Mzuri?

di Acinorev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno - Cinquecento scellini ***
Capitolo 3: *** Capitolo due - Scontri ed incontri ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre - Una famiglia ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro - Le dimenticanze di Dio ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque - Torna presto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei - Cosa ci vuole? ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette - In nome dell'amore ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto - La verità ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera!
Chi mi seguiva sa che mi ero ripromessa di non scrivere per un po' di tempo, a causa di altri impegni, ma sono sempre stata poco brava a mentenere la parola: l'astinenza è brutta, ahimé! Tra tutte le storie che ho in mente, ho deciso di dedicarmi a questa per prima, perché ci tengo molto e vorrei portarla a termine il più presto possibile.
Poche parole a riguardo:
- è una storia ambientata in Kenya, nata dalla mia esperienza di quest'estate: seguirà il percorso di sei protagonisti (Tifah, Ryma, Solomon, Kelvin, Peter e Bahati), introdotti in questo prologo ed ispirati a persone reali. La storia è innanzitutto un modo per farvi conoscere una parte del Kenya, ma è anche una valvola di sfogo per me: darà vita ad alcune mie paure e ad alcune mie speranze;
- i luoghi di cui parlerò esistono davvero, anche se con nomi modificati o particolari incongruenti per vari motivi;
- tralasciando questo prologo, che è completamente veritiero sia per la situazione descritta sia per ciò che avviene, dal prossimo capitolo sarà tutto frutto della mia immaginazione, come capirete: sia gli avvenimenti, sia l'evoluzione ed il destino dei personaggi. Saranno presenti tematiche delicate, scene forse anche impressionanti, ma in linea con un certo realismo che purtroppo ho conosciuto;
- il titolo della storia "Mzuri?" si rifà al saluto tipico keniota: all'usuale "Habari" ("Ciao, come stai?") si è soliti rispondere "Mzuri" ("Bene");
- probabilmente, durante la narrazione, userò dei termini in lingua, che però spiegherò di volta in volta: per esempio, vi anticipo che in questo prologo ne troverete due, ovvero "ugali" (una polenta tipica, realizzata con farina bianca) e "chapati" (un tipo di pane, simile ad una piadina);
- i dialoghi ed il lessico saranno fedeli alla realtà, quindi non stupitevi se ogni tanto ci sarà un calo del registro.
Nonostante sia una storia completamente diversa da quelle che ho scritto fino ad ora, spero di non deludere e che qualcuno sarà interessato a seguirla. 
Buona lettura :)

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Veronica.

 

 

Prologo
 

"Only mountains never meet."
- K.

 
Con poco più di un secolo di vita alle spalle, nel 2014 Nayuri può essere considerata una delle città più occidentalizzate del Kenya: con una media di trentamila abitanti distribuiti nel centro e nei chilometri circostanti, è il punto di incontro delle maggiori linee di commercio.
Lo stabilimento dell’esercito britannico, oltre a rappresentare la sola percentuale di bianchi della regione, è responsabile della maggior parte dei cambiamenti, che però non hanno avuto esiti sempre positivi. Il modello economico inglese è difficile da soddisfare, soprattutto da parte di una cultura acerba e poco istruita: le strade brulicano di angusti negozi e di bancarelle, ma tutti vendono gli stessi prodotti, non c’è concorrenza di prezzi e la situazione è in stallo. Lo stile di vita occidentale porta con sé speranza ed invidia, spingendo gran parte della popolazione a compiere sacrifici per ottenere futilità e telefoni cellulari di ultima generazione, a costo di dover arrancare per procurarsi del cibo. Il lavoro è sottopagato, non in linea con la nuova modernità e con i nuovi, stonanti bisogni: gli uomini più onesti lavorano per tutto il giorno, quelli meno onesti contribuiscono all’aumento della criminalità in un già corrotto sistema di giustizia e le donne si prostituiscono alla luce del sole ed in qualsiasi locale, aspirando a conquistare un militare britannico in grado di trascinarle via da una vita scomoda. I figli illegittimi crescono di numero ed insieme a quelli legittimi sono difficili da mantenere: a causa degli sforzi per sopravvivere, sempre più famiglie abbandonano i propri figli sin dalle più tenere età – la città conta ormai almeno seicento bambini privi di fissa dimora, costretti a rubare per mangiare e a cercare conforto nel consumo illegale di colla.
Il Kenyatta Centre, il centro di recupero per bambini di strada, è sovraffollato: le sue condizioni gravano sotto il peso di spese insostenibili e necessità sempre più impellenti. E mentre il proprietario lotta con i funzionari dello stato e della città di Nayuri per tenere in piedi una struttura utile e funzionale, i suoi occupanti si aggrappano alla volontà di vivere di giorno in giorno.

 
 

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Il paesaggio silenzioso di Nayuri riflette placidamente le sfumature rossastre che dipingono il cielo su di esso. Sfumature che, pur presentandosi alla stessa ora per tutto l'anno e senza alcuna eccezione, non mancano mai di stupire e variare: sicure e vanitose, sfoggiano le loro tonalità in fantasie astratte, provocando un senso di meraviglia negli occhi di chi le osserva. Persino l'imponente Monte Kenya si lascia abbracciare dalle tinte calde ed armoniose, accettando di scomparire lentamente nell'oscurità del tramonto, una punta dopo l'altra.
L'atmosfera del Kenyatta Centre, però, si ribella allo scadere monotono di un'altra giornata: ricco di voci concitate, di rimproveri e risate, cerca di sfruttare tutta la vita che contiene, in modo da non sprecarne nemmeno una briciola.
«Trovane uno, allora», sbotta Agnes, appoggiando i pugni chiusi ed umidi sui fianchi formosi. «Stai intralciando le altre», aggiunge stancamente.
Tifah aggrotta le sopracciglia sottili e si guarda alle spalle, dove la fila disordinata ed affamata delle sue compagne attende impaziente di ricevere la razione di cibo: come da abitudine, è il giorno dell'ugali.
«Muoviti, avanti», esclama Joyce dietro di lei, picchiettando con la forchetta sul proprio piatto: quello di Tifah, invece, è stato stranamente rubato senza troppi ripensamenti. In pochi si divertono a sfidarla, perché in pochi possiedono la furbizia ed il coraggio necessari, ma se mai dovesse scovare il responsabile, agirebbe sicuramente di conseguenza.
«Tu sta' zitta», ribatte aspra, dando un'ultima occhiata ad Agnes ed al pentolone fumante. Tra gli incitamenti delle altre ragazze, sgattaiola via con una certa stizza ad animarle le vene: non le va di raggiungere la Casa – ovvero la cucina del proprietario del centro - affrontando quindi il dormitorio maschile ed i maschi, solo per recuperare qualcosa che non ha perso di proposito.
All'aperto rabbrividisce appena per il vento freddo, sfregandosi le braccia nude con foga, e si incammina lungo il vialetto in ciottoli irregolari: saltella lentamente da un punto all'altro, tentando di evitare il fango creatosi in seguito all'ultima pioggia fuori stagione. Le infradito consumate che indossa non le sono d'aiuto: Sake deve assolutamente restituirle le scarpe chiuse. Bucate, certo, ma pur sempre chiuse.
«Che ci fai tu qui?» la interroga Kelvin, avvicinandosi a lei nel modo più scontroso che conosce: il suo metro scarso di altezza, però, non gli conferisce l'adeguata credibilità.
«Levati», ordina Tifah, decisa ad ignorarlo. Sperava di non dover affrontare un'altra stupida discussione con un altrettanto stupido interlocutore: allo scadere dei suoi quattordici anni, non riesce ancora a capire perché i ragazzi debbano soffrire per un quoziente intellettivo tanto basso.
«Guarda che sei tu ad essere di troppo», replica Kelvin, tornando ad intralciare il suo percorso. Il maglione rosso è macchiato di terra, mentre i pantaloni in jeans sono evidentemente troppo grandi per lui, finendo per arrivargli sotto i piedi nudi e fargli da scarpe.
Lei alza un sopracciglio e sbuffa sonoramente. «Si può sapere che razza di problema hai?» lo rimprovera, scrutando i suoi occhi piccoli e brillanti per il tramonto.
«Sai benissimo che non puoi stare qui», la minaccia, assottigliando la voce.
«Questa è solo una regola senza senso che voi poveretti avete deciso. Non è colpa mia se non avete nient'altro da fare», sibila. Non sa perché i ragazzi disprezzino così tanto la presenza del sesso opposto nei pressi del loro dormitorio: è suolo comune, d'altronde, e rappresenta una rapida scorciatoia per la Casa e per la città. Di cosa hanno paura? Ma soprattutto: credono davvero che qualcuno condividerebbe la loro stessa aria di sua spontanea volontà, con il rischio di doverli sopportare oltre lo stretto necessario?
Quando Tifah fa un altro passo avanti e Kelvin osa afferrarla prepotentemente per un braccio, lei serra le labbra e gli stringe una mano intorno al collo sottile, facendolo indietreggiare con un’espressione tutt'altro che tranquilla. «Non azzardarti a toccarmi», gli intima a denti stretti, marcando ogni lettera con una punta di disprezzo.
«Hey, vogliamo calmarci?» interviene qualcuno, con un tono di pura nonchalance.
Tifah spia l'intruso e riconosce Solomon, che si muove a ritmo di una canzone che è l’unico ad udire, proveniente dalle cuffie nelle sue orecchie. Lascia andare la presa e raddrizza la schiena con orgoglio, mentre Kelvin si massaggia la cute lesa e la guarda con codardo rancore.
«Tieni al guinzaglio questo stupido, la prossima volta», esordisce lei.
Solomon, con gli occhi chiusi ed i piedi in preda ad un passo di danza lento, ma concentrato, annuisce senza troppa convinzione: conosce bene suo fratello minore, di quattro anni più piccolo, quindi sa quanto possa essere una spina nel fianco, e conosce altrettanto bene la sua coetanea Tifah, graziosa fino a quando non si trasforma in una furia se viene infastidita; analizzando la situazione, è evidentemente arrivato alla conclusione che sia meglio placare gli animi di tutti.
«Dio», sospira lei, superando i due fratelli e scuotendo la testa.
 
«Non dirmi che vuoi farti suora», bofonchia Tifah, con la bocca colma di ugali. Ha finalmente recuperato un piatto, non senza una buona dose di rimproveri, e può riempirsi lo stomaco, mettendo a tacere almeno uno dei suoi bisogni.
Ryma, al suo fianco, alza una sola palpebra e la guarda con serietà: è inginocchiata a terra, all'interno del dormitorio delle ragazze e rivolta verso la finestra, che ormai si affaccia nel buio.
«Che c'è?» domanda l'altra, seriamente stupita da quella reazione. «Ultimamente non fai altro che pregare», si giustifica. Anche lei è cattolica - tutti lo sono - ma non potrebbe definirsi praticante. Partecipa alle messe tenute nell'orfanotrofio e recita una preghiera prima di andare a dormire, ma solo perché costretta a farlo. Crescendo, inoltre, ha iniziato a farsi sempre più domande: perché dovrebbe credere in un Dio che non è in grado di offrirle nulla? Che le concede solo ugali e chapati a giorni alterni?
Ryma chiude di nuovo gli occhi e continua a tenere le mani giunte di fronte al suo petto, mimando chissà quali parole con le labbra carnose: il viso armonioso reso statuario dalla luce notturna che lo illumina.
Tifah termina di mangiare la sua cena e lascia il piatto sotto il materasso del proprio letto, ripromettendosi di nasconderlo meglio appena ne avrà voglia. Alcune delle ragazze si stanno già preparando per andare a dormire, chi con uno sbadiglio, chi con qualche protesta.
«Ryma?» chiama piano, mordendosi una guancia.
«Hm?» risponde lei, distratta. La sua concentrazione e la sua dedizione in ciò che crede la fanno apparire più matura di quanto non sia, chiusa nei suoi tredici anni.
«Sai cos'è successo a Peter? Prima l'ho visto stare da solo sulla panchina vicino al lavatoio: è strano», spiega, accigliandosi nel ricordare il suo amico così isolato. «Voglio dire, è facile che si sia stancato di quel branco di idioti che ha come compagni, ma è troppo buono anche per questo», continua.
L'amica sospira e posa le mani sulle ginocchia, voltandosi lentamente a guardarla. «Non l’hai saputo?» La sua espressione è pacata, come sempre. «Ha l'HIV», dice soltanto.
Tifah indietreggia involontariamente di un passo, schiudendo le labbra.
Serra la mascella e se ne va, sbattendo la porta.
 

 
Quella notte, l’ospedale di Nayuri viene reso complice di una tragedia purtroppo abitudinaria.
«Dov'è la madre?» domanda Karoke, prendendo tra le braccia il fagotto di coperte nel quale è stretto un neonato.
«Solo Dio lo sa», risponde Mary. «La polizia ha avuto una soffiata da un passante e l'ha trovato in strada, nudo ed in ipotermia. Povera anima, ha ancora il cordone ombelicale», spiega a bassa voce, sperando di non svegliare il reparto di pediatria.
Le due infermiere restano in silenzio a contemplare il viso innocente, ma già marchiato, che dorme inconsapevole. Non le stupisce il fatto che sia stato abbandonato, perché conoscono la povertà e ciò a cui è in grado di portare, ma non riescono a non essere sconvolte da tanta disperazione.
«È sano?» chiede Karoke un paio di minuti più tardi, stringendolo un po' di più.
«Il cordone sembra infetto, ma dovremo aspettare gli esami. Per il resto... Sì, credo stia bene», annuisce l'altra, recuperando dal bancone la cartella medica compilata all'accettazione. Vuole accertarsi delle notizie riportate e magari scoprire qualcosa in più. La osserva per qualche istante e poi scuote la testa. «Unknown African child», legge lentamente. «È così che si chiama, stando ai nostri medici».
Karoke aggrotta le sopracciglia in un'espressione disgustata e culla il piccolo che sembra sul punto di svegliarsi. «La madre avrà sei mesi per reclamarlo, nemmeno fosse un pacco non arrivato a destinazione: dopodiché, lui dovrà sperare che qualcuno vorrà adottarlo o finirà al Kenyatta Centre con tutti gli altri bambini di strada».
Mary sospira ed accarezza le guance paffute del neonato, poi fa un cenno di saluto alla sua collega e va a cambiarsi per tornare a casa.
Karoke, rimasta sola, lascia delicatamente quel cumulo di pelle rosea e coperte nel suo lettino, sperando che non inizi a piangere. «D'ora in poi ti chiamerai Andrew Bahati», gli sussurra sul viso, prima di recuperare la cartella e correggere il suo nome.

 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo uno - Cinquecento scellini ***


Buongiorno!
Ho approfittato del poco tempo a disposizione per ricontrollare questo primo capitolo e pubblicarlo, sperando di aver fatto un lavoro almeno accettabile ahhaha
Poche precisazioni per darvi una migliore chiave di lettura:
- in Kenya la moneta ufficiale è lo scellino keniota: un euro equivale a circa 110 scellini kenioti. Lo stipendio di impiegati pubblici va dai 3500 ai 5000 scellini (35-50 euro), per tutti gli altri si parla di molto meno, mentre solo alcuni lavori vengono pagati intorno o oltre i 100 euro al mese (come dirigenti pubblici, impiegati bancari, giornalisti...). Da qui si può capire come i nostri cinque euro, per esempio, per alcuni possano rappresentare una manna dal cielo;
- oltre lo Swahili, in Kenya quasi tutti parlano fluentemente l'inglese, data la colonizzazione britannica e dato che la lingua si studia anche nelle scuole;
- avevo detto che da questo primo capitolo la storia avrebbe preso una piega diversa, nel senso che è ambientato cinque anni dopo: i protagonisti sono cresciuti e sono giovani adolescenti;
- le "dediche" in corsivo all'inizio dei capitoli sono solo mie parole per le persone a cui i personaggi sono ispirati.

Per il resto dei commenti, preferisco esprimermi alla fine del capitolo, quindi a dopo :)


 

 

Capitolo uno
Cinquecento scellini

 

(Meriti davvero il mondo)

 
Ryma cammina lungo la via principale di Nayuri e vorrebbe non sentire il caldo torrido sulla propria pelle, il sudore imperlato sulla fronte alta: non è stanca – i quattro chilometri tra il Kenyatta Centre ed il centro della città sono ormai una sciocchezza per le proprie gambe – ma è particolarmente fastidioso dover sottostare ai trentasette gradi di quel primo pomeriggio.
La strada è affollata ed il traffico è confusionario: di tanto in tanto è costretta a coprirsi il naso e la bocca con una mano, per evitare di respirare la polvere alzata dal passaggio di automezzi ed il fumo sporco proveniente da marmitte malandate.
Aggiustandosi il fazzoletto colorato avvolto sul proprio capo, sospira di sollievo nello scorgere il mercato nascosto da mura basse e popolate da pikipiki, le motociclette usate per spostarsi velocemente e a basso prezzo. Sono in molti ad affittarne una, in modo da offrire passaggi a chiunque capiti nei paraggi e guadagnare pochi soldi in più alla fine della giornata.
Anche lei si sta recando a lavoro: le ultime ordinazioni che ha ricevuto hanno disintegrato la sua umile scorta di tessuti, obbligandola ad approfittare della sua pausa pranzo per sgattaiolare in città e fare rifornimento. È ben felice di compiere uno sforzo in più, se significherà aggiungere anche solo pochi scellini al salario mensile.
«Ryma, hey!» esclama qualcuno, a pochi metri di distanza.
Ryma si ferma ad un paio di passi dall’entrata del mercato – può già sentire i profumi di legumi in vendita, di verdure e frutta - ed alza lo sguardo sul soldato semplice dalla divisa spenta e britannica. «Habari», saluta cordialmente, inclinando appena le labbra rosee in un sorriso.
«Mzuri sana», risponde Benjamin, improvvisando un saluto militare divertito.
«Come fai a stare molto bene, con questo caldo?» commenta lei, riprendendo a camminare verso la propria meta: non ha molto tempo a disposizione e quello che ha deve essere impiegato utilmente.
«È il mio giorno libero, è un motivo sufficiente», spiega Benjamin, affiancandola con le mani dietro la schiena: è alto venti centimetri più di lei, la guarda dall’alto con i suoi occhi neri e grandi, allegri.
Ryma si sofferma per un fuggevole istante sulle sue labbra sottili ed aperte in un sorriso, sul viso spigoloso da ventiduenne: «Ah, giusto: oggi è martedì», conviene. Durante il tragitto verso la città, non ha fatto caso alla diversa percentuale di popolazione bianca che brulica per le strade: i militari e le loro famiglie si riversano nella città due volte alla settimana. «Come mai sei in divisa?»
Lui si stringe nelle spalle magre. «Problemi con la lavatrice», sospira.
Ryma non commenta, si limita ad avvicinarsi al capanno che le interessa: non importa se lei – così come quasi tutte le altre locali – ha la pelle rovinata dall’acqua e dal sapone usati per lavare a mano.
«Cosa devi comprare?» le chiede Benjamin, nel suo inglese perfetto. Osserva le stoffe sgargianti appese su travi di legno o su fili di spago tesi da un estremo all’altro della struttura, ogni tanto ne sfiora qualcuna.
«Stoffa», risponde lei, trattenendo un sorriso ovvio che viene subito ricambiato.
«Intendevo quale tipo: posso aiutarti a scegliere», precisa lui, mentre il proprietario della merce tenta di vendergli qualcosa.
Ryma riflette sul colore ambrato di un tessuto in cotone, mordendosi un labbro. «Non è un compito da uomo», dice soltanto, passando oltre.
«Sai, in Inghilterra non c’è una distinzione così netta tra ciò che possono o non possono fare gli uomini e le donne», le fa presente Benjamin, di fronte a lei. «È il 2019, diamine».
Benjamin ha questo piccolo difetto, tra tutti quelli che Ryma non ha ancora avuto occasione di conoscere: sa essere inopportuno. Ed ingenuamente ignorante. Lei non gliene fa una colpa, non vede malizia o cattiveria nei suoi commenti fuori luogo: sono semplicemente dettati da una lingua lunga e spensierata, estranea alla cultura del posto.
«Non intendevo in quel senso», precisa Ryma, composta. «Intendevo che, personalmente, non mi fido del parere degli uomini nello scegliere il tessuto adatto per il vestito di una bambina. Questo non significa che tu non possa farlo».
«Ah», esclama Benjamin, con un’espressione seria ed in parte rammaricata. «Avevo capito-»
«Non fa niente», lo interrompe lei, rivolgendogli un sorriso a labbra chiuse. Ha adocchiato una stoffa di un arancione acceso, rifinito con fili dorati e bordeaux.
«Senti», la segue Benjamin, instancabile e già oltre il piccolo malinteso, «stasera esci?»
Ryma poggia una mano sulla merce prescelta, accertandosi della sua qualità. «Non esco di sera», ammette. Nayuri è una città caotica ed allegra, ma oltre le otto e trenta di sera, con il buio pesto delle notti keniote – e soprattutto durante i giorni di riposo dell’esercito britannico – non è adatta a chiunque: sicuramente non a ragazze di diciotto anni di buona reputazione e con un minimo di furbizia.
«Allora prima di stasera», propone lui, con più entusiasmo.
«Devo lavorare, Benjamin».
«Giovedì?» insiste, appoggiandosi con una spalla ad una trave in legno. «Posso accompagnarti di nuovo al mercato, così ti dimostrerò che ti sbagli a non fidarti di un parere maschile».
Ryma studia il suo sorriso impertinente e si concede brevi secondi per valutare le sue possibilità. Non è la prima volta che lei e Benjamin si incontrano, per caso o dietro precedente accordo: da quando sono inciampati l’uno nell’altro un paio di settimane fa, hanno scoperto di apprezzare il tempo trascorso insieme ed in un modo che ha stupito Ryma. Non può negare di essere curiosamente attratta dallo scapestrato soldato semplice che non si arrende se non quando la vede ridere, anche se non è sicura che sia un interesse più profondo.
«Va bene», acconsente, annuendo piano.
Benjamin si passa una mano tra i capelli corti e rossicci. «Perfetto», esclama, soddisfatto. «Stessa ora, stesso posto», promette, prima di baciarle frettolosamente una guancia e disperdersi tra la folla del mercato.
Lei sospira piano, scuotendo il capo per nascondere un lieve sorriso. Non vede l’ora di raccontarlo a Tifah.
 
Quando Ryma varca il cancello azzurro, non ha il tempo di fare un secondo passo sul suolo del Kenyatta Centre, perché viene subito accolta – sommersa – dalle bambine più piccole. Succede ogni volta che esce per alcune compere: l’entusiasmo di posare gli occhi su nuovi materiali e l’aspettativa di quello in cui le mani esperte di Ryma li trasformerà sono insostenibili.
«Calmatevi, avanti», sorride Ryma, alzando sopra la propria testa le stoffe ben piegate in una busta.
«Facci vedere!» la implora Sara, saltellando sul posto con le mani giunte al petto. Le altre la imitano, mentre le loro voci si alzano di un’ottava.
«E va bene», esclama la più grande, arresa. «Ma prima andate a lavarvi le mani: ci vediamo tra dieci minuti nella guardiola».
Le bambine esultano e si lamentano al tempo stesso, ma corrono verso il lavatoio e si accalcano attorno ai rubinetti arrugginiti.
«Usate il sapone!» precisa Ryma, prima di sorridere e camminare via.
Vivendo ancora al centro di recupero, non dispone di uno spazio privato nel quale lavorare tranquillamente: è costretta ad usufruire della piccola stanza situata accanto al cancello d’entrata, dove, di notte, un ragazzo di nome Alex resta di guardia per qualsiasi evenienza. L’unica richiesta che Ryma deve accontentare è che, alla fine della giornata, tutti i suoi attrezzi da sarta e tutto il materiale vengano messi in ordine, in modo da lasciare spazio al materasso ed al machete di Alex.
Ricomincerà a cucire nell’arco di quindici minuti, quindi ne approfitta per bere dell’acqua e per raggiungere il proprio letto: il dormitorio è immerso in un caldo soffocante e placido, il pavimento in pietra è stato spazzato da poco e ed i quattro letti a castello sono quasi in ordine. Si assicura che intorno non ci sia nessuno e recupera dal nascondiglio tra le doghe in metallo una busta di carta spiegazzata. Vi ripone i soldi avanzati al mercato e conta il totale.
Lo conta di nuovo.
Sbatte le palpebre.
Ripete l’operazione.
È tentata di contarlo ancora una volta, ma si arrende all’evidenza.
Qualcuno ha rubato parte dei suoi soldi: quattromila scellini. Il corrispondente di più di due salari mensili, sudati e pregati. Più della metà dei suoi risparmi.
Non vuole dare in escandescenze, non vuole uscire dal dormitorio e chiedere spiegazioni, urlare per pretenderne almeno una. Sa perfettamente che nessuno si farà avanti, che nessuno proverà compassione per ciò che le è stato fatto, per ciò che è stato fatto a Peter, indirettamente.
Gliel’ha promesso, insieme a Tifah e Solomon. Gli hanno promesso di aiutarlo, nonostante i suoi rifiuti ed i numerosi litigi a riguardo: da quando è risultato positivo al test dell’HIV, da quando ha iniziato a vivere nel terrore di una condanna alla quale non può sfuggire, i suoi tre amici si sono impegnati per andargli incontro economicamente. Le spese sanitarie sono troppo care per il loro stile di vita e, sebbene Peter sia stato fortunato ed il virus sia rimasto silente per ben cinque anni, tutti sanno perfettamente che prima o poi serviranno i soldi per le cure.
Ma come potranno affrontare il tutto, se quegli stessi soldi vengono rubati senza ritegno? Se ogni sforzo che Ryma compie viene vanificato in un così misero modo?
Ryma si morde il labbro inferiore, chiudendo gli occhi con forza e stringendo tra le mani la busta di carta. «Dio, aiutami», implora, facendosi il segno della croce e lasciando che una lacrima le solchi le guance accaldate.
«Ryma, muoviti, ti stiamo aspettando!» grida una delle bambine al di fuori del dormitorio, riscuotendola dai suoi pensieri cupi. Lei tira su con il naso, si asciuga il viso e ripone la busta al di sotto dei propri vestiti: non ha più fiducia, non è più disposta a separarsene, almeno fino a quando non avrà trovato un posto più sicuro in cui nasconderla. Si avvicina ad una delle finestre sporche e si specchia nel suo riflesso appena accennato: gli occhi sottili non sono molto arrossati, gli zigomi alti sono nuovamente asciutti e le labbra hanno smesso di tremare impercettibilmente.
Inspirando a fondo, esce dalla stanza e lascia che i trentasette gradi tornino a stordirla.
«Eccoti qui!» urla qualcuno all’improvviso.
Tifah le salta letteralmente addosso, aggrappandosi al suo collo e circondandole il busto con le gambe magre.
«Aspetta, mi fai male!» esclama Ryma cercando di non cadere, ma inciampando nei ciottoli ai suoi piedi. Nonostante ciò che ha appena scoperto e lo sconforto in cui si è ritrovata, non riesce a non reagire con un sorriso a tutto ciò che Tifah rappresenta e porta con sé.
«Sei sempre stata troppo delicata», la rimprovera lei, ritornando con i piedi a terra e pizzicandole un fianco: una risata a fior di labbra e la lingua incastrata tra i denti bianchi. «Vuoi che ti alleni un po’? Conosco un paio di esercizi che dovrebbero rafforzare quelle zampe di gallina che hai al posto dei muscoli».
«Hapana», risponde Ryma, superandola scuotendo la testa.
«Perché no? Ti potrebbe essere utile», insiste Tifah, camminandole accanto. Profuma di terra fresca, dove probabilmente fino ad ora ha giocato con il cane del Kenyatta Centre, un meticcio di taglia media di nome Puppy. È così bella alla luce del sole alto, con la pelle di cioccolato scuro ed il corpo tonico, scattante come la sua personalità.
«Oppure potrei usare te e risparmiarmi la fatica», propone Ryma, entrando nella guardiola, dove le bambine hanno già rovistato tra i nuovi tessuti. Se li stanno avvicinando al corpo, fingendo di provarli e progettando nuovi modelli.
«Sai che non mi piacciono le persone pigre, potrei anche decidere di non venire in tuo aiuto».
Ryma sorride senza entusiasmo: in quel momento vorrebbe con tutta se stessa l’aiuto dell’indomabile Tifah, vorrebbe avere la sua forza d’animo e saper affrontare le cose diversamente.
«Cos’hai?» le domanda l’amica, posandole una mano tra le scapole. Gli occhi curiosi e bruni non si lasciano sfuggire nulla. «Sembra che ti abbiano fatto annusare un piatto di carne per poi portartelo via», ridacchia.
Le piacerebbe sfogarsi, forse è proprio quello di cui ha bisogno, ma non vuole intaccare la spensieratezza di Tifah: il furto appena subito la farebbe infuriare e tutti, al Kenyatta Centre, conoscono le conseguenze di un piccolo tornado di cinquanta chili scatenato tra mura instabili di pietra. Perciò non dice nulla: non accenna nemmeno a Benjamin, per paura di lasciar trapelare troppo dalla sua voce.
«Questo caldo è insopportabile», sbuffa soltanto. Mente.
 
 
 
Il giovedì successivo non tarda ad arrivare, ma si fa comunque attendere: non perché Ryma sia particolarmente impaziente di rivedere Benjamin, ma semplicemente perché il fulcro dei suoi pensieri non è mai stato molto leggero o tollerabile, rendendole difficile concentrarsi su molto altro e rallentandola in diverse occupazioni.
Aspetta davanti all’entrata del mercato per circa dieci minuti, prima di scorgere la figura in borghese di un giovane Benjamin: senza la mimetica ad impacchettargli il corpo è più piacevole da guardare, quasi più umano. Indossa una camicia azzurra a maniche corte, con un leggero alone di sudore sotto le ascelle, inevitabile in giornate così afose: i jeans chiari evidenziano le gambe ben definite ed ha tagliato nuovamente i capelli.
«Buongiorno», la saluta, non appena le arriva a pochi passi di distanza. Profuma di un profumo pregiato, che non ha niente a che vedere con gli odori aspri della terra o con quelli più comuni – e a tratti sgradevoli – dei ragazzi con i quali Ryma vive.
Lei china il capo, sorridendo, e l’attimo dopo è già travolta da chiacchiere rumorose.
Riesce a comprare quattro nuovi tessuti, di minor qualità, ma scontati ad un buon prezzo: uno lo userà per confezionarsi un abito più leggero, mentre gli altri li metterà in vendita per clienti abitudinari. Ha acquistato perline e fil di ferro, ma non si è avvicinata alla biancheria, nonostante ne abbia bisogno: a prescindere dall’imbarazzo al quale la presenza di Benjamin porterebbe, Ryma non può sperperare i propri soldi, soprattutto dopo l’ultima perdita subita.
Tre quarti d’ora dopo, si ritrovano in una via al di fuori del mercato: è polverosa, sterrata, e non c’è nessuno a popolarla. Stretta pochi metri, è delimitata da staccionate di legno poco più alte di loro. È una scorciatoia per il centro, che permette di non attraversare a ritroso tutto l’affollato mercato.
«Allora? Che ti dicevo?» esordisce Benjamin, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo sul viso di Ryma. «Ho dei buoni gusti in fatto di moda, devi ammetterlo».
«Passabili», lo provoca lei, camminando lentamente: i pantaloni che indossa sono leggermente corti e stretti, mentre la maglietta è sgualcita. Per un istante si vergogna di stargli accanto.
«Passabili? Mi prendi in giro?» chiede lui, dandole una debole spallata che la fa ridere. «Per farti perdonare per questa bugia, dovrai darmi un bacio».
«Nini?» esala Ryma, fermandosi e spalancando gli occhi. «Cosa?» ripete in inglese. Non è sicura di aver capito bene.
Benjamin sorride nella sua reazione, ma non sembra si stia prendendo gioco di lei. Anzi, appare piuttosto determinato. «Vorrei baciarti, se non è un problema», ammette, senza alcuna traccia di esitazione: probabilmente è un modo di fare dei militari, probabilmente sono così insistenti e decisi anche in ogni altro momento.
«Di cosa stai parlando?» domanda Ryma, aggrottando la fronte. Non ha ben capito come si senta a riguardo: certo, non potrebbe dire di non aver mai notato un sottile interesse trapelare dagli sguardi di Benjamin, ma è diverso sbizzarrirsi con la fantasia, ridere della propria immaginazione, e trovarsi faccia a faccia con una improbabile realtà.
«Non hai mai baciato nessuno?» indaga lui, più serio.
No.
«Non è questo, è che-»
«Non ti piaccio?»
Ryma sospira in silenzio, stringendo un po’ di più la busta nella propria mano destra. Si guarda intorno, si accorge della loro solitudine.
«Un po’ devo piacerti: mi hai anche permesso di accompagnarti a comprare la stoffa. Se non è amore questo…» scherza Benjamin, forse per metterla a suo agio o forse semplicemente perché non può farne a meno.
Non gli risponde, perché è troppo occupata a cercare di comprendersi: c’è qualcosa, dentro di sé, che la invita a lasciarsi andare, appellandosi all’innocenza di un bacio curioso, ma c’è qualcos’altro – qualcosa che casualmente ha la voce di Tifah – che la disprezza anche solo per prendere in considerazione la possibilità. Baciare un soldato inglese non è mai un buon auspicio.
Benjamin fa un passo avanti, la sovrasta. «Facciamo così», mormora, osservandola con fare rassicurante: le mette le mani sui fianchi, ma senza risultare invadente. Difatti, Ryma non indietreggia, ma studia quel contatto nuovo. «Se non ti piace, mi fermo», continua lui, facendosi più vicino.
Ryma si accorge di aver annuito impercettibilmente solo quando il profumo di Benjamin si fa più forte, le entra nelle narici mentre le loro labbra si toccano. Sposta un piede come per fare un passo indietro, ma resta ferma: ha ancora gli occhi aperti, sta trattenendo il fiato. Riprende a respirare quando la bocca di Benjamin si allontana per un fuggevole istante, solo per poi tornare ad accarezzarla meno cautamente. Le sue braccia adulte, segnate dal peso di armi ed allenamenti sfiancanti, si chiudono intorno al suo corpo, stringendola a sé quasi teneramente.
Lei sospira in quell’abbraccio e schiude le labbra spontaneamente, lasciando che il bacio diventi più intenso e meno casto. Non sa come muoversi, non crede di essere in grado di assecondarlo come vorrebbe: è troppo impacciata, è troppo frastornata da qualcosa di assolutamente nuovo ed inaspettato, troppo stupita dalla volontà di non interrompere quel momento.
«Era un po’ che volevo farlo», confessa Benjamin in un sussurro, muovendo le mani sulla sua schiena magra. «Sei ancora più bella quando ti lasci andare».
Ryma ritrova in quelle parole una verità che è costretta a riconoscere: è la prima volta che si scompone, che si lascia stringere da e per qualcuno, la prima volta che non mantiene le distanze fisiche necessarie. Si scopre più semplice, più a proprio agio di quanto si aspettasse.
«Asante», gli dice sulle labbra, facendolo sorridere.
«Prego», risponde lui.
Ha le dita calde che giocano con l’orlo della sua maglietta, Ryma può sentirle sfiorare distrattamente la pelle del suo addome e della sua schiena. Si sente addirittura in dovere di frenarle, spaventata da un troppo a cui non è ancora pronta, ma la suoneria del cellulare di Benjamin li interrompe in sua vece.
Lui si lamenta, ancora sulla sua bocca, ma si arrende ai suoi doveri. Recupera il telefono senza smettere di baciarla, ma si allontana appena per rispondere in tono piuttosto infastidito: le sorride, tenendola ancora stretta a sé. Ryma lo osserva respirando velocemente, cercando di mettere ordine ai pensieri che le affollano la mente, ma non ha il tempo di riuscirci: Benjamin ha già terminato la chiamata.
«Devo andare», sbuffa lui, inumidendosi le labbra e riponendo il telefono nella tasca posteriore dei jeans.
«Ah», dice Ryma. Non vuole che se ne vada.
«Ci rivediamo, hm?» le assicura, accarezzandole una guancia con un sorriso promettente. «Ti vengo a trovare appena posso».
L’attimo dopo, le stringe la mano libera dalla busta della spesa e si volta per allontanarsi velocemente: Ryma lo osserva fino a quando non lo vede scomparire dietro l’angolo della strada, fino a quando non resta completamente sola ed è costretta ad ascoltare il battito agitato del proprio cuore.
Solo allora si accorge di qualcosa di accartocciato nella propria mano, quella che ha ancora il calore di Benjamin impressa sulla pelle. Ryma riconosce delle banconote: cinquecento scellini.
Cinquecento scellini con i quali Benjamin ha pagato quel bacio.
Cinquecento scellini che spiegano tutto ciò che Ryma evidentemente non ha capito.
Cinquecento scellini che testimoniano ciò che in realtà è successo.
Per i quali lei ha ringraziato, prima di riceverli.
Con i quali lui ha promesso di tornare.
Cinquecento scellini che la fanno sentire una prostituta, proprio come le altre.





Eccoci qui!
Capitolo narrato dal punto di vista della mite Ryma (ogni capitolo avrà una voce narrante diversa, si alterneranno i vari protagonisti): ora diciottenne, vive ancora al Kenyatta Centre, dove cerca di guadagnare qualcosa facendo la sarta. Spero che almeno una parte del suo carattere sia emersa, ovvero il suo essere pacata, composta, religiosa ed in un certo senso ingenua: ovviamente ci sarà più tempo per conoscerla, ma è già un inizio.
So che forse come primo capitolo è stato un po' "brusco", per quello che ha fatto Benjamin, ma purtroppo questa storia è fatta anche (e soprattutto) di questo: probabilmente il comportamento di Benjamin vi ha spiazzato e confuso, ma nel prossimo capitolo ci sarà un'interpretazione più completa di quello che è successo. Posso già anticiparvi che Ryma ha ragione su di lui: non è cattivo, è solo un po' stupido e conforme ad usi e costumi poco dignitosi (ricordo ciò che ho scritto nel prologo riguardo la prostituzione). Nonostante questo, non si sarebbe mai aspettata di essere pagata per un bacio (cinquecento scellini, quindi cinque euro, sono una sciocchezza per Benjamin, ma una bella quota per Ryma, che stenta a guadagnare 2000 scellini al mese).
Altra cosa un po' dura che avviene è il furto di parte dei guadagni di Ryma: una regola che io stessa ho imparato, alloggiando nel centro che qui ha un altro nome, è che niente è di nessuno, non quando altri ne hanno bisogno o semplicemente voglia. Ryma è davvero impotente riguardo questo, non potrebbe mai scoprire chi è il ladro e, se anche lo scoprisse, non otterrebbe mai indietro i suoi soldi.
Spero di esser stato abbastanza chiara, anche se comunque veranno approfondite tutte le situazioni: nel frattempo mi piacerebbe scoprire le vostre ipotesi, ricevere dei commenti riguardo gli avvenimenti di questo capitolo. Dei pareri, ecco :)

Ah, piccolo riassunto/vocabolario:
- pikipiki = moto che i locali affittano dalle concessionarie per guadagnare pochi soldi in più dando passaggi alle persone, a mo' di taxi (quando io li prendevo, il viaggio dal centro di recupero al centro della città costava un euro);
- habari = ciao, come stai?
- mzuri sana = molto bene;
- hapana = no;
- nini? = cosa?
- asante = grazie.

E niente, vi saluto e vi ringrazio per aver letto/recensito :)
Vi lascio tutti i miei contatti:
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Veronica.

 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo due - Scontri ed incontri ***


Buooonasera!
Anche questa volta, faccio una piccola precisazione che può esservi utile:
- ricordo che il chapati è un pane tipico, mentre "pole pole" è un'espressione che serve a consolare: io l'ho conosciuta in ospedale, le infermiere lo ripetevano ai bambini quando questi piangevano per qualcosa: significa "scusa", "andiamo, su". È un'espressione di conforto.
Buona lettura, a dopo!


 

 

Capitolo due
Scontri e incontri

 

Sei così bella e fai così male

  
«Idiota, quei vetri non si puliranno da soli!» esclama Tifah, rimproverando Joyce e la sua inettitudine in fatto di pulizie: al posto di strofinare con forza le finestre, si sta distraendo guardando i ragazzi del dormitorio maschile giocare dall’altra parte del terreno, prendendoli in giro di tanto in tanto e forse invidiandoli.
«Non rompere», replica lei, con una smorfia infastidita.
Tifah smette di scopare a terra con un robusto ramo di foglie fresche e le riserva uno schiaffo sul capo. «Le Mamme ci faranno il culo, se non finiamo tutto entro dieci minuti, quindi mettiti al lavoro», sibila. Agnes e Pamela sono le due donne che si occupano del cibo dei bambini e della loro condotta, aspre nei rimproveri ed incorruttibili nei loro ordini: simili per stazza e scarsa simpatia, non sono esattamente le Mamme che il loro soprannome suggerisce, quelle che chiunque vorrebbe.
«Te lo faccio io il culo, se non la smetti», le assicura Joyce, cercando di tirarle un calcio, ma fallendo. È più bassa e meno veloce di Tifah: può negarlo, ma la teme.
Tifah la ignora con un sospiro e riprende il suo lavoro, nonostante sia stanca. La routine di ogni giorno è sfiancante per uno spirito libero come il suo: il Kenyatta Centre non è di certo immenso, ma non è nemmeno di piccole dimensioni. A differenza dei ragazzi, che evidentemente non amano stare nel pulito e non devono vivere con le asfissianti Mamme, le ragazze sono organizzate in turni per le pulizie: di settimana in settimana, una parte di loro si occupa del dormitorio femminile, assicurandosi di non tralasciare nulla a meno che non si desideri una poco piacevole punizione, una parte – la più sfortunata - lava i bagni in comune, altre puliscono la Nursery, ovvero uno stanzone con ampie finestre che di mattina si trasforma in asilo per i bambini del vicinato, ed altre ancora si prendono cura del forno e dei piazzali all’esterno.
Questo è il sesto giorno per Tifah: può dire senza alcun problema di aver raggiunto una perfetta conoscenza di ogni millimetro dei dormitori. E di sapere con chi prendersela per lo sporcizia che lei deve pulire.
La porta si spalanca all’improvviso, provocando uno spostamento d’aria che per un solo istante risulta piacevole nell’afa pomeridiana: Ryma resta immobile, non entra nella stanza, né sposta lo sguardo da una Tifah piuttosto stupita. Ha un’espressione vuota, ma talmente inquieta da creare stridore.
«Cosa diavolo ti è successo?» domanda Tifah, avvicinandosi subito a lei e lasciando a terra il ramo spesso. Ha gli occhi sbarrati, fissi sulle guance umide dell’amica che si preoccupa di asciugare con le mani callose.
Ryma si irrigidisce al suo tocco, quasi volesse nascondersi, ma non fa altro che respirare regolarmente, con i pugni stretti lungo i fianchi magri.
«Ryma, parla», le ordina l’amica, scuotendola appena con le mani sulle sue spalle.
Ma quando lei si morde un labbro, soffocando un singhiozzo impaurito, Tifah semplicemente sa che deve soltanto portarla con sé: le afferra un polso ed esce frettolosamente dalla stanza, senza darle la possibilità di divincolarsi o di opporsi.
Joyce, ancora accanto ai vetri da pulire, riesce soltanto a gridare: «Dove stai andando? Con le Mamme come la mettiamo?!»
 
Si sono nascoste tra i cespugli secchi, al di là del campo di fronte alla Casa. Ryma è seduta su un sasso smussato, cocente a causa del sole che lo intorpidisce per dodici ore: tiene lo sguardo basso, le mani giunte sulle ginocchia piegate. La schiena dritta, testimone della sua dignità.
Tifah la osserva dall’alto, con i pugni sui fianchi e la fronte aggrottata. Non ha mai avuto molta pazienza, soprattutto se è Ryma ad avere un problema: le basta osservare le sue iridi del colore del caffè, per scovarvi un torto.
«Allora?» insiste.
L’altra si decide finalmente a guardarla. «Vorrei davvero parlartene», ammette a bassa voce, «ma so già come reagirai e non voglio. Non voglio litigare».
«Non essere stupida, Ryma», ribatte Tifah. «Non puoi restare in questo stato», continua: ovviamente non osa negare le sue predizioni, perché entrambe si conoscono alla perfezione ed alcune cose vanno oltre qualsiasi dubbio. Dopo qualche istante, domanda: «Perché dovremmo litigare?»
Non crede che abbia fatto qualcosa di sbagliato nei suoi confronti, non ne sarebbe capace e non sarebbe da lei: più che altro, teme che abbia fatto qualcosa che sa che non verrà approvata.
Ryma si schiarisce la voce senza fare troppo rumore, striscia i piedi a terra solo per rimandare il tutto di qualche secondo. «Oggi ho dato il mio primo bacio», mormora, con gli occhi di nuovo fissi sul terreno chiaro, arido.
Tifah sbatte le palpebre, aspetta, ma non ottiene nessun’altra spiegazione. «Ok?» risponde, esitante. Ha il cuore vagamente più leggero, si permette anche di sorridere appena. «Ti voglio bene e magari sono un po’ possessiva e protettiva, ma non litigherò con te perché a diciotto anni hai finalmente deciso di darti da fare», scherza. Non lo precisa, ma non crede che l’uomo meritevole di Ryma sia ancora nato: il Dio che è costretta a pregare ogni giorno non le sembra abbastanza bravo per un compito simile.
«Ti ricordi Benjamin?»
Tifah è stupita da una domanda simile: cerca di fare mente locale e di ignorare almeno momentaneamente l’espressione seria dell’amica, fingendo di non notare l’assoluta assenza di entusiasmo.
«Il soldato che ti ho presentato quando siamo andate in città, la scorsa settimana», aggiunge Ryma.
Lei alza un sopracciglio, mentre un vago viso bianco si ricompone nella sua mente. «Ah, quell’inglese», dice con una punta di disprezzo: gli angoli della bocca si curvano spontaneamente. «Cosa c’entra?»
Ryma non risponde, ma la guarda con una certa fermezza.
Sta aspettando che faccia i dovuti collegamenti.
E Tifah può solo sperare di sbagliarsi.
«Hai dato il tuo primo bacio a lui?!» chiede incredula, alzando la voce.
«Tifah», la riprende l’altra, senza scomporsi. È un velato rimprovero, un ammonimento che non può essere ignorato.
Tifah sospira sonoramente, cerca di controllarsi. «Sei impazzita?» continua. «Com’è successo? E quando? Un inglese! Hai scelto di fartela con un inglese
«Avevi detto che non avresti litigato con me, solo perché-»
«L’ho detto prima di sapere che hai scelto di baciare un inutile pezzo di chapati
Il silenzio di Ryma è peggiore di un rimprovero, perciò Tifah le dà le spalle e chiude gli occhi. Non vuole urlare, non vuole che l’odio che prova per quei dannati inglesi si riversi sulle spalle di chi non lo merita: deve restare oggettiva, concentrarsi sul reale punto dell-
«Cosa ti ha fatto?» sibila subito dopo, voltandosi di nuovo per fronteggiarla. Se fosse stato un semplice primo bacio – per quanto discutibile, ai suoi occhi – Ryma non avrebbe avuto quelle iridi ferite a scoprirla, non sarebbe rientrata in casa con le guance umide.
L’unico rumore che si frappone tra loro è quello del vento che si è appena levato, caldo, ma piacevole sulla pelle. Per una manciata di secondi, nessuna di loro si muove.
Quando Ryma allunga una mano verso di lei, Tifah si limita a studiarne il pugno chiuso, fermo. Si avvicina di un passo e tende il palmo aperto sotto di esso: l’amica lascia cadere ciò che fino a quel momento ha nascosto forse anche a se stessa e subito dopo distoglie lo sguardo.
Tifah osserva i cinquecento scellini nella propria mano, sforzandosi di dar loro un’interpretazione. «Cosa significano?»
«Non so, forse sono solo una stupida e ho finito per ingigantire tutto», borbotta Ryma, improvvisamente più a disagio. Sembra si vergogni. «Forse ha solo voluto essere gentile e farmi un regalo, dato che ho speso più del dovuto al mercato».
«Ti ha dato lui questi soldi?»
«Sì», risponde Ryma: gli occhi di nuovo nei suoi, la voce più esitante. «Me li ha dati promettendomi che sarebbe tornato, prima di andarsene».
«Dopo averti baciata», aggiunge Tifah: la sua non è una domanda, è una certezza.
Ha la nausea.
«Sì».
«Gentile, hm?» ripete Tifah, serrando la mascella ed il pugno, fino ad accartocciare la banconota. «Come diavolo fai ad essere così ingenua?!» sbotta, mentre la rabbia, il disgusto, le fanno tremare le gambe.
Ryma indietreggia impercettibilmente, ma non si innervosisce, o almeno non lo dà a vedere.
«Lui ti ha pagata!» riprende l’altra, gesticolando. «Ti ha pagata per uno stupido bacio e tu hai anche il coraggio di cercare un modo per giustificarlo?!»
«Non voglio giustificarlo, voglio essere obiettiva», ribatte Ryma. Non si è ancora mossa da quel sasso.
«Allora sii obiettiva riguardo il fatto che quegli inglesi sono ancora qui, nella nostra terra, e che ognuno di loro si è scopato quasi tutte le donne di questa città! Ci hanno trasformate in prostitute e pensano che sia l’unica cosa che meritiamo! Credi davvero che in quel momento lui abbia voluto farti un regalo? Non riesci a vedere che ti ha ricompensata?! Ti ha usata, e come ringraziamento ti ha dato cinquecento scellini: è questo quello che vali?!»
Ryma la osserva in silenzio, con il respiro più veloce, irrequieto. «Perché avrebbe dovuto pagarmi per un bacio che è riuscito a prendersi senza compromessi?» domanda: la voce tremante, rotta. «Io ho voluto baciarlo: non era tenuto a darmi nulla. Se il suo obiettivo era quello di divertirsi, avrebbe potuto farlo gratis ed io non me ne sarei accorta. O almeno non subito».
Tifah non riesce a capire come lei possa essere così cieca: è qualcosa che sfugge alla propria comprensione, che la fa arrabbiare così tanto da essere snervante. «Te lo spiego io», replica, ansante. «Prima o poi ci saresti arrivata: ti saresti accorta che stava solo giocando. E allora perché non darti subito un incentivo? Cinquecento scellini sono un quarto di quello che guadagni in un mese, nei periodi migliori: sai cos’ha pensato? Ha pensato che certamente saresti stata più propensa a giocare con lui, con la promessa di tanti soldi, e magari anche di più! Ecco perché te li ha dati: per comprarti, per farti stare buona!»
Ryma si alza in piedi di scatto, trattenendo il fiato: si volta di spalle e si stringe le braccia al petto. «Non è così», nega, in un fil di voce.
Tifah sospira nervosamente. «Non vuoi crederci, va bene, ma staremo a vedere», le promette, incamminandosi frettolosamente verso i dormitori.
«Dove stai andando?» le chiede Ryma, allarmata, senza ricevere una risposta.
Mentre attraversa il campo di fronte alla Casa, incontra Solomon: sta tagliando la legna a petto nudo, con il fisico asciutto e definito di chi cerca di mantenersi in forma e di chi è costretto ad esserlo. Lui la saluta con un cenno della mano, asciugandosi la fronte sudata con il braccio ed inumidendosi le labbra.
Tifah lo ignora, in un primo momento, ma poi ci ripensa: si dirige a passi decisi nella sua direzione. «Appena hai finito, vai da Ryma», dice subito, senza esitazioni. «Non lasciarla da sola».
Solomon le risponde con un’espressione confusa: gli occhi sottili e neri continuano a studiarla in silenzio. «Cos’è successo?»
«Non lasciarla sola», ripete lei, puntandogli l’indice sul petto ed allontanandosi subito dopo.
 
 
 
È sicura che lo troverà al bar accanto al supermercato – l’unico, nel giro di centinaia di chilometri – insieme ai suoi degni compagni. È ancora troppo presto, il loro amato e squallido locale notturno aprirà solo tra qualche ora e nel loro giorno libero non hanno molti altri posti in cui andare.
Entra all’interno del Nayuri’s Place sbuffando un certo disgusto, che parte dal nome del bar e sfocia nei suoi clienti abituali: subito nota diversi gruppi di bianchi in borghese, alcuni già clamorosamente ubriachi, altri tranquillamente seduti ai loro tavoli. Cerca di non soffermarsi sulle ragazze keniote che sfacciatamente si mettono in mostra, aspettando di attirare l’attenzione di qualcuno. Non riuscirebbe a trattenere lo stimolo del vomito.
Negli ultimi anni, la situazione è molto peggiorata: anziché risollevarsi economicamente, la città è rimasta bloccata in una crisi senza fondo, che ha accentuato qualsiasi risvolto negativo dell’occupazione inglese. Per Tifah il perdono non è mai stato semplice e sicuramente non lo è in queste circostanze.
Quando sta per perdere le speranze, scorge in fondo al locale il viso pallido di Benjamin: sta ridendo sguaiatamente nel mezzo di un gruppo di uomini, sorseggiando ad intervalli regolari la birra raccolta in un capiente boccale. Non è in grado di intimorirla, nulla potrebbe fermarla. Gli si avvicina velocemente, calcando i passi e lasciando che le sue infradito rovinate provochino un fastidioso rumore a contatto con le piastrelle lucide: il suo abbigliamento povero e rattoppato stona in quell’ambiente di benestare.
«Ben, amico, credo che questa ragazza ce l’abbia con te», esclama uno degli uomini, non appena Tifah li raggiunge, aggrappandosi alla maglia di Benjamin e tirandolo verso di sé in un muto invito a seguirla.
Lui sembra spiazzato, forse è leggermente brillo. «Ma io ti conosco», dice, senza ribellarsi alla sua decisione e seguendola goffamente all’interno del bar, mentre i suoi amici si lasciano andare a battute poco simpatiche che dovrebbero indovinare le loro intenzioni. «Sei l’amica di Ryma», aggiunge.
Tifah si trattiene dal colpirlo con un pugno, ma gli risponde non appena escono all’aperto. «Esatto, idiota di un inglese, sono l’amica di Ryma», conferma, lasciando andare la sua maglia ed appoggiando le mani sui fianchi. «Tu invece sei quello schifoso che oggi l’ha pagata per un bacio».
Benjamin perde la giocosa spensieratezza di poco prima: la sua espressione si fa più seria, ma non si potrebbe dire se per le offese appena incassate o il segreto rivelato. «Piano con le parole», le intima, levandole ogni dubbio.
«È di questo che ti preoccupi? Di come ti chiamo?» domanda Tifah, inorridita ed incredula. «Dovresti preoccuparti di più di come ti sei comportato!»
«Si può sapere cosa ti prende? Non mi sembra che siano affari tuoi», le risponde Benjamin, corrugando la fronte in un’espressione contrariata. Tre o quattro dei suoi compagni sono usciti per fare da testimoni.
«Certo che sono affari miei, perché al posto di Ryma avrebbe potuto esserci chiunque altro: in fondo è così che fate, no? Credete che con i soldi possiate comprarvi qualsiasi bella ragazza keniota e sbattervela in un vicolo».
«Non me la sono sbattuta, di che diavolo parli?»
«E pagarla cinquecento scellini per un bacio, invece, pensi che sia meglio?!»
Benjamin è evidentemente confuso ed infastidito: attorno a loro ci sono diverse persone, forse è anche imbarazzato. Tifah ne approfitta, gli si avvicina con il rancore ad animarla: «Ryma non è una prostituta», gli ricorda, con il tono di una minaccia. Il fatto che lui non abbia smentito nessun’accusa è una conferma inequivocabile. «Non avvicinarti di nuovo a lei: tieniti quegli sporchi soldi e piuttosto fatti una sega dove nessuno può vedere l’uomo senza palle che sei».
Gli amici di Benjamin scoppiano in una risata fragorosa, incitando lui e Tifah in modo alternato: è evidente che si stiano divertendo ad assistere al loro battibecco.
«Vaffanculo», sbotta lui, arrivato al limite di sopportazione. «Chi ti credi di essere?!»
Tifah è già pronta a rispondergli o persino a colpirlo, ma un agente keniota della polizia si avvicina con aria inquisitoria. «Cosa succede?» domanda, osservando entrambi con sguardo duro ed impugnando con forza il suo fucile.
Lei torna cosciente della situazione, delle numerose guardie che giorno e notte pattugliano costantemente la città, e per un istante trattiene il fiato: si riscuote quando una mano preme sulla sua schiena per invitarla ad allontanarsi. «Niente, non succede niente», risponde una voce. «Ce ne occupiamo noi».
Tifah si volta per guardare un’ultima volta Benjamin, che si sta sistemando la maglietta e che sta imprecando tra sé e sé, mentre i suoi compagni gli danno pacche amichevoli sulle spalle. Poi si accerta che l’agente di polizia si sia convinto a lasciar perdere ed infine, più tranquilla, si preoccupa di conoscere chiunque abbia deciso di intervenire.
«Non devo dirtelo io, che quelli non ci pensano due volte a metterti in galera, vero?» ricomincia il ragazzo, guidandola sul marciapiede ed interrompendo il contatto. Non è molto alto, ma ha un portamento ritto e fermo: ha una corporatura esile, una carnagione ancora più pallida di quella di Benjamin. Dal taglio di capelli è facile intuire che è anche lui un militare. «E se ti mettono in galera, la tua amica dovrà guadagnare ben più di cinquecento scellini, per tirarti fuori».
Tifah smette di camminare, obbligandolo a fare lo stesso. È agguerrita, accecata dalla rabbia. «Potrà sembrarti strano, ma non tutte le donne di questa città sono delle prostitute: Ryma non si guadagna da vivere in questo modo», specifica, incrociando le braccia al petto. «E di certo non ho bisogno delle tue spiegazioni sulla corruzione della nostra giustizia». Ormai la polizia si macchia di più crimini dell’intera popolazione: sfrutta qualsiasi occasione per arrestare qualcuno senza un reale motivo, in modo da costringere parenti ed amici a pagare un’illegale cauzione che funge esclusivamente da guadagno personale della guardia responsabile. Questo regime colpisce soprattutto i più giovani, che devono fare attenzione anche solo ad aggirarsi intorno a negozi chiusi oltre un certo orario, rischiando di essere arrestati con l’accusa di tentata rapina.
«Hey, rilassati», sorride il ragazzo, alzando le mani in segno di resa: ha un sorriso passabile, è il massimo a cui Tifah può pensare. «Non stavo dicendo che la tua amica è una prostituta. E poi, da come ti sei comportata, forse avevi davvero bisogno di un ripasso di come funzionano le cose nella tua città: fatto da me o da chiunque altro».
«Credo siate voi inglesi ad aver bisogno di un ripasso di come le cose funzionano da queste parti», ribatte Tifah, non disposta a cedere nemmeno un centimetro di terreno.
«Touché», replica lui, questa volta accennando una risata: non riesce a decifrarlo, non riesce a capire se la stia prendendo in giro – né il significato di quella parola.
Resta per qualche istante ad osservarlo, ma si attarda oltre il consentito, perché gli concede il tempo di parlare ancora. «Mi dispiace per Benjamin», esclama seriamente, passandosi una mano dietro la nuca rasata. «Da quanto ho capito ha fatto un errore di giudizio».
«Un errore di giudizio?» boccheggia Tifah, alzando un sopracciglio.
«Sono sicuro che non era sua intenzione offendere la tua amica: lui… Be’, a volte si dimentica di ragionare. Mi scuso da parte sua».
Tifah non risponde, troppo intenta a pesare le sue parole: non si fiderebbe nemmeno sotto pagamento, è contro la sua natura.
«Comunque io sono Ryan, piacere», riprende il ragazzo, porgendole cordialmente una mano.
Lei scuote il capo e si volta per andarsene, ignorandolo.
 
 
 
Ryma è stesa a letto, raggomitolata con il viso che fronteggia il muro in cemento rovinato. Tifah la osserva per un minuto buono, in silenzio, sfruttando il fatto che non si sia ancora accorta della sua presenza.
Sospirando piano, le si avvicina senza preoccuparsi di far rumore: si toglie le infradito e si sdraia accanto a lei, abbracciandola e facendo aderire il proprio addome alla sua schiena ricurva. «Dov’è Solomon?» le chiede a bassa voce, respirandole sul collo. Gli aveva ordinato di non lasciarla sola.
«Non ho bisogno di una balia», risponde Ryma gentilmente. Nella sua voce dolce, c’è un ringraziamento nascosto.
Tifah è in parte d’accordo con lei, ma non lo ammette. Sa perfettamente che forse la sua amica ha una forza diversa dalla propria e che può solamente invidiare, ma sa anche che il senso di protezione che prova nei suoi confronti è troppo grande per essere messo a tacere. Semplicemente non può permettersi di lasciare che qualcuno sia in grado di avvicinarsi abbastanza per danneggiarla.
«Ho sentito ogni schiaffo che le Mamme ti hanno dato non appena sei rientrata», ammette Ryma dopo pochi istanti. «Mi dispiace».
«Stai zitta», sbuffa Tifah, stringendola un po’ di più.
«Avresti dovuto finire di pulire, invece di preoccuparti di me», insiste lei.
«Zitta, ho detto».
Ryma la ascolta, ma solo per poco. «Dove sei stata?»
«Da Benjamin», confessa Tifah, ripercorrendo mentalmente ciò che è accaduto.
L’amica si agita tra le sue braccia, forse vorrebbe voltarsi per guardarla in viso, ma non le viene concesso. «Oh, Tifah…» sospira, arresa di fronte ad un’evenienza che aveva già immaginato.
Tifah le bacia una spalla, come per consolarla prima ancora di ferirla. «Avrei voluto avere torto», le dice soltanto.
Subito dopo, Ryma si sente libera di piangere apertamente, al sicuro nella sua stretta salda. Al ritmo dei suoi «Pole, pole» rassicuranti, che le camminano sulla pelle.

 


Rieccoci!
Spero di continuare ad aggiornare così regolarmente, sono quasi fiera di me ahahah E spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto :)
Passo subito ai vari commenti!
- Il ruolo delle Mamme comparirà ancora: ripeto che sono figure di """riferimento""" all'interno del centro, che si occupano di regole e compiti e che, come ho già suggerito, si dedicano più alle ragazze che ai ragazzi. Organizzazione delle pulizie e relative punizioni sono reali. A prescindere dal loro soprannome, sono viste solo come figure autoritarie: non c'è quasi nessun legame affettivo. Riguardo l'organizzazione del centro, la approfondirò più avanti: per ora non posso che introdurre le cose un po' per volta, altrimenti verrebbe fuori uno spiegone infinito ahaha
- Il Nayuri's Place è un nome di fantasia, ma si ispira ad un bar reale, molto frequentato dagli inglesi e dalle ragazze/donne che vogliono le loro attenzioni.
- La polizia è davvero corrotta fino a tal punto: per gli abitanti della città è un vero dramma, ne sono impauriti e non c'è alcun tipo di fiducia. Ciò che ho scritto riguardo la possibilità di essere arrestati con un finto pretesto è vero, succede spesso: così come è vero il dover pagare per uscire di prigione, il tutto ovviamente al di fuori della legalità. Ma se ne riparlerà sicuramente.
- Tifah. Il capitolo è nuovamente dal suo punto di vista e dà decisamente un aiuto nel comprendere il suo carattere ed il rapporto tra lei e la dolce Ryma: impiega davvero poco a comprenderla, anche se hanno due visioni diverse delle cose e due modi diversi di affrontarle. Tifah odia particolarmente gli inglesi, prova molto rancore nei loro confronti, e di questo si parlerà ancora più avanti: di conseguenza, si può capire come tutto sia ingigantito di mille volte ai suoi occhi. Questo, sommato alla sua impulsività e all'affetto nei confronti di Ryma, dà come risultato la sfuriata a Benjamin davanti a tutti. Premetto che la vera Tifah è davvero così, non scherzo: se qualcosa non va, non la fermi nemmeno con un carro armato. In più, la sua "volgarità" (me ne scuso, ma come avevo già detto ho intenzione di non abbellire nulla e di restare fedele alla realtà) e la sua sicurezza derivano dalla convivenza con i ragazzi del centro di recupero (ricordo che anche nel prologo non si era fatta problemi ad attaccare fisicamente Kelvin), dalla mancanza di genitori ed una certa disciplina. (PS: quando dice a Ryma di aver baciato un pezzo di chapati, si riferisce al colore chiaro del pane e quindi al colore della pelle di Benjamin :))
- Benjamin. Spero che sia chiaro cosa in realtà sia successo: partendo dal presupposto che ormai il rapporto tra i soldati e le donne è chiaro ai più, Tifah e la sua scarsa fiducia negli inglesi ci hanno visto giusto, nonostante Ryma abbia cercato un'alternativa per scongiuare il tutto. Benjamin non ha negato nessuna accusa, ma questo non vuole dire che sia una persona cattiva e doppiogiochista: paradossalmente, si è comportato ingenuamente basandosi su comportamenti considerati normali dalla maggior parte dei soldati. Ma anche di questo si parlerà ancora. Se qualcosa non fosse chiaro, ditemelo pure :)
- Ryma. Grande differenza tra lei e la sua amica, quasi in tutto ahahah Ma spero vi piacciano, hanno un legame molto forte! (Nella realtà non so esattamente quanto loro due siano legate, sono io ad averci romanzato su :))
- Ci tengo a ricordare che questa storia è ambientata in un ipotetico futuro, quindi alcune circostanze sono esasperate per via del racconto (come la diffusione della prostituzione e altre cose, che incontreremo più avanti), nonostante tutte reali.
Mi sono dilungata troppo, meglio smettere hahah Fatemi sapere cosa ne pensate, per favore, e magari ditemi cosa vi aspettate: ho già deciso di chi sarà il punto di vista del prossimo capitolo, ma vi chiedo lo stesso se avete qualche preferenza! Ah, e cosa pensate di Ryan? :)
Spero di non avervi deluse con questo capitolo e vi ringrazio per aver letto fin qui e per le recensioni :)

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Veronica.

 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre - Una famiglia ***


Hola!
Scusate il piccolo ritardo, ma sono stata impegnata e poi in vacanza :) Piccole precisazione e poi vi lascio al nuovo capitolo:
- il nome Bahati significa "fortunato/benedetto";
- il chai è una bevanda composta da thè e latte, molto diffusa e amata: spesso le giornate si interrompono proprio per dedicare del tempo a berne un po'. Può capitare di andare in banca o persino in ospedale e di dover aspettare che si finisca di bere il chai :)

 

 

Capitolo tre
Una famiglia

 

Quante cose nascondi, quante cose hai da perdere
 

Solomon è ancora sveglio: ha superato a stento le ore più critiche, i momenti nei quali è stato tentato di cedere ed arrendersi. È sdraiato a terra, sull’erba rinfrescata dalla notta nera: si regge sui gomiti, guarda lontano e sembra che stia aspettando di essere illuminato da un sole tiepido che sta per sorgere. Puppy sta dormendo con il mezzo busto dorato sulle sue gambe tese, russa come un uomo e, sempre come un uomo, è piuttosto irascibile quando viene svegliato: per questo Solomon non osa sottrarsi a quell’incastro, nonostante non senta più un piede.
Il Kenyatta Centre sta ancora sognando ed è stranamente silenzioso: presto si alzeranno tutti, si solleverà un gran frastuono di voci ed oggetti spostati, di litigi per chi deve lavarsi per primo e sgridate rivolte a chi non vuole farlo. I più piccoli porteranno i propri materassi sottili e rovinati fuori ad asciugare: li stenderanno a terra, confidando nel calore del sole per nascondere le tracce di urina, le tracce di un vizio del quale non riescono a sbarazzarsi. Le ragazze usciranno per andare a scuola, altre andranno a svolgere qualche lavoretto per mantenersi in attesa di una maggiore autonomia. Egbert, il proprietario, preparerà il caffè nella Casa, dove nessun altro può entrare, e leggerà l’ennesimo libro fumando una sigaretta maltrattata.
Nel frattempo, Solomon si gode la tranquillità del presente, che sfugge ad una routine travolgente: chiude gli occhi ed inspira a fondo, riempendosi i polmoni di aria leggera e fresca, pulita.
All’improvviso, Puppy inizia ad abbaiare forte, alzandosi di tutta fretta e puntando qualcuno con gli occhi ancora assonnati: scodinzola quando riconosce l’intruso, Solomon è già in piedi. «Dove sei stato?» chiede soltanto, senza nemmeno alzare la voce.
Il sole alle spalle di Kelvin si sta sollevando pigramente, stendendo un velo luminoso su qualsiasi cosa riesca a toccare: la temperatura si alzerà velocemente, è questione di poco tempo. Non guarda suo fratello, si limita a camminare con le mani nelle tasche dei pantaloni un po’ larghi e a sputare a terra.
«Kelvin, sono le sei e mezza del mattino», ricomincia Solomon, stancamente: è esausto, sì, ma non si è arreso. Crede ancora che quel quattordicenne sordo ai suoi richiami possa essere salvato da un destino che si sta creando da solo. Lo segue verso il dormitorio, lo osserva alle spalle: indossa un paio di scarpe da tennis nuove, forse le prime che si sia mai potuto permettere. Non vuole chiedergli dove abbia preso i soldi, perché può già immaginare la risposta.
Nello stanzone che condividono con altri sei ragazzi, Solomon abbassa la voce in un sussurro per non svegliare nessuno. «Dove sei stato?» ripete, appoggiando un avambraccio al letto a castello.
Kelvin non si è nemmeno spogliato, si è semplicemente sdraiato sul materasso annerito fingendo di avere anche delle lenzuola: gli occhi piccoli, neri come il cielo che suo fratello ha scrutato per tutta la notte, sono un muro troppo alto e resistente. La bocca larga è serrata, il collo magro è sudato. «Lasciami dormire», risponde, voltandosi in modo da dargli le spalle.
Solomon resta immobile ancora per qualche istante, ha sonno. Esce dal dormitorio per sfuggire allo sgradevole odore scaturente da un posto troppo piccolo per troppe persone. È sollevato: Kelvin è convinto che lui sia un dannato impiccione e che non rispondere alle sue domande sia una forma di ribellione, un modo per mantenere le distanze da un controllo che rifiuta, ma non sa che Solomon non lo aspetta per estorcergli delle informazioni o delle confessioni. Solomon passa le notti insonni solo per accertarsi che suo fratello almeno ritorni.
 
 
 
Un gruppo di circa quindici ragazzi è disposto in cerchio attorno ad un piccolo blocco di cemento scalfito, occupato da un ancora più piccolo essere umano. Non gli lasciano nemmeno abbastanza spazio per respirare, gli stanno addosso scrutandolo con occhi curiosi e confusi.
«Secondo me è muto», sentenzia uno di loro, corrugando la fronte e grattandosi l’addome.
«Secondo me si è semplicemente spaventato per quanto sei brutto», ribatte un amico, scappando subito dopo per evitare un calcio sferrato con forza divertita.
«Questo non dura nemmeno due giorni, ve lo dico io», sospira Aimon: è immune alla confusione che gli sta intorno, agli spintoni insistenti per riuscire a vedere meglio. Nessuno osa disturbarlo troppo, perché il suo fisico spesso e solido intimorisce quasi tutti: con le gambe leggermente divaricate, il petto in fuori e le braccia incrociate, tiene il capo piegato di lato, impegnato in un’attenta analisi.
«Abbiamo visto di peggio, dai», commenta qualcun altro, più ottimista.
Il gruppo resta in silenzio per qualche istante, forse riflettendo su possibilità e scommesse, poi, senza un ordine esplicito, tutti si dissolvono: l’interesse è già sfumato, la novità è già meno accattivante e, per quanto l’arrivo di un novellino al Kenyatta Centre sia comunque un vero e proprio evento, è un evento che si ripete troppo spesso per essere pienamente apprezzato.
Solomon è l’unico a restare immobile, in piedi di fronte a quel bambino spaesato: è seduto compostamente, con le mani piccole e tozze strette fra le cosce. Indossa vestiti migliori di tutti gli altri ed in parte è fortunato, perché nessuno glieli ruberà – sono troppo piccoli. Tiene il viso basso, non ha mai alzato lo sguardo da quando si è ritrovato accerchiato. Ha i capelli bruni, corti, quasi della stessa sfumatura della sua pelle.
«Come ti chiami?» domanda Solomon, cercando di rompere il ghiaccio: lui non è di certo la persona più indicata per un compito simile, ma a quanto pare non può sottrarsi alla sfida. Quel bambino sembra troppo spaventato, sarebbe un gesto piuttosto insensibile lasciarlo solo in un posto completamente nuovo e diverso, peggiore.
«Vuoi vedere che è davvero muto…» mormora tra sé e sé, piegandosi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza. Gli posa due dita sotto il mento, gli alza il viso e lo osserva: si sta mordendo il labbro roseo ed ha gli occhi lucidi, grandi e puri. Forse è in grado di parlare, in fondo ha già cinque anni, ma qualcos’altro glielo impedisce. «Se non parli, sarò costretto a chiamare i rinforzi», lo minaccia scherzosamente, abbozzando un sorriso che dovrebbe mettere entrambi a proprio agio.
Nessuna reazione positiva, anzi, il bambino si ritrae ancora più spaventato.
Solomon sbuffa, si guarda intorno: la piazzola nella quale si trovano è quasi deserta, ci sono solo un paio di ragazzi che giocano tra loro fingendo che una bottiglia di plastica sia una palla di cuoio. «Maina!» urla, fischiando subito dopo per attirare la sua attenzione. Un giovane adolescente si volta, lo ascolta. «Chiamami Ryma, per favore», gli chiede, certo di non doverlo ripetere due volte.
Ryma non dovrebbe avere problemi a raggiungerlo, dato che si tratta della piazzola in comune: se fosse stato dall’altra parte, davanti ai dormitori maschili ed alla Casa, sicuramente le Mamme le avrebbero proibito di avvicinarsi, troppo impaurite dalla possibilità di una rigida moralità infranta.
«Dovrai pur avercelo, un nome», esclama, nuovamente rivolto al bambino: gli aggiusta la maglietta bianca, già sporca di terra per tutte le persone che l’hanno toccato non appena arrivato al centro. Lui non risponde, cosa che non lo stupisce.
«Solomon». Una voce calma, interrogativa.
Lui si volta e Ryma è alle sue spalle: lo osserva stupita, poi guarda il nuovo arrivato e sorride a labbra chiuse. «Habari».
Il bambino china subito il capo, come scottato.
«Be’, almeno l’hai fatto muovere», sospira Solomon, rimettendosi in piedi.
«Qual è il problema?» domanda lei: un pezzo di stoffa rossa le copre i capelli corti, impedendo al sole di essere troppo cattivo. Indossa una tunica arancione di pessimo gusto, che cade dritta sul suo corpo magro: è in tenuta da lavoro.
«Non riesco a farlo parlare».
«Da dove viene?»
«Non so, qualche orfanotrofio da queste parti», spiega Solomon, stringendosi nelle spalle. «Non avevano più posto e hanno pensato di mandare via i bambini più grandi».
Ryma alza un sopracciglio, posa le mani delicate sui fianchi. «E noi avremmo posto?» chiede incredula.
«Ha fatto tutto Egbert, parla con lui», sospira.
«Magari deve solo ambientarsi», tenta Ryma dopo qualche istante, avvicinandosi di un passo al bambino. «Sarà spaesato: questo non è di certo un orfanotrofio. Ha fatto un bel salto di qualità», continua, con una certa amarezza negli occhi.
Solomon ne è consapevole, sa perfettamente che il Kenyatta Centre non è un luogo di villeggiatura. In confronto ai pochi orfanotrofi della città, sembra più un tugurio. «Allora deve ambientarsi in fretta, perché io devo andare dalla Harvey e sono già in ritardo».
Lei sorride. «Sei dolce a non volerlo lasciare da solo», indovina. «Ma anche io ho del lavoro da fare».
Solomon cerca delle alternative. «Qualcuno di voi non se ne può occupare? Almeno per questo pomeriggio».
Ryma alza le spalle, scuote il capo perché non lo sa.
«Sake non c’è?» Sarà anche uno spiritello di ragazza, ma nelle accoglienze non è affatto male.
«È in città».
«Tifah?»
In risposta riceve prima una piccola risata. «Vuoi davvero lasciarlo a Tifah? Come minimo lo trascinerebbe in qualche rissa di prima categoria per testare la sua virilità. No, i bambini non fanno per lei».
Solomon sospira annoiato. Il bambino è ancora immobile su quel sasso.
«Perché non lo porti con te?» gli chiede Ryma.
«Dalla Harvey?»
Lei annuisce.
«Come faccio a controllarlo mentre tolgo erbacce?»
«Lei è una donna sola, sono sicura che sarà felice di occuparsene per poche ore», lo incoraggia Ryma. «Guardalo, è terrorizzato. Cambiare aria lo aiuterà e magari riuscirete a scambiarvi qualche parola».
Solomon è dubbioso, ma deve ammettere che proprio non gli va di abbandonarlo al Kenyatta: teme che potrebbe tornare e trovarlo completamente pietrificato su quel blocco di cemento.
«Ci vediamo più tardi», lo saluta Ryma, rivolgendo un sorriso anche al più piccolo. Evidentemente sa che, se non ha ancora ricevuto alcuna risposta negativa, è perché la sua proposta è stata accettata. Si volta e cammina scalza verso la guardiola nella quale lavora.
«Ah, Ryma?» la richiama Solomon, raggiungendola con calma. «Come stai?» le domanda, ricordando gli occhi malinconici e feriti del giorno precedente, l’ordine di Tifah di non lasciarla sola, la sua preghiera contraria.
Lei serra la mascella per un istante troppo breve. «Bene, asante».
Sta mentendo.
«Non vuoi proprio dirmi cosa è successo?» insiste.
Ryma scuote la testa, fa un altro sorriso per chiedergli di non spingersi oltre e se ne va senza essere fermata.
 
 
 
La signora Harvey non dovrebbe avere più di settant’anni: Solomon non le ha mai chiesto la sua età, né le ha mai chiesto se l’uomo ritratto nella fotografia sulla mensola della finestra in salotto sia suo marito. Lei non ne parla mai, ma probabilmente è vedova: questo spiegherebbe la fede appesa al collo, oltre quella che le circonda l’anulare sinistro, ed i fiori bianchi sempre accanto a quella cornice, il suo sguardo triste quando non sa di essere osservata.
Ha un figlio, un tenente dell’esercito inglese: Solomon l’ha visto solo una volta, quando pochi mesi addietro ha iniziato a lavorare per lei. Hanno litigato furentemente e, per quanto ne ha capito, il punto della questione era il trasferimento inaspettato della signora Harvey: James non ha preso bene la decisione della madre di seguirlo in Kenya, ma non ha nemmeno cercato di capire il suo punto di vista, la sua solitudine. Forse il loro rapporto è più travagliato di quanto un occhio esterno possa immaginare, forse ci sono altri mille forse, ma il punto è che i due non hanno più un vero rapporto.
«Solomon, buongiorno», esclama la signora Harvey, sorridendo calorosamente dall’uscio della porta che tiene spalancata: si è accorta della sua presenza grazie allo sbattere metallico del cancelletto d’entrata.
«Buongiorno», risponde lui, posando gli occhi sul bambino che gli sta camminando affianco: si è fatto impercettibilmente più vicino, probabilmente a causa del luogo sconosciuto in cui si trova.
«Chi è questo giovanotto?» chiede la proprietaria della piccola villetta recintata, piegandosi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza e sistemandosi gli occhiali rotondi sul naso. Profuma molto, forse troppo.
«È un problema se resta qui mentre lavoro?» replica Solomon, senza rispondere chiaramente: in fondo non saprebbe nemmeno cosa rispondere, dato che non è nemmeno riuscito a capire il suo nome.
La signora Harvey si rimette in piedi, si sistema le pieghe del vestito giallo aderente e smanicato, che mette in evidenza il suo corpo formoso. «Certo che no», sorride, accarezzando il capo del bambino ed invitandoli ad entrare in casa con un cenno della mano. «Puoi cominciare tra poco, adesso è l’ora del chai».
Nei tre mesi in cui Solomon ha lavorato per questa anziana e buffa signora inglese, non è mai riuscito a rifiutare una sua offerta: i suoi occhi piccoli e stranieri sono più caparbi di quanto lascino intendere ed è per questo che Solomon non cerca nemmeno di resistere, accettando subito di seguirla in casa.
Non lo ha mai dato a vedere, forse per orgoglio o per non suscitare pena e compassione, ma si è sempre sentito a disagio nello sfarzo che arreda le mura di quella villa: probabilmente solo ai suoi occhi sembra tutto così prezioso, così splendente e pulito, ma non riesce comunque a misurare e contenere la meraviglia ed il senso di inferiorità che lo attanaglia ogni volta che mette piede nel salotto illuminato, nella cucina spaziosa e dotata di elettrodomestici, su un qualsiasi pavimento lucido.
«Sedetevi pure», li invita la signora Harvey, indicando affabilmente uno dei divani in stoffa color ocra: sono sicuramente importati, perché non hanno niente a che vedere con quelli che vengono fabbricati artigianalmente per le strade di Nayuri, esposti tra la polvere ed il fumo delle marmitte.
Il bambino si stringe nelle spalle e lascia che la signora lo guidi con una mano dietro la schiena, per poi sollevarlo e farlo accomodare sui cuscini morbidi. Solomon resta in piedi, rigido nella familiarità di una situazione nella quale si è trovato più volte: una delle cose che la sua datrice di lavoro non riesce ad ammorbidire è la sua fierezza. Non tenta nemmeno di piegarla, conosce bene i limiti che è meglio rispettare.
«Allora? Non mi dici proprio niente?» domanda lei, non appena torna dalla cucina con un vassoio in ceramica tra le mani, trasportando tre tazze ed una caraffa di chai che profuma di buono. «Non vorrai farmi pensare che questo ragazzino sia tuo figlio?» ridacchia.
Solomon si sente in dovere di correggerla. «È arrivato oggi al Kenyatta Centre: l’ho portato con me perché non riusciamo a farlo parlare, sembra piuttosto a disagio lì dentro». Subito dopo, mette in discussione quella stessa decisione.
«Capisco», annuisce lei, versando il chai con moderazione e porgendolo ai suoi ospiti. «Non ti ho mai chiesto come funzioni il centro da cui vieni. È una specie di orfanotrofio?»
Solomon prende la tazza tra le mani, la osserva per un solo istante e cerca di non metterla a confronto con i vestiti smessi ed impolverati che indossa. Il bambino, sul divano, sta bevendo generosamente. «Non proprio», ammette, prendendo un sorso di thè. «Non tutti i ragazzi del centro sono orfani».
La signora Harvey si mostra stupita, seduta compostamente con le gambe unite. «Ah no?»
«No. Alcuni hanno genitori o familiari che però non possono permettersi di prendersi cura di loro, altri sono figli di persone poco… Buone. Altri ancora sono scappati di casa», specifica, passando in rassegna ogni ragazzo del Kenyatta Centre. «Non importa da dove veniamo: abbiamo in comune il fatto di aver vissuto almeno qualche giorno per le strade di Nayuri».
Quello che gli piace della signora Harvey è che non lascia trasparire alcun giudizio dal suo viso leggermente rugoso, vissuto, e a Solomon non importa se sia davvero priva di giudizi, gli importa solo non vederli e non sentirli sulla pelle.
«Quindi lui è stato preso dalla strada?» indaga lei, con un vago dubbio ad inclinarle le sopracciglia: probabilmente l’aspetto piuttosto curato del bambino la fa dubitare.
«No, lui è un’eccezione: l’orfanotrofio in cui era non aveva più posto per tutti».
«Povero angelo», commenta la signora Harvey, scuotendo la testa.
Il salotto resta immerso nel silenzio per lunghi secondi, scanditi dalla lancetta rumorosa dell’orologio appeso al muro. Solomon si sente più tranquillo in quella stasi, nell’assenza di domande e della necessità di rispondere, ma il privilegio dura poco.
«E tu?»
Lui sbatte le palpebre, non capisce. «Cosa?»
La padrona di casa è più seria, cauta. «Tu hai vissuto per strada?»
I polmoni di Solomon si riempiono spontaneamente, con lentezza. Per quanto ne sa, potrebbe anche esserci nato: non ha ricordi precedenti alla strada affollata, alla solitudine della notte e alle mani fredde e troppo piccole di suo fratello Kelvin. Non conosce altro, se non i sacrifici e gli stenti. Non ricorda nessuna figura amorevole, anche lontanamente calorosa, fatta eccezione per Egbert ed il suo furgone pronto a metterlo in salvo, pronto a dargli nuove prospettive di vita.
«Devo iniziare a lavorare», esclama a bassa voce, posando la tazza sul tavolino tra i due divani. «È tardi».
«Solomon, perdonami, non volevo essere indiscreta», si affretta a scusarsi la signora Harvey, alzandosi in piedi. «È che ti conosco da mesi ormai, ma non ti conosco davvero. Se vuoi… Se vuoi parlare, se hai bisogno di-»
«Hapana, asante», la interrompe, distogliendo lo sguardo e dandole le spalle per raggiungere il giardino sul retro. Non viene fermato, probabilmente non è stato nemmeno sentito mentre mormorava un amaro «Non potrebbe fare niente».
 
 
 
Quattro ore dopo, mentre il sole si appresta a tramontare, Solomon si sente fiero di aver guadagnato qualche scellino in più, la signora Harvey non gli ha più rivolto la parola se non per salutarlo – per senso di colpa, probabilmente – ed il piccolo nuovo arrivato sta saltellando sulla strada sterrata che porta al Kenyatta Centre: gli è piaciuto giocare nel giardino fiorito, costruire strutture di terra nera ed ha persino tollerato piuttosto allegramente la presenza della proprietaria di casa, che ogni tanto cercava di cavargli poche parole dalla bocca.
«Ti sei comportato bene oggi», si complimenta Solomon, soddisfatto della sua compostezza e dalla sua genuina innocenza: forse è abituato agli scalmanati con cui convive, che hanno evidentemente ricevuto un’educazione di tutt’altro tipo. «Magari puoi venire con me anche la prossima volta, se ti va», continua, senza nemmeno rendersene conto: gli è venuto spontaneo proporgli qualcosa di simile, allontanarlo almeno momentaneamente da un’atmosfera che non gli si addice. In un certo senso gli ricorda Kelvin, quello che non ha potuto essere.
Il bambino saltella un po’ più in alto, abbozzando un sorriso che gli solleva gli zigomi paffuti, ed annuisce emozionato.
Anche Solomon sorride in risposta, calciando un sassolino sulla strada ed aprendo il cancello d’entrata del centro: può già sentire gli schiamazzi caotici, riconoscere le voci dei suoi compagni, ed in qualche modo si sente a casa.
«Cos’è questo?» esclama una voce, quasi con indignazione.
Tifah si avvicina a passi svelti, con le labbra carnose imbronciate in una curva curiosa.
«Chi è, al massimo», la corregge Solomon, mentre il bambino gli si avvicina alle gambe come per nascondersi: evidentemente Tifah lo intimorisce, cosa del tutto normale, dato che ha lo stesso effetto più o meno sul settanta per certo della popolazione di Nayuri.
«Non dirmi che sei diventato padre e per tutto questo tempo ce l’hai nascosto», sbotta lei, appoggiando le mani sui fianchi. «Ho sempre saputo che non sai tenertelo nei pantaloni, ma-»
«Perché oggi siete tutti pronti a scambiarmi per un padre?» la interrompe, scuotendo la testa per reprimere un sorriso. «È nuovo, è arrivato mentre tu eri in città».
«E perché nessuno me l’ha detto? Perché sono sempre l’ultima a sapere le cose?»
«C’è ancora una cosa che nessuno sa», la rincuora lui, stringendosi nelle spalle.
«Cioè?»
«Il suo nome».
Tifah assottiglia gli occhi, incrocia le braccia al petto ed alza il mento con un’espressione concentrata. Tamburella un piede a terra, poi sposta il peso da un piede all’altro ed accetta la sfida. «Tu», esclama, attirando l’attenzione del bambino: lui sobbalza, ma si mette goffamente sull’attenti. La pancia in fuori, le labbra serrate. «Dimmi come ti chiami», gli ordina dolcemente.
Il piccolo lancia un’occhiata a Solomon, che non nutre speranze in un risultato positivo, poi torna a fissare la sua interlocutrice. Inspira a fondo e «Bahati», dice velocemente.
Lei sorride soddisfatta, annuendo. «Visto?» domanda al suo amico, posandogli una mano sulla spalla. «Non era poi tanto difficile», commenta, prima di andarsene.
Solomon sbatte le palpebre più volte, incredulo: è uno scherzo?
«Mi prendi in giro?» chiede a Bahati, che lo guarda innocentemente, senza ben capire a cosa si riferisca. Si arrende subito dopo, sospirando stancamente senza capacitarsi di ciò che è appena successo.
Che poi chissà cosa avrà di così fortunato.
 
 
 
Quella sera Kelvin torna relativamente presto, intorno alle dieci di sera. Il fratello lo intravede mentre è seduto sulla panchina davanti alla Casa, dove Egbert è ancora impegnato a lavare le ultime stoviglie che ha usato per una cena consumata stranamente più tardi: quando lo vede spuntare dall’oscurità della notte, però, smette di respirare.
«Dio», sospira con la voce strozzata, alzandosi subito in piedi e quasi correndogli incontro. Gli afferra il mento e lo strattona per impedirgli di allontanarsi.
«Levami le mani di dosso», sibila Kelvin, cercando di divincolarsi.
«Stai fermo, o giuro che ti faccio di peggio», gli intima Solomon, alzando la voce e riferendosi alle ferite sul suo viso: l’occhio destro è completamente chiuso, troppo gonfio e violaceo per essere altrimenti. Il labbro inferiore è spaccato nel lato, lacerato profondamente e sanguinante. Qualcuno deve avergli colpito il naso, che risulta emaciato, forse anche rotto. La pelle è quasi del tutto livida, sofferente. E Solomon è così furioso che potrebbe aggiungere una ferita amara a quelle che suo fratello sembra divertirsi a procurarsi.
«Cos’hai fatto stavolta?» domanda Egbert, uscendo dalla cucina ed asciugandosi le mani grandi sui pantaloni: ha i capelli brizzolati in disordine, gli occhi stanchi e delusi che si infiammano non appena studiano la situazione.
«Vaffanculo, ho detto di lasciarmi stare», li liquida Kelvin, riuscendo a scappare dalla presa di Solomon.
«Vaffanculo a chi?» ripete Egbert, afferrandolo per la maglia sgualcita ed obbligandolo a fermarsi. «Con chi credi di parlare, ragazzino? Ti sei forse dimenticato chi ti salva il culo ogni volta che decidi di comportarti da stupido? O vuoi che ti ricordi di ogni scellino che ho speso per pagarti l’ospedale, la galera o qualsiasi altra merdata di cui hai avuto bisogno?»
«Nessuno ti ha chiesto niente, quindi evita di rompere e lasciami in pace», ribatte Kelvin, senza saper rispondere in altro modo. Solomon non ha nemmeno le forze di intromettersi, né il coraggio: Egbert ha ragione, ha ragione ad alzare la voce, avrebbe persino ragione ad alzare le mani. È una situazione quasi abitudinaria, un replay continuo ed estenuante, che non produce mai risultati diversi, migliori.
«Non mi hai chiesto niente, ma se non fosse per me a quest’ora saresti a marcire in qualche angolo schifoso di questa città», replica Egbert, dandogli una spinta. «Non me ne frega un accidenti di cosa è successo stasera, se hai di nuovo fatto qualche cazzata o se una vecchietta ti è caduta addosso, ma ti avverto: torna un’altra volta in questo stato e ti sbatto di nuovo da dove sei venuto. Mi hai capito?»
Kelvin lo guarda con aria di sfida, Solomon ha il cuore piegato su se stesso. «Kelvin», lo chiama a bassa voce, lo prega. In risposta non riceve nemmeno uno sguardo.
«Mi hai capito?» ripete Egbert, pretendendo una risposta.
Kelvin non lo accontenta, si limita ad andarsene con le mani nelle tasche dei pantaloni sotto lo sguardo delle uniche due persone che ha sempre avuto accanto e che gli sono rimaste.
Solomon si passa una mano tra i capelli rasati, sospira ed accetta la mano di Egbert che si posa distrattamente sulla sua schiena, per poi ritrarsi subito dopo. «Devi rimetterlo in riga», esclama. «Non devo dirti io che fine fanno quelli come lui».
Lui annuisce come senza vita, evitando di pensare a quelle parole, a quella previsione più reale di quanto vorrebbe.
«Tieni», mormora Egbert, pescando qualcosa dal suo portafoglio. «Domani portalo in ospedale a farsi medicare quella faccia», gli consiglia, regalandogli dei soldi che più volte si è ripromesso di negargli e che più volte ha comunque prestato per un amore resistente.
«Asante», sussurra Solomon, stringendo nella mano quegli scellini preziosi.
È davvero stanco.

 


Ciao di nuovo!
Inizio con il ringraziarvi ancora una volta per aver letto, sperando che anche questo capitolo - meno movimentato - vi sia piaciuto! E passo subito a commentare:
- punto di vista di Solomon, che ha i suoi problemi un po' come tutti: a partire dal suo rapporto con Kelvin, passando per il ruolo momentaneo di baby sitter e finendo con il suo disagio in casa della signora Harvey. Spero sia chiaro l'atteggiamento protettivo nei confronti del fratello, la stanchezza di situazioni già vissute e sempre uguali, ma presto verrà approfondito anche questo aspetto, con un punto di vista di Kelvin. La signora Harvey avrà un ruolo abbastanza importante, se tutto andrà secondo i piani: ho cercato di far comunque emergere la distanza che Solomon mantiene, anche solo evitando di sedersi sul divano. Non per disprezzo, ma per un disagio più timido, dettato dalla differenza degli stili di vita;
- la scena in casa della signora Harvey mi è servita anche per accennare al passato di Solomon e Kelvin e per descrivere un po' di più "i criteri di scelta" dei ragazzi del Kenyatta Centre: non è un orfanotrofio, è letteralmente un centro di recupero dei bambini di strada, che possono essere orfani o meno. Spesso hanno delle famiglie e vanno anche a trovarle;
- Bahati è il piccolino che nel prologo viene accolto in ospedale dopo essere stato abbandonato: nella realtà non è successo questo, lui non ha nemmeno un anno e si trova ancora in orfanotrofio, in attesa di essere adottato. Nonostante sia una delle figure principali, non ci saranno capitoli dal suo punto di vista, ma se ne parlerà tramite gli altri personaggi. Ovviamente tutto il suo disagio è dovuto al cambio di atmosfera: in realtà non so bene come siano gli orfanotrofi, ma sono sicuramente in condizioni migliori di quelle del centro;
- Egbert ricomparirà ancora nella storia, ma come avrete notato è una figura molto decisa e forte: non si fa scrupoli a riprendere i suoi ragazzi, soprattutto il recidivo Kelvin, ma è comunque molto dedito al suo ruolo. È completamente fedele alla persona alla quale si ispira e ve lo farò conoscere: vi posso già anticipare che, nonostante sia proprietario di un centro di recupero e si occupi di bambini bisognosi ai quali tiene moltissimo, non è affatto un uomo dolce, credente, affettuoso etc etc. Come mi disse lui "Non fraintendere: io non sono un missionario, lo faccio solo quando sono a letto con qualcuno".
E nulla, credo di aver blaterato abbastanza hahah Per qualsiasi dubbio, non esitate a chiedere :) 
Vi chiedo di farmi sapere cosa ne pensate, in positivo ed in negativo, perché così mi stimolate e mi aiutate a scrivere!

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Veronica.

 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro - Le dimenticanze di Dio ***


Ciao!
Scusate il ritardo, ma la sessione esami estiva può essere piuttosto asfissiante! Soliti piccoli appunti prima di lasciarvi alla lettura:
- per chi avesse la memoria corta (come me), ricordo che "nini?" significa "cosa?", "habari? mzuri" è il saluto tipico. "musungu" è il termine usato per indicare i bianchi e "hapana" significa "no";
- l'avevo già accennato in un altro capitolo, ma lo ripeto: durante la settimana è raro incontrare soldati inglesi in città, a meno che non sia un martedì o un giovedì, che sono i loro giorni liberi;
- breve premessa per quanto riguardo HIV e AIDS, per chi non fosse informato correttamente o a sufficienza: in seguito ad infezione da HIV, non si parla subito di AIDS, che invece è intesa come manifestazione clinica delle infezioni che è più facile contrarre in seguito alla riduzione delle difese immunitarie a causa del virus HIV (replicandosi all'interno dell'organismo uccide i nostri linfociti). Di conseguenza, una persona infetta può essere asintomatica per diversi anni (in media si tratta di sei anni) e poi iniziare a contrarre infezioni gradualmente.

 

 

Capitolo quattro
Le dimenticanze di Dio
 

Ho ancora quel pezzo di plastica con il mio nome scritto sopra,
accanto alle impronte delle tue dita.

 

Peter cerca di respirare il meno possibile: non per l’odore, né per il caldo asfissiante che potrebbe disidratarlo dall’interno, ma per la polvere dalla quale è circondato. Trattiene il fiato ad intervalli regolari, ignorando la schiena sudata a causa del contatto con il pavimento in cemento rovinato, e di tanto in tanto si asciuga le tempie percorse da goccioline di sudore.
«Allora? Hai finito o no?» insiste Mustafa, spostando il peso da un piede all’altro: nonostante i suoi dieci anni, riesce ad essere irritante ed opportunista come il più incallito dei presuntuosi.
«No, Mustafa, non ho ancora finito», sospira Peter, senza badare al tono con il quale è stato richiamato. «E se darti una mano significa averti intorno per tutto il tempo per mettermi fretta, la prossima volta non ti aspettare niente», mente. Non lo farebbe mai.
«Voglio solo dormire», borbotta l’altro, incrociando le braccia al petto ed imbronciando il viso infantile.
Peter non gli risponde, concentrato sugli attrezzi rudimentali tra le proprie mani: più volte ha ripetuto ai ragazzi di non saltare sulle brandine dei dormitori, dato che non sono resistenti né così facilmente sostituibili. Ovviamente, però, non è stato ascoltato: per questo motivo si ritrova sdraiato a terra, con il volto a pochi centimetri dalla rete in metallo arrugginito, a cercare di riparare il riparabile.
«Pete!» si sente chiamare, senza voltarsi ad accertarsi di chi sia.
Maina entra nel dormitorio senza fretta, guardandosi intorno per cercarlo. «Peter?» riprova.
«Sono qui», sbuffa lui, maledicendo un pezzo di filo spinato che gli è appena caduto addosso.
«Pete, Tifah e Ryma ti stanno aspettando», gli comunica, piegandosi sulle ginocchia per capire cosa stia facendo: ha gli occhi curiosi di chi non ne sa mai abbastanza.
«Sì, lo so».
«Tifah ti sta aspettando», precisa Maina, facendolo sorridere: è stata sicuramente lei a mandarlo in ricognizione, impaziente come solo lei può essere.
«Posso immaginare», ridacchia Peter. «Ma dovrà aspettare ancora qualche minuto».
«E non puoi dirglielo direttamente tu?»
«Non ti mangerà, te lo assicuro».
Maina scuote la testa e si rialza in piedi con un sospiro. «Ne sei sicuro?» chiede retoricamente, sorridendo divertito prima di andarsene.
«Pete, hai visto la mia maglia gialla?» gli chiede qualcuno, che non sa come riconoscere.
Peter si contorce sul pavimento per poter posare gli occhi sul suo interlocutore, per poco non batte la testa contro un’asta di metallo e si dimentica di respirare il meno possibile, lasciandosi scappare uno starnuto fastidioso. «No, Jarob», gli risponde, stringendosi nelle spalle e guardandolo sbuffare.
«Puoi aiutarmi a cercarla, quando hai finito? A quanto pare nessuno qui intorno vuole darmi ascolto», aggiunge in tono offeso ed accusatorio.
«Vedrò cosa posso fare», promette vagamente.
«Peter, sbrigati!» lo rimprovera Mustafa, spostandosi per coprire la figura di Jarob ed ottenere tutta l’attenzione.
Un paio di minuti più tardi, Maina ricompare con un’espressione arresa ed interrogativa: sembra chiedersi perché tocchi proprio a lui quell’amaro destino. È seguito da Jude, il bambino sordomuto del Centro. «A che punto sei?»
«Dipende da quanta pazienza hanno», ride Peter, senza distrarsi troppo dal suo compito.
Jude striscia accanto a lui e lo osserva con un largo sorriso sulle labbra, gli occhi grandi e desiderosi di imparare. Tocca la rete in metallo, correndo con le dita lungo la trama vecchia ed instabile.
«Diciamo che Tifah è disposta a sfidare le Mamme pur di venirti a prendere…» spiega Maina, appoggiandosi con una spalla al muro e chiedendo a due ragazzi in procinto di litigare di non osare iniziare. È un tipo piuttosto responsabile per avere quindici anni.
«Immagino che dovremo metterla alla prova».
 
Peter impiega circa un quarto d’ora per riconquistare una certa libertà: è riuscito ad accontentare Mustafa, terminando la riparazione del suo letto e obbligandolo a promettergli di non romperlo un’altra volta; ha trovato la maglia di Jarob in un altro dormitorio e poi si è lavato frettolosamente ad uno dei lavandini all’aperto. Tutto questo nel timore di avvistare Tifah avvicinarsi a passo svelto e con i pugni chiusi, pronta a rimproverarlo per il ritardo: per questa volta è stato fortunato.
«Si può sapere che diavolo stavi facendo?» viene accolto calorosamente dalla stessa Tifah, una volta raggiunta in prossimità del cancello d’entrata del Kenyatta Centre. Accanto a lei, Ryma sorride divertita. «E dire che sei stato tu a scegliere l’orario: la prossima volta ce ne andiamo senza di te».
«Mustafa ha di nuovo rotto il suo letto, ho dovuto ripararlo», prova a spiegare Peter, seguendole al di fuori del Centro e godendosi l’aria aperta. Per un istante rabbrividisce.
«Sai, dovresti davvero smettere di fare da schiavetto a qualsiasi combinaguai di questo posto», aggiunge Tifah, incrociando le braccia al petto ed alzando un sopracciglio: fin quando non si sarà tranquillizzata, continuerà ad inveire contro qualsiasi piccolo dettaglio osi urtare la sua tolleranza.
«Allora dovrei smettere di fare favori anche a te», la provoca Peter dandole una spallata scherzosa.
«Favori? Non so di cosa tu stia parlando», risponde lei con sicurezza. «Ryma, tu sai di cosa sta parlando?»
L’amica scuote la testa con un sorriso sulle labbra, senza pronunciarsi.
«Sbaglio o pochi giorni fa ho dovuto aggiustarti le scarpe?» insiste Peter.
«Sbagli, ovviamente», replica Tifah, assumendo un’aria indignata. «Pochi giorni fa non credo nemmeno ti conoscessi», scherza subito dopo, solo per tirarsi fuori da quella situazione scomoda.
Lui ride ed alza gli occhi al cielo, senza ribattere.
«Però Tifah non ha tutti i torti», esordisce Ryma, camminando lentamente al suo fianco. «Sei troppo buono, e sai anche tu che tutti ne approfittano».
È vero, non c’è neanche bisogno di negarlo, ma dov’è il problema? «Se qualcuno ha bisogno di qualcosa, perché non aiutarlo?» chiede infatti, abbassando la voce, ma non lo sguardo. Non gli importa di essere usato più o meno a convenienza, sa difendersi da alcuni comportamenti e sa a quali dare valore.
«Ehm, sveglia?» risponde Tifah, incredula. «Ti trattano come un burattino e finisci per non avere mai un po’ di tempo per te. E poi, ti devo ricordare che non sei la persona più adatta a lavorare come un mulo? Potresti tagliarti o chissà cos’altro, e da lì ad un’infezione il passo è-»
«Tifah», la interrompe Ryma, mentre Peter stringe i pugni lungo i fianchi passando inosservato. «Sono sicura che Peter sappia dei rischi che corre».
«Allora perché non fa qualcosa per evitarli?»
«Perché non voglio vivere in una campana di vetro», risponde lui, senza alterarsi. Conosce i modi della sua amica, conosce il suo tono di voce e la sua gestualità, il guizzo nei suoi occhi passionali: sa che nascondono la stessa determinazione e la stessa preoccupazione del tepore quieto di Ryma, lo stesso affetto. Per questo non li percepisce come un attacco personale.
Tifah sbuffa, scuotendo la testa e borbottando qualcosa di contrariato.
«A proposito», interviene l’altra, «ancora niente, vero?» domanda speranzosa.
Peter le sorride per rassicurarla, per negare la comparsa di qualsiasi sintomo collegabile all’AIDS, ma è teso ed inquieto e spera che presto si cambierà discorso.
Le sue preghiere vengono esaudite quando Tifah interrompe il silenzio pochi istanti dopo. «Solomon?»
«Ci raggiunge appena finisce di lavorare dalla Harvey», le spiega l’amica.
«Kelvin stanotte non è tornato: ve lo ha detto?» chiede Peter, usando un tono quasi intimorito da una possibilità che non piace a nessuno. Difatti l’atmosfera si fa più rigida.
«Quel ragazzo lo farà impazzire», sospira Ryma, sinceramente dispiaciuta per la situazione. «Non posso credere che abbia così poca considerazione per suo fratello: eppure è l’unica vera famiglia che gli è rimasta. Dovrebbe… Dovrebbe significare qualcosa», aggiunge con amarezza.
«È solo un teppistello ingrato», commenta Tifah, serrando la mascella. «Se fossi Solomon lo picchierei dalla mattina alla sera, fino a fargli entrare un po’ di sale in zucca».
Peter sospira, si passa una mano dietro al collo per ripararsi almeno momentaneamente dal caldo cocente del primo pomeriggio. «Credo che di questo passo non ce ne sarà bisogno».
Le due ragazze lo osservano con aria interrogativa, continuando a camminare lungo la strada sterrata e arida.
«Sta peggiorando», spiega lui, privo di grandi speranze. «È quasi sempre fuori casa e quando ritorna è quasi sempre reduce da una rissa o chissà quale altra bravata. Quanto ci vorrà prima che qualcuno lo metta in prigione? È stato fortunato a non esserci ancora stato, dato quante ne combina».
Nessuno parla.
«E poi… Credo stia rubando anche all’interno del Kenyatta Centre», aggiunge.
«Cosa?!» esclama Tifah, indignata.
Ryma corruga la fronte, trattiene il fiato.
«L’altro giorno ho sentito Mikail parlarne con qualcuno: ultimamente dai dormitori scompare sempre qualcosa e puntualmente Kelvin torna a casa con qualcosa di nuovo per sé. Credono che venda quello che prende, anche se non penso che usi i soldi solo per comprarsi da vestire e da mangiare».
«Che si faccia di colla è risaputo», risponde Tifah, visibilmente irritata, «ma quello che mi fa incazzare è che si azzarda anche a rubare a qualcuno di noi. Non mi importa un accidente di quello che combina fuori dal Kenyatta, è abbastanza grande da ragionare con la sua testa, per quanto stupida sia, ma come diavolo si permette di mettere nei casini anche noi?»
«Tifah, quello che fa fuori non è meno importante o meno grave di quello che fa all’interno del Centro», la corregge Ryma. Sembra piuttosto turbata. «È tutto collegato ed è tutto sbagliato».
«Non mi interessa, Ryma: noi abbiamo le sue stesse difficoltà, allora perché lui deve essere così idiota? Si va avanti lo stesso, anche senza rischiare la prigione, anche senza trattare tuo fratello come l’ultima schifezza sulla Terra, anche senza rubare ai tuoi stessi compagni».
Tutti sanno che ha ragione, ma nessuno lo sottolinea.
È Peter a prendere la parola. «In ogni caso Egbert non sa ancora niente di questi ipotetici fu-»
«Ipotetici?» lo interrompe Tifah.
«Di questi furti», si corregge lui. «Vorrei prima parlarne con Solomon».
«Così potrà di nuovo coprire le sue bravate e fargliela passare liscia?»
«Tifah-»
«No, dovete smettere di difenderlo. Se la sua vita gli fa così schifo ed è disposto a peggiorarla ancora di più, è libero di farlo: perché dobbiamo andarci di mezzo noi? Che se ne vada, lascia pure che Egbert lo cacci: staremmo tutti meglio, persino Solomon starebbe meglio senza di lui».
Ancora una volta, lasciano che la risposta giaccia sottintesa.
 
 
 
Stanno attraversando il vecchio ponte che collega la strada sterrata a quella asfaltata diretta al centro della città, quando Tifah inasprisce lo sguardo. «Oggi è mercoledì, giusto?» domanda a Peter, mentre aspettano che Ryma scelga accuratamente della frutta da comprare.
«Sì», sbadiglia lui, sbattendo le palpebre. Gli fa male la testa, si sente stanco.
«Allora perché ci sono dei soldati inglesi per strada?»
Peter sposta la sua attenzione sul lato opposto della strada, spiando i tre soldati in divisa che camminano senza fretta, scherzando l’uno con l’altro rumorosamente. Effettivamente è strano ritrovarli in città al di fuori dei loro giorni liberi. «Cosa te ne importa?» le chiede, senza farsi gli stessi problemi. In realtà sa perfettamente che Tifah vuole soltanto trovare una scusa per lamentarsi della loro presenza.
«Hey!» la saluta uno dei soldati, inaspettatamente.
«Oh, no», borbotta lei, piuttosto irritata.
Peter alza entrambe le sopracciglia, a metà fra l’incredulo, lo scettico ed il meravigliato.
Tifah volta le spalle al ragazzo e serra la mascella, decisa ad ignorarlo. Si conoscono?
«Guarda chi si rivede», commenta il soldato, fingendo di non notare la sua determinata freddezza nei suoi confronti. «Sei la ragazza del bar, giusto?»
«E tu sei quello di cui non mi importa nemmeno di ricordare il nome, giusto?» sibila lei, incrociando le braccia al petto ed ostinandosi a non guardarlo.
Peter invece lo osserva attentamente, curioso: probabilmente avrà una ventina d’anni, proprio come lui, o al massimo venticinque. Ha la carnagione così pallida da essere ancora più strano di qualsiasi musungu si possa incontrare da quelle parti, i capelli di un biondo scuro e gli occhi chiari, di come non se ne vedono tra i locali.
«Avanti, dovresti essermi almeno riconoscente», continua il soldato, sorridendo apertamente.
«Ragazzi, credo che prenderò qualcosa più avanti, qui non…» Ryma smette di parlare non appena si avvicina abbastanza da notare la presenza di tre estranei. Peter nota qualcosa nel suo sguardo, qualcosa che assomiglia a della paura e che non è da lei.
«Habari», la saluta il soldato, rilassato nella sua uniforme. La sta guardando in modo strano, non come ha guardato Tifah: sembra quasi che sia rimasto stupito, romanticamente e stupidamente incantato, forse. Peter sente un moto di gelosia e protezione azionargli i riflessi: non gli importa nemmeno di essere stato completamente ignorato.
«Mzuri», risponde Ryma a bassa voce, distogliendo le iridi scure dalle sue e guardandosi intorno a disagio.
«Io sono Ryan, piacere», si presenta lui, porgendole una mano e continuando ad osservarla senza alcuna esitazione: sembra privo di filtri.
Tifah si irrigidisce, guarda la sua mano come se fosse la cosa più rivoltante al mondo.
Ryma è stupita da quel gesto, ma non si ritrae. «Ryma», sussurra, stringendogli la mano per un solo istante.
«Ryma… Quella Ryma?» domanda Ryan, rivolto a Tifah.
«Ora dobbiamo proprio andare, torna a fare quello che stavi facendo», esclama quest’ultima, afferrando i due amici per le braccia e trascinandoli con sé senza alcuna possibilità di opposizione.
Il soldato non li segue e Peter quasi se ne dispiace, perché era sinceramente curioso delle dinamiche che si stavano susseguendo sotto il suo naso. Si libera dalla presa di Tifah e «Di’ un po’», la interpella, sorridendo. «Ora ti metti a fraternizzare con il nemico?» la prende in giro, senza trattenere una risata incredula. Vedere quella ragazza avere uno scambio di battute quasi civile con un inglese è come andare d’accordo con uno dei babbuini della riserva: semplicemente assurdo.
«Sta’ zitto», gli intima lei, cercando di dargli una gomitata.
«Cosa significa “Quella Ryma”?» domanda invece Ryma, vagamente stordita dal precedente incontro.
«Lui era presente quando ho parlato con Benjamin», risponde l’altra quasi telegraficamente.
Peter è sempre più confuso. «Chi è Benjamin? E perché dovresti essere riconoscente a questo Ryan?»
«Fatevi gli affari vostri», li liquida Tifah, accelerando il passo e superandoli.
La osservano scappare dalle loro domande senza poter fare nulla a riguardo, ma non la inseguono: hanno tutti la stessa meta e, in fondo, se Tifah non ha voglia di parlare, è sicuro che non lo farà come è sicuro che il Monte Kenya ha sette punte.
«Ah, Ryma?»
«Sì?»
«Non so se te ne sei accorta, ma credo tu abbia fatto colpo».
Ryma sbatte le palpebre e per un attimo sembra rallentare il passo. «Nini
«Non hai visto come ti guardava quel soldato?» sorride Peter, stupito dalla sua cecità e dalla sua innocenza.
«Hapana».
«Quando sei agitata o imbarazzata parli in Swahili più del solito: lo sai, vero?»
«Hapana
Peter ride con una mano davanti alla bocca, piegandosi in avanti. «Credo sia anche per questo che Tifah se ne è andata in quel modo: l’avrà notato anche lei e starà cercando un modo per ucciderlo senza lasciare tracce».
Ryma serra le labbra e scuote la testa, senza commentare: probabilmente non vuole dargli altro modo di tirare ad indovinare il suo stato d’animo o forse vuole rimuginarci su da sé. Lui le cammina accanto fischiettando qualcosa, fino a quando non raggiungono Tifah.
Si è già seduta sulla sponda del ruscello che scorre nei pressi della città: ha lasciato le scarpe sul terreno poco erboso ed ha immerso i piedi nell’acqua limpida e trasparente, che sicuramente è rigenerante dopo una camminata di circa quarantacinque minuti sotto altrettanti gradi di calore. Gli altri due la imitano, giocando con l’acqua per farle tornare il sorriso.
«È arrivato Solomon», constata Ryma, indicandolo con una mano ed attirando l’attenzione dei suoi amici.
Solomon è dall’altra parte del ruscello, alcuni metri più a valle ed intento ad attraversalo in modo poco convenzionale: al posto di usare il ponte, come quasi tutti fanno, preferisce sfruttare il vecchio albero abbattuto che funge da attraversamento più veloce, anche se più rischioso.
«C’è anche Bahati con lui», esclama Peter, notando il bambino alle sue spalle, evidentemente spaventato dall’idea di dover camminare su un tronco apparentemente instabile.
«Non sapevo che fosse andato di nuovo con lui dalla signora Harvey».
«Vanno quasi sempre insieme», spiega Peter, annuendo e continuando a guardare i loro movimenti. Ormai è quasi una settimana che i due sono uno l’ombra dell’altro. «Bahati gli sta sempre appiccicato: credo sia diventato una specie di figura di riferimento per lui».
Solomon, in lontananza, prende in braccio il bambino e, un passo alla volta, arriva con cautela dall’altra parte del ruscello.
«Che fregatura», commenta Tifah, sbuffando.
«Dio si è dimenticato di darti un po’ di istinto materno, o sbaglio?» scherza lui, lanciandole un piccolo sassolino.
Lei gli rivolge una smorfia intollerante e poi borbotta tra sé e sé. «Dio si è dimenticato di parecchie cose».
 
 
 
Seduto davanti alla Casa, Peter può ancora sentire il profumo della cena appena consumata da Egbert, quella che prima o poi spera di assaggiare: sono quasi le nove, il Kenyatta Centre è già immerso nel buio ed il cielo è fatto di stelle.
Egbert gli sta fumando accanto: sono stranamente da soli, senza nessuno intorno a disturbarli.
«Hai saputo ancora qualcosa riguardo il Centro?» gli domanda Peter, andando consapevolmente a toccare un tasto dolente, ma che non può essere ignorato. Lui non dovrebbe nemmeno essere a conoscenza di quella questione, ma un giorno si è semplicemente trovato ad ascoltare casualmente una conversazione di troppo.
«Non c’è niente da sapere: me lo vogliono togliere», risponde Egbert, con la voce graffiata dal fumo e da una certa età. Li porta bene, è vero, ma sono pur sempre più di cinquant’anni. «Quegli stronzi sono sicuri che questo posto sia una miniera d’oro, una fonte immensa di guadagno: non hanno capito che esiste solo perché ci ho speso tutti i miei soldi, quelli che avevo ancora prima di venire qui».
Peter non riesce ad immaginare cosa succederebbe se lo Stato decidesse di strappare il Kenyatta Centre dalla gestione di Egbert: non riesce ad immaginarlo né in positivo, né in negativo. Non ha speranze, né paure: vorrebbe semplicemente che il problema si dissolvesse senza alcuna ripercussione, senza andare incontro ad un ignoto che lascia inquieti.
«Kelvin è tornato?» chiede Egbert dopo un paio di minuti. Sta fumando un’altra sigaretta, mentre Puppy gli dorme su un piede.
Peter scuote la testa, sospirando.
Solomon non riesce ad accettare le possibili spiegazioni dietro la scomparsa di suo fratello: certo, più volte è capitato che Kelvin restasse fuori casa per giorni, tornando quando più ne aveva voglia e senza dare particolari spiegazioni, ma ogni volta che succede ci sono preoccupazioni da affrontare, terrori da sedare.
«Suo fratello?»
«Non è ancora andato a cercarlo: vuole aspettare un altro po’, sai, per vedere se ritorna da solo».
Egbert inspira profondamente del fumo. «Se ritorna».
Peter riflette sulla situazione, torna alle parole di Tifah di quel pomeriggio: è quasi tentato di raccontare ad Egbert dei furti che si sono verificati negli ultimi giorni, nonostante Solomon gli abbia poi chiesto di non farlo, ma si morde la lingua e cerca di resistere. In fondo sono supposizioni, si ripete, supposizioni che hanno come capro espiatorio una persona mal considerata.
O almeno vorrebbe che fosse così.
«Vai a letto, Pete», esclama Egbert, gettando il mozzicone spento in un posacenere. «Ci vediamo domani», lo saluta, appoggiandogli una mano sulla spalla ed alzandosi in piedi.
Peter lo ascolta riordinare la cucina, spegnere la luce e chiudere la porta, allontanarsi a passi lenti con una torcia nelle mani per far luce intorno a sé. Finalmente solo, può sospirare sonoramente, chiudere gli occhi e lasciarsi sfuggire un’espressione sofferente.
Ha la febbre da due giorni, ma è bravo a nasconderlo a tutti. Lo nasconde persino a se stesso, quando può.
Non vuole che qualcuno scopra che le infezioni hanno iniziato a debilitarlo già da qualche settimana, non vuole che qualcuno scopra che ha già iniziato la terapia contro l’AIDS: lo terrà segreto fino a quando i sintomi glielo concederanno, fino a quando avrà abbastanza soldi per permettersi di affrontare tutto da solo, fino a quando avrà abbastanza forza per sorridere a Ryma e mentire, per prendere in giro Tifah ed ascoltare Solomon che aspetta suo fratello. E intanto lavorerà ed aiuterà dove può, cercando di scrollarsi di dosso la paura di non poter più fare tutto quello, la consapevolezza di avere un destino ben chiaro.

 


Buongiorno!!
Sono leggermente di fretta, quindi mi tocca essere il più sintetica possibile:
- capitolo relativamente tranquillo, senza grandissimi eventi a caratterizzarlo: più che altro si concentra sui rapporti tra i vari protagonisti. Ho scelto di raccontarlo dal punto di vista di Peter perché di Kelvin mi occuperò più avanti (probabilmente avrà meno POV degli altri) e perché volevo farvelo conoscere, dato che non è ancora comparso se non nel prologo (dove ricordo si era appena saputo della sua infezione da HIV). Cosa ve ne pare? È uno spiritello piuttosto allegro, almeno quando è con gli altri: troppo buono per negare un favore a qualcuno e piuttosto altruista. Cosa pensate del fatto che non abbia detto a nessuno della comparsa dei primi sintomi?
- Kelvin non è tornato a casa (è passata quasi una settimana dalla scorso capitolo) la sera precedente e si scopre che è il sospettato per diversi furti che sono avvenuti nel Kenyatta Centre: vi ricorda qualcosa?
- ritorna in scena Ryan, che avrà il suo ruolo nella storia, ed incontra Ryma: secondo voi? Mi pare che qualcuno avesse ipotizzato un'eventuale relazione tra lui e Tifah: chissà, chissà!
- non so se qualcuno se ne ricorda, ma all'inizio del prologo avevo accennato al problema del Kenyatta Centre, che vuole essere tolto dalla guida di Egbert: ho voluto risollevare la questione giusto per non farla cadere nel dimenticatoio di tutti;
- non mi viene più in mente niente da dire hahahha Se avete dubbi, domande o perplessità, contattatemi pure :)
Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante non abbia molte pretese: cosa vi aspettate che accada?
Ah, so che per ora la storia ha avuti dei toni piuttosto... malinconici? Un po' cupi? Ma giuro che ci saranno momenti anche più leggeri hahaha
Grazie ancora per aver letto e grazie a chi recensito! Mi farebbe piacere conoscere i vostri pareri!

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Veronica.

 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque - Torna presto ***


Buongiorno!
Stavolta sono in perfetto orario, sono quasi fiera di me!!
- In Kenya il clima è sempre costante, in qualsiasi periodo dell'anno. La stagione delle piogge che nomino nel capitolo non è una vera e propria stagione di piogge continue, come in altre parti del mondo, ma solo un periodo in cui solitamente piove un po' di più.
- Il sistema scolastico non è accessibile a tutti, più che altro per i prezzi troppo alti per la maggior parte delle persone. Talvolta gli studenti riescono a proseguire gli studi grazie ai buoni voti, che valgono una sponsorizzazione da parte delle scuole e quindi un via libera per continuare a studiare. Altre volte, persone anche esterne alla famiglia possono decidere di sponsorizzare il ragazzo in questione, quindi pagandogli la scuola.
- Il nome Sake si legge "sachi".
- In questo capitolo compariranno nuove parole in swahili (ditemi se la cosa vi crea qualche problema o se sono in quantità accettabile): "tafadhali" significa "per favore", "sawa" o "sawa sawa" significa "ok", "baadaye" vuol dire "più tardi", "sasa" vuol dire "adesso".

 

 

Capitolo cinque
Torna presto

 

Ryma sospira sulla soglia del gabbiotto che sfrutta come posto di lavoro: quella mattina, il buongiorno le è stato dato da raggi solari insistenti e curiosi, che si sono intrufolati nel dormitorio senza alcuna esitazione, riscaldando tiepidamente il suo corpo. Ben presto, però, il cielo è cambiato: succede spesso che una splendida giornata soleggiata si trasformi in pochi minuti nel preludio di un potente temporale, anche al di fuori della stagione delle piogge.
Osserva le nuvole allungate e di un grigio scuro che si avvicinano sempre più alla città e si stringe nelle spalle, godendosi il vento che la sta accarezzando piacevolmente: deve tornare a lavoro, o non riuscirà a finire quegli abiti in tempo.
«Ryma, Ryma! Posso provarlo?» domanda Sake, emozionata dal solo guardare il vestito che la sua compagna sta cucendo. Saltella su e giù, mentre le sue ciabatte rovinate sbattono sul pavimento in cemento con ritmicità.
«No, non è ancora finito», le risponde Ryma sedendosi alla sua postazione, dietro la vecchia e difettosa macchina per cucire: ogni giorno ringrazia Peter per averla riparata al meglio, dopo averla aiutata a comprarla ad un buon prezzo e dopo innumerevoli sforzi per risparmiare la somma di denaro necessaria.
«Tafadhali, tafadhali, tafadhali!» insiste Sake, sorridendo apertamente e mostrando i denti leggermente ingialliti e storti. «È così bello!»
Ryma è intenerita dal suo entusiasmo, perché sa cosa significa avere a portata di mano qualcosa che non ci si può permettere, ma cerca di resistere. «Hapana, baadaye».
Evidentemente, però, la sua amica non capisce perché debba aspettare. «Sasa», ribatte con decisione, appoggiando le mani sul bancone in legno e sbattendo le palpebre per muoverla a compassione. Non è una bella ragazza, non è mai stata nemmeno una bambina graziosa, ma le labbra inclinate verso il basso e l’espressione supplichevole riescono comunque a raggiungere il loro scopo.
«Sawa», acconsente Ryma, sbuffando silenziosamente. Sfila delicatamente l’abito rosso mattone dalle grinfie della macchina per cucire, controlla che Sake sia abbastanza pulita e la aiuta ad indossarlo: le sta enorme, non ha nemmeno una forma mentre si appoggia sulle spalle magre di una quattordicenne troppo bassa per la sua età. Eppure Sake ne è comunque entusiasta: accarezza la stoffa senza premere troppo, come se avesse paura di rovinarla, e segue con le dita le fantasie astratte che la rivestono. D’un tratto il suo viso si dipinge di avidità e bramosia.
«Voi due! Cosa state facendo?»
La voce grave di Agnes, una delle Mamme, irrompe nella guardiola e le riscuote fin nelle ossa: le sta osservando dalla piccola finestra che sta loro di fronte, probabilmente con le mani sui fianchi larghi. Indurisce lo sguardo, le rimprovera prima ancora di aprire bocca. «Sake, togliti quell’affare di dosso. Non è roba per te», le ricorda aspramente.
La ragazzina corruga la fronte, come quando si prepara a rispondere con cattiveria solo per difendersi, ma Ryma le posa una mano sul capo e «Dammelo, così finisco di cucirlo», le dice dolcemente. Cerca di distrarla con un sorriso comprensivo, mentre Agnes si allontana, sicura di non dover ripetere quel suo ordine.
Sake si divincola un po’ troppo energicamente, cercando di sfilarsi il vestito, e Ryma non ha nemmeno il tempo di rimproverarla per quella scarsa delicatezza, perché nel giro di pochi secondi la vede scappare via dalla guardiola. Magari potrebbe comprare un pezzo di stoffa anche per lei, cucirle un abito per regalarle qualcosa e assopire i suoi capricci non del tutto ingiustificati, ma sa che creerebbe un precedente: se decidesse di farlo, dovrebbe confrontarsi con quasi tutte le altre ragazze del Kenyatta Centre, che sicuramente vorrebbero lo stesso privilegio.
Scuote il capo e torna a sedersi, finalmente pronta a ricominciare il proprio lavoro, nonostante la fame che la proietta già all’ora di pranzo.
Pochi minuti dopo, sente chiaramente un concitato chiacchiericcio proveniente dall’esterno: riconosce le voci di alcune delle sue compagne, percepisce il loro entusiasmo persino senza vederle, ma non capisce da cosa sia provocato. Alza lo sguardo, assottiglia gli occhi e rimane in ascolto: le sembra quasi che tutto quel frastuono si avvicini sempre più al suo gabbiotto.
«Buongiorno!»
Ryma scatta in piedi, facendo strisciare rumorosamente i piedi della sedia a terra. Forse smette anche di respirare.
Il soldato incontrato il giorno prima in città è sulla soglia della porta spalancata e vestito in borghese è quasi irriconoscibile: le gambe chiare sono coperte solo fino al ginocchio da un paio di bermuda beige, abbinati ad una t-shirt blu notte. È davvero bello: Ryma ne prende consapevolezza in un istante breve ed infimo.
«Che c’è? Non hai mai visto un cliente?» le domanda lui con fare allegro, forse per rompere il silenzio che li ha separati. Sorride apertamente. Sorride tanto. Troppo.
Ryma si riscuote, inspira profondamente senza scomporsi: dà un’occhiata alle ragazze che sono alle spalle del soldato, accalcate dietro la porta per scoprire la sua identità e le sue intenzioni. Forse l’hanno scambiato per un turista, forse si aspettano persino che sia venuto per fare beneficienza.
«Cosa ci fai qui?» domanda Ryma a bassa voce. Qual è il suo nome? Non riesce a ricordarlo.
Lui fa un passo in avanti e passa un sacchetto di carta da una mano all’altra: ha le braccia esili, ma definite. «Be’, mi hanno detto che tu sei una sarta…» spiega vagamente, come se la cosa fosse ovvia. Probabilmente lo è davvero, ma è comunque piuttosto assurda.
Ryma non si lascia incantare facilmente, anche se è dura resistere. «Chi te l’ha detto?» chiede, insospettita. Dalla finestra è apparsa di nuovo la figura di Agnes: il suo sguardo è ugualmente duro, ma più attento e sospetto. Non si fida delle ragazze e dei ragazzi del Kenyatta Centre che passano del tempo insieme dove lei non può vederli, figuriamoci fidarsi di un estraneo, bianco, che si presenta all’improvviso nella umile attività di Ryma.
«Benjamin è un mio amico, possiamo dire così», racconta il soldato, causando il primo screzio nella benevolenza di Ryma, che indietreggia impercettibilmente. «Gli ho chiesto di te e lui mi ha detto cosa fai per mantenerti, dove avrei potuto trovarti».
Probabilmente lei è particolarmente sensibile, probabilmente la sua mancanza di esperienze la pone in svantaggio, probabilmente tutti gli spettatori di quella conversazione la mettono ad estremo disagio, ma quel passaparola tra Benjamin ed il suo amico le sembra più l’anticipazione di uno scambio di merce.
«Non so cosa ti abbia detto Benjamin, ma-»
«Si scusa», la interrompe… Ryan! Si chiama Ryan.
«Nini?» domanda lei, incerta.
«“Nini?” significa “cosa?”, giusto?» Ryan si passa una mano tra i capelli biondi e corti, sorride. «Scusa, sono qui da poco tempo e la mia memoria fa piuttosto schifo».
Ryma non gli risponde, attenta ad ogni sua espressione e ad ogni suo movimento. Non riesce a capire se i suoi sorrisi siano spontanei come sembrano o se passino il confine della malizia. Forse è quella la sua paura: in fondo, anche quelli di Benjamin sembravano sinceri.
«Se l’hai conosciuto almeno un po’, saprai anche tu che Ben non è il ragazzo più sveglio di Nayuri», scherza Ryan, avvicinandosi ancora, lentamente. Dietro di lui, le spettatrici sono ancora tutte in silenzio, in attesa. «Non te lo verrà mai a dire perché credo si vergogni di cosa ha fatto, ma gli dispiace, ecco».
Se Tifah fosse presente – e per fortuna è al lavoro, o avrebbe sicuramente cacciato Ryan con toni pochi gentili, magari consigliandogli di mettersi le scuse del suo amico in un posto delicato – sicuramente non gli crederebbe. Ryma invece è indecisa.
«Se sei venuto per lui, non ce n’era bisogno», gli dice soltanto, respirando piano per mantenere una certa integrità. Può sentire il giudizio di Agnes bruciarle la pelle: sicuramente si starà chiedendo di cosa stanno parlando, sicuramente avrà da ridire riguardo una delle sue ragazze che conosce e ha rapporti con degli estranei del genere.
«Oh, no. Te l’ho detto: sono qui perché mi serve una sarta», si affretta a precisare Ryan, porgendole la busta di carta per invitarla a sbirciare all’interno.
Ryma la afferra cautamente, raccoglie dal fondo un paio di pantaloni militari: sono scuciti in corrispondenza del ginocchio destro e la tasca posteriore sinistra è strappata. Quando li ripone sul bancone, il viso del suo cliente sembra… Speranzoso.
«Non avete delle sarte nella vostra base?» domanda, forse solo per gli altri più che per se stessa: se davanti alle sue compagne e davanti alla Mamma si mostra reticente nel rapportarsi con quel soldato, forse i pettegolezzi ed i probabili rimproveri saranno più miti.
«Sì, ma non sono poi così brave. Anzi, bravi: sono tutti maschi. Così ho deciso di cambiare».
Le ragazze alle spalle di Ryan bisbigliano l’una all’orecchio dell’altra, probabilmente stupite dal fatto che un lavoro così femminile sia svolto da uomini.
«Non avete nient’altro da fare, voi altre?» esordisce Agnes, rimproverando le ragazze. «Avanti, tornate alle vostre faccende», continua, ottenendo il risultato sperato, anche se con riluttanza. Rivolge un’altra occhiata d’ammonizione a Ryma, prima di allontanarsi dalla finestra: è impossibile che se ne sia andata, sicuramente si è solo seduta sul muretto che corre accanto al gabbiotto, in modo da poter origliare ed eventualmente intervenire prontamente. Non la lascerebbe da sola con un uomo per niente al mondo, non quando è lei di guardia.
Ryan si guarda alle spalle, inspirando profondamente forse per il sollievo di essere rimasti soli. «Allora? Posso chiederti di ricucire il mio pantalone?» riprende con tranquillità, rivolgendole un altro sorriso.
Ryma lo osserva come per trovare sul suo viso una risposta, ma non sa ancora interpretare delle iridi tanto chiare. «Va bene», acconsente. «Ma oggi devo finire altri abiti, credo che sarà pronto per domani o dopodomani».
«Non preoccuparti, non-»
Si interrompe e si volta per guardare fuori dal gabbiotto: la pioggia battente ha iniziato a torturare il terreno secco, velocemente e con una certa energia. Si possono sentire le voci allarmate di chi era all’aperto e sta cercando riparo.
«Non ho fretta», continua, sorridendo per il tempismo divertente.
Ryma annuisce e si siede al suo posto, leggermente a disagio per gli occhi che continuano a guardarla.
«È un problema se aspetto qui che finisca di piovere? Sono venuto a piedi e non ho l’ombrello», propone lui, schiarendosi la voce.
«Siediti», lo invita lei, indicandogli una sedia al di là del bancone. Riprende a cucire fingendo di non ascoltare ogni rumore provocato dai suoi movimenti: ora che è più vicino, può sentire persino il suo profumo. È diverso da quello di Benjamin, è più dolce, leggero: si mischia all’odore di pioggia senza stonare.
«E così… Tu vivi qui», esordisce Ryan, spronandola ad alzare lo sguardo su di lui. Lo scopre a spiare il suo lavoro.
«Sì», risponde Ryma semplicemente, senza riuscire a capire il vero significato di quella constatazione.
«Cos’è? Una… Una specie di orfanotrofio?»
Vorrebbe chiedergli se Benjamin non gliel’ha detto, ma non vuole risultare maleducata: le basterà essere cauta e, se davvero questo Ryan non è degno di fiducia, lo capirà il prima possibile. O almeno spera.
Scuote la testa, maneggiando la stoffa tra le proprie mani con leggerezza. «No: accoglie i bambini di strada, ma non solo gli orfani». Non appena termina la frase, si pente amaramente di aver toccato quel tasto: teme che Ryan possa porle la fatidica domanda, teme che possa chiederle della sua famiglia, delle sue origini, e che quindi abbia il poter di indebolirla.
Ma deve ricredersi.
Il soldato tace, non commenta la sua sistemazione né cerca di informarsi sul suo passato: Ryma prende nota di quella cortese delicatezza, né è sollevata.
«Tu ed i tuoi amici, quelli che c’erano anche ieri, non andate a scuola? Al college?» le chiede invece, appoggiando gli avambracci sul bancone e sporgendosi impercettibilmente in avanti: tiene gli occhi sulle sue mani impegnate a lavorare, solo qualche volta li alza sul suo viso.
«Siamo andati quando eravamo più piccoli», risponde lei, ricordando i tempi delle divise scolastiche di seconda mano e scucite, i capelli sempre troppo corti per non far arrabbiare le maestre ed evitare di prendere i pidocchi, le passeggiate di ritorno a casa. «Ora non abbiamo abbastanza soldi», aggiunge.
«Quindi lavorate?» indaga Ryan, senza esprimere alcun giudizio, almeno non ad alta voce. Ryma si prende un attimo per osservarlo, per accertarsi dell’innocenza della sua espressione.
«Sì, da un po’ di tempo. Peter, il ragazzo che era con noi ieri, è una specie di tuttofare. Tifah invece lavora nei campi oltre il fiume-»
«Ah, forse ho capito: si intravedono dalla nostra base», interviene lui, annuendo per confermare la sua affermazione. «Tifah… Un bel tipo, eh?» domanda ironicamente. «Non credo di piacerle molto».
«Non è colpa tua», si affretta a precisare Ryma. «È solo che…»
Ryan termina la frase al posto suo. «È solo che sono un musungu?» prova ad indovinare, alzando un sopracciglio senza segno di alcuna offesa.
«Un inglese», precisa lei, smettendo per pochi istanti di cucire.
A quel punto, Ryan mostra forse la prima espressione che non comprenda un sorriso: probabilmente quella verità l’ha colto alla sprovvista, o semplicemente lo fa riflettere su qualcosa che non può essere ignorato.
Ryma è quasi infastidita dalla consapevolezza di aver incupito i suoi occhi, quindi cerca di rimediare senza nemmeno programmarlo. «Ma ieri non ti ha insultato: vuol dire che non ti odia poi così tanto», riprende accennando un sorriso, il primo che gli abbia mai mostrato.
Lui ne resta stupito, ma lo ricambia immediatamente: ha i denti bianchi come il sapone che la mattina è conteso tra tutti gli occupanti del Kenyatta Centre e, per un solo, timido attimo, Ryma ha la sensazione che possa diventare ugualmente desiderato ed indispensabile. Un bene prezioso.
Restano in silenzio per diversi minuti, fino a quando un nuovo abito è pronto ed un altro inizia a prendere forma: Ryma si dimentica persino di essere osservata mentre si concentra sul tessuto color ocra e su una cucitura che le sta dando dei problemi. Entrambi si dimenticano della pioggia, che si è alleggerita fino quasi a scomparire.
«Dove hai imparato a cucire così?» le chiede Ryan, allungando una mano sulla stoffa che li separa. Alza gli occhi in quelli di lei, serio, ma non intimidatorio.
Lei serra la mascella per impedirsi di pensare a quel qualcosa di indefinito che sta provando. «Qui vicino abitava una sarta, si occupava anche dei nostri vestiti. Un giorno le ho chiesto di imparare e… Be’, immagino che pian piano sia migliorata, anche se non sono ancora ai suoi livelli». Sembra così facile aprirsi con lui, parlare fino a non avere più niente da dire, che Ryma deve sforzarsi di contenersi, o inizierebbe a raccontare molte cose riguardo moltissimi altri argomenti solo per avere la sua attenzione.
Ryan apre la bocca per ribattere, probabilmente per contraddirla, ma qualcuno si schiarisce la voce rumorosamente. Agnes vuole imporre la propria presenza anche senza comparire fisicamente, anche restando nascosta al di fuori della gabbiola: solo in quel momento Ryma si accorge che ha smesso di piovere e che probabilmente la Mamma non trova più alcun motivo per cui il soldato debba restare.
«Dovresti approfittarne», esordisce vagamente a disagio, controvoglia, indicando con un cenno del capo l’ambiente esterno. «Potrebbe ricominciare a piovere da un momento all’altro», si sforza di dire, pur prendendo atto del fatto che per lei non sarebbe affatto un problema.
Ryan si volta per guardare dove dovrebbe essere Agnes, evidentemente riesce a capire quale sia la situazione, perciò non insiste. «Hai ragione, meglio che vada», esclama alzandosi in piedi.
Lei annuisce lentamente, lasciando che le labbra carnose formino l’accenno di un sorriso di scuse e forse rivelatorio. Lo osserva darle le spalle e si trova a sperare di potergli parlare ancora, così cerca di darsi un’opportunità, improvvisamente mossa dalla curiosità. «Ryan?» lo chiama, senza alzare troppo la voce, come per timidezza nei confronti di quel nome nuovo.
«Sì?» risponde lui, sorridendole.
«Perché hai chiesto di me a Benjamin?» gli domanda, memore delle sue parole.
Ryan allarga il sorriso e «Chi lo sa?» le risponde, prima di improvvisare un saluto militare scherzoso ed uscire dal gabbiotto senza voltarsi.
Ryma sospira profondamente, abbandonandosi sullo schienale della sedia per riflettere e per ascoltare il cuore battere più veloce. Non le è molto chiaro quello che è appena accaduto, né riesce a mettere a fuoco le speranze che sente di covare senza pretese, senza nemmeno una logica. Recupera il pantalone di Ryan e lo osserva come se potesse guardare lui, immagina in quali esperienze lo abbia accompagnato ed in che occasione si sia rovinato.
Le basta poco per scovare un dettaglio stonante, una tasca anteriore ricucita perfettamente, con una tecnica che lei deve ancora perfezionare.
«Non avete delle sarte nella vostra base?»
«Sì, ma non sono poi così brave. Anzi, bravi: sono tutti maschi. Così ho deciso di cambiare».
Bugiardo.
 
 
 
Poco dopo pranzo, segue il rumore della legna spaccata con forza, il ritmico cadere dell’accetta ed i tonfi sordi dei ceppi pesanti che si aprono a terra. Solomon è completamente rapito da quelle azioni meccaniche, anche se probabilmente i suoi pensieri sono legati indissolubilmente a qualcun altro.
In fondo, Kelvin non è ancora tornato.
Solomon sta fremendo per la tentazione di andare a cercarlo, di perlustrare ogni centimetro di Nayuri per avere una rassicurazione, di andare a chiedere informazioni ad ogni feccia di ragazzo che l’ha aiutato a percorrere quella strada poco raccomandabile. Freme, ma non si muove. Non ancora.
«Hey», lo saluta Ryma affettuosamente, sedendosi su un grande pezzo di legno che giace a terra inanimato.
Lui la guarda per un istante, si asciuga la fronte con la canottiera sudata e riprende a spaccare ceppi: forse è solo una sua impressione, ma le sembra che stia impiegando più forza rispetto a prima. Probabilmente sta indovinando i suoi pensieri, probabilmente non vuole essere compatito, ma Ryma sente solo una certa rabbia animarle le vene solitamente placide: un senso di ingiustizia e frustrazione la fa reagire agli occhi stanchi del suo amico.
Tempo fa Solomon sorrideva molto più spesso, tanto da essere persino fastidioso con le sue espressioni silenziose, ma bizzarre: sarebbe bello ritrovare quel sorriso, quella spensieratezza leggera. E se lei desidera così tanto rivederla sul suo volto, come può il suo stesso fratello non volere lo stesso? Non sa nemmeno come sentirsi nei confronti di Kelvin: non l’ha mai odiato, come altri all’interno del Kenyatta Centre, ma non è mai riuscita a capirlo fino in fondo e questo ha rappresentato un ostacolo alla sua predisposizione nei suoi confronti. Certo, ora come ora prova rancore per il suo comportamento ed i suoi gesti: dopo quello che le ha detto Peter, è facile sospettare che sia stato proprio lui a rubare i suoi soldi – cosa di cui non vuole parlare per non peggiorare la situazione. Eppure, c’è ancora qualcosa che le sfugge, forse una misera speranza di poter trovare una giustificazione al suo stile di vita.
I suoi pensieri vengono interrotti bruscamente da un rumore che le spezza il cuore. Un singhiozzo, basso, soppresso e forse carico di vergogna.
Alzando gli occhi su Solomon, scorge le sue guance percorse da lacrime mute. Continua imperterrito ad accanirsi sulla legna, finge di non provare nulla ed intanto si lascia consolare dalla presenza di Ryma, che vorrebbe toccarlo e rincuorarlo, ma che non osa farlo per lasciargli gli spazi che merita.
 
 
 
Nel tardo pomeriggio, le ragazze ed i ragazzi del Kenyatta Centre si riuniscono nella Nursery per la preghiera giornaliera. Sono disposti in cerchio, accalcati uno addosso all’altro per mancanza di spazio: quella stanza sarà anche considerata grande, rispetto alle altre del Centro, ma deve pur sempre contenere circa sessanta persone. I più pigri si dispongono nelle ultime file di quel cerchio malformato, i più diligenti – tra cui Ryma, ovviamente – si mostrano senza alcun problema, desiderosi di iniziare.
Non appena il sacerdote venuto appositamente inizia il suo sermone, parlando con enfasi e regalando parole di speranza, Ryma si sente pizzicare la schiena. Sa già chi sia la responsabile, per questo non si volta a controllare.
«Hey, Ryma! Non mi ignorare!» le ordina Tifah in swahili, cercando di controllare il tono di voce.
Sente della confusione alle proprie spalle: probabilmente Tifah sta cercando di raggiungerla. Difatti, poco dopo se la ritrova accanto. Alza un sopracciglio, la osserva incredula e «Che piacere vederti qui», le dice scherzando.
Conosce bene la scarsa fede di Tifah, sa altrettanto bene quanto si annoi a prender parte alla preghiera e ricorda perfettamente ogni volta che è stata sgridata per averne saltata una o per non aver partecipato rispettosamente. È una delle cose che le separa e le unisce allo stesso tempo: mentre Tifah non ha alcuna fiducia in un Dio che a parer suo è immeritevole persino di essere, Ryma confida nella sua presenza invisibile, nella sua provvidenza così strettamente legata al libero arbitrio del singolo. In un certo senso la loro visione religiosa bilancia il loro rapporto: laddove Ryma, nelle situazioni più buie, si affida ad un volere superiore e buono, per quanto talvolta incomprensibile, Tifah si preoccupa di sperare in una logica ben più prevedibile, che non deve sottostare alle intenzioni di un essere ultraterreno con piani, risorse e volontà discutibili.
«Di’ un po’», ricomincia l’amica, ignorando il suo commento. «Chi è il soldato che è venuto a trovarti oggi? Non sarà mica Benjamin?»
I pettegolezzi circolano velocemente. «No, non era lui», le risponde Ryma, interrompendo il discorso per recitare una parte della preghiera.
«E allora chi era? Avanti, parla».
«Perché ti interessa? È solo un cliente».
«Perché mi interessa?» ripete Tifah sbalordita, alzando la voce inconsapevolmente e ricevendo un’occhiata d’ammonizione dal sacerdote. Si ricompone e riprende a parlare solo dopo qualche istante. «Forse perché a Nayuri ci sono decine di sarte? E scusami se te lo dico, ma sono anche più famose e più brave di te. Figurati se uno sporco inglese-»
«Tifah, per favore», sospira Ryma. A quell’appellativo non è proprio riuscita a sopportare il contrasto con la figura di Ryan.
«Che c’è? Non è un ragionamento tanto assurdo», borbotta lei, indisposta.
Effettivamente no, effettivamente Tifah ha ragione e Ryma ha pensato la stessa cosa da quando Ryan è comparso nel suo gabbiotto. Ma lui ha chiesto di lei a Benjamin, non è stato un incontro casuale: fino a quando non capirà qualcosa in più, però, che sia una verità positiva o meno, Tifah ne rimarrà all’oscuro.
«Fa’ silenzio», le intima Ryma, senza riuscire ad essere decisa quanto basta.
Non appena l’altra riapre la bocca per ribattere, lei alza la voce nel cantare insieme agli altri le parole dedicate al suo Dio, sorridendo divertita.

 


Ed eccoci qui!
Ci sono un po' di cosette da dire, quindi meglio iniziare subito:
- le Mamme sono figure piuttosto rigide nel centro di recupero, le loro regole riguardo i ragazzi e le ragazze ed il tempo che passano insieme sono piuttosto ferree (e a volte ridicole): quando ho alloggiato presso il centro, le ragazze non potevano venire a giocare davanti al dormitorio maschile, perché le Mamme non potevano vederle e quindi temevano chissà quali esperienze sessuali alla luce del sole, quindi dovevamo svolgere qualsiasi attività davanti al dormitorio femminile. Mi è stato raccontato che comunque ci sono state varie relazioni, alcune concluse anche con una gravidanza e quindi con l'espulsione dal centro (sempre sotto spinta delle Mamme, piuttosto che del gestore). Quindi è per questo che ho marcato questo aspetto di Agnes, che in pratica rimane di vedetta per tutto l'incontro tra Ryma e Ryan;
- Ryan!! Spero davvero che vi piaccia :) Non voglio dilungarmi su di lui, sui suoi comportamenti e sulle sue eventuali intenzioni, perché mi piacerebbe prima leggere le vostre ipotesi! Ho lasciato in giro alcuni indizi, quindi non vedo l'ora di sapere le vostre opinioni! Ovviamente Ryma non si fida fino in fondo, dopo l'esperienza con Benjamin, ma non può nemmeno negare quanto sia piacevole la compagnia di Ryan (PS: le ragazze del centro sperano sia un turista, perché per la maggior parte di loro turista bianco = soldi);
- ne ho approfittato per precisare che anche Peter e Tifah hanno un lavoro con cui si mantengono, o almeno ci provano;
- Kelvin non è ancora tornato a casa e vi ho regalato uno spazio per Solomon, dato che nello scorso capitolo è comparso solo da lontano: spero di aver fatto trasparire bene il fatto che sia esausto e al limite della preoccupazione (preciso che il fatto di non andarlo a cercare subito è ispirato alla realtà, nel senso che mentre io ero nel centro, diversi ragazzi si allontanavano per alcuni giorni, ma le ricerche non iniziavano subito, perché il più delle volte tornavano spontaneamente e ovviamente senza specificare cosa fossero andati a fare né dove);
- riguardo le preghiere giornaliere, diciamo che non sono da frequentare davvero in ogni occasione (ma comunque non se ne possono saltare molte): mi sono presa una piccola licenza. Sono bellissime da vedere, perché si canta e si balla ed i sermoni non hanno niente a che vedere con le prediche dei nostri preti. Comunque, stavolta è proprio Ryma a confrontare la propria fede a quella di Tifah: non so se ci sono riuscita, ma volevo far notare quanto le loro visioni delle cose siano complementari. Dove la fede di Ryma a volte si aggrappa al nulla, subentra la razionalità di Tifah e viceversa: in qualche modo hanno sempre qualcosa a cui affidarsi;
- quando Ryma parla della scuola, accenna qualcosa sul dover portare i capelli corti: quando i ragazzi vanno a lezione (non so fino a che età sinceramente, ma sono sicura almeno fino ai tredici) le maestre controllano che si siano rasati i capelli e, se non è così, li rimandano a casa immediatamente. È una questione di immagine, ma anche di pidocchi;
- ultima cosa: il cambiamento climatico nell'arco di pochi minuti è una cosa reale, assurda e anche piuttosto scomoda hahaha Ti svegli la mattina con un sole accecante, ti vai a fare la doccia e quando esci ci sono già i nuvoloni neri che mettono a repentaglio qualsiasi piano avessi in mente per la giornata.
Basta, ho blaterato anche troppo ahhaha Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Scrivetemi le vostre opinioni - positive o negative che siano - se vi fa piacere: mi sarebbero davvero utili!
E grazie per aver letto :)

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Veronica.

 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo sei - Cosa ci vuole? ***


Hola!
Una sola precisazione prima di lasciarvi alla lettura: il consumo di colla tra i bambini/ragazzi di strada è davvero molto diffuso. La colla viene
spesso comprata dai calzolai, costa poco e quindi è facilmente accessibile a tutti. Vieni sniffata tramite un fazzoletto su naso/bocca e spesso viene comprata in grandi quantità per realizzare dei veri e propri commerci tra ragazzi di strada, con spacciatori e clienti. Viene consumata per stordirsi o per affrontare meglio la vita di strada, ma anche per commettere crimini più facilmente. È facile camminare per strada e vedere ragazzi drogarsi, soprattutto a Nairobi.
 

 

Capitolo sei
Cosa ci vuole?

 

Tifah sta sfregando energicamente la maglietta tra le sue mani, cercando di lavare via una macchia non meglio definita che ha rovinato il tessuto, quando qualcuno le va a sbattere contro.
«Hey!» esclama infastidita, voltandosi per controllare chi sia il colpevole e massaggiandosi la gamba che ha assorbito il colpo. Non vede nessuno, ma sente dei rumori ai propri piedi.
Corruga la fronte, stranita, e si piega sulle ginocchia per controllare al di sotto dei lavandini in pietra cocente: quello che ha di fronte è un fagotto singhiozzante ricoperto di vestiti larghi e ancora in buono stato, rannicchiato con la testa nascosta tra le gambe.
«Si può sapere che cosa stai facendo qui sotto?» chiede, assumendo un’espressione incredula.
Non ottiene nessuna risposta, solo un gemito più forte.
«Fa’ come vuoi», borbotta, rialzandosi in piedi e tornando al proprio lavoro: non è riuscita a riconoscere il ragazzino, ma data la sua stazza, deve essere uno dei più piccoli. Già questo è abbastanza per scoraggiarla nel portare avanti la sua opera di bene giornaliera: non ne vuole sapere di bambini piagnucolanti.
Restare con le mani immerse nell’acqua fresca è rigenerante, anche se la giornata non è particolarmente afosa: nonostante la sua pigrizia, è un buon incentivo per sbrigare le ultime faccende domestiche che le impediscono di fare qualcosa per sé. Anche se qualcuno glielo vuole impedire.
Il bambino, infatti, tira su con il naso ed inizia a parlare di sua spontanea volontà. «Mi prendono in giro», dice in swahili, masticando le parole e lamentandosi come un piccolo brontolone.
Per un solo istante Tifah è tentata di abbassarsi nuovamente alla sua altezza, ma poi immagina il suo viso umido e gli occhi arrossati dal pianto ed il naso sporco e no. Semplicemente no. Non se ne parla. «Chi?» domanda, sbirciando il dormitorio maschile che sta a pochi metri dai lavandini e dai bagni. Può già indovinare che i responsabili siano i ragazzetti riuniti accanto ad una delle porte, che indicano nella sua direzione e sghignazzano tra di loro.
«Gli altri bambini», è la risposta.
«E per cosa ti prendono in giro?» Non che le importi più di tanto, ma non amare particolarmente gli esseri umani al di sotto di una certa età non vuol dire essere completamente insensibile alle loro altrettanto piccole sventure.
Quella domanda si dimostra sbagliata nel momento in cui scatena un nuovo pianto, più forte e fastidioso del precedente, che se non era terminato si era almeno affievolito. Tifah alza gli occhi al cielo e sospira, lasciando la maglia nel lavandino ed appoggiando una mano sul proprio fianco con fare impaziente. «Senti, smettila subito di piangere, hai capito?» gli intima senza troppi rimorsi. Anche se agli occhi di molti il suo atteggiamento in queste circostanze è troppo duro, lei può confermare che non causerà alcun danno: nessuno ha mai asciugato il viso a lei, quando da piccola piangeva per qualcosa, eppure eccola lì, ancora viva e vegeta.
Il bambino la ignora per un paio di minuti, continuando a sfogarsi e mettendo a dura prova la sua pazienza: Tifah è davvero tentata di invitarlo ad andare a frignare da un’altra parte, quando lui si decide a parlare con il respiro interrotto da singulti più radi. «Ho fatto la pipì nel letto», confessa tutto d’un fiato.
Lei alza un sopracciglio, sbuffa di nuovo. «Esci da lì, muoviti», lo sprona gentilmente.
«No!»
Da dove ha tirato fuori tutta questa decisione, il moccioso? si chiede Tifah.
«Esci da lì, ho detto», ripete più fermamente, piegandosi per afferrare il bambino da un braccio e tirarlo via dal suo nascondiglio. Trova una debole resistenza, ma riesce nel suo intento.
«Bahati?» esclama stranita, subito dopo: non l’aveva affatto riconosciuto.
Bahati si nasconde il viso con le mani sporche di terra, si stringe nelle spalle come per eclissarsi e sparire dalla sua vista, probabilmente anche dal suo giudizio. Sembra che stia per ricominciare a piangere.
«Non ti azzardare», lo ammonisce, puntandogli un dito contro. «Non ricominciare a piangere».
Bahati la guarda con gli occhi lucidi, increspando le labbra per non cedere. È buffo, così impegnato a combattere contro i propri istinti, ma Tifah si trattiene dal ridere.
«Ascolta», sospira lei, massaggiandosi la fronte, «appena succede qualcosa, non puoi scappare via e metterti a frignare sotto un lavandino. Che razza di bambino sei?»
«Ma-»
«Devi reagire! Devi imparare a difenderti», lo interrompe, troppo concentrata su quel discorso d’incoraggiamento. «Se ti prendono in giro, tu fai lo stesso con loro. E se ti picchiano, perché lo faranno, tu devi picchiarli a tua volta!»
«Ma Kibet mi ha detto che non-che non bisogna picchiare gli altri bambini», balbetta il piccolo Bahati, perplesso ed intimorito dai consigli appena ricevuti.
«E chi sarebbe questa Kibet?» domanda Tifah, confusa.
«Lei cucinava dove ero prima».
«Be’, evidentemente Kibet non è mai stata qui da noi, oppure ti avrebbe detto qualcosa di diverso», ribatte prontamente: all’interno del Kenyatta Centre ci sono regole ben precise riguardanti la sopravvivenza. Come nel Kenya più selvaggio, o mangi o vieni mangiato.
Bahati non risponde, abbassa lo sguardo e si mostra pensieroso: probabilmente sta decidendo se cambiare o meno gli insegnamenti ormai consolidati. Tifah ne approfitta per rincarare il concetto: dopo aver chiesto al piccolo chi tra quei ragazzi sia il principale responsabile dell’accaduto, chiama ad alta voce Mustafa ed aspetta che sia abbastanza vicino.
«Di’ un po’», lo apostrofa, mettendosi le mani sui fianchi e lasciando che Bahati si nasconda dietro le sue gambe. Poi ci ripensa, si scosta. «Ti diverti tanto a fare lo sbruffone? Devo ricordarti che pisci a letto più o meno ogni notte? O credi che nessuno ti veda, di mattina, quando metti il materasso ad asciugare al sole?» Diversi ragazzi tra i più giovani hanno quel vizio: una delle Mamme una volta le ha spiegato che dipende dal fatto di essere stati abbandonati o qualcosa del genere.
Mustafa la guarda indispettito, non osa ribattere con troppa veemenza. «Tu non c’entri niente», le risponde imbronciandosi.
«E questo dovrebbe cambiare il fatto che tu sia un idiota?» domanda retoricamente, con fare quasi annoiato. «Vattene via, avanti», lo caccia. «E piantala di infastidire gli altri».
Il ragazzo le rivolge una smorfia, muove le labbra in silenzio come se la stesse maledicendo o insultando, o entrambe le cose nello stesso momento, ma la sua reazione non si spinge oltre: sicuramente ha troppa paura di scatenare l’ira di Tifah, cosa che la lusinga. Gli sorride soddisfatta, con aria di superiorità, e gli dà le spalle per tornare a lavare la sua maglia.
Bahati le ronza ancora intorno, le si aggrappa ai pantaloni e tira su con il naso. Lei corruga la fronte ed abbassa lo sguardo su di lui: «La smetti di starmi appiccicato?» lo rimprovera debolmente, senza risultati. «Agosto sta finendo, goditi gli ultimi giorni prima della scuola: vai a giocare, su».
Lui scuote il capo e le sorride timidamente: sul suo viso infantile si dipinge qualcosa di simile a gratitudine ed ammirazione. Tifah ne è quasi terrorizzata: piccolo essere approfittatore e ruffiano.
«Vieni a giocare con me?» le chiede Bahati, alzandosi sulle punte ed insistendo con lo sguardo.
Tifah ride appena. «No», risponde semplicemente. «Solomon dov’è? Chiedi a lui».
Il bambino si rattrista appena, lascia la presa dai suoi pantaloni e si imbroncia. «Solomon è andato a cercare il suo fratellino. Non ha voluto nessuno con lui... Nemmeno me».
«Cosa?!»
Quel dannato stupido.
Non ha bisogno di decidere cosa fare, sta già camminando a passo svelto verso il dormitorio, ignorando Bahati che la segue per pochi metri richiamandola ed arrendendosi subito dopo.
Peter è sgattaiolato in città alle prime ore del mattino, per poter svolgere tutti i lavori per i quali verrà pagato meno di ciò che merita, e probabilmente tornerà dopo cena. Ryma si comporta in modo strano da quando quel soldato si è presentato al Kenyatta Centre, quindi ormai da tre giorni, e la tensione è sfociata in piccole discussioni che hanno portato Tifah ad irrigidirsi ed insospettirsi: è troppo abituata ad avere quello che vuole e subito, quindi non può che sentirsi indispettita dalla distanza e dal silenzio della sua amica.
Dato che i suoi due amici non sono disponibili e dato che preferirebbe tagliarsi una mano piuttosto che fidarsi di qualcun altro, non le importa se sarebbe meglio farsi accompagnare da qualcuno: esce di nascosto e si mette alla ricerca di Solomon.
 
 
 
Ha setacciato diversi angoli della città senza grandi risultati: alcuni sembrano aver intravisto Solomon o qualcuno che gli somiglia, ma nessuno è riuscito a darle informazioni precise. Tifah è piuttosto nervosa, non per la stanchezza, ma per la preoccupazione: non manca molto al tramonto e lei non può e non vuole restare fuori casa con il buio pesto della notte keniota: è poco raccomandabile, poco sicuro e spaventoso persino per lei. Deve assolutamente trovare Solomon prima delle sei e mezza.
La rabbia nei confronti di Kelvin cresce ad ogni passo che compie, ad ogni ragazzo trasandato al quale è costretta a chiedere informazioni: non riesce a credere che lui, fortunato ad avere un posto in cui stare ed una persona che patirebbe le pene dell’inferno solo per vederlo stare bene, sia tanto stupido da rovinarsi la vita in compagnia dei ragazzi di strada, tanto stupido da stordirsi con la colla e combinare chissà cosa chissà dove. È egoista nella sua apparente disperazione, non si rende conto delle ripercussioni che le sue azioni hanno su chi gli sta intorno. Soprattutto su Solomon.
Quando arriva al centro commerciale di Nayuri, l’unico che lei abbia mai visto in tutta la sua vita e l’unico esistente nel raggio di centinaia di chilometri, il cielo si sta scurendo e lei è sempre più impaziente: in un angolo del parcheggio, tra automobili sulle quali non è mai salita, intravede un gruppo di ragazzi che parlotta tra di loro. Non riesce a vedere bene, sono troppi e sembrano tutti uguali a quella distanza, per cui si avvicina lentamente, continuando a guardarsi intorno.
Sente qualcuno litigare, si volta alla propria sinistra e si ferma ad osservare un ragazzino rannicchiato a terra: è nella stessa posizione di Bahati, sotto quel lavandino, e per un istante le due immagini si sovrappongono. Ma il viso del piccolo Bahati non era così sporco, né il suo naso era grondante di sangue, probabilmente a causa di un colpo appena ricevuto. Tifah stringe i pugni, serra la mascella e cerca qualcuno che possa fare qualcosa, ma trova solo la solita indifferenza schiva che caratterizza la città. La verità è che nessuno aiuterebbe un ragazzo di strada, nessuno lo porterebbe in ospedale e pagherebbe le spese mediche. Ciò che è peggio è che non lo farebbe nemmeno lei.
«Levami le mani di dosso!» sente esclamare a denti stretti. Riconosce la voce di Solomon, anche se preferirebbe sbagliarsi.
Tifah scatta in avanti e non esita a raggiungere il gruppo di ragazzi verso il quale si stava già dirigendo: scorge Solomon con la schiena premuta contro la recinzione metallica del parcheggio, qualcuno che lo tiene fermo con l’avambraccio che gli soffoca il collo. «Hey!» urla Tifah, inconsapevolmente: è coraggiosa sì, ma questa volta si pente di aver parlato troppo presto.
Il suo intervento, però, non provoca grandi reazioni: i più la ignorano completamente, alcuni sorridono tra loro per la sua sola presenza spavalda, qualcuno è troppo concentrato a tenere il fazzoletto di colla contro la propria bocca per badare a lei. Solomon la guarda furioso.
«Vattene di qui, idiota!» la rimprovera, con un labbro gonfio e spaccato. Cerca di liberarsi dalla presa del suo aggressore, mentre lui è distratto da Tifah: la sta osservando con un sopracciglio alzato, forse è indeciso se considerarla o meno. Evidentemente Solomon ha una maggiore attrattiva, perché gli riserva un pugno nello stomaco e lo schiaccia ancora di più contro la recinzione.
«A me non frega un cazzo di dove sia il tuo fratellino: se anche l’avessi visto non te lo direi, a meno che tu non abbia dei soldi con cui convincermi», gli dice a poca distanza del suo volto: gli sorride beffardo, con quel viso ancora giovane che probabilmente nasconde più anni di quelli che mostra. Tifah si avvicina ancora, meccanicamente, e le viene da vomitare per quella scena, per l’impotenza e la paura. «L’unica cosa che voglio sono i soldi che quella merda di Kelvin mi deve», ricomincia lui, assottigliando la voce e muovendosi minaccioso. «Lui può anche marcire all’inferno per quanto mi riguarda».
Solomon si agita, scalcia per allontanarlo, ma prima che possa rispondere, Tifah si stupisce di sentire la propria voce. «Non possiamo trovare Kelvin, se non lo lasci andare. E se non troviamo Kelvin non possiamo convincerlo a pagarti».
«Tifah!» urla Solomon, contrariato.
Il ragazzo allenta la presa, lo lascia respirare appena un po’ di più, e si volta per guardare ancora una volta quell’intrusa sfrontata. Le sorride, viscido e sporco, in ogni modo in cui potrebbe esserlo una persona. «Forse non hai capito, carina. Non mi interessa che sia Kelvin a darmeli: sono sicuro che il suo dolce fratellone non avrà problemi a parargli il culo ancora una volta. A me servono quei soldi. E mi servono subito».
Tifah deglutisce a vuoto, alza il mento e prende un respiro profondo. «Devi comunque lasciarlo andare: per darti i soldi deve andare a prenderli», dice banalmente. Ci sono cose, persone, possibilità, sguardi, che spaventano anche lei: le tremano le gambe anche se sta continuando a parlare, anche se sta resistendo alla tentazione di allontanarsi immediatamente da lì.
La sua osservazione sembra infastidire il ragazzo ad un paio di metri da lei. «Credi che non lo sappia?» le domanda infastidito, sull’orlo della provocazione.
Solomon approfitta del momento e riesce a scrollarselo di dosso, ma non lo colpisce, non ricambia i colpi ricevuti: evidentemente sa alla perfezione i rischi che corre e non vuole peggiorare le cose. L’altro, d’altronde, non cerca di fermarlo: lo guarda con tranquillità, come se sapesse la posizione di vantaggio nella quale si trova.
«Andiamo, muoviti», le intima Solomon, sputando a terra della saliva sporca di sangue ed afferrandola bruscamente per un braccio. «Razza di stupida», le ringhia all’orecchio, mentre la costringe a seguirlo. Lei non si ribella, non si divincola: si sente stordita.
«Ricordati i miei soldi!» urla quel ragazzo dietro di loro, prima di ricominciare a parlare con i suoi compagni.
Entrambi lo ignorano, accelerando il passo.
«Si può sapere che diavolo stai facendo qui?!» esclama Solomon, in preda alla rabbia e probabilmente all’adrenalina. La presa sul suo braccio è rigida, ma la sua mano sta tremando impercettibilmente.
«Io?!» si riscuote Tifah, liberandosi dalla sua stretta. «Tu, piuttosto! Venire a cercare Kelvin da solo! Sei impazzito?!»
«Invece tu sei stata più furba?!» urla sul ciglio della strada, gesticolando. «Cosa ti sei messa in testa di fare? Quel tipo avrebbe potuto prendersela anche con te!»
«Ma non l’ha fatto! E tu ora non sei più appeso ad una ringhiera!»
Solomon è sbigottito, non crede alle proprie orecchie: ha perso la calma che lo caratterizza, ha lasciato spazio a qualcos’altro di sé, qualcosa che solo Tifah e pochi altri conoscono. «Pensi di avermi salvato!? Il tuo intervento è stato solo stupido!»
«Non mi importa cosa sia successo, l’importante è che tu non sia più lì a prenderti pugni nello stomaco!» ribatte, respirando velocemente. In fondo Solomon ha ragione, è stata un’incosciente, ma ci sono prezzi che Tifah è disposta a pagare quando è necessario.
Lui si passa le mani sul capo, chiude gli occhi ed inspira a fondo: sta cercando di trattenersi dal rimproverarla ancora, dal litigare. I passanti guardano con sospetto il suo viso emaciato.
Tifah gli afferra il mento delicatamente, gli alza il volto per poter prendere coscienza dei reali danni: ha lo stomaco accartocciato mentre studia il sopracciglio rotto ed i lividi sulla pelle scura, la bocca gonfia. «Guarda come ti ha combinato…» mormora in un sospiro.
Solomon distoglie lo sguardo dal suo, evita il suo tocco, ma le sposta la mano stringendogliela appena, come in un muto ringraziamento.
«Hai già cercato ovunque?» chiede Tifah dopo diversi secondi, seria. Non sa se sperare in una risposta positiva: da una parte vorrebbe che Kelvin fosse scomparso dalla faccia della Terra, dall’altra spera che Solomon possa trovare sollievo almeno per una volta.
«No, devo controllare ancora un posto», sospira lui, serrando la mascella.
 
Il carcere non è altro che un edificio maltrattato ed istituito proprio accanto alla centrale della polizia locale, dietro la quale si sollevano tre palazzi che fungono da abitazione per alcuni degli impiegati. L’intera struttura è leggermente fuori città, illuminata da lampioni alti e radi: ormai il sole è tramontato, Tifah cammina più vicina a Solomon.
L’entrata del complesso è presidiata da guardie armate, come quelle che pattugliano in abbondanza l’intera città, ed una di loro chiede a Solomon cosa facciano in quel posto, imbracciando meglio il fucile.
«Non ho notizie di mio fratello da un po’ di tempo», risponde lui, compostamente. «Vorrei sapere se è stato arrestato».
È la possibilità che più lo spaventa, che lo fa irrigidire ad ogni respiro che prende: sarebbe molto meglio trovare Kelvin in strada, nascosto in un vicolo malfamato, piuttosto che in una cella sopraffollata, vittima di percosse e su una via incerta del destino. È normale essere arrestati a Nayuri, anche senza una motivazione, ed è normale fungere da sfogo per le frustrazioni delle guardie o degli altri detenuti, nell’attesa di uscire grazie all’intervento di qualcuno.
«Torna durante gli orari di visita», replica il poliziotto, spostando lo sguardo fisso di fronte a sé. Sembra una statua.
La voce di Solomon si altera. «Non voglio vederlo, voglio solo sapere se è qui».
L’altro lo osserva con un sopracciglio sollevato, sospettoso nella sua divisa scura. «Entrate», dice dopo qualche secondo. «Chiedete a quell’uomo laggiù e poi sparite».
Tifah si lascia scappare un respiro di sollievo e segue Solomon, che cammina con fermezza verso il punto indicato: è il portone d’entrata del carcere, controllato da una guardia seduta su una sedia lì accanto.
«Cazzo…» borbotta Solomon, rallentando il passo per un solo istante.
«Cosa c’è?» domanda lei, allarmata.
«Quello mi odia», confessa sospirando, ma senza abbassare lo sguardo turbato. «E odia ancora di più Kelvin».
«Perché? Cosa c’entri tu?»
«Arrivo sempre in tempo e lui non riesce mai ad arrestarlo», sussurra.
Tifah scuote il capo: non è un buon presupposto.
«Sei venuto a costituirti?» esclama la guardia, ridendo profondamente ed accogliendo un Solomon infastidito. Si alza in piedi, altissimo, e sorride di un sorriso sorto e rozzo: il fucile ben fermo nelle sue mani grandi. Tifah odia il modo di porsi della polizia locale: l’avere un’arma sembra alimentare la loro consapevolezza, li fomenta oltre ogni decenza.
«Ho bisogno di un’informazione: all’entrata mi hanno detto di chiedere a te», spiega Solomon, meno diretto rispetto a poco prima. Sembra girare intorno al reale succo della questione e probabilmente perché prevede la reazione che otterrà.
«Davvero?» domanda lui, beffardo. «Cosa vuoi?»
Tifah stringe i pugni, irritata dalla sua sfrontatezza: se non fosse a rischio, attaccherebbe fino a spezzare il suo ego in minuscoli frammenti.
«H-»
«Ah, aspetta».
La guarda interrompe Solomon, facendo un passo avanti e mostrando un viso rilassato, ma provocatorio. «Scommetto che si tratta di tuo fratello».
Tra di loro si insinua il silenzio, frutto di diverse emozioni.
«È qui?» chiede Solomon in un sussurro.
L’altro sorride nuovamente. «Certo che è qui», afferma con orgoglio. «Pensavi davvero che sarebbe riuscito a scappare per sempre?»
Tifah non sa se essere sollevata dalla notizia: ci sono troppi vantaggi e svantaggi da considerare, troppe variabili che la sua logica si rifiuta di analizzare sul momento. E probabilmente anche Solomon è in preda alla sua stessa confusione, ancora più accentuata, perché è rallentato in qualsiasi risposta: sembra persino che abbia smesso di respirare.
Vorrebbe prendere la mano di Solomon e stringerla forte, ma non lo fa. Lo guarda.
«Cosa ha fatto?» domanda piano lui.
«Stavolta niente», ride il poliziotto: la conversazione lo diverte, è evidente. «Ma sai, per tutte le cazzate che ha combinato e che tu l’hai aiutato a nascondere, non appena l’ho visto non ho saputo resistere: si merita di restare al fresco per un bel po’ e si merita pure lo schifo che si sta beccando là dentro. I suoi compagni di cella non sono molto affabili».
Tifah assume un’espressione disgustata, incredula, e vorrebbe urlare il proprio rancore: a prescindere dal suo cattivo rapporto con Kelvin, non riesce a concepire simili ingiustizie. Vorrebbe cancellarle dalla propria vita, e aver trovato un colpevole al quale attribuirle non la soddisfa a sufficienza: può disprezzare gli inglesi fino a farne lo scopo della sua vita, può incolparli della povertà straziante e dei modi ignobili di affrontarla che sono nati, dell’aumento della criminalità che è diventata ingestibile, ma non è mai abbastanza.
«Vorresti che lo rilasciassi?» domanda la guardia, assottigliando lo sguardo, come un predatore che attira la sua preda con l’inganno.
Solomon inasprisce la propria espressione, non risponde.
Lo fa Tifah, con il sangue a ribollire per l’indignazione, per la rabbia cieca. «Quanto vuoi?»
Lui la osserva compiaciuto, felice che si siano intesi così in fretta.

 


Et voilà!
Allooooora, innanzitutto scusate per il ritardo, ma ho avuto un po' da fare! Passando al capitolo:
- piccola scena tra Bahati e Tifah, che con i bambini fa piuttosto pena hahah Secondo voi le cose cambieranno? A Bahati Tifah inizia a piacere! Ah, forse avevo già parlato del "vizio" dei bambini di fare la pipì a letto: succede spesso, anche superata una certa età, principalmente a causa delle condizioni in cui crescono. Di mattina portano fuori i materassi e li lasciano asciugare: raramente li lavano, ahimé;
- Solomon è andato a cercare Kelvin, dopo aver aspettato altri tre giorni, ma Tifah non ne è molto felice, così si avventura da sola. So che fino ad ora si è dimostrata molto forte, combattiva e decisa, ma come avrete visto, in questo capitolo il suo coraggio si è un po' affievolito: ci sono cose che nemmeno lei sa affrontare bene, e i pericoli derivanti dai ragazzi di strada sono un esempio. La scena del ragazzino a terra con il viso insanguinato è reale, nel senso che è successo a me durante una passeggiata in città: non so cosa sia accaduto effettivamente, ma il bambino aveva sicuramente il naso rotto, anche se ha rifiutato qualsiasi aiuto ed è scappato via. Una scena piuttosto triste. Anche l'indifferenza delle persone è vera: diciamo che c'è un rapporto piuttosto teso tra la popolazione ed i bambini di strada, ma ne riparlerò nella storia.
Kelvin ha anche dei debiti, oltre ad avere uno stile di vita discutibile, e Solomon ne va di mezzo: ho sottolineato anche il fatto che Solomon ha più volte tirato il fratello fuori dai guai, sia con i ragazzi di strada, sia con la polizia;
- avevo già parlato in un altro capitolo della polizia locale e della sua corruzione, del fatto che gli arresti sono quasi all'ordine del giorno e che spesso non c'è nemmeno bisogno di commettere un crimine per finire in galera. Pagare è il modo più semplice per uscire subito, a volte l'unico modo. Mi dispiace molto che la situazione sia questa, la polizia non è affatto rassicurante e la sua corruzione è disgustosa: persino per un crimine non si svolgono indagini se qualcuno non paga.
In questo caso Kelvin non ha fatto nulla, sul momento, ma indirettamente si sa che ha commesso diverse cavolate, che però non ha mai pagato. Incontrare proprio il poliziotto che ti vuole mettere in galera dal primo giorno non è esattamente fortuna. In più, all'interno delle celle la situazione è quella che si può immaginare.
La guardia chiederà una somma di denaro accettabile? Solomon se la potrà permettere? Aiuterà il fratello ad uscire di prigione oppure no?
- ho nominato di nuovo l'odio di Tifah nei confronti degli inglesi: nella presentazione del prologo ho cercato di illustrare un po' la situazione ed il rapporto consequenziale tra la colonizzazione inglese e l'economia keniota, che non riesce a soddisfare certi standard finendo per schiacciare i più poveri. Ma si riparlerà anche di questo.
- PS. Ryan non si è fatto più vedere, Ryma sembra in crisi e lei e Tifah si sono un po' allontanate: secondo voi?
Insomma, direi che ho detto abbastanza, ma come sempre potete chiedermi qualsiasi cosa: sarò felice di rispondere e chiarire eventuali dubbi :) Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere le vostre impressioni! Giuro che ci saranno capitoli anche meno tesi ahahha 
Grazie per aver letto!! Buona giornata :)


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Veronica.

 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo sette - In nome dell'amore ***


Buongiorno gente!
Mi scuso tantissimo per il ritardo: diciamo che, a parte una piccola vacanza che mi sono concessa, la stesura di questo capitolo è andata davvero a rilento.
Promemoria delle parole in Swahili che troverete nel capitolo:
- asante sana = grazie molte;
- tafadhali = per favore;
- nini? = cosa?
- hapana = no.
Nuove parole:
- ndiyo = sì;
- mimi = io;
- wewe = tu.
Buona lettura :)
 

 

Capitolo sette
In nome dell'amore

 

Solomon conosce bene le notti del Kenya, le respira ad ogni tramonto: il nero che le caratterizza è totalizzante e non si limita a rabbuiare il paesaggio, è come se spegnesse qualsiasi cosa sotto di sé. La vita si ferma, si assopisce cullata dalle stelle luminose, e qualsiasi rumore si dissolve nel nulla: il silenzio è così intenso, così avvolgente, da amplificare ciascun suono abbia intenzione di interromperlo.
In quel momento, Solomon desidera che la notte si trasformi nel caotico chiacchiericcio tipico delle giornate di mercato, nelle risate dei bambini che giocano tra le mura del Kenyatta Centre: persino il russare fastidioso dei suoi compagni di stanza andrebbe bene. Accetterebbe tutto, pur di non sentire il silenzio che lo circonda, il proprio battito cardiaco veloce, vigoroso.
Si volta verso Tifah, alla sua destra: è seduta sulla strada sterrata, accanto al cancello che li divide dai loro amici e dai loro letti. Hanno camminato lungo la via del ritorno con passi decisi e senza pronunciare una parola, ma per qualche ragione non hanno osato attraversare la soglia del Kenyatta Centre, come rifiutandosi di affrontare la realtà.
«Avanti, parla», la incita a denti stretti, accorgendosi del modo in cui Tifah lo sta guardando. Non ha fatto altro da quando hanno lasciato il penitenziario.
Solomon non vuole davvero ascoltare cos’ha da dire – può immaginarlo perfettamente – ma il suo cuore è ancora troppo rumoroso e lui non riesce a sopportarlo oltre, ha bisogno di distrarsi.
Tifah corruga la fronte e smette di giocherellare con un ciuffo d’erba tra i suoi piedi, sembra valutare la situazione. «Quindicimila scellini, Sol», esclama. «Dove diavolo li prendi quindicimila scellini?»
Lui si irrigidisce, ripensa alla guardia che nemmeno un’ora prima li ha guardati con superiorità ed arroganza, avanzando una proposta da accettare senza obiezioni: Solomon avrebbe voluto colpirlo in pieno viso con tutta la forza che lo animava per il rancore, ma avrebbe solo peggiorato le cose.
«Il tuo problema è che quei soldi servono ad aiutare mio fratello», indovina Solomon, posizionandosi di fronte a lei. «Se in questa situazione ci fosse stata Ryma, saresti andata a prostituirti con i tuoi odiati inglesi pur di tirarla fuori dai guai».
Le vuole bene, darebbe un braccio per lei, ma Dio quanto lo fa incazzare.
Tifah balza in piedi, serra i pugni. «Ma Ryma non è in prigione», precisa, senza negare le sue insinuazioni. «C’è Kelvin. E se lo merita, si merita ogni singolo giorno che sta passando lì dentro».
«Attenta a come parli», la ammonisce: sa perfettamente quale sia il rapporto con suo fratello, ma in quel momento non ha bisogno di parole simili, non ha bisogno di ricordarsi di quanto siano vere.
«Perché?» domanda Tifah, più indignata. «Brucia così tanto sapere che tuo fratello dovrebbe marcire tra quelle pareti per tutto quello che ha fatto e che ti ha fatto? Ammettilo: quei quindicimila scellini sarebbero sprecati per lui, perché non appena uscito di prigione tornerebbe per strada e continuerebbe a fare di testa sua senza neanche ringraziarti! Lo sai anche tu, lo sappiamo tutti!»
«E cosa cazzo dovrei fare?!» sbotta Solomon, gesticolando e sospirando subito dopo, pentito di aver alzato la voce con il rischio di essere sentito da qualcuno. Si morde un labbro, calcia nervosamente un sassolino a terra. Si rivolge di nuovo a lei solo dopo una manciata di secondi: «È mio fratello», esclama, quasi geme.
«In comune avete solo il sangue», gli ricorda Tifah, assumendo un’espressione incredula: è evidente, non concepisce le sue debolezze, non riesce a coglierle.
Solomon distoglie lo sguardo, scuote la testa e si allontana.
Preferisce nuovamente il silenzio.
 
 
 
 
La signora Harvey ha preparato una torta al cocco e al cioccolato, già infornata e probabilmente quasi pronta: l’aroma dolciastro si diffonde in tutti gli ambienti della villa, raggiungendo anche il naso di Solomon, che sta sistemando dei fiori in aiuole appena create. Il suo stomaco si lamenta rumorosamente, facendogli desiderare che la sua datrice di lavoro esca da un momento all’altro chiedendogli di assaggiare una fetta della torta: si vergogna di questo suo bisogno, del fatto di non aver mai gustato qualcosa di simile, e cerca di non pensarci concentrandosi anche sui movimenti più banali.
Bahati, che anche quel giorno ha voluto seguirlo, sta giocando con della terra fresca a pochi metri di distanza: i pantaloni smessi che qualcuno gli ha generosamente prestato si sono consumati sulle ginocchia, lo rendono più goffo di quello che è. Muove il capo seguendo il ritmo di una canzone proveniente dallo stereo della signora Harvey: è musica classica, si alternano note energiche a melodie inevitabilmente noiose.
Solomon sorride tra sé, pensando che potrebbe fare di meglio, pur non essendo nato in Europa nella famiglia di Mozart e non avendo un accento sofisticato: la musica è sempre stata un’amica, una compagna di giochi in grado di liberarlo da qualsiasi pensiero. Per Solomon non è la sua ragione di vita, come per altri, ma non può negare la sua importanza.
Seppellendo le ultime radici sotto un cumulo di terra, inizia a creare qualcosa: con la bocca produce dei suoni che dovrebbero rappresentare delle percussioni, con lo scopo di animare quella canzone malinconica. Batte le mani sulle proprie cosce per aiutarsi, prima debolmente come per non farsi sentire e poi sempre più forte: nella sua mente costruisce una chitarra costosa ed invidiata da qualsiasi musicista, pizzica le sue corde immaginarie abbinando note che non saprebbe riconoscere o suonare. Aggiunge un basso, il violino con il quale una giovane ragazza asiatica si è esibita in televisione tempo fa e che l’aveva incantato: il ritmo accelera, aumenta il volume della sua espressione e Solomon si muove secondo quella melodia appena nata, o forse è la melodia a scaturire dai suoi movimenti improvvisati.
«Anche io, anche io!» grida Bahati, con il viso entusiasta, mentre si alza da terra e corre verso di lui: balla come un bambino di cinque anni potrebbe fare, ma si può già notare il sangue che scorre nelle sue vene, il temperamento che lo anima e che non è altro se non genetico.
Solomon sorride ancora, prendendolo per mano per guidarlo, e ricorda quando anche lui e Kelvin, molto più giovani, passavano il tempo in quel modo: gli sembra quasi di rivivere quei pomeriggi caldi e monotoni, di rivedere le labbra ridenti di suo fratello e la spensieratezza vivace nei suoi occhi. Prima che tutto iniziasse a sgretolarsi senza mai essere stato intero. Prima, molto prima.
Le note nella sua testa si intestardiscono, ancora accompagnate dalla musica classica di base, e si trasformano in qualcosa di più rabbioso, confuso, inarrestabile. Solomon, ad occhi chiusi, è padrone del vasto giardino che cura per lavoro, mentre si libra da un angolo all’altro muovendo il bacino e le gambe toniche, facendo scattare il capo a destra e a sinistra, ondeggiando dolcemente.
«Wow».
Quel sussurro si intrufola distintamente nella sua fantasia, facendo immobilizzare Solomon al centro del prato verde e rigoglioso: la signora Harvey è sulla soglia della porta-finestra, con un vassoio tra le mani e lo sguardo rapito. Bahati sta ancora gironzolando attorno al suo maestro improvvisato, canticchiando qualcosa distrattamente e non mostrando alcuna intenzione di fermarsi.
«Torno subito a lavoro», borbotta ansimando per lo sforzo, in preda alla vergogna derivante dall’essersi esposto fin troppo.
«No», lo ferma la signora, impedendogli di fare un altro passo: appoggia il vassoio sul tavolo in legno sotto un gazebo, lasciando in bella vista la torta gonfia ed invitante, accanto a dei bicchieri ed un succo di frutta. «Non preoccuparti: sei già a buon punto, ti meriti una pausa», gli dice, sorridendogli cordialmente.
Solomon inspira profondamente, diffidando della sua gentilezza per la necessità di proteggersi. Posa una mano sul capo di Bahati, non appena questo gli si avvicina per caso, e lo spinge debolmente verso il tavolo a pochi metri di distanza. È apparecchiato con una tovaglia bianca e ricamata in corrispondenza dei bordi, abbinata ai tovaglioli in stoffa: sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto, un piano per mettere a disagio chiunque le si avvicini con le mani callose e sporche di terra, il sudore a gocciolargli sulla fronte.
La signora Harvey taglia delicatamente la torta, disponendone le fette in piatti di ceramica pulita: Solomon trattiene il fiato per non cedere così clamorosamente al profumo dell’impasto e del cocco, all’ombra del gazebo e alla freschezza del succo nella caraffa trasparente, ma Bahati sembra essere il portavoce dei suoi più nascosti desideri, affrettandosi a prendere posto e guardando con incanto la delizia che sta per assaggiare.
«Se non ti siedi immediatamente, ti licenzio», lo rimprovera la signora Harvey, assumendo un’espressione furba e provocatoria: gli passa una fetta di torta prima ancora che lui si sia seduto, sicura che non otterrà un rifiuto in risposta.
Solomon le dà ascolto senza convinzione, con le mani strette a pugno posate sulle ginocchia e la schiena dritta: inconsapevolmente sta cercando di toccare il meno possibile.
«È buonissima!» esclama Bahati, con della farina di cocco che gli sporca gli angoli della bocca: riesce a malapena a tenere i gomiti sul tavolo, deve allungare il capo per raggiungere la torta che mangia con tanto vigore.
«Ti piace? Mi fa piacere», sorride la signora, tornando con lo sguardo sul suo dipendente. «Balli davvero bene, sai?»
Solomon continua a fissare la fetta di torta.
«Prendi delle lezioni?» insiste lei, con la solita premura.
Gli viene da ridere, ma si trattiene. «No».
«Non hai mai pensato di prenderne?»
Solo a quel punto Solomon si decide a guardarla, corrugando la fronte. «No», mente, stupendosi della sua cieca domanda: certo che si sarebbe iscritto in una qualsiasi scuola di danza, se solo le lezioni non costassero oltre quello che può permettersi.
La signora Harvey aspetta un paio di minuti prima di riprendere a parlare. «Oggi mi sembri stanco: non ti senti bene? Vuoi tornare a casa?»
Non è che non si senta bene, più che altro gli sembra di essere sul punto di spezzarsi, e no, non vuole tornare a casa: in fondo suo fratello non è lì e forse questo stretto collegamento esiste solo più nella sua mente e nel suo cuore. Su una cosa ha ragione, però: è stanco, ma non si tratta di stanchezza fisica.
«Sto bene, non si preoccupi», risponde, distogliendo lo sguardo e posandolo sul piccolo Bahati, il simbolo dell’innocenza. Forse il suo viso spensierato gli può conferire una dose in più di coraggio. «Signora Harvey?» dice velocemente, deglutendo a vuoto.
Lei gli presta subito attenzione, masticando educatamente.
«Potrebbe darmi lo stipendio del mese in anticipo?» Quella richiesta lo fa rabbrividire, la sua dignità si accartoccia, ferita. Solomon serra la mascella con forza: l’ideale sarebbe stato chiedere un aumento, ma con che faccia tosta? Guadagna più soldi di qualsiasi aspirante giardiniere a Nayuri, in confronto alla mole di lavoro che lo aspetta, e sa anche di non meritarseli: chiederne ancora sarebbe davvero troppo, significherebbe approfittare della gentilezza della padrona di casa.
«A cosa ti serve?»
Lui corruga la fronte, in qualche modo offeso da quell’intromissione: sa bene che la signora ha tutto il diritto di chiedere spiegazioni, ma ne è comunque infastidito.
«Hai ragione», sorride lei, pulendosi la bocca con il fazzoletto. «Non sono affari miei».
«Non mi va di parlarne», si affretta a precisare Solomon, come per ammorbidire il tono della conversazione.
«Posso prenderne ancora?» interviene Bahati, leccandosi le labbra ingenuamente felici.
Solomon resta immobile ed in silenzio mentre la sua datrice di lavoro taglia un’altra generosa fetta di torta. Si sente ridicolo nel desiderare così tanto una risposta positiva e si chiede come possa essere la vita di un inglese benestante come la signora che gli sta di fronte, che non ha problemi del genere e che non è costretto a risparmiare qualsiasi centesimo a disposizione.
«Chiunque mi sconsiglierebbe di darti lo stipendio in anticipo», esordisce la signora Harvey, osservandolo con tranquillità. «Ci sono molti ragazzi come te che chiedono un favore simile e poi spariscono con i soldi in tasca, lasciando il lavoro».
Lui apre bocca per ribattere, per allontanarsi da persone nelle quali non si rispecchia, ma viene preceduto.
«Eppure voglio rischiare», viene interrotto. «Ti pagherò oggi stesso: non credo e non voglio credere che tu sia come quei ragazzi. O sbaglio?»
Solomon sente un vago senso di colpa premergli sul petto: non si aspettava una tale fiducia, soprattutto dal momento che lui non è mai stato bravo o pronto a mostrarne nei suoi confronti. L’istinto gli suggerisce persino di chiederle scusa per i suoi dubbi e per la sua onnipresente diffidenza.
Si limita a chinare il capo, a chiudere gli occhi.
Il resto della mattina trascorre quasi completamente in silenzio.
 
A metà strada, mentre Solomon cammina con Bahati aggrappato alla sua mano indolenzita, il piccolo interrompe i suoi pensieri con un borbottio incomprensibile.
«Nini?» gli chiede, per capire meglio.
Bahati imbroncia le labbra ed il suo viso si incupisce, rallentando il passo. «Tu mi vuoi bene?» domanda a bassa voce, senza alzare lo sguardo su di lui.
Solomon alza un sopracciglio, stupito ed inevitabilmente imbarazzato da una domanda simile. «Ndiyo», risponde lentamente, riflettendoci su.
«E mi vuoi bene sempre?» continua Bahati, fermandosi e stringendosi nelle spalle: lascia la sua mano e la nasconde dietro la schiena. «Anche quando faccio qualcosa che non ti piace?»
«Che ti prende?» sorride l’altro, confuso dal suo comportamento. Il silenzio che segue la sua domanda lo fa insospettire. «Cosa hai fatto?»
Bahati lo guarda spaventato, colpevole, mordendosi una guancia. «Mimi…»
«Wewe…?»
«Ho preso… Un pezzo di torta», dice il piccolo velocemente.
«Be’, sì, ti è piaciuta così tanto che l’hai quasi finita», ride Solomon, pensando alla faccia della signora Harvey nell’accorgersi del vassoio quasi vuoto.
«Hapana», lo corregge. «Ce l’ho in tasca».
«In tasca?!»
Bahati quasi impallidisce, poi affonda la mano minuta in una delle tasche dei pantaloni e ne tira fuori una fetta di torta sbriciolata ed ammaccata, di piccole dimensioni. Gliela porge abbassando lo sguardo. «Non volevo rubarla, ma tu non ne hai mangiata nemmeno un po’ e stava per finire, allora l’ho presa di nascosto quando lei non guardava. Ma non volevo rubarla, non mi piace rubare, e ora tu non mi vuoi più bene», termina, sopprimendo un singhiozzo e trattenendo le lacrime.
Solomon spalanca gli occhi, sbatte le palpebre più volte. «Non c’è bisogno di piangere», quasi balbetta, schiarendosi la voce. Ma Bahati non si lascia convincere facilmente, trema appena e china il capo.
Solomon si piega sulle ginocchia con un sospiro, gli alza il viso con due dita sotto al mento e cerca di rivolgergli il miglior sorriso che in quel momento è in grado di regalare. «Sei stato gentile», esclama, accarezzandogli la nuca rasata. «Asante sana».
E per convincerlo definitivamente – lontano dalla casa sfarzosa ed elegante della signora Harvey, dai suoi occhi consapevoli e da una vita che non si può permettere – afferra il pezzo di torta che Bahati tiene tra le mani e se lo porta alla bocca, masticando lentamente.
Non ha mai mangiato niente di così buono.
«Ti piace?» chiede Bahati, emozionato.
Solomon annuisce, leccandosi le dita. «Ma non rubare più niente!» lo rimprovera bonariamente, esclusivamente perché si sente in dovere di farlo, anche se vorrebbe solo ringraziarlo ancora una volta.
 
 
 
Prima di cena, quando l’avvicinarsi del tramonto dipinge il cielo di tonalità rosate, Solomon è in piedi in un angolo del prato secco accanto al dormitorio femminile e dietro a quello maschile: lo spazio neutrale in cui ragazzi e ragazze possono passare del tempo insieme sotto lo stretto controllo delle Mamme.
I suoi amici gli sono intorno, silenziosi e probabilmente già consapevoli del perché lui li abbia riuniti tutti lì: Tifah ha sicuramente raccontato loro cosa è accaduto la sera prima.
«Io non ho molti soldi da parte, ma posso darti qualcosa», esordisce Ryma: è la prima a parlare da quando si sono incontrati, la prima a rendere reale una necessità che fa vergognare Solomon. Seduta su un vecchio pneumatico impolverato, con un pezzo di stoffa rosso legato intorno al capo, lo guarda con comprensione, facendogli desiderare di appoggiare la testa sulle sue gambe ed addormentarsi cullato dal suo respiro, proprio come un bambino che ha bisogno della propria madre. «Lavorerò ancora e cercherò di guadagnare di più, così riuscirò comunque a risparmiare per Peter», continua, spostando lo sguardo su Pete.
È quello il maggiore ostacolo alla sua determinazione, la fonte dei suoi scrupoli: Solomon ha cercato qualsiasi alternativa al chiedere dei soldi ai propri amici, sia perché non se lo meritano, sia perché sono anni che lottano per mantenersi e per preservare dei soldi che prima o poi toccheranno a Peter. Peter che non è finito in carcere per stupidità, Peter che perisce sotto una maledizione che non si è cercato.
Eppure Kelvin è suo fratello e, nonostante tutto, il suo istinto più grande ed irrefrenabile è quello di salvarlo da un posto e da persone che lo distruggeranno in poco tempo, danneggiandolo ancora di più. È disposto ad annientare la propria dignità, per quanto faccia male, e a calpestare una promessa condivisa con le persone più importanti della sua vita.
«Lavorerai ancora?» interviene Tifah, incredula. Ha le braccia incrociate, lo sguardo ricco di rancore. «Passi notte e giorno piegata su quella macchina da cucire, dove troveresti il tempo? E perché dovresti trovarne dell’altro?»
«Tifah-»
«Hapana, non esiste: i tuoi soldi sono tuoi, tuoi e di Peter. Sicuramente ne avete più bisogno di Kelvin e della sua testa marcia».
Ryma non si scompone. «Esatto: quei soldi sono i miei, quindi decido io cosa farne».
L’amica è evidentemente indignata, si rivolge a Solomon. «È per questo che ci hai chiesto di incontrarci qui? Per spillarci dei soldi?»
L’accusa che traspare dalle sue parole è forte, ferisce, ma non è del tutto una calunnia. «Vi sto chiedendo un favore», ribatte Solomon, cercando di non alzare la voce: la differenza di espressione tra Ryma e Tifah non fa che rendere più aspra qualsiasi parola di quest’ultima. «Sta a voi decidere».
«Quanto ti serve?» chiede Peter, seduto a terra con le braccia attorno alle ginocchia piegate.
Una breve pausa di silenzio precede la risposta. «Quindicimila», sospira, mentre Tifah sorride nervosamente scuotendo il capo. «Ma io ne ho già intorno ai seimila ed oggi la signora Harvey mi ha anticipato lo stipendio, quindi arrivo a novemila», si affretta a precisare: gli dispiace fare i conti ad alta voce, davanti a persone che lavorano più duramente di lui e che guadagnano molto meno, solo perché non hanno nessun inglese sopra di loro.
«Non posso dartene più di duemila, Sol», esclama Ryma, amareggiata. «Ultimamente ho subito delle… Perdite, e non posso permettermi altro», aggiunge, guardandolo con una strana luce negli occhi.
«Asante», risponde Solomon, con la voce roca per l’amore fraterno e la riconoscenza che prova per quella giovane donna. «Asante sana».
Lei gli sorride dolcemente, senza parlare oltre, e per qualche istante sembra che ognuno di loro non riesca a trovare qualcosa da dire.
«Non ho soldi da darti, Sol».
È Peter: ha lo sguardo fisso in quello del suo migliore amico, Solomon non riesce a metabolizzare fino in fondo quelle parole. Non vorrebbe comportarsi in modo così egoista, ma tutti loro sanno che a volte è necessario: l’hanno sperimentato sulla propria pelle almeno una volta.
«Niente?» sussurra Solomon, corrugando la fronte.
L’altro resta immobile, non risponde.
«Non posso credere che tu non abbia nemmeno uno scellino da prestarmi», si innervosisce Solomon. «Stai risparmiando da anni e so che quei soldi ti servono, ma almeno-»
«No», lo interrompe Peter, troppo rigido rispetto alla sua indole. È strano.
«È perché si tratta di Kelvin? Non vuoi darmeli perché si tratta di lui?» prova ad indovinare, incapace di mettere in dubbio la loro amicizia.
«Forse è semplicemente perché Peter è malato?» interviene Tifah, duramente. «Chiunque terrebbe i propri risparmi per sé, se servissero per salvarsi la vita!»
«E tu credi che Kelvin non sia in pericolo là dentro?!» sbotta Solomon, arrivato al limite della pazienza. «Quanti ragazzi vengono arrestati e poi non tornano più a casa?! Cazzo, Tifah, apri gli occhi!»
«Fantastico, allora pensiamo a tirar fuori il povero Kelvin dalla prigione: e se domani Peter dovesse contrarre un’infezione, ci pensi tu a curarlo con dei soldi immaginari, ok?!»
«Non sto dicendo di darmi tutti i vostri soldi!» ribatte Solomon, gesticolando. Ha la bocca secca. «Vi sto solo chiedendo di aiutarmi!»
«E hai detto che sta a noi decidere, quindi perché non accetti la risposta che ti ha dato Peter e lasci perdere?!»
«Perché io non ho esitato a spaccarmi il culo giorno e notte per lui, lavorando senza sosta per lui, ma ora non è disposto a darmi nemmeno un centesimo!» Poi si rivolge a Peter. «Io ti ho aiutato senza battere ciglio, lo sto ancora facendo. Tu dovresti fare lo stesso».
Peter deglutisce a vuoto, è nervoso. «Non posso», ripete, prima di alzarsi ed allontanarsi a passi svelti.
Solomon ansima guardandolo andarsene via, incredulo: gli ha voltato le spalle senza alcun ripensamento e non c’è cosa che lo ferisca di più.
«Cerca di capirlo», interviene Ryma, alzandosi in piedi. «Forse è solo spaventato: darti parte dei suoi soldi, ma anche parte dei nostri, significa mettere a rischio la sua salute».
«Ma non darmeli significa mettere a rischio quella di Kelvin», ribatte Solomon. «E per quanto voi possiate disprezzarlo, lui è-»
«Tuo fratello», lo anticipa lei. «Lo so. Non è una decisione facile per nessuno di noi».
«Per te lo è stata».
«No», lo corregge, serrando la mascella. «E se domani dovesse davvero succedere qualcosa a Peter, se noi non avessimo i soldi per affrontare qualsiasi cosa sia, non me lo perdonerò mai», confessa, guardandolo seriamente per poi imitare Peter ed andarsene.
Solomon sente il peso delle proprie decisioni e dei propri bisogni occludergli la gola, rendendogli difficoltoso continuare a respirare. Quella possibilità terrorizza anche lui, ma non sa cos’altro fare, non sa a cos’altro aggrapparsi: spendere tutti i propri risparmi – compresi quelli dei suoi amici – è davvero un passo azzardato, se si tiene conto dell’imprevedibilità della malattia di Peter, ma in quel momento i rischi di Kelvin sono in qualche modo maggiori e hanno bisogno di essere dissipati al più presto possibile.
Si volta alla propria destra ed osserva Tifah, l’ultima persona che pensava sarebbe rimasta: non sa a cosa stia pensando e teme il peggio.
«Penserai sicuramente che sono un egoista-»
Ma lei lo interrompe. «Penso che non riesco a sopportare che qualcuno ti renda la vita un inferno. E che io debba persino pagargli la cauzione». Sono parole stranamente dolci, che hanno perso gran parte della rabbia che impregnava la lingua di Tifah poco prima.
«Ti sembrerà strano», osa Solomon a bassa voce, serio, «ma se mi aiuterai a pagargli la cauzione, la mia vita sarà un inferno più sopportabile».
Silenzio.
«Tafadhali».
Tifah sospira sonoramente e si passa una mano sulla fronte. «Te lo giuro, Sol. Se quello esce e non si comporta come un santo in carne ed ossa, lo uccido con le mie mani», lo minaccia, puntandogli un dito contro il petto e facendolo sorridere di riconoscenza.

 


Eccoci di nuovo qui!
- Capitolo dal punto di vista di Solomon: mi sembrava giusto farvi conoscere un po' meglio il suo stato d'animo dopo aver saputo che Kelvin si trova in prigione (luogo piuttosto rischioso, anche per la vita, come lui stesso sottolinea). La guardia ha chiesto quindicimila scellini per scarcerare Kelvin e per un ragazzo del Kenya sono davvero tantissimo soldi, tenendo conto dello stipendio e del costo della vita (sproporzionati tra loro): difatti, nonostante Solomon prenda 3000-3500 scellini al mese e stia risparmiando da anni, da parte ne ha "solo" 6000 (la signora Harvey lo paga meglio, rispetto agli altri datori di lavoro: un giardiniere non prenderebbe mai così tanto. Per questo mi sono ispirata ad una mia esperienza: ero andata da una sarta per farmi cucire tre vestiti tradizionali e lei mi aveva chiesto 1500 scellini - che per una solo commissione per lei sono un'infinità di soldi -, ma sinceramente, nonostante sapessi che stava puntando MOLTO in alto dato che ero una turista, non mi è importato più di tanto: in fondo per me erano solo 15 euro e per lei avrebbero significato tantissimo. Insomma, è tutto molto relativo, quindi anche per la signora Harvey pagarlo 35 euro al mese è una stupidaggine).
- Come sempre Solomon si trova molto a disagio a casa della signora Harvey, è un tipo molto orgoglioso, che tiene parecchio alla propria dignità: si siede a tavola sotto minaccia ed assaggia la torta solo una volta allontanatosi da casa sua. Ma gli tocca chiederle un anticipo, cosa che va a scalfire la sua fierezza. (Solomon ha la passione della danza: anche la prima volta che entra in scena, nel prologo in cui è ancora un giovanotto, balla costantemente, quindi ho voluto sottolinearlo, perché avrà una certa importanza).
- Breve momento dolcezza tra Solomon e Bahati, che ha rubato un pezzo di torta solo per farglielo assaggiare :)
- Solomon chiede soldi ad i suoi amici e so perfettamente che può sembrare - ed è - un gesto egoistico, soprattutto se si tiene conto della vita difficile che conducono e degli sforzi per risparmiare per le cure di Peter: eppure, proprio in una vita fatta di stenti, l'avere un fratello per Solomon ha tutt'altro significato di quello che potrebbe avere qui, in un contesto più agiato. Farebbe di tutto per lui, che se lo meriti o meno. Da qui anche la discussione con Tifah e con Peter: Tifah è una specie di can che abbaia ma non morde, quando si tratta dei suoi amici, perché urla, sclapita, si indegna, ma alla fine cede e li aiuta con tutto il cuore (ha fatto mille storie parlando dei soldi da prestare, ma poi ha ceduto in due minuti); Peter invece è un po' più delicato, dato che solo lui sa dell'avanzare della malattia, quindi nessuno sa che i suoi risparmi stanno già finendo. Credo si possa immaginare perché non abbia detto nulla. Egoista anche lui?
- Ryma la amo e basta hahaha È di una bontà unica, è disposta a spendere soldi sudati e guadagnati per una persona che non se li merita e che l'ha anche derubata, tutto per affetto nei confronti di Solomon. Buona ed ingenua, forse.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto: anticipo che il prossimo sarà più leggero, con un'atmosferma più tranquilla e in qualche modo dolce e spensierata :) Vi prego di farmi sapere le vostre opinioni, per favore! Mi farebbe davvero piacere.
Grazie per aver letto!


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Veronica.

 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo otto - La verità ***


Buoooongiorno!
Ricordo che il chapati è un pane tipico simile ad una piadina, mentre i pikipiki sono motociclette che molte persone affittano per fare da taxi.
La Tusker, invece, è la birra più famosa in assoluto in Kenya (in tre settimane, ovunque io sia andata, non ho mai visto altre birre): il suo simbolo è un elefante, in quanto il fratello del creatore (se non sbaglio) è stato ucciso da un elefante. Da qui il nome, che significa "chi azzanna".
 

 

Capitolo otto
La verità

 

Ryma è sdraiata a terra, con le gambe e le braccia allargate distrattamente ed il corpo accaldato vittima del sole libero da nuvole: sta sudando leggermente, ma gli occhi chiusi e la calma derivante da un mattino statico e monotono la convincono a rilassarsi ancora, senza preoccuparsi di nulla – nemmeno degli schiamazzi delle sue compagne che di tanto in tanto si fanno troppo vicini.
Pensa al viso di Solomon della sera prima, ai soldi che rappresentano il maggiore ostacolo alle proprie vite.
«Psst».
Ryma corruga la fronte, ascolta.
«Psst, Ryma!»
Riconosce la pronuncia del proprio nome caratteristica di una sola persona, quindi solleva le palpebre con l’abbozzo di un sorriso. Abdisalam è accovacciato accanto al suo volto, la osserva con gli occhi grandi e vivaci di un bambino di sette anni.
«Habari», lo saluta lei, senza muoversi dalla sua posizione.
«Mzuri», risponde lui, con il solito entusiasmo concitato: sorridendo, mostra i denti imperfetti e distanziati. Non è un bambino del Kenyatta Centre, abita in una piccola e povera casa di mattoni scoperti situata al fondo della strada, con i suoi genitori ed altri tre fratelli: passa la maggior parte del tempo al centro, forse per soddisfare la sua iperattività e divertirsi con quante più persone siano disponibili.
«Sei venuto per giocare un po’?» gli domanda Ryma, ripromettendosi di aiutarlo a lavarsi, più tardi: sia i suoi vestiti, sia la sua pelle di caffè sono imbrattati da residui di terra.
Abdisalam scuote il capo, si avvicina ancora come per raccontarle un segreto. «Sono in missione», afferma con orgoglio, alzando un sopracciglio.
«Non ti starai facendo sfruttare dagli altri ragazzi ancora una volta?» prova ad indovinare Ryma: c’è una sottile linea di confine tra l’essere altruisti e disponibili e l’essere stolti e ciechi. Abdisalam ha una bontà d’animo innata, invidiabile, e non negherebbe un favore a nessuno al mondo, nemmeno al più disgustoso essere vivente: è peggio di Peter in questo.
«Hapana, hapana», nega lui frettolosamente, mordendosi un labbro. Sembra essere piuttosto fiero del compito che gli grava sulle spalle. «Stavo cercando te».
«Me?»
Abdisalam annuisce, guardandosi intorno con fare circospetto e rendendo Ryma ancora più confusa e divertita. «C’è un signore, fuori al cancello, che ti sta aspettando: l’ho incontrato mentre venivo qui», confessa, portandosi entrambe le mani intorno alla bocca per direzionare il suono delle sue parole. È così buffo.
Ryma si mette seduta, sbattendo le palpebre. Un signore?
«Chi è?» indaga.
Il bambino sorride e si stringe nelle spalle. «Un musungu», dice lentamente, furbo.
Ryma non vorrebbe ammetterlo, ma il proprio cuore si è agitato impercettibilmente a quella notizia, forse risvegliandosi da un’attesa durata giorni: in fondo Ryan non è mai tornato a prendere il proprio pantalone ed una parte di lei non ha potuto che esserne delusa, persino amareggiata.
È tentata di sorridere speranzosa, ma evita di farlo. E se fosse Benjamin?
«Mi ha detto di dirti che, hm… Ah sì!» continua Abdisalam. «Mi ha detto di dirti che hai i suoi pantaloni», aggiunge, alzando ed abbassando le sopracciglia con fare malizioso.
Ryma si sente avvampare per il fraintendimento. «Non è come pensi, è un mio cliente», si affretta a precisare, nascondendo il sollievo e l’emozione: è Ryan, è lui. «E poi tu cosa sai di queste cose?»
Il ragazzino ignora la sua domanda e «È un soldato?» domanda, avido di informazioni. «Se è un soldato posso chiederti un favore? La prossima volta fallo venire con una pistola: voglio vederla. Lo farai? Sembra proprio un soldato».
Lei sorride e scuote la testa, alzandosi in piedi. «Vai a giocare con gli altri», lo invita. «E grazie per il messaggio».
Abdisalam annuisce soddisfatto, forse aggrappandosi al fatto di non aver ricevuto un rifiuto in risposta, e si allontana correndo velocemente. Ryma si guarda intorno, temendo stupidamente che qualcuno possa spiare l’agitazione che la sta scuotendo: non pensava si sarebbe sentita in questo modo.
Si sistema la gonna lunga realizzata con una stoffa caratteristica dai colori caldi e vivaci, si pulisce la t-shirt di un rosa pallido e si passa una mano sul capo rasato da poco: dovrebbe andarsi a cambiare? Cercare qualcosa di… Migliore da indossare? Dovrebbe almeno farsi una doccia! Ma non ha tempo, anzi, è lei a non volerne perdere: vuole solo oltrepassare quel cancello e rivedere Ryan.
 
La sta aspettando a pochi passi dall’entrata del Kenyatta Centre: ha le braccia nude incrociate sul petto, chiacchiera allegramente con un uomo ancora a cavallo del suo pikipiki blu notte.
Ryma è felice di avere pochi secondi a disposizione, prima che lui si accorga del suo arrivo: ne approfitta per osservarlo, per riappropriarsi di particolari che nella sua memoria si erano sbiaditi leggermente. Le piace il suo corpo snello e tonico, ne è attratta.
«Ah, eccoti!» la saluta Ryan, voltandosi allo scricchiolare di un bastoncino sotto i piedi di Ryma. «Sei venuta», conviene, sorridendo apertamente.
Lei sorride di rimando, chinando leggermente il capo. «Habari», esclama a bassa voce, rivolta anche all’uomo accanto a loro.
Ryan è inglese e si dimentica di rispondere correttamente. «Come stai?»
«Mzuri, asante sana».
Le tornano in mente le parole di Peter: “Quando sei agitata o imbarazzata parli in Swahili più del solito: lo sai, vero?”. Si schiarisce la voce e cerca di darsi un contegno, anche se Ryan non la conosce abbastanza bene per poter notare qualcosa del genere.
«I tuoi pantaloni», dice velocemente, porgendoglieli nella busta in cui lui li aveva trasportati. Si chiede perché non sia entrato nel centro, per reclamarli, ma può già indovinare la risposta: durante il loro ultimo incontro sono stati controllati più assiduamente di qualsiasi carcerato al mondo, e la cosa non deve averlo messo molto a suo agio.
«Grazie mille», esclama Ryan, senza controllare il risultato e sfiorandole distrattamente le dita.
Ryma trattiene il fiato.
«Quanto ti devo?»
«Cento scellini».
Ryan assume un’espressione stranita. «Fai pagare così poco il tuo lavoro?» le domanda con un sorriso incredulo, mentre recupera il portafoglio dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni.
Lui non se ne rende conto, ma cento scellini non sono pochi.
«Tieni: considerali un’ammenda per il mio ritardo», continua, porgendole trecento scellini.
Ryma corruga la fronte, non è disposta ad accettarli: le farebbero comodo, ed anche molto, ma non vuole apparire così disperata, né la sua onestà le permette di accettare più di quanto meriti. Inoltre, nonostante le strane emozioni che Ryan riesce a scatenare in lei e nonostante il suo sguardo sia accogliente, non ha ancora ottenuto la sua piena fiducia: potrebbe essere esattamente come Benjamin, pronto a pagarla per un bacio.
«No», replica Ryma, fermamente. «Solo cento».
«Andiamo, accettali», insiste lui, sorridendo ancora, sorridendo sempre.
Il solido silenzio che riceve in risposta lo convince a non spingersi oltre: sospira, grattandosi il capo, e le consegna la somma richiesta.
Ryma lo ringrazia quasi sussurrando, felice di aver resistito alla tentazione ed allo stesso tempo pentita della propria determinazione: in fondo quei soldi le servono, rifiutarli non è semplice.
«Hai da fare adesso?» le chiede Ryan, riscuotendola dai suoi pensieri.
«No», risponde lei: è il suo giorno libero, o almeno quello che più gli somiglia. «Perché?»
«Bene», esclama lui, annuendo soddisfatto. «Allora vieni con me. Ti va?»
Ryma sbatte le palpebre più volte, confusa. «Dove?» chiede, senza riuscire a nascondere un vago sorriso. L’entusiasmo incessante di Ryan è contagioso.
«È quasi ora di pranzo, no? Ti offro qualcosa da mangiare».
A Nayuri ci sono posti e posti in cui mangiare: è impossibile che Ryan conosca quelli frequentati dalle persone come Ryma, che non possono permettersi di sprecare soldi per un pranzo. Sicuramente ha intenzione di portarla in un ristorante conosciuto tra i suoi commilitoni, un luogo per turisti, per inglesi. Un luogo costoso.
Ryma ha appena rifiutato duecento scellini di mancia: con che faccia tosta potrebbe accettare un intero pranzo a suo spese, nemmeno due minuti dopo?
«Non posso», mormora, guardandolo negli occhi. Ora capisce il perché del pikipiki lì accanto, in attesa.
«Perché? Hai detto che sei libera: non devi lavorare, giusto?» indaga Ryan.
«No, non devo lavorare, ma-»
«Non fare complimenti, è solo un pranzo».
«Un pranzo che probabilmente non posso permettermi», ammette a bassa voce, imbarazzata da quella verità.
«Infatti sono io a dovermelo permettere», sorride Ryan, parlando lentamente: qualcosa nel suo tono somiglia ad un tentativo di conforto. «Non è carino rifiutare un regalo», insiste.
Ryma sostiene il suo sguardo per una manciata di secondi, si maledice e poi maledice la sua pelle chiara così rassicurante. «Va bene», concede, sospirando piano. «Ma il pikipiki lo pago io», precisa, dopo aver contato mentalmente i soldi che porta con sé, incastrati tra il proprio addome e l’orlo superiore della gonna.
Ryan le regala un sorriso ampio, la invita a salire sulla moto con un gesto galante della mano.
Lei prende posto dietro il guidatore, sedendosi con le gambe penzoloni dallo stesso lato a causa della gonna e tenendosi saldamente al sellino: l’uomo davanti a sé puzza di sudore. Ryan la raggiunge subito dopo, appesantendo la motocicletta e riponendo la busta con i suoi pantaloni tra i loro corpi.
Quando il pikipiki inizia il suo percorso Ryma alza il viso verso quello di Ryan, che le rivolge una piccola smorfia per poi sorridere con lei. «Tieniti forte», le raccomanda, mentre è lui a posare una mano sulla sua schiena.
 
Ryma non conosce il ristorante scelto da Ryan: è leggermente fuori città, incastrato tra campi rigogliosi ed altri più aridi. È piuttosto caratteristico, forse è persino una meta turistica: si sviluppa su un pavimento in legno tra alti alberi secolari, che con le loro fronde ampie fanno da tetto al posto poco frequentato. Sparsi tra i tavoli massicci, ci sono cartelli che vietano di dar da mangiare alle scimmie e scimmie che siedono su quegli stessi cartelli come a prendersene gioco. Attorno al centro del ristorante, ci sono vasche molto grandi per l’allevamento di trote, che con tutta probabilità vengono cucinate quando necessario, e un piccolo ruscello che vi passa attraverso.
Ryma sta seduta con la schiena dritta, guardandosi intorno incantata e cercando qualsiasi particolare su cui non abbia ancora posato gli occhi: si sente vagamente a disagio nel trovarsi in un luogo che teoricamente non fa per lei, ma è anche soddisfatta dalla piccola rivincita che è riuscita a prendersi contro il proprio destino.
Tifah la invidierebbe.
«Sicura di non volere altro?» ripete Ryan, appoggiando i gomiti sul tavolo in legno, situato proprio accanto ad un robusto tronco d’albero.
«L’acqua va bene», conferma lei, annuendo con l’ombra di un sorriso.
«Come vuoi», sospira lui, sistemando davanti a sé la tovaglietta in carta color ocra: se Ryma si sofferma sulle sue mani, non riesce a pensare ad altro oltre il modo in cui l’hanno accarezzata durante il viaggio in pikipiki.
«Sei già venuto qui prima?» gli domanda, solo per distrarsi e non rabbrividire.
«Sì, una volta: appena arrivato a Nayuri, nemmeno un mese fa, alcuni miei colleghi mi hanno fatto conoscere questo posto. Tu?»
Ryma scuote il capo. «Non sapevo esistesse», ammette, stringendosi nelle spalle e abbozzando una risata imbarazzata.
«Be’, direi che abbiamo rimediato», sorride lui, prima che una cameriera porti loro le prime ordinazioni: Ryan prende subito un sorso dalla sua Tusker.
«Ryan?»
«Hm?»
«Quanti anni hai?»
Lui sorride. «Ventuno. E tu?»
«Diciotto».
«Davvero? Pensavo avessi la mia età, mi hai ingannato», scherza Ryan, assottigliando lo sguardo.
Ryma esita. «Non va bene?»
Cosa? Avere diciotto anni?
Idiota, si dice.
Lui ride silenziosamente. «Non cambia molto: mi piace lo stesso passare del tempo con te», ammette, con una tranquillità sconcertante. Ryma invece avvampa, sentendosi lusingata in modo infantile: dovrebbe osare e rispondere qualcosa di rimando? Oppure è meglio di no?
China il capo, beve un sorso d’acqua fredda.
«Hey, così mi offendi», esclama Ryan, corrugando la fronte e senza riuscire a sembrare serio. «Che ne è del “anche a me piace passare del tempo con te”?»
Ryma non riesce a trattenere una risata, scatenata dalla sua espressione imbronciata e dal proprio imbarazzo, ma non è in grado di ammettere quello che lui vorrebbe sentirsi dire. Per paura o per timidezza. «Perché lo fai?» domanda invece, dopo una manciata di secondi. «Perché continui a cercarmi?»
Ryan si inumidisce le labbra, respira piano. «Perché non dovrei?» ribatte, più serio. «Ti sembra così strano che qualcuno possa essere interessato a te? O è strano perché sono un soldato inglese?»
Il discorso si è appena fatto più cupo.
«Posso essere sincera?» domanda piano, quasi retoricamente.
«Devi».
Ryma inspira a fondo. «È vero, non posso negare di non sentirmi migliore di molte ragazze di Nayuri che potrebbero interessarti più di me, ma… Non è questo. E non c’entra nemmeno il tuo Paese di origine o il tuo lavoro», fa una pausa. «Benjamin è tuo amico, tu sai quello che ha fatto e gli hai chiesto di me: come posso essere sicura che tu non abbia le stesse intenzioni?»
«Oltre a questo, oltre al conoscere Benjamin, cosa ti fa pensare che io voglia pagarti per ottenere qualcosa?» Ryan non è infastidito, sembra più ferito da una tale accusa, forse dispiaciuto.
«Nemmeno lui mi ha mai fatto sospettare qualcosa. Eppure guarda come è finita», sussurra Ryma, abbassando lo sguardo. È difficile fidarsi, vorrebbe che fosse più facile o vorrebbe almeno essere più spericolata ed incosciente.
«Allora immagino che dovrò dimostrarti che di me ti puoi fidare», continua Ryan, senza riuscire a catturare il suo sguardo.
Lei non risponde, resta immobile sulla sedia, improvvisamente più insicura: ci sono momenti in cui ha l’impressione di conoscere Ryan da sempre, di poter osare in sua presenza senza correre alcun rischio, ma basta un istante di pensieri appena più negativi e quell’intera apparenza si disintegra velocemente.
«Vuoi sapere la verità?»
Ryma alza il capo, stupita. Fissa gli occhi in quelli di un verde pallido che le stanno di fronte, forse li prega silenziosamente di non mentire.
«Benjamin mi parlava di te, di tanto in tanto. È vero. Sapevo che gli piacevi, anche se non avrei immaginato che avesse intenzione di pagarti. E sapevo dei vostri incontri, piccole curiosità che lui ci teneva a dirmi: insomma, solite chiacchiere tra amici», ammette, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Ma non sono state le sue parole ed i suoi racconti ad incuriosirmi».
Ryma respira lentamente, immaginando quello che sta ascoltando e sforzandosi di essere il più razionale possibile.
«È stata la tua amica, Tifah», continua Ryan.
Lei trattiene il fiato: il volto furbo di Tifah le balza in mente, insieme a tutta la sua energia e a tutta la vita che si porta addosso, riflessa nei suoi occhi intrepidi. Il suo nome è già abbastanza per renderla più tranquilla.
«Quando è venuta a cercare Benjamin…» Ryan si interrompe per sorridere e scuotere il capo. «Sembrava una furia: non ho mai visto qualcuno essere così determinato e spaventoso. Avresti dovuto vederla: ci mancava poco e avrebbe preso a pugni chiunque le fosse capitato a tiro, compreso me».
Ryma può immaginare la scena, le viene quasi da sorridere.
«E in quel momento ho pensato: che persona deve essere, questa Ryma, per avere qualcuno che la difende in questo modo, senza alcuna esitazione? Ero curioso di conoscerti, curioso di conoscere le qualità che avevano reso Tifah una macchina da guerra. Per questo ho chiesto a Benjamin dove avrei potuto trovarti: non voglio pagarti per un bacio, né per altro».
A Ryma viene da piangere: sente gli occhi bruciare per lo sforzo di non bagnarsi, la gola secca e la mani strette attorno al tessuto della propria gonna, sotto al tavolo. Il pensiero di Tifah la fa commuovere, il pensiero che il suo impeto sia stato così forte da spingere qualcuno a cercarla e conoscerla le fa tremare le gambe: vorrebbe abbracciarla, stringerla forte per un amore incondizionato, e poi vorrebbe abbracciare e ringraziare Ryan per quelle parole, per la sua presenza.
«Non piangere», mormora lui, allungando una mano per raccogliere una lacrima discreta che le sta per scivolare su una guancia.
Ryma tira su con il naso, si asciuga gli occhi con il dorso di una mano e cerca di nascondersi dietro un sorriso a labbra chiuse. «Io non… Tifah è fatta così, non dipende da me o dalle mie qualità».
«Puoi smettere di sminuirti?» la rimprovera Ryan, bonariamente. «Lascia che sia io a deciderlo, ok?»
Lei lo guarda negli occhi, con la bocca schiusa ed il cuore spalancato.
La cameriera li interrompe con la portata principale.
Entrambi si riscuotono silenziosamente, approfittandone per ricomporsi o forse per cercare qualcosa da dire. Ryma cerca di concentrarsi sulla pentola rovente sulla quale sono posati spiedini di carne e verdure, mantenuti caldi da un braciere alla base di tutto, mite e nascosto. Compone il proprio piatto aggiungendo del chapati, posato lì accanto e ancora tiepido: è quasi uno scherzo il fatto che ciò che mangia a giorni alterni da tutta la vita ora sia parte di un pranzo in un così raffinato ristorante.
«Buon appetito», esclama Ryan, guardandola gentilmente.
Lei annuisce. «Buon appetito».
 
«Ok, quindi lala salame vuol dire buonanotte e-»
Ryma lo interrompe con una risata, scendendo dal pikipiki dopo di lui. «Lala salama».
«Sì, giusto», afferma Ryan, assumendo un’espressione pensierosa. «KwaKwa…»
«Kwa heri», lo corregge, scuotendo il capo e pagando il proprietario del pikipiki, che aspetta per riportare Ryan alla base militare.
«Significa arrivederci», continua lui, intento a memorizzare il maggior numero di espressioni possibile. «Non capisco…»
«Sielewi».
«Cosa?»
«Sielewi significa “non capisco”».
Ryan ride spensierato e «No», la corregge, «volevo dire che non capisco come mai la mia memoria faccia così schifo».
«Ah…» Ryma ride insieme a lui, consapevole del fraintendimento.
Quando i loro visi si rilassano in un sorriso che non vuole scomparire, entrambi restano in silenzio: forse Ryan non ha più traduzioni da imparare o forse hanno semplicemente perso la loro priorità, perché lui si avvicina a Ryma lentamente, osservandola con attenzione. Lei non si sente più così a disagio: il pranzo è trascorso fin troppo velocemente, con tante parole a decorarlo ed altrettanti sorrisi ad abbellirlo, fino a rendere la presenza di quell’esuberante inglese una cosa normale.
Ryma ha deciso di dargli fiducia, vuole almeno provarci.
«Devo tornare alla base», esclama Ryan, abbassando la voce.
«Sì», risponde lei, stupidamente.
«Ci vediamo presto».
«Sì», ripete.
Ryan accenna una risata. «Già», esclama lentamente, distratto da qualcosa sul suo viso, dai suoi occhi.
Ryma si ritrova a sbattere le palpebre come per impedirgli di leggere qualcosa nelle proprie iridi scure. «Kwa heri», mormora dolcemente.
«Kwa heri», risponde lui, sfiorandole il naso con la punta dell’indice, in un tenero dispetto.
Se la pelle di Ryma non fosse così scura, le sue guance si tingerebbero sicuramente di un rosso accesso, intenso come la voglia di farsi sfiorare ancora.
Lo guarda allontanarsi, imprimendo nella propria memoria la forma delle sue spalle, e resta immobile fino a quando il pikipiki non svolta dietro un angolo, scomparendo alla sua vista. Si sente così felice, da aver bisogno di pregare e ringraziare Dio.
 
 
 
Intorno alle sei di sera, quando Tifah ritorna dalle sue dieci ore di lavoro china su un campo arato, Ryma la sta aspettando nella loro stanza del dormitorio.
«Chiunque venga a disturbarmi ne pagherà care le conseguenze», borbotta Tifah, buttandosi sul proprio letto cigolante e sospirando sonoramente.
Ryma recupera un cambio di vestiti da porgerle, delle infradito da indossare al posto delle scarpe pesanti e vecchie che le rovinano i piedi: le avvicina tutto l’occorrente al letto.
«Perché sei così gentile?» domanda Tifah, spiandola dal cuscino in cui ha sprofondato il viso. «Guarda che ho già dato i miei soldi a Solomon, non hai bisogno di convincermi con questi giochetti».
Ryma sorride apertamente, sedendosi accanto al letto. «Non sto cercando di corromperti», precisa. «E a proposito, sono felice che tu lo stia aiutando».
L’altra borbotta un «Sì, certo» orgoglioso, voltandosi dall’altra parte.
«Tifah?»
«Che c’è?»
«Tu sei mia sorella».
Tifah torna a guardarla, muovendosi lentamente. Appoggia il viso sul cuscino, stringendolo tra le braccia, e sorride con affetto scoprendo i denti bianchissimi. «La più bella», scherza, facendola ridere.

 


Ciao di nuovo :)
Stavolta sono stata più puntuale e spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto!
- Il piccolo Abdisalam è un tributo al reale Abdisalam, un angioletto meraviglioso che spero sia risultato simpatico anche nella storia.
- Finalmente ritorna Ryan!! Non vedevo l'ora di scrivere di nuovo di lui e Ryma. Ritornando al discorso "per gli europei lo stipendio di un keniota è molto basso" si può capire perché Ryan voglia pagare di più il lavoro di Ryma, per il quale lei ha praticamente chiesto un euro. Ovviamente lei rifiuta, perché si tratta comunque di Ryma, ma non riesce a fare lo stesso con il pranzo che le viene offerto, cadendo anche in una piccola contraddizione (cerchiamo di capirla, piccolina infatuata hahah).
- Non potevo lasciare che Ryma si fidasse troppo tranquillamente di un altro soldato inglese, quindi ho voluto mettere in chiaro le cose sin da subito: da qui la spiegazione di Ryan, che finalmente ci svela perché sia andato a cercare proprio Ryma, tra tutte le sarte, e perché abbia chiesto a Benjamin di lei. Ovviamente le sue parole sono ancora da dimostrare, ma è comunque un inizio: Ryma si commuove addirittura pensando a Tifah e a quello che ha provocato in Ryan con il suo comportamento. Si tratta di un affetto molto forte, indescrivibile: ha fatto piangere anche me ahahaha Ma io sono di parte, perché conosco la vera Ryma e per lei farei lo stesso che ha fatto Tifah, quindi spero di essere riuscita  trasmettere almeno una parte di quello che volevo.
- E insomma: cosa pensate di questi due? Credete che potranno diventare una coppia? Ryan è sincero? Hanno un futuro?
- Piccolo momento tenerezza tra Ryma e Tifah: ci voleva, dovevo inserirlo, è stato più forte di me.
Mi pare di non avere più niente da dire, quindi smetto di blaterare: vi chiedo di farmi sapere le vostre opinioni, soprattutto perché ultimamente si sono ridotte, quindi ho paura di star sbagliando qualcosa. Che siano complimenti o critiche (soprattutto), è meglio venirne a conoscenza :)
Grazie di tutto!


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Veronica.

 
 

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