there's a screen on my chest

di literatureonhowtolose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** we're broken people ***
Capitolo 2: *** there's some people and i who have a really though time getting through this life ***



Capitolo 1
*** we're broken people ***


Fandom: Disney Descendants.
Titolo: there's a screen on my chest
Pairing e personaggi: Jaylos. Jay, Carlos De Vil, Ben Florian.
Raiting: Giallo, tipo i polizieschi. Perché Carlos ha la madre che ha.
Ambientazione: Universo alternativo nel quale non c'è la magia e loro non sono figli di cattivi disney ma solo di due stronzi, in pratica. 
 
1
Non era valsa la pena di rubare quella penna.
A dirla tutta, ultimamente Jay aveva rubato molte cose che col senno di poi avrebbe potuto lasciare al loro posto; non perché rubare fosse sbagliato – le sue morali non erano così sane –, ma perché erano cianfrusaglie senza alcun valore che difficilmente avrebbero potuto dimostrarsi utili. Un portachiavi, due biglietti del cinema usati, qualche moneta che sarebbe forse bastata per comprare tre caramelle, un bracciale dell'amicizia ormai rotto. E la penna a sfera nera del canile.
Quella mattina era entrato nella struttura, aveva finto di essere interessato ad adottare un cane e aveva sottratto quella biro dalla scrivania dietro alla quale un ragazzo biondo sedeva, impegnato a dare una scorsa veloce a una montagna di documenti.
Jay aveva pensato fosse piuttosto giovane per trovarsi in una posizione del genere. Doveva avere più o meno la sua età, e lui cosa stava facendo della propria estate? Bighellonava, rubava oggetti inutili e stava velocemente trasformandosi in un accumulatore, oltre a peggiorare (o migliorare? tutto dipende dai punti di vista) il proprio stato da cleptomane. 
In ogni caso, il ragazzo gli aveva detto di chiamarsi Ben ed era stato molto gentile e professionale, anche quando Jay si era rivelato soltanto una perdita di tempo congedandosi senza effettivamente portarsi dietro un cane.
Jay non era tipo da sentirsi in colpa, però col passare della giornata la penna aveva cominciato a pesargli nella tasca. Perché l'aveva rubata, poi? Aveva la casa piena di penne. E comunque non è che le usasse molto, non scriveva mai e non faceva i compiti.
Ore dopo aveva perciò deciso di fare marcia indietro e riportarla. Non sapeva con esattezza cos'avrebbe detto a Ben, ma sicuramente qualcosa sarebbe stato in grado di inventarsi. Qualcosa che fosse il più lontano possibile da “hey ciao comunque ecco questa biro è tua l'ho presa perché mi annoiavo ma poi mi sono accorto che dovrei impiegare le mie energie in furti più intelligenti e utili tipo quelli di auto o almeno ingenti somme di denaro”, magari.
Jay non sapeva con precisione da dove fosse nato questo suo istinto – quasi pulsione, potremmo dire –, perché in verità non è che ne avesse bisogno. Certo, c'erano situazioni migliori della sua, ma lui e suo padre non si erano mai trovati nelle condizioni di dover rubare per sopravvivere.
Jafar era però un uomo molto avaro, e non aveva mai dato a Jay più dello stretto necessario, materialmente ed emozionalmente parlando. Non pensava ad altro se non al lavoro, aveva sempre messo quello in primo piano rispetto al suo unico figlio, quindi quest'ultimo aveva dovuto crescere con se stesso. Era iniziato come un gioco, o quasi, e siccome nessuno gli aveva mai detto di smettere lui non l'aveva fatto. Rubare era un modo per Jay di colmare il vuoto. Solo che ormai era fuori controllo, e forse un po' lo spaventava.
Non l'avrebbe mai ammesso, ma probabilmente parte del motivo per il quale aveva deciso di restituire la penna era proprio questa sua ansia nel realizzare che ormai agiva col pilota automatico. Non era mai stato il genere di persona che si ferma a riflettere e valutare ogni variabile prima di agire, ma normalmente la testa era in grado di usarla, e non solo come porta-cappelli. 
Una volta arrivato davanti al canile, Jay prese un bel respiro e si preparò a fare la sua entrata ad effetto, rimettere la biro al suo posto e tornare a casa permettendo a se stesso di rubare solo cose utili o costose. Ma quando entrò, il ragazzo dietro alla scrivania non era quello che si sarebbe aspettato di trovare. Jay ne rimase un po' spiazzato e perse di vista la propria missione per concentrarsi sulla figura davanti a lui.
Stava mangiando un MilkyWay (rubargliene un pezzetto non sarebbe stato malaccio) che fece sparire – nel senso che si ficcò la metà restate in bocca per intero – non appena vide Jay entrare. Sembrava qualche anno più giovane di Jay; era sicuramente più basso. I suoi capelli ricci e quasi esclusivamente bianchi – quasi perché le radici erano nere – erano curiosi, ma a colpire Jay furono le lentiggini. Ne aveva pieno il viso e le braccia, come se un pittore ci avesse spruzzato su del colore senza farci particolare attenzione.
«Benvenuto!» disse il ragazzo non appena ebbe finito di masticare ed ingoiare. Poi fece una risata nervosa. «Scusa. Solitamente non riceviamo visitatori a quest'ora.»
Un po' di cioccolato gli era rimasto sulle labbra e Jay non potè evitare di sorridere. 
«Comunque!» continuò quando gli fu chiaro che Jay non avrebbe parlato. «Vuoi adottare un cane?»
Sentirsi rivolgere quella domanda per la seconda volta in poche ore riscosse Jay dallo stato di trance nel quale era piombato. Fai quello che sei venuto a fare e vattene, Jay, si disse. Non vuoi adottare un cane, saresti un pessimo padrone.
Tirò fuori la penna dalla tasca e la posò sul tavolo.
«Questa è vostra.» asserì. «L'ho...»
«Portata via per sbaglio?» offrì il ragazzo con le lentiggini.
Jay alzò un sopracciglio.
«Non preoccuparti, a me succede sempre. In ogni caso qua siamo pieni di biro, ne abbiamo almeno una per cane.» aggiunse, sorridente. «Grazie per averla riportata, è stato onesto da parte tua!»
A Jay venne da ridere. Onesto, lui? Robe da matti. E poi non era abituato a ricevere ringraziamenti, gli dava una sensazione strana.
Se quel ragazzo avesse saputo veramente con chi aveva a che fare non si sarebbe comportato così nei suoi confronti. Jay non meritava gratitudine, non meritava gentilezza, non meritava niente. Suo padre questo gliel'aveva insegnato bene.
Non disse nulla. Non fece neanche un cenno di saluto. Uscì e basta, così com'era entrato, e si incamminò verso casa.


Carlos fissò il punto dove fino a poco tempo prima si ergeva il visitatore. Era il caso di dire, infatti, che era notevolmente più alto di lui, nonostante pareva avesse solo due o tre anni in più. E poi aveva l'impressione che una spintarella da parte sua l'avrebbe fatto volare dall'altra parte della stanza.
Carlos lasciò andare il respiro che non si era accorto di star trattenendo e si accasciò sulla sedia. Si guardò le braccia – due spaghetti scotti e pallidi – e fece una smorfia di disapprovazione. Quel ragazzo sì che aveva delle belle braccia, invece.
Certo che era stato strano, però. Il modo in cui se n'era andato in silenzio, senza nemmeno salutare, come se Carlos avesse detto qualcosa di sbagliato.
Stava disperatamente cercando di non pensare che fosse colpa sua, ma sua madre non glielo diceva sempre? Che era colpa sua? Che tutto ciò che di brutto succedeva, succedeva per colpa sua?
«Mi dispiace...» sussurrò al vuoto.
Chiuse gli occhi, aspettandosi una sberla da parte di Crudelia. Non arrivò, ma Carlos non si sentì meglio. E non riaprì gli occhi per un po'.


Jay non riusciva a smettere di pensare al ragazzo con le lentiggini. Non smise di pensarci tornando a casa, non smise di pensarci quella sera a cena, non smise di pensarci a letto, alle tre di notte, mentre si sforzava di prendere sonno. 
Quando si svegliò, dopo quattro ore scarse di riposo, scoprì che non aveva ancora smesso di pensarci. E continuò a rimuginarci per tutto il giorno.
Il suo aspetto l'aveva colpito, di questo ne era sicuro, ma non era quello a causargli problemi o a farlo pensare; Jay si era sempre sentito attratto da maschi e femmine in egual misura, aveva smesso di preoccuparsene quando aveva capito che almeno da quel lato il menefreghismo di suo padre funzionava a suo vantaggio.
Il fatto era che quel ragazzo era stato l'unico a trattarlo in quel modo da che Jay si ricordava. E per “in quel modo” si intende senza preconcetti, senza diffidenza, senza disprezzo o rabbia o, peggio, indifferenza. 
Certo, Jay non faceva molto per farsi voler bene, e dalle sue parti non aveva una bella reputazione. Attaccabrighe, ladruncolo di strada, buono a nulla. Che le persone tenessero le distanze era normale, prudente. 
Ma quel ragazzo non l'aveva fatto. Era vero che non lo conosceva, che non sapeva di cosa era capace, ma non si era fatto opinioni su di lui. Non aveva collegato i suoi vestiti a niente di brutto, non aveva automaticamente pensato al peggio, non l'aveva trattato come un banale errore di calcolo o un'erbaccia da estirpare. Aveva invece pensato a una dimenticanza, una sbadataggine che chiunque avrebbe potuto commettere. 
E questo aveva ricordato a Jay che prima di essere un attaccabrighe, un ladruncolo e un buono a nulla lui era solo Jay. Perché aveva smesso di essere solo Jay? Perché nessuno l'aveva fermato? Perché a suo padre non importava?
Quando spinse la porta del canile ed entrò nella struttura per la terza volta in due giorni si era reso conto solamente per metà di quello che stava per fare. Si ricordava di aver pensato che a quell'ora, a rigor di logica, avrebbe trovato in servizio il ragazzo con le lentiggini e non Ben. Non era completamente padrone dei propri movimenti a quel punto, comunque, e si avvicinò alla scrivania con ampie falcate.
Sentendo qualcuno entrare, Carlos aveva iniziato a dire “Benvenuto!”, ma si era fermato a metà parola quando alzando lo sguardo aveva visto di chi si trattava. Lo stomaco gli si era annodato di colpo, ripensando al giorno prima.
«Quella penna non l'avevo tenuta per sbaglio.» esordì Jay.
Carlos lo guardò, gli occhi leggermente sgranati. Dopo qualche secondo di silenzio, Jay continuò.
«L'avevo rubata.» 
Non era sicuro del perché sentiva il bisogno di farglielo sapere, e non era neanche sicuro di quale reazione si sarebbe dovuto aspettare. Forse sperava che al ragazzo non importasse. Che gli dicesse di nuovo qualcosa di simile a  “hey, capita spesso anche a me, non preoccuparti”. Che lo facesse sentire normale, ancora.
«... Perché rubare una penna a sfera?» domandò Carlos. Era più che leggermente confuso da questa situazione, ma il nodo allo stomaco si allentò un po'. Forse allora non era stata colpa sua.
Jay fece spallucce. Non avrebbe saputo come rispondere, davvero. In quale universo una persona potrebbe avere una buona ragione per rubare una penna a sfera?
Carlos ci pensò su. Non gli importava poi molto. Cioè, avrebbe anche potuto tenersela, la penna. Era solo una penna. Non pensava fosse così terribile.
«Grazie per la sincerità?» provò, sperando in bene. Non voleva provocare una reazione analoga a quella del giorno prima, nonostante avesse ormai capito di non esserne stato responsabile. Sperava trasparisse che non ce l'aveva con lui per aver quasi rubato una delle centomila penne del canile. Aveva una mezza idea di offrirgliene una, chissà, magari gli serviva davvero ma il suo senso di giustizia gli aveva impedito di prendersela.
Con suo grande sollievo, il ragazzo sorrise. Era solo un mezzo sorriso, qualcosa di esitante, incerto. Però c'era. Carlos si sentì sorridere di rimando. Il suo stomaco – che ormai non era più annodato – fece una capriola. E poi il visitatore uscì. E Carlos scoppio a ridere. Ma che cavolo?





Angolo dell'Autrice. 
Non posso credere di aver postato. Ci sono stati una serie di intoppi (tipo il titolo e tipo soprattutto l'introduzione lmao) che mi sembravano insormontabili ma in qualche maniera ce l'ho fatta. Come al solito non sono soddisfatta, ma ci si accontenta perché sono tempi di crisi. In ogni caso. Il vero motivo per cui non posso credere di aver postato, in realtà, è che questa non è una one shot. Probabilmente non sarà una long molto long, diciamo che l'idea sarebbe sui tre capitoli e magari poi qualche side-story, ma mai dire mai siccome per ora ho pronto solo ciò e tre quarti del secondo capitolo. Siccome ho avuto brutte esperienze con long inconcluse, sia da lettrice che da scrittrice, tendo a evitare di scriverne, o se mi avventuro poi finisco col non postare niente perché mi riprometto di postare solo una volta finito di scrivere tutto ma puntualmente non avendo feedback perdo la forza di volontà. Questa è la ragione per cui ho postato. Incrociamo tutti le dita affinché vada a buon fine, anche se sono abbastanza positiva, avendo quantomeno un'idea generale di come si svolgerà. 
Peace out, non-binary scouts.

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Capitolo 2
*** there's some people and i who have a really though time getting through this life ***


2
«Hai finalmente deciso di adottare un cane o vuoi confessarmi di aver rubato qualcos'altro?» chiese Carlos.
Il giorno prima il ragazzo se n'era di nuovo andato senza concludere nulla, e Carlos un po' si aspettava che sarebbe tornato. O meglio, insomma, ci sperava. Non per il senso di colpa, questa volta, ma piuttosto perché... perché? Non sapeva spiegarselo. O non voleva ammettere la possibilità di un'infatuazione. Nemmeno lo conosceva, una cotta sarebbe stata ridicola. E comunque Carlos non sapeva cosa significasse avere una cotta. Non gli era mai successo.
«Nessuna delle due.» rispose il visitatore, avvicinandosi alla scrivania a passo lento. Aveva le mani in tasca, il suo solito cappello rosso in testa e trasudava tranquillità e nonchalance da tutti i pori. Carlos, che era sempre nervoso e sul chi va là, invidiava così tanto quel suo modo di porsi.
Il più piccolo rimase in silenzio, ma alzò le sopracciglia e scosse la testa come a domandare «... quindi cosa ci fai qui?».
Jay poggiò le braccia sulla scrivania e si sporse in avanti, al che Carlos – sebbene non fossero neanche remotamente vicini – indietreggiò di riflesso. Era così abituato ad allontanarsi il più possibile da sua madre ogni volta che gli si avvicinava che aveva iniziato a farlo con chiunque senza rendersene conto.
«Quando stacchi?» chiese Jay, il suo solito ghigno stampato in faccia. L'intera situazione lo rendeva piuttosto nervoso, ma era sempre stato bravo a nascondere le proprie emozioni, specie se queste ultime non lavoravano a proprio vantaggio.
Carlos si sentì andare a fuoco, e sapendo che quella sensazione comportava il diventare rossi come barbabietole si sentì di colpo molto vulnerabile. Contemplò l'idea di far cadere qualcosa dalla scrivania solo per potersi chinare a raccogliere l'oggetto e nascondersi alla vista dell'altro per il tempo necessario a calmarsi, poi gli convenne che ormai il danno era fatto quindi tanto valeva non peggiorare la situazione. 
«Fra mezz'ora.» disse, la voce acuta. Poi prese un bel respiro e aggiunse, in modo più calmo: «Ma ogni pomeriggio prima di andarmene porto alcuni dei cani al parco qua vicino per lasciarli un po' liberi di correre, quindi...» 
«Posso accompagnarti?» domandò Jay prima che Carlos potesse aggiungere altro.
Carlos sbattè le palpebre un paio di volte. Quando annuì lo fece quasi senza accorgersene, come se il suo corpo avesse preso il sopravvento. 


Da quando aveva cominciato a lavorare al canile, Carlos aveva preso l'abitudine di portare a spasso alcuni dei cani ogni giorno. Li sceglieva a rotazione, e quando nel gruppo c'era un cane di taglia grossa tendeva a prenderne di meno perché da solo gli risultava impossibile fare altrimenti, specie considerando che lui era una persona di taglia medio-piccola.
Ma il visitatore no. Per questo ne approfittò per assegnargli due bestioni che diversamente avrebbe dovuto portare in due giornate differenti.
Quella per arrivare al parco non fu esattamente una passeggiata, non per Jay, almeno. Quei cani non solo tiravano come matti, soprattutto quando vedevano qualcosa in grado di attirare la loro attenzione come qualche piccione o uno scoiattolo, ma erano davvero enormi. Jay si rendeva conto che il ragazzo con le lentiggini si sforzava di non ridere ogni qualvolta lo vedeva in difficoltà, e mentalmente malediceva lui e se stesso per aver avuto la brillante idea di accompagnarlo. 
Una volta arrivati al parco, che a quell'ora della giornata era deserto, lasciarono liberi i cani che corsero subito alla ricerca di qualcosa con cui giocare o di un albero sotto il quale sdraiarsi. Carlos tirò fuori dal suo zaino una ciotola, la mise per terra e ci versò dell'acqua da una bottiglia. Poi si sedette a uno dei tavoli di pietra disseminati lungo il perimetro erboso.
Jay lo seguì e si lasciò cadere sulla panchina opposta, esausto. Una settimana a portare in giro quegli animali e avrebbe fatto più esercizio che in un anno di palestra. Avrebbero dovuto considerarli personal trainer a tutti gli effetti.
«Grazie.» disse il ragazzo con le lentiggini. «Non riesco quasi mai a farli uscire, proprio loro che ne avrebbero più bisogno. E' troppo complicato per me, da solo. Certo, escono nel cortile sul retro e sia Ben che io li facciamo giocare, ma non è la stessa cosa. Cani del genere hanno bisogno dei loro spazi.» 
Jay annuì. Avrebbe scorrazzato in giro quei cani fino alla fine dei suoi giorni se questo significava avere la gratitudine di quel ragazzo. Ora che ci pensava, non sapeva nemmeno il suo nome. Eppure era la persona che l'aveva ringraziato più volte nella vita.
«Senti, ma... come ti chiami?» domandò. 
Carlos rise. Non si era accorto di non sapere il nome dell'altro fin quando il problema non era stato evidenziato da lui. Di solito è la prima cosa che vieni a sapere di una persona, ma questa volta era successo tutto così naturalmente e in fretta che non ci aveva neanche pensato.
«Carlos.» rispose allora. «E tu?»
Carlos. Jay si rigirò nella mente le sillabe formanti quel nome per abituarsi al loro suono. Car-los. Sì. Carlos, il ragazzo con le lentiggini e i capelli bianchi e neri.
«Jay. Mi chiamo Jay.» disse poi.
Carlos sorrise. Il suo nome gli somigliava. Conciso, sfuggente. Tre lettere che, Carlos credeva, nascondevano molto di più.
«Allora, Jay.» cominciò. «C'è un motivo dietro al furto della penna a sfera? Fare spallucce non vale!»
Jay rise. Va bene, va bene, pensò. Esitò qualche istante prima di tirare fuori dalle tasche le cianfrusaglie rubate. Aveva paura della reazione di Carlos, ma alla fine decise che con lui poteva rischiare. Con lui voleva rischiare.
«Potrei avere un problemino.» disse, occhieggiando gli oggetti inutili sparsi sul tavolo. Alzò lo sguardo per osservare il più piccolo, che stava fissando basito il suo bottino di guerra.
«Cavolo!» esclamò. «C'è parecchia roba, qua.»
E così era una brutta abitudine, la sua. Carlos non sapeva come avrebbe dovuto sentirsi a riguardo; probabilmente indignato, forse avrebbe dovuto controllarsi le tasche o allontanarsi, magari avrebbe dovuto dirgli qualcosa, qualcosa tipo “rubare è sbagliato” e altre frasi del tutto ovvie. Ma non fece nulla del genere, perché se era vero che avrebbe dovuto sentirsi in un certo modo era pure vero che in realtà non sentiva nulla. O meglio, sentiva come se non fossero affari suoi. E quindi non pensava di essere nella posizione di giudicare.
«Bello!» disse invece, riferendosi a un portachiavi a forma di dalmata. 
Jay rimase zitto per un po', cercando di interpretare quello che stava provando. Sollievo, perché non aveva ricevuto nessuna morale, nessuna occhiataccia, e soprattutto perché Carlos non si era allontanato di colpo da lui come se si aspettasse di venire ammazzato da un momento all'altro, cosa che la gente faceva spesso nei suoi paraggi. Felicità, forse?, per le stesse ragioni. Un po' di malinconia, perché era la prima volta che gli succedeva e non sapeva esattamente come comportarsi. E qualcos'altro che non avrebbe saputo descrivere, ma che gli dava una sensazione strana allo stomaco.
Spinse il portachiavi verso Carlos. Poteva prenderlo, se gli piaceva. Si sarebbe sentito meno in colpa, sapendo che per una volta aveva rubato qualcosa che si era rivelata utile. Regalare un oggetto rubato non l'avrebbe reso di certo cittadino dell'anno, ma, hey, almeno poteva dire di averlo sottratto a qualcuno per darlo a qualcun'altro che l'avrebbe apprezzato ugualmente. Da qualche parte doveva pure iniziare, no?
Carlos non si fece molti scrupoli a prenderlo. Gli piacevano i dalmata, e poi un regalo era sempre un regalo. Non che lui avesse grande esperienza in materia, sua madre non gliene aveva mai fatti. 
Jay sorrise. Non il suo solito mezzo sorriso, un sorriso vero. E Carlos sarebbe stato pronto a giurare di non aver visto mai niente di più bello.


Al ritorno, i cani non fecero più dannare Jay. Evidentemente, dopo tutte le corse che si erano fatti, erano abbastanza stanchi da camminare a passo ragionevole, senza tirare e senza avere scatti improvvisi. Jay  ringraziò qualunque entità superiore esistesse, ammesso ne esistesse una, e non solo perché le sue braccia sarebbero cascate se avesse dovuto affrontare una sfacchinata analoga a quella di prima, ma anche – e soprattutto – perché non correre dietro a quei bestioni significava mantenersi alla destra di Carlos, e quindi poterlo osservare.
Si rendeva conto che guardandolo così tanto non solo avrebbe reso palese la sua attrazione nei suoi confronti, ma avrebbe pure rischiato di metterlo in soggezione. E, davvero, cercava di non farlo proprio per questi motivi, però non era facile affatto. Anzi, si stava dimostrando uno sforzo di volontà che lui semplicemente non era in grado di mettere in pratica.
C'era qualcosa di estremamente fragile nella sua  figura. Era così piccolo, esile. Era istintivo per Jay volerlo proteggere. Da cosa non lo sapeva, forse da tutto. Proteggerlo e basta. Non che credesse che Carlos ne avesse bisogno, assolutamente. Per quanto fragile all'apparenza, se prestavi attenzione dava l'idea di essere in grado di cavarsela da solo in qualsiasi situazione. Ma il fatto che non ne avesse bisogno non significava necessariamente che non si meritasse la protezione di qualcuno.
Jay non aveva mai provato una cosa del genere. Aveva sempre vissuto per se stesso, perché questo era quello che era stato costretto a fare. E poi era diventata un'abitudine. Pensare esclusivamente ai propri problemi, senza preoccuparsi di niente e nessun altro. Che era un po' ciò che faceva suo padre. A pensarci gli venne da ridere. Ah, l'ironia.
Ma il punto era che ora, per la prima volta nella vita, sentiva di dovere qualcosa a qualcuno. Sentiva il bisogno di mettersi da parte e prendersi cura di una persona.
Il fatto che si trattasse di una persona conosciuta due giorni prima un po' era insolito, va bene, ma non cambiava lo stato delle cose. E comunque la sua vita era la definizione di insolito, quindi in realtà tutto questo era quasi normale per i suoi standard.
Carlos si sentiva dei riflettori puntati addosso, e questo lo portava a pensare che qualsiasi cosa facesse risultasse stupida o inadeguata. Il modo di camminare, il modo di tenere i guinzagli, perfino il modo in cui deglutiva o respirava. Ognuno di questi gesti, per la maggior parte involontari, gli parevano amplificati del mille percento. 
Il problema non era essere guardato in sé, e nemmeno la maniera nella quale Jay lo stava guardando. Il problema, come al solito, era sua madre.
Sentirsi il suo sguardo addosso minuto per minuto ogni giorno della sua vita era probabilmente la cosa che Carlos odiava di più. Venire osservato da lei mentre svolgeva le sue mansioni era perfino peggio rispetto alle botte o ai suoi momenti di isteria, perché Carlos non poteva sopportare il suo giudizio. Il peso che quegli occhi puntati su di lui avevano, i commenti sprezzanti, quella perpetua aria di insoddisfazione nei suoi confronti. «Non vali niente», gli aveva detto svariate volte. Un giorno nel quale era particolarmente ubriaca aveva preso a lanciare cose contro la porta della sua camera, che Carlos aveva chiuso spingendoci contro uno dei suoi pochi possedimenti, una cassapanca in legno d'abete. «Pensavo fossi buono solo a pulire pavimenti e stirare vestiti, invece mi sbagliavo», aveva urlato. «Non sai fare nemmeno quello.»
Carlos sapeva che non era l'alcol a distorcere ciò che sua madre realmente pensava. Aveva imparato con gli anni che, casomai, bere la rendeva più sincera del solito, e di conseguenza più brutale.
Carlos ricordava di essersi raggomitolato su se stesso in un angolo della stanza semivuota e di aver pianto, e di essersi graffiato tutte le braccia come punizione per aver pianto. Perché i maschi non piangono, gliel'aveva gridato in faccia Crudelia quando a cinque anni si era sbucciato un ginocchio.
Si era fermato in mezzo alla strada senza nemmeno accorgersene, e si riscosse da quei ricordi poco graditi solo quando Jay gli mise una mano sulla spalla.
«Carlos, stai bene?» 
Non sapeva se quella era la prima volta che Jay gli aveva rivolto quella domanda, ma qualcosa gli diceva che no, probabilmente non lo era. Alzò lo sguardo e lesse la preoccupazione sul suo viso. Solo due persone si erano preoccupate per lui prima d'allora, e queste due persone erano Ben, il suo capo, e Evie, la sua vicina di casa con la quale studiava e che aiutava a cucire vestiti.
Con loro era diverso, però, perché li conosceva da molto tempo, specie Evie. Loro avevano ragione di preoccuparsi, Evie sentiva le urla e Ben vedeva i lividi che Carlos non riusciva a coprire. Jay non lo conosceva. Non conosceva sua madre. Non sapeva niente di lui. Eppure gli importava.
Carlos sorrise e annuì un paio di volte, e Jay – dopo un iniziale momento di insicurezza – sorrise a sua volta. Crudelia non avrebbe rovinato anche questo. Carlos non l'avrebbe permesso.


Passarono il resto della camminata in silenzio.
Jay si era spaventato nel vedere Carlos fermarsi di colpo e fissare il vuoto, e si era spaventato ancora di più quando l'aveva chiamato varie volte e non aveva ricevuto risposta. Alla fine si era ripreso e gli aveva sorriso, e Jay si era un po' tranquillizzato. Non troppo, però. 
Non era sicuro di essere stato lui a causare tutto quanto, e in ogni caso ovviamente non l'aveva fatto apposta, ma aveva comunque smesso di guardarlo, e anzi, addirittura di guardare nella sua direzione. Se avesse potuto si sarebbe preso a schiaffi.
Carlos si era reso conto di come Jay era diventato teso tutto d'un tratto, e avrebbe voluto dirgli che non aveva fatto nulla di male e che non era colpa sua. Allo stesso tempo però era una situazione nuova, perché prima di quel giorno pensare di poter essere la causa del cambiamento d'umore di qualcuno era fuori dal mondo per lui. Carlos non avrebbe mai pensato di poter fare un tale effetto, di poter avere una tale importanza. Pensarci gli dava le vertigini. E, nonostante da una parte si sentisse in colpa, non poteva evitare di sorridere. ­
Una volta al canile si erano imbattuti in Ben. Aveva riconosciuto Jay («Sei il ragazzo dell'altra volta, no? Mi pareva di averti già visto!») ma non aveva fatto domande, semplicemente aveva salutato entrambi e aveva detto a Carlos che l'avrebbe visto fra due giorni. 
Poi erano usciti e si erano seduti sui gradini davanti all'entrata dell'edificio. Erano molto vicini, tanto che i loro gomiti si sfioravano. Carlos fissava il pavimento e Jay la strada di fronte a loro. 
«Domani è il mio giorno libero, quindi non venire a cercarmi qua.» disse Carlos.
Jay si girò verso di lui. Con la mano sinistra si sistemò una ciocca dei lunghi capelli castani dietro l'orecchio.
«E dove vengo a cercarti?» chiese.
Carlos rise, e Jay fece il suo solito mezzo sorriso.
«No, dico sul serio.» insistette.
Carlos, finalmente, alzò lo sguardo dal suolo e si azzardò a fare contatto visivo. Tale contatto visivo durò approssimativamente tre secondi, ma era un inizio.
«Non hai proprio nulla di meglio da fare?» domandò, rivolgendo la propria attenzione alle punte dei propri anfibi rossi.
Jay scosse la testa, ridendo. «Non è estremamente ovvio che ci sto provando con te?»
Carlos si irrigidì di colpo e diventò più rosso del più rosso dei peperoni. Jay si maledisse per aver detto una cosa così stupida. Era stata una mossa degna del Classico Jay, quello che flirtava pure con i muri senza alcuna vergogna e considerazione, soprattutto perché solitamente lo faceva solo per potersi avvicinare quel tanto che bastava per rubare qualcosina. Ma con Carlos sapeva di poter mettere da parte il Classico Jay ed essere solo Jay. E, pur sapendolo, aveva già rischiato di rovinare le cose una volta neanche mezz'ora prima.
«Carlos, senti, scusami, non–» cominciò a dire, ma venne interrotto dall'altro ragazzo, che nel frattempo si era alzato in piedi.
«Domani alle sei, al parco dove siamo stati.» urlò, prima di allontanarsi a passo svelto dalla scalinata e incamminarsi verso casa sua.
Jay lo guardò andarsene, gli occhi sgranati. Poi, lentamente, iniziò a sorridere.
«A domani.» disse. Carlos era già troppo lontano per sentirlo, ma non importava.

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