il segno del drago di leamor79 (/viewuser.php?uid=877244)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** risveglio ***
Capitolo 3: *** Il Bardo ***
Capitolo 1 *** prologo ***
CAPITOLO 1
La tempesta pareva aver esaurito la
sua forza, lasciando
dietro di se odore di terra bagnata e rivoli d’acqua che
scendevano dalle folte
chiome delle querce a ogni soffio di vento.
Sal, fermo sull’uscio, scrutava il cielo che si andava
rischiarando a est. Le
nuvole che per due interi giorni avevano riversato sul bosco la loro
furia,
costringendolo ad attendere al riparo di quel vecchio rifugio per
cacciatori,
ora lasciavano il posto a un cielo terso.
Il tempo perfetto per raccogliere l’Aqom, pensò, e
volendo
anche qualche fungo per la zuppa del pranzo. Avvolse le spalle ancora
robuste
nel mantello e uscì.
L’aria del mattino era fredda, anche troppo per le sue ossa,
ma l’aver perso ben
due giorni lo spinse fuori dal caldo riparo offerto dal rifugio. Con la
destra
stringeva un cestino di vimini mentre con la sinistra tentava di tenere
chiuso
un mantello che mostrava un tenace desiderio di aprirsi a ogni soffio
di vento.
«Forse non ho più l’età per
queste cose» si disse mentre l’ennesima folata gli
riversava addosso il carico d’acqua delle fronde di un
albero. Si chinò quando
vide un ciuffo dell’erba che stava cercando. Tastando con la
mano intorpidita
dal freddo una delle numerose tasche del mantello tirò fuori
il piccolo
coltello da erborista e lo raccolse, riponendolo nel lato destro del
cesto.
Il bosco umido al mattino era comunque uno spettacolo incantevole, e il
richiamo della natura silvestre lo affascinava ora come
vent’anni fa.
Quei boschi erano il luogo più caro che avesse.
Lì aveva imparato dal suo
mentore il mestiere, lì aveva conosciuto la vita nelle sue
gioie più grandi
come nelle più grandi sofferenze. Conosceva quei boschi
anche meglio delle
tasche della sua tunica, e tornare, anche se di rado, in quei luoghi
gli
destava una dolce malinconia.
Ogni anfratto, ogni asperità gli ridestavano dolci ricordi.
A passo lento si
diresse verso l’antica costruzione in pietra, verde come le
foglie dell’edera
che l’aveva ormai circondata e quasi del tutto coperta,
chinandosi di tanto in
tanto a raccogliere altre foglie di prezioso Aqom, oltre a qualche
fungo
pregiato. Sal trovava cesta a due scomparti che gli aveva donato il
Duca
alquanto comoda, riuscendo a raccogliere in un solo contenitore erbe
diverse
senza che si sfiorassero tra di loro.
A est un sole faceva capolino tra le cime degli alberi. Presto il
calore dei
suoi raggi lo avrebbe avvolto in un tiepido abbraccio, asciugando il
terreno
intorno e le sue vecchie ossa.
Giunto ai piedi del megalite avvolto dal rampicante, lo
toccò con la sinistra,
recitando una preghiera al dio Drago imparata dal suo mentore anni
prima. Non
era certo un popolano ignorante lui, di quelli che rivestono di
significato
ogni gesto e parola imparati al tempio da vecchi chierici in toghe
sontuose,
più per scaramanzia che per reale devozione.
Eppure quell’enorme scultura, fatta di una pietra che non
aveva visto da
nessun’altra parte, un gigante in mezzo al nulla, forse un
estremo baluardo di
qualche popolo ormai scomparso pure dalle leggende, ridestava in Sal
una
spiritualità e un senso di contatto con l’universo
altrimenti estraneo alla sua
natura.
Come ogni volta percepì il tepore contenuto in quelle rocce,
quando con due
dita tracciò il segno del Drago.
Terminato quel breve rituale riprese il suo cammino, deviando verso
nord col
preciso intento di scalare la collinetta e osservare il bosco da un
punto
sopraelevato. Dopo pochi passi però un suono, come un flauto
che debolmente tiene
una sola nota, lo spinse a voltarsi.
Fino a quel mattino l’erborista pensava che i suoi occhi
avessero visto tutto
ciò che c’era da vedere, ma nulla in tutta la sua
non breve vita lo aveva
preparato allo spettacolo che gli si presentò. Il cestino
gli cadde dalle mani,
e il suo contenuto rovinò nella terra bagnata, quando vide
che il rampicante si
stava ritraendo dalla struttura megalitica, ricacciato da una luce
bianca che
andava aumentando di intensità.
A bocca aperta recitò mentalmente una preghiera, troppo
stupito e spaventato
per fare anche solo un passo. Al centro de
Mènhudè apparve un piccolo globo
luminoso, come un fuoco fatuo bianco. Lentamente crebbe
d’intensità, Gli
occhi neri dell’uomo erano attirati dallo
spettacolo di luci che gli si presentava. Dopo pochi secondi, che
all’erborista
sembrarono ore, la luce sembrò prendere forma in una figura
di donna, vestita
di una tunica viola stretta in vita da una corda argentata. Poi il
suono e la
luce cessarono contemporaneamente, e la donna si accasciò
per terra, sparendo
dalla sua vista. Molto lentamente paura e superstizione cedettero il
posto alla
curiosità. La mente razionale dell’uomo
ricacciò il timore atavico dell’ignoto,
e Sal mosse alcuni passi incerti verso il punto in cui era avvenuto il
prodigio. Notò che i rampicanti stavano miracolosamente
riconquistando terreno,
come se la natura, fattasi da parte per far posto alle energie arcane
di cui
era stato testimone ora reclamasse ciò che nei secoli aveva
faticosamente
conquistato. Perso nella lotta interna tra timore e sete di conoscenza
Sal
avanzava lentamente tra l’intrico del sottobosco, quando un
gemito lo spinse ad
affrettare il passo e a salire i gradini del megalite chiamato
Mènhudè, finché
non si trovò di fronte a una donna riversa su una
piattaforma sopraelevata,
verde come il resto della struttura. Aveva capelli lunghi e neri,
tenuti
insieme da una coroncina argentata come la cinta. Ma ciò che
fece tremare il
cuore del vecchio fu la pelle: le braccia e le spalle nude erano
ricoperte da
una raccapricciante fitta rete di tagli ancora sanguinanti, come se un
torturatore si fosse divertito a disegnare usando il corpo della donna
come
tela e un pugnale per pennello. Quando le si avvicinò la
donna spalancò gli
occhi e disse “Alyn». Quindi svenne. Sal, ripresosi
dallo shock, prese dalla
cinta la bisaccia piena d’acqua e ne versò il
contenuto sulla donna, per
ripulirla dal sangue fresco. Dove l’acqua detergeva la pelle
non vide nessuna
ferita fresca, piuttosto cicatrici di vecchia data, ormai perfettamente
rimarginate. “Un mistero dentro a un mistero”
pensò, mentre completava l’opera
di detersione. Era stato testimone di un evento prodigioso e tremendo,
ma non
se la sentiva di cedere all’impulso di fuggire e lasciare la
donna sola nel
freddo autunnale del bosco. Si caricò in spalla la donna,
meravigliandosi della
sua leggerezza, e si avviò verso il rifugio.
Gli occhi rivolti allo specchio
d’acqua sembravano non
accorgersi dello spettacolo di luci e colori che andava tingendo il
lago. I
riflessi arancio e oro sul lago all’alba avrebbero per lo
meno dovuto
accecarla, se non rapirla in una sensazione di stupita ammirazione,
come ogni
altra mattina. Eppure stamane era diverso. Guardava senza vedere, persa
in un
turbamento che mai più avrebbe dovuto coglierla.
«Ci siamo» La voce accanto a lei la
ridestò, come da un sogno.
«Avevo sperato che ci fossimo lasciati alle spalle molto
tempo fa tutto questo»
«In realtà lo abbiamo sempre saputo. Fin dal
fallimento di Artemia. Ora tutto
potrà essere di nuovo messo in gioco. Ora potremo rimediare
a tutto» La nuova
arrivata era esultante.
«Lo spargimento di sangue sarà immenso. Di
nuovo» le rispose «il suolo del
Kejnar sarà di nuovo rosso. E noi dovremo tornare a essere i
carnefici. Per cui
ti chiedo, Amirha, c’è sul serio da gioire per
questi presagi? Dobbiamo
esultare per il ritorno del Nihar?» Una lacrima scese da
quegli occhi neri
screziati d’oro, e lentamente scivolò sul bel
volto nero come l’ebano.
«Trattieni le lacrime per quando ce ne sarà
davvero bisogno, Lea, potrebbe non
essere necessario versarle»
La voce adamantina proveniva dalle loro spalle, ma non ebbero bisogno
di
voltarsi per sapere chi fosse stato a parlare.
«non essere ingenuo, Kafhi, il Nihar non ha mai portato
notizie di gioia per la
nostra terra» La voce di Lea appariva melodiosa, in contrasto
con i sentimenti
che trasparivano dal suo volto. «ricorda l’ultima
volta che ne ha calcato il
suolo» Poi chiuse gli occhi e aggiunse sotto voce
“le guerre del cielo non
dovrebbero interessare il mondo terreno»
«Sta volta sarà diverso»
L’uomo poggiò la mano esile sulla spalla di Lea,
lo
sguardo fisso sugli occhi di Amirha. «La Spada Spezzata si
è destata»
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Capitolo 2 *** risveglio ***
Capitolo 2
La
donna aprì lentamente gli occhi, scrutando la stanza immersa
nella penombra. L’unica luce proveniva dalle braci del
camino, e le ci volle qualche secondo per mettere a fuoco le immagini
che le si presentavano. Ancora scossa per un sogno che stentava a
ricordare, si mise a sedere, lasciando che la coperta scivolasse
giù dal suo corpo nudo. Non era sola in quella stanza, di
questo si rese subito conto, per cui raccolse la coperta e la
tirò su fino a coprire il seno. Quando si voltò,
vide su una sedia accanto al suo letto un uomo intento a incidere un
bastone con la punta di un coltello ricurvo, di quelli che usano gli
erboristi per raccogliere le erbe. Sollevò gli occhi dal suo
lavoro quando si accorse che lei si era destata. Sulle sue labbra
comparve un sorriso caloroso mentre posava su uno sgabello il legno e
in una tasca il coltello.
«Finalmente ti sei ripresa»
L’uomo era sulla sessantina, una rada barba incorniciava un
viso rotondo. La guardava bonariamente da sotto delle sopracciglia
cespugliose.
«Cosa ci faccio nuda su questo letto?» chiese la
donna, «e chi sei tu?».
«Sei nuda perché ti ho tolto i vestiti bagnati e
infangati» rispose l’uomo, «li trovi
puliti ai piedi del letto. In quanto a come mai tu sia qui, spero possa
dirmelo tu». L’uomo le porse i vestiti, quindi si
voltò, continuando a parlare.
«Sei sbucata fuori dal Mènhudè e sei
svenuta ieri mattina all’alba. Se non l’avessi
visto con i miei occhi non ci avrei creduto. E infine io sono
Sal».
La donna scese dal letto e indossò la tunica.
«E tu invece sei?» indagò Sal,
voltandosi e tendendole la mano. Lei accennò a rispondere,
rendendosi conto solo in quel momento di non esserne in grado.
«Non lo so» disse infine.
«Che vuol dire?»
«Che non ricordo il mio nome» rispose con gli occhi
lucidi.
«Ricordi qualcosa?» indagò.
La donna chiuse gli occhi, cercando tra le memorie.
«Nulla. Solo una forte luce, prima del buio» la
voce lasciò le labbra sottili della donna quasi
controvoglia, tremando nel silenzio immoto di quella stanza. Gli occhi
color miele di Sal fissarono per qualche secondo quelli verdi della
donna, come per decidere se potesse fidarsi delle sue parole. Quindi lo
sguardo si addolcì in una espressione di comprensione.
«Non ti preoccupare, i ricordi torneranno» rispose
con un sorriso rassicurante. «Ora che ci penso, prima di
svenire hai detto “Alyn”. Ti ricorda
qualcosa?»
La donna ci pensò un po’ su, quindi scosse la
testa.
«Forse è questo il tuo nome. In ogni caso
finché non ti tornerà la memoria ti
chiamerò così» decise infine,
voltandosi a prendere un ceppo e gettandolo sulle braci accese nel
camino.
«Hai fame? È almeno da ieri mattina che non mangi
qualcosa. Preparo subito una zuppa di montone e porcini».
Lei ringraziò, rendendosi conto che effettivamente aveva
molta fame. L’uomo le ispirava fiducia. Lei riuscì
a rilassarsi un poco, asciugando col dorso della mano gli occhi umidi.
Si guardò intorno. La stanza, con un’unica
finestra dalle imposte rotte, era arredata in maniera spartana: un
tavolo di legno con attorno due sedie, una panca ai piedi del
pagliericcio su cui si era svegliata e un caminetto acceso sormontato
da un gancio al quale Sal stava appendendo un calderone con
dell’acqua. In prossimità della porta un chiodo
fungeva da appendiabiti, reggendo un mantello marrone, mentre sulla
parete di fronte la porta dei sacchetti di stoffa erano appesi a
piccoli chiodi. Sotto a questi, su una tavola stretta e lunga stava un
taccuino, una penna e una candela spenta.
Alla sua destra un altro pagliericcio vuoto.
«Vivi qui da solo?» chiese.
«Un vecchio come me da solo in un posto inospitale come la
Foresta dell’Orso? Non sarebbe raccomandabile»
rispose con un sorriso sornione, sciacquando in una bacinella funghi ed
erbe aromatiche.
«Ned è fuori per boschi, a cacciare o a
raccogliere erbe. Dovrebbe tornare stasera».
Alyn guardò fuori dalla finestra, rendendosi conto che
doveva essere più o meno mezzogiorno. Si avvicinò
a Sal.
«Cos’è un
Mènhudè?». Per un attimo Sal parve
stupito, poi il sorriso rassicurante tornò a fare capolino
tra la barba.
«Un insieme di enormi massi verdi collocati su
un’altura al centro della foresta dell’Orso, che
secondo alcune leggende risultano essere un dono fatto dal dio Drago ai
mortali, o forse dagli antichi. Tu sei misteriosamente apparsa al
centro».
Detto questo gettò il contenuto del tagliere nel calderone.
«Ascolta, Alyn» disse voltandosi e incontrando lo
sguardo della sconosciuta. «La tua presenza è un
enigma. Il motivo per cui sei spuntata dal nulla e nulla ricordi
è un ulteriore mistero, e dire che questi occhi stanchi ne
hanno visto di stranezze» esitò, come per
scegliere le parole da usare. «Per ora sei stanca, e non
voglio infierire con le mille domande che mi ronzano in testa, ma
appena ti sarai ripresa ho intenzione di capire qualcosa di
più» Alyn fu presa da un leggero timore. La bocca
di Sal continuava a sorridere, ma negli occhi trapelava una
determinazione ferrea. «D’altro canto probabilmente
anche tu vorrai indagare su questi misteri. Per cui appena sarai in
grado di viaggiare lasceremo questa casa. Ma adesso sto correndo un
po’ troppo» disse notando l’inquietudine
prodotta dalle sue parole.
«Perdona questo vecchio, e pensa a riposare»
concluse rimettendosi a cucinare.
In poco tempo il pranzo fu pronto e Sal riempì delle ciotole
con la zuppa.
«Vivi in questo bosco da molto tempo?»
domandò Alyn dopo aver ingoiato un boccone di carne. Le
parse molto buono, ma forse la fame le stava offuscando il giudizio.
«Non vivo qui, anche se questo bosco ha visto i miei migliori
anni. Mi sembra passato un secolo da quando con Jorum vivevamo in
questo posto incantevole» Sal prese una pipa da un cassetto e
la riempì col tabacco.
«Jorum?» indagò Alyn.
«Il mio maestro, colui che mi ha insegnato il mestiere - anzi
no, l’arte dell’erborista. Tutto ciò che
sono lo devo a lui» accese la pipa e fece degli anelli di
fumo.
«Era solito dire “solo a contatto con la natura
più selvaggia l’uomo può sentirsi in
pace con Dio, e in barba a tutti quei santoni in tunica che predicano
nel nome del Drago e operano rituali di nessun
valore”» Il sorriso che non aveva mai lasciato la
faccia del vecchio divenne malinconico, lo sguardo perso in dolci
ricordi. «Il rifugio l’abbiamo costruito assieme.
Asse dopo asse, quando ero poco più che ragazzo. Se guardi a
destra del camino troverai incisi due nomi. Jorum e Kensal. Il mio
cuore non ha mai lasciato la foresta dell’Orso, e quando
posso torno a rigenerarmi tra le fronde delle sue querce. Ma da quando
Jorum è morto abito alla corte del Lord di Rocca
dell’Orso» terminò infine.
Seguì qualche minuto di silenzio. Gli occhi di Sal fissati
nel nulla guardavano immagini di giorni lontani.
Fu Alyn a rompere il silenzio, giocando con una ciocca dei capelli
rossi per nascondere il nervosismo.
«Il Mènhudè…» Il
vecchio distolse l’attenzione dai ricordi, e chiese
«cosa?»
Alyn guardò il fuoco nel camino, poi continuò
«dove si trova? È molto lontano da qui?»
«Pochi minuti a piedi. Quando ieri ti ho trovata ero appena
uscito dal rifugio». La fissò, aspettando che
continuasse. Poi chiese «vorresti vederlo?» Alyn
alzò gli occhi verdi a incontrare quelli miele del vecchio.
Trasparivano tutta l’agitazione e il timore della donna, e da
quello scambio di sguardi si abbeverò alla placida sicurezza
che emanava l’espressione di Sal. «Si»
disse dopo qualche secondo di esitazione. Sal sorrise, prese un fungo
dalla ciotola che gli stava davanti. Quando ebbe deglutito la
guardò e rispose «va bene, dopo mangiato andremo.
Chissà, magari ti aiuterà a ricordare»
Era rimasto tutto il mattino nel tempio Celeste, alla penombra delle
candele che proiettavano una fioca luce azzurrina. Lo sforzo aveva
esaurito le sue energie, ma il Dio Drago non aveva risposto alle sue
richieste, lasciandolo inginocchiato a invocare una visione o qualunque
cosa potesse metterlo sulla retta via, segno inequivocabile di quanto
l’avesse deluso con i suoi numerosi insuccessi. La
frustrazione iniziale scatenò la sua ira, quindi
arrivò il panico. Lentamente si risolse a uscire. Aveva
molto su cui riflettere. «Dannato assassino!».
L’imprecazione a denti stretti passò inosservata
ai pochi fedeli che erano rimasti a pregare.
Uscendo salutò con un cenno del capo il sacrestano, e si
diresse a passo lento verso le ampie porte a doppio battente. Le
oltrepassò e rimase abbacinato dal riverbero del sole sul
lastricato bianco della piazza. Si schermò gli occhi con la
mano e scese i gradini del tempio, diretto alle stalle
dell’Ordine.
Come da sua disposizione Alba era sellata e pronta. Ethan lo attendeva
reggendo le redini della puledra bianca, con ai piedi lo zaino.
«Eccellenza, è sicuro di voler partire da
solo?»
«Ne abbiamo già parlato, Ethan. L’ordine
ha richiesto esplicitamente la tua presenza al tempio» Era un
altro tasto dolente. All’inizio non aveva compreso il motivo
di tale decisione, ma ora era tutto più chiaro.
Ora tutto quadrava. La scomparsa delle visioni era stato solo il primo
segno rivelatore. Il suo Dio l’aveva escluso, tagliato fuori
dallo stato di grazia degli Shangdìmà. Poi la
ricerca dell’assassino era stata assegnata a sir Lucas da
Lorath, detto il Demone Santo. Infine l’ordine lo aveva
privato del suo servitore, il fedele Ethan. In tutto questo la pista
che aveva fiutato l’ultimo mese l’aveva portato
vicino come non mai. Tutto conduceva al bosco di Lohr, nella piana
vicino alla Città Santa. “Così vicino
al centro nevralgico dell’ordine” pensò
Nicholas. Erano ormai due anni che dava la caccia a Leamor, due anni
costellati di insuccessi. Di certo non poteva biasimare
l’Ordine per la scelta di estrometterlo, non dopo che anche
il suo Dio gli aveva voltato le spalle.
L’ex Shangdìmà abbracciò
calorosamente Ethan, ripensando al profondo affetto che lo legava al
suo sottoposto.
«Abbi cura di te»
«Anche lei, Eccellenza»
Si sciolse dall’abbraccio, prese le redini e si
accomiatò.
Uscito dalle stalle montò Alba e la portò al
passo. Il non aver ricevuto nessun altro incarico gli dava comunque un
certo margine di libertà per agire - ovviamente fuori
dall’ufficialità - e lui non aveva intenzione di
rinunciare a conoscere la verità. Si sarebbe diretto a nord,
seguendo la scia di efferati crimini. Avrebbe preso Leamor, e lo
avrebbe consegnato al Tribunale Divino, rientrando così
nelle grazie dell’Ordine e, cosa più importante,
nelle grazie del suo Dio.
La struttura era imponente. La pietra verde risplendeva come uno
smeraldo nei pochi punti in cui i raggi obliqui del sole la colpivano.
Il caprifoglio che la ricopriva parzialmente emanava un intenso
profumo, coi suoi fiori bianchi e rosa. L’aura di potere che
emanava il Mènhudè era quasi palpabile, metteva
soggezione. Alyn si avvicinò alla base, una piattaforma
ottagonale raggiungibile da una scalinata di cinque gradini. Li
salì e sfiorò una colonna liscia del diametro di
cinque spanne. Come aveva anticipato Sal al tocco la superficie era
tiepida. Le colonne, cinque in tutto, erano sormontate quindici piedi
più in alto da altrettante travi che formavano un pentagono
speculare al perimetro della piattaforma. Il centro della struttura era
uno spazio vuoto. Sal stava in disparte, rispettando il desiderio di
discrezione della donna. Dopo alcuni minuti Alyn si voltò e
tornò accanto a Sal. «Allora?»
«Niente» fece lei sconsolata.
Sal annuì e fece strada verso il rifugio.
Il sole era quasi tramontato quando la porta si aprì e un
uomo avvolto da un mantello verde entrò nel piccolo rifugio.
Gettò sul tavolo due lepri, il bottino della sua giornata di
caccia, e si tolse il mantello da sopra le spalle. Alyn
trasalì vedendolo entrare, ma Sal salutò il nuovo
arrivato con un cenno del capo.
«Finalmente la signora si è svegliata»
disse parlando col vecchio ma guardando la ragazza. «era
ora»
«Ned, non essere scortese. Alyn è nostra
ospite»
«Alyn?» chiese con un cipiglio poco amichevole.
«Non ricordo il mio nome» sentì il
bisogno di specificare, con voce tremante, la ragazza.
«E Sal ha usato tutta la sua fervida immaginazione per
affibbiarti questo bel nome» concluse Ned.
Si avvicinò ad Alyn porgendole la mano, e disse
«io sono Ned, e qualunque cosa ti abbia raccontato il vecchio
sul mio conto sappi che non corrisponde a verità»
«Piacere» rispose incerta stringendogli la mano.
L’uomo era alto, spalle larghe, capelli neri lunghi e occhi
castani. Indossava una giacca di cuoio e delle braghe nere, e in vita
portava un cinturone con appesa una spada. Il volto era segnato da una
cicatrice che, partendo dalla tempia destra, scendeva fino
all’orecchio. Sorrise, ma gli occhi rimasero freddi. Poi
prese una ciotola, si versò un po’ di zuppa messa
precedentemente a scaldare da Sal e si sedette a mangiare.
«Non ricordi proprio nulla?» indagò tra
un boccone e l’altro.
«Niente di niente»
«Sembra che i tuoi ricordi siano scomparsi assieme a quelle
cicatrici».
Sal lo fulminò con un’occhiata.
«Quali cicatrici?» chiese Alyn guardando ora
l’uno ora l’altro.
«Non glie lo hai detto?» sembrava realmente stupito.
«Alyn si è svegliata solo oggi», si
giustificò Sal, «ha subito troppe emozioni per un
giorno solo»
«Quali cicatrici?» chiese di nuovo.
«Non dovresti nasconderle le cose, soprattutto se la
riguardano» lo rimbeccò con sarcasmo.
«Io non le ho nascosto niente, certe
cose…»
«Quali cicatrici?» urlò Alyn in preda
all’ira. La vista le si annebbiò. Chiuse gli
occhi, e quando li riaprì non era più nel
rifugio. Un vento gelido scuoteva l'alberello rinsecchito che aveva di
fronte, minacciando di sradicarlo ad ogni folata. Si guardò
intorno. Era in cima ad una scogliera a strapiombo su un mare in
tempesta. Si accorse che stava piovendo a dirotto, ma le gocce di
pioggia non la bagnavano. Riconobbe a un centinaio di passi una
struttura simile al Mènhudè. Una figura
incappucciata al centro della pedana le voltava la schiena, e sembrava
stesse armeggiando con qualcosa. Con passo incerto si
avvicinò. Salì i gradini verdi e si
portò alle spalle dell'uomo. A quella distanza
sentì un pianto disperato che stentava a superare la furia
del vento. Un pianto di donna. Ma si sentiva qualcos'altro. Alyn tese
l'orecchio. Tremando riconobbe una voce di bambino. Si
affacciò da sopra la spalla dell'uomo, e
inorridì. Una donna con in braccio un bambino di non
più di due anni. Lo teneva fermo mentre l'uomo, con un
pugnale rituale, tracciava strani simboli insanguinati sul corpo del
bimbo. Seguì per ciò che le parve
un'eternità la traiettoria del coltello, che prese a
brillare, dapprima fiocamente, poi sempre di più ad ogni
solco che scavava nella tenera pelle. La donna implorava in una lingua
a lei incomprensibile, ma continuava a tenere fermo il bambino in quel
terribile rituale. Un ultimo fendente recise da parte a parte la gola
del bambino, continuando su quella della donna. Rossi spruzzi caldi
schizzarono sull'uomo e attraverso Alyn mentre i due crollavano a
terra. Un sibilo in alto la distolse dal macabro spettacolo.
Alzò gli occhi e vide una spada dorata risplendere, poi
creparsi e cadere in mille pezzi. L'uomo urlò qualcosa, ma
la voce si strozzò in gola. Alyn vide che stava mutando,
crescendo, e che la stava osservando. Gli occhi indemoniati della
creatura che era stata l'uomo incappucciato le stavano frugando fin
dentro l'anima, facendola sentire nuda e inerme. Occhi rossi, profonde
pozze di lava. Occhi di un demone.
Riaprì gli occhi.
Era tornata al rifugio, e Sal la stava abbracciando.
Sal e Ned si ritrovarono a terra senza sapere cosa li avesse
colpiti. Quando la guardarono l’ira aveva lasciato il posto
alla paura. Si accasciò e incominciò a
singhiozzare. Attorno a loro il mobilio era sottosopra e il vetro della
finestra era rotto. Ned si alzò lentamente, cercando di
capire se si fosse rotto qualche osso. Sal lo imitò, si
avvicinò alla ragazza e la abbracciò.
«Cosa sono?» chiese tra i singhiozzi.
«Lo scopriremo, bambina mia» sussurrò,
«lo scopriremo».
Ho aggiornato la pagina per una moodifica. Scusate ma era necessario
inserirla ora.
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Capitolo 3 *** Il Bardo ***
Capitolo 3
Dall'esterno
la locanda era apparsa incredibilmente chiassosa. Il silenzio che aveva
seguito l'ingresso di Nicholas era risultato addirittura più
assordante. “Non devono essere abituati ad avere viandanti a
Borgo Alto” capì guardandosi attorno. Gli occhi
degli avventori, un paio di dozzine, erano fissi su di lui con
un'espressione che andava dal curioso all'ostile. Scelse un tavolo
defilato sulla destra e si accomodò. Senza abbassare il
cappuccio del mantello nero di pregiata fattura chiamò
l'oste e chiese una birra scura speziata e un arrosto.
Gli altri avventori continuavano a lanciargli occhiate cariche di
diffidenza, ma Nicholas sembrava non accorgersene nemmeno. Era solo di
passaggio e non si sarebbe nemmeno fermato lì se la tempesta
non fosse stata tanto vicina. “Una notte
all’addiaccio sotto la pioggia è ben
più di ciò che sono disposto a
sopportare” pensò mentre attendeva la birra.
Ripercorse gli ultimi giorni. Da quando aveva lasciato Lancia del
Cielo, appena quattro giorni prima, il viaggio era stato addirittura
piacevole. La primavera sembrava aver deciso di far capolino in
anticipo, e le temperature miti avevano permesso un’andatura
sostenuta. L’istinto gli aveva suggerito di tenersi lontano
dalla Via Santa. Forse era a causa degli eventi che l’avevano
travolto, ma al pensiero di seguire la strada diretta per Lhor si era
sentito maledettamente a disaggio.
«Pensa di trattenersi a lungo?» La domanda lo
distrasse dal suo rimuginare. Alzò gli occhi celesti
incontrando quelli del locandiere. In mano reggeva un vassoio con
alcuni boccali. Lo posò.
«Qui a Borgo Alto, intendo». La domanda
apparentemente disinteressata tradiva una velata apprensione.
Evidentemente anche l'oste non era abituato ai viaggiatori.
«Mi serve una stanza per la notte» Rispose Nicholas.
Il locandiere tentò di nascondere il proprio disappunto per
l’elusività della risposta.
«Abbiamo una stanza libera» concesse posando la
pinta sul tavolo.
Esitò. Fece per dire qualcosa, poi ci ripensò.
Riprese il vassoio e si diresse a un altro tavolo. Nicholas si
guardò intorno. Gli altri avventori erano tornati a
chiacchierare tra di loro, ma lui sospettava di essere diventato
l’argomento principale di conversazione della locanda. In
tutto contò cinque tavoli oltre il suo, tutti occupati da
gruppi di persone che chiacchieravano a voce alta. Tranne un tavolo in
fondo, avvolto nella penombra, dove stava seduto un vecchio. Gli occhi
malinconici fissi nel vuoto. Una mano reggeva un boccale di birra,
l’altra il mento. Sembrava anch’egli un forestiero.
L’oste portò l’arrosto.
Il vociare allegro era cessato quando l’ultimo gruppo di
uomini, dopo aver lanciato l’ennesimo sguardo a Nicholas e al
vecchio, aveva lasciato la locanda. Nicholas stava sorseggiando un
liquore offertogli dal locandiere. La diffidenza iniziale era stata
presto sostituita da una genuina curiosità, e Nicholas era
disposto a condividere con lui le notizie che fuori da quel posto
dimenticato da Dio erano di dominio pubblico. Il vecchio sedeva da solo
ad un tavolo. La barba incorniciava un volto spigoloso, ma i lineamenti
duri erano mitigati dall’ubriacatura. Solo e in silenzio
osservava un punto di fronte a se. In mano l’ennesimo boccale
di birra scura. Lì vicino il locandiere posizionò
l’ultima sedia, quindi guardò il vecchio con un
cipiglio evidente. Si avvicinò.
«Sempre la stessa storia» bofonchiò.
«Se gli affari mi andassero meglio ti avrei buttato fuori il
primo giorno» borbottò a bassa voce. Poco
più in là Ester, la moglie, lo guardò
con disprezzo. Il vecchio era alto e robusto, non esattamente una
piuma. Però pagava, e tanto bastava. Il giorno prima aveva
consigliato al marito di derubarlo e buttarlo fuori. “Tanto
prima o poi finirà per bersi tutto ciò che
ha” aveva detto, “e tu ti sarai rotto la schiena a
furia di trascinarlo”. Era pragmatica lei. Non come quel
rammollito senza spina dorsale di suo marito, che infatti non se
l’era sentita di seguire il suggerimento. In fin dei conti la
schiena era sua. Se voleva rompersela trascinando su per le scale
quell’ubriacone a lei non interessava.
Il locandiere si apprestò a prenderlo e a caricarselo sulla
schiena, quando il vecchio si alzò. Barcollò. Si
appoggiò al tavolo e riprese l’equilibrio.
«So di essere solo un peso per te, buon uomo»
l’apostrofò. Evidentemente era meno ubriaco del
solito. «Mi dispiace che tu ti sia sobbarcato il peso di
questo vecchio corpo. Ma non è stato sempre così.
C’è stato un tempo in cui questo vecchio era un
ragazzo dalla schiena dritta. Re e saggi chiedevano i miei servigi,
restando incantati ad ascoltare la mia voce». Nicholas lo
guardò interessato. Il locandiere fu meno colpito e lo
guardò in tralice. Infine disse «Bene, se ti reggi
sulle gambe stasera puoi salire anche da solo».
Girò sui tacchi e raggiunse la moglie. Il vecchio si
scolò l’ultimo sorso di birra, si
asciugò con la manica e si diresse con passo malfermo verso
il tavolo di Nicholas.
«Permetti a questo vecchio di sedere e condividere qualche
storia con te?»
Nicholas sorrise. Indicò una sedia vuota al vecchio che si
sedette.
«La storia che mi accingo a narrare mette le sue radici nella
leggenda, nell'epoca degli eroi, quando ancora il mondo non era
pienamente formato». L’alito puzzava terribilmente
di alcol, ma la semplice frase pronunciata dal vecchio fu sufficiente a
fargli ignorare questo piccolo particolare. Lui la conosceva.
L’aveva studiata su alcuni tomi antichi, ma mai avrebbe
immaginato di sentirla recitare. Il vecchio continuò.
«Era il regno del terrore, governato dai cinque Re Demoni,
immortali e invincibili, che avevano soggiogato i precedenti regni
degli Antichi e dei Kraad». Un brivido corse lungo la schiena
di Nicholas. Era la magia insita nel racconto – lui lo sapeva
– a risvegliare i suoi sensi. Chiuse gli occhi e la mente si
riempì di immagini. I demoni erano lì di fronte a
lui. I corpi mostruosi gli si lanciavano contro. D’istinto
portò la mano sull’elsa sella spada che teneva al
fianco. «In quel periodo nessun piede di uomo aveva ancora
calpestato il suolo del Kejnar e il Confine non esisteva. Venne il
giorno in cui fu forgiata un'alleanza tra Kraad e Antichi, in cui gli
Dei, mossi a compassione per le sorti dei loro figli, diedero
all'alleanza le cinque armi divine, forgiate dal dolore dei popoli.
Nacquero i cinque prescelti, figli del Drago Creatore, re ed eroi, che
guidarono l'alleanza contro i Re Demoni. Riuscirono a esiliare al di
fuori del Kejnar il regno demoniaco e a sigillare cinque volte il
portale, ponendo fine all'era del fuoco e dando inizio all'era
dell'oro». Le immagini delle battaglie, col loro carico di
terrore, fluivano nella mente di Nicholas. La fronte imperlata di
sudore. Il pugno stretto con forza sull’elsa.
«Oramai di tutto questo non rimane che un vago ricordo
avvolto nella leggenda, e solo in pochi credono ancora che sia
realmente accaduto. Ma alcuni ricordano ancora: Ilmer, il re
dimenticato, che dal suo trono sul monte Daqur vigila in attesa. E
Valin, la Spada Spezzata, che dalla foresta di Karith vive dal giorno
in cui fu rinchiuso l'ultimo Re Demone, a guardia del sigillo. Questo
è ciò che mi raccontò mio padre, che
aveva saputo da suo padre, e così fin dall'alba dei tempi,
perché siamo i Bardi del Dio Drago, e serbare le memorie
è il nostro compito». Con le ultime parole il
cerchio si chiuse.
Le immagini sfocarono.
Nicholas riaprì gli occhi. Si alzò tremante.
Vacillò e ricadde sulla sedia. Il vecchio era davanti a lui
e lo guardava sorridendo, gli occhi rigati di lacrime.
«Alfine ti ho trovato» La voce non era
più distorta dall’alcol. Nicholas sentì
che il dolore alla schiena era cessato. Ma quando era cominciato? Non
seppe dirlo con certezza. Non se ne era neanche accorto, perso
nell’incantesimo del vecchio. «La cerca
è finita. Alfine ti ho trovato» ripeté
il vecchio senza riuscire a fermare le lacrime. Allungò una
mano a sfiorare il volto di Nicholas.
«Mio giovane drago»
«Non avevo intenzione di nascondertelo» la voce di
Sal trasudava amarezza. «Non volevo turbarti più
di quanto non lo fossi già».
Alyn piangeva sommessamente, cercando il conforto delle braccia del
vecchio.
«Te la senti di ascoltare adesso»
sussurrò.
Alyn alzò gli occhi ad incontrare quelli di Sal. Erano
velati di tristezza, ma trasmettevano una grande forza. Come una solida
roccia a cui aggrapparsi aspettando che la tempesta passi. E Alyn si
aggrappò alla roccia.
«No»
Fu un sussurro. Sal annuì, continuando a tenerla in un
tenero abbraccio.
«Quando sarai pronta me lo dirai, bimba mia».
Nicholas prese un sorso di birra, quindi alzò lo sguardo a
incontrare quello del vecchio - il Bardo del Dio Drago. Non riusciva a
smettere di tremare. «Tu chi sei?» Il tono voleva
essere perentorio, ma apparve incerto e titubante.
Il vecchio si asciugò le lacrime con la manica.
«Fino a poco fa ero solo un vecchio ubriacone» la
voce rotta dal pianto commosso. «Ora sono di nuovo io. Ho uno
scopo» Si guardò intorno, di colpo guardingo.
L'oste era in cucina con la moglie, per il resto la locanda era vuota.
«Non è prudente parlare qui. Vieni, saliamo in
stanza».
Fece strada verso le scale. Nicholas esitò qualche secondo,
poi decise di seguirlo. La stanza in cui lo fece accomodare era
piccola, arredata in modo spartano. Fece segno a Nicholas verso l'unica
sedia che c'era mentre lui si sedeva sul letto.
«Sono ancora scosso, erano anni che non mi
succedeva» la voce era stanca, ma contemporaneamente
eccitata. «Non credevo che avrei vissuto tanto da vederti. Le
visioni, oh si, le visioni erano vere! Sono quasi impazzito ma ora
eccoci qua!»
Il continuo farneticare del vecchio stava irritando l'ex
Shangdìmà.
«Chi sei?» ripeté.
Il bardo si scosse. «Oh, hai ragione, non ti ho ancora
risposto. Il mio nome è Dioskoros».
«Cosa è successo poco fa?»
«Un incanto del tempo che fu, la mia magia ha riconosciuto la
tua e il canto ti ha mostrato ciò che dovevi
sapere» Le mani di Dioskoros si muovevano in maniera
febbrile, accompagnando ogni frase con una danza di dita che si
intrecciavano o salivano ad accarezzare la barba.
«Ma tu questo lo sai già. Vero, giovane
Drago?»
«Perché continui a chiamarmi “giovane
Drago”?»
«Perché è quel che sei. L'incanto del
tempo me l'ha mostrato. E l'incanto non sbaglia mai. Il tempo
è maturo, il pericolo incombe e tu sei il predestinato, o
meglio, uno dei predestinati. Dobbiamo muoverci velocemente!»
gli occhi si muovevano febbrilmente, come in cerca di qualcosa.
«Ma di cosa stai parlando?! Muoverci? E per andare dove? E
perché dovrei seguirti?» Nicholas non si
capacitava di ciò che gli stava accadendo.
Dioskoros fermò la danza delle mani e gli puntò
lo sguardo addosso.
«Mi dispiace, ti sto confondendo. Forse è meglio
che cominci dal principio. Sono uno Shirènlong, un Bardo del
Dio Drago. Credo di essere l'ultimo sopravvissuto alla persecuzione che
gli Shangdìmà hanno perpetrato nei nostri
confronti».
Nicholas tentò di dissimulare lo sgomento. Dioskoros
continuò.
«dieci anni fa ebbi la prima visione, quella che mi
salvò dalla cattura. Vidi un demone nero con in mano la
spada santa che trucidava i miei fratelli. Seppi che stava venendo per
sterminarci. Allora fuggii. Da allora le visioni mi hanno guidano,
salvandomi la vita non so neanche io quante volte. Poi, tre mesi fa,
sognai questo posto, e l'incontro con te. Cercai di trovare la locanda.
Sono qui da dieci giorni. Avevo ormai perso le speranze, quando ti ho
visto entrare. La certezza che eri la persona giusta me l'ha data la
tua magia»
«Io non ho alcuna magia, sono solo un soldato del
culto»
«So chi sei. Uno Shangdìmà privato
della sua carica, umiliato senza motivo. Questo mi faceva temere per la
mia vita. Ma ho seguito comunque le visioni. Tu non sei come gli altri.
Non sei assetato di sangue»
Sempre più sconvolto Nicholas provò a dire
qualcosa, ma si accorse di non sapere cosa dire. Lentamente tutto
cominciava ad avere un senso, per quanto surreale. Dioskoros, in
silenzio, aspettava una reazione.
«Ho bisogno di riflettere per conto mio».
Si alzò e uscì dalla stanza senza aspettare una
risposta.
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