Vedo con gli occhi tuoi di lilJEyre (/viewuser.php?uid=878100)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Mi lasciai
andare, incapace di muovermi, sulla sabbia fredda.
Il cielo coperto da una coltre di nuvole azzurre, parve quasi ghignare
in un
tuono, mentre le forti onde del burrascoso mar di Norvegia, mi
sferzavano mille
goccioline ghiacciate sul viso ferito, così simili ad aghi
conficcati con
violenza e crudeltà nella pelle.
I capelli annodai dal forte vento s’incollarono alle labbra
piene, mentre sulla
lingua potevo avvertire il sapore della salsedine mischiarsi a quello
metallico
del sangue.
Col fiato spezzato dalla fatica, feci una smorfia di dolore, ma il mio
viso in
realtà non mutò espressione.
Ogni mio singolo lembo di pelle era ghiacciato, il sangue ormai
disperatamente
occupato a proteggere gli organi.
E lì, alla fine del mondo, alla fine di tutto, alla fine di
me stessa, l’unica
cosa a cui pensai… eri tu.
Mi voltai ed il mio cuore urlò di dolore.
Mi trascinai sulle braccia, arrancai per qualche metro, mentre ogni
singola
parte del mio corpo urlava dolore, mentre il mio cuore piangeva mute
perle di
sangue a quella vista.
Le lacrime mi annebbiavano la vista e scorrevano veloci e calde sul
viso, ma asciugandosi
lasciavano scie ghiacciate.
Gemevo ed invocavo il suo nome, ma non poteva sentirmi. Il suo viso
riverso di
lato, era nascosto alla mia vista. I suoi vestiti sbrindellati
lasciavano
intravedere la pelle annerita dalla polvere, macchiata di rosso vivo e
spento.
Cercai di mettermi seduta e voltai il suo capo verso me. La sua pelle
bianca,
non era morbida e liscia come seta, bensì ruvida, arrossata,
annerita. Le
labbra sottili screpolate dal freddo, macchiate di sangue, le palpebre
chiuse.
«No… no… non ti prego!
Svegliati!» urlai afferrandogli il viso fra le
mani… ma
le forze mi abbandonarono e tutto si offuscò, mentre mi
lasciavo cadere accanto
a lui.
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Capitolo 2 *** Capitolo uno ***
Quando
scesi dall’aereo che mi portò da Los Angeles a
Trondheim, un brivido mi
attraversò la schiena, penetrandomi nelle ossa. Sapevo delle
basse temperature
dell’Europa del Nord… ma immaginarle è
molto diverso dal conoscerle. Avevo
vissuto a Los Angeles per cinque anni, ero nata e vissuta a Tucson,
Arizona.
Perciò, quando l’aria fredda e pungente norvegese
di metà Novembre mi colpì in
pieno viso, sentii i muscoli facciali immobilizzarsi.
Linn la mia compagna di viaggio, si voltò sorridendo.
«Freddo, Iris?»
Scossi il capo, stringendomi nel cappotto e digrignando i denti.
«Ho quasi
caldo.» ironizzai tremando.
Lei aprì la bocca per ribattere, ma non emise alcun suono,
perché una voce
maschile chiamò il suo nome. Mi voltai e vidi un uomo alto,
dai capelli biondi
e grandi occhi verdi, esattamente come quelli di Linn.
«Papà!» esclamò lei,
lasciando cadere la valigia sul pavimento e correndo verso
l’uomo poggiato ad una jeep verde, fuori
dall’aeroporto.
Sì, Linn era mia collega norvegese che, due mesi prima mi
aveva invitata
all’anniversario dei suoi genitori. L’invito,
certo, mi era stato fatto in
circostanze particolari.
Lavoravo in uno show televisivo, come giornalista e, di tanto in tanto,
inviata
per sciocche rubriche. Avevo rinunciato a una delle due settimane di
vacanza
concessemi annualmente, per passare del tempo in Norvegia, con Linn. Mi
era
sembrata una buona idea, un modo per dimenticare ciò che due
mesi prima era
accaduto, per quanto difficile ancora potesse apparirmi.
Prima che potessi lasciarmi andare a ricordi dolorosi, Linn si
voltò verso me,
facendo oscillare i corti capelli biondo platino, come fosse
l’onda di un
ruscello.
«Papà, ti presento la mia collega e cara amica,
Iris.»
L’uomo di mezz’età, dalla mandibola
squadrata e larghe spalle solide, mi sorrise e rividi nei
suoi occhi la stessa
luce che brillava in quelli di Linn.
Mi porse la mano. «Harald. Harald Karlsen.»
L’afferrai e la strinsi con forza. «Iris
Bennet.»
«Benvenuta a Trondheim, Iris.» sorrise, prima di
salire sulla jeep.
Sulla
strada per andare a casa dei Karlsen, dato che non vivevano in
città, ma
in un agglomerato di case fuori Trondheim, che contava circa di mille
abitanti.
La radio trasmetteva una canzone in una lingua a me sconosciuta,
certamente
norvegese, ed il sole sfiorava arancione l’orizzonte. Il
ciglio della strada
era ricoperto di neve e vederla, lì, bianca come cotone, mi
fece fremere e
battere il cuore di gioia.
«Non avevo mai visto la neve.»
Linn si voltò, sorridente. «Bella, vero?»
«Sì.» soffiai.
«Non hai mai visto la neve?» tuonò la
voce di Harald.
Scossi il capo, «mai» e tornai a guardarla.
«Vengo dal deserto dell’Arizona. Lì non
nevica mai.»
«Sai,
Richard, mi piacerebbe tanto vedere
la neve.»
«Potremmo andarci in viaggio di nozze. Potremmo andare a
sciare.»
«Lo faresti sul serio?»
«Tutto ciò che vuoi, piccola. Tutto ciò
che vuoi.»
Mi morsi il
labbro inferiore, ignorai le voci di Linn ed Harald, che
parlavano fra loro - d’altronde non capivo una sola parola- e
guardai il cielo
scurirsi, mentre il mare diventava una distesa sempre più
scura.
«Ti chiediamo scusa, Iris.» disse Harald.
«Cosa? Perché?» chiesi confusa.
«E’ così tanto che non parlo norvegese
e… mi sono lasciata andare.» continuò
Linn. «E’ stato involontario.»
«Oh, no, non preoccupatevi. Sono totalmente rapita
da… tutto questo.» mormorai
indicando il paesaggio oltre il vetro del finestrino. Linn mi aveva
raccontato
che, lì in Norvegia, i bambini sin dalla tenera
età, imparavano a parlare in
inglese.
«Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuta.»
Sorrisi, guardando il mare. «Sì, è
vero.»
Quando
scesi dall’auto, il freddo pungente mi fece ancora una volta
rabbrividire nel cappotto. Linn mi aveva detto poco della sua famiglia,
maledettamente poco e restai confusa e leggermente scioccata alla vista
della
grande casa in legno scuro, dal lungo viale in pietra e dalle betulle
che la
circondavano.
«Tu vivi qui?»
«No, a Los Angeles.»
Mi voltai, alzando un sopracciglio. «Tu hai vissuto
qui?»
«Forse.» rispose facendo spallucce e camminando a
passo svelto lungo il viale.
Sorrisi, scuotendo appena la testa e quando sentii la sicura della jeep
scattare, mi voltai incontrando la figura di Harald, in una mano la mia
valigia, nell’altra quella di Linn.
«Oh, lasci che l’aiuti.» dissi
cortesemente tendendo la mano verso la mia
valigia.
Lui rise, incamminandosi verso la casa. «Discendiamo dai
vichinghi, abbiamo
potenza in noi.»
Mi morsi l’interno della guancia e lo seguii verso casa.
«Mi scusi, signor Karlsen, posso chiederle di cosa si
occupa?»
«Oh, chiamami Harald. Io e mia moglie siamo medici. Lei
è una psichiatra, io
chirurgo cardiotoracico. Linn non ha mai parlato di noi?»
Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Non molto.»
«Uhm.»
Pochi secondi dopo, salimmo le scale della veranda, ed entrammo in
casa,
avvertii immediatamente il calore. Il
calore del fuoco che scricchiolava nel camino, del legno scuro del
soffitto,
del legno chiaro delle pareti, dei tappeti dai mille colori, delle
fotografie
di famiglia. Fu strano, ma riuscii ad avvertire l’allegria,
la gioia del
ritrovarsi, come fossero mille carezze sul viso. In quella casa, mentre
Linn
teneva stretta fra le braccia una piccola donna dai capelli bianco
latte,
respirai odore di famiglia, di felicità.
Incontrai due occhi azzurri chiari come l’acqua del mar dei
caraibi,
incastonati in un viso rotondo e labbra che sorridevano dolcemente.
«Devi essere Iris.» disse la donna.
Sentii irrazionalmente il sangue fluire alla guance, mentre mi sfilavo
i guanti
e porgevo la mano alla donna dalla statura minuta. Ma lei la
ignorò, allargò le
braccia e mi strinse a sé, quasi togliendomi il fiato.
«Io sono Elna.» disse allontanandosi e stringendomi
le spalle con le mani
sottili. «E’ un piacere conoscerti.»
Era piccola, esattamente come la signora anziana che Linn stringeva
ancora a
sé. Più basse di me, che a malapena sfioravo il
metro e sessantotto, così
diverse da Linn che era più alta di me di almeno dieci
centimetri.
Sorrisi. «E’ un piacere anche per me.»
Linn si allontanò dalla signora anziana e si
voltò sorridente verso me. «Lei è
mia nonna Bretta.»
«Ma tu puoi chiamarmi nonna Britt.» rise con voce
roca e sottile. Mi abbracciò
e la strinsi con delicatezza, come se il solo toccarla avrebbe potuto
ridurla
in mille pezzi. La sua pelle era morbida e chiara, ricoperta da una
miriade di
sottili rughe, che portavano con esse i dolori e la gioie di una vita.
«Oh, ma guardati… sei bellissima.» disse
Bretta sfiorandomi i capelli con fare
dolce.
«Dov’è Alex?» chiese Linn alla
mamma che intanto stava aiutando Harald a
sfilarsi la giacca.
«E’ uscito a fare una passeggiata.»
mormorò la nonna avanzando sul divano.
«Da solo?» chiese sorpresa Linn.
«No, è con Ruth. E’ nei
paraggi.» rispose Elna, mentre io mi sfilavo il
cappotto, che Harald si offrì di appendere
all’ingresso.
Avrei voluto chiedere di fossero Alex e Ruth, ma non mi sembrava
particolarmente educato, così, lasciai stare.
L’avrei chiesto a Linn quando
saremmo state sole.
«Com’è andato il viaggio?»
chiese Elna spostando lo sguardo da me a Linn, da
Linn a me.
«Stancante.»
«Sì, molto.»
«Oh, andiamo, Elna, figlia mia, lasciale riposare un
po’.» disse Britt
accarezzando la guancia della nipote.
«Oh, giusto, scusate!» esclamò la donna
scuotendo il capo ed agitando la mani
in aria.
«Vieni, cara, ti accompagno nella tua stanza.»
disse Elna prendendomi a
braccetto e conducendomi per la scale. Il primo piano aveva un lungo e
largo
corridoio, grande quasi la mia cucina a Los Angeles. La mia camera era
l’ultima, in fondo, preceduta da altre tre camere. Da quanto
appresi più tardi,
la mansarda fungeva da ulteriore camera.
«Riposati, fra un’ora sarà pronta la
cena.» sorrise Elna, prima che Harald mi
porgesse la valigia.
«Grazie.» mormorai. Lui fece un cenno col capo.
«Dov’è il bagno?»
«In camera.»
«Oh. Oh.»
«La mia camera è questa!», la testa di
Linn fece capolino dalla prima stanza
sulla destra, ma chiuse la camere prima che potessi dire qualcosa.
Portai la valigia dentro e mi avvicinai alla porta. Elna ed Edvard si
dirigevano verso la scala, stretti l’uno all’altra.
Quella visione, carica
d’amore e dolcezza, mi causò una fitta in pieno
petto.
Cercai di non lasciare che i ricordi m’invadessero la mente,
ma… il mio
tentativo fu vano.
«Sono
andato a letto con un’altra. E non
avrei mai voluto farlo.»
Spalancai gli occhi ed la tazza che stringevo fra le mani,
s’infranse al suolo.
«Diamine!» sibilai chinandomi a raccogliere i pezzi
di ceramica. Urlai di
dolore quando mi tagliai un polpastrello, così mi alzai di
scatto portando il
dito sotto il getto d’acqua fredda del lavabo della cucina.
«Hai sentito ciò che ho detto?» chiese
ancora lui.
«Sì.» risposi con voce atona, prima di
chiudere l’acqua.
«E non hai nulla da dire?» chiese sorpreso.
Mi morsi il labbro, prima di voltarmi.
«Vuoi che cominci a strillare, Richard? Vuoi che ti lanci i
vestiti dalla
finestra? Che ti riversi una valanga di parolacce? Che
pianga?»
Non rispose, il suo sguardo era eloquente.
Mi portai una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Ho solo
un domanda,
Richard.» dissi avanzando verso lui.
«Tutto ciò che vuoi, amore mio.»
mormorò premendo il palmo della mano sul mio
viso.
«Perché?»
«Non lo so.»
«Non è una risposta valida.
Perché?» ripetei guardandolo con espressione seria.
«Forse… forse perché fra
noi… ecco… è tutto così
perfetto....»
Corrugai la fronte. «E’ colpa mia.»
«No, non dico questo, piccola…
solo…»
Indietreggiai di un paio di passi. «Sai cosa farò
adesso, Richard?»
«Cosa?»
«Andrò in camera da letto e farò le
valigie. E sai perché? Perché sei un lurido
idiota che non ha il coraggio di assumersi le proprie
responsabilità.» sputai.
«E sai cosa succederà dopo? Dopo potrai ficcarti
questo stupido anello –mi
sfilai il piccolo diamante dall’anulare- in un posto che non
è tanto difficile
da immaginare. E non tentare di chiamarmi –lo dissi cercando
di trattenere la
lacrime, di controllare al voce incrinata-, non seguirmi, non chiedere
di me a
lavoro, ai miei amici. Non frequentare il mio locale preferito, non
guardarmi
il quel maledetto telegiornale.»
Corsi in camera ed afferrai una valigia riposta sotto il letto.
«Cosa? No, ti prego, Iris, parliamone! Possiamo risolvere
tutto.»
Quando la sbattei con un tonfo sordo su letto, lo guardai in cagnesco
senza
rispondere alle sue parole.
«Ti prego, amore.»
«Non chiamarmi amore.» scandì bene le
parole mentre afferravo delle t-shirt
dall’armadio e le riponevo in valigia senza piegarle.
«Tu non hai idea di cosa
sia l’amore. Sei andato a letto con
un’altra!» sibilai con rabbia.
«E’ successo solo una volta e noi possiamo superare
tutto. Anche Anna è tanto
pentita e…»
Fu udire quel nome che fece cadere il mio cuore nel burrone,
già traballante
sul ciglio. «Anna?»
Richard capì di aver detto probabilmente troppo e si
portò una mano dietro la
nuca. Un gesto che faceva spesso quando non sapeva come rimediare al
danno
fatto.
«Anna?» chiesi mentre le lacrime cominciavano a
bruciarmi gli occhi.
«Ti prego, Iris…»
«Tu… io… come avete potuto? Sei andato
a letto con la mia migliore amica! Con
Anna!» gridai dirigendomi in bagno, per prendere il
beautycase.
«Mi dispiace così tanto… ma ti prego
con andare via!»
In quel momento mi sentii doppiamente tradita, doppiamente ferita, come
se due
pugnali affilati mi avessero colpito in pieno petto. La vita che fino
ad allora
mi ero costruita lì, a Los Angeles, stava scomparendo,
sfuggendomi dalla mani,
come portatami via da una folata di vento. La famiglia che avevo
intenzione di
costruirmi, divenne solo un’immagine sfocata
Le mani cominciarono a tremarmi, mentre gli occhi mi si velavano
immancabilmente di lacrime di rabbia.
Afferrai la borsa ed uscii dalla camera, ignorando le suppliche di
Richard.
Quando sentii la sua mano afferrare il mio polso non potei controllare
il mio
braccio. Infatti, le mie nocche, strette attorno al palmo, si
scontrarono con
il suo naso, macchiandosi così di sangue. Il dolore che
provai alle dita, non
era nulla in confronto al senso di liberazione di rivalsa nei confronti
di
Richard.
«Non provare mai più a toccarmi, brutto
idiota.» ringhiai scuotendo la mano in
aria, come a voler scacciare il dolore.
«Puoi mandare la mia roba da Linn.» sibilai uscendo
e sbattendo la porta
dell’appartamento… quell’appartamento
che per due anni era stato il mio posto
sicuro.
Rimasi ferma, lì,
a
fissare il vuoto per alcuni istanti, o forse minuti, mentre lasciavo
che la
vane speranze riposte nell’amore di un uomo, che non aveva
esitato a calpestare
il mio cuore, venissero a galla e sentii l’irrefrenabile
desiderio di acqua
calda, la necessità di rilassare i muscoli contratti.
Così mi voltai ed entrai
in camera, chiudendo la porta di legno chiaro. La stanza era a dir poco
meravigliosa. Il letto matrimoniale si trovava sul lato destro, mentre
la porta
del bagno, sul lato sinistro. Davanti a me, una grande finestra. Ma
l’oscurità
era tanto fitta, che nemmeno le stelle o la luna illuminavano il
profilo della
distesa d’erba e delle conifere in lontananza. Quel buio
pesto non mi piacque,
così chiusi le tende arancioni e mi lasciai cadere sul
letto. Chiusi un momento
gli occhi, ma il richiamo della doccia era troppo forte,
così mi legai i
capelli ed una volta entrata in bagno –dai muri color panna e
mobili bianchi-
lasciai che l’acqua calda mi sciogliesse i muscoli ed i nervi
tesi dalle ore di
voli.
Una volta uscita mi avvolsi il corpo con un asciugamano bianco. Pulii
lo
specchio dalla condensa e guardai la mia immagine riflessa nello
specchio.
La
luce era talmente soffusa che entrambi i miei occhi, sotto le altre
sopracciglia castane, apparivano dello medesimo colore. Le iridi
apparivano entrambe
grigi, quando di solito, in una di esse si poteva scorgere uno
spruzzò di mare,
nell’altra d’erba appena tagliata, ma entrambe
miste ad un celo plumbeo e
terso.
Mi passai del burro di cacao sulle labbra piene e mi spazzolai
energicamente i
denti, prima di asciugare i lunghi capelli castani che, lisci, mi
ricaddero
oltre le spalle. Mi vestii e, mentre mi allacciavo gli scarponcini,
sentii
qualcuno bussare alla porta.
Quando aprii Linn mi attendeva sorridente, poggiata al muro, stretta in
un
vestito nero di lana.
«Pronta? Muoio di fame.» sorrise.
Annuii e la seguii. Mentre scendevamo le scale, mi ricordai la domanda
lasciata
in sospeso. «Linn?»
«Sì?»
«Chi sono….», ma non riuscii a terminare
la domanda che Linn corse giù per le
scale.
«Alex!» esclamò in un gridolino.
Quando scesi l’ultimo gradino, la vidi con le braccia strette
al collo di un
uomo persino più alto di Harald, che probabilmente sfiorava
il metro e novanta,
dai capelli chiari e viso rettangolare. Aveva le labbra sottili distese
in un
sorriso, gli occhi chiusi. Ai suoi piedi un cane, con lingua
penzolante,
ansimava.
«Mi sei mancato.» mormorò lei.
«Mi sei mancata anche tu.» ridacchiò lui
e fui sorpresa da quando gradevole al
mio udito risultò la sua voce. Era roca, bassa, ma non
scura, ed il suo tono
era carico di dolcezza.
Lei sciolse l’abbraccio e lui chinò appena il capo.
«Alex,» disse prendendogli la mano,
«permettimi di presentarti la mia amica,
Iris.»
Alzai gli occhi su Linn ed il suo sguardo era luminoso.
«Iris, lui è mio cugino Alexander.»
disse con tono orgoglioso. Il mio sguardo
dal suo viso si spostò sulla sua mano che mi porgeva quella
grande del cugino.
Mentre l’afferravo alzai lo sguardo su sul viso e quando
incontrai il suo il
fiato mi si mozzò.
Un paio di occhi azzurro ghiaccio.
Due occhi vitrei che cercavano un’immagine che mai avrebbero
trovato.
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Capitolo 3 *** Capitolo due ***
Capitolo
due
«Piacere
di conoscerti», la sua voce vibrò, ridestandomi.
Afferrai la mano tesami. «Piacere mio» risposi
stringendola. Era fredda e solo
allora mi resi conto che indossava ancora il cappotto.
Era rivolto verso me, i suoi occhi era posati sul mio viso, ma non mi
stava
guardando. Sorrise.
«Linn mi ha parlato molto di te, al telefono.»
«Oh. Spero siano state parole carine» farfugliai in
imbarazzo.
Lui fece un risolino, guardando un punto indefinito fra me e Linn.
«Sì,
piuttosto carine.»
«Middag!» esclamò la nonna sulla soglia
della cugina.
Mi voltai verso Linn, con espressione interrogativa.
«La cena. E’ pronta» sorrise lei.
«Andiamo, Ruth» aggiunse Linn prima di rivolgersi
al cane steso ai piedi di
Alexander, così simile più simile ad un lupo che
a un cane. Batté le mani sulle
ginocchia e correndo verso la veranda alla destra del soggiorno.
Per un alcuni istanti mi ritrovai a dondolare sui talloni, evitando di
guardare
il viso di Alexander, e concentrandomi sulle sue larghe spalle, mentre
si
sfilava la pesante giacca.
Lo vidi allungare una un braccio e avanzare di un passo nella direzione
dell’entrata.
«Posso aiutarti?» chiesi tendendo le mani verso
lui.
«Te ne darei grato» mormorò con voce
bassa, abbozzando un sorriso.
Afferrai la sua giacca e l’appesi accanto alla mia. Poi mi
voltai, trovandolo
nella stessa posizione, lo sguardo perso nel vuoto.
«Andiamo?» mi chiese sorridendo con fare gentile.
Annuii col capo, ma mi resi conto che ciò non bastava.
«Sì» dissi avvicinandomi
a lui credendo di doverlo aiutare, lui però, sfiorando il
divano con i
polpastrelli, si diresse verso la cucina, quasi avesse nella propria
testa
l’immagine vivida del soggiorno.
Una volta in cucina Elna mi sorrise e, avvicinandosi ad Alexander, lo
prese per
il braccio, poggiandogli poi una mano sulla sedia. Si sedette, mentre
lei
prendeva una grande ciotole contenente una zuppa.
«Iris, puoi sederti lì» dissi Harald
indicandomi la sedia accanto a quella di
Alexander.
Sorrisi ed annuii col capo.
Mentre prendevo posto, Linn entrò dalla porta in cucina, che
dava probabilmente
sul retro della casa.
«Aaaah, la zuppa della nonna!» esclamò
entusiasta, mentre si sedeva di fronte a
me. «Vedrai, è squisita.»
Elna ne versò un po’ nel piatto di Alexander e poi
nel mio. «Grazie» mormorai.
Alexander, lentamente, afferrò il cucchiaio e poggiando
l’indice ed il pollice
al lato del piatto, cominciò a mangiare la zuppa.
Quando anch’io l’assaggiai, estasiata, mi voltai
verso Bretta. «E’ deliziosa!»
esclamai.
«
Deilig»
sibilò
Alexander sporgendosi verso me.
Per qualche inspiegabile motivo, avverti
una stretta allo stomaco.
«Deilig!»
dissi alla nonna Britta, che
annuii col capo, sorridendo.
Mi sporsi verso Alexander, guardando il profilo del suo viso.
«Grazie»
mormorai, mentre il profumo di dopobarba m’invadeva i polmoni.
Sorrise. «Non c’è di che»
mormorò.
Quando tornai diritta, incontrai tre paia di occhi che luminosi mi
sorridevano.
Dopo cena, stanca per il
viaggio, distrutta per il viaggio, anche se le mie
ore di sonno non coincidevano con quelle di Trondheim, salii in camera,
esattamente come fece Linn.
«Chiudi gli occhi, e basta. Ti addormenterai.»
Sorrisi. «Oh, ci proverò» risposi prima
di varcare la soglia della porta.
Una volta entrata, poggiai la schiena alla porta e mi lasciai cadere
lungo
essa. Mi passai le mani fra i capelli, trattenendoli sulla nuca.
Lì, seduta sul
caldo legno, ripensai alla cena, all’affetto che trapelava da
ogni sguardo, che
colorava ogni voce. Ripensai ad Alexander e mi chiesi per quale motivo
fosse
privo di vista. Il suo viso, così nordico e virile, era allo
stesso tempo
dolce, come un mix di rovi ed orchidee. Mi chiesi cosa celasse negli
occhi, in
ogni espressione del viso. Non era un tipo loquace, era ovvio, durante
la cena parlò
solo se interpellato.
Scossi il capo, come se potessi scrollarmi dalla mente le immagini
della cena.
Mi alzai, dirigendomi in bagno. Lì, mi feci
un’altra doccia calda, legandomi in
una coda i capelli color del cioccolato. Indossai una t-shirt ed i
pantaloni di
una vecchia tuta, prima di mettermi sotto le coperte. Con la luce
soffusa
rimasi interminabili minuti a fissare il soffitto, girandomi e
rigirandomi,
controllando e ricontrollando la sveglia. Non riuscivo a dormire,
così presi il
libro che avevo lasciato in borsa. Lessi qualche capitolo, fino a che
non
sentii le palpebre diventare pesanti. Colsi tale occasione e spensi la
luce,
affondando il viso nel cuscino, ma non riuscii ad addormentarmi
comunque. La
radiosveglia segnata l’una di notte, quando decisi che
restarmene lì non
serviva a nulla, così mi alzai e, dopo aver indossato un
maglioncino e le
pantofole, uscii dalla camera. Camminai lentamente, evitando di far
scricchiolare
il pavimento rivestito da lunghe travi di legno, per non svegliare
nessuno.
Barcollai nel buio, reggendomi al muro, fino a che non arrivai alle
scale e
quasi parsi l’equilibrio. Quando scesi anche
l’ultimo gradino, il cuore mi
balzò in gola.
Nel buio pesto, illuminata dalla fioca luce dei carboni ardenti nel
camino, una
figura maschile era seduta sul divano. Le gambe appena divaricate e le
mani
giunte.
Feci un singulto, facendo un salto all’indietro e poggiando
la schiena al muro.
La figura mosse di scatto la testa, tendendo l’orecchio
sinistro verso la mia
direzione.
«Chi c’è?», riconobbi al voce
roca di Alexander.
«Non volevo spaventarti» mormorai deglutendo
rumorosamente e portandomi una
mano al petto, mentre il cuore martellata veloce contro il mio palmo.
«Devo essere io a chiederti scusa.»
«Perché?» chiesi avvicinandomi ad una
delle due poltrone.
«Ti ho spaventata.»
Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Forse un po’.»
Ridacchiò. «Scusa ancora.»
«Beh, sì, potrei prendere in considerazione
l’idea di perdonarti» dissi
sedendomi sulla poltrona, portandomi le ginocchia al petto e
stringendole con
le braccia.
«Se?»
«Se… se mi dici quanto sei alto.»
Rise. «Perché vuoi saperlo?»
Feci spallucce. «Beh, sei la persona più alta che
abbia mai conosciuto.»
«Davvero?» chiese, e lo vidi sorridere nella
semioscurità.
«Sì.»
«Sono alto un metro e novantaquattro.»
Strabuzzai gli occhi. «Sul serio?»
Rise ancora. «Sì, sul serio.»
Accavallò una gamba, mentre guardava in direzione del
camino, mostrandomi solo
il profilo del suo volto.
«Beh, allora… sì, sei
perdonato.»
«Ne sono felice» sussurrò con voce roca.
Dopo alcuni istanti di silenzio, parlai ancora. «Linn non mi
ha mai parlato di
te.»
Schioccò la lingua. «Non ama parlare della sua
famiglia. Ci ama troppo, per
farlo. Cerca di non pensarci. Le fa male. mormorò.
«Perché il tuo inglese è
così perfetto?» chiesi, ingenuamente.
Lui non rispose subito, per alcuni istanti rimase immobile, prima di
voltare il
viso verso di me, guidato dalla mia voce. «I miei genitori si
trasferirono in
America quando avevo dieci anni. Dopo la loro morte ho continuato a
vivere lì. Sono
tornato qui solo un paio d’anni fa.»
«Mi dispiace, non sapevo.»
«Oh, tranquilla, è successo tanto tempo
fa.»
«Allora, come trovi la Norvegia?» chiese cambiando
argomento.
«Per quel poco che ho visto… è
meravigliosa.»
«Sì, lo è.»
Mi chiesi se fosse cieco dalla nascita, o se lo fosse divento, e in tal
caso
come fosse accaduto. Chiederlo sarebbe stato scortese, così
tacqui.
«E tu vivi qui?» chiesi poggiandomi allo schienale
della poltrona.
«Sì. Vivo qui, in mansarda.»
«Da bambina ne volevo una anche io. Ma abitavo in una casa su
un piano solo.»
«A Los Angeles?»
«No, sono di Tucson. Mi sono trasferita a Los Angeles per
lavoro.»
«Tucson è in Arizona, giusto?»
Sorrisi. «Sì.»
«Ci sono stato, una volta. Di passaggio, però. Ero
con la mia fidanzata, aveva
parenti a Phoenix.»
«Sei fidanzato?» chiesi inclinando il capo, mossa
da una curiosità insana.
«No, non più.»
«Oh, io…»
Rise. «Non sapevi e ti dispiace.»
Arrossii. «Sono così prevedibile e
monotona?»
Tacque un attimo. «Sembri… sincera. La tua voce
non è monotona.»
Deglutii a fatica.
«Usi un profumo alla lavanda?» chiese corrugando la
fronte.
Sbattei più volte le palpebre. «Il mio balsamo
è alla lavanda» mormorai.
Com’era possibile che lo sentisse?
«E’ così forte?» chiesi.
«No… sa di buono. Di fiori»
mormorò, sorridendo sghembo.
«Sono i miei fiori preferiti. Il loro odore… sa di
casa.»
«Sì, sono d’accordo»
mormorò.
Guardai il fuoco spegnersi, la fiamma dei carboni affievolirli
lentamente. «Ti
spiace se aggiungo un ciocco nel camino?» chiesi.
Scosse il capo. «No.»
«Grazie» sorrisi. Mi alzai e presi della legna
accanto al camino, piano, la
posai su ciò che restava nel camino, poi tornai indietro,
verso la poltrona.
«Ti spiacerebbe sederti qui?», la voce di Alexander
era roca, graffiata, ma fu
una venatura di dolcezza e gentilezza, che mi attirò sul
quel divano.
Mi
sedetti accanto a lui, con il viso rivolto verso il fuoco, ma lui
scosse il
capo, afferrandomi per il polso e conducendomi dall’altro
lato, in modo che io
dessi le spalle al fuoco.
«Cosa…»
«Non sono del tutto cieco, Iris. Riesco ancora a vedere luci
ed ombre, sagome.
E’ come se vedessi attraverso un telo di un grigio molto
scuro. La luce del
camino mi permette di distinguere i contorni del tuo viso, del tuo
corpo»
mormorò.
«Oh.» soffiai.
Il suo viso illuminato dalle fiamme del fuoco sembrava essere di
porcellana.
«Posso farti una domanda?» chiese appoggiandosi
allo schienale del divano.
Mi voltai verso lui, piegando una gamba. «Certo.»
«Iris è un nome insolito. Non fraintendermi,
delizioso, bellissimo… ma, ha
qualche particolare significato? E’ una domanda personale ed
invadente, lo so…
ma è da quando Linn mi ha parlato di te che sono curioso.
Sorrisi, inclinando il capo, senza smettere di guardare i suoi occhi
celesti,
persi sul mio viso. «L’Iris era il fiore preferito
di mio padre. Quando mia
madre era in attesa lui le regalava un fiore ogni mese. E’
morto prima che io
nascessi. Così mia madre mi ha chiamato come i fiori che lui
amava.
Inoltre, ho
scoperto da bambina che significa arcobaleno. Nella mitologia greca
Iris era la
personificazione dell’arcobaleno, appunto.»
«Mi dispiace molto. So cosa significa perdere qualcuno di
così importante…»
«Non preoccuparti. Non l’ho conosciuto. Il che non
so se sia peggio…»
«Non c’è una perdita migliore o
peggiore.»
Sorrisi. «Hai ragione.»
Ci fu un attimo di silenzio. «Arcobaleno, hai detto? Cosa
significa?» continuò
corrugando la fronte.
«E’ per via dei miei occhi.»
Corrugò la fronte. «Cos’hanno i tuoi
occhi?»
«Eterocromia. Il mio occhi destro è grigio-blu,
quello sinistro grigio-verde.
E’ una differenza appena percettibile, al sole è
più evidente.»
Alexander, non parlò subito, ma quando lo fece, la sua voce
era carica di
rimpianto, di tristezza, desiderio e dolcezza. «Vorrei
poterti guardare negli
occhi» soffiò, mentre la sua mano cercava il mio
viso. «Posso?» chiese con la
mano a mezz’aria.
Non dissi nulla, mi limitai ad afferrare la sua mano destra e
portarmela sul
viso. La sua pelle era calda e la mia parve prendere fuoco sotto il suo
tocco
leggero e delicato, mentre premeva il palmo sulla mia guancia. Le sua
mano era
tanto grande che avrebbe potuto ricoprire la lunghezza del mio viso.
Dischiuse appena le labbra, mentre le sue mani mi sfioravano la fronte.
Chiusi
le palpebre quando i suoi polpastrelli si posarono sui miei occhi.
«Hai gli occhi grandi.»
Avrei voluto dire qualcosa, ma l’unica cosa che mi uscii
dalle labbra fu un
sospiro, leggerlo, seguito da un fremito, mentre le sue dita scendevano
sulle
mie labbra. D’un tratto, però, il contatto
terminò.
«Scusa» mormorò.
«Non farlo» soffiai mentre riafferravo le sue mani
e le portavo sul mio viso.
Le sue dita vagarono ancora sulla mia pelle, sulle mie labbra piene,
appena
dischiuse.
«La tua pelle è
così…»
Deglutii. «Così?»
«Morbida.»
Le sue mani scesero sul mio collo, sulle spalle, facendomi venire la
pelle
d’oca sulla nuca. Poi, ancora, scesero nell’ incavo
del mio collo, sulle orecchie
e infine tra i capelli. L’unico rumore percettibile era lo
scoppiettio del
fuoco, accompagnato dal il mio respiro corto.
Uno strano calore s’irradiò dal centro del mio
petto in tutte le parti del mio corpo, facendo vibrare ogni mia
terminazione
nervosa. Affondò il viso fra i miei capelli ed
inspirò.
«Il profumo di lavanda è anche il mio
preferito.» mormorò allontanandosi.
«Chi sei Alexander?» mormorai aprendo gli occhi e
sfiorandogli con estrema
delicatezza le sopracciglia e la palpebre appena lui le chiuse.
«Un uomo di trent’anni che, in questo momento,
vorrebbe solo poterti guardare
negli occhi. Niente più, niente meno.»
mormorò. Sorrise amaramente, poi chinò
il capo, chiudendo gli occhi.
«Buona notte, Iris» aggiunse, alzandosi e
dirigendosi a passo lento verso le
scale.
«Buona notte, Alexander» soffiai osservando la sua
figura statuaria salire
scale.
«Chi sei…» sussurrai a me stessa quando
oramai la sua figura era scomparsa.
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Capitolo 4 *** Capitolo tre ***
Capitolo tre
A
svegliarmi il
mattino successivo fu Linn. Aprii di scatto gli occhi quando sentii un
tonfo
sul letto e sobbalzai sul materasso.
«Oddio!» esclamai guardandomi attorno, spaventata.
Quando incontrai il suo
viso, mi lasciai ricadere sul materasso, coprendomi il viso con le mani.
«Ti odio» mugugnai.
«No, non è vero» rispose lasciandosi
cadere sul cuscino accanto al mio, alla
mia destra.
«Oh, sì» ribattei scoprendomi un occhio
e guardandole il volto felice.
«Muoio di fame. Vestiti, così andiamo a fare
colazione.»
«Ho sonno» mi lamentai coprendomi il viso con il
cuscino. «Che ora è?»
«Le nove.»
«Le nove?» chiesi guardandola scioccata.
«Mi sono addormentata due ore fa!»
«Su andiamo, non puoi dormire tutto il giorno!»
«Ma io ho sonno, Linn» sbuffai affondando il viso
nel cuscino.
«Oh, non farmi usare le maniere forti!»
esclamò, ma io non mi mossi di un solo
millimetro, chiusi gli occhi e mi preparai a cadere ancora fra le
braccia di
Morfeo.
«Iris!» esclamò poggiando spingendomi
con i piedi verso il bordo del letto.
Spalancai gli occhi e strinsi fra le mani la pesante trapunta,
attutendo così
la caduta sul pavimento.
«Sei impazzita?» chiesi spalancando la bocca.
«Forse. Su, via, vestiti.» disse facendomi segno
verso il bagno, agitando le
mani in aria.
«Sì, sei pazza» risposi roteando gli
occhi e dirigendomi verso il bagno mentre
lei si adagiava sul letto, sospirando ed incrociando le mani sul
ventre. E, per
un momento, con la mente ritornai a quel giorno che, inconsapevolmente,
mi
avrebbe cambiato la vita.
«Non
posso crederci, Linn,
non posso crederci» singhiozzai soffiandomi il naso ed
asciugandomi le lacrime.
«Oh, tesoro…»
«Mi ha tradita con Anna» singhiozzai affondando il
viso in un cuscino del suo
divano.
«Mi dispiace così tanto. E’ solo un
idiota, tesoro, non ti merita di certo.»
«Cosa faccio adesso? Devo cercare casa… non posso
permettermi di stare in
albergo!» dissi prendendo un altro fazzoletto.
«Oh, andiamo, starai da me, ovvio!» disse lei
sorridendomi.
Abbozzai un sorriso, asciugandomi le ultime lacrime.
«Ascolta, hai bisogno di allontanarti da Los
Angeles.»
Alzai il capo guardandole oltre un velo di lacrime.
«Devo tornare a casa per l’anniversario dei miei
genitori. Potresti venire.»
Sbattei più volte le palpebre. «Linn…
tu sei norvegese.»
Annuì energicamente col capo, facendo oscillare i corti
capelli biondo platino.
«Esatto.»
«La Norvegia. E’ fredda» mormorai.
«Ti piacerà, Iris, fidati di me» sorrise
e i grandi occhi verdi s’illuminarono.
«Dovrei chiedere a Larry i gironi di vacanza previsti
per… per la luna di miele»
quelle parole, uscitemi a fatica, mi fecero dolere il cuore, scoppiai
di nuovo
in lacrime.
«Oh, tranquilla, quell’uomo stravede per te. E poi
mi deve un favore» disse
alzandosi per andare in cucina.
Quando tornò, parlo ancora. «Sì, ti
serve una pausa» , mi cinse le spalle con
le braccia e accarezzandomi i capelli.
La guardai negli occhi abbozzando un sorriso mesto. «La
Norvegia.»
«Sì, Iris, la Norvegia.»
Quando
uscii dal
bagno, indossavo un jeans scolorito e un maglioncino rosso. Linn
inclinò il
capo. «Non hai niente di più sexy? Oggi ti
portiamo in città.»
«Ehi, comodità ed efficienza. E poi sono sexy
anche in pigiama» ironizzai
facendole una smorfia.
Sospirò. «Certo, tigre. Coraggio, andiamo. Sto
morendo di fame.»
Quando
entrai in cucina, al tavolo era seduto Alexander, il viso rivolto verso
la vetrata, attirato dalla luce fievole dell’alba che
filtrava attraverso le
nuvole grige. Nel suo piatto delle uova e delle salsicce, nel grande
bicchiere
di vetro del succo di frutta.
Il pavimento scricchiolò sotto i nostri piedi ed Alexander
girò la testa di
scatto, verso la porta.
«Elna?»
«No, mi spiace» trillò Linn
avvicinandosi a lui e baciandogli il capo.
«Oh, ciao, Linn.»
Mi schiarii la gola. «Buon giorno» mormorai
arrossando e portandomi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio.
«Buon giorno, Iris» disse lui, mentre un angolo
delle sue labbra si sollevava
verso l’alto.
Sentii il sangue fluire alle guance, osservando il suo viso illuminato
dalla
luce del giorno. I suoi capelli erano chiari, non come quelli di Linn,
più
simili a quelli di Harald, tra il castano ed il biondo. La pelle
sembrava
morbida, mi chiesi come sarebbe stata al tatto e la barba appena
incolta,
chiara anch’essa, mi fece pensare ai nordici vichinghi dei
film, belli da
mozzare il fiato… esattamente come Alexander. Fu strano, fu
come vederlo
davvero per la prima volta. Tutto sul suo viso era armonioso, tutto
s’accordava
con le larghe spalle e i muscoli affusolati del braccio che risaltavano
sotto
il maglioncino celeste.
«Uova e salsicce!» esclamò Linn
guardando in padella.
Alexander sorrise. «Sì, sono calde. Elan le ha
fatte poco fa. Qui ci sono anche
le frittelle ai mirtilli.»
«Sei consapevole che oramai le fa solo perché ti
fanno impazzire?» disse Linn
in un risolino.
«Sì, lo so» rispose lui, mentre io
prendevo posto al tavolo. Intanto Linn
versava le uova e le salsicce nel piatto, per poi poggiarle sul tavolo.
«Ti prendo un bicchiere?» chiese Alexander.
«Oh, se mi dite dove sono posso prenderlo io.»
«No, faccio io» rispose.
«Vive qui da due anni, Iris, ormai ha imparato a memoria la
piantina della
casa.»
Alexander rise. «Simpatica.»
«Sai che ti voglio bene» disse con fare dolce.
«E’ per questo che sei ancora viva.»
«Simpatico.»
Osservai Alexander avanzare fino alla credenza accanto alla porta,
dietro di
me, aprire una portella e prendere un grande bicchiere di vetro. Nel
porgermelo, le sue dita sfiorarono le mie e il ricordo della sera
precedente,
di quel contatto così intimo ed inaspettato, mi fece venire
la pelle d’oca.
Mi versai del succo di frutta e presi una frittella.
«Vieni con noi, oggi? Sei in vacanza, no?»
«Dove andate?»
«In città» rispose Linn con
ovvietà, mentre si sedeva.
«Okay.»
«Perché sei in vacanza, vero? Mi avevi promesso
che non avresti lavorato mentre
ero qui.»
Lui rise e mi parve la risata più dolce che avessi mai
sentito. «Certo.»
Ammonii tutte quelle considerazioni, che mi vorticavano in testa, come
le
foglie mosse in mulinelli dal venti autunnale.
«Di cosa ti occupi?» chiesi curiosa, dopo aver
mandato già un boccone di carne.
«Sono un avvocato. Lavoro con un amico, in
città» rispose con voce roca.
«A Boston era un importante avvocato. Di quelli che
difficilmente perdono una
causa.»
Il respiro di Alexander si fece sempre più profondo, mentre
chinava appena il
capo. «Preferirei non parlare di Boston, Linn»
mormorò e nella sua voce c’era del
dolore, era quasi palpabile nell’aria attorno a lui.
«Oh, mi dispiace, Alex… non
volevo…» sussurrò lei mordendosi il
labbro
inferiore.
«Scusatemi» aggiunse lui con foce atona, prima di
alzarsi e dirigersi a passo
lento verso la porta.
E fu strano, quel suono, che mi parve d’avvertire echeggiare
nella mia testa:
il suo passo leggero e lento, le spalle curve sotto il peso di un
qualcosa di
invisibile, mi fece pensare ad un vaso di vetro che
s’infrangeva al suolo.
Lasciammo
l’auto in un parcheggio custodito, scesi e feci il giro
dell’auto
raggiungendo Linn e Alexander, che portava Ruth al guinzaglio.
«Allora, cosa vogliamo fare?» mi chiese Linn in un
sorriso smagliante.
«Beh, ti ricordo che sei tu quella del posto»
osservai, facendo sorridere
Alexander.
«Potremmo portarla al Folk Museum»
suggerì Alexander voltando lo sguardo verso
noi.
«Ottima idea» constatò Linn.
«Ti piacerà?»
«Di cosa si tratta?» chiesi portandomi una ciocca
di capelli dietro l’orecchio.
Il contatto della mano gelata con la punta dell’orecchio mi
fece rabbrividire.
«Vedrai. E copriti» mi ammonì Linn con
sguardo truce, mentre si incamminava
verso l’uscita del parcheggio.
Sospirai.
«Linn ha ragione, Iris. Fa molto freddo e il sole qui non
è mai del tutto alto.
Non indossi cappellino e guanti?» chiese Alexander alzando un
sopracciglio.
Dalla tasca del mio capotto tirai fuori i guanti in pile, ma mi resi
conto di
aver dimenticato il berretto di lana. «Accidenti»
sibilai.
«Cosa c’è?» chiese allarmato
Alexander chinando appena la testa.
«Credevo di aver preso il berretto…»
Lui sorrise. «Puoi prendere il mio» disse tirando
fuori un berretto di lana
grigia dalla tasta del giubbotto imbottito.
«No, serve a te» dissi scuotendo il capo.
«Non abituato alle basse temperature. Tu no. E poi ho il
cappuccio. Non
preoccuparti per me» disse con fare dolce, porgendomi il suo
berretto.
Sentii il sangue affluire alle guance e posai lo sguardo sulla sua
mano,
imbarazzata. «Grazie».
«Ehi, voi due, volete muovervi?»
«Mi sa che ci conviene affrettarci» dissi
cominciando a camminare.
Subito Ruth si mise ritta sulle quattro zampe pronta a partire.
«Andiamo, piccola» sussurrò con voce
roca e per un attimo ebbi la sensazione
che Alexander parlasse con me.
Guardavo estasiata
gli edifici risalenti al 1600, piccole case in legno, non molto distati
le une
dalle altre. La neve ricopriva i tetti spioventi e le piccoli travi che
rivestivano esternamente le pareti, soffermandosi sulle pareti
laterali, come
fossero piccoli batuffoli di cotone. L’aria era fredda e
pungente, tanto che
dovetti proteggere le labbra con un burro di cacao. Sentivo la punta
del naso
gelata e la sfregai con i guanti, sperando si riscaldasse. Invano.
Mentre camminavamo lungo i vialetti
spalati dalla neve e ricoperti da grandi
pietre, osservavo Alexander con la coda dell’occhio. Si
mordeva l’interno della
guancia sinistra, una mano nella tasca dei jeans, l’altra
giocherellava con il
guinzaglio di Ruth, che camminava a passo d’uomo. Annusava
per terra,
camminando così sinuosamente e lentamente che sembrava
essere connessa
direttamente ad Alexander, come se i loro movimenti fossero
sincronizzati.
Sorrisi guardandoli.
Mi chiesi cosa stesse pensando, cosa gli
passasse per la testa, quale fosse la
sua storia, ma non l’avrei mai chiesto. Nemmeno a Linn. Eppure desideravo
fortemente saperlo, volevo
sapere chi fosse quell’uomo dagli occhi vitrei e persi, dalla
voce roca e dal
sorriso caldo.
A farmi riemergere dall’oceano
di pensieri in cui mi ero imbattuta, fu il
cellulare.
Lo tirai fuori dalla borsa che portavo a
tracolla. Quando lessi il display
sentii un brivido percorrermi lungo la schiera.
Richard. Deglutii faticosamente e una vertigine mi fece barcollare,
tanto che
persi l’equilibrio e caddi verso destra, aggrappandomi al
braccio sinistro di
Alexander che ebbe un sussulto.
«Iris?» chiese
afferrandomi un braccio con l’altra mano.
«Io…»
soffiai «scusami, ho… perso
l’equilibrio.»
«Iris, tutto bene?»
sentii Linn avvicinarsi e afferrarmi per l’altro braccio.
Cercai di rimettermi in piedi, ma le
gambe mi tremavano. «Ho bisogno solo di
sedermi un attimo» soffiai senza guardare nessuno in volto.
«Avanti, vieni qui»
disse Linn accompagnandomi su una panchina lì vicino. I
pesanti jeans non attutirono il contatto con la pietra fredda. Tremai.
«Il tuo cellulare, squilla
ancora» solo allora, quando Alexander pronunciò
quelle parole mi resi conto di aver fatto cadere il cellulare nella
neve.
«L’ha trovato
Ruth» continuò, come a rispondere ad una mia muta
domanda.
«Grazie» risposi
alzando lo sguardo sul suo viso, illuminato da un flebile
sorriso.
«Chi è?»
chiese Linn sbirciando il display. Il suo viso impallidì,
poi i suoi
muscoli facciali si contrassero in una smorfia di rabbia.
«Stai bene?» si
limitò a dire.
Annuii. «Sì,
è tutto okay» sorrisi flebilmente. Presi dalla
borsa una
bottiglietta d’acqua e ne bevvi un sorso.
Alexander impassibile rimase in piedi
davanti a noi, con Ruth che a sui piedi
ansimava appena. Il suo viso era imperscrutabile. Mi chiesi cosa stesse
pensando. Avrei voluto passare una mano sulla sua fronte e distenderne
i
muscoli. Fui sorpresa da me stessa a pensarlo.
«Sono solo un po’
stanca» dissi guardando Linn, ma dal suo sguardo capii che
non aveva abboccato. Face roteare un dito in aria e sussurrò
“dopo”. Annuii.
Linn scattò in piedi.
«Avanti, finiamo il giro. Possiamo entrare anche in
un’abitazione, sai? Sarai una vichinga per oggi».
Feci un risolino, «non vedo
l’ora.»
«Richard,
Richard Benson.»
«Iris Bennet.»
«E’
un piacere conoscerti, Iris. Un nome incantevole per una donna
incantevole.»
«Qualcosa mi dice che sono in
presenza di un Don Giovanni.»
«Oh, no. Conosco solo le buone
maniere. Sei in presenza di un gentiluomo.»
«Affabile.»
«Non trovi anche tu che sia
una delle feste di compleanno più noiose delle
storia?»
«Ma non dirlo alla
festeggiata.»
«In
realtà… non la conosco. Sono venuto con un
amico.»
«Un imbucato.»
«Non mi definirei proprio
così.»
«Perché non
lasciamo questa festa noiosa e ci andiamo a prendere un drink al
bar all’angolo?»
«Offri tu.»
«Oh, Iris, dimentichi che sono
un gentiluomo.»
Il
vecchio pavimento in legno scricchiolava sotto i miei scarponcini, i
miei passi
riecheggiavano nella piccola stanza spartana, illuminata dalla fioca e
calda
luce di lampade elettriche, mentre il sole, dopo solo poche ore, si
abbassava
verso l’orizzonte, gettando il villaggio
nell’0scurità.
«Abbiamo poco tempo, fra un
po’ il museo chiuderà. E noi potremo andare a
pranzo.»
«E’ bello sapere che
il tuo appetito non passa mai, Linn», disse sorridendo
Alexander.
«Ah, Alex, non credo
potrà mai accadere. Questo posto mette appetito.»
Il mio stomaco brontolò
sonoramente, sia Linn che Alex si zittirono.
«Non credo tu sia
l’unica, Linn.»
«E’ vero, questo
posto mette fame» dissi avvampando leggermente di rossore.
«E’ l’aria
gelida» rispose Alexander avanzando nella stanza.
Linn mi fu subito vicino. «Ti
porto nel mio ristorante preferito. Stufato di
alce. Vedrai che buono.»
Arricciai il naso e lei mi diede un
pizzicotto.
Continuai a guardarmi intorno, ad
osservare le pareti di legno scuro e
invecchiato, i letti di fortuna addossati ad esse, un tavolo
traballante e un
tavolino ricavato da una botte.
«Vivevano davvero in case come
queste?»
«Sì»
esordì Alexander, «questa è una
ricostruzione, permettono ai visitatori di
entrare. Nelle case abitate secoli fa, si può solo
sbirciare, ma non è
possibile entrarvi.»
Sentii la sua figura dietro di me,
statuario e imponente. Il suo respiro era
calmo ed appena percettibile.
«Non avevano
freddo?» sussurrai.
«No. Guarda», disse.
Mi poggiò una mano sulla spalla e la fece scorrere lungo
il braccio, fino ad afferrare il mio polso. Lo sollevò e mi
avvicinò la mano
alla parete di legno. Era calda.
«Il legno è un
ottimo isolante termico. Non c’è una casa fatta in
pietra da
queste parti», continuò con voce bassa.
Fece scivolare la sua mano, che
scomparve dal mio campo visivo. Con la coda
dell’occhio vidi Linn sulla porta. Mi agitai sul posto,
imbarazzata.
«E’ ora di andare,
stanno per chiudere. Ed io ho fame» disse Linn raggiante. Il
mio campanello d’allarme suonò, qualcosa mi diceva
che avrebbe fatto un
incursione nella mia camera. Cercai di non pensarci. Mancava ancora
qualche ora
al rientro.
La
macchina avanzava nel buio , durante la strada del ritorno e la radio
trasmetteva un programma in norvegese che faceva molto ridere Linn,
meno
Alexander, che non riuscivo a vedere. Lo sentivo accarezzare Ruth, che
poggiava
la testa sulle sue gambe.
Ripensai al pranzo, allo stufato di alce che, con mio grande stupore,
era
squisito. Era vero. Ero lì solo da un giorno, ma avvertivo
sempre un dolce
languorino. Eccetto l’ora successiva al pasto.
Alexander non aveva parlato molto, durante la giornata. Sembrava si
estraniasse,
di tanto in tanto, perso in un mondo di pensieri a noi sconosciuto.
Pensai che
avesse tanto da dire, tanto da a raccontare, ma tanta paura di esporsi.
Pensai
subito che forse mi sbagliavo, che forse era una mia impressione, o
volevo solo
che fosse così. Pensare a lui, alla sua riservatezza, forse
mi serviva a non
pensare al dolore che mi portavo costantemente nel cuore, rinchiuso in
quel
cassetto che custodiva tutti i sogni di un futuro infranto. Mi venne in
mente
la chiamata ignorata di Richard. Mi chiesi cosa volesse. Ma non volevo
sentire
la sua voce, le sue scuse o la sua rabbia.
Non avevo idea di cosa avrei fatto della mia vita. Non ero ancora
riuscita a
trovare un appartamento. Avevo dovuto annullare il matrimonio e
spiegare cosa
era successo alla mia famiglia. Una famiglia all’antica.
Tutto questo aveva
distrutto mia madre che ogni giorno mi chiamava per assicurarsi che
stessi
bene.
Erano tre giorni che Richard non mi chiamava o non mi mandava messaggi.
Spesso
lo avevo trovato sotto casa ad aspettarmi ed una volta Linn dovette
chiamare la
polizia perché non voleva farmi entrare in casa. Credevo non
mi avrebbe fatto
del male… eppure, mi aveva terrorizzato…
Era sera, ero rimasta a
lavoro sino a
tardi. Linn mi aveva mandato un sms, scrivendomi che mi aspettava sulla
piccola
veranda dell’appartamento in cui viveva, con una bottiglia di
chardonnay e
crostini con burro e salmone.
Quando scesi
dall’auto, davanti all’ingresso, seduto sui gradini
dell’edificio,
vidi Richard. Indossava un abito di grigio, di quelli che usava in
ufficio, la
cravatta ancora annodata, ma tanto lenta da sbottonare i primi due
bottoni
della camicia.
Mi bloccai,
sgranando gli occhi.
«Iris, amore mio…» esordì
quando mi vide avanzare, udendo il rumore dei tacchi
sulla asfalto.
«Cosa
vuoi, Richard?» risposi impassibile.
«Ti
prego, tesoro, torna a casa. Torna da tuo marito.»
Udendo quelle
parole sentii la rabbia ribollirmi nella vene ed il dolore
invadere il mio cuore. «Tu non sei mio marito.»
«Manca solo una settimana al matrimonio.» rispose
alzandosi. Quando avanzò
verso di me, barcollò.
«Sei
ubriaco?» chiesi inarcando un sopracciglio.
«Solo
un bicchierino.»
«Vattene a casa, Richard. E’ finita. Il matrimonio
è stato annullato» dissi
incrociando le braccia al petto, quasi volessi tenere insieme i cocci.
«No,
no. Non posso lasciarti andare via!» esclamò
parandosi avanti.
L’odore di alcool mi colpi in pieno viso e feci un passo
indietro.
«Amore, io ti amo… ti prego, torna a
casa» supplicò afferrandomi un polso.
«Lasciami, Richard. Non toccarmi» dissi
strattonando il braccio, ma lui non
mollò la presa.
«Non
posso… io ti voglio.»
«Non
sono un oggetto, razza di idiota. Lasciami andare!» urlai
strattonando più
forte.
«Lasciala andare Richard!» esclamò Linn
sulla soglia del portone.
«Fatti gli affari tuoi, europea. Tornatene da dove sei
venuta!» esclamò lui
voltandosi verso di lei, barcollando.
«Lasciala, Richiard!» esclamò ancora e
fece per avvicinarsi, ma quando lui si
voltò verso di me gli tirai un pugno in pieno viso. Pero
l’equilibrio e cadde
sulla strada.
«Entriamo, Linn», mi affrettai a dire dirigendomi
verso i gradini. Ma prima che
potessi salire, lo sentii afferrarmi le spalle e strattonarmi indietro.
«Tu
non puoi lasciarmi!»
urlò. Mi fece
girare e il viso che mi ritrovai dinanzi non era quello di cui mi ero
innamorata tre anni prima. Era quello di uomo duro, crudele,
pericoloso. I suoi
occhi erano iniettati di rabbia, quella rabbia che non ammette
ritorsioni.
Avvicinò il suo viso al mio, cerandomi di baciare, io cercai
di allontanarlo,
ma la presa era troppo forte, le sue dita erano affondate nella mia
pelle.
«Lasciami!»
«Tu
sei mia, non puoi lasciarmi!»
D’un
tratto mollò la presa e cadde a terra. Privo di sensi. Con
il fiato corto
e terrorizzata vidi Linn con un asta di legno in mano. La sua figura si
fece
offuscata, come se fossimo immerse nell’acqua. Mi resi conto
di piangere solo
quando le lacrime ti toccarono le labbra dischiuse.
«Oh,
Iris, presto. Entriamo in casa. Andrà tutto okay. Ci sono
io» disse
circondandomi le spalle con un braccio e sorreggendomi.
In casa mi fece
sedere sulla poltrone mi sfilò le scarpe. Mi
coprì con una
coperta e mi preparò una tisana. Non so per quanto tempo
rimasi immobile,
catatonica, a fissare il muro di fronte a me. Sorseggiavo la tisana
solo perché
era Linn che mi ricordava di farlo.
Quella sera,
più tardi arrivò la polizia ed io feci
un’ordinanza
restrittiva. Ma le chiamate continuarono. Prima dieci volte al giorno,
poi
piano piano diminuirono fino ai tre giorni precedenti, quando
cessarono.
Ricevere quella chiamata, quel pomeriggio, anche se a migliaia di
miglia di
distanza, mi fece gelare il sangue.
«Iris?» sobbalzai e mi voltai verso Linn che mi
guardava con aria interrogativa
e preoccupata. «Siamo arrivati» disse.
Solo allora mi accorsi che la macchina si era fermata davanti alla
grande casa
e che Alexander si stava dirigendo verso la porta d’ingresso.
«Pensavi a Richard, vero?»
Deglutii.
«Sei al sicuro qui, Iris. Non può farti del male.
Non può più farti del male.
Era solo una telefonata. Vedrai che smetterà anche di
chiamare. E lo sa che se
si avvicina a te finisce in carcere»
Annuii debolmente e sentii le lacrime pungermi gli occhi.
«Sì» soffiai. «Sono
al sicuro.»
Eppure più che una constatazione, alle mie orecchie parve
più un misero e
patetico autoconvincimento.
Mille e mille miglia.
Ero al sicuro.
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Capitolo 5 *** Capitolo quattro ***
Capitolo
quattro
Lascia che
il
getto d’acqua calda mi sciogliesse i muscoli tesi, lasciai
che con essa
scivolassero via anche tutte le preoccupazioni, le paure, i pensieri.
Cosa
voleva? Ero stata chiara nei mesi precedenti. Desideravo che sparisse
dalla mia
vita. Quella telefonata, alla quale non avevo risposto, mi aveva fatto
gelare
il sangue nelle vene, mi aveva fatto venire la pelle d’oca.
Presi il flacone di balsamo e mi soffermai a guardare la lavanda
disegnata
sull’etichetta. Con la mente tornai inevitabilmente alla
notte precedente,
quando Alexander aveva notato il profumo del mio balsamo. Sorrisi a
quel
ricordo e provai un fremito ripensando al suo viso vicino al mio.
Scossi il
capo, come a ridestarmi, e mi passai una piccola quantità di
balsamo sui lunghi
capelli. Li pettinai lentamente e mi ritrovai a pensare ad Alexander,
alle sue
mani fra i miei capelli.
Sbuffai, irritata dai miei stessi pensieri. Mi sciacquai i capelli ed
uscii
dalla doccia, avvolgendomi nel grande asciugamano bianco che sapeva di
pulito.
Mi asciugai velocemente i capelli, lasciandoli ribelli e vaporosi.
Quando uscii
dal bagno per andare a vestirmi in camera trasalii.
«Dio, Linn!» esclamai passandomi una mano fra i
capelli. «Bussa la prossima
volta. Mi farai morire d’infarto.»
Linn era seduta sul letto, gambe incrociate mentre vagliava le
boccettine di
smalto all’interno di un cofanetto. «Ho bussato. Ma
eri sotto la doccia.
Rosso?» chiese mostrandomi una boccettina.
Annuii. Sorrise e saltò giù dal letto,
dirigendosi verso il piccolo scrittoio
sotto la finestra.
«Ha più chiamato?» chiese mentre si
applicava lo smalto sulle unghie.
Scossi il capo. «No. Spero non lo rifaccia.»
«Vedrai che è stato solo un momento.»
Annuii. «Che razza di uomo stavo per sposare, Linn? Mi
ha…» la voce mi si ruppe
e mi sfiorai le braccia, lì dove i lividi oramai erano
spariti.
Linn chiuse la boccetta e si sedette accanto a me, sul letto.
«Un uomo
orribile. Ora è finita. Ora hai la possibilità di
una nuova vita, tesoro.»
«Non ti sembra un po’ presto?» chiesi
poggiando la tempia sulla sua spalla.
«Non ho detto che inizierà domani. Che prima o poi
guarderai avanti. E’ sarà
bellissimo.»
Sorrisi e le circondai le spalle con le braccia.
«Ho notato un certo… feeling fra te e
Alex…»
«Linn… non ho intenzione di parlare di qualsiasi
idea sbagliata tu ti sia fatta»
dissi con voce ferma alzandomi dal letto e dirigendomi verso
l’armadio.
«Non fare la difficile. Notavo solo che gli sei
particolarmente simpatica.»
Afferrai la biancheria intima e mi voltai a guardarla. «Non
abbiamo parlato
molto.»
Lei sorrise. «Fidati, sei l’unica persona al di
fuori della famiglia con cui
non abbia parlato esclusivamente di lavoro. Da quando è
tornato da Boston… è
diverso.» sospirò.
Inclinai il capo di lato. «Cosa gli è
successo?»
«Un incidente. Per questo ha perso quasi totalmente la vista.
E’ degenerativa.
Presto non vedrà nemmeno le ombre», la sua voce
era pari ad un sussurro. «E’ il
fratello che non ho mai avuto, Iris. Non merita tutto questo.»
Posai la biancheria su una sedia accanto al letto e
l’abbracciai. Non dissi
nulla. Solo… l’abbraccia e potei avvertire il
dolore nel suo respiro pesante.
Muta rabbia mai espressa.
«Non cambiare discorso.»
Sospirai. «Vado a vestirmi.»
«Non finisce qui signorina», Linn mi
puntò l’indice contro mentre i dirigeva
verso la porta.
«Non ti sento!» esclami chiudendomi la porta del
bagno alle spalle.
Diamine.
Quella sera, per cena, indossai un vestito di leggera lana blu. Mi
spazzolai i
capelli, che mi ricaddero sulle spalle in onde morbide. Rimasi a fisare
la mia
immagine allo specchio del bagno.
Ripensai alle parole di Linn su Alxander. Alla sua riservatezza, alla
sua poco
loquacità, dovuta probabilmente alla sua condizione,
all’incidente che gli
aveva cambiato la vita. Mi chiesi come fosse stato prima
dall’incidente. Come
potessero essere istuoi occhi mentre guardavano qualcosa di
meraviglioso, o
qualcosa di inaspettato. Mi chiesi cosa avrei letto nei suoi, al nostro
primo
incontro.
Sospirai. Cosa stavo facendo?
Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi passai
del burro di
cacao sulle labbra secche. Quando uscii dalla camera bussai a quella di
Linn.
Rimasi qualche istante davanti al legno scuro, prima che la porta fosse
spalancata. Alzai gli occhi, ma non incontrai il viso il Linn.
«Alexander» soffiai. «Ho…
sbagliato camera?» chiesi sbirciando dentro.
Lui scosse il capo. «No. Linn si sta vestendo in bagno.
Entra.» disse facendo
una passo indietro e scostandosi di lato.
Entrai e riconobbi il disordine di Linn. Sorrisi e mi sedetti sul
letto,
accanto a lui.
«Caotica come sempre» osservai.
Lui fece un risolino. «Sì, da adolescente dividevo
con lei la camera, quando
tornavo in Norvegia. Ricordo che non eravamo d’accordo su
nulla.»
Mi resi conto che Linn non mi aveva mai raccontato nulla sulla sua
famiglia.
Provai una fitta di dispiacere.
«Vivo con lei da un paio di mesi e non ho ancora imparato a
capire il posto
giusto degli utensili in cucina.»
Lui corrugò appena la fronte e voltò il capo
nella mia direzione. Si sporse
vero di me ed il profumo di pino silvestre mi invase i polmoni, dandomi
alla
testa. Allungò la mano sinistra, sfiorandomi il corpo con
l’interno della
spalla destra. Sentii una morsa allo stomaco. Con le dita della grande
mano
accese l’abajour sul comodino accanto al letto.
«Ora va meglio» disse guardando nella direzione del
mio viso.
Sorrisi, chinando imbarazzata il capo. Consapevole che non potesse
vedere il
rossore sulle mie gote.
«Credevo che Linn vivesse da sola.»
Deglutii. «Beh, sì, sono da lei mentre cerco un
appartamento tutto mio.»
Non sembrò molto soddisfatto della risposta, come se volesse
sapere di più, ma
fui felice di non ricevere domande a cui, in quel momento, non mi
andava di
rispondere.
«Non mi hai detto quanti anni hai, Iris.»
«Ventisei.»
Un angolo della sua bocca si sollevò verso l’alto,
illuminando il suo volto. Si
passò una mano sui corti capelli color del grano.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quel momento la porta
del bagno si aprii
e Linn si bloccò sulla porta quando ci vide.
«Ah, sei qui» disse rivolta verso me.
Arrossii.
Alexander si mosse irrequieto sul letto.
«Muoio di fame. Andiamo di sotto?»
suggerì alzandosi in piedi.
Guardai Linn che fece spallucce ed insieme di dirigemmo al piano di
sotto.
Mentre percorrevamo il corridoio per andare al piano inferiore sentii
il mio
cellulare squillare.
Mi immobilizzai e Linn mi guardò. Poi mi ricordai che mia
madre avrebbe dovuto
chiamarmi entro dieci minuti e ne erano già passati venti.
Sorrisi. «Mia madre doveva richiamarmi!» esclamai
voltandomi e dirigendomi in
camera. Non guardai nemmeno il nome sul display del cellulare, risposi
entusiasta di sentire mia madre.
«Mamma?» risposi voltandomi verso la porta.
«Iris, amore mio…»
Sgranai gli occhi e sentii un brivido freddo attraversarmi la schiena.
Sentii
la pelle d’oca sulla nuca.
«Richard. Non devi chiamarmi più. Mai
più.»
«Scusami, amore, scusami… io posso cambiare.
E’ stato solo un momento, io non
sono così, lo sai.»
«Iris, svegliati,
andiamo…»
Sentii scuotermi con forza. Aprii gli occhi e alla fioca luce della
camera da
letto vidi Richard inginocchiato accanto al letto.
«Rick, che ora?» chiesi assonnata guardando la
radiosveglia. Segnava le tre del
mattino.
«Cosa? Chiesi poggiandomi su un gomito e corrugando la
fronte. «Ho la sveglia
fra due ore.»
«Dai, piccola, andiamo..» biascicò
sbottonandosi la camicia con una mano,
mentre l’altra si insinuava nella scollatura della mia
canotta.
«Rick… sei ubriaco» soffiai sentendo
forte odore di whisky. «Sta fermo. Vieni a
dormire» dissi allontanandogli la mano e accarezzandogli i
capelli.
Lui tentò di baciarmi e inizialmente risposi, ma quando la
sua mano si
intrufolo ancora una volta nella mia canotta con forza e violenza, lo
allontanai.
«Basta, Richard, vieni a letto» lo ammonii.
Lui rimase qualche secondo immobile, gli occhi scuri, neri come il
cielo
notturno, puntati nei miei, Dopo alcuni secondi annuì e si
lasciò cadere
accanto a me. Indossava ancora le scarpe.
«Devi dimenticarmi, Richard. Basta. Non ti voglio
più nella mia vita.
Basta» sibilai.
«Iris, Iris!» urlò lui, ma non gli diedi
il tempo di dire altro perché
riagganciai e tolsi la suoneria.
Andai al piano inferiore, lasciando il telefono, vibrante, sul letto.
Affondai la
forchetta in un pezzo di waffle, ricoperto di crema al cioccolato.
Chiusi gli
occhi gustando sulla lingua e sul palato il dolce sapore di quel dolce
così
semplice.
«Linn,» esordii, «i tuoi waffle non si
smentiscono mai.»
Lei rise, «lo so, lo so.»
«Mi sono mancati da morire», disse Alexander
chiudendo gli occhi e masticando
lentamente. Emise un suono gutturale, dischiudendo appena le labbra e
facendo
ricadere la testa all’indietro.
Mi inumidii le labbra e deglutii.
Distolsi lo sguardo, fissando il televisore. Dopo cena avevamo optato
per una
serata tranquilla, nel grande soggiorno dei Karlsen. La storia infinita, per un revival anni
’80. “Lo guardavamo sempre da
bambini!” aveva esclamato Linn ad Alexander, “ti
prego, guardiamolo!”. Lui non poté che accettare.
«Ti sono mancati più i miei waffle che
io.»
«Oh, non essere cattiva con i miei waffle. No, piccoli, non
ascoltatela» disse
portandosi alla bocca un altro pezzo.
Risi, coprendomi la bocca la mano. Sul volto di Alexander si dipinse un
sorriso
sghembo, di quelli che ti colorano il viso. Si voltò nella
mia direzione, alla
sua sinistra, poiché eravamo entrambi seduti sul divano.
Avevo le gambe
poggiate lateralmente sul divano. Sapevo che non poteva vedermi. Fissai
il suo
volto e provai una fitta di dispiacere e delusione. Avrei voluto poter
tuffarmi
nei suoi occhi, in quelle pozze di acqua di mare; avrei voluto legger
qualcosa
nei suoi occhi. Invece, erano chiari sipari, che non mi permettevano di
vedere
il teatro dell’anima.
Linn si schiarì a voce, «vado a prendere
dell’acqua. Ne volete un po’?»
Entrambi annuimmo.
Sentii il viso avvamparmi sotto gli occhi di Linn.
Tra noi calò il silenzio, il fuoco scoppiettava e la tv
trasmetteva il film,
che però non ascoltavo. Sentivo l’attenzione di
Alexander su di me, nonostante
guardasse dritto, verso la televisione.
«Quanto hai detto che ti fermi?»
«Due settimane.»
Sorrise. «Sono molti giorni.»
Feci schioccare la lingua. «Sei già stanco di
avermi intorno?» dissi con finto
tono ferito.
Si inumidì il labbro inferiore, poi si voltò
appena verso di me, in modo tale
che vedessi solo tre quarti del suo viso. Alzò poi lo
sguardo su un punto
indefinito. «Come potrei, Iris?»
Il mio respiro… si spezzò, come un rametto
calpestato da un cervo, nel bosco
primaverile.
Chiedo
scusa a colore che seguono la mia storia per l’enorme
ritardo di questo capitolo. Purtroppo con
l’università ed il trasferimento ho
avuto poco tempo per dedicarmi a questo sito, con mio grande rammarico.
Vi ringrazio di cuore, perché se state leggendo queste mie
parole vuol dire che
siete arrivati alla fine di questo capitolo, e nel bene o nel male, per
me è
importante.
Vi saluto e vi abbraccio, con la speranza che il capitolo sia stato di
vostro
gradimento.
A presto,
Rose.
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Capitolo 6 *** Capitolo cinque ***
5
Capitolo
cinque
Il sole stava
tramontando all’orizzonte, gettando lunghe ombre oltre le
grandi montagne rocciose
del deserto dell’Arizona. Sentivo le goccioline di sudore
imperlarmi la fronte,
cadere lungo le tempie. Mi guardai la mani, erano sporche, sporche
della
polvere del deserto. Poi notai… quel dettaglio che mi era
sfuggito, in quello
scenario arido. La mia canotta, color della neve, era macchiata,
macchiata di
rosso. Scuro sangue che sgorgava. Cercai di capire l’origine
dell’emorragia. Non
riuscii a trovarla. Alzai lo sguardo e due occhi neri mi guardarono
iniettati
di sangue. Non riconobbi il volto, i suoi lineamenti erano
indefiniti… eppure
quegli occhi… mi voltai per correre, per scappare da
quell’uomo, ma fui
bloccata da due occhi vitrei ed impassibili.
Iris… Iris…
«Iris, Iris… Iris…»
Aprii gli occhi di scatto, il respiro accelerato. Non è reale. Non
è reale. Non è reale, mi ripetei.
«Stai
bene?»
Fu solo allora che mi resi conto dove fossi, solo allora misi a fuoco
la
stanza.
Il volto di Alexander era vicino al mio, tanto che potevo sentire il
profumo
del cioccolato mischiarsi a quello del pino silvestre. I suoi occhi si
muovevano
a cercare un’immagine che non riuscivano a vedere. Era
preoccupato. La sua
espressione mi causò una fitta di inaspettato dolore.
Istintivamente gli
poggiai una mano sulla spalla, vicino al collo.
«E’ tutto okay» soffiai.
Solo allora mi resi conto che la sua mano era poggiata sul mio braccio
e lo
stringeva con delicatezza. Fu strano non averlo notato, come se quel
gesto fosse
stata la cosa più naturale del mondo, come se…
come se la sua mano era dove doveva
essere.
«Farfugliavi cose incomprensibili» disse, e senti i
muscoli della spalla
rilassarsi.
«Era solo un sogno» sorrisi sollevandomi su un
gomito.
Mi accorsi che eravamo soli, che il televisore mandava i titoli di cosa
del
film
«Dov’è Linn?» chiesi tornando
a guardare il suo viso.
«Era stanca ed è andata a dormire dopo che ti sei
addormentata. Le ho detto che
ti avrei svegliata io una volta che fosse finito il film.»
Osservai per attimi che mi parvero interminabili il suo volto. La
leggera linea
di barba chiara, gli occhi allungati, lo sopracciglia perfettamente
disegnate.
I naso dritto, scolpito nel marmo bianco, le labbra sottili e rosee. I
capelli
gli ricadevano ribelli e lisci sulla fronte. Alla fioca luce del
caminetto
sembravano più scuri.
Fece scivolare la mano dal mio braccio e se la portò attorno
ad un ginocchio.
Era seduto per terra, accanto al divano.
«Cosa sognavi?»
Gli raccontai in grandi linee ciò che aveva sognato,
omettendo il finale. Lui
corrugò aggrottò la fronte.
«Sciocchezze» mi affrettai a dire.
Annuì flebilmente.
Mi lasciai cadere sul divano, osservando il suo viso dal basso. Pensai
che
fosse uno degli uomini più belli che avessi mai visto.
«Cosa ti è successo, Alexander?» chiesi
in un filo di voce, poggiandogli una
mano sul ginocchio. Lui chinò il capo e aspettò
qualche secondo prima di
parlare.
Sospirò, e con il suo respiro uscì dolore.
«Tornavo a casa… pioveva. Ero andato
all’opera, volevo vedere l’Aida. Mi aveva
convinto Charlotte. Io in realtà non volevo nemmeno andarci.
Avevo avuto
un’udienza quella mattina ed ero stanco. Ho perso il
controllo dell’auto a
causa del temporale», la sua voce era atona, come se avesse
ripetuto mille
volte quella storia, come se fosse un copione che raccontava una mezza
verità.
Sentii una stretta al cuore e mi morsi il labbro inferiore. Fui
tramortita
dalle sue parole, tanto che un forte senso di nausea mi
annodò lo stomaco e gli
occhi mi si inumidirono di mute a lui invisibili.
«Dov’è ora Charlotte?» chiesi
senza pensarci.
Alexander non parlò. Si irrigidì e pensai
“quale razza di donna lascia un uomo
simile”… o forse…
Fece spallucce. «Tu da chi scappi?»
Sgranai gli occhi. Le sue parole mi colpirono come un secchio di acqua
gelata,
inaspettate mi fecero impallidire.
«Cosa?» chiesi in un filo di voce stridula.
«Oggi pomeriggio. Le tue gambe hanno ceduto quando il tuo
cellulare ha
cominciato a squillare. Sono cieco, Iris, ma sono un buon osservatore
ed un
avvocato. Ci sono particolari che non mi sfuggono, nonostante
tutto.»
Annaspai, «Io… io non intendevo dire
questo…»
«Lo so…» mormorò guardando
nella mia direzione. «Quanto vorrei guardarti negli
occhi…« sussurrò con voce calda e roca.
Aprii la bocca, ma da essere non uscì alcun suono. Desiderai
accarezzargli una
guancia, lottai con tutte le mie forze per non muovere un suono muscolo
del mio
braccio. Mi resi conto che avevo ancora la mano poggiata sul mio
ginocchio.
Incollata.
«Un amore finito male», risposi dopo alcuni attimi
di esitazioni.
«Lui non riesce ad accettarlo?»
«No.»
«Ti ha fatto del male?» chiese prima di serrare la
mascella.
Sospirai. «Sì.»
«Ti ha mai...»
Sentii gli arti gelarsi. Mentii. «No». Non so
perché lo feci. Forse non volevo
che pensassi fossi una stupida, una che non si rende conto del tipo di
uomo che
stava per sposare.
Sbadigliai sonoramente.
«Credo sia meglio andare a dormire» disse lui in
sorriso timido, eppure non si
alzò.
Rimase immobile nella mia direzione, come indeciso sul da farsi. Parole
sospese
nell’aria.
E forse fu l’ora tarda, la luce calda del fuoco,
l’incubo o le piccole
confidenze… afferrai la sua mano, staccando la mia dal suo
ginocchio. Lui fu
sorpreso quando gli portai la mano sul mio volto. Chiusi gli occhi e
sorrisi.
Lui mi toccò le guance, gli occhi, le labbra, lo fece con un
tocco tanto
leggero da sembrare una carezza di petali di orchidee bianche. Lascia
che lui
sentisse il mio viso, la mia espressione e sperai che, nella sua mente,
nella
sua immaginazione potesse vedere il mio volto sorridente. Aprii gli
occhi e
lasciai che le sue dita scorressero sulle mie ciglia.
L’espressione che vidi
sul suo volto mi lasciò senza fiato. Le sopracciglia erano
unite in una linea
retta, le labbra dischiuse. Pensai che se la mitologia scandinava fosse
stata
reale, Thor, figlio di Odino, avrebbe avuto il suo volto.
«Grazie…»
Al mattino
mi
alzai mezz’ora prima che suonasse la sveglia. Avevo faticato
ad addormentarmi,
ripensando al viso di Alexander, così vicino al mio,
così cupo ed enigmatico…
così bello da farmi fremere.
Non sapevo cosa mi stesse accadendo. Mi sentivo confusa, avvertivo un
turbinio
di emozioni, ronzavano mille pensieri nella mia testa, ronzavano con la
potenza
di uno sciame d’api che non potevo fermare. Erano accadute
così tante cose in
così poco tempo che fare un quadro della mia vita era
impossibile. Ero
consapevole di schiacciato il tasto STOP della mia vita dopo la
rottura con
Richard… ma dopo il nostro ultimo incontro irruento, non ne
volevo più sapere
di lui. Non volevo incontrarlo, non volevo sentir pronunciare il suo
nome, non
volevo che mi chiamasse, che interferisse ancora nella mia vita.
Nell’immagine ferma, sullo schermo della mia vita,
c’era la Norvegia. I fiordi
innevati ed il mare gelido del Nord, sul quale padroneggiavano due
occhi color
del ghiaccio. Ero affascinata ed incuriosita dalla figura di Alexander,
al di là
del suo bell’aspetto. C’era qualcosa, oltre le
vetrate di ghiaccio dei suoi
occhi, che mi attirava e mi faceva desiderare di infrangerle per
attingere a
quell’anima a lungo celata agli occhi di estranei. Ero certo
di questo. Lui si
nascondeva. Si nascondeva probabilmente dal passato, dalla sua
condizione… da
se stesso. Provai un impeto di eccitazione ed euforia, mentre
l’acqua della
doccia mi scivolava sulla schiena. Lasciai che il profumo del
bagnoschiuma alle
mandorle dolci mi avvolgesse e mi coccolasse, mentre il bagno di
riempiva di
vapore. Quando uscii mi slegai i capelli, che mi caddero in morbide e
grandi
onde sulle spalle. Rimasi per attimo a guardare la mia immagine
riflessa, non
riuscendo a capire cosa non andasse. Poi, lì, lo vidi. Un
tenue rossore mi
colorava gli zigomi alti. Spalancai gli occhi…
cosa…
Quando
scesi per la colazione trovai Bretta i fornelli che preparava frittelle
ai mirtilli.
«Buon giorno signora» dissi bussando sullo stupite
della porta.
Lei si voltò nella mia direzione e sorrise. «Oh,
cara, puoi chiamarmi Bretta.»
Annuii. «Bretta.»
«Cosa desideri per colazione?» mi chiese girando
una frittella.
«Quello che sta cucinando va benissimo» dissi
avvicinandomi alla grande
vetrata. Il cielo cominciava a tingersi di celeste e rosa. Le nuvole,
all’orizzonte, sembravano batuffoli di cotone. La neve
colorava di bianco il
paesaggio, rendendo tutto così irreale, tutto
così mozzafiato.
«E’ tutto così…
incantevole. Sembra quasi un quadro» mormorai ed il mio
respirò
si condensò sul vetro.
«E’ la magia della Norvegia, mia cara»
disse Bretta. Sentii una mano poggiarsi
sulla mia schiena e la sua figura piccola fiancheggiarmi.
Mi voltai a guardarla. «Grazie per avermi accolta.»
La mano di Bretta mi accarezzò la schiena. «Sei la
sorella che Linn non ha mai
avuto. Sei la benvenuta in casa nostra.»
«Grazie» sorrisi, «a proposito,
dov’è Linn?»
Bretta si diresse verso i fornelli e mise su una piastra delle
salsicce. «Dorme
ancora. Alexander però scenderà a
momenti.»
Udendo quel nome mi agitai sul posto e mi allontani dalla vetrata, per
dirigermi verso il grande tavolo di legno chiaro.
«Posso apparecchiare?» chiesi ad Bretta.
«Oh, no, non ce n’è bisogno.»
«Ti prego, Bretta, posso? Vorrei rendermi utile» la
implorai giungendo le mani.
Lei girò la testa e rise.
«Okay. I bicchieri sono nella credenza, i piatti sopra il
lavandino, le posate
nel primo cassetto sulla mia destra. Il resto, lo trovi in frigo e
nella
dispensa accanto alla credenza. Prendi ciò che
vuoi.»
Sospirai e fui grata di rendermi utile. Presi tutto ciò che
serviva per fare
colazione, pane, burro, marmellata, cioccolata, cereali, non conoscendo
le
abitudini della famiglia. Dovetti togliere due piatti,
perché solo quando
Bretta osservò la tavola mi disse che i signori Kerlesn
erano scesi molto
presto per andare a lavoro, in ospedale. Bretta mi racconto di quando,
da
giovane, prima di dare alla luce Elna, visse in America, lavorando come
ballerina a New York. Mi annotai mentalmente di sgridare Linn per non
avermi
mai detto nulla sulla sua famiglia.
«Ti dispiace se vado a fami una doccia, cara? Tu puoi
cominciare a mangiare se
vuoi. Io ho fatto colazione molto presto.»
Annuii. «Certo.»
Bretta sparii oltre la porta che dava sul soggiorno. Mi riempii una
tazza di
caffè fumante e mi sedetti sul davanzale imbottito della
grande finestra della
cucina. Osservai il cielo diventare sempre più chiaro,
mentre il caffè mi
riscaldava i muscoli.
«Buon giorno.»
Sobbalzai udendo la sua voce. Mi
voltai a guardarlo e solo prima di parlare mi accorsi di trattenere il
fiato.
«Buon giorno» risposi senza scostare lo sguardo dal
suo viso appena sbarbato.
Guardai le spalle larghe, coperte da un maglioncino nero, le gambe
atletiche
fasciato da jeans scuri.
Sorrise, mostrando una schiera di denti bianchissimi.
«Iris.»
«In persona. Hai fame?» chiesi alzandomi.
«Non immagini quanto» disse lui avanzando nella
stanza, seguito da Ruth.
«Ciao, piccola» dissi accovacciandomi e
accarezzandola dietro le orecchie.
Con la cosa dell’occhio vidi Alexander avvicinarsi alla
credenza.
Mi alzai e mi avvicinai al lavandino per lavare le mani. «Oh,
no» dissi, «ho
apparecchiato. Aspetta, ti porto il piatto» dissi versando un
paio di
frittelle, delle uova e una salsiccia.
«Ma non ce n’è bisogno» disse
lui guardando un punto indefinito dinanzi a sé.
«Lo so, ma mi fa piacere. Mi piace rendermi utile.»
Lui sorrise avanzando verso il tavolo. Si sedette cerando il bicchiere.
Intanto
io gli sistemai il piatto davanti.
«Succo d’arancia?» chiesi prendendo la
brocca. Lui annuii sorridente e gliene
versai un po’.
Il profumo di pino silvestre mi invase ancora i polmoni e sentii il
desiderio
di accarezzarli la nuca, ma repressi il prurito della mie mani,
ficcandole in
tasca. Così mi sedetti di fronte e lui, a debita distanza.
«Ti ringrazio» disse portandosi alla bocca un
po’ di uova strapazzate. «Cosa
vorresti fare oggi?» chiese dopo aver ingoiato.
Feci spallucce. «Non lo so. Mi piacerebbe-»
«Andare al centro commerciale a fare acquisti» la
voce di Linn irruppe nella
stanza, completando la mia frase.
«Non avevo intenzione di dire questo.»
«Sì, ma dobbiamo andare. Tre un paio di
giorni c’è la festa per l’anniversario
di mamma e papà ed non abbiamo nulla da mettere.»
«Parla per te» bofonchiò Alexander.
Linn si portò una mano sul fianco. «Ho detto che
nessuno di noi ha qualcosa da
mettere.»
Feci un risolino e vidi Alexander voltarsi verso me, con il viso
entusiasta,
come se avesse sentito cantare un usignolo.
«In effetti non ho nulla per l’occasione»
confessai. «Non so nemmeno che tipo
di festa è.»
«E’ qui a casa, tranquilla, abbiamo così
tanto spazio. Solo che ci vuole un bel
vestito per tutti.»
Le sorrisi e poi mi voltai a guardare Alexander. Qualcosa si
incrinò, dentro di
me. I Suoi occhi erano bassi e le labbra serrate in una linea retta.
Linn
arricciò il
naso guardando il lungo vestito da sera che indossavo.
«No», disse solo.
Mi guardai allo specchio, osservando la mia figura esile riflessa,
fasciata dal
raso lucido ed aderente senza spalline.
«E’ anonimo» meditò lei
portandosi un dito sulle labbra.
Mi osservai meglio, riflessa nello specchio. «Non
è male» sussurrai voltandomi
appena e guardandomi la schiena.
«Esatto, non è male. Non è
favoloso, Iris. Non è per te… non… non
brilli.»
«D’accordo» mi arresi rientrando in
camerino. Cercai di sfilarmi l’abito, con
grande fatica, essendo attaccato al mio corpo come una seconda pelle.
«Prova questo» disse Linn lanciandomi un vestito
nel camerino, finendomi in
testa. Grugnii mentre provavo un orribile vestito verde petrolio, lungo
sino al
ginocchio e dotato di una sola manica lunga. Quando uscii quasi mi
spaventai
guardandomi allo specchio.
«Linn… mia nonna è più
giovanile di me!» esclami guardandola a bocca aperta.
Lei si morse l’interno di una guancia.
«Sì, hai ragione» disse spingendomi
verso
il camerino e porgendomi un vestito grigio. Una volta nel camerino
guardai
l’abito grigio con le spalline larghe, lungo fino al
ginocchio, dei ricami neri
nella parte inferiore. Questa volta fui io ad arricciare il naso.
Lo indossai, scettica, quando uscii per farmi vedere da Linn e per
guardarmi al
grande specchio ebbi conferma dei miei dubbi: era orribile.
«Forse dovremmo guardare di nuovo un abito
lungo…» mormorò Linn inclinando il
capo di lato.
«Tu credi?» risposi sarcastica.
Lei mi fece il verso. «Aspetta qui, vado a fare un
giro.»
Sospirai, frustrata e avvilita. Mi lasciai cadere sui divanetti di
fronte ai
camerini, dove poco prima era seduta Linn. Controllai il cellulare che
avevo
lasciato in borsa. Nulla. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Sentii il
mio
corpo rilassarsi appena.
Con lo sguardo cercai Alexander, chiedendomi dove fosse finito, non ci
aveva
accompagnate nel negozio, aveva preferito fermarsi ad una panchina
all’interno
del centro commerciale sorseggiando un caffè.
Accavallai le gambe, in attesa, e poggiai il mento sul palmo della
mano.
«Iris?»
Trasalii appena udendo il mio nome ed un brivido di eccitazioni mi
scosse la
schiena. Alzai lo sguardo sullo specchio e vi vidi riflessa la figura
di
Alexander, statuaria.
«Iris?»
«Sono qui», solo allora mi resi conto di aver
trattenuto il fiato.
Lui avanzò lentamente verso il divanetto, la mano protesa,
istintivamente mi
alzai e gli afferrai la mano, la pelle della mia mano prese fuoco.
«Ti aiuto» dissi conducendolo verso il divanetto.
Fu allora che mi accorsi che
in una mano stringeva un vestito rosso scuro. Ruth lo seguiva
silenziosa.
«Ho trovato questo. Non so se può piacerti, o se
è la tua taglia… non so
nemmeno di che colore è… ma mi ha colpito e ho
provato ad immaginarlo su di te…
insomma… l’immagine che ho di
te…» lo disse tutto d’un fiato, chinando
appena
il capo e grattandosi la nuca, accennando un sorriso imbarazzato, quasi
di
scuse.
Sorrisi intenerita e sentii il cuore sciogliersi in un impeto di
dolcezza. «Oh,
Alexander… grazie» dissi accarezzandogli il
braccio, avrei voluto lasciare la
mia mano lì dov’era, ma la lasciai ricadere lungo
il mio fianco. «Posso?»
chiesi e lui mi porse il vestito. Lo lasciai ricadere in aria,
tenendolo per le
spalle.
Spalancai gli occhi. «E’ rosso.»
«Oh. Non ti piace?»
«E’ bellissimo.»
Quando
l’indossai, senti l’abito aderire il vita come una
seconda pelle, e
sentii il tessuto ricadermi morbido sui fianchi, sfiorandomi le
ginocchia.
Raccolsi i capelli in uno chignon ed uscii per guardarmi allo specchio.
Alzai
lo sguardo con il viso illuminato e la speranza che potesse
piacergli… ma
quando incontrai i suoi occhi vacui, provai una fitta di dolore. Non
poteva
vedermi. Aveva scelto un vestito per me, immaginandolo nella sua mente,
facendo
scorrere le dita sul tessuto morbido e liscio, creando
un’immagine nitida
scorgendone i contorni. La delusione, la realtà, la
crudeltà della vita mi
colpirono come un secchio di acqua ghiacciata e sentii un nodo alla
gola, gli
occhi bruciarmi per le lacrime che premevano per uscire. Calde,
roventi. Non mi
avrebbe mai vista con quel vestito e fui sorpresa e sconvolta dalla
natura dei
miei stessi pensieri. Il cielo della mia anima si annuvolò
ed un fulmine colpì
il mare fatto di pensieri, paure, speranze.
«Oh mio Dio, Iris… sei
bellissima…» soffiò Linn accigliandosi.
Distolsi lo
sguardo dal viso di Alexander e sperai che non notasse quando sconvolta
fossi,
quanto delusa e addolorata fossi. Lei mi guardò, con sguardo
imperscrutabile, e
mi chiesi cosa stesse pensando. Non avevo dubbi che avesse capito che
qualcosa
non andava… mia madre me lo diceva sempre, “sei un
libro aperto, Iris, i tuoi
occhi parlano da soli”. Lei guardo Alexander che si
voltò appena nella sua
direzione, cercando di cogliere la scena.
Mi sorrise con dolcezza. «Non credo ti serviranno
questi» disse lei poggiando i
vestiti su un bancone.
Fu allora che mi voltai e guardai l’immagine riflessa nello
specchio. Osservai
il tessuto rosso pompeiano che mi accarezza il corpo, aderendo in vita,
e
poggiarsi delicato sui fianchi. Osservai lo scollo a barca, che mi
sfiorava il
collo e li lasciava scoperta la punta delle clavicole. Osservai le
maniche di
leggero velo, che lasciano intravedere i tre grandi nei che avevo sul
braccio
sinistro. Mi voltai appena, per guardare la schiena, e vidi il
bottoncino che
teneva chiusa la parte superiore del vestito, lasciando scoperta la
pelle della
schiena, fino alle scapole.
«E’… mio…» dissi
guardando prima il volto di Linn che entusiasta batteva le
mani, poi guardai Alexander che sorrideva. Il suo sorriso
però nascondeva una
nota di dispiacere. Lo guardai senza dire nulla, poi mi guardai appena
i piedi
nudi.
«Ti piace? Sul serio?»
Alzai lo sguardo su Alexander. «Sì. E’
incredibile.»
Lui sorrise. «Dovreste portarmi più spesso con
voi, ragazze.»
Linn gli diede un pizzicotto sul braccio. «Tocca a te, mio
caro.»
Alexander alzò un sopracciglio. «Lavoro in giacca
e cravatta.»
«Non puoi di certo indossare uno dei tuoi abiti da lavoro,
tesoro» disse lei
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Lui sospirò ed io, senza proferire parola, tornai in
camerino.
Osservai Alexander
indossare un abito blu scuro, dello stesso colore della
notte, senza proferire parola. Non perché non avessi nulla
da dire…
semplicemente non riuscivo a dire una sola parola. Osservai la sua
figura
statuaria e snella, atletica, le spalle larghe, delineate dalle linee
della
giacca, i fianchi stretti, proporzionati al resto del corpo. Sentivo la
bocca
secca e la lingua sembrava raschiare il palato, come fosse carta vetro.
Cercai
di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscii. Spostai lo sguardo sul
suo viso
riflesso nello specchio, mentre il proprietario del negozio, un uomo
sulla
sessantina, gli sistemava il colletto della giacca. Osservai la linea
retta
delle sue labbra, del suo naso, gli occhi grandi e vacui. Sentii
l’impulso di
sfiorargli il viso con le mani, dovetti richiedere
l’intervento di tutto il mio
autocontrollo per restare seduta, lì, sul divanetto accanto
a Linn.
«Uno schianto» disse lei sorridendo.
Deglutii a fatica prima di parlare e sperai che lei non se ne
accorgesse.
Annuii. «Stai benissimo, Alexander» mi limitai a
dire e mi sembrò che Linn
sorridesse guardandomi con la coda dell’occhio.
Il telefono di Linn squillò, il che mi riportò
alla realtà, distogliendo lo
sguardo dall’adone in giacca e cravatta, per guardare lei.
«Numero privato» disse corrugando la fronte.
Rispose, ma non ricevette alcuna
risposta. Allontanò il cellulare dall’orecchio e
guardò il display. La chiamata
fu interrotta.
Linn si voltò a guardarmi. «Hanno
riagganciato.»
«Forse hanno sbagliato numero» suggerii Alexander.
«Sicuramente» conclusi, eppure un brivido mi
attraversò la schiena.
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