Storms Are Brewin' In Your Eyes

di White Trash
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

 

«Tom, per favore, puoi accogliere le ragazze dell’appuntamento 17: 30?»
 Quel giorno fu per Tom uno di quei giorni strani, che non si sarebbero dimenticati molto facilmente.
Compiuta la maggiore età aveva lasciato la scuola per seguire il corso da piercer e tatuatore, arrivando a lavorare presso uno dei migliori tatuatori di Berlino, nonché suo amico, che gli aveva svelato ed insegnato tutto ciò che c'era da sapere sul mestiere.
Sua madre non approvava, ma anche lei, dopo un po’, si era arresa alla realtà dei fatti. Dopotutto, quale medico si presenterebbe in sala operatoria in rasta e piercing?
Insomma, il suo look era adatto in tutto e per tutto all’ambientazione e al tipo di posto di lavoro.
 «Agli ordini, capo!»
Disse Tom, finendo di disinfettare gli strumenti, dando una breve occhiata ai quadri futuristici appesi al muro, prima di uscire dallo studio e accogliere le ragazze dell’appuntamento.
 «Un'altra farfalla, un altro cuore, un'altra stellina sulla spalla», pensò Tom alzando gli occhi al cielo, mentre si concedeva una sigaretta, giocherellando con i bordi della sua maglietta nera attillata.
 In soli 18 anni di vita ne aveva passate tante: tra sospensioni, un'espulsione, una pseudo denuncia avevano fatto sì che la sua reputazione fosse…negativamente alta.
Lui era il cattivo, il duro, colui che insultava e molestava i più deboli per divertimento, per puro divertimento. Lui scopava, lui non si innamorava, lui era semplicemente…Tom Kaulitz.
 Aveva conosciuto il suo capo, Andreas, durante una festa privata a Berlino. I due inizialmente si odiavano a morte per decidere chi dei due dovesse essere il “maschio dominante”, ma alla fine giunsero a un amichevole compromesso, dividendosi tutte le ragazze della festa.
Da lì cominciarono a frequentarsi, fino a quando Andreas, scoperta la passione di Tom per il disegno, non lo esortò a seguire un corso per diventare piercer e tatuatore.
Ed eccolo lì, misterioso e indifferente, mentre lasciava entrare le due ragazze dell’appuntamento nello studio, non curandosi delle loro risatine stridule, segno che fosse l'emozione del loro primo tatuaggio.
 «Che lo show abbia inizio», disse in uno sbuffo di fumo, spegnendo con un piede il mozzicone di sigaretta, spiaccicandolo al suolo con forza esagerata.
 Entrambe le ragazze, Klaudia e Lena, se non ricordava male, avevano prenotato un tatuaggio di un'aquila alla zona lombare esageratamente ridicolo, agli occhi di Tom, e assolutamente, schifosamente abituale, noioso.
Amava i tatuaggi intricati, con dei significati veri, profondi. Cosa poteva rappresentare un uccello tatuato quasi sul culo di una ragazza? Tom lo sapeva e ridacchiò al pensiero, alzando gli occhi al cielo non appena una di quelle, forse Lena, aveva cominciato a sbiancare nel momento in cui Andreas cominciava a disinfettarle la pelle.
 Non aveva affatto voglia di assistere, perciò fece per uscire, ma venne bloccato prima che potesse chiudersi la porta alle spalle.
 «Hey, Tom?» disse Andreas, mentre preparava una soluzione di acqua e zucchero alla ragazza, che era già in una fase di pre-svenimento.
 Tom lo guardò con aria mista fra il divertito e l'esasperato, ma non disse nulla, aspettò che l'amico continuasse a parlare.
 «Il prossimo appuntamento è tuo, buona fortuna!», gli fece l'occhiolino il biondo, mentre cominciava a tatuare la pelle della ragazza, che evidentemente, non era Lena, ma Klaudia.
 Tom si limitò ad annuire e uscì, andando a controllare il tatuaggio dell'appuntamento successivo.
 Si avvicinò alla scrivania di Andreas, recuperando da una cartella gli appuntamenti e scorse velocemente l'orario, fino a posare gli occhi sul cognome Trümper.
Trümper Bill.
Un tatuaggio interessante gli si parò davanti e Tom non potè fare a meno di alzare un sopracciglio e di sedersi contro lo spigolo della scrivania: era una scritta in corsivo, con attorno una catena che, alla fine della parola, ad un certo punto, si spezzava.
 
I'll never live in chains”.
 
«Non male», pensò Tom, annuendo inconsciamente, mentre posava la cartella. Intanto il chiacchiericcio dallo studio aumentava ed il rasta potè constatare che la ragazza, che no, non era Lena, non sopportava molto la macchina per i tatuaggi.
Lanciò uno sguardo all’orologio, che segnava le 17: 49. L'appuntamento era alle 18 in punto, perciò, se avesse fatto presto, avrebbe potuto concedersi una birra. Uscì prima di poterci ripensare e in meno di due minuti era già seduto al bancone, mentre ordinava una birra alla spina, che tracannò in pochi minuti.
Si leccò le labbra guardandosi attorno e le uniche persone che vide furono alcuni turisti asiatici che parlottavano tra di loro, in una lingua a Tom ovviamente incomprensibile. Scrollò annoiato le spalle e riprese a bere, mentre lasciava sul bancone conto e mancia al barman dai capelli rasati ed il fisico estremamente palestrato.
 «Uh, oh, guardate chi c’è!»
Nell’arco di due secondi il rasta si sentì spiaccicato contro il bancone da due figure semi nascoste dalla luce soffusa del locale, ma non gli ci volle molto a capire chi fossero i due assalitori.
 «Georg, Gustav, cosa cazzo ci fate voi qui?» disse con poche cerimonie Tom, ma lasciandosi scappare un sorrisetto divertito, mentre ricambiava impacciato gli abbracci degli amici.
Fu Georg a parlare. «Eravamo qui per caso, sai… Si sente la tua mancanza a scuola! Anche se devo ammettere, Kaulitz, ti invidio. Sei sulla bocca di tutti nonostante tu ti sia ritirato da un bel po’ di tempo. Hai il mio rispetto, amico»
E detto questo, Tom incassò una seconda pacca sulla spalla da parte di Georg.
 I tre continuarono a parlare, mentre Tom aveva ordinato un'altra birra, con i soldi della mancia che, purtroppo per il barman, non avrebbe più ricevuto.
 Fu solo dopo una ventina di minuti che Tom sentì il telefono squillare e un Andreas rabbioso abbaiare dall’altro capo: «Dove diavolo sei, testa di cazzo? Qui c’è l’appuntamento delle 18 e a quanto pare abbiamo dei clienti piuttosto rompi palle! Porta il tuo fottutissimo culo nello studio entro 3… 2…»
L'appuntamento, lo aveva completamente dimenticato! Lo aveva detto lui che quella non sarebbe stata una buona giornata.
Si alzò e chiuse il telefono prima che Andreas potesse finire di contare e, senza nemmeno salutare i due amici, che effettivamente lo guardarono allibiti, scappò fuori dal locale, volando, letteralmente, verso lo studio.
Arrivò trafelato, sbattendo quasi la porta, e sbattendo, a sua volta, contro la schiena dell'ipotetico cliente, che, dopo aver messo a fuoco, scoprì essere due.
 

«Finalmente!» Esordì Andreas, lanciando al rasta un'occhiata di fuoco.
 Quest'ultimo si limitò ad entrare nello studio vero e proprio, per evitare di spaccare la faccia al suo capo. Era suo amico, ma certe volte era così fottutamente esagerato, cazzo!
 Non si curò nemmeno di salutare i clienti, né di preoccuparsi di spiegare loro determinate cose, o di rispondere a delle eventuali domande. No, si limitò solo a sedersi sullo sgabello e ad aspettare.
Fu solo quando alzò lo sguardo che vide, seduto a pochissima distanza da sé, un ragazzo magro, dalla pelle chiarissima e dei lunghi capelli neri, estremamente profumati e lisci.
Le sue ciglia erano lunghe, i suoi occhi truccati, le labbra di poco schiuse e lo sguardo annoiato e basso, quasi come se non si fosse accorto di lui.
 Fu solo quando l'uomo accanto a lui tossì, che Tom si riprese del tutto.
 «Salve», esordì l'accompagnatore del moro che si era limitato ad alzare lo sguardo verso Tom, ma che subito riabbassò, limitandosi ad incrociare le braccia al petto, borbottando un saluto o qualcosa di simile.
 «Io sono Gordon, il padre di Bill.»
«Mio figlio», aggiunse, «ha una tale fissazione per i tatuaggi, per i piercings… Perciò non è una novità che io sia qui, essendo minorenne. Sai già il posto e il disegno, giusto?»
 Tom scosse la testa, indicando Bill. Se il tatuaggio era suo, perché cazzo parlava suo padre?
E poi, quel ragazzo era minorenne? Sembrava più grande e, cazzo, perché non lo stava guardando?
 «Ehi, stronzo», pensò Tom con un ghigno. «Potrei anche tatuarti un pene; mi spiace solo che verrei licenziato, altrimenti lo farei!»
Il moro, che sembrava impegnato ad ignorare Tom, in effetti, era estremamente femminile e Tom di certo non era il tipo che andava a favore degli omosessuali. Tutte persone da prendere in giro, per lui.
 Si mosse sbuffando dal naso, mentre sistemava lo sgabello, puntando gli occhi su Gordon, che alzò un sopracciglio.
 «Signore, sono a conoscenza del tatuaggio e della dimensione, ma non del posto, credo potrebbe dirmelo anche suo figlio, vero?»
Stava per continuare, quando una voce cristallina fece voltare entrambi.
 Il moro alzò il braccio sinistro, che scoprì, porgendolo a Tom. Lo guardò solo per pochi secondi, ma poi abbassò di nuovo lo sguardo, quasi innervosito.
 «Lo voglio qui», disse «Qui, all’interno del braccio».
La sua voce era lieve, quasi eterea e, notò Tom, estremamente inquietante, oltre che palesemente da gay.
«Perfetto», annuì il rasta, schiarendosi la voce mentre preparava la macchina.
«Signor Trümper, ha firmato il documento per suo figlio, in nome di tutore?»
Alla risposta affermativa di Gordon, Tom cominciò la sua opera d'arte.
 Se non fosse per il tatuaggio piuttosto interessante, di certo avrebbe mandato a fanculo Andreas, si sarebbe inventato un attacco di diarrea e sarebbe ritornato a casa a giocare ai videogames, che lo rilassavano parecchio, anche se preferiva tenersi quell’hobby per sé.
 Il moro tenne lo sguardo basso per tutta la durata del tatuaggio, cosa che fece imbestialire Tom ancora di più.
Gli chiese per rompere il ghiaccio il significato del tatuaggio e, in risposta ricevette solo una scrollata di spalle, gesto che lui stesso faceva abitualmente, anche mille volte al giorno. Non pensava che quel gesto fosse così irritante, però.
 Abbassò lo sguardo e notò le unghie laccate, gli anelli alle dita, il piercing al sopracciglio e gli venne da ghignare. Trasgressiva, la checca timida.
 Quest'ultimo non fece una piega quando Tom gli pulì il tatuaggio e si alzò dallo sgabello, provocando di proposito rumore.
Anche se il risultato che ebbe fu quello sperato, dato che il moro, al fracasso causato dallo sgabello, trasalì di colpo, guardandosi attorno con fare disinteressato e, subito dopo guardarsi il braccio, o meglio… Un punto del braccio, come se non gli interessasse tutto il tatuaggio.
 «Cazzo di problemi hai, amico?» pensò Tom, mentre usciva dallo studio, seguito dopo poco da Gordon ed il moro che, scoprì Tom, si chiamava Bill.
 
 
 
«Sono 80 euro, signor Trümper»
Fu solo dopo che l’uomo tirò fuori i soldi dal portafogli, che Tom si fermò di colpo, puntando lo sguardo a Bill.
 «Hey, amico, vuoi vedere il tatuaggio allo specchio? Ho visto che non riuscivi a voltare il braccio. Uh, vieni?»
Afferrò senza pensarci il polso al moro che, con una forza che non si sarebbe aspettato da un tale mingherlino come lui, lo trattenne.
 «No!!», sputò stizzito.
Quel ragazzino lo stava facendo incazzare maledettamente e nessuno diceva di no a Tom Kaulitz.
Ok, fosse stato un altro cliente se ne sarebbe fregato, ma quel tizio gli dava seriamente sui nervi!
 Lo trascinò a forza, nonostante le lamentele continue di Bill e di suo padre che continuava a ripetere una frase che Tom non riuscì a capire, perché era già entrato nello studio ed aveva piazzato Bill davanti allo specchio.
 «Cazzo, non fare così, ti sto facendo un favore!» disse Tom, aprendo le braccia, per evidenziare l’ovvietà del suo gesto.
Il moro però non si mosse e finse di guardarsi il tatuaggio, poi si voltò, guardandosi attorno, alla ricerca del padre.
 «La pianti? Non lo hai visto, ti sei guardato la mano!» Sbottò Tom, sbuffando. «E poi, diavolo, guardami in faccia quando ti parlo!»
Bill si fermò, quasi paralizzato e, con una lentezza inquietante, si voltò lentamente verso il rasta, gli occhi semi ricoperti dalla frangia.
«Sono cieco, razza di coglione».

 

 

 

 

Note Finali

Salve a tutti! Ho deciso di riproporre questa storia sul mio nuovo account, dato che sto avendo dei piccoli problemini con quest’ultimo. Tanto per cambiare, aggiungerei!

Proprio per questo motivo aggiornerò qui, cercando di essere più presente!

Non mi rimane che augurarvi buona lettura!

 

 

White Trash

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 

Bill si fermò, quasi paralizzato e, con una lentezza inquietante, si voltò lentamente verso il rasta, gli occhi semi coperti dalla frangia.

«Sono cieco, razza di coglione».

 

Quella frase rimbombava nella testa di Tom da ore ormai. Persino la ramanzina del signor Trumper o quella di Andreas non gli provocò nessun tipo di effetto.

Aveva fatto una abnorme figura di merda, anche se…

Perchè farsi un tatuaggio se si è ciechi? Tom non lo capiva, chi aveva scelto il colore, la grandezza, il modo in cui la catena doveva spezzarsi, il punto preciso, come cazzo faceva quel tipo se non vedeva niente?

 

Il rasta si prese la testa fra le mani, cercando di scacciare via tutte quelle domande che, sapeva, non avrebbero mai avuto risposta.

Si trovava nel salone di casa sua, seduto sul divano. In TV trasmettevano un vecchio film di fantascienza e tutto ciò che vedeva, leggeva, sentiva, gli ricordava quello strano tizio truccato e suo padre, ma, soprattutto, l’enorme figuraccia che aveva fatto!

In effetti, ora si spiegava perché il moro non lo guardasse mai negli occhi, capiva perché aveva perennemente lo sguardo abbassato, anche se il suo modo di muoversi era sciolto e, apparentemente, Tom non aveva notato assolutamente niente di anomalo, nei suoi occhi. Anche se, ricordò, non li aveva visti affatto.

Li abbassava troppo velocemente, quasi vergognandosi di mostrarli, eppure Tom stava cominciando a covare una curiosità morbosa verso quell’essere umano.

Cosa strana per lui che era conosciuto proprio per la sua cattiveria verso questi individui.

Quando Bill gli aveva sputato in faccia quelle parole, Tom non potè fare altro che sgranare gli occhi e balbettare una serie di patetiche scuse al ragazzo e al padre che, nel frattempo, si era avvicinato al figlio con fare protettivo.

Per un istante, Tom aveva perso quella perenne espressione da duro che lo caratterizzava e, a dirla tutta, ringraziò che il tizio truccato non potè vederlo, non potè vedere quando, con una frase, tutto il suo essere macho si fu dileguato in quel momento.

Ad ogni modo il tatuaggio era finito, perciò non avrebbe mai più rivisto quello strambone. Tirò un sospiro di sollievo e, sentendosi enormemente stanco, si lasciò ricadere sul divano.

 

*
  

«Bill, tesoro, è pronta la cena!»

Il tatuaggio non gli faceva più male, era un fastidio sopportabile ed il braccio non era più arrossato. Stava applicando la crema che quel tizio gli aveva prescritto, quando si soffermò a rimuginare al giorno prima.

Era abituato a vivere certe esperienze e a ricevere scuse su scuse quando qualcuno, dopo anche un’ intera serata, si rendeva conto che il moro fosse cieco. Questo perché i suoi occhi erano perennemente nascosti dalla frangia, questo perché in compagnia camminava a contatto di gomito o mano con qualcuno, rendendo la sua figura e il suo passo assolutamente sciolti. Questo perchè usava un IPhone, un PC, questo perché si truccava, perché aveva piercing, tatuaggi.

Per la gente il cieco in sé non dovrebbe avere certe caratteristiche, eppure Bill le aveva e, da un certo punto di vista, odiava questo aspetto di se stesso.

Da quando perse la vista all’età di 12 anni la situazione psicologica dell’impatto non fu poi così grave. Anzi, non aveva mai visto uno psicologo in vita sua, ma da qualche anno a quella parte le cose erano cambiate.

Odiava quelli come lui, perché tendevano a frequentarsi fra di loro, a crearsi mini sette che, puntualmente, erano circondate da una fitta nebbia di vittimismo. Bill odiava i ciechi, quando anche lui era uno di loro, ma non si sentiva tale, ecco.

Lui voleva fare cose normali, viaggi con i suoi amici, con persone vedenti e, ok, se ci fosse stata l’occasione, non avrebbe disprezzato qualche amico cieco, per carità. Il fatto era che la maggior parte delle persone come lui tendeva ad aumentare quella…diversità che già, a dirla tutta, li contraddistingueva.

Ecco perché evitava i gruppi su Facebook, gli incontri per discutere delle loro “problematiche” legate alla malattia, ecco perché storceva il naso al sol sentir parlare di associazioni e cose varie.

Bill non rifiutava, Bill era realista. E molte persone, nella sua situazione, erano delle fottute vittime.

E lui odiava le vittime.

 

Sentì la madre richiamarlo per la quinta volta, ma non se ne curò affatto. Scosse la testa e si lasciò ricadere sul letto, prendendosi quest'ultima parte del corpo fra le mani, stringendosi con forza i capelli fra le dita.

Non aveva mai parlato apertamente con nessuno della sua storia, perché nessuno si era mai, diciamo così, realmente interessato a lui. Le solite domande da parte di tutti, la curiosità, poi l’abbandono.

«Ma, oddio, come fai?»

«La tua malattia è curabile?»

E altre cazzate simili. La sua situazione era difficile, schifosamente difficile. E la gente non faceva altro che peggiorarla, perché la gente semplicemente era superficiale con le persone come lui.

Era un bel ragazzo, con un carattere abbastanza interessante. Non era noioso, tutt’altro. Ma lui era cieco. E se lui era cieco, il resto non contava, perché aveva un problema e nessuno era mai andato oltre, nessuno. Nessuno tranne Friedrich, uno dei suoi unici e veri, amici. Lui lo aveva accettato e, anche se il loro rapporto non era fatto di abbracci, esternazioni e pianti, a Bill andava bene così.

I due a modo loro si confidavano, anche se l’amico era un po’ restio ad ascoltare i problemi della gente. Eppure andava bene, perché era…tutto normale. E la normalità andava bene.

«Sì, cazzo, ora scendo!» Gridò il moro, all’ottavo richiamo della madre che stava minacciando il figlio di sfrattarlo di casa assieme a quella bestia feroce del suo cane.

Rania, uno splendido esemplare di pastore tedesco era un altro dei compagni fedeli di Bill. Quest’ultimo odiava a morte quel fottuto bastone bianco, perciò dopo un forzato corso di orientamento con quella “cazzo di bacchetta”, finalmente entrò in scena il bellissimo cagnolone che, in quel momento, era sdraiato accanto al moro sul materasso.

 

«Papà, devo proprio?»

«Bill, sono le regole, devi saper camminare anche con il bastone bianco».

«Papà, ti prego, sembro un coglione con sto affare in mano». 

«Oh, andiamo, io penso invece siate una bella coppia!»

«Quando tutta questa sceneggiata demenziale sarà finita, compreremo un cane, vero? Col cazzo che giro con st’affare, papà!»

 

 

Tom si svegliò con un incredibile mal di testa. La televisione era ancora accesa e lui era ancora in salone, doveva essersi addormentato per i troppi pensieri in testa e la stanchezza che questi gli avevano provocato.

Si scosse lentamente  e solo dopo qualche minuto realizzò che il telefono stava squillando in una delle sue tasche. Impiegò un altro paio di secondi per trovarlo e il nome di Andreas illuminava lo schermo, quando lo afferrò saldamente in mano.

Era un suo sms: "Glory stasera?"

Il rasta sorrise. Sapeva sempre tirarlo su, quando serviva e il Glory era uno dei locali preferiti di Tom.

"E me lo chiedi? Ci vediamo li!" scrisse, inviando poi l’sms.

 

Quella sera, nessun pensiero sfiorò minimamente l’argomento “Bill”.

 

-

 

Tom arrivò puntuale come sempre, in sella alla sua moto costosa. I rasta perfettamente in ordine, i blue jeans e la maglietta larga nera gli conferivano un aspetto casual, ma particolare nel suo insieme.

Si guardò attorno e, non vedendo Andreas, ritardatario come al solito, ne approfittò per accendersi una sigaretta, ghignando alle occhiate meravigliate delle ragazze che, entrando nel locale, si fermavano ad  osservare ammaliate prima la moto, poi il proprietario.

Dopo venti minuti circa, trafelato come al solito arrivò, Andreas che, quella sera, non era di certo il suo capo. Quella sera erano amici, amici che volevano sballarsi alla grande.

 

“Ehi, Kaulitz, quando la smetterai di darti tutte quelle arie?”

Risero, dandosi un paio di pacche sulla spalla.

 

“Sai Andy, dovrei trattarti bene perché mi paghi, ma la verità è che fra i due, sono io il più figo”

Andreas si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Era abituato al narcisismo del suo amico, perciò non disse nulla.

Entrarono nel locale e furono investiti dal familiare puzzo d’alcool e fumo, il tutto reso ancora più confusionale dalle luci stroboscopiche e dalla musica ad alto volume.

“Stasera offro io!” urlò Tom, indicando il bancone.

Il barman servì ad entrambi due Long Island ed un Cosmopolitan in omaggio che Tom rifiutò visibilmente infastidito, mentre Andreas si contorceva per le risate.

 

“Cazzo, Tom. E’ solo un drink, bevilo!”

“Ho la faccia di uno che beve drink da gay?” disse, indicandosi con fare fiero.

“Uh, beh, no. Però il Cosmopolitan è un buon drink”

Tom scosse la testa ed ordinò altri due drinks, dopodiché un paio di shots che tracannò in meno di due secondi.

“Un giorno mi spiegherai perché ce l’hai tanto con i gay”, borbottò Andreas, ma il rasta riuscì a comprenderlo tramite il labiale.

 

“Il diverso fa schifo”

 

 si limitò a rispondere, mentre si  torturava il labret, alla ricerca di una bionda da portarsi in pista e…anche in bagno.

Quello sguardo attento e anche un po’ arrapato fece capire ad Andreas che il discorso era finito. Perciò quest’ultimo si alzò e, dopo un terzo shot, diede una pacca piuttosto forte all’amico che nel frattempo aveva già adescato la sua preda.

“Buona fortuna, io vado a fumare una sigaretta”

Ma Tom non lo stava ascoltando, era partito in modalità macho. Così si alzò e, con passo deciso, si avvicinò alla ragazza in fondo alla sala, circondandole la vita con un braccio. Un paio di parole sussurrate e la bionda era già in bagno, in ginocchio, a darsi da fare con Tom.

 

 

 

Nel frattempo, Bill era raggomitolato fra le calde lenzuola della sua stanza, il portatile sulle gambe,  a scrivere una poesia.

Ci stava lavorando da un paio di giorni ma, a causa dei suoi frequenti mal di testa, era stato costretto a rimandare più di una volta. Si sistemò le cuffie in modo tale da non svegliare nessuno con la sintesi del suo PC e ricominciò a battere sulla tastiera. Le idee chiare, le parole uscivano come un fiume in piena.

Si bloccò solo quando sentì il telefono vibrargli sotto il sedere, vibrazione che intanto aveva svegliato Rania.

Non si curò di vedere chi fosse, si limitò a rispondere un po’ scocciato.

“Sì, pronto?”

 

“Ehi, Trümper! Tu stasera esci con me, ho voglia di bere”

Il moro sospirò, sapeva a chi appartenesse quella voce.

“Fri, quando tu non vuoi bere? Praticamente il sabato sera vuoi fare sempre quello!”, disse Bill, stizzito.

“Dai non rompere, almeno non rimani a casa a fare il casalingo depresso!”

“Ok, ok. Dammi venti minuti, ci vediamo al solito posto”

“Vuoi che venga a pren…”, ma Bill chiuse il telefono prima che l’amico concludesse la frase. Da quando aveva fatto il corso di orientamento, non voleva per nessun motivo al mondo sentire qualcuno usare il verbo “portare”, riferendosi  a lui. Nessuno “portava” Bill, i pacchi postali si portano, non le persone. E lui era abbondantemente munito di palle per cavarsela da solo.

Ricordava di quando, prima del corso, doveva stare ai capricci del suo amico, senza potersi mai ribellare. Se Friedrich voleva rimanere in un posto, Bill non poteva opporsi, non poteva andarsene, perché lui dipendeva dagli occhi dell’amico.

Grazie a Gordon però, tutti quei problemi erano stati risolti. O, per lo meno, dimezzati.

Ecco il perché del tatuaggio.

Bill non voleva vivere in catene, non voleva dipendere da niente e nessuno. Presto sarebbe cominciata l’università e tanti saluti. Bill avrebbe cominciato una nuova vita, avrebbe cominciato realmente a vivere e…magari, avrebbe trovato anche qualcuno che…lo trattasse da persona normale. Magari qualcuno che…lo amasse.

A tale pensiero fatto Bill si alzò di scatto, maledicendosi mentalmente. Non avrebbe mai vissuto l’amore, lo sapeva.

Chi cazzo voleva mettersi con un cieco?

In una società in cui se non sei perfetto non vali un cazzo, in una società dove tutto è superficiale, Bill cosa poteva mai ricevere di buono?

Nulla, perché lui dava, ma non riceveva.

E quante volte si sentiva dire in faccia che era un problema, un peso? Quante volte a scuola, i compagni ed i prof stessi gli parlavano alle spalle? Alcuni pensavano anche che la sua fosse tutta una messa in scena, che lui sul problema ci stesse marciando, che lui in realtà poteva fare di più e altre cazzate simili. Era ovvio che la cattiveria si accumulava e, a dirla tutta, se fosse morto un insegnante, se ne sarebbe sbattuto altamente il cazzo.

Perché era quello che era diventato, per colpa loro: un mostro, un mostro che apparentemente era divertente, squallido nelle sue battute di pessimo gusto, ma la verità era un’ altra. Bill non era così, Bill indossava svariate maschere, persino con Friedrich.

Ad ogni modo riuscì a vestirsi a tempo di record, perché sì, lui sapeva riconoscere perfettamente i suoi vestiti dal tessuto, al massimo usava il riconoscimento di colori per un momentaneo vuoto di memoria, avendo migliaia di magliette, ma non usava cazzate come etichette tratteggiate o roba simile.

Infilò nelle tasche dei jeans le chiavi, il cellulare ed un pacchetto di sigarette e, dopo aver infilato a Rania l’imbracatura, uscì da camera sua, lisciandosi i capelli nel frattempo. Non aveva tempo di truccarsi, lo avrebbe fatto una volta arrivato.

“Mamma, io esco”

Jutta si voltò, sgranando gli occhi.

“Bill, tesoro, a quest’ora vuoi uscire? Non sarà pericoloso?”

Essendo a conoscenza del fatto che avrebbe dovuto prima fare un lungo discorso alla madre protettiva, ne approfittò per  truccarsi. Non era poi tanto difficile, dopotutto bisognava solo seguire una certa linea, un certo spazio. Certo, le prime volte che Bill si truccava erano davvero uno scempio, ma poi ci aveva preso la mano e, diciamocela tutta, faceva invidia ad un make up artist.

“Mamma, mi ha chiamato Friedrich, non tornerò tardi, non avevo manco voglia di uscire”

Sapeva che la madre lo stesse guardando, perché non stava emettendo nessun suono.

“E perfavore, piantala di guardarmi!”

Jutta ridacchiò, poggiando una mano sulla spalla di Bill che, seppur con educazione, se la scrollò di dosso.

“Tesoro, non riempirti di quella robaccia nera, lo sai che poi il medico ti sgrida”

“Non me ne frega un cazzo, mamma!”

Sbottò il moro, in effetti era così. Poteva truccarsi, ma doveva andarci piano soprattutto con matite ed altri trucchi che potevano avvicinarsi troppo agli occhi.

Bill però non se ne curava, perché era convinto che truccandosi, avrebbe nascosto maggiormente la visuale dei suoi occhi, una volta semi coperti anche con la frangia. Era un ragionamento idiota, lo sapeva. Il fatto era però che non voleva farsi vedere, non voleva che nessuno lo guardasse negli occhi, perché erano brutti, lo sapeva. Ci fu un periodo in cui il suo occhio sinistro era quasi del tutto bianco, senza una vera e propria pupilla e la gente lo guardava con orrore, sapeva anche questo. Dopodichè, dopo aver convissuto con l’orrore in viso, il medico decise di sottoporlo ad un trapianto di cornea. Non battè ciglio quando seppe che l’organo proveniva da un diciottenne morto in un incidente. Ad ogni modo, l’operazione sembrò andare bene, ma solo dopo un paio di mesi l’occhio ritornò a cambiare colore. E ora il suo occhio destro era normale, anche se normale non era proprio la parola adatta, essendo opaco e con dei puntini all’interno. Il suo occhio sinistro era tendente al bluastro, con la mancanza del cristallino e, a dirla tutta, odiava quando gli dicevano che erano fighissimi, quando nessuno li aveva visti per davvero, a poca distanza e, soprattutto, dal vivo.

Si rese conto di essere rimasto immobile e con la matita a mezz’aria. Doveva piantarla di pensare.

La madre era sicuramente andata via. Bill sapeva di farla piangere certe volte, perché lei era buona e ci rimaneva male quando Bill l’aggrediva. E Bill, in quei momenti, si sentiva doppiamente una merda, perché lui non era arrabbiato con lei, Bill era arrabbiato con il mondo, ma non con lei. E certe volte voleva dirglielo, ma non ce la faceva.

Il moro in realtà non aveva mai avuto una discussione sui suoi sentimenti o, per lo meno, non troppo lunga. Sapeva di averne un fottuto bisogno, ma sapeva anche che, una volta cominciata la conversazione, quest’ultima sarebbe cessata quasi all’istante, perché Bill sarebbe scoppiato in lacrime.

Ecco perché Bill non parlava mai di sé, perché sarebbe scoppiato a piangere. E lui non voleva mostrarsi debole, perché doveva essere più forte degli altri, più libero degli altri.

 

Perché lui non voleva vivere in catene.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Quella sera si era sballato più del necessario.

Aveva bevuto, fumato, fatto sesso, fumato e bevuto ancora. Per lo meno, sperava di non aver preso l’Aids.

Era in procinto di sistemarsi la patta dei pantaloni dopo essere venuto per la terza volta quella sera, o forse era la quinta...
Non lo sapeva. In realtà non sapeva nemmeno se quella biondina tutta curve fosse veramente una ragazza o solo frutto della sua immaginazione, ma non ci fece poi tanto caso. Al contrario si limitò a darle le spalle e ad uscire dal bagno, ritornando nella calca del locale, fra le luci psichedeliche e la musica sparata a manetta. Non riusciva a respirare e dopo le intense ore di sesso il suo corpo si stava man mano ribellando. Aveva un bisogno fottuto di uscire, Andreas avrebbe capito.

E se non lo avesse fatto sarebbero stati affari suoi, al momento nemmeno quello importava.

Un tizio più basso di lui lo urtò e questo servì a Tom per destarsi dal suo momento di trance. Così, fra spintoni e gomitate riuscì ad aprirsi un varco e ad uscire, finalmente, all’aria fresca. Inspirò fino a farsi bruciare i polmoni e quasi si sentì mancare per lo sforzo. Gli lacrimavano gli occhi e aveva i rasta in disordine e gli occhi cerchiati. Se qualcuno lo avesse visto in quelle condizioni, lo avrebbe scambiato per un pazzo maniaco.

E in effetti, solo un pazzo maniaco avrebbe tirato fuori le chiavi della sua moto, solo un pazzo maniaco ci sarebbe saltato sopra e solo un pazzo maniaco sarebbe partito accelerando per combinare chissà quali casini.

Non sapeva nemmeno dove andare, tra l’altro, sapeva solo di voler combinare qualcosa di figo per finire in bellezza la serata, così magari avrebbe avuto di che parlare con Andreas quel lunedì al lavoro.

 


 

“Porca puttana, porca puttana, porca puttana, porca put…”.

Un’ ennesima bottiglia schiantata a terra, un’ ennesimo grido di vittoria da parte dei trogloditi magicamente apparsi accanto al tavolo di Bill e Friedrich, provenienti direttamente dalla meravigliosa era del paleolitico.

Bill era sul punto di scoppiare in una violentissima crisi isterica. La musica era troppo alta, non capiva nulla, non riusciva a parlare e, cosa che gli capitava spesso quando si trovava in ambienti troppo rumorosi, sentiva lo spazio attorno a sé farsi sempre più ristretto.

Fortunatamente aveva affinato dopo tanti anni il suo self control, ma ciò nonostante tutta quella merda gli dava un enorme fastidio.

Si era ritrovato, quella sera, Friedrich proprio davanti alla porta di casa. Quest’ultimo  gli aveva detto che nel locale Rania non sarebbe stata proprio la benvenuta.

Bill però sapeva perfettamente che il suo adorato cagnolone, o meglio cagnolona, poteva entrare dappertutto, per legge. Anche se i coglioni non mancavano mai e spesso il moro si ritrovava costretto a dover chiamare la polizia e gente simile, che puntualmente multava i proprietari dei bar, delle enoteche o qualsiasi posto in cui Bill andasse e dove il cane non fosse il benvenuto.

Perché sì, la merda era anche in Germania, questo era poco ma sicuro.

E la madre dei coglioni è sempre incinta.

Ad ogni modo, Bill non potè far altro che imprecare sottovoce, cercando di non perdere il controllo. Aveva detto a Friedrich di muoversi a bere, che non avrebbe retto altri minuti di quella musica infernale e né, tanto meno, le tecniche di flirt che i preistorici usavano con lui, prima di rendersi conto della realtà delle cose, ossia che il moro non era una bella sventola, ma un ragazzo e, tra l’altro, anche cieco.

Friedrich dal suo canto non lo ascoltava, si limitava ad ordinare e ordinare altri drinks, ridendo o, addirittura, non curandosi affatto delle lamentele dell’amico.

“Andiamo Bill, sono simpatici!” si limitava a dire e il moro non faceva altro che incazzarsi ancora di più.

“Simpatici? Chiami simpatici dei tizi che comunicano a versi?” gridò il moro, un po’ per l’esasperazione, un po’ per farsi sentire forte e chiaro dall’amico.

Come se non bastasse non si rese conto di avere il proprio bicchiere a poca distanza e, con un movimento sbagliato del gomito, Bill si ritrovò svariati cubetti di ghiaccio fra le gambe.

Con un sospiro al limite dell'esasperazione, infilò i cubetti uno a uno nel bicchiere, percependo la risata soffocata di Friedrich. Perché sì, quando la musica era troppo alta e il nervosismo troppo intenso, Bill perdeva la cognizione del tempo, dello spazio e il suo orientamento, così come il suo udito, cose che erano praticamente inutilizzabili.

E Friedrich…lui era un idiota, ma era il suo unico amico. Gli voleva bene, ma a volte era così dannatamente incosciente e immaturo che  era difficile stargli dietro.

E Bill, dal canto suo no, non era un santo, non aveva pazienza, ma era responsabile, doveva esserlo e si rendeva conto  di quando era il momento di piantarla di fare una determinata cosa.

Quella era la differenza fra lui e Fri. Quest’ultimo non aveva limiti, non sapeva manco cosa fossero i limiti. Vedeva il buono in ogni persona, era immaturo, come se non avesse mai concepito il vero significato della vita.

Mentre Bill…

Bill era cresciuto solo troppo presto, ecco tutto.

Non appena il moro capì che l’amico stava ordinando un altro shot, non riuscì più a trattenersi, così si alzò e, afferrato il guinzaglio della povera Rania che stava patendo anche lei le pene dell’inferno, fece per uscire da quel cazzo di locale.

Ovviamente Friedrich diede di matto, dicendogliene di tutti i colori, come al solito, ma Bill era fatto così, quindi non era colpa sua, in un certo senso.

Quando finalmente fu uscito, dopo essere passato con parecchia goffaggine fra i tavoli degli stolti che ridevano come fossennati, Bill era solo, all’aria placida della sera e con un incazzatura da far invidia a un Pitbull con la rabbia.

“Se qualcuno osa solo parlarmi lo mando al diavolo”, mormorò fra sé e sé, a denti stretti.

Fortunatamente non c’era nessuno, perciò preferì ritornare a casa da solo, anche se lo sapeva bene, non era affatto una buona idea. Ma Friedrich non si decideva ad uscire e Bill non era il tipo che stava ai comodi altrui. O, per lo meno, non lo era più.

Afferrò il suo IPhone e, dopo aver digitato la via di casa sua, si lasciò condurre dal navigatore satellitare, camminando accanto a Rania, che nel frattempo stava attenta ad evitargli ostacoli.

Ringraziò mentalmente il fatto che la strada fosse deserta, almeno riusciva a sentire le parole del navigatore. Anche se, doveva ammetterlo, se la stava facendo addosso.

“Pensa positivo, pensa positivo, pensa positivo, dannazione, pensa positivo, Bill!”

E così andava avanti quel mantra cantilenante, mentre il moro svoltava l’angolo, il terzo per la precisione.

Perché sì, casa sua era parecchio lontana da quel fottutissimo pub.

 

 

 

 

Era incredibile come una moto costosa ti facesse soffrire così tanto di deliri di onnipotenza.

Tom su quell’affare si sentiva un Dio. Bello, ricco e coglione.

Il mix perfetto, no?

Correva per le strade di Berlino facendo rombare il motore quando passava per luoghi abitati, proprio come un ragazzino spericolato. Dopotutto aveva solo 19 anni, aveva ancora il diritto di fare certe bambinate.

E anche se le cose non fossero state esattamente così…non erano di certo problemi suoi. Nel caso non si fosse capito, quella sera a Tom non importava di niente e di nessuno. Nemmeno di quella tizia mora che andava in giro alle 3 del mattino con un cane munito di cappottino sgargiante e con un IPhone parlante in mano.

 

“Che cazzo?”

Il rasta non frequentava prostitute, ma ne aveva viste tante, ma mai come quella che, praticamente, stava camminando a poca distanza da lui. E si era accorta  della sua presenza e del fatto che avesse rallentato, perché sembrava avesse aumentato il passo, anche se Tom inizialmente non si era accorto di aver rallentato.

Ad ogni modo, sia per la sbronza, sia per l’euforia, sia per, appunto, la coglionaggine, Tom decise di accostare e, con un movimento fluido e per nulla goffo, parcheggiò la moto.

In meno di tre secondi si ritrovò alle spalle dell’alta ragazza mora. Non riuscì a guardarla in viso, dato che questa stava letteralmente correndo, ma il rasta non sembrò accorgersene, per quanto fosse fatto in quel momento.

L’afferrò per un braccio e, quasi come una sanguisuga, le si incollò alla schiena.

“Cosa ci fa una bella ragazza a quest’ora, qui, tutta sola?”, le soffiò in un orecchio, profumava di…

Di uomo, in realtà. Aveva un profumo da uomo, ma evidentemente era appena stata con un cliente, pensò subito il rasta, annuendo convinto.

La mora fece per parlare, tremava fra le braccia di Tom che si dava pacche sulla spalla mentalmente, facendosi i complimenti da solo. Riusciva a far tremare d’eccitazione persino le prostitute.

Quando stava per mordicchiarle il lobo dell’orecchio, per chiederle le tariffe, quest’ultima sembrò riprendersi e no, non tremava dall’eccitazione, ma dalla rabbia.

 

“Razza di maniaco patentato, togli subito le tue cazzo di mani dai miei fianchi o giuro, questo natale dovrai accontentarti delle palle dell’albero, perché le tue non le avrai più!”, sbottò Bill, abbaiando letteralmente.

Stavolta era il turno del rasta a rimanere paralizzato e non fece una piega quando il moro, con un forte scossone non se lo tolse di dosso, correndo letteralmente via da lui, assieme a quel cane strambo.

L’unica cosa che riuscì a sentire in quel momento fu la voce dell’IPhone di Bill allontanarsi sempre di più.

Fu solo durante quei tre secondi di lucidità che Tom capì di aver appena flirtato col tizio del tatuaggio, ma poi fu di nuovo tutto sfocato e l’alcool riprese a fare il suo effetto.

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


si do letteralmente alla fuga.
Era incazzato.
Era fottutamente incazzato.


Lo spiacevole episodio con Friedrich, a pensarci, non era esattamente la causa scatenante, quanto più quello che accadde dopo.
Sapeva che non doveva uscire da solo a quell’ora, ma Bill era testardo e quando si innervosiva reagiva d’istinto, non poteva farci niente. E ora stava scappando da un maniaco che aveva una voce familiare, ma non ne era sicuro.
Ed era quella la cosa che più faceva incazzare Bill, il non essere sicuro di qualcosa.
Poteva sbagliarsi, perché non lo vedeva;  poteva darsi ragione, ma sapeva che la sua era solo un’ ipotesi.
La sua maledizione, semplicemente, era basata sul fatto che pensasse troppo, persino quando scappava da un ipotetico malintenzionato.


Fu solo quando il moro arrivò davanti  alla porta di casa che si costrinse a non pensare: aveva sbagliato, era stata solo una… svista. Poteva dirlo?
Sì, poteva dirlo.
Entrò in casa cercando di fare il meno rumore possibile, ma le unghiette di Rania ticchettavano sul pavimento e quel povero cane doveva essere proprio l’unico, quella sera, a non dover essere sgridato.
Fortunatamente Jutta aveva il sonno pesante e Bill riusciva a sentire il suo russare dal piano di sotto. In realtà, persino in Nuova Zelanda l’avrebbero sentita, ma quello non era il momento adatto per darsi al sarcasmo.
Passò l’indice della mano destra contro la parete dell’atrio, tanto per essere sicuro di star prendendo la giusta direzione e, dopo pochi secondi lasciò andare il contatto, avviandosi spedito per le scale.
Giunto in camera sua, con Rania al seguito, si distese con ancora le scarpe ai piedi e la matita sugli occhi sul morbido e grande letto, chiudendo per un momento gli occhi.
Dei lampi giallognoli o meglio una matassa di bollicine giallognole, gli si parò davanti e, una volta riaperti gli occhi, questi scomparvero lentamente.
E no, non stava accadendo un miracolo, semplicemente era un fenomeno che gli accadeva spesso quando chiudeva gli occhi ed era particolarmente stressato.


Ad ogni modo, dopo essersi concesso venti minuti di pace interiore decise, per decenza, di cambiarsi e di struccarsi, evitando così una sfuriata della madre il giorno successivo, non appena avrebbe visto lo scempio nerastro sulla federa del cuscino del figlio.
Si alzò lentamente, non curandosi  del continuo trillare del suo telefono. Di sicuro era Friedrich che cercava di scusarsi tramite i suoi soliti messaggini di Whatsapp, ma il moro era già abbastanza incazzato, non aveva voglia di litigare. Per messaggio ancora meno, poi.
Entrò in bagno e con calma si struccò gli occhi, poi si sciacquò la faccia. Il giorno dopo avrebbe avuto un dannatissimo mal di testa, lo sapeva. Gli capitava sempre, dopo il forte nervosismo.
In effetti sì, il carattere di Bill era abbastanza particolare e non dei migliori, ma non poteva farci nulla. Le troppe operazioni lo avevano cambiato, le persone lo avevano cambiato, il mondo lo aveva cambiato.
Perciò se la sua pazienza era giunta ad un punto  di non ritorno, la colpa di certo non era solo sua.
Sospirò rumorosamente mentre si  sfilava di dosso i pantaloni, dopo aver scalciato rabbiosamente le scarpe. Aveva piuttosto freddo, perciò evitò di togliersi la maglietta e decise di usarla come pigiama.
Uscì dal bagno mentre si legava i capelli e con suo grande sollievo il telefono aveva cessato di squillare.
Si lasciò ricadere sul materasso, infilandosi sotto le lenzuola, afferrò il suo IPhone e la sintesi lo avvertì di 23 notifiche, tutte da parte di Friedrich.
Imprecò sottovoce, spegnendo il cellulare e posandolo nel primo cassetto, evitando stavolta di gettarlo come aveva fatto con le scarpe. Quell’affare valeva più di lui, per la miseria!


Sospirò per la seconda volta e si  raggomitolò maggiormente fra le calde lenzuola, sistemandosi di fianco, come faceva sempre mentre dormiva.
Fu solo quando avvicinò il naso al petto che un odore familiare andò a punzecchiargli un’area semi addormentata del suo cervello.
Aveva già sentito quell’odore.


“Che cazzo?” mugolò Bill, ma la troppa stanchezza lo fece crollare.
Quello del moro, fu un sonno senza sogni.
 

*

 
 
“Non mi ricordo un cazzo”
 Tom si risvegliò con tale frase messa quasi in ripetizione nel suo cervello.
 “Non mi ricordo un cazzo, e devo pisciare.”


Erano le quattro del pomeriggio, ma per il rasta sembravano le sei del mattino. Aveva un terribile mal di testa, aveva un alito orribile e un cadavere sarebbe stato più sexy di lui, in quel momento.
A volte si chiedeva perché fosse così coglione, ma poi scrollava le spalle e non ci pensava più.
E in effetti pensare gli costava un’enorme fatica, ma mai quanto quella di doversi alzare dal letto.
Come se non bastasse inciampò non appena accennò a muovere i primi passi dopo l’esagerata sbronza.
Sperava almeno di non aver preso l’aids, comunque.
Si lasciò invadere dall’acqua bollente della doccia che lo fece riprendere piuttosto bene e, non appena si fu asciugato, il mal di testa era quasi scomparso. Si sentiva la testa pesante, ma con un paio di farmaci a casaccio il problema sarebbe stato risolto.
Si vestì in fretta, fortunatamente per lui era domenica, perciò non aveva troppo lavoro da fare, a parte disegnare un paio di tatuaggi ed abbellirli, avendo solo un disegno base a sua disposizione.
Stranamente Andreas non lo chiamò, e neppure Gustav né Georg lo fecero.
Evidentemente avevano passato un Sabato sera più scellerato del suo, pensò mentre scendeva le scale scalzo.
Di colazione non voleva nemmeno sentirne parlare, perciò decise che sarebbe stato meglio cominciare i disegni, così da avere il resto della giornata libera.
Prima però entrò in cucina, sua madre era già uscita. Lesse velocemente il post-it attaccato al frigorifero e storse il naso non appena i suoi occhi si posarono su parole come ‘bacon’ e ‘mangia tutto’.


Si limitò invece a sciogliere un’ aspirina in un bicchiere e per passare il tempo osservava le bollicine frizzare nell’acqua, la cosa quasi lo divertiva.
Dio, era così coglione!
Fu solo con il ticchettio delle unghiette di Scotty e il suo improvviso abbaiare che a Tom quasi non venne un infarto.


“Cazzo, Scotty! M’hai fatto prendere un colpo, non abbaiare così  di prima mattina, spudorato!” , disse Tom esasperato, mentre mandava giù l’aspirina.
E quando poggiò la mano destra sulla grossa testa del cane, ecco che un pensiero rivolto a dei capelli neri e un cane gli sfiorò la mente.


“Che cazzo?” borbottò Tom, scuotendo la testa.
“Dannata sbornia, non berrò mai più!” sbuffò sonoramente, pattando ancora l’animale che intanto sembrava gradire le sue attenzioni.
“Amico, mi piacerebbe rimanere qui ad anchilosarmi la mano, ma devo lavorare”
Si allontanò di poco e l’animale, a malincuore, sembrò recepire il messaggio.
 Si avviò così a passo spedito verso la soffitta adibita a studio e si ci chiuse all’interno, il silenzio sembrò placargli del tutto il mal di testa.
 Si sedette alla scrivania, tirando fuori i due disegni per il tatuaggio, poi accese la lampada.
Non doveva far altro che trasformare una normale rosa in una composizione floreale in modo verticale e trasformare un occhio in… qualcosa di più affascinante.

 “Che cazzo?” ripeté di nuovo Tom, il pensiero di una voce incazzata gli sfiorò di nuovo la mente, ma poi si ritrasse, quasi come un onda contro gli scogli.
Trattenne per un attimo il respiro, poi impugnò la matita.
 Disegnò un taglio sensuale, ciglia lunghe, mascara e malinconica tenebra.
 

*

 
Le vacanze di Natale erano alle porte e il freddo era schifosamente pungente.
Bill se ne accorse non appena uscì dalla porta, accompagnato da Gordon.
Doveva andare a scuola e Rania non stava bene, perciò il moro a malincuore dovette essere accompagnato da suo padre.
 Una delle cose che odiava maggiormente, infatti era proprio la scuola: quell’edificio orribile con quella puzza inconfondibile di plastica e polvere, luogo dove i migliori rincoglioniti di Berlino si riunivano, come tante pecore al pascolo.


“Papà, credo di avere il ciclo, posso tornare a casa?”
Borbottò Bill ironico, mentre si lasciava ricadere contro lo schienale dell’auto.
 Gordon rise, ma nella sua risata aleggiava qualcosa di triste, che Bill captò all’istante. Decise, però, di far finta di niente.
 La sua classe era invasa da puttane e da trogloditi che no, non lo prendevano in giro, semplicemente lo ignoravano. Bill era invisibile, non esisteva e se qualcuno si fosse accorto di lui, si sarebbe ricordato della sua cecità ed ecco che la amnesia sarebbe ritornata.


 I suoi insegnanti, poi?
Un gruppo di frustrati, demotivati e incoerenti, a suo avviso.
 Ma la persona che proprio non riusciva a sopportare era quello pseudo insegnante di sostegno che gli avevano mandato.
Il moro si era rifiutato di imparare il braille, ma la cosa non incideva affatto, dato che usava perfettamente il computer. Per materie come la matematica e altre cazzate simili (Bill proprio non le sopportava), ecco che appariva il fantomatico insegnante di sostegno pronto ad aiutarlo.
 Peccato che le cose non funzionavano affatto così.
Il suo professore era un incapace, nonché la causa del suo pessimo rapporto con la classe.
Le cose andavano talmente male che i suoi compagni amavano lui e non Bill. In poche parole, veniva invitato il professore alle feste e non Bill, e se quest’ultimo cercava di lamentarsi per gli appunti scritti male o per altro, ecco che tutta la classe gli andava contro, difendendo a spada tratta il suo insegnante.
A volte Bill si chiedeva se lo stipendio lo prendesse per lui o per gli altri.
Per non parlare poi delle gite in cui Bill non andava ed al posto suo andava il professore.
Il moro ricordò di quando, durante un suo attacco di nervosismo, si lamentò con la classe del fatto che, un insegnante di sostegno sarebbe dovuto andare in gita solo se l’alunno per cui prendeva i soldi ogni mese avesse partecipato al viaggio d’istruzione. Ricordò anche di come fu attaccato da quei geni dei suoi compagni che, come al solito, difendevano il “povero insegnante”.
Quest’ultimo, comunque basti sapere che con Bill era di una falsità tremenda e, nel profondo, sapeva dell’odio che Bill provava per lui.
Ma il moro non poteva fare niente perché, tra l’altro, il caro insegnante era anche iper protetto dall’altrettanto caro preside.


“Che vi prenda un cancro”, sputò Bill ripensando a tutto ciò, mentre Gordon parcheggiava.
Quest’ultimo alzò un sopracciglio, guardando Bill.
“Cos’è che hai detto, figliolo?”, chiese.
“Io? Nah, niente, blateravo. Andiamo, papà”. Detto questo il moro aprì la portiera, venendo rigettato al freddo e  al gelo. Si sistemò con fare vanitoso i capelli, poi si abbassò la giacca di pelle, giacca fra l’altro leggera, ma non avrebbe mai ammesso di star letteralmente morendo di freddo.
Ad ogni modo Gordon decise di non fare commenti e si avvicinò al figlio che, in risposta avvicinò la mano al suo fianco destro. Si avviarono così verso la scuola: il moro sentiva il vociare degli studenti ancora fuori dal cancello e, mentre  passava dinanzi a loro, si strinse impercettibilmente nelle spalle, sussurrando il solito mantra fino a quando il padre non lo accompagnò in classe:

 

 “Non guardatemi, non guardatemi, cazzo, cazzo, cazzo, non guardatemi”.
E in effetti nessuno lo guardava. E se qualcuno lo faceva, lo faceva per pochi secondi. E comunque Bill non se ne sarebbe accorto.
La classe era deserta, come al solito. Il moro preferiva essere il primo ad entrare, perché sì, non lo avrebbe mai ammesso, ma era così. A scuola diventava più debole di quanto in realtà non fosse.
E la cosa lo faceva estremamente incazzare.
Salutò freddamente Gordon e fece cadere rabbiosamente la sua tracolla nera sul banco.
Il suo posto era il primo della fila di destra, proprio contro il muro.
Gli insegnanti avevano cercato di farlo spostare, perché dicevano che quel posto era troppo “isolato”.


“Anche l’ultimo banco è isolato, eppure quelli dell’ultimo banco vengono cagati”, rispondeva Bill, quando qualcuno cercava di farlo spostare.
Si sistemò nel banco e, come faceva sempre, poggiò la tempia contro il pugno chiuso della mano sinistra, tenendosi la testa, in modo che i capelli gli coprissero metà viso, così da non far trasparire né il suo nervosismo ne i suoi occhi chiusi.
E non perché Bill tenesse gli occhi chiusi, ma perché durante alcune lezioni, si dava al sonno o, per meglio dire, a coma più profondo, anche se solitamente quella posizione doveva essere intesa come posizione del “non rompetemi il cazzo, razza di decerebrati”.
E in effetti quella posizione funzionava, tranne quando si trattava di due persone, tra cui…

 


“Bill, ciao! Ma come, non sei fuori con gli altri?”
La voce squillante di Günter ruppe la simulazione yoga di Bill che, in un certo senso si stava mano a mano calmando.
Alzò per un paio di secondi lo sguardo, poi ritornò nella sua posizione precedente e si limitò a scrollare le spalle, parlando fra i denti: “No, sto bene qua”.
“Ancora non ti ha investito un pullman?” voleva in realtà dirgli il moro, ma si trattenne per miracolo.
Come suo solito, il caro insegnante di sostegno non si curò affatto del tono aspro del ragazzo e anzi, continuò più allegro di prima, con quel suo tono di finta apprensione, preceduto da un altrettanto, nonché solito, sospiro drammatico.


“Ma Bill, sei da solo, vuoi che ti porti dai tuoi compagni?”
“ No”.
“Vuoi che li chiami così vengono da te?”
“No” .
“Ti va di fare una passeggiata per il corridoio, allora?”
“No, caz… No, sto bene da solo, ho mal di testa”, il tono del moro era più che elettrico.
Un ennesimo sospiro da parte di Günter, che fece per ribattere, ma poi un insieme di urla gli fece dimenticare del tutto Bill.


“Professor Günter!” dissero i compagni di Bill in coro, attorniandolo.
“Ha cambiato taglio di capelli?”
“Prof, questo completo le sta benissimo!”
Bill riusciva a sentire solo stralci delle loro conversazioni e, una volta che la professoressa di italiano entrò in classe, tutti si sedettero ai loro posti.
Nessuno si sedette accanto a Bill.
Quest’ultimo, allora poggiò la tracolla sulla sedia accanto a sé, ritornando nella sua solita posizione.
Il professor Günter, nel frattempo si era seduto fra i suoi compagni intento a parlare di una partita di calcio, dimenticandosi del tutto di Bill.
Il nervosismo del moro crebbe durante l’ora di inglese.


La nuova insegnante madrelingua, infatti, era particolarmente famosa per trattare il moro come un vero e proprio autistico, con rispetto parlando per gli autistici.
Quel giorno, manco a farlo apposta gli si avvicinò e gli prese entrambe le mani, come faceva di solito. Sì, perché secondo lei, se non avesse afferrato le mani di Bill, quest’ultimo non sarebbe riuscito a sentirla.
“Oggi sei felice?” gli chiese, con quel suo accento inglese odiosissimo.
Non per dire, ma Bill preferiva l’accento americano, molto più figo.
Quest’ultimo assunse di proposito una faccia schifata alla sua domanda, ma la professoressa sembrò non notarlo.
Si limitò così a scrollare le spalle, come faceva di solito quando non aveva voglia di discutere.
Ma la donna non si arrese, così tirò fuori dal suo vasto repertorio di regalini, degli adesivi di Winnie The Pooh ed un cartoncino con la lettera B.
La porse a Bill che afferrò il tutto con sole due dita, piagnucolando quasi per l’esasperazione.
“Tutto per renderti felice, Bill!” esordì la professoressa, che subito venne affiancata da Günter.
“Stamattina vogliono proprio farmi esplodere i coglioni”, piagnucolò fra sé e sé Bill, mentre borbottava dei ringraziamenti per nulla convincenti.


“Uh, Bill, come sono belli questi adesivi, vuoi attaccarteli sul diario?”
“No, grazie” lo liquidò subito, gettando adesivi e resto nella tracolla.
Insomma, il carattere del moro non era dei migliori, ma persino un cretino avrebbe capito che quei trattamenti gli davano sui nervi.
Bill non era ritardato, era solo cieco. Mangiava, beveva, camminava ed imprecava come tutti. Forse, per l’ultima cosa, più di qualcun altro.


E il professor Günter? Non faceva altro che aumentare, con i suoi trattamenti, l’aura di finta debolezza e diversità del ragazzo.
Il fatto che era cieco era talmente grave per gli altri che persino il fatto che si truccasse passava in secondo piano.
Solo durante i primi giorni di scuola, il professor Günter chiamò (senza chiedere a Bill, ovviamente) uno psicologo che finse di fare un discorso generale alla classe quando, era estremamente palese che si riferisse solo ed esclusivamente a Bill.
Il risultato?
Quest’ultimo era diventato ancora più diverso per i suoi compagni, ed il suo handicap sempre più evidente.
Per quanto riguardava la sanità mentale di Bill?
Era sanissimo, solo perennemente scazzato quando metteva piede in quella sottospecie di zoo adibito a bordello chiamato “scuola”.
La campanella trillò e Bill prese un grosso respiro, tirando fuori di malavoglia il panino che Jutta gli aveva preparato.
Come al solito nessuno si preoccupò di chiamarlo ad uscire, né lui accennava ad alzarsi. Mantenne invece quell’aria scostante che da un paio d’anni aveva imparato a mostrare.
Perché Bill ci aveva provato, aveva provato a fare amicizia, ma le cose non erano cambiate. Perciò, se fare amicizia con quella gente significava rimanere da soli mentre gli altri si chiudevano a riccio durante una conversazione, tanto valeva che il moro si desse alla meditazione per evitare di squartare tutti, bidelli compresi.


“Bill, non esci a fare intervallo?”
Günter si avvicinò, assieme alla cara insegnante di madrelingua.
Bill si guardò attorno con fare teatrale, come per dire
“Non vedi che se ne sono andati tutti, razza di cretino?”
Ma Günter fece finta di niente. Fu invece l’inglese a prendere la parola.
“Bill, ma tu la sera, esci? C’è qualcuno che ti porta fuori?”
Chiese, cercando di afferrargli di nuovo le mani.
Il moro non rispose, nella sua testa l’allarme rosso stava scattando.
Capì che nel frattempo il professor Günter era uscito quando lo sentì dire ad un gruppetto dei suoi compagni: “Ragazzi, dai, portate Bill fuori con voi!”
“Ok, ora mi avete rotto i coglioni”

 


Il moro si alzò, tremava dalla testa ai piedi mentre strattonava via, con rabbia le mani da quelle dell’insegnante di madrelingua.
“Ma porca puttana, perché cazzo non uscite tutti a farvi un giro invece di esasperarmi l’anima? Tu!”
Indicò la madrelingua, il tono di voce alto, quasi isterico.
“I pacchi postali si portano, ok? Io faccio quel cazzo che mi pare, non sono un ritardato, hai capito? Non so nella tua fottutissima terra d’origine dove, tra l’altro, potresti ritornare, ma qui i ciechi fanno corsi di orientamento, perciò se ho voglia di andare a troie una sera, ci vado senza che nessuno debba ‘portarmi’!”, urlò il moro, evidenziando bene l’ultima parola. Era partito e non si sarebbe calmato così facilmente.
Nel frattempo le urla avevano attirato un gruppo di ragazzi anche di altre classi, che origliavano incuriositi e, allo stesso tempo, divertiti.
“Quei cazzo di adesivi li usano alle elementari, nel caso non lo avessi capito, siamo in un liceo e finitela tutti di trattarmi come un alieno, perché non lo sono!”
Il professor Günter nel frattempo era entrato, e Bill se ne accorse, voltandosi verso di lui o, per lo meno, credeva.
“E tu”, riprese con un ringhio.
“Smettila di fare il pietoso del cazzo, perché io non me la bevo, al contrario di quest’ammasso di deficienti che formano questa fottuta classe. Se non esco all’intervallo è perché nessuno si degna di chiedermelo e, se me lo chiedono è perché voi insegnanti dite loro di chiedermelo! Sono cieco, dannazione, non scemo! E dato che la falsità mi fa schifo più delle vostre schifosissime vite, vi pregherei, uno ad uno, di sparire dalla mia vista, chiaro?” disse, ridendo ironico alle ultime parole, mentre il tono di voce si faceva sempre più alto, le lacrime che minacciavano di scendere da un momento all’altro.
Chiuse perciò gli occhi, non voleva piangere davanti a quegli idioti.
“Ora io me ne ritorno a casa e so che dopo questa sfuriata tutti mi criticherete, perché oh, io ho trattato male il povero professor Günter, protettore della patria! Beh, sapete che vi dico? Me ne sbatto il cazzo di quello che dite, come a voi sbatte il cazzo del fatto di  star isolando e trattando da ritardato un vostro compagno di classe”.


Detto ciò, Bill batté una mano contro il banco e nessuno sembrò accennare a parlare.
Nel frattempo, due ragazzi provenienti dal piano superiore, assistettero interessati al mini spettacolino isterico di “quel ragazzo che non ci vedeva”.
“Gustav, hai sentito?” sussurrò Georg, alzando un sopracciglio.
L’amico annuì, poggiando una mano sulla spalla dell’altro.
“Già, ogni tanto succede qualcosa di interessante! Dai, andiamocene, voglio comprarmi qualcosa al distributore”.

 

 

 

Note finali:

 

Voglio ringraziare tutte coloro che stanno seguendo e recensendo la storia, leggere i vostri pareri mi fa bene!

Questo capitolo è stato molto complicato da scrivere, perciò se fa pena, non fatevi scrupoli a dirmelo. U.u

Per il resto, Bill è un personaggio strano, siamo tutti d’accordo su questo, ma Günter? Cosa ne pensate di lui?

Fatemi sapere!

 

Al prossimo capitolo. :3

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Erano passati solo dieci minuti e l’interessante episodio del ragazzo cieco in piena crisi isterica era già stato gettato nel dimenticatoio.
Questo però non valse per Georg e Gustav che, ancora perplessi, parlottavano di tale accaduto mentre il più basso si riforniva al distributore, come ogni mattina.
“Secondo me è pazzo”, tagliò corto Georg, mentre rubava dalle mani dell’amico una barretta di cioccolato.

-

 

Il silenzio che seguì dopo quella sfuriata fu inquietantemente leggero. Bill si lasciò ricadere sul banco, afferrandosi la testa fra le mani. Infilò le affusolate dita pallide fra i capelli, stringendo di poco la presa.
Chiuse gli occhi e l’ultima cosa che sentì furono rumori di tacchi allontanarsi velocemente da lui, un borbottio maschile e la porta dell’aula sbattuta con forza.
Le ore successive passarono normalmente e nessuno sembrò accennare a quanto accaduto e Bill ne fu, abbastanza sollevato. Quando la campanella trillò, segnando la fine delle lezioni Bill preparò la cartella e non si stupì quando tutti i suoi compagni uscirono dall’aula, senza offrirsi ad accompagnarlo.
Ma il moro era troppo esausto per arrabbiarsi, e in lui una calma strana stava lentamente nascendo, una calma che si mostrò in tutto il suo falso realismo, alla domanda di Gordon.
“Figliolo, com’è andata a scuola?” disse questi, mentre Bill entrava in macchina.
“E’ andata bene papà, grazie. Andiamo a casa ora”
L’uomo sembrò crederci o, per lo meno a Bill così parve.


Jutta non era in casa, ma il moro colse quasi all’istante il profumo del suo piatto preferito, che quel giorno gli sembrò la cosa più disgustosa del mondo. Con la scusa di aver mangiato troppo a scuola, essendoci stato il compleanno di un suo compagno, Gordon lo lasciò andare e Bill, grato, si rinchiuse finalmente nel posto più sicuro del mondo.
Nella sua camera.
Non era grande, ma nemmeno troppo piccola. Il letto era spazioso, la sua libreria piena di CD, qualche poster appeso al muro, un autoritratto e dei peluche. Ad attenderlo c’era Rania che, ancora malaticcia gli andò incontro, leccandogli la mano in segno di saluto.
Bill chiuse la porta e sorrise al cane. Era l’unico essere vivente che lo faceva stare bene e di cui poteva fidarsi al 101%.
Non appena la tracolla cadde a terra, un’ ondata di emozioni sembrò sconquassare il petto di Bill. Accarezzò con mano tremante la grossa testa del pastore tedesco, fino a quando un abnorme senso di impotenza non lo invase, facendolo scivolare a terra, in ginocchio. Allontanò Rania che cercava di leccargli il viso ed un silenzioso singhiozzo ruppe ogni barriera.
Scoppiò in lacrime, lacrime amare, di frustrazione, lacrime brucianti sulla pelle.
Pianse a lungo, nella sua testa le voci, le risate, gli insulti, i problemi sembravano scorrergli davanti come morbosi titoli di coda.
E più l’elenco scorreva, più Bill singhiozzava, più la fortezza crollava, in migliaia e migliaia di pezzi.
Si sentiva inutile e brutto, come un giocattolo rotto.
Si sentiva, semplicemente, uno scarto.
Radunò le ultime forze per trascinarsi sul materasso, dove  ricadde tremante e pregò un’ entità superiore di  farlo addormentare all’istante, così da fargli raggiungere quel mondo che il moro amava da morire.
Voleva solo una vita normale ed il fatto di essere cresciuto troppo in fretta lo faceva incazzare maledettamente.
Odiava la stupidità degli altri, la superficialità di Friedrich, odiava i suoi compagni, odiava Gunter, odiava i suoi occhi, odiava i suoi genitori, odiava ogni particella che componeva il suo schifosissimo corpo.
Le lacrime nere continuavano a scorrergli lungo le guance, mentre un enorme macigno gli schiacciava il petto, la testa, le palpebre.
Avrebbe desiderato così tanto morire, in quel momento.

*

 

 

“Mamma, mammaaaaaaa!”
Tom urlò per la terza volta, con tutte le sue forze, in preda alla disperazione.
Era diventato rosso dallo sforzo, ma Simone sembrò non udirlo affatto.
Gli venne quasi da piangere, mentre per passare il tempo messaggiava con Georg, che al contrario di lui, andava ancora a scuola, assieme a Gustav.
“Porca troia… Mammaaaaaaaa! Mamma, aiuto!”
Fu solo al 14esimo strillo che Simone, finalmente, sentì le urla del figlio. Allarmata lasciò i piatti nel lavabo, correndo spedita al piano di sopra dove suo figlio continuava a chiamarla disperato.


“Tom? Tom! Tesoro, dove sei? Cos’hai?” disse la donna, spalancando la porta del bagno.
Il rasta si voltò verso la madre e, tirando su col naso, le indicò un punto al di sotto del davanzale.


“M.. Mamma, è finita la carta igienica, me ne porteresti un rotolo?”
Simone sgranò gli occhi, stringendo irritata lo stipite della porta e, prima che la sfuriata cominciasse ad aleggiare per  tutto il bagno, Tom cominciò a ridacchiare.
“Perfavore, mammina!”
Non appena Simone, ancora scioccata per l’immaturità del figlio, se ne fu andata, Tom riprese a messaggiare con Georg, che intanto gli aveva accennato di una novità assurda successa quella mattina a scuola:


“Hai finito di cagare?”
“Mi sto pulendo il culo, ora ti mando una foto della carta igienica!”
“Diamine, Tom fai schifo! No, non voglio vederl…”
Ma il rasta aveva già scattato ed inviato la foto, con tanto di audio mentre tirava lo sciacquone.
“Sei un coglione”, scrisse Georg in risposta.
Il rasta rise ed uscì dal bagno, andando a sdraiarsi sul morbido materasso.
“Lo so, lo so! Avanti, Ge, cos’è successo a scuola?”
“Una cosa assurda! Un tizio è uscito di testa!”
“Ah sì? Ha ucciso qualcuno?”
“No, no, è solo uscito di testa, ma è un tipo talmente strano!”
Tom sbuffò, si aspettava qualcosa di più interessante, così scrisse svogliatamente:
“E chi sarebbe questo tizio?”

-
 

Tornò a casa con molta tranquillità, entrò nel palazzo dove abitava, si sistemò i capelli, aprì la porta di casa.
Un odore di gelsomino gli invase le narici, la signora delle pulizie sapeva proprio accontentarlo.
Posò la valigia con il PC in salone, si tolse le scarpe.
La domestica gli aveva preparato il pranzo, era in forno.
Quel giorno però i suoi piani erano differenti, perciò si limitò solo a versarsi del vino nell’elegante bicchiere, sorseggiandolo mentre componeva un familiare numero sul suo BlackBerry.
Un’altrettanta voce femminile rispose.
“Pronto?”
L’uomo si schiarì la voce, poi esordì:
“Pronto, signora Trümper? Sono il professor Günter”

 

*
 

“E chi sarebbe questo tizio?”
La risposta non tardò ad arrivare.
“Quel ragazzo del quarto anno, quello che non vede. Giuro, gridava come un ossesso!”
Tom guardò assonnato lo schermo del suo IPhone, ma sgranò gli occhi non appena lesse la risposta di Georg.
Un ricordo confuso salì a galla e per un momento, il rasta chiuse gli occhi.
“Oh, cazzo… Cazzo, cazzo, cazzo!”
Non ricevendo risposta, Georg inviò un secondo messaggio a Tom.
“Amico, non dirmi che stai cagando di nuovo?”
Ma Tom non gli rispose, perché man mano stava ricordando l’ultimo episodio dello scorso Sabato sera.
Il cane, la ragazza, Tom sulla moto e lo shock quando capì che in realtà quella prostituta non era una donna, ne una prostituta, ma… Quel tizio cieco del tatuaggio.
Strinse con forza il telefono, riprendendo a scrivere.
“Ah, davvero? Uhm, è moro, truccato, per caso?”
“Sì, sembra una cazzo di femmina! Che tipo strano, boh. Forse quelli che non ci vedono hanno anche dei problemi al cervello e…”
Il rasta sbuffò anche se era consapevole che l’amico ottuso non poteva vederlo. Guardò di nuovo il suo messaggio, messaggio che aveva appena scritto ed inviò senza pensarci due volte, chiudendo gli occhi.


“Uhm, Ge? Domattina verrò a farvi una piccola visita”

 

Il giorno successivo Bill si svegliò presto, molto presto. I suoi occhi erano gonfi, gonfi per le lacrime, gonfi per la stanchezza.
Quel bastardo del professor Günter aveva avvisato  sua madre dello spiacevole accaduto con suo figlio e sua madre, demoralizzata, era rimasta quasi tutta notte accanto a Bill a piangere e a pregarlo di essere più paziente.
“Bill, tesoro, devi cercare di mediare, non puoi continuare ad essere così scontroso!”
E Bill, ogni volta, dava di matto. Le urlava contro dicendo di aver perso la pazienza dopo le 13 operazioni, le urlava dicendole che era stanco di fare l’agnello con quegli stronzi, le urlava che, ad un ipotetico funerale di Günter, lui su quella tomba ci avrebbe pisciato dopo aver cantato tutto il repertorio dei balli di gruppo latino americani, con tanto di ballerini attorno ed un casco di banane in testa.
Ad ogni modo, dopo che la madre se ne fu andata, il moro riuscì finalmente a calmarsi e, non seppe come, ad addormentarsi.
Quella mattina si sentiva stranamente calmo, si lavò con calma, si vestì e non sbavò nemmeno la matita che applicò ad entrambi gli occhi. Si pettinò con calma davanti allo specchio, aprendo maggiormente gli occhi, con la vana, segreta ed imbarazzante voglia di voler ammirare la sua immagine riflessa. Era un suo modo di fare, un rito che attuava ogni qual volta dovesse uscire.
Faceva tutto davanti allo specchio, anche se non riusciva a vedersi. Certe volte, il fatto di non vedere lo consolava solo perchè pensava di essere brutto.
Insomma, ricordava il suo viso da dodicenne,  non oltre. Ricordava il viso dei suoi genitori, ma ora erano invecchiati. Non conosceva il viso dei suoi compagni, ne di Friedrich, ne di quel bastardo dell’insegnante.
Forse il fatto di non vedere, da un certo punto di vista, lo rassicurava. La sua relazione con la cecità era un continuo conflitto, una lotta estenuante fra odio e amore, fra vittoria e sconfitta, fra bene e male, fra realtà ed illusione, fra paura e coraggio.
E Bill era così pieno di emozioni contrastanti da poter riempire una grossa cisterna.
Un’ immensa cisterna.
Non fece colazione, anche perché sua madre ancora non si era svegliata e no, Bill non aveva la benche minima voglia di cucinare. Salutò Rania che era ancora malata e afferrò il bastone bianco, sciogliendolo e sistemandolo, mentre usciva di casa.
Sì, non vedeva davvero l’ora.
Odiava andare a scuola col bastone bianco, ma quel giorno si era svegliato prestissimo e di sicuro a scuola non ci sarebbe stato nessuno.  Si sarebbe sistemato al proprio banco accanto al muro e avrebbe maledetto sottovoce, come ogni giorno, quegli stronzi che non lo degnavano di un saluto. Sarebbe ritornato a casa scazzato, avrebbe litigato con sua madre e sarebbe salito su in camera, a studicchiare e a leggere al PC.
Se c’era una cosa che odiava oltre alla sua cecità, era di sicuro la scuola, maledizione.
Faceva piuttosto freddo e la rotella del bastone sgusciava facilmente sulla strada umida. Non c’erano macchine parcheggiate sui marciapiedi, ne le cassette del fruttivendolo.
Il moro si concesse una passeggiata tranquilla, stringendo con forza la mano sul bastone ogni qual volta udiva degli studenti passargli accanto, facendosi quasi diventare le nocche bianche.
“Esseri umani”, pensava disgustato quando nessuno si offrì di aiutarlo ad attraversare la strada, come molti adulti o ragazzi più grandi facevano.
Anche se, doveva ammetterlo con sé stesso, anche se glielo avessero chiesto, si sarebbe innervosito lo stesso. Che caratteraccio aveva!


Attraversò la strada e si ritrovò a costeggiare il fiume che precedeva la scuola. In poco tempo si ritrovò ad attraversare il cancello, a salire le scale e ad essere invaso da quel puzzo di plastica e polvere che, un giorno sperava di dimenticare con tutto se stesso.
Con sua grande gratitudine la scuola era deserta, bidelli e bidelle a parte. La segretaria lo salutò e Bill accennò un sorriso educato, prima di dirigersi verso la sua classe.

-

Come al solito si era svegliato maledettamente tardi e le urla isteriche di Simone fecero si che quel risveglio fosse ancora più tragico del solito.
“Tom Kaulitz, figlio degenere, sto per dare la tua colazione in pasto ai lupi!”
Tom piagnucolò esausto e si alzò, rabbrividendo per il freddo. Aveva detto ad Andreas che quel giorno sarebbe rimasto a casa e il suo capo aveva accettato, con sua grande sorpresa, senza fare domande.
“Mamma cazzo, quante volte devo dirti che non ci sono lupi nel nostro quartiere?” urlò in risposta, mentre si dirigeva in bagno,  fiondandosici quasi. Dannato metabolismo veloce e perfetto.
“Ah aaaah! Ed è qui che ti sbagli, ieri ne ho visto uno, era grosso e basso! Ci ho fatto anche una foto, mio caro Thomas!”
Quest’ultimo sbuffò dopo essersi lavato la faccia e, dopo essersi vestito velocemente, con i primi vestiti che gli erano capitati a tiro, giunse in cucina, dove Simone stava saltellando con in mano il suo nuovo cellulare.
“Avanti, donna, fammi vedere questi lupi berlinesi…” sghignazzò ironico, mentre sua madre gli porse il cellulare.
Il rasta alzò un sopracciglio, poi sgranò gli occhi a bocca aperta.
“M… Mamma? Q… Questo non è un lupo, questa è la signora Smith con la sua pelliccia di visone! Guarda, è anche girata verso la fotocamera e ti sta guardando malissimo, cazzo!”
Simone si poggiò le mani sui fianchi, dando un’ occhiata più intensa alla foto, poi scosse la testa, afferrando in malo modo il cellulare dalle mani del figlio.
“Sciocchezze, sciocchezze! Quello è un lupo, tu sei un giovane che venera gli allucinogeni e, tra l’altro, anche in ritardo per andare a lavoro!”
Tom rimase parecchio perplesso, ma decise di non indagare oltre sull’idiozia  di sua madre. Al contrario, indossò la sua pesante felpa a scacchi e ripose nelle tasche cellulare, chiavi dell’auto e sigarette. Non avrebbe mai detto a Simone che sarebbe andato a scuola, quel giorno.
In realtà Tom non sapeva perché ci stesse andando, o meglio il motivo era abbastanza strano per il suo modo di fare. Voleva scusarsi con quel tizio e dopo non vederlo mai più, ecco. Aveva fatto una figura pessima e, tra l’altro, non voleva cominciassero a girare voci sulla sua gaffe e sulla sua falsissima omosessualità.
Se c’era una classifica degli uomini più etero tedeschi, lui sarebbe stato uno dei primi in assoluto.

 

A metà strada si ritrovò ad osservare gruppi di ragazzi e ragazze con tracolle e zaini, altre addirittura in borsetta e tacchi, altri ridicolmente imbacuccati, altri con delle scarpe orrende e, tutti, sembravano un po’ idioti.
E, tra l’altro, tutti lo stavano fissando, alcuni lo additavano anche, sibilando: ‘guarda, ma lui non è Tom Kaulitz?’
Il rasta sorrise scocciato, non era in vena di sfoggiare la sua aria da duro, da celebrità giovanile (anche se non aveva manco il diploma ed il suo lavoro era tatuare). Abbassò semplicemente il capo, mettendosi le mani in tasca e riprendere a camminare, con aria distratta, ma sicura.
Davanti i cancelli scorse finalmente i suoi due amici, gli era mancata un po’ quella scuola, dopotutto aveva passato dei bei momenti e andava d’accordo con tutti. Georg sorrise e così anche Gustav. Si diedero delle affettuose pacche sulle spalle, fino a quando Tom non si guardò attorno, in cerca di quel tizio cieco. Gustav era intentissimo a parlare del fatto che presto avrebbe avuto la macchina e che avrebbe spaccato tantissimo, ma Tom non lo stava ascoltando.
“Ragazzi, dove si trova la… Insomma la classe…” cominciò a dire, impappinandosi di continuo.
Porca troia, non aveva inventato una scusa per giustificare la sua presenza, che cazzo di genio che era!
I due amici lo guardavano spaesati e Tom tossicchiò imbarazzato, poi riprese prima che potessero fargli domande inopportune.
“Insomma, io… Ho saputo che nell’aula dove si trova quel tizio  pazzo… Cioè, li hanno il mio banco, quello dove ci ho picchiato quei tizi, quello con la macchia di sangue e…” stava dicendo solo stronzate, la sua copertura era pessima.
Però i suoi amici sgranarono gli occhi, cominciando a scuoterlo.
“Quei marmocchi hanno il tuo banco? Il banco storico di Tom Kaulitz? Dannazione, Tom la campanella sta per suonare, quel banco non deve essere toccato!”
Sì, beh… La sua copertura era pessima, ma Georg e Gustav erano due idioti!
“Sì, ecco… Quanti minuti ho?” chiese, e Gustav guardò l’orologio.
“13minuti, ce la puoi fare”
Ma Tom era già schizzato nell’edificio, con gran stupore dei due.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

13 minuti, aveva solo 13 minuti. E, doveva ammetterlo, in quel frangente si sentiva un vero coglione.
Si sentiva in colpa, si sentiva arrabbiato ed irritato da quello strano tizio truccato, con quel suo fare da stronzetto impertinente, accompagnata da quell'impercettibile amarezza nel sorriso, oltre che nello sguardo.
O per lo meno, a Tom così sembrò. Anche se, doveva ammettere anche questo, non era riuscito a guardarlo dritto negli occhi e, se lo aveva fatto, era stato solo di sfuggita.
Bill li teneva bassi e quando guardava, diciamo, qualcuno, i suoi capelli neri gli ricoprivano metà volto.
Tutti questi pensieri galoppavano nella mente del rasta, che intanto era entrato nell'istituto semi vuoto. Ricordava perfettamente la classe di Georg e Gustav, dopotutto era anche la sua vecchia aula.
Sorrise divertito quando il suo vecchio insegnante di matematica, quasi non si strozzò con il caffè alla sua vista.

"K... Kaulitz? Sogno o son desto?"
"No, professore, non torno a scuola, dica pure al suo psichiatra di stare tranquillo" sorrise questo malizioso, defilandosi prima che l'insegnante potesse riprenderlo.
In effetti Tom era stato uno studente pessimo. Odiava studiare, odiava gli insegnanti e odiava doversi svegliare presto la mattina. Odiava i banchi, perchè cazzo, persino quelli erano scomodi, con quelle sedioline per i pigmei!
Imboccò il corridoio a destra e l'odore di polvere e plastica lo invase, come ai vecchi tempi. Rallentò il passo per pochi secondi, poi corse spedito verso la classe del moro, roteando gli occhi nell'udire parlottare degli studenti a poca distanza da sè.
Si voltò un attimo, sperando di non essere pedinato dall'insegnante, quando ad un tratto si ritrovò davanti un altro corpo, che lo fece sbandare, facendolo quasi cadere a terra, goffamente.
Quello sì che era il mese degli scontri...
Tom si tenne il naso con la mano, riprendendosi dallo scontro con lo studente, che in realtà si dimostrarono essere due, tra l'altro maschi e a braccetto.
Ed ecco che la vecchia vena di bullo riapparve nel sangue del rasta.
"Razza di checche, non vedete che ci sta una cazzo di persona che sta camminando? Siete per caso cieche, cristo santo? Siete ritardati o cosa? Toglietevi di mezzo, va, che mi state anche facendo perdere tempo!", sbraitò il rasta, spintonando il più alto della coppia, che si irrigidì all'istante.
"Fottuti ragazzini imbranati..." borbottò Tom, superandoli a grandi falcate.
E nel farlo, udì  il ragazzo che aveva appena spinto, rispondergli a gran voce.
"Fri, ma chi cazzo si crede di essere quello li? Ehi, tu, nel caso non te ne fossi accorto il cieco ci sta e sono io! Problemi? Se domani mattina ti svegli uhm, diciamo, cieco, non venire da me a piagnucolare perchè i tuoi compagni di gioco ti prendono in giro perchè usi una bacchetta per camminare, ok?" sbraitò isterico questo, facendogli il verso.
"Come os... C... Che cazzo?" Tom deglutì, chiuse per un momento gli occhi, esasperato.
Non poteva essere, non di nuovo!
Si appuntò mentalmente: "Mese degli scontri e delle figure di merda"
Poi si voltò e, come aveva immaginato, quella voce proveniva da Bill che incazzato nero, parlottava animatamente con un ragazzino molto più basso di lui, biondo, che cercava di trascinarlo via, ma con scarsi risultati.
La scena era adorabilmente buffa, Tom doveva ammetterlo.
Incontrò per un attimo lo sguardo del biondo e si sentì davvero un coglione. Sbuffò sonoramente, poggiandosi entrambe le mani sulle strette treccine scure.

"Se... Senti, non so chi tu sia, ma ti conviene andartene, il mio amico la mattina è intrattabile e io non voglio morire per colpa della sua linguaccia biforcuta..." balbettò il ragazzo e in risposta il moro mise un carinissimo broncio, seguito da una linguaccia.
"Ehi, Fri, vacci piano, per interpellare la mia stupendissima lingua esigo una domanda in carta bollata e..."
Il rasta seguiva la conversazione scioccato, mentre ammirava il luccichio del piercing alla lingua di Bill. Era una situazione alquanto strana e, sì, anche comica, ma soprattutto strana.
I minuti erano diventati 5  e il moro non la piantava più di predicare su quanto fosse importante la sua lingua e che dopo la scuola se ne sarebbe andato ad allevare mufloni in Bangladesh pur di non vedere più la faccia di Friedrich che, per inciso non aveva mai visto, ma quelli erano solo "dettagli trascurabili"
"Dio, ma quanto è isterico?" pensò Tom, facendosi coraggio ed avvicinarsi così ai due, afferrando Bill per un polso.
Come si aspettava il moro si voltò verso di lui, con aria davvero innervosita.
"Ehi, ma si puo' sapere che cazz..."
Tom strinse maggiormente il suo polso, avvicinandosi pericolosamente al suo orecchio, spostandogli qualche morbida ciocca, dietro le spalle.
"Oggi si fa filone, raggio di sole...", sussurrò piano, lanciando un' occhiata complice a Friedrich, che deglutì.

-

Bill si stupì dell'estremo cambiamento che quella giornata aveva preso.
Era entrato in classe e aveva trovato Friedrich, seduto al banco che piagnucolava perchè non aveva studiato un cazzo di tedesco, come suo solito.
Bill si era seduto accanto a lui e gli aveva dato una pacca affettuosa sulla coscia, come faceva sempre.
“Dai, Fri, manco io ho studiato un cazzo!” disse il moro, sorridendo.
Poteva anche essere stupido, ma doveva ammetterlo, voleva un bene dell’anima al suo amico.
Quest’ultimo, stranamente non rise, ma anzi si voltò verso di lui e Bill si sentì i suoi occhi addosso.
“Bill, hai la faccia più cadaverica del solito e… E so cos’è successo con il professore e… Mi dispiace, io…”
Il moro lo aveva interrotto, non era abituato a parlare di queste cose con Friedrich. In realtà, quella era la loro prima discussione seria, discussione che terminò con un goffo abbraccio e qualche lacrima che Bill cercò di nascondere, ma che il biondo notò subito.
Poi ci fu l’incontro con quel ritardato che lo aveva letteralmente rapito.

*

“Ehi, tizio, se credi che verrò affetto dalla sindrome di Stoccolma ti sbagli, anzi ti dirò mi stai già sul cazzo!”
Borbottava Bill, mentre Tom, goffamente, lo afferrava spaventato per il polso ogni qual volta c’era da scendere un gradino.
E, puntualmente riceveva una gomitata da Bill che, irritato, sbuffava sonoramente, ripetendo in continuazione:
“So che c’è uno scalino, non sono mai caduto da quando non vedo, fly down amico, ok?”
E Tom puntualmente annuiva, ma poi all’ennesimo gradino lo riafferrava, sentendosi oramai un coglione di fama internazionale.
“Ehi, dolcezza, chiudere un po’ quella boccaccia no, eh? Non ci vedi ma compensi bene la mancanza della vista con triliardi di chiacchiere e lamentele…” disse Tom, ridacchiando.
Cosa che fece anche Bill, mollandogli un'altra gomitata nel fianco.
“Ok, ok, posso almeno sapere dove stiamo andando? Senti, se vuoi stuprarmi sappi che ho un’ arma e non ho paura di usarla…” borbottò, sollevando il bastone bianco, ordinatamente piegato, che penzolava dalla sua mano.
Il rasta inarcò un sopracciglio incuriosito, fermandosi un attimo.
“Cos’è?” disse, strappandogli il bastone di mano, cercando di  slegarlo.
“Ehi! Attento, devi aprirlo bene, se sbagli si apre di scatto e ti fai m…”
“Ahio!” gridò infatti Tom, mentre il bastone bianco si apriva e sistemava di colpo, colpendogli il dorso della mano.
“Ma che razza di… Fighissima macchina infernale è mai questa?” sussurrò Tom, illuminandosi e poggiando la rotella del bastone a terra.
“Bill sbuffò sonoramente, scrollando le spalle.
“E’ un bastone bianco, lo usiamo noi talpe per orientarci, ma è orribile e io lo odio e… Tom, dacci un taglio!”
Il rasta non lo stava ascoltando, era troppo impegnato a scorrazzare per il parco lasciando scorrere la rotella del bastone a terra, goffamente, ridendo come un idiota.
“Bill, sto coso è tostissimo! Aspetta, ora ti accompagno qui da me e…”
“Posso arrivarci anche da solo, aspirante talpa…” ridacchiò Bill e il rasta se lo ritrovò alle spalle, illuminato dal sole invernale.
“Ma… Come hai fatto?” chiese Tom, mentre accennava dei ridicoli passi di danza con il bastone”
“Ho seguito il suono della tua voce. Alieno, eh?” mormorò Bill, alzando un sopracciglio.
“Ora puoi dirmi perché mi hai portato al parco e, soprattutto, perché sei qui?”
Tom lo afferrò nuovamente per il polso e lo costrinse a sedersi di peso su una panchina, ridacchiando alle espressioni truci del moro, che accavallò le gambe indispettito.
“Volevo scus… Ehi, ma poi… Come fai ad usare il telefono? Cioè, cazzo, poi come fai a truccarti? E, uhm, ci sei su Facebook?”
Il rasta era curioso peggio di una scimmia e quel morettino tutto bronci e scrollate di spalle, non gli stava poi così antipatico.
Bill sorrise divertito, scrollando, infatti le spalle. Quante volte gli avevano fatto quelle domande? Un miliardo di volte, come minimo.
“Beh, so truccarmi perché ho seguito un corso di make up per non vedenti a Monaco, tra l’altro ero il più figo del corso, hm, per il cellulare uso una sintesi, se hai un IPhone puoi entrare anche tu nel mondo delle talpe e vedo che la cosa ti eccita molto… E sì, ci sono su Facebook, se mi dici almeno il tuo cognome ti aggiung…”

“FAMMI VEDERE IL TELEFONO!”, urlò Tom, scuotendo il moro che, ridacchiando, tirò fuori un nuovo modello di IPhone dalla tracolla, con una strambissima cover a forma di Vodka.
“Ubriacone…” borbottò divertito il rasta, afferrando il cellulare.
“Vecchia pettegola…” rispose a tono Bill, sbloccandogli il cellulare.
Fatto ciò, il telefono cominciò a parlare e Tom si illuminò per la seconda volta.
“Cazzo, è una figata assurda! Non sapevo che, insomma… Basta avere un IPhone e il gioco è fatto?”
Bill annuì piano, scuotendo la testa all’entusiasmo eccessivo del ragazzo.
“Sì, diciamo che sull’IPhone basta andare in impostazioni ed attivare la sintesi, mentre per gli altri telefoni bisogna scaricare dei programmi che fanno abbastanza cagare…” disse, gesticolando distrattamente.
Tom sembrava un bambino scemo mentre scriveva delle parolacce sul blocco note, facendole poi leggere alla sintesi.
“Nooooo, senti come dice bene cacca!”
Il moro si diede una manata sulla fronte, scoppiando suo malgrado a ridere.
“Dammi quel cazzo di telefono o me lo rincoglionisci!”
Continuò a ridere, mentre si riappropriava del suo cellulare.
Anche Tom rise, incrociando le braccia al petto.
“E come fai a usare il computer? Ah, e perché non c’è il tuo cane?”
“Uso una sintesi anche con il computer, i cosidetti screen readers… Per windows c’è una sintesi a parte, per i Mac c’è già il pr… Come fai a sapere di Rania, scusa?”
Tom si morse la lingua e ringraziò di aver accanto un ragazzo che non poteva vedere la sua espressione disperata.
“Ecco, io… Diciamo che è il motivo per cui ti ho rapito, ecco. Ho fatto una figura di merda allo studio, ho fatto una figura di merda oggi a scuola e ho ehm… Fatto una abnorme figura di merda quel Sabato che c’ho provato con te… Ma ehi, ero ubriaco e tesoro, se non sapessi che hai il pacco giurerei tu fossi una ragazza…”
Bill lo ascoltò interdetto, poi sgranò gli occhi, ma Tom non riuscì, nemmeno quella volta, a guardarli bene.
“Eri tu quel cretino? Cristo, mi hai fatto venire un infarto quella sera! Sapevo ci fosse qualcosa di familiare in quella voce!” disse in falsetto, coprendosi la bocca con la mano.
“Cristo, Bill, ma quanto sei gay da 1 a te stesso?” rise Tom, nonostante la propria confessione imbarazzante.
“Sono più o meno ai tuoi livelli, nemmeno tu mi sembri poi così etero…” borbottò il moro, alzando il nasino, con fare vanitoso.
“Bella battuta, ma tutti sanno chi sono e no, Tom Kaulitz è eterissimo e, soprattutto, non chiede mai scusa a nessuno! Perciò, tesoro, sentiti onorato”
“Tom Kaulitz? Non prendertela, ma non ho mai sentito parlare di te…” disse all’improvviso Bill, facendo quasi cadere la mascella al rasta.
“C… Come sarebbe a dire non sai chi sono?  Tom Kaulitz, il più figo, il latin lover, il bastardo?”
“Uhm… Nein” scosse la testa Bill, facendo spallucce.
Tom sgranò gli occhi, sorpreso.
“Ma dove cazzo vivi!?”
“A Berlino”, gli fece il verso Bill.
“Ok, ok, calmiamoci. Sabato non prendere impegni, ok? Sabato c’è una festa e tu devi assolutamente partecipare. Cristo, porta anche il tuo amico, siete fuori dal mondo o cosa?”
Bill si rabbuiò, scuotendo deciso la testa.
“Scordatelo, le feste dove vado io vanno sempre a finire male, puntualmente rimango da solo”
“Sciocchezze, Sabato vieni, niente storie!”
Annuì deciso Tom, nell’euforia del momento.
Se ne sarebbe pentito amaramente e Bill ancor di più, di aver accettato.

 

 

 

Note dell’autrice

 

Salve a tutte! Allora, saranno passati secoli sì, me ne rendo conto, ma quest’anno ho la maturità e il mio cervello non è in grado di fare più cose contemporaneamente. Mi spiace tantissimo, ma, insomma… Spero possiate perdonarmi!

Devo dire che questo è il mio capitolo preferito, l’ho riletto dopo mesi e ho riso da sola per tutte le stronzate che ho potuto scriverci. E’ uno dei miei capitoli preferiti perché spiega per filo e per segno gli ausili che i ciechi usano, dato che c’è una disinformazione da far paura e in molte storie che ho letto su questo sito ci sono cose sui ciechi che sono illegibili, direi aliene, ecco. Perciò questo capitolo è per sfatare un po’ certi miti e per dare le giuste informazioni, casomai qualcuna di voi dovesse perdere la vista, insomma, sapete già come muovervi.

LOL umore nero a parte, ringrazio tutte coloro che hanno recensito, vi amo, io… Io vi tromberei tutte, davvero, ma non lo farò perché sono una persona dai sani principi e bla, bla, bla.

Mi sto dilungando, quindi, niente…

 

Recensite e fatemi sapere cosa ne pensate!

 

XX

 

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