People fall in love in mysterious way

di LunaMoony92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Dopo una giornata sui libri, non c’è niente di meglio che uscire per concedermi  un tour dei miei posti preferiti.
Sembra davvero una buona idea quella di uscire, fino a quando, dopo aver percorso solo qualche metro, mi imbatto nel professor Bauer che mi chiede se ho terminato  il capitolo 3 della tesi .
Il mio umore incassa il colpo, ma non si abbatte. Non voglio pensare alla tesi. Mi svicolo come meglio posso e aumento il passo.
Credo che oggi andrò all’Hard Rock Cafè. E’ stato uno dei primi posti in cui sono stata appena arrivata in città ed è uno dei posti che qui sento più “mio”.
Sono già passati 8 mesi e mezzo dal giorno del mio arrivo e il mio periodo qui sta per finire. Quasi tutti gli amici che ho conosciuto durante questa bellissima esperienza che è l’Erasmus sono già andati via, tornati ognuno di nuovo alla propria vita e a me sembra di vivere in una bolla, sospesa, in attesa della partenza.
Mi manca casa, la mia famiglia, il mio gatto. Sono solo 15 giorni dopo tutto e li rivedrò, se non fosse che… Non so se voglio tornare.
Qualche giorno fa, il mio tutor dall’Italia mi ha contattata chiedendomi se volessi prolungare di qualche altro mese la mia permanenza, così da completare la mia tesi qui. Non ho ancora detto nulla alla mia famiglia, che già fa il countdown per il mio ritorno, ma da quel momento questa idea ha iniziato ad insinuarsi prepotentemente nella mia testa, impedendomi di concentrarmi sullo studio. Così i miei tour solitari della città continuano a moltiplicarsi, cosa che non succede invece alle pagine della mia tesi.
 
 
 
La metro è affollata a quest’ora, per molti è ora di tornare a casa da lavoro. Ma non c’è caos come si potrebbe pensare. Appena il vagone arriva, tutti si dispongono in una fila ordinata e iniziano ad entrare.
Ancora dopo tanti mesi, vedere queste scene mi meraviglia. Sono così diverse da quelle che vedevo ogni giorno prima di arrivare qui. Spintoni che nemmeno per il concerto di Ligabue. Sorrido fra me e me fino a quando arriva il mio turno ed entro a sedermi.
Tre fermate della linea A e due della B e sono al centro. I miei piedi ormai conoscono la strada a memoria e, in men che non si dica, eccomi arrivata.
Entro ad occhi chiusi e faccio un bel respiro, come se quella che sto calpestando fosse terra sacra. Per me, in qualche modo, lo è. E’ un tempio della musica, del rock, è un luogo sicuro, in cui posso rilassarmi e in cui ho passato tante belle serate insieme agli amici conosciuti durante questa avventura.
Ripensarci mi mette un po’ di malinconia.
Sono rimasta da sola, probabilmente dovrei tornare a casa.
Mi siedo al solito tavolo e ordino la solita birra. In realtà non sono proprio sola, ho portato con me un fedele amico, il mio libro preferito. E’ stata la mia ancora nei primi giorni in questa città, che ancora mi era sconosciuta e ostile. In quei giorni, quando ancora non conoscevo nessuno e non dicevo nemmeno una parola per paura di sbagliare, mi rifugiavo fra le sue pagine e stavo un po’ meglio. Così tiro fuori dallo zainetto la mia copia un po’ sgualcita de “Il piccolo principe” e continuo a leggere da dove ho lasciato l’ultima volta. La mia birra è già arrivata e finalmente sono immersa nel mio personale angolo di paradiso all’estero.
Sto leggendo del piccolo principe che incontra il re che sostiene di regnare su tutto ma che come unico suddito ha un topo. Mi scappa da ridere ripensando a quando da piccola, leggendo questo passo per la prima volta, scrissi a piè di pagina “questo re è proprio scHemo”. Credo che mia mamma non abbia più riso tanto come quella volta.
Alzo per un attimo gli occhi dal libro per guardami intorno. Nessuno sembra aver notato il mio scoppio di ilarità o forse stanno solo fingendo di non aver sentito.
Mi piace la gente qui.
In Italia si fanno spesso battute su quanto i tedeschi siano glaciali e poco amichevoli. Io ho scoperto una realtà completamente diversa.
La cosa che più amo di loro è che sanno farsi i fatti propri, ed è proprio quello che stano facendo adesso. Sono concentrati sui loro menù, c’è chi scrive al pc, chi fa una foto con un’amica. C’è una bella atmosfera, mi sento libera di farmela questa risata, perché so che nessuno mi guarderà male.
 
 
Scorro con gli occhi velocemente tutta la sala alla ricerca di un cameriere, mi è venuta voglia di patatine fritte. Lo intercetto e gli faccio un cenno, ma questo sembra non notarmi, è troppo concentrato a cercare di capire un cliente che sembra volersi nascondere a tutti i costi sotto un cappellino con la visiera abbassato abbondantemente sul viso.
Non è tedesco, riesco a sentire il suo accento americano. Mi ritrovo ad osservarlo meglio. Da quel che riesco a vedere, il ragazzo ha proprio delle belle spalle.
Continuo a guardarlo, immaginandomi perché si sta nascondendo, qual è la sua storia. Forse semplicemente è un tipo riservato, oppure gli piace portare i cappellini così schiacciati in testa ed aggirarsi furtivo nei bar. E se fosse un maniaco? O un detective privato in incognito?
Mi metto a ridere per le mie assurde teorie e continuo a sorseggiare la mia birra aspettando che il cameriere si liberi.
Tra un sorso e l’altro, non riesco a smettere di  fissare il ragazzo. Poi mi accorgo che ha finalmente lasciato andare il cameriere e sta alzando gli occhi dal menu. Ci fissiamo per un momento. I suoi occhi sono di un azzurro bellissimo, tirati all’insù, starà sorridendo.  Sorrido anche io, almeno fino a quando non mi rendo conto di una cosa. Io ho visto la faccia di questo ragazzo mille volte. Quegli occhi, quelle spalle.
Quel ragazzo è… CHRIS EVANS!
E adesso probabilmente crede che io lo stavo fissando come una stalker.
Credo di essere diventata color prugna e di aver sputazzato un po’ della birra che ancora avevo in bocca. I miei occhi, non so per quale miracolo, non sono usciti completamente fuori dalle orbite, ma credo di esserci andata vicino. Poi, sento una risata. E’ lui, sta ridendo di gusto, come l’ho visto fare nelle interviste, come uno sguaiato, tenendosi la pancia e buttando la testa all’indietro.
Sto morendo. Chris Evans sta ridendo di me e della mia faccia da clown. Probabilmente, oltre alle guance, anche il mio naso sarà diventato rosso.
Di scatto tiro su il mio libro e mi ci nascondo dietro, come se fosse grande abbastanza da farmi sparire o potesse trasportarmi lontano da qui. Forse anche stavolta il mio libro mi salverà.
Sono sotto shock. Sapevo delle riprese a Potzdamer Platz e più volte ho cercato di avvicinarmi abbastanza al set per vedere qualcuno degli attori, ma non ci sono mai riuscita. E adesso, lui qui, di fronte a me, che ride di me.
Vorrei uscire quatta quatta, sperando di non farmi notare ulteriormente, ma il cameriere finalmente mi degna di attenzione così sono costretta a spostare il libro e ordinare le mie patatine. 
Magari nemmeno si è accorto che lo guardavo, dai. Non rideva di me, avrà letto un messaggio divertente… Ci provo davvero a convincermene, per  cercare di rallentare il mio respiro, che sembra quello di un cavallo in piena corsa, ma non ottengo nessun risultato.
Fingo di leggere per qualche altro minuto, ma la curiosità vince sulla mia razionalità e alzo gli occhi dal libro.
Sta ancora guardando dalla mia parte, con un sorrisetto stampato in volto che per un attimo mi fa sciogliere e subito dopo mi irrita a morte.
Non posso andare via, le patatine stanno per arrivare, così prendo  il mio libro e cambio tavolo.
Devo sembrare proprio ridicola, con il mio zainetto sulle spalle ancora aperto, il libro sotto braccio, la birra in una mano e le patatine nell’altra, quando mi alzo per cambiare tavolo. E’ la cosa migliore da fare, così magari riuscirò a ingollarmi queste patatine ormai fredde ed andare via senza suscitare ulteriore ilarità al signorino con il cappellino. Sento la punta delle orecchie bruciare pericolosamente, non mi sono mai vergognata tanto in vita mia, neanche quando sono volata giù dalle scale di fronte a mezza Facoltà il mio secondo mese in città, che è tutto dire.
 
 
Sto quasi raggiungendo il tavolo che ho puntato, quando mi sento toccare il braccio. Sarà sicuramente il cameriere che, complici i miei movimenti furtivi, pensa che stia cercando di scappare senza pagare.
Che figura di merda!
Mi volto pronta a tranquillizzarlo, fingendo un sorriso per mascherare l’aria da cospiratrice che ho dipinta in volto, ma quello che mi ritrovo di fronte non è il cameriere, ma proprio l’uomo da cui stavo cercando di  nascondermi.
E’ un attimo: il boccale della birra scivola giù dalla mia mano sudaticcia e si infrange sul pavimento. Io faccio un urletto da donnicciola di cui credo mi vergognerò per il resto della mia vita. Lui mi guarda stupito, indeciso se ridere o scappare via, visto che ormai, volente o nolente, tutti nel locale stanno guardando noi due e qualcuno ha iniziato a riconoscerlo. Opta per la prima opzione. Scoppia a ridere e tra un respiro e l’altro mi dice: “O Mio Dio, scusami, ma non riesco a smettere!”
Io sono ancora sotto shock, le patatine in mano  e gli occhi di mezzo locale addosso. Il cameriere ci viene incontro, un po’ incazzato  e io abbasso la testa, pronta a sorbirmi il cazziatone in tedesco (che diciamolo, sembrano la cosa più terribile del mondo), ma Chris, che ancora ridacchia, si scusa prendendosi la colpa e ripaga il prezzo del bicchiere e anche il mio conto.
Il cameriere, riconoscendolo, si mette a pulire e non mi degna più di uno sguardo. Anche il resto del locale piano piano inizia a perdere interesse per la scena disastrosa appena conclusa, così non ho più scuse per evitare il suo sguardo. Ma sono bloccata, con ancora le patatine in mano e un’espressione inebetita in faccia.
“Tutto ok?”  mi chiede lui, scuotendomi dalla tranche in cui ero caduta.
Si.” rispondo di scatto, ma poi la bambina timida che c’è in me prende il controllo della discussione e mi ritrovo a balbettare: “ Cioè no, non lo so” Questa è l’unica risposta che il mio cervello è riuscita a formulare.
Chris non ride più adesso, ma il suo sguardo è sempre gentile.
“Non ti preoccupare, sono cose che capitano…  Quando cerchi di scappare via da un pub senza farti vedere.”
Ed eccolo che ridacchia di nuovo. Mi sento punta sul vivo, ho uno sguardo carico di disprezzo che sta lì lì per farsi avanti, ma poi non posso fare a meno di scoppiare a ridere anche io e lasciare che un po’ di tensione scivoli via.
“Che ne dici se usciamo via da qui? I camerieri iniziano a guardarci male e mi sento un po’ tropo osservato.”  Mi dice poi, come se ci conoscessimo da sempre, come se fossimo entrati dentro insieme e dovessimo solo scegliere cosa fare dopo. La sua richiesta mi prende così in contropiede che mi limito a fare un cenno di assenso con la testa  e lo seguo nella strada verso l’uscita. Fuori il tempo è cambiato, il cielo azzurro e senza nuvole che ho lasciato quando sono entrata dentro, ha lasciato lo spazio a degli enormi nuvoloni, probabilmente carichi di pioggia.
Anche Chris alza gli occhi al cielo e strizza un po’ gli occhi.
“Credo stia per piovere.” dice infatti. “E’ meglio andare.”
“Si, lo credo anche io.” Sono un po’ triste, ma anche sollevata che il momento dei saluti sia arrivato.
E’ stato così surreale ed imbarazzante, nessuno dei miei amici vorrà credermi quando lo racconterò.
“Grazie per le patatine.” gli dico poi e gli porgo la mano per stringerla, non so davvero come comportarmi.
Lui sembra stranito, guarda la mia mano, poi mi guarda e dice: “Intendevo è meglio andare, ma insieme.”
Ha detto insieme? Davvero l’ha detto?
“Non hai nemmeno potuto finire la tua birra. Te ne offro un’altra.”
“Non fa nulla, davvero.”
Non so se riuscirò a rimanere un altro secondo in questa assurda situazione, mi manca l’aria.
“Dai, insisto. Così magari riuscirò a sapere come ti chiami e come riesci a fare quella strana cosa con gli occhi.” e mentre lo dice, imita me che sgrano gli occhi, riuscendo a farmi ridere ancora una volta.
Poi si fa serio e mi porge un braccio.
Mi guardo intorno, ancora un po’ indecisa sul da farsi. Mille pensieri mi affollano la mente, idee contrastanti, paure, scrupoli. Tentenno un po’ e lui sta lì, con il braccio appeso ad aspettarmi.
Smetto di pensare per un attimo e incrocio il mio braccio con il suo.
“Mi chiamo Roberta, comunque.”  gli dico, cercando di darmi un tono.
“Io sono Chris, ma immagino questo tu lo sappia già.”

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Capitolo 2
*** 2. ***


In giro per le strade di Berlino riusciamo a passare quasi inosservati. In una qualsiasi città italiana saremmo risaltati come una macchia di sugo su un abito bianco, ma qui sembra che nessuno faccia caso a noi due. L’ho già detto che amo questa città?
Passeggiare accanto a Capitan America è qualcosa che non mi sarei mai aspettata quando sono uscita fuori dalla Residenza per il mio tour in solitaria, ma devo dire che se queste sono le sorprese che Mercurio aveva in serbo per me secondo il mio oroscopo, beh, forse inizierò a crederci. Stiamo camminando solo da dieci minuti e nessuno di noi due ha ancora detto una parola. Tutto questo silenzio non fa per me, ma, al tempo stesso, non so cosa dire.
“Non conosco molto bene la città” dice poi ad un tratto Chris. “Dimmi, qual è il tuo posto preferito qui?.”
E, così dicendo, inforca i suoi inconfondibili Ray Ban, è bello come il sole.
Scuoto leggermente la testa per darmi un contegno. Devo comportarmi come se fosse un mio amico, devo cercare di essere naturale, non una scimmia decerebrata che gli sbava dietro. Odio il genere.
“Il mio posto preferito in realtà è lo zoo. Ma non credo che lì troverai la birra che stavi cercando.”
I suoi occhi si illuminano, come quelli di un bambino.
“Lo zoo? O mio Dio, davvero? Non ci sono ancora stato. Nessuno vuole mai andarci quando lo propongo. Chi se ne frega della birra, andiamoci subito.”
Non posso fare a meno di sorridere vedendo con quale entusiasmo ha accettato la mia proposta. Ho letto da qualche parte che il suo posto preferito è Disneyland. Mi piace questo ragazzo.
Prendiamo la metro, come i comuni mortali, e in quattro fermate siamo arrivati a destinazione. Non vado allo zoo da tanto tempo, non vedo l’ora di rivedere i pinguini.
“Ci sono i pinguini qui?” dice poi Chris, come se mi avesse letto nella mente. Probabilmente sgrano gli occhi, perché subito mi chiede: “Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No, è che… Io stavo pensando proprio questo.”
Prendiamo i biglietti ed iniziamo il nostro giro fra le gabbie degli innumerevoli animali  che lo zoo di Berlino ospita. Chris sembra davvero un bambino felice, mi trascina da un recinto all’altro senza darmi sosta. E’ davvero pieno di energia. La cosa che più mi fa pensare è che sembriamo davvero due amici di vecchia data.
E’ facile stare con lui. Abbiamo urlato insieme estasiati alla vista dei pinguini, abbiamo cercato di incitare ad alzarsi l’orso bianco che poltriva beatamente e ci siamo incantati davanti ad un elefantino che, dopo essere caduto goffamente a terra, veniva aiutato ad alzarsi dalla sua mamma. Sono già le 19, quando dall’altoparlante una voca robotica comunica che lo zoo sta per chiudere.
“Ma non siamo riusciti a vedere i serpenti!” mi lamento.
“Vorrà dire che dovremo tornare di nuovo”
Wow, questa proprio non me l’aspettavo. Ho etichettato mentalmente questa giornata come “via di fuga dal set”, ovvero l’attore che ha una mezza giornata libera e cerca di evadere prima di tornare a lavoro, ma qualcosa sta iniziando ad andare diversamente da come avevo previsto.
 
 
Se mi fermo un attimo ad analizzare questa giornata, mi rendo conto che è solo grazie al mio tempo trascorso lontana da casa che tutto questo è potuto accadere. Probabilmente, se fosse accaduto mesi fa, mi sarei data alla fuga o avrei balbettato per tutto il tempo.
Flash della me di un tempo mi scorrono davanti agli occhi, come un film mandato avanti velocemente. Chi ero prima non lo sono più, ma le paure di un tempo non mi hanno del tutto abbandonata. Mi mordo le labbra.
Forse dovrei salutarlo ed andare via.
Proprio quando sono quasi sicura di avere raccolto il coraggio che mi serve per digli addio, Chris incrocia i miei occhi e, nello stesso momento il mio telefono squilla.
Non so se prendere il telefono o fingere di non aver sentito, ma Chris sorride e mi invita a controllare.
E’ il gruppo whatsapp della mia famiglia. Leggo l’anteprima del messaggio.  “– 14 giorni e sarai di nuovo a casa. Ci manchi tanto.”
La malinconia e la tristezza mi assalgono. Dovrei rispondergli, ma non so davvero cosa dire. I miei occhi hanno fastidiosamente iniziato a pizzicare, così li strizzo un po’, chiudo il telefono in borsa e faccio un bel respiro.
Il mio cambio di umore così repentino non è passato inosservato. Quando alzo occhi, Chris mi sta guardando con uno sguardo interrogativo, ma gentile.
“C’è qualche problema?” sembra preoccupato.
“No, nessun problema. Solo un messaggio dalla mia famiglia.”
“Dall’Italia, giusto? O mio Dio, siamo andati insieme allo zoo e ancora so così poco di te! Non va bene, se dobbiamo diventare amici.”
Abbozzo un sorriso, è davvero dolce a cercare di farmi stare meglio. Tiro su con il naso e poi decido che anche io voglio essere gentile e non voglio scappare, almeno per stasera.
Non ci penso più di tanto per paura di cambiare idea e, di getto gli propongo:  “Andiamo a cena in un ristorante italiano, ti va?”
Chris finge di pensarci su un attimo. 
“Adoro mangiare Italiano. Ti seguo.”
 
 
 
“Erano i miei primi giorni a Berlino, stavo vagando senza meta per la città in uno dei miei primi tour in solitaria, quando mi è comparsa davanti questa insegna” gli dico, indicandogli la scritta rossa che troneggia sul palazzo ad angolo nel quartiere del Kurfurstendamm.
“Vo piono? Cosa significa?” mi chiede, visibilmente confuso. Non posso fare a meno di ridere, il suo sopracciglio destro si è alzato in modo inverosimile.
“Si chiama VA PIANO e significa, vai piano, non correre. Tutto nasce da un modo di dire italiano: CHI VA PIANO VA SANO E VA LONTANO” scandisco in  italiano, cercando poi una traduzione che possa calzare.
“Non cucineranno come mia madre, ma.. Beh, è il meglio che ho trovato in città, quindi, benvenuto!” dico, aprendo la porta.
La ragazza alla cassa mi saluta sorridendo, sono una cliente fissa da quasi un anno ormai. Mi sta per indicare un tavolo libero, quando, rendendosi conto di chi sia il mio accompagnatore, spalanca la bocca e resta così, sotto choc.
Mi volto a cercare Chris, ma è sparito. Il locale non è ancora molto affollato, così riesco facilmente a ritrovarlo.
“Sei già in fila per la pasta?”
“Non riesco a scegliere, devi aiutarmi.” mi dice, entusiasta. “Adoro questo posto!”
Che sollievo! Non è certo uno dei raffinati ristoranti in cui le star sono abituate a cenare, ma per me è il massimo. E’ un ristorante “semi self service”, con camerieri sui pattini e cuochi che ti preparano la pasta in 5 minuti. Sono contenta che gli piaccia, questa giornata va sempre meglio. Sono contenta di non essere scappata via, la “nuova me” fa scelte migliori della vecchia me.
“Io ti consiglio di prendere la pasta al pesto. E’ quella che sanno fare meglio.” gli dico indicandogli il cartoncino corrispondente.
Chris sembra un po’ dubbioso, dopotutto gli sto consigliando della pasta verde, non deve sembrare il massimo della bontà ai suoi occhi.
“Ma forse è meglio che tu cominci con una semplice pasta al pomodoro. Io prenderò quella al pesto, se vuoi puoi assaggiarla da me, ok?”
Ok, mi sono decisamente spinta oltre. L’ho conosciuto soltanto qualche ora fa e ok, ci sono andata insieme allo zoo e abbiamo sclerato di brutto insieme, ma non siamo certo amici.
Anche se, non riesco a capire perché, ma a parte l’imbarazzo iniziale, mi viene naturale stare con lui e trattarlo come se ci conoscessimo da tanto tempo e credo che anche per lui sia lo stesso. Vivere in città da sola per queste due settimane senza i miei amici mi avrà fatto questo effetto, non c’è altra spiegazione. Ho davvero bisogno di un amico.
“Ok, abbiamo un patto” mi dice e sembra soddisfatto. Forse posso abbassare la guardia e godermi il momento senza pensarci troppo. Dopotutto, sono a  “casa”.
 
 
 
“Non avrei mai pensato di dirlo, ma questa pasta verde è davvero buona!”
“Te l’avevo detto! Peggio per te che non ti sei voluto fidare.” gli dico, togliendogli il mio piatto davanti.
“Ma come sei egoista! Sto cercando di imparare qualcosa della tua cultura!” dice sorridendo, con la bocca ancora piena.
“Allora, adesso che abbiamo visto i pinguini allo zoo, abbiamo mangiato italiano, penso che dovremmo davvero conoscerci meglio. Non posso finire la pasta di una persona che non conosco abbastanza bene, sarei un maleducato. Raccontami qualcosa.” mi incita, avvicinando il boccale di birra verso di me.
“Mi passi la tua birra perché ti senti in colpa per la mia pasta?” gli dico seria, poi scoppio a ridere.
“Mi sembra equo”
Bevo un sorso e schiarisco la voce. Non so bene cosa dire in realtà.
“Sai già che mi chiamo Roberta, sono italiana e mi piacciono i pinguini. Che mi piace vagare per città, che frequento l’Hard Rock Cafè…” a questo punto ci guardiamo per un attimo e scoppiamo a ridere. Il ricordo della nostra fuga è troppo assurdo per poterlo mettere da parte.
“Si, ma non è abbastanza, non posso ancora dire che siamo amici e rubarti la pasta. Ho un codice d’onore, io. Raccontami qualcosa di te che nessuno sa, allora saremo amici.”
Questa sua richiesta mi prende davvero in contro piede. Cerco di mascherare la mia sorpresa e bevo un altro sorso di birra, anzi due. Una cosa che nessuno sa… Ci sono tante cose che nessuno sa di me, ma non credo di essere pronta a raccontarle a Chris. Come si diceva nel Titanic “Il cuore di una donna è un profondo oceano di segreti”. Il mio è un pozzo senza fondo, di quelli davvero oscuri e inquietanti. Ci penso su un altro po’ e alla fine decido. Dopotutto, ha assistito al mio cambio di umore repentino all’arrivo del messaggio, è come se fosse già stato scritto che lui sapesse e poi, finalmente, lo racconterò a qualcuno, togliendomi questo peso enorme.
“Ok, c’è una cosa che nessuno sa, a parte me. Sono qui a Berlino da 8 mesi e mezzo e fra due settimane dovrei tornare a casa. Solo che… Il mio tutor mi ha detto che c’è la possibilità di rimanere qui per altri 3 mesi e io.. Non so che fare. Non l’ho ancora detto a nessuno. Per questo prima quando ho ricevuto il messaggio dalla mia famiglia sono diventata triste. Sono così felici all’idea che io ritorni... Non so che fare. I miei amici sono andati via da quasi un mese e io… Mi sento sola.”
Ecco, finalmente l’ho detto. Mi sento infinitamente più leggera, ma anche un po’ in imbarazzo.
Chris è un po’ pensieroso e io sto iniziando ad andare nel panico. Perché non parla? L’ho spaventato? Oddio, l’ho spaventato. Prendo il piatto con quel che resta della mia pasta e lo avvicino a lui.
Adesso è tua di diritto” gli dico imbarazzata, cercando di alleviare la tensione.
Lui sorride e prende il piatto, poi inizia a parlare.
“Per essere davvero pari, adesso ti dirò anche io una cosa che nessuno sa. Mi manca la mia famiglia, tantissimo. Passo ogni minuto libero su Skype con mia sorella e mia mamma. Siamo molto legati, facciamo questi viaggi a Disneyland ogni volta che torno a casa e stare qui non è facile per me. Ma è il mio lavoro, è quello che amo fare, quindi… Anche se a volte è dura, ne vale la pena. Anche se a volte mi sento solo.”
Fa una pausa e mi guarda negli occhi. I miei iniziano fastidiosamente a pizzicare, spero non mi tradiscano.
“Forse dovresti rimanere, se credi che sia la cosa giusta da fare. La tua famiglia capirà, ne sono sicuro. E poi vuoi andare via proprio adesso che stiamo diventando amici? Cioè, mi prendi in giro?”
Il pizzicore sta diventando insopportabile, i miei occhi saranno già diventati rossi.
Devo andare via prima che lui mi veda piangere. Non voglio rovinare la sua giornata fuori dal set.
Mi volto a cercare la mia borsa, userò la classica scusa del bagno, ma quando mi volto per dirglielo, sento una lacrima scivolare lungo la mia guancia.
E’ troppo tardi. Il fiume ha iniziato a straripare e fermarlo adesso è impossibile.
Vorrei davvero sparire, prima che inizino i singhiozzi.
Non c’è stato un momento  oggi in cui non abbiamo riso, era tutto troppo perfetto. La “nuova me” stava facendo un ottimo lavoro, ma la vecchia me è dura a morire.
Adesso che gli argini sono saltati via, so che sarà davvero difficile smettere. Ho trattenuto queste lacrime per troppo tempo, fingendo di avere tutto sotto controllo, dicendomi che ce l’avrei fatta, ma stavo solo mentendo a me stessa. Io so che voglio rimanere qui, anche se mi manca tanto la mia famiglia, la mia casa e mi sento sola. Ma stare qui è davvero la più grande opportunità che io abbia mai avuto e anche se ci rimarranno male, io devo rimanere, perché, come ha detto Chris, per me è la cosa giusta da fare.
Chris si sta avvicinando e io non ho vie di uscita. Mi vergogno da morire, non è così che avevo immaginato di finire la serata.
“Ehi… Ho detto qualcosa di sbagliato?”  mi dice porgendomi un fazzoletto. Sembra davvero preoccupato, è così dolce.
“No, è solo che… Hai ragione e io… Io devo dirlo alla mia famiglia e questo mi fa stare un po’ male. Mi dispiace di essere scoppiata così. Ho solo bisogno di un po’ d’aria.”
“Ti accompagno a casa se vuoi.” mi dice poi porgendomi la mano.
Io l’afferro, ma non mi basta.
Ho un vuoto nel petto e ho bisogno di un abbraccio di un amico adesso, ma i miei amici non ci sono. Sono sola, terribilmente sola e se fino ad ora ho finto che questo mi andasse bene, beh, adesso non ho più motivo di fingere. Così mi alzo in piedi e lo abbraccio di slancio.
“Andrà tutto bene, Roberta.” mi dice piano.
“Andrà tutto bene.”

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Capitolo 3
*** 3 ***


Il mattino dopo.
 
Ho abbracciato Chris Evans stasera, cosa che non avrei mai neanche osato sognare, e ho inzuppato la sua felpa di lacrime. All’inizio non mi sono resa conto della portata di quel gesto. Avevo davvero bisogno di sentire che c’era qualcuno lì per me. Avrei dovuto  staccarmi subito, scappare via e non farmi più rivedere. Ma lui era lì e, stretta fra le sue braccia, ho sentito riempirsi il buco che ho nel cuore, che sento ogni giorno. E lui non mi ha allontanata, perché?
“Andrà tutto bene” ha continuato a ripetermi mentre mi accompagnava fuori dal locale, tenendo la sua mano sul mio braccio. Ha continuato a ripeterlo mentre singhiozzavo seduta su una panchina, standomi semplicemente seduto accanto.
Non so perché quella frase, uscita dalle sue labbra, mi è subito sembrata sincera, ha acquisito un nuovo significato. Sembrava dicesse sul serio, che ci credesse. Vorrei crederci anche io.
Ci è voluto un po’ più del necessario per calmarmi dopo la crisi di pianto. Lui non lo sa, ma non era soltanto per la storia dell’Erasmus che ho iniziato a piangere, non credo abbia più importanza adesso. Ho tanto posto per i miei segreti nel mio cuore, sono abituata a tenermi tutto dentro, ho già condiviso abbastanza.
 
 
Siamo arrivati alla Residenza in silenzio. Io non sono riuscita a dire niente, bloccata a causa di ciò che era successo, iniziavo a fare i conti con la mia vergogna. Lui probabilmente non sapeva cosa dire, per paura di sbagliare o di farmi piangere di nuovo. Il livello di imbarazzo segnava cifre allarmanti. Gli devo essere sembrata davvero una mammoletta, pensandoci bene. Che importa ormai, non credo lo rivedrò più, anche se ci siamo scambiati i numeri di telefono… Da parte mia, ho deciso che non farò mai quella telefonata.
Ha insistito tanto nell’accompagnarmi fino casa...
“Non mi costa nulla fare una passeggiata. Mi farò venire a prendere.” ha risposto quando ho sollevato l’argomento e con questo mi ha zittita. Non avevo poi tanta voglia di controbattere, in realtà ero felice, ma non volevo ammetterlo, neanche a me stessa. Ho paura ad essere felice perché quando lo sono, poi succede sempre qualcosa di brutto, soprattutto se si tratta di essere felice CON QUALCUNO. Anni di esperienza possono confermare questa tesi. Sono stanca di vivere in un loop di fallimenti relazionali in campo di amicizie e non.
Arrivati alla Residenza, ho insistito anche io per aspettare che la macchina di Chris venisse a prenderlo. E’ grande e grosso e, con gli occhiali da sole e il cappellino alle 22:30, probabilmente non lo avrebbe riconosciuto nessuno, ma mi faceva piacere fare qualcosa per lui, come lui aveva fatto per me. Era il mio modo di chiudere la questione in parità.
Ha cercato per tutto il tempo dell’attesa, breve in realtà, di farmi sorridere, ricordando la faccia del cameriere, i pinguini che saltavano di qua e di la come impazziti mentre io cercavo di scattargli una foto, la nostra pasta “verde”. Ripensarci adesso ha un sapore dolce-amaro. Potrei chiamarlo qualche volta, ha bisogno anche lui di qualcuno in città. Forse dovrei semplicemente cancellare il numero e archiviare tutto.
Scuoto la testa per impormi un contegno e, scalciando via le coperte, decido di alzarmi per la colazione. Sembra che un tir mi sia passato addosso, non ho proprio voglia di fare nulla. Non ho ancora risposto al messaggio dei miei che si è andato ad unire ad altri 10. Credo stiano per chiamare la polizia, apprensivi come sono; devo dargli un segno di vita o gli verrà un colpo. Gli dirò che ho studiato fino a tardi e ho dimenticato il telefono in biblioteca. Odio mentire, ma ho detto una bugia più grossa, cioè che tornerò a casa e non so ancora come porvi rimedio. Prima o poi ne verrò a capo, ormai ho preso la mia decisione.
 
 
Scrivo velocemente il messaggio, cercando di non leggere cosa mi hanno scritto ma, inevitabilmente, mi cade l’occhio su una parola in particolare: arrivo.
Adesso, causa panico crescente, sono costretta a leggere tutto  il messaggio.
“Amore di mamma, perché non rispondi? Volevo dirti che sono riuscita ad avere un permesso da lavoro. Fra due giorni arrivo da te per aiutarti con i bagagli. Non vedo l’ora di vederti, chiama appena puoi.”
Cosa faccio adesso? Ha già fatto i biglietti, non posso fermarla. E cosa significa questo per me? Dovrò tornare a casa? Dopo la discussione con Chris, mi ero convinta a restare, nonostante questo potesse far stare male la mia famiglia ma adesso, adesso mia madre viene qui, convinta che io stia per tornare a casa. Come posso dirle che non voglio, come posso farle così male?
 
 
Credevo che quello prima di un esame importante fosse panico, ma mi sbagliavo: questo è il vero panico. Rimango bloccata con il telefono in mano per dieci minuti buoni, cerco di reagire, ma il mio corpo semplicemente si rifiuta. In seguito arriva la fase del pianto isterico e mi ritrovo a impilare vestiti e raccattare libri in men che non si dica.
Non so nemmeno cosa sto facendo, ma continuo a farlo. Sembro un automa impazzito, sono come fuori dal mio corpo, agisco, ma non so perché lo sto facendo e a cosa questo mi porterà.
Dopo un’ora fuori da me, il mio appartamento ha l’aspetto di un magazzino. Ho rimesso la maggior parte delle mie cose negli scatoloni in cui si trovava il giorno in cui mi sono trasferita, i miei vestiti sono tutti sul letto, accatastati come ad una vendita di beneficenza. Accidentalmente mi guardo allo specchio e non riconosco la persona che ci vedo riflessa.
Dovrei  chiamarla, dirle la verità? Fermarla prima che parta o parlarle quando arriverà?
In uno scatto d’ira, butto tutti i vestiti a terra e mi stendo sul letto. Vorrei solo chiudere gli occhi e non dover affrontare la realtà.
Sono sempre stata brava ad evitare le cose che non mi piacciono, una su tutte le situazioni spinose come questa. Ritardo il momento in cui dovrei parlarne, evito il discorso, ci giro attorno, è un loop di procrastinazione, che sempre e dico SEMPRE mi porta ad odiarmi e spesso a farmi odiare.
Ma stavolta si tratta della mia famiglia e se c’è una cosa che non voglio è deluderli, mi provoca male fisico il solo pensiero. In che casino mi sono cacciata? Avrei potuto dire la verità subito. Ci sarebbero rimasti male? Certo. Ci sarei stata male anche io e avrei finito per tornare a casa? Probabile. Ma sicuramente sarebbe stato meglio di ciò che sta per succedere, o forse no. C’è una parte di me, che nel momento stesso in cui ha letto il messaggio, ha preso una decisione. Lo capisco adesso, guardandomi attorno, con tutti i vestiti e gli scatoloni impilati in strane torrette instabili.
Tornerò a casa,  il mio tempo qui è  finito.
Qualcuno potrebbe pensare che io sia un po’ melodrammatica, ma  non conosce tutta la storia.
 
 
Sono molto brava a farmi venire i sensi di colpa, sin da quando ero bambina. E’ una cosa che odio, tanto, ma non riesco a fare niente per cambiare questa parte di me. Quando ho deciso di partire, è stato distruttivo per me. La mia famiglia è meravigliosa, lo è sempre stata, ma abbiamo avuto qualche problema finanziario.
L’Erasmus è pagato da una borsa di studio, ma sapevamo tutti che quei soldi non sarebbero mai bastati. Non volevo pesare sui miei più di quanto già non facessi con le spese dell’università, così avevo accantonato l’idea. Ma poi mia mamma ha trovato il dépliant in camera mia, ne ha parlato con mio padre… Ed eccomi qui. Adesso le cose vanno un po’ meglio, mamma ha finalmente trovato un lavoro e siamo di nuovo in piedi. Adesso però ha preso un permesso, ha comprato dei biglietti aerei… Non posso farle questo, devo tornare.
Non riesco a trattenere le lacrime. E’ dura vedere i miei sogni sgretolarsi in un cumulo di cenere. Il telefono squilla, ma io lo lascio fare. Non ho voglia di parlare con nessuno adesso, anche se dovrò farlo. Devo incontrare il professor Bauer, così da formalizzare la fine del mio periodo qui, sarà felice per le due settimane di preavviso.
 
 
Esco dalla Residenza per andare all’Università e mi sento come una condannata che si avvia verso il carcere in cui sconterà la sua pena. Ho dimenticato il libretto universitario a casa, i miei capelli sono un disastro, io sono un disastro, ma questa non è certo una novità. 
Attraverso le strade che ho percorso ogni giorno in questi 8 mesi e migliaia di ricordi mi affollano la mente: i primi giorni, in cui tutto mi era estraneo, le figuracce fatte chiedendo informazioni, le mille passeggiate in solitaria quando la nostalgia di casa si faceva sentire. Mi dispiace lasciare tutto questo, ma sono contenta della bellissima esperienza che ho fatto.
I miei piedi conoscono la strada a memoria, non ho bisogno di pensare al percorso che mi porta all’Università, alla metro da prendere o a quale fermata scendere. Evidentemente però, qualcos’altro si è messo di mezzo stavolta, perché,  quando esco dalla metro,  vedo stagliarsi di fronte a me Potsdamer Platz.
Come ho potuto fare tutta questa strada senza rendermi conto che mi stavo auto sabotando?  L’ho sempre detto: sono io la peggiore nemica di me stessa.
Mi mordo il labbro, in preda al nervosismo. E’ tutto ancora blindato per le riprese, questo significa che Chris sarà lì dentro e che io non dovrei stare qui fuori.  L’enorme orologio analogico piazzato sul grattacielo segna le 12:30 e il mio stomaco sembra lanciarmi segnali inequivocabili. Quando sono nervosa mangio, schifezze per lo più, e adesso sono molto, molto nervosa.
Il Mc Donald è proprio a un isolato da qui… Mando un saluto mentale, che poi è un addio a Chris, illudendomi che gli possa arrivare davvero e, stringendomi nella mia vecchia giacca, mi avvio a fare qualcosa  di cui mi pentirò dopo, tanto per aggiungere un’altra voce alla già lunghissima lista.
 
Come sempre, il locale è pieno e la fila è lunghissima. Dietro di me dei bambini stanno giocando a qualcosa di simile a “Un, due, tre, stella!” per ingannare il tempo. Sono così carini, tutti biondissimi e soprattutto spensierati, aspettano solo il loro Happy Meal. Davanti a me, ci sono due tizi altissimi, in giacca e cravatta, occhiali da sole e auricolare; probabilmente saranno nella security in uno dei tantissimi negozi della zona, gli occhiali da sole al chiuso sono il segno distintivo. Piacerebbe anche a me averne un paio adesso, avrò sicuramente delle occhiaie assurde e il fatto che i miei occhiali da vista le ingigantiscano… Non ci voglio pensare. Non voglio pensare a niente, solo mangiare. Mia nonna sarebbe fiera di me adesso.
La fila inizia a scorrere, così che mi ritrovo ancora più vicina ai due tizi in completo, tanto da riuscire a sentire cosa dicono.
“E così ieri sera ti sei fatto un bel giretto, ho sentito.”  dice uno dei due ridacchiando, con un accento americano.
“Sono rientrato stamattina. Ti rendi conto? Ma se il Capo chiama…” credo abbia risposto l’altro, facendo spallucce.
All’improvviso, uno dei bambini inciampa, finendo per spingermi contro le guardie, che si voltano di scatto squadrandomi dalla testa ai piedi. Vorrei sotterrarmi. Qualcuno mi dia una pala. Vi prego.
“Scusate, io non volevo….” inizio a balbettare, mentre uno dei due si toglie gli occhiali da sole e mi guarda.
“E’ tutto ok, non si preoccupi” mi risponde l’altro e torna in fila.
Quello che si è tolto gli occhiali sembra esitare un momento, poi li inforca di nuovo e mi volta le spalle, facendomi un mezzo sorriso.
Finalmente arriva il mio turno, così ordino il solito e parto alla ricerca di un tavolo libero. Dopo tre giri a vuoto, quando sto quasi per arrendermi buttando tutto nella borsa, intravedo la possibilità di un posto a sedere e mi ci butto a capofitto.
 
 
E’ proprio vero che il cibo guarisce tutti i mali, perché mentre ingollo una patatina dietro l’altra inizio a sentirmi un po’ meglio, ma è soprattutto il pensiero del McFlurry a farmi venire il buon umore. Credo lo mangerò fuori, facendo una passeggiata sulla via dei negozi, o seduta su una panchina a guardare i passanti. Poi, mio malgrado, tornerò alla realtà e andrò dal professor Bauer.
Fuori è uscito il sole e la gente ne approfitta per uscire un po’. L’atmosfera non è frenetica come al solito da queste parti, la maggior parte della confusione si concentra attorno al perimetro del set, luogo da cui cercherò di tenermi il più lontano possibile.
Faccio qualche metro nella direzione opposta, cercando con gli occhi una panchina libera, quando ne scorgo una, occupata da uno dei due tizi della security incontrati prima. Non ci penso due volte e vado a sedermi, l’occasione di godermi un po’ di sole in questo periodo è così rara che non mi pongo problemi, come farei di solito.
Non appena mi siedo, mi accorgo che il tizio in questione è quello che si è tolto gli occhiali e mi ha sorriso. Il suo collega non c’è, lui sembra impegnato a scrivere al  telefono, quindi decido di non rivolgergli la parola e continuare a gustarmi il gelato.
Non passa molto tempo, che arriva il suo collega, la faccia nascosta dagli occhiali e dal bavero della giacca rialzato quasi fosse un detective privato in incognito, e si siede tra noi due.
Ma quando si volta verso me e allunga la mano, come per rubarmi il cucchiaio dalle mani, ridendo in un modo che riconosco, per poco non mi affogo.
Vedendo come i miei occhi stiano iniziando a fare capolino dalle orbite, non riesce più a trattenersi e, tra uno spasmo e l’altro, si toglie gli occhiali.
Azzurro cielo, con gli angoli verso l’alto, le zampette di gallina che fanno capolino senza vergona.
Non ho più dubbi: è lui.
Non ho neanche il tempo di realizzare cosa stia succedendo, che Chris si alza, mi prende per mano e iniziamo a correre verso una macchina blu, il tizio della security è dietro di noi.
E in un flash mi ricordo della sua faccia: era sulla macchina in cui è salito Chris ieri sera, faceva parte della scorta, è la sua guardia del corpo.
Deve avermi riconosciuta quando sono caduta rovinosamente su di lui e il collega all’interno del McDonald…
 
Non appena lo sportello della macchina si chiude, mi rendo conto di quanto surreale sia la situazione in cui mi ritrovo, e che Chris si sta avventando su ciò che resta del mio gelato, rimasto miracolosamente attaccato al barattolo.
“Ti avevo chiamata stamattina, per prenderci un gelato… Non solo non hai risposto, ma poi vengo a sapere da Caleb che ne stai mangiando uno enorme proprio a qualche isolato da dove mi trovo io. Sei proprio cattiva con me.” mi dice infatti, mentre afferra il barattolo e ci tuffa dentro il cucchiaio.
Non so bene come reagire, vivo di nuovo un’esperienza fuori dal mio corpo, come mi è già successo stamattina. Vorrei ridere, davvero. E’ così allegro Chris, questa farsa da guardia del corpo l’avrà messo su di giri, ma sono bloccata.
Basta un secondo, un micro ricordo di stamattina, che la mia mente decide per me, si avvia un protocollo d’azione senza che io venga minimamente interpellata, e inizio ad urlare.
“COSA CAZZO TI PASSA PER LATESTA, EH? NON E’ CHE PERCHE’ SEI FAMOSO PUOI FARE QUELLO CHE CAZZO VUOI CON LA GENTE!”
Grido a pieni polmoni, sono fuori controllo, una scheggia impazzita. Non so cosa sto facendo, per la seconda volta, oggi.
Finisco il fiato e devo fermarmi. Chris è a bocca aperta. Caleb è in attesa.
Il mio respiro è affannato, poco ossigeno sta raggiungendo il cervello in questo momento, ma quel poco che arriva mi fa accendere una lampadina: stavo urlando in italiano.
Tutta la rabbia che mi era montata dentro, inizia a sciogliersi e, insieme a lei anche io. Voglio andare via da qui. Non posso sempre fare male alle persone. Non posso fare male a Chris, dopo quello che ha fatto per me, dopo che mi ero ripromessa di non sentirlo più, dopo che mi ha rubato il gelato come farebbe un bambino. Dopo che mi ha chiamata e io non ho risposto.
La macchina si è fermata, non so bene chi abbia dato l’ordine. Forse l’ho urlato anche io, nel mio raptus di follia. La mia mano stringe febbrilmente la maniglia, ma il mio cervello sembra non voler dare l’ordine di aprire lo sportello. E’ in atto un qualche tipo di rivoluzione anarchica in tutto il mio corpo, non sono più padrona di me stessa.
Chris mi guarda di sottecchi, il gelato è sparito dalle sue mani, impegnate adesso a tormentarsi. Non vorrei farlo, ma finisco per guardarlo negli occhi e veder la sua tristezza, quella tristezza che ho causato io, e lì perdo ogni remore e mi butto tra le sue braccia.
Lui non mi caccia, mi accoglie come se quello fosse il posto a cui appartengo, come se mi stesse aspettando, nonostante tutto, nonostante io sia io e lui sia lui e io non meriti nulla di tutto questo.
Il  flusso dei miei pensieri che mi aveva fatta andare in tilt viene interrotto e sento che la tensione mi abbandona piano piano. Sento le mie spalle rilassarsi, il mio respiro tornare, il vuoto che ho dentro, un po’ meno grande.
Non posso credere che sia successo di nuovo in meno di 24 ore.
Prendo un bel respiro e mi allontano da Chris. Devo fare qualcosa, gli devo delle spiegazioni e forse anche  un gelato.

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