielo. La brocca si alternò tra le mani dell'una e dell'altro per un paio di volte senza che nessuno dei due aprisse bocca. Clint appoggiò il capo ai cuscini ammassati contro la testiera del letto e osservò il baldacchino stracciato attraverso cui si intravedevano gli affreschi scrostati del soffitto.

Il silenzio con lei era confortevole. Lo era stato fin dall'inizio, ma adesso la sensazione era ancora più netta e piacevole. Non c'era l'ansia di doverlo riempire con parole inopportune o superflue, ma il tacito accordo a godere della reciproca presenza senza troppi annessi e connessi.

Toccò a Clint infrangerlo quando un pensiero gli trafisse il cervello con straordinaria vividezza: “Tornerai al monastero, non è vero?”

Non ebbe bisogno di guardarla per sentirla irrigidirsi in modo a malapena percepibile, quasi spostando l'aria che li separava per darle una forma diversa. Solo a quel punto si decise a voltarsi verso di lei, la guancia schiacciata sull'angolo del cuscino ruvido.

“Devo,” rispose dopo un lunghissimo attimo d'incertezza.

Avrebbe voluto convincerla a non farlo: in fin dei conti i vertici della Stanza Rossa si erano già adoperati affinché Natasha venisse tolta di mezzo. Tornare nella fossa dei leoni avrebbe significato correre un rischio... inutile.

Forse era solo la necessità di tornare all'inizio adesso che sentivano d'aver raggiunto una fine. Di cosa, però, Clint non avrebbe saputo dirlo con sicurezza. La fine delle insicurezze, magari, dei compromessi e delle false identità che avevano assunto nel corso della loro vita, talvolta coscientemente, altre senza realmente accorgersene.

E poi, se ci pensava, non era così diverso dal suo ritorno a villa Coulson, là dove tutto era cominciato e dove tutto doveva concludersi. Il viaggio non era ancora terminato: solo ritornare all'origine e avere la conferma che le cose – anche quelle familiari – erano cambiate davvero, che loro erano cambiati davvero... solo quello avrebbe potuto mettere la parola fine al marasma che avevano rincorso e da cui erano stati rincorsi in quelle ultime settimane.

Natasha non disse più niente e lui neanche. Si limitò a guardarla mentre appoggiava le labbra sul bordo della brocca e la inclinava per bere; mentre gliela restituiva asciugandosi la bocca col dorso della mano; mentre gli occhi le si facevano sempre un po' più lucidi per l'ebbrezza data dall'alcool; mentre si abbandonava progressivamente contro i cuscini.

Clint sentì le palpebre farglisi pesanti, uno stato di pace talmente reale da farsi cosa concreta. Si costrinse a tenere lo sguardo fisso su Natasha che si assopiva al suo fianco, a non cedere al sonno prima di lei, perché la voleva guardare e perché sapeva – se lo sentiva fin in fondo allo stomaco – che quando avrebbe riaperto gli occhi lei non sarebbe stata lì. Che se ne sarebbe andata senza salutarlo, perché detestava gli addii; non gliel'aveva mai confessato, ma non ce n'era bisogno.

Ebbe a malapena la prontezza di appoggiare la brocca ormai vuota sul comodino prima di tornare a disegnare con gli occhi il profilo di Natasha, così morbido e al tempo stesso letale.

Insisté finché le linee non si confusero con il contorno dei cuscini, del letto, dei capelli.

Finché il sonno non arrivò a reclamare il suo dominio anche su di lui.

 

*

 

Sognò le dita di Natasha che si muovevano sul suo viso con improbabile delicatezza, affondando nella barba sfatta ormai da diversi giorni, tracciando coi polpastrelli i confini del mento e della mascella.

Sognò il tocco lento e impalpabile delle sue labbra sugli occhi, sul naso, sulla fronte, sulle labbra.

Sognò se stesso, le proprie mani che l'attiravano a sé per i fianchi, che andavano a cercare la pelle morbida al di sotto della stoffa scura che l'avvolgeva come in una nube soffice e cupa.

Sognò di poter sentire sotto le dita le cicatrici che le solcavano la schiena, tratti gonfi e in evidenza sulla superficie altrimenti liscia e morbida della sua pelle pallida.

Sognò di poter tracciare la mappa di quei rilievi come un cartografo minuzioso e preciso, senza lasciare neppure un centimetro inesplorato, senza permetterle di mantenere alcun segreto per se stessa.

Sognò il respiro di Natasha che si mescolava col suo e il calore della sua lingua sulla propria.

Sognò l'eccitazione che gli faceva pizzicare la pelle, scorrere il sangue più rapido e caldo nelle vene, che minacciava di strapparlo a quel torpore tanto piacevole.

Sognò e gli sembrò quasi di vederla, bianca e pallidissima, segnata dalle lotte, dal dolore e dalla fatica, a malapena illuminata dal bagliore rosato dell'alba.

Sognò di avere il suo peso confortevole addosso, proprio come sul pendio erboso dove erano stati sorpresi dai saltimbanchi in un giorno ormai lontanissimo.

Sognò di sentire l'odore che emanava il suo corpo, il sudore che lo ricopriva... o forse era il proprio e non riusciva più a distinguere i confini, come gli succedeva quando rimaneva imprigionato tra il sonno e la veglia senza poter varcare la soglia in nessuna delle due direzioni.

Sognò di accarezzarle il viso su cui gli pareva di indovinare – come un ricordo distante – le tracce impressevi dal cuscino.

Sognò di scendere con le mani sul suo corpo nudo, di stringere la presa sui suoi seni, di chinarsi a baciarli con la bocca ancora impastata dal sonno, di succhiare i capezzoli scuri e duri e strapparle un gemito, un'eco lontana che non poteva che appartenere alle sue più fervide fantasie.

Sognò di sentirla fremere tra le sue braccia, di sentirla mentre lo schiacciava contro la barriera dei cuscini, mentre lo guidava con intorpidita impazienza dentro di sé, muovendosi in un mondo come rallentato e sospeso tra la realtà e l'immaginazione.

Sognò di sprofondare dentro di lei, di trovarla umida e calda e così maledettamente invitante da farlo impazzire, da fargli dimenticare chi era e come si chiamava, di azzerare tutte le sue percezioni, di ridurre il mondo a quell'unico punto in cui i loro corpi si incontravano e sconfinavano l'uno nell'altro senza soluzione di continuità.

Sognò di chiamarla per nome dieci, cento, mille volte, di baciarla a lungo tutte le volte che gli sembrava di non poter respirare.

Sognò di imparare a memoria il sapore della sua bocca, il contrarsi dei suoi muscoli sotto le dita che continuavano ad esplorarla, il contorcersi del suo corpo sul suo man mano che i movimenti si facevano più convulsi e frettolosi.

Sognò che erano avvinghiati l'uno all'altra come un nodo impossibile da districare, due nastri accaldati e sudati che si davano calore, respiro e piacere a vicenda.

Sognò di aver aperto gli occhi e di averla vista nel proprio sguardo offuscato ed opaco, le guance rosse, le labbra gonfie e la perdizione più totale nello sguardo.

Sognò che era stata proprio quell'immagine, così assolutamente perfetta, a togliergli il respiro, a farlo sentire come se un'inondazione bollente gli si fosse riversata in corpo, un fulmine che aveva risvegliato ogni sua singola terminazione nervosa per ricordarle che era ancora viva, che era ancora presente, che il fastidioso dolore che non l'aveva lasciato per un attimo non era altro che un dato come un altro, che se ne sarebbe andato. Presto.

Sognò di averla sentita chiamare il suo nome, di averla baciata ancora una volta mentre si scioglieva su di lui.

Sognò... sognò...

 

*

 

Riaprì gli occhi sull'uomo dell'affresco che lo stava fissando con aria impertinente. Ci mise un po' ad abituarsi alla luce del giorno che filtrava accecante dalle finestre aperte.

Il letto era freddo accanto a lui, disfatto come se un intero esercito ci avesse marciato sopra.

Lui era nudo come un verme – i vestiti chissà dove – incastrato tra le lenzuola in modo talmente complicato da fargli supporre che l'incastro fosse frutto della mente di un ingegnere particolarmente brillante.

Natasha non c'era, però gli era rimasto addosso il suo odore. O forse se l'era solo immaginato.

Si ritrovò a richiudere gli occhi, a stringerli con foga come nella speranza di essere ritrasportato nel sogno, così vivido e reale e piacevole. Ma non ne fu capace.

Il meccanismo si era inceppato: la realtà si era frapposta tra lui e i deliri del sonno, separando nettamente i due mondi, rendendoli di nuovo incomunicabili. La coscienza l'aveva sospinto a forza oltre la soglia del dormiveglia e adesso non c'era più modo di tornare indietro, non prima della notte successiva.

Si lasciò sfuggire un sospiro disarticolato e poi qualcuno bussò alla porta.








Note: direi che le scelte dei nostri si stanno finalmente delineando e... mi sembrava un ottimo modo per farli salutare ù_ù I prossimi due saranno capitoli individuali (uno per Natasha, uno per Clint) dopodiché ci sarà la conclusione. Poi basta davvero, giuro :P
Ancora grazie a chi legge, commenta, e a chi lo fa in anteprima (sì, Eli, parlo con te!) :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII ***


Capitolo 28
~

 

Quando si fermò per far riposare il cavallo e sostituirlo con uno fresco alla stazione di posta, il sole era ormai calato. Si concesse di guardarsi alle spalle solo quando fu smontata; nelle orecchie il respiro affannoso dell'animale esausto che si mescolava alla musica sguaiata che proveniva dall'osteria adiacente alla stalla.

L'intrico delle colline aveva cancellato qualsiasi segno della capitale, delle sue cinta murarie, del campanile della cattedrale, della facciata elegante e semidistrutta del palazzo reale. Adesso c'erano solo le curve sinuose del paesaggio a disegnarsi contro il cielo arancione e tendente ormai verso il violetto che preludeva alla notte.

Si era impedita di voltarsi perché una vocina dentro di lei l'aveva messa in guardia: non era sicura che la voglia di tornare indietro non sarebbe stata tanto schiacciante da convincerla ad obbedirle. Era una debolezza che non si sarebbe potuta permettere: per questo aveva spronato il cavallo a sfrecciare rapido come il vento lungo la via principale.

In altre circostanze avrebbe preso strade meno in vista, scorciatoie e sentieri sterrati che si tuffavano nei boschi che chiazzavano le terre del re; ma gli avvenimenti degli ultimi giorni avevano bruscamente interrotto gli arrivi nella città principale del regno e la via maestra era pressoché deserta. Aveva incontrato solo qualche gruppo di commercianti, ribelli e persino soldati allo sbando, accampati sui prati o all'ombra di alberi frondosi per sfuggire alla canicola di un'estate ormai agli sgoccioli.

Conosceva a memoria i pericoli in agguato dietro la decisione di incamminarsi su vie tanto trafficate, ma non le importava. Anzi, per una sorta di paradossale e insensato desiderio, avrebbe voluto che qualcuno le tagliasse la strada, che le dessero un motivo per mettere in moto i muscoli, per permetterle di fare ciò che sapeva fare meglio: mentire, combattere, uccidere.

Ma il destino non sembrava essere intenzionato ad accontentarla. Non si era fermata che una volta per abbeverare e rifocillare l'animale e poi era ripartita finché non aveva dovuto arrendersi all'evidenza che la bestia aveva bisogno di riposare e lei – pur non volendolo ammettere – anche.

Un uomo le venne incontro emergendo dalle ombre che l'unica lanterna accesa proiettava sul fondo della stalla. La luce calda del tramonto si era fatta grigiastra, segno che l'oscurità avrebbe inondato il mondo da un momento all'altro.

“Quanto per un altro cavallo?” Gli chiese prima che potesse essere lui a rivolgerle la parola.

I tratti del volto dello sconosciuto si corrugarono in una smorfia confusa; Natasha lo guardò mentre lanciava un'occhiata alle proprie spalle, come se il buio da cui era appena uscito potesse dargli una qualche risposta.

“Dovreste chiedere al guardiano,” rispose infine.

Era alto e ben piazzato, i vestiti un po' troppo stretti per le sue spalle ampie e muscolose, per le braccia possenti e gonfie sotto le maniche della camicia spiegazzata. I capelli di un biondo sporco gli sfioravano le spalle, tirati indietro sulla fronte con un pezzo di spago.

“Sapete dove posso trovarlo?” Domandò allora, cominciando a spazientirsi. Sapeva che non era colpa dello sconosciuto se non era lui che si occupava di scambiare e rifocillare i cavalli, ma l'ostilità le era uscita comunque spontanea.

“Probabilmente là dentro a bere,” le indicò l'osteria con un pollice. L'insegna scolorita che ritraeva un doppio calderone ondeggiava tristemente nel venticello della sera, producendo un sinistro cigolio ad ogni oscillazione.

Natasha seguì la direzione indicatale dall'uomo: non aveva intenzione di mettersi a discutere con un ubriacone per farsi dare un cavallo fresco e pagare perché quello che lasciava avesse abbastanza acqua e biada.

“Dove siete diretta?” Lo sconosciuto la stava studiando e sebbene la cosa non le piacesse, non percepì nessuna minaccia nella sua persona. Solo una fastidiosa curiosità.

Gli scoccò un'occhiata indecifrabile e decise di non rispondere; al tempo stesso deliberò che avrebbe scambiato personalmente il cavallo con quello più in forma che avrebbe trovato nella stalla, tenendosi il denaro per il disturbo di dover fare da sola.

“I gendarmi vi saranno addosso prima dell'alba,” la mise in guardia l'uomo, del tutto non richiesto.

“I gendarmi hanno cose più importanti a cui pensare,” lo corresse mentre si addentrava nella stalla e l'odore di fieno ed escrementi si faceva più forte.

“Quindi venite dalla capitale. Sapete cos'è successo?”

Passava in rassegna i cavalli rinchiusi nei loro spazi e intanto si impegnava a non rispondere e a non sentirsi in colpa di dover abbandonare in un posto tanto squallido l'animale che l'aveva portata fin lì.

“Non avete voglia di parlare,” constatò l'uomo.

Natasha gli lanciò una rapida occhiata – visto contro quel poco di luce che ancora resisteva nel cielo, la sua sagoma appariva ancora più massiccia – prima di condurre il cavallo in quello che, tra i posti ancora liberi, le sembrava il migliore.

“E voi avete voglia di fare troppe domande,” gli ritorse contro. I respiri pesanti delle bestie che si riposavano o mangiavano tre le due pareti del capannone sembrarono intensificarsi per concordare con lei.

“Sto cercando mio fratello,” le rivelò, facendosi avanti per aiutarla a liberare il cavallo del morso, delle redini, della sella.

“Tutti stanno cercando qualcuno,” si sentì rispondere mentre tratteneva a stento il fastidio che quell'offerta d'aiuto non richiesta le procurava.

“Ditemi soltanto se la città è di nuovo sicura.” Lo guardò afferrare la sella e caricarsi le sue bisacce in spalla come se non pesassero che poche libbre.

“Lo è,” confermò, già stanca della conversazione. “State attento con quelle,” lo mise in guardia alludendo alle borse.

Si sentì in colpa perché era chiaro che l'uomo non voleva farle del male, ma non significava che avesse voglia di scambiare inutili informazioni con uno sconosciuto che non avrebbe più rivisto.

L'uomo annuì una sola volta, sovrappensiero, come registrando le sue parole. Riaprì bocca per consigliarle quello che secondo lui era il cavallo migliore; Natasha decise di fidarsi e si tenne alla larga mentre lo sconosciuto risistemava sella e finimenti sull'animale che si muoveva irrequieto, gli zoccoli che scalpicciavano sul pavimento ricoperto di paglia e fieno.

“Che è successo a vostro fratello?” Si odiò per aver sentito il bisogno di tener vivo quell'inutile scambio di circostanza. Probabilmente stava perdendo il lume della ragione.

“E' scappato di casa,” rispose semplicemente l'altro, completando il lavoro assicurando con cautela il bagaglio di Natasha all'animale che poi si curò di condurre all'esterno. “Ho promesso ai miei genitori che l'avrei ritrovato.”

“Magari non vuole essere ritrovato,” obiettò. La situazione era fin troppo familiare per i suoi gusti. Si chiese se non ci fosse qualcuno, da qualche parte in quel regno sterminato, che la stesse cercando per riportarla a casa. Dovunque casa fosse.

“Magari no,” convenne con lei, abbozzando un mesto sorriso in sua direzione. “Potrei sempre trovare un posto come fabbro e lavorare per il re,” aveva aggiunto come se non potesse credere lui stesso all'improbabilità dell'assunto. “Se l'avete conosciuto saprete dirmi se ha bisogno del mio martello e della mia incudine.” La stava prendendo in giro.

“Tentate,” lo invitò mortalmente seria, riappropriandosi delle redini. Le sembrava di avvertire la voglia di correre del cavallo fin nel proprio stomaco. “C'è molto da fare in città.” Si issò sulla sella, pronta a cavalcare per tutta la notte – per riposare avrebbe trovato un luogo più appartato e meno esposto ai pericoli della strada, più tardi. “Grazie dell'aiuto, signor...”

“Thor,” completò per lei.

Natasha annuì per prenderne atto e non attese altro prima di spronare il cavallo ad un serrato galoppo. Non si voltò per guardare la sagoma massiccia dell'uomo diminuire fino a ridursi ad un puntino distante.

 

***

 

La grata si aprì con uno schiocco scordo.

“Perdonatemi, padre, perché ho peccato.” Le parole rimasero sospese nello spazio ristretto e angusto del confessionale.

Selvig trattenne il fiato e Natasha riuscì quasi a percepire la botta d'ansia e agitazione che gli aveva chiuso la gola nel riconoscere la sua voce.

“N-Natasha? Dove... dove sei stata?” La preoccupazione per la sua incolumità, però, quella non se l'era aspettata. “Ti hanno seguita?” Quella per se stesso invece sì.

“No, sono stata attenta,” lo rassicurò.

“Cos'è successo? Gira voce che gli Stark siano stati uccisi. Ammazzati nel sonno.”

Oltre l'intrico della grata, indovinò il frettoloso segno della croce disegnato a mezz'aria dalla mano pallida dell'uomo. Aveva finto talmente tanto a lungo di essere un prete, che alla fine aveva finito per crederci lui stesso. Si chiese se se ne fosse accorto, se anche per lui la linea di demarcazione che divideva l'inganno dalla realtà si fosse confusa a tal punto da non poterla più individuare.

“La lega dell'Idra ha congiurato per ucciderli entrambi,” spiegò in tono asciutto, “ma il principe Anthony è sopravvissuto. Re Anthony.”

Ripensare agli eventi della capitale le faceva uno strano effetto. Era ormai passato un mese intero da quando si era lasciata la città alle spalle; l'estate aveva ceduto il passo all'autunno e il sole si era fatto meno violento col suo calore. I ricordi erano retrocessi in un angolo opaco della sua memoria e adesso le apparivano distanti, quasi irreali. Come se si fosse inventata tutto per una sorta di bizzarra malattia della mente.

“Re Anthony? Dio... Dio ci salvi,” balbettò Selvig dall'altra parte del divisorio. “E il ragazzo? Che ne è stato del ragazzo?”

“Credo sia tornato a casa,” capì che si riferiva a Clint. Anche i contorni della breve sosta che si erano concessi nel magazzino della chiesetta diroccata di Selvig, tanto tempo prima, le risultavano sfocati.

“Ho visto dei gendarmi ritirare i manifesti della sua taglia, in paese,” sospirò il prete prima di prorompere in un raschiante colpo di tosse.

“Le cose si sono sistemate.” Lo Scudo doveva essersi assicurato di far rientrare la situazione nella normalità, togliendo di mezzo gli avvisi che promettevano duemilacinquecento denari per la cattura di Clint Barton. Vivo o morto.

“Hai risparmiato anche lui?” Selvig stava fronteggiando la grata e cercando il suo sguardo attraverso la barriera che li separava.

Tra tutti i pensieri che le vorticavano costantemente davanti agli occhi, giorno e notte, quello di essersi rifiutata di uccidere Selvig per un ridicolo regolamento di conti, tra lui e uno dei capi della Stanza Rossa, era uno dei pochi che le avevano permesso di rimanere aggrappata alla realtà, di restare lucida, di non lasciarsi trascinare dalla piena impietosa che rischiava di travolgerla ogni volta che portava a termine una missione. Le pareva che tutta la sua umanità fosse racchiusa là dentro, che tutta la speranza per un futuro diverso – per una vita diversa – si concentrasse in quell'unico punto della sua esistenza in cui non era stata capace di uccidere.

Conosceva a memoria lo spazio dei giardini di vetro in cui aveva sorpreso a nascondersi l'ultimo membro di una nobile famiglia ormai decaduta, mangiato dai debiti, corroso dal ricordo della gloria passata, abbandonato da parenti ormai troppo distanti, da amici alienati dalla sua imbarazzante povertà, persino dai mobili che aveva dovuto pignorare o vendere o mettere all'asta per ridurre il cumulo di cambiali non pagate che stavano cominciando a schiacciarlo sotto la loro mole.

Un essere abietto, forse, ignobile. Ma, se si concentrava, riusciva a far riaffiorare la sensazione che le aveva provocato, della stranita solidarietà che gliel'aveva reso simpatico contro ogni pronostico. Non le era mai capitato di sentirsi così davanti ad una delle sue vittime, eppure era sicura di aver ammazzato gente ben più virtuosa di Selvig, persone che avrebbero meritato di vivere più a lungo di quanto Natasha non avesse loro concesso.

Era stato inspiegabile e lo era tutt'ora, ma aveva imparato a non cercare una giustificazione ad ogni costo, ad accettare l'irrazionale perché era l'insensatezza a fare gli esseri umani. Aveva voluto conservare quel frammento della sua vita come il ricordo della propria appartenenza al mondo degli uomini, come un amuleto a cui conferire il ridicolo potere di ricordarle che poteva essere altro.

Però quando aveva deciso di nasconderlo, quando Selvig l'aveva supplicata di non tornare indietro, di tentare la fortuna insieme a lui, non aveva avuto il coraggio di compiere quel salto nel vuoto. I nodi che la legavano alla Stanza Rossa erano ancora troppo forti e in fin dei conti dell'idea di poter cambiare vita, se ne serviva come di un balsamo, un sollievo temporaneo e precario, utile finché rimaneva quello che era: una fantasticheria inapplicabile alla realtà.

“Non dovevo ucciderlo,” finì per rispondere, indecisa.

Era stato proprio il pensiero di Clint a condurla fin lì, ad imporre una brusca deviazione al viaggio che avrebbe dovuto riportarla al monastero sulle montagne orientali del regno.

Forse era solo questione di paura, forse non aveva ancora trovato il coraggio per affrontare i propri fantasmi, i propri demoni. Magari era stata solo una scusa per prolungare il tragitto e strappare a se stessa altro tempo prezioso.

Abbassò lo sguardo sul libro rilegato che teneva stretto tra le mani. Qualche giorno prima si era svegliata in preda ad un'ansia paralizzante, ancora intrappolata ai confini dell'ennesimo incubo. Il terrore di sparire dalla faccia della terra senza che ci fosse anche un solo segno tangibile a ricordare la sua presenza, il suo passaggio, le aveva messo il panico addosso. L'idea di poter abbandonare il mondo lasciando a chi l'aveva conosciuta il sospetto che non fosse mai realmente esistita, perché di prove concrete non ce n'erano, le aveva pietrificato il respiro in gola.

Al fatto che la sua identità non fosse per lei che un'illusione, c'era abituata. Ma per gli altri? La Stanza Rossa aveva obliterato la sua individualità per trasformarla in un'arma a loro disposizione: a questo si era rassegnata. Ma non si era mai soffermata a pensare che poteva essere così anche per gli altri, che alla lunga nessuno sarebbe più stato in grado di vederla. Si poteva corrompersi, compromettersi, perdersi e confondersi fino a sbiadire del tutto? Fino a diventare solo il ricordo impalpabile di una persona che c'era e allo stesso tempo non c'era più? Un'ombra. Un fantasma. Il simbolo della morte.

La furia che aveva provato quando si era sentita ridurre ad uno stereotipo, ad un'idea preconfezionata di donna, di persona, se la sentiva ancora nelle ossa. Aveva sperato irrazionalmente che Clint fosse diverso e invece, in quel momento, si era dovuta ricredere. Anche lui l'aveva vista come un concetto in relazione a se stesso e nient'altro. Poi però le cose erano cambiate e sfociate in territori per Natasha del tutto sconosciuti. A quel punto tutte le nozioni che credeva di avere sul mondo e sugli uomini le erano risultato completamente inutili: aveva dovuto ricominciare da zero.

“Volevo che gli dessi questo,” si costrinse a dire, alludendo al libro di racconti stretto tra le dita.

“Perché?” Carpì immediatamente il sospetto e la preoccupazione nella sua voce. “Che hai intenzione di fare?”

“Perché voglio che l'abbia,” ribadì. Rivelargli che avrebbe voluto lasciargli un pezzo di sé, in qualche modo, le suonava stupido.

“Natasha... non starai pensando di...”

“Devo farlo, Selvig. Per l'ultima volta.”

“Dannata, ragazzina!” Sbottò il sacerdote, sobbalzando sul suo seggio come punto da un forcone appuntito. “E' una follia! Non puoi rientrare, ti...”

“Hanno già cercato di uccidermi,” decretò seccamente, forse nell'inutile tentativo di rassicurarlo con un'informazione tanto grave e macabra.

“C-Che cosa? Che-”

“Devo capire.”

“Capire c-cosa? Come ci si sente a morire? Cosa si prova ad e-essere torturati da dei m-maledetti psicopatici?”

“Sono una di loro, Selvig.”

“No, no che non lo sei. Mi hai salvato, ricordi? Mi hai risparmiato la vita.” Dopo tanti anni non era ancora riuscita a capire perché Selvig si ostinasse tanto.

“E poi ho ucciso e torturato e mentito e ingannato di nuovo.”

“L-Loro ti hanno obbligata.”

“Forse. Non lo so.” Troncò di netto la conversazione: non era lì per farsi convincere a non tornare alle montagne. “Glielo farai avere?” Insisté, mostrandogli il libro.

“No, glielo darai tu stessa. Non sono un messaggero dei morti, perdio,” imprecò, “sono solo un fottuto prete.”

“Non credo che dovresti invocare il nome di dio invano, allora,” finse di rimproverarlo anche se il suo rifiuto non le faceva piacere.

“Torna indietro sana e salva e portagli quel maledetto libro personalmente.”

Lo guardò mentre faceva saettare lo sguardo tutt'intorno; dei passi in avvicinamento l'avevano distratto.

“Dieci Ave Marie e venti Pater Nostri,” si affrettò a snocciolare. “Io ti assolvo dai tuoi peccati.” La stava mandando via, c'erano altri fedeli nella chiesetta e non aveva intenzione di lasciarsi cogliere in conversazioni compromettenti con un'assassina.

“Me la cavo con così poco?”

“Sei tu l'unica che ti può assolvere dai tuoi peccati,” stabilì, più sferzante e serio di quanto non l'avesse mai udito. I suoi occhi celesti, chiarissimi, sembrarono perforare i suoi per ficcarle in testa quel concetto impossibile. “Perdonati e va' avanti.”

“Non posso.”

“Allora non perdonarti,” blaterò spazientito, “ma va' avanti. Ti senti in colpa? Fa' del bene, salva la gente che non può salvarsi da sola, fallo anche quando sembra un'impresa da folli. Scegli di migliorare il mondo, scegli di essere l'eroe di un maledetto romanzo. Scegli di non essere più un prodotto di quei fottuti tiranni, Natasha.”

Non aspettò di ricevere una risposta prima di uscire dal confessionale.

“Oooh, signora Robbins, che piacere rivedervi.” La sua voce, di nuovo gentile e affabile, le arrivava ovattata adesso. Aveva ricominciato a mentire.

Natasha, invece, nel buio soffocante di quella scatola di legno, tremava.

 

***

 

La luce pallida della luna riverberava e si moltiplicava sul manto bianco che avvolgeva il paesaggio, conferendogli l'aspetto di un mondo impossibile e solo immaginato. Il silenzio innaturale rafforzava quell'impressione, accrescendo il senso di totale estraneità che la circondava. La neve era una coltre diafana che strangolava ogni singolo rumore, che disperdeva asetticamente i raggi lunari.

Per lei era quello l'inferno. Gelido, immobile, silenzioso e crudele.

Nessuno gridava nel monastero incastonato tra le montagne, nessuno faceva rumore, nessuno osava interrompere il continuo, infinito fluire di vite mutilate, le uniche possibili in un ambiente tanto ostile.

Ed era all'ostilità che Natasha, come i suoi compagni e le sue compagne, era stata addestrata. Alla violenza, al dolore, alla resistenza e alla persecuzione. All'abiezione e all'ignomia. Ad un'esistenza in cui la pietà non trovava posto, né per se stessa né per le altre.

Non aveva mai capito se l'edificio stritolato tra le rocce fosse stato costruito col preciso intento di ospitare il sistematico smantellamento di tante piccole vite da cui poter forgiare armi precise, infallibili, letali; o se fosse solo il frutto di menti particolarmente solitarie, di uomini e donne che avevano cercato la solitudine per sentirsi più vicini al cielo o qualsiasi fosse la divinità che invocavano, inginocchiati ai piedi del letto ogni notte.

Quand'era più piccola era solita fantasticare sul gigante che aveva abbandonato il mondo degli uomini, per lui troppo ostile, per rifugiarsi sulla montagna. Si era immaginata tutto di quella poderosa creatura dall'aspetto imponente e spaventoso, ma con un animo placido e innocuo. Quand'era morto gli uomini si erano pentiti della cattiveria con cui l'avevano respinto e avevano deciso di costruire un'enorme tomba in suo onore, nel ventre freddo della montagna.

Erano solo le stupide macchinazioni oniriche di una bambina tutt'altro che impressionabile, eppure l'idea di essere stata partorita da quel luogo invalicabile e gelido le risuonava vera fin nelle ossa. In fin dei conti nessuno dei bambini che scendevano fino al monastero avevano madri, padri, fratelli, sorelle, parenti o persone che si prendessero cura di loro. Al massimo restavano i fantasmi di una vita dimenticata e ormai inservibile, che avrebbe perso di colore e consistenza fino a sparire del tutto.

Avanzava attraverso l'infida coperta candida, Natasha, avvolta in un mantello di pelo bianchissimo che le impacciava i movimenti e le permetteva di nascondersi in tutto quel fulgore abbacinante, alieno. Avanzava e cancellava le proprie tracce come le avevano insegnato alla Stanza Rossa, rendeva i propri passi impalpabili e leggeri. Inesistenti.

Conosceva almeno tre passaggi segreti che le avrebbero concesso di accedere all'interno dell'impervio monastero. Scelse il più arduo di tutti, quello più lontano dal punto in cui si trovava, perché voleva mettersi alla prova, voleva convincere se stessa di poter tutto, di poterli ingannare con strumenti che loro stessi le avevano fornito.

Il vento gelido e tagliente le sferzava il viso e i capelli coperti dal pesante cappuccio: la chioma rossa sarebbe stata troppo visibile in quel deserto invernale; un fiore sbocciato nell'assenza di vita più totale e completa o sangue che stillava da una ferita inflitta al dorso della montagna.

Le guance bruciavano per il bacio violento del freddo, le labbra erano secche e minacciavano di spaccarsi, le mani guantate e comunque intorpidite, i piedi come pezzi di ghiaccio che si ostinava a mettere l'uno dietro l'altro.

Provò piacere alla difficoltà, provò piacere nel sentirsi parte integrante della montagna nemica, fredda e mortale proprio come quella. Provò piacere e si maledì con tutta la forza che aveva in corpo perché non voleva essere un'idea, non voleva sentirsi come un'idea.

Voleva essere solo Natasha e il pensiero di non sapere come fare ad esserlo le raggelava l'angoscia in petto.

 

*

 

Il silenzio, all'interno, era ancora più completo. Adesso che era passato così tanto tempo dall'ultima volta che era stata al monastero, la sensazione di aver appena messo piede in un enorme sarcofago fu ancora più vivida e reale.

Si fermò davanti alla parete delle croci che aveva il fiato grosso e i piedi in fiamme. Il buio all'interno dell'edificio era totale e soffocante come il silenzio. Ma conosceva quel posto a memoria, sapeva come non fare rumore, come evitare i punti sorvegliati: la sua mappa le era stata inscritta negli occhi tanti anni prima. Avrebbe potuto ridisegnarla a memoria in qualsiasi momento, accurata in ogni dettaglio.

Quindi non si stupì quando, allungando le mani nude, si ritrovò a premere i palmi sulla pietra fredda e inerte, sui solchi regolari e costanti che la segnavano in lungo e in largo, seguendo ordini precisi e lineari di croci. Ogni segno rappresentava un fallimento: questo le avevano insegnato. Tutte le volte che qualcuno non ce la faceva – uomini, donne, ragazzini o bambini che fossero – diventava una croce su quel muro. Di loro non rimaneva nient'altro che quelle. Non importava se fossero morti in missione, di stenti, stramazzati al suolo durante un allenamento particolarmente intenso, per mano propria o altrui. Morire significava fallire e i fallimenti andavano a finire su quel muro sterminato su cui mani ferme avevano disseminato centinaia di segni.

Era vietato ricordare chi era morto; neppure esisteva un concetto di morte in tal senso, sulla montagna. Era vero solo il fallimento e chi vi incappava veniva semplicemente cancellato e dimenticato come se non avesse mai calcato la terra.

Quello era l'unico ultimo riposo loro concesso, quello era il loro cimitero, una parete di pietra liscia davanti alla quale non ci si poteva fermare in raccoglimento o per pregare. Solo la contemplazione del fallimento era possibile e Natasha provò vergogna nel constatare che anche adesso che le cose erano cambiate, anche adesso che si considerava ormai sul punto di abbandonare quel luogo infernale per sempre – anche adesso nel trovarsi al cospetto di tutte quelle croci, la prima reazione era fatta di disgusto e superbia, dell'altezzosa convinzione che non sarebbe mai finita là sopra.

Perché era troppo brava, troppo abile, troppo rapida. Era lei la gemma più rara e preziosa ad essere stata rinvenuta nei fianchi sterili della montagna.

Forse era per quello che decidere di andarsene per sempre era stato così difficile. Perché la consapevolezza di essere la migliore l'aveva ancorata a quel luogo, a quella gente, a quegli ideali, come se il virtuosismo fosse la prova inconfutabile che il suo destino era quello, che era nata per quello. E tuttavia aveva capito che, per quello, non voleva morire.

Mentre seguiva le file di croci con le mani e scendeva sempre più in basso verso quelle più recenti, Natasha trattenne il fiato. Tentò di figurarsi le facce di chi era stato ridotto ad uno sfregio nella pietra, di richiamare alla memoria le compagne che lei stessa aveva visto morire con un misto di superiorità, turbamento e disprezzo per la loro plateale debolezza. Non le tornarono in mente che volti vaghi e cancellati dal tempo e dalla sua stessa volontà e provò l'irrefrenabile bisogno di vendicarle tutte, una per una, di invocare il loro perdono, di chiedere scusa per la propria complicità in quello sterminio indiscriminato.

Le croci si fecero sempre meno levigate, finché la pietra acuminata non le aprì un taglio sul polpastrello del pollice sinistro. Si soffermò sul segno più nuovo di tutti; doveva risalire al giorno prima, un paio al massimo. Tornò un po' indietro e per un desiderio ridicolo e insensato si provò a individuare la croce che rappresentava Marina, la compagna con cui aveva inutilmente tentato di condividere la fuga, con cui non era riuscita a spartire la morte.

Ne scelse una a caso, quella che le aveva stretto una morsa fredda allo stomaco quando l'aveva toccata. Ci spinse il dito ferito fino a sentire il sangue che sgorgava e colmava il piccolo solco, finché il fastidio non divenne vero e proprio dolore.

Restò immobile, ad occhi chiusi, schiacciata contro il muro per un lunghissimo istante. Forse si aspettava di sentire le voci di tutti quei morti, ma sapeva che era impossibile. Promise a se stessa che sarebbe tornata per distruggere tutto, per cancellare il monastero dalla montagna, per farlo sprofondare nelle viscere di quella terra ostile che non li aveva mai voluti.

Si scostò e prese a rovistare nella sua bisaccia finché non trovò una scatola quadrata di legno. L'appoggiò a terra e l'aprì, tastando delicatamente il globo che vi era racchiuso all'interno. Era fatto di ferro e aveva all'estremità una miccia lunga almeno quattro piedi... non avrebbe avuto molto tempo per andarsene dopo averla innescata. O almeno così aveva spiegato il principe Anthony quando l'aveva sentito parlare con Fury nei suoi laboratori a battaglia conclusa.

A detta del suo inventore si trattava di un prototipo molto più stabile di quello utilizzato durante lo scontro, e doveva aver avuto ragione perché il viaggio non ne aveva mutato lo stato. Gliel'aveva sottratta di nascosto neanche lei sapeva bene perché e aveva sfidato il destino portandosela dietro col pericolo che esplodesse da un momento all'altro. Ma non l'aveva fatto e quella semplice verità le infondeva sicurezza e coraggio, come se il mondo le stesse dimostrando il proprio accordo, il proprio sostegno.

La piazzò proprio in prossimità della croce che rappresentava Marina – non importava che fosse accurata o meno – e cercò l'acciarino nella borsa. Il fuoco sembrò bruciarle gli occhi per il troppo contrasto con l'oscurità circostante. L'avvicinò alla miccia e aspettò che la lambisse.

Si rimise dritta e la osservò per qualche istante, assicurandosi che non si spengesse sul più bello. Il cuore aveva preso a batterle più rapido e insistente nel petto, incantandola in fissa della fiammella che rosicchiava il cordoncino, un palmo alla volta.

Si trattenne troppo a lungo, probabilmente per lo stesso motivo per cui aveva giocato d'azzardo con la propria vita portando la bomba con sé. Voleva dare al fato ogni possibilità per toglierla di mezzo, per punirla per quello che aveva fatto, per farle capire che vivere sarebbe stata una colpa imperdonabile.

Scivolò nel buio – adesso più intenso, fitto e denso di prima – senza fretta, muovendosi nuovamente verso il passaggio segreto che l'aveva portata fin lì. Dei passi felpati, distanti, sembrarono rimbombare per i lunghi, stretti corridoi.

Quando l'esplosione scosse la montagna era ormai impegnata nella sua discesa lungo il fianco innevato.

Sentì qualcosa spezzarsi all'altezza del petto mentre tentava di figurarsi il muro che si infrangeva in mille frammenti, spargendo le croci della vergogna sul pavimento, travolgendo gli agenti accorsi sul posto troppo tardi per potervi porre rimedio.

Nessuno di loro aveva fallito. Erano solo stati inghiottiti e resi parte di un male troppo più grande di loro.

 

*

 

Il fuoco ardeva nel camino e illuminava la piccola camera che Natasha aveva affittato per la notte. Il mantello bianco come la neve era abbandonato sul letto scheletrico, gli stivali erano ad asciugarsi lì accanto a lei, e la lama del suo coltello migliore, appoggiata sulla fiamma, si faceva man mano più incandescente.

Si rimise in piedi e si spogliò della casacca, del gilet, della camicia. Prese tempo e si concesse un lungo sorso del liquore trasparente che aveva comprato in un paese vicino quella mattina stessa, di ritorno dalla montagna, con la ridicola speranza di poter placare il fastidioso rimestare allo stomaco che non l'aveva lasciata un istante.

Slacciò i pantaloni e li abbassò quel tanto che le fu sufficiente per esporre il marchio a forma di clessidra dietro il fianco. Ne disegnò il contorno con le dita, sentendo la pelle liscia, coi suoi rilievi familiari e provò un odio che avrebbe rischiato di accecarla se non avesse trovato il modo di incanalarlo in qualcos'altro.

Si chinò a prendere il pugnale bollente e il pezzo di legno ricoperto di stoffa che aveva preparato non appena aveva messo piede nella stanza. Si posizionò davanti allo specchio sistemato tra il vecchio scrittoio a cui mancava una gamba – tenuto in equilibrio perché incastrato nell'angolo – e la parete. Il riflesso del marchio ne risultò perfettamente incorniciato.

Infilò il pezzo di legno rivestito tra i denti e strinse forte mentre avvicina lama calda alla pelle tenera e scoperta del fianco. Una stilettata dolorosa la riempì quasi timidamente quando incise la carne, moltiplicandosi in infinite onde concentriche che andarono aumentando di intensità man mano che procedeva.

Si impedì di farlo troppo velocemente perché voleva un lavoro fatto per bene, preciso: non aveva intenzione di lasciare neanche una traccia del marchio che le avevano impresso a fuoco quando aveva superato la prova d'iniziazione.

Il legno scricchiolò nella morsa dei denti mentre il coltello tagliava e si faceva strada nella sua pelle; le sfuggì un gemito soffocato e poi un altro e un altro ancora. Il dolore si fece sempre più forte, sempre più accecante, finché non le parve di essere sul punto di svenire, di vedere tutto nero e di perdere il controllo di se stessa.

Ma il solco circolare cui aveva dato inizio raggiunse inaspettatamente il punto d'origine. Il cerchio di carne marchiata cadde a terra con un rumore grottesco, subito accompagnato dal rettangolo di legno che aveva lasciato andare senza neanche accorgersene.

Permise che il dolore la riempisse, che la liberasse una volta per tutte dalla schiavitù fisica e mentale che il marchio simboleggiava, come se la sofferenza potesse purificarla... ma sapeva che era solo un'illusione, che dei propri crimini e dei propri peccati non si sarebbe mai sbarazzata del tutto.

Il cerchio rosso sanguinante che le si apriva su un fianco, però, racchiuso nella cornice sgangherata dello specchietto, rappresentava un nuovo inizio. Portava in sé la possibilità di ricominciare secondo regole inedite, seguendo un codice che lei stessa si sarebbe data.

Selvig aveva ragione. Poteva fare del bene e anche se quel bene non avrebbe cancellato il male che lo aveva preceduto, non ne avrebbe neanche aggravato il carico.

Poteva essere un'altra persona; anzi – realizzò mentre il respiro le usciva disarticolato e affannato dalle labbra – poteva essere se stessa.

Si sentì sollevata.

Si sentì libera.






Note: il cameo di Thor è infilato un po' così, in extremis, ma mi dispiaceva averli messi proprio tutti tranne il nostro difensore asgardiano preferito :P
Per il resto, questo capitolo mi serviva per portare a compimento la storia di Natasha, il suo cambiamento, le sue decisioni, ecc. Per capire cos'avrà deciso di fare della sua vita, toccherà aspettare l'ultimissimo capitolo. Il prossimo invece avrà una funzione simile a questo, ma per Clint.
Finisco di blaterare e ringrazio tutti! Chi legge, commenta, e la sociabeta Eli :)
Al prossimo capitolo!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 29
*** Capitolo XXIX ***


Capitolo 29
~

 

Il paese gli sembrava dieci volte più piccolo di quando l'aveva lasciato, come se il tempo e la distanza avessero accorciato le misure e ristretto le case, le strade, persino il pozzo e la fontana.

Non aveva idea del perché si fosse deciso ad uscire finalmente da villa Coulson per immergersi nella vita del villaggio. Probabilmente per una semplice questione di curiosità.

Ma adesso che le occhiate indecifrabili degli abitanti che conosceva uno ad uno lo seguivano lungo la via, gli parve di aver commesso un grave errore di valutazione. Forse non era cambiato niente e per loro era rimasto lo straccione benedetto dal Signore che era asceso al rango di nobiluomo senza nessuna capacità particolare dalla sua e che per di più aveva attentato alla vita di uno dei migliori ufficiali del regno.

Il vento improvvisamente più fresco lo fece rabbrividire. Si sforzò di non pensare all'estate che si sarebbe presto trasformata in pallido autunno, agli sguardi criptici di uomini, donne, bambini. Li salutò però, talvolta con un cenno della mano, altre con un mezzo inchino.

In fin dei conti perché avrebbe dovuto importargli? Sapeva cos'era successo, conosceva la verità e la sua coscienza era tutto sommato a posto. Quello che pensavano gli altri non gli interessava. Tentò di convincersene perché gli suonava ragionevole, ma era più facile a dirsi che a farsi.

Si soffermò nel bel mezzo della via principale, guardandosi avanti e alle spalle, vedendo le teste dei curiosi rientrare frettolosamente in casa come tartarughe che si rifugiano nel loro guscio al minimo segnale di pericolo.

Avevano paura di lui. Non era sicuro che fosse un male considerato che quando se n'era andato da lì l'avevano accusato di essere il figlio del demonio in combutta con una strega malefica. Il miglioramento c'era ed era sensibile, bastava prenderne atto e farselo bastare.

“Sir Barton!” Tornò a fronteggiare il fondo della via, in prossimità della fontana, individuando una figura che si muoveva rapida in sua direzione.

Simone. C'era il bambino più grande al suo fianco – che, a differenza del villaggio, era cresciuto invece che rimpicciolirsi – e quello più piccolo stretto tra le braccia.

“Sir Barton!” Ripeté, come per paura di vederlo fuggire senza aspettare di sentire cos'avesse da dire.

Le andò incontro per accorciarle le fatiche e stava ancora pensando ad un modo per esordire quando il figlio maggiore della donna gli si agganciò ad una gamba, cogliendolo alla sprovvista.

Il primo pensiero fu chiedersi se non stesse tentando di staccargliela o di fargli del male per punirlo di una colpa non meglio identificata; ma poi capì che lo stava... abbracciando. Lo stomaco gli si contorse bruscamente senza alcun preavviso e un piacevole calore – a cui cominciava ad abituarsi un po' troppo ultimamente – gli si propagò per il petto, facendogli riaffiorare un sorriso sulle labbra.

“Ehi,” li accolse così, scompigliando i capelli folti e spessi del ragazzino e lanciando un'occhiata carica di inesprimibile gratitudine in direzione di Simone.

“Sapevamo che eravate tornato, ma venirvi a trovare alla villa sarebbe stato inappropriato,” spiegò la donna, come per scusarsi di quel saluto in ritardo. Il bimbo più piccolo le stava accoccolato col capo sul petto e lo osservava con occhioni calmi, pigri e curiosi al tempo stesso.

“Non dite sciocchezze. Potete salire alla villa quando vi pare e piace, a lord Phillip non dispiacerà.”

Simone sorrise, ma Clint capì che non aveva la benché minima intenzione di prenderlo in parola. Gli volevano bene, questo ormai doveva riconoscerlo e accettarlo, ma neanche l'affetto più sincero poteva colmare i netti confini che separavano i nobili dai popolani, i ricchi dai poveri.

“Non abbiamo creduto alle accuse neppure per un secondo,” riprese la donna.

“Mai!” Il ragazzino, che intanto l'aveva lasciato andare, dette voce alla sua indignazione.

“E quando hanno cominciato a distribuire quegli orribili volantini per tutto il paese...,” Simone scosse la testa, il fantasma della collera che doveva aver provato in quei giorni ad aleggiarle sul bel viso scuro.

“Qualcuno vi ha infastidito?” Era quello che gli premeva sapere, perché Simone e i suoi bambini non erano mai stati ben inseriti nella comunità e Clint si era dovuto arrendere alla semplice evidenza che tutte le volte che la situazione si inaspriva, erano sempre i diversi a pagarne le conseguenze.

“I gendarmi sono venuti a cercarvi in casa nostra,” gli rivelò. Si stava sforzando di suonare casuale per non farlo sentire responsabile di quell'imprevedibile contraccolpo.

“Mi-”

“No.” Gli aveva poggiato una mano sul braccio per impedirgli di continuare. “Hanno messo tutto in disordine, ma non più di quello,” lo rassicurò. “Alcune donne del lavatoio sono arrivate per testimoniare che eravate stato visto uscire dal bosco nella direzione opposta al villaggio.”

“Bè, mi dispiace,” riuscì a dirle comunque, anche se l'idea che qualcuno avesse intercesso per loro nonostante la diffidenza lo consolava. “Come ve la siete cavata?”

“Bene,” Simone annuì con veemenza come per rafforzare la sua convinzione. “Lady Bishop si è presa cura di noi, prima che...”

Il pensiero di Kate gli annacquò per un attimo il cervello.

“Ho sentito dire che l'hanno spedita in convento,” si ritrovò a formulare con una certa riluttanza. Era quello che gli aveva raccontato la cuoca ancora in servizio a villa Coulson.

“Con quello che stava succedendo era probabilmente la scelta migliore,” disse Simone. “Questi non sono tempi per bambini, fanciulle o uomini per bene.”

Una risata amara premeva per risalirgli su per la gola mentre si chiedeva se Kate avrebbe odiato di più dover sposare un vecchio ciccione che non aveva mai visto prima o maritarsi direttamente con Cristo e vivere tutta la vita nella reclusione più totale. Fosse stato in lei avrebbe scelto di gettarsi in un burrone, piuttosto.

“Quando se n'è andata, gli altri ci hanno dato una mano,” asserì Simone attirando a sé il primogenito per tenerselo vicino. “Ci sono brave persone anche qua in mezzo,” disse, “solo che alle volte non sanno di esserlo. Basta ricordarglielo.”

Clint ricambiò il suo sorriso e si sentì stranamente pacificato; la sensazione sarebbe stata ancora più netta se avesse avuto la certezza che Kate stesse bene, che non la stavano costringendo a fare proprio niente contro il suo volere. Formulò l'intenzione di andarla a cercare nel caso non si fossero avute notizie più precise: dopotutto, anche se era ancora troppo giovane, la ragazza aveva un dono quando si trattava del tiro con l'arco e lo Scudo avrebbe sempre avuto bisogno di nuove energie. Dopo aver conosciuto lady Carter, Maria Hill e scoperto la vera natura del legame che univa lady Melinda a lord Phillip, sapeva che per una donna c'erano altre opzioni oltre la fede nuziale e il soggolo.

A distrarlo dalle intenzioni che gli si sovrapponevano rapide davanti agli occhi, arrivò una musica distante. Non seppe dire se fosse sempre stata lì e se ne fosse accorto solo in quel momento, o se fosse appena cominciata.

“Non ricordavo fosse giorno di festa,” commentò.

“Non lo è,” Simone stava guardando nella direzione da cui proveniva la musica. “La signorina Barbara si sposa.”

“Se ne andrà, la signorina Barbara?” Chiese in apprensione il figlio maggiore, guardando la madre da sotto in su.

“No, resterà qui insieme al signor Hunter, ricordi?”

L'immagine di Bobbi gli si impose bruscamente all'attenzione. La ripensò nella tinozza mentre si faceva il bagno e gli chiedeva se aveva intenzioni serie nei suoi confronti. Anche dopo tutto quello che era successo, una parte di lui era rimasta convinta che non si sarebbe sposata sul serio con un uomo qualunque. Non si era nemmeno chiesto se avesse voglia di rivederla, se fosse intenzionato ad andarla a trovare, eppure adesso provava un bizzarro, remoto fastidio nell'apprendere che si era sposata proprio quel giorno.

“Come mai così tardi?” Si sentì chiedere, la voce innaturalmente impostata.

“Volevano aspettare che la situazione si risolvesse,” spiegò Simone, puntandogli addosso i suoi occhi neri. “Girava voce che avrebbero arruolato tutti gli uomini.”

“Dio santissimo, chi è che racconta panzane simili?”

“Il parroco diceva di ricevere lettere ed informazioni direttamente dalla capitale,” scosse il capo, scettica. “Il signor Hunter non voleva andarsene e rischiare di lasciarla vedova una seconda volta.”

Annuì appena e restò per un attimo a guardare il fondo della strada dove alcuni bambini erano usciti a giocare con dei rami secchi.

Buffo come si fosse aspettato – anzi, come avesse sperato – di trovare le cose cambiate e adesso che c'era proprio nel mezzo, a tutti quei mutamenti, non era sicuro che gli piacessero. Forse era solo questione di sicurezze che sentiva venirgli meno, la rassicurante costanza di relazioni stabili eppure non impegnative, o magari aveva commesso un grave errore di sottovalutazione.

“Perché non venite a cena da noi questa sera?” Propose Simone per riscuoterlo dal torpore in cui era sprofondato. “Non potremo offrirvi niente di eccezionale, ma ci farebbe molto piacere.”

“Certo,” annuì senza esitazioni, sorridendo in direzione del ragazzino che si era appena prodigato in una teatralissima dimostrazione di trionfo.

“Va bene, allora a stasera.” La donna si congedò in tutta fretta, trascinando via il primogenito che continuava a guardare indietro verso di lui, salutandolo con ampi gesti.

Aspettò di vederli sparire dalla propria visuale prima di riprendere a scendere lungo la strada lasciandosi guidare dalla musica che gli solleticava l'orecchio sano.

“Bentornato, sir Barton!” La moglie dell'ortolano si era fermata a metà strada con una cassa colma di pomodori verdi, cogliendolo alla sprovvista.

“Salve,” si affrettò a rispondere.

“Buongiorno, signor Barton. Non è una magnifica giornata?” Anche il panettiere aveva messo il naso fuori dalla finestra aperta del negozio.

“Smettila di importunarlo, Oliver,” la vecchia sorella dell'uomo gli era comparsa di fianco sul davanzale. “Non dategli retta, signor Coulson. Buona giornata!”

“Guardate chi si rivede, il figlio di lord Phillip!” Il barbiere fermo sulla soglia della sua bottega.

“Bentornato, signore! Che ne dite di un mazzo di fiori per vostra madre?” La fioraia che agitava tulipani e garofani come un'ossessa.

I saluti si moltiplicarono e Clint fece fatica a rispondere a tutti, a snocciolare frasi di circostanza per gente che non gli aveva mai realmente rivolto la parola senza che la diffidenza la facesse da padrone. Era come se l'attenzione rivoltagli da Simone avesse innescato una reazione a catena, come se avessero trattenuto il fiato in attesa di scoprire se fosse ancora indegno della loro fiducia e, dopo aver capito di poterlo considerare affidabile, si erano lanciati nella mischia per fargli una buona impressione. Non gli importava che tutte quelle carinerie fossero dettate dal timore che lord Phillip incuteva alla sua gente, gli fece piacere. Perché in fin dei conti l'autorità dei Coulson non era mai stata messa in discussione, ma la maggior parte degli abitanti del villaggio non si era mai comunque preoccupata di ingraziarsi Clint in alcun modo.

E invece, adesso, l'idea che la famiglia fosse stata in grado di riconquistare il suo posto nella regione dopo le incredibili peripezie trascorse, che avesse combattuto fianco a fianco col re, che addirittura l'avesse visto morire, cambiava le cose. Gli eventi avevano generato un rinnovato rispetto. Poco importava che la quasi totalità delle notizie che credevano di avere fosse inaccurata, lacunosa o più frequentemente inventata.

Per una volta tanto la superstizione era dalla sua.

 

*

 

Schivò una frotta di bambini urlanti e sporchi di terra per raggiungere il recinto che circondava il piccolo giardinetto in cui si stavano svolgendo le celebrazioni.

Un singolo tavolo imbandito con una lunga tovaglia bianca – che Clint sapeva far parte del corredo di Bobbi per le sue prime nozze – era stato posizionato al centro dello spiazzo erboso; file di bandierine colorate si arcuavano tra gli striminziti alberelli da frutto, impennandosi in prossimità delle finestre del primo piano in modo un tantino comico. Almeno un quarto degli invitati stava ballando scompostamente accanto al vialetto d'ingresso, muovendosi a tempo con la musica allegra e furibonda che un terzetto di suonatori scalcagnati stava suonando; gli altri erano seduti a tavola, impegnati a bere, mangiare, chiacchierare; tutt'intorno bambini impazziti e coinvolti in giochi che Clint non conosceva, oppure a star dietro alle galline e alle caprette che si erano mescolate alla festa.

Bobbi indossava un abito a scacchi di un blu-grigio che faceva risaltare l'azzurro intenso dei suoi occhi. In testa portava una ghirlanda di fiori che rischiava di caderle tutte le volte che il marito le faceva fare una piroetta su se stessa.

Nessuno si curò di lui perché i vicini andavano e venivano per portare i loro auguri alla coppietta felice praticamente senza sosta.

Il fastidio che aveva provato nell'apprendere la notizia da Simone evaporò come neve al sole. Bobbi sembrava felice e Clint si sentì sollevato di non essere altro che uno spettatore; perché quel quadretto, per quando idilliaco e ameno, non faceva per lui e probabilmente non avrebbe fatto per lui in nessuna circostanza.

Solo il senso della misura di quanto le cose fossero davvero cambiate lo destabilizzava un poco. La consapevolezza che la vita era andata avanti anche senza di lui lo rassicurava e infastidiva al tempo stesso. Eppure era questo che aveva desiderato prima di lasciare la capitale. Di veder rispecchiato il mutamento che sentiva essere avvenuto dentro di lui in ciò che lo circondava.

La coppia formata dagli sposi si separò: Hunter era tornato vicino al tavolo per bere e ridere ad una qualche battuta; Bobbi invece si era fermata e stava guardando nella sua direzione. Clint si sentì come irrigidire, ma cercò di non darlo a vedere.

Lei gli fece cenno di aggirare la casa e di incontrarla sul retro, il tutto senza lasciar cadere l'espressione estasiata e divertita della sposina novella. Distolse lo sguardo un attimo dopo, come se niente l'avesse turbata.

Clint obbedì e si fece trovare accanto alla porticina aperta che, in prospettiva, collegava il soggiorno, alla cucina, al giardino. Bobbi emerse dall'ombra fresca dell'interno, ancora più bella adesso che la vedeva da vicino.

“Ehi, straniero,” lo apostrofò con un mezzo sorriso. Nonostante tutto era serena.

“Signora Hunter,” ricambiò.

“Ho sentito che eri tornato, ma non credevo che saresti venuto fin qui.”

“Passavo di qua,” ammise. “Simone mi ha detto che ti sposavi oggi.”

“Se volevi interrompere la cerimonia, sei arrivato tardi,” lo prese in giro con quel suo solito sguardo sprezzante e divertito insieme.

“Interrompere la cerimonia? Non mi andava di farmi spezzare l'osso del collo per rappresaglia.”

“Hunter ti avrebbe al massimo spezzato un dito... un braccio magari.”

“A dir la verità mi riferivo a te.”

Vide i suoi occhi illuminarsi di una luce diversa, più allegra e sincera, come se un velo le fosse stato strappato dal viso per permettergli di vederla davvero. Si guardarono in silenzio senza dire niente, quasi prendendo atto della parola fine che una mano invisibile andava tracciando sotto la loro storia. Probabilmente nessuno dei due aveva realmente pensato che la relazione sarebbe ripresa dal punto in cui l'avevano lasciata, ma neanche avevano avuto modo di chiuderla. Chiuderla davvero, una volta per tutte.

“Qualcuno ci ha già pensato, vedo,” fu lei a parlare di nuovo, alludendo ai lividi e alle cicatrici che ancora si portava dietro.

“Sono state settimane piuttosto movimentate.” Praticamente un eufemismo.

“Temevo che non saresti più tornato,” ammise.

“Mi diventi sentimentale sul più bello?”

“Ti sarebbe piaciuto che lo fossi stata prima?” Gli ritorse contro, raddrizzando immediatamente il tiro.

“No,” scosse il capo, sbuffando una risata. “E' stato divertente finché è durato.”

“Lo è stato,” confermò, forse con l'ombra di un rimpianto ad oscurarle l'espressione. Ma durò solo il tempo di un battito di ciglia. “Promettimi che non ti ostinerai a rimanere da solo.”

“Non sono solo,” rispose con pacatezza. No, se c'era una cosa che aveva imparato negli ultimi tempi era che non era affatto solo. Che c'erano persone che a lui ci tenevano, che gli volevano bene, vicine e lontane, che volessero ammetterlo a loro stesse oppure no. Avrebbe voluto raccontarle di Barney, ma non disse nulla.

“Lo sai cos'intendo,” lo redarguì.

“Lo so, ma forse tutto questo non fa per me.”

“Immagino significhi che non sposerai la nipote di lord Coulson.”

“No,” scosse il capo e si sforzò di non ridere. Gli sembrò assurdo come una cosa che tanto a lungo e tanto intensamente aveva governato i suoi pensieri si fosse ridimensionata fino al punto di sparire del tutto. Dimenticata per sempre.

“Che c'è di divertente?”

“Nulla,” si affrettò a puntualizzare. Non poteva dirle che era stata solo una prova per testare la sua fedeltà alla famiglia. Sarebbe suonato... stupido.

“Sei diverso,” constatò Bobbi dopo aver scrutato attentamente nei suoi occhi, quasi stesse cercando di risolvere un quesito particolarmente complicato.

“Bè stamattina mi sono fatto la barba dopo un secolo. Sembravo il vecchio Logan nei suoi periodi peggiori,” l'immagine dell'ubriacone del villaggio gli permise di distrarsi, ma Bobbi non era d'accordo.

“Diverso in senso positivo,” insisté, intrecciando le braccia al petto. “Forse un giorno smetterai di fare battute non appena la conversazione si fa troppo impegnata per i tuoi gusti.”

“Forse,” convenne, senza dar segno di essersela presa. “Ma non è questo il giorno.”

“Chiaramente no.”

“Mi mancherà la tua espressione da istitutrice inviperita,” confessò spassionatamente, sorridendo per farle capire che stava scherzando... ma non troppo.

“Di te non mi mancherà un bel niente.”

“Oh, andiamo! La prestanza fisica, la brillantezza delle mie battute, i miei polpacci da scalatore...”

“I tuoi che?”

“Penso di avere dei bei polpacci.” Lo stava facendo di nuovo, allontanare il discorso da lidi troppo pericolosi e infidi.

“Magari troverai la donna che li apprezzerà come meritano.”

“Magari sì.”

Bobbi scosse il capo come avrebbe fatto davanti ad un bambino che proprio non vuole imparare la lezione, uno studente incorreggibile.

“Spero che tu sia felice, Clint,” si era rifatta seria. Lasciò che si sporgesse verso di lui per baciarlo su una guancia. “Lo spero davvero.”

“Spero che tu lo sia con Hunter,” ricambiò con sincerità.

“Grazie.” La guardò voltarsi verso l'interno della casa e proiettarsi oltre col pensiero, fino al riquadro verde del giardino in cui continuavano a muoversi gli invitati. “Adesso devo andare.”

“Non ti trattengo.”

“Ci vediamo in giro.”

“Ci vediamo in giro,” le fece eco mentre la seguiva con lo sguardo.

La vide sparire nella cornice luminosa di quegli ultimi giorni d'estate, la ghirlanda di fiori a cingerle la testa.

 

***

 

“Dobbiamo stare qui ancora per molto?” Il piede continuava a tamburellargli con insistenza sul tappeto, quasi dotato di vita propria. Si stava annoiando a morte e, in mancanza di opzioni, questo era il modo in cui il suo corpo aveva deciso di dimostrarglielo.

“Sta' calmo, Clint,” lord Phillip alzò a malapena lo sguardo dal libro che stava leggendo seduto comodamente in poltrona, “ci siamo passati tutti.”

“Non ho niente in contrario alle tendenze masochistiche altrui,” raddrizzò la schiena che gli faceva male a forza di tenerla rigida e tesa, “ma non accetto che mi si impongano.”

“Dopo tutto quello che hai passato ti sembra questa la cosa peggiore che hai mai dovuto fare?” Indovinò l'ombra di un sorriso sul volto di lord Phillip.

“E' sicuramente tra le prime tre,” si ostinò perché ne era più che convinto. Il colletto della camicia gli aveva irritato tutta la pelle, mettendogli addosso un'irrefrenabile voglia di grattarsi.

“Avevi detto che eri disposto a farlo, a patto che non ti facessi indossare la parrucca,” gli rammentò.

“Bè, è chiaro che non sapevo che cosa mi aspettasse,” stabilì. E' vero, gli aveva promesso che si sarebbe sottoposto alla tortura, se proprio l'avrebbe reso felice – il che, secondo lui, apriva scenari piuttosto inquietanti su cosa rendesse lord Phillip felice.

“Persino Leopold si è lamentato meno di te,” gli ricordò l'uomo, decidendosi infine a chiudere il libro e a tenere il segno con un dito incastrato tra le pagine.

“Per forza, l'ha fatto con lady Jemma. Si sostenevano a vicenda.”

“Avresti preferito farlo con qualcun altro?”

“E con chi? Col nuovo maggiordomo?” L'aveva preso in simpatia, Bates, ma non al punto da condividere con lui quella disgrazia.

Lord Phillip si era messo a ridere senza neppure preoccuparsi di nasconderlo.

“Sarebbe stato un bel rompicapo da lasciar risolvere ai posteri,” commentò. “E poi stai bene vestito così.”

“Sembro un divano con le scarpe,” puntualizzò. E poi gli prudevano parti del corpo che neanche ricordava d'avere!

“Un bel divano con delle scarpe niente male,” lo corresse.

“Non stai migliorando la situazione.”

“Io dico di sì: Clarisse lo trova divertente. Vero Clarisse?”

La donna, minuta e coi capelli grigi, riemerse da dietro la tela sistemata sul cavalletto, così come aveva fatto infinite volte nelle ultime... tre ore. Aveva le mani sporche di carboncino e freghi neri anche sul mento e sulle guance, dove si era inavvertitamente toccata nei momenti di concentrazione maggiore. Ogni tanto faceva un passo indietro per avere una visuale d'insieme del quadro che stava preparando con tanta – troppa – perizia per i dettagli e per la luce che filtrava dalla finestra aperta alle spalle di Clint. Il quale posava con la stessa spontaneità con cui una gallina avrebbe tentato di prendere il volo.

“Molto divertente, signore,” convenne la pittrice, ma con un'espressione talmente seria e una voce così monotona che stavolta fu il turno di Clint di trattenere una risata. Magari Clarisse non conosceva il significato della parola divertente.

Qualcuno bussò alla porta distraendo sia la donna che lord Phillip e Clint ne approfittò per grattarsi la pancia al di sopra dei millemila strati di vestiti che gli avevano fatto indossare. Farsi fare un ritratto era un conto, avere l'aspetto di un coglione che si è messo addosso tutti gli abiti che ha nell'armadio era un altro. Si sentiva gonfio come un pallone e sul punto di esplodere... o morire per colpa del prurito. Ma lord Phillip si era impuntato e non accettava proprio l'idea che nel salotto che usavano la sera dopo cena ci fossero i ritratti di tutti, ma non il suo. Clint era stato l'ultimo membro della famiglia a cedere alle sue insistenze.

“Signore, è arrivata una lettera per lei,” annunciò Bates, porgendo a lord Phillip il vassoio d'argento su cui era poggiata la missiva insieme ad un tagliacarte.

“Vi ringrazio, Bates,” disse e lo congedò con un cenno del capo, prendendo in consegna lettera e stiletto. “Puoi andare.”

“Signore, c'è una visita per il signor Barton-Coulson.”

Clint alzò gli occhi al soffitto con tanta foga che gli sembrò quasi di poter scorgere il fondo del suo cranio. Alla confusione della gente che non sapeva se chiamarlo Barton o Coulson c'era ormai abituato – nessuna delle due opzioni gli dispiaceva – ma l'ostinazione di Bates a riferirglisi come Barton-Coulson, proprio non la sopportava. All'inizio l'aveva trovato divertente, ma adesso... gli faceva venire l'orticaria.

“Oh grazie al cielo,” l'irritazione, però, non gli impedì di ringraziare per quel provvidenziale contrattempo.

“Posso dire a lady Bishop di tornare in un secondo momento,” si offrì il maggiordomo.

“Come?” Clint si sentì come punto sul vivo da un abito ben più ruvido di quello che aveva attualmente addosso – il che era praticamente un miracolo.

“Posso dire a lady Bish-”

“No, quello l'ho capito!” Scese dal piedistallo su cui l'avevano piazzato per posare e uscì dalla stanza inseguito dallo sguardo perplesso e muto di Clarisse, da quello divertito di lord Phillip, e da Bates che gli si mise fisicamente alle costole.

“Aspettate, signore, non potete entrare non annunciato!”

“E' tutto a posto, Bates!”

Ma non lo era affatto perché finirono per ingaggiare una vera e propria corsa al piano di sotto e giù per le scale, dove una figura ammantata di lilla lo stava aspettando.

“Kate!” Esclamò non appena la vide, costringendola ad alzare lo sguardo in sua direzione.

“Clint!” Esplose lei in risposta, muovendosi per incontrarlo a metà strada, ancora sui gradini coperti di velluto rosso.

Si abbracciarono senza pensarci due volte mentre Bates, affannato e rosso in volto, si fermava loro di fianco sistemandosi la parrucca in testa.

“Lady Bishop, sir Barton-Coulson.” Fece un mezzo inchino e solo quando fu sicuro di aver espletato le sue funzioni così come il protocollo imponeva si defilò borbottando ingiurie che Clint – fortunatamente – non poté sentire.

“Come stai?” Clint la lasciò andare quando la stretta cominciò a farsi imbarazzante (come diavolo gli era venuto in mente di abbracciarla? Gliel'avrebbe rinfacciato almeno per il resto del secolo).

“Sto bene, ma tu che cavolo hai addosso?” Sorrideva e le veniva da ridere perché si era accorta di com'era vestito.

“Lord Phillip vuole avere un mio ritratto,” spiegò sinteticamente.

“Oooh, ne voglio assolutamente una copia.”

“Per far cosa?”

“Per prenderti in giro,” decretò come se quella fosse l'unica risposta possibile.

Scesero fino in fondo alle scale e Clint l'invitò a sedersi su uno dei lunghi divani addossati alle pareti dell'ingresso, dove i visitatori aspettavano prima di essere ricevuti.

“A proposito,” riprese Kate, cercando qualcosa nella borsetta a sacchetto che le pendeva da un polso, in tinta col resto dell'abito. “Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere averne una copia.”

Scartò l'involucro che gli aveva porto, ritrovandosi per le mani uno dei volantini che informavano della taglia sulla sua testa, debitamente incastonato in una cornice d'argento. Detestava quel disegno: gli avevano fatto un naso tutto sbagliato e non sembrava neppure lui.

“Ma che pensiero gentile,” sentenziò con un sorriso volutamente tirato. “Non avresti dovuto.”

“Figurati. Ci ho già riso su abbastanza, adesso è il tuo turno,” convenne. “Sembri un tubero...”

“Ti ringrazio moltissimo.”

“... e a vederti adesso mi sembra più fedele di quanto pensassi, lo sai?”

“Sul serio, non dovevi. Fermati finché sei in tempo.”

Kate rise e Clint non poté fare a meno di sentirsi di buon umore.

“Credevo fossi ancora bloccata in quel convento vicino al fiume,” le disse, rifacendosi un po' più serio.

“Lo ero,” il suo sguardo esprimeva tutto il disgusto che la sistemazione le aveva causato, “ma poi lord Phillip a scritto a mio padre e... ta-daaa!”

“Lord Phillip?” Non gli aveva detto nulla.

“Lo ha convinto di avere un buon partito a cui darmi in sposa, sai... dopo che la congiura ha tolto di mezzo almeno un terzo degli aristocratici in cerca di moglie.”

“Ma lord Phillip non ha...”

“... non ho un partito da farle sposare,” confermò lord Phillip appena comparso in cima alle scale. “Ma lord Derek non lo sa,” aggiunse con un sorriso, sistemandosi il libro che stava leggendo sotto braccio. “Dovreste rimanere per cena, lady Bishop.” Non attese una risposta prima di deviare per il soggiorno e sparire dal loro campo visivo.

Kate lo seguì con lo sguardo e infine tornò di nuovo su Clint.

“Lo adoro,” dichiarò spassionatamente.

“Mettiti in fila, è già sposato,” la mise in guardia.

“Ah-ah, molto divertente.” Si sistemò la gonna ampia che si era fatta ancora più gonfia ora che si era messa a sedere. “Hai un sacco di cose da raccontarmi.”

“Troppe.”

“Prima di tutto chi ha pensato che fosse un buona idea metterti addosso quella roba?”

“Se vuoi estorcermi qualche informazione dovrai comportarti bene.”

“Più facile a dirsi che a farsi.”

Anche Clarisse, con tutti i suoi strumenti racchiusi in una valigetta di legno, li stava raggiungendo nell'ingresso in compagnia di Bates. Li salutò con un profondo e muto inchino prima di defilarsi dalla porta d'ingresso.

“Perché non lasci che mi metta qualcosa di più comodo e ti raggiunga in cucina?”

“Va bene,” convenne Kate. “Ma non presentarti nudo.”

“Che c'entra?” Gli venne da ridere.

“Non lo so, volevo solo metterti in guardia,” puntualizzò rimettendosi dritta. “Ti trovo bene, lo sai?”

“Certo che mi trovi bene. Sono bellissimo anche se vestito da barone di Pompadour.”

Kate gli lanciò un'occhiata improbabile mentre si allontanava in direzione delle cucine, come a sottolineare il suo disaccordo per una nozione tanto assurda.

“Ah, Clint?” Lo richiamò ormai in procinto di spostarsi nell'altra stanza, “sono contenta che tu sia tornato.”

“Anch'io.”

Gli fece una linguaccia prima di sparire dal suo campo visivo.

 

***

 

Si era svegliato nel bel mezzo della notte senza nessun motivo apparente. Aveva fissato la sommità del baldacchino ed era sceso dal letto come se il suo corpo già conoscesse le sue intenzioni, anche se la mente non ne era ancora stata messa al corrente.

Attraverso le finestre, aveva intravisto gli alberi smossi dal vento autunnale mentre usciva dalla camera a piedi nudi. Si era mosso alla cieca nell'intrico familiare di stanze e corridoi, recuperando un candelabro su cui sopravvivevano ancora un paio di candele ormai ridotte all'osso.

Si era riscoperto sulle scalette che conducevano alla soffitta e, prima che se ne potesse rendere davvero conto, era stato circondato dagli occhi vitrei degli uccelli impagliati ammassati tra le cianfrusaglie abbandonate sotto il tetto della villa, bloccati nei loro voli impossibili.

Aveva notato come la polvere si fosse fatta più spessa rispetto all'ultima volta che era stato là dentro, quando aveva promesso al falco che sarebbe stato gli occhi di entrambi, fuori nel mondo.

Le azioni che si erano susseguite erano stati rapide, metodiche, sicure, quasi fosse stato un sonnambulo mosso dall'incoscienza, proprio come un burattino legato a fili invisibili.

Eppure era presente, era cosciente e il bisogno di fare quello che doveva fare era diventato impellente.

Gli ci erano voluti tre viaggi per trasportare le carcasse imbalsamate dei volatili fin sul tetto della villa; almeno mezz'ora per accatastarli nello spiazzo sospeso nel buio della notte. Con le pietre abbandonate in un angolo del tetto – i detriti di un lavoro di ristrutturazione mai portato a termine – aveva creato un circolo attorno al cumulo che aveva preso forma sotto i suoi occhi, sotto le stelle che lo osservavano perplesse dal cielo.

E adesso era fermo davanti a quell'ammasso di corpi inerti, il candelabro pesante stretto tra le mani e le fiammelle delle candele smosse dal vento che odorava di pioggia. Il desiderio che l'aveva portato fin lì, che aveva dettato l'ordine delle operazioni, si concretizzò improvvisamente davanti ai suoi occhi.

Avrebbe concesso al falco di volare per l'ultima volta, di raggiungere il cielo, l'unico luogo a cui fosse mai realmente appartenuto.

Dette fuoco alla catasta prima che il vento potesse spengere i mozziconi e restò ad osservare il fuoco che si appiccava alle carcasse piumate, inghiottendole con avidità sempre maggiore. Il calore delle fiamme gli raggiunse le guance, controllato e confortante.

Fece un passo indietro e si mise seduto a terra, osservando la colonna di fumo che si alzava mescolandosi alla volta del cielo smaltata di nero. Guardò i corpi che si assottigliavano sempre di più, la cenere delle loro ali vorticare nell'aria, ascendere ad altezze sconfinate e prendere il volo, finalmente trascinate dal vento.

Sorrise e sperò che Barney, ovunque fosse, potesse vedere quello che stava vedendo lui.







Note: il penultimo capitolo è decisamente da vedere in parallelo con il 28, dedicato a Natasha.
Il resto credo si spieghi da sé! Ringrazio chi legge e la sociabeta Eli (:
Al prossimo (e ultimo) capitolo!
(◡‿◡✿)

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Capitolo 30
*** Capitolo XXX ***


Capitolo 30
~

 

Ormai andava avanti per inerzia da almeno un paio d'ore. Il freddo intenso arrivava fin dentro la serra mischiandosi all'umidità soffocante delle piante che vi erano state disordinatamente ammucchiate.

La pala si tuffava nella terra e ne strappava via un cumulo ad ogni affondo. Piccoli rilievi montuosi gli si erano formati tutt'intorno e, senza accorgersene, aveva continuato a scendere e scendere e scendere...

I muscoli gli bruciavano da un pezzo e la sensazione di far fatica a respirare era andata peggiorando di minuto in minuto, ma ormai era diventato parte di quel meccanismo ben oliato: infila, ritira, getta, infila, ritira, getta, infila, ritira, getta. Se si fosse fermato anche solo per riposarsi qualche minuto, non avrebbe più avuto la forza di ricominciare e, dopotutto, avere qualcosa di concreto da fare l'aiutava a non impantanarsi nelle paludi dei propri pensieri.

“Signor Barton-Coulson?”

La voce parve arrivare da terre lontanissime e di certo non aiutava che il fazzoletto che si era messo davanti naso e bocca, per non respirare troppa terra, gli coprisse in parte anche l'orecchio sano. Ma c'era solo una persona che lo chiamava così e il dubbio fu presto sciolto e sostituito da una schiacciante consapevolezza.

“Che c'è, Bates?”

Non rialzò il capo per guardare in viso il maggiordomo, né rallentò i movimenti.

“Lord Coulson vorrebbe che faceste una pausa per scambiare due parole con voi,” asserì con la sua voce nasale. Faceva una fatica immensa a trattenere il disappunto che quello scenario da cataclisma naturale gli provocava: la serra appena costruita e già invasa da un formicaio di muratori e carpentieri che si divertivano a smembrarla era uno spettacolo che non lo aggradava per niente.

“Sono a posto,” lo rassicurò.

“Lord Coulson insiste, dice che gli uomini possono cavarsela da soli per un po'.”

“Ti dico che sto bene, Bates,” ripeté. Perché cavolo gli importava tanto?

“Signor Barton-Coulson,” aveva assunto il suo solito tono da predicatore infervorato sul pulpito, “mi vedo costretto a ripetervelo.”

“Ho capito perfettamente quello che hai detto.”

“Evidentemente no, signor Barton-Coulson.”

Arrestò di colpo i movimenti senza neanche accorgersene, giusto per raddrizzare il capo e lanciare un'occhiata allucinata in direzione del petulante maggiordomo. Ma gli bastò registrare la luce di trionfo che gli aveva illuminato gli occhi perché la consapevolezza di essere stato convinto gli scendesse fin nello stomaco. E nella schiena che gli faceva un male del diavolo, nei muscoli delle braccia che pulsavano disperati, e in tutti gli acciacchi che ad uno ad uno riaffiorarono impietosamente alla sua coscienza.

“E va bene,” si arrese e gettò la pala oltre la buca in cui si era letteralmente andato a scavare.

Risalirla fu impresa più delicata del previsto, ma l'assoluta necessità di non fare la figura del coglione sotto gli occhi severi di Bates ebbe la meglio. Si rialzò alla meno peggio, le vertebre che scrocchiarono dolorosamente e il collo indolenzito dal troppo piegarsi.

Il maggiordomo gli lanciò un'occhiata di mal trattenuto disgusto e Clint non poté far altro che scrollarsi di dosso la terra che gli s'era appiccicata ai pantaloni, alla camicia, agli stivali, persino ai capelli.

“Che ti aspettavi?” Gli chiese, abbandonando i guanti da lavoro su uno dei tanti tavolacci sparsi per la serra.

“Non capisco di che cosa stiate parlando, signor Barton-Coulson,” negò educatamente Bates.

“Parlo del fatto che non si può scavare una buca senza sporcarsi,” precisò mentre si strappava il fazzoletto legato dietro la testa e tornava finalmente a respirare a pieni polmoni.

“Magari un uomo del vostro rango non dovrebbe scavare buche,” ribatté compunto l'altro.

A Clint venne inspiegabilmente da ridere, ma si trattenne in qualche modo.

“Caro, vecchio Bates. Sempre una spiegazione per tutto,” gli passò un braccio attorno alle spalle col preciso intento di scatenare il suo ribrezzo e lo trascinò fuori dalla serra, “latte ed etichetta quand'eri bambino.”

“Quello che dite non ha alcun senso, signor Barton-Coulson,” si districò dalla sua presa con tutto il tatto di cui fu capace. “Vado ad avvisare lord Coulson che vi siete deciso a vedere ragione.”

Clint lo congedò con un rapido cenno della mano e rimase a guardarlo mentre si allontanava in tutta fretta attraverso il sentiero che i lavoratori avevano aperto nella neve che si era inghiottita la collina.

Gettò il capo all'indietro e inspirò a fondo l'aria gelida di quel mattino invernale, riempiendosi gli occhi del cielo bianchissimo che pareva essere fatto di vetro, dei voli ordinati di rari uccelli.

Aveva dimenticato il cappotto nella serra, ma gli faceva troppa fatica tornare indietro a prenderlo. Si avviò lungo il percorso scavato tra i cumuli candidi, abbracciando con lo sguardo la campagna immersa nell'immobilità dell'inverno.

La temperatura era scesa più del previsto e le nevicate si erano susseguite copiose e numerose per svariati giorni. Clint aveva trascorso la maggior parte del suo tempo insieme a Kate, ad aiutare a preparare e sistemare le case più povere del villaggio per la stagione che si prospettava aspra e rigida. Quando il grosso del lavoro in paese era stato fatto, era passato ad aiutare gli uomini impegnati nella costruzione della serra, sorta nel bel mezzo del giardino di villa Coulson per volere del suo proprietario.

Lord Phillip era stato lontano da casa per circa un mese, presumibilmente per affari legati all'ordine dello Scudo. Era tornato che l'autunno stava ormai concludendosi, con i piani per l'edificazione della serra sottobraccio e quelli che riguardavano lo scavo dei cunicoli sotterranei ben nascosti nella doppia cucitura della giamberga.

Così Clint aveva appreso che c'era un vecchio labirinto di passaggi che sottostavano alla villa, un vecchio sistema di sicurezza ideato dai Coulson almeno trecento anni prima, per sfuggire ad eventuali rivolte contadine o a persecuzioni e rappresaglie di vario genere. I cunicoli erano poi caduti in disuso e dimenticati finché lord Phillip non aveva deciso di proporne lo sfruttamento per la fondazione di una nuova sede dello Scudo.

Gli avvenimenti dell'estate avevano convinto i membri dell'ordine che nessuno dei quartier generali usati fino ad allora era da considerarsi sufficientemente affidabile. Per quel che ne sapevano la lega dell'Idra poteva averne scoperto l'ubicazione, magari strappando la confessione ad un agente fatto prigioniero. Certo, c'era la possibilità che si trattasse di precauzioni troppo drastiche per le reali circostanze in cui si trovavano, ma nessuno aveva voluto contraddire lady Carter: meglio troppa cautela che troppo poca.

La serra sarebbe dovuta servire come copertura per non insospettire i contadini che ignari continuavano a lavorare i campi per prepararli alla buona stagione. I pannelli di vetro opaco non nascondevano del tutto gli uomini alla vista, ma lasciavano intravedere quel tanto che bastava perché da fuori ci si persuadesse che erano solo dei manovali particolarmente zelanti che si occupavano di esaudire uno dei soliti capricci del padrone. A che cosa serviva una serra, dopotutto? Ci si mangiava? Ci si potevano crescere le piante anche in pieno inverno? O era utile solo a far nascere fiori esotici e variopinti che non avrebbero avuto alcuna utilità? Stramberie da ricchi, ecco tutto.

Dalla serra sarebbero stati scavati nuovi tunnel che si sarebbero ricollegati a quelli già esistenti e delle cui condizioni ci si doveva ancora sincerare. L'accesso che dava sulle cantine della villa, infatti, era crollato molto tempo prima e poi sigillato in epoca più recente. Quando il labirinto sotterraneo sarebbe stato riabilitato, i passaggi li avrebbero condotti fino ad una piccola fortezza diroccata, anch'essa caduta in disuso da svariate decadi. Da lì lord Phillip e i membri dell'ordine assegnati alla regione avrebbero vegliato sui territori circostanti.

Si arrestò davanti alla doppia scalinata dell'ingresso e si voltò per far scorrere lo sguardo tutt'intorno. Il bianco aveva sommerso grandi appezzamenti di terreno, mentre il viale che conduceva alla villa era ancora ridotto ad un pantano, rendendo i viaggi in carrozza disagevoli e quelli a cavallo perigliosi. Gli alberi che costeggiavano la strada avevano perso tutte le foglie e adesso assomigliavano a mani scheletriche che emergevano dal terreno per ghermire qualche cosa di invisibile, in alto nel cielo.

Rabbrividì per il freddo intenso e strofinò le mani l'una contro l'altra prima di passarsele sulle guance ispide di barba. Decise di prendere l'entrata secondaria che dava sulle cucine per non sporcare le scalinate e far venire un colpo di cuore al povero Bates, che era sicuramente da qualche parte a disperarsi per gli stivali motosi di quell'irresponsabile del signor Barton-Coulson.

Rise tra sé perché l'appellativo continuava a risuonargli ridicolo, come appartenesse ad uno che non era lui, ma al massimo la sua versione pomposa, pretenziosa e altolocata. Il signor Barton-Coulson amava mettere folte parrucche incipriate e indossare calze di seta, probabilmente.

Abbandonò gli stivali sporchi accanto al piccolo portoncino chiuso e intanto bussò un paio di volte. Venne la cuoca ad aprire, lanciandogli un'occhiata perplessa per le condizioni in cui versava, ma senza osare dirgli alcunché.

“Vi andrebbe una tazza di cioccolata calda, signore?” Gli offrì invece.

“Non adesso, ma grazie.” Le rivolse un mezzo inchino che la strappò per un istante alla sua affaccendata serietà e infine si allontanò per imboccare le scale che portavano agli appartamenti dei domestici.

Incrociò uno dei valletti che si fermò per farlo passare, dopodiché deviò verso la porta nascosta che l'avrebbe riammesso nei corridoi della villa. Bates non gli aveva detto dove lord Phillip lo stesse aspettando, ma Clint si diresse a passo sicuro verso il salotto. Essendo dotato di ben due caminetti accesi giorno e notte, era quella la stanza più calda della villa e di conseguenza anche la più trafficata durante l'inverno.

Si era aspettato di trovare il padre adottivo seduto nella sua poltrona preferita accanto al fuoco, infreddolito e col naso rosso per il raffreddore che si era preso durante il viaggio e che non aveva voluto proprio sentirne di lasciarlo in pace; ma la poltrona era vuota.

Si fermò sulla soglia quando la figura immobile sotto un ritratto, che – ahimè – conosceva troppo bene, entrò nel suo campo visivo. Indossava un lungo mantello nero su cui spiccava il rosso acceso della treccia spettinata.

Gli sembrò quasi che un calore improvviso gli si stesse spingendo a forza nelle estremità intorpidite dal freddo, facendogli formicolare le dita delle mani, quelle dei piedi, le guance, le orecchie, persino la punta del naso... e altre appendici che al momento non aveva esattamente voglia di prendere in considerazione.

“E'... interessante.”

La sua voce gli fece un effetto persino peggiore: non era riuscito a respingere il pensiero della donna in un remoto angolo della sua testa, a soffocarlo tra lavori manuali e sfiancanti, a seppellirlo nella preoccupazione per gli abitanti del villaggio esposti al freddo e alle intemperie – non era di certo riuscito a respingerlo pensando ogni giorno e ogni notte alla sua maledetta voce. Si era sforzato di dimenticarla finché ce ne fosse stato bisogno, e adesso eccola lì che tornava a riempirgli le orecchie – perché persino quello sordo sembrava in qualche modo capace di sentirla – e a ricordargli perché era stato tutto perfettamente inutile.

Natasha non sorrideva, ma si limitava a sostenere il suo sguardo, come per concedergli il tempo di abituarsi alla sua presenza. Il freddo le aveva arrossato le guance e reso più vivo il colore delle labbra. I capelli spettinati gli suggerirono che doveva essere arrivata a cavallo e non da molto, che quando Bates l'aveva richiamato per conto di lord Phillip, in realtà l'aveva fatto per conto di lei.

“Interessante in senso buono o in senso cattivo?” La domanda gli uscì spontanea, disintegrando in un colpo solo la silenziosa impasse in cui erano precipitati.

“Non ne sono sicura,” ammise Natasha, voltandosi di nuovo verso il ritratto.

“Abbiamo tutti delle espressioni da coglione,” accennò alle tele in cui erano incorniciati gli altri membri della famiglia, “perché ti sei fermata a guardare il mio?” Le si riavvicinò, affiancandola per mettersi ad osservare a sua volta il quadro. Se ne pentì un attimo dopo: odiava incrociare lo sguardo del signor Barton-Coulson.

“Sembri più grasso,” commentò, eludendo la domanda.

“Avevo addosso una quantità imbarazzante di vestiti,” si giustificò, ormai sulla difensiva. “E poi l'autrice pensa che sia disdicevole, per un nobile, non avere la pancia sporgente.”

“Il viola ti dona però.”

“Trovi?” Deviò lo sguardo su di lei, anche se Natasha continuava a scrutare il ritratto. “Si dà il caso che sia il mio colore preferito.”

“Il colore della penitenza,” constatò a mezza voce. “Non sono sorpresa.” Lo stava prendendo in giro.

Finalmente si decise a lasciar perdere il quadro e a voltarsi verso di lui, offrendogli la prima visuale di insieme sul suo viso. Pensò irrazionalmente che l'inverno le donasse, che facesse risaltare quel che di bello c'era nel suo viso. Come se temperature rigide e scenari di un bianco accecante fossero il suo habitat naturale.

“Sei in ritardo,” le disse mentre un sorriso gli si apriva sul volto.

“Per nascondere il morto in giardino?” Gli chiese senza scomporsi, alludendo alle magre condizioni in cui versavano i suoi abiti.

“No, per tutto.” Non si lasciò ingannare.

Ripensò a Bobbi e al modo in cui l'aveva rimproverato per la sua ridicola abitudine di confondere le acque di una conversazione troppo scomoda con una battuta di spirito. Natasha utilizzava la stessa tecnica, anche se allo scherzo alternava più spesso un insulto.

“Non credevo ci fosse una scadenza.”

“Non c'era,” scosse il capo. “Però mi sei mancata.”

La vide dischiudere le labbra, sul punto di snocciolare un brillante ritorno di frase, ma le serrò di nuovo senza dire niente. Forse per dimostrargli che poteva affrontarlo a viso aperto senza nascondersi dietro inutili muri di parole.

Lo spazio che li divideva sembrò farsi quasi incandescente, ma nessuno dei due si azzardò a cancellarlo. Si limitarono a tenere gli occhi puntati in quelli dell'altro, soppesandosi e studiandosi a vicenda per capire cos'era cambiato e cosa invece era rimasto invariato.

Fu lei a spezzare l'incantamento che era venuto a crearsi intorno a loro, ad infrangere la bolla di vetro che pareva averli avvolti per separarli dal mondo esterno: “Ho un lavoro per noi.”

“Un lavoro...” fece cadere lo sguardo rapito e tornò ad essere il Clint di sempre. “Da dove vieni?”

“Dalla capitale,” il tono si era rifatto professionale.

“Non sapevo fossi tornata fin laggiù.”

“Non sai un sacco di cose,” precisò lei, l'ombra di un sorriso a incresparle le labbra.

Solo in quel momento gli apparve diversa, più leggera forse. Negli occhi le rimaneva quel sentore di tempesta mai del tutto sopita, ma le spalle stavano dritte senza essere rigide e c'era una confidenza spontanea nel modo in cui si muoveva, in cui parlava, in cui lo guardava. Quasi che il masso invisibile di colpe e peccati che le aveva visto trascinarsi dietro per tutta l'estate si fosse smaterializzato insieme all'arrivo dell'inverno.

“Sei stata dal tuo amato colonnello Fury, non è vero?” Intuì in un lampo di genio.

“Avevo bisogno di un'occupazione.” Neanche si preoccupò di negare l'evidenza. “E ti farò lo straordinario piacere di non dirgli che l'hai chiamato così.”

“Mi stai minacciando?”

“Secondo te?”

“Il gusto per i giochetti psicologici, quello c'è ancora,” commentò tra sé e sé, ma col preciso intento di farsi sentire.

“Sono la mia grande passione.”

“Insieme al colonnello Fury,” aggiunse. “Però ti si sono allungati i capelli,” chiosò del tutto estemporaneamente.

“E' quello che fanno i capelli: crescono.”

“Sono a conoscenza del processo, ti ringrazio.”

“E di che? Sono sempre pronta ad illuminare l'ignoranza dei bifolchi.”

“Prego? Bifolco a chi? I bifolchi non hanno ritratti ad olio appesi in salotto! L'hai visto?” La perorazione gli uscì volutamente teatrale, eccessiva.

“Purtroppo sì.”

“Che stronza.” L'imprecazione aveva il suono e il sapore del sollievo. Le sorrise e Natasha ricambiò, ma solo per un istante. “Allora... questo lavoro?”

 

***

 

“Sta' ferma,” le intimò.

“Sono immobile,” ribatté lei, stizzita.

“No, ti stai muovendo.” Non poteva suturare la ferita sul braccio se continuava a girare pagina.

“Ti ho detto che potevo farlo da sola,” precisò tenendo gli occhi fissi sul libro aperto sulle gambe. Era lo stesso che le aveva visto leggere a più riprese l'anno prima, quando ancora lo stava conducendo nella ragnatela che aveva teso per lui.

“Non è una cosa normale ricucirsi da soli.” Le dita gli tremavano appena attorno all'ago.

Gli sembrava passato un secolo dalla prima volta che aveva tentato di rammendarle una ferita: erano su una nave fetida che non smetteva un secondo di oscillare e lui aveva pensato di cauterizzarle la ferita al fianco con un coltello bollente. Tutte le volte che ci pensava ringraziava silenziosamente il misterioso dottor Banner che gli aveva impedito di compiere uno scempio.

Al posto del buco che la pallottola si era scavata nella carne di Natasha, adesso c'era una cicatrice un poco in evidenza che gli ricordava le cuciture fatte alla meno peggio da sartine inesperte per nascondere gli strappi nei vestiti buoni della domenica.

A quel disordinato segno, bianco e liscio, sulla sua pelle si era quasi affezionato. Aveva imparato a leggere Natasha attraverso la mappa delle tracce che gli eventi e le persone le avevano impresso addosso. Ogni tanto, mentre erano distesi l'uno di fianco all'altra in letti troppo piccoli e scomodi, riusciva a strapparle qualche sporadica confessione sulle origini di quelle cicatrici e Natasha, via via, probabilmente senza neanche accorgersene, gli aveva tracciato le tappe della sua vita a rapidi cenni, talvolta pacati, più spesso scontrosi e ostili.

Ma Clint sapeva che non avrebbe parlato se non avesse voluto farlo. Adesso capiva che i modi bruschi di Natasha si riaffacciavano tutte le volte che ci si avvicinava troppo alla sua parte vulnerabile, al suo punto debole. E la rabbia non era rivolta verso di lui, ma verso se stessa, come in una sorta di meccanismo di difesa che le serviva a ristabilire le distanze e a tenere emozioni troppo forti lontane da sé, per non lasciarsene soffocare e travolgere.

“Hai finito?” Gli chiese impaziente.

“Non ancora. Più ti agiti e più ti lamenti e più ci metto, va bene?”

La sentì masticare tra i denti imprecazioni in una lingua che Clint non comprendeva, ma che aveva imparato a riconoscere. Era quella delle canzoni cantate sottovoce e delle tirate più furibonde, quando, nella foga dell'ira, sembrava dimenticarsi che Clint quella lingua non la parlava. O forse lo faceva apposta per insultarlo più comodamente, il che avrebbe avuto senso. Più che rimanerci male, però, la cosa lo divertiva... il che faceva a sua volta infuriare Natasha.

Finalmente, punto dopo punto, giunse a completare la sutura con un minuscolo nodo. La donna sospirò di sollievo.

“Grazie al cielo,” esalò.

“Grazie Clint,” la rimproverò spassionatamente.

“Ti ho detto che pot-”

“Che potevi farlo da sola, ho capito. Il punto è che non devi farlo da sola. Che hai un'altra opzione.”

“Quella di dare al tuo ego già smisurato inutili ragioni per lievitare sempre di più?”

“Il mio ego ha validi motivi per essere così gonfio,” stabilì seccamente, riponendo ago e filo insieme agli altri strumenti per il ricamo su esseri umani. “Grande,” si corresse.

Indietreggiò fino a gettarsi sul letto della piccola camera di locanda in cui si erano rifugiati dopo lo scontro con alcuni trafficanti d'oppio che si erano rivelati più tenaci di quanto le informazioni a loro disposizione non avessero lasciato sospettare. Fury li aveva incaricati di sventare i loro commerci illeciti dopo che alcuni nobili avventati avevano trovato la morte in certi antri bui e poco raccomandabili del quartiere più degradato della capitale.

Da che avevano cominciato a lavorare insieme per conto dello Scudo, non avevano fallito una sola missione. Certo, era capitato un paio di volte che ci volesse più tempo del previsto a portare a termine un incarico, ma quelli erano i contrattempi del mestiere.

Di che mestiere si trattasse, Clint non aveva la più pallida idea. Quel che contava era che gli piaceva, che il duo composto da lui e Natasha funzionava alla grande e che Fury non si era lamentato.

E poi sentiva di star migliorando, di essere più in forma, più veloce, più rapido, più abile nel corpo a corpo quando arco e frecce lo tradivano. Si allenava con Natasha nei momenti morti tra una missione e l'altra – qualche volta tornando a villa Coulson per un po' di meritato riposo – e ultimamente la donna ci metteva un po' di fatica in più a sottometterlo. Stava imparando a darle del filo da torcere e gli scontri si erano fatti più interessanti; se n'era accorto perché adesso era lei che gli chiedeva più spesso di allenarsi, segno che la cosa la divertiva e che quindi non era impresa poi così facile e scontata. O, almeno, così gli piaceva pensare.

Il letto scricchiolò sotto il suo peso, minacciando di crollare da un momento all'altro. Si ripromise di lamentarsi con l'oste che gestiva la locanda e intanto si voltò a guardare Natasha.

Stava seduta sul davanzale della finestra aperta con indosso solo una camicia che le copriva a malapena le cosce. L'aria fresca dell'ennesima notte estiva che trascorrevano insieme entrava nella stanza in folate leggere, portandosi dietro l'odore salmastro del mare non troppo distante. I capelli, lunghi e bagnati, le scendevano sulla schiena disegnando macchie umide sulla stoffa scura della camicia.

Il desiderio di averla un'altra volta si fece più intenso – perché ormai aveva dovuto accettare che quel bisogno non se ne andava mai del tutto, che la voglia di toccarla era sempre lì in agguato da qualche parte nella sua testa, anche quando era convinto di star pensando a tutt'altro. Gli bastava guardarle le labbra per un secondo di troppo o immaginare le curve del suo corpo nascoste dai vestiti e il pensiero gli si spostava dalla periferia al centro del cervello e lì rimaneva finché Natasha non se ne accorgeva o finché un bisogno più impellente non si imponeva alla sua attenzione; quello di sopravvivere, il più delle volte.

In compenso aveva imparato a riconoscere i segni dell'eccitazione anche su di lei. Perché sebbene gli fosse sempre un po' difficile scenderci a patti, sapeva che quell'urgenza non era mai a senso unico. Che quando Natasha l'osservava più intensamente del solito, forse credendo di avere l'aria di chi si è incantato a fissare un punto non meglio identificato, significava che stava immaginando di fargli cose o farsi fare cose oppure entrambe.

Spesso e volentieri prolungavano il gioco dell'indifferenza fino a trasformarlo in una sfida di resistenza. Di solito era lui quello che cedeva per primo, ma era capitato almeno un paio di volte che fosse lei ad arrendersi e quelle due occasioni Clint se l'era impresse nel cervello come medaglie al merito – chiunque conoscesse Natasha avrebbe condiviso il suo sentimento d'orgoglio.

“Non mi hai mai detto perché ti piace tanto quel libro,” si ritrovò a dirle dopo averla osservata a lungo, in silenzio.

“Non me l'hai mai chiesto,” gli ritorse contro, senza alzare lo sguardo dal volumetto.

“Perché ti piace tanto quel libro?” Recitò prontamente.

Natasha si strinse nelle spalle e sembrò non volergli rispondere; gli venne da ridere: avrebbe dovuto aspettarselo.

“Di che parla?” Raddrizzò il tiro, deciso a non demordere. Ormai sapeva riconoscere quando Natasha voleva davvero che la smettesse e quando invece si negava per una pura questione di abitudine, come se ci fosse un numero preciso di rifiuti attraverso cui passare prima di arrivare alla confidenza.

“Parla di un bambino.”

“Va bene. Che fa questo bambino?”

“Sta lì.”

“La trama suona un tantino scadente.”

La donna staccò finalmente gli occhi dalle pagine ormai consumate dal tempo e si decise a guardarlo con l'aria di chi sta valutando qualcosa piuttosto intensamente.

“E' una favola,” sentenziò allora, “parla di un bambino che si perde nel buio.”

“E' un libro per bambini?”

Natasha annuì: “C'è una ninna nanna basata su questa storia. E' l'unica cosa che ricordo della vita prima della Stanza Rossa.”

Clint si rifece serio mentre davanti agli occhi gli si materializzava il bagliore del fuoco che ardeva nell'accampamento dei saltimbanchi che li avevano sorpresi sulla loro strada, intenti secondo loro ad amoreggiare, ma in realtà a darsele di santa ragione. Ricordava la voce bassa e profonda di Boris, il Mangiafuoco, e anche la reazione di Natasha alla sua canzone. Sull'albero, poco dopo, gli aveva confessato di conoscere la melodia, ma non le parole. Non avrebbe saputo rammentare di che parlasse, ma era certo che non contemplasse bambini e buio senza fine.

Non le chiese se il suo collegamento fosse corretto, sapeva già che lo era e non c'era bisogno di conferme. Il modo in cui Natasha lo guardava bastava a fugare ogni dubbio.

“E cosa succede al ragazzino?” Le chiese, piegando le braccia dietro la testa per trovare una posizione più comoda.

“Una voce lo richiama fino alla luce.”

“Di chi è la voce?”

“Non si capisce. Può essere chiunque,” gli sembrò che avesse addolcito il tono, “magari anche lui stesso.”

“Si salva?”

“Non si sa. Devi deciderlo tu.”

“Che vuol dire?” Le storie a finale aperto non gli erano mai piaciute granché.

“Vuol dire che se la leggi in momenti diversi, ti sembrano probabili finali diversi.”

La scrutò a lungo, tentando di carpirle il segreto che le si affacciava negli occhi. Improvvisamente, dal niente, gli parve di capire cosa intendesse.

“Oggi si salva?” Le chiese a mezza voce, intuendo il sorriso inespresso che le aleggiò sul viso al cospetto della sua fulminea intuizione.

“Si salva da un po' di tempo a questa parte,” rispose piano, scandendo le sillabe con falsa disattenzione, artificiosa indifferenza.

Un calore piacevole gli riempì lo stomaco e poté giurare che per Natasha fosse lo stesso.

“Me la leggi?” Le chiese.

“Dovrei tradurtelo.”

“No, non importa.” Aveva voglia di sentirla parlare la sua lingua, arcaica ed immobile.

Gli lanciò solo una rapida occhiata incuriosita, ma non sembrò voler mettere in discussione il suo proposito.

Clint si concentrò sulle dita bianche e letali che giravano rapide le pagine spesse e ingiallite, fino a fermarsi alla prima. Socchiuse gli occhi mentre la voce bassa, calda e familiare di Natasha riempiva la stanza. Si immaginò di poter seguire l'andamento di quella lingua sconosciuta come fosse stata un sentiero, le curve morbide, l'innalzarsi aspro dei suoni più duri, lo scivolare su quelli più allungati.

Si lasciò condurre dalla sua intonazione e quasi gli sembrò di capire cosa stesse succedendo, di riconoscere i vari momenti della favola, che bastasse il suono a fugare ogni dubbio, a mostrargli il bambino che si perdeva nel buio. Gli parve di poter provare il suo sgomento, la sua paura, il senso di smarrimento e la disperazione dell'abbandono, il sospetto che fosse tutto un incubo o una punizione per una colpa indefinita ma schiacciante, che l'orrore fosse solo nella sua testa, magari di essere morto, cancellato e dimenticato come l'inchiostro secco grattato via dalla pagina.

E poi il silenzio, un silenzio asfissiante che, paradossalmente, emergeva dalla linea continua dei suoni e delle parole di cui Clint non avrebbe potuto individuare i confini neanche se avesse voluto. Un silenzio infernale che minacciava di strangolarlo e di imprigionarlo nella sua testa, perché in fondo, spesso e volentieri, il nostro peggior nemico rischiamo di essere proprio noi stessi.

Non seppe decidere a chi apparteneva la voce che lo riportava indietro, se ad una madre, un padre, un fratello, un'amica, un'amante o a se stesso. Magari era la somma di tutte e in fin dei conti non aveva importanza.

Perché Natasha aveva ragione: alla fine si salvava.

 



- THE END -







Note: ... e vissero per sempre felici e contenti ù_ù ed è tutto direi!
Grazie a tutti coloro che hanno letto e commentato la storia (anche se mi sa che vi ho persi per strada in diversi XD): Fake_Brit, hikaru90, fireslight, missgenius, Chess_Killer, Yavanna97, e in particolar modo Ragdoll_Cat e la sociabeta Eli :*
Insomma, grazie a chi è arrivato fino in fondo
(ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧ ho ancora diverse storie da postare (tutte Clintasha perché sono monotonissima), quindi prima o poi mi farò... rivedere.
Alla prossima storia!

 

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