il segno del drago

di leamor79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** risveglio ***
Capitolo 3: *** Il Bardo ***



Capitolo 1
*** prologo ***


CAPITOLO 1

La tempesta pareva aver esaurito la sua forza, lasciando dietro di se odore di terra bagnata e rivoli d’acqua che scendevano dalle folte chiome delle querce a ogni soffio di vento.
Sal, fermo sull’uscio, scrutava il cielo che si andava rischiarando a est. Le nuvole che per due interi giorni avevano riversato sul bosco la loro furia, costringendolo ad attendere al riparo di quel vecchio rifugio per cacciatori, ora lasciavano il posto a un cielo terso.
Il tempo perfetto per raccogliere l’Aqom, pensò, e volendo anche qualche fungo per la zuppa del pranzo. Avvolse le spalle ancora robuste nel mantello e uscì.
L’aria del mattino era fredda, anche troppo per le sue ossa, ma l’aver perso ben due giorni lo spinse fuori dal caldo riparo offerto dal rifugio. Con la destra stringeva un cestino di vimini mentre con la sinistra tentava di tenere chiuso un mantello che mostrava un tenace desiderio di aprirsi a ogni soffio di vento. «Forse non ho più l’età per queste cose» si disse mentre l’ennesima folata gli riversava addosso il carico d’acqua delle fronde di un albero. Si chinò quando vide un ciuffo dell’erba che stava cercando. Tastando con la mano intorpidita dal freddo una delle numerose tasche del mantello tirò fuori il piccolo coltello da erborista e lo raccolse, riponendolo nel lato destro del cesto.
Il bosco umido al mattino era comunque uno spettacolo incantevole, e il richiamo della natura silvestre lo affascinava ora come vent’anni fa.
Quei boschi erano il luogo più caro che avesse. Lì aveva imparato dal suo mentore il mestiere, lì aveva conosciuto la vita nelle sue gioie più grandi come nelle più grandi sofferenze. Conosceva quei boschi anche meglio delle tasche della sua tunica, e tornare, anche se di rado, in quei luoghi gli destava una dolce malinconia.
Ogni anfratto, ogni asperità gli ridestavano dolci ricordi. A passo lento si diresse verso l’antica costruzione in pietra, verde come le foglie dell’edera che l’aveva ormai circondata e quasi del tutto coperta, chinandosi di tanto in tanto a raccogliere altre foglie di prezioso Aqom, oltre a qualche fungo pregiato. Sal trovava cesta a due scomparti che gli aveva donato il Duca alquanto comoda, riuscendo a raccogliere in un solo contenitore erbe diverse senza che si sfiorassero tra di loro.
A est un sole faceva capolino tra le cime degli alberi. Presto il calore dei suoi raggi lo avrebbe avvolto in un tiepido abbraccio, asciugando il terreno intorno e le sue vecchie ossa.
Giunto ai piedi del megalite avvolto dal rampicante, lo toccò con la sinistra, recitando una preghiera al dio Drago imparata dal suo mentore anni prima. Non era certo un popolano ignorante lui, di quelli che rivestono di significato ogni gesto e parola imparati al tempio da vecchi chierici in toghe sontuose, più per scaramanzia che per reale devozione.
Eppure quell’enorme scultura, fatta di una pietra che non aveva visto da nessun’altra parte, un gigante in mezzo al nulla, forse un estremo baluardo di qualche popolo ormai scomparso pure dalle leggende, ridestava in Sal una spiritualità e un senso di contatto con l’universo altrimenti estraneo alla sua natura.
Come ogni volta percepì il tepore contenuto in quelle rocce, quando con due dita tracciò il segno del Drago.
Terminato quel breve rituale riprese il suo cammino, deviando verso nord col preciso intento di scalare la collinetta e osservare il bosco da un punto sopraelevato. Dopo pochi passi però un suono, come un flauto che debolmente tiene una sola nota, lo spinse a voltarsi.
Fino a quel mattino l’erborista pensava che i suoi occhi avessero visto tutto ciò che c’era da vedere, ma nulla in tutta la sua non breve vita lo aveva preparato allo spettacolo che gli si presentò. Il cestino gli cadde dalle mani, e il suo contenuto rovinò nella terra bagnata, quando vide che il rampicante si stava ritraendo dalla struttura megalitica, ricacciato da una luce bianca che andava aumentando di intensità.
A bocca aperta recitò mentalmente una preghiera, troppo stupito e spaventato per fare anche solo un passo. Al centro de Mènhudè apparve un piccolo globo luminoso, come un fuoco fatuo bianco. Lentamente crebbe d’intensità,  Gli occhi neri dell’uomo erano attirati dallo spettacolo di luci che gli si presentava. Dopo pochi secondi, che all’erborista sembrarono ore, la luce sembrò prendere forma in una figura di donna, vestita di una tunica viola stretta in vita da una corda argentata. Poi il suono e la luce cessarono contemporaneamente, e la donna si accasciò per terra, sparendo dalla sua vista. Molto lentamente paura e superstizione cedettero il posto alla curiosità. La mente razionale dell’uomo ricacciò il timore atavico dell’ignoto, e Sal mosse alcuni passi incerti verso il punto in cui era avvenuto il prodigio. Notò che i rampicanti stavano miracolosamente riconquistando terreno, come se la natura, fattasi da parte per far posto alle energie arcane di cui era stato testimone ora reclamasse ciò che nei secoli aveva faticosamente conquistato. Perso nella lotta interna tra timore e sete di conoscenza Sal avanzava lentamente tra l’intrico del sottobosco, quando un gemito lo spinse ad affrettare il passo e a salire i gradini del megalite chiamato Mènhudè, finché non si trovò di fronte a una donna riversa su una piattaforma sopraelevata, verde come il resto della struttura. Aveva capelli lunghi e neri, tenuti insieme da una coroncina argentata come la cinta. Ma ciò che fece tremare il cuore del vecchio fu la pelle: le braccia e le spalle nude erano ricoperte da una raccapricciante fitta rete di tagli ancora sanguinanti, come se un torturatore si fosse divertito a disegnare usando il corpo della donna come tela e un pugnale per pennello. Quando le si avvicinò la donna spalancò gli occhi e disse “Alyn». Quindi svenne. Sal, ripresosi dallo shock, prese dalla cinta la bisaccia piena d’acqua e ne versò il contenuto sulla donna, per ripulirla dal sangue fresco. Dove l’acqua detergeva la pelle non vide nessuna ferita fresca, piuttosto cicatrici di vecchia data, ormai perfettamente rimarginate. “Un mistero dentro a un mistero” pensò, mentre completava l’opera di detersione. Era stato testimone di un evento prodigioso e tremendo, ma non se la sentiva di cedere all’impulso di fuggire e lasciare la donna sola nel freddo autunnale del bosco. Si caricò in spalla la donna, meravigliandosi della sua leggerezza, e si avviò verso il rifugio.

Gli occhi rivolti allo specchio d’acqua sembravano non accorgersi dello spettacolo di luci e colori che andava tingendo il lago. I riflessi arancio e oro sul lago all’alba avrebbero per lo meno dovuto accecarla, se non rapirla in una sensazione di stupita ammirazione, come ogni altra mattina. Eppure stamane era diverso. Guardava senza vedere, persa in un turbamento che mai più avrebbe dovuto coglierla.
«Ci siamo» La voce accanto a lei la ridestò, come da un sogno.
«Avevo sperato che ci fossimo lasciati alle spalle molto tempo fa tutto questo»
«In realtà lo abbiamo sempre saputo. Fin dal fallimento di Artemia. Ora tutto potrà essere di nuovo messo in gioco. Ora potremo rimediare a tutto» La nuova arrivata era esultante.
«Lo spargimento di sangue sarà immenso. Di nuovo» le rispose «il suolo del Kejnar sarà di nuovo rosso. E noi dovremo tornare a essere i carnefici. Per cui ti chiedo, Amirha, c’è sul serio da gioire per questi presagi? Dobbiamo esultare per il ritorno del Nihar?» Una lacrima scese da quegli occhi neri screziati d’oro, e lentamente scivolò sul bel volto nero come l’ebano.
«Trattieni le lacrime per quando ce ne sarà davvero bisogno, Lea, potrebbe non essere necessario versarle»
La voce adamantina proveniva dalle loro spalle, ma non ebbero bisogno di voltarsi per sapere chi fosse stato a parlare.
«non essere ingenuo, Kafhi, il Nihar non ha mai portato notizie di gioia per la nostra terra» La voce di Lea appariva melodiosa, in contrasto con i sentimenti che trasparivano dal suo volto. «ricorda l’ultima volta che ne ha calcato il suolo» Poi chiuse gli occhi e aggiunse sotto voce “le guerre del cielo non dovrebbero interessare il mondo terreno»
«Sta volta sarà diverso» L’uomo poggiò la mano esile sulla spalla di Lea, lo sguardo fisso sugli occhi di Amirha. «La Spada Spezzata si è destata»

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Capitolo 2
*** risveglio ***


Capitolo 2
La donna aprì lentamente gli occhi, scrutando la stanza immersa nella penombra. L’unica luce proveniva dalle braci del camino, e le ci volle qualche secondo per mettere a fuoco le immagini che le si presentavano. Ancora scossa per un sogno che stentava a ricordare, si mise a sedere, lasciando che la coperta scivolasse giù dal suo corpo nudo. Non era sola in quella stanza, di questo si rese subito conto, per cui raccolse la coperta e la tirò su fino a coprire il seno. Quando si voltò, vide su una sedia accanto al suo letto un uomo intento a incidere un bastone con la punta di un coltello ricurvo, di quelli che usano gli erboristi per raccogliere le erbe. Sollevò gli occhi dal suo lavoro quando si accorse che lei si era destata. Sulle sue labbra comparve un sorriso caloroso mentre posava su uno sgabello il legno e in una tasca il coltello.
«Finalmente ti sei ripresa»
L’uomo era sulla sessantina, una rada barba incorniciava un viso rotondo. La guardava bonariamente da sotto delle sopracciglia cespugliose.
«Cosa ci faccio nuda su questo letto?» chiese la donna, «e chi sei tu?».
«Sei nuda perché ti ho tolto i vestiti bagnati e infangati» rispose l’uomo, «li trovi puliti ai piedi del letto. In quanto a come mai tu sia qui, spero possa dirmelo tu». L’uomo le porse i vestiti, quindi si voltò, continuando a parlare.
«Sei sbucata fuori dal Mènhudè e sei svenuta ieri mattina all’alba. Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci avrei creduto. E infine io sono Sal».
La donna scese dal letto e indossò la tunica.
«E tu invece sei?» indagò Sal, voltandosi e tendendole la mano. Lei accennò a rispondere, rendendosi conto solo in quel momento di non esserne in grado.
«Non lo so» disse infine.
«Che vuol dire?»
«Che non ricordo il mio nome» rispose con gli occhi lucidi.
«Ricordi qualcosa?» indagò.
La donna chiuse gli occhi, cercando tra le memorie.
«Nulla. Solo una forte luce, prima del buio» la voce lasciò le labbra sottili della donna quasi controvoglia, tremando nel silenzio immoto di quella stanza. Gli occhi color miele di Sal fissarono per qualche secondo quelli verdi della donna, come per decidere se potesse fidarsi delle sue parole. Quindi lo sguardo si addolcì in una espressione di comprensione.
«Non ti preoccupare, i ricordi torneranno» rispose con un sorriso rassicurante. «Ora che ci penso, prima di svenire hai detto “Alyn”. Ti ricorda qualcosa?»
La donna ci pensò un po’ su, quindi scosse la testa.
«Forse è questo il tuo nome. In ogni caso finché non ti tornerà la memoria ti chiamerò così» decise infine, voltandosi a prendere un ceppo e gettandolo sulle braci accese nel camino.
«Hai fame? È almeno da ieri mattina che non mangi qualcosa. Preparo subito una zuppa di montone e porcini».
Lei ringraziò, rendendosi conto che effettivamente aveva molta fame. L’uomo le ispirava fiducia. Lei riuscì a rilassarsi un poco, asciugando col dorso della mano gli occhi umidi. Si guardò intorno. La stanza, con un’unica finestra dalle imposte rotte, era arredata in maniera spartana: un tavolo di legno con attorno due sedie, una panca ai piedi del pagliericcio su cui si era svegliata e un caminetto acceso sormontato da un gancio al quale Sal stava appendendo un calderone con dell’acqua. In prossimità della porta un chiodo fungeva da appendiabiti, reggendo un mantello marrone, mentre sulla parete di fronte la porta dei sacchetti di stoffa erano appesi a piccoli chiodi. Sotto a questi, su una tavola stretta e lunga stava un taccuino, una penna e una candela spenta.
Alla sua destra un altro pagliericcio vuoto.
«Vivi qui da solo?» chiese.
«Un vecchio come me da solo in un posto inospitale come la Foresta dell’Orso? Non sarebbe raccomandabile» rispose con un sorriso sornione, sciacquando in una bacinella funghi ed erbe aromatiche.
«Ned è fuori per boschi, a cacciare o a raccogliere erbe. Dovrebbe tornare stasera».
Alyn guardò fuori dalla finestra, rendendosi conto che doveva essere più o meno mezzogiorno. Si avvicinò a Sal.
«Cos’è un Mènhudè?». Per un attimo Sal parve stupito, poi il sorriso rassicurante tornò a fare capolino tra la barba.
«Un insieme di enormi massi verdi collocati su un’altura al centro della foresta dell’Orso, che secondo alcune leggende risultano essere un dono fatto dal dio Drago ai mortali, o forse dagli antichi. Tu sei misteriosamente apparsa al centro».
Detto questo gettò il contenuto del tagliere nel calderone.
«Ascolta, Alyn» disse voltandosi e incontrando lo sguardo della sconosciuta. «La tua presenza è un enigma. Il motivo per cui sei spuntata dal nulla e nulla ricordi è un ulteriore mistero, e dire che questi occhi stanchi ne hanno visto di stranezze» esitò, come per scegliere le parole da usare. «Per ora sei stanca, e non voglio infierire con le mille domande che mi ronzano in testa, ma appena ti sarai ripresa ho intenzione di capire qualcosa di più» Alyn fu presa da un leggero timore. La bocca di Sal continuava a sorridere, ma negli occhi trapelava una determinazione ferrea. «D’altro canto probabilmente anche tu vorrai indagare su questi misteri. Per cui appena sarai in grado di viaggiare lasceremo questa casa. Ma adesso sto correndo un po’ troppo» disse notando l’inquietudine prodotta dalle sue parole.
«Perdona questo vecchio, e pensa a riposare» concluse rimettendosi a cucinare.
In poco tempo il pranzo fu pronto e Sal riempì delle ciotole con la zuppa.
«Vivi in questo bosco da molto tempo?» domandò Alyn dopo aver ingoiato un boccone di carne. Le parse molto buono, ma forse la fame le stava offuscando il giudizio.
«Non vivo qui, anche se questo bosco ha visto i miei migliori anni. Mi sembra passato un secolo da quando con Jorum vivevamo in questo posto incantevole» Sal prese una pipa da un cassetto e la riempì col tabacco.
«Jorum?» indagò Alyn.
«Il mio maestro, colui che mi ha insegnato il mestiere - anzi no, l’arte dell’erborista. Tutto ciò che sono lo devo a lui» accese la pipa e fece degli anelli di fumo.
«Era solito dire “solo a contatto con la natura più selvaggia l’uomo può sentirsi in pace con Dio, e in barba a tutti quei santoni in tunica che predicano nel nome del Drago e operano rituali di nessun valore”» Il sorriso che non aveva mai lasciato la faccia del vecchio divenne malinconico, lo sguardo perso in dolci ricordi. «Il rifugio l’abbiamo costruito assieme. Asse dopo asse, quando ero poco più che ragazzo. Se guardi a destra del camino troverai incisi due nomi. Jorum e Kensal. Il mio cuore non ha mai lasciato la foresta dell’Orso, e quando posso torno a rigenerarmi tra le fronde delle sue querce. Ma da quando Jorum è morto abito alla corte del Lord di Rocca dell’Orso» terminò infine.
Seguì qualche minuto di silenzio. Gli occhi di Sal fissati nel nulla guardavano immagini di giorni lontani.
Fu Alyn a rompere il silenzio, giocando con una ciocca dei capelli rossi per nascondere il nervosismo.
«Il Mènhudè…» Il vecchio distolse l’attenzione dai ricordi, e chiese «cosa?»
Alyn guardò il fuoco nel camino, poi continuò «dove si trova? È molto lontano da qui?»
«Pochi minuti a piedi. Quando ieri ti ho trovata ero appena uscito dal rifugio». La fissò, aspettando che continuasse. Poi chiese «vorresti vederlo?» Alyn alzò gli occhi verdi a incontrare quelli miele del vecchio. Trasparivano tutta l’agitazione e il timore della donna, e da quello scambio di sguardi si abbeverò alla placida sicurezza che emanava l’espressione di Sal. «Si» disse dopo qualche secondo di esitazione. Sal sorrise, prese un fungo dalla ciotola che gli stava davanti. Quando ebbe deglutito la guardò e rispose «va bene, dopo mangiato andremo. Chissà, magari ti aiuterà a ricordare»
 
Era rimasto tutto il mattino nel tempio Celeste, alla penombra delle candele che proiettavano una fioca luce azzurrina. Lo sforzo aveva esaurito le sue energie, ma il Dio Drago non aveva risposto alle sue richieste, lasciandolo inginocchiato a invocare una visione o qualunque cosa potesse metterlo sulla retta via, segno inequivocabile di quanto l’avesse deluso con i suoi numerosi insuccessi. La frustrazione iniziale scatenò la sua ira, quindi arrivò il panico. Lentamente si risolse a uscire. Aveva molto su cui riflettere. «Dannato assassino!». L’imprecazione a denti stretti passò inosservata ai pochi fedeli che erano rimasti a pregare.
Uscendo salutò con un cenno del capo il sacrestano, e si diresse a passo lento verso le ampie porte a doppio battente. Le oltrepassò e rimase abbacinato dal riverbero del sole sul lastricato bianco della piazza. Si schermò gli occhi con la mano e scese i gradini del tempio, diretto alle stalle dell’Ordine.
Come da sua disposizione Alba era sellata e pronta. Ethan lo attendeva reggendo le redini della puledra bianca, con ai piedi lo zaino.
«Eccellenza, è sicuro di voler partire da solo?»
«Ne abbiamo già parlato, Ethan. L’ordine ha richiesto esplicitamente la tua presenza al tempio» Era un altro tasto dolente. All’inizio non aveva compreso il motivo di tale decisione, ma ora era tutto più chiaro.
Ora tutto quadrava. La scomparsa delle visioni era stato solo il primo segno rivelatore. Il suo Dio l’aveva escluso, tagliato fuori dallo stato di grazia degli Shangdìmà. Poi la ricerca dell’assassino era stata assegnata a sir Lucas da Lorath, detto il Demone Santo. Infine l’ordine lo aveva privato del suo servitore, il fedele Ethan. In tutto questo la pista che aveva fiutato l’ultimo mese l’aveva portato vicino come non mai. Tutto conduceva al bosco di Lohr, nella piana vicino alla Città Santa. “Così vicino al centro nevralgico dell’ordine” pensò Nicholas. Erano ormai due anni che dava la caccia a Leamor, due anni costellati di insuccessi. Di certo non poteva biasimare l’Ordine per la scelta di estrometterlo, non dopo che anche il suo Dio gli aveva voltato le spalle.
L’ex Shangdìmà abbracciò calorosamente Ethan, ripensando al profondo affetto che lo legava al suo sottoposto.
«Abbi cura di te»
«Anche lei, Eccellenza»
Si sciolse dall’abbraccio, prese le redini e si accomiatò.
Uscito dalle stalle montò Alba e la portò al passo. Il non aver ricevuto nessun altro incarico gli dava comunque un certo margine di libertà per agire - ovviamente fuori dall’ufficialità - e lui non aveva intenzione di rinunciare a conoscere la verità. Si sarebbe diretto a nord, seguendo la scia di efferati crimini. Avrebbe preso Leamor, e lo avrebbe consegnato al Tribunale Divino, rientrando così nelle grazie dell’Ordine e, cosa più importante, nelle grazie del suo Dio.
 
La struttura era imponente. La pietra verde risplendeva come uno smeraldo nei pochi punti in cui i raggi obliqui del sole la colpivano. Il caprifoglio che la ricopriva parzialmente emanava un intenso profumo, coi suoi fiori bianchi e rosa. L’aura di potere che emanava il Mènhudè era quasi palpabile, metteva soggezione. Alyn si avvicinò alla base, una piattaforma ottagonale raggiungibile da una scalinata di cinque gradini. Li salì e sfiorò una colonna liscia del diametro di cinque spanne. Come aveva anticipato Sal al tocco la superficie era tiepida. Le colonne, cinque in tutto, erano sormontate quindici piedi più in alto da altrettante travi che formavano un pentagono speculare al perimetro della piattaforma. Il centro della struttura era uno spazio vuoto. Sal stava in disparte, rispettando il desiderio di discrezione della donna. Dopo alcuni minuti Alyn si voltò e tornò accanto a Sal. «Allora?»
«Niente» fece lei sconsolata.
Sal annuì e fece strada verso il rifugio.
 
Il sole era quasi tramontato quando la porta si aprì e un uomo avvolto da un mantello verde entrò nel piccolo rifugio. Gettò sul tavolo due lepri, il bottino della sua giornata di caccia, e si tolse il mantello da sopra le spalle. Alyn trasalì vedendolo entrare, ma Sal salutò il nuovo arrivato con un cenno del capo.
«Finalmente la signora si è svegliata» disse parlando col vecchio ma guardando la ragazza. «era ora»
«Ned, non essere scortese. Alyn è nostra ospite»
«Alyn?» chiese con un cipiglio poco amichevole.
«Non ricordo il mio nome» sentì il bisogno di specificare, con voce tremante, la ragazza.
«E Sal ha usato tutta la sua fervida immaginazione per affibbiarti questo bel nome» concluse Ned.
Si avvicinò ad Alyn porgendole la mano, e disse «io sono Ned, e qualunque cosa ti abbia raccontato il vecchio sul mio conto sappi che non corrisponde a verità»
«Piacere» rispose incerta stringendogli la mano.
L’uomo era alto, spalle larghe, capelli neri lunghi e occhi castani. Indossava una giacca di cuoio e delle braghe nere, e in vita portava un cinturone con appesa una spada. Il volto era segnato da una cicatrice che, partendo dalla tempia destra, scendeva fino all’orecchio. Sorrise, ma gli occhi rimasero freddi. Poi prese una ciotola, si versò un po’ di zuppa messa precedentemente a scaldare da Sal e si sedette a mangiare.
«Non ricordi proprio nulla?» indagò tra un boccone e l’altro.
«Niente di niente»
«Sembra che i tuoi ricordi siano scomparsi assieme a quelle cicatrici».
Sal lo fulminò con un’occhiata.
«Quali cicatrici?» chiese Alyn guardando ora l’uno ora l’altro.
«Non glie lo hai detto?» sembrava realmente stupito.
«Alyn si è svegliata solo oggi», si giustificò Sal, «ha subito troppe emozioni per un giorno solo»
«Quali cicatrici?» chiese di nuovo.
«Non dovresti nasconderle le cose, soprattutto se la riguardano» lo rimbeccò con sarcasmo.
«Io non le ho nascosto niente, certe cose…»
«Quali cicatrici?» urlò Alyn in preda all’ira. La vista le si annebbiò. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì non era più nel rifugio. Un vento gelido scuoteva l'alberello rinsecchito che aveva di fronte, minacciando di sradicarlo ad ogni folata. Si guardò intorno. Era in cima ad una scogliera a strapiombo su un mare in tempesta. Si accorse che stava piovendo a dirotto, ma le gocce di pioggia non la bagnavano. Riconobbe a un centinaio di passi una struttura simile al  Mènhudè. Una figura incappucciata al centro della pedana le voltava la schiena, e sembrava stesse armeggiando con qualcosa. Con passo incerto si avvicinò. Salì i gradini verdi e si portò alle spalle dell'uomo. A quella distanza sentì un pianto disperato che stentava a superare la furia del vento. Un pianto di donna. Ma si sentiva qualcos'altro. Alyn tese l'orecchio. Tremando riconobbe una voce di bambino. Si affacciò da sopra la spalla dell'uomo, e inorridì. Una donna con in braccio un bambino di non più di due anni. Lo teneva fermo mentre l'uomo, con un pugnale rituale, tracciava strani simboli insanguinati sul corpo del bimbo. Seguì per ciò che le parve un'eternità la traiettoria del coltello, che prese a brillare, dapprima fiocamente, poi sempre di più ad ogni solco che scavava nella tenera pelle. La donna implorava in una lingua a lei incomprensibile, ma continuava a tenere fermo il bambino in quel terribile rituale. Un ultimo fendente recise da parte a parte la gola del bambino, continuando su quella della donna. Rossi spruzzi caldi schizzarono sull'uomo e attraverso Alyn mentre i due crollavano a terra. Un sibilo in alto la distolse dal macabro  spettacolo. Alzò gli occhi e vide una spada dorata risplendere, poi creparsi e cadere in mille pezzi. L'uomo urlò qualcosa, ma la voce si strozzò in gola. Alyn vide che stava mutando, crescendo, e che la stava osservando. Gli occhi indemoniati della creatura che era stata l'uomo incappucciato le stavano frugando fin dentro l'anima, facendola sentire nuda e inerme. Occhi rossi, profonde pozze di lava. Occhi di un demone.
Riaprì gli occhi.
Era tornata al rifugio, e Sal la stava abbracciando.

 Sal e Ned si ritrovarono a terra senza sapere cosa li avesse colpiti. Quando la guardarono l’ira aveva lasciato il posto alla paura. Si accasciò e incominciò a singhiozzare. Attorno a loro il mobilio era sottosopra e il vetro della finestra era rotto. Ned si alzò lentamente, cercando di capire se si fosse rotto qualche osso. Sal lo imitò, si avvicinò alla ragazza e la abbracciò.
«Cosa sono?» chiese tra i singhiozzi.
«Lo scopriremo, bambina mia» sussurrò, «lo scopriremo».






Ho aggiornato la pagina per una moodifica. Scusate ma era necessario inserirla ora.

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Capitolo 3
*** Il Bardo ***


Capitolo 3
Dall'esterno la locanda era apparsa incredibilmente chiassosa. Il silenzio che aveva seguito l'ingresso di Nicholas era risultato addirittura più assordante. “Non devono essere abituati ad avere viandanti a Borgo Alto” capì guardandosi attorno. Gli occhi degli avventori, un paio di dozzine, erano fissi su di lui con un'espressione che andava dal curioso all'ostile. Scelse un tavolo defilato sulla destra e si accomodò. Senza abbassare il cappuccio del mantello nero di pregiata fattura chiamò l'oste e chiese una birra scura speziata e un arrosto.
Gli altri avventori continuavano a lanciargli occhiate cariche di diffidenza, ma Nicholas sembrava non accorgersene nemmeno. Era solo di passaggio e non si sarebbe nemmeno fermato lì se la tempesta non fosse stata tanto vicina. “Una notte all’addiaccio sotto la pioggia è ben più di ciò che sono disposto a sopportare” pensò mentre attendeva la birra. Ripercorse gli ultimi giorni. Da quando aveva lasciato Lancia del Cielo, appena quattro giorni prima, il viaggio era stato addirittura piacevole. La primavera sembrava aver deciso di far capolino in anticipo, e le temperature miti avevano permesso un’andatura sostenuta. L’istinto gli aveva suggerito di tenersi lontano dalla Via Santa. Forse era a causa degli eventi che l’avevano travolto, ma al pensiero di seguire la strada diretta per Lhor si era sentito maledettamente a disaggio.
«Pensa di trattenersi a lungo?» La domanda lo distrasse dal suo rimuginare. Alzò gli occhi celesti incontrando quelli del locandiere. In mano reggeva un vassoio con alcuni boccali. Lo posò.
«Qui a Borgo Alto, intendo». La domanda apparentemente disinteressata tradiva una velata apprensione. Evidentemente anche l'oste non era abituato ai viaggiatori. «Mi serve una stanza per la notte» Rispose Nicholas.
Il locandiere tentò di nascondere il proprio disappunto per l’elusività della risposta.
«Abbiamo una stanza libera» concesse posando la pinta sul tavolo.
Esitò. Fece per dire qualcosa, poi ci ripensò. Riprese il vassoio e si diresse a un altro tavolo. Nicholas si guardò intorno. Gli altri avventori erano tornati a chiacchierare tra di loro, ma lui sospettava di essere diventato l’argomento principale di conversazione della locanda. In tutto contò cinque tavoli oltre il suo, tutti occupati da gruppi di persone che chiacchieravano a voce alta. Tranne un tavolo in fondo, avvolto nella penombra, dove stava seduto un vecchio. Gli occhi malinconici fissi nel vuoto. Una mano reggeva un boccale di birra, l’altra il mento. Sembrava anch’egli un forestiero. L’oste portò l’arrosto.

Il vociare allegro era cessato quando l’ultimo gruppo di uomini, dopo aver lanciato l’ennesimo sguardo a Nicholas e al vecchio, aveva lasciato la locanda. Nicholas stava sorseggiando un liquore offertogli dal locandiere. La diffidenza iniziale era stata presto sostituita da una genuina curiosità, e Nicholas era disposto a condividere con lui le notizie che fuori da quel posto dimenticato da Dio erano di dominio pubblico. Il vecchio sedeva da solo ad un tavolo. La barba incorniciava un volto spigoloso, ma i lineamenti duri erano mitigati dall’ubriacatura. Solo e in silenzio osservava un punto di fronte a se. In mano l’ennesimo boccale di birra scura. Lì vicino il locandiere posizionò l’ultima sedia, quindi guardò il vecchio con un cipiglio evidente. Si avvicinò.
«Sempre la stessa storia» bofonchiò.
«Se gli affari mi andassero meglio ti avrei buttato fuori il primo giorno» borbottò a bassa voce. Poco più in là Ester, la moglie, lo guardò con disprezzo. Il vecchio era alto e robusto, non esattamente una piuma. Però pagava, e tanto bastava. Il giorno prima aveva consigliato al marito di derubarlo e buttarlo fuori. “Tanto prima o poi finirà per bersi tutto ciò che ha” aveva detto, “e tu ti sarai rotto la schiena a furia di trascinarlo”. Era pragmatica lei. Non come quel rammollito senza spina dorsale di suo marito, che infatti non se l’era sentita di seguire il suggerimento. In fin dei conti la schiena era sua. Se voleva rompersela trascinando su per le scale quell’ubriacone a lei non interessava.
Il locandiere si apprestò a prenderlo e a caricarselo sulla schiena, quando il vecchio si alzò. Barcollò. Si appoggiò al tavolo e riprese l’equilibrio.
«So di essere solo un peso per te, buon uomo» l’apostrofò. Evidentemente era meno ubriaco del solito. «Mi dispiace che tu ti sia sobbarcato il peso di questo vecchio corpo. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui questo vecchio era un ragazzo dalla schiena dritta. Re e saggi chiedevano i miei servigi, restando incantati ad ascoltare la mia voce». Nicholas lo guardò interessato. Il locandiere fu meno colpito e lo guardò in tralice. Infine disse «Bene, se ti reggi sulle gambe stasera puoi salire anche da solo». Girò sui tacchi e raggiunse la moglie. Il vecchio si scolò l’ultimo sorso di birra, si asciugò con la manica e si diresse con passo malfermo verso il tavolo di Nicholas.
«Permetti a questo vecchio di sedere e condividere qualche storia con te?»
Nicholas sorrise. Indicò una sedia vuota al vecchio che si sedette.
«La storia che mi accingo a narrare mette le sue radici nella leggenda, nell'epoca degli eroi, quando ancora il mondo non era pienamente formato». L’alito puzzava terribilmente di alcol, ma la semplice frase pronunciata dal vecchio fu sufficiente a fargli ignorare questo piccolo particolare. Lui la conosceva. L’aveva studiata su alcuni tomi antichi, ma mai avrebbe immaginato di sentirla recitare. Il vecchio continuò. «Era il regno del terrore, governato dai cinque Re Demoni, immortali e invincibili, che avevano soggiogato i precedenti regni degli Antichi e dei Kraad». Un brivido corse lungo la schiena di Nicholas. Era la magia insita nel racconto – lui lo sapeva – a risvegliare i suoi sensi. Chiuse gli occhi e la mente si riempì di immagini. I demoni erano lì di fronte a lui. I corpi mostruosi gli si lanciavano contro. D’istinto portò la mano sull’elsa sella spada che teneva al fianco. «In quel periodo nessun piede di uomo aveva ancora calpestato il suolo del Kejnar e il Confine non esisteva. Venne il giorno in cui fu forgiata un'alleanza tra Kraad e Antichi, in cui gli Dei, mossi a compassione per le sorti dei loro figli, diedero all'alleanza le cinque armi divine, forgiate dal dolore dei popoli. Nacquero i cinque prescelti, figli del Drago Creatore, re ed eroi, che guidarono l'alleanza contro i Re Demoni. Riuscirono a esiliare al di fuori del Kejnar il regno demoniaco e a sigillare cinque volte il portale, ponendo fine all'era del fuoco e dando inizio all'era dell'oro». Le immagini delle battaglie, col loro carico di terrore, fluivano nella mente di Nicholas. La fronte imperlata di sudore. Il pugno stretto con forza sull’elsa. «Oramai di tutto questo non rimane che un vago ricordo avvolto nella leggenda, e solo in pochi credono ancora che sia realmente accaduto. Ma alcuni ricordano ancora: Ilmer, il re dimenticato, che dal suo trono sul monte Daqur vigila in attesa. E Valin, la Spada Spezzata, che dalla foresta di Karith vive dal giorno in cui fu rinchiuso l'ultimo Re Demone, a guardia del sigillo. Questo è ciò che mi raccontò mio padre, che aveva saputo da suo padre, e così fin dall'alba dei tempi, perché siamo i Bardi del Dio Drago, e serbare le memorie è il nostro compito». Con le ultime parole il cerchio si chiuse.
Le immagini sfocarono.
Nicholas riaprì gli occhi. Si alzò tremante. Vacillò e ricadde sulla sedia. Il vecchio era davanti a lui e lo guardava sorridendo, gli occhi rigati di lacrime. «Alfine ti ho trovato» La voce non era più distorta dall’alcol. Nicholas sentì che il dolore alla schiena era cessato. Ma quando era cominciato? Non seppe dirlo con certezza. Non se ne era neanche accorto, perso nell’incantesimo del vecchio. «La cerca è finita. Alfine ti ho trovato» ripeté il vecchio senza riuscire a fermare le lacrime. Allungò una mano a sfiorare il volto di Nicholas.
«Mio giovane drago»
 
«Non avevo intenzione di nascondertelo» la voce di Sal trasudava amarezza. «Non volevo turbarti più di quanto non lo fossi già».
Alyn piangeva sommessamente, cercando il conforto delle braccia del vecchio.
«Te la senti di ascoltare adesso» sussurrò.
Alyn alzò gli occhi ad incontrare quelli di Sal. Erano velati di tristezza, ma trasmettevano una grande forza. Come una solida roccia a cui aggrapparsi aspettando che la tempesta passi. E Alyn si aggrappò alla roccia.
«No»
Fu un sussurro. Sal annuì, continuando a tenerla in un tenero abbraccio.
«Quando sarai pronta me lo dirai, bimba mia».

Nicholas prese un sorso di birra, quindi alzò lo sguardo a incontrare quello del vecchio - il Bardo del Dio Drago. Non riusciva a smettere di tremare. «Tu chi sei?» Il tono voleva essere perentorio, ma apparve incerto e titubante.
Il vecchio si asciugò le lacrime con la manica.
«Fino a poco fa ero solo un vecchio ubriacone» la voce rotta dal pianto commosso. «Ora sono di nuovo io. Ho uno scopo» Si guardò intorno, di colpo guardingo. L'oste era in cucina con la moglie, per il resto la locanda era vuota. «Non è prudente parlare qui. Vieni, saliamo in stanza».
Fece strada verso le scale. Nicholas esitò qualche secondo, poi decise di seguirlo. La stanza in cui lo fece accomodare era piccola, arredata in modo spartano. Fece segno a Nicholas verso l'unica sedia che c'era mentre lui si sedeva sul letto.
«Sono ancora scosso, erano anni che non mi succedeva» la voce era stanca, ma contemporaneamente eccitata. «Non credevo che avrei vissuto tanto da vederti. Le visioni, oh si, le visioni erano vere! Sono quasi impazzito ma ora eccoci qua!»
Il continuo farneticare del vecchio stava irritando l'ex Shangdìmà.
«Chi sei?» ripeté.
Il bardo si scosse. «Oh, hai ragione, non ti ho ancora risposto. Il mio nome è Dioskoros».
«Cosa è successo poco fa?»
«Un incanto del tempo che fu, la mia magia ha riconosciuto la tua e il canto ti ha mostrato ciò che dovevi sapere» Le mani di Dioskoros si muovevano in maniera febbrile, accompagnando ogni frase con una danza di dita che si intrecciavano o salivano ad accarezzare la barba.
«Ma tu questo lo sai già. Vero, giovane Drago?»
«Perché continui a chiamarmi “giovane Drago”?»
«Perché è quel che sei. L'incanto del tempo me l'ha mostrato. E l'incanto non sbaglia mai. Il tempo è maturo, il pericolo incombe e tu sei il predestinato, o meglio, uno dei predestinati. Dobbiamo muoverci velocemente!» gli occhi si muovevano febbrilmente, come in cerca di qualcosa.
«Ma di cosa stai parlando?! Muoverci? E per andare dove? E perché dovrei seguirti?» Nicholas non si capacitava di ciò che gli stava accadendo.
Dioskoros fermò la danza delle mani e gli puntò lo sguardo addosso.
«Mi dispiace, ti sto confondendo. Forse è meglio che cominci dal principio. Sono uno Shirènlong, un Bardo del Dio Drago. Credo di essere l'ultimo sopravvissuto alla persecuzione che gli Shangdìmà hanno perpetrato nei nostri confronti».
Nicholas tentò di dissimulare lo sgomento. Dioskoros continuò.
«dieci anni fa ebbi la prima visione, quella che mi salvò dalla cattura. Vidi un demone nero con in mano la spada santa che trucidava i miei fratelli. Seppi che stava venendo per sterminarci. Allora fuggii. Da allora le visioni mi hanno guidano, salvandomi la vita non so neanche io quante volte. Poi, tre mesi fa, sognai questo posto, e l'incontro con te. Cercai di trovare la locanda. Sono qui da dieci giorni. Avevo ormai perso le speranze, quando ti ho visto entrare. La certezza che eri la persona giusta me l'ha data la tua magia»
«Io non ho alcuna magia, sono solo un soldato del culto»
«So chi sei. Uno Shangdìmà privato della sua carica, umiliato senza motivo. Questo mi faceva temere per la mia vita. Ma ho seguito comunque le visioni. Tu non sei come gli altri. Non sei assetato di sangue»
Sempre più sconvolto Nicholas provò a dire qualcosa, ma si accorse di non sapere cosa dire. Lentamente tutto cominciava ad avere un senso, per quanto surreale. Dioskoros, in silenzio, aspettava una reazione.
«Ho bisogno di riflettere per conto mio».
Si alzò e uscì dalla stanza senza aspettare una risposta.

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