Keeping Me Alive

di Comatose_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Normal day for normal people in a normal school. Or not? ***
Capitolo 3: *** Come dimostrarsi miserabile difronte a Maestri D'Armi ed Armi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




[0]
Prologo





Detroit, Michigan, 10.20.2009

Ci sono situazioni che non mi sono mai piaciute, ed in quel momento mi ritrovavo nel mezzo di una di queste.
Feci ruotare il bastone che stavo usando come arma totalmente arrangiata, parandomi il culo da due attacchi troppo veloci per essere schivati. Adattai la mia mente al pensiero che forse, da quel combattimento improvviso, ne sarei uscita mutilata.
Digrignai i denti e, prendendo un grosso respiro, saltai indietro mentre un terzo attacco mi si riversava contro.
Quando mai si sono viste uova di Kishin così fottutamente veloci ed abili?
Sbam, l’apprendista Kishin si lanciò di nuovo sulla sottoscritta, facendola ruzzolare a metri e metri di distanza.
Stesa a terra, ansimante e stanca, capii che se non fossi scappata ne sarei uscita davvero mutilata; e non mi andava di perdere una delle mie belle manine smaltate di nero.
Ma come fuggire da una situazione del genere?
Semplice. Corsi.
Inutile specificare che il fantastico uovo di Kishin mi stava inseguendo.
Non si sarebbe mai perso una cena così appetitosa e facile.
La prima cosa che mi venne in mente di fare fu rifugiarmi alla stazione, nel peggiore dei casi sarei salita su un treno a caso e bella così.
Il mio piano si rivelò stupido, calcolando anche che erano le undici e mezza di sera ed i treni, normalmente, finiscono le corse verso le dieci e mezza. Eppure, funzionò.  
Il Kishin si bloccò all’altezza del sottopassaggio per andare da un binario all’altro.
E fu così che ringraziai Shinigami per aver donato a quegli stronzi un cervello talmente piccolo da non meritare nemmeno di essere chiamato tale. 
Rannicchiata nel sottopassaggio, coperta da numerosi taglietti superficiali, pensai a cosa fare.
Era il sesto di quei cosi da cui venivo inseguita nell’arco di… uhm… quattro giorni? La cosa, naturalmente, iniziava ad infastidirmi.
Fu così che mi venne la geniale idea di andare a trovare il Sommo alla Shibusen. Lì avrei trovato il modo per difendermi, ed eventualmente anche qualcosa da fare.
Qualunque cosa, però, in un momento del genere, mi sembrava la più adatta.
E così aspettai il giorno seguente, tornai a casa, feci delle ricerche e dormii.
Qualche tempo dopo, rintanata in casa da quell’avvenimento, decisi che il momento di riprovare quella scuola era arrivato.
Dopo aver passato un periodo di stallo tra la vegetazione e la voglia di morire, giustamente pensavo fosse giunto il momento di arricchire il mio curriculum vitae e far sì che nelle possibili opportunità lavorative che mi si sarebbero presentate, non sarebbe in alcun modo uscita la voce “mantenuta, scansafatiche e nullafacente a tempo pieno”.  
Avevo il consenso di mio padre, avevo i soldi ed avevo la voglia di cambiare aria.
Mi trovai, così, davanti alla scelta di classe.
Meister o arma?
Ero da ore lì, ad osservare le due caselle da segnare.
Corrucciai il volto in un’espressione confusa, per poi lanciare in aria il foglio e scompigliarmi i capelli istericamente.
“AH, CAZZO, AAAH.”
Urlai quando i miei piercing s’incastrarono nella manica del maglione.
Considerai seriamente l’idea di suicidarmi o, perlomeno, staccarmi la testa dal collo e giocarci a bowling.
Optai per il lasciare vuote le caselle.


 

Un mese dopo, era tutto pronto.
Arrivai in aereoporto, m’imbarcai e quattro ore più tardi ero in Arizona, nella Death Valley, a Death City.
Trovare la strada per la Shibusen non fu difficile, anche perché era l’edificio che sovrastava l’intera città, quasi a renderla più piccola di quanto già non fosse. Ma quella non era la mia meta, almeno non ancora.
Armata di cuffie, foglietto con indirizzo e numero civico, mi avviai alla ricerca di quello che sarebbe stato il mio appartamento.
Il tempo di finire “Country Song” degli Seether, ed ero arrivata al palazzo.
La casa bastava ed avanzava.
C’era un ingresso bello grande con salotto ed angolo cottura, un bagno ed una camera.
Posai le valigie ed andai a comprare del cibo.
Ehi, dopo più di quattro ore senza mangiare, avevo fame. E nemmeno poca.
Al market vidi persone di ogni genere, tutti avevano una caratteristica diversa.
Mi strinsi nelle spalle passando vicino ad una ragazza molto alta, bellissima e con un sorriso dolce stampato in viso.
Presi quel che dovevo prendere, pagai e tornai a casa. Mangiai e fumai.

Ora che mi trovavo in quel luogo, alcune insicurezze salirono a galla. E se qualunque sforzo avessi fatto, non sarebbe servito? E se fossi rimasta allo stesso livello in cui già ero, senza chance alcuna di diventare più forte? Se non fossi riuscita a vincerlo?

Mi decisi e mi avviai verso la scuola. O la va o la spacca, pensai.
E sperai intensamente che se qualcosa si fosse dovuto spaccare, non sarebbe stato nulla di mio.
Nell’attesa d’incontrare colui che mi avrebbe ammessa alla scuola, giocherellai coi due piercing ai lati delle labbra*, attirando l’attenzione di alcune persone.
Effettivamente, non passavo inosservata.
Ma nemmeno loro scherzavano. Per questo non capii affatto il loro fissarmi.
Un’ora ed almeno sette minuti più tardi, incontrai il Sommo Shinigami nella camera della morte. Che gran bel nome, davvero.
Shinigami rimase fermo davanti alla mia figura per qualche minuto, in silenzio, guardandomi da sotto a quella sua maschera dall’espressione innocua. Arronzai un saluto formale, ma ne uscì una roba scocciata.
Fuk*, pensai.
“Ohiohi, salve, fanciulla!”, disse muovendo il manone a destra e sinistra. “Come potrei aiutarla?”
“Dovrei iscrivermi alla Shibusen.”, feci, “Come posso fare?”
Mezz’ora dopo, ero iscritta alla Shibusen ed avevo  l’elenco delle mie lezioni con rispettivi orari.
“Puoi iniziare anche ora!”, esclamò l’omone che mi stava davanti.
Sbiancai. Non ne avevo la minima voglia.
Insomma, ero arrivata ad ora di pranzo, avevo mangiato, ero andata lì ad iscrivermi e già voleva farmi frequentare le lezioni pomeridiane? Folle.
“Ehm-, in realtà…”
“Aggiudicato! Vai alla tua prima lezione!”
Tutto troppo fottutamente veloce.
Come facesse quella scuola ad essere così organizzata, non me lo spiegherò mai.
Venti minuti dopo, ero seduta ad un banco di legno, senza libri, senza sapere come funzionassero le lezioni e, soprattutto, senza voglia di fare nulla se non dormire.
L’insegnante, un tipo magro ed alto –con una vite conficcata in testa, tra l’altro, fece notare a tutti che io ero appena arrivata e non sapevo come funzionasse la vita lì.
Mi sentivo gli occhi di tutti addosso, come se non bastasse.
E la cosa che più mi premeva, era come velocemente le notizie corressero in quell’istituto. Scossi le spalle.
“Come ti chiami?”, mi domandò. Il mio nome lo sapeva, il bastardo.
“Catherine. Catherine Rothman.”, mi scostai una ciocca di capelli corvini dal viso e poi posai il mento su un pugno. Apparivo scocciata. Ed un po’, ammettendolo, lo ero.
Un coro di voci, prontamente, rispose: “Ciao Catheriiinee”.
Subito dopo, mi addormentai.
Semplice, veloce ed indolore.
Fosse solo per il fatto che mi stavo sbavando su tutta la manica.









Hi there, guys!
Scusate se la ff apparirà molto old school, scontata o altro, la mia assenza da efp mi ha negato dell'opportunità di scoprire come funziona la vita su questo sito. 
Ma a voi non importa del mio miracoloso ritorno su questo social, perché non saprete nemmeno chi sono quindi AAAAAAAAAAAA mi uccido.
Byy the wwwaaaayy, hope you like it! 
Al prossimo capitolo!

*Dahlia-h, piercing ai due lati delle labbra. Di solito vengono poste due palline agli angoli della bocca.
*Fuk, è un’espressione usata dal personaggio. Non è Fuck, ma il significato è quello. 

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Capitolo 2
*** Normal day for normal people in a normal school. Or not? ***





[1]
Normal day for normal people in a normal school. Or not?




“EHI. EEEEEEEEEEHI.”
Saltai in piedi, urlando un sonoro: “CI SONO, LO GIURO.”
“E quindi tu sei quella nuova? Tu sei quella che mi ha rubato la scena!”, urlava ancora.
Un tipetto coi capelli azzurri, vestito da clown e molto incazzato mi fissava truce. Dietro di lui, silenziosa e sorridente, c’era la ragazza del market.
Sorrisi ad entrambi.
“Beh, non era mia intenzione.”
L’azzurrino parve sorpreso, ma poi riprese la sua parte da super-boss.
“Che non si ripeta! Qui me la comando io!”, disse indicandosi. Urlava, ed io non ho mai sopportato chi urla.
Cercai di cambiare argomento, anche per farlo stare zitto.
“Sono Catherine.” E gli porsi la mano. Lui la snobbò e, continuando ad urlare, disse “Io sono Black Star, il più forte fra gli Dei!”
Fui io ad ignorare lui e guardai la ragazza.
“Io sono T-tsubaki.”, mi salutò con la mano ed io le sorrisi.
“Almeno  c’è qualcuno che sembra sano!”, esclamai ridendo. Lei rise con me.
Mi propose di andare con loro e di conoscere il resto del gruppo, così li seguii. Ero in quella città da meno di un giorno e già conoscevo delle persone, era un record. Ma ne ero felice.
Più che altro, conoscendo il resto del gruppo, fu abbastanza facile ricordare perché mi piaceva starmene per i fatti miei. Erano casinisti, troppo casinisti per i miei gusti. Ridevano, schiamazzavano, si picchiavano con libroni ed urlavano.
La confusione mi ha sempre dato sui nervi.
Provai svariate volte a liberarmi di loro, nel corso delle due ore passate assieme, ma in un modo o in un altro riuscivano ad incastrarmi lì. Poi, esausta, decisi di fumare, mandando a quel paese tutti i propositi sulla buona intenzione che avrei dovuto/voluto dare agli altri.
Presi il tabacco, le cartine ed i filtri e rollai, sotto lo sguardo curioso di alcuni di loro.
Specialmente di una delle tre biondine. Tipo quella tettona, bassa e con la pancia scoperta. Mi chiese cosa stessi facendo e, con nonchalance, accesi il drum e la guardai negli occhi.
“Fumo”, dissi guardando la brace della sigaretta.
“Uooooohhh, ed è divertente?”, chiese con un’innocenza quasi surreale.
“Beh, no”
“E perché lo fai se non è diverteeente?”, domandò, invadente.
Effettivamente non c’avevo mai pensato. Fumare mi è sempre stato indifferente, e probabilmente avevo iniziato per seguire una moda impostami dal gruppo con cui uscivo nella mia città. Ma andava bene così, e quindi preferii alzare le spalle e sorriderle.
“CHE SCHIFO!”, urlò Maka, mi pare. “Il fumo fa male, puzza ed è cancerogeno per chi ti sta intorno!”
Già non la sopportavo, e conoscendola da una cosa come due ore e tre minuti, la cosa aveva dell’incredibile.
“Che peccato!”, esclamai sorridendo. “Tranquilla, ti ci abituerai!”.
Era come se l’avessi sfidata, e la cosa effettivamente non le piacque.
Si sedette sulla panchina, prese un libro e si estraniò dal gruppo, quasi fosse per ripicca. Risi.
“Fa sempre così, fra un po’ ti sembrerà quasi normale.”
Guardai il ragazzo albino, gli rivolsi lo stesso sguardo complice e lui ghignò, per poi andarsi a sedere vicino alla ragazzina magra ed imbronciata.
Finito il mio drum, infilai le cuffie nelle orecchie, esasperata.
Mi alzai da terra, e chiaro e tondo dissi agli altri che sarei tornata a casa, dato che ero stanca, affamata e tremendamente sudaticcia e puzzolente.
A ritmo di Feel Good Drag, tornai a casa.
E la prima cosa che feci fu tuffarmi nella vasca da bagno, per poi addormentarmici inesorabilmente dentro.
E così si concluse la mia prima, fantastica giornata a Death City.
Direi che come inizio della mia carriera da maestra d’armi, fu abbastanza penoso.
Ma vabbè.






Death City, Arizona, 2009

“OOOOOOHH SVEGLIA”
Saltai dalla vasca da bagno, ricadendoci dentro e bevendo un’ingente quantità d’acqua.
“OMMIODDIO”, gridai, tossendo e sbraitando vari insulti/parole non comprensibili agli umani.
“Eh, finalmente sei sveglia. Eh.”, l’individuo posò le mani sui fianchi, guardandomi con alterazione. “Aspetto di poter usare il bagno da ieri sera, ma a quanto pare a qualcuno piace addormentarsi in vasca.”
“Oh, ti chiedo scu…”
Poi ragionai su cosa stesse succedendo.
Chi cazzo era quell’individuo? Perché era nel mio bagno e perché NON ERA USCITO, VEDENDOMI NUDA?
“MA CHI CAZZO SEI TU.”
Sbraitai, coprendomi alla bell’è meglio con un accappatoio. Sì, lo trascinai nella vasca, bagnandolo completamente.
Il mio interlocutore parve scocciato.
“Il tuo coinquilino.”, si voltò. “Adesso copriti ed esci, per cortesia.”
Coinquilino? Ma c’era solo una camera in casa.
Domandai.
“No, ce ne sono due. Sei tu a non aver guardato nel corridoio, oltre al bagno ci sono due porte. Altre due stanze. Una mia, ed una dell’altro coinquilino.”
Era un soggetto stoico, che andava dritto al sodo e non perdeva tempo. Mi piacque subito.
Senza fiatare, misi l’accappatoio fradicio ed uscii, facendogli un cenno con la mano che lui ricambiò.
Fui davvero così stupida da non notare altre due porte?
Non posso rispondere, perché ora come ora nemmeno io ne sono certa. Ma posso assicurarvi che lì, oltre al bagno, non c’era alcun corridoio.
Dopo essermi asciugata i capelli e vestita –fortunatamente non sono mai stata una di quelle ragazze tutte “ommioddio come mi vesto oggi”, uscii di casa.
Pensai a fondo alla questione “coinquilini”, avviandomi verso scuola. Mio padre non mi aveva detto nulla sulla cosa, così decisi che di lì a poco lo avrei chiamato per chiedergli spiegazioni.
Prima, però, fui scaraventata a terra da una figura bassina, bionda e tettona: Patty.
“Ciao Caaatth!”, ululò, alzandosi.
Troppa. Euforia. Per. Questa. Vita.
“Ehi, Patth!”, salutai cordialmente, mentre mi spolveravo i pantaloni.
Dopo un po’ di chiacchiere con Patty, Kid e Liz –“chiacchiere”, arrivammo all’ingresso della Shibusen.
Cartine, filtri e tabacco. Guardai gli altri e gli assicurai che li avrei raggiunti dentro, dopo aver fumato.
Fu una semplicissima scusa per riuscire a rilassarmi prima d’iniziare il mio primo, vero giorno di scuola.
Soppressi l’impulso di scappare e fare altro per tutto il giorno, finii di fumare ed entrai.
I soliti sguardi su di me, questa volta, furono quasi più insistenti. Così, infilai le mani in tasca, abbassai lo sguardo e raggiunsi la classe “New Moon”.
La lezione del giorno fu quasi interessante, si trattava di concentrare e fare della propria anima un’arma ad onda d’urto. Fu Black Star a fare la dimostrazione, e fu strano scoprire che oltre ad essere un pagliaccio aveva anche qualche capacità.
Fortunatamente, non mi addormentai durante il resto delle lezioni.
“Catherine”, una voce mi ridestò dalla ricapitolazione mentale della giornata, mentre mi alzavo per andar via. “Dovrei parlarti.”
Era il Prof.
Avvicinatami alla cattedra, domandai cosa volesse.
“Sai bene che in questo istituto c’è bisogno di talento e capacità –ruotò la vite sulla tempia-, per questo ho bisogno di testare cosa tu sappia fare o meno”, mi guardò, cercando il mio sguardo per assicurarsi che io avessi capito, “vorrei convocarti nel corso di recupero.”
Alzai un sopracciglio.










That's right, second chapter is on! 
Salvieee people! Benvenuti nel secondo capitolo di Keeping Me Alive, dove, fondamentalmente, non succede nulla! 
Well, non temete, essendo una storia che prevede un bel po' di capitoli, spiegherà più cose man mano.
Hope you like it! 
Chaaaoo!!

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Capitolo 3
*** Come dimostrarsi miserabile difronte a Maestri D'Armi ed Armi ***


 

[2]
Come dimostrarsi miserabile difronte a Maestri D'Armi ed Armi




“Non fraintendermi. Nel corso di recupero, appunto, si recuperano cose che durante le lezioni sono sfuggite. E, Catherine, sei arrivata alla metà di un anno scolastico, senza sapere cosa tu sappia fare, in una scuola dove c’è bisogno di sapere sempre cosa fare e cosa si è capaci di fare. Perciò, parteciperai al corso di recupero.”
Girò ancora la vite, guardandomi negli occhi.
Io, dal mio canto, capii perfettamente il discorso. Anche se forse era lui a non aver idea di cosa stesse dicendo.
Mi diede le date e gli orari.
Preferii acconsentire, per non dare nell’occhio e non far partire voci strane.
Stain, così era il suo nome, mi congedò. Con un piccolo inchino, un sorriso ed un “grazie”, uscii.
Una volta fuori, sentii soltanto l’uomo sospirare ed accasciarsi sulla sedia, con uno scricchiolio inquietante.
Per evitare di pensarci , decisi di agire come mai avrei immaginato di fare.
“Soul! Maka!”, li chiamai e corsi verso di loro. Una distrazione, è pur sempre tale.
“Oi, Cath!”, mi salutò l’albino. Maka si limitò ad un mugolio.
“Che si fa oooggi?”, sorrisi, giocando col piercing destro.
La biondina parve quasi sorpresa, sorrise appena e mi guidò, accompagnata da Soul, verso casa loro.
Stranamente, prevedevo di divertirmi.
 
“Corsi di recupero?”, chiese stranamente serio.
“Corsi di recupero –asserì l’altro-, abbiamo bisogno di scoprire cosa sappia fare.”
Mentre prima gli stava dando le spalle, Shinigami si voltò verso Stain. Preoccupato? Disorientato? Nemmeno lui sapeva come sentirsi.
“Pensi che sia una buona idea?”, gli chiese, scettico.
Stain girò un paio di volte la vite sulla tempia prima di rispondere.
“Penso sia opportuno per tenerla d’occhio. E’ pur sempre sua figlia.”.
Il dio gli schioccò un’occhiata che non ammetteva repliche.
“Mi scusi.”, interruppe lo sguardo con i fori della maschera di Shinigami, guardando alla sua destra “Volevo dire, Shinigami, ho la situazione sotto controllo.”
Sistemò gli occhiali sul naso, lasciando che la luce riflessa in essi rendesse visibili i suoi occhi poco o nulla.
“D’accordo, Stain. Sii cauto.”, si voltò di nuovo verso lo specchio ad osservare la ragazza e gli amici.
Sospirò quando il meister uscì, un “arrivederci” appena accennato.
Sapeva che l’avvento di Catherine sarebbe stato portatore di guai, ma il fato aveva deciso così.
Abbassò la maschera, passandosi una mano in viso.
Oh, Dio.
 
 
Death City, Arizona, 2006
Un solo pensiero nella testa. Un solo, bacato pensiero.
Il respiro veloce, spezzato da qualche inciampo dovuto alla fretta.
Strinse il pargolo a sé, quasi fosse qualcosa di così prezioso da dover essere protetto in qualunque circostanza.
Sì, doveva arrivare velocemente alla casa. E non poteva permettersi ritardi.
Il portale stava per chiudersi.
Girò lo sguardo e quel che vide fu solo fuoco.
Tanto fuoco, tanta disgrazia. Morte.
Corrucciò il viso in un’espressione indecifrabile. Tanto storpia quanto malata.
Ma non interruppe la sua corsa. Non poteva.
Dall’enorme bolla sulla Shibusen provenivano rumori di ogni genere. Non osava immaginare cosa stesse succedendo a quei ragazzi.
Ma quel pargolo non poteva restare lì. La follia del Kishin era troppa.
Arrivò all’edificio. Era distrutto, disastrato.
La potenza del portale stava manifestandosi. E questo non doveva accadere.
Solo un sacrificio avrebbe portato la pace, secondo il Libro di Eibon.
Qual miglior sacrificio, orsù, se non il suo stesso figlio?
Medusa scoprì il suo volto dal cappuccio di stoffa nera, salendo le scale all’interno del cadente loco.
Arrivò lì. Il portale. Il tanto esasperato portale.
Portò una mano a carezzare la guancia del pargolo, ignorando le sue furenti urla. Sorrise, piano.
“Dormi, presto non avrai bisogno di queste inutili urla.”
Il fascio di coperte stoppò i lamenti, guardando la donna negli occhi.
Non poteva immaginare cosa stesse per succedere.
Medusa guardò il portale. Un enorme, gigantesco buco nero.
Sprigionava un’ingente quantità di follia. Sentiva l’aura nera che lo contornava tirarla al suo interno.
Sentiva di dover andare.
Rinsavì, ridendo.
“Non è il mio turno.”
Il pargolo, or ora, stava fluttuando davanti alla sottile figura della donna. Continuò a ridere.
“Il tempo è la chiave. Il tempo.
In un lampo scuro, la cui forza d’impatto scaraventò via la strega, il pargolo fu trascinato all’interno del portale.
“Qual miglior sacrificio”, pensò Medusa, alzandosi e calando il cappuccio, “se non il figlio di Eibon?”
Il portale scomparve, lasciando dietro sé niente se non rovine.
La strega scese le scale, riprendendo la sua corsa.

 


Death City, Arizona, 2009
Non si sa come, non si sa perché, ma eravamo tutti finiti a giocare a Monopoly.
E mi stavo perfino divertendo!
Ero in coppia con Kid, il che comportava dover tirare i dadi in un preciso luogo e con la velocità esattamente pari. Altrimenti finiva male.
Ma a parte questo, era una bella situazione.
Almeno finché Black Star non saltò sul tavolo, urlando cose sconnesse e facendo cadere il gioco dal tavolo.
Mi alzai, tirandolo giù ed urlando “EHI CRETINO”
Mi guardò sbigottito, poi ghignò.
“Cos’è? MI STAI SFIDANDO, PER CASO?”, si drizzò in piedi, indicandosi col pollice.
Avvampai dal nervosismo.
“AAAAH.”, gridò “O HAI PAUURA?”, sghignazzò.
Nella mia testa schioccò non so quale meccanismo strano, fatto sta che gli urlai di rimando –ed io non urlo mai- “VEDIAMO CHE SAI FARE, CAZZONE!”
I presenti, dal loro canto, non parvero stupiti o altro per Black Star, ma guardavano me, incuriositi.
Curiosi di cosa, non lo capirò mai.
Cinque minuti dopo eravamo al campo di basket, uno difronte all’altro.
“Tsubaki!”, chiamò, “Modalità shuriken!”
Tsubaki provò, povera ragazza, a farfugliare qualcosa come “ehi cretino, Catherine non ha una cazzo di arma”, in termini più gentili.
Ma inutile palesarvi che fu inutile.
Così mi ritrovai a schivare uno shuriken grande quanto me rotolando per terra come un ciccione.
Righiai quando, tornando indietro, l’arma mi stracciò parte della felpa.
“Tsubaki, MODALITA’ KUSARIGAMA!”
Velocissimo, iniziò a correre verso di me.
Dalla posizione di difesa che avevo assunto, mi preparai a saltare, superando la sua corsa e atterrando dietro di lui.
Appena si voltò per colpirmi con un falcetto, velocissimo, mi abbassai e gli afferrai una caviglia con la mano.
Semplicemente, lo tirai e lui scivolò a terra.
Il gruppetto, che osservava la scena dalle panchine, rise.
Black Star diventò paonazzo dalla rabbia.
Si alzò e scomparse nel nulla.
Fui tanto confusa quanto stupita, ma cercai di non perdere la concentrazione.
Optai per quel che sapevo fare meglio. Meditare.
Velocemente, levai la felpa e della manica stracciata feci una benda.
Non posso vederlo, ma posso sentirlo.
Detto fatto, appena fui sicura di aver rintracciato la sua anima, sferrai un pugno.
Lo sentii gemere, così levai la benda improvvisata.
Quel che vidi fu Tsubaki che reggeva il suo zigomo, dolorante.
Non capii cosa stesse succedendo finché Star non mi colpì da dietro con l’onda d’urto della sua anima.
In un momento tutto il suo cazzo di ego, tutta quella superbia mi fu chiara.
Venni scaraventata dall’altra parte del campo, contro il palo del canestro.
Considerai l’idea che qualche costola mi era partita, e mi portai una mano allo sterno.
Tossii sangue.
Sentii  qualcuno urlare il mio nome, ma guardando verso di loro vidi Soul prendere per il colletto Star.
“Non è questo quel che s’intende per combattimento fra amici!”, urlò l’albino.
“Fratello, è colpa sua se è una mezza cartuccia”, disse di rimando il megalomane “avrebbe dovuto aspettarselo da un dio come me!”
“Catherine è appena arrivata alla Shibusen, Star! Non può essere al livello di una persona che la frequenta da anni!”, strattonò Star dal colletto, ma quello si liberò con un gesto del braccio.
D’altro canto, aveva ragione Black Star.
Appena Maka e Liz furono vicine, mi aiutarono ad alzarmi.
Reggendomi su Maka, guardai l’azzurro.
“Ehi, Star!”, gridai per farmi sentire, “sei forte!”
I due si voltarono verso di me, dapprima sconvolti. Black Star sciolse la sua espressione in un sorrisone.
“Lo so, Catherine!”, si passò una mano sulla nuca, “scusami per essere stato troppo super per te!”
Ricacciai dentro lo sputo che avrei voluto puntargli in pieno viso appena fui più vicina.
Non potevo mettermi contro una delle uniche persone che mi avevano accolta subito.


Una volta a casa –dopo essere stata portata in braccio da Soul perché a quanto pareva “ero messa proprio male”, entrai in bagno e trovai il mio coinquilino nella vasca.
“Spero che tu non sia qui da stamattina.”, gli dissi dall’uscio.
“Non si usa più bussare?”, non staccò gli occhi dal libro che stava leggendo e non parve shockato dal fatto che lo stavo osservando mentre era nudo in una vasca da bagno.
“Non mi sembra che stamane tu abbia usato bussare”, alzai un sopracciglio, “in ogni caso, gradirei lavarmi”.
Spostò i suoi sottili occhi rossi verso di me, facendomi cenno di aspettare.
Così, decisi di girarmi.
“E dimmi, coinquilino, quale sarebbe il tuo nome?”, cazzo, vivo con te e nemmeno so come ti chiami.
Uscì dalla vasca, sospirando.
“Sam. Chiamami solo Sam.”, mi sorpassò e mi accennò un sorriso cordiale.
“Ed il tuo nome?”
Lo guardai, scettica.
Pareva saper così tante cose, e nemmeno sapeva il mio nome?
“Catherine, ma chiamami Cath.”, abbozzai un sorriso.
Lui mi guardò un pochino, poi mi disse, semplicemente:
“Dopo esserti lavata, vieni in camera mia. Hai delle ferite niente male ed io sono abbastanza bravo in queste cose, ti bendo per bene.”
Fui sorpresa, ma accettai con piacere e lui si congedò.
Nella vasca, l’unica cosa a cui riuscii a pensare fu all’impatto dell’onda d’urto di Black Star.
C’era stato qualcosa di strano. Lo sentii.
Qualcosa di davvero strano.










Hi there! Ehuehueh
Ci siamo, secondo capitolo in cui succede finalmeeente qualcosa.
E c'è perfino un flashback! Wooh! 
Beh, non ho davvero niente da dire, quindi mi congederò facilmente, quest'oggi. 
Mi farebbe piacere se lasciaste un commentino (come fa la nostra benvoluta Ria, che ringrazio tantissimo) per farmi sapere se almeno un po' appassiona :<
OKKEI BAST, addio persoooneh! 

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