Amnèsia

di BananaBerry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Terapia d'urto ***
Capitolo 2: *** Buio nella stanza ***



Capitolo 1
*** Terapia d'urto ***


1

 

 

  1. Terapia d’urto

 

 

 

Nota: premetto che è la prima volta che scrivo su un film. Ed è passato un bel po’ di tempo da

quando mi sono cimentata l’ultima volta in una fan fic, specie con protagonisti che mi stanno così

tanto a cuore come Harley e Mr. J. Premetto anche che la storia – forse non nella sua completezza,

ma in gran parte – mi è arrivata dritta dritta mentre sognavo, dopo aver letto l’ultimo capitolo della

splendida Amour Fou, trovata come una manna dal cielo proprio su questo sito. Potrà capitare perciò,

che si verifichino delle incongruenze tra la mia versione e tutte quelle già descritte dai vari Nolan,

Burton o mondo cartaceo. Spero comunque che vi interessi e che vi piaccia, ma soprattutto spero in

qualche commento costruttivo, in modo da ampliare le mie vedute xD

 

 

 

 

Please save me, this time I cannot run
And I'll see, you when this is done
And now I, have come to realize
That you are, the one who's left behind

 

[ Not Now – Blink 182 ]

 

 

 

Le è sempre andato a genio guardare la televisione, nei momenti morti in cui non c’è proprio niente di meglio da fare.

Si tratta decisamente di uno di quelli, altrimenti non avrebbe preso questa postura scomposta, perfettamente adatta a chi ha già deciso

di rimanere delle ore su un divano. Per niente comodo, verrebbe da aggiungere, ma non è decisamente nella posizione gerarchica per

chiederne uno nuovo di suo gradimento. Guarda, senza vedere realmente. Ha occhi chiarissimi, Harleen, di un azzurro così cristallino che

a ben osservare potresti vederci riflesso ogni suo pensiero; e, sotto quello, l’amore inconsulto che tutte le donne vorrebbero provare,

sane o meno di mente. Pensa ad altro, mentre le immagini scorrono e una lieve musichetta da pubblicità fuoriesce dal tubo catodico,

costringendola involontariamente a muovere la punta di un piede abbandonato. Su, giù, poi di nuovo al centro, ripetendo il tutto da capo

 

Dovresti indossare il tuo costume, rientrare nei panni che ti appartengono e andare da lui. Chiedergli se ha bisogno di te. Fare qualcosa.

 

Nel momento stesso in cui la vocina le parla, sussurrandole all’orecchio, Harley scuote la testa. No, non gli farebbe piacere. Odia quando

si intromette nella sua vita quotidiana, senza essere esplicitamente richiesta. Quando avrà terminato il suo nuovo piano, si affaccerà alla

porta e la chiamerà. Semplice, chiaro e conciso. Si da una spinta, un colpo di reni che le risulta necessario, per girarsi su un fianco, un filo

sporgente dalla maglietta di cotone bianca che indossa rimane impigliato in chissà cosa, ma sembra non farci caso. Vuole solo continuare

a muovere i piedi a suon di musica, fingendo di interessarsi agli stupidi programmi mandati in onda dalla rete televisiva di Gotham.

Si rende conto solo in questo momento, che il numero di un comico, sul palco, è appena finito. Dev’essere stato decisamente penoso,

perché sui volti del pubblico – un gruppo di stolti con le facce di pietra che non riderebbero nemmeno davanti ad una battuta ben detta – non

hanno fatto una piega. Forse qualcuno ha fischiato, adesso come adesso non lo saprebbe dire. La canzone che faceva da sottofondo al

numero dell’improvvisato cabarettista si conclude, lasciando spazio ad uno scrosciante applauso per il conduttore del programma, tornato sul

palco, con il suo vestito di lustrini e un cappello che lo fa assomigliare terribilmente ad una bambola per la pentolaccia.

 

 Ah, se solo fosse stata tra il pubblico… prendi il bastone, lascia perdere la mira, cala forte.

 

Mr J avrebbe approvato, poco ma sicuro. Le viene

improvvisamente da sbadigliare, un’apertura di fauci che meccanicamente va a nascondere con il palmo della mano, sebbene non ci sia

nessuno, ad osservarla. Chiude gli occhi quel tanto che le basta per stiracchiare i muscoli del viso, ovale perfetto nonostante un segno ormai

giallastro sullo zigomo destro, dove si è presa l’ultimo schiaffone. Ricompensa per avergli rovesciato addosso quasi un’intera bottiglia di

acqua, il tutto mentre lei inciampava in un sacco nel pavimento e volava in avanti, senza che lui facesse il minimo accenno di acchiapparla.

Così, oltre ad essersi scorticata il palmo della mano – non usa i cerotti solo come vezzo fanciullesco, diciamo – se le è anche buscate. A

ragion veduta. Se non sa stare in piedi, la colpa è solo sua, non certo del suo ‘puddin. Ma non ci pensa ora, a quel livido. Perché nel momento

che riapre gli occhi, questione di un secondo, sullo schermo è tornata la pubblicità. Ma stavolta vede, oltre che guardare. E’ uno strano

messaggio promozionale, quello… sfondo verde scuro, una scrivania e un uomo seduto dietro di essa. Niente effetti speciali, niente musica,

niente personaggi animati che si tuffano in una vaschetta piena d’acqua e detersivo, per testare il nuovo ammorbidente al profumo di lavanda.

 

« La mancanza di autostima, è solo una questione di rapporto. Come ci rapportiamo con quello che ci circonda. Non riuscire a reagire quando il

capo in ufficio ci addossa colpe che non abbiamo. Quando chiunque può raggirarci, facendoci fare esattamente quello che vuole… » e quella che

una volta fu la Dottoressa Quinzel, lo ascolta. Assimila ogni parola che fuoriesce dalla bocca di quell’uomo, senza sapere nemmeno lei bene

il motivo. Forse perché si riconosce nell’argomento trattato, soprattutto quando parla di « Quando quello che crediamo l’amore della nostra vita

ci denigra, si approfitta del nostro affetto per rigirarci come un guanto.. », o forse sono i suoi occhi. Lenti a contatto, quasi certamente: due

ametiste, limpidi e profondi, assolutamente estranei a qualunque altro tipo di sguardo le fosse mai capitato prima davanti. Nemmeno gli occhi

di Mr J brillavano in quel modo.

Nemmeno i suoi. E la sua voce, espansa da quella gracchiante scatola elettrica, risultava comunque dolce e rassicurante, come miele che

fluisce lentamente nelle orecchie e al quale non si può fare altro che cedere. Si mette a sedere, Harley, portando le lunghe gambe oltre la pila

di cuscini abbandonati sul pavimento, punta dei piedi nudi che sfiorano le assi in legno, senza la minima paura di scheggiarsi, nonostante

l’eventualità più che reale. « Falcon Street al 18… ma certo..che originalità » mormora, cercando di memorizzare l’indirizzo dell’uomo, apparso

in sovrimpressione.

Incredibile come riesca a prendere una decisione senza nemmeno pensarci, se è dell’umore giusto. Si alza, quando la pubblicità termina e

quell’idiota vestito di lustrini torna sul palco, acclamato dai suoi spettatori come un dio sceso in terra. Le basta premere un bottone, per farlo

sparire, risucchiato in un vortice nero.

 

Meglio così, decisamente… facevi tristezza, per niente ridere.

 

 

 

Sono almeno due ore, che non la sente. Che lo stia semplicemente ignorando? Non lo crede veramente possibile… quella ragazza non può

più fare a meno di lui e lo sa. Lo sanno entrambi, per questo è così divertente. Quando non si mette in testa di rompergli le uova nel paniere,

ovviamente. Osserva gongolando il suo nuovo capolavoro, più un insieme di ghirigori e scritte minuscole, che un vero e proprio tema, ma

è abbastanza. In fondo non serve di più, per organizzare quello che ha in mente. Una sorpresina al caro, tenerissimo commissario Gordon.

« O-oh mio caro, mio caaarissimo Jimmy… vedrai come ci divertiremo, oh sì, ci divertiremo io e te! »

Si lascia andare ad una risata cristallina e gioiosa, quella di un bambino alla prospettiva di ricevere un gran bel regalo, per Natale. Con un

chiaro sottofondo rasposo di pazzia, ovviamente, ma questo è solo un dettaglio. Si passa una mano fra i capelli, che si sono allungati ancora,

da quando Harley gli ha dato quell’ultima spuntatina, approfittandone un po’ troppo. E’ una cosa che fa sempre, il suo Zucchino, stargli troppo

appiccicata quando non dovrebbe. Fa ridere un sacco.

Come l’espressione da cane bastonato che si incolla sul viso quando vuole mettergli il muso. E che svanisce, non appena si rende conto che

con lui non attacca, che le servirà solo a prendere un altro schiaffo. Oh, chissà, se è fortunata anche un bacio, prima. Sta ancora ridendo, ma si

dondola un po’ meno, sulla sedia. Questo, finchè quel rumore proveniente dalla sua bocca non scema del tutto, facendo calare il silenzio.

Corruga la fronte, che è liscia e rosea, senza ombra di trucco…

solo la chioma mantiene ancora quel verde sporco con il quale si è tinto una settimana prima. Finchè è da solo con lei, può permettersi di

mostrarle le sue cicatrici in tutta la loro bellezza. Non ha bisogno di cerone, per nasconderle qualcosa. E’ troppo accecata dall’amore, per vedere

qualcosa oltre.

Oltre al mostro, si intende.

Corruga la fronte perché Harley non è arrivata. Il pasticcino – nomignolo che odia quando è lui ad usarlo, ma che gode infinitamente ad

appiopparle - non si è lanciata dalla stanza accanto, sentendolo ridere. Di solito è questa la prassi e lei non la sta minimamente rispettando.

Attende, uno, due, tre secondi, prima che la gioia folle di poco prima di trasformi radicalmente in un singulto di collera.

« HAAAARLEYY! »

Ma l’Arlecchino è già uscito da un pezzo, bello.

 

 

 

Non lo ammetterebbe mai, nemmeno se le accendessero un fuoco sotto i piedi, ma quegli occhi dai riflessi violacei le stanno facendo

perdere la testa. O forse è solo la momentanea scarica di adrenalina, sparatale in corpo da ghiandole impazzite nell’istante stesso in cui si è

resa conto che stava lasciando Mr J senza nemmeno avvertirlo, a darle quel leggero mal di capo. Harley siede composta, su una piccola sedia

di legno, c’è un cuscino con stampe a fiori, sotto di lei. Ideale solo se hai deciso di starci seduto non più di mezz’ora, altrimenti il fondoschiena

comincia a protestare, come è giusto che sia.

« E così, signorina Powell, ha visto il mio annuncio in tv… » l’uomo, che le siede di fronte su una sedia altrettanto scomoda, tiene le gambe

accavallate, con naturalezza e la osserva, tra una parola e l’altra. Sorride appena, ma dalla sua voce trasuda una particolare qualità che ultimamente

le è poco familiare: serenità. Sembra assolutamente in pace con stesso, niente conflitti interiori. E questo la fa rilassare enormemente, al

punto da alzare le mani per andare a togliersi gli occhiali. Gli rivela il suo sguardo cristallino, ma lui non fa una piega; riprende la frase da dove

l’aveva lasciata, intrecciando le dita tra loro, appoggiando entrambe le mani sulle ginocchia « devo avvertirla subito che riconquistare la fiducia in

stessi non è una passeggiata… bisogna avere buone motivazioni, una volontà di ferro e nessuna intenzione di lasciarsi scoraggiare dagli imprevisti..  »

Certo. Ovvio. Tutte cosucce che Harley si era già aspettata. E’ pur sempre laureata in medicina e la sua specializzazione in psicologia e psichiatria

le da un discreto vantaggio su tutte le altre donne che si sentono minacciate dalla mancata dimostrazione d’affetto del proprio compagno. E poi

c’e da considerare che nessun altra aveva Mr J. Non si potevano fare paragoni, di qualunque genere. Annuisce, distendendo le labbra chiare in un

sorriso. Non sa nemmeno bene lei il perché, ma quell’uomo, i suoi occhi di ametista, i suoi capelli biondi e i lineamenti delicati, la costringono ad

esporgli il suo lato migliore.

Ha dovuto chiaramente inventarsi un nome falso, Katherina Powell, eppure da come lui la guarda e dal suo tono di voce accondiscendente,

sembrerebbe aver già mangiato la foglia. Non si preoccupa però, la dottoressa. Quante volte gli sarà capitato di avere clienti che non vogliono

rivelare il loro nome per paura di ritorsioni da parte del marito? O del capo? Tante. Troppe. Ecco sicuramente spiegato il motivo per cui non fa domande.

Per cui non batte ciglio.

 

E tu potresti anche piantarla di sorridere come un’oca giuliva, tesorino. Via Mr. J, adesso non ho voglia di ascoltarti.

 

Scuote la testa, piano, per scacciare quella vocina che bene o male la tormenta sempre, quando non è lui di persona a bisbigliarle nelle orecchie

o più semplicemente a gridarle quello che deve fare. Passa una mano leggera sulla fronte, scostando una ciocca di capelli chiari sfuggita alla

crocchia scomposta con cui se li è frettolosamente raccolti uscendo dal covo, risalendo alla vita di una qualunque persona normale. « non sono

una che si lascia scoraggiare dagli imprevisti, signor Krust, cerco solo delle risposte che sicuramente sono già dentro di me » Usa una voce sicura,

misurata. E’ come se all’interno della stanza, dalle parete color panna ai dipinti di Manèt, tutto contribuisse a darle una forza emotiva maggiore.

Annebbiandole allo stesso tempo la mente, come durante l’assunzione di una droga leggera. Bah, sarà solo la sua immaginazione. A quella risposta

decisa, Victor Krust amplia il suo sorriso, annuendo compiaciuto, distendendo finalmente le gambe e andando a posare una mano pallida sulla sua

« Sono sicuro che le tireremo fuori…  » un’altra pausa,

corruga la fronte, come se si stesse preparando ad una mossa azzardata « … Katherina.. posso chiamarla Katherina, sì? » ha l’aria di uno che chiede

sapendo già la risposta. Un atteggiamento simile normalmente la farebbe irritare a morte – le persone che danno tutto per scontato sono solo poveri

e tristi ometti e donnine senza futuro – ma in questo momento no. In questo momento si limita ad annuire, sorridendo come una scolaretta appena

invitata al ballo scolastico dal mediano di spinta della squadra di rugby della scuola. « Solo se io posso chiamarti Victor.. »

 

Non pensa a Mr. J nemmeno per un istante, durante tutto il tempo della prima seduta. Se si vedesse da fuori, se potesse rendersene conto,

rimarrebbe traumatizzata da quella eventualità: rimanere senza di lui più di una ventina di minuti, di sua spontanea volontà. Proprio lei che, quando

Joker se ne stava rinchiuso dietro una lastra di vetro antiproiettile ad Arkham, si sentiva male ogni volta che doveva rinunciare a lui per tornare a casa

propria, pur sapendo che lo avrebbe rivisto l’indomani. E l’indomani ancora. E quello dopo. Victor le fa qualche domanda che sembra di routine, prende

appunti per un’ora su una cartelletta di cartone blu, sulla quale è incollata un’etichetta bianca che adesso riporta quel nome fittizio che si è inventata,

strada facendo. La fa accomodare su una poltrona, decisamente più comoda della seggiola di legno, dove si sente sprofondare. Harleen sprofonda,

mentre continua a parlare, raccontandogli i suoi desideri e i suoi sogni. Si sente come se mani invisibili le massaggiassero la nuca, cullandola quasi.

Nessuna ninnananna sussurrata all’orecchio, ma l’effetto è praticamente quello. Si tratta senz’altro della sua voce, ormai non ha più alcun dubbio.

Quel misto di miele e calore, assolutamente avvolgente.

E’ Victor Krust a strapparla dalla ragnatela galleggiante dentro la quale si sta invischiando, quasi addormentandosi « Direi che per oggi può bastare,

Katherina. Se ritorni domani alla stessa ora farò in modo di farti trovare pronto un programma dettagliato per le prossime sedute, d’accordo? » D’accordo.

Glielo dice, confermando il proprio pensiero, scendendo dalla poltrona con un movimento leggero e veloce, da ginnasta. Movimento che agli occhi

color ametista di lui non sfugge, ma non ne fa parola. Meglio così, avrebbe dovuto spiegargli che fa molta ginnastica e che da ragazzina ha vinto una

discreta quantità di premi.

Ahaha. Divertente, come storiella per salutarsi.

 

Basta che Harley metta un piede fuori dalla porta e la realtà le ripiomba addosso come un falco in agguato cala sulla presa. La afferra con gli artigli,

provocandole un brivido che le accappona la pelle, nonostante la felpa e il giubbino che ha indossato sopra la stessa. « Arrivo Puddin’, arrivo.. »

sorride, mentre lo dice, a sé stessa più che al suo compagno, lontano almeno dieci isolati. Sicuramente si è accorto che lei è sgusciata via e,

altrettanto sicuramente, avrà qualcosa da ridire in proposito. Scende dal marciapiede, inforcando gli occhiali scuri, ritornando ad essere, per quell’attimo,

una giovane donna qualunque.

Victor la osserva, avvicinandosi alla porta, richiudendola dopo il suo passaggio. C’è un piccolo cartello, con la scritta Open, appeso davanti al vetro

che da sull’esterno. Lo gira, con un movimento fluido del polso, sistemandolo sull’avviso di chiusura. Continua a sorridere, mentre Harley si volatilizza,

sparendo dalla sua vista, dai suoi occhi screziati di viola

 

« Harleen, Harleen… non temere, è solo l’inizio di una nuova vita, per te..per noi.. »

 

 

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Capitolo 2
*** Buio nella stanza ***


2

2.        Buio nella stanza

 

 

 

 

Nota: ho ereditato la spigolosa passione dei salti temporali da Stephen King.

Lui li usa spesso, talvolta anche partendo da un anno e tornando indietro di trenta; io non

ho intenzione di essere così azzardata, però spesso capiterà, nella storia, che salti

qualche passaggio. Ci saranno degli indizi – come per esempio quello che succede tra

Harley e Mr. J quando lei torna al loro ‘nido d’amore’ – ma solo vaghi. Sono momenti sui

quali non mi piace soffermarmi e comunque non danno un peso alla storia. Ho talmente

tante cose in testa, riguardanti questa fan fic, che se dovessi stare a descrivere ogni momento,

ogni parola che quei due piccioncini si dicono – anche gli altri personaggi non faranno

eccezione – penso che non avrei altro tempo per me se non quello per dormire.

Detto questo, se vorrete delle delucidazioni sui momenti, diciamo, morti, che non descriverò

appieno, potete sempre chiedere… magari mi inventerò qualcosa al momento :P

 

 

 

 

Rime nere –insincere-

aprirono le porte ai condannati

alle fuggenti a frotte. La terapia

fu d’urto, la pagina si svuotò

e si svuotò del nero anche la stanza.

 

[Amnesia del movimento delle nuvole – Maria Attanasio ]

 

 

 

 

Questa volta c’è andata molto vicina. Molto. Si è resa conto del suo stato d’animo solo una volta rientrata dalla porta principale, dopo aver percorso una rampa di scale che improvvisamente le era sembrata infinita. Ogni gradino ha cominciato a pesarle e l’intontimento, la sensazione di quieto benessere che l’incontro con Victor le aveva regalato fino a poco prima, è svanita del tutto. Avrebbe dovuto pensarci prima, alla sua reazione ma, come già detto, Lui le era completamente scivolato via dalla mente: cosa che adesso reputa assolutamente impossibile ripetere.

 

Come hai fatto ad essere tanto stupida, Harley Quinn?

 

Si può, cara vocina. Quando si prova un sentimento tanto grande e tanto ossessivo, si può tutto. Anche perdere la trebisonda, per un paio d’ore. « Non trovi che sia.. cioè, è stupendo, vero Harley? » E’ un mostro, quello che le parla dall’altro lato della scrivania di plastica bianca. Assomiglia a quella che si usa nelle classi del liceo, ma ha un non so che di ospedaliero. Di malato. Anche l’odore, emanato dal rivestimento, ricorda un tipo comune di disinfettante. Ma il biondo arlecchino annuisce, allunga il collo per osservare il piano ideato dal suo pasticcino, quell’insieme di ghirigori per cui lei avrebbe dovuto complimentarsi già quattro ore prima « E’ perfetto, Puddin’! Il commissario ci cascherà come un allocco! » scoppia a ridere, improvvisamente, mentre lo dice. Lui la osserva soddisfatto, finalmente ha quello che vuole. La sua accondiscendenza, la sua approvazione.

Chiaramente non andrà mai a dirglielo in faccia – come non si sogna di rivelarle i suoi sentimenti per lei, se non mostrandole ogni tanto un gesto di affezionata ossessività – altrimenti sarebbe finito. Fatto e finito, come tutti gli altri. Uguale alle stesse persone che vorrebbe tanto eliminare dalla faccia della terra. « Lo farà. Lo farà, s-sicuramente! » Mr. J fa una piccola pausa, breve abbastanza da non darle tempo di parlare, ma abbastanza lunga da lasciargli sfoderare un sorriso a cinquemila denti – non esattamente simpatico o piacevole da guardare, forse perché ampliato all’impossibile dalle cicatrici, profonde e rosee. Niente a che vedere con quella minuscola che si è procurata lei sul gomito cadendo insieme ad un bicchiere di vetro, quando aveva cinque anni. Quella è bianchiccia e quasi non si vede. Tutta un’altra storia -.

 

« Lo vedo che ti fa male Harley… lo vedo eccome, perché fingi con me? » e Harley smette improvvisamente di ridere, come se lui le avesse tirato un altro pugno. Solleva la mano sinistra, andando a sfiorarsi il labbro inferiore con le dita. E’ rotto, in un solo punto calcolato, quello dove la nocca sinistra del suo Mr. J l’ha colpita. Nemmeno tanto forte a dire la verità, ma l’ha decisamente presa alla sprovvista. Ma non se l’è affatto presa, come succede sempre. E’ una psicologa, dopotutto, e sa benissimo che lui non ha altro modo di sfogare le sue emozioni, se non nell’unico che conosce, la violenza. Certo, ci sono momenti – rari e ineguagliabili – in cui si comporta con lei in modo quasi tenero. Quando le concede un contatto fisico, ad esempio, quando le accarezza una guancia come sta facendo in questo momento. Si è sporto verso di lei, sfiorandole il viso con le dita e le tira i capelli biondi con l’altra mano. Li ha liberati dalla crocchia e ora le stanno morbidi sulle spalle, troppo belli perché si decida a tagliarli, sebbene comincino a darle fastidio, sotto il costume. « Non fingo mai con te, J… » non può dirgli altro che la verità, anche quando fa male. Non adesso. Si è già donata a lui anima e corpo, in ogni modo possibile, non sente più il bisogno impellente di mantenere alto l’orgoglio: ma non è forse per questo che si è rivolta a Victor, una volta vista la pubblicità?

Ci pensa bene, per un istante, senza trovare una vera ragione; perché è andata da quell’uomo? Adesso come adesso non se lo ricorda nemmeno. Ha in mente solo la sua voce, che dopo un attimo svanisce. Perché il suo unico vero amore è lì davanti a lei, giusto? Piega la schiena in avanti, imitando il suo movimento, avvicinandosi al suo viso deturpato eppure incredibilmente bello. Dev’essere stato un ragazzo inseguito da molte, prima di diventare quello che è ora.

 

Meglio così Zucchino, è tutto per te. Ah! Brivido…

 

Non mi risponde: sa benissimo che è così. Sa benissimo che non fingerebbe, nemmeno se fosse obbligata.. o no? Si limita a guardarla mentre si avvicina, rimanendo in bilico, sospeso sopra la scrivania, bordo che gli preme contro lo stomaco, ma va bene così. Non allunga una mano per piazzargliela sul mento e respingerla all’indietro, per oggi la sua lezione è durata abbastanza. Può permetterle di dargli un bacio, se è questo che vuole fare. Uno, piccolo, e che non si azzardi nemmeno ad andare oltre.

Ma sei un uomo J, un.. un uomo. Lo dici sempre. Un uomo.

 Lo pensa e lo sa. Certo che è un uomo… ma questo non lo rende uguale agli altri.

 

 

 

 

 

Guarda sempre da quella finestra. Non deve nemmeno allungare il collo per avere Gotham riflessa negli occhi, mentre il sole va giù e il cielo si fa nero. Strano, nei suoi ricordi d’infanzia il momento del tramonto è sempre stato il suo preferito: rosa, rosso, arancione e blu che si mescolano insieme, mentre il disco dorato svanisce e al suo posto arriva la luna. Arrivano le stelle.

« Scommetto che sta pensando alle stelle, signore… » Alfred gli porge un bicchiere d’acqua, che Bruce gli ha chiesto soltanto cinque secondi prima. Non dubita mai della sua efficienza, ma di sicuro ogni tanto qualche dubbio sulle doti straordinarie del suo fido maggiordomo – come se fosse solo quello… - gli viene. Sorride, prende il bicchiere, lo porta alle labbra.

L’acqua è fredda e ha un retrogusto dolciastro, buono. Come se Alfred fosse andato a prenderla direttamente dalla sorgente, dove è così limpida che ti sembra di avere la bocca tutta tagliata, dal gelo « Io non scommetterò mai con te Alfred… è come giocare una partita già persa in partenza..  » scherza, ovviamente, un giochetto che loro due, dopo anni di conoscenza reciproca, possono permettersi. Una delle poche cose buone da molto tempo a questa parte: Harvey Dent. Rachel. Joker. Non si è ancora ripreso da loro. La sua mente, nonostante l’anno passato, non è ancora pronta per ricominciare tutto da capo; Barman può farlo. Barman DEVE farlo. Ma lui non è obbligato.. è solo un miliardario eccentrico che ha perso la donna amata, un uomo che avrebbe avuto volentieri accanto come migliore amico, entrambi per mano di un folle. Un folle evaso ormai da sei mesi, bisognerebbe aggiungere.

« In quale veste dovrei presentarmi alla cerimonia secondo te, Alfred? » sogghigna all’idea, con le labbra umide, ma non sembra per niente divertito. Più malinconico. Andrà come Bruce Wayne, ovviamente, ma sarebbe bello potersi infilare il suo costume, indossare la maschera che i cittadini di Gotham ora temono quasi al pari dei gangster che cattura, la notte, distruggere i sogni di tutti gli invitati. Dire loro nessuno di voi soffre come soffro io. Per lei. Per lui. Voi non potete capire. Ma non lo farà e negli occhi del suo maggiordomo tutto fare legge la stessa identica affermazione, sebbene non apra bocca, prima di ritirarsi con il bicchiere vuoto.

La cerimonia per l’anniversario della morte del procuratore distrettuale Harvey Dent si terrà fra una settimana. Gordon riceverà un premio speciale alla carriera e lui verserà qualche altro milioncino per la campagna umanitaria che porta il nome di Rachel. Se tutto andrà secondo i piani, Bruce dovrà sorbirsi solo una serata di chiacchiere mondane, ma Barman quella notte stessa sarà costretto a rivivere l’intera storia da capo. Sposta nuovamente lo sguardo verso la finestra, oltre la quale Gotham sembra essere stata risucchiata da un buco nero, una coltre che nemmeno le mille luci al neon possono trafiggere. Tranne una naturalmente.

 

Jim Gordon lo sta chiamando.

 

 

 

 

 

Non crede di farcela. Questo è un uomo che ha visto ormai di tutto. Che sta mantenendo un segreto più grande di lui. Eppure ora è indeciso, a causa di una cerimonia mondana che lo spaventa più di qualunque altra cosa. Se sapesse che anche il suo unico vero alleato, il pipistrello senza nome, ha di questi problemi, probabilmente di calmerebbe. Troverebbe la forza necessaria per presentarsi a testa alta di fronte ad una folla di bigotti – pochi si salvano a Gotham City, questa è la verità – e ricordare Harvey Dent. Troverebbe la forza per ripetere quello che ha già detto un miliardo di volte, in un anno preciso: che Harvey ha salvato la città. Che non era un mostro, uno sfregiato, ma l’unica possibilità di un mondo in rovina. E loro gli avrebbero creduto, come credevano nel procuratore distrettuale.

 

Lo vorresti ancora vivo, non è così?

 

Sua moglie gliel’ha chiesto, ma Jim sapeva benissimo – e lo sa ancora adesso – che sarebbe stato meglio non risponderle, perché lei non voleva una risposta. Avrebbe detto Sì. Anche se Harvey aveva rapito lei e i suoi figli e aveva minacciato di ucciderli: Jim Gordon, Commissario, avrebbe detto sì, e sì fino alla fine dei suoi giorni. Un rumore e si volta, la sua mano va automaticamente a spegnere il riflettore. E’ l’unico modo che ha di contattarlo, anche se qualche bravo cittadino ha indetto una petizione per far distruggere quell’unico lampo di speranza. « Commissario Gordon?  » E’ la sua voce cavernosa che risveglia il nostro Jim, mentre si sistema meglio gli occhiali sul naso. Annuisce alle parole del Pipistrello, facendo un passo verso di lui. Le mani che improvvisamente finiscono nei capelli ormai grigi, la disperazione che gli colma gli occhi chiari. Tutto quello che non può mostrare ai suoi colleghi, ai suoi uomini, a sua moglie, ai suoi figli, viene fuori di fronte a quello che tutti continuano ancora oggi a definire un mostro. Incredibilmente sembra che Gotham abbia più paura di Barman che del Joker a piede libero (questa è una considerazione per cui i cittadini avranno a che pentirsi, chiaramente). Il cavaliere, quello che non sarà mai un eroe se non per pochi intimi, allunga un braccio sostenendolo. La sua presa è salda, eppure Gordon avverte chiaramente la tensione nei suoi muscoli.

Sì, il giorno si sta avvicinando anche per lui e il ricordo fa male più di qualunque altra cosa.

I ricordi sono la cosa più importante che un essere umano possieda ma talvolta possono ucciderti.

« Ci sarò… fra una settimana, all’anniversario. Da qualche parte, ma ci sarò. Le sa come trovarmi, Gordon  » Certo, Jim ne è sicuro. Barman non mancherebbe alla commemorazione di Harvey per niente al mondo, nemmeno con il rischio di essere preso. E toccherebbe al commissario stesso l’onere di catturarlo, perché così è stato deciso. Perché scappa papà? Perché lui può sopportarlo. « Festeggiare un anno dalla morte di Harvey mi sembra solo pura ipocrisia… e l’idea di dover catturare il Joker entro quella data, mi mette i brividi  » glielo dice e il Pipistrello annuisce. Mette i brividi anche a lui. E’ quasi certo che quel pagliaccio mascherato non perderà l’occasione per uno scherzetto proprio nel giorno fatidico. Ha perso la battaglia, ma è andato vicinissimo a vincere la guerra e forse adesso vorrà recuperare. Anzi, è sicuro.

 

Credevi che mi sarei giocato la battaglia per la salvezza di Gotham in una scazzottata con te?  Figlio. Di. Puttana.

 

 

 

 

Fa fatica ad addormentarsi. Il letto non è un vero letto, c’è solo il materasso, appoggiato alle assi di legno. Mr. J non è stato troppo a gingillarsi per il mobilio. Harley è da sola, come accade spesso: è difficile che lui la raggiunga prima di essere assolutamente certo che la sua bionda spalla stia dormendo. Ancora non ha capito se è perché teme in qualche modo che la situazione gli sfugga di mano o solo perché gode nel lasciarla crogiolare nel suo brodo. Probabilmente la seconda. Forse entrambe. L’autostima, Katherina, è solo una questione di quello che vogliamo fare e di quello che non vogliamo fare. Non che Possiamo o Non Possiamo, ricordatelo. Ecco, perché non dorme. E’ da almeno mezz’ora che ripensa alle parole di Victor. Chiude gli occhi, immaginandoselo, candido e distaccato, mentre le spiega cosa dovrebbe fare. Come dovrebbe imparare a concentrarsi sui suoi obbiettivi, invece che su quelli dell’uomo che ama. Ma non vanno forse nella stessa direzione, per quanto la riguarda? Non vogliono le stesse cose, lei e il suo Puddin’?

Si tira la coperta fin sopra la testa, nascondendo una massa di capelli biondi sparsa sul cuscino. Ha indosso il suo costume, invece che un normale pigiama, forse perché rimanere calata nei panni dell’Arlecchino la fa sembrare più uguale a Lui. Lo sente quasi più vicino.

 

« Basterebbe così poco, Puddin’  »

mormora, scivolando dentro qualcosa che non è esattamente sonno. Le palpebre le si fanno pesanti e la testa gira. Le stesse sensazioni provate nell’ufficio di Victor Krust, pari pari. Chiude gli occhi, nascondendo l’azzurro che riesce a rimanere cristallino anche in assenza di luci, scintillante come lo sguardo di una ragazzina appena adolescente. Non è questo, infondo, la Dottoressa? Harley cade in un sonno profondo, colmo di sogni che sicuramente non ricorderà, una volta ripresa conoscenza, la mattina dopo: sogna cavalli con grandi ali, sogna prati verdi e sterminate distese di girasoli. Sogna capelli biondi e occhi di ametista, sogna un sorriso. Sogna una voce che la chiama per nome, sogna un bacio scambiato tra due protagonisti senza volto, come in un film di cui non è dato sapere i protagonisti.

Sogna.

Tutto questo mentre il Mostro, l’uomo che non fa piani – o almeno così afferma mentre ne sta già facendo uno -, l’agente del Caos, la guarda. Appoggiato allo stipite della porta, silenzioso come un gatto. Si sente solo il rumore provocato dalla sua bocca, quando la schiude per umettare le labbra. Sono nuovamente dipinte di rosso e i suoi occhi verde scuro – come pozzi pieni di melma paludosa (oh sì, ma così belli ) – circondati di nero. Joker guarda la sua anima gemella senza espressione sul volto, se non quel sorriso artefatto creato dalle cicatrici.

« Oh sì… oh sì Zucchino, basterebbe così poco… ma prima o poi, prima o poi capirai.. di sicuro..   »

Ridacchia, a bassa voce, anche se sa benissimo che lei non si sveglierà. Ha imparato a conoscere ogni suo respiro e quello del sonno profondo ormai è arrivato. Nemmeno se la scuotesse forte prendendola per le spalle, aprirebbe gli occhi. Fa un passo indietro, sparendo nel buio del corridoio, non prima di essersi posato le dita su quel rosso grondante, soffiandole un bacio.

 

 

 

 

 

 

JeanGenie: il grosso te l’ho detto commentando la tua splendida storia. Quello che ti dico qui, invece, è che ci speravo nel fatto che tu fossi la prima a commentarmi. Ci speravo proprio. Insomma, è come scrivere un libro in stile ‘Miglio Verde’ e vederselo commentare da Stephen King in persona (so che sembro esagerata a volte, ma ti prego: dammi corda). Quindi puoi immaginare come adesso io abbia un motivo in più per seguire i prossimi capitoli di Amour Four, attendendoli con un’ansia inaudita: 1) non sto più nella pelle. Io devo assolutamente leggere della storia d’amore tra quei due, è il mio pane quotidiano. E tu racconti i loro sentimenti in un modo straordinario, come fossero due persone reali e non semplici creazioni da fumetto (oddio ho detto semplici. No no, GENIALI creazioni da fumetto). 2) perché adesso so che quando avrai finito la tua fic, leggerai la mia. E non vedo l’ora di sentire la tua opinione su quello che scrivo. Per me è molto importante, questo confronto tra generi simili U_U

 

HarleyForever: ma ci mancherebbe che ti chiedessi di scrivere solo ‘bella, mi è piaciuta’. Adoro leggere i commenti lunghi, specie quando mi aiutano a conoscere i gusti delle persone che leggono una mia storia. Solo così posso andare avanti con la coscienza pulita, sapendo di rispettare non solo i miei desideri, per puro egoismo, ma anche quelli degli altri. Non posso certo pensare di essere l’unica fan di Joker, giusto? Né tantomeno della coppietta dolciosa che forma insieme ad Harley. E, tranquilla, essere persa di LUI non è una cosa così strana.. ho sempre pensato che noi fan ci siamo giocate così tanto la testa solo perché SAPPIAMO con certezza che Joker non esiste. Insomma, a pensarci bene, nella realtà, non so se riuscirei ad innamorarmi di un pluriomicida.. che non ha risparmiato, nella sua lunga carriera, nemmeno dei bambini-boyscout. Questo perché difficilmente nella vita di tutti i giorni vediamo mescolarsi tanto perfettamente malvagità, follia ma anche incredibile genio. E cultura. E filosofia. E fascino. Tutte cose che Mr. J ha e che possono esistere solo nel fumetto/cartone animato/film. Perciò godiamocelo, dico io, finchè la nostra fantasia ce lo permette…

 

 

 

 

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