I've hidden the deepest secret

di valarmorghulis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le origini ***
Capitolo 2: *** Promesso ***
Capitolo 3: *** Hurt ***
Capitolo 4: *** Ghost ***
Capitolo 5: *** The plain truth ***
Capitolo 6: *** Connections ***
Capitolo 7: *** Welcome? ***
Capitolo 8: *** Compelled ***



Capitolo 1
*** Le origini ***


Ad un primo assordante colpo ne seguì un altro, e un altro ancora. Un tonfo sordo. Dio, la porta. Mi allontanai dall’ingresso principale trascinandomi dietro la gamba sanguinante come un corpo morto, avendo cura di soffocare le urla di dolore. Se mi avesse trovata, non sarei stata capace di difendermi una seconda volta. Fissai insistentemente l’armadio rovesciato che mi bloccava il passaggio impedendomi di raggiungere la fine del corridoio e quindi la camera da letto, la mia unica speranza di salvezza. Okay calma. Concentrazione.  Ma niente, quel dannato armadio non ne voleva sapere di spostarsi. Imprecando mentalmente deviai a sinistra verso il bagno degli ospiti, chiudendo la porta alle mie spalle. Per un attimo, in quei pochi istanti di silenzio, pensai di avercela fatta; è finita, se n’è andato. Poi sentii la porta del corridoio aprirsi, e subito dopo quella della cucina. Mi allontanai istintivamente dalla porta, consapevole che quella sarebbe stata la successiva ad essere aperta. Non provai nemmeno a nascondermi, perché le tracce di sangue lasciate dalla ferita aperta della mia gamba avrebbero rivelato la mia presenza in ogni caso, un macabro invito a nozze per lo psicopatico che evidentemente mi voleva morta.
Come previsto, la maniglia si abbassò. Quelle che seguirono furono una serie di fortunate coincidenze, di quelle che ti fanno pensare che se c’è veramente un Dio da qualche parte, deve per forza di cose averti in simpatia. Questo innanzitutto perché il ragazzo che aprì la porta strabuzzando gli occhi alla vista di una povera disgraziata terrorizzata e circondata dal suo stesso sangue non era lì per mettere la mia testa su una picca. Spalancò la porta senza dire una parola e mi prese in braccio per portarmi fuori dalla casa, ma l’ospite indesiderato era ritornato lì, a bloccarci il passaggio, le braccia incrociate e il sorriso sbilenco di chi sa già di averla vinta. Il tutto durò pochi secondi, il ragazzo che mi teneva in braccio si voltò di schiena stringendomi a sé, e tutto quello che riuscii a vedere fu fumo e polvere, il seguito di uno sparo e un rumore così forte da lasciare senza fiato.
E l’uomo era sparito, l’ingresso libero e la porta sfondata. Appoggiato allo stipite c’era un altro ragazzo, non molto alto, capelli castani, giacca in pelle marrone, pistola in mano e vestiti coperti di polvere, si limitò a darmi un’occhiata veloce e si girò. Mi portarono in una macchina e mi adagiarono sul sedile posteriore; l’ultima cosa che ricordo è il rombo del motore accompagnato dalle note di “The Unforgiven” dei Metallica.

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Capitolo 2
*** Promesso ***


 Portsmouth, Virginia;  8:45 A.M.
Appena aprii gli occhi fui investita da un forte odore di disinfettante. Mi girai a fatica sul fianco destro ancora dolorante, evitando accuratamente di toccare o tirare i tanti fili che erano collegati alle mie braccia, al collo e al torace. Un nastro di luce penetrava dalle persiane abbassate della piccola finestra situata sulla parete opposta a dove mi trovavo io. Era giorno. Da quanto tempo ero lì? Capii subito dove mi trovavo, era il piccolo ospedale che si trovava nella periferia di Portsmouth; quello che non capivo era il perché mi trovassi lì. Spostai lentamente le pesanti coperte di lana marrone che mi avvolgevano e provai ad alzarmi, prima la gamba sana e poi quella fasciata. Stranamente non avvertii alcun dolore quando la poggiai a terra. Comunque non feci in tempo a fare neanche mezzo passo perché mi si piazzò immediatamente davanti un’infermiera robusta e dall’aria severa, che mi rimproverò per la mia incoscienza.
“Signorina, non dovrebbe nemmeno passarle per la testa di muoversi da questo letto. Per qualsiasi cosa io sono disponibile, deve solo chiamarmi, ma al momento ha bisogno di riposo assoluto.”
“Certamente,  mi scusi” ritornai rassegnata sotto le coperte “è che non riesco proprio a ricordare come sono arrivata qui, e speravo che qualcuno mi potesse rinfrescare la memoria”
L’infermiera cambiò espressione per tre volte nel giro di pochi secondi; severa, dolce e comprensiva, e infine preoccupata. “Credo sia normale, probabilmente è dovuto agli antidolorifici che le sono stati somministrati nelle ultime ore. Lei è sorprendentemente forte per essere così giovane. Posso darti del tu?” annuii. “Ad ogni modo, ci è stato segnalato un tentativo di rapina domestica andata a finire male. I tuoi vicini di casa, i signori.. uhm..” estrasse un foglietto spiegazzato dalla tasca “ah sì, erano i ragazzi che non hanno voluto lasciarci i loro nomi. Ecco, loro hanno sentito dei rumori in casa tua, hanno deciso di controllare e ti hanno trovata svenuta da qualche parte con delle brutte ferite e ti hanno portata qui. Ah, e ci hanno chiesto di avvisarti che sarebbero venuti oggi a farti visita.”
Vicini di casa? Vicino a me abitavano solo una vedova anziana e una giovane coppia senza figli. Decisi di non indagare oltre, avrei aspettato di vederli con i miei occhi.
“Bene” riprese l’infermiera “diamo una controllata a questi brutti tagli, speriamo che non abbiano fatto infezione, erano davvero profondi!” mi toglieva le bende mentre diceva questo e raccontava alcuni aneddoti sui suoi figli e suo marito, ma io ero troppo concentrata sulla mia gamba per ascoltarla. Se la ferita era davvero così profonda, perché non sentivo dolore? Mentre toglieva l’ultimo strato di bende insanguinate, Alana, così aveva detto di chiamarsi, si bloccò di colpo. La mia gamba era come nuova. Niente sangue, niente cicatrici, niente lividi, niente di niente.
“Cavolo. Avrei giurato che ci fosse una ferita bella profonda proprio qui, l’ho disinfettata io stessa. Vado a prendere la cartella medica, aspettami qui”, disse, uscendo in fretta dalla stanza. Certo, pensai, come se avessi potuto andarmene.
Fissavo la mia gamba nuda, percorsa da brividi di freddo, che sembrava gialla a causa della luce che proveniva dal corridoio, quando un’ombra la oscurò. C’erano due ragazzi sulla soglia.
“Ciao Cristina”, mi disse il primo, il più basso dei due, sorridendo. E con un perfetto accento italiano, tra l’altro. Perché sapevano il mio nome? E perché parlavano come se mi conoscessero da una vita? Neanche fossimo stati amici di infanzia.
Non risposi, e loro si avvicinarono. Okay calma, pensai, per qualsiasi problema posso sempre chiamare Alana. Ma i due ragazzi non mi toccarono e restarono sempre a mezzo metro di distanza da me.
“Non ti ricordi niente, non è così? E’ per questo che ci fissi con quell’aria smarrita?” pronunciò le ultime parole palesemente irritato, al che l’altro ragazzo, occhi chiari e capelli lunghi, gli mise una mano sulla spalla e lo invitò a farsi da parte, e a sua volta si avvicinò al letto. Aveva un’espressione dolce, comprensiva, che mi convinse con un tacito accordo a mettere da parte la mia diffidenza.
“Perché sapete come mi chiamo? Io non so chi siete. E perché siete qui? Non vi conosco. Non vi ho mai visti prima. Siete voi che mi avete portata qui, vero? Come vi chiamate?”
“Ehi ehi quante domande” rispose sorridendo il ragazzo, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Io sono Samuel e lui è mio fratello Dean. Risponderemo con calma a tutte le tue domande, promesso, ma devi venire via con noi oggi stesso”

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Capitolo 3
*** Hurt ***


Chesapeake, Virginia;  6:25 P.M.
La stanza aveva un odore di chiuso terribile, come se le finestre non fossero mai state aperte, e ad ogni passo una nuvola di polvere lasciava la moquette beige scolorita per posarsi sul tavolino dagli angoli consumati o sui letti sfatti. Tipico motel da pochi soldi, pensai, ed è già tanto che io ci sia arrivata sana e salva.
Eravamo partiti all’ora di pranzo dopo aver mangiato un panino al volo, e mi ero dovuta subire ore e ore di guida spericolata e musica ad un volume al limite del sopportabile. Ebbene sì, non si sa bene per quale motivo, ma avevo deciso di seguire due ragazzi sbucati dal nulla, con documenti falsi e dei quali sapevo solo i nomi. Se ero pazza? Sì, decisamente.
“Non preoccuparti per i vestiti e il resto. Manderemo qualcuno al più presto a casa tua a recuperarli”. Samuel era in piedi accanto a me, e stava sfogliando un vecchio diario con la copertina marrone, e sembrava parlare più con sé stesso che con me.
“Ma perché qualcuno? Non posso andarci io? Non potevamo andarci tutti prima di venire qui?”
Alzò gli occhi dal diario, inarcando un sopracciglio nella mia direzione. “In realtà no”. Mentre si allontanava tenendo lo sguardo fisso sul diario, lo fermai, irritata.
“Samuel!”
“Sam, solo Sam.”
“Sì, ovviamente. Ma invece di rispondermi a monosillabi, potresti almeno provare a spiegarmi che cavolo sta succedendo?”
“Diciamo che è complicato. Non eri al sicuro a Portsmouth”
“Non ero al sicuro nella mia città e nella mia stessa casa. Ah, forse è per questo che sono partita senza un soldo con due perfetti sconosciuti per una meta ancora da decidere”
“Solo.. aspetta, okay? Dacci un po’ di tempo”
Certo, tutto il tempo che vuoi. Appena vidi entrare Dean tentai una fuga in bagno senza dare troppo nell’occhio, ma ovviamente il tentativo fu del tutto vano.
“Credo che sia il momento di farci una bella chiacchierata”. Mi girai verso di lui. Si era seduto sul tavolino, gambe incrociate e sorriso amichevole, era tanto spavaldo quanto Sam era timido. Se non l’avessi saputo per certo, non avrei mai detto che fossero fratelli, nemmeno parenti alla lontana a dire la verità. Mi fece cenno di sedermi sul letto, e Sam lo raggiunse sul tavolino.
“Allora, partiamo con una domanda facile facile. Sei sicura di non averci mai visti prima?”
“Sicurissima. Cioè, almeno, non che io ricordi”
“Ecco il problema. Non ricorda. Perché diamine non ricorda?” disse rivolto al fratello, sfogliando velocemente il diario che gli aveva appena strappato di mano. “Fammi vedere la gamba”
“Scusa?” per un attimo credetti di aver capito male.
“Ho detto, fammi vedere la gamba” ripeté Dean, questa volta scandendo le parole.
“Ce n’era una anche sul collo” gli fece notare Sam.
“Ma non ha niente sul collo”
“Appunto”
Cercavo di seguire la conversazione, ma in realtà mi sembrava solo un battibecco tra due pazzi, senza un filo logico.
“Ma di cosa state parlando esattamente?”
“Quando ti abbiamo trovata, avevi delle ferite profonde su tutto il corpo e in particolare sulla gamba, sembravano graffi e segni di denti, ma sono spariti”. Notai che Sam evitava, volontariamente o no, di guardarmi negli occhi mentre parlava.
Senza dire una parola, Dean scese dal tavolo, estrasse qualcosa dall’interno della giacca e venne verso di me. Mi prese la mano e prima che riuscissi a realizzare che cosa stesse succedendo, mi ritrovai con un taglio sanguinante sul palmo, causato da quello che sembrava un coltellino svizzero.
“Ma sei impazzito?! Pensi di poter..” sentii per la prima volta Sam alzare la voce. Ma prima che avesse il tempo di terminare la frase, il taglio era già sparito senza lasciare alcuna traccia. Notai le espressioni incredule di entrambi.
“Forse qualcosa la rende immune al dolore e le permette di auto guarirsi, come.. non lo so.. una specie di anticorpi” bisbigliò Sam.
Dean non sembrava convinto. “O forse qualcuno o qualcosa la vuole proteggere”

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Capitolo 4
*** Ghost ***


Norfolk, Virginia;  6:30 A.M.
“Ma perché non uscite dalla stanza per fare le vostre chiacchierate mattutine?” borbottai, nascondendo ancora di più la faccia sotto il cuscino. Erano le sei e mezza del mattino e Dean, con la voce ancora impastata dal sonno, occhiaie e capelli arruffati, stava parlando ininterrottamente con il fratello da più di un’ora.
“Ci piacerebbe poterlo fare, davvero” mi rispose serio, “ma non ti lasceremo da sola neanche per un minuto”
“Se pensate che vi ringrazierò per questo..”
Mi arresi e decisi di alzarmi e fare colazione perché tanto non avevo alcuna speranza di poter dormire un secondo di più. Sam mi offrì il caffè ormai freddo e fece scivolare sul tavolo nella mia direzione un enorme pacchetto di biscotti.
“Mangia in fretta” disse all’improvviso Dean, alzando gli occhi dal portatile, “partiamo tra un quarto d’ora”. E ti pareva, il solito guastafeste.
“Dov’è successo?” chiese Sam, sbirciando lo schermo del portatile.
“Hampton, ieri notte.”
“Hampton, ma fate sul serio?” sbuffai “E questa volta mi è concesso almeno di sapere il perché?”
“Lo scoprirai sul posto” tagliò corto Dean, cominciando a raccogliere i suoi vestiti sparsi per la camera e metterli alla rinfusa in un borsone.
Il viaggio durò poco più di mezz’ora, e più ci avvicinavamo alla meta, più il mal di testa che mi portavo dietro da Norfolk cresceva di intensità. Diedi la colpa alle poche ore di sonno della notte precedente. Mi ero appena addormentata con la faccia appoggiata al finestrino, quando la macchina si fermò bruscamente. Eravamo ai confini della città, giusto di fronte a un campo con erba che cresceva a zolle e un fiumiciattolo che lo tagliava longitudinalmente.
“Un campo. Siamo partiti per vedere un campo?”
“Un campo”, ripeté Dean, senza neanche prestarmi attenzione.
“Crede che sia successo qualcosa nelle vicinanze” mi spiegò Sam, calmo. “siamo qui per vederlo con i nostri occhi”
“Qualcosa tipo una festa? Un concerto?”, per tutta risposta, mi sorrise e cominciò a dare indicazioni al fratello che lo assecondava con delle manovre improbabili muovendosi in quella che aveva tutta l’aria di essere una proprietà privata. Si fermò solo quando un nastro segnaletico della polizia gli sbarrò la strada.
“Eccoci arrivati!” esclamò contento come se avesse appena trovato un tesoro. Prima di avere il tempo per protestare, scese dalla macchina e mi aprì la portiera con un gesto teatrale, invitandomi a scendere.
Ma appena appoggiai il piede a terra ebbi una fitta alla testa così forte da costringermi a rimanere immobile per qualche secondo, con la fronte premuta sulle ginocchia. Mi ci vollero diversi minuti per riprendermi e convincere Sam e Dean che stavo bene e che si trattava di un semplice mal di testa. Oltrepassammo la segnaletica della polizia senza farci vedere, ci incamminammo verso una specie di boschetto e non molto più avanti ci trovammo davanti a uno spiazzo ampio e di forma circolare, l’unico senza né alberi né erba.
“Resta qui” mi ordinò Sam con aria preoccupata e una punta di durezza nella voce. Mi sedetti per terra su una pietra piatta e osservai i due fratelli allontanarsi fissando il terreno e guardandosi intorno, come se stessero cercando qualcosa. Aspettai per quello che mi sembrò un tempo infinito, finché finalmente vidi in lontananza alla mia sinistra una persona che veniva verso di me, e aveva tutta l’aria di essere Dean.
“Comunque potevate almeno lasciarmi qualcosa da mangiare, sto morendo di fame qui”, non rispose. “Sì, sto parlando con te, non far finta di non sentire” dissi, questa volta a voce più alta. All’improvviso Sam e Dean saltarono fuori da dietro un cespuglio che si trovava a una decina di metri da me, e corsero nella mia direzione. “Oh Dean che imbarazzo! Credendo che fossi tu, ho appena detto a quel ragazzo” dissi, indicando a sinistra. Ma a sinistra non c’era nessuno. “Io credevo di aver visto una..”
“Una cosa? Cos’hai visto?” mi incalzò Dean
“Hey, calma. Una persona, ecco cosa credevo di aver visto.” Guardavo i due fratelli, ma era evidente che loro non stavano guardando me. Fissavano entrambi qualcosa alle mie spalle, con aria sorpresa e leggermente spaventata. Prima di girarmi, vidi Sam estrarre qualcosa dalla tasca interna della giacca. Dietro di me c’erano un ragazzo e una ragazza, entrambi di all’incirca vent’anni, che fissavano Sam e Dean. Evidentemente però io attirai la loro attenzione più dei miei compagni di viaggio. Mi fissarono per pochi istanti con espressione attonita, come se avessero appena visto un fantasma, e poi la ragazza farfugliò qualcosa in una lingua che non conoscevo, e un istante dopo erano spariti, lasciandomi con un dolore lancinante alla testa.
“Vampiri?”, bisbigliò Sam al fratello.
“Vampiri.”

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Capitolo 5
*** The plain truth ***


Franklin; Virginia
Il viaggio di ritorno da Norfolk fu penoso e incredibilmente lungo. Nessuno disse una parola su quello che era successo, lasciandomi da sola a sbrogliare il complicato intreccio di vicende che si erano susseguite nel corso della mattinata. Mentre giocherellavo con uno dei tanti braccialetti che portavo al polso destro, in particolare quello che, a detta dei miei genitori adottivi, mi era stato regalato da mia nonna – quella vera – il giorno in cui ero venuta al mondo, rividi mentalmente i volti di quei due strani individui che mi avevano guardata con aria incredula. Volti scarni, pallidi, ma in qualche modo.. familiari. Mi sembrò tutto un surreale déjà vu, come quando fai dei sogni così realistici da convincerti di averli vissuti nella vita reale. Non mi resi conto del tempo che passava fino a quando Dean parcheggiò la macchina. Periferia dimenticata di una città sconosciuta, motel scadente a buon prezzo e apparentemente nessuna anima viva nel raggio di diversi chilometri. In perfetto stile Winchester, pensai, mentre recuperavo li mio borsone dal bagagliaio della macchina. Inaspettatamente, subito dopo Dean fece ripartire la macchina, allontanandosi dal motel nella direzione opposta rispetto a quella da dove eravamo venuti, lasciando me e Sam, bagagli in mano e aria smarrita, da soli di fronte all’ingresso. “Ha detto che sarebbe andato a prendere qualcosa da mangiare”, mi spiegò Sam, dirigendosi verso la reception dopo essersi assicurato che lo stessi seguendo “tornerà a breve”. Mi resi conto solo in quel momento di avere lo stomaco completamente vuoto. Sam chiese le chiavi della stanza alla receptionist, la quale sembrò lieta di aver trovato finalmente qualcuno con cui fare due chiacchiere.
La stanza sembrava buia, più per il colore scuro delle pareti e delle pesanti tende di velluto verde smeraldo che per la poca luce che filtrava attraverso le imposte chiuse delle due finestre. La camera era collegata ad un piccolo bagno, e con mio grande sollievo, ad un cucinino. Anche Sam se ne accorse, e fu proprio quella la sua prima meta. “Caffè?” mi chiese, con un tono di voce più alto del necessario. “Senza latte e con lo zucchero, grazie”, gli risposi, mentre lottavo con le imposte delle finestre nel tentativo di aprirle. Poco dopo Sam ritornò con due tazzine appoggiate sul coperchio di una pentola, utilizzato come vassoio di fortuna, e le appoggiò sul tavolino accanto a uno dei tre letti.
“Il buio fa più atmosfera” mi disse senza guardarmi, mescolando il suo caffè.
Abbandonai momentaneamente la mia impresa e mi avvicinai a lui. “Beh sì, se ti piace l’idea di ricreare un ambiente in perfetto stile Shining”
“Dean ti direbbe di lasciare le imposte chiuse, se fosse qui”
“Beh certo, ovviamente. Non gli va mai bene niente di quello che faccio”. Il primo sorso di caffè mi scottò la lingua. “Sai, non credo di andargli molto a genio”
“Cosa te lo fa pensare?” mi chiese, improvvisamente serio.
“Fai questo, non fare quello, stai zitta, muoviti, non capisci niente..” dissi scimmiottando la voce di Dean. “Ti ricorda qualcosa?”
Sorrise. “Fantastica imitazione, hai talento”, finalmente mi guardò negli occhi e fece un respiro profondo prima di ricominciare a parlare. “Ogni tanto le persone si comportano in un certo modo, che magari a noi può sembrare strano, o maleducato, per un motivo. Alcune hanno semplicemente pa..”
In quell’istante persi la presa sulla tazzina, che mi scivolò dalle mani e cadde. Riuscii a fermarla un secondo prima che toccasse il pavimento, e la feci ritornare tra le mie mani. Il tutto senza muovere un muscolo. Sam, che aveva prontamente allungato il braccio per prendere la tazzina al volo, lo ritrasse bruscamente, continuando a fissare il punto del pavimento in cui la tazzina sarebbe dovuta finire in mille pezzi, e borbottando qualcosa che mi sembrò essere un “ma tu..”.
“Ma come diavolo…?” cominciò, spostando nuovamente lo sguardo su di me. “Cioè, voglio dire, non me lo sono immaginato. Vero? Hai.. L’hai presa. E non ti sei mossa. Ti è tornata in mano come.. non lo so, una calamita”. La sua solita espressione complice si era trasformata in una maschera di stupore.
Avevo compiuto quel gesto centinaia di volte prima di quel giorno. Avevo salvato piatti che altrimenti sarebbero andati distrutti, spostato oggetti più o meno grandi senza muovere un dito e mi ero mossa senza fare alcuno sforzo fisico. Il tutto semplicemente pensando alle cose che avrei voluto veder succedere. “Pensavo di non esserne più capace” risposi, quasi vergognandomi di non averglielo detto prima.
“Capace? Vuol dire che l’hai già fatto in precedenza? E perché non ce l’hai detto?”
“Sì” ammisi, rigirandomi la tazzina tra le mani. “E non ve l’ho detto perché avevo paura di essere presa per pazza. Credevo comunque di non esserne più capace, perché.. ti ricordi il giorno in cui mi avete trovata?”
Sam annuì, rievocando mentalmente il momento.
“Ecco, quel giorno avevo provato a spostare un armadio che era caduto a terra e mi bloccava il passaggio per la camera da letto, dove mi sarei potuta nascondere. Ma non ci sono riuscita, e da allora non ci ho più provato”
Sam sembrava sul punto di farmi un’altra domanda, quando Dean entrò nella stanza con il nostro pranzo. “Dean, non immagini nemmeno cosa abbiamo qui” disse al fratello, sfiorandomi la mano con la punta delle dita.

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Capitolo 6
*** Connections ***


Franklin; Virginia
Il risveglio non fu dei migliori. Mi guardai allo specchio, passandomi le dita tra i folti capelli biondo scuro, che erano sempre troppo dritti e disordinati. Studiai con attenzione le occhiaie scure che erano ormai diventate una presenza costante sotto  miei occhi. Notai che le lentiggini si erano moltiplicate a vista d'occhio negli ultimi giorni. Ero anche meno carina del solito, pensai, perché sì, io ero sempre quella "carina", mai quella bella. Non bassa ma neanche alta, non grassa ma certamente non magra. Ero sempre stata la via di mezzo, perfetta per quando non c'era di meglio in giro. Mi sforzai di distogliere lo sguardo dallo specchio e mi scrollai di dosso quei pensieri; quello che conta è l'opinione che hai di te stessa, e nient'altro, pensai.
Sam e Dean erano stati svegli tutta la notte a fare ricerche al pc e avevano insistito perché almeno io andassi a letto. Peccato che mentre cercavo di dormire loro erano proprio lì vicino a me, borbottando e discutendo di cose assurde con quelle loro voci profonde. Risultato: io non avevo dormito, loro non avevano dormito, e avremmo dovuto lasciare il motel in mattinata in ogni caso. La destinazione successiva, a detta di Sam, era la piccola città di Mystic Falls, a sud di Charlottesville.
Durante il tragitto Sam mi mostrò alcune foto di persone che, secondo lui, avrei dovuto conoscere, ma che a me non risultarono per niente familiari. Riconobbi tuttavia il ragazzo che avevo visto a Norfolk e che mi aveva squadrata dalla testa ai piedi con espressione inorridita. Giovane, sulla ventina, capelli neri e occhi azzurri e penetranti, sguardo intenso e espressione arrogante. Subito dopo Sam mi mostrò la foto della ragazza che era con lui a Norfolk. Bionda, carina e anche lei molto giovane.
Tuttavia Sam e Dean insistevano con la foto di un altro ragazzo, anch'esso sulla ventina, ma molto diverso dal primo. Ad essere sincera vederlo mi colpì molto. Un colpo al cuore, letteralmente. 
Biondo, con gli occhi chiari di un colore che comprendeva tutte le sfumature dell'azzurro e del verde. L'espressione era seria, concentrata ma sicura, le labbra serrate senza alcun accenno di sorriso. In quel momento aveva evidentemente rivolto la sua attenzione a qualcosa che si trovava alle spalle del fotografo e non al fotografo stesso, a differenza di tutte le altre persone nelle foto che mi erano state mostrate. C'era qualcosa di tristemente familiare in quegli occhi, pensai, mentre ripetevo a Sam che no, non avevo mai visto quell'uomo in vita mia. Qualcosa come quando ci si sente tristi senza un motivo, e ci si ritrova a cercare di ricordarne la causa senza riuscirci. Realizzai che stavo letteralmente fantasticando su una persona che non avevo mai visto se non in foto e che non conoscevo. La regina dei viaggi mentali, davvero.
Sam attirò di nuovo la mia attenzione con un'altra foto. Questa volta c'erano un ragazzo e una ragazza. Lei era molto bella, bionda, occhi chiari e labbra carnose, con il volto incorniciato da morbide onde di capelli. Lui era leggermente più vicino alla fotocamera rispetto a lei. Aveva capelli scuri e corti, occhi piccoli ma vivaci e labbra sottili e leggermente increspate in un accenno di sorriso; elegantissimo in giacca e cravatta e con un'aria distinta e tranquilla. Non risposi subito quando Sam mi chiese se li conoscevo. Il mio sguardo si spostò dalla ragazza al ragazzo biondo della foto precedente, e poi di nuovo alla ragazza e al ragazzo moro che le sorrideva accanto.
"Chi sono?" chiesi, senza distogliere lo sguardo.
"Non rispondere alle domande con altre domande" intervenne Dean, dolce come al solito.
"Sono tre fratelli" mi rispose Sam, senza tener conto dell'intervento del fratello. "Rebekah, Elijah e lui è Niklaus"
"Perché Niklaus è in una foto separata?"
"Diciamo che hanno una storia familiare abbastanza particolare", mi spiegò Sam, paziente.
"E secondo voi io ho oppure ho avuto a che fare con loro?". Assurdo.
"Non lo sappiamo, è proprio per questo che stiamo andando a Mystic Falls"
Mi sembrava ovvio che Sam e Dean sapessero molto di più di quello che volevano dirmi. Non sapevo se stavano dando per scontato alcune cose o semplicemente mi ritenevano troppo.. stupida? piccola? per saperle. Decisi di lasciar perdere e provare a dormire un po' prima di arrivare a destinazione, ma ovviamente Dean non me lo permise.
"Abbiamo bisogno di un'altra cosa da te" disse, tirando fuori da una tasca della giacca un foglio giallo e stropicciato. "dai un'occhiata a questa lista di cognomi. Cercane uno o più di uno che appartenga a qualche membro della tua famiglia". Prima di avere il tempo di protestare, mi ritrovai con il foglio in mano. La lista sembrava infinita e comprendeva cognomi mai sentiti e che mi sembravano del tutto esotici, tra cui riconobbbi Salvatore e Mikaelson, che erano stati appuntati a penna sul retro delle foto che avevo appena visto.
"Allora?" Dean interruppe poco dopo i miei pensieri "cosa ci dici?"
"Vi dico che è una perdita di tempo" tagliai  corto, restituendo il foglietto "temo di non potervi essere di alcun aiuto questa volta. Sono cresciuta con una famiglia adottiva, e tutto quello che so sulla mia famiglia biologica è che aveva origini italiane."
"Bingo" Sam e Dean si scambiarono uno sguardo d'intesa, lasciandomi ancora una volta all'oscuro di quello che stava succedendo.

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Capitolo 7
*** Welcome? ***


Mystic Falls, Virginia; 11:29 A.M.
Il cartello "welcome to MYSTIC FALLS VIRGINIA" sembrava l'unica cosa ospitale della cittadina. Mentre percorrevamo una stradina laterale deserta per entrare nel centro abitato senza dare troppo nell'occhio, non riuscivo a scrollarmi di dosso una crescente sensazione di inadeguatezza: non appartenevo a quel posto, me lo sentivo, e non vedevo l'ora di tornarmene a casa. 
Dean lasciò la macchina poco distante da quello che sembrava il centro della città, in un posto che probabilmente non era nemmeno adibito al parcheggio di veicoli. Mentre passavamo accanto ad un piccolo locale, azzardai la richiesta di una breve sosta per mettere qualcosa nello stomaco, che fu immediatamente rifiutata da Dean. 
"Prima la biblioteca, poi il Mystic Grill" disse, agitando la mano con espressione contrariata, come se il cibo fosse qualcosa di superfluo. Ah, la ragazza affamata che intralcia le ricerche. Avrebbero potuto lasciarmi al motel a dormire, pensai.
"Io ho un'idea migliore" intervenne Sam, come se mi avesse letto nel pensiero. Dean non si fermò per ascoltarlo. "MAGARI" riprese lui a voce più alta per attirare l'attenzione del fratello, che si bloccò all'istante e si girò per guardarlo in faccia "potresti andare a mangiare qualcosa da sola e raggiungerci in biblioteca più tardi. Ci troverai dietro altissime pile di libri polverosi nella sezione della storia della città"
Guardai prima Sam, che sorrideva, e poi Dean, che non sorrideva affatto. L'idea di restare da sola in quel posto non mi entusiasmava troppo, ma ancora una volta la fame ebbe la meglio su tutto il resto.
"D'accordo" risposi
"Fai attenzione" sbottò Dean. Anche uno gesto di sincera preoccupazione se da parte sua finiva in qualche modo per sembrare più una minaccia che un consiglio. "e prendi questi" concluse, per poi girarsi e ripartire, trascinandosi dietro il fratello.
"Ok i soldi, ma cosa dovrei farmene di una carta d'identità falsa, Dean?" chiesi stupita, rigirandomi tra le mani il documento falso fatto a regola d'arte.
"Dobbiamo insegnarti proprio tutto?" sospirò lui, senza voltarsi, più rivolto a sè stesso che a me.
Entrai nel locale immaginandomi con un panino gigante tra le mani, e mi guardai attorno. Non era molto grande ma ben tenuto. Gli interni erano esattamente nello stile particolare che caratterizzava tutta la cittadina pittoresca di Mystic Falls, donandole in un certo senso un'aura un po' cupa. Occupai uno dei pochi tavolini di forma circolare che non era ancora stato preso d'assalto da quelli che mi sembrarono studenti, che sciamavano senza sosta dal bancone ai tavoli da biliardo, facendo scorta di bicchieri pieni fino all'orlo di drink colorati e patatine. 
Venne a prendere l'ordinazione un ragazzo biondo con un cartellino appuntato sul petto che recava il nome "Matt D.", e che sorrise affabile della mia espressione smarrita alla vista del lungo elenco di panini e piatti caldi. Optai per qualcosa di tutt'altro che dietetico e ripresi a guardarmi intorno.
Poco distante da me era seduta una ragazza mulatta dai lunghi capelli corvini, braccia incrociate e gambe a penzoloni, in compagnia di un ragazzo più o meno della sua età. Lui le stava parlando, e a giudicare dall'enfasi con cui muoveva le mani stava raccontando qualcosa che riteneva avvincente. Ma la ragazza sembrava distratta, e notai che continuava a lanciare occhiate furtive nella mia direzione. Starà cercando qualcuno, pensai. Mi voltai, ma dietro di me c'era solo un muro di mattonelle rosse.
Inarcai un sopracciglio nella sua direzione, sperando che lo notasse, e infatti lei distolse lo sguardo immediatamente.
Pochi istanti dopo arrivò il mio ordine, ma ero ancora troppo concentrata sulla ragazza per accorgermi che a portarmelo non era stato il ragazzo biondo, bensì un altro che, con mia grande sorpresa, riconobbi dalle foto che mi erano state mostrate da Sam meno di un'ora prima, e che mi stava facendo segno di stare zitta mentre prendeva posto sulla sedia di fronte a me.

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Capitolo 8
*** Compelled ***


Mystic Falls, Virginia; 12:10 A.M.
Lo fissai sbalordita e lui mi fissò a sua volta, i grandi occhi chiari fissi nei miei. Bah, paese che vai, matto che trovi.
Si rigirò nervosamente il grottesco anello blu e bianco che portava al medio della mano destra, osservando senza muovere la testa il viavai di persone che passavano accanto al tavolo e passandosi distrattamente di tanto in tanto le dita tra i capelli biondo scuro. Dopo quello che mi sembrò un tempo infinito, prese fiato e avvicinò le labbra al mio orecchio, sporgendosi sul tavolo di legno. 
"Non c'è niente per te qui" disse con voce roca, sussurrando in modo che solo io potessi sentirlo ma scandendo le parole, e si ritrasse con calma ma senza serrare del tutto le labbra, come se avesse altre parole per me impigliate sulla punta della lingua. Lo guardai sbalordita ancora una volta. Subito l'iniziale attrazione per quella voce così calda e rassicurante si trasformò in irritazione.
"Oh io credo di sì invece, e si trova proprio qui, nel piatto davanti a me. Quindi se vuoi scusarmi.." feci per afferrare il panino e lasciare il tavolo, infastidita da quell'ospite indesiderato, ma lui mi prese il polso e lo strinse come una morsa d'acciaio. Restai immobile, concentrata sia per mantenere salda la presa sul panino e il piatto che per non farmi vedere spaventata, ma mi aveva effettivamente colta di sorpresa.
"Stai seduta" sussurrò calmo fissando il tavolo, ma senza mollare la presa. Per un attimo contemplai la possibilità di urlare, ma qualcosa nella sua determinazione mi suggerì che non sarebbe stata una buona idea. Tornai a sedermi fingendo indifferenza, e lui allentò la presa.
"Bene", sospirò "come ti ho appena detto, non c'è niente per te a Mystic Falls, né da nessun'altra parte. Smetti di cercarlo prima che lui inizi a cercare te"
Va bene, quello era il colmo. Ero stufa di sentir parlare di cose che non capivo, ero stufa di sentirmi dire quello che dovevo e non dovevo fare. Stavo per scaricare tutta la rabbia sul misterioso individuo seduto di fronte a me, quando lui parve leggere la mia espressione.
"Non sei venuta da sola". Non era una domanda. Ora la sua espressione sicura aveva ceduto il posto a una mal celata preoccupazione.
"No. Cioè senti, credo che tu mi abbia veramente scambiato per qualcun'altro perché giuro che non so di cosa stai parlando e non so chi sei ed è la prima volta in tutta la mia vita che vengo in questo posto". E sarà sicuramente l'ultima, aggiunsi tra me e me. 
Non so cosa mi aspettassi esattamente come risposta. Una spiegazione, magari? Delle scuse? Beh, non ricevetti nessuna delle due cose.
"Vieni" mi disse all'improvviso, cambiando tono e mollando completamente la presa sul mio braccio per poi alzarsi dalla sedia con un unico movimento fluido.
"Ma scusa ti stai ascoltando? Per quale motivo dovrei seguirti?". La situazione stava diventando così assurda da risultare quasi divertente.
Mi fissò intensamente negli occhi per qualche istante. "Perché ho le risposte alle domande che ti sei posta negli ultimi anni, quindi seguimi". Prima di lasciare il locale si voltò verso la ragazza mulatta e il suo amico e sussurrò loro qualcosa. Non ero mai stata brava a leggere il labiale, ma riuscii a capire le prime e le ultime parole: Bonnie, Jeremy e Damon, e poi qualcosa come "avvisare", o forse "avvistare".
Non capivo cosa stavo facendo né perché lo stavo facendo. Era come se una parte di me avesse sviluppato un'improvvisa autonomia  dal resto del mio corpo e avesse deciso di seguire il ragazzo. Non sentivo più la fame, non ero più spaventata né diffidente. Lo seguii e basta. Mi fece salire in macchina e guidò senza dire una parola per non saprei dire quanto tempo, fuori dalla cittadina e poi attraverso un vialetto alberato verso una casa giagantesca, marrone fuori e con il tetto spiovente. Abbandonò la macchina davanti all'imponente abitazione e mi fece cenno di seguirlo all'interno. 
Ebbi appena il tempo di leggere la targhetta di ottone sul muro accanto al portone d'ingresso, che aveva inciso in corsivo "Salvatore", prima di entrare e sentir chiudere la porta alle mie spalle.

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